Sentinella del nulla. Itinerari meditativi di E. M. Cioran 9788860741653


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Sentinella del nulla. Itinerari meditativi di E. M. Cioran
 9788860741653

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Zetema. Collana di ricerca filosofica 3.

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Zetema. Collana di ricerca filosofica 3. Università degli Studi di Perugia Dipartimento di Filosofia, Linguistica e Letterature SEZIONE DI FILOSOFIA Via Aquilone, 8 – 06123 Perugia.

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Aurelio Rizzacasa

Sentinella del nulla Itinerari meditativi di E.M. Cioran

Morlacchi Editore

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La presente pubblicazione è stata finanziata dall’Etruscan Local Group, con il supporto di Metanexus Institute, PA.

ISBN/EAN: 978-88-6074-165-3

© copyright by Morlacchi Editore, Perugia. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata. [email protected] | www.morlacchilibri.com Progetto grafico del volume: Raffaele Marciano. Chiuso in redazione il 30 novembre 2007. Stampato nel mese di dicembre 2007 da Digital Print-Service, Segrate.

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A mia madre

«Non ho ucciso nessuno, ho fatto di più: ho ucciso il Possibile e, proprio come Macbeth, ciò di cui ho più bisogno è pregare, ma, proprio come lui, non posso dire Amen.» (E.M. Cioran)

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Indice

Prefazione Nota bio-bibliografica

xi xiii

I. La consapevolezza autobiografica 1. L’esperienza romena e l’esilio, p. 1; 2. L’adozione della lingua francese, p. 4; 3. La filosofia tra professione ed esperienza occasionale, p. 7.

II. Il problema religioso 1. L’eredità cristiana, p. 11; 2. Al confine con l’eresia: tra paganesimo e buddismo, p. 16; 3. Con Dio e contro Dio, p. 19; 4. La creazione, il male e il peccato, p. 23.

III. Lo scetticismo 1. La filosofia e l’antifilosofia, p. 27; 2. L’oggetto del filosofare, p. 31; 3. Dall’essere al nulla, p. 34; 4. Un’alternativa alla filosofia come sistema, p. 38; 5. L’eredità filosofica, p. 41; 6. I maestri, p. 45; 7. I frammenti speculativi del Novecento, p. 51; 8. Lo scetticismo metodologico, p. 54; 9. Lo scettico, p. 57; 10. Per un nichilismo problematico, p. 61.

IV. I problemi esistenziali 1. Le forme della sofferenza, p. 69; 2. L’angoscia e la disperazione, p. 73; 3. La malattia, p. 77; 4. La noia, p. 80; 5. I corollari della noia, p. 83; 6. L’insonnia e l’illusione, p. 86; 7. Il suicidio, p. 90; 8. La morte, p. 95; 9. La finitezza umana, p. 100; 10. La nascita e il nulla, p. 105; 11. Gli esistenziali del sentimento, p. 109; 12. Dagli universali alle metafore, p. 112; 13. La solitudine e la tristezza, p. 115; 14. La melanconia e gli esistenziali del “tempo”, p. 118; 15. Gli esistenziali della decisione, p. 121; 16. Dal negativo al positivo, p. 123; 17. La speranza nella prospettiva del negativo, p. 126.

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V. Il tempo e la storia 1. La caduta nel tempo e la caduta dal tempo, p. 133; 2. Il tempo e l’eternità, p. 136; 3. La negatività della storia, p. 141; 4. La storia e l’apocalisse, p. 147; 5. La decadenza, la storia e la costrizione del tempo, p. 150; 6. La storia e l’utopia, p. 154.

VI. Il problema politico 1. Il pensiero reazionario, p. 161; 2. La tradizione e la rivoluzione, p. 166; 3. Al di là degli assolutismi politici, p. 169; 4. I vissuti dell’io, p. 171.

VII. La questione dello stile 1. Il limite del linguaggio, p. 179; 2. L’aforisma e la metafora, p. 182; 3. La composizione poetica, p. 185; 4. L’ironia, il grottesco e il paradosso, p. 188; 5. I corollari estetici, p. 192; 6. I corollari etici, p. 196; 7. La felicità negativa, p. 199; 8. Per un’antropologia filosofica, p. 202; 9. L’immagine dell’uomo, p. 207; 10. Il negativo nell’uomo, p. 211.

VIII. I problemi aperti 1. Oltre la tradizione, p. 215; 2. Tra filosofia e letteratura per una negatività problematica, p. 220; 3. Gli esistenziali della negatività, p. 226; 4. Uno slancio nell’impossibile, p. 231; 5. A confronto con la religione, p. 236; 6. Gli idoli del mondo religioso, p. 241; 7. I sentieri interrotti della soggettività, p. 247; 8. Tra la tradizione e le filosofie del Novecento, p. 249; 9. Per un post-moderno problematico, p. 253.

IX. Temi, problemi e prospettive: excursus sulle opere 1. Nota metodologica, p. 257; 2. Le radici autobiografiche della filosofia, p. 257; 3. Gli aspetti esistenziali della soggettività, p. 261; 4. Dalle metafore estetiche ai sentimenti esistenziali, p. 264; 5. Le metafore nell’etica, p. 267; 6. Le metafore religiose, p. 270; 7. L’inconsistenza dell’inconsistente, p. 271; 8. Il primato del negativo, p. 276; 9. Oltre la filosofia, p. 281; 10. La decadenza nella storia, p. 283; 11. Le figure della decomposizione, p. 286; 12. La questione dello stile, p. 291; 13. L’itinerario contro se stessi, p. 293; 14. Il misticismo scettico, p. 297; 15. Destrutturare la storia e l’utopia, p. 301; 16. Sul clinale del tempo, p. 304; 17. L’essenza del divino, p. 307; 18. La negatività del nascere, p. 310; 19. Per una politica reazionaria, p. 315; 20. Un metafisico solitario, p. 317; 21. I compagni di viaggio, p. 320; 22. Dall’autobiografia agli ultimi scritti, p. 322.

Conclusione

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Appendice critica 1. Nota esplicativa, p. 333; 2. Pensare la fine nella cultura europea, p. 334; 3. Alcuni pensatori a confronto, p. 337; 4. Il pessimismo etico nella storia umana, p. 341; 5. Per una metafisica della regressione, p. 345; 6. Il cristianesimo e la storia, p. 348; 7. Un futuro senza salvezza, p. 352; 8. La religione e la politica, problemi non risolti, p. 357; 9. Le forme espressive della negatività, p. 361; 10. Un romantico in esilio, p. 365; 11. Un pensatore della notte, p. 368; 12. Le due vie non filosofiche, p. 371; 13. Alle radici di un nichilismo asistematico, p. 375; 14. Conclusione critica, p. 380.

Bibliografia Opere di Cioran, p. 383, Opere su Cioran, p. 384.

Ringraziamenti

389

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Prefazione

Rileggere oggi il pensiero di Emil Michel Cioran significa viaggiare nel post-moderno in compagnia di un viandante del nulla che per molti aspetti è un anticipatore di alcune tematiche per noi oggi familiari. Ci proponiamo, quindi, di rivisitare la sua opera alla luce di un’ermeneutica aderente alla semantica dei testi da lui prodotti. Tale compito è certamente arduo poiché, come noto, l’opera del nostro pensatore si esprime con un pensiero narrante che si colloca al confine tra filosofia e poesia. Questo viaggio intellettuale si propone un dialogo con un autore i cui interpreti muovono spesso dall’enfatizzazione di alcuni fraintendimenti del suo pensiero. Del resto, comprendere il messaggio di Cioran è possibile soltanto ingrandendo i paradossi da lui privilegiati, quindi i suoi interpreti muovono dal presupposto, entro certi limiti inevitabile, di ricondurre la sua meditazione ad alcuni aspetti significativi ma unilaterali della concezione che egli ha voluto dare di Dio, dell’uomo e del mondo. Questo autore si sente stretto nel tempo, si vive costretto nella situazione storica ma non riesce a realizzare quella fuga nell’eterno, verso la quale è proiettato il suo progetto di comprensione del reale. In particolare, possiamo esplicitare il progetto ermeneutico, al quale stiamo facendo riferimento, attraverso quattro espressioni emblematiche con le quali alcuni interpreti hanno preteso di definire l’intera opera del pensatore romeno. Le quattro espressioni guida sono, relativamente al pensiero di Cioran: metafore paradossali, metafisico dell’impossibile, squartatore misericordioso, angelo ster-

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xii

Sentinella del nulla

minatore. Con la prima espressione si fa riferimento all’espediente metodologico di ordine stilistico, con il quale Cioran conduce il suo linguaggio evocativo ed allusivo posto al limite tra dicibile e non dicibile. Con la seconda espressione ci si riferisce all’aspetto contraddittorio del suo pensiero, che vuole essere nel contempo una filosofia e una anti-filosofia. Con la terza espressione si allude, riprendendo e parafrasando il titolo di una delle sue opere più significative, ad un atteggiamento etico, ribelle, con il quale egli, da un lato, avvia un’invettiva impietosa nei confronti dei difetti dell’essere umano e, dall’altro, si apre ad una comprensione simpatetica profonda per l’uomo e per le sue ineludibili sofferenze. Con la quarta espressione, infine, si vuole evidenziare la coesistenza contraddittoria della candida ingenuità, con la tagliente aggressività attraverso cui Cioran costruisce e distrugge i suoi personaggi e i suoi ideali, le sue virtù e i suoi vizi. Sulla linea indicata, il discorso potrebbe continuare quasi all’infinito, ma in queste prime pagine sono sufficienti le riflessioni riportate per farci comprendere come, leggere e ascoltare Cioran, possa significare avviarsi ad un pensare inquieto, che travalica tanto la meditazione mistica quanto la beffarda ironia satirica. L’intento, quindi, è quello di analizzare le sue opere fondamentali, anche alla luce della critica filosofica fino ad ora prodotta, per dare spazi ai problemi che il nostro filosofo affronta, in una concordia discorde con una lunga tradizione storica nonché in compagnia di autori quali Marco Aurelio, Michel Eyquem de Montaigne, Blaise Pascal, Sören Kierkegaard, Friedrich Wilhelm Nietzsche, Giacomo Leopardi, Charles Baudelaire, Maria Zambrano, ecc.

Gennaio 2007

Aurelio Rizzacasa

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Nota bio-bibliografica

Emil Michel Cioran, filosofo e saggista, nasce l’8 aprile del 1911 a Ràsinari (Sibiu) in Transilvania, regione della Romania, nello stesso paese del poeta Octavian Goga. Nella città natale del nostro pensatore si parlano, a quel tempo, tre lingue: il romeno, l’ungherese e il tedesco. Cioran, comunque, si lega in modo indissolubile, da un punto di vista umano, alla lingua romena che costituisce per lui l’idioma della patria originaria, successivamente perduta e immersa in un rimpianto dal quale non riuscirà mai a liberarsi. Tuttavia, egli riconosce esplicitamente di trovarsi a suo agio in una cultura caratterizzata da una molteplicità di lingue. Da ciò deriva la sua ammirazione per la Svizzera. Il padre di Cioran è un prete ortodosso, consigliere dell’arcivescovo metropolita, e la madre è presidentessa dell’associazione locale delle donne di religione ortodossa. Egli compie i suoi studi liceali nel periodo compreso tra il 1920 e il 1928 presso il liceo di Sibiu. Nel periodo che va dal 1928 al 1931 si iscrive e frequenta l’Università di Bucarest, dove i suoi principali professori sono Petre Negulescu, Constantin-Radulescu Motru, Eugène Ionesco e dove ha per colleghi, fra gli altri, Mircea Eliade e Constantin Noïca, il che gli permette di collocarsi, già alle origini del suo pensiero, in una cultura destinata a far parlare di sé nell’Europa degli anni successivi. Nel 1932 conclude i suoi studi universitari in Romania sostenendo una tesi sul pensiero di Henry Bergson. I suoi studi filosofici, in seguito, vengono approfonditi a Berlino nel periodo compreso tra il 1933 e il 1935. Nel 1934 pubblica il suo primo libro in lingua romena Pe culmile disperàrii (Al culmine della

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Sentinella del nulla

disperazione) che segna già gli aspetti fondamentali del suo pensiero negativo. In questo periodo nasce una tendenza filosofica che potremmo caratterizzare come esistenzialismo romeno, alla quale apparterranno anche autori quali M. Eliade, E. Ionesco, C. Noïca, Mircea Vulcănescu. Contemporaneamente, esercita anche un’attività di collaboratore a giornali romeni quali Gindirea, Ctivintul, Vremea, Calendarul. Nel 1936 insegna filosofia nei licei di Brasov e Sibiu. È questo, forse, l’unico periodo in cui Cioran si dedica ad un’attività lavorativa rientrante nelle professioni consuete degli intellettuali. Nel medesimo anno pubblica, sempre in lingua romena, il suo volume del pensiero negativo dal titolo Cartea amàgirilor (Il libro delle lusinghe). Nel 1937, esce un’altra sua significativa opera in lingua romena, Schimbarea la fatà a Romàniei (La trasfigurazione della Romania), volume al quale è legata la militanza politica di Cioran, che rappresenta un episodio isolato nella sua esistenza di uomo e di pensatore fondamentalmente solitario. Nel 1937 si trova a Parigi e inizia la sua esperienza di esule che lo porta lontano dalla Romania, nonché dalla sua cultura delle origini, ma è una lontananza che si accompagna ad una presenza interiore, incancellabile, della sua unica patria. Si trova in Francia come titolare di una borsa di studio elargitagli dall’Istituto Francese di Bucarest. Prima di partire per la Francia, compie un tentativo di pubblicare, in lingua romena, il volume Lacrimi si sfinti (Lacrime e santi) in cui egli esprime un pensiero aspramente critico nei confronti della religiosità tradizionale del suo paese di origine. Egli, dopo quest’inutile tentativo, provvede a pubblicare l’opera a sue spese, ma il volume stesso uscirà soltanto successivamente in lingua francese nel 1986, con il titolo di Des larmes et des saints presso l’edizione Herne con opportune revisioni dell’autore corredato da introduzione e prefazione di S. Stolojan. Dal 1937 Cioran non fa più ritorno in Romania e si stabilisce a Parigi vivendo in povertà, con una serie di espedienti che lo rendono nomade nella metropoli della cultura europea.

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Nota bio-bibliografica

xv

Le notizie biografiche degli anni compresi tra il 1937 e il 1949 sono scarse e durante questo periodo compone il suo primo libro in lingua francese: si tratta del Précis de décompositiòn (Sommario di decomposizione) che viene presentato nel 1947 all’editore Gallimard di Parigi e che esce presso il medesimo editore nel 1949. Questo volume rappresenta il culmine del pensiero negativo di Cioran rispetto al quale i volumi successivi non fanno che specificarne gli aspetti particolari. Durante questo periodo francese, continua ancora a scrivere in romeno, tanto che nel 1940 pubblica il suo ultimo libro redatto nella sua madrelingua, con il titolo Amurgul gindurilor (Il tramonto dei pensieri). Da questo momento in poi Cioran elimina dalla sua attività di scrittore, sia pure con molta sofferenza, la sua lingua di origine e pubblica gli scritti successivi soltanto in lingua francese. È questa una sofferenza che per lui rappresenta anche una crescita; letterariamente, perciò, egli non appartiene più, da questo momento in poi, alla Romania ma alla Francia, con tutte le aperture alla cultura europea che ne possono conseguire. Con tale variazione di lingua egli dà origine al suo esilio metafisico; si sente apolide e, come tale, vuole occuparsi delle sorti della condizione umana. In seguito, nel 1952, esce un ulteriore volume, Syllogismes de l’amertume (Sillogismi dell’amarezza), che rappresenta l’avvio e il consolidamento del cupo scetticismo di Cioran. Successivamente, nel 1956, egli pubblica La tentation d’exister (La tentazione di esistere). Nel 1960, continua la sua attività di pensatore pubblicando Histoire et utopie (Storia e utopia) che è in definitiva l’opera più impegnata sulla negatività della storia umana. Nel 1964, esce ancora un ulteriore opera dal significativo titolo La chute dans le temps (La caduta nel tempo). Poi esce, nel 1969, il volume Le mauvaìs démiurge (Il funesto demiurgo), pubblicato in seguito in traduzione italiana, in un primo momento nel 1971, con il titolo I nuovi dèi e poi, nel 1986, con il titolo Il funesto demiurgo (settima edizione 2002). Nel 1973, appare il significativo volume De l’inconvénient d’être né (L’inconveniente di essere nato). Nel 1977, pubblica il volume di riflessioni, con il titolo Essai sur la pensée réactionnaire (Saggio

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Sentinella del nulla

sul pensiero reazionario), su Joseph de Maistre, autore simbolo del pensiero reazionario. Quindi, nel 1979 pubblica il volume dal titolo Ecartèlement (Squartamento). Cioran, al culmine della sua avventura condotta all’interno del pensiero negativo, si dedica a riflettere sugli autori che hanno caratterizzato la cultura dell’Occidente e, in questa prospettiva, dà vita nel 1986 ad un interessante volume dal titolo Exercises d’admiration (Esercizi d’ammirazione). È questa una raccolta di saggi di circostanza che vanno da J. de Maistre, a Samuel Beckett, M. Eliade, Guido Ceronetti, ecc. Nel 1987, esce il suo volume sulla cultura buddista, sempre ammirata e sempre costituente lo sfondo della sua rinuncia negativa ai miraggi dell’esistenza, intitolato Aveux et anathèmes (Confessioni e anatemi). Nel 1991, pubblica la corrispondenza con l’amico romeno C. Noïca, dal titolo L’amico lontano. Postumo, nel 1996, esce Anthologie du portrait de Saint-Simon à Tocqueville. Nella sua tormentata esistenza, povera di eventi esteriori, Cioran è anche insignito di premi letterari, tra i quali possiamo ricordare il premio Rivarol, nel 1950, nonché il premio Roger Nimier, rifiutato dall’autore nel 1977. Cioran pubblica ancora, fra le altre, un’opera di carattere autobiografico, che rappresenta un diario intellettuale della sua esistenza, di natura del tutto particolare, con il titolo Cahiers 1957-1972 (Quaderni 1957-1972). Muore a Parigi nel 1995 dopo anni di solitudine e di improduttività letteraria.

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Capitolo primo

La consapevolezza autobiografica

1. L’esperienza romena e l’esilio Cioran, nelle opere che consultiamo nella cultura occidentale, scrive in francese, ma i suoi vissuti appartengono alle origini rumene che rappresentano, non solo il retroterra culturale dell’autore, ma anche la lingua attraverso la quale egli pensa e dà forma simbolica alle sue riflessioni. La questione non è soltanto linguistica poiché investe la consapevolezza esistenziale dei problemi affrontati. Per lui pensare è esprimersi, ed elaborare le metafore letterarie significa percorrere dei sentieri nei quali la vita e la filosofia si fondono e si confondono. Possiamo parlare a pieno titolo di una filosofia esistenziale che, nata dalla vita ed in particolare dall’esperienza autobiografica, si traduce in cultura e dà luogo ad una critica problematica, strettamente legata alla disperazione ed alla speranza, all’angoscia e alla felicità, che connotano la sua biografia tormentata. Il contesto storico non evidenzia soltanto le coordinate spaziotemporali di una soggettività che riflette, ma costituisce il momento primario delle tematiche privilegiate dal suo filosofare. In questa direzione, la Romania non è soltanto la «patria lontana», in quanto rappresenta un ambiente ed un ideale al quale Cioran non rinuncerà mai.

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Sentinella del nulla

La sua riflessione sulla Romania non si risolve in un ricordo o in una nostalgia, poiché rappresenta l’anima viva e vitale della sua esperienza di esule. Siamo di fronte ad una riflessione vissuta che assume un carattere etico e non si riduce mai ad una questione politica. Il pensatore romeno, eticamente scomodo, non si allineava in Romania né con la politica di destra né con quella di sinistra, che darà vita, in quel paese, al socialismo reale. Le considerazioni da lui formulate intorno alla Romania rappresentano la consapevolezza filosofica che, rifiutando le radici di ordine speculativo, non può liberarsi dai presupposti culturali che lo legano indissolubilmente alla sua terra di origine. La Romania rappresenta, nelle sue riflessioni, un interrogativo ed un enigma, di fronte al quale l’odio e l’amore per la patria lontana costituiscono un’aporia ineliminabile. Infatti, «quale prova per la mia giovane arroganza! “Come si può essere Romeno?”, a questa domanda potevo rispondere soltanto con una incessante mortificazione. Odiando i miei, il mio paese, i suoi contadini fuori del tempo, irretiti dal loro torpore e come sprizzanti ebetudine»1. Ciò acquista una valenza che in superficie si colloca nell’ordine dei problemi politici ma, in profondità, esprime i suoi consensi e i suoi dissensi nei confronti di una tradizione, nonché di una cultura rispetto a cui vive una condizione sofferta di erede. Il legame con la patria, come del resto quello con il mondo, per Cioran assume un carattere metastorico che si delinea sul piano simbolico. Egli infatti dice: «Ignoro totalmente perché bisogna fare qualcosa su questa terra, perché bisogna avere amici e aspirazioni, speranze e sogni. Non sarebbe mille volte preferibile ritirarsi in disparte dal mondo, dove non giungesse neppure l’eco del suo frastuono e delle sue complicazioni?»2. Ci troviamo sul piano della filosofia che trascende la narrazione storica per riferirsi alla relazione esistente con il tempo, relazione 1. E.M. CIORAN, La tentazione di esistere, Adelphi, Milano 1984, p. 52. 2. ID., Al culmine della disperazione, Adelphi, Milano 2003, p. 18.

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I. La consapevolezza autobiografica

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che, come vedremo in seguito, ripropone il significato ontologico dell’uomo nel suo legame enigmatico con l’esistenza su questa terra. Cioran, come autore delle opere note al di fuori della Romania, esprime in modo a volte nostalgico e a volte drammatico la propria condizione di esule, in parte volontaria ed in parte costretta. L’esilio tematizza una situazione di rimpianto e di esclusione, rispetto a cui egli si difende, scegliendo una lingua odiata e difficile quale è nel suo vissuto personale quella francese. In questa situazione, il nostro pensatore si sforza di acquisire una forma letteraria esteticamente superiore, con la pretesa di raggiungere dei livelli di eccellenza. La via che sceglie è quella di una lotta contro l’esilio, alla ricerca di un’autenticità mai raggiungibile, ma sempre alla base dei suoi sogni di perfezione. L’esilio costituisce una realtà storica ma anche una metafora della sua filosofia, per cui egli dichiara: «Per tutta la vita ho vissuto la sensazione di essere stato allontanato dal mio vero luogo. Se l’espressione “esilio metafisico” non avesse alcun senso, la mia sola esistenza gliene fornirebbe uno»3. La condizione autobiografica di esule assume un carattere simbolico nel riconoscimento esistenziale di un «esilio metafisico» con il quale egli intende riferirsi ad un distacco radicale rispetto alla tradizione filosofica del pensiero occidentale. Da un punto di vista autobiografico, la consapevolezza del nostro pensatore conserva la duplicità semantica del vissuto storico, trasvalutato in una condizione paradigmatica del filosofare. Egli riconosce che «io non sono di qui; condizione di esiliato in sé; da nessuna parte mi sento di casa – non appartenenza assoluta a checchessia. Il paradiso perduto – la mia continua ossessione»4. In tal caso, la riflessione esistenziale stabilisce un ponte significativo, capace di assicurare una singolare continuità tra la vita e la filosofia. 3. ID., L’inconveniente di essere nati, Adelphi, Milano 1991, p. 78. 4. ID., Quaderni 1957-1972, Adelphi, Milano 2001, p. 22.

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Cioran, oltre che dell’ermeneutica sincronica utilizzata nello stabilire una relazione tra la sua esperienza vitale e la sua riflessione filosofica, fa uso anche di un’analisi diacronica nella quale la consapevolezza dei vissuti emerge dalla dinamica evolutiva della propria esistenza. Così, non esita a ricordare: «Quando rievoco i miei primi anni di vita nei Carpazi devo fare uno sforzo per non piangere. È molto semplice: non riesco a immaginare nessuno che abbia avuto un’infanzia paragonabile alla mia. Cielo e terra mi appartenevano, letteralmente. Persino le mie apprensioni erano felici. Mi alzavo e mi coricavo – da Signore del Creato. Ero consapevole della mia felicità e presentivo che l’avrei perduta. Una paura segreta rodeva le mie giornate. Non ero poi tanto felice quanto sostengo ora»5. La situazione esaminata ci consente di chiarire lo sviluppo delle idee attraverso le fasi storiche della sua esistenza personale; egli innesta il suo pessimismo tragico su una felicità lontana, perduta nelle origini del tempo, ma anche rimpianta nella profondità della coscienza interiore.

2. L’adozione della lingua francese La produzione letteraria di Cioran, nelle due fasi del suo pensiero, è legata alle due lingue dell’esperienza autobiografica, quella romena e quella francese. Il discorso non si esaurisce sul piano linguistico, né tantomeno si risolve secondo la logica della traduzione. Queste due lingue rappresentano, nel loro legame e soprattutto nella loro diversità, la patria da un lato e l’esilio dall’altro. Ciò, non solo da un punto di vista storico ma, in modo più profondo, nei vissuti evocati dall’autore nell’uso delle due lingue. La «terra lontana» rappresenta la nostalgia associata ad una rinuncia che prevale sulla perdita; l’esilio, invece, delinea la condizione di una scelta realizzata nell’amarezza che acquista il suo valore

5. Ivi, p. 151.

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I. La consapevolezza autobiografica

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simbolico nel rifiuto della nuova lingua che tuttavia viene assunta contraddittoriamente come un ideale letterario. La situazione acquista la semantica di un enigma, con il quale Cioran si confronta senza poter sciogliere le difficoltà che questo rapporto comporta. La questione è anteriore rispetto alla lingua poiché coinvolge il legame genetico dei vissuti con la scrittura, rispetto a cui la lingua rappresenta una specificazione ulteriore. Cioran chiarisce: «Il mio ideale di scrittura: far tacere per sempre il poeta che è in noi; liquidare le nostre ultime vestigia di lirismo; andare contro ciò che si è, tradire le proprie ispirazioni; calpestare i propri slanci e persino i propri disgusti»6. Ciò comporta la sospensione dello stile che oscilla tra prosa e poesia, tra determinazione analitica dei concetti e utilizzazione del senso allusivo proprio della metafora, nonché degli aforismi. Il problema coincide con la tensione esistenziale del vissuto che si manifesta oggettivandosi nella relazione, a sua volta problematica, tra pensiero e linguaggio, genere letterario e stile espressivo. Egli a riguardo dichiara che «disgraziatamente l’eloquio scivola nello sproloquio, nella letteratura. Anche il pensiero vi tende, sempre pronto a espandersi, a gonfiarsi; arrestarlo con l’acredine, contrarlo nell’aforisma o nella battuta, significa opporsi alla sua espansione, al suo movimento naturale, al suo slancio verso la prolissità e la dilatazione. Da qui i sistemi, da qui la filosofia»7. Abbiamo un’argomentazione filosofica che si propone come tale già a livello della scelta del codice espressivo. L’oscurità che caratterizza quest’analisi complessa fa orientare gli interpreti a favore di una scelta formale che si concentra sull’alternativa, tra letteratura o filosofia, alla luce della quale viene valutata l’intera opera di Cioran. La questione della lingua, legata a quella del pensiero e dello stile, è così complessa da far evidenziare l’immagine di Carl Gustav 6. Ivi, p. 16. 7. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 96.

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Carus che dice: «“Se si potesse insegnare la geografia al piccione viaggiatore, il suo volo incosciente, che va dritto alla meta, diventerebbe d’un tratto impossibile”. Lo scrittore che cambia lingua si trova nella situazione di questo piccione sapiente e disorientato»8. Si delineano le problematiche relative alle interferenze dei modi di pensare che conseguono ai cambiamenti di lingua e di stile e che si risolvono in disorientamenti e problemi non risolti sul piano speculativo. In tale ambito, l’esercizio della scrittura è una sfida prima di tutto con se stessi e poi rispetto ai lettori. Cioran si rende ben conto della potenza ma anche della sofferenza che comporta una concezione di tal genere, infatti, afferma che «scrivere è una provocazione, una visione fortunatamente falsa della realtà che ci situa al di sopra di ciò che è e di ciò che ci sembra essere. Rivaleggiare con Dio e persino superarlo con la sola virtù del linguaggio, ecco l’impresa dello scrittore»9. La scrittura esprime una sofferenza esistenziale attraverso la quale lo scrittore si libera dei suoi tormenti più profondi. In senso paradossale, il pensatore romeno sostiene che «scrivere significa disfarsi dei propri rimorsi e dei propri rancori, vomitare i propri segreti»10. Lo scrivere è un’operazione filosofica e trascende l’estetica dello stile letterario o, meglio, lo scrivere contiene già in se stesso il carattere negativo che connota filosoficamente la posizione di Cioran, il quale si ritiene espressione di un itinerario che ha dell’assurdo, in quanto egli si qualifica in tal modo: «Non sono uno scrittore, non so costruire frasi di passaggio, ignoro l’arte dello stemperare, così che tutto quello che scrivo sembra convulso, frammentario, discontinuo, goffo. Ho orrore delle parole, mentre e […] La concisione – il mio privilegio e la mia disgrazia»11.

8. ID., Squartamento, Adelphi, Milano 1981, p. 85. 9. ID., Esercizi di ammirazione, Adelphi, Milano 1988, p. 214. 10. Ibid. 11. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 256.

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I. La consapevolezza autobiografica

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Essere scrittore non gli permette di acquistare una superiorità etica come, ad esempio, accade in S. Kierkegaard, poiché è proprio lo scrivere che gli fa prendere coscienza di essere fuori posto nel mondo e tra gli uomini.

3. La filosofia tra professione ed esperienza occasionale La produzione di Cioran come scrittore è sospesa tra letteratura e filosofia; tale questione appartiene al piano formale dei generi espressivi. Il vero nodo problematico è quello di voler determinare la tipologia del pensatore che egli si propone di esprimere. Le sue considerazioni spesso metaforiche e paradossali delineano, per dirla con Martin Heidegger, dei sentieri interrotti in cui il pensiero è a volte poesia e altre volte, su una linea che da Agostino giunge a Paul Ricoeur, esprime delle confessioni e dei racconti diretti ai lettori ma centrati su se stesso. In questa chiave espressiva, il ruolo dello scrittore e il mestiere del filosofo assumono una valenza inconsueta. Determinare in quali termini si può parlare di Cioran come un filosofo significa chiarire il senso della sua filosofia, prodotta secondo un criterio occasionale, di carattere asistematico. In questa direzione, la filosofia non consente a Cioran di assumere il ruolo professionale di un filosofo accademico secondo gli usi consolidati, poiché per lui pensare significa produrre e manifestare agli altri gli sfoghi segreti del proprio pensiero. Così egli si esprime: «Il filosofo è un uomo irruento; ma io, ostacolato da mille dubbi, che cosa potrei affermare, verso che cosa potrei lanciarmi? Lo scetticismo esaurisce il vigore della mente; o meglio: una mente esaurita inclina allo scetticismo, e vi si consacra per aridità, per vuoto»12. L’approdo di questa modalità di filosofare è lo scetticismo, al quale si giunge non attraverso il dubbio insolubile dell’argomenta-

12. Ivi, p. 33.

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zione, ma tramite il distacco dai problemi che il pensiero consegue dopo aver esaurito l’ansia fiduciosa della ricerca positiva. Cioran non ha dubbi e si colloca al di là dei filosofi appartenenti alla tradizione del pensiero occidentale; egli così riconosce: «Non ho alcuna attitudine alla filosofia, mi interessano solo gli atteggiamenti, e il lato patetico delle idee»13. La sua è in senso più autentico una filosofia da intendersi quale non-filosofia, in cui il negativo emerge in tutta la sua potenza di decostruzione delle posizioni universalmente accettate. Sul piano metodologico, il momento negativo si qualifica come l’unica possibilità di ricostruire le certezze attraverso la destrutturazione di quelle dogmatiche e acritiche che Cioran riceve in eredità dai pensatori che lo precedono. Egli dichiara che «riflettere significa farsi il vuoto intorno, eliminare il reale, considerare il mondo solo un pretesto necessario agli interrogativi e ai tormenti dello spirito. La riflessione sopprime; annienta tutto, tranne se stessa»14. Si delinea una via antispeculativa, attraverso la quale l’immagine negativa dell’uomo corrisponde a quella vanificante di un mondo condannato al piano dell’apparire. La via del negativo caratterizza esistenzialmente la figura del pensatore, in quanto il vissuto di rinuncia e di ritiro dal reale costituisce una condizione del suo carattere da cui trae origine una visione destrutturata del mondo. Infatti, «l’intellettuale stanco riassume le deformità e i vizi di un mondo alla deriva. Egli non agisce, patisce; se si volge all’idea di tolleranza, non vi trova l’eccitante di cui avrebbe bisogno. Il terrore, sì, glielo procura, così come le dottrine delle quali è il risultato. È forse la sua prima vittima? Non se ne lamenterà. La sola a sedurlo è la forza che lo stritola. Voler essere libero significa voler essere se stesso; ma è esasperato di essere se stesso, di camminare nell’incertezza, di vagare attraverso le verità»15. 13. Ivi, p. 61. 14. Ivi, p. 69. 15. ID., La tentazione di esistere, cit., pp. 36-37.

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I. La consapevolezza autobiografica

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La stanchezza assurge al ruolo di un vero e proprio trascendentale, alla luce del quale si produce l’immagine di un reale in dissoluzione. L’incertezza, cui approdano queste argomentazioni, qualifica il carattere proprio della filosofia che, nella sua problematicità scettica, si allontana radicalmente dalle sicurezze dogmatiche della santità religiosa. Così Cioran osserva che «la filosofia è senza risposta. Al suo confronto la santità è una scienza esatta. Dà infatti risposte positive e precise a domande alle quali i filosofi non ebbero il coraggio di sollevarsi. La santità ha per metodo il dolore, e il suo fine è Dio»16. La concentrazione sul momento interrogativo del filosofare fa emergere la debolezza esistenziale, provocata dalle argomentazioni logiche che, nella loro inconcludenza gnoseologica, disorientano l’uomo gettandolo nella nomadicità dell’esistenza. La conclusione dell’intero discorso è la seguente: «In pace con se stesso e con il mondo, lo spirito langue. Alla minima contrarietà rifiorisce. Il pensiero è insomma solo lo sfruttamento impudente dei nostri disagi e delle nostre disgrazie»17. La questione sospende la riflessione, ponendola in un equilibrio instabile tra l’incertezza negativa da un lato, che qualifica il piano della conoscenza, e la sofferenza esistenziale dall’altro, che enfatizza la melanconia della rinuncia e del fallimento. Il fallimento indica una condizione che in Cioran acquista il sapore di un risultato e spesso anche di una meta da raggiungere, così «l’intellettuale rappresenta la disgrazia più grande, il culmine del fallimento per l’homo sapiens»18. In tale situazione, il filosofo non è soltanto un aspetto dello scrittore ma assume, nella primarietà del negativo, il valore di manifestare l’essenza nascosta dell’essere uomo. Ciò fa assumere al pessimismo una singolare valenza ontologica. 16. ID., Lacrime e santi, Adelphi, Milano 1990, p. 32. 17. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 152. 18. ID., Sillogismi dell’amarezza, Adelphi, Milano 1993, p. 75.

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Sentinella del nulla

Il problema di fondo è che il nostro pensatore oscilla tra il compiacimento del negativo e l’ironia sulla futilità del pensare. Questa situazione aporetica apre la via per una complessità filosofica delle sue argomentazioni, scritte tra la consapevolezza vissuta del fallimento e la futilità ludica delle troppo sofisticate argomentazioni prodotte dalla filosofia. Possiamo comprendere in modo adeguato quanto detto, riflettendo che «pensare, significa correre dietro all’insicurezza, agitarsi per dei nonnulla grandiosi, rinchiudersi in astrazioni con avidità di martire, cercare la complicazione come altri la rovina o il guadagno. Il pensatore è per definizione avido di tormento»19.

19. ID., Squartamento, cit., p. 158.

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Capitolo secondo

Il problema religioso

1. L’eredità cristiana Cioran, per evidenti motivi autobiografici, non riesce a distaccarsi dalla religiosità cristiana anche se professa costantemente il suo ateismo come una sfida prometeica. Il suo problema è quello di volersi liberare da una religiosità che lo perseguita e che, anche da un punto di vista culturale, costituisce il substrato profondo del suo pensiero. Si tratta di una religiosità di derivazione ortodossa, permeata di gnosticismo ed aperta a diversi sconfinamenti nell’eresia delle chiese cristiane delle origini. I suoi autori prediletti sono i padri della chiesa e i santi del cristianesimo spagnolo, aperto alla cultura barocca. Ne emerge una visione religiosa ossessiva e dogmatica, alla quale il nostro pensatore si ribella con tutte le sue energie. In definitiva, il divino e il demoniaco si incontrano e si scontrano nel suo pensiero. Il vissuto religioso di Cioran è conflittuale e si configura attraverso la rivolta e la protesta. Egli lotta con Dio per ingigantire la propria soggettività secondo l’ideale di cancellare ed annientare il divino dichiarando che «se Dio potesse immaginare quale peso rappresenti per me il minimo atto, cederebbe alla misericordia o mi lascerebbe il suo posto. Perché le mie impossibilità hanno un che di estremamente vile e di divino insieme. Nessuno può essere meno adatto di me a questa terra. Appartengo a un altro mondo, come

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dire che sono di un sottomondo. Uno sputo del diavolo, ecco di quale pasta sono fatto»1. La dimensione religiosa del pensiero cioraniano risente dell’ellenizzazione del messaggio cristiano, ma proprio attraverso il momento greco della cultura occidentale, egli finisce per anteporre il fato a Dio, in una visione tragica dell’esistenza umana; a riguardo sostiene di essere: «Più vicino alla tragedia greca che alla Bibbia. Ho sempre capito e sentito più il Destino che Dio»2. Ecco che l’alternativa a Dio non è per lui il demonio, bensì un assoluto negativo per cui «si ha sempre qualcuno sopra di sé; oltre Dio stesso s’innalza il Nulla»3. Cioran si sente pieno di cristianesimo, per cui il suo impegno esige la liberazione da questa esperienza religiosa. Si tratta di una liberazione faticosa e difficile spesso segnata da cadute e da insuccessi. In ogni caso, la sua convinzione viene espressa come segue: «Si ha un bel dire, ma il cristianesimo ha rovinato tutto. Un guastafeste. Secoli inutilmente profondi. Quanto rimpiango di essermi nutrito della sua sostanza! Me ne sono rimpinzato. Sventura, immane sventura!»4. La posizione di Cioran si adegua a quella di essere colui che trascrive l’interpretazione del suo tempo, vale a dire, perseguire lo scopo di conciliare le istanze contrapposte della fede religiosa e della libertà dell’ateo. In termini incisivi e lapidari così si esprime: «Una religiosità atea, questa è la Stimmung dei contemporanei»5. La questione religiosa risulta particolarmente contraddittoria rispetto a tutti i vissuti esistenziali tematizzati da Cioran. In questa si scontrano la religiosità e l’ateismo ma, indipendentemente dai contenuti che possiedono caratteristiche tali da non poterli attribuire 1. E.M. CIORAN, Quaderni 1957-1972, cit., p. 17. 2. Ivi, p. 25. 3. Ivi, p. 43. 4. Ivi, p. 205. 5. Ivi, p. 306.

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II. Il problema religioso

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ad una qualsiasi religione storicamente definita, l’ansia di assoluto e la pietà per la condizione umana gli permettono di elaborare un’inquietudine protesa alla ricerca dell’autenticità che non è priva di atteggiamenti religiosi. Egli ne assume la piena consapevolezza, fino al punto di dire: «Nessuno è più religioso di me. Né di meno. Sono allo stesso tempo più vicino e più lontano dall’Assoluto di chiunque altro»6. La sua religiosità atea prende una forma sempre più definita nella direzione di compiere il distacco, sofferto ma definitivo, dal cristianesimo, il che viene decisamente sottolineato in questi termini: «Credo che romperò con il cristianesimo, anche con i mistici. Ho perduto il fervore di un tempo, e le mie febbri sono sempre più fredde»7. La condanna del cristianesimo emerge in Cioran dall’esaltazione che tale religione compie della sofferenza. La sua liberazione da questa forma di religione è una rivolta della vita rispetto ad un’etica eccessivamente costrittiva, ma la conclusione insolita è quella per cui una volta avvenuta la liberazione egli cade in un pessimismo e in una sofferenza più profonda, quella del vuoto proprio della negatività allo stato puro. Al di là di questa critica egli è netto nella sua conclusione valutativa rispetto al cristianesimo, fino al punto da poter affermare che «tutto il cristianesimo è un’unica crisi di lacrime, di cui ci resta solo un sapore amaro»8. Le riserve nei confronti del cristianesimo sono relative al medesimo tema che è quello di una eccessiva esaltazione dei caratteri negativi dell’esistenza umana. Questa problematica permette di stabilire una relazione significativa tra il nostro autore e F.W. Nietzsche, anche se la conclusione del pensatore romeno non riscatta la sofferenza con una conquista

6. Ivi, p. 436. 7. Ivi, p. 526. 8. ID., Lacrime e santi, cit., p. 24.

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dell’esistenza rinnovata, ma al di là del cristianesimo cade in una forma di negatività ancora più profonda. La questione in esame può essere ulteriormente chiarita attraverso questo significativo riferimento: «La novità del cristianesimo. Il nefasto ha vinto il sublime in questa religione di crepuscoli incendiari. Altre religioni concepirono la felicità di una lenta estinzione; della morte, il cristianesimo ha fatto un seme. Quale rimedio immaginare contro questa morte germinativa, contro la vita di questa morte?»9. La questione cristiana della risoluzione della morte nella salvezza attraverso la sopravvivenza, nella fuga dalla vita naturale, nella sua immediatezza, costituisce l’occasione per recuperare la negatività della morte medesima di fronte alla contraddittorietà dei vissuti umani che caratterizzano per Cioran i paradossi della vita nell’enigma della natura. Il problema di Cioran non è quello di interpretare il senso del cristianesimo ma di prendere posizione di fronte alle istanze promosse a favore dell’uomo da tale forma di religione; perciò, nei suoi testi più che delle invettive si producono delle prese di coscienza e delle ribellioni formulate nel contesto dell’ironia o della contraddizione dalle quali balzano evidenti le assurdità di questa fede religiosa. Su tale linea, possiamo riflettere in merito alla seguente osservazione emblematica: «L’idea che ho potuto – come tutti – essere sinceramente cristiano, fosse anche per un solo secondo, mi getta nello smarrimento. Il Salvatore mi annoia. Sogno un universo immune da intossicazioni celesti, un universo senza croce né fede»10. Si delinea, così, la premessa per ridurre il cristianesimo ad utopia e per configurare, attraverso tale fede, una fuga dalla tragicità dell’esistenza che pone in rilievo l’elemento nascosto o, piuttosto, mascherato dalla forma esteriore della dottrina. Infatti, «incapaci di trovare il “regno di Dio” in se stessi o, piuttosto, troppo scaltri per volerlo cercare, i cristiani lo hanno collo9. Ivi, p. 42. 10. ID., Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano 1996, p. 173.

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II. Il problema religioso

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cato nel divenire: hanno pervertito un insegnamento allo scopo di garantirne la riuscita»11. Cioran non si ferma ad una problematizzazione dell’interrogativo religioso preso in esame nella sua universalità, ma approfondisce lo stile di vita imposto dall’etica elaborata sul piano della fede. In questa prospettiva, i suoi interessi come sempre contraddittori coinvolgono tanto il misticismo quanto la santità. Relativamente a quest’ultima, egli puntualizza il carattere emblematico del santo che, lontano dall’ideale umanistico di questo mondo, compie il tentativo di portare fino in fondo l’autenticità dell’istanza religiosa. Così, da un lato, questa figura eccezionale desta incondizionata ammirazione del nostro autore ma, dall’altro, finisce per esasperare le sue riserve nei confronti dell’ascesi resa necessaria dall’opzione di fede. Infatti, «[…] i santi non si adattano molto ai nostri ragionamenti né alle nostre viltà. Vedere in loro dei meditativi significa ingannarsi del tutto. Troppo privi di remore, troppo selvatici per potersi fermare alla meditazione (che presuppone un controllo di sé, e dunque una mediocrità del sangue), i santi aspirano a scendere fino alle radici delle cose, e il cammino che ve li conduce non è propriamente “riflessivo”»12. La questione è ancora più chiara se prendiamo in considerazione un’ulteriore riserva critica, avanzata nei confronti della santità. Cioran a riguardo così si esprime «se ci schieriamo dalla parte dei santi la nostra vita è perduta, ma se ci ribelliamo contro di loro entriamo in urto con l’assoluto»13.

11. ID., Storia e utopia, Adelphi, Milano 1982, p. 114. 12. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 150. 13. ID., Lacrime e santi, cit., p. 20.

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2. Al confine con l’eresia: tra paganesimo e buddismo Il cristianesimo viene illustrato da Cioran secondo una modalità eclettica di configurazione dei suoi contenuti, poiché egli non prende posizione nei confronti di nessun particolare orientamento espresso dalle varie concezioni storiche di tale religiosità, anzi, le sue preferenze vanno al di là delle dottrine espresse dagli ortodossi e dai cattolici, non dando particolare spazio neppure alle grandi chiese riformate. Sono presenti nelle sue considerazioni varie aperture a favore dello gnosticismo, nonché di alcune proposte avanzate dalle eresie filosofico-teologiche dei primi secoli del cristianesimo, ma troviamo anche degli spunti che fanno pensare a delle limitate forme di eresie prodotte da piccole sette delle chiese riformate, presenti nella civiltà moderna all’interno delle culture dei paesi balcanici. A tal proposito, emerge in tutta la sua importanza lo scetticismo sistematico del nostro autore, quindi l’eresia viene presa in considerazione non per il suo carattere eterodosso ma per la differenza che stabilisce nell’ambito delle dottrine religiose dalla quale dipende un arricchimento ma anche una indefinibilità della religiosità nella sua espressione specifica. In particolare, egli precisa che «uno scisma non esprime tanto divergenze di dottrina quanto una volontà di affermazione etnica; in esso traspare meno una controversia astratta che un riflesso nazionale»14. La perdita di importanza del momento dottrinale dell’eresia riconferma la prevalenza dell’orizzonte etnico sul quale, per Cioran, si fonda la diversità dell’espressione religiosa. I popoli testimoniano, nella storia umana, le configurazioni mitiche e le posizioni dogmatiche delle religioni; infatti, «scismi ed eresie sono nazionalismi camuffati»15.

14. ID., Storia e utopia, cit., p. 38. 15. Ibid.

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II. Il problema religioso

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La giustificazione etno-antropologica non esclude la presa di coscienza individualista che spesso accompagna le posizioni ereticali. Da tale punto di vista, Cioran sottolinea come il vissuto di eccezionalità, che caratterizza la fede dell’eretico, si manifesta come una consapevolezza voluta ed esaltata del proprio isolamento religioso. A tal proposito, egli sostiene che «eretico per eccellenza, solitudine incarnata, infrazione all’ordine universale, il mostro risvegliato si compiace della propria eccezione, si isola nei suoi onerosi privilegi e paga in durata ciò che guadagna rispetto ai suoi “simili”»16. Per quello che concerne la questione dell’eresia, va tenuto presente che le considerazioni svolte si riferiscono all’espressione storica del progetto di rinnovamento etico che le eresie stesse si propongono di realizzare. La questione trasferisce le riflessioni dal piano religioso a quello delle utopie etico-politiche che costituiscono la molla propulsiva del divenire storico nel suo sviluppo. Da un punto di vista metodologico, la questione del cristianesimo impone a Cioran una singolare interferenza tra il livello diacronico e quello sincronico. Si tratta di riflessioni che si propongono di andare alla radice della questione religiosa in cui l’essenza del fenomeno studiato è presente nelle sue origini storiche. Così, il nucleo originario del cristianesimo va per lui ricercato nella contrapposizione iniziale tra questa religiosità e il paganesimo, rispetto al quale il cristianesimo stesso rappresenta un’istanza rivoluzionaria. Spesso Cioran nelle sue riflessioni prende le difese del paganesimo e valorizza i diritti di questa forma di religiosità nel momento del suo tramonto. Del resto, anche dal punto di vista filosofico, spesso vengono posti in evidenza i diritti di filosofie quali lo scetticismo, lo stoicismo e l’epicureismo, nella forma che esse assumono nell’antichità greco-latina. 16. Ivi, p. 108.

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La religiosità espressa da Cioran muove dalla negatività della dottrina e del dogma, valorizzando le manifestazioni poste al limite della condizione umana, quali la santità, l’estasi e il misticismo. In questa situazione, nella quale l’uomo nel tempo è sospeso sull’eternità, il nostro pensatore valorizza le religioni dell’oriente rispetto ai monoteismi occidentali, a proposito dei quali il cristianesimo viene vissuto in modo problematico e l’ebraismo viene visto con diffidenza, mentre riguardo all’islam evita di esprimere giudizi specifici. Tra le religioni orientali, la sua predilezione è senz’altro per il buddismo, all’interno del quale la sua ammirazione è per il nulla e per il vuoto ontologico. La strada del buddismo rappresenta la via etica del negativo che per lui indica l’unica possibilità di annientare l’umano insieme a tutte le sue sofferenze. L’attacco ai monoteismi occidentali è in realtà relativo alla questione ontologica da cui queste filosofie traggono la loro origine etico-speculativa. Per Cioran è chiaro che «il monoteismo comprime la nostra sensibilità: rinserrandoci ci scava dentro; sistema di costrizioni che ci conferisce una dimensione interiore a detrimento della piena maturazione delle forze»17. La divisione tra i monoteismi e le religiosità orientali possiamo configurarla con Cioran attraverso le questioni ontologiche, da un lato, e la dottrina della saggezza, dall’altro. Come è facile comprendere, egli apprezza e valorizza la seconda rispetto alle prime, così «non c’è nessuna compatibilità fra religione e saggezza: la religione è conquistatrice, aggressiva, senza scrupoli, si avventa e non ha remore. La cosa straordinaria è che accondiscenda a favorire i nostri sentimenti più bassi; senza questo, non avrebbe su di noi una presa così profonda»18.

17. ID., Il funesto demiurgo, Adelphi, Milano 2002, p. 35. 18. ID., La caduta nel tempo, Adelphi, Milano 1995, p. 111.

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3. Con Dio e contro Dio La riflessione di Cioran si concentra sulla religiosità mentre orienta tutte le riserve critiche nei confronti della religione. La questione è più complessa poiché il vero imputato da assolvere o da condannare è Dio, nei confronti del quale prende forma tutta l’ambivalenza emblematica dei sentieri interrotti, formulati dal nostro pensatore. La problematica non approda alla teoresi delle prove sull’esistenza di Dio, ma neppure si risolve nella conclusione della cosiddetta morte di Dio. Egli si colloca, insieme ad Albert Camus ed ai filosofi dell’assurdo, nel sostenere sia le ragioni a favore che quelle contrarie alla presenza di un Dio con il quale l’uomo è chiamato a confrontarsi. Le argomentazioni contro Dio hanno in Cioran le loro radici nei limiti della creazione o, meglio, nelle occasioni di sofferenza che si producono a duplice livello, biologico ed esistenziale. Infatti, «è difficile, è impossibile, credere che il dio buono, il “Padre”, sia implicato nello scandalo della creazione. Tutto fa pensare che non vi abbia mai preso parte, che essa sia opera di un dio senza scrupoli, un dio tarato»19. È evidente che, in questo caso, contro Dio si esprime nella sua tangibilità enigmatica la presenza del male, a riguardo della quale non valgono le distinzioni proposte sul piano filosofico da Agostino, poiché pesa la negatività ineludibile della sofferenza nelle sue varie forme. La questione teologica non è di natura sistematica anche quando le argomentazioni si articolano nella via del negativo. Cioran privilegia la via stilistica dell’ironia nella quale l’impatto emozionale della soluzione estetica è letterariamente più efficace di ogni considerazione di ordine filosofico. Egli afferma che «Dio è il

19. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 12.

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lutto dell’ironia. Eppure basta ch’essa si riprenda e abbia la meglio, perché i nostri rapporti con lui si confondano e s’interrompano»20. L’interlocutore centrale del discorso è Dio nella sua soggettività concreta e non nell’astrattezza del concetto elaborato dai filosofi, perciò «bisogna pensare a Dio e non alla religione, all’estasi e non alla mistica»21. La scelta estetica giunge fino alla drammatizzazione del rapporto con Dio, per cui Dio stesso viene invocato per constatarne il suo limite e la sua insignificanza; egli esclama: «Signore, sei tu nient’altro che un errore del cuore, come il mondo è un errore della mente»22. La questione della scelta di fede viene sostenuta per il superamento della caduta nel solipsismo che trasforma Dio in un’immagine fantastica di una situazione dialogica, infatti, «si crede in Dio soltanto per evitare il monologo tormentoso della solitudine. A chi altri rivolgersi? Si direbbe che Egli accetti volentieri il dialogo e non ci serbi rancore per averlo scelto come pretesto teatrale dei nostri scoramenti»23. Da un punto di vista filosofico, la soluzione è quella di far coincidere Dio con il nulla che si risolve in una vanificazione del senso stesso della fede religiosa, così «tra il niente e Dio c’è meno di un passo, perché Dio è l’espressione positiva del niente»24. La nullificazione di Dio comporta quella dell’essere umano in un tripudio del negativo che coincide con l’abisso dell’annientamento; infatti, «se ci assimiliamo a Lui, ci dissolviamo; se lo respingiamo, perdiamo ogni ragione di esistere»25. La dissoluzione di Dio, cui corrisponde quella dell’uomo, si risolve in una destrutturazione del problema teologico, molto più pro-

20. Ivi, p. 15. 21. Ivi, p. 117. 22. ID., Lacrime e santi, cit., p. 24. 23. Ibid. 24. Ivi, p. 41. 25. Ivi, p. 54.

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II. Il problema religioso

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fonda e sofferta rispetto a quella proposta da Ludwig Feuerbach, a proposito della quale la teologia si limita a ridursi ad antropologia. L’itinerario percorso da Cioran sceglie una via che non è soltanto filosofica ma è esistenziale e autobiografica. Attraverso questo tipo di argomentazioni risulta evidente uno stretto legame reciproco tra l’uomo e Dio, nonché tra Dio e l’uomo, che accomuna il destino della teologia a quello dell’antropologia, per cui «ogni versione di Dio è autobiografica. Non solo nasce da noi, ma è anche una nostra interpretazione personale. Si tratta di una doppia visione introspettiva, che ci rivela la vita dell’anima come io individuale e come Dio. Noi ci riflettiamo in lui ed Egli si riflette in noi»26. La via autobiografica si estende a comprendere quella della storia nella sua totalità, per cui il momento dell’individualità personale si trasforma in quello della socialità collettiva, perciò la dissoluzione del problema religioso, insieme a quello antropologico, assume per Cioran un carattere universale sostenuto dall’esistenzialità dell’intera questione religiosa. Egli, a riguardo, così si esprime: «Chi non pensa a Dio rimane estraneo a se stesso. Perché l’unica via per conoscere se stesso passa attraverso Dio, e la Storia universale è soltanto una descrizione delle forme che Egli ha assunto»27. Si stabilisce un legame molto stretto tra il concetto di Dio e l’immagine che ciascuno di noi introietta di se stesso, per cui la religiosità assume le sembianze di una presa di coscienza sofferta e conflittuale che concerne la consapevolezza interiore della persona. Il culmine più alto della vita religiosa, vale a dire la santità, rivela in se stessa i bisogni e i desideri della personalità soggettiva di chi prova ammirazione per il santo. Cioran afferma: «Quello che mi interessa nella santità potrebbe benissimo essere il delirio di grandezza che essa dissimula dietro le sue soavità, gli enormi appetiti mascherati dall’umiltà, l’insoddisfazione nascosta dalla carità. I

26. Ivi, p. 60. 27. Ibid.

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santi hanno infatti saputo sfruttare le proprie debolezze con una scienza propriamente soprannaturale»28. L’itinerario religioso trasferisce nelle conquiste della fede l’immagine di Dio perfettamente corrispondente a quella dell’uomo. Così, lo stretto legame fra Dio e l’uomo giunge fino al punto di coinvolgere anche la negatività nella configurazione dell’immagine del divino: Il nostro filosofo pone in rilievo che «nella divinità è più importante ritrovare i nostri vizi che le nostre virtù»29. Per Cioran, biblicamente l’immagine di Dio è indissolubilmente legata alla storia dell’uomo e precisamente alla negatività conseguente la responsabilità etica della colpa. Infatti, «nell’Eden nessuno si curava di lui. Fu la caduta, ed essa sola, a far nascere questa strana curiosità. Senza la colpa, nessuna coscienza dell’esistenza divina. Perciò è raro trovare Dio in una coscienza che ignori i tormenti del peccato»30. Ne risulta una giustificazione storica della presenza di Dio, contemporaneamente si fanno strada i presupposti per la sua negazione. Possiamo dire che Dio rappresenti per l’umanità un’inquietudine nascosta nella memoria simbolica delle origini della civiltà. La questione etica della colpa, legata all’enigma della sessualità, trova le sue radici nel substrato gnostico della religiosità cioraniana che affiora, in modo a volte paradossale, in affermazioni apparentemente fuorvianti, a proposito delle quali possiamo ricordare che: «Una donna può salvarci da Dio, come Dio ci può liberare da tutte le donne»31. Dio, indipendentemente dalla questione ontologica della sua esistenza, assume, nella concezione del nostro pensatore, un indubitabile significato simbolico, che ne consente la conservazione anche nell’ambito di una posizione atea. Egli non esita a dichia-

28. Ivi, pp. 39-40. 29. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 14. 30. ID., Lacrime e santi, cit., p. 55. 31. Ivi, p. 57.

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II. Il problema religioso

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rare che «cos’è Dio, se non un momento sul limitare della nostra distruzione? E che cosa importa se esiste o no, se per suo mezzo la nostra lucidità e la nostra follia si bilanciano e noi ci plachiamo avvinghiandoci a lui con passione assassina?»32. Il problema di Dio acquista perciò una validità qualitativa, capace di condurlo al di là della metafisica tradizionale, nel senso di essere un enigma irrinunciabile per l’uomo, indipendentemente dall’atteggiamento che l’uomo stesso assume nei suoi confronti. Possiamo dire che Cioran rivaluta la semantica del divino al di là della fede religiosa o dell’ateismo che caratterizza le scelte etiche dell’uomo stesso. Egli così si esprime: «Non è facile parlare di Dio quando non si è né credenti né atei: ed è questo probabilmente il dramma di tutti noi, compresi i teologi: il non poter essere più né l’uno né l’altro»33.

4. La creazione, il male e il peccato Il problema religioso caratterizza le considerazioni di Cioran sia sul piano dell’essere, sia su quello dell’agire, per cui, tanto l’immagine del reale quanto il senso della negatività vengono coinvolti per una giustificazione per molti aspetti inaccettabile anche da parte sua, concernente il senso tragico dell’esistenza umana. Queste argomentazioni traggono lo spunto dall’ordine classico e tradizionale dei problemi affrontati che sono costituiti, in particolare, dall’immagine della creazione, dalla presenza del male e dal peso della colpa, religiosamente interpretata come peccato. Questi problemi si inquadrano in un ordine diverso che trova il suo significato unificante nella tragicità ineludibile della sofferenza umana. L’immagine della creazione viene connotata da Cioran ricomprendendo in essa la presenza del male su una linea filosofica che 32. Ivi, p. 69. 33. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 72.

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dal neoplatonismo, attraverso lo gnosticismo, giunge fino alle soglie del pensiero contemporaneo con le riflessioni di F. Schelling. Perciò «non possiamo impedirci di pensare che la creazione, rimasta allo stadio d’abbozzo, non poteva compiersi, né lo meritava, e che nel suo insieme essa è una colpa»34. L’emergenza del negativo destruttura, nel pensiero di Cioran, l’immagine tradizionale della creazione, caratterizzata dalla meraviglia per il suo ordine e per la sua armonia. Infatti, se è vero che il negativo non è soltanto una caratteristica del reale, ma piuttosto un compito che l’uomo si assume nella sua ansia di esistere o, meglio, nella sua follia di lucidità, troviamo che la consapevole progettazione del comportamento etico si rivolge alla tematizzazione di un sentiero di annientamento caratterizzabile con il termine che è poi un neologismo di de-creazione. Al riguardo, egli sostiene che «disfare, de-creare, è il solo compito che l’uomo possa assegnarci, se aspira, come tutto lascia supporre, a distinguersi dal Creatore»35. Creare, individuato come compito dell’uomo, esprime per Cioran, tutta la potenza voluta ma incontrollabile di una negatività che si traduce nell’enigma della sofferenza con il duplice volto del compiacimento e del rifiuto. L’uomo sostituisce la divinità ma realizza l’assurdo di una situazione nel contempo titanica e prometeica, nella quale egli costituisce tanto il carnefice quanto la vittima. In questa dimensione esistenziale, il nostro pensatore riconosce che «creare significa trasmettere le proprie sofferenze, significa volere che gli altri vi si immergano e le assumano su di sé, se ne impregnino e le rivivano»36. Il quadro ontologico della visione gnostica privilegiato da Cioran, porta il nostro autore ad interpretare il male sul piano dell’essere, quindi ad inserirlo nella dinamica del reale in uno svolgimento in cui i principi contrapposti si completano e si articolano, richiaman34. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 13. 35. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 12. 36. ID., Storia e utopia, cit., p. 94.

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II. Il problema religioso

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dosi vicendevolmente. Così, «quale agente del non essere, il Male si inserisce nell’economia dell’essere, è dunque necessario, adempie a una funzione importante, anzi vitale»37. Il male, nel significato preferito da Cioran, rientra con i termini della filosofia più recente nell’ambito post-metafisico che in realtà trascende, sia pure non escludendola, l’etica della condizione umana, poiché il male stesso interessa l’uomo proprio in quel significato, rispetto al quale Agostino riconosce il momento della nullificazione ontologica. Questa inversione dell’ordine metafisico della filosofia risponde essenzialmente all’antropocentrismo esistenziale teorizzato dal nostro autore, il quale, a tal proposito, sostiene che «il principio del male sta nella tensione della volontà, nell’inattitudine al quietismo, nella megalomania prometeica di una razza che scoppia di ideale, che esplode sotto le proprie convinzioni e che, per essersi compiaciuta di irridere il dubbio e la pigrizia – vizi più nobili di tutte le sue virtù –, ha imboccato una via di perdizione: la via della storia, miscuglio indecente di banalità e di apocalisse»38. Il primato dell’azione nelle considerazioni sul male conduce Cioran a rovesciare i giudizi consolidati nella tradizione etica del pensiero occidentale, fino al punto di aprire la via al paradossale e all’assurdo. Egli, contro la positività della speranza, inverte la tendenza sostenendo che «sono le cattive azioni che ci conciliano con noi stessi, assicurano la nostra continuità, ci legano al passato, eccitano i nostri poteri evocativi»39. Nel medesimo ordine di considerazioni, il male viene rapportato al bene pur riconoscendone il primato sul piano della prassi esistenziale. Tale concezione inconsueta nel pensiero occidentale viene così sostenuta da Cioran: «Il Male è una forza creativa, così come il

37. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 63. 38. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 14. 39. ID., Storia e utopia, cit., pp. 78-79.

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Bene. Dei due è però lui il più attivo, giacché troppo spesso il Bene è disoccupato»40. Su tale piano, Cioran è pienamente consapevole di proporre un itinerario di riflessione radicalmente in controtendenza rispetto a quanto viene difeso dalla filosofia e dalla teologia tradizionali, per cui riconferma l’importanza della questione con questa espressione: «Il male è per me una realtà così piena che considerarlo soltanto una privazione del bene, come fanno i teologi, mi sembra una empietà»41. Il peccato assume per Cioran un significato specifico di dettaglio come, del resto, il crimine. La categoria da lui privilegiata è piuttosto quella di colpa, all’interno della quale l’etica e il diritto rispettivamente tracciano le loro figure particolari. Il peccato, all’interno della fenomenologia esistenziale del male, di cui è autore l’uomo, impone un riferimento specifico alla storia, in rapporto con il fallimento dei progetti utopici. In questo ambito del tutto particolare, egli si rivolge al peccato per caratterizzarne l’ambivalenza all’interno delle situazioni storiche: fra l’altro troviamo che «non si edificherà il paradiso quaggiù finché gli uomini saranno segnati dal Peccato; si tratta dunque di sottrarveli, di liberarli»42. Ciò evidenzia la consapevolezza che la negatività ha la sua sede nella coscienza umana per cui l’esteriorità ordinata dell’utopia immanente nel processo storico non è in grado di risolvere il problema della sofferenza.

40. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 39. 41. Ivi, p. 995. 42. ID., Storia e utopia, cit., p. 132.

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Capitolo terzo

Lo scetticismo

1. La filosofia e l’antifilosofia Le interpretazioni critiche, a proposito di Cioran, puntualizzano il consueto problema del genere di appartenenza delle sue composizioni, formulando l’interrogativo se queste riguardino la filosofia o la letteratura. Il problema più importante non appartiene alla forma esteriore delle sue opere, bensì al rapporto nei confronti della filosofia. Il nostro pensatore, nelle sue considerazioni asistematiche e spesso anche contraddittorie, finisce per prendere posizioni contro la filosofia tradizionale, nel senso di esprimere uno scetticismo metodologico, che gli permette di comportarsi in modo ludico nei confronti di tutte le soluzioni possibili rispetto agli interrogativi più urgenti dell’esistenza umana. In questo atteggiamento ermeneutico, Cioran costruisce una vera e propria filosofia dell’antifilosofia, ricavata attraverso la destrutturazione sistematica di tutte le certezze consolidate dalla tradizione del pensiero occidentale. Il punto di partenza delle sue argomentazioni è come sempre concreto, in quanto prende le mosse dai vissuti esistenziali che generano i problemi del pensiero speculativo. Con questo procedimento, la filosofia riconferma il primato dell’esistenza sottoponendo ad una revisione radicale le certezze della ragione universale.

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Cioran tematizza questo sentiero interpretativo: «Ogni tentativo di trasferire su un piano logico i problemi esistenziali è votato alla sconfitta. I filosofi sono troppo orgogliosi per confessare la loro paura della morte, e troppo pretenziosi per riconoscere alla malattia una fecondità spirituale»1. In questa chiave di lettura, l’io astratto della filosofia viene superato dalla singolarità della coscienza esistenziale. Ciò pone in questione tutte le argomentazioni ontologiche e gnoseologiche della filosofia moderna, fino al punto di costringere Cioran ad affermare che «la filosofia moderna, instaurando la superstizione dell’Io, ne ha fatto la molla dei nostri drammi e il perno delle nostre inquietudini. A nulla serve rimpiangere il riposo nell’indistinzione, il sogno neutro dell’esistenza senza qualità; ci siamo voluti soggetti, e ogni soggetto è rottura con la quiete dell’Unità»2. L’approfondimento di questa metodologia filosofico-esistenziale porta Cioran a distinguere tra i filosofi i pensatori di prima mano da quelli di seconda mano, attribuendo a questi ultimi il ruolo astratto di chi argomenta sul piano esclusivamente logico, mentre i primi, ponendo in rilievo i vissuti, danno concretezza ai problemi insiti nell’esistenza. Egli afferma che «i pensatori di prima mano meditano su cose; gli altri, su problemi. Bisogna vivere faccia a faccia con l’essere, non con lo spirito»3. Cioran subisce il fascino dell’identificazione, tanto sul piano religioso con l’ammirazione del buddismo, quanto su quello filosofico con l’attenzione per lo stoicismo antico. Il pensatore non è più colui che esercita la speculazione ma torna ancora una volta ad essere l’uomo dotato di saggezza. Ciò comporta che il saggio si antepone al filosofo e la funzione del pensare si allontana dalla funzione accademica dell’insegnare. Infatti «il saggio è colui che accondiscende a tutto, perché non si identifica con niente. Un opportunista senza desideri»4. 1. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 40. 2. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 21. 3. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 45. 4. Ivi, p. 50.

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III. Lo scetticismo

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Il socratismo problematico e nichilista di Cioran allontana kierkegaardianamente il filosofo dal professore di filosofia nell’intento serio e impegnativo di recuperare l’autenticità e l’immediatezza del pensare meditativo nonché dell’argomentare dialogico. A tal proposito, Cioran sfida il filosofo con questa affermazione: «La filosofia si insegna solo nell’agorà, in un giardino, o a casa propria. La cattedra è la tomba del filosofo, la morte di ogni pensiero vivo; la cattedra è lo spirito in gramaglie»5. Il pensiero viene preso in considerazione nel suo valore simbolico e nella sua potenzialità distruttiva, infatti «pensare è minare, è minarsi. Agire comporta meno rischi, perché l’azione riempie l’intervallo fra le cose e noi, mentre la riflessione lo dilata pericolosamente»6. Si tratta di considerare gli effetti creativi posseduti dal pensiero nella loro efficacia di stupire e di sconvolgere. È questa una metodologia indubbiamente inconsueta tra quelle predilette dalla filosofia. Il sentiero che stiamo percorrendo riconduce la filosofia nell’autobiografia ed attribuisce al pensare un compito capace di stimolare l’inquietudine dell’esistenza ma anche e soprattutto l’atteggiamento autoconsolatorio della coscienza. Cioran così si esprime: «La filosofia è un antidoto alla tristezza. E molti credono ancora alla profondità della filosofia. In questo universo provvisorio, i nostri assiomi hanno soltanto un valore di cronaca»7. Ne deriva la celebrazione della sconfitta del pensiero, attraverso l’esaltazione del carattere negativo del ruolo dell’intellettuale. In tale convinzione, a Cioran risulta chiaro che «l’intellettuale rappresenta la disgrazia più grande, il culmine del fallimento per l’homo sapiens»8.

5. Ivi, p. 166. 6. Ivi, pp. 169-170. 7. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 31. 8. Ivi, p. 75.

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In questa direzione, la svalutazione dell’intellettuale, ritenuto da Cioran a volte come stanco e a volte come il fallito investe anche il ruolo della filosofia che viene a sua volta travolta nell’insignificanza e nella negatività, per cui egli dichiara che «c’è più onestà e più rigore nelle scienze occulte che nelle filosofie che attribuiscono un “senso” alla storia»9. La svalutazione che investe primariamente la filosofia si risolve in una perdita di significato ancora più piena della figura del filosofo che, tolta dal suo piedistallo tradizionale e privata della dignità della sua cattedra di insegnamento, perde ogni privilegio ed ogni valore, fino al punto che, in modo paradossale, «il filosofo, disgustato dai sistemi e dalle superstizioni, ma ancora perseverate sulle strade del mondo, dovrebbe imitare il pirronismo da marciapiede che manifesta la creatura meno dogmatica: la prostituta»10. La caduta di senso coinvolge insieme la filosofia e i filosofi, anche se poi Cioran propone una filosofia della non-filosofia. Il suo è un tentativo di recuperare, attraverso i limiti del filosofare, ciò che per la filosofia è un non-detto e un mai-confessato. Su tale linea interpretativa, va interpretato il seguente paradosso: «L’orgoglio filosofico è il più sciocco di tutti. Se per miracolo un giorno la tolleranza dovesse instaurarsi fra gli uomini, i filosofi sarebbero i soli a non volerne sapere e a non beneficiarne. Il fatto è che una visione del mondo non può andare d’accordo con un’altra, né ammetterla, ancora meno poi giustificarla. Essere filosofi significa credere di essere gli unici ad esserlo, gli unici degni di questa qualifica. Soltanto i fondatori di religioni hanno un mentalità simile. Costruire un sistema è sempre fare religione, ma più da scemi»11.

9. Ivi, p. 109. 10. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 105. 11. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 413.

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III. Lo scetticismo

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2. L’oggetto del filosofare La filosofia in quanto non filosofia esige, come già visto, una svolta metodologica che tiene conto del primato dell’esistenza ma che travalica i confini della speculazione accademica. In questo contesto di riferimento, Cioran non si limita ad un approdo nichilista ma trasforma l’oggetto stesso del pensiero meditativo che, nella sua concezione, oscilla tra un pensare destrutturate ed un meditare molto vicino ad un misticismo religioso, privato però del riferimento a Dio. I confini di questa singolare forma di argomentazione sono costituiti dalla saggezza del pensiero antico, da un lato, e dalla meditazione di tipo religioso, dall’altro. Siamo di fronte ad una forma di pensiero che trova nelle espressioni lapidarie, nell’ironia e nell’allusione poetica, gli strumenti di tematizzazione del non-dicibile attraverso le argomentazioni logico-dimostrative. La svolta cioraniana è nel contempo di natura metodologica e contenutistica. Dentro a questi limiti occorre ripensare e riformulare l’identificazione dell’oggetto delle riflessioni filosofiche. Il problema di Cioran non è quello di ereditare ed eventualmente correggere l’oggetto della filosofia, consegnato dalla storia alla cultura odierna, ma è quello di criticare sistematicamente ogni posizione filosofica per costruire una filosofia che, come abbiamo visto, è qualificabile come anti-filosofia. Su tale linea, risulta molto significativa questa dichiarazione emblematica: «Se ci è proibito recuperare l’innocenza primordiale, in compenso possiamo immaginarne un’altra e cercare di accedervi grazie a un sapere privo di perversità, purificato delle sue tare, mutato in profondità, “pentito”»12. Di conseguenza, la conoscenza filosofica non può percorrere i sentieri che costituiscono le certezze del pensiero occidentale. Così

12. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 75.

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Cioran si pone controcorrente e si rivolge alla negatività, infatti «a un certo livello della conoscenza, solo il non essere resiste»13. L’alternativa alla filosofia, come prodotto della conoscenza, è rappresentata dalla rivendicazione del valore etico da attribuire alla saggezza, ma anche in questa situazione Cioran rivela la sua insoddisfazione, ponendo in rilievo i limiti e l’insufficienza di tale conquista spirituale. Egli, in particolare, sostiene che «la saggezza è la maggior disgrazia che si possa abbattere sulle nostre ambizioni e sui nostri talenti, perché li modera, vale a dire li distrugge, e attenta alle nostre profondità, ai nostri segreti perseguitando, tra le nostre facoltà, quelle che sono felicemente sinistre, e ci mina e ci sommerge, compromettendo tutti i nostri difetti»14. Questa via si allontana dalle sue preferenze nei confronti del nichilismo meditativo di natura etico-religiosa, presente nella spiritualità buddista che, nel suo pensiero, è un oggetto costante di ammirazione. Il problema investe i limiti della conoscenza e tematizza la negatività quale forma di soppressione dei caratteri che costituiscono l’individualità umana proprio nella sua singolarità irripetibile. Cioran esprime il suo desiderio di annientamento: «Decisamente, non è bello indugiare sotto l’Albero della Conoscenza. Vi è qualcosa di sacro in ogni essere che non sa di esistere, in ogni forma di vita indenne da coscienza. Colui che non ha mai invidiato il vegetale ha solo sfiorato il dramma umano»15. La via intrapresa conduce Cioran verso una forma di nullificazione che trova anche nell’annientamento un’espressione inadeguata per rappresentare il ritirarsi del reale dalle forme dell’essere. Gli mancano i mezzi letterari per comunicare questo desiderio inappagato di scomparsa radicale e di nascondimento senza possibilità di recupero.

13. Ivi, p. 101. 14. Ivi, p. 103. 15. Ivi, p. 121.

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Il suo modo limitato ma dotato di un forte potenziale allusivo è il seguente: «L’Ignoto sarà altrettanto scialbo del noto; tutto sarà privo di interesse e di sapore. Sulle rovine della Conoscenza, una letargia sepolcrale farà di noi tutti degli spettri, eroi lunati dell’Incuriosità […]»16. Da un punto di vista metodologico, anche le filosofie dell’assurdo, come l’enfatizzazione allusiva dei paradossi, risultano insufficienti per gli scopi dirompenti, perseguiti da Cioran. Egli, infatti, svuota il razionalismo dei suoi contenuti gnoseologici conducendo la razionalità al suo limite estremo, facendone emergere la lucidità, che per lui costituisce un vero e proprio concetto filosofico, a proposito del quale così si esprime: «La lucidità, monopolio dell’uomo, rappresenta il punto di arrivo del processo di rottura fra lo spirito e il mondo; è necessariamente coscienza della coscienza, e se noi ci distinguiamo dalle bestie, il merito o la colpa sono esclusivamente suoi»17. L’elemento centrale della filosofia, vale a dire il momento interrogativo, acquista anch’esso, nel viaggio speculativo intrapreso dal nostro pensatore attraverso i sentieri della negatività, un valore e un significato del tutto particolari, posti anche al di là dello scetticismo, così «mentre si nega sempre in nome di qualcosa, qualcosa di esterno alla negazione, il dubbio, senza avvalersi di nulla che lo ecceda, attinge ai propri conflitti, alla guerra che la ragione dichiara a se stessa quando, disgustata di sé, attacca i propri fondamenti e li rovescia, per sfuggire – finalmente libera – al ridicolo di dover affermare o negare alcunché»18. Il dubbio subisce uno svuotamento semantico rispetto al suo ruolo consueto assunto nel metodo filosofico, permettendo di aprire un nuovo spiraglio esistenziale sull’orizzonte dello svuotamento e nella perdita di consistenza di ogni aspetto dell’uomo, nel senso comunemente inteso. 16. ID., Sommario di decomposizione, cit., pp. 173-174. 17. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 83. 18. Ivi, p. 42.

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Ciò risulta ancora più chiaro nella consapevolezza di Cioran, il quale così approfondisce il significato di tale concetto: «Il dubbio si abbatte su di noi come una calamità; altro che sceglierlo: vi precipitiamo dentro. E per quanto cerchiamo di allontanarcene o di eluderlo, esso non ci perde di vista, perché non è nemmeno vero che si abbatte su di noi: era in noi e noi vi eravamo predestinati»19. Il dubitare non è una questione dell’intelletto ma impegna il destino del soggetto nella propria esistenza; il dubbio stesso determina la situazione dell’uomo nel mondo, caratterizzando il suo modo di vivere e la sua modalità di relazionarsi con gli altri. Infatti, «mai il vero dubbio sarà volontario; anche nella sua forma elaborata, che cos’è se non il travestimento speculativo assunto dalla nostra intolleranza all’essere? Così, quando ci afferra e ne subiamo le angosce, non c’è nulla di cui non possiamo concepire l’inesistenza»20. Quest’ultimo è una forma di esperienza capace di caratterizzare l’esistenza dell’uomo. Tale esperienza è interna alla filosofia poiché investe la questione ontologica nella sua radice più profonda. Tale chiave interpretativa, Cioran la caratterizza in questo modo: «Una piena esperienza metafisica altro non è che ininterrotto stupore, stupore trionfale»21.

3. Dall’essere al nulla Il punto di vista filosofico di Cioran prende le mosse da una critica dell’ontologia tradizionale nell’intento di destrutturare le concettualizzazioni filosofiche di natura universale per proporre, in alternativa, degli itinerari capaci di tematizzare il nulla. Ciò, in una ermeneutica che, rinunciando alle tematizzazioni ontologiche di ordine negativo, apre lo spazio ad un processo di

19. Ivi, pp. 42-43. 20. Ivi, p 43. 21. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 106.

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III. Lo scetticismo

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progressivo approfondimento che converte la consistenza del nulla nella privazione lacerante dell’annientamento e dello svuotamento. Questa via negativa si concentra sull’individualità esistenziale del soggetto che, nella sua interiorità, opera su se stesso l’itinerario di impoverimento delle proprie energie positive, fino al punto di essere rapito dalla vertigine del negativo, tradotta nell’inerzia e nell’annullamento passivo di ogni capacità reattiva. Il punto di partenza di tale processo risiede nella consapevolezza individuale della potenza di nullificazione che, nella sua prima fase, viene tematizzata all’interno dell’angoscia esistenziale, tramite la quale l’io accoglie il vissuto del limite; egli afferma che «la forza di un essere risiede nella sua incapacità di sapere fino a che punto sia solo. Ignoranza benedetta, grazie alla quale gli è possibile agitarsi, agire»22. Non è possibile ritenere che Cioran escluda dalle sue riflessioni il problema dell’essere, in quanto la vera sostanza della questione è quella di convertire la semantica metafisica dell’essere tradizionale in un riferimento esistenziale nel quale questo coincide con il reale e si ridimensiona a contatto con la contingenza del mondo. Su tale via, l’essere stesso è un enigma che lo attira e che lo pone in un atteggiamento di rifiuto. In questa prospettiva ambivalente, egli manifesta la convinzione per cui «la cosa più difficile al mondo è mettersi al diapason dell’essere, e afferrarne il tono»23. L’approdo più evidente della destrutturazione dell’essere è a favore del nulla ma, per Cioran, anche questa via risente eccessivamente delle implicazioni ontologiche, quindi egli abbandona le argomentazione della filosofia per rivolgersi preferibilmente a quelle della mistica. In questa dimensione contrapposta a quella della conoscenza, il nulla riesce a manifestare tutta la sua potenzialità semantica. Egli così si esprime: «Nulla è, questo è il loro punto di partenza, questa

22. Ivi, p. 23. 23. Ivi, p. 118.

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è l’evidenza che sono riusciti a vincere, a respingere, per giungere all’affermazione: tutto è»24. Il momento meditativo riconduce il pensatore nell’interiorità dell’uomo ed allora l’enigma dell’essere si converte nel silenzio del pensiero interrogativo di fronte ad esso, per cui Cioran contrappone il ritirarsi del pensiero nella sua negatività alla positività del concetto; si tratta di «rientrare in sé, percepire un silenzio antico quanto l’essere, anche più antico»25. Di conseguenza l’ambiguità del concetto di essere, portato al di fuori dell’universalità metafisica, porta in primo piano la relazione filosofica tra l’ontologia e l’antropologia, in un itinerario complesso, all’interno del quale Cioran asserisce che «c’è malgrado tutto nella parola essere un qualcosa di pieno, di enigmatico e di attraente, qualità estranee all’idea di uomo»26. Il depotenziamento semantico dell’essere, che impone a Cioran un progressivo ridimensionamento del suo atteggiamento nei confronti della filosofia, trova la sua sede naturale nel linguaggio, non più considerato con M. Heidegger come la casa dell’essere, ma visto piuttosto come il luogo dello svuotamento, in quanto «che esca dalla bocca di un droghiere o di un filosofo, la parola essere, così ricca, così allettante, in apparenza così carica di senso, non significa in realtà assolutamente niente. In qualsivoglia occasione, è incredibile che uno spirito sensato possa servirsene»27. L’attacco nei confronti dell’essere è senz’altro radicale nel senso che non ammette eccezioni fino al punto di condurre Cioran ad affermazioni che si collocano alle soglie del paradosso, come ad esempio questa: «L’essere, lasciato a se stesso, senza alcun pregiudizio di eleganza, è un mostro; non trova in sé altro che zone oscure in cui si aggirano, incombenti, il terrore e la negazione»28.

24. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 146. 25. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 87. 26. Ibid. 27. Ivi, p. 176. 28. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 20.

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In realtà l’essere è un concetto dal quale Cioran non riesce a liberarsi e filosoficamente per lui si traduce in un vero e proprio interrogativo non risolto e forse non risolvibile, per cui afferma: «Non ho mai potuto sapere che cosa vuol dire essere, salvo qualche volta in momenti eminentemente non filosofici»29. Il problema dell’essere è filosoficamente legato a quello della metafisica in tutto il pensiero filosofico occidentale e Cioran utilizza questo legame indiscusso e indiscutibile della tradizione, per coinvolgere nella negatività anche la metafisica, rispetto alla quale propone, come è facile constatare delle affermazioni ancora più radicali rispetto a quelle elaborate nei confronti dell’essere. Infatti, «ogni specie d’impotenza e di fallimento comporta un carattere positivo nell’ordine metafisico»30. Di conseguenza, l’affermazione viene completata ulteriormente in questi termini: «La metafisica non lascia nessuno spazio al cadavere. Né, d’altra parte, all’essere vivente. Più si diventa astratti e impersonali, a causa di concetti o pregiudizi che siano (i filosofi e gli spiriti comuni si muovono ugualmente nell’irreale), più la morte prossima, immediata, sembra inconcepibile»31. L’obiettivo delle argomentazioni cioraniane è quello di far perdere consistenza tanto all’universalità concettuale quanto alla vitalità prepotente dell’individuo. Ne consegue l’idealizzazione della scomparsa, del nascondimento e dello svuotamento di significato, il che comporta l’esaltazione delle forme espressive della futilità. Questo inconsueto itinerario filosofico si traduce in uno sviamento delle argomentazioni metafisiche rispetto alla loro natura originaria, perciò egli sostiene che «per diventare futili, dobbiamo tagliare le nostre radici, diventare metafisicamente stranieri»32. La critica dell’essere e delle sue espressioni filosofiche date dalla metafisica non si limita alla destrutturazione concettuale delle

29. ID., Squartamento, cit., p. 167. 30. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 122. 31. ID., La caduta nel tempo, cit., pp. 90-91. 32. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 104.

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ipostasi filosofiche. Cioran procede oltre, traducendo la questione in riserve di carattere esistenziale e in corollari che coinvolgono la stessa natura corporea dell’essere umano. È come dire che la filosofia cede il passo all’autobiografia e quest’ultima alle argomentazioni di ordine patologico. La cosa può essere più chiara riflettendo su questa espressione che assume la natura stilistica di una vera e propria sfida in cui la negatività prende corpo in una soluzione estetico-letteraria. Il nostro autore afferma: «Ogni metafisica incomincia con un’angoscia del corpo, che diventa in seguito universale: sicché gli inquieti per frivolezza prefigurano gli spiriti autenticamente tormentati. L’ozioso superficiale, ossessionato dallo specchio della vecchiaia è più vicino a Pascal, a Bossuet o a Chateaubriand di quanto non lo sia un dotto incurante di sé»33. Date le precedenti critiche al concetto e soprattutto al ruolo assunto in filosofia dalla metafisica, Cioran funge da anticipatore rispetto al primato linguistico emergente nella cultura odierna. Infatti, riduce la metafisica al solo linguaggio, evidenziando il senso prevalentemente retorico delle categorie ontologiche che enfatizzano i problemi proponendone un’esaltazione etica. Egli così si esprime: «Solo l’apparato verbale della metafisica – supposto che si accetti di servirsene – giunge a elevare un poco l’esistenza. Non appena la si considera senza alcuna sorta di pompa o di abbellimenti, si riduce a un misero prodigio»34.

4. Un’alternativa alla filosofia come sistema La filosofia, da un lato, perde il ruolo, nonché l’importanza alla luce in cui si è presentata nel pensiero europeo, dall’altro, trasforma le argomentazioni che non abbandonano i problemi affrontati nell’orizzonte speculativo. 33. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 188. 34. ID., Squartamento, cit., p. 172.

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Il tema del naturalismo, insieme a quello del pensiero sistematico, rimangono i punti centrali della riflessione cioraniana, che non si limita nel duplice piano metodologico e contenutistico ad abbandonare le vie di solito percorse, ma si propone di individuare, nei limiti delle possibilità esistenti, un’alternativa del filosofare. Il diverso percorso filosofico di cui abbiamo parlato è di tipo esistenziale ed investe l’orizzonte autobiografico, nel senso che le problematiche esperienze interiori dell’autore si trasformano al di là della loro immediatezza in veri e propri interrogativi filosofici capaci di porsi su un piano universale. Cioran, in un significativo slancio rivelativo, confessa: «Tutto in me ha una base fisiologica e metafisica. Ho saltato lo “psichico”»35. Di conseguenza, il metodo asistematico accompagna il disorientamento delle argomentazioni, costruendo un vero e proprio itinerario concettuale. In questa linea interpretativa, che favorisce un’inconsueta presa di coscienza filosofica, il nostro pensatore afferma paradossalmente, ma coerentemente con le sue idee: «Appartengo a coloro che, fra il sistema e il caos, propenderanno sempre per il caos»36. In questa ottica riflessiva, Cioran si propone di cercare la sua alternativa alla filosofia attraverso un ritorno all’originario. Egli intende suscitare i problemi ponendo da parte le concettualizzazioni prodotte dal pensiero nella storia della filosofia. È il pensare allo stato puro e non le immagini speculative, elaborate dal pensiero stesso, che costituisce il punto indiscutibile di una vera filosofia. Egli sostiene: «Quando mi imbatto in un saggio filosofico in cui si parla di “metafisica” o proprio di “filosofia”, lo lascio perdere subito. Voglio veder pensare, non veder indagare i metodi e le discipline che invitano a pensare […] Si dovrebbe filosofare come se la “filosofia” non esistesse, come se si fosse il primo filosofo.

35. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 142. 36. Ivi, p. 201.

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Insomma, al modo di un troglodita abbagliato o sgomento davanti allo spettacolo che si svolge sotto i suoi occhi»37. In queste circostanze, la svolta metodologica di Cioran tematizza una specie di pensiero nomade, che eredita dal cristianesimo la metafora del pellegrino, da lui completata attraverso l’ulteriore specificazione che si risolve in quella più completa, ma anche più enigmatica, del pellegrino cherubico. In quest’ultima la figura marceliana dell’homo viator è privata del suo riferimento escatologico, dando luogo così ad un’esistenza inquieta in cui l’andare si articola in un futuro senza una meta precisa. Da tale punto di vista, il nostro pensatore così caratterizza la metafora indicata: «Il pellegrino cherubino, sequela di ragionamenti irreconciliabili, di un grande splendore confusionario, non esprime che gli stati, strettamente soggettivi, del suo autore: volervi scoprire l’unità, il sistema, significa rovinare la sua forza di seduzione»38. La posizione del filosofo romeno è quella, se vogliamo anche contraddittoria, di valorizzare l’individuo esistente anche nel momento in cui ne teorizza il suo annientamento. In questa chiave interpretativa, le argomentazioni diventano asistematiche e la teorizzazione dell’assoluto, come prodotto razionalmente coerente del sistema filosofico, viene rifiutata in linea di principio: infatti «ogni assoluto – personale o astratto – è un modo di eludere i problemi; e non soltanto i problemi, ma anche la loro radice, la quale non è altro che panico dei sensi»39. La questione del sistema non riguarda una filosofia determinata ma è relativa alla natura dell’essenza ontologica del reale, per cui le conseguenze negative del pensiero sistematico acquistano una valenza di ordine storico-filosofico, così «ogni epoca si intossica con un assoluto, secondario e fastidioso, ma in apparenza unico; non si può evitare di essere contemporanei di una fede, di un sistema, di 37. Ivi, p. 642. 38. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 142. 39. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 21.

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un’ideologia, di appartenere – semplicemente – al proprio tempo. Per emanciparsene, bisognerebbe avere la freddezza di un dio del disprezzo […]»40. L’interrogazione sull’eventuale validità metodologica dell’atteggiamento sistematico, rispetto alla validità del quale Cioran evidenzia i limiti, fa trasparire lo scetticismo gnoseologico relativo all’essenza del reale. L’ironia è l’unica via di uscita capace di problematizzare la negatività come essenza filosofica sostitutiva. Pertanto, «non c’è un altro mondo. Non c’è neppure questo mondo. Che cosa c’è allora? Il sorriso interiore che suscita in noi l’inesistenza evidente dell’uno e dell’altro»41. Anche in tali circostanze Cioran esprime un atteggiamento apparentemente contraddittorio nel quale, dopo aver negato la validità delle soluzioni sistematiche, cerca di trovare la ragione interna alla coscienza capace di giustificare la presenza di queste soluzioni. In questa prospettiva egli dichiara che «tutto si può soffocare nell’uomo, salvo il bisogno di assoluto, che sopravvivrebbe alla distruzione dei templi e perfino alla scomparsa della religione sulla terra»42.

5. L’eredità filosofica Cioran, per certi aspetti, difende l’idea di una filosofia capace di evitare ogni presupposto per un singolare ritorno all’originario, per altri, evidenzia l’importanza di alcuni filosofi assunti da lui come guida e come maestri per il suo pensiero speculativo. Su tale piano, le sue scelte privilegiano dei momenti occasionali e spesso distanti nel tempo, appartenenti alla storia del pensiero occidentale. 40. Ivi, p. 186. 41. ID., Squartamento, cit., p. 139. 42. ID., Storia e utopia, cit., p. 37.

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In questo ambito, i suoi riferimenti riguardano principalmente le filosofie classiche appartenenti ad un arco storico che dall’antichità giunge fino alle soglie della filosofia contemporanea. Si tratta di tracciare degli itinerari in parte contenutistici ed in parte metodologici, capaci di fornire delle ragioni solide per i suoi riferimenti speculativi asistematici e contraddittori. Il rinvio ai pensatori non dimentica il momento esistenziale e il senso autobiografico delle considerazioni ritenute più importanti. Si tratta di illustrare degli itinerari che non rispondono al criterio preciso della documentazione storica, perciò non va dimenticato che dare spazio ai filosofi non significa ignorare i poeti ma non vuol dire neppure fornire una rassegna esauriente del substrato culturale relativo alle fonti del pensiero di Cioran. Così, è vero che «solo quelli che non parlano che di se stessi, delle proprie esperienze e delle proprie vicissitudini rischiano di imbattersi in qualche verità e di fare scoperte significative. Lavorano su ciò che conoscono, e dunque necessariamente danno qualcosa agli altri. Non è il filosofo, ma il poeta a raggiungere l’universalità»43. In realtà, spesso i filosofi, entrati ufficialmente nella storia del pensiero, si limitano a ripetere le dottrine altrui, in un contesto di riferimento in cui, in senso nietzschiano, essi sono degli epigoni e non dei creatori. Invece, il riferirsi a dei maestri non significa per Cioran condividere appieno le dottrine da loro espresse, poiché le sue riserve nei confronti della filosofia astratta, non riconducibile a ragioni di natura autobiografica, non vengono mai meno; la base delle sue argomentazioni è rappresentata da questa posizione per lui fondamentale: «Tutti parlano di teorie, di dottrine, di religioni; insomma di astrazioni; nessuno di qualcosa di vivo, di vissuto, di diretto […] Se in me non c’è niente che mi spinga a parlare del dolore o del nulla, perché perdere tempo a studiare il buddismo? Bisogna cercare tutto in se stessi, e se non si trova ciò che si cerca ebbene, si deve lasciar perdere. Quello che mi interessa è la mia vita, non le dottrine 43. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 125.

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sulla mia vita. Per quanti libri sfogli, non trovo niente di diretto, di assoluto, di insostituibile. Dappertutto è il solito vaniloquio filosofico»44. In questa direzione, i suoi riferimenti ai filosofi del passato sono frammentari, sporadici ma sempre emblematici. Egli compone dei ritratti paradossali e contraddittori con i quali confronta il suo pensiero in un dialogo molte volte aggressivo e spigoloso; ma ci sono anche dei casi in cui egli è rapito dall’ammirazione ed allora la sua filosofia stabilisce una sintonia, profonda e simpatetica, con gli autori di riferimento. Ad illustrazione della natura autobiografica del filosofare, Cioran riferisce sinteticamente la sostanza delle sue letture e dei suoi interessi, confessando: «A vent’anni leggevo i filosofi, verso la trentina sono passato ai poeti, ora leggo gli storici. E i mistici? Li ho sempre letti, ma da qualche tempo li leggo meno. Forse un giorno me ne allontanerò completamente. Quando non si è ormai più capaci di provare, non dico una trance, ma nemmeno qualcosa che le assomigli, a che pro interessarsi a quelle degli altri? Ho sfiorato, anzi sperimentato l’estasi tre o quattro volte nella vita; un’estasi sul genere di quella di Kirilov, non di quella dei credenti. Esperienze divine, comunque, poiché mi rendevano superiore a Dio»45. Le sue letture compongono un itinerario a pagine mischiate, in cui gli autori e soprattutto i loro fogli dispersi traggono ordine dalle pause meditative, dagli slanci poetici e dai rapimenti estatici nei quali Cioran incorre nelle sue interferenze tra l’ascolto e la parola, l’attenzione all’altro e la sopraffazione aggressiva di quest’ultimo con l’irruenza del pensare, nonché del poetare di cui egli è senz’altro maestro, allorché si rifugia nell’espressione breve ed incisiva. Il punto di partenza dell’analisi filosofica è dato dall’esame critico del presupposto socratico di ogni filosofare, in quanto per Cioran non è la conoscenza il fondamento della filosofia, ma il momento esistenziale del coinvolgimento autobiografico del filosofo; l’asser44. Ivi, pp. 148-149. 45. Ivi, p. 152.

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zione socratica viene così resa problematica: «“Conosci te stesso”. – Bisogna considerarlo un dovere di tutti? Certamente no. Solo in quanto non conosco me stesso posso realizzarmi e fare qualcosa. La conoscenza di sé soffoca il nostro demone. È qui che bisogna cercare la ragione profonda per cui Socrate non ha scritto nulla. Non aveva diffidato abbastanza dei lumi che aveva su se stesso, ignorava che avrebbero ristretto e persino compromesso quelle tenebre segrete di cui nessuno può fare a meno se vuole lasciare un’opera»46. La conoscenza a cui Cioran si riferisce non rientra semplicemente in quella presente nell’intellettualismo socratico, poiché è una conoscenza esistenziale che implica la sofferenza della penetrazione dell’uomo nella profondità di se stesso, della progettazione di una vita da cui il futuro dipende, in una tensione sospesa che, a chi è ripiegato sulla conoscenza di sé, apre la vertigine di una responsabilità protesa verso la consapevolezza del nulla. Da un punto di vista autobiografico, l’alternativa capace di aprire un nuovo modo di filosofare viene cercata dal nostro pensatore al di fuori della filosofia, all’interno del nichilismo etico presente nelle religiosità orientali. In queste, ed in particolare nella mistica del buddismo, è tematizzata, meglio che nella posizione di Schopenhauer, la via dell’annientamento, che approda ad un nulla, suscettibile di realizzare la vanificazione del reale nell’apparenza delle illusioni che sviano l’uomo dalla verità. Su tale linea, egli ricorda i suoi interessi e le sue esperienze culturali: «Mi sono immerso di nuovo nella filosofia indù e ricado in quell’alternarsi di acquietamento e disperazione insita in questa filosofia […] Dietro lo spiegamento di argomenti distruttori l’obiettivo morale è evidente; si annienta tutto per trovare infine la pace […] Non c’è pace se non quando si è capito che tutto è illusione; appena qualcosa si precipita nel dramma. Bisognerebbe dire appena si crede che qualcosa esista – giacché si tratta soltanto di nostre

46. Ivi, pp. 251-252.

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follie e di nostre infatuazioni, dietro alle quali non si cela niente, poiché non c’è niente oltre a loro»47. All’interno del discorso filosofico l’opzione fondamentale di Cioran si orienta a favore di un anticonformismo voluto e ricercato nelle sue scelte di ordine dottrinario. Ciò lo conduce al rifiuto non solo del sistema ma anche di un maestro unico che possa costituire la guida costante dei suoi riferimenti. Tale scelta è esplicita e risulta documentata da riflessioni di carattere autobiografico, per cui egli gioisce nel professare la sua ribellione attraverso queste parole: «La cosa che più rende aridi, sterili, è seguire una dottrina, una religione, un sistema, soprattutto per uno scrittore; a meno che, come spesso succede, non viva in contraddizione con le credenze a cui si richiama. Questa contraddizione, o meglio questa infedeltà, stimola, alimenta il suo talento, lo mantiene in uno stato di insicurezza, di disagio e di vergogna particolarmente favorevole alla produzione letteraria»48. Le considerazioni svolte ci permettono di individuare il contesto dei problemi filosofici nel quale Cioran, con le sue scelte in parte speculative e in parte letterarie intende collocarsi. In apparenza si tratta di un discorso frammentario che si articola in sentieri interrotti e considerazioni a volte contraddittorie, ma la linea unitaria non sempre esplicita è presente ed assume una caratterizzazione meditativa di tipo esistenziale, resa più suggestiva da metafore paradossali e da riflessioni ironiche.

6. I maestri Orientarsi nella filosofia di Cioran non è sempre facile anche perché, da un punto di vista accademico, si dovrebbe dire che la sua non è affatto una filosofia. Si potrebbe forse parlare di una protesta o di un compiacimento nella distruzione, ma ogni definizione 47. Ivi, pp. 542-543. 48. Ivi, p. 1010.

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del suo pensiero risulta inadeguata a comprendere le sue invettive e le sue considerazioni frammentarie. Ci troviamo nelle argomentazioni da lui prescelte al confine tra l’autobiografia e la satira, la critica aspra e l’ironia amara. In questo terreno incolto sono presenti riferimenti ad autori e prese di posizione nei confronti delle dottrine consolidate. Cioran ha i suoi maestri, seppure spesso vengono trasformati in bersagli da colpire e da demolire. È il caso di entrare in merito alla questione e di puntualizzare, per via esemplificativa, alcune relazioni, sempre difficili e scomode, che Cioran istaura con i pensatori da lui prediletti. La sua esasperata posizione critica colpisce il fondatore del metodo filosofico centrale del pensiero occidentale, vale a dire Socrate. Con lui viene messo in questione il primato della conoscenza, la funzione stessa della pretesa assunta dalla filosofia di poter liberare l’uomo attraverso la verità di una documentata immagine del reale. Per Cioran, in realtà, è l’uomo problema a se medesimo, ma il problema antropologico che costituisce la somma inquietudine investe l’esistere e non il conoscere, perciò la filosofia, con la sua pretesa di fornire verità conoscitive, apre una via di fuga che impedisce all’uomo di uscire dalle sue sofferenze consolidate dalle illusioni; «occorre diffidare della conoscenza che abbiamo di noi stessi: essa indispone e paralizza il nostro demone. In questo è da cercare la ragione per cui Socrate non ha scritto niente»49. La medesima diffidenza nei confronti del ruolo assunto dalla conoscenza è manifestata in merito a Platone, la cui dottrina, diversamente da quanto viene effettuata da F.W. Nietzsche, è attaccata non in base alla coerenza delle sue argomentazioni ma relativamente alla sua pretesa di fondare la conoscenza metafisica; infatti «perché frequentare Platone, quando un sassofono può farci intravedere altrettanto bene un altro mondo?»50. 49. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 72. 50. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 100.

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L’ostilità cioraniana nei confronti della filosofia della conoscenza si manifesta attraverso la rivalutazione della meditazione e anche della religiosità, sia pure con tutte le riserve che egli nutre nei confronti del problema di Dio. La questione di fondo è che il suo rivolgersi alla filosofia spesso si risolve nel salvare attraverso l’opera di pochi pensatori quel messaggio educativo che la cultura è comunque capace di evocare nelle situazioni storiche. A tal riguardo, è emblematico il suo riferimento a Plotino, a proposito del quale egli narra «Porfirio racconta che Plotino aveva il dono di leggere negli animi. Un giorno, al suo discepolo, stupidissimo, disse senza preamboli di non tentare di uccidersi e di intraprendere piuttosto un viaggio. Porfirio partì per la Sicilia: guarì dalla melanconia ma – commenta pieno di rimpianto – non poté assistere alla morte del maestro, sopraggiunta durante la sua assenza. Da molto tempo i filosofi non leggono più negli animi. Non è il loro mestiere, si dirà. È possibile. Ma allora non deve meravigliare che non ci interessino più granché»51. Rispetto ai filosofi dell’antichità, la svalutazione del conoscere significa per Cioran rivalutare la saggezza ed è proprio su questa linea che egli apprezza Epicuro, Epitteto e Marco Aurelio, esprimendosi con affermazioni di questo genere «tra Epicuro e Marco Aurelio, differenze sono apparenti. Entrambi mi aiutano a vivere, e io vivo in loro compagnia. Paragonato a loro, uno come Seneca è solo un chiacchierone»52. Rispetto agli autori del cristianesimo la situazione è più complessa in quanto, da un lato, in essi emerge l’attualità dei problemi affrontati e, dall’altro, sono inevitabili le riserve che Cioran manifesta nei confronti del pensiero religioso. In particolare, a Paolo egli rimprovera le commistioni culturali derivanti dall’ellenizzazione della cultura biblica con le radici ebraiche che essa comporta; fra l’altro egli rileva che «non gli rimprove51. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 42. 52. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 179.

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reremo mai abbastanza di aver fatto del cristianesimo una religione inelegante, di avervi introdotto le tradizioni più detestabili dell’Antico Testamento: l’intolleranza, la brutalità, il provincialismo. Con quale indiscrezione si immischia in cose che non lo riguardano affatto, cose di cui non capisce un’acca»53. Il problema di Cioran che si pone alle origini del cristianesimo da un punto di vista storico, riguarda il suo rimpianto nei confronti della perdita dei pregi del paganesimo, per cui, in alcune sue osservazioni giunge fino al punto di rimpiangere l’insuccesso del progetto di restaurazione religiosa, perseguito da Giuliano l’Apostata. Ciò all’interno del cristianesimo stesso, viene da lui espresso, problematizzando la questione del paganesimo in una reinterpretazione delle stesse parole di Paolo, allorché sostiene che «se noi siamo dei pagani mutilati, folgorati, crocifissi, dei pagani passati attraverso una volgarità profonda, memorabile, una volgarità di duemila anni, è a questo scacco che lo dobbiamo»54. Il pensatore cristiano al quale si riferisce spesso Cioran, anche se in modo implicito, molte volte senza nominarlo, è Agostino dalla cui filosofia egli trae vari spunti di riflessione nei confronti dei quali, almeno in questo caso, prevale il consenso rispetto al dissenso. Nei problemi affrontati in questo paragrafo, emerge l’affinità storica tra la decadenza dell’impero romano e la crisi spirituale del nostro tempo, in una situazione in cui il pensiero di Agostino è interpretato in una prospettiva dove la sincronia prevale rispetto alla diacronia, infatti «non viviamo forse in un’epoca simmetrica a quella che vide nascere La città di Dio? Difficilmente si potrebbe concepire un libro più attuale. Oggi come allora gli animi hanno bisogno di una verità semplice, di una risposta che li liberi dai propri interrogativi, di un vangelo, di una tomba»55.

53. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 160. 54. Ivi, p. 162. 55. Ivi, p. 38.

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I suoi riferimenti al medioevo documentano le riserve che egli avanza nei confronti della metafisica, che abbiamo illustrato dal punto di vista concettuale nelle pagine precedenti. La questione religiosa viene presa in considerazione con una particolare preferenza nei confronti dello gnosticismo, nonché delle eresie di carattere sociale, tendenti al ritorno, in parte utopico e in parte velleitario al cristianesimo delle origini, tenendo costante la sua attenzione nei confronti dell’autenticità della fede, professata sulla via della santità. In questa chiave problematica, la religiosità professata nel rinascimento europeo da Martin Lutero costituisce una posizione emblematica per il passaggio dalla cultura medioevale a quella moderna. A proposito di questa posizione inquietante e singolare, egli così si esprime: «In bilico tra Medioevo e Rinascimento, dilaniato da convinzioni e impulsi contraddittori, questo Rabelais dell’angoscia era più adatto di chiunque altro a rinvigorire un cristianesimo sempre più debilitato e slavato. Lui solo sapeva come fare per incupirlo. La sua devozione era nera. Persino quella di Pascal, persino quella di Kierkegaard impallidiscono a fianco della sua: il primo è troppo scrittore, il secondo troppo filosofo»56. All’interno del pensiero moderno, il nostro pensatore si allontana radicalmente dalla gnoseologia scientifica della filosofia ufficiale per rivolgersi al pensiero religioso, in una via esistenziale destinata a condurlo da B. Pascal a S. Kierkegaard. A tal proposito, relativamente al primo pensatore, egli manifesta il suo consenso con queste parole: «Non posso fare a meno di leggere i pensatori religiosi, di crogiolarmi nei loro sgomenti, di saziarmene. Assisto tutto estasiato a quelli di Pascal, e mi meraviglio nel vedere fino a che punto egli ci appartiene»57. L’elemento negativo della filosofia è per Cioran, come abbiamo visto, l’attenzione al mondo della conoscenza, ma nel passaggio dal pensiero moderno a quello contemporaneo emerge un altro ele56. Ivi, p. 167. 57. Ivi, p. 169.

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mento forse più negativo del primo: il sistema filosofico che, rafforzato dall’idea della totalità, viene ad essere il dogma della cultura filosofica ufficiale. Su questa linea, egli è nello stesso tempo con e contro Georg Wilhelm Friedrich Hegel, fino al punto di dire che «l’assoluto che evolve, quest’eresia di Hegel, è diventato il nostro dogma, la nostra tragica ortodossia, la filosofia dei nostri riflessi. Chi crede di potersi sottrarre a questo dogma, dà prova di furfanteria o di cecità»58. Di fronte all’immanentismo del pensiero unico della totalità, Cioran manifesta il suo consenso alla concezione di F.W. Nietzsche quale oppositore radicale a tale posizione dominante, trascurando i dettagli delle argomentazioni che il filosofo propone per professare la sua ammirazione alla creatività asistematica insita in tutta la sua opera dicendo che «Nietzsche è una somma di atteggiamenti, e lo si sminuisce quando si cerchi in lui una volontà d’ordine, una preoccupazione di unità. Prigioniero dei suoi umori, egli ne registrò le variazioni. Nella sua filosofia, meditazione sui suoi capricci, a torto gli eruditi vogliono rintracciare delle costanti che essa stessa rifiuta»59. Cioran interpreta F.W. Nietzsche, come del resto gli altri autori riferiti, secondo uno schema estraneo alla filosofia da lui costruita, ricavandone i meriti e i demeriti, in base ad un suo percorso personale. Su questo piano F.W. Nietzsche stesso viene apprezzato per la sua ribellione alle idee consolidate e per la sua imprevedibile originalità. D’altra parte, l’utilizzazione dei filosofi come dei paradossi con i quali confrontarsi appartiene al metodo scelto dal nostro pensatore per dare forza ad un pensiero alternativo. In questa chiave ermeneutica, F.W. Nietzsche viene così caratterizzato «il grande merito di Nietzsche è di aver saputo difendersi in tempo contro la santità. Che sarebbe stato di lui, se avesse dato

58. Ivi, p. 16. 59. Ivi, p. 141.

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libero corso alle sue tendenze naturali? – Un Pascal con, in più, tutte le follie dei santi»60. In compagnia di F.W. Nietzsche possiamo chiudere le nostre riflessioni sui percorsi storico-filosofici posti in rilievo, sia pure in modo frammentario da Cioran, senza dimenticare che questo pensatore percorre in modo implicito l’interpretazione della filosofia, ponendone i confini, come fa M. Heidegger, tra Platone e F.W. Nietzsche, con l’idea evidente che il centro dell’indagine filosofica sia rappresentata dalla metafisica, con tutti i limiti che questa comporta.

7. I frammenti speculativi del Novecento Cioran non si limita a dialogare con i maestri del passato, ma le sue considerazioni si avventurano nel pensiero contemporaneo, delle cui forme e tendenze rivela una notevole informazione. Non va dimenticato che, relativamente alla filosofia più recente, la sua anarchia speculativa cresce progressivamente, superando anche la logica del paradosso. In questa situazione culturale, proponiamo dei riferimenti titolo esemplificativo con lo scopo di chiarire non tanto i contenuti del filosofare ma soprattutto il metodo da lui prescelto. Da un punto di vista autobiografico, Cioran chiude i suoi conti con i pensatori del passato, evidenziando i limiti della filosofia e i vantaggi della mistica, ponendo in rilievo il suo modo prospettico e poliedrico di valutare il pensiero umano. Egli non solo fa interferire i registri espressivi della filosofia nella religione, del pensare logico e del pensare poetico, della riflessione speculativa e dell’analisi letteraria, ma pone in rapporto il pensatore con il santo e il maestro con il fondatore religioso. In tale contesto storico, nel quale i generi espressivi sono confusi e indistinti egli significativamente esprime il concetto relativo alle 60. ID., Lacrime e santi, cit., p. 30.

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sue preferenze di ordine filosofico, sulle quali ci siamo già soffermati nelle pagine precedenti61. In questa linea prospettica, Cioran contesta la chiusura pseudoscientifica delle scuole filosofiche che giustificano la coerenza delle loro posizioni con il rigore logico delle argomentazioni, che per lui acquistano il senso dei dogmi e il significato di manifestazioni settarie. In questa aspra critica viene travolta anche la fenomenologia, in una vicenda speculativa a proposito della quale Cioran riconosce di essere stato anch’egli vittima del fascino delle scuole filosofiche. Il nostro pensatore non può dimenticare il suo interesse per la filosofia di H. Bergson, che lo aveva portato ad elaborare la sua tesi di laurea, proprio su questo autore responsabile di un sistema speculativo capace di fondere insieme il sapere scientifico con il sapere filosofico. Egli, sconfessando il proprio passato, riconosce esplicitamente la sua ribellione nei confronti delle filosofie ufficiali grazie alla lettura di alcuni saggi sulla fenomenologia di Husserl. «È incredibile l’orgoglio di questi “filosofi” rinserrati in una terminologia di scuola. Orgoglio settario. D’altronde in questo caso si tratta proprio di una setta […] E poi tutta questa gente che parla di “antropologia filosofica” e non dell’uomo. Del resto sono passato anch’io per tutto questo, e sono stato trascinato nella stessa avventura e impostura verbale. Sono stati Pascal, Nietzsche e Šestov a tirarmene fuori. È così difficile guardare le cose in faccia, e così comodo attenersi ai problemi!»62. Il problema di H. Bergson, prima nelle sue possibilità e poi nei suoi limiti, è per Cioran quello della filosofia, in quanto la sua rinuncia al razionalismo speculativo è motivata dall’incapacità della filosofia scientifica di comprendere la tragicità della condizione umana che costituisce per lui il nucleo irrinunciabile di ogni riflessione esistenziale.

61. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 152. Passo riportato alla nota 106, p. 32. 62. Ivi, p. 229.

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Proprio a proposito di H. Bergson, egli chiarisce esplicitamente: «Il mio orientamento “filosofico” è stato segnato da questa frase di Rimmel nel suo breve saggio su Bergson, che ho letto attorno al 1931: “Bergson non ha visto il carattere tragico della vita, la quale, per conservarsi, deve distruggersi”»63. Il momento problematico, nel senso di un atteggiamento ambivalente è dato per Cioran dalle filosofie esistenziali, poiché il suo interesse è quello di salvare il momento tragico della condizione umana, ma tale salvezza, nelle filosofie dell’esistenza non è univoca, poiché da un lato abbiamo le filosofie tragiche che approdano al nichilismo e dall’altro ci sono quelle religiose che fanno coincidere la tragicità con il peccato a con la presenza del male nel mondo e nell’uomo. Tale problema a Cioran viene posto esplicitamente dal pensiero russo che lo attrae senza poterne condividere le conclusioni. Egli tematizza quest’enigma con tali affermazioni: «Come spiegare la mia antica passione per la filosofia religiosa russa? È una forma di pensiero che nei suoi contenuti non mi si addice, che non sottoscrivo, e che però mi affascina, come tutto ciò che è estremo, avventuroso, inverificabile. Bisogna anche dire che vi ho trovato considerazioni che mi hanno permesso di comprendere alcune cose; comunque non poteva lasciarmi indifferente, poiché in gran parte fa capo a Dostoevskij»64. Proprio a proposito della questione religiosa, emerge la consapevolezza del nostro pensatore rispetto all’assurdo della sua situazione speculativa che, attratta dalla tragicità, rifiuta la trascendenza e il salto nella fede. Egli potrebbe essere definito come un S. Kierkegaard senza Dio. In termini letterari più eleganti si autodefinisce: «Un miscredente che legge soltanto pensatori religiosi. Il motivo profondo è che solo

63. Ivi, p. 1046. 64. Ivi, p. 947.

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loro hanno affrontato certi abissi. I “laici” vi sono refrattari o inadatti»65. La situazione indicata impone un atteggiamento articolato nei confronti delle potenzialità semantiche delle diverse filosofie che Cioran illustra nei suoi aspetti complessi attraverso una confessione delle scelte autobiografiche relative alle sue preferenze speculative, a proposito delle quali egli così si esprime: «Da giovane amavo Nietzsche, Spengler, gli anarchici russi dell’Ottocento, amavo Lenin, potrei prolungare la lista all’infinito. – Amavo gli orgogliosi di tutte le sponde, e sono una miriade. Ma il Buddha, che amo attualmente, non è stato anche lui un grande orgoglioso? Il più grande di tutti? […] Il Buddha era dunque anche lui un conquistatore, ma un conquistatore sui generis»66. È qui evidente come vi sia un’affinità tra l’economia delle scelte filosofiche e quella delle preferenze religiose. La conclusione dell’intero itinerario si apre ad una forma di nichilismo religioso in cui il momento etico risiede nella rassegnazione passiva e nell’annientamento di ogni energia attiva perseguito con tutto l’impegno di una ascesi esistenziale.

8. Lo scetticismo metodologico Il nichilismo tragico professato da Cioran, nella sua forma asistematica che converte la filosofia in meditazione e il pensiero speculativo in letteratura, trova il suo riferimento costante, sia da un punto di vista contenutistico, sia in una scelta metodologica, in una singolare concezione di scetticismo che si colloca tra una posizione filosofica e un metodo che caratterizza il filosofare, secondo la configurazione che ne propone Immanuel Kant. Si tratta di una rielaborazione della cultura filosofica, che trae ispirazione dallo scetticismo antico, senza però ereditarne né la va65. Ibid. 66. Ivi, pp. 988-989.

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lenza speculativa né la saggezza etica. Il suo è piuttosto un anarchismo della ragione e una liberazione ludica della capacità espressiva dei simboli e delle metafore. Cioran racconta agli altri ciò che suscita negli ascoltatori stupore e disappunto, meraviglia e disapprovazione, ma di fatto egli racconta a se stesso tutte le sue ambizioni e tutte le sue insoddisfazioni, in un’analisi interiore che è nel contempo diagnostica e terapeutica nei confronti delle sofferenze esistenziali che lo sommergono e lo travolgono, ma delle quali egli si compiace essendone vittima e carnefice. Il problema dello scetticismo acquista rilievo di fronte ai massimi problemi di tipo ontologico ed etico, in merito ai quali è impossibile cercare una soluzione sul piano della conoscenza. Cioran esemplifica le questioni coinvolte col sostenere: «Non so che cosa è bene e che cosa è male; ciò che è permesso e ciò che non lo è; non posso elogiare né condannare. A questo mondo, non c’è un criterio accettabile né un principio solido. Mi stupisce che certuni si preoccupino ancora della teoria della conoscenza»67. Il senso del problema dello scetticismo non si pone in termini esclusivamente filosofici, secondo il significato tradizionale delle categorie coinvolte, ma acquista un valore che Cioran esprime nel suo modo lapidario con questa proposizione emblematica «lo scetticismo è un esercizio di de-fascinazione»68. Il senso dello scetticismo, secondo le espressioni preferite di Cioran, viene da lui assimilato alla filosofia, in cui ha avuto la sua genesi già nel pensiero antico. Ciò introduce delle questioni problematiche sul piano interpretativo poiché il termine stesso conserva nel nostro pensatore un insieme di significati diversi. Egli afferma che «il coraggio supremo della filosofia è lo scetticismo. Al di là di esso la filosofia non riconosce che il caos»69.

67. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 61. 68. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 146. 69. ID., Lacrime e santi, cit., p. 33.

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Cioran sente il bisogno di specificare il significato che intende attribuire allo scetticismo filosofico, soltanto che questo è di carattere personale e viene da lui attribuito alla filosofia scettica, professata dal pensiero antico. Egli così si esprime: «Lo scetticismo è lo stupore di fronte al vuoto dei problemi e delle cose. Solo gli antichi sono stati dei veri scettici»70. Lo scetticismo viene privato del fascino del dubbio e tratto fuori dal mondo della conoscenza, supera anche la saggezza epica per occuparsi dei vissuti psichici, propri della condizione umana. In tale direzione, Cioran individua un ruolo interiore nello scetticismo che avvicina l’essere umano al vuoto della conoscenza e dell’azione; infatti, «nei tormenti dell’intelletto c’è una dignità che si cercherebbe invano in quelli del cuore. Lo scetticismo è l’eleganza dell’ansia»71. Su un piano autobiografico, Cioran si accorge che lo scetticismo non è una soluzione teoretica, ma piuttosto l’unico approdo dopo il titanismo della ribellione condotto ai limiti dell’assurdo. Egli perciò esprime tutta la potenza dell’esaurimento delle sue possibilità attraverso questa manifestazione-limite di un pensiero che non ha più ulteriori vie da percorrere «dopo che il mio dogmatismo se n’è andato in bestemmie, che altro posso fare se non essere scettico»72. La positività dello scetticismo, come atteggiamento esistenziale, rivela la sua presenza anche nell’ambito della storia umana e Cioran lo trasforma in un movente intrinseco della filosofia della storia; ciò fino al punto da attribuirgli il valore di una molla propulsiva per lo sviluppo delle vicende umane. Infatti, «lo scetticismo è l’eccitante delle civiltà giovani e il pudore di quelle vecchie»73. Lo scetticismo si radica nell’essere umano fino a costituire l’essenza più profonda di tutti gli atteggiamenti teorici e pratici che

70. Ivi, p. 34. 71. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 25. 72. Ivi, p. 69. 73. Ivi, p. 106.

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caratterizzano le nostre relazioni con il reale nelle sue diverse espressioni. Perciò, dopo che si è compiuta la scelta a favore di tale concezione, questo non viene più messo in discussione e costituisce per Cioran una costante di riferimento per ogni comportamento dell’uomo. Egli così dichiara: «La prerogativa dello scetticismo è che, quando lo si è conosciuto, non si può più distaccarsene, e che, qualsiasi sforzo si faccia, vi si ricade immancabilmente. È una malattia ciclica»74. In tutta la produzione filosofico-letteraria del nostro pensatore, lo scetticismo emerge come un antidoto alla religiosità e spesso con affermazioni paradossali, anche al misticismo. Ciò comporta una rivisitazione etico-esistenziale dello scetticismo stesso che si distacca dalla funzione etica che questa dottrina assume nell’antichità classica, nella quale questa condizione spirituale fa parte della saggezza e indica il tentativo più compiuto della filosofia per la conquista umana di una felicità terrena.

9. Lo scettico L’interpretazione dello scetticismo, alla quale ci siamo riferiti, evidenzia l’esigenza di costruire una figura soggettiva del filosofo con un adeguato profilo esistenziale, sostenuto tanto da motivazioni autobiografiche quanto da ragioni etico-speculative. Si tratta di dare spazio allo scettico come espressione umana piuttosto che allo scetticismo come dottrina. I motivi di questa svolta argomentativa dipendono sostanzialmente dalla libertà antidogmatica che Cioran rivendica per l’uomo nelle condizioni storiche che lo limitano nel tempo e nelle relazioni sociali, interpretate secondo le categorie della cultura ufficiale.

74. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 163.

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Perciò, l’immagine dello scettico rappresenta l’obiettivo di un programma filosofico di liberazione dell’uomo, rivendicato con la ribellione nel quadro di una libertà senza limiti. Potremmo anche dire che questa costituisce la lettura cioraniana delle filosofie dell’assurdo, proposta all’interno delle filosofie dell’esistenza. Il punto di partenza filosofico e nello stesso tempo autobiografico è dato da uno scetticismo che, in linea di principio, si contrappone alle argomentazioni ontologiche. Cioran sostiene: «Ho in me un fondo di scetticismo su cui nulla ha presa, e che resiste all’assalto di tutte le mie convinzioni, di tutte le mie velleità metafisiche»75. L’approdo allo scetticismo è reso più solido in base alla situazione del dubbio che però non risponde ad esigenze puramente intellettuali sul piano della conoscenza, ma indica una delle tante espressioni dell’inquietudine esistenziale. Cioran lo caratterizza in questi termini: «Dubitare delle cose non è niente; ma nutrire dubbi su se stessi, questo sì che si chiama soffrire. È soltanto allora che, attraverso lo scetticismo, si raggiunge la vertigine. Tutto fila liscio quando è in questione l’io; non è così quando si tratta di noi, del nostro io. Allora il dubbio raggiunge dimensioni fatali, morbose, e può diventare intollerabile»76. Lo scettico, per Cioran, assume la qualità di un atteggiamento che chiarifica l’esistenza in una problematizzazione che rivela la lucidità di una ragione senza maschere e senza illusioni; per cui egli ribadisce che «lo scettico è l’uomo meno misterioso che ci sia, eppure, da un certo momento in poi, non è più di questo mondo»77. Il legame inconsueto e di conseguenza il dissenso della stessa natura tra scetticismo e misticismo risiedono in Cioran in un terreno autobiografico nel quale egli manifesta, attraverso la via della confessione interiore, la propria situazione spirituale, che, nell’estrema 75. Ivi, p. 27. 76. Ivi, p. 67. 77. Ivi, p. 89.

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inquietudine che la caratterizza viene illustrata con tali espressioni narrative: «In me lo scettico reprime sempre di più il mistico (ammesso che io possa applicare a me questa parola). I miei dubbi sono delle realtà, mentre in fatto di preghiera io sono meno che un velleitario. Sono scettico per fisiologia, per eredità, per abitudine, per inclinazione, e anche per gusto filosofico; accedo a tutto il resto, all’assoluto e a ciò che vi è legato, solo grazie a certe incrinature della mia indole, o a eclissi improvvise della mia corrosiva chiaroveggenza»78. Nella scoperta della sua nuova condizione esistenziale, caratterizzata da uno scetticismo animato dal tripudio del dubbio, Cioran si esalta nel descrivere la propria condizione autobiografica nella quale l’introiezione del dubitare rappresenta la ragione e l’effetto di un’ansia esistenziale senza limiti. Egli, in termini quasi psico-patologici, descrive la sua follia del dubbio in questi termini: «Mi ci vuole ogni giorno la mia razione di dubbio. Me ne nutro, letteralmente. Non c’è mai stato uno scetticismo più organico. Eppure tutte le mie reazioni sono tipiche di un isterico. Datemi dubbi e ancora dubbi. Più che il mio cibo, sono la mia droga. Non posso farne a meno. Ne sono intossicato a vita. Perciò, quando ne trovo uno, uno qualsiasi, mi ci avvento sopra, lo divoro, lo incorporo nella mia sostanza. Perché la mia capacità di assimilare i dubbi è sconfinata; li digerisco tutti, sono ciò che mi tiene in vita e la mia ragione d’essere. Non riesco a immaginarmi senza di loro. Datemi dubbi, ancora e sempre dubbi»79. Il dubbio, che è poi la radice dello scetticismo, si pone in Cioran nel confine precario che separa l’esistenza vissuta dalla filosofia professata. In questa difficile via, il dubbio scettico acquista nella sua consapevolezza autobiografica il significato problematico di un intervento catartico e insieme di una strategia terapeutica.

78. Ivi, p. 126. 79. Ivi, p. 420.

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Egli riconosce: «Mi sono imposto una filosofia scettica per poter contrastare la mia natura infelice, i miei sgomenti, le mie reazioni umorali. In ogni momento ho bisogno di dominarmi, di frenare i miei impulsi, di combattere le indignazioni, alle quali non credo, anche se mi montano dal sangue o non so da dove. Lo scetticismo è un calmante, il più sicuro che abbia trovato. Vi ricorro in ogni occasione; se non lo avessi, esploderei nel senso proprio del termine»80. Il singolare legame tra dubbio e scetticismo rivela tutto il suo carattere problematico nel momento in cui, come in Cioran, viene superato in modo pressoché completo l’orizzonte della conoscenza. In tal caso, questo legame aumenta la sua efficacia per interpretare il mondo oscuro ed inquieto delle sofferenze esistenziali dell’uomo. Cioran riconosce che «poiché il dubbio si rivela incompatibile con la vita, lo scettico coerente, ostinato, questo morto-vivente, termina la sua carriera con una disfatta che non ha equivalenti in nessun’altra avventura intellettuale»81. L’itinerario che dal dubbio conduce allo scetticismo costruisce la prigionia del pensiero, trasformando la questione del negativo in sofferenza esistenziale dalla quale il soggetto non riesce a liberarsi neppure attraverso la tematizzazione del nulla. In tale situazione Cioran prende coscienza della virulenza della malattia scettica attraverso queste considerazioni: «A che serve aver accumulato dubbio su dubbio, rifiuto su rifiuto, per poi approdare a un genere speciale di servitù e di malessere? La chiaroveggenza di cui egli si gloria è il suo stesso nemico: essa non lo desta al non essere, non gliene fa prendere coscienza se non per inchiodarvelo. Ed egli non potrà più liberarsene, ne sarà soggiogato, prigioniero alle soglie stesse della sua emancipazione, incatenato per sempre all’irrealtà»82.

80. Ivi, p. 430. 81. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 47. 82. Ivi, p. 62.

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III. Lo scetticismo

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Lo scetticismo assume, da un punto di vista filosofico, un carattere metaproblematico, poiché si pone al di là della gnoseologia, assumendo di questa soltanto la forma esteriore come apparenza. Cioran ne vede una forma di approssimazione all’annientamento realizzato nella via della passività. Così egli afferma che «la conoscenza non è possibile, e anche se lo fosse non risolverebbe niente. Questa è la posizione di chi dubita. Che cosa vuole, che cosa cerca? Né lui né nessuno lo saprà mai. Lo scetticismo è l’ebbrezza dell’impasse»83. La conclusione di Cioran, relativamente alla questione dello scetticismo, si pone nel difficile tentativo di trovare un equilibrio impossibile all’interno di una serie di affermazioni contraddittorie, attraverso le quali lo scetticismo stesso viene esaltato e condannato, ammirato e rifiutato. Ciò accade in un insieme di riflessioni che oscillano tra il mondo della conoscenza e quello dell’esistenza in cui tale concetto realizza il sogno della sterilità passiva ma nello stesso tempo l’inquietudine di una sofferenza senza limiti. Egli sostiene: «Sono uno scettico, sono un flagellante? – Non lo saprò mai, ed è tanto meglio»84.

10. Per un nichilismo problematico Il negativo affascina Cioran come un baratro nel quale auspica di inabissarsi, egli non si propone di fornirne un’immagine ontologica né di giustificarne la presenza per via argomentativa. Si tratta di un problema la cui presenza si impone senza bisogno di alcuna tematizzazione di ordine filosofico. L’unico tentativo per darne una configurazione è quello etico dell’annientamento nella passività sterile insieme all’altro, costituito dall’esaltazione mistica della vertigine della lucidità. 83. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 105. 84. ID., Squartamento, cit., p. 169.

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In questo orientamento, il nichilismo come filosofia, al quale è stato assimilato il nostro pensatore, viene ad essere di fatto un problema aperto, per il quale Cioran ha impegnato tutta la sua esistenza, indicandolo con vari nomi, quali: ateismo, scetticismo, antifilosofia, nullificazione, svuotamento, fino al punto di dare corpo ad una vera e propria irrazionale caduta dal tempo. La questione quasi speculativa che stiamo affrontando ha indubbiamente il suo aggancio esistenziale nel mondo autobiografico dell’autore, infatti egli dichiara: «Quali che siano le mie recriminazioni, le mie violenze, le mie amarezze, derivano tutte da una scontentezza di me stesso che nessuno quaggiù potrà mai provare. Orrore di sé, orrore del mondo»85. L’aspetto speculativo della questione esistenziale riferita conduce ad un approdo nichilista, per lo meno come luogo provvisorio del pensare, infatti «tutto è apparenza – ma apparenza di che cosa? Del niente»86. In questa condizione mentale Cioran è vicino all’apatia dei filosofi appartenenti al mondo classico, anche se egli non giunge a tale stato con la saggezza, in quanto la sua è una via esistenziale e ribelle. In questa prospettiva è portato ad affermare: «Sopprimere tutti i desideri! – questa è la mia intenzione, il mio desiderio assoluto!»87. I. Kant, riferendosi a David Hume, riconosce che il suo empirismo ha il merito di svegliarlo dal sonno dogmatico. Cioran, rispetto alla sua proposta di una filosofia negativa, riconosce un’analoga funzione alla sua opera poiché dice: «Il mio compito è quello di strappare la gente al suo sonno di sempre, pur sapendo che commetto un crimine, e che sarebbe mille volte meglio lasciarla dormire, visto che, se pure si svegliasse, non avrei niente da proporle»88.

85. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 23. 86. Ivi, p. 27. 87. Ivi, p. 89. 88. Ivi, p. 753.

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III. Lo scetticismo

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La negatività è una condizione universale costitutiva dell’essenza conoscitiva di ogni essere umano, per cui è tanto connaturata alla radice ontologica del reale da finire per trasformare l’essere in apparenza e la conoscenza in illusione. Cioran costata: «Siamo tutti insensati, prendiamo per reale ciò che non lo è. Il vivo, in quanto tale, è un demente e per di più cieco: inadatto a discernere il lato illusorio delle cose, scorge dovunque il solido, il pieno. Non appena, per miracolo, ci veda chiaro, si apre alla vacuità e vi prospera. Più ricca della realtà ch’essa sostituisce, tiene luogo di tutto senza il tutto, è fondamento e assenza, variante abissale dell’essere»89. La negatività non è un approdo della riflessione ma un elemento dirompente interno alle situazione dell’esistenza umana, per cui si evidenziano degli itinerari nei quali lo stato latente esplode provocando degli effetti abnormi; così siamo di fronte ad un dinamismo negativo che è in contraddizione con l’ideale passivo che sembra animare tutta la meditazione etica preferita da Cioran. Come abbiamo già constatato, il caso in esame non è l’unico nel quale trionfa la contraddittorietà. Cioran conclude quanto segue: «Concepire un pensiero, un solo e unico pensiero – ma che mandasse in frantumi l’universo»90. In questa chiave problematica, la negatività si associa semanticamente alla potenza della negazione che entusiasma Cioran permettendogli di superare l’aspetto formale della contraddizione logica. Il suo pensiero enfatizza il concetto in questione con queste parole: «La negazione, in confronto, è un programma, può occupare, può persino riempire l’esistenza più esigente, senza contare che è bello negare, soprattutto quando ne è vittima Dio: la negazione non è vacuità, è pienezza, una pienezza inquieta e aggressiva»91. La negazione per Cioran non è una conquista – essa è piuttosto una gabbia che cattura l’uomo senza permettergli di uscirne, lo af89. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 92. 90. Ivi, p. 121. 91. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 56.

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fascina ma gli impedisce di procedere oltre; infatti «negare: niente di meglio per emancipare lo spirito. Ma la negazione è feconda solo finché ci adoperiamo a conquistarla e a farla nostra; una volta acquisita ci imprigiona: una catena come un’altra»92. L’orizzonte dell’annullamento non è universale, infatti «non c’è negatore che non sia assetato di un qualche catastrofico sì»93. La negazione è un processo di unificazione che si configura attraverso una forma di nichilismo progressivo e dinamico. Si tratta di un’approssimazione crescente al nulla senza poterne aggiungere l’essenza ontologica. È una tensione filosofica capace di porre il pensare in un’antitesi completa e coerente rispetto alla filosofia consolidata. Cioran, rispetto a questo itinerario giunge a tale conclusione: «Se non rinnego le mie origini è perché, in definitiva è meglio non essere niente di niente che una parvenza di qualcosa»94. La nullificazione, sul piano dell’interiorità, conduce allo svuotamento in un itinerario esistenziale in cui il negativo, sia pure tematizzato attraverso la consapevolezza, apre la via ad una sofferenza che non può essere elusa, anche se rappresenta l’unica prospettiva di approfondimento dell’indagine. Su questa via Cioran non esita ad esclamare «più ci apriamo alla vacuità, più ce ne impregniamo, più ci sottraiamo alla fatalità di essere sé, di essere uomo, di essere vivo. Se tutto è vuoto, questa triplice fatalità sarà anch’essa vuoto»95. Nell’orizzonte del nulla Cioran abbandona la via ontologica a favore di quella etica. Il suo giudizio, a favore del non essere piuttosto che dell’essere, risente della negatività che caratterizza il nostro rapporto con il reale, poiché «tutto considerato, il meglio è che niente sia. Se qualcosa fosse, vivremmo nell’apprensione di non po-

92. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 199. 93. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 110. 94. Ivi, p. 151. 95. ID., Il funesto demiurgo, cit., pp. 62-63.

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tercene impossessare. Poiché niente è, tutti gli attimi sono perfetti e nulli, ed è indifferente il goderne o no»96. Il fascino del nulla si trasforma nell’esaltazione per il vuoto, anche se quest’ultimo è legato alla catastrofe e non all’inerzia del vegetale tanto esaltata da Cioran nell’intento, molto vicino alla filosofia di Arthur Schopenhauer, relativo alla soppressione dell’ansia dipendente dalla esaltazione della volontà di vivere di cui si serve la natura per garantire la sopravvivenza della specie. In tale contesto egli propone queste considerazioni: «Il vuoto – io senza io – è la liquidazione dell’avventura dell’“ego”, è l’esser senza alcuna traccia d’essere, inghiottimento beato, disastro incomparabile»97. Nonostante l’affermazione precedente, il nostro pensatore caratterizza con il vuoto l’essenza del negativo, stabilendo uno stretto legame con il fallimento, il che colloca le sue riflessioni in un ambito dinamico che utilizza positivamente l’involuzione, fino al punto di derivarne l’idea di svuotamento in un radicale superamento del momento statico proprio di ogni ontologia. Questa complicata situazione è così descritta: «Il vuoto è il solo che si adoperi a convertire il negativo in positivo, l’irreparabile in possibile. Che non vi sia un sé, questo lo sappiamo, però è un sapere gravato di riserve. Per fortuna c’è il vuoto, e quando il sé si annienta esso lo sostituisce, sostituisce tutto, soddisfa le nostre attese, ci dona la certezza della nostra non-realtà. Il vuoto è l’abisso senza vertigine»98. La situazione conflittuale, propria del rapporto di Cioran con la filosofia si riconferma pienamente anche in merito alla questione del nulla. Questo concetto, da un lato, rappresenta la povertà del filosofare e, dall’altro, non risolve la questione del negativo poiché costituisce soltanto un’inversione del problema dell’essere. 96. Ivi, p. 91. 97. Ivi, p. 100. 98. Ivi, p. 104.

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In questo contesto emerge un’istanza di nientificazione che non è soddisfatta dagli approdi filosofici di tipo teoretico. Egli costata che «siamo così in basso, e così impegolati nelle nostre filosofie, da non poter concepire altro che il nulla, sordida versione del vuoto. Vi abbiamo proiettato tutte le nostre incertezze, tutti i nostri terrori e le nostre miserie, infatti, che cos’è in definitiva il nulla, se non un complemento astratto dell’inferno, un’esibizione di reprobi, il massimo sforzo verso la lucidità che alcuni esseri inadatti alla liberazione possano produrre?»99. La problematica del negativo nella filosofia di Cioran non si appaga delle due soluzioni contrapposte, date dalla metafisica o dalla filosofia dell’esistenza. Egli, in un’esasperata valorizzazione dei vissuti autobiografici, pone costantemente al centro delle riflessioni i vissuti che traggono origine dalla sua esperienza personale. In questa chiave di lettura, sono i vissuti del nulla e del vuoto che danno corpo alla negatività, pertanto «anche se fosse un inganno, l’esperienza del vuoto meriterebbe sempre di essere fatta. Ciò che essa propone, ciò che tenta, è ridurre a niente la morte e la vita, al solo scopo di rendercele tollerabili»100. Il nulla, recuperato attraverso l’esperienza del vuoto, accompagna costantemente la presa di coscienza esistenziale del reale cui danno luogo le riflessioni di Cioran. Egli procede in un itinerario progressivo all’interno del quale le acquisizioni del negativo costituiscono le tessere di un mosaico complessivo che cresce nel tempo della storia personale del suo pensiero, dal momento che «colui che è passato per il Vuoto vedrà in ogni sensazione dolorosa un aiuto provvidenziale, e il suo maggior timore sarà di divorarla, di esaurirla troppo in fretta e di ricadere nello stato di spossessamento e di assenza da cui essa lo aveva fatto uscire»101. 99. Ivi, p. 106. 100. Ivi, p. 114. 101. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 84.

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Cioran valorizza due prospettive, quella della distruzione e quella dello scontro, avendo cura di allontanare ogni tentazione positiva di costruzioni speculative o interpretative del reale. Il vuoto perciò rientra in questa logica esistenziale che del resto costituisce la svolta metodologica del suo pensiero: «Il Vuoto, vicolo cieco infinito, aspira a fissarsi dei confini, e proprio per avidità di un limite si getta sul primo dolore che capita, su ogni sensazione suscettibile di strapparlo alle angosce dell’indefinito»102. I riferimenti frammentari e spesso anche giustapposti che Cioran compie argomentando il negativo, coordinano concetti quali il nulla, il non essere, il vuoto non riuscendo ad elaborare un nichilismo sistematico anche se la sua filosofia viene di solito ritenuta come nichilista. In questa chiave problematica, il nichilismo appare come un tentativo di percorrere la via del negativo, ma è molto lontano da costituire l’elaborazione dei vari aspetti di un progetto formulato a priori; infatti «con un po’ più di fervore nel nichilismo, mi sarebbe possibile – negando tutto – scuotere i miei dubbi e trionfarne. Ma della negazione ho soltanto il gusto, non ne ho la grazia»103. Dato quanto premesso, l’approdo nichilista di Cioran, sia pure con tutti i problemi che comporta non può rinunciare a rilevare la positività filosofica insita nell’istanza del nulla. Egli si lascia sfuggire questa affermazione, dotata di un evidente sapore ontologico: «Tutto è nulla, anche la coscienza del nulla»104. In questo caso il nulla non si contrappone nella medesima via all’essere ma costituisce una tensione verso una conquista, sia pure formulabile per viam negationis. Egli si avvia in un itinerario dove la conquista e la rinuncia si compongono in un singolare connubio, dicendo che «si è appagati soltanto quando non si aspira a nulla, e ci si impregna di quel nulla fino a diventarne ebbri»105.

102. Ivi, p. 85. 103. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., pp. 34-35. 104. ID., Squartamento, cit., p. 147. 105. Ivi, p. 167.

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Capitolo quarto

I problemi esistenziali

1. Le forme della sofferenza L’approccio esistenziale della filosofia di Cioran valorizza la sofferenza quale chiave di accesso della negatività nelle vicende della condizione umana. Le sue articolazioni prendono forma nei vari tipi di sofferenza che, in base ai vissuti emergenti, acquistano delle caratteristiche qualitative, tali da rendere impossibile ricondurre il soffrire nella dialettica quantitativa, dove le variazioni si stabiliscono in base all’intensità caratterizzante i diversi passaggi dal piacere al dolore. La mappa delle forme di sofferenza si innesta in una filosofia che rivisita la saggezza del pensiero antico per allontanare il dolore ponendo tra parentesi le attività che lo producono in base alla dialettica dei bisogni e dei desideri. Ciò comporta la valorizzazione dell’inattività e della soppressione di ogni impulso al possesso e alla conquista. Siamo nelle condizioni di negare la vita nel suo slancio costruttivo e di ricondurre alle illusioni tutte quelle prospettive che l’uomo vive come componenti positive di una felicità mondana. Sono negative tutte le conseguenze dell’attività creativa, del desiderio di fama e di successo, dell’ambizione alla superiorità e alla conquista. Cioran compie il tentativo di porsi contro corrente rispetto alle idee consolidate nell’intento di costruire un’ascesi laica, la cui virtù

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Sentinella del nulla

coincide con la soppressione dell’umano in tutte le sue forme di superiorità, tanto vitali quanto spirituali. L’ancoraggio esistenziale non può escludere il riferimento egocentrico delle riflessioni, in quanto l’io finisce per rappresentare, in questa filosofia, il simbolo e il paradigma delle sofferenze del mondo. Cioran così dice: «Ho l’impressione di essere il solo a soffrire e di essere il solo ad averne il diritto, ho l’impressione di avere concentrata in me tutta la sofferenza del mondo, e questo benché mi renda conto che esistono sofferenze ancora più atroci, che si può morire perdendo brandelli di carne, sbriciolandosi sotto i propri occhi fino a diventare un’illusione»1. La sofferenza, in queste analisi filosofiche, non è una realtà nella quale il pensatore è coinvolto come per un incidente, ma connota il pensare nella sua profondità semantica, per cui il soffrire sostituisce il conoscere nella formulazione di un’immagine del reale. Si tratta di una significativa svolta metodologica di tutto il pensare e Cioran ne è perfettamente consapevole in quanto dichiara esplicitamente che «sono le nostre sofferenze a dare un certo peso ai nostri pensieri, a impedir loro di turbinare come trottole; sono esse, anche, a farci proclamare che non c’è realtà, in nessun posto, e che anch’esse ne sono esenti»2. La sofferenza costituisce, come per altri filosofi, la follia o la malattia, una via privilegiata per cogliere il senso profondo dell’esistenza. Cioran valorizza l’attimo come evento proprio in base a questo vissuto negativo, infatti «la sofferenza vi fa vivere il tempo minuziosamente, un attimo dopo l’altro. Vale a dire, se per voi esso esiste! Sugli altri, su quelli che non soffrono, scivola; è anche vero che non vivono nel tempo, anzi non vi sono mai vissuti»3.

1. E.M. CIORAN, Al culmine della disperazione, cit., p. 65. 2. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 91. 3. Ivi, p. 119.

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IV. I problemi esistenziali

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La sofferenza rappresenta una situazione rivelativa che permette di rompere il velo delle illusioni per accedere alla radice dell’essere in tutta la sua irrazionalità. Si tratta di un’ontologia negativa fondata sull’esistenza e dotata di un carattere universale che supera radicalmente la tentazione solipsistica del dolore. In questa chiave ermeneutica, Cioran così si esprime: «Soffrire significa essere totalmente sé, significa accedere a uno stato di non coincidenza con il mondo, giacché la sofferenza è generatrice di intervalli; e quando ci attanaglia, non ci identifichiamo più con nulla, nemmeno con essa; è allora che, doppiamente coscienti, noi vegliamo sulle nostre veglie»4. La via metodologica indicata riformula il cogito in una chiave esistenziale che pone l’accento esclusivamente sulla sofferenza. Cioran trasforma il cliché filosofico del pensiero moderno nella svolta che caratterizza la sua posizione intellettuale, affermando che: «Soffrire: il solo modo d’acquistare la sensazione d’esistere; esistere: l’unica maniera di salvaguardare la nostra perdizione. Così sarà fintanto che una cura di eternità non ci avrà disintossicati dal divenire, finché non saremo prossimi a quello stato in cui, secondo un buddista cinese, “l’istante vale diecimila anni”»5. La sofferenza sostituisce sul piano esistenziale la potenzialità del cogito sul piano conoscitivo, ma la sua positività non è per Cioran di tipo etico poiché il suo vantaggio è ancora sul piano della conoscenza; essa infatti realizza una situazione rivelativa rispetto all’assurda radice dell’essere. Infatti «la sofferenza apre gli occhi, aiuta a vedere cose che non si sarebbero percepite altrimenti. Quindi non è utile che alla conoscenza, e, all’infuori di essa, serve solo ad avvelenare l’esistenza. Il che, sia detto di sfuggita, favorisce ancora la conoscenza. “Ha sofferto, dunque ha capito”. È tutto quello che si può dire di una vittima della malattia, dell’ingiustizia, o di qualunque altra varietà di sventura. La sofferenza non migliora nessuno 4. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 84. 5. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 25.

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(tranne coloro che erano già buoni), e viene dimenticata come viene dimenticata ogni cosa»6. Il nostro pensatore non considera la sofferenza come l’asse portante della sua concezione dell’uomo e del mondo, poiché si rende conto della pluralità dei significati etici che l’accompagnano, nonché della relatività storica dei significati che questa assume nelle diverse filosofie; pertanto «si è sempre sofferto, ma la sofferenza è stata “sublime”, o “giusta”, o “assurda”, a seconda delle concezioni globali alimentate dalla filosofia dell’epoca. L’infelicità costituisce la trama di tutto ciò che respira; ma le sue modalità si sono evolute, hanno formato quella successione di apparenze irriducibili che induce ognuno a credere di essere il primo a soffrire così»7. Da un punto di vista autobiografico, la sofferenza costituisce per Cioran una situazione prospettica, costruita dal suo pessimismo come una specie di trascendentale dell’esistere, suscettibile di permeare tutto il reale nelle immagini che egli se ne forma. Perciò può dire: «Ho una capacità illimitata di convertire ogni cosa in sofferenza, o meglio di aggravare tutte le mie sofferenze. Procreazione dei dolori»8. Cioran si apre al significato arcano del reale attraverso la propria posizione esistenzialmente scomoda nel mondo e nel tempo. Egli si trova a vivere nella sofferenza ma, attraverso il suo pessimismo idealizza senza poterla raggiungere una condizione migliore. Questa è la prospettiva all’interno della quale tematizza il suo esilio metafisico, che rappresenta una situazione unica e diversa per superare le illusioni della conoscenza e dell’etica, che impediscono agli altri uomini di entrare nel principio originario dell’ontologia del mondo. In questa prospettiva egli afferma: «Quante ore ho passato a pensare alle lacrime che non ho versato, che non sono riuscito a 6. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 157. 7. ID., Sommario di decomposizione, cit., pp. 33-34. 8. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 39.

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IV. I problemi esistenziali

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versare! Per tutta la vita sono vissuto con la consapevolezza di essere stato spodestato dal mio vero posto; se l’espressione “esilio metafisico” non avesse alcun significato, la mia esistenza gliene darebbe uno. Nessuno è più estraneo di me a questo mondo – perciò ho tanto pensato alle lacrime. Potrei scrivere un intero libro sull’argomento; e uno in effetti l’ho scritto, in romeno. Sentire piangere la propria carne, sentire nel proprio sangue scorrere lacrime: è in preda a queste sensazioni che si può capire Plotino quando dice che l’esistenza quaggiù è “l’anima che ha perduto le ali”»9.

2. L’angoscia e la disperazione Il primato dell’esistenza è, nelle filosofie esistenziali, sostenuto dall’angoscia quale condizione metafisica della finitezza per cui, in termini negativi, l’angoscia stessa rappresenta il trascendentale fondamentale dell’essere al mondo, vissuto dall’uomo. Rispetto a tutto ciò, Cioran eredita la semantica di questo concetto dalle filosofie esistenziali che a partire da S. Kierkegaard giungono fino alla Kierkegaard e Nietzsche Renaissance. Egli, rispetto a questo punto di partenza, compie il superamento della condizione di erede a favore della situazione che lo trasforma in un innovatore originale, inquadrando la sua concezione nell’alternativa filosofica di ordine esistenziale che privilegia la ribellione e l’assurdo. L’angoscia viene presa in considerazione nelle ricerca di una sua positività, capace di aprire ciò che è destinato a rimanere nascosto; si tratta di trovare le ragioni di una rivelazione singolare ed esclusiva. A tal proposito, Cioran pone in luce che «c’è un’angoscia infusa che funge in noi da scienza e da intuizione al tempo stesso»10.

9. Ivi, p. 377. 10. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 30.

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Di fronte all’angoscia alla quale si rivolge la filosofia, sia pure nell’orizzonte delle ontologie esistenziali, Cioran con una sottile ironia che gli è propria manifesta tutte le riserve che egli propone nei confronti delle soluzioni metafisiche. Egli ritiene che «l’angoscia metafisica appartiene alla condizione di un artigiano sommamente scrupoloso il cui unico oggetto sia l’essere. A forza di analisi, egli si trova nell’impossibilità di comporre, di perfezionare una miniatura dell’universo»11. Rispetto all’indeterminazione che caratterizza l’angoscia, la disperazione si qualifica come un esistenziale negativo, dotato di caratteristiche proprie e definito in un ambito specifico del tutto particolare. In tale situazione, mentre per S. Kierkegaard la disperazione rappresenta il momento dialettico negativo, capace di aumentare la tensione dell’esistenza, fino a costringere il singolo al salto dialettico allo stadio successivo (si pensi al passaggio da quello estetico a quello etico), Cioran trova nella disperazione l’espressione di una negatività rivelativa, suscettibile di aprire al soggetto un orizzonte altrimenti nascosto. La disperazione cresce di intensità fino a raggiungere, attraverso il suo culmine, l’appagamento del desiderio sperato, sia pure con una grande intensità di sofferenza. La disperazione, in linea di principio, ha molto in comune con l’angoscia, per cui viene tematizzata anche da Cioran innanzitutto nel suo carattere indeterminato, destinato poi ad un superamento verso la specificità. In questo itinerario esistenziale, egli, da un punto di vista autobiografico, pone in rilievo il suo carattere centrale all’interno dei vissuti del negativo con queste parole: «Non ho né il sentimento del passato né quello del futuro, e quanto al presente, mi sembra un veleno. Non so se sono disperato, perché la mancanza di ogni speranza può essere anche altro che la disperazione»12. 11. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 107. 12. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 61.

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IV. I problemi esistenziali

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La disperazione è, anche per Cioran, una compagna scomoda che non apre orizzonti sereni ma problematizza il negativo, in una situazione interrogativa che evoca il rischio e il pericolo della caduta, anche se poi questa condizione precaria è capace di condurre ad una rivelazione più profonda. La negatività della disperazione assume un carattere dinamico, sebbene il filosofo romeno avanzi un riferimento implicito ad una forma di negatività diversa, senza speranza. Pensiamo, ad esempio, alla sua esaltazione della condizione dello sterile o del vegetale, in cui siamo vicini alla situazione kafkiana della metamorfosi dell’uomo trasformato in insetto. Da un punto di vista metodologico, il vissuto della disperazione, è evocato dal nostro pensatore, in modo da suscitare un nuovo stupore filosofico, a proposito del quale egli dichiara: «Vivere al culmine della disperazione significa raggiungere gli abissi più spaventosi. Non esistono che culmini abissali, giacché in ogni momento si può precipitare. E soltanto in queste cadute si raggiungono i culmini»13. La disperazione nella prospettiva indicata rientra, per il pensatore romeno nel consueto ambito delle sfide paradossali che pongono in dubbio il realismo del buon senso quotidiano. Egli prende l’avvio dalla ribellione camusiana per trasformare un atteggiamento esistenziale di carattere universale in un comportamento inconsueto ed anticonformista, specifico e del tutto particolare. La disperazione rientra in questa opzione metodologica, in base alla quale egli riconosce, in modo esplicito, che «la disperazione è l’improntitudine dell’infelicità, una forma di provocazione, una filosofia per epoche indiscrete»14. Tale categoria esistenziale è valutata dialetticamente in base al suo opposto, vale a dire la speranza. In tal caso, Cioran analizza

13. Ivi, pp. 73-74. 14. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., pp. 51-52.

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i concetti in modo tale da oscillare, nelle sue preferenze, dall’una all’altra. Il risultato è di porre in evidenza la complementarità reciproca; infatti «quello che irrita nella disperazione è la sua fondatezza, la sua evidenza, la sua “documentazione”: è cronaca. Esaminate, invece, la speranza, la sua munificenza nella falsità, la sua mania affabulatrice, il suo rifiuto dell’evento: un’aberrazione, una finzione. Proprio in questa aberrazione risiede la vita, proprio di questa finzione essa si nutre»15. La disperazione viene chiarita nella sua essenza di ordine etico per superarla facendo riferimento ad una critica, che è poi consueta, nei confronti della negatività che in essa riscontra il cristianesimo. La via critica ha sicuramente lo scopo di rivalutarne il senso, ponendone in luce l’errore di prospettiva di cui il cristianesimo stesso non si è reso conto. Egli asserisce che «la disperazione è indubbiamente un peccato; ma un peccato contro se stessi. (Che intuizione profonda nel cristianesimo! Annoverare fra i peccati l’assenza di speranza!)»16. In difesa della disperazione Cioran ne costata la presenza nella sua essenza corporea, per ricavarne il carattere intrinseco nella prospettiva della sua esistenza individuale. Anche questa volta la formula retorica è quella della sfida e della provocazione, sia pure condotta attraverso l’apparenza linguistica di una constatazione. Egli dice: «Ho la disperazione nel sangue; in me non è un sentimento o un atteggiamento, ma una realtà fisiologica, per non dire fisica. La disperazione è la mia fede, la mia fede innata»17. L’itinerario prescelto è quello che dalla provocazione, attraverso la sfida, giunge all’esaltazione paradossale nella quale Cioran trova nella confessione il senso di una disperazione eroica che egli formula in questo modo: «Disperazione “senza motivo”, senza coscienza 15. Ivi, pp. 63-64. 16. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 21. 17. Ivi, p. 204.

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dell’infelicità, senza alcun senso di decadimento; disperazione pura; e di nuovo, la certezza – per niente triste – che il suicidio è la sola via d’uscita, la sola consolazione, la via, la via maestra. Passare dall’altra parte, aggirando la morte. La disperazione non mi deprime, mi solleva. La disperazione è diversa dalla desolazione, è fiamma, una fiamma che attraversa il sangue»18.

3. La malattia La malattia, su un piano filosofico, conquista il ruolo di un esistenziale rivelativo con la filosofia di F.W. Nietzsche e si accompagna in questa ottica ermeneutica con la follia, intesa quale malattia privilegiata, capace di simbolizzare il mondo dello spirito, attraverso i vissuti di ordine psichico. Cioran, in tale itinerario filosofico e letterario, compie il tentativo di utilizzare il vissuto della malattia come un veicolo esistenziale, capace di porre tra parentesi la vita quotidiana della comunità degli uomini nell’intento di raggiungere l’essenza dell’umano attraverso la lente di ingrandimento delle sue deviazioni. Attraverso questa via la malattia acquista il valore di una metafora che, col suo effetto scioccante del quale Cioran si compiace fino ai limiti estremi è particolarmente efficace per evocare la presenza di una condizione speciale dalla quale il filosofo riesce finalmente a contemplare l’uomo e il mondo, al di là delle apparenze esteriori. Così sottolinea la «carne che si emancipa, che si ribella e non vuole più servire, la malattia è l’apostasia degli organi»19. La malattia è esaminata nel suo duplice ruolo singolare e plurale, vale a dire come condizione dell’esistenza e come aspetto particolare di singole prospettive dei vissuti dell’uomo. Infatti «alla malattia vaga, indeterminata, di essere uomo, se ne aggiungono altre, molteplici e precise, che insorgono tutte per av18. Ivi, p. 736. 19. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 77.

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vertirci che la vita è uno stato assoluto di insicurezza, che è provvisoria per definizione, che rappresenta un modo di esistenza accidentale»20. La malattia, nella sua devianza dalla normalità è per Cioran un antidoto all’indifferenza che rende speciale, sia pure in termini negativi, la situazione dell’uomo nell’esistenza. In questa chiave problematica, essa acquista valore filosofico poiché, prima di suscitare interrogativi, è oggetto di stupore e di meraviglia. Pertanto «la malattia è venuta a dare sapore alla miseria, a condire la mia povertà»21. Anche Cioran percorre la via di accomunare la follia alla malattia e di trovare nella prima una situazione privilegiata della filosofia. Egli si accorge che nel mondo in cui viviamo l’anonimato e l’indifferenza annebbiano le distinzioni, determinando una caduta di interesse che genera la decadenza della cultura, poiché «c’era un folle in noi; il saggio lo ha cacciato. Con lui se n’è andato ciò che possedevamo di più prezioso, ciò che ci faceva accettare le apparenze senza dover praticare a ogni piè sospinto quella discriminazione tra il reale e l’illusorio così rovinosa per esse. Finché lui era lì, non avevamo nulla da temere, e neanche le apparenze che, miracolo ininterrotto, si trasformavano in cose sotto i nostri occhi. Una volta scomparso lui, esse si declassano e ricadono nella loro indigenza primitiva. Il folle che era in noi conferiva qualcosa di piccante all’esistenza, era lui stesso l’esistenza. Ora non abbiamo più nessun interesse, nessun punto d’appoggio. La vera vertigine è l’assenza della follia»22. Tra tutte le forme di malattia, quella paradigmatica in senso filosofico è, da F.W. Nietzsche in poi, la follia che in alcuni filosofi, come ad esempio in S. Kierkegaard, assume la sembianza specifica della melanconia. 20. Ivi, p. 79. 21. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 21. 22. ID., La caduta nel tempo, cit., pp. 105-106.

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Da questo punto di vista, Cioran non fa eccezione rispetto al pensiero contemporaneo, vedendo nelle deviazioni patologiche delle rappresentazioni del reale, le modalità specifiche di raggiungere l’assurdità che dà forma all’essenza dell’essere. La follia permette il superamento dell’ordine logico come apparenza della regolarità del reale; «in un universo spiegato, nulla potrebbe avere ancora un senso, tranne la follia»23. Occorre prendere in considerazione che le riserve filosofiche del nostro pensatore riguardano l’uso della ragione che, rifiutato secondo la consuetudine del pensiero ufficiale, acquista un senso attraverso i due concetti inconsueti dell’assurdo e della lucidità. La follia o pone tra parentesi la ragione negandola, o esalta la ragione stessa, svuotando la logica di qualsiasi forma di contenuto reale desumibile dall’esperienza. La via da lui tracciata viene formulata in questo modo: «La ragione: ruggine della nostra vitalità. È il pazzo che è in noi ad obbligarci all’avventura; se ci abbandona, siamo perduti: tutto dipende da lui, perfino la nostra vita vegetativa; è lui che ci invita, che ci costringe a respirare, ed è ancora lui a far sì che il nostro sangue circoli nelle vene. Se ne va via? eccoci soli! [!] Non si può essere insieme normali e vivi»24. Su tale via, il folle costituisce l’essenza stessa dell’uomo nella sua indefinibilità e nella rinuncia ad ogni speculazione, argomentata secondo la logica dimostrativa. Cioran rivela che «nei nostri sogni fa capolino il pazzo che è in noi. Dopo aver presieduto alle nostre notti, si addormenta nel più profondo di noi stessi, in seno alla Specie; tuttavia qualche volta lo sentiamo russare nei nostri pensieri»25. Il fascino del negativo appare nell’interesse per la decadenza, per il tramonto e per il crepuscolo che diventano delle metafore chiarificatrici del senso dell’esistenza. 23. Ivi. p. 120. 24. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 41. 25. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 116.

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Cioran, in tal modo, descrive filosoficamente gli stati della condizione umana e non esita a riconoscere che: «Più entro in intimità con i crepuscoli, più mi convinco che sono i cantastorie, i ciarlatani e i pazzi i soli ad aver capito qualcosa della nostra orda»26.

4. La noia Tra gli esistenziali negativi la noia impegna da tempo il pensiero contemporaneo; è sufficiente pensare alle riflessioni di A. Schopenhauer e di G. Leopardi. Come è noto, sul piano delle categorie interpretative dell’esistenza umana, si distinguono due momenti semantici della noia che, da un lato, rappresenta la sofferenza irriflessa del volgo corrispondente all’assoluta mancanza di creatività, dall’altro, essa rappresenta la presa di coscienza del genio che non si appaga e non si può appagare di una esistenza anonima e ripetitiva, vedendo nel vuoto di ogni significato e nella caduta di ogni questione di senso il vero aspetto che costituisce l’essenza nascosta del reale al di là di ogni apparenza. La noia non viene affrontata da Cioran come trascendentale ontologico, né come esistenziale di carattere universale ma piuttosto a partire dai vissuti della coscienza del singolo, individuando, attraverso questa, una situazione particolare che pone il soggetto in grado di manifestare agli altri il senso della vita umana. Per cui, così si esprime: «Certezza di sottrarmi al mio dovere, di non compiere ciò per cui sono nato, di lasciar passare le ore senza trarne un profitto, magari negativo. Quest’ultimo rimprovero in realtà non è giustificato: la noia, mia piaga, è proprio quel profitto paradossale»27. Se è vero che la noia ha la sua base nell’individualità della persona, il suo senso profondo si estende a chiarificare la situazione ge26. Ivi, p. 122. 27. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 126.

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nerale dell’umanità. Egli dice: «Non riesco a pensare a un momento in cui la noia non fu lì, al mio fianco, nell’aria, nelle mie parole e in quelle degli altri, sul mio volto e su tutti i volti»28. La noia, da un punto di vista fenomenico, è un vissuto caratterizzato da una caduta di senso del tempo. Gli eventi dell’esistenza si vanificano svuotandosi di ogni contenuto per lasciare all’inesorabilità del tempo che scorre l’elemento dominante della vanificazione della vita nei suoi significati ordinari; quindi «la temporalità vuota è la caratteristica della noia»29. La noia, per Cioran, rappresenta il precipitarsi dell’individuo nella negatività senza essere in grado di poterne uscire. Ciò conduce il nostro pensatore a negare la vita, non solo sul piano dei vissuti appartenenti alla quotidianità, ma anche nell’ordine ontologico della filosofia, per condannare persino l’aspirazione dell’uomo alla sopravvivenza; infatti «l’unico argomento contro l’immortalità è la noia. Del resto, è di lì che provengono tutte le nostre negazioni»30. La forma della noia, nella sua massima espressione tematizzata anche da G. Leopardi è il tedio che con la sua forza negativa possiede un potenziale ontologico del tutto simile all’angoscia. L’intollerabilità di questo vissuto conduce al desiderio del suo superamento attraverso altri vissuti sempre appartenenti alla negatività. Cioran così formula la questione ai limiti dell’assurdo: «L’antidoto al tedio è la paura. Occorre che il rimedio sia più forte del male»31. Il nostro pensatore caratterizza molto bene l’intollerabilità della situazione con un riferimento estremamente chiaro e penetrante, desunto dai suoi vissuti autobiografici, dicendo che: «L’energia e la virulenza del mio taedium vitae continuano a stupirmi. Tanto vigore in un male così fiacco! Debbo a questo paradosso l’incapacità in cui sono di scegliere finalmente la mia ultima ora»32.

28. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 97. 29. ID., Lacrime e santi, cit., p. 68. 30. Ivi, p. 71. 31. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 75. 32. Ivi, pp. 92-93.

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La noia, in ogni caso, non si esaurisce nell’ambito delle sofferenze solipsistiche enfatizzate a scopo filosofico, poiché Cioran tenta anche una giustificazione culturale delle sue argomentazioni. In questa ricerca di dare fondamento alle proprie riflessioni finisce col riconoscere che: «Le mie affinità con il byronismo russo, da Pečorin a Stavrogin, la mia noia e la mia passione per la noia»33. Dopo aver rivendicato l’appartenenza della noia alla situazione esistenziale dell’uomo, il filosofo romeno intende attribuire alla noia stessa una proprietà positivistica dei vissuti nel loro apparire tra le forme delle esperienze constatabili. In questo orizzonte, tale vissuto, specifico per la comprensione della negatività, viene ad essere una via attraverso la quale ne appaiono altri di simile natura, così «la noia è un’angoscia larvale; l’umor nero, un odio sognatore»34. La noia non viene caratterizzata soltanto per i suoi effetti negativi o per la sofferenza che causa nell’uomo, ma Cioran ne mette in luce tutta la positività per la chiarificazione dell’esistenza attraverso l’avventura di un itinerario, capace di percorrere il negativo senza nessuna catarsi possibile. Egli confessa linearmente che «quando si impara ad attingere nel Vuoto a piene mani non si paventa più il domani. La noia opera miracoli: trasforma la vacuità in sostanza, è essa stessa vuoto nutritivo»35. In particolare, il vissuto della noia apre una nuova immagine del reale e Cioran ne è perfettamente consapevole; la noia stessa indica una nuova acquisizione sul piano del conoscere cui si associa una crescita dell’umanità rispetto alla sua consapevolezza del destino dell’uomo nel mondo. In questo senso, tale vissuto negativo ci introduce in una condizione storica posta al di là del momento originario della cultura umana. Infatti «chi non conosce la noia si trova ancora nell’infan33. Ivi, p. 103. 34. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 44. 35. Ivi, p. 52.

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zia del mondo, quando le epoche erano di là da venire; rimane chiuso a questo tempo stanco che si sopravvive, che ride delle sue dimensioni, e soccombe sulla soglia del suo stesso […] avvenire, trascinando con sé la materia, elevata improvvisamente a un lirismo di negazione»36. Questo vissuto cioraniano non si limita ad aprire nella coscienza umana la via che porta alla nullificazione e allo svuotamento, bensì realizza sul piano della destrutturazione anche il venir meno della solidità indiscutibile del tempo, nel suo inesauribile destino di scorrimento nel quale è immersa in modo irreversibile la successione degli eventi. Egli lascia spazio ad una dichiarazione paradossale: «La noia è l’eco in noi del tempo che si lacera […] la rivelazione del vuoto, l’esaurirsi di quel delirio che sostiene – o inventa – la vita»37.

5. I corollari della noia La noia, quale esistenziale negativo della filosofia, al pari dell’angoscia ed altri simili, viene presa in considerazione nella sua generalità, come vissuto specifico della coscienza individuale dell’uomo. Cioran, da questo punto di vista, compie il tentativo di approfondire la questione ad un ulteriore livello analitico. Su tale piano emerge la sua relazione con il concetto di tempo nonché con altri caratteri, propri dell’esistenza umana, che sono responsabili dell’immagine dell’uomo e del mondo producibili nella prospettiva della finitezza esistenziale. Il punto di partenza di queste riflessioni è relativo all’effetto distruttivo che la noia produce nei confronti della temporalità, infatti «la noia ci rivela un’eternità che non è il superamento del tempo bensì la sua rovina; è l’infinito delle anime marcite per mancanza di

36. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 26. 37. Ibid.

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superstizioni: un assoluto piatto in cui nulla impedisce più alle cose di girare in tondo alla ricerca della propria caduta»38. La noia, in questa prospettiva, acquista un ruolo di comprensione della realtà che permette di aggiungere degli elementi alla comune presa di coscienza del mondo da parte dell’uomo o, meglio, è proprio tale esperienza del negativo che ci consente l’individuazione di un significato altrimenti nascosto. Così «l’universo trasformato in pomeriggio domenicale: è la definizione della noia – e la fine dell’universo»39. Il nostro esistenziale nel suo impatto con la vita umana finisce per caratterizzarla e per scendere a livello delle sue essenza negative, cambiandone radicalmente l’immagine, per cui «la vita è più e meno della noia, benché sia nella noia e per la noia che si scorge ciò che essa vale. Una volta che questa si insinua in te e tu cadi sotto la sua invisibile egemonia, tutto sembra insignificante al confronto. Si potrebbe dire altrettanto del dolore. Certamente. Ma il dolore è localizzato, mentre la noia evoca un male senza sede, senza supporto, senza nulla salvo questo nulla, non identificabile, che ti erode. Erosione pura, il cui effetto non è percepibile, e che ti trasforma lentamente in un rudere inavvertito dagli altri e quasi inavvertito da te stesso»40. Mentre sul piano del significato emergono nella riflessione cioraniana, le contraddizioni che gli fanno constatare la perdita di significato della noia stessa, invece in altre circostanze egli pone in rilievo il sommo significato della negatività, allorché si immerge, in modo più profondo nella complessità della questione in cui quale vede ripresentarsi il doppio significato della noia dal quale siamo partiti nella nostra riflessione. Pertanto «nella noia ordinaria, non si ha voglia di niente, non si ha nemmeno la curiosità di piangere; nell’eccesso di noia avviene

38. Ivi, p. 27. 39. Ivi, p. 37. 40. ID., Squartamento, cit., p. 142.

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tutto il contrario, perché quest’eccesso incita all’azione, e piangere è un’azione»41. La noia, nella sua genesi e nel suo significato, si colloca in una prospettiva che tenta una sintesi tra la struttura ontologica dell’esistenza e il carattere temperamentale della psicologia individuale. Dal primo punto di vista, realizza una condizione rivelativa dell’essenza del reale mentre dal secondo esprime un aspetto autobiografico della personalità cui Cioran si sente di appartenere, per cui asserisce: «Da dove può venire la mia propensione alla noia? Ne ho sempre sofferto, in tutte le città, in tutti i luoghi in cui sono vissuto, a tutte le età. Né mi pare di soffrirne meno adesso. Credo che questa disposizione sia legata al mio temperamento, alla mia fisiologia, allo stato delle mie arterie, dei miei nervi, del mio stomaco, ai malanni cronici di cui la natura mi ha gratificato con liberalità insensata. Soltanto Baudelaire e Leopardi devono averne provati i tormenti con un’intensità analoga»42. Anche in merito a questo esistenziale filosofico, Cioran cerca l’originalità e soprattutto vuole differenziarsi dagli altri autori che lo tematizzano. In tale tentativo, la noia, conservata nel suo significato fondamentale, viene snaturata nell’interrogativo di fondo che la giustifica, per cui il passaggio dalla rinuncia all’azione, apre un problema non risolto. Egli ritiene che «la mia noia è esplosiva. Questo è il vantaggio che ho sui grandi annoiati, che generalmente erano passivi e miti»43. La noia è attraverso il vuoto imparentata col nulla ma per Cioran costituisce, in un senso esplicito, una via di ricerca che permette di scavare nell’essere per raggiungerne le sue radici negative. Ciò emerge in una riflessione filosofica che non è disgiungibile dalla consapevolezza autobiografica. Quanto detto appare in una considerazione che viene argomentata in chiave esistenziale; Cioran così dice: «Talvolta mi dico: la 41. Ivi, p. 169. 42. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 539. 43. Ivi, p. 25.

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verità risiede nella noia oppure la noia è la verità stessa. Quello che intendo dire con questo è: la noia non è complice né vittima di alcunché. Risulta dalla distanza che mettiamo fra noi e le cose, dal vuoto intrinseco di ogni cosa sentito come un male a un tempo soggettivo e oggettivo. Quindi nelle sue operazioni non c’è nessun tipo di illusione; risponde alle condizioni di una ricerca. La noia è un’indagine»44.

6. L’insonnia e l’illusione L’insonnia, nel pensiero contemporaneo entra nella filosofia e si caratterizza come una metafora ontologica di tipo esistenziale, nella quale si stabilisce un legame forte tra l’individuo esistente e la radice dell’essere. Ciò accade attraverso una sospensione del tempo e della quotidianità che si produce come effetto del tutto singolare di una veglia subita, rifiutata, rispetto alla quale tutte le energie dell’uomo sono impegnate in un’impossibile fuga da essa. Così la coscienza, nella chiusura solipsistica del proprio mondo privato, si apre in un vissuto posto al limite dell’esaltazione allucinatoria, in una realtà alla quale sono tolti tutti gli avvenimenti, attraverso una destrutturazione del tempo e dello spazio, capace di produrre un’eternità scomoda nella quale l’uomo stesso si trova ingabbiato. Questa sconcertante questione filosofica trova la sua tematizzazione in alcuni autori, tra i quali possiamo ricordare Lévinas e Cioran. In questa chiave ermeneutica, il filosofo romeno interpreta l’insonnia dal suo punto di vista, riconducendola all’interno dei due concetti di vertigine e di lucidità, prescindendo dagli aspetti ontologici che altri autori interessati alla fenomenologia tengono presenti.

44. Ivi, p. 561.

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Egli così la caratterizza: "l’insonnia è una vertiginosa lucidità che riuscirebbe a trasformare il paradiso stesso in luogo di tortura"45. L’insonnia, nella sua sostanza e non nel suo vissuto psichico, indica la modalità esistenziale della rappresentazione delle radici dell’essere. Ciò comporta una regressione della coscienza all’immagine dell’originario perduto e dimenticato, in un oblio costante, prodotto dall’incessante affanno dell’esistenza. Cioran si rende ben conto della situazione fino al punto che si esprime con tale riconoscimento: «Le insonnie producono un ritorno alle origini e ci riportano all’alba degli esseri»46. Il buio, il negativo e il nulla, sia sul piano dell’immediatezza, sia su quello della metafora, nell’analisi filosofica di Cioran si equivalgono e attraverso l’insonnia, permettono di stabilire la fonte di ogni forma di pensare; così «se si vedono le cose nere, è perché le si pesa al buio, perché i pensieri sono in genere frutto di veglie, dunque di oscurità. Essi non possono adattarsi alla vita, per la ragione che non sono stati pensati in vista della vita»47. Tra l’insonnia e l’illusione non vi sono contatti, ma il loro legame è dato dal terreno comune dei vissuti esistenziali da cui queste due forme della negatività traggono la loro origine. L’illusione accomuna ancora una volta Cioran con i suoi predecessori, filosofi o poeti, si pensi a A. Schopenhauer e G. Leopardi, per i quali l’illusione rappresenta un velo di apparenza affascinante che ricopre e nasconde una realtà amara e inaccettabile. Su tale piano l’illusione sostiene l’esistere e permette la realizzazione della vita voluta dalla natura, altrimenti rifiutata dall’uomo. In questo contesto il nostro filosofo ripercorre le vie consuete degli autori di cui è erede, nel tentativo di aggiungere degli elementi dimenticati da porre in primo piano per la riflessione filosofica contemporanea.

45. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 11. 46. ID., Lacrime e santi, cit., p. 31. 47. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 109.

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La svolta metodologica compiuta da Cioran riconduce l’illusione, dall’immagine del mondo alla struttura del pensiero propria dell’uomo esistente. A questo livello, l’illusione associata alla delusione che disincanta costituisce una modalità ineludibile per la riflessione umana, rispetto alla quale è senz’altro vero che «pensare partecipa della inesauribile illusione che genera e divora se stessa, avida di perpetuarsi e distruggersi, pensare è competere col delirio»48. La validità metodologica del disincantamento rispetto alle illusioni consente a Cioran di porre in rilievo l’importanza della negatività nel suo aspetto dinamico, realizzato attraverso la destrutturazione. In questa prospettiva, egli esalta i frenetici individuando in essi la potenzialità del pensiero di giungere alle radici nascoste del vero. Egli così analizza la situazione: «Annientare dà un senso di potenza e lusinga qualcosa di oscuro, di originario in noi. Non è erigendo, è polverizzando che possiamo intuire le soddisfazioni segrete di un dio. Da qui il fascino della distruzione e le illusioni che suscita nei frenetici di ogni epoca»49. Nell’inversione dell’attenzione, sul momento negativo piuttosto che su quello positivo, Cioran finisce per tematizzare la delusione piuttosto che l’illusione; egli interpreta la questione costruendo una specie di immagine fotografica in negativo del reale, attraverso la potenzialità speculativa delle varie forme di delusione. Possiamo comprendere meglio la metodologia da lui utilizzata riflettendo che «la sola cosa che si dovrebbe insegnare ai giovani è che non c’è niente, diciamo quasi niente, da aspettarsi dalla vita. Sogniamo una Carta delle Delusioni che elenchi tutti i disinganni riservati ad ognuno, da affiggere nelle scuole»50. Il problema di Cioran, anche in questo caso, non è di natura ontologica ma neppure gnoseologica. La sua forma di negatività 48. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 99. 49. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 115. 50. Ivi, p. 117.

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esistenziale coinvolge, nel baratro nullificante della sofferenza, la condizione umana nella sua totalità, esasperando le insoddisfazioni e le inquietudini fino a generare una conflittualità, allo stato libero, nella quale, al di là del loro volere, gli uomini sono precipitati gli uni contro gli altri, senza possibilità di redenzione. Egli così si esprime: «Se vogliamo veder diminuire il numero delle nostre delusioni o dei nostri furori, occorre, in ogni circostanza, ricordare che siamo qui per renderci infelici gli uni con gli altri, e che insorgere contro questo stato di cose significa minare le basi stesse della vita in comune»51. La conclusione di questo itinerario viene formulata da Cioran ancora una volta enfatizzando la condizione soggettiva del proprio esistere, infatti «tutto è inganno, l’ho sempre saputo; eppure questa certezza non mi ha portato un po’ di quiete se non nei momenti in cui era violentemente presente al mio spirito»52. Anche in questo orizzonte, Cioran manifesta il suo compiacimento del negativo che egli esprime confessando la sua affinità con un atteggiamento aperto all’irreparabile. In tale chiave problematica, la delusione si associa al rimpianto ma la sosta del suo pensiero non è sull’evento che ha provocato il vissuto, bensì sulla categoria esistenziale alla quale il vissuto ha permesso di accedere. Egli con queste parole manifesta la sua sintonia con il nichilismo, vissuto e cercato: «Mi sono ubriacato di rimpianti, come altri di illusioni. Acquistare titoli nel campo dell’irreparabile, questa è sempre stata la mia funzione»53.

51. Ivi, p. 161. 52. Ivi, p. 167. 53. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 69.

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7. Il suicidio Il suicidio rappresenta l’evento cui si rivolge costantemente Cioran in diverse e contrastanti situazioni della sua esistenza personale; si tratta di un evento e di un’aspirazione, ma anche di un pericolo e di una possibilità di caduta. Il suicidio per lui indica la consapevolezza dell’esistenza umana di poter compiere una scelta autentica, al di là di ciò che è dipendente da un destino inevitabile e necessario. Tale evento si pone nel difficile e precario equilibrio tra gli atti di libertà e le possibilità di liberazione. Il nostro pensatore sosta nel momento precario di una decisione che non è né soltanto immaginata né tanto meno consumata. Il suicidio anima la sua vita sconfiggendo la paura paralizzante di una morte incombente. Possiamo dire che in questo si sommano senza trovare soluzione, tutte le contraddizioni del negativo che Cioran ha costantemente cercato, trovato e inventato nella sua interpretazione filosofica dell’esistenza. Il suicidio non viene caratterizzato né dal punto di vista etico né in una prospettiva di tipo religioso. Questo evento drammatico, che esprime la condizione-limite della tragicità esistenziale, viene assunto consapevolmente come una categoria filosofica, alla luce della quale caratterizzare la condizione umana in una prospettiva che si colloca miticamente tra la liberazione di Prometeo e la ribellione titanica, senza abbandonare l’altro polo della negatività, vale a dire quello passivo della rinuncia e dell’annientamento che viene esemplificato da Cioran con l’immagine inerte del vegetale. Siamo di fronte ad una questione complessa, che manifesta vari aspetti e vari livelli dell’esistenza umana. Per cui il nostro interprete tiene conto di tutte le vie filosofiche che lo precedono, da quella degli stoici a quella di A. Schopenhauer, da quella degli eroi tragici del mito ai personaggi immaginari di una letteratura estetizzante. Ciò che caratterizza la sua posizione è l’abbandono di una semantica univoca alla luce della quale ridurre il senso e il significato del suicidio stesso.

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IV. I problemi esistenziali

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Uno dei modi più adeguati per determinare l’avvicinamento di Cioran al suicidio è quello del fascino e dell’ammirazione che in lui suscitano gli uomini che si avviano ad una tale decisione. Si tratta di individuare un modello convincente e valido di negatività esaltante al quale subordinare le proprie idee e il proprio impegno di vita. In questa ottica, egli confessa esplicitamente: «La mia ammirazione va solo a due categorie di uomini: quelli che potrebbero impazzire in qualsiasi momento e quelli che in qualsiasi momento sarebbero capaci di suicidarsi. Solo costoro mi impressionano, perché soltanto in loro fervono grandi passioni e si compiono grandi trasfigurazioni»54. La giustificazione teoretica del suicidio viene posta da Cioran come un effetto apparente di una causa latente e quest’ultima riconduce la questione ad un’estraneità originaria di carattere esistenziale, sentita dall’uomo allorché vive in modo permanente la consapevolezza di essere già fuori del tempo e degli accadimenti. In definitiva emerge la perdita di interesse per la quotidianità contingente. Ciò viene espresso in questo termini: «Ci si uccide solo se si è sempre stati, per certi aspetti, fuori da tutto. Si tratta di una appropriazione originaria, di cui si può anche non essere»55. Cioran pone la questione evitando tanto la soluzione della colpa morale quanto quella della deviazione psicopatologica, poiché il suicidio sarebbe radicato nell’esistenza in una situazione che predispone in modo ineludibile all’evento negativo. Egli non esita a dichiarare che «non si è predisposti, si è destinati al suicidio, vi si è votati prima di una qualsiasi delusione, prima d’una qualsiasi esperienza»56.

54. ID., Al culmine della disperazione, cit., pp. 67-68. 55. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 71. 56. Ivi, p. 71.

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Con questa considerazione, siamo alla caratterizzazione del momento genetico del suicidio che diventa nel nostro pensatore un esistenziale filosofico. Per quanto riguarda invece la fenomenologia dell’accadimento del suicidio stesso, egli condivide la soluzione generalmente accettata, vale a dire che le energie vitali, in tale evento, vengono consumate nell’attimo attraverso una violenza che la vita fa a se stessa, ottenendo così l’esaurimento repentino di ogni energia attiva. Infatti «il suicidio è un compimento brusco, una liberazione folgorante: il Nirvana mediante la violenza»57. Il nostro pensatore pone in rilievo la differenza qualitativa tra il significato attivo, creativo e decisionale del suicidio come estremo atto di libertà voluta, e quello passivo della negazione dell’esistenza nella scomparsa dell’individuo che si verifica per effetto del decesso. Poiché la prima situazione esalta e ingigantisce l’uomo nel momento estremo, la seconda invece si risolve in una semplice cancellazione dell’esistenza personale; pertanto «non c’è niente in comune tra l’ossessione del suicidio e il sentimento della morte»58. La sua convinzione, senza indugiare a troppe argomentazioni, è quella per cui «la morte non è necessariamente sentita come liberazione; il suicidio libera sempre: è culmine, è parossismo di salvezza»59. Dati i caratteri del suicidio e delle sue cause che abbiamo esposto come premessa dell’intera questione, quest’ultimo, nella sua semantica esistenziale, viene portato al di fuori della comune concezione delle deviazioni psichiche. In tale situazione, Cioran riconduce filosoficamente tale evento alle due metafore che caratterizzano l’esistenza umana al suo limite ontologico tra tempo ed eterno, per dirla con il linguaggio di Agostino.

57. Ivi, p. 72. 58. Ivi, p. 74. 59. Ivi, p. 75.

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Queste sono costituite dalla lucidità che esprime la ragione condotta fino all’assurdo e dalla follia intesa come situazione paradigmatica dell’uomo che vuol superare se stesso. A questo proposito egli dice che «non ci si uccide, come comunemente si pensa, in un accesso di demenza, ma in un accesso di intollerabile lucidità, in un parossismo che, se vogliamo, può essere assimilato alla follia, se è vero che una chiaroveggenza eccessiva, spinta agli estremi e di cui ci si vorrebbe sbarazzare a ogni costo, oltrepassa i limiti della ragione»60. Cioran, dal punto di vista della negatività, pone il suicidio contro la vita e lo assimila all’omicidio. Il significato più profondo del problema investe la tematica della libertà poiché il suicidio permette l’appropriazione della decisione di poter morire quando si vuole, senza dover dipendere da un dio o da un destino. Questo nuovo significato del problema in esame viene chiarito in modo lineare con queste parole: «Vivo solo perché è in mio potere morire quando meglio mi sembrerà: senza l’idea del suicidio, mi sarei ucciso subito»61. Se è vero che il suicidio possiede un significato di ordine filosofico, dobbiamo anche riconoscere con Cioran la sua universalità, il che in definitiva, come nel caso della noia, permette di distinguere un suicidio come esistenziale da un suicidio banale che accade in modo irriflesso nella comunità degli uomini a livello di comportamenti privi di approfondimenti consapevoli. In questo quadro, il suicidio voluto e pensato assume in sé lo specifico della situazione antropologica, nella quale l’uomo è al mondo ma può oltrepassare il proprio vissuto rispetto al principio di realtà. Ciò, come Cioran sottolinea in altre argomentazioni, rapporta la questione del suicidio a quella della relazione tra l’uomo e l’ente divino o, meglio, l’uomo appare quasi come un dio mancato che, nell’atto estremo della negatività, compie il tentativo titanico di es60. Ivi, p. 79. 61. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 63.

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sere dio nell’attimo in cui si appropria dell’esistenza negandosi, in quanto così annulla, in una decisione consapevole, se stesso. Tale interpretazione emerge tra le righe da una riflessione più ampia, nella quale egli sottolinea che «il suicidio è uno dei caratteri distintivi dell’uomo, una delle sue scoperte; nessuna bestia ne è capace, e gli angeli lo hanno solo intuito; senza di esso la realtà umana sarebbe meno curiosa e meno pittoresca: mancherebbe di un clima strano e di una serie di possibilità funeste, che hanno il loro valore estetico, non fosse che per introdurre nella tragedia soluzioni nuove e una varietà di epiloghi»62. Cioran, di fronte a questo atto estremo, conserva un’ambivalenza di atteggiamenti che lo pongono in una situazione kierkegaardiana di aut-aut in cui l’azione è sospesa e il compiacimento che esalta è proprio nel momento precario e instabile della tensione che emerge dalla sospensione. Il filosofo romeno compie il tentativo di giustificare quest’ambivalenza, attraverso la distinzione di due configurazioni del suicidio alla quale abbiamo già fatto riferimento. Si tratta di separare l’ambito della filosofia dall’ambito dell’esistenza vissuta. In questa divergenza qualitativa egli sostiene: «Passo il tempo a consigliare il suicidio con gli scritti e a sconsigliarlo con la parola. Il fatto è che nel primo caso si tratta di un esito filosofico; nel secondo, di un essere, di una voce, di un lamento»63. Da un punto di vista autobiografico, la situazione cambia radicalmente in quanto non è l’analisi semantica del suicidio ad essere in questione ma l’incombenza del vissuto che, con il suo oscuro significato e con il suo peso intollerabile, conduce l’esistenza ai limiti della sua negatività. Egli manifesta questo disagio attraverso un’angoscia che traspare dalle sue parole: «Da qualche giorno sono di nuovo in preda all’idea del suicidio. Ci penso spesso, è vero; ma pensarci è una cosa, esserne dominati un’altra. Spaventoso accesso di cupe osses62. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 56. 63. ID., Squartamento, cit., p. 127.

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sioni. Impossibile, con le mie sole forze, continuare a lungo così. Ho esaurito ogni capacità di consolarmi»64. Cioran vede il suicidio nello stesso tempo come una liberazione e come una sfida, per cui si esalta nell’indulgere a pensare a tale evento negativo. Ciò spiega il senso di questa affermazione: «L’idea del suicidio è la più tonica che ci sia»65. Di fronte a questo evento decisivo Cioran manifesta anche nella sua esperienza autobiografica l’ambivalenza e l’indecisione costante di fronte all’evento estremo, per cui possiamo dire che il suicidio è sempre presente, nelle diverse circostanze della sua vita, ma è lontana la decisione di compierlo. Egli confessa, con estrema sincerità: «A vent’anni ero a un passo dal suicidio; poi mi è passata. Non che in questi trenta lunghi anni abbia smesso di prenderlo in considerazione, e a volte anche di pensarci seriamente; ma poi qualcosa di indefinibile mi diceva che non sarei stato capace di metterlo in atto. Ho paura che questo qualcosa, questa “voce” ora taccia; se non altro, da qualche tempo la sento sempre meno»66.

8. La morte Gli autori delle filosofie esistenziali trovano di fronte alla morte i vissuti più autentici per evidenziare, secondo i casi, il senso o il non senso della condizione umana. Questo evento definitivo esprime, all’interno dell’esperienza, gli interrogativi dell’uomo quale essere al mondo. Va tenuta presente la distinzione heideggeriana tra la morte e il decesso, in quanto solo la prima è l’unica esperienza certa che mette in questione l’uomo come interrogante che si interroga su se stesso. Il decesso, invece, rappresenta un fatto biologico che conclude 64. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 22. 65. Ivi, p. 67. 66. Ivi, pp. 197-198.

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la vita senza bisogno di coinvolgere i vissuti esistenziali dell’essere umano. Cioran, come filosofo del negativo, si trova a riflettere sulla morte come sulla nascita in quanto eventi chiave che rappresentano i confini della finitezza esistenziale. Mentre nei confronti della nascita l’uomo non è in grado di manifestare la sua consapevolezza, di fronte alla morte, invece, l’essere umano non può non essere presente con tutta la sua solitudine all’evento definitivo che conclude l’unica vita che gli è data su questa terra. Il problema non riguarda la fenomenologia del morire, né concerne la situazione morale che deve accompagnarlo a conclusione della sua vita mortale, bensì le conseguenze filosofiche che il confine della sua finitezza comporta. Il vissuto della morte costituisce una costante che accompagna l’esistenza sin dalle sue origini, poiché viene anticipato da una condizione agonica di sofferenza e di disagio che ne prepara gli effetti definitivi e spesso anche lontani. Cioran dichiara che «si capisce la morte solo a patto di sentire la vita come un’agonia prolungata in cui vita e morte s’intrecciano. La morte non è qualcosa di esterno, ontologicamente diverso dalla vita, poiché la morte come realtà autonoma non esiste»67. La situazione angosciante, dipendente dalla presenza oscura e sempre più incombente del dover morire, costituisce una condizione normale dell’esistenza umana per cui il suo venir meno viene ad essere una bizzarria strana del vissuto degli uomini e Cioran così caratterizza la situazione: «Colui che non ha mai avuto il sentimento di questa terribile agonia in cui la morte cresce in te per invaderti come un afflusso di sangue, come una forza interiore invincibile che ti soffoca e ti si avvinghia come un serpente provocando orribili allucinazioni, costui ignora il carattere demoniaco della vita le effervescenze interiori artefici di grandi trasfigurazioni»68. 67. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 33. 68. Ivi, pp. 35-36.

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La morte non ha in se stessa il suo significato ultimo ma rinvia ad altro che però non è per questo pensatore una vita diversa, bensì il nulla, quale espressione più completa della negatività; infatti «l’immanenza della morte segna il trionfo definitivo del nulla sulla vita, provando così che la presenza della morte non ha altro senso che quello di attualizzare progressivamente il cammino verso il nulla»69. Cioran subisce il fascino della morte in un’esaltazione nella quale la sfida dissacratoria dell’esistenza apre il suo sentiero diretto alla lucidità. In questo caso la conclusione negativa della vita retroagisce sull’intera esistenza umana aprendo un significato misterioso del vivere, altrimenti precluso alla condizione mortale. Così «la morte è l’aroma dell’esistenza. Essa sola dà sapore agli istanti, essa sola ne combatte l’insulsaggine. Le dobbiamo all’incirca tutto. Questo debito di riconoscenza che ogni tanto consentiamo a pagarle è quel che c’è di più confortante quaggiù»70. Anche in tal caso la filosofia diverge dall’intensità del vissuto nella differenza che Cioran stabilisce tra la morte e il momento del suo verificarsi. Da un punto di vista concettuale, la razionalizzazione della conclusione della vita lascia l’uomo completamente indifferente ma la tematizzazione del momento conclusivo fa precipitare nella nullificazione della sofferenza l’intero itinerario esistenziale. Egli ribadisce con queste parole la situazione «si può pensare ogni giorno alla morte, e tuttavia perseverare allegramente nell’essere; non così, però, se si pensa ininterrottamente all’ora della propria morte; chi avesse davanti a sé quel solo istante, commetterebbe un attentato contro tutti gli altri suoi istanti»71. Le riserve cioraniane riguardo alla morte non si differenziano da quelle di altri filosofi; invece la sua preoccupazione fondamentale è quella di rivolgersi in modo interrogativo alla semantica della na69. Ivi, p. 39. 70. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 137. 71. Ivi, p. 141.

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scita poiché, se la morte conclude un’esistenza priva di senso, è la nascita che ne assume colpevolmente la piena responsabilità, anche se, nella logica dell’assurdo, quest’ultima sfugge radicalmente ad ogni possibilità di consapevolezza e di decisione del soggetto. Così «ci si ribella alla morte, a ciò che deve sopraggiungere; la nascita, evento ben più irreparabile, la si lascia in disparte, non le si dà molta importanza: essa appare a ognuno lontana nel passato come il primo istante del mondo»72. La morte, infatti, pone in scacco tutta la conoscenza, sia quella scientifica sia quella filosofica, costringendola ad un completo naufragio. Soltanto il primato dell’esistenza trionfa, ma è un trionfo che è costretto a privarsi di ogni certezza data dalla conoscenza; quindi «per “documentarmi” sulla morte, non traggo maggior profitto se consulto un trattato di biologia piuttosto che il catechismo: per quel che mi concerne, mi è indifferente l’esserle destinato in seguito al peccato originale o alla disidratazione delle cellule. In nessun modo legata al nostro livello intellettuale, la morte, come ogni problema privato, è riservata a un sapere senza conoscenze»73. La questione della morte apre a Cioran una domanda molto più radicale, quella relativa al senso della nascita. Il problema per lui non è di cercare una sopravvivenza impossibile, bensì l’altro di negare un’esistenza priva di senso. Da tale punto di vista, la ricerca genetica del disagio esistenziale, lo conduce indietro verso l’originario. Tale presa di coscienza retroattiva lo porta a riconoscere che «noi non corriamo verso la morte, fuggiamo la catastrofe della nascita, ci affanniamo, superstiti che cercano di dimenticarla»74. Il nucleo della questione filosofica della morte, nel nichilismo fortemente caratterizzato da un pessimismo irreparabile, nella concezione di Cioran, capovolge il problema nel senso di riflettere sul male dell’inizio della vita piuttosto che su quello della fine, poiché, 72. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 113. 73. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 202. 74. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 10.

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essendo l’esistenza un inconveniente, la sventura dell’uomo viene fatta risalire alla nascita; pertanto «trasportandoci al di qua del nostro passato, l’ossessione della nascita ci fa perdere il gusto del futuro, del presente, e del passato stesso»75. La situazione ontologica della nascita viene peggiorata rispetto alla posizione di A. Schopenhauer il quale vede nella volontà di vivere della specie l’elemento che giustifica l’esistenza a favore del tutto e a danno dell’individuo, ingannato dal velo di Maya delle illusioni. Cioran, invece, evidenzia la spirale della negatività senza uscire dall’individuo, la cui esistenza è un male a causa del tempo che ha il suo inizio nella nascita e la sua fine nella morte. La questione delle origini viene da lui così caratterizzata: «La vera, unica sfortuna: quella di venire alla luce. Risale all’aggressività, al principio di espansione e di rabbia annidato nelle origini, allo slancio verso il peggio che le squassò»76. La negatività cioraniana, come egli spesso riconosce, non coincide con una forma di pessimismo etico, in quanto evoca la lucidità dell’assurdo dando l’idea di un enigma che rifiuta ogni soluzione, tanto valoriale quanto razionale. Egli sottolinea in modo contraddittorio rispetto alle precedenti affermazioni che «l’indugiare sulla nascita non è altro che il gusto dell’insolubile spinto fino all’insania»77. In termini più generali, i due problemi della nascita e della morte si fondono nella rivendicazione dell’assurdità che caratterizza l’intera esistenza, perciò la conclusione del discorso è la seguente: «Abbiamo perduto nascendo quanto perderemo morendo. Tutto»78. L’approdo ultimo di tutte queste argomentazioni è al di là di ogni possibilità dell’uomo, chiuso nella gabbia della sua esistenza.

75. Ivi, p. 15. 76. Ivi, p. 16. 77. Ivi, p. 23. 78. Ivi, p. 57.

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In definitiva «non nascere è indubbiamente la migliore formula che esista. Non è purtroppo alla portata di nessuno»79. L’impossibilità di decidere sul momento della nascita sposta i termini del problema su quello della morte, per cui Cioran non tematizza la morte in sé come conclusione della vita ma esalta o meglio si esalta rispetto al desiderio di morire. Si tratta cioè di valorizzare l’evento nella sua attesa più che nella sua presenza, nella sua speranza più che nel suo accadimento; egli dice :«il desiderio di morire fu il mio solo ed unico pensiero; ad esso ho sacrificato tutto, anche la morte»80.

9. La finitezza umana La prospettiva classica delle filosofie dell’esistenza è quella sottolineata da M. Heidegger in cui il centro delle questioni affrontate è l’essere dell’uomo nel mondo, senza possibilità di spiegare il fondamento delle origini e quello della fine. L’uomo è gettato nel mondo in un’impossibilità di argomentare la fondazione ontologica dell’esistere. Cioran, rispetto a questa concezione, si pone nell’orizzonte prospettico dell’individuo, nella sua solitudine egocentrica e, in quest’ottica, evidenzia tutta la tragicità di colui che soffre ma esiste in ogni caso nella gabbia della sua finitezza. In questa posizione, l’amara autenticità che egli persegue non gli consente alcuna fuga consolatoria, né può accontentarsi di un prolungamento dell’esistenza oltre la morte, che sposterebbe i termini del problema senza cancellare la negatività dell’esistenza. È in questi termini che il filosofo romeno accentua l’importanza della nascita, facendo risalire ad essa ogni responsabilità del male dell’esistenza.

79. Ivi, p. 187. 80. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 67.

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L’enfatizzazione della morte dipende dall’esigenza dell’uomo di oggettivare la negatività sull’evento simbolico di cui egli è in grado di disporre. Si pensi all’esaltazione della speranza della morte e all’aspirazione al suicidio, che noi troviamo in varie pagine di questo autore. Date tali premesse concettuali, Cioran oscilla nel caratterizzare i termini della finitezza dell’essere umano, spostandosi dal problema della nascita e quello della morte. In questa prospettiva, il primo elemento su cui è bene riflettere è proprio quello della nascita e Cioran riconosce che proprio il pensiero occidentale ha sistematicamente ignorato questo momento genetico dell’esistenza nel suo significato più profondo nell’ordine della negatività. Egli si rivolge alla saggezza orientale per recuperare tutta l’irreparabilità del momento iniziale dell’esistenza umana, ponendo in rilievo che «nessuno in Occidente osa parlare, dandolo per scontato, dell’“abisso della nascita”, espressione che ritorna spesso negli scritti buddisti. Eppure la nascita è proprio un abisso, un baratro»81. La situazione indicata sposta i termini del problema nel senso di apprezzare la morte come possibilità della fine al di là di ogni saggezza filosofica tradizionale presente nelle argomentazioni socratiche o stoiche. In questo senso, Cioran si compiace nell’idealizzazione della conclusione definitiva dell’esistenza umana, affermando esplicitamente: «Perire! Parola che amo tanto e che, cosa abbastanza curiosa, non evoca per me niente di irreparabile»82. Il problema centrale non è quello della morte, come in altre pagine di Cioran non è quello del suicidio, ma investe la semantica dell’intera esistenza. Possiamo dire che la vita umana viene da lui chiarificata a partire dai suoi estremi, vale a dire dalla nascita e dalla morte; rispetto a quest’ultima così si esprime: «Riconciliarsi con la 81. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 96. 82. Ivi, p. 44.

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morte – va benissimo, ma dopo, quale interesse si può ancora avere per la vita? Senza le sorprese della paura, l’esistenza non avrebbe più attrattive […] La morte è l’aroma dell’esistenza. Soltanto lei dà sapore agli istanti, soltanto lei ne combatte la scipitezza. Possiamo sopportare la vita solo grazie al principio che la distrugge. Dobbiamo tutto, diciamo quasi tutto, alla morte»83. Lo spostamento del problema dalla morte alla nascita conduce Cioran ad un rovesciamento assiologico dei valori dell’esistenza, nel senso di rinunciare all’idealizzazione della sopravvivenza con la conseguenza di elaborare immagini fantastiche su ciò che eventualmente potrebbe precedere l’evento della nascita come inizio della vita. Egli propone queste argomentazioni paradossali: «Non essere mai nati: immaginare la vita prima della nascita come un sonno senza inizio, che risale comunque a un’origine incredibilmente lontana, un sonno “infinito” da cui ci spiace essere stati strappati […] Per me il desiderio del non nato si riconduce a un desiderio di non manifestazione. Ho orrore del manifestato. Vorrei svanire nel non manifestato»84. La conseguenza di queste argomentazioni è quella di attribuire un valore consolatorio alla morte ma l’idea non è di tipo ontologico, nel senso heideggeriano di tematizzare il nulla piuttosto che l’essere. Si tratta di comprendere la paradossalità delle considerazioni cioraniane attraverso la destrutturazione dell’etica tradizionale, ottenuta mediante l’esaltazione di alcune figure fondamentali privilegiate dal nostro pensatore, quali ad esempio: il vegetale, il fallito, il rinunciatario, l’inerte ed altre simili, capaci di evocare una vita non vissuta, nella quale l’azione è paralizzata da una eternità statica completamente estranea da un tempo rispetto al quale il suo abbandono non è altro che una provvidenziale caduta. Egli con entusiasmo dichiara «l’idea che con la nostra morte tutto, ma proprio tutto cesserà per sempre è l’idea più consolatoria 83. Ivi, p. 532. 84. Ivi, p. 908.

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e più immorale. Che cosa può importarcene dell’immagine che ci si farà di noi, visto che saremo per sempre al di fuori di qualsiasi immagine? La morte è la provvidenza di coloro che avranno avuto il gusto e il dono della sconfitta, è l’alta ricompensa, il trionfo di coloro che non sono riusciti in niente, che si sono sforzati di non riuscire»85. Da un punto di vista filosofico, l’insolubilità del problema dell’esistenza umana viene sottolineata da Cioran attraverso una dialettica la cui opposizione antinomica è rappresentata da una condizione intermedia tra il vivere e il morire, opposizione che, al suo interno, esplicita la negatività dell’avventura umana, nella sua essenza ontologica e nel suo disvalore etico. A tal proposito, Cioran dice che «chiunque miri all’efficacia deve operare una separazione totale fra vivere e morire, inasprire il dissidio fra le coppie dei contrari, moltiplicare abusivamente l’irriducibile, abbandonarsi all’antinomia, insomma restare alla superficie delle cose»86. Nel suo voler andare contro corrente Cioran idealizza la condizione del fallimento e di altre situazioni similari. Ne deriva un’etica alternativa rispetto a quella della comune saggezza. Egli compie il tentativo di tracciarne la teleologia interna con queste affermazioni, necessariamente inconsuete «tutto ciò che vive si afferma e si nega nella frenesia. Lasciarsi morire è segno di debolezza; annientarsi, segno di forza. Ciò che si deve temere è l’accasciamento in quello stato in cui il desiderio di sopprimersi non è neppure immaginabile»87. Da un punto di vista speculativo, Cioran non si ferma all’evento della morte ma non si limita neppure al vissuto consapevole della morte stessa.

85. Ivi, p. 1093. 86. ID., La caduta nel tempo, cit., p 102. 87. Ivi, p. 114.

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Ciò che ha rilievo, nella sua concezione etico-ontologica alternativa, è la presenza della morte come essenza dell’uomo dopo l’inconveniente della nascita. In questo itinerario, la via percorsa dal nostro autore è sospesa sul confine che colloca l’esistenza tra la caduta nel tempo e la caduta dal tempo; la morte è questo confine problematico. Egli compie questo tentativo di chiarificazione della questione: «Al culmine dei nostri cedimenti, cogliamo d’un tratto l’essenza della morte – percezione limite, ribelle all’espressione; disfatta metafisica che le parole non saprebbero perpetuare. Ciò spiega perché, su questo tema, le interiezioni di una vecchia illetterata ci illuminano più del gergo di un filosofo»88. Per i cittadini della vita la morte, pur essendo una speranza, non cessa di essere un esilio. In esso, Cioran trova la rivelazione della radice nichilista dell’esistenza, per cui la definizione più coerente della vita è questa: «Perseveriamo nella vita proprio perché essa non si regge su nulla, perché non ha neanche l’ombra di un argomento. La morte è troppo esatta; ha tutte le ragioni dalla sua. Misteriosa per i nostri istinti, dinanzi alla nostra riflessione si profila limpida, priva di seduzioni e senza le false attrattive dell’ignoto»89. Nonostante vari riferimenti nei quali, con le espressioni letterarie suggestive, Cioran indulge all’esaltazione della materia e degli effetti legati alla corruzione organica, l’analisi della semantica della morte, nelle sue considerazioni non è separabile dal tema del nulla, legato, come abbiamo visto in precedenza, all’altro tema, quello del vuoto. Egli connota la questione con queste riflessioni: «C’è soltanto la percezione del vuoto che permetta il trionfare della morte. Infatti, se tutto manca di realtà, perché essa dovrebbe averne?»90.

88. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 70. 89. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 22. 90. ID., Squartamento, cit., p. 163.

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10. La nascita e il nulla L’esistenza viene da Cioran problematizzata soprattutto nel momento della sua origine; la nascita che sfugge alla consapevolezza dell’uomo costituisce il fondamento di ogni responsabilità inerente al corso del destino futuro. In questa chiave interpretativa, la responsabilità non dipende da una decisione libera del soggetto costretto a subire le conseguenze dell’evento iniziale. Si tratta di una situazione che attraverso un inconveniente dà luogo al destino successivo caratterizzato da tutte le forme di negatività che accompagnano la caduta nel tempo. In tale ottica, la nascita viene ad essere per li nostro pensatore l’inconveniente che determina il peso dell’esistenza umana. Abbiamo lo spostamento retroattivo della negatività dalla fine all’inizio o, meglio, dalla morte alla nascita. La sintesi di questa soluzione concettuale indica nella nascita stessa il momento centrale dell’esistere che egli connota con questa espressione emblematica: «Non essere nato: al solo pensarci, che felicità, che libertà, che spazio»91. Lo scopo della presa di coscienza del carattere rivelativo insito nel momento della nascita non è di natura esclusivamente conoscitiva ma risponde all’approfondimento dell’etica cioraniana del negativo che trova la sua forma espressivamente più completa nell’idea del fallimento quale premessa diretta a favorire la rinuncia a tutte le istanze citate che non sono altro se non cause di accentuazione della sofferenza. Egli chiarisce la questione in questi termini: «Quando ognuno avrà capito che la nascita è una sconfitta, l’esistenza, finalmente tollerabile, apparirà come l’indomani di una capitolazione, come il sollievo e il riposo del vinto»92.

91. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 27. 92. Ivi, p. 161.

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La consapevolezza semantica dell’evento della nascita non permette l’eliminazione della negatività insita nella radice dell’esistenza umana, ma semplicemente l’idealizzazione di una possibilità diversa che potrebbe essere propria dell’esistenza trasvalutata rispetto al momento di caduta nel tempo che stiamo vivendo. Ciò pone in rilievo come lo stesso Cioran, nonostante le sue affermazioni catastrofiche sul piano della negatività dei valori, non riesce a svuotare completamente il senso della speranza; egli afferma che «nessuno si rimette dal male di nascere, piaga capitale se mai ve ne furono. Eppure è con la speranza di guarirne un giorno che accettiamo la vita e sopportiamo le sue prove. Gli anni passano, la piaga resta»93. Queste considerazioni conducono ad una tematizzazione specifica della negatività che assume un carattere essenzialmente filosofico. Il nichilismo cioraniano è del tutto particolare poiché riassume in sé, sia delle connotazioni ontologiche, sia delle connotazioni etiche, senza costruire né una metafisica del nulla né un’anarchia etica privata di ogni valore. Per comprendere l’essenza del problema occorre precisare il concetto del nulla che costituisce le basi delle riflessioni del nostro pensatore. Tale concetto non è in senso leopardiano una realtà tangibile corrispondente a quello fisico di vuoto ma non va neppure interpretato come corrispondente al niente, quindi non va dissolto nella forma priva di contenuto della negazione logica. Nella concezione di Cioran, il nulla corrisponde al processo di annientamento e di destrutturazione esprimibile meglio con il concetto di nullificazione o di disfacimento in cui l’essere si dissolve, si annienta in un dissolvimento complessivo che corrisponde sul piano ontologico alla corruzione della putredine che caratterizza la disgregazione biologica della corporeità.

93. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 34.

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Quest’ultima viene assunta quale metafora per indicare il senso negativo del disfacimento esistenzialmente vissuto dall’uomo anche sul piano spirituale. Il processo di nullificazione corrisponde ad una forma specifica di distruzione ma questa non dipende dall’opera dell’uomo, né costituisce un’azione liberamente decisa poiché rientra nell’ambito ontologico della struttura, per dirla con M. Heidegger ontica delle cose; infatti «distruggere significa agire, creare alla rovescia; significa, in un modo tutto speciale, manifestare la propria solidarietà con ciò che è»94. Il nulla corrisponde all’essere anche nella sua indefinibilità. Si tratta di un obiettivo del tutto simile a quello della verità nei confronti del quale la filosofia risponde alle istanze di meraviglia, proprie di una ricerca incapace di approdare alla sua conclusione. Cioran non esita a dire: «Più nulla da cercare, se non la ricerca del nulla. La Verità? Un incaponirsi da adolescenti o un sintomo di senilità. Eppure, per un residuo di nostalgia o per bisogno di schiavitù, ancora la cerco, inconsapevolmente, stupidamente»95. La tentazione ontologica è come sempre per Cioran di breve durata, poiché la sua riflessione è motivata dal rischio dell’esistenza che incombe sulla sua presa di coscienza del significato profondo del reale. Alla luce di ciò, il nulla in generale si converte nella nullificazione vissuta dalla nostra individualità, il che gli permette di accorgersi che «per viltà sostituiamo al sentimento del nostro nulla il sentimento del nulla. Il fatto è che il nulla generale ci inquieta appena: vi scorgiamo troppo spesso una promessa, un’assenza rapsodica, un ostacolo che cade»96. La presa di coscienza del proprio nulla non lo affligge ma lo esalta nell’ambivalenza di una situazione in cui, come spesso accade

94. Ivi, p. 55. 95. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 103. 96. Ivi, p. 182.

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nella sua filosofia, il baratro dell’abisso si converte nella vertigine di una situazione esaltante. Infatti «arrivare al punto di non avere più niente a cui rinunciare! Tale dovrebbe essere il sogno di ogni spirito disincantato»97. Quando Cioran riesce a uscire dal suo pensare attraverso le sfide e i paradossi, assume la consapevolezza storica della relatività che si accompagna ai concetti da lui privilegiati. In questo quadro interpretativo, il nichilismo viene storicizzato ed assume le sembianze di un concetto prevalente, poiché risponde alle mode del nostro tempo. Ciò gli impone di affermare, in modo anche contraddittorio rispetto ai suoi percorsi consueti, che «ogni aspetto del pensiero ha il suo momento, la sua frivolezza: così, oggi, l’idea del Nulla […] Quanto paiono remoti la Materia, l’Energia, lo Spirito! Per fortuna il lessico è ricco: ogni generazione può attingervi e trarne un vocabolo, importante quanto gli altri – inutilmente defunti»98. Dopo la parentesi di distacco storicistico dai problemi esistenziali, Cioran riprende l’idea che il nulla, frutto del fallimento e della dissoluzione, sia compagno della prostrazione, per cui il nulla stesso non è disgiungibile dalla sofferenza esistenziale e non è separabile dalla celebrazione della sconfitta dell’uomo. In questa consapevolezza che attinge le sue radici nelle filosofie dell’assurdo, egli sostiene: «Non vi è altra iniziazione che al nulla – e al ridicolo di essere vivi. […] E io penso a un’Eleusi dei cuori disingannati, a un Mistero limpido, senza dèi e senza le veemenze dell’illusione»99. Il tema del nulla, più o meno presente nelle diverse pagine del nostro pensatore, non viene mai affrontato in modo specifico, separandolo dagli altri problemi esistenziali da lui trattati; per cui, da un punto di vista filosofico, non è possibile parlare di un vero e proprio nichilismo nel senso corrente dell’espressione. 97. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 104. 98. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 29. 99. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 25.

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Si tratta, nella sua filosofia, di esprimere una semantica del negativo come clima ricorrente delle sue considerazioni, come un atteggiamento fondamentale che la sua concezione assume rispetto al mondo e nei confronti dell’uomo. Questa situazione speculativa ha reso difficile agli interpreti la classificazione del suo pensiero per cui, da un punto di vista critico, si è giunti a conclusioni differenziate e spesso diametralmente opposte.

11. Gli esistenziali del sentimento L’analisi cioraniana dell’esistenza umana nei suoi diversi aspetti si rivolge pascalianamente al mondo complesso des raisones du coeur. Ciò, in una situazione privata degli elementi metafisici e religiosi, comporta la caratterizzazione degli aspetti più oscuri ed inquietanti dell’animo umano, il che si risolve nel tracciare una mappa dei diversi atteggiamenti che il sentimento assume nell’immediatezza delle situazioni vissute. Cioran, in questa analisi degli elementi oscuri che fanno da substrato alla coscienza umana, non indulge alle caratterizzazioni di ordine psichico e non si rifugia nelle soluzioni privilegiate dalla psicanalisi trionfante, bensì compie il difficile tentativo di avviare un’analisi esistenziale dei sentimenti e una fenomenologia dei diversi stati d’animo. In questa chiave interpretativa emerge, in senso heideggeriano, l’individuazione degli esistenziali del sentimento da intendersi come dei veri e propri trascendentali della vita spirituale dell’essere umano. Questi esistenziali caratterizzano l’atteggiamento dell’uomo nel suo essere al mondo e nel suo relazionarsi con i suoi simili. Procedendo su questa linea, il nostro pensatore non abbandona il carattere asistematico e frammentario delle sue considerazioni che pongono in primo piano le immagini e le metafore, lasciando pu-

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ramente impliciti gli aspetti logici delle argomentazioni, capaci di giustificare le conclusioni che emergono d’improvviso dalle sue riflessioni. Il tema centrale è dato dalla semantica dell’uomo nell’esistenza; la domanda a volte esplicita e altre volte implicita, è relativa al senso del nostro posto nell’universo. Da tale punto di vista, il problema di Cioran viene così espresso: «Il fatto che io esisto prova che il mondo non ha alcun senso. Quale senso potrei trovare, infatti, nei tormenti di un uomo infinitamente tragico e infelice, per il quale tutto si riduce in ultima istanza al nulla, e per il quale la sofferenza è la legge di questo mondo?»100. In questa prospettiva, il nulla si fonde con l’idea della finitezza per cui la svalutazione dell’essere esistenzialmente coinvolto nella sofferenza non permette la rinuncia totale anche nei confronti dell’unica forma dell’essere al mondo dell’uomo, vale a dire quella di un esistere attraverso il limite della finitezza medesima. Questa situazione apparentemente contraddittoria viene radicalizzata con queste parole: «Sono certo di non essere assolutamente nulla nell’universo, ma sento che la mia esistenza è la sola reale»101. L’itinerario cioraniano è sempre caratterizzato da un valorizzare in negativo fino al punto di farne l’elemento essenziale dell’unica semantica possibile dell’esistenza umana. Questo, non tanto per un compiacimento estetico di un atteggiamento nichilista, quanto piuttosto per giungere all’individuazione dell’essenza più profonda del vivere la condizione umana nel tempo, compreso tra la nascita e la morte. In questa situazione l’oscurità delle ragione della sofferenza caratterizzano il sentimento dell’esistere in tutte le sue diverse forme, fino al punto di esprimere in questo modo la questione centrale del suo filosofare: «Al contrario, sentirsi esistere significa appassionarsi

100. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 25. 101. Ivi, p. 47.

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a ciò che è manifestamente mortale, votare un culto alla mediocrità, adirarsi di continuo in mezzo all’inanità, adontarsi nel nulla»102. Dato quanto premesso, l’esistere acquista un suo significato specifico che esprime sicuramente il primato del filosofare di Cioran. Possiamo comprendere bene questa affermazione attraverso queste sue parole: «Esistere significa mettere a profitto la nostra parte d’irrealtà, significa vibrare al contatto del vuoto che è in noi»103. L’esistere così diventa una scommessa e un’invocazione nella quale l’esistenza dell’uomo si solleva dal piano biologico della vita naturale, ma questo sollevarsi ha il suo prezzo nella sofferenza e nella incomprensibilità della questione dei sensi. Cioran è perfettamente consapevole di ciò e riesce anche a superare il momento puramente logico delle filosofie dell’assurdo immergendosi in un negativo che vorrebbe fuggire ad ogni costo ma che non riesce ad esorcizzare. Egli, in modo incisivo e quasi lapidario, afferma che «esistere equivale a un atto di fede, a una protesta contro la verità, a una preghiera interminabile […] dal momento in cui acconsentono a vivere, l’incredulo e il devoto si assomigliano profondamente, poiché entrambi hanno preso l’unica decisione che segna un essere»104. La conclusione di tutto il discorso qui affrontato viene così sintetizzata da Cioran con parole adeguate alla caratterizzazione drammatica di un problema la cui soluzione si impone senza poter essere oggetto di scelte diverse. Egli afferma: «Esistenza = Tormento. L’equazione mi pare evidente»105. La caduta di senso è la caratteristica essenziale dell’esistere e Cioran lo riconosce esplicitamente con questa espressione: «Esistere è un fenomeno colossale – che non ha nessun senso. È così che definirei lo sbalordimento nel quale vivo giorno dopo giorno»106. 102. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 109. 103. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 203. 104. Ivi, p. 214. 105. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 109. 106. ID., Squartamento, cit., p. 96.

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L’itinerario a volte eccessivamente pessimistico tracciato da Cioran in merito al destino della condizione umana non si risolve nell’abbandono del realismo esistenziale che concerne l’unica possibilità di essere nel mondo dell’uomo. Si tratta di una fedeltà al realismo che non ammette nessuna forma di tradimento, di rinuncia a priorità di un destino che incombe sull’essere umano senza possibilità di scelte diverse. In questa situazione, caratterizzata dall’individuazione di un ambito precario che si colloca tra la contraddizione e l’assurdo, Cioran specifica il senso del tradimento che possiamo compiere nei confronti dell’esistenza, in questi termini: «Ma esiste un modo ben più complesso di tradire, senza riferimento immediato, senza rapporto con un oggetto o con una persona: quello di abbandonare tutto senza che si sappia che cosa rappresenti questo tutto, isolarsi dal proprio ambiente, respingere – con un divorzio metafisico – la sostanza di cui siete fatti, che vi circonda e vi porta»107.

12. Dagli universali alle metafore Gli universali dell’esistenza vengono desunti dai vissuti che la coscienza del singolo assume per caratterizzare la condizione umana. Tali universali, sul piano semantico, vengono presi in considerazione come delle vere e proprie metafore, rispetto alle quali è importante compiere un’analisi ermeneutica. Di fronte al realismo dell’esistenza, che esige una fedeltà senza rinunce e senza illusioni, Cioran tematizza quale universale dell’esistenza la condizione dell’agonia come metafora della sofferenza che accompagna per lui in modo ineludibile la vita dell’uomo. A tal riguardo egli precisa che «in sostanza, agonia significa un tormento alla frontiera tra la vita e la morte. E poiché la morte è immanente alla vita, quasi tutta la vita è un’agonia»108. 107. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 78. 108. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 27.

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Di fronte all’agonia, Cioran evoca il demoniaco nell’individuazione dell’enigma inaccettabile del vivere, ma il momento contraddittorio di questo esistenziale appare sul piano della conoscenza, nel quale emerge la constatazione di un’istanza realistica, attraverso la quale si impone l’immagine negativa della condizione umana stessa. Il nostro autore si apre a confessare il suo compiacimento nel ricercare fino alle ultime conseguenze il senso dell’agonia medesima. I vissuti dei quali egli prende coscienza coinvolgono altri elementi ugualmente negativi, quali il dolore e la morte. L’elemento contraddittorio, illustrato in queste pagine, appare in modo specifico attraverso l’analisi del destino psichico, nonché etico della sofferenza. A tal proposito, Cioran pone in luce il doppio carattere, da un lato, che proviene dall’esterno, attraverso gli eventi che sono causa di sofferenza e, dall’altro, derivante dall’interiorità della coscienza che soffre in base a vissuti da lei prodotti ed analizzati. Infatti, «amare la sofferenza significa amarsi in modo indebito, non voler perdere nulla di ciò che si è, assaporare le proprie infermità»109. La sofferenza è per Cioran una necessità del vivere ma anche un obiettivo al quale non è capace di sottrarsi nel suo compiacimento della negatività e della distruzione. Da tale punto di vista, le vie di fuga proposte dall’immaginazione sono ancora più negative della sofferenza stessa. Egli chiarifica questa situazione paradossale su un piano logico– argomentativo con queste considerazioni: «È per paura di soffrire che cerchiamo di abolire la realtà. Una volta coronati i nostri sforzi, questa stessa abolizione si rivela fonte di sofferenze»110. La conclusione di questo discorso viene tracciata da Cioran con espressioni che non lasciano dubbi sulla centralità esistenziale della sofferenza, sospesa tra le caratteristiche di un fato ineluttabile e 109. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 88. 110. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 119.

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quelle di un valore che nella condizione umana connota i caratteri della finitezza esistenziale. Egli, in particolare, così si esprime: «Docili alla maledizione, esistiamo solo in quanto soffriamo. Un’anima non cresce e non muore se non per la quantità di insopportabile che è capace di affrontare»111. Se il dolore e la sofferenza sono vie imprescindibili della negatività esistenziale, la vertigine e l’abisso che la causano costituiscono le radici ontologiche a partire dalle quali muove l’antropologia filosofica di Cioran. In tal caso, le origini non sono gli inizi, in senso cronologico delle situazioni vissute, ma rappresentano l’originario da interpretarsi in senso fenomenologico come l’individuazione dell’essenza profonda dei fenomeni che è sempre presente al di sotto della superficie, attraverso la quale i fenomeni stessi appaiono alla rappresentazione della conoscenza. Il nostro autore sottolinea: «Quanto terrore e quanta gioia provo al pensiero di essere bruscamente afferrato nel vorticoso caos degli inizi, nella sua confusione e nella sua paradossale simmetria – la sola simmetria caotica, priva di un’eccellenza di forma e di un senso geometrico»112. Abbiamo più volte constatato il legame tra la concezione di Cioran e le filosofie dell’assurdo, ma egli procede oltre nell’utilizzazione dell’eredità esistenziale che gli giunge dalla concezione di A. Camus; infatti rivaluta anche la categoria filosofica della rivolta. In questa situazione, il nostro pensatore si esalta fino al punto di trovare l’approdo delle sue argomentazioni in un elemento non filosofico come è appunto la vertigine, poiché egli è alla ricerca di un vissuto paradigmatico, capace di sintetizzare i risultati delle sue analisi speculative. In questa chiave interpretativa, possiamo riferirci alle affermazioni seguenti: «Esaurito ogni motivo di rivolta, non si sa più contro 111. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 44. 112. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 106.

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cosa insorgere, si è presi da una tale vertigine che si darebbe la vita in cambio di un pregiudizio»113. L’itinerario viene concluso dal pensatore romeno con un’espressione significativa che permette l’esplicitazione delle relazioni esistenti tra l’universale esistenziale specifico nel suo discorso. Egli esplicita sintetizzandola la sua concezione: «Siamo animali metafisici per la putrefazione che alberghiamo in noi. Storia del pensiero: parata delle nostre debolezze; vita dello Spirito: sequela delle nostre vertigini»114. Il carattere esteticamente esasperato del linguaggio, usato nell’individuazione degli universali del sentimento, giustifica il senso metaforico delle espressioni linguistiche utilizzate. Per cui su un piano filosofico è legittima l’ipotesi che la fenomenologia esistenziale di Cioran anticipi la metodologia ermeneutica della simbolica espressiva.

13. La solitudine e la tristezza Gli esistenziali del sentimento trovano il loro luogo naturale di problematizzazione nel concetto di solitudine che per Cioran costituisce un punto di riferimento obbligato del suo pensiero. Tale soluzione lo porta a dire: «Non ho mai pronunciato o scritto la parola solitudine senza provare un senso di voluttà»115. La solitudine non è soltanto l’ambiente etico delle riflessioni cioraniane, ma costituisce il valore che egli intende difendere e rivendicare ad ogni costo. Da un punto di vista autobiografico, egli proclama ciò con queste parole: «Scriverò sulla mia porta: Ogni visita è un’aggressione o Non entrate, siate caritatevoli o Ogni faccia mi disturba/Non ci sono mai/Sia maledetto chi suona/Non conosco nessuno/Pazzo pericoloso. Sono stupito di quanti seccatori 113. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 121. 114. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 175. 115. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 54.

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circolino su questa terra. Che cosa abbiamo da dirci? Risparmiate la mia solitudine, vorrei esclamare. È proprio per non aver saputo difendere la loro che tanti amici sono diventati fantocci, caricature, stracci d’uomini»116. La questione non si esaurisce sul piano autobiografico poiché la solitudine viene ad assumere un carattere filosofico di natura paradigmatica capace di evidenziare la semantica dell’esistenza umana in tutta la sua profondità. Il filosofo romeno pronuncia questa dichiarazione «siamo talmente soli nella vita che ci chiediamo se la solitudine dell’agonia non sia il simbolo stesso dell’esistenza umana. Voler vivere e morire in mezzo agli uomini è segno di grave debolezza»117. La solitudine è in Cioran sospesa tra il solipsismo della conoscenza e l’egocentrismo dell’etica; ma la sua posizione è più complessa in quanto nella solitudine i diritti del sé vengono difesi dall’irruzione della presenza dell’altro di cui finiamo per farci carico. In questa semantica, egli paragona il solitario all’eremita nell’intento di caratterizzare la condizione dell’uomo senza la presenza di Dio. In questa antropologia esasperata, il nostro autore riconosce che «l’eremita assume responsabilità soltanto verso di sé o verso tutti; in nessun caso verso qualcuno. Ci si rifugia nella solitudine per non avere altri esseri a carico: se stessi, e l’universo, bastano»118. Di conseguenza il programma etico di una filosofia esistenziale, aperta alla valorizzazione del negativo è per Cioran il seguente: «Essere soli, spietatamente soli, è questo l’imperativo al quale si deve sottostare, costi quel che costi»119. Il clima spirituale del pessimismo cioraniano è la tristezza, intesa quale condizione permanente dell’esistenza umana di chi riesce a liberarsi da ogni illusione, a sospendere ogni atteggiamento di fuga

116. Ivi, pp. 464-465. 117. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 19. 118. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 156. 119. ID., Lacrime e santi, cit., p. 83.

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dall’immediatezza profonda dei propri vissuti. Egli non esita a confessare: «“La tristezza durerà per sempre”. – Furono queste, pare, le ultime parole di Van Gogh. Le stesse che avrei potuto dire io in qualsiasi momento della mia vita»120. La sua convinzione esclude la tristezza come proveniente dall’esterno o come un destino in cui veniamo precipitati senza la nostra responsabilità; infatti egli lega tale atteggiamento alla fede e manifesta un attaccamento speciale per questo sentimento poiché dichiara: «In fondo la mia tristezza è religiosa. Per questo è incurabile»121. La tristezza nel nostro filosofo costituisce il momento di connessione tra i diversi vissuti della negatività; egli stabilisce un legame tra questo sentimento e il nulla nonché tra il nulla e la morte, il che manifesta la complessità dell’itinerario che si snoda in alcuni momenti ontologici della condizione umana sospesa nel vuoto delle origini a partire da cui emerge la mancanza di ogni fondamento che garantisce la stabilità dell’essere. Egli così caratterizza la situazione: «Sento in me un sapore acre di morte e di nulla, che mi brucia come un potente veleno. Sono così triste che ormai tutti gli aspetti del mondo non riescono ad avere per me il minimo pregio. Come potrei ancora parlare di bellezza, fare considerazioni estetiche, quando sono triste da morire?»122. Con la tristezza Cioran tematizza l’originario in un approccio ai fondamenti filosofici del reale del tutto inconsueto rispetto agli autori che hanno riflettuto sugli esistenziali della condizione umana, in quanto egli riesce con il suo itinerario ad allontanarsi dai presupposti metafisici dell’essere legati alla conoscenza, senza rinunciare ad un’ontologia dell’originario, superando la distinzione accademica tra teoresi e prassi, conoscenza ed etica.

120. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 142. 121. Ivi, p. 276. 122. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 81.

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Egli in questo quadro propone le seguenti considerazioni: «La tristezza risale fino alla radice della nostra perdita, la tristezza è la poesia del peccato originale»123. Da un punto di vista filosofico, Cioran si rende conto delle conseguenze che abbiamo cercato di porre in evidenza rivendicando il legame del concetto in esame con le categorie filosofiche tradizionali. Egli nelle sue argomentazioni è sempre sospeso tra la tradizione e il rinnovamento, la filosofia classica e la ricerca di nuove soluzioni metodologiche. Riguardo al concetto sviluppato egli avanza questi chiarimenti: «La tristezza, principale ostacolo al nostro equilibrio, è uno stato diffuso di non adesione, una rottura passiva con l’essere, una negazione incerta di se stessa, non idonea, oltretutto, a tramutarsi in affermazione o in dubbio»124.

14. La melanconia e gli esistenziali del “tempo” L’approfondimento degli esistenziali ripropone a Cioran un tema già presente nella svolta metodologica, realizzata da S. Kierkegaard in filosofia, nella quale la situazione psicologica della melanconia, posta al limite tra normalità e patologia, si presenta come un vissuto emblematico capace di farci cogliere il senso profondo di alcuni aspetti significativi dell’esistenza umana. È evidente che, mentre la soluzione kierkegaardiana avvia il singolo alle soglie della disperazione, per generare lo scacco delle ambizioni personali nell’intento di compiere il salto nella fede che apre l’uomo alla salvezza, in Cioran invece lo scopo è fondamentalmente diverso poiché è proprio la melanconia a svelare l’elemento oscuro dell’esistenza che non va mai abbandonato per rimanere fedele alla realtà, sia pure quando questa è enigmatica e fortemente interrogativa. 123. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 176. 124. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 56.

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La melanconia favorisce la situazione del distacco dall’azione e dai desideri che rappresenta per Cioran l’unica possibilità dell’uomo di prendere posizione nei confronti del destino che lo soffoca, attraverso le illusioni e la sofferenza. In tal modo, la melanconia stessa viene ad essere la condizione dello svelamento della caduta di senso di ogni apparente possibilità positiva dell’esistenza umana. Egli caratterizza il suo itinerario con queste riflessioni: «Avanzare nel distacco significa privarci di ogni nostra ragione di agire; significa, perdendo il beneficio dei difetti e dei vizi, affondare in quello stato che si chiama melanconia – assenza conseguente allo svanire degli appetiti, ansia degenerata in indifferenza, inabissamento nella neutralità»125. La melanconia costituisce, in queste argomentazioni, un vero e proprio trascendentale della vita che estende la sua efficacia anche al di là del mondo umano. Ciò implica il legame tra la melanconia e la consapevolezza, nonché lo sviluppo della coscienza che, già presente in forma sia pure approssimativa nel mondo infraumano, raggiunge nell’uomo il suo perfezionamento. Da tale punto di vista, Cioran così chiarisce la questione: «Al di là dell’uomo, la melanconia colpisce, seppure in minor misura, ogni essere vivente che in un modo o nell’altro si discosti dalle proprie origini. La Vita stessa vi è esposta non appena rallenti la propria andatura e si calmi la frenesia che la sostiene e la anima»126. La radicalità con la quale la presenza della melanconia non abbandona l’essere umano, filosoficamente rafforza l’idea che la melanconia stessa costituisca la premessa dello svelamento dell’essenza dell’elemento esistenziale della condizione umana. Cioran riconosce questa caratteristica ontica dell’esistenziale in esame, attraverso il legame che egli stabilisce tra il vissuto e l’eventuale disappunto che si fa strada nell’uomo di fronte alla possibilità di perdita del vissuto medesimo. 125. Ivi, pp. 104-105. 126. Ivi, p. 106.

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Questo concetto viene così precisato: «Con quale sollievo colui che trepida per la sua melanconia, che teme di guarirne, constata che i suoi timori sono malfondati, che essa è incurabile!»127. Occorre ricordare che per Cioran il problema del tempo è fondamentale per comprendere la situazione ontologica dell’esistenza umana. In lui infatti, è presente il presupposto agostiniano che lega il tempo all’eterno e fa del tempo stesso una condizione provvisoria dell’essere finito. Ciò, al di là di una filosofia della trascendenza, lo conduce a caratterizzare il momento enigmatico della vita umana nelle due possibilità rischiose, negative ma spesso prodotte da un destino inevitabile, date dalla caduta nel tempo e dalla caduta dal tempo, in cui il dentro e il fuori costituiscono l’assurdo inevitabile della situazione vissuta dall’uomo, connaturata ad una scissione interiore che associa alla condizione ontica il vissuto della sofferenza incancellabile. Ciò viene espresso da Cioran attraverso la nostalgia, che lega il ricordo vincolato al tempo, alla melanconia, connaturata alla vita spirituale. Perciò egli dice che: «Niente svela il senso metafisico della nostalgia meglio della sua impossibilità di coincidere con un momento qualsiasi del tempo; perciò essa cerca consolazione in un passato remoto, immemorabile, refrattario ai secoli e come anteriore al divenire. Il male di cui soffre – effetto di una rottura che risale alle origini – le impedisce di proiettare le età dell’oro nel futuro; ciò che concepisce naturalmente è l’antico, il primordiale, cui aspira meno per deliziarvisi che per dileguarvisi, per deporvi il fardello della coscienza»128. La nostalgia acquista il ruolo di un elemento filosofico, capace di tematizzare il problema del tempo negli aspetti ontologici ed esistenziali che lo accompagnano.

127. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 116. 128. ID., Storia e utopia, cit., p. 110.

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Cioran costata che «la nostalgia non è altro che una teologia sentimentale, in cui l’Assoluto è costruito con gli elementi del desiderio, in cui Dio è l’Indeterminatezza elaborata dal languore»129. Se la nostalgia permette di affrontare il problema del tempo relativamente al passato, l’ansia si pone filosoficamente nella medesima linea, soltanto che si rivolge al futuro ed è in questa chiave interpretativa che Cioran completa esistenzialmente la relazione tra il tempo e i vissuti di sofferenza dell’essere umano. Egli così intende concludere il discorso: «La nostalgia e l’ansia – a questo si riduce la mia “anima”. Due condizioni a cui corrispondono due baratri: il passato e il futuro. Fra due, appena un po’ d’aria per poter respirare, appena un po’ di spazio in cui stare»130.

15. Gli esistenziali della decisione Mentre gli esistenziali del sentimento si rapportano ai vissuti in base ad un’analisi interiore che coinvolge la coscienza, insieme alle emozioni, abbiamo altri esistenziali che, indipendentemente dalle questioni etiche che possono sollevare, prendono forma in un legame delle emozioni con le decisioni dell’essere umano. Tali esistenziali in Cioran si muovono sempre nell’orizzonte del negativo ma valorizzano l’attività dell’uomo, sia pure all’interno dei processi distruttivi. Ciò comporta la centralità della condizione egocentrica dell’interiorità umana di fronte alla quale ogni tentativo di relazionalità sociale si risolve nella svalutazione dell’altro sul quale vengono sistematicamente proiettate le cause della sofferenza e dello stacco. Questi esistenziali coinvolgono sia l’autoisolamento dell’uomo, sia l’esercizio dell’aggressività rivolta all’esterno della soggettività. Le filosofie materialiste, individualiste e prive di aperture religiose hanno di solito approdato all’egoismo o, nelle forme più 129. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 50. 130. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 83.

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attenuate, all’utilitarismo. Cioran, però, procede oltre, superando anche il pessimismo rousseauniano, relativo alla condizione sociale dell’uomo. Su tale linea, il nostro autore trova nell’odio l’esercizio smodato dell’attività e la realizzazione paradossale e titanica dell’essere umano. Si tratta di una delle consuete esasperazioni in cui il pensatore incorre nello stretto legame tra filosofico e quello estetico, proprio delle sue argomentazioni, che trovano le soluzioni più efficaci nell’effetto letterario delle affermazioni proclamate come sentenze ed espresse come sfide. In questa modalità argomentativa egli così si esprime: «Si è finiti, si è morti-vivi, non quando non si ama più, ma quando non si odia più. L’odio conserva: è nell’odio, nella sua chimica, che risiede il “mistero” della vita. Non per caso è il miglior ricostituente che sia stato trovato fino ad oggi, tollerato inoltre da qualsiasi organismo, per quanto debole»131. Per comprendere le motivazioni che conducono Cioran alla rivalutazione dell’odio, occorre prescindere dalle questioni morali che l’esaltazione di questo vissuto comporta, per rivolgersi all’entusiasmo con il quale egli ammira la forza non solo in senso nietzschiano, riferendosi al superamento dell’uomo come individualità superiore, ma soprattutto all’ambito politico, rispetto al quale, Cioran si fa seguace dei movimenti nazionalisti, ispirati ad un totalitarismo conservatore di una destra che esalta la forza del popolo, rappresentato dall’uomo di governo autorevole, capace di incarnare i valori etici di un’epoca storica determinata. In questa direzione, l’odio esprime tutta la sua validità di forza propulsiva che conduce il nostro pensatore ad esprimersi in questi termini: «L’odio non è un sentimento ma una forza, un fattore di diversità, che fa prosperare gli esseri a spese dell’essere»132.

131. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 117. 132. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 109.

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La linea finora esposta potrebbe incoraggiare l’idea di fare di Cioran un essere asociale. La situazione è molto più complessa, poiché l’odio, pur essendo un sentimento originario, rafforzato dall’adesione della volontà, non è necessariamente rivolto agli altri, ma nelle argomentazioni cioraniane, sia pure in modo alquanto contraddittorio, trova la sua giustificazione, per non dire perfino la sua esaltazione, anche quando è rivolto nei confronti di se medesimo. Infatti «è dall’odio di sé che emerge la coscienza, è dunque in esso che va cercato il punto di partenza del fenomeno umano. Mi odio: sono uomo; mi odio in modo assoluto: in modo assoluto sono uomo. Essere coscienti significa essere divisi da sé, significa odiarsi»133. Il pessimismo cioraniano condivide una serie di idee concernenti il negativo presente nell’uomo che si sono già fatte strada nel pensiero occidentale. Al riguardo egli nega il desiderio di successo e non fa spazio all’ambizione ma all’invidia e nel contempo giustifica l’odio originario attraverso la presenza di una latente crudeltà criminale che realizza la violenza e l’omicidio non nei fatti ma nell’immaginazione. In questo contesto di comportamenti aggressivi repressi, maturano le forme di esistenziali negativi che fanno da substrato ai comportamenti attivi dell’essere umano.

16. Dal negativo al positivo La nostra analisi va completata con riferimenti specifici ad altri sentimenti del negativo che assumono il valore di esistenziali, nel senso universale-concreto che abbiamo indicato. Così dall’odio, attraverso l’invidia e la crudeltà, egli giunge alla tematizzazione della vendetta come sentimento complesso, strutturato quale risposta ad un comportamento aggressivo, presente

133. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 183.

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all’esterno nell’individualità umana o allo stato di fatto o allo stato potenziale. Cioran non si limita a fornire un giudizio di approvazione o disapprovazione dell’esistenziale in questione, ma ne traccia la fenomenologia del suo sviluppo e delle condizioni che lo accompagnano e lo giustificano. Abbiamo questo processo di realizzazione: «Certo la vendetta non è sempre dolce: una volta compiuta, ci si sente inferiori alla vittima, o ci si ingarbuglia nelle sottigliezze del rimorso; anch’essa ha dunque il suo veleno, per quanto sia più conforme a ciò che si è, a ciò che si prova, alla legge di ognuno; essa è altresì più sana della magnanimità»134. La questione della vendetta, in analogia alle altre forme di esistenziali, viene trasformata da Cioran in un’occasione filosofica di individuazione di uno dei presupposti ontologici della condizione umana. Entrano in gioco i problemi dell’essere e quelli del tempo, dando corpo agli elementi che strutturano i processi vitali nel loro svolgimento. Per cui egli dichiara che «reprimere il bisogno di vendetta significa congedare il tempo, togliere agli avvenimenti la possibilità di prodursi, significa pretendere di licenziare il male e, con esso, l’atto»135. Cioran non è né un violento né un aggressivo e, in ogni caso, non approda alla distruzione di ogni forma di valore morale. Quale erede del paganesimo e quale ammiratore della classicità antica, propone il distacco e l’equilibrio, governato dal senso della misura. Infatti: «Il massimo di distacco cui possiamo aspirare è di mantenerci in una posizione equidistante sia dalla vendetta sia dal perdono, al centro di una collera e di una generosità ugualmente flaccide e vuote, perché destinate a neutralizzarsi a vicenda. Ma a spogliarci dell’uomo vecchio non riusciremo mai, neppure se dovessimo spin-

134. ID., Storia e utopia, cit., pp. 77-78. 135. Ivi, p. 97.

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gere l’orrore di noi stessi fino a rinunciare per sempre a occupare un posto qualunque nella gerarchia degli esseri»136. La radice dell’azione è indeterminata e non coincide né con il comportamento né con il sentimento che lo ispira. Si tratta di un originario indeterminato che prende forma nelle azioni umane, ma rimane inappagato quale substrato di ogni attività. Questo è come riconosce anche Cioran, il desiderio, a proposito del quale dice «incurabile – aggettivo d’onore, di cui dovrebbe fregiarsi una sola malattia, la più tremenda di tutte: il Desiderio»137. Nonostante il ritorno del negativo che potrebbe farci pensare ad una ricorrenza ossessiva e costante di un unico concetto, Cioran si pronuncia a favore di sentimenti appartenenti all’orizzonte contrapposto, il che dà senso all’idea di una contraddittorietà o per lo meno ad una asistematicità delle sue argomentazioni. Occorre tenere presenti le sue dichiarazioni entusiastiche a favore dei sentimenti quali ad esempio l’amore, a proposito del quale le sue parole si aprono ad una positività inconsueta, così «per quanto combatta al culmine della disperazione, non vorrei né potrei rinunciare all’amore neppure se la disperazione e la tristezza oscurassero la fonte luminosa del mio essere, dislocata in chissà quali angoli remoti della mia esistenza»138. Il fondamento dell’amore, nelle speculazioni filosofiche di Cioran, è nel sentimento privato di ogni giustificazione, poiché si colloca al di fuori della conoscenza e della verità, anche se risponde alle speranze più profonde dell’esistenza. Egli così si esprime: «Visto dall’esterno, ogni essere è un incidente, una menzogna (fuorché nell’amore, ma l’amore va situato fuori dalla conoscenza e dalla verità)»139. L’amore è un sentimento contraddittorio le cui problematiche, forse anche in Cioran, dipendono dalla semantica linguistica, di na-

136. Ivi, p. 100. 137. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 130. 138. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 147. 139. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 57.

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tura complessa, che esprimono, con termini analoghi, i sentimenti legati alla sessualità rispetto a quelli la cui natura morale coinvolge il mondo dello spirito. Il nostro autore, mentre trova nell’amore l’unico momento positivo dell’esistenza, svaluta la sessualità riducendola alle istanze materiali di natura biologica, dove l’umanità e l’animalità si collocano sulla stessa linea. Possiamo comprendere meglio la questione con queste riflessioni: «Mescolanza di anatomia e di estasi, apoteosi dell’insolubile, alimento ideale per la bulimia della delusione, l’Amore ci guida verso bassifondi di gloria»140. La conflittualità di tale sentimento è, anche per Cioran, legata al problema del suo rapporto con la conoscenza poiché i due mondi del pensare e del provare sentimenti sono fra loro incommensurabili. Egli, riconducendosi ad una tematica consueta nel pensiero filosofico di tutti i tempi, così afferma: «L’amore assopisce la conoscenza; la conoscenza ridestata uccide l’amore»141.

17. La speranza nella prospettiva del negativo Coerentemente con tutto il suo pensiero, l’obiettivo di senso delle aspirazioni umane si orienta, per Cioran, in una speranza del negativo che non coincide con l’inquietudine o con l’inerzia desolata della disperazione, bensì con l’apertura all’annullamento, ottenuto attraverso uno slancio eroico che si inabissa nella distruzione. Egli dice «vorrei esplodere, insieme a tutto ciò che è in me – tutta l’energia, tutto il contenuto –, vorrei colare, decompormi; in un’espressione immediata la mia distruzione sia la mia opera, la mia creazione e la mia ispirazione; realizzarmi nella distruzione, elevarmi, nello slancio più folle, al di là dei confini, e che la mia morte sia il mio trionfo. Vorrei fondermi nel mondo, vorrei che il mondo

140. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 98. 141. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 113.

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si fondesse in me e che nel nostro delirio generassimo un sogno apocalittico»142. Ciò significa tendere all’inazione e alla sterilizzazione di ogni comportamento attivo, verso la condizione di vegetale privilegiata da Cioran. In questo quadro, viene elaborata una tendenza involutiva dell’esserci in cui il tempo viene ad annientarsi nell’impoverimento progressivo dell’esistenza. Cioran caratterizza la situazione nel modo seguente: «Non esistere più per nessuno, vivere come se non si fosse mai vissuti, bandire l’evento, non avvalersi più di alcun momento né di alcun luogo, svincolarsi per sempre da ogni assoggettamento!»143. Nonostante ciò, anche Cioran riconosce che la speranza, nel senso vero del termine, non può venir meno del tutto, poiché costituisce la molla propulsiva della vita umana, sia pure accompagnata da una serie di illusioni. Egli così caratterizza questa idea: «Per quanto disincantati siamo, ci è impossibile vivere senza alcuna speranza. Ne serbiamo sempre una, a nostra insaputa, e quella speranza inconscia compensa tutte le altre, esplicite, che abbiamo respinto o esaurito»144. Le argomentazioni vengono da Cioran corrette nel senso che «la speranza è la forma normale del delirio»145. In questa chiave di lettura, la speranza rientra nel consueto codice della negatività, all’interno del quale, analogamente ad essa, cambia il suo significato il concetto di salvezza, infatti «l’essere certi che non c’è salvezza è una forma di salvezza, è anzi la salvezza. A partire da lì si può organizzare la propria vita, come pure costruire una filosofia della storia. L’insolubile come soluzione, come sola via d’uscita»146.

142. ID., Al culmine della disperazione, cit., pp. 68-69. 143. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 69. 144. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 55. 145. ID., Squartamento, cit., p. 164. 146. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 173.

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La conclusione di queste argomentazioni, ispirate dall’assurdo e contraddittorie alla luce della filosofia tradizionale, viene data da Cioran su un piano autobiografico nel quale la giustificazione del destino e dei progetti della sua esistenza personale viene fatta risalire ad una specie di coraggio del negativo che incarna insieme, in una fusione non sempre chiara e definita, la rassegnazione e la ribellione. Egli così si esprime: «Ho un coraggio negativo, un coraggio rivolto contro me stesso. Ho orientato la mia vita fuori del senso che essa mi prescriveva. Ho invalidato il mio futuro»147. Le considerazioni di Cioran sono espresse stilisticamente attraverso l’iperbole e il paradosso. Egli ha piena coscienza di questa sua opzione metodologica, poiché riconosce che è di fronte ad una scelta estetica di tipo letterario. Così dichiara: «La mia sensibilità è affine a quella dei romantici, voglio dire che, incapace di credere in valori assoluti, ingigantisco i miei stati d’animo, li considero sostituti della realtà ultima»148. Il fascino del negativo, che Cioran esprime nelle sue pagine, possiede un indubbio valore estetico che lo conduce ad oscillare tra una serie di sentimenti indefiniti, quali il compiacimento dell’essere vittima di situazioni dolorose, la commiserazione e un profondo desiderio di consolazione. Nelle sue parole troviamo elencati dei vissuti che accompagnano i suoi stati d’animo; questi vengono espressi attraverso un inventario abbozzato, come egli stesso dice: «I miei stati d’animo abituali, diciamo predominanti: pietà, disgusto, desolazione, orrore, nostalgia, rimpianti in serie»149. Egli, come sempre, eredita la religiosità dalla religione e compie il tentativo di utilizzare il fascino del sacro nei vissuti che questo riesce ad ispirare; così la santità viene estrapolata dal santo.

147. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 16. 148. Ivi, p. 114. 149. Ivi, p. 395.

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In un’analoga intenzione il misticismo viene recuperato senza l’oggetto divino della mistica. In questa direzione, tale sentimento, insieme all’atteggiamento morale dell’ascesi e al senso misterioso dell’estasi, diviene uno slancio che valorizza in modo creativo le sensazioni e i vissuti proiettati in un ambito inconsueto, che permette il superamento della quotidianità banale data dalle nostre relazioni con la materialità reale degli oggetti coi quali veniamo a contatto. Abbiamo un esercizio della sensibilità proiettato al di là dell’esperienza comune. A tal proposito, il nostro pensatore così si esprime: «Il mistico non vive le sue estasi né i suoi disgusti entro le barriere di una definizione: pretende non già di soddisfare le esigenze del suo pensiero, ma quelle delle sue sensazioni»150. Tenendo presente la differenza tra misticismo e decadenza, Cioran pone in rilievo la fenomenologia di tale atteggiamento religioso, anche nel momento in cui i vissuti emotivi prescindono dall’oggetto dottrinale delle religioni. Egli, in questa prospettiva così delinea la situazione: «Il fenomeno mistico difetta di continuità: si espande, raggiunge l’apogeo, poi degenera e finisce in caricatura»151. L’orizzonte della mistica gli apre uno spiraglio di comprensione del reale che eccede le possibilità fornite dalla conoscenza in una situazione fragile, precaria, indefinita, poiché privata del mistero e del sostegno di una fede religiosa. Tale espressione emotiva gli permette di non cadere nella condizione dogmatica del positivismo naturalistico o in quella disperante di uno scetticismo senza via di uscita. Infatti egli non esita a dire che: «La mistica è un’evasione dalla conoscenza, lo scetticismo una conoscenza priva di speranza»152.

150. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 142. 151. Ivi, p. 148. 152. ID., Lacrime e santi, cit., p. 33.

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La conclusione del discorso esistenziale del pensatore romeno può essere espressa in questi termini: «Ciò che non si può tradurre in termini di mistica non merita di essere vissuto»153. Lo stesso atteggiamento ambivalente manifestato nei confronti del misticismo senza religione, viene espresso da Cioran a proposito della situazione morale che conduce l’uomo all’ascesi. Egli, con una affermazione lapidaria proclama: «L’ascesi – una depravazione sublime»154. Da un punto di vista filosofico Cioran razionalista esalta la coerenza fino all’assurdo del pensiero che dà luogo alla lucidità. Nel versante opposto egli apprezza anche la situazione abissale dello spirito religioso che, attraverso l’atteggiamento mistico, esalta l’irrazionalità dell’uomo fino a farla approdare all’estasi. Egli collega le due situazioni, radicalmente divergenti con queste parole «la lucidità è l’equivalente negativo dell’estasi»155. L’estasi rappresenta sulla linea filosofica, e non solo tale, del neoplatonismo classico, il trascendimento della conoscenza operato con le energie interiori del soggetto. Cioran tiene fermi i presupposti di questa situazione, inserendo la questione all’interno del suo itinerario esistenziale, compiendo il tentativo di definire concettualmente quanto sfugge ad ogni definizione, per cui afferma che «l’estasi è necessariamente più frequente in una religione autoritaria che in una religione liberale: essa è allora balzo verso l’intimità, ricorso al profondo, fuga verso di sé»156. Anche relativamente all’estasi come riguardo al misticismo, il tentativo di Cioran è quello di recuperare il vissuto, in chiave fenomenologico-esistenziale, privandolo della semantica religiosa che lo accompagna nella tradizione del pensiero, tanto occidentale, quanto orientale.

153. ID., Squartamento, cit., p. 86. 154. Ivi, p. 161. 155. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 23. 156. Ivi, p. 37.

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Egli, con un’espressione in apparenza paradossale caratterizza la situazione affermando che «quando avremo smesso di ricondurre la nostra vita segreta a Dio, potremo elevarci a delle estasi altrettanto efficaci di quelle dei mistici e vincere il quaggiù senza ricorrere all’aldilà. E se malgrado ciò l’ossessione di un altro mondo dovesse perseguitarci, potremmo benissimo costruirne, progettarne uno di circostanza, non fosse che per soddisfare il nostro bisogno di invisibile»157.

157. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 154.

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Capitolo quinto

Il tempo e la storia

1. La caduta nel tempo e la caduta dal tempo La filosofia di Cioran muove dal primato dell’esistenza rispetto all’essere in una situazione in cui il momento antropologico del filosofare è in primo piano rispetto alla struttura ontologica del reale. L’approccio esistenziale viene ad essere la metodologia più adeguata per analizzare la condizione umana. È da tale punto di vista che emerge con tutto il suo peso il concetto di finitezza, non tanto come limite ma come condizione di realtà dell’uomo che nell’esistenza esercita le sue possibilità. Ciò provoca dolore e sofferenza. Il nostro pensatore riconduce le problematiche esistenziali al presupposto ontologico individuato da Agostino. Egli si ispira alla dialettica tra tempo ed eternità, interpretandola in una chiave negativa nella quale il peccato originale della visione religiosa si traduce nel destino di una caduta che caratterizza l’intera esistenza umana. Questa è la caduta dell’esistente nel tempo, che limita e condiziona l’uomo mentre lo conduce in una via rispetto alla quale diventa impossibile qualsiasi forma di liberazione. Da quanto detto dipende la negatività dei vissuti umani, la cui sofferenza non permette di ipotizzare nessuna forma di salvezza, se non quella dell’annientamento a partire dall’assurdo dell’ideale irrealizzabile di non essere nati.

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L’elemento originario appare filosoficamente in questi termini: «Dopo avere sciupato l’eternità vera, l’uomo è caduto nel tempo, dove è riuscito, se non a prosperare, per lo meno a vivere: la cosa certa è che vi si è adattato. Il processo di questa caduta e di questo adattamento si chiama Storia»1. La situazione del tempo viene interpretata in una doppia semantica, quella ontologica e quella esistenziale, tuttavia la seconda prevale sulla prima dando luogo all’individuazione della causa primaria della presenza del negativo. Egli caratterizza la questione senza dare spazio all’essenza fenomenologica del tempo. Tale semantica appare con queste parole: «Caduta senza scampo nell’eternità negativa, in questo tempo sparpagliato, che si afferma solo annullandosi, essenza ridotta a una serie di distruzioni, somma di ambiguità, pienezza il cui principio risiede nel nulla, viviamo e moriamo in ognuno dei suoi istanti, senza sapere quando esso è, perché in verità non è mai»2. L’idea di liberazione dell’uomo dal tempo, coincidente con l’altra idea del riscatto dell’umanità dal male, viene da Cioran teorizzata in una via diversa da quella del superamento del tempo nell’eternità da cui la tradizione fa dipendere le due soluzioni della sopravvivenza e della salvezza. Egli pensa ad un’ulteriore caduta, questa volta dal tempo, in una condizione esterna che assume la forma dell’estraneità rispetto al tempo stesso. In una situazione del genere, il tempo assume un valore che permette di simbolizzarlo tanto come un carcere, quanto come un abisso, per cui nell’impossibilità immaginare l’uomo senza tempo, idealizzando la situazione dell’estraneità, si giunge ad una soluzione altrettanto inimmaginabile. La negatività diventa proteiforme e non abbandona mai l’esistenza umana.

1. E.M. CIORAN, La caduta nel tempo, cit., p. 123. 2. ID., Storia e utopia, cit., p. 128.

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V. Il tempo e la storia

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Questa seconda caduta non costituisce un universale della situazione umana, ma è un evento paradigmatico che non possiede l’oggettività propria di un qualsiasi evento, ma caratterizza la condizione di alcuni soggetti privilegiati, come Cioran si ritiene. Si tratta di una caduta che, come la noia degli uomini geniali e non del volgo, viene ad essere una situazione rivelativa dell’essenza ontologica dell’umanità. In quest’ottica Cioran sostiene: «Gli altri cadono nel tempo; io invece sono caduto dal tempo»3. Quest’ultima caduta appartiene al negativo dell’annientamento che coincide con la sterilità della stagnazione e con l’idealizzazione dello stato vegetale. Si tratta di una caduta che vorrebbe essere l’unico riscatto possibile dalla condanna originaria, coincidente con il male di essere nati. Cioran si esprime in questo modo: «Questa volta non si tratterà più per lui di cadere dall’eternità, ma dal tempo; e cadere dal tempo significa cadere dalla storia; significa, una volta sospeso il divenire, arenarsi nell’inerzia e nel languore, nell’assoluto della stagnazione, dove il verbo stesso si arena, non potendo sollevarsi fino alla bestemmia o all’implorazione»4. La teorizzazione dell’annientamento nei termini di una situazione che paralizza le energie attive ci permette di riconfermare un legame tra Cioran e l’idea kafkiana della metamorfosi per cui la riduzione allo stato vegetale si presenta come un’enfatizzazione della riduzione allo stato di insetto. La conclusione sostenuta da Cioran è quella dell’irrinunciabilità della nostra appartenenza al tempo, sia pure con tutta la negatività che essa comporta. La caduta dal tempo coincide con una pseudo-salvezza che provoca un accrescimento della sofferenza, anche se essa costituisce l’afflizione della fine nell’annientamento. Questo concetto, imparentato con l’assurdo viene così espresso dal nostro autore: «L’insensibilità al proprio destino appartiene a 3. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 118. 4. Ivi, p. 123.

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Sentinella del nulla

colui che è decaduto dal tempo e che, via via che questa decadenza si accentua, diviene incapace di manifestarsi o di voler anche solo lasciare una traccia. Il tempo, bisogna pur convenirne, costituisce il nostro elemento vitale; quando ne siamo spossessati ci troviamo senza appoggio, in piena irrealtà o in pieno inferno»5.

2. Il tempo e l’eternità Il problema del tempo è in Cioran fondamentale per la struttura ontologica del reale. Non possiamo dimenticare il suo interesse per la filosofia di Agostino, insieme all’opzione culturale che lo ha portato ad elaborare la sua tesi di laurea sul pensiero di H. Bergson. Com’è noto, questi due pensatori trovano nel problema del tempo il raccordo tra l’antropologia filosofica e l’immagine metafisica del mondo. Su questo piano, l’eredità agostiniana lo conduce a valorizzare il tempo come dimensione del soggetto e a dissolvere il tempo stesso nella struttura del reale, caratterizzata da una permanenza delle questioni, capace di tradurre sul piano filosofico le implicazioni religiose che tuttavia egli non condivide. L’eredità bergsoniana lo obbliga ad evidenziare la possibilità di una dinamica del tempo dalla quale l’uomo, per lo meno allo stato potenziale, può produrre delle linee di fuga che gli permettono di porre nell’analisi filosofica, tanto l’appartenenza, quanto l’estraneità dell’uomo stesso, alla questione del tempo. È in questa prospettiva complessa che si inserisce il problema della relazione tra tempo ed eternità, dando alle due espressioni un significato che, traendo origine dalla tradizione filosofica, si colloca in un rinnovamento metodologico del tutto particolare. In questa prospettiva, egli fornisce una definizione del tempo che sposta la sua semantica dal piano ontologico a quello esistenzia-

5. Ivi, p. 124.

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V. Il tempo e la storia

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le, chiarendo che il tempo stesso esprime uno «stiracchiamento di ogni istante fra la nostalgia del diluvio e l’ebbrezza del trantràn»6. Il riferimento al tempo non si esaurisce nella comprensione del suo significato, poiché tende ad individuare la via attraverso cui possiamo liberarci da esso, nel presupposto condivisibile, che la radice di ogni sofferenza esige la finitezza e si colloca necessariamente nel tempo. Infatti «possiamo pure sottomettere e appropriarci dell’universo, ma fino a quando non avremo trionfato sul tempo, resteremo degli iloti»7. L’elemento illusorio, sicuramente ingannevole, attraverso cui si articola il nostro tentativo di liberarci dal tempo, consiste nel fatto che «vogliamo vincere il tempo con i mezzi del tempo, durare nell’effimero, approdare all’indistruttibile attraverso la storia e, colmo del ridicolo, farci applaudire da quegli stessi che esecriamo»8. In tal modo, Cioran utilizza la teoria leopardiana delle illusioni combinandola con quella pascaliana del divertissement. Cioran tematizza la compassione nel significato che al termine attribuisce A. Schopenhauer nei confronti di colui che subisce le sofferenze a causa del tempo, ma ciò lo porta a spostare la sua attenzione sul piano autobiografico, osservando esplicitamente che: «Pietà per colui che fu nel Tempo e non potrà mai più esservi! (Decadenza inaudita: come ho potuto invaghirmi del tempo, quando ho sempre concepito la mia salvezza al di fuori di esso, così come sempre sono vissuto con la certezza che stava per esaurire le sue ultime riserve e che, roso dal di dentro, colpito nella sua essenza, mancava di durata?)»9. Chiarendo meglio la situazione, egli non esita a confessare: «Ho desiderato troppo il tempo per non falsarne la natura, l’ho isolato dal mondo, ne ho fatto una realtà indipendente da ogni altra, un universo solitario, un succedaneo dell’assoluto»10. 6. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 118. 7. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 34. 8. Ivi, p. 75. 9. Ivi, p. 119. 10. Ivi, p. 120.

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Sentinella del nulla

La questione del tempo conduce Cioran, da un lato, ad approfondire il senso del male sul piano dell’individuo, poiché il tempo stesso viene rapportato all’immagine dell’inferno, dall’altro, il tempo viene ipostatizzato nell’universo sociale, dando luogo al concetto astratto di storia. In questa chiave interpretativa, egli attribuisce alla tradizione filosofica la responsabilità di aver posto il tempo al centro delle riflessioni umane, per cui afferma che «il nostro male? Secoli di attenzione al tempo, di idolatria del divenire»11. Cioran rimane nella prospettiva agostiniana anche se trasferisce su un piano antropologico le argomentazioni di ordine teologico; egli sostiene che «non guardare né avanti né indietro, guarda in te stesso, senza paura e senza rimpianto. Nessuno scende in sé finché rimane schiavo del passato o del futuro»12. Il suo pessimismo riguarda il futuro poiché il presente, ed ancora di più il passato, appartengono ad una realtà interpretata sul piano della lucidità. Egli chiarisce: «Andate pure a vedere il futuro, se ne avete voglia. Io preferisco limitarmi all’incredibile presente e all’incredibile passato. Lascio a voi il compito di affrontare l’incredibile in se stesso»13. L’atteggiamento di Cioran è quello di valorizzare il tempo, privandolo della negatività esistenziale che esso comporta. L’unica possibilità di fare ciò è quella di sopprimere nella soggettività i desideri e nell’oggettività gli eventi. Il tempo si riduce ad una forma strutturale nella quale vengono meno i contenuti, quindi si vanificano le occasioni di sofferenza. Quanto detto viene da lui formulato nel senso di rivendicare la coappartenenza del tempo al processo di nullificazione del reale, per cui egli riconosce che «il tempo vuoto della meditazione è, in verità, il solo tempo pieno. Non dovremmo mai arrossire di accumulare

11. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 14. 12. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 82. 13. Ivi, p. 125.

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V. Il tempo e la storia

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istanti vacui. Vacui in apparenza, di fatto ben riempiti. Meditare è un ozio supremo, di cui si è perduto il segreto»14. Il problema del tempo perseguita Cioran nel senso di portarlo a rivendicare la liberazione da esso. Il suo vissuto coincide con quello della liberazione dal tempo e l’itinerario filosofico da lui prescelto trova la sua vera chiarificazione nella situazione autobiografica che è alla base delle conclusioni di ordine teoretico. Egli sostiene: «Il tempo mi è vietato. Non potendo seguirne il ritmo, mi ci aggrappo o lo contemplo, senza però mai esserci: non è il mio elemento. E invano anelo a un poco del tempo di tutti!»15. La questione del tempo, così come viene risolta da Cioran, in analogia con altri argomenti, assume un valore estetico che porta il pensatore a seguire le mode culturali dell’epoca e ad un compiacimento letterario nei confronti dell’irreparabile. In questo contesto, si rende conto che il tempo evidenzia delle implicazioni comuni all’intero problema della negatività; ciò fino al punto di concludere le argomentazioni con questa espressione riassuntiva: «Fra la Noia e l’Estasi si svolge tutta la nostra esperienza del tempo»16. Se dal duplice punto gnoseologico ed ontologico il legame del tempo con l’eternità non viene meno, risentendo dell’eredità agostiniana, il problema conduce Cioran a non ignorare le conseguenze che derivano dalla mancanza delle implicazioni religiose. Egli, su questa linea che lascia interrogativi non risolti, non esita a confessare: «Ho voluto insediarmi nel Tempo: era inabitabile. Quando mi sono rivolto verso l’Eternità, mi è mancato il terreno sotto i piedi»17. Da un punto di vista etico, l’esaltazione dei valori e l’idealizzazione del sacrificio prendono forza dall’eterno e vengono meno quando subiscono l’erosione da parte del tempo.

14. Ivi, p. 141. 15. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 44. 16. Ivi, p. 50. 17. Ivi, pp. 82-83.

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Cioran interpreta in questo modo la situazione: «Con l’eternità sullo sfondo, la gloria poteva avere un senso; non ne ha più alcuno in un mondo dove regna il tempo – dove, per colmo di sventura, il tempo stesso è minacciato»18. L’eterno, in Cioran, viene evocato sul piano esistenziale dalla cristallizzazione dell’immagine del presente; questa, come accade nel nostro pensatore, assume una simbolica ambivalente in un’alternativa di significati opposti. Il presente è l’eterno sul piano del divino, mentre è l’ossessione dell’inferno sul piano del demoniaco. In questa chiave di lettura, la situazione viene da lui così chiarita: «Quando l’eterno presente cessa di essere il tempo di Dio per diventare quello del Diavolo, tutto si guasta, tutto diventa rimuginazione dell’intollerabile, tutto precipita in questo baratro dove si aspetta invano l’epilogo, dove si marcisce nell’immortalità. Colui che vi cade si gira e si rigira, si agita senza risultato e non produce niente. Ecco perché ogni forma di sterilità e di impotenza partecipa dell’inferno»19. L’atteggiamento prometeico di un Sisifo reincarnato conduce Cioran ad un’ermeneutica dell’eterno, attraverso il sentiero irreligioso della ribellione e dell’illustrazione delle nefandezze rispetto alle quali l’uomo subisce la persecuzione di un divino irrazionale e prepotente. Questo suo atteggiamento protestatorio e satirico nei confronti dei modelli religiosi lo costringe a stigmatizzare il tempo, la storia, e l’eternità come responsabili dell’inutile ed inesplicabile sofferenza umana. In questo orizzonte, egli dichiara in modo emblematico che «il tempo è una tara dell’eternità; la storia, una tara del tempo; la vita è, anch’essa, tara della materia. Che cosa è dunque normale, che cosa è sano? L’eternità? Essa stessa non è che un’infermità di Dio»20.

18. ID., La caduta nel tempo, cit., pp. 72-73. 19. Ivi, pp. 121-122. 20. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 114.

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V. Il tempo e la storia

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3. La negatività della storia La storia, da un punto di vista filosofico, nel pensiero di Cioran, è sospesa tra il presupposto teologico-agostiniano che viene meno nella sua critica al pensiero religioso, e lo storicismo hegeliano da lui non condiviso poiché fondato sull’esaltazione progressiva del corso delle vicende umane. La sua rivalutazione del negativo, profondamente critica nei confronti della filosofia tradizionale, lo conduce ad una svalutazione del concetto di storia incapace di approdare tanto ad una salvezza escatologica di natura trascendente, quanto ad una redenzione utopica nell’ambito dell’immanenza. Il concetto di storia viene da lui considerato sul piano sociale come un’astrazione del tutto analoga a quanto accade con il tempo nell’ambito individuale. Ciò comporta che la storia stessa riassuma in se stessa la negatività umanistica dell’orizzonte sociale e viene rapportata all’utopia a partire dalla quale finisce per appartenere in modo pieno alla prospettiva della negatività. L’approccio cioraniano alla storia, già sul piano degli eventi che essa narra, appartiene all’ambito del negativo; infatti «nella storia, si è sempre sulla soglia del peggio. È questo che la rende interessante, che la fa odiare, che fa sì che non possiamo staccarcene»21. Per Cioran, è la storia ad introdurre il negativo nella vita dei popoli e nello sviluppo delle civiltà. Così per lui i popoli migliori sono quelli che riescono a rimanere lontani dallo sviluppo storico. Egli esalta l’arretratezza e condanna il progresso fino al punto di affermare che: «Residui di umanità se ne trovano ancora soltanto presso quei popoli che, lasciati indietro dalla storia, non hanno alcuna fretta di raggiungerla. Alla retroguardia delle nazioni, neppur lontanamente sfiorati dalla tentazione del progetto, essi coltivano le loro virtù fuori moda, si fanno un dovere di essere antiquati. “Retrogradi” lo sono di sicuro, e volentieri persevererebbero nel

21. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 132.

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loro ristagno se avessero i mezzi per mantenervisi. Ma non glielo permettono»22. Lo sviluppo storico accade secondo una linea analoga in tutti i periodi e predeterminata nelle fasi del suo sviluppo. Egli costruisce uno storicismo della negatività nel quale abbiamo che «una civiltà esordisce nel mito e termina nel dubbio, dubbio teorico che diventa dubbio pratico, quando lo rivolge contro se stessa»23. Cioran, da un punto di vista critico, svaluta la storia perché la trova fondata sull’elemento teologico che egli non condivide; ciò è abbastanza evidente quando interpreta gli eventi umani in una dimensione che presuppone il conflitto gnostico tra il bene e il male, la salvezza e la perdizione. In senso più esplicito, egli inquadra il processo storico tra i due elementi originari di derivazione teologica, Lucifero e Adamo, compiendo il passaggio da questa situazione fondativa relativa alle origini all’approdo escatologico del divenire. In tal modo, trova comunque la storia svuotata del suo significato anche sul piano dello svolgimento della sequenza degli eventi. In questa prospettiva, la svalutazione della dimensione storica è legata alla perdita di significato del futuro che costituisce il momento negativo del tempo. Così, «credere alla storia significa agognare il possibile, postulare la superiorità qualitativa dell’imminente sull’immediato, ritenere che il divenire sia per se stesso abbastanza ricco da rendere superflua l’eternità»24. L’elemento fondamentale che dà senso o, meglio, che provoca la caduta di senso della storia, facendola approdare al negativo, è costituito dalla crisi che coinvolge l’esistenza, sia sul piano individuale, sia su quello sociale; infatti: «Non è affatto improbabile che

22. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 27. 23. Ivi, p. 40. 24. Ivi, p. 75.

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V. Il tempo e la storia

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una crisi individuale diventi un giorno la crisi di tutti e acquisti così un significato non più psicologico, ma storico»25. Anche per Cioran la negatività approda sul piano individuale alla morte e su quello sociale all’idea della fine. In questa convinzione, la storia si conclude e si dissolve nel suo pensiero, in una idea che anticipa, nell’orizzonte esistenziale, il concetto di fine della storia, che è andato maturando nella filosofia più recente. Egli sostiene: «Non so se è legittimo parlare della fine dell’uomo; sono certo però della caduta di tutte le finzioni nelle quali abbiamo fino ad oggi vissuto. Diciamo che la storia svela infine il suo lato notturno e, per restare nel vago, che tutto un mondo crolla»26. Ciò non è estraneo alla cultura filosofica alla quale il nostro pensatore si ispira, poiché è proprio in quella francese del Novecento che, a partire dalla reinterpretazione del pensiero di G.W.F. Hegel, nasce l’idea filosofica della fine della storia mediante il concetto della post histoire. In questo contesto, l’interpretazione cioraniana della storia si libera tanto dalle filosofie illuministe del progresso, quanto dallo storicismo nelle sue diverse forme, per costruire una visione della storia stessa, ispirata al nichilismo; in questa chiave interpretativa, la storia si presenta attraverso la conclusione analitica che segue: «La storia si divide tra un passato, in cui gli uomini si sentivano attratti dal nulla vibrante della Divinità, e un oggi, in cui il nulla del mondo è privo dell’afflato divino»27. La svalutazione della storia si accompagna alle riserve nei confronti dell’idea di progresso ma anche all’esaltazione della decadenza. Cioran vede la storia umana come il tentativo, operato dalle vittime dell’ingiustizia e del potere, di assumere un ruolo di rilievo nel ricordo che acquista oggettività nelle narrazioni storiografiche.

25. Ivi, p. 123. 26. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 108. 27. ID., Lacrime e santi, cit., p. 15.

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In questa situazione, la storia finisce per mascherare l’odio e lo sfruttamento operato dai potenti nei confronti dell’umanità, che rappresenta la socialità dei popoli. Così, egli esprime l’idea per cui «la storia è indifendibile. Nei suoi confronti bisogna reagire con l’inflessibile abulia del cinico. O altrimenti mettersi dalla parte dei più, avanzare insieme alla turba dei ribelli, degli assassini e dei credenti»28. Il concetto più adeguato ad esprimere la visione cioraniana di una storia, svalutata nella sua essenza profonda, è quello di ridurla ad una rappresentazione narrativa del tutto simile ad una vicenda costituente il contenuto di una recitazione teatrale; infatti: «La storia non è che una sfilata di falsi assoluti, una successione di templi innalzati a dei pretesti, un avvilimento dello spirito dinanzi all’Improbabile»29. Di conseguenza, lo svuotamento dei valori e dei significati delle vicende umane, nonché delle aspirazioni che determinano le svolte delle civiltà, finisce per ridurre l’orizzonte della storia in un contenente formale privo di ogni consistenza oggettiva. L’unica definizione adeguata di tale concetto viene così espressa dal pensatore romeno: «La Storia: fabbrica di ideali, mitologia lunatica, frenesia delle orde e dei solitari, rifiuto di considerare la realtà quale è, sete mortale di finzioni»30. Cioran, seguendo anche questa volta Hegel, individua nei popoli i soggetti della storia umana, quindi, i periodi di decadenza e i periodi di sviluppo delle civiltà dipendono dalla forza vitale dei popoli in questione. In una situazione di tal genere, il significato negativo delle vicende storiche coinvolge nel processo di svuotamento orientato verso la nullificazione, tanto gli uomini quanto i popoli; perciò «per cogliere l’essenza del processo storico o, piuttosto, la sua mancanza d’essenza, bisogna arrendersi all’evidenza che tutte le verità che tra28. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit. p. 110. 29. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 13. 30. Ivi, p. 17.

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V. Il tempo e la storia

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scina con sé sono verità d’errore, ed esse sono tali perché attribuiscono una natura propria a ciò che non ne possiede, una sostanza a ciò che non potrebbe averne»31. Il problema del senso della storia non è in realtà, per Cioran, univoco come si potrebbe pensare dalle argomentazioni esposte fino ad ora, in quanto proprio al suo interno presenta un momento interrogativo irrisolto che è accompagnato da un’ambivalenza semantica delle soluzioni da lui proposte. Infatti egli costata che «se si vuole, la storia comporta un senso, ma questo senso la mette in questione, la nega a ogni istante e la rende per conseguenza pungente e sinistra, miserabile e grandiosa, insomma irresistibilmente demoralizzante»32. L’esempio più evidente è costituito dalla falsa conclusione che la storia sia governata dall’etica della libertà e della responsabilità, capace di estendere sul piano sociale, quanto emerge su quello individuale, per lo meno nella filosofia della tradizione occidentale; «col libero arbitrio si spiegano soltanto la superficie della storia, le apparenze di cui si ammanta, le sue vicissitudini esteriori, ma non le profondità, il corso reale, che conserva nonostante tutto un carattere sconcertante, per non dire misterioso»33. La radice della storia, per Cioran, esclude tanto la redenzione quanto la salvezza, coinvolgendo nella sua essenza negativa, il demoniaco, della presenza del quale egli si compiace fino al punto di sostenere che «la storia, il cui patrono è Arimane, calpesta questi sogni e rifugge dal contemplare la possibilità di un paradiso, anche mancato – cosa che toglie alle utopie il loro oggetto e la loro ragione d’essere»34. La conclusione di queste argomentazioni è quella della destrutturazione della verità ma anche dell’impossibilità di proporre una qualsiasi forma di riscatto della condizione umana, sia nell’orizzon-

31. ID., Squartamento, cit., p. 26. 32. Ivi, p. 33. 33. Ivi, p. 34. 34. Ivi, pp. 60-61.

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te della trascendenza, oggetto di negazione e di ironia, sia in quello dell’immanenza, in cui l’utopia perde ogni consistenza realistica o ideale. In questo ordine di idee, Cioran riconosce che «non c’è salvezza attraverso la storia. Lungi dall’essere la nostra dimensione fondamentale, la storia non è che l’apoteosi delle apparenze. Sarà mai possibile che, una volta abolito il corso della nostra esistenza esteriore, ritroviamo la nostra vera natura?»35. La storia e la metafisica subiscono, per il nostro autore, un destino comune che è quello della filosofia. Si tratta dell’inconsistenza di ogni fondazione ontologica del reale. Ciò conduce Cioran a questa affermazione in apparenza paradossale: «Tutto lascia presagire che la storia passerà e, con essa, l’essere, a danno del quale si è edificata; l’essere riposava in sé, la storia lo ha trascinato fuori di se stesso e lo ha reso partecipe delle proprie convulsioni; perciò rappresenta il terreno in cui l’essere non ha cessato di disgregarsi, di degradarsi»36. Il destino della storia è quello del tempo, vale a dire un destino di destrutturazione e di annientamento. Ciò rientra pienamente nell’antropologia filosofica cioraniana caratterizzata, come sappiamo, dalla dinamica della nullificazione. È la passività della rinuncia e del fallimento che trionfa sull’azione e sulla decisione. In questa prospettiva, assume valore tale idea: «Il rifiuto della storia sarà così radicale che la si condannerà in blocco, senza pietà, senza sfumature. Altrettanto sarà del tempo, assimilato a un lapsus o a una irregolarità»37.

35. Ivi, p. 65. 36. Ivi, p. 69. 37. Ivi, p. 80.

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V. Il tempo e la storia

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4. La storia e l’apocalisse La storia viene destrutturata tanto nella sua essenza ontologica, quanto nella sua configurazione etica, cedendo il passo alla celebrazione del negativo nelle sue diverse forme della decadenza e dell’annientamento. In questa concezione, prende corpo l’idea della fine della storia anche nella forma delle ipotesi appartenenti al catastrofismo. In tale visione degli eventi umani e del destino dei popoli nel corso delle civiltà, assistiamo alla caduta dell’idea di salvezza sia sul piano della trascendenza sia su quello dell’immanenza. Cioran non è disposto a rinunciare alle interpretazioni simboliche fornite dal cristianesimo, la sua concezione della storia non è priva di riferimenti al divino e al demoniaco, anche se poi questi residui emblematici dello gnosticismo vengono interpretati in un quadro fondamentalmente diverso rispetto a quello di ordine teologico in cui erano stati configurati. Un destino analogo coinvolge anche il concetto di apocalisse che, presente nella sua concezione filosofica della storia umana, viene interpretato enfatizzando il momento negativo della distruzione e della fine. Il punto di partenza di queste argomentazioni è costituito dalla configurazione del momento ultimo dello sviluppo delle civiltà che storicamente viene a rappresentare il segno della fine. Cioran così esprime questo concetto: «Tutto considerato, il secolo della fine non sarà quello più raffinato, e nemmeno il più complicato, ma il più convulso, quello in cui, dissoltosi l’essere in movimento, la civiltà, in un supremo slancio verso il peggio, si sgretolerà nel turbine che avrà suscitato»38. A tal proposito, egli utilizza consapevolmente l’elemento gnostico al quale abbiamo fatto più volte riferimento. Allorché interpreta la storia umana come una crescita della presa di coscienza del senso misterioso da attribuire alle vicende sulle quali ci interroghiamo, 38. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 37.

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non può far cadere la forte contrapposizione tra divino e demoniaco che per lui anima il mistero che fa trasparire il sacro, a partire dagli elementi umani di carattere profano. In questa prospettiva, così si esprime: «Quando si frequentano le verità estreme degli gnostici si vorrebbe andare, se possibile, ancora oltre, dire qualcosa di mai detto, che pietrifichi o polverizzi la storia, qualcosa che scaturisca da un neronismo cosmico»39. Anche nei confronti della storia il momento esistenziale sommerge per Cioran quello razionale per cui la comprensione delle vicende umane è oltre la storia, in quanto quest’ultima dipende dall’incapacità di vedere negli eventi il senso che destruttura ogni legame tra i medesimi. Così, «se ognuno avesse “capito”, la storia sarebbe cessata da tempo. Ma siamo fondamentalmente, siamo biologicamente inadatti a “capire”. E quand’anche tutti capissero, escluso uno, la storia si perpetuerebbe a causa di costui, a causa del suo accecamento. A causa di una sola illusione!»40. Il già e il non ancora che la teologia agostiniana attribuisce alla salvezza, nelle argomentazioni di Cioran, viene utilizzato in una forma attenuata per l’ipotesi della fine della storia, che rappresenta una specie di apocalisse del negativo. Egli configura la questione in questo modo: «La fine della storia, la fine dell’uomo? È serio pensarci? – Si tratta di eventi lontani che l’Ansia, avida di disastri imminenti, vuole precipitare ad ogni costo»41. Il problema dell’apocalisse, depauperato del suo senso religioso, si converte in Cioran nel problema della fine e, da quest’ultimo punto di vista, oscilla tra l’estetica del tragico e quella della banalizzazione. La situazione ambivalente appare emblematicamente da questo esempio: «L’avventura umana avrà sicuramente un termine, che si può immaginare senza esserne contemporanei. Quando in 39. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 112. 40. Ivi, p. 129. 41. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 112.

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V. Il tempo e la storia

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se stessi si è consumato il divorzio dalla storia, diventa del tutto superfluo assistere alla sua fine. Basta guardare l’uomo in faccia per distaccarsene e non rimpiangere più le sue frodi»42. Da un punto di vista ontologico, come la finitezza esistenziale dell’uomo è contrassegnata dai due limiti della nascita e della morte, la storia rispettivamente è caratterizzata dagli inizi e dalla fine. Tutto per Cioran rientra in un destino precostituito che è nell’essenza basilare dell’ordine delle cose. A tal proposito, abbiamo che «la fine della storia è iscritta nei suoi inizi – dato che la storia, l’uomo in preda al tempo, porta le stigmate che definiscono insieme il tempo e l’uomo»43. La fatalità e il demoniaco coincidono in una caduta di senso che si identifica appunto con l’assurdità del fato. Cioran a questo riguardo, fornisce la presente descrizione all’ermeneutica della storia: «Un genio malefico presiede ai destini della storia. Essa non ha manifestamente scopo, ma è gravata da una fatalità che ne tiene il posto e che conferisce al divenire un simulacro di necessità»44. Il nostro interprete, per il problema della storia, si colloca consapevolmente tra gli autori che trasformano il nichilismo in una vera e propria filosofia della storia, quella che negando il senso all’intero processo storico enfatizza la fine come centro di ogni significato. Ciò dà luogo ad una riduzione della totalità della storia all’orizzonte antropologico-filosofico dell’uomo, inteso quale singolo esistente. In questa prospettiva, il connubio tra la socialità della storia e l’individualità dell’esistenza si consuma in tutte le sue conseguenze, a proposito delle quali egli afferma che «dato che la catastrofe è l’unica soluzione, e la post-storia, nell’ipotesi che possa seguire ad essa, l’unico sbocco, l’unica possibilità – è lecito chiedersi se l’umanità quale essa è non avrebbe interesse a cancellarsi adesso piuttosto che estenuarsi e afflosciarsi nell’attesa, esponendosi ad un’era di

42. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 99. 43. ID., Squartamento, cit., p. 55. 44. Ivi, p. 59.

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agonia in cui rischierebbe di perdere ogni ambizione, anche quella di sparire»45. Da un punto di vista autobiografico, Cioran traccia l’itinerario che percorre il negativo nei tre ambiti della storia, dell’utopia e dell’apocalisse; per queste ultime due, così si pronuncia: «Ho cercato la salvezza nell’utopia, e ho trovato un po’ di consolazione soltanto nell’Apocalisse»46. In merito al problema della fine, Cioran percorre un analisi filosofica che muove dal presupposto della centralità del momento antropologico, non perché la fine stessa riguardi solo l’uomo, ma poiché la fine dell’uomo è semanticamente diversa da quella dell’universo. Infatti: «La Fine del Mondo – che sollievo pensarci! Ma a dire il vero si può parlare soltanto della Fine dell’Uomo, che è prevedibile, anzi certa, mentre l’altra risulta a stento concepibile. Non si capisce infatti che senso potrebbe avere parlare della fine della materia; una fine così lontana non riguarda nessuno. Restiamo dunque nei paraggi dell’uomo, dove il disastro fa parte del paesaggio, e del programma»47.

5. La decadenza, la storia e la costrizione del tempo La visione della storia cioraniana non è sempre tragica né semplice occasione per un esercizio di ironia pungente nei confronti della condizione umana, in quanto spesso egli percorre dei sentieri crepuscolari che enfatizzano la decadenza riferita sia agli i individui e ai popoli, sia al contenuto etico delle civiltà. In questa ottica, troviamo descritti sia il decadimento che la decadenza, in quanto al nostro autore interessa tracciare la continuità della caduta nella decadenza crescente.

45. Ivi, p. 66. 46. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 18. 47. Ivi, p. 123.

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V. Il tempo e la storia

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Ciò appartiene tanto alle questioni epocali della cultura, quanto al suo atteggiamento che si compiace dell’impoverimento delle situazioni fino ad annientarle nel disfacimento progressivo della condizione umana. Si tratta di un’etica che supera nel rimpianto la disperazione, ci troviamo di fronte ad una soluzione estetica che, enfatizzando il tramonto, valorizza gli aspetti poetici di una presa di coscienza letteraria delle vicende umane. Il punto di partenza delle presa di coscienza del decadimento si polarizza sui caratteri tipici della civiltà occidentale. Non possiamo dimenticare che il crepuscolo del decadimento trae le sue origini dall’opera di Osvald Spengler dal significativo titolo Il tramonto dell’Occidente, che ha avuto, sia pure nella sua banalità filosofica, una notevole fortuna letteraria. In questa prospettiva, Cioran va oltre nel percorrere i sentieri della negatività, riconoscendo che «tutti noi abbiamo assaporato il male dell’Occidente. L’arte, l’amore, la religione, la guerra – ne sappiamo troppo per crederci ancora. E poi tanti secoli vi si sono logorati […] L’epoca del finito nella sua pienezza è ormai trascorsa; la materia dei poemi? Estenuata. – Amare? Persino la marmaglia ripudia il “sentimento”. – La pietà? Frugate le cattedrali: solo gli sciocchi continuano a inginocchiarvisi. Chi vuole ancora combattere? L’eroe è sorpassato; non esiste altro ormai che la carneficina impersonale. Siamo fantocci chiaroveggenti, capaci giusto di fare moine davanti all’irrimediabile. L’Occidente? Un possibile senza domani»48. Dal punto di vista dell’individualità esistenziale, il presupposto che funge da punto di partenza viene consapevolmente dimenticato da Cioran in una prospettiva autobiografica, riferendosi al nulla come fondamento che rende impossibile ogni solida certezza fondativa. Egli presuppone: «Non posso scendere più giù nel mio nulla, non posso oltrepassare i limiti del mio decadimento»49. 48. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 60. 49. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 20.

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Sentinella del nulla

Cioran va oltre poiché la vicenda esistenziale del singolo viene vissuta nella narrazione delle sue fasi di sviluppo personali come il preludio al passaggio dall’ambito individuale a quello sociale, dalla biografia alla storia. La sua confessione viene espressa in un significativo passaggio dalla presa di coscienza individuale alle riflessioni sulla storia. Egli dice: «Nessuno è mai stato più inerme di me davanti alla “vita”. Compiere il minimo passo pratico mi sembra un’impresa eroica. Il lato esteriore dell’esistenza mi è completamente estraneo. Già da ragazzo invidiavo i pastori dei Carpazi, e ora li invidio più che mai. Tutto ciò che riguarda la civiltà mi pare un segno di decadimento, di arenamento e di desolazione»50. Il fascino linguistico manifestato da Cioran per il termine decadenza lo porta a enfatizzare anche sul piano esistenziale il processo del decadimento; ciò nei suoi diari viene così espresso: «Io sono allo stesso tempo un decaduto e un teorico del decadimento»51. La realtà del decaduto, da un punto di vista esistenziale, rappresenta la meta finale di quel processo di decadimento che costituisce l’ideale cioraniano dell’approssimazione al nulla. Nel momento in cui si trasferisce con le sue riflessioni sul piano della storia, la decadenza non si limita a ripercorrere su un piano sociale quanto accade nell’ambito individuale poiché essa si connota dell’etica del disfacimento che ripercorre in significati nuovi la tendenza tradizionale della nostalgia del rimpianto per le realtà perdute. In tale soluzione, precisa la natura della decadenza in questi termini: «La decadenza non è che l’istinto diventato impuro sotto l’azione della coscienza»52. In queste riflessioni, il legame tra storia e storiografia è rappresentato, attraverso l’esperienza della narrazione, dal tempo che determina il legame tra gli eventi nella forma della successione che non sempre implica il rapporto causale tra i medesimi.

50. Ivi, p. 67. 51. Ivi, p. 306. 52. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 144.

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V. Il tempo e la storia

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Il tempo è l’asse portante della narrazione, ma Cioran non si dedica al rinnovamento metodologico della conoscenza storica, per cui il tempo stesso, nella sua prospettiva esistenziale assume il valore di una condizione che predetermina la natura degli eventi, schiavizzandoli e facendoli essere l’espressione tipica di un fato ineluttabile. In questo senso, la storia trova nel tempo il suo condizionamento e la sua schiavitù. Perciò, quanto viene espresso attraverso l’idea della caduta nel tempo, corrisponde alla rivendicazione dell’appartenenza degli eventi umani all’ambito della storia. Essa, per dirla con gli strutturalisti, è una serie di vicende in cui la diacronia si dissolve nella sincronia. Cioran è pienamente consapevole di questa dialettica tra tempo e contemporaneità, nel senso che, da un lato, si accorge dell’effetto enfatizzante che il passato e il futuro hanno rispetto al presente ma, dall’altro, è pienamente convinto che la prospettiva della storia è sempre quella dello storico o, meglio, che le articolazione delle vicende nel tempo non annullano gli effetti presentificanti dell’egocentrismo esistenziale dell’individuo. Egli costata che «ogni generazione vive nell’assoluto, ossia reagisce come se fosse giunta all’apice della storia. Il grande segreto di tutto: sentirsi il centro del mondo. È esattamente ciò che fa ogni individuo»53. La storia universale, sia nelle teorie del progresso, sia in quelle della decadenza, secondo Cioran implica un tentativo dell’individuo di manipolare il tempo, esaltando il passato o il futuro, a scapito del presente. In questa prospettiva, l’atteggiamento del rimpianto comporta un regresso all’infinito verso una situazione iniziale sempre più remota. Ciò si risolve nella presa di coscienza che è l’uomo, al di là di ogni tempo, ad essere la radice ultima del rimpianto.

53. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 232.

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Sentinella del nulla

Questa presa di coscienza riconduce la riflessione alla negatività dell’uomo come luogo centrale di ogni analisi speculativa. La prospettiva indicata viene riassunta nelle sue fasi analitiche da Cioran in questo modo: «Ogni generazione, una volta invecchiata, ha ragione di rimpiangere i “bei tempi andati”. Risalendo di rimpianto in rimpianto, si riattraversa la Storia, e si perviene al primo rimpianto – quello dell’età dell’oro. Forse questo rimpianto va anche più lontano: che esprima la nostalgia dei tempi in cui l’uomo non era ancora uomo?»54. Questa accentuazione dell’importanza esistenziale del ricordo e dell’attesa nel processo storico pone in rilievo l’essenza della condizione umana, il che si risolve nell’orizzonte cioraniano del negativo attraverso l’enfatizzazione dell’odio che corrisponde perfettamente a quella del demoniaco. La storia vede, attraverso il tempo, la presenza nell’uomo di quel demoniaco che si manifesta nelle sembianze dell’odio. Quanto detto conduce il nostro autore a sostenere che «storia e odio: il secondo è il motore della prima. È l’odio a far andare avanti le cose quaggiù, a impedire che la Storia resti a corto di fiato. Sopprimere l’odio significa privarsi di eventi. Odio ed evento sono sinonimi. Dove c’è odio succede qualcosa. La bontà, al contrario, è statica; conserva, arresta, manca di efficacia storica, frena ogni dinamismo. La bontà non è complice del tempo; mentre l’odio ne è l’essenza»55.

6. La storia e l’utopia La lettura della storia, nella esclusione dell’interpretazione religiosa, ma anche l’ulteriore esclusione del momento ideologico proprio delle configurazioni politiche, conducono Cioran alla ricerca

54. Ivi, p. 1018. 55. Ivi, p. 1049.

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V. Il tempo e la storia

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di un senso ultimo nella storia, per trovarlo in una realtà capace di fungere da molla propulsiva per il corso degli eventi. Ciò comporta la riflessione sul concetto di utopia, il che accade in una filosofia del negativo elaborata in un tempo come il nostro, condizionato dalla sfida del nichilismo in cui si trasforma l’utopia positiva nella distopia quale forma negativa dell’utopia stessa. Cioran si trova nella condizione di riferirsi al pensiero utopico in una cultura in cui tale pensiero è minato alle sue basi di riferimento; tuttavia, e questa è una delle tante contraddizione del nostro pensatore, egli è perfettamente consapevole che non si fa storia senza utopia, in quanto quest’ultima rappresenta il polo etico-politico di attrazione di tutti gli eventi umani. La storia, nella consapevolezza del nostro filosofo, esige una metastoria che, nel caso specifico, fa rinvio ad un fondamento teologico, ma per Cioran questa soluzione è priva di ogni consistenza fondativa, per cui ne consegue che la storia universale distrugge se stessa. Egli esprime questa posizione in tal modo: «La storia, sotto qualsiasi forma la si consideri, è uno schermo che ci nasconde l’assoluto»56. Essa costituisce una forma vuota che giustifica il rinvio delle diverse generazioni a tempi differenti da quelli vissuti nel presente, con l’effetto morale di trasferire le responsabilità da una generazione all’altra, sgravando la coscienza dell’uomo dal peso etico dell’impegno esistenziale. Cioran riconosce che «i vecchi hanno ragione a criticare tutto, a rimpiangere le usanze di un tempo, lo stile di vita della loro epoca. Il presente e il futuro valgono sempre meno del passato, il quale, peraltro, non valeva molto […] Non si sa né perché né verso cosa si vada. Duplice ignoranza che è tutta la storia»57. Ne risulta una svalutazione etica e non solo storicistica del concetto di progresso, motivata dall’alibi della deresponsabilizzazione. 56. Ivi, p. 50. 57. Ivi, p. 64.

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Sentinella del nulla

Egli dichiara che «il Progresso è l’ingiustizia che ogni generazione entrante commette verso quella che l’ha preceduta»58. La storia, nella concezione filosofica consolidata, trova il suo legame naturale con l’utopia, che rappresenta il momento dell’idealità, da intendersi come la molla propulsiva che assegna uno scopo alla dinamica processuale degli accadimenti. Cioran, in prima approssimazione, riconosce la necessità di questa relazione tra storia ed utopia, ma la attribuisce ad una concezione volgare della storia dalla quale si distacca, enfatizzando il momento della crisi e ponendo l’accento sulla caduta di senso del corso degli avvenimenti umani che sono alla base dello sviluppo delle civiltà. Ad un livello di superficie, egli costata che «la vita senza utopia, a lungo andare, diventa intollerabile, almeno per le masse: il mondo ha bisogno di un delirio nuovo o rischia di pietrificarsi»59. L’utopia nella concezione cioraniana si trasforma in un problema la cui soluzione deriva dalla sua scomparsa. Essa, attraverso la satira e l’ironia o le argomentazioni che, dalla ragione conducono al sentimento, perde il suo ruolo e il suo prestigio, aprendo la via all’orizzonte della negatività, insita nella storia umana. A tal proposito afferma che: «Al pari dello spirito, il cuore si fabbrica utopie: e la più strana di tutte è quella di un universo natale, in cui ci si riposa di se stessi – cuscino cosmico di tutte le nostre stanchezze»60. L’utopia viene ad essere un elemento necessario per la comune cultura, ma rivela ad un ulteriore approfondimento la sua natura contraddittoria, che si manifesta attraverso l’oscurità dell’ambivalenza. Cioran, in questa prospettiva, non manca di constatare che «ora, l’utopia è il grottesco in rosa, il bisogno di associare la felicità, dunque l’inverosimile, al divenire, e di spingere una visione ottimista, 58. Ivi, p. 728. 59. ID., Lettera a un amico lontano, il Mulino, Bologna 1993, pp. 36-37. 60. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 50.

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V. Il tempo e la storia

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aerea, fino al punto in cui raggiunge il proprio punto di partenza: il cinismo, che voleva combattere. Insomma, una fiaba mostruosa»61. L’utopia cara ai diseredati, secondo l’interpretazione di Cioran, costituisce una soluzione condivisa nel suo significato più profondo anche dai conservatori. Egli perciò, ponendosi contro corrente rispetto alle idee consolidate, riconosce che «l’utopia è per essenza antimanichea; ostile all’anomalia, al deforme, all’irregolare, essa tende al consolidamento dell’omogeneo, del tipo, della ripetizione e dell’ortodossia»62. L’utopia, per il nostro interprete, ha in sé l’inesplicabile o, meglio, un’efficacia di tipo magico, «l’alchimia e l’utopia si congiungono: inseguendo, in campi eterogenei, un sogno di trasmutazione affine, se non identico: l’una sfida irriducibile nella natura, l’altra irriducibile nella storia»63. Il pensiero utopico viene preso in considerazione da Cioran anche dal punto di vista della sua convergenza nella negatività. Egli prende coscienza che la cultura odierna, in luogo di rinunciare all’utopia, ne enfatizza la negatività. Su questo piano ipotizza una fusione tra l’utopico e l’apocalittico, giustificando l’atteggiamento dell’uomo che si lancia nel compiacimento della negatività. Egli spiega la questione in questo modo: «Oggi, riconciliati col terribile, assistiamo a una contaminazione dell’utopia con l’apocalisse: la “nuova terra” che ci si annuncia assume sempre più la figura di un nuovo inferno […] I due generi, l’utopistico e l’apocalittico, che ci sembrano così dissimili, si fondono, stingono adesso l’uno nell’altro per formarne un terzo, meravigliosamente adatto a rispecchiare la sorta di realtà che ci minaccia»64. La critica del pensiero utopico investe la questione dello storicismo nel suo ruolo di una filosofia della storia che, rivolgendosi alla

61. ID., Storia e utopia, cit., p. 44. 62. Ivi, pp. 107-108. 63. Ivi, p. 115. 64. Ivi, p. 121.

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totalità, pretende di fornire una spiegazione esauriente ed universale dell’intero divenire storico, ed è in questa prospettiva che Cioran formula le sue argomentazioni: «L’idea che Vico ebbe di costruire una “storia ideale” e di tracciarne il “circolo eterno” si ritrova, applicata alla società, nei sistemi utopistici, la cui peculiarità consiste nel voler risolvere una volta per sempre la “questione sociale”»65. L’utopia, prodotto consapevole dei pensatori moderni, compie il tentativo di dar vita ad un paradiso nella storia, attraverso due ideali, quello dell’armonia universale e quello della giustizia perfetta; ma sono proprio questi ideali a dimostrarsi falsi e a dar luogo, ad un paradiso e ad un inferno perfetto in tutte le sue limitazioni. In questa prospettiva, Cioran ripete le critiche culturali del Novecento al pensiero utopico, in quanto la sua originalità va cercata nelle argomentazioni fortemente ironiche, che collegano l’assurdo dell’utopia alle imperfezioni proprie dei poteri storici, istituzionalmente consolidati. Il problema si articola in un tentativo di criticare alla luce della filosofia dell’assurdo, l’utopia, tanto nella sua forma positiva quanto in quella negativa. In questo quadro, il tempo e la storia per Cioran appartengono ad un’unica famiglia di concetti la cui separazione è impossibile all’interno del pensiero narrativo. Questi due concetti rappresentano due aspetti la cui diversità è complementare. Il tempo esprime una dimensione trascendentale che disciplina e coordina la successione degli eventi, mentre la storia manifesta una costruzione speculativa nella quale le relazioni tra gli eventi contengono già un’ipotesi di spiegazione. In questo Cioran si limita a seguire la filosofia della storia nell’individuazione dei parametri esistenziali, tra i quali emergono spazio, tempo, storia e previsione. L’originalità del nostro pensatore emerge dalla sua teorizzazione delle linee di fuga dell’uomo dal tempo e dalla storia. Si tratta di individuare un al di qua e un al di là rispetto a questi due assi portanti 65. Ivi, p. 129.

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V. Il tempo e la storia

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del divenire in merito ai quali la caduta e l’estraneità costituiscono due consapevolezze esistenziali, capaci di sostituire il tradizionale mondo della trascendenza sintetizzato nel concetto di eternità. Nella prospettiva indicata Cioran colloca la sua presa di posizione che non si esprime sul piano delle argomentazioni razionali, ma si manifesta nell’ordine delle aspirazioni impossibili. Siamo di fronte ad una ribellione radicale nella quale prende vita il desiderio di compiere un viaggio che possa giungere fuori del tempo. Il suo impulso nostalgico e titanico viene da lui espresso in questi termini: «La mia energia si anima solo fuori del tempo, e mi sento un vero Ercole non appena mi trasferisco con l’immaginazione in un universo dove siano state eliminate le condizioni stesse dell’atto»66. Il nostro autore è pienamente convito della validità filosofica del discorso agostiniano che rapporta il tempo all’eterno. Egli, per dare peso alle sue uscite dal tempo, condotte senza rinunciare al presupposto della finitezza esistenziale su cui si fonda tutta la sua teoria della negatività, sottopone a critica il concetto di eterno, privandolo dell’orizzonte della trascendenza e caratterizzandolo con una serie di osservazioni capaci di ridicolizzarlo. In questa prospettiva, l’eterno appare attraverso tali parole: «C’è un’eternità vera, positiva, che si estende al di là del tempo; e ce n’è un’altra, negativa, falsa, che si situa al di qua: quella stessa in cui imputridiamo, lontano dalla salvezza, fuori dalla competenza di un redentore, e che ci libera di tutto privandoci di tutto»67.

66. ID., Il funesto demiurgo, cit., pp. 133-134. 67. ID., Storia e utopia, cit., p. 127.

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Capitolo sesto

Il problema politico

1. Il pensiero reazionario Cioran, durante la sua esperienza politica in Romania, anteriore al suo esilio in Francia, si trova in una situazione storica appartenente all’affermazione, nelle politiche dei paesi Europei, dei totalitarismi di destra, cui seguirà nella sua nazione, l’esperienza del socialismo reale. Nel periodo di militanza politica del nostro autore, le sue scelte e i suoi entusiasmi coincidono pienamente con un’opzione a favore del totalitarismo di destra. Egli ha come suo ideale un governo forte con un capo rappresentativo del potere etico di cui lo stato viene ad essere l’espressione suprema. Tale concezione novecentesca viene da lui giustificata culturalmente alla luce di un conservatorismo tradizionalista, di cui la sua ammirazione per il pensiero di Joseph de Maistre è l’esempio più significativo. Su questo piano, non è possibile parlare di democrazia né teorizzare le libertà del cittadino espresse secondo la consueta teoria dei diritti inalienabili della persona umana. A proposito del regime giuridico che è ritenuto la massima garanzia della politica democratica, Cioran si esprime con questa dichiarazione appassionata: «Vituperio della specie, simbolo di un’umanità esangue, priva di passioni e di convinzioni, sorda al-

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Sentinella del nulla

l’assoluto, senza avvenire, limitata in tutto, incapace di assurgere a quell’alta saggezza secondo cui lo scopo di una discussione è la sopraffazione del contraddittore – questo era per me il regime parlamentare»1. Ciò, in quanto le sue riserve non riguardano soltanto la struttura giuridica delle istituzioni politiche, poiché rispondono ad un’esaltazione di un’aristocrazia, a partire dalla quale il popolo viene svalutato riducendolo allo stato delle masse, oggetto di dominio di un capo che è disposto a far loro subire la sua influenza carismatica. Egli così caratterizza la situazione sociale: «Le masse non si muovono solo per optare fra mali presenti e mali a venire; rassegnate a quelli che subiscono, non hanno alcun interesse ad avventurarsi verso altri, ignoti ma certi»2. Da un punto di vista filosofico, il problema politico di Cioran possiede delle fonti contraddittorie che giustificano l’atteggiamento oscillante dei critici, allorché compiono il tentativo impossibile di qualificare in modo univoco la sua posizione. Infatti, oltre a J. de Maistre già ricordato, egli si riferisce a Max Stirner e costata che la democrazia non è altro se non il prodotto della tolleranza da intendersi come debolezza. Egli sostiene: «Davo l’addio all’Unico e la sua proprietà; la saggezza mi tentava: ero finito? Bisogna esserlo per diventare un democratico sincero»3. Nella sua concezione, la tolleranza non è solo espressione di debolezza ma anche di decadenza, per cui le sue parole sottolineano che «si diventa tolleranti soltanto nella misura in cui si perde di vigore, si cade amabilmente nell’infanzia, e si è troppo stanchi per tormentare gli altri con l’amore o con l’odio»4. Il regime politico e democratico viene da lui definito: «La democrazia è insieme il paradiso e la tomba di un popolo»5.

1. ID., L’amico lontano, cit., p. 29. 2. Ivi, p. 36. 3. ID., Storia e utopia, cit., pp. 16-17. 4. Ivi, p. 17. 5. Ivi, p. 41.

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VI. Il problema politico

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Così emergono due caratteri, quello ideale che evidenzia l’ingenuità dell’illusione e quello reale che, sul piano machiavellico della meccanica dei poteri, conduce inevitabilmente il regime politico alla decadenza e al fallimento. In merito al problema della tolleranza, la questione non riguarda l’individualità della persona ma esprime l’universalità storica di un concetto epocale che filosoficamente è da ricondurre all’idea di decadenza propria, all’avviso di Cioran, tanto della modernità come condizione sociale, quanto della civiltà europea come condizione dei popoli che nel mondo dello spirito hanno compiuto il loro ruolo storico. In questa chiave interpretativa, in parte hegeliana e in parte spengleriana, egli così si esprime: «Il fatto è che la tolleranza non è soltanto lo pseudonimo della libertà, ma anche dello spirito; e lo spirito, nefasto per gli imperi ancor più che per gli individui, li corrode, ne compromette la solidità e ne accelera lo sgretolamento»6. In modo sicuramente conclusivo rispetto al concetto esposto, Cioran sottolinea le sue riserve anche in sede politica rispetto ad un futuro erroneamente ritenuto superiore al passato. In particolare abbiamo che «non c’è forma sociale nuova che sia in grado di salvaguardare i vantaggi della vecchia: una somma pressappoco uguale di inconvenienti si riscontra in tutti i tipi di società»7. Abbiamo già sottolineato come Cioran, da un punto di vista politico, ammiri i regimi autoritari e venga attratto dal fascino carismatico del capo. Secondo quest’ordine di idee, la gestione del potere viene giustificata dall’esercizio coattivo dell’autorità, indipendentemente dall’ideologia che lo possa giustificare. Così il suo atteggiamento relativo alle opzioni per il governo e la società civile, rientra in una logica a volte contraddittoria, nella quale viene espressa questa posizione etica: «Per diventare uomini politici, vale a dire per avere la stoffa di un tiranno, occorre 6. Ivi, p. 46. 7. Ivi, p. 119.

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uno sconvolgimento mentale; per cessare di esserlo, se ne impone ugualmente un altro: non si tratterrà, in fondo, di una metamorfosi del nostro delirio di grandezza?»8. In particolare, l’autoritarismo supera, in Cioran, la posizione machiavellica e si avvicina a quella hobbesiana, trasformandone la semantica attraverso il suo entusiasmo ed ammirazione che gli permette di tematizzarlo attraverso il concetto, decisamente non politico, dell’estasi. Da tale punto di vista, egli manifesta la sua opinione con questa espressione paradossale: «Il gregge umano disperso sarà riunito sotto la guardia di un pastore spietato, sorta di mostro planetario dinanzi al quale le nazioni si prostreranno, in uno stato di sgomento vicino all’estasi»9. Le considerazioni svolte superano il concetto di democrazia giustapponendo, a questo, quello di autoritarismo. Il passaggio è netto e privo di argomentazioni giustificative; questo è un procedimento consono alla metodologia cioraniana che costruisce la sua filosofia attraverso affermazioni allusive di carattere asistematico che assomigliano più agli appunti che non ad una trattazione analitica degli argomenti affrontati. Questa filosofia concilia, nell’ambito politico, l’autoritarismo con la tradizione, costruendo una visione dello stato e della governabilità, ispirata al conservatorismo e alla legittimazione del potere in base alle ragioni storiche sulle quali esso si fonda. Ne deriva un’idealizzazione del sovrano anche quando si presenta come un tiranno, in cui la posizione politica del cittadino, che decide la sua obbedienza rispetto al potere costituito, è configurata nella ideologia del reazionario che Cioran caratterizza attraverso la ricostruzione storica di autori specifici, tra i quali, come già detto, emerge la figura di J. de Maistre. L’opzione politica di Cioran coincide con una scelta che si esprime attraverso una non scelta; egli, più che entusiasmo, manifesta 8. Ivi, p. 55. 9. Ivi, p. 56.

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indifferenza nei confronti delle questioni dello stato. Ciò si spinge fino al punto di ritenere: «La differenza fra regimi non è importante quanto sembra; voi siete soli per forza, noi lo siamo senza costrizioni. C’è poi tanta differenza tra l’inferno e uno sconfortante paradiso? Tutte le società sono inique, ma riconosco che ci sono dei gradi e ho scelto questa perché so distinguere tra le sfumature del peggio»10. Il relativismo cioraniano si evidenzia in una prospettiva storica, all’interno della quale egli costata che «ogni civiltà crede che il suo modo di vivere sia il solo buono e il solo concepibile, che debba convertire il mondo ad esso oppure infliggerglielo; questo modo di vivere equivale per essa a una soteriologia esplicita o camuffata; in realtà, a un imperialismo elegante, che però cessa di esserlo non appena si accompagna all’avventura militare»11. All’interno di questo orientamento, la decadenza politico-sociale di una civiltà si giustifica alla luce della crescita di interesse per i fenomeni umani, «più un impero si umanizza, e più si sviluppano le contraddizioni per le quali perirà»12. Di conseguenza le idee in sé sono prive di motivazioni, capaci di renderle più o meno accettabili; il discorso si sposta sull’uomo in merito all’interesse o al disinteresse con i quali vengono accolte le idee stesse; Cioran così manifesta tutto il suo soggettivismo: «In se stessa ogni idea è neutra, o dovrebbe esserlo; ma l’uomo la anima, vi proietta i propri ardori e le proprie follie; impura, trasformata in convinzione, essa si inserisce nel tempo, assume forma di evento»13. In realtà, se da un lato le preferenze del soggetto rendono un’idea meritevole di essere accolta, dall’altro esse stesse fanno sorgere il rischio di trasformare l’idea in ideologia, in una situazione in cui la verità dei fatti viene falsata e subordinata all’efficacia suggestiva delle idee medesime; così «lasciata la realtà per l’idea, e l’idea per

10. ID., L’amico lontano, cit., p. 38. 11. ID., Storia e utopia, cit., pp. 42-43. 12. Ivi, p. 46. 13. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 13.

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l’ideologia, l’uomo è caduto in un universo derivato, in un mondo di sottoprodotti, in cui la finzione assume le virtù di un dato primordiale. Questa caduta è il frutto di tutte le rivolte e di tutte le eresie dell’Occidente, e tuttavia l’Occidente si rifiuta di trarne le ultime conseguenze»14. Questa è la situazione nella quale il reazionario trova le sue certezze politiche delegandone la responsabilità al potere costituito e consolidato, dal momento che l’idea possiede in sé una fragilità ed un’astrattezza ineliminabili.

2. La tradizione e la rivoluzione Il problema delle preferenze politiche sposta in Cioran il suo significato nell’ambito storico e precisamente nel destino dell’Occidente, connotato dai segni della decadenza. In questa situazione, si colloca la questione del tempo che nel suo pensiero dà maggiore rilievo al passato piuttosto che al futuro, il quale si vanifica nel concetto di nichilismo. La questione così caratterizzata privilegia la tradizione rispetto alla rivoluzione perché, da un punto di vista etico, il filosofo romeno predilige la conservazione rispetto all’innovazione. Egli in una prospettiva culturale guarda con interesse l’antico rispetto al moderno e apre le sue preferenze al rimpianto per le realtà perdute, in quanto non crede nella possibilità di conquiste di orizzonti diversi e imprevedibili. La prospettiva indicata, aperta alla comprensione della decadenza e non a quella dello sviluppo, assimila il comportamento dei popoli e delle nazioni a quello degli individui, per cui l’ideale cioraniano della nullificazione e dell’annientamento ottenuto attraverso il lento disfacimento delle energie attive, viene da lui applicato al comportamento dei popoli.

14. ID., Storia e utopia, cit., p. 26.

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Egli precisa che «le nazioni stanche dei loro dèi o di cui gli dèi stessi sono stanchi, quanto più civili saranno, tanto più facilmente rischieranno di soccombere»15. Neppure la passione riesce a modificare l’aspirazione di Cioran alla passività sistematica del proprio atteggiamento ideale; la sua negatività non consiste nell’oggetto al quale essa si dirige, ma nel fatto di realizzare l’incremento della propria attività. Egli scrive che «la passione conferisce dimensioni a ciò che non ne ha, erige un’ombra a idolo o a mostro, pecca contro il vero peso degli esseri e delle cose. Commette anche crudeltà nei confronti sia degli altri sia di se stessa, poiché non la si può provare senza torturare e torturarsi»16. Il concetto di ribellione, in Cioran, perde i suoi caratteri titanici e prometeici presenti in A. Camus, per assumere una caratteristica fallimentare e rinunciataria, capace di favorire il sogno di caduta nel nulla che anima tutta la sua filosofia. Perciò «la rivolta, fierezza del decadimento, non trae la sua nobiltà se non dalla sua inutilità; le sofferenze la destano e poi l’abbandonano; la frenesia la esalta e la delusione la disconosce […] Essa non potrebbe avere senso in un universo non valevole»17. Cioran, in quest’ottica, manifesta nei confronti dei popoli un biasimo maggiore rispetto a quello che caratterizza le sue relazioni con gli altri uomini. Ciò, in quanto il nichilismo che connota la condizione umana cresce nella misura in cui dalla sfera individuale passiamo alla realtà sociale. Tale caratterizzazione è molto diversa da quella espressa da Rousseau, poiché l’elemento negativo non è effetto di una corruzione proveniente dall’esterno, in quanto è connaturato con l’essenza stessa del fenomeno umano. Possiamo comprendere quanto detto riflettendo su questa affermazione: «I popoli, assai più che gli individui, ci ispirano sentimenti contraddittori; li si ama e li si detesta nello stesso tempo; oggetto 15. Ivi, p. 70. 16. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 86. 17. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 58.

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d’attaccamento e d’avversione, non meritano che si nutra per essi una passione definita»18. Anche la questione della scelta tra tradizione e rivoluzione implica un atto di libertà, ma in Cioran ed in particolare nella sua idea di decadenza anche la libertà si connota di nichilismo in quanto si realizza in modo pieno nell’opzione della rinuncia e dell’annullamento, «essere liberi significa emanciparsi dalla ricerca di un destino, rinunciare a far parte sia degli eletti sia dei reprobi; essere liberi significa esercitarsi a non essere niente»19. Anche la libertà subisce la conseguenza di inserirsi nel processo di decadimento a partire dal quale la caduta di senso degli eventi della storia umana diventa l’unica vera questione di senso del nichilismo cioraniano; perciò «la libertà non trova respiro se non fra gli epigoni disillusi e sterili, nelle menti delle epoche di decadenza, quelle in cui lo stile si disgrega e ispira tutt’al più un compiacimento ironico»20. La concezione cioraniana che esalta la tradizione e diffida della novità, non rinuncia tuttavia all’etica della libertà, nella quale prende forma una teleologia di miglioramento della condizione umana, che possiede tutto il fascino della trascendenza, sia pure in una utopia problematica; infatti «della libertà, è reale solo il miraggio; senza questo, la vita non sarebbe praticabile, e neppure concepibile»21. Le considerazioni precedenti pongono in evidenza l’individualismo antisociale di Cioran in cui, venendo meno il senso profondo della coesione sociale, le scelte politiche perdono la loro consistenza nella contraddittorietà dell’esaltazione del capo carismatico, da un lato, e dell’opzione per le soluzioni qualunquiste, dall’altro. Si tratta, più che di una critica, di un vero e proprio svuotamento delle ideologie che permette di inquadrare la relazione tra tradizione e rivoluzione in un comportamento anti-ideologico nel quale

18. ID., Storia e utopia, cit., p. 20. 19. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 69. 20. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 108. 21. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 122.

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la storia propone un nichilismo della decadenza che si inquadra teoricamente in una vera e propria anti-ideologia della quale non si costruisce un’immagine sistematica.

3. Al di là degli assolutismi politici Da un punto di vista storico, la posizione politica del nostro pensatore, rifiuta gli assolutismi filosofici costruiti dalla modernità che, nel corso della civiltà occidentale, hanno dato luogo ai progetti sociali di tipo ideologico. Si tratta di proporre una destrutturazione del pensiero sistematico che interpreta la prassi storica, a favore di un’ermeneutica nichilista degli eventi umani in cui il progetto di costruzione della città o della nazione, viene affidato ai vissuti emotivi, occasionali delle circostanze contingenti. Questa posizione prende l’avvio dalla presa di coscienza del significato del concetto di modernità, che per Cioran si contrappone a quello di antichità e sostituisce la filosofia della tradizione classica con la religiosità cristiana. In questo orizzonte morale, le figure problematiche centrali sono quella di don Chisciotte e di M. Lutero, dove l’ironia e la protesta aprono la via a quello scetticismo costante, destinato ad approdare al compiacimento della decadenza. Da tale punto di vista, emerge la genesi del nichilismo proprio nella negazione delle certezze ontologiche ed etiche della modernità, a proposito delle quali Cioran formula, nel suo consueto metodo di sfida, questa precisazione: «Per noi, il cielo è diventato una pietra sepolcrale! Il mondo moderno ha ceduto alla seduzione delle cose finite»22. La radice profonda della crisi è insita nelle condizioni storiche della modernità che possiede una semantica contraddittoria e fortemente interrogativa rispetto a quella degli antichi, «con il 22. ID., Lacrime e santi, cit., p. 21.

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Rinascimento comincia l’eclissi della rassegnazione. Di qui l’aureola tragica dell’uomo moderno. Gli antichi accettavano la propria sorte»23. Ne consegue una presa di coscienza che sposta i termini della questione dal concetto astratto di modernità alla soggettività esistenziale di ciascun essere umano. Questo spostamento dà senso alla tragicità coinvolgendo i vissuti esistenziali del singolo. Cioran dichiara che «l’uomo moderno è agli antipodi dei santi, non a causa della sua leggerezza ma per la sua impudenza tragica, per la sete di disinganni perennemente rinnovati»24. La questione di fondo non è storica ma filosofica e riguarda direttamente la crisi della fede nonché il processo di secolarizzazione. Le sue argomentazioni pongono in primo piano le questioni dottrinali che sono alla base della crisi insita nella modernità. Egli sostiene che «non si contesterà che c’è nel pensiero moderno, in opposizione all’agostinismo e al giansenismo, tutta una corrente pelagiana – l’idolatria del progresso e le ideologie rivoluzionarie ne saranno il risultato – secondo la quale noi costituiremmo una massa di eletti virtuali, emancipati dal peccato d’origine, plasmabili a piacere, predestinati al bene, suscettibili di tutte le perfezioni»25. Per Cioran, la cultura francese rappresenta una revisione profonda di tutto il patrimonio di valori e di consapevolezza che ha ereditato dalla cultura romena. Il dubbio dipende più dal cartesianesimo che dallo scetticismo antico; è proprio la modernità illuministica che produce la caduta di senso del nichilismo, come conseguenza ultima del dubbio cartesiano. Egli precisa che «bisogna immaginare un principio autodistruttivo di essenza concettuale, se si vuole capire il processo attraver23. Ivi, p. 26. 24. Ivi, p. 34. 25. ID., Storia e utopia, cit., p. 132.

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so cui la ragione arriva a scalzare le proprie basi e a corrodere se stessa. Non contenta di dichiarare impossibile la certezza, essa ne esclude persino l’idea, e andrà anche oltre, respingerà qualsiasi forma di evidenza, giacché le evidenze procedono dall’essere, da cui si è distaccata; e questo distacco genera, definisce e consolida il dubbio»26. Il dubbio in Cioran non possiede un significato costruttivo, come invece accade nella visione cartesiana; egli elabora una rivisitazione nichilista del dubbio metodico, nella quale si produce questa conseguenza: «Il dubbio non varca il Rubicone, non varca mai nulla; il suo esito logico è l’inazione assoluta – punto estremo concepibile in astratto, di fatto inaccessibile»27. La questione del dubbio non è concettuale ma esistenziale ed è appunto questo che allontana Cioran dallo scetticismo tradizionale per elaborare una concezione che, invece di ridursi ad una filosofia pura e semplice, è capace di interpretare la modernità, trovando in essa il nichilismo come la sua anima nascosta.

4. I vissuti dell’io Il punto centrale della concezione filosofica di Cioran, con tutte le difficoltà che comporta l’interpretazione del suo pensiero, condotta alla luce di un modello sistematico, trova nell’antropologia filosofica, il concetto di fondo al quale vanno ricondotte tutte le idee particolari che egli ha elaborato nei settori specifici. In questa posizione, non è possibile costruire una teoria coerente e completa della persona umana, mentre troviamo dei riferimenti all’io, al sé, alla coscienza e ai vissuti interiori. Il che ci fa pensare al residuo di una concezione esistenziale dell’essere umano in cui l’individuo nella sua singolarità rappresenta una realtà spirituale che

26. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 43. 27. Ivi, p. 45.

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è inseparabile dal contesto biologico di una corporeità dotata di istinti e di emozioni. In questo quadro multiforme e complesso vi è spazio per la fenomenologia dei vissuti dell’uomo, da quelli di carattere più spirituale fino a quelli più oscuri e più inconfessabili, radicati nel mistero biologico della specie con tutta l’eredità emotiva che questa contiene, dalle sue origini fino ai suoi ultimi sviluppi. I caratteri dell’essere umano vengono precisati da Cioran a partire da una ricerca esistenziale della sua essenza, condotta fenomenologicamente, attraverso un’immersione nell’originario. Egli, invece di indulgere a schemi filosofici consolidati, quali ad esempio quelli proposti di M. Stirner e di S. Kierkegaard, si immerge nella propria autoconsapevolezza relativa alla genesi e alla consistenza della soggettività, affermando: «Sono un essere degli albori del mondo, in cui gli elementi non si sono cristallizzati, in cui il caos primigenio è alle prese col suo folle turbinio. Sono la contraddizione assoluta, il parossismo delle antinomie e il limite delle tensioni, in me tutto è possibile, perché sono l’uomo che riderà nel momento supremo, davanti al nulla, nell’agonia della fine, nell’istante dell’ultima tristezza»28. Nel riflettere sulla propria interiorità, Cioran incontra il senso del nichilismo, attraverso lo spazio vuoto della nullificazione. Ciò lo porta a recuperare questa consapevolezza: «Sono attratto dalle lontananze, dal grande vuoto che proietto sull’esistenza. Un vuoto che si estende dallo stomaco al cervello, traversando organi e membra, simile a un fluido impalpabile e leggero, a un sommesso palpito. E non so perché, nell’espansione progressiva di questo vuoto, di questa vacuità che cresce all’infinito, sento la presenza misteriosa e inspiegabile dei sentimenti più contrastanti che possano agitare l’animo umano. Sono felice e infelice nello stesso tempo, esaltato e depresso, dominato dalla disperazione e dal piacere, in seno alla più contraddittoria delle armonie»29. 28. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 101. 29. Ivi, p. 121.

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Cioran vede la soggettività nel suo carattere dinamico e nel suo processo di sviluppo anche se poi quest’ultimo, secondo la lezione del nichilismo, acquista una semantica involutiva. Egli pone in luce come, a partire dall’analisi concettuale elaborata sul piano del pensiero, si giunge al vissuto attraverso le tematizzazioni esistenziali delle emozioni e dei sentimenti. Così, in una forma letteraria che ricorda le considerazioni autobiografiche, troviamo: «Qualsiasi cosa io tenti, non sarà altro che la manifestazione di un decadimento, patente o camuffato. Per molto tempo ho teorizzato dell’uomo-fuori-da-tutto. Quell’uomo ora lo sono diventato, lo incarno. I miei dubbi sono giunti al traguardo, le mie negazioni hanno preso corpo. Vivo ciò che prima mi figuravo di vivere. Mi sono trovato un discepolo, finalmente»30. Da un punto di vista storico, la dinamica della consapevolezza, relativa ai vissuti profondi della propria soggettività, viene giustificata da Cioran attraverso i simboli culturali che rispondono alle sue preferenze e alle sue antipatie. Egli descrive sinteticamente in questi termini la questione: «Le mie preferenze: l’età delle Caverne e il secolo dei Lumi. Però non dimentico che le grotte sono andate a sfociare nella Storia, e i salotti nella Ghigliottina»31. In questo orizzonte, la definizione filosofica del soggetto viene desunta dal nichilismo sempre presente nelle argomentazione cioraniane, per cui se cerchiamo una definizione dell’essenza dell’io siamo costretti a trovarla nell’indefinito spazio del nulla. Egli così si esprime: «Niente più oggetti, niente più ostacoli, né scelte da schivare o affrontare; sottratto ugualmente alla schiavitù della percezione e dell’atto, l’io, trionfante sulle proprie funzioni, si riduce a un punto di coscienza proiettato nell’indefinito, fuori del tempo»32.

30. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 94. 31. Ivi, p. 159. 32. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 45.

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La concezione cioraniana della soggettività non raggiunge la filosofia se non attraverso l’autobiografia, il sentiero della concettualità si frammenta in quello esistenziale dei propri vissuti. Da tale punto di vista, acquistano rilievo gli atteggiamenti personali che danno forza agli interrogativi e ai vissuti che caratterizzano la propria esperienza di pensiero. Non possiamo dimenticare questa sintesi particolarmente significativa nella quale Cioran così dice: «Né abbastanza infelice per essere poeta, né abbastanza indifferente per essere filosofo, io sono soltanto lucido, abbastanza però per essere condannato»33. Da un punto di vista metodologico va tenuto presente che Cioran non si chiude in un’esistenzialità solipsistica, in quanto il suo indulgere ai vissuti è un espediente, di natura letteraria, a partire dal quale egli intende riproporre, in un modo più efficace rispetto alla tradizione metafisica della filosofia, i concetti più adeguati a comprendere la condizione umana nella sua essenza profonda. In questa prospettiva, è emblematica questa considerazione: «Non sono i miei inizi ad importarmi, è l’inizio stesso. Se mi scontro con la mia nascita, con un’ossessione secondaria, è perché non posso battermi contro il primo momento del tempo. Ogni malessere individuale è riconducibile, in ultima istanza, a un malessere cosmogonico, dato che ogni nostra sensazione espia quel misfatto della sensazione primordiale attraverso cui l’essere sgusciò fuori da non si sa dove»34. Lo stile letterario di Cioran molto spesso è di maniera, in quanto indulge all’iperbole o al paradosso ed è sempre animato da una ansia di perseguire l’originalità. Ciò lo porta a porre in primo piano gli effetti estetici anche a scapito della logica argomentativa. Da un punto di vista filosofico, i suoi approfondimenti si allontanano dai pensatori che li hanno ispirati e si esprimono in un crescente disincanto dalle filosofie ufficiali

33. ID., Lacrime e santi, cit., p. 81. 34. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 21.

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dalle quali attinge il suo patrimonio culturale, per cui egli privilegia il concetto rispetto alle fonti. Di tale metodologia è perfettamente consapevole, infatti espone egli stesso il procedimento che segue: «Più vado avanti, meno mi incuriosisce il delirio. Non amo più, fra i pensatori, che i vulcani raffreddati»35. La sua concettualizzazione assume un valore catartico rispetto all’esperienza soggettiva dalla quale trae le sue origini. Ciò assume un valore simbolico di un esempio da seguire; così il nostro interprete sostiene: «Mondato, non fosse che per qualche minuto, dalle impurità che offuscano e ingombrano lo spirito, accedo a una coscienza da cui l’io è evacuato, e sono placato come se riposassi al di fuori dell’universo»36. Anche nelle argomentazioni che riguardano l’essenza dell’uomo, Cioran preferisce lo scetticismo alle soluzioni ispirate ad una concezione religiosa. Ciò rappresenta un argomento costante per tutta la sua analisi speculativa; relativamente all’argomento che stiamo approfondendo troviamo questa espressione paradigmatica: «Io mi sento più al sicuro accanto a un Pirrone che a un S. Paolo»37. Anche in questa prospettiva trionfa il relativismo che esprime l’aspetto più adeguato per il soggettivismo e seppure Cioran si professa esplicitamente come un antifilosofo, la sua posizione, pur intervallata da entusiasmi religiosi, viene ad essere fedele ad uno sfondo scettico; egli in particolare sostiene: «Io costruisco una forma di universo: ci credo, e quello è l’universo – eppure esso si sgretola sotto l’assalto di un’altra certezza o di un altro dubbio»38. Cioran rifiuta la costruzione di un soggetto sul piano ontologico della tradizione filosofica, sostituendolo con la consapevolezza esistenziale dei vissuti appartenenti alla propria consapevolezza.

35. Ivi, p. 45. 36. Ivi, p. 99. 37. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 15. 38. Ivi, pp. 183.

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Su questa linea soggettivistica dà valore ad una concezione antropologica che risente delle proprie scelte etiche. Ne risulta che la sua presa di coscienza dello spazio soggettivo, coincide con il suo ideale di annientamento delle energie attive dell’io. Ciò implica il passaggio dalla centralità della prima persona a quella della terza persona a cui l’io stesso deve ridursi per annullare, nell’impersonalità anonima, gli slanci della soggettività individuale. Così si esprime: «Io aspiro alle notti dell’idiota, alle sue sofferenze minerali, alla fortuna di gemere con indifferenza come se si trattasse dei gemiti di un altro, a un calvario in cui si è estranei a sé, in cui le proprie grida vengono da altrove, a un inferno anonimo nel quale si danza e si ghigna distruggendosi. Vivere e morire in terza persona, esiliarmi in me stesso, dissociarmi dal mio nome, distolto per sempre da quello che fui; attingere infine – dato che la vita è tollerabile solo a questo prezzo – la saggezza della demenza»39. Di conseguenza le argomentazioni conducono alla tematizzazione di una presa di coscienza eccezionale che comporta un progetto di ribellione. Cioran sottolinea: «Io non lotto contro il mondo, io lotto contro una forza più grande, contro la mia stanchezza del mondo»40. La posizione di Cioran, sospesa sulla precarietà ed orientata verso l’orizzonte del nulla, trova il suo spazio ai confini dell’assurdo nell’orizzonte del solipsismo. Questo approdo alla solitudine viene da lui così formulato: «In questo momento, sono solo. Che cosa posso augurarmi di meglio? Una felicità più intensa non esiste. Sì, quella di sentire, a forza di silenzio, la mia solitudine crescere»41. Nell’itinerario interrotto e frammentato delle precedenti considerazioni, confluisce tutta la teoria antropologica di Cioran caratte-

39. Ivi, p. 203. 40. ID., Squartamento, cit., p. 116. 41. Ivi, p. 171.

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rizzata dal primato dell’esistenza ma accompagnata dall’inquietudine e dalla ribellione. Egli, dal punto di vista asistematico, elabora una filosofia del soggetto che traccia lo spazio dell’individualità umana proponendo e distruggendo le categorie tradizionali di sé, di coscienza e di soggetto.

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Capitolo settimo

La questione dello stile

1. Il limite del linguaggio La filosofia, in una prospettiva metodologica, distingue i pensatori sistematici da quelli asistematici e Cioran appartiene sicuramente ai secondi. In lui la questione è più complessa poiché egli appartiene a quella svolta filosofica a proposito della quale i contenuti si caratterizzano per la scelta dei codici espressivi più idonei ad affrontarli. In questo livello metodologico, emergono la forma e lo stile dei contesti comunicativi, in particolare il primato delle scelte estetiche, insieme a quello dei linguaggi allusivi nonché della metafora, comporta la formulazione delle argomentazioni attraverso proposizioni brevi di intenso effetto suggestivo. L’espressione poetica, l’aforisma e soprattutto l’appunto sono lo strumento più adeguato per l’efficacia espositiva dei problemi esistenziali. Siamo di fronte ad una trattazione che pone in rilievo i significati concettuali, mediante gli strumenti capaci di favorire il processo meditativo del pensiero. Su questo piano, le argomentazioni logico-dimostrative vengono superate attraverso le due vie del pensiero narrativo e di quello poetico.

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Quest’ultimo, nelle riflessioni di Cioran, costituisce il veicolo più idoneo per assicurare l’efficacia comunicativa degli argomenti proposti. L’interesse del nostro pensatore per le espressioni brevi e per i termini emblematici è legato ad una questione in parte estetica e in parte metodologica che traspare dal suo atteggiamento contraddittorio nei confronti della scrittura. Egli, a tal proposito, dice: «Scrivere è un vizio di cui ci si può stancare. In verità, io scrivo sempre meno, e finirò probabilmente col non scrivere più del tutto, col non trovare più il minimo fascino in questa lotta contro gli altri e contro me stesso. Quando ci si dedica a un argomento, anche un argomento qualsiasi, si prova un senso di pienezza, accompagnato da un pizzico di albagia. Fenomeno ancora più strano: quella sensazione di superiorità quando si evoca una figura che si ammira. Con quanta facilità, nel mezzo di una frase, ci si crede il centro del mondo! Scrivere e venerare non vanno d’accordo: lo si voglia o no, parlare di Dio è guardarlo dall’alto. La scrittura è la rivincita della creatura e la sua risposta a una Creazione raffazzonata»1. Egli persegue l’ideale di stabilire un contatto comunicativo diretto con il minimo possibile di partecipazione linguistica, tuttavia non riesce a liberarsi del fascino espressivo della parola, infatti «per sventura, il distacco è indifferenza al linguaggio, insensibilità alle parole. Ora, proprio perdendo il contatto con le parole si perde il contatto con gli esseri»2. Si determina, nel suo pensiero, un rapporto alternativo e contraddittorio tra il pensiero concettuale e le espressioni linguistiche, fino al punto di contrapporre le certezze conoscitive al linguaggio espressivo, stabilendo tra i due piani una relazione inversamente proporzionale, così «quando vi sono certezze, viene meno lo stile: la cura dell’espressione è la prerogativa di coloro che non possono addormentarsi in una fede. Mancando di un solido appoggio, essi 1. E.M. CIORAN, Esercizi di ammirazione, cit., p. 215. 2. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., pp. 100-101.

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VII. La questione dello stile

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si aggrappano alle parole – simulacri di realtà; gli altri, invece, forti delle loro convinzioni, disprezzano l’apparenza delle parole e si abbandonano all’agio dell’improvvisazione»3. La sua sfiducia nei confronti delle argomentazioni è conseguente a quella che nutre nei confronti del linguaggio, quindi ogni dimostrazione equivale ad un’opinione ed è destinata ad essere relativa come le opinioni stesse, dunque «che una realtà si nasconda dietro le apparenze è, tutto sommato, possibile; che il linguaggio possa esprimerla, sarebbe ridicolo sperarlo. Perché allora farsi carico di un’opinione piuttosto che di un’altra, perché indietreggiare davanti al banale o all’inconcepibile, davanti al dovere di dire e di scrivere tutto e il contrario di tutto? Un minimo di saggezza ci obbligherebbe a sostenere tutte le tesi contemporaneamente, in un eclettismo del sorriso e della distruzione»4. L’ideale risiede nel silenzio. Cioran diffida della parola pur riconoscendo che la struttura del nostro essere dipende da un originario linguistico, così dichiara che «non c’è salvezza se non nell’imitazione del silenzio. Ma la nostra loquacità è prenatale. Razza di parolai, di spermatozoi verbosi, noi siamo chimicamente legati alla parola»5. La questione fondamentale è quella, da un lato, del rapporto tra la realtà colta dai sensi e le idee prodotte dall’intelletto, dall’altro, tra le idee e le parole utilizzate per comunicarle. L’ideale di Cioran sarebbe a favore del primo rapporto. Il linguaggio rappresenta una necessità inerente alle situazioni comunicative, nelle quali cresce la relatività e diminuisce la penetrazione della verità oggettiva della conoscenza. Questo è il motivo per cui, se è vero che l’uomo non può liberarsi dal linguaggio, è anche vero che deve compiere lo sforzo di ridimensionare al minimo le espressioni linguistiche in modo da ridurre le occasioni di errore. 3. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 12. 4. Ivi, p. 19. 5. Ivi, p. 20.

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Ciò spiega le scelte metodologiche di Cioran, orientate sempre a valorizzare i livelli minimali delle formulazioni linguistiche. Questa soluzione risponde, non solo ai suoi orientamenti estetici, ma soprattutto al rinnovamento filosofico al quale egli tende con le sue opzioni di natura metodologica.

2. L’aforisma e la metafora Dal punto di vista stilistico, Cioran segue F.W. Nietzsche e tutti gli autori che con lui perseguono in filosofia il rinnovamento dei codici espressivi. Il suo problema di fondo è quello di delineare nella precarietà estetica delle espressioni linguistiche, i confini del nulla nei quali il dicibile emerge dal non dicibile in un rapporto del tutto simile a quello che nei linguaggi figurativi esiste tra l’immagine e lo sfondo. In questa situazione espressiva, lo strumento più adatto per ottenere gli effetti desiderati è l’aforisma che riassume in sé l’elemento poetico, l’efficacia allusiva e la potenza semantica della metafora. È questa una scelta stilistica che trova nell’espressione letteraria le esigenze sintetiche da conciliare con il rigore contraddittorio ed instabile dei metodi asistematici. Cioran giustifica la sua opzione stilistica per l’aforisma, non con argomenti di tipo logico o di tipo metodologico inerente ai contenuti, bensì attraverso gli stati emotivi propri dell’ambito esistenziale; egli afferma che «coltivano l’aforisma soltanto coloro che hanno conosciuto la paura in mezzo alle parole, quella paura di crollare con tutte le parole»6. A proposito del poeta, la posizione di Cioran è analoga, nel senso che il valore di questo personaggio, nelle vicende storiche della letteratura risponde all’efficacia emotiva del suo modo di incidere sulla realtà dei comportamenti e dei valori. Perciò «il poeta: un furbo che può crogiolarsi nella noia, che si accanisce sulle perplessità e 6. Ivi, p. 15.

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se ne procura in tutti i modi. Poi l’ingenua posterità si commuoverà su di lui»7. Di conseguenza, la semantica del poeta acquista le sue potenzialità più profonde dal carattere indefinito e indefinibile delle espressioni linguistiche dalle quali dipendono gli effetti estetici della poesia. Ciò è tanto vero che Cioran così caratterizza la situazione: «La poesia esprime l’essenza di ciò che non si riesce a possedere; il suo significato ultimo è l’impossibilità di qualunque “attualità”»8. In tale direzione la poesia teorizzata da Cioran è quella che appartiene al suo orizzonte esistenziale della negatività, per cui egli pone una considerazione che sicuramente non è applicabile universalmente al pensare poetico. Egli sostiene con il dogmatismo che gli è proprio che «tra la poesia e la speranza, l’incompatibilità è totale; così il poeta è vittima di un’ardente decomposizione»9. Da un punto di vista etico, per Cioran il compito del poeta è superiore a quello del filosofo, nel senso che è capace di incidere in modo più profondo nell’esistenza personale dell’uomo. Egli così formula una considerazione esaltante per esprimere questo concetto: «Assai più che alla scuola dei filosofi, è a quella dei poeti che si apprende il coraggio dell’intelligenza e l’audacia di essere se stessi»10. La scelta dell’aforisma e l’esaltazione del valore del componimento poetico non esauriscono l’avventura metodologica minimalista di Cioran, rispetto alle espressioni linguistiche da privilegiare. Egli, nella sua ricerca di un’estrema sintesi, si rivolge al frammento con queste considerazioni: «Il frammento, genere ingannevole certamente, benché il solo onesto»11. Il discorso che subordina il primato dello stile al primato dell’esistenza non vale per Cioran soltanto all’interno dei generi letterari o 7. Ivi, p. 22. 8. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 129. 9. Ibid. 10. Ivi, p. 131. 11. ID., Squartamento, cit., pp. 163-164.

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dei codici espressivi, poiché coinvolge globalmente l’intero corpus della scrittura. A proposito del libro formula questa significativa considerazione: «Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle. Un libro deve essere un pericolo»12. Su questo piano, è proprio l’insieme della scrittura riferita alle questioni filosofiche che possiede per Cioran un’intensa validità esistenziale. Mentre la scrittura è complessivamente un modo per esprimere l’antiutopia, nello stesso tempo il saggio filosofico non deriva da una scrittura stilisticamente sistematica, ma viene prodotto da una comunicazione letteraria che, dotata di significati esistenziale di carattere autobiografico, costituisce la vera modalità per proporre un saggio antropologico di natura filosofica, anche se non è composto nel genere filosofico ritenuto tale dalla tradizione. Cioran formula questa considerazione paradossale: «Nello scrivere un saggio sulla essenza dell’uomo, mi accorgo che farei meglio a dargli il tono di una confessione. È un soggetto autobiografico per eccellenza»13. Cioran non dà importanza allo sviluppo delle argomentazioni ma si impegna piuttosto a porre in rilievo, da un lato, i problemi e, dall’altro, le conclusioni dei suoi ragionamenti. Ciò si risolve nel porre l’accento sul momento frammentario della sua produzione ma da un punto di vista metodologico non si tratta di un errore o di una omissione poiché egli esplicitamente compie un lavoro di ripulitura dei suoi scritti in cui lo sforzo coincide con la volontà di togliere ciò che è ovvio e ciò che è ripetuto. La conclusione asistematica delle sue argomentazioni costituisce un’esplicita conquista della sua scrittura. Così dichiara: «Il brutto del mio modo di scrivere sono i residui del mio stile filosofico. E ciò che rende un po’ ardua la lettura dei miei libri è l’eliminazione delle frasi intermedie, esplicative, apparentemente superflue, ma in fondo necessarie perché facilitano il compito al lettore. Ma poiché ho riscritto ogni mio testo tre o 12. Ivi, p. 87. 13. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 62.

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quattro volte, mi sono accanito a sopprimere quelle frasi parassite ma inutili. Forse si dovrebbe pubblicare la prima stesura, ossia la versione in cui si spiega a se stessi ciò che si vuole “dimostrare”, “provare”, ciò che si crede di aver scoperto»14. Tra le soluzioni allusive del linguaggio, acquista rilievo la metafora come modo poetico di riscrivere l’immagine dell’uomo e del mondo. Ciò nell’intento di superare i confini del dicibile per avventurarsi attraverso il dire nell’orizzonte arcano del non dicibile. Cioran si distacca dalla retorica tradizionale fondata sulla semantica dei termini, coincidente con la loro definizione, per avvicinarsi alla nuova retorica che, nella filosofia odierna, apre le possibilità interpretative dell’ermeneutica. Su questa base la metafora si allontana dalle argomentazioni logiche per addentrarsi nel mondo delle composizioni poetiche. Egli afferma: «Qualcuno ha detto che una metafora “deve poter essere disegnata”. – Tutto quello che da un secolo è stato fatto di originale e di vivo in letteratura contraddice questa affermazione. Perché, se qualcosa ha fatto il suo tempo, è proprio la metafora dai contorni definiti, la metafora “coerente”. Proprio contro di essa la poesia non ha cessato di rivoltarsi, al punto che una poesia morta è una poesia affetta da coerenza»15.

3. La composizione poetica Già Aristotele distingue gli ambiti del linguaggio apofantico da quello semantico, facendo rientrare nel secondo tanto le composizioni poetiche quanto quelle narrative, sia della storia, sia del racconto di finzione per usare l’espressione ricoeuriana. Cioran, dopo aver abbandonato le soluzioni logico-argomentative e dopo aver formulato le sue riserve nei confronti della filosofia tradizionale, si rivolge, come M. Heidegger al pensare poetico, per14. Ivi, p. 425. 15. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 86.

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correndo una via sostanzialmente diversa da quella del pensatore tedesco. Egli giunge alla poesia a partire dalla letteratura, evidenziando i significati stilistici della sua scelta. Si tratta in particolare di utilizzare la poesia in chiave esistenziale, seguendo la letteratura decadente e crepuscolare diffusa nella cultura francese del Novecento, riproponendo in un orizzonte postromantico le tematiche che il romanticismo aveva già affrontato nella cultura dell’Ottocento. Cioran non pone in confronto la diversità del linguaggio da un punto di vista sincronico ma stabilisce una diacronia che esprime la dinamica di un risultato, conquistato attraverso un itinerario sofferto, per cui che la poesia costituisce il punto di approdo delle sue riflessioni. Egli non esita a riconoscere: «Abbastanza ingenuo da mettermi in cerca della Verità, avevo un tempo passato in rassegna – senza alcun risultato – molte discipline. Cominciavo già a rafforzarmi nel mio scetticismo quando mi venne l’idea di consultare, ultima risorsa, la Poesia: chi sa, forse mi sarà utile, forse sotto la sua arbitrarietà nasconde una rivelazione definitiva. Risorsa fallace! Nella negazione si era spinta più avanti di me e mi fece perdere finanche le mie incertezze»16. Il pensare poetico è, per Cioran, una conquista, accompagnata dalla sofferenza. Ciò comporta che nell’analisi di questa soluzione metodologica viene in questione il rimpianto per una scoperta compiuta soltanto in ritardo. Da un punto di vista autobiografico, nei suoi Quaderni, viene sottolineato: «Incessante poesia senza parole; silenzio che rimbomba sotto di me. Perché non ho il dono del Verbo? Essere sterili con tutte queste sensazioni! Ho coltivato troppo il sentire a scapito dell’esprimere; sono vissuto per la parola – e così ho sacrificato il dire. Tanti anni, tutta una vita – e neanche un verso!»17. 16. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 22. 17. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 16.

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Se Cioran è dubbioso nei confronti del filosofo, non lo è di meno rispetto al poeta. Per questa produzione letteraria, egli ribadisce l’inopportunità di conferirle il prestigio di una creazione umana, capace di esprimere una positività impossibile. Perciò suo ideale rimane quello della sterilità che coincide con l’unico comportamento adeguato alla nullificazione che annienta ogni desiderio e ogni speranza. Su questo piano, apparentemente contraddittorio, egli così si esprime: «L’unico che ha del garbo è lo sterile, colui che si tiene in ombra insieme al suo segreto, perché disdegna di ostentarlo: i sentimenti espressi sono una sofferenza per l’ironia, uno schiaffo all’umorismo»18. In questa direzione, Cioran si allontana da S. Kierkegaard; mentre quest’ultimo fa dello scrittore colui che esercita una missione straordinaria nell’esistenza, egli invece svaluta questo ruolo evidenziandone l’eccesso del linguaggio, rispetto ai contenuti, affermando che «lo scrittore dice sempre – è la sua funzione – più di quello che ha da dire: dilata il suo pensiero e lo riveste di parole»19. Il canone della scrittura, per Cioran, si dissolve nel relativismo dello sviluppo storico, viene meno per lui tanto l’ideale classico, quanto quello moderno, in una linea interpretativa nella quale è proprio l’ideale che si dissolve in sé stesso, perciò egli dice che «lo scrittore moderno, non avendo più sede nel tempo, doveva prediligere uno stile convulso, epilettico. Possiamo rammaricarci che sia così e valutare con amarezza i danni causati dall’abbattimento degli antichi idoli. Resta comunque il fatto che ci è impossibile aderire ancora a una scrittura “ideale”»20. Dato quanto precede, lo scritto costituisce per Cioran una sofferenza nella sua composizione e un elemento negativo allorché ha avuto compimento. Perciò l’opera dello scrittore, una volta realizzata, viene privata dell’elemento esistenziale che la anima per cui 18. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 94. 19. Ivi, pp. 96-97. 20. Ivi, p. 122.

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egli dà corpo ad una forma di negatività che la svaluta nella sua realtà di prodotto ormai immodificabile. Cioran manifesta quest’opinione attraverso una affermazione letteraria di grande effetto suggestivo: «Un libro è un suicidio differito»21. Ne consegue che il valore di un’opera letteraria coincide per lui con la capacità dell’opera stessa di conservare il suo potenziale distruttivo. In questa prospettiva, Cioran si rivolge al carattere demoniaco che una certa parte della letteratura contemporanea riesce a comunicare. Questo viene espresso attraverso un riferimento ad alcuni letterati ben determinati che si qualificano in questa direzione: «Se Nietzsche, Proust, Baudelaire o Rimbaud sopravvivono alla fluttuazione delle mode, lo devono alla loro crudeltà disinteressata, alla loro chirurgia demoniaca, alla generosità del loro fiele. Ciò che consente a un’opera di durare, ciò che le impedisce di essere datata, è la sua ferocia. Affermazione gratuita? Pensate al prestigio del Vangelo, libro aggressivo, libro velenoso se mai ve ne fu»22. La composizione poetica rappresenta la produzione letteraria più idonea ad esprimere il contenuto esistenziale delle istanze filosofiche in una situazione argomentativa, lontana dalla tradizione speculativa e vicina a quella che Cioran manifesta come antifilosofia. Tale discorso si avventura in una terra di confine tra la riflessione meditativa e l’estetica letteraria, nella quale il nostro autore manifesta le sue preferenze per comunicare i problemi che lo preoccupano.

4. L’ironia, il grottesco e il paradosso Da un punto di vista letterario, Cioran utilizza l’ironia e il grottesco per rinforzare gli effetti già perseguiti attraverso il paradosso. In 21. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 94. 22. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 18.

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realtà, in filosofia, l’utilizzazione di questo espediente metodologico non è nuova e attraversa, sia pure in una linea secondaria, tutto il pensiero occidentale da Socrate a S. Kierkegaard. Si tratta di rivolgersi all’efficacia delle affermazioni nel momento in cui la logica argomentativa non permette di ottenere gli effetti voluti. Nel nostro pensatore la questione è interpretabile anche da un punto di vista estetico, in quanto egli cerca di recuperare il significato delle proposizioni linguistiche attraverso la vivacità espressiva del discorso, ottenuta per vie collaterali rispetto alla pura e semplice drammatizzazione tragica. Per il pensatore romeno, l’ironia non riguarda l’oggettività impersonale delle argomentazioni proposte, ma risponde ad un criterio soggettivo del filosofo che manifesta, già attraverso quest’opzione stilistica, la sua sofferenza del pensare. Cioran definisce l’ironia come «privilegio delle anime ferite. Ogni discorso che ne sia dettato è testimonianza di una segreta lacerazione. L’ironia è di per sé una confessione, o la maschera che indossa la pietà di se stessi»23. Nel caso dell’ironia, emerge la consueta contraddittorietà delle tesi di Cioran, poiché, se da un lato egli riconosce in essa una modalità per esprimere e mascherare la sofferenza di una ferita esistenziale, altrimenti non facilmente esprimibile, dall’altra egli sottolinea il carattere non serio del discorso ironico che nella sua oggettività espressiva si allontana dai problemi quasi per intraprendere un proposito di fuga. Così «l’ironia è un esercizio che palesa la mancanza di serietà dell’esistenza. L’io converte il mondo in niente, perché l’ironia procura sensazioni di potenza solamente dopo che tutto è stato abolito»24. La questione, come si rende conto lo stesso Cioran, è molto più complessa, poiché l’ironia, proprio per il suo carattere indefinito e poliedrico, esprime un atteggiamento difficilmente riconducibile ad una semantica univoca e la sua scelta risponde fondamental23. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 57. 24. ID., Lacrime e santi, cit., p. 72.

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mente al carattere non chiaro e definibile, a sua volta, degli argomenti che intende esprimere. Perciò egli è conseguente nel dire che «l’ironia deriva da un desiderio d’ingenuità deluso, insaziato, che, a furia di fallimenti, s’inasprisce e s’invelenisce. Essa assume inevitabilmente un’estensione universale; e se critica di preferenza la religione e la mina, è perché prova in segreto l’amarezza di non poter credere»25. In realtà, egli preferire l’ironia ad altre modalità espressive; ciò non è, per i pensatori simili a Cioran, una questione che si può ridurre soltanto ad una preferenza di stile, ma investe direttamente la natura degli argomenti affrontati, per cui i caratteri dell’ironia manifestano quelli degli argomenti stessi. Egli afferma che «siamo tutti nell’errore, eccetto gli umoristi. Essi soltanto hanno scoperto come per gioco l’inanità di tutto ciò che è serio e anche di tutto ciò che è frivolo»26. Su una linea analoga, che comprende tanto lo stile quanto i contenuti, si colloca il grottesco che si orienta, per la sua componente estetica, ad esprimere il negativo nella sua natura più autentica. Il nostro pensatore riconosce questa conseguenza ritenendo che «il grottesco appare solo nel parossismo degli stati negativi, quando una carenza di vita provoca grandi tormenti; è un’esaltazione della negatività»27. Il grottesco rivela una qualità estetica del tutto affine a quella che nel romanticismo, veniva manifestata con l’estetica del brutto. Cioran si riferisce ad un atteggiamento contrario agli ideali del classicismo, dicendo che «la complessità del grottesco nato dalla disperazione risiede nella sua capacità di suggerire un infinito interiore e un estremo parossismo. Come potrebbe, questo, oggettivarsi nella dolcezza dei tratti o nella purezza dei contorni? Il grottesco essenzialmente nega la classicità, così come ogni idea di stile, di armonia o di perfezione»28. 25. ID., Squartamento, cit., p. 49. 26. Ivi, p. 140. 27. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 28. 28. Ivi, p. 29.

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Il momento stilistico fondamentale non è il grottesco ma l’ironia, a proposito della quale Cioran presuppone che essa esprima perfino un’essenza ontologica del reale, pertanto «Eraclito si è sbagliato: non è il fulmine, è l’ironia che governa l’universo. È essa la legge del mondo»29. Il paradosso, come l’ironia e il grottesco, è nel contempo una questione di stile e un aspetto dei contenuti affrontati. Cioran risente del pensiero di S. Kierkegaard, svuotandolo dei suoi contenuti teologici legati al cristianesimo. Quanto detto comporta che il paradosso costituisce una manifestazione adeguata della natura del reale nel momento in cui essa trascende le possibilità della conoscenza. Su questa linea si può condividere tale idea: «Ai margini di Dio, del mondo e di se stessi, sempre ai margini! Si è tanto più uomini quanto meglio si avverte questo paradosso, quanto più vi si pensa e si percepisce il carattere di non evidenza connesso al nostro destino; giacché è incredibile che si possa essere uomini […], che si disponga di mille facce e di nessuna, e che si muti identità a ogni istante senza tuttavia allontanarsi dalla propria decadenza»30. La derivazione kierkegaardiana dell’utilizzazione filosofica del paradosso porta Cioran alla necessità di valutarne la sua idoneità ad esprimere l’essenza delle argomentazioni religiose. La separazione tra i due filosofi è netta poiché, per S. Kierkegaard il valore del paradosso consiste proprio nella possibilità di esprimere per tale via l’inesprimibile del messaggio cristiano, mentre per Cioran l’oscurità di tale figura stilistica si risolve nell’evidenziare l’inadeguatezza di ogni teologia relativamente alla comunicazione di un messaggio su Dio che appare, già nella sua natura, inseparabile da una problematicità senza soluzione. Su tale via egli denuncia la negatività delle concezione religiose, infatti «più i paradossi su Dio sono audaci, meglio ne esprimono

29. ID., Squartamento, cit., p. 97. 30. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 18.

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l’essenza. Perfino le ingiurie gli sono più vicine della teologia o della meditazione filosofica»31. Dal punto di vista metodologico, il discorso si inquadra in una filosofia che cerca altre vie dopo aver esasperato le possibilità della ragione, facendone emergere la lucidità, intesa quale concetto capace di stravolgere l’esistenza, in un approdo che non è proprio di Cioran in quanto è piuttosto una questione epocale consistente nella tematizzazione specifica dell’assurdo. Tale concetto acquista in lui un significato del tutto particolare: «La passione dell’assurdo non può nascere se non in un uomo in cui tutto è stato liquidato, ma che potrebbe subire spaventevoli trasfigurazioni. A chi ha perduto tutto resta solo questa passione»32. Quanto riferito non si esaurisce sul piano delle argomentazioni filosofiche, poiché acquista il valore di una situazione esistenziale, vissuta in una progressività che la caratterizza come un vero e proprio itinerario percorso da un punto di vista autobiografico. Tale itinerario ha, quale sua meta di riferimento, la nullificazione che è sempre cara al pensiero di Cioran, il quale considera che «solo dopo aver assaporato tutte le venefiche delizie dell’assurdo si è completamente purificati, perché soltanto allora si è portato l’annientamento all’ultima espressione. E non è assurda ogni espressione ultima?»33.

5. I corollari estetici Se in una prospettiva complessiva la filosofia di Cioran è strettamente legata alla sua posizione letteraria e tiene conto degli effetti estetici della scrittura, troviamo nel suo pensiero anche lo sviluppo di temi specifici appartenenti all’ambito estetico e al mondo della arti, con una particolare attenzione per l’orizzonte della musica.

31. ID., Lacrime e santi, cit., p. 87. 32. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 21. 33. Ivi, p. 22.

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Egli di fatto, espone la sua filosofia attraverso l’intera produzione culturale che risponde ai suoi interessi personali. Relativamente al mondo delle arti, Cioran si distacca tanto dalle posizioni classiche quanto da quelle romantiche. Potremmo dire che si colloca oltre la posizione hegeliana delle Lezioni sull’estetica, in cui la storia dell’estetica occidentale si conclude nella famosa espressione l’arte è morta. Cioran anticipa il futuro prevenendo la concezione post-romantica; afferma che: «Essendo ormai logore le forme dell’espressione, l’arte si avvia verso il nonsenso, verso un universo privato e incomunicabile. Un fremito intelligibile, si tratti di pittura, di musica o di poesia, ci sembra a ragione desueto o volgare. Il pubblico scomparirà presto; l’arte lo seguirà da vicino. Una civiltà che cominciò con le cattedrali doveva finire con l’ermetismo della schizofrenia»34. All’interno delle produzioni culturali appartenenti all’ambito artistico, egli sopravvaluta la poesia per il suo carattere di parola vivente attraverso la quale si esprime l’esistenza: «Anche quando siamo a mille miglia dalla poesia, partecipiamo ancora ad essa per questo bisogno improvviso di urlare – stadio ultimo del lirismo»35. Riguardo ai generi letterari appartenenti alla produzione poetica, Cioran apprezza particolarmente quello lirico per la sua capacità di proiettare all’esterno al sovrabbondanza di energie spirituali. Egli compie una considerazione concernente le modalità espressive, prescindendo dalla qualità dei contenuti, in quanto rispetto ad essi, ci potremmo aspettare un apprezzamento positivo del genere tragico. Non va dimenticato il frammentarismo del suo pensiero e il carattere asistematico che lo conduce spesso ad affermazioni contraddittorie. In merito alla lirica in particolare egli sostiene che «il lirismo rappresenta un impulso a disperdere la soggettività, perché denota, nell’individuo, un’effervescenza insopprimibile che continuamente 34. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., pp. 14-15. 35. Ivi, p. 15.

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esige espressione. Essere lirici significa non poter restare chiusi in se stessi. Tale bisogno di esteriorizzazione è tanto più imperioso quanto più il lirismo è interiore, profondo e concentrato»36. A proposito del lirismo la posizione di Cioran è più complessa poiché egli si rende conto che la scelta stilistica è inseparabile dalla qualità dei contenuti espressi, egli entra in merito ad essi con tale precisazione: «Il lirismo della sofferenza provoca un incendio, e attua una purificazione interiore in cui le ferite non sono più semplici manifestazioni esterne, senza implicazioni profonde, ma partecipano della sostanza stessa dell’essere»37. La potenza della rivolta non si esaurisce nelle argomentazioni che utilizzano la parola, perciò la posizione antifilosofica di Cioran estende la sua possibilità attraverso le potenzialità dei mezzi espressivi di carattere estetico. Tanto le arti figurative, quanto la poesia, che viene da lui privilegiata, non riescono a garantire l’avventura nel mondo del non dicibile. In questa prospettiva, il superamento del pensare filosofico si realizza per lui pienamente attraverso la musica. In essa l’esaltazione della vertigine raggiunge dei livelli elevati irraggiungibili con qualsiasi altra forma di linguaggio. Cioran dice: «C’è in me una nostalgia di qualcosa che non esiste nella vita e nemmeno nella morte, un desiderio che su questa terra niente appaga, fuorché, in certi momenti, la musica, quando evoca le lacerazioni di un altro mondo»38. L’esalazione fantastica e spesso incontrollabile dell’espressione musicale, esaspera il solipsismo dell’esistenza in chi si immerge nella lava incandescente del negativo. Cioran, riflettendo su questa situazione di esasperazione dell’immaginario, si rivolge alla musica e sottolinea la capacità di liberare le energie inconfessabili.

36. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 16. 37. Ivi, pp. 17-18. 38. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 84.

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Egli riconosce: «La musica smuove tutto ciò che vi è di impuro in me; più è “nobile”, più risveglia i miei rancori sopiti e gli odi che di solito ho vergogna di confessare a me stesso. È soprattutto Bach che mi ha fatto conoscere l’entità e la profondità dei miei fetori»39. Egli attribuisce un valore sostanzialmente positivo all’espressione musicale, nel senso di stabilire una particolare e significativa comunità tra gli uomini; «è attraverso la musica che si creano i legami più profondi fra gli esseri umani»40. La musica garantisce il superamento della disperazione e apre, in modo inconsueto per Cioran, il sentiero della speranza, poiché stabilisce le condizioni per garantire l’ulteriorità dopo la morte, in tal modo supera il limite delle religioni ma anche l’insufficienza delle dimostrazioni metafisiche; il nostro filosofo asserisce che «ascoltando Händel. – So che la musica mi tocca veramente quando, grazie a lei, per me morire non significa più niente, perché non posso morire, perché sono per sempre al di sopra della morte. Miracolo che soltanto la musica compie e, forse, ogni forma di estasi»41. In questo paragrafo troviamo delle considerazioni, attraverso le quali Cioran, rifugiandosi nelle suggestioni dell’estetico, compie il tentativo di superare i limiti che si era attribuito nell’orizzonte della filosofia. È significativo che il suo riferimento alle arti, alla letteratura ed in particolare alla musica, gli permette di realizzare nella suggestione allusiva, il compito della filosofia o delle visioni religiose. Ciò si compie in riferimento ad un’estasi ottenuta nella vertigine dell’immaginazione con mezzi capaci di dissolvere anche la via della meditazione.

39. Ivi, p. 202. 40. Ivi, p. 364. 41. Ivi, p. 574.

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6. I corollari etici Nella visione esistenziale di Cioran non troviamo un’esposizione ordinata dei problemi affrontati, ma possiamo compiere un tentativo di isolare alcuni nuclei di questioni per vederne lo sviluppo della modalità di trattazione. Tra questi nuclei acquista rilievo quello etico che si riferisce ad alcuni comportamento umani considerati alla luce dei valori morali che ci consegna la tradizione del pensiero occidentale. Questi valori possono essere di carattere positivo o negativo e risultano in ogni caso filtrati dalla coscienza individuale che si assume le responsabilità delle decisioni e dei comportamenti che ne conseguono. Per Cioran, la vita dell’uomo è condizionata da un destino oscuro i cui segni sono spesso indecifrabili, tuttavia il suo peso occupa pienamente l’esistenza. In tale situazione si producono le radici di una ribellione profonda che raggiunge le soglie dell’assurdo. Spesso il destino funge anche da elemento di giustificazione che genera l’irresponsabilità di alcuni accadimenti dei quali siamo autori, così «ciò che chiamiamo “forza d’animo”, è il coraggio di non figurarci diversamente il nostro destino»42. Il destino è ontologicamente legato alla struttura del tempo in cui si iscrivono gli eventi umani, perciò la sua genesi si colloca in quello originario esistenziale che da Cioran è espresso attraverso il concetto di caduta, pertanto: «Precipitati nel tempo dal sapere, fummo simultaneamente dotati di un destino. Giacché non v’è destino se non fuori del paradiso»43. La semantica del destino perciò oscilla tra l’originario ontologico della condizione umana e lo strumento di giustificazione consolante e deresponsabilizzante, utilizzato dall’uomo nei confronti della medesima. 42. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 123. 43. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 7.

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Cioran ribadisce il concetto con i seguenti termini: «Per dispensarmi dall’agire, i popoli oppressi si rimettono al “destino”, salvezza negativa e insieme mezzo per interpretare gli avvenimenti: filosofia della storia ad uso quotidiano, visione deterministica su base affettiva, metafisica di circostanza»44. Il destino si presenta con il peso drammatico del fato che si impone condizionando la vita dell’uomo col generare l’angoscia dell’inevitabile. La negatività di tale condizionamento viene interpretata da Cioran con la semantica del demoniaco che accentua il progressivo procedere nella via della distruzione, pertanto «solo il demonismo del tempo genera il sentimento dell’irrimediabile, che fatalmente si impone a noi contrastando le nostre tendenze più profonde. Essere pienamente persuasi di non poter sfuggire a una sorte amara, che desidereresti diversa, essere sottoposti a una fatalità implacabile, avere la certezza che il tempo non farà che rendere attuale il processo drammatico della distruzione, ecco le espressioni dell’irrimediabilità e dell’agonia»45. È l’intero processo storico che nella dinamica del tempo acquista per Cioran il significato negativo del demoniaco. Ciò vale ancora di più a causa della modernità che viene da lui vissuta come una perdita per la negatività del progresso e dell’accelerazione del tempo che la accompagna, così «ogni passo avanti, ogni forma di dinamismo comporta qualcosa di satanico: il “progresso” è l’equivalente moderno della Caduta, la versione profana della dannazione»46. Il senso negativo che approda al desiderio del nulla, attraverso il processo di distruzione, è per Cioran insito nella radice esistenziale dell’essere umano. Si tratta di prenderne coscienza e di tematizzarne il significato, considerando che «il desiderio di distruzione è così radicato in noi che nessuno riesce a estirparlo. Fa parte della costituzione di ognuno, giacché il fondo dell’essere stesso è certamente 44. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 53. 45. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 41. 46. ID., La caduta nel tempo, cit., pp. 27-28.

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demoniaco. Il saggio è un distruttore placato, in pensione. Gli altri sono distruttori in servizio»47. Tale considerazione viene compiuta con il consueto linguaggio che sospende il tragico attraverso l’ironia. Il substrato della questione evidenzia gli effetti di un vissuto che rivela la presenza della negatività nella realtà più profonda di ogni individualità umana. Da un punto di vista etico, le considerazioni precedenti conducono Cioran al superamento del rimpianto, attraverso l’enfatizzazione sempre negativa della rinuncia. In questo quadro, la libertà è del tutto simile al nietzschiano amor fati che puntualizza l’importanza dell’accettazione della condizione immediata dell’esistenza; in tal caso, da un punto di vista filosofico, la libertà iscritta nel destino coincide con la necessità. In questa situazione la sterilità accentua la sua importanza divenendo una vera e propria abulia. Cioran si pone sulla linea delle etiche rinunciatarie, tematizzate nel mondo classico, poiché si propone di limitare il ruolo attivo delle passioni. La sua interpretazione dell’infelicità morale, eredita dallo gnosticismo e da una certa cultura cristiana, figlia del neoplatonismo, la contrapposizione tra spirito e materia, e «poiché l’infelicità si è insinuata nel mondo con la sensazione, la cosa migliore sarebbe quella di annientare i nostri sensi e lasciarci cadere in un’abulia divina»48. La posizione cioraniana non giunge alla tematizzazione filosofica dell’universale attraverso il concetto, esso viene conseguito attraverso il vissuto esistenziale. La condizione solipsistica della presa di coscienza viene ad essere il momento centrale di ogni osservazione che riguarda l’essere umano, comprese quelle che appartengono alla negatività, «in un mondo di sofferenze, ciascuna di esse è solipsistica rispetto a tutte le altre. L’aspetto originale dell’infelicità è

47. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 126. 48. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 87.

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dovuto alla qualità verbale che la isola nell’insieme delle parole e delle sensazioni»49. In tale contesto, l’etica della virtù viene messa in discussione poiché, nella protesta cioraniana, il vizio, per la negatività che lo accompagna, è più significativo della virtù, la quale manifesta tutta la sua astrattezza e non permette la comprensione esistenziale dell’essenza dell’umanità che si interroga ribellandosi sul suo cammino.

7. La felicità negativa La protesta e la ribellione coinvolgono insieme al destino negativo della civiltà occidentale, il successo e la bontà. Cioran pone in questione questi concetti esaltando l’essenza oscura dell’essere umano. In questo modo di procedere, egli così si esprime: «Tutte le morali rappresentano un pericolo per la bontà; soltanto l’incuria la salva. Avendo scelto la flemma dell’imbecille e l’apatia dell’angelo, mi sono escluso dagli atti e, poiché la bontà è incompatibile con la vita, mi sono decomposto per essere buono»50. L’esaltazione della condizione negativa giunge fino al punto di utilizzare il vizio al posto della virtù, facendo di questo una metafora, capace di interpretare in modo emblematico e paradossale, l’assurdo, insito nella questione in esame, perciò «fissando l’individuo a un settore del reale, radicandolo in esso, il vizio, che non fa nulla alla leggera, lo occupa, lo approfondisce, gli offre una giustificazione, lo sottrae al vago»51. Ne consegue una felicità in termini negativi, modellata sulla concezione stoica del mondo antico, nella quale la soppressione dei desideri toglie le motivazioni profonde della sofferenza.

49. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 34. 50. Ivi, p. 191. 51. ID., Storia e utopia, cit., p. 82.

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Per Cioran l’interpretazione è alquanto diversa poiché la soppressione dei desideri non si limita a togliere le radici della sofferenza, in quanto si propone l’ulteriore obiettivo di incrementare il processo di avanzamento verso l’orizzonte del nulla, perciò «la felicità non è nel desidero ma nell’assenza di desiderio, e più esattamente nell’entusiasmo per questa assenza – dove vorremmo poter avvoltolarci, inabissarci, sparire, gridare»52. La questione è perfettamente coerente con la concezione di Cioran in cui ripropone una ridefinizione del concetto di felicità, totalmente diverso da quella dell’etica tradizionale. Siamo qui di fronte ad un discorso del tutto simile a quello che egli offre a proposito del concetto di utopia che viene preso in considerazione in termini negativi, anziché positivi. A proposito della felicità, egli formula la seguente definizione: «Quanto alla felicità, se questa parola ha un senso, essa consiste nell’aspirazione al minimo e all’inefficace, nell’al di qua eretto a ipostasi»53. La ribellione cioraniana non è soltanto titanica o prometeica in ragione della misura sproporzionata della piccolezza dell’uomo o della grandezza della totalità dell’essere, ma coincide con la dissoluzione di qualsiasi obiettivo capace di motivarla, per cui è abbastanza simile alla camusiana fatica di Sisifo. La differenza crea una distanza anche da questa poiché non emerge soltanto il concetto di inutilità, bensì quello di assenza totale di un obiettivo e il valore teleologico dell’annullamento trae proprio origine da questa assenza; «la ricerca della liberazione si giustifica soltanto se si crede nella trasmigrazione, al vagabondaggio infinito dell’io, e se si aspira a porvi termine. Ma, per noi che non ci crediamo, porre termine a che cosa? A questa nostra durata unica, e infima? Essa è manifestamente troppo breve, perché meriti a fatica di sottrarvisi»54.

52. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 103. 53. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 31. 54. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 112.

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La liberazione, privata di un progetto da realizzare, si ripiega in se stessa e trova nel negativo l’unico scopo che coincide con la vanificazione di qualsiasi impulso vitale, offerto dall’esistenza. Cioran dichiara che «la fede nell’evoluzione, nell’identità del divenire e del progresso non crollerà se non quando, giunto al limite, all’estremo del suo errore, l’uomo, rivolto finalmente verso il sapere che conduce alla liberazione e non alla potenza, sarà in grado di opporre un no irrevocabile alle proprie imprese e al proprio operato»55. Nell’abisso senza fondo aperto da Cioran attraverso il processo di liberazione, non vi è spazio né per la trascendenza né per un’immanenza statica né tanto meno per un rinvio all’infinito, poiché tale processo finisce per demolire in sé lo stretto scopo di nullificazione. L’uomo intraprende l’unica strada possibile della sua esistenza senza poter formulare un progetto per il proprio cammino; egli «distaccato dalle proprie imprese e dai propri misfatti, è arrivato alla liberazione, ma a una liberazione senza salvezza, preludio all’esperienza integrale della vacuità, a cui è molto vicino quando, dopo aver dubitato dei propri dubbi, finisce col dubitare di sé, con lo sminuirsi e con l’odiarsi, col non credere più alla propria missione di distruttore»56. Nella religiosità irreligiosa di Cioran, l’unica conclusione ad un processo di liberazione non liberatoria è una nullificazione perseguita con l’impegno di tutte le energie spirituali, del tutto simile ad un’ascesi senza la conquista di una purezza spirituale. Egli formula queste considerazioni: «Solo con l’ascesi, e cioè negandosi tutto, si diventa invulnerabili. Ed è solo allora che il mondo non ha più alcun potere su di noi»57.

55. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 21. 56. Ivi, p. 48. 57. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 65.

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8. Per un’antropologia filosofica Cioran formula un’antropologia filosofica che supera il cogito moderno senza rinunciare all’individualismo; egli non approda alle letture politico-sociali che danno luogo alle ideologie filantropiche, rivoluzionarie o anarchiche. La sua è un’analisi esistenziale della condizione umana nella quale il solipsismo della ribellione trionfa, sia pure attraverso la minaccia della presenza dell’altro, che risveglia nel singolo le energie aggressive, teorizzando il crimine in un’ambivalenza tra omicidio e suicidio. La negatività sospesa tra l’introiezione e la proiezione si esprime nel suo linguaggio in invettive verbali, senza giungere ad un’esaltazione della violenza. Il coinvolgimento emotivo per la sofferenza propria, tanto dell’esistenza personale quanto di quella dell’altro, conduce Cioran stesso ad un comportamento ambivalente di aggressione e di empatia. La condizione umana è per lui un luogo tragico di sofferenze inevitabili, dalle quali nessuna via può determinare la liberazione. Nella descrizione di questa situazione, solo l’ironia e la soppressione dei desideri, possono costituire le vie accettabili di un negativo senza via d’uscita. In questa determinazione tragica, la religione è un pericolo e un interrogativo; ha in sé il fascino di un’illusione e l’angoscia di una delusione inevitabile. Il problema deve essere affrontato a partire dalle origini semantiche del concetto di vita, rispetto alle quali Cioran, pur ammettendone l’illusorietà, evidenzia l’interrogativo che distingue la materia dalla vita, ritenendo quest’ultima superiore e diversa dalla prima sia pure affermandone nel contempo l’inconsistenza; infatti «più penso alla vita come fenomeno distinto dalla materia, più mi spaventa: non si regge su niente, è un’improvvisazione, un tentativo, un’avventura, e mi sembra così fragile, così inconsistente, così priva di realtà che non posso riflettere su di essa e sulle sue condizioni

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senza provare un brivido di terrore. Non è che uno spettacolo, una fantasia della materia. Smetteremmo di esistere se sapessimo quanto siamo irreali. Se si vuole, vivere, bisogna far a meno di pensare alla vita, di isolarla nell’universo, di volerla circoscrivere»58. La vita, nella sua indefinibilità, esige in un’analisi filosofica il criterio asistematico. Cioran si rende ben conto della situazione per cui ribadisce che «il pensiero spezzato, frammentario, ha tutta l’incongruenza della vita; mentre l’altro, quello coerente, rispetta soltanto le proprie leggi, non acconsentirebbe mai a riflettere la vita, e ancora meno a scendere a patti con lei»59. Egli, se a volte esaspera i suoi pensieri fino all’inconsueto, in seguito ridimensiona il discorso riconducendolo a vissuti che rispettano il sentire medio dell’umanità. Da tale punto di vista, ad esempio, egli rapporta il senso della vita all’esigenza di una speranza. Così «si dica pure quel che si vuole, ma è impossibile vivere senza alcuna speranza. Ne conserviamo sempre una, a nostra insaputa, e questa speranza inconscia compensa tutte quelle che abbiamo respinto o perduto»60. La vita nella sua inconsistenza ontologica si pone ad un livello di superiorità rispetto alla materialità animale; in questa concezione, priva di un fondamento filosofico, Cioran trova la giustificazione dei due livelli di realtà, sul piano delle illusioni, osserva che «tutto il segreto della vita sta nel votarsi alle illusioni senza sapere che sono tali. Non appena le si conosce per quel che sono, l’incanto è rotto»61. Il senso della vita deriva in lui dalla consapevolezza della crisi in quanto proprio quest’ultima viene esaltata fino al punto da farne la molla propulsiva per il processo di nullificazione.

58. Ivi, pp. 69-70. 59. Ivi, p. 134. 60. Ivi, p. 188. 61. Ivi, p. 194.

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Su tale linea, afferma: «Se ho capito qualcosa della vita lo devo alla mia condizione di vinto. Il fallimento, sul piano filosofico, è tanto di guadagnato»62. La vita esplicita la sua semantica attraverso una caduta di senso che la coinvolge nella sua globalità; il suo legame con le illusioni genera anche in Cioran il rimpianto per le gioie perdute, sia pure in questa direzione, che accentua il momento etico rispetto a quello della conoscenza, la vita rivela le radici del negativo. Egli sente l’esigenza irrinunciabile di comunicare questa rivelazione ineludibile: «A essere sincero, dovrei dire che non so perché vivo, né perché non cesso di vivere. Con tutta probabilità, la chiave risiede nell’irrazionalità della vita, la quale fa sì che questa si mantenga senza ragione»63. La vita a livello della sua consapevolezza manifesta una serie di occasioni perdute. Cioran non si ferma a constatare la verità del pessimismo ma cerca nella vita stessa quanto è comune e ciò che è differente, nel rapporto tra l’animale e l’uomo, non tanto per stabilire la gerarchia tra i livelli o per determinare le radici ontologiche dei medesimi, per evidenziare la responsabilità che la vita assume per le sue implicazioni interne alla condizione umana; «ogni essere può vivere perché per lui l’esistenza di cui fa parte ha un carattere assoluto. Ma per l’uomo la vita non è un assoluto. Per l’animale essa è tutto; per l’uomo è un punto interrogativo. Punto interrogativo definitivo, giacché egli non ha mai ricevuto ne riceverà mai risposta alle sue domande. Non solo la vita non ha alcun senso, ma non può averne uno»64. La genesi della vita a livello della consapevolezza dell’uomo viene fatta risalire da Cioran ad una scissione all’interno dell’essere, rispetto alla quale, tanto sul piano collettivo, quanto su quello individuale, emerge una colpa che è certamente da porre in relazione con il concetto cristiano di peccato originale e con quello di abbandono 62. Ivi, p. 390. 63. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 48. 64. Ivi, p. 126.

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responsabile dell’appartenenza alla globalità dell’essere teorizzata dalle religioni dell’Oriente. In tal senso, la crisi dell’esistenza è una scissione che si riferisce all’oscurità di un mistero di fronte al quale l’uomo si contrappone al divino. Questo concetto religioso diviene nel nostro pensatore il substrato inconscio di un’inesplicabile responsabilità originaria; Cioran sostiene che «la vita è uno stato di colpevolezza, tanto più grave in quanto nessuno ne prende realmente coscienza. Ma una colpa che è coestesa all’individuo, una colpa che pesa su di lui a sua insaputa, che è il prezzo da pagare per la sua promozione all’esistenza separata, per il misfatto commesso contro la creazione indivisa, questa colpa che, per essere inconscia, non per questo è meno reale e sa bene come farsi largo tra le pene della creatura»65. Anche il pensatore romeno non può rinunciare all’esigenza di collocare la vita in una immagine coerente della natura e dell’uomo. Egli compie, utilizzando l’irrazionalità delle filosofie occidentali, il tentativo di stabilire una continuità tra l’ambito biologico e l’ambito della consapevolezza che si accompagna al fenomeno della vita. A quest’ultimo livello, emerge il passaggio dall’animale all’uomo che si manifesta nella coscienza sofferente del vissuto del dolore, «la vita è una sollevazione dentro l’inorganico, uno slancio tragico dell’inerte; la vita è la materia animata e, bisogna pur dirlo, rovinata dal dolore»66. Il nostro pensatore elabora con tutta l’irrazionalità che gli è propria un’immagine dei diversi livelli dell’essere, da quello minerale a quello umano, passando attraverso il regno dei vegetali e quello degli animali. In questo mosaico, improntato ad un ordine gerarchico invertito, la connessione in cui si esprime la dinamica del reale è la vita nel suo ruolo e nel suo significato.

65. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 59. 66. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 79.

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Tutto ciò lo conduce ad abbozzare un quadro approssimativo nel quale la vita esprime le sue energie e le sue cadute, «la pianta è colpita solo leggermente; l’animale si ingegna a guastarsi; nell’uomo si esaspera l’anomalia di tutto ciò che respira. La Vita! Una combinazione di chimica e di stupore […] Finiremo col rifugiarci nell’equilibrio del minerale? Col saltare a ritroso il regno che ce ne separa e imitare la normalità della pietra?»67. Indipendentemente dal riferimento ontologico nel quale la vita si caratterizza in base alla struttura complessa della realtà, Cioran pone in rilievo come la vita medesima, nella consapevolezza che si fa strada nella coscienza umana, acquisti un’intensità dinamica che permette di delineare un vero e proprio processo in cui sono compresenti elementi evolutivi ed elementi involutivi; quindi «la vita si crea nel delirio e si disfa nella noia»68. La vita è legata al tempo e se è vero che per Cioran, come per F.W. Nietzsche, appartiene all’attualità, è anche vero che nell’uomo caratterizza tanto il ricordo quanto l’attesa, perciò il tempo indica la sua processualità all’interno della quale essa si costruisce e si distrugge. Su questo piano si stabilisce la contrapposizione tra vita e ragione e si determina la dialettica di affinità e divergenza tra la vita e il nulla; egli afferma che «come la vita soppiantò il nulla, così essa fu soppiantata a sua volta dalla storia: in tal modo l’esistenza si avventurò in un ciclo di eresie che minarono l’ortodossia del nulla»69. Nonostante l’esaltazione del vinto, dello sterile, del fallito e del rinunciatario Cioran subisce il fascino delle istanze vitaliste che trionfavano nelle filosofie dell’inizio del Novecento. Così per lui la vita coincide con la forza e la tolleranza, essa è segno di decadenza, ma la caratterizzazione di questa situazione può essere esplicitata in modo lineare con le sue parole: «Segni di vita: la crudeltà, il fanati-

67. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 30. 68. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 27. 69. Ivi, p. 186.

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smo, l’intolleranza; segni di decadenza: l’amabilità, la comprensione, l’indulgenza»70. In modo contraddittorio rispetto a quanto abbiamo ora sostenuto, Cioran sintetizza la sua posizione con questa affermazione apodittica: «Rassegnarsi o farsi saltare le cervella, questa è la scelta davanti alla quale si è posti in certe svolte della vita. In ogni modo, la sola vera dignità è quella dell’escluso»71.

9. L’immagine dell’uomo In Cioran non troviamo un’ontologia o un’etica della persona umana ma, nelle sue considerazioni frammentarie e asistematiche, emerge l’esigenza di fornire un’immagine dell’uomo nelle sue caratteristiche individuali e sociali. Si tratta di una esigenza conoscitiva che, muovendo dalle istanze esistenziali, compie il tentativo di prendere posizioni nei confronti della tradizione filosofica occidentale e nei confronti delle dottrine morali nonché di quelle religiose. L’uomo è il centro di riferimento del suo pensiero, con i suoi dubbi, le sue solitudini, le sua angosce, i suoi desideri e le sue speranze. Ne viene elaborata un’interpretazione tragica nella quale il nichilismo rappresenta, da un lato, il compiacimento della disperazione e, dall’altro, la rassegnazione ad una visione contemplativa, capace di superare il dolore distruggendo le condizioni limitanti della storia delle diverse epoche. L’approccio cioraniano al problema dell’uomo, è strettamente legato a quello della negatività, espresso nei termini della catastrofe; infatti «l’uomo va inesorabilmente verso la catastrofe. Finché ne resterò persuaso, mi interesserò a lui con avidità, con passione»72. 70. Ivi, p. 210. 71. ID., Squartamento, cit., p. 170. 72. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 44.

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Sentinella del nulla

Nella svalutazione sistematica dell’uomo, Cioran si riferisce ancora una volta al cristianesimo in una dialettica argomentativa in cui l’accordo e il disaccordo si combinano insieme in una fusione del tutto particolare, quindi: «Qualunque riserva io abbia sul cristianesimo, non posso negare che riguardo a un punto – quanto mai capitale – ha ragione: l’uomo non è padrone del suo destino, e se è con il destino che bisogna spiegare tutto, allora non si può spiegare nulla. L’idea di una cattiva provvidenza si fa sempre più strada nella mia mente; bisogna ricorrervi se si vuole cogliere lo sconcertante percorso dell’uomo»73. Cioran, nel suo umanesimo antiumanistico diffida dell’uomo, esprime nostalgia per la ciclicità della natura, vive con sospetto la civiltà della tecnica e sottolinea il carattere negativo dell’ambizione nonché della tendenza all’autosuperamento. In questa chiave ancora una volta negativa, egli precisa: «L’uomo è nato da una volontà di superamento, ed è diventato follia di superamento. Superarsi, superarsi sempre, questa la sua mania, la sua malattia. Se avesse saputo rimanere in sé, non oltrepassare i limiti del suo essere, vivere di rendita, del proprio capitale, invece di espandersi e volere ammassare e conquistare – che creatura mirabile sarebbe!»74. La sua sfiducia nell’uomo è radicale e si accentua nei confronti della modernità, all’interno della quale emerge per lui il segno più chiaro della decadenza. Il problema dell’uomo non si esaurisce nel contesto filosofico poiché trova il suo completamento nell’ambito delle aspirazioni morali, nel senso che la negatività in cui è immerso spinge verso l’utopia impossibile di una liberazione fondata su un atteggiamento di ribellione senza risultati, pertanto «animale logoro, l’uomo ha oltrepassato lo stadio in cui ci si accontenta di una “speranza”, quel che ora si aspetta non è un artificio ulteriore, ma la liberazione»75. 73. Ivi. p. 83. 74. Ivi, p. 691. 75. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 105.

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VII. La questione dello stile

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Il pessimismo cioraniano coinvolge l’orizzonte antropologico tanto nell’auto comprensione di se stesso, quanto nell’immagine che ci facciamo dell’altro. È la presa di coscienza che si configura relativamente all’immagine dell’uomo, la quale comporta in sé un’istanza di negatività, «non è bene che l’uomo si ricordi a ogni istante di essere uomo. Già è male concentrare l’attenzione su se stessi; ma è peggio ancora concentrarla sulle specie, con uno zelo da ossessi: significa attribuire alle miserie arbitrarie dell’introspezione un fondamento oggettivo e una giustificazione filosofica»76. Come sappiamo, la questione religiosa è per il filosofo romeno un problema non risolto che dà luogo sia ad un atteggiamento di sfida, sia ad un rimpianto per una sicurezza perduta. L’uomo si allontana da Dio in un eccesso di sicurezza che gli crea un disorientamento senza soluzione. In questa chiave interpretativa, l’abbandono del divino costituisce la base della sua essenza negativa, fino al punto che si fa strada questa conclusione: «Non appena l’uomo, separato dal Creatore e dal creato, divenne individuo, vale a dire frattura e incrinatura dell’essere, e non appena, accettando il proprio nome sino alla provocazione, seppe di essere mortale, il suo orgoglio si accrebbe, non meno che il suo smarrimento»77. In questa situazione viene costruita un’interpretazione filosofica quasi fenomenologia del mito cristiano della caduta, nella quale l’uomo abbandona Dio per una scelta che lo pone in competizione con il Creatore. Cioran, in questa lettura implicita e non giustificata con argomentazioni della questione religiosa, riscontra la radice ambivalente della negatività dell’essere umano nella relazione con Dio, nella quale l’uomo va oltre Dio stesso rivendicando, in modo prometeico la sua libertà in un supremo atto di liberazione. Egli così tenta di chiarire la sua prospettiva: «Soltanto l’uomo soffoca in Dio – e non fu proprio questa sensazione di soffocamen76. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 5. 77. Ivi, pp. 8-9.

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Sentinella del nulla

to che lo incitò a distinguersi nella creazione, a farvi la figura del proscritto consenziente, del reprobo volontario?»78. In questo contesto, il disorientamento dell’uomo determina una specie di viaggio senza meta e senza significato, nel quale egli è «un nomade insieme folgorato e indomito, che anela a rimediare alle proprie deficienze e, di fronte al fallimento, violenta ogni cosa intorno a sé; un devastatore che accumula misfatti su misfatti per la rabbia di vedere un insetto procurarsi agevolmente ciò che lui, con tanti sforzi, non riesce a ottenere. Avendo perduto il segreto della vita e imboccato una deviazione troppo lunga per poterlo ritrovare e riapprendere, egli si allontana ogni giorno un po’ di più dalla sua antica innocenza, decade irrefrenabilmente dall’eternità»79. L’uomo nella sua nomadicità priva di scopo e di significato perde la consistenza nel momento in cui respinge il legame con il divino, poiché abbandona il fondamento nelle origini e il senso stesso della caduta, affermandosi così nel tempo al di là di ogni possibilità di raggiungere l’eternità. In questa situazione, Cioran caratterizza la frattura ontologica che avvia l’uomo nel sentiero del nulla; «avendo disertato le sue origini, barattato l’eternità con il divenire, maltrattato la vita proiettando in essa la propria giovane demenza, egli emerge dall’anonimato tramite un susseguirsi di rinnegamenti che fanno di lui il grande transfuga dell’essere»80. L’interpretazione di Cioran, da un lato, critica e dissacra la visione religiosa del reale, dall’altro, compie il tentativo di recuperarne il senso profondo, capace di chiarire gli aspetti oscuri della condizione umana. In questo itinerario ambivalente, egli attribuisce all’immagine religiosa dell’uomo e del mondo, un valore terapeutico, suscettibile di alleviare le sofferenze umane e di esorcizzare il peso della negatività in cui l’uomo viene trascinato; così «se l’umanità si è dedicata 78. Ivi, p. 9. 79. Ivi, pp. 9-10. 80. Ivi, p. 12.

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VII. La questione dello stile

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così a lungo all’assoluto, è perché non poteva trovare in essa stessa un principio di salute. La trascendenza possiede virtù curative: sotto qualsiasi veste si presenti, un dio significa un passo verso la guarigione. Persino il diavolo rappresenta per noi un aiuto più efficace dei nostri simili»81.

10. Il negativo nell’uomo Nell’individuare il senso profondo dell’essere umano, egli si avventura nella negatività, attraverso le contraddizioni che caratterizzano l’orizzonte antropologico. In questa chiave interpretativa, il problema filosofico viene delineato al di là di ogni utilizzazione degli aspetti mitici che accompagnano le soluzioni di ordine religioso. A questo proposito appare, in tutta la sua oscurità, l’essenza profonda dell’individuo, poiché «all’uomo accade talvolta di sfuggire alle persecuzioni del desiderio, alla tirannia dell’istinto di conservazione. Lusingato dalla prospettiva del decadimento, scalza la propria volontà, si ingegna all’apatia, si erge contro se stesso, e chiama in aiuto il suo cattivo genio. Esagitato, in preda a mille attività che gli nuocciono, scopre un dinamismo di cui non aveva sospettato l’attrattiva, il dinamismo del disgregamento. Ne è tutto fiero: potrà infine rinnovarsi a sue spese»82. Lo spossessamento ontologico emerge in tutta la sua validità; il nostro pensatore pone in luce, attraverso la frantumazione di tutti i parametri di riferimento, la situazione assurda della condizione umana, a proposito della quale dichiara: «Saliamo verso l’abisso, discendiamo verso il cielo. Dove siamo? Domanda che non ha più ragione d’essere: noi non abbiamo più un luogo»83.

81. Ivi, p. 13. 82. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 44. 83. Ivi, p. 154.

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Sentinella del nulla

Nonostante tutte le assurdità e le contraddizioni associate ai caratteri ambivalenti riferiti all’essere umano, Cioran delinea un aspetto fondamentale proprio dell’antropologia filosofica che consiste nella verbosità delle argomentazioni che sommergono nella parola i problemi propri del negativismo ontologico, quindi «è il destino della nostra razza, devastata dall’introspezione e dall’anemia, quello di riprodursi in parole, di mettere in mostra le sue notti e ingigantirne i fiaschi o i trionfi»84. In tutta questa vicenda di interpretazioni e di correzione dei concetti, Cioran riesce a determinare un nucleo interpretativo della condizione umana, capace di unificare i frammenti dispersi; questo nucleo enfatizza un nichilismo problematico combinando insieme le istanze delle filosofie dell’assurdo con un sentiero nietzschiano, rivisitato in un’anticipazione delle visioni post-moderne proprie della filosofia contemporanea. In tale situazione complessa egli così si esprime: «Creatore di valori, l’uomo è l’essere delirante per eccellenza, vittima della convinzione che qualche cosa esista, mentre gli basta trattenere il respiro e tutto si ferma, sospendere le sue emozioni e niente freme più, sopprimere i suoi capricci e tutto diventa scialbo»85. Nella ricerca attraverso la quale costruire l’immagine dell’uomo, Cioran utilizza il metodo che valorizza le metafore e il potenziale allusivo delle espressioni linguistiche. Dopo aver percorso i sentieri interrotti delle antropologie filosofiche, fornisce una descrizione suggestiva ed efficace che individua in modo adeguato la configurazione che esprime il ritratto dell’uomo nell’orizzonte del nichilismo. Egli caratterizza in questi termini la soluzione prescelta: «L’uomo – bestia dai desideri ritardati – è un nulla lucido che ingloba tutto e non è inglobato da niente, che sorveglia tutti gli oggetti e non dispone di nessuno di essi»86. 84. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 98. 85. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 26. 86. Ivi, p. 114.

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VII. La questione dello stile

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Se l’immagine dell’uomo appare attraverso metafore poetiche più oggetto di proclamazioni letterarie che non di dimostrazioni argomentative, ne consegue che l’uomo stesso si rivela nella sua natura profonda, non tanto attraverso l’interrogativo diretto a smascherarne l’essenza, bensì come un progetto di realizzazione in un futuro possibile; così «gettato sulla terra per imparare a scegliere, egli sarà condannato all’atto, all’avventura, e non ne sarà capace se non in quanto sopprimerà in sé lo spettatore»87. Questa realtà, attraverso la quale appare l’uomo, giustifica la sua situazione nella storia, in cui la negatività travolge in un unico destino tanto l’uomo, quanto il processo storico, sia nella sua natura, sia nella finalità, perciò «l’uomo fa la storia; la storia, a sua volta, lo disfa. Egli ne è l’autore e l’oggetto, l’agente e la vittima. Ha creduto fino ad ora di dominarla, adesso sa che gli sfugge, che si sviluppa nell’insolubile e nell’intollerabile: un’epopea insensata, il cui esito non implica nessuna idea di finalità»88. Nell’intento di liberarsi dalla tradizione religiosa, Cioran ne reinterpreta i contenuti mitici per evidenziare l’orgoglio e la vanagloria dell’essere umano che trionfa con la sua individualità mentre si immerge nell’abisso del nichilismo ontologico. In questa chiave interpretativa, il senso della caduta, dalla quale la tradizione giudaico-cristiana fa iniziare nella colpa la storia, viene a vanificarsi attraverso l’abbandono della consapevolezza del demoniaco che, nell’immagine della tentazione cui l’uomo viene sottoposto dal serpente, rende consistente l’individualità attraverso la cattiva coscienza della responsabilità conseguente al peccato. In questa argomentazione, è evidente l’utilizzazione cioraniana del genere letterario del contesto biblico, trasferito sul piano di una lucidità razionalista dove le immagini del sacro fungono esclusivamente da metafore. Il senso profondo dell’operazione dissacrante che Cioran compie non solo nell’ambito religioso, ma anche in quello antropolo87. ID., Squartamento, cit., p. 25. 88. Ivi, p. 58.

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Sentinella del nulla

gico, diviene più chiaro alla luce della consapevolezza del senso posseduto dal progetto distruttivo, rispetto al quale l’uomo assume direttamente le sue responsabilità allorché lo rivolge contro se stesso o contro gli altri suoi simili; egli, infatti, «distruggendosi, si eleverà alla propria essenza, e adempirà la propria missione: diventare il nemico di se stesso. Se la vita ha falsato la materia, è l’uomo che ha falsato la vita»89.

89. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 184.

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Capitolo ottavo

I problemi aperti

1. Oltre la tradizione L’antifilosofia di Cioran è un nuovo modo di impostare l’analisi filosofica, che si pone in forte critica rispetto alla tradizione del pensiero occidentale. Ciò soprattutto in merito alla razionalità metafisica che costituisce il modello di riferimento di ogni filosofia che si voglia collegare al pensiero classico. Il nostro pensatore, pur condividendo la svolta filosofico-esistenziale prodotta dalla Kierkegaard e Nietzsche renaissance, non è soddisfatto delle soluzioni proposte dalle filosofie che sostengono il primato dell’esistenza. Il suo tentativo apre un interrogativo non risolto sul metodo del filosofare. Ciò si configura, da un lato, nella valorizzazione del dubbio scettico, dall’altro, nell’utilizzazione della comunicazione suggestiva, fornita dalle metafore. Questo modo di procedere si avventura nell’individuazione di nuovi codici adatti a comunicare il pensiero filosofico, tra i quali egli valorizza la poesia e l’appunto incompiuto, che spesso prende la forma dell’aforisma. Il sentiero indicato propone l’analisi ermeneutica senza giungere ad una tematizzazione esplicita della medesima. Ci troviamo nell’apertura di un’indagine filosofica che, assumendo come primario il criterio della destrutturazione, giunge alle so-

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Sentinella del nulla

glie di un nichilismo che non viene formulato in modo dimostrativo come un risultato effettivamente raggiungibile dalla speculazione filosofica. In questo orizzonte, si colloca il confine precario tra filosofia e antifilosofia nel quale si muove tutto il pensiero cioraniano. Il quadro di riferimento dell’intera questione è costituito dal carattere secondario della conoscenza, per cui l’esistere è l’elemento primario, rafforzato nel suo significato dalla presa di coscienza fondata ineludibilmente su un ambito autobiografico. Il pensare è la punta di un iceberg, strutturato dalla vita nei suoi molteplici ed indefinibili aspetti. Nella concezione di Cioran non possiamo parlare di un vitalismo in senso filosofico, poiché nell’uomo è il carattere esistenziale ad emergere e a differenziare la vita medesima. Tale posizione trova la sua fondazione in questo asserto: «Siamo nati per esistere, non per conoscere; per essere, non per affermarci. Il sapere, avendo irritato e stimolato il nostro appetito di potenza, ci condurrà inesorabilmente alla rovina»1. Di conseguenza, se la realtà non è oggetto di conoscenza filtrata dalla ragione speculativa, allora emergono le sensazioni nella loro immediatezza per caratterizzare gli atteggiamenti molteplici e dinamici di ciascun essere umano, a partire dai quali si costruisce la presa di coscienza esistenziale dell’intera realtà, coincidente con i vissuti che di volta in volta si configurano. Anche per lui, in senso platonico, la filosofia trae la sua origine dallo stupore ed è in questo elemento originario che si configurano i livelli di analisi, tra i quali emergono quello dell’essere e quello dell’umanità, in un approfondimento che coincide con una progressiva presa di coscienza dei diversi aspetti del reale; così: «Lo stupore di essere precede lo stupore di essere uomo»2. L’umanità non rappresenta, nella sua ipotesi di lavoro, un momento di una gerarchia ontologica, ma semplicemente un accadi1. E.M. CIORAN, Storia e utopia, cit., p. 57. 2. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 5.

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VIII. I problemi aperti

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mento che appartiene all’esperienza e che è affidato alla precarietà del contingente; infatti «essere uomo non è una soluzione, come non lo è il cessare di esserlo»3. L’ambiguità dell’essenza del problema filosofico appartiene, anche in Cioran, alla relazione tra la prassi e la teoresi, l’agire e il pensare, il fare e l’essere. In questa indecisione ambivalente, non viene meno il fascino tradizionale dell’ontologia, ma il segno della decadenza rafforza il fare nella negatività di una colpevolezza originaria che egli eredita da un atteggiamento nostalgico nei confronti dei presupposti perduti e ripudiati di una cultura giudaico-cristiana che funge da sfondo di tutte le sue riflessioni; pertanto «il fare è intaccato da un vizio originale di cui l’essere sembra privo. E poiché tutto ciò che facciamo deriva dalla perdita dell’innocenza, solo rinnegando i nostri atti e provando disgusto per noi stessi possiamo riscattarci»4. Il momento negativo che dipende dall’originario, posto alla base del suo modo di filosofare, non viene vissuto da Cioran come un suo itinerario esclusivo, poiché egli cerca di trovare degli appoggi, quasi dei compagni di viaggio, per il suo itinerario. In questo tentativo, egli compie la scelta di una serie ben determinata di maitre a penser. In tale prospettiva, precisa che «maestri nell’arte del pensare contro se stessi, Nietzsche, Baudelaire e Dostoevskij ci hanno insegnato a puntare sui nostri pericoli, ad ampliare la sfera dei nostri mali, ad acquistare esistenza separandoci dal nostro essere»5. Le sue invettive nei confronti della filosofia e nei confronti dell’essere in particolare, approdano sempre ad un rimpianto, sia per la religione abbandonata, sia per le certezze filosofiche perdute. Il disagio esistenziale colloca Cioran al bivio tra una strada abbandonata e un’altra impervia e sospesa sul pericolo di un abisso.

3. Ivi, p. 67. 4. Ivi, p. 76. 5. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 13.

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Egli esprime il rischio di questo itinerario attraverso il linguaggio di una filosofia nei confronti della quale vuole essere un antagonista radicale. In tale orizzonte, risulta emblematica questa espressione: «Quando si è tradito l’essere, ci si porta dietro soltanto un disagio indefinito, dato che nessuna immagine viene a sostenere con la sua precisione l’oggetto che suscita la sensazione di infamia»6. Il nostro filosofo non abbandona il fascino dell’essere e non risolve conseguentemente la sua filosofia nella valorizzazione degli esseri rilevati nell’esperienza, in quanto questi ultimi costituiscono una minaccia alla libertà individuale o, altrimenti, sul piano della conoscenza, imporrebbero un ritorno all’idea metafisica di sostanza per la quale non vi è alcun ruolo nella sua filosofia. Nel criticare il ruolo filosofico della tradizione in cui la metafisica e teologia rappresentano il momento più alto dell’indagine filosofica, Cioran pone in rilievo la genesi di questi momenti del pensare esplicitandone in senso nietzschiano la loro genealogia, che viene da lui fatta risalire, ispirandosi all’origine della filosofia greca, alla concezione antropomorfica, in base alla quale le visioni del mondo e quelle di Dio sono costruite dall’uomo secondo l’immagine che egli ha di se stesso. Egli sostiene che «la metafisica e, a maggior ragione, la teologia sono di un antropomorfismo scandaloso. Entrambe si riducono a una suprema civetteria dell’uomo, in estasi di fronte al proprio genio. Appena si dà uno sguardo ai suoi vaneggiamenti non ce n’è uno che sfugga al ridicolo»7. La questione della metafisica viene accomunata alla questione della religione, anzi, per Cioran l’idea religiosa di Dio è preferibile all’idea filosofica astratta dell’essere. Su tale piano, la conclusione delle argomentazioni possiamo esporla con le sue stesse parole: «Essere in Heidegger ha una portata mistica di cui non è consapevole. Non si può pronunciare la parola essere, con o senza maiuscola, senza per ciò stesso dimostrare 6. ID., Sommario di decomposizione, cit., pp. 78-79. 7. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 776.

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VIII. I problemi aperti

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che si è, a proprio modo, credenti. Bisogna infatti avere disposizioni religiose per poter proferire un simile vocabolo con convinzione, con sicurezza. Anzi forse bisogna credere per dire semplicemente di qualcuno o di un oggetto che è questo o quest’altro, giacché quel particolare è rinvia automaticamente a Egli è»8. Nel riflettere sul rinnovamento della filosofia che si colloca al di là della tradizione, Cioran non ignora l’importanza assunta dalla poesia intesa come modalità specifica del pensare. Su questa linea, egli non indulge all’aspetto creativo della composizione poetica, ma si riferisce all’immediatezza con la quale il poeta tematizza il dramma dell’esistenza. In tale direzione, la poesia costituisce l’approdo della filosofia esistenziale, «il processo di trasformazione del filosofo in poeta è estremamente drammatico. Dal mondo definitivo delle forme e delle questioni astratte si precipita, in una vertigine dei sensi, nella confusione degli elementi dell’anima, che s’intrecciano formando costruzioni bizzarre e caotiche»9. Da un punto di vista storico, il legame tra filosofia e religione viene pienamente riconfermato da Cioran, soltanto che egli su una linea nietzschiana stabilisce la successione nel senso di far precedere l’immagine religiosa del reale rispetto a quella filosofica; così afferma che «i Greci nacquero alla filosofia quando gli dèi parvero loro insufficienti; il concetto inizia dove l’Olimpo finisce. Pensare significa smettere di venerare, significa levarsi contro il mistero e proclamarne il fallimento»10. Il legame costante che egli sottolinea tra filosofia e religione conduce, nel pensiero occidentale, alla dissoluzione del momento religioso attraverso l’esercizio della conoscenza e della razionalità; ma Cioran recupera il carattere oscuro e misterioso del reale attraverso la sostituzione della filosofia con la meditazione e si rivolge all’Oriente catturato dal fascino di quelle culture arcane. 8. Ivi, p. 1006. 9. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 71. 10. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 161.

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Nelle sue opere spesso emergono riferimenti al buddismo e all’induismo e, a proposito della filosofia, egli formula la seguente dichiarazione emblematica: «Sono attratto dalla filosofia indù, il cui proposito essenziale è il superamento dell’io; eppure tutto quello che faccio e tutto quello che penso è solo io e disgrazie dell’io»11. La dissoluzione cioraniana della ragione si accompagna, come egli sottolinea, a quella dell’arte nella tradizione della cultura occidentale; la ragione dissolvendosi dà spazio alla mistica ed allora l’approdo della sua tematizzazione della sua crisi della filosofia, lo conduce oltre la mistica verso l’arcano esaltante della musica; infatti: «Senza l’imperialismo del concetto, la musica avrebbe preso il posto della filosofia: sarebbe stato il paradiso dell’evidenza inesprimibile, un’epidemia di estasi»12.

2. Tra filosofia e letteratura per una negatività problematica La tradizione filosofica occidentale, già alle sue origini, propone una serie di riflessioni relativamente al rapporto tra filosofia e linguaggio; si pensi alla distinzione aristotelica tra linguaggio apofantico e quello semantico, in cui emerge la distinzione tra le argomentazioni di tipo logico-dimostrativo e quelle suggestive di tipo allusivo. Il pensiero contemporaneo sottolinea questa differenza con la diversità dei codici espressivi utilizzati. Cioran, da tale punto di vista, elabora un tentativo di rinnovamento delle espressioni filosofiche attraverso la fusione tra filosofia e letteratura, anzi, nel suo approccio esistenziale al pensiero speculativo, egli fa uso della seconda per chiarificare la prima. In questa prospettiva metodologica, i filosofi e i letterati appartengono per lui alla medesima famiglia nell’elaborazione di un itinerario che, valorizzando l’introspezione, si risolve nel racconto 11. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 16. 12. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 99.

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VIII. I problemi aperti

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autobiografico del proprio pensiero; così la poesia e il racconto danno luogo ad una prospettiva unificata nella quale la proposizione breve e la metafora assolvono al compito di stabilire una continuità tra filosofia e ironia per evidenziare il momento critico del pensare, nonché tra filosofia e meditazione per avviare il detto nell’avventura di caratterizzare il non-dicibile. Da tale punto di vista, emerge inevitabilmente il soggettivismo come valore e come necessità espressiva. Cioran ne è pienamente consapevole e sostiene esplicitamente che «è l’individuo che fa l’arte, non è più l’arte che fa l’individuo, come non è più l’opera che conta ma il commento che la precede o la segue»13. Anche il romanzo, trasferito al di fuori della sua funzione originaria, è costretto a modificare completamente il suo significato, per assumere un ruolo diverso nel quale si vanifica la struttura narrativa nel potenziamento del vissuto soggettivo derivante dall’enfatizzazione degli stati d’animo; esso diviene uno strumento particolarmente adatto per la meditazione dei vissuti che acquistano il valore di vie privilegiate per la tematizzazione degli universali esistenziali. Cioran così caratterizza la funzione di tale opera letteraria: «L’avvento del romanzo senza oggetto ha inferto un colpo mortale al romanzo. Niente più affabulazione, personaggi, intrecci, causalità. Scomunicato l’oggetto, abolito l’avvenimento, sussiste soltanto un io che sopravvive a se stesso, che ricorda di essere stato, un io senza domani, che si avvinghia all’Indefinito, lo gira e lo rigira, lo trasforma in tensione e questa tensione non conduce che a se stessa: estasi ai confini delle Lettere, mormorio incapace di svanire in grido, litania e soliloquio del Vuoto, richiamo schizofrenico che rifiuta l’eco, metamorfosi in un estremo che si ritrae e che non persegue il lirismo dell’invettiva né quello della preghiera»14. La questione è quella di conservare al di là dei generi specifici una problematica costante nel duplice ambito della letteratura e della filosofia. 13. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 128. 14. Ivi, p. 135.

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Questa problematica, per Cioran, focalizza il processo di nullificazione, infatti «non c’è più nulla da costruire, né in letteratura né in filosofia. Solo quelli che ne vivono, materialmente s’intende, dovrebbero dedicarvisi. Entriamo in un’epoca di forme spappolate, di creazioni alla rovescia. Chiunque potrà prosperarvi»15. Che Cioran sia aperto al negativo è fuori discussione, ma se all’interno del suo pensiero cerchiamo una determinazione specifica dell’essenza e dell’oggetto concernente la negatività, non troviamo delle risposte convincenti. Un discorso analogo va fatto per il nichilismo che è più un clima culturale che non una vera e propria posizione filosofica. Il suo nulla è indefinibile, privo di consistenza e concettualmente inesprimibile. In questo clima filosofico viene determinato soltanto il suo spazio e le esigenze alle quali esso adempie. D’altra parte non possiamo giungere alla conclusione che, tanto il negativo quanto il nulla, appartengano semplicemente ad una tematizzazione crepuscolare della decadenza. Questi concetti sono accompagnati da un’indulgenza per le mode letterarie, tuttavia la sua è senz’altro filosofia e non può essere ridotta a pura e semplice letteratura. Se in lui vi è spazio per l’immaginazione poetica i suoi sentieri interrotti appartengono al pensiero e non all’espressione estetica; molti equivoci interpretativi dipendono dal metodo asistematico con il quale egli caratterizza la maggior parte delle sue analisi speculative. Per connotare la negatività nel suo complesso è opportuno sospendere provvisoriamente l’analisi concettuale per rivolgersi all’introspezione autobiografica; in quest’ultima prospettiva Cioran dichiara: «Talvolta avverto nel mio intimo forze infinite. Ahimè! Non so come impiegarle; non credo in niente, e per agire bisogna credere, credere, credere […] Tutti i giorni non mi perdo perché lascio morire il mondo che alberga in me. Con un orgoglio da folle, 15. Ivi, p. 99.

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VIII. I problemi aperti

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sprofondare tuttavia nell’indegnità, in una tristezza sterile, nell’impotenza e nel mutismo»16. In questa condizione spirituale si impone un bilancio retrospettivo della propria esistenza personale. In tale situazione, Cioran senza darne le ragioni, proclama i caratteri della sua immagine improntata alla negatività, attraverso questi termini: «Una vita da fallito, da rottame, piena di tristezze inutili e spossanti, di nostalgie senza oggetto e senza direzione; una nullità che vaga per le strade, e che si crogiola nei suoi dolori e nei suoi sogghigni […] Ah, se potessi convertirmi alla mia essenza! Ma se fosse corrotta? Non c’è dubbio, mi annullo e tutto mi annulla. Non c’è più traccia di me in me stesso. Quando gli altri cessano di esistere per noi, anche noi cessiamo di esistere per noi stessi»17. La sua coscienza o, meglio, il suo compiacimento del negativo è una lotta senza quartiere tra un orgoglio illimitato ed un desiderio inappagato di umiltà impossibile. In questo passaggio stretto, la sua dimensione insoddisfatta di annullamento si tematizza in un solipsismo nel quale l’io si ingigantisce fino ad includere il reale come totalità. In tale chiave interpretativa il processo di modificazione si avvia con queste parole: «Io sono il susseguirsi dei miei stati d’animo, dei miei umori, cerco invano il mio “io”, o meglio lo ritrovo solo quando tutte le mie apparenze si volatilizzano, nell’esultanza del mio annientamento, quando quello che per l’appunto viene definito un “io” si sospende e si annulla. Bisogna distruggersi per ritrovarsi; essenza è sacrificio»18. Cioran nella sua abulia e nella sua adinamia si compiace del suo stato di vittima costituendosi carnefice di se stesso. Questo compiacimento del negativo trova l’approdo nella tematizzazione della sua condizione di fallito.

16. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 24. 17. Ivi, pp. 27-28. 18. Ivi, p. 68.

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In tale vissuto spirituale si iscrive la sua condizione esistenziale che egli rivela in questo modo: «So perfettamente che l’idea di “scopo” è priva di senso. Per adeguarmi all’inutilità dell’ordine o del disordine universali, mi sforzo di viver anch’io senza scopo, ma consapevolmente. Ci riesco abbastanza spesso, pur con una certa fatica. È un’impresa più rara di quanto si pensi. Peccato che non la si possa portare a termine senza sentirsi orgogliosi»19. Cioran caratterizza la condizione umana nell’assurdo di una situazione intermedia tra un orgoglio senza limiti e un’umiltà che annulla l’uomo al di là di ogni nulla. La lucidità di questa consapevolezza viene da lui illustrata attraverso metafore paradigmatiche, infatti «dopo aver sperato che il nostro nome sia scolpito attorno al sole, cadiamo nell’altro estremo, e auspichiamo che sia cancellato ovunque e scompaia per sempre»20. Il negativo conduce nel sentiero della nullificazione; in tale ambito Cioran chiarisce la distinzione tra la situazione del fallimento e quella della decadenza. La prima viene da lui privilegiata come condizione etica ed è in particolare oggetto delle sue preferenze, la seconda trova spazio nell’interpretazione della storia dei popoli e delle civiltà. La distinzione ora ricordata viene da lui così puntualizzata: «Una volta posta tale simmetria, bisogna andare oltre e riconoscere che c’è del mistero nella decadenza. Il decaduto non ha niente a che vedere con il fallito, e fa piuttosto pensare alla vittima di una forza soprannaturale, come se una potenza malefica si fosse accanita contro di lui e avesse preso possesso delle sue facoltà»21. In questa prospettiva, la decadenza – o, meglio, il processo di decadimento – appartiene alla specie umana e non alla vita in generale; «tutti gli esseri muoiono; soltanto l’uomo è chiamato a decadere. Egli è in bilico rispetto alla vita (come la vita, del resto, lo è rispetto

19. Ivi, p. 1049. 20. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 68. 21. Ivi, pp. 124-125.

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alla materia). Più si allontana da essa, sia innalzandosi sia cadendo, più si avvicina alla propria rovina»22. La questione di Cioran è quella di trovare le ragioni per rifiutare la condizione umana; ciò rientra in una sua sistematica caduta di senso universale nella quale il momento più interrogativo è dato proprio dall’immagine del futuro che o coincide con il nulla o comunque si accompagna ad un pessimismo senza limiti. La situazione indicata trova il suo approdo in un progetto di svalutazione della realtà antropologica, ciò significa «non volere più essere uomo […] sognare un’altra forma di degradazione»23. Il processo di decadimento non si limita alla specie, ma riguarda l’individuo anche nella sua parabola esistenziale, valutata diacronicamente nelle diverse fasi della vita. Cioran prende in esame la caduta nel negativo come un processo di conquista dove il limite ultimo non è definitivamente raggiungibile, così «la curiosità di misurare i propri progressi nel decadimento è la sola ragione che si abbia di avanzare nell’età. Ci si credeva arrivati al limite, si pensava che l’orizzonte fosse sbarrato per sempre, ci si lamentava, ci si lasciava andare allo sconforto. E poi ci si accorge che si può cadere ancora più in basso, che c’è del nuovo, che non è perduta ogni speranza, che è possibile affondare un po’ di più ed evitare così il pericolo di fossilizzarsi, di sclerotizzarsi»24. Il negativo è un processo dinamico di sprofondamento che ha come retroterra filosofico l’abisso nietzschiano nel quale Zarathustra, nella metafora della porta carraia, nega il tempo inabissandolo in un eterno che acquista il senso di un presente indefinibile collocato nell’immanenza dell’esistenza che viviamo. Cioran, senza arrivare a questa tematizzazione ontologica, vive il negativo come uno sprofondamento progressivo senza limiti, per cui così caratterizza la questione: «Invano cercheremmo di proseguire un tragitto verso un traguardo soleggiato, le tenebre si dila22. Ivi, p. 125. 23. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 150. 24. Ivi, p. 169.

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tano dentro di noi e sotto di noi. Nessun chiarore può illuminarci mentre scivoliamo: l’abisso ci chiama e noi lo ascoltiamo»25. La messa in scena del dramma dell’esistenza è l’unica soluzione che possa caratterizzare il processo del negativo così come Cioran lo ha evocato nelle sue metafore allusive. Egli ne fornisce la trama nei termini seguenti: «L’unica frenesia di cui siamo ancora capaci è la frenesia della fine. Seguirà una forma suprema di stagnazione, quando, recitate le parti, abbandonata la scena, potremo con agio rimuginare l’epilogo»26.

3. Gli esistenziali della negatività La negatività è per Cioran una presenza nascosta che traspare, in varie forme, da tutte le sue pagine. Non riusciamo a determinarla concettualmente né a definirla linguisticamente, tuttavia non ce ne possiamo liberare. In senso più specifico, questa si rivela attraverso le sue oggettivazioni, che riproducono gli esistenziali ricorrenti nei vissuti dell’uomo. Tali esistenziali non ci offrono delle soluzioni ma si configurano come problemi aperti attraverso i quali si struttura l’intero sentiero speculativo del nostro autore. Va ricordato che il lato oscuro dell’esistenza è per Cioran tra le pieghe della nostra coscienza e costituisce la radice della sofferenza, destinata ad oggettivarsi nel concetto di male, così: «Per quanto cerchi di allontanarmi da me stesso, i miei mali mi riportano indietro ineluttabilmente. Il male di incontrarsi sempre con se stessi, il male dell’identità – se non lo conosco!»27. Per Cioran il bene non è un’inclinazione dell’uomo rispetto alla quale il male rappresenti una deviazione; egli si allontana dalla con25. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 73. 26. ID., Squartamento, cit., p. 63. 27. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 103.

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cezione agostiniana per avvicinarsi ad una posizione manichea e gnostica nella quale le due entità del bene e del male, invece di contrapporsi in modo simmetrico, indicano una doppia polarità asimmetrica che vede prevalere il secondo sul primo. In questo quadro filosofico, i concetti non corrispondono perfettamente alla dualità del divino e del demoniaco, ma permettono di sbilanciare il significato della realtà a favore del male che prende la forma di un Dio cattivo. Questa interpretazione viene da lui sintetizzata con tali parole: «Timido, sprovvisto di dinamismo, il bene è inadatto a diffondersi; il male, ben altrimenti intraprendente, vuole trasmettersi, e vi riesce perché possiede il duplice privilegio d’essere fascinatore e contagioso. Perciò, facilmente si vede estendersi, uscire da sé, un dio cattivo piuttosto che un dio buono»28. Lo sbilanciamento che conduce Cioran a rilevare la presenza del male piuttosto che del bene, si accompagna al compiacimento della sua condizione di vittima sconfitta dalla vita. Dal punto di vista religioso, egli utilizza metaforicamente le due figure di Cristo e di Buddha, facendo prevalere l’importanza della seconda rispetto alla prima; questo discorso gli permette di legare il problema della sofferenza a quello delle illusioni. Ciò che conta per Cioran è l’illusione e molto meno la delusione, così egli la apprezza anche nelle questioni etiche di natura particolare quali, ad esempio, quella della libertà, mentre l’illusione stessa vale in quanto è accompagnata dalla consapevolezza della sua natura. In questo senso, essa è affine all’entusiasmo. In tal modo, l’esaltazione risiede nell’apparenza, con la convinzione che la radice del reale è sempre nel fallimento e nella sconfitta; infatti «ciò che mi colpisce maggiormente quando penso al passato sono più i miei entusiasmi che le mie delusioni. Se un giorno scrivessi i miei ricordi dovrei intitolarli: Storia di un entusiasta. Di un entusiasta che mi sono adoperato per scacciare (ancora più di quanto non abbiano 28. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 18.

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fatto le circostanze esteriori o il contatto con gli uomini), di un entusiasta sconfitto»29. L’illusione, dunque, costituisce il momento centrale dello sviluppo etico dell’essere umano. Essa si rivela come una molla propulsiva che sostiene l’azione e che valorizza i progetti di trasformazione dell’esistenza. Cioran, come G. Leopardi e A. Schopenhauer, esprime questo concetto: «Solo l’illusione è fertile, solo essa è origine. È in sua virtù che si dà vita, che si genera (in tutti i sensi) e che si partecipa al sogno della diversità»30. Il concetto di illusione intercambiabile con quello di entusiasmo è sostenuto da una realtà molto più negativa che è alla radice dell’esistenza. Nell’orizzonte fondativo, emerge la negatività come vera forza oscura del reale. In questo senso, Cioran può conservare la positività dell’idea di fallimento in una situazione complessa che egli chiarifica in questi termini: «Se avessi portato a termine solo un decimo dei miei progetti, sarei di gran lunga il più fecondo autore mai esistito. Per mia disgrazia, o per mia fortuna, mi sono sempre dedicato molto di più al possibile che al reale, e niente è più estraneo alla mia natura del concludere. Ho approfondito nei minimi dettagli tutto ciò che mai avrei fatto. Mi sono spinto all’estremo del virtuale»31. Tale concezione fa risiedere la negatività nella veglia, nelle aspirazioni positive e soprattutto nell’inquietudine inappagata indotta dall’insonnia, mentre una quiete superiore a quella di un fallimento e di una sconfitta rassegnata può essere prodotta soltanto dal sonno, che, sopprimendo ogni possibilità, lascia intatta la vita conservandola nella pace dell’inerzia. Questo itinerario esistenziale conduce Cioran ad incontrare, attraverso vie differenti rispetto a quelle di S. Kierkegaard e degli altri 29. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 428. 30. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 103. 31. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 17.

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filosofi dell’esistenza, il concetto di angoscia in una consapevolezza che non si riduce né al senso del limite dell’esserci, né si eleva a livello teologico del peccato come colpa originaria della specie. In questo contesto, difficilmente traducibile in concetti razionali, egli così caratterizza la situazione: «Restare storditi dalla propria catastrofe, incapaci di pensare o di agire, oppressi da una tenebra gelida, disorientati come durante le allucinazioni notturne o soli come nei momenti di rimpianto, significa raggiungere il limite negativo della vita, la temperatura massima, che distruggerà anche l’ultima illusione di vita»32. Tale situazione conduce Cioran al limite tra l’angoscia e la disperazione; la tematizzazione esistenziale di questo vissuto si oggettiva in una insoddisfazione di carattere universale che egli esprime con queste parole: «Sono insoddisfatto di tutto. Persino se fossi eletto Dio di questo mondo, mi dimetterei all’istante; e se il mondo si riducesse a me, se io fossi il mondo intero, mi sparpaglierei in pezzi fino a sparire […] Come posso avere momenti in cui ho l’impressione di comprendere tutto?»33. La tematizzazione combinata dell’angoscia e della disperazione viene individuata da Cioran attraverso l’ansia che viene da lui interpretata al di là della psichiatria come metafora capace di evidenziare una situazione esistenziale privilegiata di carattere filosofico. In questo caso, trionfa l’inquietudine insieme ad uno stato universale di eccitazione e di insoddisfazione introiettata alla massima profondità della coscienza in uno stato di indeterminabilità completa, «l’ansia non è provocata (condizionata) da niente; essa cerca di darsi un contenuto, e per raggiungere lo scopo le va bene tutto. Di qui la sproporzione fra questo stato d’animo, di per sé considerevole, e i miseri pretesti a cui si aggrappa. L’ansia è una realtà in sé, che precede tutte le sue forme particolari, tutte le sue varietà; nasce da se stessa, si genera da sola. È “produttività infinita” e, come tale, più adatta a essere formulata in termini di teologia che di psichia32. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 27. 33. Ivi, pp. 87-88.

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tria. Per coglierne la natura, bisogna superarne i limiti della psiche, risalire alla sovranità dell’essere stesso. E in effetti essa è sovrana, e non c’è attributo che le calzi meglio»34. Il contesto ontologico ed esistenziale ora riferito estende ulteriormente il concetto di ansia fino a comprendere quello di dubbio, trasferendo quest’ultimo in un piano non conoscitivo. In tal modo, Cioran configura una posizione filosofica nella quale l’inquietudine oscura si trasforma in una chiave interpretativa, capace di aprire le porte dell’essenza più profonda del reale, così: «A che cosa mi sarà servito penare, agitarmi, tormentarmi, per arrivare alle stesse conclusioni dell’Ecclesiaste, di Giobbe, di Pirrone – di tutti quegli ingegni che si sono votati al dubbio e all’ansia? A che pro dare una nuova versione di uno sbigottimento realizzato, “perfetto”? Che cosa lascia dietro di sé una grande passione che si esaurisce e scompare, se non un sapore di irrealtà? […] Spesso ho l’impressione di avere effettivamente superato la mia vita, non nel senso che io stia sopravvivendo a me stesso, ma nel senso che non ho più niente da vivere, che ho capito esattamente ciò che significa vivere»35. La condizione rivelativa, capace di farci cogliere la radice essenziale dell’esistenza umana, è per Cioran, come per altri filosofi romantici e post-romantici, la malattia della quale egli enumera tutti i caratteri positivi e negativi tracciando una figura emblematica del malato. Egli non oggettiva la situazione in un’infermità specifica poiché l’universalità del vissuto corrisponde all’indeterminatezza dello stato patologico e formula la seguente interpretazione: «Se l’uomo ha potuto separarsi dagli animali, è perché era senz’altro più di loro esposto e ricettivo alle malattie. E se riesce a mantenersi nel suo stato attuale, è perché esse non cessano di aiutarlo; lo circondano più che mai e si moltiplicano, affinché non si creda né solo né diseredato; le malattie vegliano perché egli prosperi, perché

34. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 415. 35. Ivi, pp. 965-966.

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in nessun momento abbia la sensazione che non gli si forniscano tribolazioni»36. La situazione è ancora più chiara se noi la riferiamo al dolore come vissuto corrispondente alla malattia, Cioran riconosce nel primo il momento di relazione immediata con lo stato negativo, oggetto della tematizzazione filosofica; quindi «il dolore dà coerenza alle nostre sensazioni e unità al nostro io, e resta, una volta abolite le nostre certezze, la sola speranza di sfuggire al naufragio metafisico»37. In questa prospettiva interpretativa, Cioran fornisce una lettura contemporanea del pessimismo, desunto dal buddismo, in cui «“Tutto è dolore” – la formula buddista, modernizzata, suonerebbe: “Tutto è incubo”. Nel medesimo tempo il Nirvana, chiamato a porre fine a un tormento ben più diffuso, diventerebbe, invece che una risorsa per pochi, universale come l’incubo stesso»38. Ne consegue che l’assenza di malattia impedisce di cogliere la verità dell’essere che come tale, per Cioran, è negazione; abbiamo un rovesciamento radicale tradotto in termini di valori per cui il positivo si converte nel negativo, mentre il negativo si trasforma in un positivo, sia pure di natura del tutto particolare, così «lo stato di salute è uno stato di non-sensazione, anzi di non-realtà. Non appena si cessa di soffrire, si cessa di esistere»39.

4. Uno slancio nell’impossibile Gli esistenziali negativi consentono a Cioran di illustrare la soggettività sulla linea dei vissuti che vengono filtrati dalla coscienza. Egli costruisce un sentiero speculativo, improntato alla negatività,

36. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 82. 37. Ivi, p. 83. 38. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 19. 39. ID., Squartamento, cit., p. 124.

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nel quale l’essere umano emerge come un incidente non voluto e non programmato dal contesto della vita nelle sue varie forme. La reazione adeguata ad una realtà oscura e inesplicabile dovrebbe essere, secondo le consuete argomentazioni della logica filosofica, una rassegnazione passiva di fronte alla quale l’uomo si riduce ad essere spettatore insoddisfatto di un’esistenza non voluta e non accettata. Cioran non si pone in questa soluzione, poiché la duplice via dell’assurdo e della ribellione gli impone una protesta che sia pure sterile, trasforma il non-senso nell’unico senso possibile dell’esistenza umana. Da tale punto di vista, la scommessa che conduce B. Pascal alla fede porta Cioran a progettare un salto nell’impossibile, che istituisce il negativo nichilista come vissuto e come speranza nell’inutilità e impossibilità di darne una definizione concettuale. Si tratta di dimensionare la lucidità in una razionalità capace di celebrare la sconfitta della ragione. In questa scelta filosofica, la follia, la noia e il suicidio, per lo meno allo stato potenziale, divengono delle situazioni accompagnate dal carattere della metafora che istituiscono delle forme paradigmatiche di ribellione, orientata appunto all’impossibile. Cioran, da un lato, utilizza, secondo il canone nietzschiano, la follia come momento rivelativo della verità, dall’altro, privilegia le vie estetica e mistica, fuse per il superamento della follia medesima. Tali vie vengono da lui cercate nell’estasi producibile in un orizzonte umano, troppo umano della musica, ecco perché «a che cosa faccia appello la musica in noi è difficile sapere; è certo però che tocca una zona così profonda che la follia stessa non riesce a penetrarvi»40. La via dell’esaltazione trova in Cioran un fautore insostituibile; egli non giunge fino al punto di valorizzare il patologico come tale, poiché tiene ben distinte le strade della malattia da quelle dell’entusiasmo, così la stessa follia viene presa in considerazione per gli effetti che è capace di produrre e non per la sua essenza reale di 40. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 88.

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frantumazione psichica; «quando si sono esauriti i pretesti che esortano all’allegria o alla tristezza, si giunge a viverle, l’una e l’altra, allo stato puro: è così che ci si affianca ai folli»41. Ad ulteriore chiarimento di quanto precede, possiamo sottolineare che l’effetto della poesia, al di là della patologia, viene recuperato attraverso la genialità creativa del poeta che è capace di produrre, sul piano estetico quanto il folle raggiunge inconsapevolmente nella sua dissociazione mentale; Cioran conclude la questione in questi termini: «Il poeta insito in ciascuno di noi è appunto il grano di follia che ci fa prosperare nel nostro vuoto»42. La follia patologica rappresenta una via parallela a quella filosofica; del resto non va dimenticato che, sia pure in un contesto completamente diverso, anche Platone per evocare i compiti della filosofia parla di una divina mania. Cioran pone in luce la potenzialità immaginativa di questa follia non patologica dell’intelletto, precisando che: «Quando, in preda alla frenesia dell’intelletto, ci si abbandona a quella del caos, si reagisce come un forsennato in possesso delle proprie facoltà, come un folle superiore alla propria follia, o come un dio che, in un accesso di rabbia lucida, si compiacesse di polverizzare sia la sua opera sia il suo essere. I nostri sogni sull’avvenire sono ormai inseparabili dai nostri terrori»43. Cioran, in un orizzonte del tutto diverso, valorizza la noia sulla linea filosofica che ricorda Schopenhauer e soprattutto Leopardi. Se per lui è vero che la noia differenzia l’essere umano dall’animale anche a livello superiore delle scimmie antropologiche, la noia stessa non è soltanto un mezzo per rivelare l’essenza ontologica del reale sospeso nello spazio del nulla, ma è anche una condizione di disagio di fronte alla quale l’uomo costruisce la sua fuga attraverso

41. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 118. 42. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 18. 43. ID., Storia e utopia, cit., p. 120.

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l’illusione attiva del fare; egli così chiarisce la questione: «La Noia livella gli enigmi: è una fantasticheria positivista»44. Da un punto di vista ontologico, la noia oltrepassa la soglia del vissuto per raggiungere l’imperscrutabile disagio dell’essere nel tempo; Cioran la ricollega alla condizione umana nell’apertura del vuoto attraverso il quale la coscienza, nello sforzo di superare il tempo, apre le possibilità del nulla, così «la Noia, prodotto corrosivo dell’ossessione del Tempo, vincerebbe la resistenza del granito stesso»45. Il processo di nullificazione si inquadra nella costante ammirazione che Cioran manifesta nei confronti dell’attitudine alla rinuncia; l’essenza dell’uomo dà luogo ad una ribellione implosiva nella quale la rinuncia e il limite si associano in un compiacimento del tutto particolare che ridimensiona l’essere impoverendolo fino alla sua nullificazione, pertanto «infinito è il potere dell’uomo capace di rinunciare. Ogni desiderio vinto rende potenti, e si cresce quanto più si contrastano gli appetiti naturali. È sconfitta tutto ciò che non è vittoria su se stessi»46. Nel medesimo orizzonte il suicidio, nelle sue varie potenzialità semantiche, da un lato è per Cioran impazienza, dall’altro una ribellione alla finitezza dell’uomo. La questione ancora una volta tematizza l’insufficienza della condizione umana, catturata e delimitata dal tempo. Ogni ribellione e ogni disagio vanno ricondotti agli effetti di una caduta fondamentale che il filosofo romeno vive come caduta nel tempo. Il suicidio, con tutte le oscillazioni e le ambivalenze spesso contraddittorie che comporta, viene spiegato da Cioran in una gamma di significati sintetizzabili con l’espressione un abisso liberatore, in cui appare tutto il fascino e tutto il disappunto che è insito nel-

44. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 30. 45. ID., Squartamento, cit., p. 156. 46. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 64.

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le sue numerose considerazioni che riguardano questo fenomeno estremo. La questione investe la relazione non sempre caratterizzabile che il filosofo romeno tematizza nei confronti dello spazio infinito del nulla. Egli espone questi pensieri: «Ogni atto presuppone una visione limitata, tranne quello di uccidersi, che invece procede da una visione vasta, tanto vasta da rendere irrealizzabile e vano ogni altro atto. Tutto, al suo confronto, è futilità e derisione. Essa è la sola a proporre una via d’uscita, voglio dire un abisso – un abisso liberatore»47. Il suicidio connota due istanze, quella della libera decisione e quella della violenza che sopprime la vita. In questo contesto la sua semantica impone a Cioran alcune valutazioni differenziate, dipendenti dalle questioni insite in esso e dai livelli rispetto ai quali esse vengono affrontate. Un’ulteriore distinzione concerne il riferimento alle due sfere, quella auto-cosciente della soggettività e quella della relazionalità sociale. Così procedendo la situazione si complica come appare dalla seguente considerazione: «Suicidio e omicidio sono della stessa famiglia. Ma il suicidio è più raffinato, infatti la crudeltà verso se stessi è più rara, più complessa, senza contare che vi si aggiunge l’ebbrezza di sentirsi stritolati dalla propria stessa coscienza»48. Il problema del suicidio non è legato per Cioran all’istinto vitale, poiché il suo significato si colloca in un orizzonte diverso e più complesso; egli sostiene che «la vitalità non rappresenta un ostacolo al suicidio: tutto dipende dalla direzione che prende o che le viene data»49. Oltre al grande tema dei significati possibili e impossibili, accettabili e inaccettabili del suicidio come fenomeno complesso, Cioran sente il bisogno di giustificare il suo atteggiamento esistenziale e 47. ID., Il funesto demiurgo, cit., pp. 83-84. 48. Ivi, p. 89. 49. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 93.

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decisionale nei confronti del suicidio medesimo, che pur essendo un suo costante oggetto di ammirazione non è mai rientrato nelle sue decisioni concrete. Egli è consapevole delle contraddizioni insite nelle sue argomentazioni filosofiche e letterarie, fino al punto da sostenere questa posizione: «La tenacia che ho prodigato nel combattere la magia del suicidio mi sarebbe stata ampiamente sufficiente a fare la mia salvezza, a polverizzarmi in Dio»50.

5. A confronto con la religione Il problema religioso è centrale nell’ateismo di Cioran e rappresenta la presa di coscienza critica del proprio passato autobiografico. Esso indica un modello di confronto rispetto al quale progettare e costruire una significativa via di liberazione. In questa prospettiva emerge il cristianesimo della tradizione, nelle componenti ortodosse ed eterodosse, in cui il senso del peccato e il peso del demoniaco accompagnano il modello costantemente tenuto presente della santità. L’importanza del mistero e il fascino per la preghiera conducono Cioran ad un’esaltazione della meditazione mistica, condotta fino alle soglie della trasfigurazione dell’estasi. Questo atteggiamento nei confronti del sacro è da lui recuperato in un orizzonte di esaltazione al di là di quello del possibile, riferito potenzialità emotive ed irrazionale dell’uomo. È in questa via inconsueta ed arcana che egli evoca esperienze appartenenti alla prospettiva del paranormale. Ciò si inquadra in una via in cui Cioran, il quale per la sua cultura religiosa non oltrepassa le soglie della fede, per trovare il significato parapsicologico in senso scientifico delle esperienze appartenenti al mistero incontra le religioni dell’Estremo Oriente quali l’induismo e il buddismo, le

50. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 74.

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quali ultime suscitano la sua ammirazione per la capacità di evocare il mistero del nulla. In questa via, in parte storica e in parte teoretica, il nostro pensatore riferisce gli esempi tradizionali per interpretare i problemi da lui vissuti, ma la conclusione del suo itinerario è caratterizzata da dubbi ed interrogativi, nei quali viene abbandonato l’orizzonte delle religioni positive nel tentativo di recuperare una religiosità nello spazio abissale del suo ateismo. Il problema religioso in Cioran si identifica con il processo attraverso il quale egli svela l’assurdo teologico, filosofico e in gran parte etico del cristianesimo. Da un punto di vista ontologico, la duplice questione relativa, sia al carattere teomorfico dell’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, sia al concetto dell’incarnazione del Cristo, che entra nella storia, nel tempo come uomo-Dio, conduce alla tematizzazione dell’elemento ingannevole di tale religione, riportando l’intero problema all’argomento delle illusioni. Infatti «l’Incarnazione è la lusinga più pericolosa di cui siamo mai stati oggetto. Ci ha concesso uno status fuori misura, del tutto sproporzionato rispetto a ciò che siamo. Innalzando l’aneddoto umano alla dignità di dramma cosmico, il cristianesimo ci ha ingannati sulla nostra insignificanza, ci ha precipitati nell’illusione, in questo ottimismo morboso che, in spregio all’evidenza, confonde il percorso con l’apoteosi»51. Il problema viene da Cioran argomentato, sul piano filosofico, alla luce della soluzione assunta da F.W. Nietzsche nel noto aforisma (125) de La gaia scienza, ribadendo però che la negazione ontologica di Dio coincide con la negazione della religione cristiana. Così: «A che si riducono gli sproloqui sulla “morte di Dio”, se non a certificare l’avvenuto decesso del cristianesimo?»52. Cioran accomuna filosoficamente il tema del cristianesimo con quello della metafisica, associando ad entrambi le critiche che egli formula per i due settori della religione e della filosofia, in una si-

51. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 43. 52. Ivi, p. 46.

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tuazione che esprime un pensiero antifilosofico e una religiosità antireligiosa. In questa situazione altamente problematica, egli formula tale considerazione: «Che la specie umana abbia, senza corrompersi, resistito alle profondità del cristianesimo mi sembra l’unica prova della sua vocazione metafisica»53. La crisi del cristianesimo viene letta da Cioran come crisi della trascendenza, rispetto alla quale l’alternativa è costituita dall’idealizzazione dell’immanenza che sfocia nell’utopia; egli apprezza il progetto di miglioramento dell’uomo e della società, compiendo il tentativo di stabilire una continuità tra la realtà storica e il sogno ideale; egli precisa che «finché il cristianesimo appagava gli animi, l’utopia non poteva sedurli; da quando esso incominciò a deluderli, l’utopia cercò di conquistarli e di insediarvisi. Vi si era dedicata già ai tempi del Rinascimento, ma non doveva riuscirci che due secoli più tardi, in un’epoca di superstizioni «illuminate»54. Cioran, in compagnia di F.W. Nietzsche nonché dei letterati francesi i quali esaltano, in un compiacimento tragico, il male nella sua più profonda abissalità, ed insieme agli esistenzialisti atei dell’assurdo, esalta il demoniaco, senza poter riposare in un ateismo positivo di carattere razionale associato all’idealizzazione della conoscenza scientifica. La sua disperazione tragica gli ispira un desiderio per le soluzioni religiose. In questi momenti in cui si manifesta la nostalgia di una fede perduta e abbandonata, egli si concede delle espressioni emblematiche come la seguente: «Al colmo dei miei dubbi mi serve un’ombra di assoluto, un po’ di Dio»55. Egli ammira i santi, non i teologi, in quanto è la religione, con i suoi dogmi e con le sue dottrine astratte, che non risponde alle sue convinzioni, mentre la fede, con lo slancio mistico e la disponibilità all’estasi, desta in lui grande ammirazione; infatti «chi dice 53. ID., Lacrime e santi, cit., p. 26. 54. ID., Storia e utopia, cit., p. 111. 55. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 33.

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mito proclama la sua miscredenza, la sua totale assenza di senso religioso. Bisogna pensare a Dio, non alla religione; all’estasi, non alla mistica. La differenza fra il teorico della religione e il credente è grande come quella fra lo psichiatra e il pazzo»56. L’importanza della possibilità di un salto nella fede è, nel nostro pensatore, più grande di quello che si potrebbe supporre. Egli, in alcune sue pagine significative, non abbandona l’idea che in un futuro, forse lontano e imprevedibile, possa finalmente compiere il salto nella fede. Da tale punto di vista si esprime in questi termini: «Nonostante tutti i miei sogghigni, mi rendo perfettamente conto che un giorno potrei dissolvermi in Dio, e questa possibilità che mi concedo mi rende un po’ più indulgente verso i miei sarcasmi»57. Questo argomento è molto più significativo di quanto potremmo ipotizzare. Egli procede fino al punto di riconoscere, insieme ad un filosofo religioso come S. Kierkegaard, la possibilità di accedere alla fede religiosa e dato il contesto possiamo anche ritenere che questo ingresso possa essere accompagnato da timore e tremore. «Dio stesso non saprebbe dire quale sia la mia posizione non già di fede, ma di religione. Aderisco così poco a questo mondo che proprio non posso considerarmi un miscredente! In virtù di questa mancanza di adesione appartengo al “religioso” (per dirla con Kierkegaard)»58. La questione è molto più chiara di una semplice ipotesi interpretativa, in quanto lo stesso Cioran, nei suoi Quaderni, prende coscienza della sua indisponibilità a criticare per partito preso il cristianesimo, per cui formula questa considerazione: «Devo scrivere un articolo che, così come l’ho concepito, dovrebbe essere anticristiano. Però non riesco a mettermi al lavoro; non mi sento in vena di vilipendere né Dio né il Figlio. La fede è una realtà immensa, e non

56. Ivi, p. 50. 57. Ivi, p. 258. 58. Ivi, p. 273.

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si saprà mai quale perdita ha subito l’uomo da quando non ricorre più alla preghiera»59. La considerazione riportata non è sporadica e neppure isolata, in quanto egli dichiara il suo rimpianto per le critiche eccessive manifestate nei confronti del cristianesimo; ciò appare in queste parole: «Ho attaccato il cristianesimo in tutti i miei libri. Mi accorgo che non lo odio più, che non ho più sentimenti torbidi nei suoi riguardi, e anzi provo un certo rimorso per averne detto male»60. Il suo atteggiamento rimane perplesso e contraddittorio; in altre pagine, sempre di carattere autobiografico, apprezza il paganesimo e sottovaluta il cristianesimo in un’apertura alla cultura classica e non a quella giudaico-cristiana. La questione religiosa e, come nel versante opposto, l’ateismo costituiscono dei problemi aperti nella concezione di Cioran, il quale trova il segno della decadenza nella cultura contemporanea, nella quale emerge il rammarico per un eroismo perduto, presente in tutte le prospettive ideali. «Per secoli ci sono stati ingegni che si sono battuti e hanno rischiato la vita per liberarsi di Dio. E noi, in pieno ventesimo secolo, rimpiangiamo le catene che Egli rappresentava, e non sappiamo che farcene di una libertà che non ci è costata nessun sacrificio, che non siamo stati noi a conquistare. Siamo gli eredi ingrati dell’ateismo eroico, gli epigoni della rivolta, una massa di ribelli che nel loro intimo deplorano la scomparsa delle “superstizioni”, dei “pregiudizi” e degli antichi “terrori”»61. Nell’insieme dei problemi non risolti, l’ammirazione di Cioran celebra il trionfo di un buddismo reinterpretato nel suo orizzonte del pensiero negativo, a proposito del quale chiarisce, attraverso l’immagine di una religione orientale, la sua prospettiva nei confronti dell’uomo e del mondo attraverso queste parole: «Fra tutti i fondatori di religioni, il Buddha è quello che è andato più lontano; soltanto lui ha visto il problema essenziale, unico: vincere il mon59. Ivi, pp. 303-304. 60. Ivi, p. 353. 61. Ivi, p. 458.

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do, uscirne senza lasciarlo. Né paradiso né inferno; bensì vittoria su questo mondo e su tutti i mondi»62. L’elemento contraddittorio manifestato da Cioran che ci porta a vedere, tanto il suo ateismo, quanto il suo atteggiamento religioso, come problemi non risolti, ci dovrebbe condurre ad un’ermeneutica nella quale la lucidità dell’assurdo, compie il tentativo di una conciliazione impossibile della religione con l’ateismo; egli non rinuncia né all’uno né all’altro ma non realizza la conciliazione impossibile e non si rassegna all’oscillazione di scelte esclusive. Le sue parole così caratterizzano la situazione: «Per me Dio non è niente. Eppure mi sono trovato più di una volta, come altri, in quello stato di invocazione che fa di Lui la cosa più importante di tutte»63. La religione viene da lui criticata per una presunta astrattezza nonché per la sua funzione consolatoria che attenua i disagi del quotidiano e soprattutto il carattere negativo delle relazioni con il prossimo.

6. Gli idoli del mondo religioso Cioran non affronta la questione religiosa nei suoi caratteri generali o nella sua funzione universale nelle culture e nelle civiltà della storia umana, ma si riferisce nel suo desiderio di concretezza a singoli problemi che emergono sia dai protagonisti del mondo religioso, sia dai concetti morali e teologici che costituiscono i capitoli specifici delle dottrine professate dalle religioni. Il discorso è delimitato in base alle religioni positive che occupano uno spazio consistente nella sua esperienza autobiografica, illustrata con il mondo delle sue conoscenze culturali. Cioran, di fronte all’abbandono degli dei, sottolinea la nostra decadenza che corrisponde all’incapacità di risolvere i problemi attra62. Ivi, p. 634. 63. Ivi, p. 696.

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verso il recupero della libertà nei confronti dell’esperienza religiosa superata. In questo contesto, l’ambivalenza delle illusioni e delusioni che non si disgiungono, lo conduce a recuperare, in un significato diverso, l’itinerario già percorso da F.W. Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli. Tale recupero viene sottolineato con queste argomentazioni: «Giunti al crepuscolo, agli ultimi giorni della Sorte […], contempliamo i nostri dèi alla deriva: ci facevano comodo, poveretti. Forse sopravviveremo loro, o forse torneranno sminuiti, camuffati, furtivi. Per scrupolo di giustizia riconosciamo che, se si frapposero tra noi e la verità, ora che se ne vanno non siamo più vicini alla verità rispetto ai tempi in cui ci vietavano di guardarla o affrontarla. Miserabili quanto loro, continuiamo a lavorare nel fittizio e a sostituire, com’è giusto, una illusione con un’altra: le nostre più elevate certezze non sono che menzogne in azione»64. Sulla linea tormentata dell’abbandono, Cioran riconosce all’immagine di Dio una funzione di utilità difficilmente sostituibile, nell’ambito della quale viene tematizzato il suo rimpianto per la perdita del vantaggio: «È chiaro come il sole che Dio era una soluzione e che non ne troveremo mai una altrettanto soddisfacente»65. Di fronte all’entità di Dio si manifestano tutte le oscillazioni di Cioran convergenti in un unico punto, quello di un nichilismo problematico dal quale l’uomo, nella nostra cultura, non è in grado di sottrarsi: «Senza Dio tutto è nulla. E Dio? Nulla supremo»66. Relativamente a Dio, Cioran utilizza tutti i possibili epiteti contrastanti di carattere positivo e negativo in una indefinibilità che sostituisce al mistero il nulla. Da tale punto di vista, sono emblematiche queste parole: «Quando si giunge al limite del monologo, ai confini della solitudine, si

64. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 139. 65. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 107. 66. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 66.

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inventa – in mancanza di altri interlocutori – Dio, supremo pretesto di dialogo»67. Il punto di partenza dell’itinerario critico, a proposito degli argomenti religiosi, trova il suo punto di partenza nel concetto di mistero, distinto, sulla linea di Gabriel Marcel, dal problema e inteso come una verità presente ma nascosta, significativa ma inconoscibile. Il nostro pensatore supera radicalmente questa prospettiva riferita al sacro traducendo il concetto di mistero in un espediente di inganno con il quale viene mascherato il nostro desiderio di superiorità. Siamo in una linea intermedia tra il problema delle illusioni e quello della riduzione dell’essenza della religione ad un fenomeno di alienazione. Nella sua esaltazione del negativo, Cioran trova la radicalità dell’essenza religiosa nel demoniaco, collocato in una condizione, in parte tragica e in parte ironica, nella quale intraprende la via ribelle della liberazione; quindi «il disgusto dell’altro mondo porta all’ossessione amorosa dell’inferno. Senza questa ossessione, le religioni, in ciò che hanno di veramente sotterraneo, sarebbero incomprensibili»68. Di conseguenza, la religione viene dissolta nell’ambito di un nichilismo che tutto annienta e tutto trasforma. A tal proposito, Cioran attraverso una via più poetica che argomentativa propone questa definizione: «La religione è un sorriso che plana sopra un non-senso generale, un profumo residuo sopra un’onda di nulla»69. Coerentemente alla sua posizione antifilosofica, contraria alle argomentazioni di natura razionale, Cioran, nell’ambito religioso, attribuisce la responsabilità della crisi alla teologia, chiarendo il concetto per cui la riflessione teologica si risolve nella negazione

67. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 115. 68. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 104. 69. ID., Lacrime e santi, cit., p. 52.

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di Dio, data l’inconsistenza delle prove razionali che concernono la pretesa di dimostrarne l’esistenza. In relazione a ciò, la dissoluzione della fede religiosa viene attribuita alle responsabilità argomentative della ragione e all’oggettività storica delle istituzioni eccelsigli, in una prospettiva nella quale, per Cioran, la salvezza della fede risiede soltanto nella mistica; infatti «la Chiesa e la teologia hanno assicurato a Dio un’agonia duratura. Soltanto la mistica, di tanto in tanto, lo ha rianimato»70. L’esperienza cioraniana della radice della vita religiosa consiste nel salto nella fede, ma non può dipendere da ragioni esterne che ne rafforzino la certezza. In questa direzione, l’immagine del divino costruita dal pensiero non ha importanza, anzi costituisce un ostacolo per la conservazione della religione stessa; così «ogni esperienza religiosa profonda ha inizio là dove il regno del demiurgo finisce. Non sa che farsene di lui, lo accusa, ne è la negazione»71. L’ambivalenza di Cioran nei confronti dei problemi religiosi è costante e testimonia una dialettica animata da amore e odio nei confronti del cristianesimo. Egli ne prende coscienza fino al punto di cercarne una specifica giustificazione, così si pronuncia: «In me tutto va a finire in preghiera e in bestemmia, tutto diventa invocazione e rifiuto»72. Nell’angoscia del suo smarrimento, Cioran è fedele al suo disorientamento fino al punto da formulare una preghiera, sia pure nella consapevolezza dei suoi dubbi e delle sue riserve. Tale manifestazione religiosa viene espressa con queste parole emblematiche: «Signore, perché non ho la vocazione alla preghiera? Nessuno al mondo è più vicino a te, e più lontano. Un briciolo di certezza, un po’ di consolazione, non ti chiedo altro. Ma tu non puoi rispondere, non puoi»73.

70. Ibid. 71. ID., Il funesto demiurgo, cit., p. 16. 72. ID., Quaderni 1957-1972, cit., p. 16. 73. Ivi, p. 26.

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Per lui la preghiera rientra a pieno titolo tra le necessità ineludibili dell’esistenza umana ed egli è convinto di ciò fino al punto di affermare che «l’uomo può vivere senza preghiera, ma non senza la possibilità della preghiera […] L’inferno è la proibizione della preghiera»74. In rapporto a ciò, la preghiera si inquadra in tutte le manifestazioni oscillanti della religiosità cioraniana senza Dio, pertanto: «Lo stato d’animo che capisco di più è quella desolazione che spinge a pregare, ma che non oltrepassa lo stadio velleitario – è ciò che si potrebbe definire la probabilità improbabile della preghiera»75. Su questa linea, la considerazione per la preghiera conduce Cioran ad un ulteriore apprezzamento, quello etico relativo alla manifestazione più alta della morale professata dal cristianesimo, vale a dire la preferenza per il perdono, anche se questo aspetto della vita morale egli lo recupera su un piano umanistico nel quale riesce a trovare anche l’occasione di superamento del suo pessimismo relativo alla relazione sociale. Troviamo quest’espressione privilegiata a favore della perdono all’interno del mondo dei valori umani: «Bisogna perdonare, per la semplice ragione che è difficile e quasi impossibile farlo. Tutti sono meschini e non pensano che alla vendetta. Non vendicarsi è l’unica impresa morale, il gesto più bello che si possa fare. Ogni volta che si prova il desiderio di vendicarsi bisognerebbe pensare che questa è una prerogativa degli altri, che è una cosa facile, poiché tutti ci riescono, e che non vi è nobiltà se non nell’anomalia del perdono, fosse anche impuro»76. Il percorso che si articola nella valorizzazione della preghiera sul piano religioso e del perdono sul piano etico conduce alla questione ambivalente, dell’atteggiamento che Cioran professa nei confronti della santità. Il santo viene da lui legato all’idea di sacrificio e di una sofferenza ricercata al di là di ogni limite accettabile, ma il santo è 74. Ivi, p. 258. 75. Ivi, p. 354. 76. Ivi, p. 943.

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altresì l’espressione di una follia che ha per suo orizzonte il cielo anziché la terra. Cioran trova nel santo un’occasione di confronto, giungendo ad un’esaltazione di lucidità ambiziosa, caratterizzata sul piano paradossale dell’assurdo. Ciò accade in un’epoca in cui i santi, inattuali nel tempo e nella storia, vengono allontanati dagli ideali quotidiani. Egli si propone come obiettivo finale di poter realizzare in questo confronto la santità stessa; il che viene effettuato con queste parole: «Perché non dovrei paragonarmi ai più grandi santi? Ho forse prodigato meno follia per salvare le mie contraddizioni di quanta non ne abbiano prodigato loro per superare le proprie?»77. I riferimenti alle questioni di maggior rilievo che emergono dalla vita religiosa sono frammentarie e disperse secondo la metodologia asistematica che utilizza Cioran nella sue meditazioni. Esse ci permettono di individuare l’asse portante dell’intero percorso in una religiosità senza Dio che anima tutte le sue pagine e che viene vissuta nell’abbandono ad un’esistenza tormentata, valorizzata dal tentativo di tradurre costantemente l’autobiografia in filosofia. In questa direzione, le pagine dell’Ecclesiaste e quelle del Libro di Giobbe sono le guide letterarie ed esistenziali di un colloquio con il Dio assente, fatto di proteste, ribellioni, negazioni e persino espressioni blasfeme dalle quali appare l’inquietudine di un abbandono che non è rinuncia e di una scelta possibile che non è accettazione. Questi due confini, sfumati e precari costituiscono gli argini entro i quali scorre la religiosità irreligiosa del filosofo romeno. La conclusione di questo discorso la troviamo nell’irrinunciabile attaccamento di Cioran alla questione religiosa che, per sua stessa confessione, non può essere abbandonata senza peggiorare il destino della condizione umana. Egli manifesta in questo modo il concetto esposto: «io non vorrei vivere in un mondo svuotato di ogni sentimento religioso. Non penso alla fede ma a quella vibrazione interiore che, indipendente da qualsiasi credenza, ti proietta in Dio, e qualche volta al di sopra»78. 77. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 34. 78. ID., Squartamento, cit., p. 93.

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7. I sentieri interrotti della soggettività Il problema della soggettività è presente nelle riflessioni di Cioran, da un duplice punto di vista, esistenziale ed etico-sociale. La prospettiva ontologica di derivazione cartesiana è completamente assente e, nello stesso tempo, l’egocentrismo solipsistico stirneriano costituisce un punto di riferimento marginale che presuppone un orizzonte filosofico esclusivamente teoretico, privo di qualsiasi riferimento diretto all’autore de L’Unico e la sua proprietà. Si tratta di un confronto analogo a quello che si potrebbe fare con il singolo kierkegaardiano, rispetto al quale Cioran accantona l’autenticità irrepetibile di tipo religioso del filosofo danese, per valorizzare soltanto il momento esistenziale dell’io individuale. In questa situazione, non abbiamo una teoria filosofica della persona, ma non siamo neppure di fronte ad una dissoluzione dell’individualità umana, presente ad esempio ne L’uomo senza qualità di Musil. Alla luce di queste premesse, è opportuno prendere in considerazione in un’ottica analitica alcuni aspetti emergenti dai fenomeni che accompagnano, caratterizzandola, la soggettività personale dell’essere umano. Anche il problema della verità compie il passaggio dall’oggetto al soggetto, dalla realtà al vissuto. In tal modo, la verità si relativizza in una situazione nel contempo scettica e prospettica, dando luogo ad una concezione plurale, da intendersi quale prodotto consapevole della riflessione soggettiva; infatti «quanto a me, amo solo le verità vitali, organiche, perché so che non esiste la verità, ma solo verità vive, frutto della nostra inquietudine»79. Cioran distingue l’io come riferimento formale o meglio trascendentale di tipo filosofico, dal sé più profondo, coinvolto nei vissuti dell’esistenza. Egli prescinde dal primo, valorizzando il secondo; a tal proposito sono fondamentali queste riflessioni: «L’“io” costituisce il privilegio solo di coloro che non vanno fino in fondo a se stes79. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 103.

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si. Ma andare fino in fondo a se stessi, questo estremo, se è fecondo per il mistico è nefasto per lo scrittore»80. Anche nella via della soggettività, Cioran si manifesta come autore indomabile della distruttività. La sua ricerca di soluzioni originali passa attraverso la dissoluzione delle posizioni consolidate nella tradizione. Questo concetto è espresso da questa riflessione: «Architetto, avrei costruito un tempio alla Rovina; predicatore, avrei rivelato la farsa della preghiera; re, avrei innalzato l’emblema della ribellione. Poiché gli uomini covano una voglia segreta di ripudiarsi, avrei stimolato dovunque l’infedeltà a se stessi, immerso l’innocenza nello stupore, moltiplicato i traditori di sé, impedito alla massa di imputridire nel marcitoio delle certezze»81. Relativamente al problema della libertà, Cioran riconferma la pluralità prospettica della condizione soggettiva dell’essere umano poiché il momento caratterizzante dell’esistenza è costituito dalla valorizzazione della differenza in tutte le sue conseguenze, comprese le scelte, attuali e possibili, che rientrano nei contenuti della libertà trascendentale dell’io. Questo è un discorso ontologico ed insieme etico che caratterizza la molteplicità degli uomini e delle situazioni vissute. Appaiono, quindi, queste conseguenze di rilievo: «Libertà è diritto alla differenza; essendo pluralità, essa postula lo sbriciolamento dell’assoluto, il suo dissolversi in un pulviscolo di verità ugualmente giustificate e provvisorie»82. La situazione del soggetto esistenziale è caratterizzata da Cioran in un’oscillazione costante dal momento ontologico a quello etico, senza assumere una semantica univoca nelle sue riflessioni particolari. Da tale punto di vista, appare importante l’analisi del dubbio come condizione di una decisione sospesa, in cui viene favorita non l’attività ma l’inazione, il che corrisponde all’ideale cioraniano 80. ID., La tentazione di esistere, cit., p. 129. 81. ID., Sommario di decomposizione, cit., p. 194. 82. ID., Il cattivo demiurgo, cit., p. 40.

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della sterilità; egli sostiene che: «Il dubbio non varca il Rubicone, non varca mai nulla; il suo esito logico è l’inazione assoluta – punto estremo concepibile in astratto, di fatto inaccessibile»83. Il dubbio non si esaurisce sul piano della conoscenza ma in base alla lezione proveniente dallo scetticismo antico, entra nella vita e frena l’azione. Su questo piano, la filosofia moderna tematizza la coscienza come nucleo profondo della soggettività. Cioran, nel riflettere sulla coscienza stessa, la analizza come un prolungamento della vita rispetto alla quale essa compie un vero e proprio salto qualitativo. Anche in tal caso, il concetto rimane indefinito ed ambivalente, esprimendo da una lato la consapevolezza del soggetto conoscente e dall’altro la condizione vigile dell’uomo che soffre, vuole, sceglie e si ribella ai condizionamento del proprio esistere.

8. Tra la tradizione e le filosofie del Novecento Leggere alla luce della critica il pensiero di Cioran è una impresa non facile, sia per il panorama della letteratura critica che lo riguarda non molto vasto, sia perché il nostro pensatore non si preoccupa di una documentazione puntuale delle fonti del suo pensiero. Il problema dell’interprete consiste nel rischiare lo sviluppo di alcune intuizioni, presenti nel suo pensiero, dove il ricordo di un nome, di un concetto e di un esempio di riferimento, costituisce lo spunto per individuare un’eredità o un itinerario speculativo che il filosofo si propone di completare, integrare e correggere. In questo panorama asistematico di sentieri interrotti, il momento centrale di un confronto indiscutibile è costituito dalla tradizione del pensiero occidentale, della quale Cioran vuole essere un continuatore e un restauratore. In questa chiave problematica, la civiltà antica è preferita a quella moderna e, all’interno della prima emergono i due nuclei del paga83. ID., La caduta nel tempo, cit., p. 45.

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nesimo nonché del cristianesimo, mediati dallo gnosticismo, mentre nella seconda troviamo i legittimisti conservatori ai quali va il favore di Cioran e i rivoluzionari, più o meno ideologizzati, visti da lui con grande sospetto. Cioran si fa critico e interprete, in un dialogo con il passato, animato dalla nostalgia e dal rimpianto per gli orizzonti perduti, ma convinto che l’età presente è segnata da una decadenza insuperabile e che il futuro è sospeso sull’abisso del mondo. Un discorso più specifico si impone per determinare la collocazione di Cioran nelle filosofie del Novecento, a partire dalle quali egli riconsidera i rapporti con quelle dell’Ottocento che anticipano i problemi del nostro tempo e che riemergono, attraverso le rivisitazioni degli errori del passato, compiute nell’orizzonte problematico della Kierkegaard e della Nietzsche renaissance. In questo orizzonte, possiamo individuare delle linee portanti del pensiero cioraniano. La prima riguarda la problematizzazione delle visioni ontologiche da lui desunte in una linea interpretativa, che da H. Bergson giunge fino a G. Marcel; la seconda è una linea esistenziale, sospesa sull’abisso del nulla, che riconsidera all’interno dell’esistenzialismo ateo francese del Novecento, le permesse fideistiche e soprattutto individualistiche, presenti in S. Kierkegaard e F.W. Nietzsche, con alcuni sviluppi che tematizzano la ribellione e l’assurdo sulla linea di A. Camus nonché la noia e il nulla nella visione poetica di G. Leopardi. Questa problematica si contrappone alla svalutazione che il nostro pensatore compie della posizione esistenziale di M. Heidegger, da lui ritenuta eccessivamente concettuale, dipendente da un astrattismo verbale. La terza prospettiva fa emergere una rivisitazione della tradizione etico-politica di un passato più o meno lontano che da Niccolò Machiavelli conduce a J. de Maistre, dalla quale egli fa derivare il concetto di lucidità inteso come una razionalità esasperata. Tali nodi problematici, illustrati per via esemplificativa da autori, citati globalmente senza integrarli con un’analisi puntuale dei

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testi, vengono completati da un nichilismo di insieme che porta alle ultime conseguenze le teorie della decadenza, affioranti in diverse modalità nella cultura del Novecento. Relativamente al problema in esame, emergono due concetti di fronte ai quali Cioran prende posizione per valorizzare la dinamica progressiva che poi è eticamente regressiva, di un nichilismo che avanza attraverso le ceneri della decadenza; i due concetti sono quello di storia e quello di utopia. Il primo considerato nel contesto hegeliano come storia universale delle civiltà umane in cui i popoli si succedono alla guida del destino del mondo. Tale concetto dà luogo ad uno storicismo della decadenza in cui l’umanità annulla se stessa, nel corso del tempo e nella successione degli eventi. Il secondo viene svuotato del suo significato ideale, attraverso il rilievo della povertà dell’ideologia nei confronti dell’immagine religiosa della salvezza che l’ha preceduta. Cioran finisce per vanificare l’utopia in un pessimismo sistematico e corrosivo che, destrutturando il tempo e la storia vanifica, fino ad annientarla, l’immagine del futuro possibile. Il confronto tra le filosofie non è, in Cioran, di tipo testuale ma neanche relativo soltanto agli autori nominati o alle correnti di pensiero considerate. Egli investe i temi trattati, in una trasformazione e in una reinterpretazione dei medesimi, attraverso cui si differenzia dal contesto culturale che di solito li accompagna. Per quanto riguarda la coscienza, essa è ricondotta ai vissuti interiori che caratterizzano la soggettività ma, a volte, viene contrapposta alla vita, in una precisazione semantica in cui sono implicite le divergenze, tanto dalle diverse forme di vitalismo, quanto dall’ontologia bergsoniana che è un presupposto fondamentale del suo pensiero. Infatti «avere una coscienza sviluppata, sempre vigile, ridefinire senza tregua il proprio rapporto con il mondo, vivere nella perpetua tensione della conoscenza significa essere perduti per la vita»84. 84. ID., Al culmine della disperazione, cit., p. 56.

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Sulla medesima linea le reiterpretazione della coscienza procede oltre, per evidenziarne il vissuto esistenziale ed il disagio generato dalla sofferenza. Cioran non prescinde dal coinvolgere in questa reinterpretazione anche il concetto di tempo che a sua volta, superandone l’idea spazializzata dallo stesso, pone anche tra parentesi la sua trascendentalità, per cui, anche a proposito del tempo, emerge il vissuto nella sua intensità esistenziale. Così «il tempo è una consolazione. Ma la coscienza ha la meglio sul tempo. E non è facile trovare una cura efficace contro la coscienza. Tutto ciò che nega il tempo è malattia»85. In termini conclusivi rispetto a questo argomento, la coscienza viene da lui distinta radicalmente dall’aspetto biologico del vivente, riconducendola allo spazio indefinibile del nulla; pertanto «l’erosione del nostro essere operata dalle nostre infermità: il vuoto che ne risulta è colmato dalla presenza della coscienza – che dico? Quel vuoto è la coscienza stessa»86. Nella alternativa tra conoscenza scientifica e costruzione filosofica o, meglio, tra scienza e metafisica, Cioran, pur coinvolgendo nel dubbio radicale qualsiasi certezza del conoscere, contrariamente alla cultura del Novecento, si rivela, sia pure con scetticismo antiscientifico, finendo per prediligere la stessa metafisica dalla quale prende le distanze. Egli sostiene che: «In genere, la scienza abbrutisce gli animi rimpicciolendo la loro coscienza metafisica»87. Da un punto di vista culturale più specifico, gli interessi di Cioran, sicuramente lontani dalle scienze della natura, sono molto incerti relativamente alle scienze umane anche quando, come accade per la psicoanalisi, queste si avventurano nell’esame dettagliato dei vissuti esistenziali. In rapporto a quest’ultima, egli manifesta tutte le sue perplessità, delimitando la validità dell’indagine sui disagi psichici con molti

85. ID., Lacrime e santi, cit., p. 65. 86. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 90. 87. ID., Lacrime e santi, cit., p. 78.

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condizionamenti che ne pongono in dubbio il conseguimento dei risultati perseguiti. A tal proposito, egli sostiene che «la psicoanalisi, tecnica che pratichiamo a nostre spese, degrada i nostri rischi, i nostri pericoli, i nostri abissi; essa ci spoglia delle nostre impurità, di tutto ciò che ci faceva curiosi di noi stessi»88. Nonostante queste considerazioni che rendono inattuale il pensiero di Cioran nella nostra cultura, egli è invece cittadino a pieno titolo nelle filosofie asistematiche del Novecento, poiché le sue riserve costanti nei confronti della cultura filosofica tradizionale riguardano il nucleo indiscusso delle tendenze speculative del passato, vale a dire il sistema. Rispetto a quest’ultimo egli esprime la sua obiezione critica con queste parole: «Aristotele, Tommaso d’Aquino, Hegel – tre asservitori dello spirito. La peggiore forma di dispotismo è il sistema, in filosofia e in tutto»89. Il nucleo profondo di ogni riflessione è per Cioran l’interiorità esistenziale del soggetto umano. Il suo sforzo si concentra nella costruzione poetica, dei sentieri che riescono ad evocarne l’abisso della sua profondità. Egli sottolinea che: «Dobbiamo cercare rimedio ai nostri mali in noi stessi, nel principio atemporale della nostra natura. Se l’irrealtà di tale principio fosse dimostrata, provata, saremmo perduti senza appello»90.

9. Per un post-moderno problematico I pensatori che si pongono nell’orizzonte critico, nonostante lo scetticismo, la metodologia asistematica, l’ambivalenza e l’oscilla-

88. ID., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 34. 89. ID., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 111. 90. ID., Storia e utopia, cit., p. 143.

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zione antinomica di Cioran, hanno cercato di individuare alcune definizioni, capaci di rendere unitario il suo pensiero. Queste definizioni, ad un’attenta analisi dei suoi scritti, risultano parziali, unilaterali nonché false. A questo punto, se vogliamo caratterizzare in modo autentico il suo pensiero, occorrerebbe rinunciare alle definizioni esaustive o piuttosto avventurarsi nelle definizioni che valorizzano l’indefinibilità. Se è vero che queste ultime sono più vicine al messaggio che il nostro pensatore si propone di consegnarci, è anche vero che tutte le volte in cui Cioran si trova incasellato in queste definizioni negative, reagisce fino al punto di rivendicare la bontà delle definizioni metafisiche formulate dai filosofi della tradizione del pensiero occidentale. La via più adeguata per dialogare con il nostro pensatore è quella di rimanere fedeli ai problemi che egli affronta, per porre in rilievo le posizioni provvisorie e dinamiche da lui escogitate nei suoi sentieri, a volte dubitativi, a volte speculativi e a volte interpretativi. Così procedendo ci si deve rassegnare ad una rinuncia alle grandi sintesi e ad un ripudio delle concettualizzazioni universali. Questo è Cioran filosofo dell’antifilosofia che si manifesta nelle sue opere in cui, al di là di ogni classificazione di genere, la sua filosofia è letteratura e la sua letteratura è filosofia, in un’elaborazione metodologica in cui il mestiere del filosofo è quello del pensatore, che si realizza attraverso il ruolo estemporaneo dello scrittore che con il suo linguaggio gioca ad effetto provocando suggestioni. Il suo dialogo non si propone né di vincere né di convincere ma di manifestare ad alta voce, con uno stile che, a volte stupisce e a volte seduce, un pensiero inquieto che vuol rendere pubblico il suo pensare prima ancora di conoscere l’approdo al quale sarà capace di giungere. Ogni pensatore è figlio del suo tempo ma ogni filosofo assume l’aspetto che viene costruito nel tempo delle sue rivisitazioni. Il panorama della critica oscilla tra questi due estremi.

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VIII. I problemi aperti

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La questione è di particolare importanza nelle situazioni come quella di Cioran, rispetto alla quale è difficile trattare l’autore attraverso il profilo critico, destinato a rimanere costante nel tempo e nella storia. La lettura odierna delle opere del pensatore romeno, non può farci dimenticare l’orizzonte interpretativo della fine della modernità nel quale guardiamo il passato dalla prospettiva dei post. Cioran sembra rivendicarli tutti, dal postmoderno al postindustriale, dal post-cristianesimo alla post-histoire, attraverso, per dirla con G.W.F. Hegel, tutte le morti e tutte le eclissi, da quella dell’arte a quella della religione, da quella dell’economia a quella della politica, da quella della filosofia a quella della letteratura, da quella dello stato a quella della nazione. In tale destrutturazione generalizzata si fa strada lo spazio del nulla, per costruire un nichilismo senza una possibile configurazione ontologica. Le pagine di Cioran, sia pure con le dovute differenze, sembrano rispecchiare queste esigenze problematiche per cui il suo pensiero è quello di un anticipatore autorevole di una decadenza generalizzata di ogni concezione filosofica che pretenda di essere sistematica e definitiva. In questa visione, il suo pensare come poetare si traduce in un dire l’indicibile attraverso cui le uniche espressioni adeguate sono quelle allusive dei simboli e delle metafore. In tale situazione, fortemente dinamica, il pensiero di Cioran lancia le sue ipotesi, negando in linea di principio la possibilità di fornire delle argomentazioni dimostrative, in quanto emerge l’espediente linguistico della protesta, della ribellione e della liberazione, attraverso cui egli manifesta la sconcertante istanza corrosiva del suo pensare. La questione investe la storia, l’utopia, la religione, la scienza, la politica, l’arte, la letteratura e la filosofia, in una conflagrazione universale dove l’unico approdo sembra essere la liberazione dello spazio vuoto del nulla.

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Negli intervalli del suo pensiero, Cioran sembra fare marcia indietro e, in modo sconcertante, difende tutti i valori e i concetti della tradizione del pensiero occidentale che, un momento prima, si preoccupa, con impegno e con aspra invettiva, di distruggere. Lo stile adeguato delle sue considerazioni imprevedibili, è quello dell’ironia tagliente o delle immagini brusche ed eccessive, attraverso cui il suo linguaggio oscilla tra l’esaltazione poetica e le considerazioni grossolane che in questa sede abbiamo evitato di riferire. Sono queste soluzioni di stile attraverso le quali egli pretende di manifestare le sue convinzioni e i contenuti delle sue riflessioni, in una inseparabilità tra forma e contenuto, parola e messaggio, contesto espressivo e risultato argomentativo.

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Capitolo nono

Temi, problemi e prospettive: excursus sulle opere

1. Nota metodologica Nel corso di questo lavoro, abbiamo esposto il pensiero di Cioran con un’attenzione sincronica ai problemi che egli ha affrontato. In quest’ultima parte, è opportuno compiere una ricognizione storico-cronologica dello sviluppo relativo alla sua prospettiva esistenziale. Ciò può essere effettuato in riferimento ai contenuti delle sue opere principali. Un lavoro di tal genere presenta una certa difficoltà, dato il carattere asistematico della sua metodologia analitica. A tal proposito, cercheremo di orientarci nell’organizzazione dei suoi sentieri speculativi. Occorre tener conto che la divulgazione del suo pensiero la quale avviene attraverso le opere pubblicate in lingua francese, alcune delle quali sono la traduzione delle prime opere composte in lingua romena.

2. Le radici autobiografiche della filosofia Iniziamo la nostra esposizione dall’opera Al culmine della disperazione, che costituisce una prima trattazione dei nodi problematici

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fondamentali per il suo pensiero, sui quali egli ha spesso l’occasione di ritornare. Da un punto di vista biografico, ricordiamo che Cioran scrive in romeno la sua prima opera di una certa entità all’età di 22 anni. In quel tempo, l’insonnia lo costringe ad una lucida veglia e solo lo scrivere lo salva dal suicidio. Quest’opera è una sfida al mondo, compiuta in un vissuto parossistico che Cioran stesso, a distanza di anni, attribuisce alla febbre, all’estasi e alla follia. Gli argomenti affrontati anticipano, in modo singolare, quanto viene sviluppato nelle sue opere successive, composte in lingua francese. In quest’ordine espositivo, il rapporto tra letteratura e filosofia impone a Cioran alcune considerazione di stile, tra le quali emerge la semantica del lirismo. Quest’ultimo è l’espressione piena ed immediata della soggettività nel suo impulso dinamico, infatti, non è possibile ridurre questo vissuto alla riflessione impersonale del pensiero oggettivato. In particolare, possiamo distinguere il lirismo dell’amore dal lirismo della sofferenza e ancora dal lirismo accidentale; in queste forme di esperienza va tenuto separato il vissuto della morte. Da un punto di vista esistenziale, emerge il tema della solitudine; Cioran si sente solo e lontano da ogni uomo e da ogni cosa. Questa solitudine universale caratterizza la condizione umana ma è proprio la solitudine la sofferenza più profonda per cui potremmo dire che essa stessa coincide con la morte. Nella tematizzazione di questi vissuti, si fa strada la caduta di senso con tutte le implicazioni nichiliste che questa comporta, perciò, quando si verifica la perdita di senso di ogni realtà e di ogni esperienza, allora si raggiunge il vuoto e il niente. Tale situazione deriva tanto dalla pienezza della vita quanto dalla morte intesa quale negazione della vita stessa per cui, si muore sia per l’essere sia per il non-essere. Filosoficamente, si stabiliscono le condizioni di una riflessione sull’assurdo nella quale è evidente che nel non-senso della condizione umana l’assurdo stesso realizza una passione positiva; il negativo

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IX. Temi, problemi e prospettive: excursus sulle opere

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della vita viene rivelato dalla solitudine, espressione più autentica della finitezza esistenziale. In tale condizione la sofferenza caratterizza l’interiorità dell’uomo, in una solitudine radicale. Questa è la situazione in base alla quale i vissuti sono solo interiori e lo spirito che costituisce il punto più elevato dell’umanità è anche il responsabile vero di ogni forma di sofferenza. Secondo le presenti riflessioni, la genesi delle istanze filosofiche si colloca sul piano autobiografico. Cioran, nel 1933, al termine della sua crisi esistenziale, acquista in modo definitivo la consapevolezza del non-senso globale del mondo. Nell’esperienza di tale vissuto egli è consapevole di essere stato tradito e defraudato dalla vita. Cioran si rende conto che il destino degli ingegni più dotati è quello della sofferenza; a partire da tale punto di vista, l’unico consiglio che elargisce all’umanità è quello di cercare e valorizzare l’esperienza dell’agonia. Solo quest’ultima può rendere esistenziale il non senso della realtà. L’analisi delle situazioni che appartengono al negativo viene da lui effettuata in rapporto ai vissuti particolarmente angoscianti dell’essere umano; Cioran distingue tre vissuti: quello dell’estenuazione, che riduce la vita al suo livello minimo; quello dell’agonia, che ci lascia sospesi tra gli artigli della morte; quello della morte che ci crea, anche quando la desideriamo, uno spavento intollerabile. Egli privilegia l’agonia poiché ci avvia più degli altri vissuti nell’itinerario della decomposizione. La manifestazione degli aspetti più drammatici dell’esistenza è data da quelli esteriori in cui essa è codificata; tra questi, il grottesco è complesso ed in generale è l’espressione della negatività. Esso si accompagna con la disperazione ma, superandola, contraddittoriamente la nega e coincide con l’espressione stravolta del volto dopo varie notti di insonnia. Quest’ultima, nella sua solitudine più drammatica, utilizza la sofferenza dell’individuo per caratterizzare l’intera messa in scena del dramma del mondo. I vissuti paradigmatici ai quali il nostro pensatore si riferisce si collocano al limite fragile che costituisce il confine tra normalità

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e patologia. Ciò appare specificamente in questa situazione: per Cioran, il sentimento premonitore della follia rappresenta un momento culmine di livello elevato delle energie spirituali dell’uomo, nel quale si consumano in un istante tutte le possibilità della vita mentale. In questo quadro dinamico, la paura della follia è diversa sia da quella della morte che da quella del ritorno alla lucidità. Tale vissuto è una forma di sofferenza che è massima nel caso della depressione ed è per questo che Cioran si augura una follia allegra e spensierata, frutto di luce e di varie illusioni. La presente analisi dei vissuti esistenziali consente al nostro pensatore di prendere posizione filosofica di fronte ai problemi ineludibili che si impongono nelle vicende uniche e irrepetibili della vita umana. Cioran, attraverso l’analisi della morte, dell’agonia e della malattia, pone in luce la differenza tra il pensatore astratto e il pensatore esistenziale, a tutto vantaggio dell’ultimo rispetto al primo. A tal proposito, egli privilegia il pensatore organico nel quale l’esistenza concreta è carne e sangue. Questa è la via attraverso la quale la morte si fa strada nella vita mediante l’agonia o la consapevolezza provocata dalla malattia in genere e dalla depressione in particolare. In questo contesto l’uomo comune rimuove il vissuto della morte, abbandonandolo al dramma inevitabile degli ultimi istanti della vita, mentre il filosofo astratto lo riduce ad una questione logica di confronto tra l’esistenza dell’Io e la sua negazione ad opera della presenza della morte. Queste sono fughe dal problema effettivo, in quanto la morte è nella vita e non può essere separata da essa. In tal caso, la morte rivela il momento problematico del tempo e costituisce il dramma dell’esistenza umana, traducibile nel momento demoniaco della vita. L’itinerario indicato conduce a questa ulteriore caratterizzazione della situazione esistenziale, in cui i vissuti manifestano uno stato interiore che corrisponde ad una situazione soggettiva ed esteriore, così l’interiorità prevale sull’esteriorità. Questo è il caso della melanconia, che rappresenta in modo emblematico i vissuti negativi. Essa si associa alla tristezza e si delinea come melanconia

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IX. Temi, problemi e prospettive: excursus sulle opere

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nera. Prescindendo dalle circostanze estreme, la melanconia stessa assume una grazia del tutto particolare ed è ciò che la riconduce alla condizione demoniaca dell’esistenza umana.

3. Gli aspetti esistenziali della soggettività Questo sentiero speculativo conduce inevitabilmente Cioran alla tematizzazione di una soggettività di impronta solipsistica; egli osserva che il mondo gli è indifferente come del resto la soggettività propria è indifferente al mondo e agli altri. La conseguenza che l’io è tutto per se stesso e ciò che conta sono solo i vissuti individuali, tutto il resto è nulla ma anche il nulla, come le illusioni e i vissuti, positivi o negativi, si vanificano. Cioran, nell’opera Al culmine della disperazione, dà spazio ad alcune tematiche destinate ad essere sviluppate successivamente; in questa situazione iniziale esse appaiono in gran parte marginali ed estranee agli argomenti affrontati. Si tratta dei due concetti di estasi e di scetticismo, tra loro contraddittori ma che il nostro autore si impegna a presentare come complementari. A proposito di ciò egli propone queste considerazioni: l’estasi è compatibile con una visone scettica? Di fatto l’estasi stessa è alla base di un’interpretazione del reale e comunque è legata ad un’immagine metafisica della totalità dell’essere. Diversamente essa, più che nell’ambito della conoscenza, trae il suo significato da quello della follia. Da tale punto di vista, l’orizzonte della conoscenza è posto in secondo piano, poiché il dubbio non appare come un problema irrisolto, ma come un’occasione per aprire la via al dramma angosciante della disperazione, poiché il dubbio stesso impegna il pensiero, la disperazione, invece, l’esistenza. L’atteggiamento scettico non esaurisce il non-senso della vita poiché non è il dubbio ma la disperazione che conta; con quest’ultima l’io è coinvolto in tutta la sua profondità.

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Il quadro filosofico che ne deriva è quello in cui lo spirito sistematico, l’armonia logica, l’assenza di contraddizioni, sono sintomi di povertà creativa; mentre l’ispirazione, l’entusiasmo, la sofferenza e la malattia sono espressioni di una creatività barbara e sfrenata. Si rafforzano i due sentimenti che caratterizzano la sofferenza esistenziale: la tristezza e la melanconia. Per Cioran la tristezza si differenzia radicalmente dalla melanconia. La prima è adeguata alla visione della sofferenza; la seconda, all’apertura del rimpianto estetico. Il nostro pensatore si immerge nel negativo, nell’esaltazione della perdita e della sofferenza; la sua disperazione supera anche le condizioni della tristezza. Il momento centrale, causa di ogni sofferenza ed anche della caduta di senso generalizzata di ogni esperienza umana, è la coscienza, intesa da Cioran quale nucleo profondo della soggettività. La coscienza apre il mondo del non-senso e costituisce una disgrazia per la vita. La salvezza consisterebbe in una savia coscienza capace di liberarci dall’essere uomini insoddisfatti dovunque e di qualsiasi cosa. D’altra parte non è possibile ridurci all’animalità o aspirare all’illusione del super-uomo. Non vi è scampo, la coscienza costituisce per l’uomo un male radicale. Il nostro pensatore individua, nell’esperienza esistenziale, il momento più adatto per fondere la comprensione con il vissuto, attraverso cui diviene possibile focalizzare gli aspetti più profondi della vita umana. Le vie che approdano all’immaterialità possono essere molte ma il percorso erosivo, espresso da Cioran con la metafora del bagno di fuoco, è il più sicuro ed affascinante, poiché consumare il proprio essere in ogni istante per ridursi a un lampo che bruci tutta l’energia, sarebbe la via migliore. In questo orizzonte, Cioran mette in discussione l’intera struttura antropologico-filosofica proposta dalla tradizione del pensiero occidentale, col precisare che non è concepibile vedere il corpo come un’illusione ma non è neppure possibile pensare allo spirito senza il corpo. La consapevolezza del corpo coincide con la sensibilità della

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IX. Temi, problemi e prospettive: excursus sulle opere

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carne; in questo ambito vivere separatamente le parti del proprio corpo è frutto di una scissione o, meglio, di una dissociazione; la consapevolezza dello spirito è conseguenza di una malattia. Cioran esprime uno scetticismo radicale nel quale l’aspirazione alla conoscenza, insieme alla possibilità della conoscenza stessa, sono inesorabilmente frustrate. Il suo non so travolge tutto anche la condizione esistenziale di essere disperato. Da ciò emerge il nonsenso più radicale, generalizzato al mondo e all’uomo. In questo quadro viene privilegiata la solitudine, in merito alla quale Cioran riscontra che ce ne sono due forme: quella del proprio io nei confronti degli altri e quella del mondo nell’universo. Egli distingue la solitudine individuale dalla solitudine cosmica e definisce la sua una solitudine tragica, la quale si esprime nel modo più proprio come disperazione. In queste pagine, intende fornire la testimonianza della propria condizione esistenziale di carattere negativo. La sua sofferenza consiste nel vivere il non-senso assoluto senza alcuna via d’uscita, che potremmo definire un eroismo titanico privo di approdi e di obiettivi. Il quadro utopico negativo si compone di un’immagine onirica nella quale Cioran sogna un’apocalisse universale in cui tutti gli uomini, abbandonate le proprie case e i propri lavori, si ammassano nelle strade in un unanime grido collettivo di ribellione. Questo sarebbe finalmente il trionfo della distruzione, del nulla e del nonsenso. Ne deriva che la sofferenza è un male senza spiegazione, poiché il criterio retributivo del dolore non convince, in quanto gli innocenti soffrono più dei colpevoli. Per quanto riguarda il suicidio, non è accettabile la teoria che lo riconduce a un atto vile o eroico della volontà, esso per verificarsi esige delle predisposizioni organiche. Cioran si sente l’essere più terribile del mondo sospeso sul nulla e la sua ammirazione va a coloro che stanno per impazzire o tentare il suicidio. Il suo, in definitiva, è un atteggiamento di solitudine, radicato nella consapevolezza di vivere il monopolio della sofferenza.

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4. Dalle metafore estetiche ai sentimenti esistenziali Le questioni di stile sono di grande importanza per il nostro filosofo, quindi si stabiliscono le condizioni genetiche del lirismo, non come stile letterario di natura estetica, bensì come espressione di un’esistenza tragica, sospesa sull’abisso che esalta la negatività; il lirismo assoluto coincide con il vissuto esaltante della vertigine degli ultimi istanti. Tale lirismo è sostituito da un desiderio di annientamento e da un impulso tendente al consumo immediato di tutte le energie vitali, proiettato allo scopo distruttivo della decomposizione; è il lirismo che ci fa distinguere il filosofo dal poeta. Il primo è aperto all’astrazione metafisica, il secondo è tutto invaso dal sentimento, che assume l’aspetto della distruttività negativa, aperta sul nulla. In questa prospettiva, si apre lo spazio per i sentimenti positivi ma contraddittori della grazia e della compassione, rispetto ai quali il nostro filosofo rivisita criticamente la tradizionale concezione romantica in cui esprime l’idea in base alla quale tra le diverse vie di fuga dall’esistenza, la grazia è quella che si muove verso la felicità, in quanto è proiettata alla riconquista dell’ingenuità innocente. In questa direzione, l’uomo si solleva sopra le cose in un sogno estatico che lo allontana dalla vita. La penetrazione più vera delle ragioni ultime dell’esistenza si ha nella consapevolezza del negativo. In quest’ultima, la malattia, la sofferenza, la paura e l’incombenza della morte lo animano fino al culmine della disperazione. Le riflessioni esistenziali di natura filosofico-antropologica vengono completate dall’idea per cui la donna, che per il nostro pensatore è incapace di scendere alle radici ultime dell’esistenza, può essere più felice dell’uomo poiché raggiunge più facilmente lo stato della grazia. Questa è una situazione contraddittoria nella quale l’interrogativo e il mistero si compongono in una interpretazione che si colloca tra poesia e pensiero.

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Un altro sentimento inconsistente è per lui la compassione poiché l’idea di base è che nessuno possa morire per le sofferenze degli altri. Nella prospettiva etica appaiono, in una visione sintetica dei vizi e delle virtù, figure interpretative per cui, di fronte alla morale, egli esprime l’opinione di non sapere cosa siano il male e il bene; di conseguenza, non può condividere la convinzione in base alla quale la salvezza consiste nella virtù. Per lui, i convincimenti morali sono relativi e soggettivi, vale a dire che nell’eternità non ci portiamo né piaceri né sofferenze, né virtù né vizi. Ogni piacere è rinunciato o perduto e l’unico atteggiamento da incoraggiare è quello del godimento disperato della vita, poiché la moderazione appartiene ai mediocri. Uno dei problemi chiave del nostro autore è quello del tempo, rispetto a cui l’ideale sarebbe la sua vanificazione in un eterno coincidente con l’attimo presente, in sé indefinibile. Egli imposta una dialettica tra tempo ed eternità, proponibile in questi termini: l’eternità non è sperimentabile nella sua oggettività poiché la vita è nel tempo. Fare esperienza dell’eterno è possibile solo sul piano soggettivo; ciò comporta dei sacrifici traducibili in impegno e sforzo. Cioran, in opposizione all’attivismo di molte filosofie del Novecento, propone il recupero di una dimensione contemplativa, temporanea, quasi preclusa alla nostra civiltà. Il clima del nostro tempo si allontana da posizioni radicali, in quanto tutto ciò che riusciamo a conseguire appartiene al provvisorio che configura misteriosamente una realtà interrogativa in cui tutto è permesso. Sulla medesima linea si colloca il problema della storia, rispetto al quale si stabilisce la posizione in cui la storia appare superata; vivere in qualsiasi tempo e in qualsiasi civiltà è indifferente. Se fosse possibile, sarebbe piacevole attraversare il tempo per spostarsi in epoche diverse; l’unico modo di accedere all’eternità è quello di negare la storia.

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Queste situazioni rientrano in una dialettica nella quale la struttura gerarchica del reale viene rovesciata, nel senso che, il momento distruttivo prevale su quello costruttivo; l’essere umano è collocato in una condizione tragica. Il problema è quello di tornare ad altre forme di vita inferiori per poter finalmente rinunciare ad essere uomo; nonostante ciò, ci sono molti che non essendo pienamente uomini, aspirano ancora a diventarlo. Per Cioran si potrebbe desiderare di essere uomini soltanto se fosse possibile emigrare a piacimento in tutte le diverse forme di vita naturale. Di conseguenza, l’immagine del reale risulta modificata rispetto a quella prodotta dalla filosofia tradizionale – esistono di fronte al reale due atteggiamenti fondamentali: quello magico e quello fatalistico; il primo conduce alla felicità e alla consapevolezza di poter modificare tutto, il secondo porta alla coscienza dell’irrimediabile e della perdita di tutto. Egli si sente proteso al nulla e radicato inesorabilmente in questo secondo atteggiamento, le sue convinzioni di carattere negativo muovono dalla destrutturazione di qualsiasi fiducia e di qualsiasi speranza. Da un punto di vista esclusivamente antropologico, tra i sentimenti dell’uomo, acquista importanza l’entusiasmo come origine specifica di ogni attività; solo quest’ultimo, come la grazia e la magia, conduce alla felicità nell’incoscienza delle tenebre. Nella sua prospettiva, l’entusiasmo è un sentimento privo di sessualità che è simile all’amore universale, in quanto l’amore nella sua specificità, nonostante le forme diverse, è vero soltanto quando si radica nella passione; il vero amore è quello che lega un uomo a una donna; le altre forme sono soltanto forme derivate. L’entusiasmo dimentica la sofferenza, la disperazione e la morte, esso produce una felicità incosciente, priva del dramma della conoscenza e della tragicità dell’esistere. In un’ottica religiosa, sia pure problematica e decisamente critica, si instaura una visione nella quale luce e tenebra costituiscono, nelle concezioni mistiche, delle corrispondenze al giorno e alla not-

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te; si tratta di alternanze metafisiche capaci di evocare le opposizioni relative alla struttura ontologica del reale. Ciò produce un modo simbolico di caratterizzare diversi aspetti della realtà nel suo complesso.

5. Le metafore nell’etica In un ambito etico, per Cioran, prende forma una concezione così caratterizzabile: se tutta la vita è illusione si producono due alternative di fuga, la rinuncia e l’orgia della disperazione. Egli, nell’opera Al culmine della disperazione, predilige la seconda. Tra le diverse situazioni negative dell’esistenza emerge nella diversità, in modo singolare, l’amore. Solo quest’ultimo, soprattutto nella spontaneità delle prime manifestazioni, realizza la fusione dell’esistenza. Su questa linea, egli non approva la saggezza e condanna l’idea delle etiche della soppressione dei desideri. In questa dimensione, egli si riconosce come uomo ribelle, nell’esaltazione del negativo in tutte le sue diverse forme, prevalentemente in quelle più distruttive nelle quali l’attimo si contrappone al tempo negandone il suo svolgimento. Tra le diverse metafore il nostro pensatore privilegia quella del fuoco ed affronta tale argomento esaltandone il valore simbolico e creativo. Siamo di fronte a un’armonia dinamica, che tutto consuma in un’atmosfera eterea. Inoltre, nella sua ricerca frammentaria di significati, la donna e il saggio acquistano, nella loro diversità, una semantica negativa, la prima, esprime l’eros e l’irrazionale senza condurre ad una costruttività né di natura teoretica né di natura pratica, il secondo, nella sua riflessività, annulla le differenze appiattendo il mondo in un’insignificanza universale. L’aspirazione suprema di Cioran è ad un’apocalisse rovesciata in cui si possa realizzare un’implosione, del processo storico-sociale, all’originario, caratterizzata dal ritorno dal cosmos al caos. Ciò è possibile soltanto dopo aver sperimentato la negatività dell’evolu-

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zione apocalittica della storia umana, in quanto dopo aver negato tutto, si finisce per negare anche se stessi. In questo orizzonte, Cioran distingue metodologicamente due forme possibili di ironia: quella tragica, che si conclude nell’amarezza dell’auto ironia e quella superficiale che, ridendo di tutto, si compiace dell’esteriorità. Da un punto di vista religioso, l’autore romeno non apprezza, nell’orizzonte scettico, né i profeti né i fanatici. Egli si sofferma sulla figura di Cristo in croce per ammirarne la coerenza e l’abnegazione in favore dell’umanità, attribuendogli la tentazione di scendere dalla croce per ritirarsi in solitudine. Da ciò trae la conclusione che la vita umana è possibile venendo a patto con il demoniaco. Il panorama della negatività si caratterizza attraverso i momenti dell’infinito, nel suo fascino aperto al limite del definito; della vertigine apocalittica della fine; dell’infinità del mondo che rivela il suo non-senso complessivo; del senso della condizione umana legato solo alla finitezza; della vita possibile solo nel non-senso e del dionisiaco evocato soltanto dalla vertigine presente nell’ebbrezza dell’infinito. La metafisica, come la religione, è per lui possibile soltanto a partire dall’infinito, perciò l’aspirazione ultima è che il non-senso dell’infinito possa finalmente accompagnarci fino alla morte. In un elevato compiacimento poetico, egli esalta le condizioni estreme di una vita come non-senso e come apertura al vuoto del nulla. In questa situazione, il lavoro è condannabile come una sventura e soprattutto come la suprema idiozia, esso è la routine banale della vita quotidiana, che è la vera negatività dell’esistenza. Di fronte ad essa è opportuno recuperare la vertigine erotica, creativa ed entusiastica, derivante dalle situazioni estreme della negatività, capaci di condurre al non-senso radicale del vuoto e del nulla. In questa consapevolezza esistenziale il nostro pensatore si compiace della sua concezione relativa allo stato di rovina e di fallimento da lui vissuto. Da ciò dipende l’esaltazione dei vissuti negativi

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della tristezza, della melanconia, dell’angoscia, della malattia e della morte. A titolo conclusivo, Cioran riprende le considerazioni svolte episodicamente nel corso dell’opera e pensa che, se esistessero uomini veramente consapevoli della loro felicità, dovrebbero gridarla al mondo intero fino a consumare tutte le loro energie; ma l’esistenza è inquieta e sofferente, immersa nel vuoto e proiettata verso la morte. In questa situazione, la ricerca di Dio non ha approdo, il rincorrere il piacere non ha sosta né appagamento e la morale esaurisce il suo significato nel negare la legittimità di se medesima. Così, la noia conduce alla volubilità dei sentimenti e il dongiovannismo ha l’estenuazione del desiderio. In questa realtà, il pessimismo fa emergere la negatività nelle sue diverse forme, mentre la caduta nel tempo logora l’esistenza in uno scorrere privo di senso. Nell’angoscia della disperazione, solo l’amore rimane come unica speranza di salvezza, mentre il silenzio e la solitudine rischiano di sommergere il reale nel suo complesso. È nel contesto esistenziale che Cioran professa la sua convinzione di non essere adatto alla vita nel tripudio della festa che è riservato all’uomo comune trascinato dalle illusioni del godimento. Cioran in quest’opera giovanile affronta, anticipandoli, tutti i problemi destinati a caratterizzare le sue opere successive, con una lucidità e una chiarezza da lui raggiunte difficilmente nei suoi aforismi. Le soluzioni che egli propone sono sempre di carattere esistenziale, esposte in un’antifilosofia che assume la forma privilegiata dello scetticismo metodologico. In un confronto teoretico con un autore lontano dall’esperienza di Cioran, M. Heidegger, rileviamo che anche il nostro filosofo romeno riesce ad isolare degli esistenziali lontani da riferimenti ontologici. Così, la mappa dei sentimenti, quali la solitudine, la tristezza, la melanconia, la noia, l’angoscia, la paura e il dolore, esprime il panorama dei vissuti attraverso cui l’esistenza viene ad essere verificata nei suoi diversi aspetti, drammatici e contraddittori.

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Si produce una antropologia esistenziale della sofferenza e dell’inquietudine, che approda al non-senso della vita e del mondo, rimanendo aperta nella speranza dell’azione salvifica dell’amore, collocata in una ricerca inquieta di Dio senza poterlo mai raggiungere. Il nulla, di cui il nostro autore più volte parla, si presenta come la vertigine di un baratro sul quale il suo pensiero rimane sospeso.

6. Le metafore religiose Esaminiamo ora l’opera dal titolo problematico e altamente significativo Lacrime e santi; lo scritto viene per la prima volta pubblicato in romeno a Bucarest nel 1937, l’edizione francese è successiva e comporta solo poche varianti. Il contenuto di questo lavoro realizza una difficile sintesi tra il mondo dei sentimenti, espressi esistenzialmente nelle diverse forme di sofferenza, e quello fortemente problematico delle questioni religiose che approdano al misticismo e all’ammirazione, in lui sconcertante, della figura del santo. Questo itinerario viene condotto nella solitudine, in una condizione che sospende i suoi vissuti sul vuoto del nulla. Il contesto dei suoi riferimenti comprende autori quali, dal punto di vista filosofico, S. Kierkegaard, L. Šestov e, da quello biblico, l’Ecclesiaste e il Libro di Giobbe, dai quali desume una serie di problematiche drammatiche adatte a focalizzare la condizione tragica e contraddittoria dell’umanità. Nell’affrontare questi problemi si pone in relazione con se stesso, con il creato e con Dio. In tale singolare itinerario, caratterizzato da elementi poetici molto espressivi capaci di creare un’atmosfera suggestiva, si pongono la passione per la musica, il culto per la malattia e il fascino della lacrima. Le esperienze paradigmatiche ora ricordate accompagnano Cioran dal momento di ammirazione della santità a quello scettico di dissacrazione del divino e dell’umano. In quest’opera, l’autore interpreta l’esistenza umana in chiave negativa capovolgendo la certezza del senso comune nella direzione

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di individuare il significato dell’esistenza nell’illusione e l’angoscia radicale nel vuoto dell’essenza. In tale contesto altamente enigmatico e problematico, la lacrima, nonché la santità, diventano le vie privilegiate per interpretare il mondo, la storia e l’uomo. Le vie capaci di trovare il senso profondo del reale non sono la filosofia e la teologia, bensì la mistica, la musica e l’arte pittorica. Tale interpretazione immerge l’uomo nell’infelicità, nella noia, nella melanconia e nella ribellione titanica al Divino. Dio, da cui l’autore non riesce a liberarsi, è la radice del negativo, la fonte originaria di ogni sofferenza umana. In questa direzione, la celebrazione della ribellione al divino costituisce per l’uomo, sia pure nell’infelicità e nella colpa, l’unica via possibile di riscatto della propria solitudine esistenziale. La conclusione è quella di contrapporre, paradossalmente, la solitudine dell’uomo alla solitudine di Dio. È evidente che ad una rivisitazione ermeneutica quest’opera appare, nei suoi contenuti e soprattutto nei termini chiave attraverso i quali vengono espressi, come il tentativo di formulare delle metafore, il cui potenziale allusivo permette a Cioran di avventurarsi con il dire nel mondo misterioso dell’indicibile. In tale direzione, il misticismo e l’atteggiamento meditativo aprono le vie precluse tanto all’impegno letterario, quanto alla riflessione filosofica.

7. L’inconsistenza dell’inconsistente Nell’opera dal titolo Sommario di decomposizione, tradotta in tedesco da Paul Celan, Cioran si pone con ironia e con affermazioni paradossali in opposizione ai filosofi dell’engagement; egli sostiene, esaltando la negatività, che chiunque difenda i valori è suo nemico. Il punto di partenza dell’itinerario percorso in questo lavoro è dato dal passaggio metaforico e paradossale di un sentiero specula-

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tivo che va dalla logica all’epilessia, il che avviene quando il fanatico della religione, della morale e dell’ideologia politica, impone il suo mondo migliore nell’intransigenza, nell’oppressione e nella persecuzione. Alla luce di quanto detto, Cioran capovolge i valori e si pone a servizio del negativo. In tale orizzonte, la negatività appare attraverso una specie di religiosità demoniaca, nella quale il modello è sempre quello della forma positiva di valorizzazione del divino, poiché vi è un profeta in ciascuno di noi il quale maschera la presenza del vuoto e l’abbondanza delle profezie rende il mondo sociale intollerabile. Al di là di ogni apparenza, trionfa nell’esistenza umana la più radicale delle solitudini. La prospettiva sottolineata è quella dell’inconsistenza di ogni forma di realtà che, sul piano linguistico dà luogo a ritenere che il mondo è fatto di apparenze, ma esse assumono la consistenza di realtà soltanto nel linguaggio, attraverso i nomi e le formule o, meglio, attraverso le definizioni concettuali che nascondono le macerie dello spirito. Su questo piano, l’essenza dell’essere è nella negatività, dove soltanto la frivolezza dà corpo ad una realtà fatua ma contraddittoriamente consistente nell’apparenza. Ne deriva che nel mondo fatuo delle parvenze e delle inquietudini le dimostrazioni razionali non risolvono ma eludono l’assenza dei problemi. Dio, la fede e la preghiera rappresentano dei rischi sostenuti e ingigantiti dalla nostra debolezza di fronte all’abisso del negativo. Su un piano esistenziale, la realtà tragica della condizione umana, si esprime in alcuni momenti radicali dove la morte possiede il fascino che crea sgomento della sua certezza e la vita è esaltata nell’apparenza elusiva, poiché le ragioni a suo sostegno sono inconsistenti. La speranza rispetto alla morte è elusiva come la razionalità; l’unico modo per vincere l’angoscia è quello di consumare il suo

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vissuto approfondendone la consapevolezza fino alla più estrema profondità. Sul piano del dolore, la sofferenza, l’angoscia e le lacrime non risolvono il terrore della nostra debolezza ma provocano l’estraneità dal tempo, poiché occorre generare una lucidità di indifferenza che è l’accettazione dell’unica salvezza possibile. Nell’ambito ontologico dei vissuti, il tempo trascorre nell’indifferenza della successione degli istanti e la rivelazione della negatività del mondo nonché della condizione umana è possibile solo attraverso la noia che narra il disfarsi delle cose, nell’apparenza delle illusioni. Cioran, come Rousseau, ma indipendentemente da lui, sostiene la negatività del rapporto sociale. In questa concezione l’altro nuoce all’io, mentre ogni espressione plurale, formulata in seconda o in terza persona, è anonima e inautentica come le astrazioni della filosofia. Solo nell’arte e nella poesia risiede la possibilità della salvezza. In tale contesto, non va dimenticato che la cultura è fatta di parole che rivestono il nulla e lo spirito, Dio ed ogni realtà valoriale di carattere positivo o negativo, dipendono dagli aggettivi di volta in volta utilizzati per determinarne il significato. In questo orizzonte, le configurazioni religiose acquistano una dimensione ignorata, in cui l’immagine di Dio deriva dall’impoverimento della forza vitale. L’immagine del divino è debole, sbiadita e anemica, quella del diavolo, invece, riassume in sé tutta la forza vitale del negativo. Si tratta di un doppio al quale abbiamo affidato tutte le nostre virtù, sia pure nella direzione del lutto. Il momento più negativo dell’esistenza è dato dal pomeriggio domenicale, in cui la noia trionfa e se tale pomeriggio dovesse prolungarsi, l’unica fonte di svago potrebbe essere il crimine. Da ciò l’unica liberazione può essere l’amore oppure, al di là di tali pomeriggi, il lavoro come momento di oblio. In tale situazione, l’uomo è concentrato su se stesso e sui propri mali ed uscire da sé, nonché aprirsi al futuro, sono fatiche in-

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sormontabili in quanto, in queste avventure, si apre l’orizzonte del nulla. L’uomo è un essere indiretto, egli prende coscienza solo della sua perdita, vive come un essere malato e rimpiange la salute. Solo gli scettici antichi e i moralisti francesi sono stati in grado di determinare la condizione dell’esistenza umana. È il fallimento che spiega l’origine della civiltà e l’uomo è concentrato sulle proprie sofferenze ed è incapace di comprendere quelle altrui. Ciò a causa della finitezza della propria coscienza e la dimensione del lutto è sempre relativa alla propria individualità. La comprensione della sofferenza universale è impossibile e i vissuti personali sono realizzabili soltanto nello spazio del limite nonché dell’oblio. Il punto di partenza è dato dall’equazione tra esistenza e sofferenza e la salvezza è sempre dopo la fine; nel tempo la coscienza riflette costantemente sulle nuove forme di sofferenza, elaborate dall’inconscio durante il suo sforzo di vivere. Se il negativo è alla radice dei vissuti esistenziali di ogni essere umano, lo spirito rappresenta l’elaborazione astratta e consolante dei vissuti di sofferenza. In questo modo la vita diviene sopportabile attraverso le illusioni apparenti delle giustificazioni. L’anima è per l’uomo la radice di ogni male poiché, a partire dal primo atto di conoscenza, la consapevolezza ingigantisce il male stesso producendo, attraverso il pensiero, ulteriori forme di sofferenza. Il tempo indica la durata dell’esistenza; in esso ogni popolo ha il ruolo di tematizzare nella civiltà una determinata immagine del vivere e del soffrire e questo produce, a livello sociale, una funzione analoga a quella esercitata dalla coscienza a livello individuale. In tal caso la nostalgia riflette sul passato perduto, compiendo il tentativo di superare il vuoto della noia. È questa la situazione che nel cuore esplica un atteggiamento simile a quello che il pensiero compie nel mondo dello spirito. In questa situazione, il suicidio è l’atto centrale dell’esistenza ed è esclusivo della specie umana. La grande contraddizione consi-

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ste nel fatto che ad esso si oppongono tutte le forze dell’istinto e noi moderni abbiamo perso la consapevolezza degli antichi relativamente all’arte di morire e ci siamo trasformati in cadaveri senza scopo, che si trascinano nell’esistenza. Per Cioran, nel mondo e nell’esistenza umana niente è al suo posto, poiché siamo collocati in un caos originario, dove il destino è soltanto segno della decadenza. L’umanità si trova nelle condizioni di non poter sognare la sorte degli angeli e l’esistenza è in una situazione del tutto particolare, collocata nel tempo, alle soglie del nulla. La condizione umana non è riducibile ad un principio generale, poiché i singoli sono universi a se stanti e le situazioni della vita sono collocate in una relatività inesauribile e in alcuni giorni il risveglio ci rende nemici del sole. È la presenza della negatività che ci rende tollerabile l’esistenza e solo la consapevolezza della sofferenza aiuta a vivere in un mondo in cui l’educazione e l’autocontrollo hanno soppresso la lacrima e gli sfoghi aggressivi nei confronti del dolore. La razionalità lucida, collocata alle soglie dell’assurdo, conduce Cioran alla tematizzazione delle argomentazioni in base alle quali il problema di fondo è che l’uomo non trae le conseguenze della sua consapevolezza. Il negativo dovrebbe portare l’uomo all’inazione, invece, la pigrizia è sconfitta da un comportamento iperattivo o, meglio, siamo capaci di produrre, di fronte alle nostre sofferenze, soltanto un lutto indaffarato. Il vuoto e il nulla sono manifesti a tutti ed il non-senso complessivo dell’esistenza è divenuto banalità; l’uomo non si rassegna all’evidenza, continuando ad aspettare come se le cose fossero diverse. Questa realtà contraddittoria costituisce l’elemento di fondo dell’intera esistenza umana. L’equilibrio tra gioie e dolori non pesa in modo eguale nella condizione degli uomini poiché l’armonia universale stabilisce la sua misura sul sacrificio di alcuni, cui corrisponde la fortuna o l’indifferenza di altri.

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8. Il primato del negativo La posizione di Cioran è critica nei confronti del pensiero speculativo. Egli rifiuta la filosofia nel momento in cui riconosce che il pensiero di I. Kant, come quello di altri filosofi, è privo di ogni forma di debolezza, la qual cosa rappresenta per lui l’espressione della negatività. La filosofia giustifica tutto ma non penetra la sofferenza della condizione umana e per questo aspetto, la mistica, la musica e la poesia scendono più in profondità. I filosofi sono uomini per i quali nella vita tutto si svolge positivamente, in quanto sfugge dalla loro conoscenza l’elemento tragico della vita stessa. Due nuclei caratterizzano la realtà: il sole per la natura e il cuore per lo spirito; il primo possiede la luce, il secondo la speranza e la negatività non demolisce quest’ultima bensì gli oggetti su cui essa si posa. Due sentimenti caratterizzano lo spirito: la santità e il cinismo ed il secondo è più forte del primo. La filosofia dopo i presocratici non ha compiuto un vero progresso, ma è stata capace di dar luogo solo a complicazioni. Anche il sapere scientifico è suscettibile di far comprendere il mondo spirituale; la scienza, però, è superata nel suo potenziale di verità dalle riflessioni sapienziali. Sul piano etico il vizio, il suicidio e la fede religiosa sono espressioni di mancanza di talenti, invece, l’eroismo e l’atto creativo sono espressioni di fuga. L’esistenza, immersa nel negativo, non ha quindi possibilità di salvezza, ogni estremo è falso, ma senza estremi la vita è intollerabile. Il punto di partenza dell’esistenza umana è nella luce ed il suo cammino nel corso della vita sprofonda nel buio della notte. Tale processo finisce per stabilire nell’uomo il gusto della decomposizione o, meglio, il piacere per il negativo. Il sentimento di familiarità e di adesione che connota la nostra relazione al tempo rivela, al di là della questione ontologica, un at-

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teggiamento da servo, poiché la scansione cronologica del nostro vivere, nelle sue fasi, è sempre identica a se stessa, per cui, ad una consapevolezza più approfondita, il tempo medesimo si annulla in un presente intollerabile. Le problematiche ontologiche, dato il primato dell’esistenza, si trasformano nella riflessione di Cioran in analisi che coinvolgono il mondo dei valori. Sul piano etico, la possibilità si traduce in libertà ma, a proposito di quest’ultima, emergono alcune questioni fondamentali: la libertà è un problema insolubile e siamo costretti a porcelo. Essa ci rivela un mondo di infinite possibilità di fronte al quale emerge la nostra paura che si rivolge a noi stessi e alle decisioni che potremmo prendere Tale paura, ad esempio, si rivela nell’omicidio nel quale possiamo disporre della vita dell’altro a nostro piacimento; questo crimine viene represso e rimosso dalla comunità civile. Nonostante ciò, la tentazione omicida si fa universale e in mancanza dell’atto specifico i nostri pensieri, nonché i nostri sogni, si popolano delle morti dei nostri amici e dei nostri nemici. Il principio della vita è nel farsi individui e l’individualità dà luogo alla solitudine della quale esistono diversi gradi; in essa un estremo è rappresentato dal tradimento di cui un modello è dato da Giuda, traditore di Cristo, vi è un tradimento, però, più profondo nel quale la solitudine abissale dell’esistenza conduce l’uomo all’abbandono dell’essere. Da un punto di vista più vicino alla filosofia, Cioran è del parere che siamo in grado di capire la radice della nostra vita ma non riusciamo a liberare l’uomo dai suoi dogmi e dalle sue certezze illusorie, ognuno di noi è chiuso nella propria infallibilità e si impegna più di ogni teologia nella giustificazione di questo assunto apodittico. Tra i valori negativi emerge ancora una volta la melanconia che permette all’uomo un’incoerenza fondamentale, è impossibile cioè dire di sì alla vita anche quando se ne vive il non-senso e l’inutilità più radicale.

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La comprensione più adeguata della condizione umana si realizza attraverso una metafora che esprime, paradossalmente, il senso della negatività, in tutta la sua sconcertante profondità. Su questo piano, il rinnegato è il simbolo dell’esistenza autentica, tale figura rappresenta la condizione dell’uomo allorché realizza il suo disegno di liberazione da tutto e da tutti. In tale situazione, egli rinuncia ad essere cittadino, rispettoso delle regole morali e sociali e a godere di una qualsiasi forma di vita, mostrandosi pronto ad un’uscita dall’esistenza quotidiana della realtà sociale, di cui non riesce a configurarsi la forma specifica. Dopo la caduta di ogni valore e di ogni illusione, dopo la perdita di ogni impulso istintivo e di ogni soddisfazione derivante dalla musica nonché dalla poesia, ci si aprirà, come ultima forma del negativo, una vecchiaia capace di condurci alle soglie di una funebre immortalità. Dopo un riferimento ironico al divino e un apprezzamento del demoniaco, Cioran, attraverso la via estetizzante, giunge a concludere che ogni sforzo dell’uomo per migliorare la sua esistenza e per tendere al raggiungimento di una vita nuova, è destinato al suo fallimento. L’esistenza umana è quindi costretta a trascinarsi nella negatività del non-senso e nella sofferenza dell’angoscia radicale. Dopo aver approfondito tutti gli aspetti della negatività propria dell’esistenza umana, la conclusione che si impone è quella della vanità e della inutilità di ogni tentativo di recupero di un senso positivo per l’esistenza umana. L’esistenza umana si riduce all’impossibilità dell’uomo di uscire dalle proprie azioni, ma dal momento che tutte queste rivelano la negatività, la conclusione è che ogni azione è incapace di liberarci dal nulla. Dopo il superamento di ogni illusione e di ogni apparenza di significato, l’esistenza si trasforma inesorabilmente in una vita priva di qualsiasi oggetto, capace di renderla meritevole di essere vissuta.

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IX. Temi, problemi e prospettive: excursus sulle opere

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In un’esistenza negativamente inutile e priva di ogni significato, si costruisce un’altrettanto inutile ascesi monastica priva di Dio e composta solo di vuoto. Al termine di ogni negatività, allorché si è giunti all’abisso del nonsenso, l’anima raggiunge un’indifferenza che è comparabile con la stasi, collocata al di là del tempo, dell’onnipotenza divina. In questo orizzonte negativo, Cioran ritiene di non aver odio per nessuno e di aver amato fino in fondo la vita, ma l’odio è per lui inevitabile, così come riconoscere la presenza del negativo nell’uomo, nonché nella storia. Tutto ciò porta a constatare che l’esistenza umana, immersa nel vizio e nella violenza, corrotta dalla verità e dalle religioni, oscilla in modo ineludibile tra patologia ed indifferenza. In un mondo in cui trionfa il male nelle sue diverse forme, la decadenza appare superiore alla rinascita, la storia, come l’agonia personale, offrono nella decadenza l’alleggerimento della violenza, ma in questi momenti negativi, l’unica salvezza del mondo è nella parola poiché realizza il trionfo delle massime, delle espressioni sapienziali e delle sentenze. Nell’ambito del pensiero concettuale le argomentazioni si avventurano in una posizione antifilosofica, le cui ragioni sono le seguenti: il filosofo per non cadere nel vuoto dell’essenziale, costituito dalle astrazioni universali, dovrebbe fermarsi in tempo, in quanto il superamento della finitezza, propria del pensiero costitutivo della condizione umana, comporta la fuga nel sogno degli universali metafisici. Tale fuga è costretta alla caduta nello scetticismo e al riconoscimento del vuoto di senso di ogni visione del reale. In una via interpretativa, che ricorda quella di F.W. Nietzsche della Seconda considerazione inattuale, Cioran utilizza l’ermeneutica della decadenza per fornire una giustificazione, in gran parte ideale, anche se non utopica, della negatività, presente nella condizione umana. Nel momento della decadenza, l’intelligenza si affranca dai limiti del dogmatismo religioso, è questo il tempo degli epigoni, in cui il vuoto della civiltà in declino permette all’uomo di sviluppare la consapevolezza dell’esistenza.

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Sentinella del nulla

Nell’orizzonte della storia, i protagonisti si trasformano, per il nostro pensatore, in veicoli simbolici di significati paradigmatici, così Nerone è il simbolo della fine, l’incendio di Roma non è che il trionfo estetico di una letteratura in azione. L’elemento ancora più significativo consiste nel fatto che questo esempio di rivelazione della verità sia compiuto proprio da un imperatore scellerato. In senso generale, la semantica della condizione umana è esprimibile in questi termini: il fallito è un esempio paradigmatico della verità della condizione umana egli vive le sue sconfitte e le sue delusioni utilizzandole per mettersi da parte, nonché per allontanarsi dagli avvenimenti e dalle responsabilità. In tale situazione raggiunge l’indifferenza allontanandosi sia dall’entusiasmo, sia dalla volgarità, percependo, in modo privilegiato, il vuoto dell’esistenza umana. Nell’ambito simbolico del cristianesimo, Cioran reinterpreta la figura di Cristo in una presunta teologia del negativo. In questa Gesù, con la sua morte sulla croce, sarebbe stato una bella occasione per la condizione tragica dell’uomo se non ci fosse stata la resurrezione e la redenzione, è il lato divino della sua immagine che dissolve l’estetica della tragicità. Il percorso del negativo presenta una caratteristica a lui connaturata, l’ambivalenza dei messaggi che comunica, poiché il vuoto e il nulla sono manifesti a tutti. Il non-senso complessivo dell’esistenza è divenuto banalità, l’uomo non si rassegna all’evidenza, continuando ad aspettare come se le cose fossero diverse. Questa realtà contraddittoria costituisce l’elemento di fondo dell’intera esistenza umana. La negatività, sul duplice piano religioso ed etico, apre delle vie connotate dalla semantica delle illusioni; la negatività, tanto della croce quanto del Nirvana, sfocia in diverse vie, quella della fine, della tragicità, della salvezza e del nuovo inizio. Quest’ultima apre la strada del fanatismo e nel contempo della menzogna della fede, si delinea anche un altro inganno, presente nell’esistenza umana: l’amore, in cui l’uomo si avventura nell’assurdità di superare nell’altro la propria solitudine, illudendosi di trovare in due quell’appagamento che non trova in se stesso.

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IX. Temi, problemi e prospettive: excursus sulle opere

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L’elemento più problematico rimane quello religioso, la più grande delle solitudini è superata inventando un Dio quale referente di un atteggiamento dialogico. La fede religiosa è paragonabile alla follia, si tratta di un prodotto del proprio orgoglio teso smisuratamente alla conquista dell’eternità. Cioran conclude queste considerazioni con una preghiera a Dio che lo possa liberare dalla fede religiosa in Lui, pertanto la paura del ridicolo blocca l’uomo nell’amarezza della nostra solitudine; solo i santi, recuperando il senso delle lacrime, riescono ad aprirsi agli orrori della realtà. Su questo piano egli reinterpreta liberamente, il messaggio dell’Ecclesiaste: prendere coscienza della vanità di tutte le cose significa ripetere un ritornello senza variazioni. Questo è il tempo che è definitivamente lontano sia dalla quiete, anteriore alla creazione, sia dalla dolce tranquillità del nulla.

9. Oltre la filosofia In un approfondimento significativo del pessimismo, il nostro autore evidenzia l’assurdità della condizione umana, riflettendo che, se confrontiamo i mali prodotti dalla virtù con quelli prodotti dal vizio, la bilancia pende nella direzione dei primi. L’umanità in definitiva è maggiore nella corruzione piuttosto che nell’intransigenza morale, la storia oscilla tra l’intelligenza dei tiranni e l’idiozia dei puri. Di conseguenza, l’immagine del reale nei suoi diversi aspetti assume la caratteristica di una decadenza senza via d’uscita, perciò lo spirito necessita della parola, che si manifesta nell’originalità dell’espressione linguistica, mentre la materia è relegata nella monotonia delle leggi naturali invarianti; perciò il linguaggio è costretto a un perenne rinnovamento. Ci sarà un tempo in cui anche lo spirito perderà la sua originalità e si trascinerà in un mondo privo di cambiamenti. La filosofia ha due possibilità per dare forma e ordine alle sue idee, quella del pensatore occasionale, quale Cioran si riconosce,

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che pensa senza programmi nella pura accidentalità e quella del pensatore sistematico che pone ordine tra le idee vedendole dall’esterno in una completa indifferenza affettiva. In questa situazione, il pensatore occasionale si presenta come un antifilosofo il cui pensare dipende dal suo corpo, dai suoi affetti, dalle sue sofferenze e dalle sue insonnie. Il filosofo viene caratterizzato, in base al suo pensare la negatività, con questa metafora: il parassita dei poeti. Cioran illustra il suo itinerario critici ed ironico in tre significative implicazioni: La prima consiste nel ritenere che la gioia della vita fa parte della commedia ed è data solo all’uomo comune. Il poeta invece non ha la vita, non ha la speranza ma ha solo sofferenza e disperazione, in questa condizione esistenziale egli rivela all’umanità la vera essenza della decomposizione. La seconda interpreta la condizione per cui la frequenza dei veri poeti consente di penetrare l’essenza negativa del vivere, partecipando così al sentimento esistenziale della decomposizione. In tale situazione, poeti positivi per lui sono Valere e ùtefan Gheorghe e poeti del negativo sono Shelley, C. Baudelaire e Rilke. La terza condizione pone in luce come solo la poesia risulti adatta a penetrare i vissuti del negativo, mentre la prosa sarebbe incapace di percorrere questi itinerari. Perciò è dai poeti e non dai filosofi che possiamo apprendere l’essenza della decomposizione. Essere amici dei poeti significa frequentarli, meditarli e rimpiangere di non poter essere come loro. Simili ai poeti ci sono solo i santi, ma nella condizione di questi ultimi interviene Dio, quale impedimento a vivere fino in fondo la negatività. Su questo piano Cioran ammira particolarmente S. Teresa d’Avila e Angela da Foligno. A proposito di questa ermeneutica esistenziale, condotta in rapporto ai personaggi di rilievo nella storia delle civiltà, Cioran integra il discorso in un implicito riferimento autobiografico, in cui assume in senso paradigmatico la condizione dello straniero che, viandante nelle regioni dell’Occidente, è estraneo a se stesso, senza patria e incapace di farsi riconoscere dai suoi simili. Lo straniero, che in un viaggio interminabile senza meta, vive malinconico ogni

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istante nell’inutile consapevolezza ripetitiva di ogni giorno che sorge nella speranza della resurrezione e di ogni notte che si annuncia con il declino della decomposizione. È evidente un riferimento alla figura emblematica dello straniero la cui figura è caratterizzata da A. Camus. Al di là della filosofia ma anche al di là della poesia, la rivalutazione del mondo estetico supera l’orizzonte della letteratura e Cioran, nella sua sconfinata ammirazione per la musica, ne sottolinea i limiti filosofici di un messaggio che, dal punto di vista estetico, riesce a produrre una vertigine di esaltazione. Il musicista è come un dio cieco, egli partecipa alla languidezza tenera e melanconica dell’esistenza ma non ne comprende il significato. La musica non è né critica né intelligente poiché ad essa manca l’ironia.

10. La decadenza nella storia Nella prospettiva estetica precedentemente delineata, il quotidiano riemerge nelle istanze esistenziali della ribellione, tutte protese al superamento dell’impersonalità anonima di un tempo oggettivato. Non è possibile esistere sempre nella rivolta, non è neppure concepibile acquistare e conservare la franchezza dell’odio e della sopraffazione; è necessario vivere nella farsa e nell’apparenza, sono le regole inautentiche dell’abitudine che permettono di vivere in pace insieme agli altri. Ne consegue una tematizzazione specifica delle forme delle sofferenza, a proposito delle quali va ricordato che non è la tristezza, bensì la melanconia a caratterizzare l’autenticità dell’esistenza umana; solo tale vissuto è capace di estendere la sofferenza a grandi spazi e a vasti orizzonti. Il pessimismo, relativo alla situazione sociale, ha la sua radice nell’egocentrismo dell’uomo che, affermando il proprio potere, danneggia gli altri, fino ad annientarne l’autonomia personale. Al centro di ogni rapporto sociale si pone il desiderio di dominio che può estendersi ad un intero popolo o concentrarsi su un individuo

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determinato. La questione trasforma la vittima in carnefice; si tratta di un meccanismo inevitabile nella realtà sociale. La sua eliminazione dà luogo o alla solitudine più radicale o all’annientamento della storia nell’utopia e nella religione. La negatività dell’ambito intersoggettivo si articola, per Cioran, nella situazione complessiva sintetizzabile nei termini seguenti: ai due estremi della società si collocano i ricchi e i mendicanti; nella regione intermedia troviamo tutti i cittadini del mondo, indaffarati nelle diverse ed inutili attività della storia umana. Da un punto di vista storico, Cioran segue la teoria hegeliana della successione dei popoli alla guida della civiltà umana insieme all’ipotesi della decadenza dei cicli delle civiltà, sostenuta da O. Spengler. Ne deriva che solo la decadenza si preoccupa in modo ossessivo della vita, la civiltà nel suo apogeo si limita invece a vivere, quindi è la decadenza stessa che valorizza la sensibilità e le idee nell’uomo singolo, nonché nell’intera umanità. Nel contesto pubblico delle espressioni sociali, i valori si relativizzano e i miti si trasformano in concetti mentre gli individui emergono nella loro particolarità; perciò ogni popolo e ogni civiltà, antica o moderna che sia, quando ha esaurito le sue energie vitali, decade. Questo è un processo naturale che coinvolge l’intera storia umana. Si costruisce un nichilismo che esalta il godimento e rifugge ogni occasione di sacrificio, ogni civiltà decadente si appaga del suo tramonto e gode del suo indebolimento. In particolare, nella presente situazione l’esempio di rilievo è dato dalla decadenza del mondo antico, con il suo estetismo e con il suo scetticismo, in cui la civiltà viene radicalmente uccisa dall’assunto fanatico del cristianesimo. Si impone un confronto tra le culture a proposito del quale la decadenza, dopo aver preso coscienza dell’esaurimento delle energie di un popolo, trionfa; in tal caso quella civiltà è destinata alla fine. Solo le culture dell’Oriente sono preservate da tale destino poiché sono sottratte alla parabola del divenire storico. Siamo nella condizione in cui occorre favorire il negativo anticipandone le conseguenze prevedibili. Questo nichilismo dinamico

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indica la seguente via: non bisogna opporsi alla decadenza ma favorirla, vale a dire camminare verso la fine della storia con il fiore all’occhiello. Questo sviluppo storico ha un suo ordine e una dialettica specifica, perciò sulla linea di Meister Eckhart, come il divino precede Dio, la nevrastenia precede l’uomo. Nella nostra decadenza, siamo eredi dell’anima e della debolezza trasmessa dai nostri padri; non è necessario difendere la verità o la purezza poiché tutto è relativo e tutto si corrompe nella storia umana. Questo è l’unico insegnamento che può essere tratto dall’esame del corso delle civiltà. La conclusione sul piano dei valori è quella di un’ipotesi in cui il nichilismo si costruisce attraverso il suo approfondimento storico. In tal caso, la coscienza troppo matura per nuove avventure è segnata definitivamente dalle esperienze di negatività. Perciò la storia è destinata a trascinarsi sino alla fine nelle forme di negatività che l’accompagnano. L’ipotesi catastrofica di Cioran viene formulata in un’apparenza formale che risente della filosofia di F.W. Nietzsche, anche se si conclude con la teoria spengleriana della decadenza. Prescindendo dalle eredità culturali che egli intende seguire, quest’ipotesi viene costruita secondo la linea di sviluppo sopra indicata: l’esistenza paradossale dell’essere umano si trascina nella storia con la sua brevità, il suo cammino si approssima alla fine, anche se non si può pensare che tutti gli uomini scompariranno dalla terra; ne rimarranno pochi, ultimi uomini, imprigionati nel negativo. In tale situazione, solo la stagnazione potrà salvare la storia se sarà accompagnata dai bruti e dagli scettici, mentre la miriade degli uomini preoccupati di un’incessante efficienza, condurrà inesorabilmente l’umanità alla sua fine. Cioran colloca la sua negatività nel processo storico, soffermandosi sul suo inizio e sulla sua fine. In questo modo emergono delle raffigurazioni metaforiche della negatività, che risaltano nella loro autosufficienza. In questa realtà frammentata del divenire storico, ne consegue che ogni speranza di salvezza viene meno, poiché l’unica possibilità

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è quella di distruggere l’anima, con le sue aspirazioni e con le sue inquietudini, come se si trattasse dell’ultima delle anticaglie; per vivere ci bastano le sensazioni.

11. Le figure della decomposizione L’inevitabile destino della decomposizione fa sorgere alcune ineludibili figure del negativo: quella del mostro che, appagato di tutti i godimenti, rifiuta la discendenza, rinunciando alla continuazione delle specie, quella del santo che, subendo il fascino dell’impulso istintivo, abbandona l’istinto per una castità perfetta e quella del demoniaco che, incollato alla finitezza, soddisfa gli istinti, propagando la specie nella condanna ad una negatività crescente. A questo punto, è opportuno concentrare l’attenzione su una figura privilegiata quella del santo che contrasta con l’espressione consueta della negatività. Nei confronti di questa figura Cioran professa la sua ammirazione, sia pure ponendo in luce la contraddittorietà di un’ espressione superiore dell’umanità che si annienta in Dio. Sul piano religioso, si delineano le perplessità e le critiche espresse nel linguaggio dell’ironia che egli formula per la scelta dell’uomo, il quale decide di camminare nella fede; Cioran sostiene che sono i religiosi ad attentare l’onnipotenza di Dio, per cui Dio stesso si difenderebbe mediante gli atei. Per quanto riguarda il clima di una religiosità rafforzata dalla cultura, le nazioni più religiose sono la Spagna e la Russia. In un esempio posto al limite della critica letteraria, le figure paradigmatiche dell’itinerario estetico consentono a Cioran di sostenere che in senso paradossale Dio preferirebbe C. Baudelaire a San Juan de la Cruz. L’itinerario religioso è sottoposto ad una critica demolitrice che procede con queste considerazioni: anche se si è rapiti dall’ammirazione della croce, il ripeterne quotidianamente il sacrificio è ossessivo, i santi sono dei perversi e le sante delle voluttuose.

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L’uomo nella sua esistenza è al cospetto dell’eterno, i santi sono istericamente ossessionati dall’eterno medesimo come loro unica idea ricorrente; frequentare la vita dei santi significa essere rapiti nell’ossessione della santità e celebrare in tutte le aspirazioni il modello di vita, nonché di adorazione, che i santi stessi testimoniano. L’attenzione di Cioran per la negatività del cristianesimo lo conduce, da un lato, a formulare giudizi approssimativi sul senso ascetico dei sacrifici che accompagnano la santità e, dall’altro, ne deriva un giudizio storico che radicalizza la distanza tra la civiltà antica e quella moderna. A tal proposito egli osserva che la modernità ha trasferito l’inferno e il demoniaco dall’oggettività alla soggettività e in tal modo ha reso sopportabile il negativo, pur rimanendo il problema di quale sia la radice della nostra solitudine. In questo processo storico, si delinea la seguente conclusione: il cristianesimo ha fatto il suo tempo, la croce ha depotenziato il suo significato simbolico, l’uomo, liberato dal cristianesimo, è caduto nell’indifferenza rispetto a ciò che oltrepassa i limiti del suo conoscere. In tale prospettiva, l’immagine di Dio dipende dai nostri vissuti e dai nostri atteggiamenti, essa è condannata ad oscillare tra positività e negatività; Dio è un enigma, Egli ha fatto il suo tempo e anche la sua immagine è destinata a scomparire nella decomposizione universale. Ne consegue che la tristezza è prodotta dai valori religiosi ma, caduti questi, è riconfermata dai quelli morali. La sua base consiste nell’immagine della colpa, simboleggiata dal peccato originale. La nostalgia di Dio si sostiene sul sacrificio dei conventi; le veglie e i digiuni danno corpo alla sua immagine molto più che le dimostrazioni teologiche. Cioran, nonostante tutti i suoi tentativi, non è riuscito a riconoscere il senso della fede religiosa, e così prende coscienza della paura di dannarsi, accettando una grazia che non riesce a comprendere e a condividere. Da un punto di vista esistenziale, al di là di ogni fede religiosa, il sapere si produce solo nelle notti insonni ed è sempre accompagna-

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to da sofferenza nonché da tristezze. La gioia del giorno e il sonno tranquillo sono inadatti per una vera conoscenza. Se ci rivolgiamo ancora una volta alle conoscenze di ordine narrativo, troviamo che nell’ambito dei racconti concernenti le vicende storiche, l’oggettività degli eventi e delle situazioni relativizza ogni forma di storia universale, giungendo a questa conclusione: la storia è sempre mutevole, ogni epoca ha i suoi assoluti di carattere relativo, gli uomini si affannano sempre a costruire ciò che altri distruggeranno; le ortodossie e le eresie si sostituiscono e si alternano in un destino di cambiamento e di immutabilità. Di conseguenza, di fronte alla negatività della condizione umana e all’insignificanza ripetitiva del divenire storico, il non senso crea disgusto e il nulla attrae nel suo abisso. In questo orizzonte negativo si apre la tentazione del suicidio. La spirale del negativo si svolge in un percorso che comprende una serie di caratteristiche così esprimibili: senza Dio e senza valori, potrebbe essere tutto permesso, ma la scelta dell’inazione, impedisce i crimini, salva gli altri e difende la bontà. Su questa linea il paradosso consiste nel fatto che sono proprio le dottrine morali ad essere un attentato alla bontà. La situazione conduce ad un equilibrio precario delle tendenze contrapposte, nel quale vanno evitati gli slittamenti nelle condizioni estreme; l’entusiasmo del sentimento, come lo slancio della fede, blocca la lucidità dell’intelletto. Sia la sottomissione devota, sia la contemplazione del pensiero sono parziali e prospettiche e si concludono nell’impedire l’azione, dando luogo o a turpitudini immorali o a verità menzognere. Il processo della negatività investe l’orizzonte etico, nel quale il vizio isola l’uomo dal gregge e la solitudine lo rende originale aumentandone la consapevolezza. In tale contesto, gli istinti naturali riconducono l’uomo alla specie, disperdendolo nella massa e l’eredità negativa individuale, attraverso la sofferenza, produce nel singolo contemporaneamente rifiuto ed orgoglio e nella realtà sociale dà luogo, in modo contraddittorio, all’ammirazione e al disprezzo.

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Sul piano dalla collettività, si delinea una visione anonima in cui la vita normale esige sottomissione e il mestiere, nonché il ruolo sociale, la rendono universalmente accettabile. Nell’orizzonte etico, la libertà di non agire è condannata più del crimine, solo la follia è capace di farci recuperare l’originalità. Cioran, votato all’inazione, si riconosce nella sua decomposizione; l’esistenza negativa determina in lui una radicale metamorfosi o, meglio, dall’ammirazione dei conquistatori e delle formiche è passato ad esaltare la rinuncia e l’inazione. Si tratta di far scorrere il tempo nell’abbandono motivato dal lasciarsi vivere. Egli si trova precipitato in una disperazione senza limite, nella quale trionfa la noia quale sentimento di chi è privo di qualsiasi fede. Questo tragico vissuto esistenziale lo tormenta e lo occupa senza nessuna possibilità di fuga. Solo nella profondità della delusione e nella negatività della sofferenza rinasce l’illusione e risorge la speranza. La condizione dell’esistenza umana è capace di vanificare ogni slancio positivo della vita; ciò accade in una situazione contraddittoria, in cui il sentimento dà forza alla continuità della vita e la lucidità del pensiero rivela la decomposizione che incombe. Quanto detto è particolarmente evidente nell’estetica letteraria delle riflessioni prodotte dalla cultura contemporanea. Nella riflessione controcorrente rispetto alla cultura tradizionale, Cioran confessa che sin dalla sua gioventù ha sempre ammirato gli eroi del negativo esaltanti il suicidio ed ha sempre biasimato coloro che conservano la vita, sopravvivendo alle passioni tragiche. In questa dimensione, si rammarica che la morte non sia entrata nei costumi della quotidianità, per cui il suicidio apparirebbe come l’unica salvezza possibile. Nella prospettiva esistenziale, si riconfermano l’ambivalenza e la contraddittorietà dei vissuti autobiografici più significativi. Cioran riconosce che, al tempo dei suoi diciassette anni, ammira la filosofia astratta e depreca la poesia, l’azione, l’amore, la sofferenza e la morte. Per evitare queste occupazioni che travolgono l’esistenza, si appaga della semplicità e della volgarità e, sopraggiunta

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l’insonnia, si apre lo svelamento e nella veglia, nonché nella solitudine, giunge il ritorno alla filosofia. È questa una filosofia della caduta, della sofferenza e della perdita di senso, la tristezza e la sofferenza aprono l’abisso dell’esistenza umana. Questo orizzonte della negatività conduce ad un approdo significativo, in cui solo la paura della morte, estesa a tutta la specie umana, impedisce che si commettano dei crimini e avvia nella rassegnazione il sentiero dell’oblio e del perdono. La prospettiva indicata si colloca in una sostanziale svalutazione della storia, nella quale il non senso oppone l’autorità alla libertà, il potere dogmatico intollerante all’accoglienza e al rispetto per le opinioni altrui. La prospettiva è quella di valutare la prima alternativa, svalutando la seconda nelle opposizioni indicate, la forza e l’intolleranza sostengono la vita, la tolleranza invece è segno di decadenza. Per lui, ogni religione ed ogni ideologia politica, se vogliono sopravvivere, esigono la repressione e la violenza, l’inquisizione dà forza alla fede e la polizia alle Tirannidi. In questa direzione la storia produce i suoi eventi nel rifiuto radicale della noia. Cioran, nel suo indulgere all’asistematicità del pensare e alla distruttività dell’agire, finisce per criticare il divino nell’esaltazione del demoniaco, così dopo aver consumato tutto ciò che è dell’uomo, l’unica ammirazione è per il diavolo e per la sua incolmabile solitudine, questa ammirazione è accompagnata dal rimpianto di vederlo messo da parte e di non poterlo reintegrare nel suo posto originario; egli è la contrapposizione negativa ad un Dio buono nella sua inutilità. In questa condizione assurda, si delinea l’inutilità di ogni aspirazione prodotta all’interno del processo storico, perciò la vita si trascorre nell’amarezza della perdita di sempre nuove illusioni. All’inizio si pensa di poter conquistare il mondo e l’universo e di poter superare poeti e pensatori, poi l’unico impegno è quello di andare oltre ad ogni possibilità dell’esistenza; il sentimento ci fa

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credere di essere degli dei ma l’intelletto rende vana anche questa ispirazione. La situazione delineata si colloca in questo orizzonte di disvalori: l’uomo perde le sue possibilità nell’emergenza del nulla, la vita si impoverisce e lascia spazio soltanto a sempre nuove forme di follia. Questo è il momento di sottouomini per una sottovita. Sul piano esistenziale, il tempo è sofferenza e le illusioni cadono progressivamente, l’immersione nell’abisso del nulla non ha termine. In tal caso, sorge questo interrogativo: fino a quando tutto ciò è possibile? La risposta rassegnata è che l’esistenza continuerà così fino all’esaurimento del tempo.

12. La questione dello stile Cioran, nell’opera Sommario di decomposizione, puntualizza il problema dello stile in una direzione metodologica, sintetizzabile in questi termini: egli giunge a comporre, attraverso aforismi, poiché si era fatta in lui strada la paura delle parole. L’autore compie nell’elaborazione del suo pensiero una puntualizzazione nella quale prende l’avvio da una rassegna dei problemi affrontati, che appaiono in questo modo: i temi ricorrenti sono il vuoto, la solitudine, l’erotismo, il suicidio, la musica, la storia e il tempo. Il luogo costante del volume è dato dall’istanza scettica che permea di sé tutte le questioni trattate; Cioran compie una ricognizione culturale dei principali messaggi ereditati dai pensatori e soprattutto dai contributi della tradizione occidentale. A tal riguardo l’ironia costituisce la scelta stilistica privilegiata. L’approdo di tale itinerario è dato, come già precisato, dallo scetticismo nelle sue diverse sfumature nel quale viene tematizzato il pessimismo esistenziale dell’autore che, diffidando della parola, si rivolge al silenzio e al fascino del negativo di cui il fallimento, la decadenza e la tentazione del suicidio sono le migliori manifestazioni.

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Su tale linea, Cioran chiarisce la sua posizione nei confronti del negativo; i suoi riferimenti filosofici vanno al pensiero di F.W. Nietzsche e di A. Schopenhauer. La noia e la morte trionfano in una via meditativa che mette da parte il pensare dialettico e l’atteggiamento speculativo nei confronti del nichilismo. Sulla via disperata che valorizza l’angoscia, la sua attenzione si rivolge alla lacrima e alla sofferenza dell’interrogazione scettica. Su questo piano il sapere, tanto di tipo scientifico, quanto di tipo filosofico, viene svalutato poiché si rivolge solo all’apparenza. La radice rivelativa dell’essenza esistenziale è una situazione globale di anomia che coinvolge l’uomo attraverso la noia e l’ossessione della morte. In questo contesto l’introspezione autobiografica coglie la preclusione dal tempo, così la disperazione, insieme alle altre forme di sofferenza permette il raggiungimento del vuoto semantico dell’intera esistenza. Questo vissuto non può dare luogo al contenuto ontologico delle riflessioni, poiché con il progredire della vita essa si svuota di senso e cede il passo all’interiore annientamento della coscienza. Questa è per Cioran una condizione imprescindibile del proprio itinerario autobiografico. In una complessiva sintesi storica emerge il processo alla civiltà occidentale, a proposito della quale Cioran trae ispirazione, come di consueto, da F.W. Nietzsche e da O. Spengler. Ne risulta questo schema valutativo: l’Occidente è nella sua agonia; i popoli che ne hanno fatto la storia sono giunti all’esaurimento del loro compito; il crepuscolo e la decadenza hanno sostituito l’entusiasmo della conquista; la figura di Don Chisciotte ha espresso la giovinezza della civiltà; la rinuncia e la pigrizia sottolineano il suo decadimento, il progresso è negativo e il futuro è possibile soltanto in un ulteriore impoverimento di energia; i popoli d’Europa sono pronti per essere conquistati da un qualsiasi potere egemone. Il quadro del negativo risulta caratterizzato in una profondità abissale, in Cioran il negativo emerge in tutte le sue forme, tra le quali emergono quella del crimine, quella dell’abiezione, quella

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della bestemmia e quella del torpore della pigrizia. Su tutto trionfa l’idea del suicidio desiderato e non commesso, che si risolve nel valorizzare la consapevolezza della miseria e del fallimento dell’esistenza. Rispetto a ciò, si fa strada l’autoconsapevolezza dello spreco di tutte le energie vitali nell’impegno supremo e sistematico alla distruzione progressiva di se stesso. Riguardo al mondo emotivo appare un itinerario contraddittorio per ciò che concerne le argomentazioni proposte. Cioran riduce l’amore all’erotismo sessuale e a sua volta interpreta quest’ultimo negli accadimenti chimici e biologici dell’organismo umano. In questo quadro, contro le rivelazioni di A. Schopenhauer e di Sigmund Freud, svolge la sua ironia aggressiva, orientandola all’impietosa destrutturazione delle illusioni romantiche che poeticamente nascondono la vera natura dell’amore. In questa direzione, l’amore stesso appare come una sintesi contraddittoria dell’aggressività istintuale con la delicatezza della fantasia; in ogni caso, il trionfo di tale sentimento si rivela come la sconfitta della ragione. In una situazione mistica ed estetica, Cioran esalta la musica in quanto capace di superare la razionalità filosofica. La musica per lui assume il potere delle lacrime e manifesta la possibilità di cogliere l’infinito, essa rappresenta il naufragio dell’anima in una profondità eterea più affascinante della morte.

13. L’itinerario contro se stessi Lo sviluppo ulteriore del suo pensiero appare nell’altra opera significativa La tentazione di esistere. Cioran, sulla linea di F.W. Nietzsche, C. Baudelaire e Fëdor Michajlovič Dostoevskij, è maestro dell’interpretazione di pensare contro se stessi. Questo itinerario metodologico viene da lui intrapreso da un punto di vista esistenziale, tramite una lucida riflessività che si serve

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dell’ironia come un espediente letterario per comporre delle pagine velate da una profonda amarezza. Tra i suoi argomenti prediletti emergono i seguenti: il destino degli Ebrei, la fine dell’antichità, B. Pascal, Saint Simon, Gogol ed Epicuro, la smania analitica, la noia, la superstizione dell’atto, i nostri dèi alla deriva. La radice ontologica delle questioni affrontate consiste nella negazione dell’ontologia tradizionale a favore di un’etica coinvolta nelle contraddizioni di una ribellione che cede il passo alla rinuncia. Cioran parte dall’idea che tutto è violenza e che tutto è destinato a ritornare a chi lo ha posto in essere. Per lui la negatività risiede nel tempo e nell’ossessione del fare ad ogni costo, perciò la sofferenza è in noi stessi in quanto agiamo contro noi stessi. Questo principio negativo del male risiede in Dio e si estende nel tempo della creazione nonché, ad opera dell’uomo, nella storia che l’uomo stesso oggettiva contro se medesimo. In questa situazione il cristianesimo è responsabile di esasperare la sofferenza mentre le religioni della passività orientale propongono una saggezza illusoria. La filosofia moderna è responsabile della sofferenza in quanto esaspera l’inquietudine attraverso l’idea di soggettività. Per Cioran, in questa realtà contraddittoria del mondo e della storia, la saggezza avrebbe inizio dall’inazione e dalla negazione del tempo. Vana è la saggezza come del resto vana è anche la ribellione. Nel riferimento costante all’assurdo, egli esalta il demoniaco ma assume anche a modelli della rinuncia il mendicante e il pazzo. Il primo poiché vive la giornata nell’attimo e nel senza tempo; il secondo perché destruttura il tempo, annullando la differenza tra sogno e veglia, immaginazione ed azione. Il passaggio dall’analisi dell’interiorità esistenziale dell’uomo a quella del mondo sociale, nelle componenti che lo caratterizzano, conduce all’esplicitazione del negativo nella storia umana. Cioran muove dalla convinzione che ogni popolo ha il suo ruolo e il suo momento nella storia delle civiltà. Per lui l’Occidente è giunto nel XX secolo al momento della sua decadenza. La nostra è un’epoca simile a quella della fine dell’Impero Romano, le nazioni

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europee, Francia, Inghilterra e Germania, hanno esaurito il loro momento di egemonia e gli stati Uniti d’America hanno dato vita ad un potere senza civiltà mentre la Russia fonda il suo dominio su un potere politico dogmatico e totalitario. L’unica speranza potrebbe risiedere nelle nazioni del sud del mondo. In questa situazione l’Europa vive la sua decadenza in una passività storica, illuminata solo dall’intelletto e dalla tolleranza. In tale clima, la riflessione fa emergere la consapevolezza del negativo, per cui decade l’eroismo insieme alla forza, al cinismo e allo spirito di avventura, mentre il crepuscolo decadente dell’inazione e della rinuncia trionfa in una civiltà come quella europea, nella quale la filosofia e la musica hanno raggiunto le mete più alte della cultura. Cioran osserva che nella storia ci sono popoli, come ad esempio quello spagnolo e quello russo, che nella storia si sentono portatori di un destino universale, rievocato costantemente nelle loro epoche di decadenza. Di fronte a questi, i piccoli popoli oppressi trovano invece nel destino la giustificazione della loro emarginazione dal corso della storia. Il popolo romeno vive con amarezza la propria condizione subordinata e Cioran rievoca la propria ribellione arrogante di fronte a questa condizione di fallimento della sua patria di origine; a suo avviso, la rovina del suo popolo è esempio significativo della più complessa rovina dell’uomo. Il tema caratterizzante l’intera esistenza umana, muovendo da un suo aspetto specifico, è quello dell’esilio che acquista in Cioran sia una valenza autobiografica, sia un’altra di carattere ontologico. A torto l’esule viene ritenuto un uomo avvilito dalla propria umiliazione, in realtà egli cerca il trionfo nella propria sventura. Per questo gli esuli sono sognatori che tentano la via del successo attraverso la poesia o il romanzo, essi approfondiscono la consapevolezza della propria sventura. Un singolare esempio di analisi storica del destino dei popoli appare dal fatto che il popolo ebreo viene da Cioran ammirato ed odiato nel contempo. Quella che in lui prevale è l’ammirazione per un popolo solitario, unico nella storia del mondo, perseguitato dal

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destino, ammalato di utopia, non fiaccato dalla decadenza. Esso è destinato a non avere patria e a prolungare la sua condizione tragica fino alla fine dei tempi. Questo popolo non accetta il cristianesimo ma la sua aspirazione messianica e il suo desiderio di conversione restano in attesa del tempo in cui la Chiesa perderà il potere e sarà travolta dalla decadenza. Per lui la vitalità e la genialità del popolo ebraico è senza confronti sulla faccia della terra, le sue ripetute sconfitte gli permettono costantemente di risollevarsi. Il popolo di Israele è affine e diverso dagli altri popoli europei, perciò avversario di quello tedesco; è una situazione misteriosa ed incomprensibile che lo pone nella storia attraverso il desiderio di una salvezza universale che trascende la storia stessa. Il momento metodologico su cui si concentra l’attenzione del nostro pensatore nella trattazione dei problemi concerne l’aspetto formale dell’espressione, infatti, già a partire dai Sofisti, osserva Cioran, lo stile rivela le possibilità della parola. Attraverso le epoche e le civiltà, la lingua adegua le sue espressioni alle esigenze dello stile e la nostra epoca di decadenza produce uno stile insicuro, continuamente teso alla ricerca dell’originale, che si frantuma e si disgrega nel tematizzare l’idea stessa della decadenza. Questo pone continuamente l’accento sul superamento del classicismo, in quanto sposta l’attenzione dal contenuto ai mezzi espressivi; ciò accade tanto nella filosofia quanto nell’arte. Siamo oggi nel momento storico della rottura del tempo lineare e dell’indebolimento dell’evidenza nel vago il che si risolve in uno stile che rispecchia l’esigenza della caduta dal tempo. In particolare Cioran propone le sue considerazioni nel tempo della fine e del fallimento, muovendo dalla morte dell’arte che, nella letteratura corrisponde per l’io al passaggio dalla tragedia al romanzo, compiuto attraverso la poesia. In questo orizzonte prospettico la negatività emerge dallo strapotere della soggettività impegnata a narrare e a compiangere la propria solitudine. Si produce così il tripudio della psicologia in una metafisica depotenziata e demistificata, nonché in una mistica svuotata del suo contenuto. La morte dell’arte è morte della letteratura per un tempo della fine, coinvolto

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in una consapevolezza del fallimento che lo nega insieme alla narrazione con il suo stesso oggetto.

14. Il misticismo scettico Cioran offre alla nostra riflessione il mistico con le sue espressioni paradossali, le fantasie e le sofferenze, cercate e volute fino al sacrificio di sé condotto all’esasperazione estrema. Di fronte a questa figura del cristianesimo tradizionale e dello spiritualismo orientale, la condizione del decadente alla ricerca del nulla è debole di incapacità di vivere l’eroismo del negativo. Il nostro pensatore analizza la santità nel confronto con il demoniaco per far emergere il valore di una lotta titanica nei confronti del tempo, ingaggiata nella soppressione e nella rinuncia, al solo scopo di trovare il rifugio nel vuoto di un nulla impossibile del senza tempo e del senza luogo. Questa situazione è quella di colui il quale compie senza l’aiuto di un dio l’inversione tra l’altezza del cielo e la profondità dell’abisso. Tutto ciò è illustrato attraverso uno scetticismo radicale filosofico-religioso, che riconduce tutti i significati della mistica spirituale all’ambito concreto di un materialismo biologico e psico-esistenziale. Cioran riduce la storia delle idee alla storia delle parole determinate e classificate, ma esse hanno il loro destino. In alcuni momenti storici queste sono importanti, in altri invece sono svalutate; egli osserva che il passaggio dei termini filosofici alla letteratura è particolarmente dannoso per l’estetica dello stile. A questo punto viene tracciato un excursus che comprende gli autori per lui particolarmente significativi, fra i quali emergono Socrate, Epicuro, San Paolo e M. Lutero. La trattazione di questi pensatori è l’occasione per manifestare i limiti e le possibilità della filosofia nel mondo antico, nonché le responsabilità positive e soprattutto negative, assunte dal cristianesimo nel corso della tradizione del pensiero occidentale.

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Su questa base la negatività trova il suo substrato negli autori che ne anticipano le conseguenze. Cioran, al di là di ogni illusione filosofica e di ogni fede religiosa, prende consapevolezza dell’emergenza del negativo che, nella passività e nel fallimento, produce il senso oppressivo e, nel contempo, esaltante della rinuncia. Cioran dopo essersi riferito alle figure responsabili della nostra sofferenza e del nostro decadimento, si rivolge alle immagini esistenziali del negativo e in questo ambito raccomanda l’abbandono e la rassegnazione per colui che sceglie l’auto-compatimento; mentre si rivolge con interesse e comprensione a chi non riesce neppure a ottenere questo risultato. Ci troviamo, quindi, di fronte a una forma di negatività più profonda. Cioran professa il suo interesse per gli scrittori religiosi ed in particolare ammira B. Pascal, significativo modello di tutti gli altri. In lui trova la presenza di un pragmatismo religioso insieme ad un interesse profondo e costante per spiare gli abissi. Questo sentimento gli permette di interrompere il vissuto della negatività. Da un punto di vista semantico, tutte le cose sono vane, anche la fine, in quanto tutto si risolve nell’attimo fuggente, soggetto ad un incessante ed indefinito cambiamento. Uscire dal tempo significa distaccarsi dal reale poiché l’essere è solo comicità. L’atteggiamento più adatto è l’ironia e la crudeltà è un lusso. Cioran osserva che l’itinerario del negativo trae origine dalla paura di noi stessi che si trasferisce a quella degli altri che, a sua volta, approda alla crudeltà nella sua radice solipsistica. Un esempio che comporta conseguenze analoghe è dato, in chiave positiva, dal sorriso. Vi sono due tipi di sorriso: quello che crea disagio e rimane oltre l’occasione e quello fugace che aderisce in modo fuggitivo all’occasione stessa; il primo precede la pazzia e il secondo appartiene alla vita reale. Nel concentrarsi sull’importanza della parola emerge, non solo l’aspetto stilistico dell’espressione, ma il valore centrale del linguag-

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gio, che non è esclusivamente forma, in quanto costituisce il momento essenziale dei problemi affrontati. Su tale linea, Cioran ammira ed invidia colui che si trova a suo agio nella magia demiurgica delle parole, poiché esse perdono il loro valore in un depotenziamento del significato derivante dall’abuso del linguaggio. Solo il poeta o l’uomo immerso nella quotidianità riescono a conservare il senso demiurgico delle parole medesime. In tale orizzonte, l’elemento filosofico della decadenza istituisce le condizioni per un nichilismo che non si limita alla situazione del linguaggio ma, sulla scia delle riflessioni nietzschiane, prende in considerazione l’inferiorità del non uomo, per evidenziare una proprietà dell’involuzione dell’uomo. La via del nulla predilige la negatività individuale e la trasforma in un nichilismo universale e colui che è alla ricerca del nulla è più un mostro che un uomo, egli può essere definito adeguatamente un non uomo. Il percorso della negatività si attua nel processo che esprime una gerarchia capace di introdurre dei dettagli significativi nella concezione della decadenza. Cioran sostiene che all’amor proprio può giungere anche l’animale, mentre solo l’uomo si realizza distruggendosi mediante l’odio di sé e da quest’ultimo nasce la coscienza. In quest’ottica, il pensiero non produce altro che maschera, quindi tutto è maschera, anche il destino, l’unica realtà che sfugge a questa conclusione inesorabile è solo la morte, così tra noi e lo spirito tragico si stabilisce un’invidia e una competizione senza fine; il risultato è che noi nell’orizzonte del negativo finiamo in ogni caso per prevalere. Nell’itinerario che stiamo analizzando il primato del linguaggio viene interpretato in un aspetto molto vicino alle riflessioni di carattere ontologico, infatti quando la parola si svuota del suo significato, la letteratura finisce e l’espressione linguistica che rimane oltre l’estetica letteraria raggiunge un risultato estremo di carattere negativo. La letteratura è all’origine delle cose se è vero che la rivelazione cristiana pone la parola prima della creazione.

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Una situazione particolare emerge nell’attenzione per la maschera che valorizza l’apparenza e nell’intento di scambiarla per realtà provoca queste conseguenze: giunti nella profondità del negativo le menzogne ci soccorrono e l’uomo non cessa mai di produrne delle nuove, poiché il processo della sua fuga fabulatoria non ha limite, in quanto il negativo va oltre e ricompare sempre in forme nuove. Per l’affezionato del negativo il mistero scompare, poiché tanto la metafisica quanto la teologia compiono un regresso passando da un segreto ad un altro con l’evitare l’ancoraggio al mistero inteso quale fondamento ultimo del reale, dal momento che la scomparsa del mistero è l’espressione finale della morte. Anche in La tentazione di esistere viene riconfermato, in una sintesi complessiva, l’itinerario di destrutturazione dell’uomo e del reale. Cioran inaugura un percorso del negativo secondo la semantica della decomposizione segnato dai dieci relitti di tristezza1, che conducono all’annientamento definitivo del proprio essere senza riuscirvi completamente. Il quadro si completa in questa osservazione: l’arte non riesce a penetrare il segreto dell’universo e l’artista non può fugare il mistero del reale. Il saggio invece, sia pure nella sua impenetrabilità,

1. I dieci relitti di tristezza in La tentazione di esistere sono: 1°: la riduzione dell’Io ad apparenza; 2°: l’immagine degli altri che si dissolve in un arretramento consistente nel duplice piano dell’apparenza e della rinuncia; 3°: l’orrore per il corpo e per la carne, con tutte le sue miserie e i suoi disfacimenti; 4°: la tristezza melanconica della solitudine; 5°: la felicità, che appare il massimo ideale e la massima soddisfazione, la quale si dissolve come un obiettivo fugace ed illusorio; 6°: la fede religiosa in sé non risolve nulla poiché si trascina le soddisfazioni e le inquietudini che la accompagnano; 7°: i piaceri, come i dolori, incidono profondamente nell’acuire il desiderio e non permettono il superamento della sofferenza; 8°: il demone più terribile è rappresentato dall’accidia, male dell’inazione, capace di annientare le energie dello spirito; 9°: il silenzio, vanificando la parola, non comporta la meta ultima del disfacimento e della dissoluzione; 10°: la rassegnazione al fallimento, possibile soltanto con l’abbandono definitivo di ogni inquietudine e di ogni entusiasmo per l’azione in tutte le sue forme possibili. Cfr. E.M. CIORAN, La tentazione di esistere, cit., pp. 191-196.

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avanza nella via del superamento della sofferenza. L’ideale risiede nel vuoto di chi è privo di capacità e di talento e lo stesso Dio, essendo creatore, è prigioniero della sua creazione. La conclusione distingue due categorie di uomini: quelli votati al sì e quelli votati al no; i primi si entusiasmano di esistere e sono a proprio agio con il quotidiano; i secondi, immersi nel negativo, vivono nella sofferenza l’agonia che precede la morte e solo la propria morte dà senso all’esistenza umana, poiché produce il titanismo della lucidità e del nulla. In queste pagine Cioran subisce il fascino dell’essere ed è stanco dell’amarezza ironica della lucidità. Su questa base egli costruisce la fragile e disperata fede nell’esistere; questa non è una fede religiosa ma una fede accompagnata dal dubbio scettico, da lui assimilata a quella religiosa per l’intensità dello slancio e per la consapevolezza dell’insolubilità del mistero che la fonda e l’accompagna.

15. Destrutturare la storia e l’utopia I problemi della realtà sociale affrontati nel corso delle civiltà e nel tradizionale rapporto tra essere e dover essere, vengono trattati nell’opera Storia e utopia. La concezione della storia si frappone tra la caduta nel tempo e la caduta dal tempo, l’intento è quello di avviare un’impossibile liberazione dell’uomo, in cui la salvezza dalla storia è rappresentata dal duplice atteggiamento dell’utopia e dell’apocalittica. Cioran delinea una serie di atteggiamenti tra i quali si collocano la nostalgia della servitù, l’euforia della dannazione, il delirio dei miserabili e le virtù esplosive dell’umiliazione. La situazione etico-ontologica è quella, a proposito della quale si può dire che il vero uccide la vita salvata solo dalle illusioni e dall’oblio. Il quadro di riferimento è quello consueto, dove l’emergenza del negativo scopre nel superamento di ogni visione filosofica di

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natura sistematica la verità del reale nei suoi paradossi e nelle sue contraddizioni. Da un punto di vista critico, Cioran, alla fine della modernità, si pone in rapporto a G. Leopardi che nella modernità stessa anticipa molte sue affermazioni con la duplice idea del nulla e dell’illusione. Nella sua lettura del negativo ondeggia tra la saggezza, la tragedia e la forza, con un linguaggio espresso attraverso aforismi, paradossi di natura contraddittoria ed allusiva. Egli, profeta della fine della storia, giunge ad essere non solo spettatore ma narratore originale e sconcertante del tramonto dell’Occidente. Il problema dell’attuale crisi della civiltà viene affrontato mediante una riflessione autobiografica sul rapporto tra la Romania, sua patria lontana, e la Francia, patria elettiva, sia pure vissuta con molto disagio. In tale prospettiva, la crisi politico-sociale, investe, tanto i regimi del socialismo reale, quanto quelli del capitalismo liberale. Ne deriva la problematizzazione del rapporto tra storia ed utopia. Il riferimento alla politica è connotato dal duplice concetto di nazione e di popolo. La sua esemplificazione si rivolge in particolare alla Russia ponendola a confronto con l’Europa e con le nazioni occidentali. In questo quadro emerge la vocazione imperialista, perpetrata in una tradizione storica che, attraverso la Chiesa ortodossa e la tirannia degli Zar, giunge fino al regime marxista. Le vicende politiche sono governate dall’ambizione e dalla sete di potere in un rapporto di negatività che lega l’analogia tra l’individuo e il sovrano, con la differenza che il primo lascia inappagati i suoi desideri criminali mentre il secondo può soddisfarli a suo piacimento. In tale prospettiva è esaltata la tirannide e la democrazia viene svalutata come debolezza alla stregua della tolleranza. Tutte le considerazioni sulla politica, sulla storia e sull’utopia sono avvalorate da digressioni storiche sul carattere dei popoli e sull’immagine dei sovrani. Le fonti sono date dalla tradizione sto-

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rica che dall’antichità classica, attraverso il Medioevo, giunge alla modernità. Cioran affronta la questione del regime politico migliore e, partendo dalla malvagità e dall’invidia insite nella natura umana, ritiene la tirannide superiore ad ogni forma di democrazia; mentre la tirannide stessa è espressione di forza, la democrazia è sintomo di rinuncia e di debolezza. Quindi, la storia è decisa dai reggitori dello Stato mentre i popoli sono guidati dai governanti come il gregge dal pastore; è il potere frutto dell’ambizione che domina la vita politica. In questo quadro la democrazia e la tolleranza sono segno di decadenza della civiltà. La profezia del nostro pensatore è l’avvento di una nuova tirannide che si erge prepotentemente sul divenire ciclico della storia. Tale principio di autorità vale sia nella vita politica sia in quella religiosa. Il rancore è il sottofondo nascosto del nostro io individuale e da questo substrato nasce l’odio per gli altri e la conoscenza, mentre svela il segreto del reale, coinvolge l’uomo tragicamente nella colpa; l’amore, per contro, porta alla rinuncia e indebolisce nello svilimento del nostro io. In questa situazione nasce la sofferenza per l’ingiuria perdonata ed anche l’apertura al demoniaco nonché il conflitto blasfemo nei confronti di Dio. Si tratta di una ribellione titanica della vita che afferma prepotentemente la sua superiorità. In quest’ottica, Cioran condanna lo scetticismo insieme alla rinuncia e alla rassegnazione. Ne deriva l’esaltazione del vizio e la condanna della virtù; così il negativo trionfa nel rivendicare la solitudine della condizione umana. L’utopia guida la storia in una dimensione di falsità poiché nasconde all’uomo l’essenza negativa della sua esistenza individuale e sociale, perciò l’utopia sostituisce il cristianesimo e apre la via al comunismo. L’unica forma di lotta all’ingiustizia è la rivoluzione, ma il desiderio di trionfare sul male nega la libertà, pertanto il pessimismo politico nella realtà attuale compie la contaminazione dell’utopia con l’apocalittica. Cioran è convinto che nella storia il male

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è evitabile solo nella fuga utopica dal divenire ma è anche sicuro che sulla terra possa trionfare soltanto il demoniaco. Le argomentazioni sono accompagnate da riflessioni, sia di carattere storico, sia di carattere mitologico, che intendono fornire degli esempi capaci di illustrare i concetti sviluppati. Le immagini mitiche dell’età dell’oro, configurata da Esiodo, e di Prometeo, riconducono all’ipotesi biblica del paradiso perduto e, in una linea costante nella storia occidentale, tracciano le basi del pensiero utopico. Tanto la visione stoica dell’armonia universale quanto l’ottimismo pelagiano, preparano nel mondo antico le utopie dei moderni, fondate sull’uguaglianza e sulla giustizia. In questo quadro, l’utopia annulla la storia evocando l’eterno presente ma proprio in ciò consiste la negatività e la fuga dal presente stesso. L’uomo è nel tempo e vive come un incubo l’uscita da esso che si presenta come un eterno caratterizzato dall’incombenza dell’immobilità passiva propria del presente. Cioran si ispira ad autori classici quali Esiodo, Epitteto, Agostino, Pelagio e ad autori moderni quali Vico, gli utopisti illuministi, i socialisti utopisti e Dovstojeski. Ne deriva una ripresa del negativo a partire dall’apocalittica biblica e dallo gnosticismo. Ciò comporta un tentativo di ripensare le istanze anarchiche e nietzscheane, a partire da una prospettiva nella quale il pessimismo sull’individuo si trasforma in un pessimismo sociale. Il conflitto tra utopia e storia si combatte nello spartiacque del tempo che costituisce il fragile confine tra la speranza e la disperazione.

16. Sul clinale del tempo L’asse portante del pensiero di Cioran è in rapporto tra l’uomo e il tempo e tale argomento viene trattato nell’opera La caduta nel tempo. L’autore tematizza il negativo nel quadro di un pessimismo sconvolgente. Le fonti di quest’interpretazione attingono le loro radici

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dallo scetticismo greco e da un rovesciamento ricorrente rispetto al cristianesimo. Ne deriva una metafisica che compie il distacco dall’essere sulla linea di M.E. de Montaigne e di B. Pascal, proponendo una revisione critica di F.W. Nietzsche e di A. Schopenhauer. Su tale piano il nostro pensatore si rivolge criticamente alla sapienza orientale e riconsidera le riflessioni letterarie di F.M. Dostoevskij nonché di Lev Nikolaevič Tolstoj. Queste riflessioni esaltano le categorie del negativo come la morte, la melanconia, la noia e la sofferenza esistenziale. All’interno di quest’itinerario tenebroso l’espediente che funge da parametro orientativo è il paradosso e la comprensione filosofica di questa posizione non può prescindere dall’ermeneutica dei contrasti e delle affermazioni che valorizzano l’assurdo nelle sue forme specifiche. Il punto di partenza è dato da una riflessione critica di carattere biblico, vale a dire la metafora biblica del peccato originale evidenzia il senso del conoscere, nato dalla violazione del divieto di attingere all’albero della conoscenza, mentre il desiderio di salvezza dell’uomo può derivare soltanto dall’albero della vita. L’uomo attinge dal negativo la radice della sua esistenza e, come Dio mancato, intraprende la propria fuga nel divenire nel tempo e nella storia. Su tale linea il nichilismo dell’uomo è ricondotto al confronto con un dio in merito al quale non nutre né fiducia né abbandono. L’itinerario posto al limite di un razionalismo paradossale che rasenta l’assurdo è illustrato da esempi, in apparenza antropologici, ma in realtà di carattere metaforico, come il seguente: l’antropofago, l’analfabeta e il primitivo sono spinti nella civilizzazione, nell’intento di generare una fuga nell’ansia e nell’inquietudine, in cui l’uomo trova la sua miseria e il suo appagamento. Si delinea una figura di particolare rilievo: quella dello scettico, la quale si stabilisce nel duplice piano sociale e individuale assumendo, in quest’ultimo, due forme: quella dell’intransigente e quella dell’eretico. Lo scetticismo è una forma di negatività che comporta distacco dall’essere, esasperazione dalla ragione, solitudine e

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barbaria. Nella storia lo scetticismo è decadenza e appare in modo ricorrente alla conclusione di ogni ciclo di civiltà. In una chiave metastorica, dopo il confronto con Dio, emerge il confronto con il demonio, ed in questo contesto lo scettico va oltre e suscita la negatività di un vuoto più profondo. La questione affrontata per via simbolica, conduce a delle osservazioni che assumono una natura etica, come ad esempio la seguente: il desiderio di gloria è la radice di ogni soddisfazione nel tempo e nella storia, ma questo estremo inappagato conduce l’uomo ad annientarsi nell’umiltà. Tale situazione contraddittoria porta l’uomo stesso a fuggire dai suoi simili in una condanna del tempo e della storia per recuperare l’essere e l’eternità; ciò può accadere solo nella soppressione di tutti i desideri. Sul piano dell’esistenza, il male nella storia e nell’uomo si concentra su questo itinerario: la malattia risveglia nella sofferenza la coscienza all’essere dell’esistenza e contrapposta a ciò che ha salute è inerzia ed oblio. Tale situazione accomuna gli uomini e gli animali, sia pure per aspetti particolari ed i senso generale eli riconosce che la vera uguaglianza è solo nell’Inferno. Nell’emergenza esistenziale della tragicità, l’alternanza è tra dolore e vuoto, paura della morte e inconsapevolezza della vita e la malattia è rivelatrice nella sofferenza alla quale l’uomo è fedele, ma anche la passione, nella ricerca del piacere e nel desiderio di una felicità impossibile, genera analoga sofferenza. Il processo della negatività coinvolge la presenza del male, con tutte le contraddizioni e le sfide che Cioran esprime nella logica paradossale della ribellione. La struttura ontologica di tali situazioni è rappresentata dalla centralità del tempo, con tutte le cadute e i desideri di fuga che l’accompagnano. L’uomo costruisce la storia nell’abbandono dell’eterno ma, attraverso la decadenza, è sospeso su un altro abisso: quello della storia. Da ciò traggono origine le due situazioni della caduta nel tempo e della caduta dal tempo; il negativo cui l’uomo aspira è l’inferno della

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IX. Temi, problemi e prospettive: excursus sulle opere

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frenesia che per lui si trasforma in un paradiso. Tale realtà si sostiene sull’illusione della libertà che esige la sospensione fra il troppo e il troppo poco. In questo quadro, l’ideale del superuomo è sfavorevole alla sopravvivenza dell’uomo poiché condurrebbe lo stesso a perdere l’unica possibilità dell’esistenza, data dalla finitezza con tutte le sofferenza che l’accompagnano.

17. L’essenza del divino Il problema religioso è nuovamente preso in considerazione da Cioran nell’opera Le mauvais démiurge che nella traduzione italiana appare in due versioni, dai titoli rispettivi Il funesto demiurgo e I nuovi dei. La mistica atea di Cioran si interroga sulla morte di Dio, domandandosi se sono le chiese cristiane ad averlo ucciso. Il suo profondo interesse religioso si rivolge allo gnosticismo, alle eresie medievali e alle forme di religiosità dell’Oriente. Per questo Pascal senza Dio l’intenzione è quella di redimere Dio stesso salvandolo dai mali della creazione, ciò viene compiuto in una serie di riflessioni paradossali nelle quali egli esalta il suicidio, idealizza l’odio e si entusiasma per la natura inerte e inanimata della vita vegetale. Cioran, esule dalla sua patria, tragicamente pessimista, rifugge dalla storia e ha orrore del tempo che scorre, egli non si appaga del sogno mostruoso dell’utopia né del razionalismo civico che l’accompagna e toglie a Dio la creazione per affidarla paradossalmente ad un sottodio o, meglio, ad un cattivo demiurgo. Il problema dei mali della creazione e della storia è quello del tempo che va negato nella sua condizione attuale di accelerazione e di perdita. Per il nostro pensatore si delineano due orizzonti di fuga rispetto al tempo stesso: uno al di là del tempo, costituito dall’eterno presente del senza-tempo del mito, l’altro derivante da un al di qua del tempo, quale linea di fuga prodotta dall’utopia, la

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quale ultima è come una creazione limitata che trae la sua origine dalla volontà dell’uomo protesa a dare vita ad una sfera negativa di paradiso storico. Cioran è condotto ad idealizzare il mondo originario del senza-tempo del mito. Il nostro filosofo, fautore dell’antifilosofia, si propone di evitare la fuga evasiva dal tempo progettando nel suo titanismo della rinuncia il superamento definitivo del tempo stesso; è la dimensione del tempo come mutamento responsabile di tutti i mali della condizione umana. Cioran parte dall’ipotesi che l’autore del mondo sia un demiurgo cattivo e da questo presupposto nasce la tesi che il male coinciderebbe con la creazione. Tale principio è considerato espressione dell’attività mentre il bene, al contrario, genera passività e rassegnazione e l’uomo è il momento nero della creazione che con la sua volontà ingaggia la lotta con il divino, genera nel piacere e con la discendenza contribuisce a propagare il male sulla terra. Nella storia l’essere decaduto nega gli dèi, manifestando la sua irriverenza religiosa nasce così l’odio per gli uomini e l’umanità potrebbe migliorare solo nell’impossibile scelta di un demiurgo diverso. Il nostro filosofo interpreta alcune idee derivanti dallo gnosticismo e da varie eresie medioevali, quali i catari e i bogomili, relative alla lotta cosmica tra bene e male nonché all’esaltazione dell’idea di purezza. Cioran con uno stile ironico confronta il tempo della fine del paganesimo con il nostro tempo in cui assistiamo alla conclusione del cristianesimo; per lui ogni religione si afferma nell’aggressività, nell’odio e nell’intolleranza, poiché per lui il cristianesimo decade nella tolleranza e nell’accoglienza. Egli si sofferma ad analizzare le posizioni di Celso e di Giuliano l’apostata, di fronte a quelle di Tertulliano, di Origene e di Gregorio Nazianzeno. Per il nostro pensatore la religione anima gli uomini nel combattimento e nell’avversione per i loro simili, mentre la decadenza è segnata dalla libertà tollerante e dalla dissoluzione che esalta il provvisorio. La nostra epoca è simile all’ellenismo e alla

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IX. Temi, problemi e prospettive: excursus sulle opere

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decadenza dell’antica Roma, per cui si apre la possibilità di vedere la civiltà dominata dall’avvento aggressivo di nuovi dèi. Per Cioran la vita è colpevole e l’esistenza è permeata dall’ansia dei vissuti di superiorità. In questa prospettiva l’io rappresenta la sofferenza della separazione dal tutto; così il nostro filosofo si rivolge insoddisfatto all’esperienza del nulla della mistica cristiana e del nirvana orientale. Essere al cospetto del cadavere significa negare i desideri della carne, ma soprattutto superare l’illusorietà delle vie verso la liberazione. All’io devono essere negati sia l’assoluto dell’essere sia l’assoluto contrapposto del nulla; l’unica via è la propria negazione priva di compiacimento che si realizza nell’esperienza dell’annientamento. Questo è il capitolo più importante dell’opera, nel quale Cioran analizza la questione, per lui fondamentale, del suicidio. Egli sostiene che, quest’ultimo, non è un presupposto ma un destino, anche se è accompagnato da condizioni esistenziali che ne favoriscono il verificarsi. Il nostro pensatore distingue la morte, come accadimento della vita, dal suicidio come decisione e considera quest’ultimo come un atto di libertà verso la salvezza. Da tale punto di vista, esalta gli stoici, i manichei e i catari, mentre disapprova il cristianesimo che considera negativo ed esecrabile il suicidio stesso. Cioran immagina l’epoca in cui il suicidio possa divenire disponibile a tutti, onde evitare il decadimento della condizione umana. Egli distingue il suicidio, quale atto inconsulto, privo di preparazione, da quello invocato e meditato; solo quest’ultimo riesce a farci vivere evitando il compimento dell’atto. Cioran colloca la sua familiarità con il suicidio, in un vissuto pessimistico che accomuna tutte le situazioni dell’esistenza umana. I suicidi sono i martiri di un avvenire ancora lontano e ne va distinta una duplice forma: quella in riflesso dell’uomo comune e quella dell’uomo superiore che conduce all’annientamento e alla soppressione dei desideri. Cioran per spiegare quest’ultima forma si riferisce ancora una volta ai manichei e ai catari aspirando al suicidio universale della specie. Egli presuppone che l’intervento demonia-

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co non sia nel darsi la morte bensì nel contribuire a propagare la vita con l’atto della generazione. Per lui il negativo è nel futuro e l’ideale consiste nell’uscire dal tempo per annientare passivamente l’esistenza. Egli si considera e si esalta da sempre come un fallito e come un decaduto. Nella prospettiva delle religioni storiche occorre effettuare una distinzione fondamentale tra il buddismo e il cristianesimo poiché il primo valorizza la soppressione dei desideri, mentre il secondo dà luogo ad una negatività senza spiegazione, in quanto viene mascherata dall’idea di salvezza rinviata dopo la morte. L’idea di salvezza non è sufficiente ad affermare che tutto è apparenza, poiché non è essa che appare impossibile ed inconcepibile. Il momento negativo è nell’io e la positività consiste nell’annientamento, nel rivolgersi al non-essere piuttosto che all’essere, nel teorizzare l’irrealtà. In questa prospettiva, occorre negarsi nel tutto, superare lo spazio e il tempo, nonché rinunciare ad ogni forma di reincarnazione e l’approdo è al vuoto abissale che si dimostra anche superiore al nulla. Questa è l’acquisizione filosofica più profonda della modernità, che si colloca al di là di ogni concezione religiosa. Il discorso si risolve nel tema complessivo della negatività della condizione umana nella quale l’odio e non l’amore è al centro delle riflessioni. La sofferenza consiglia la soppressione di tutti i desideri ma questo approdo non è sufficiente a caratterizzare la condizione dell’uomo considerato quale essere decaduto e l’indifferenza e l’annientamento, in luogo della morte, devono condurre alla consapevolezza che il sommo bene è senz’altro quello di non essere mai nati. Questo itinerario filosofico viene illustrato da Cioran facendo ricorso all’Oriente e alla saggezza degli antichi.

18. La negatività del nascere L’argomento centrale dell’opera L’inconveniente di essere nato è costituito dall’evento del nascere. Lo stile compositivo è quello

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IX. Temi, problemi e prospettive: excursus sulle opere

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degli aforismi attraverso i quali, con sottile ironia e con aggressività destrutturante, egli affronta i problemi esistenziali della condizione umana. L’orizzonte del negativo conduce Cioran a spostare l’attenzione dal baratro della morte all’istante della nascita. L’intera esistenza è per l’uomo un non senso, un inutile gioco e il tempo non è che una fuga in cui la felicità è collocata in un futuro posto oltre il tempo stesso, mentre il dolore è nel passato, anzi si puntualizza nell’inizio, quindi la nascita risulta essere una disgrazia e il non essere nati la suprema fortuna. Con queste premesse il nostro pensatore si rivolge alla religiosità orientale esaltante il Nirvana, prendendo in considerazione il non sapere e l’annullamento dell’io; ciò nella vigile consapevolezza di non potersi liberare dalla prepotente affermazione dell’io stesso. È nell’orizzonte del contesto negativo del nichilismo universale che si compie la svalutazione della filosofia e si aprono due vie: quella del giorno, caratterizzata dall’illusoria fuga nel tempo, e quella della notte, in cui la veglia rivela l’enigmatica ossessione della nascita. Cioran tenta le vie del negativo, attraverso spigolature frammentarie cosicché il pensiero della morte, l’esaltazione dei vizi, la deprecazione delle virtù, la svalutazione della conoscenza di sé, le riserve nei confronti della filosofia, la condanna del tempo e il rimpianto della memoria perduta costituiscono delle insostituibili riflessioni esistenziali. Il nostro pensatore costruisce la sua rete interpretativa del reale, attraverso lampi di riflessione che, nelle veglie notturne, penetrano nelle apparenze e nelle illusioni, dando vita ad una costante opera di destrutturazione dell’uomo, della società e del mondo. Cioran prende in esame la propria esistenza con le trasformazioni che nella sua coscienza interiore si sono verificate nel corso dell’esperienza autobiografica ed evidenzia con flash introspettivi e con metafore allusive gli approfondimenti del negativo. Emergono gli atteggiamenti ambivalenti di ammirazione e condanna nei confronti delle religioni così come si delineano le sue

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riserve rispetto agli atti nonché le rivelazioni relative alla costanza della sofferenza. Queste considerazioni esistenziali di natura autobiografica sono intervallate da riflessioni pessimistiche di carattere universale sulla condizione umana. Il suo atteggiamento disincantato nei confronti delle illusioni si riporta alla negatività del nascere e del morire. Cioran evidenzia in se stesso e negli altri, attraverso la consueta ironia, l’essenza della negatività, così le riflessioni sulla terra romena, sulle vicende della propria infanzia, sul senso della memoria e del rimpianto, sulla situazione della vecchiaia e sulle sventure dell’umanità diseredata sono occasioni nelle quali il fallimento e la delusione trionfano, rivelando il destino della condizione umana. In questa dimensione, l’aggressività ribelle nei confronti dei vissuti religiosi, nonché delle illusioni esistenziali, costituisce il veicolo privilegiato per cogliere in modo allusivo il senza tempo del negativo nel paradossale svolgersi di quello della vita umana. Cioran parte dal significato dell’opera scritta e dal ruolo esplicato dallo scrittore per immergersi nella negatività della grandezza e nella semantica positiva della futilità; a F.W. Nietzsche preferisce Marco Aurelio. Il negativo lo coinvolge ma non si converte mai in eroismo; esalta l’insonnia e si immerge nel vuoto della quotidianità. Il suo rifiuto di ogni emozione e di ogni situazione lo porta ad estraniarsi dal tempo rimanendo ad un abbandono che, in un enigma insolubile, lo trascina nel tempo. Egli non è il Titano dell’assurdo ma vive nel fallimento e nella delusione il fascino della rinuncia. Il dolore, la sofferenza, perfino la morte, costituiscono l’essenza positiva del negativo e alla radice ultima della negatività si colloca il male di essere nati. Il taedium vitae si sostiene sulla dinamica incessante che produce sempre nuove forme del soffrire. Questa è l’essenza del reale in cui l’essere si dissolve nell’enigma del silenzio; tutto il resto non è altro che apparenza. Cioran, attraverso le consuete riflessioni frammentarie, pone in rilievo l’inutilità del tempo e della storia esprimendo il desiderio di sprofondarsi nel torpore di una vita ridotta allo stato vegetale. La

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sofferenza consiste nell’azione e nella volontà stimolata ora dalla paura ora dal destino. In questo contesto emerge la coscienza come causa del dolore e l’esistenza si rivela coincidente con il soffrire. Da queste premesse nasce l’esaltazione della morte che non consiste nella paura che la precede, bensì nel risultato che ne segue, attraverso l’inerzia dell’annientamento. Questa considerazione conduce a deprecare l’immortalità concepita come veglia incessante. Cioran riflette sulla storia e sul destino dei popoli interpretando l’avventura umana in un quadro di filosofia della storia che ricorda G.W.F. Hegel e la sua interpretazione considera in senso negativo il progresso e muove dalla consapevolezza del declino. Lo spirito di distruzione è alla radice della condizione umana per cui in un pessimismo radicale dà senso all’apparenza, nonché alle illusioni, augurandosi che la consapevolezza della fine possa finalmente dare spazio ad un mondo disincantato. In quest’ordine d’idee la storia non si ripete ma si ripetono le illusioni e la filosofia accelera la fine mediante la consapevolezza del negativo; a partire da questo punto di vista, Cioran risolve i problemi con la saggezza degli antichi. L’avventura attraverso il negativo è sottolineata da Cioran attraverso l’esaltazione del vuoto della meditazione e l’io si immerge nella propria solitudine, dal momento che la morte irrompe nella vita manifestando la banalità dell’agire. In questa situazione, la saggezza delle religioni antiche è per il nostro filosofo superiore al cristianesimo; di fronte agli automatismi della fede, egli esalta la follia, il suo orizzonte è pervaso da una passività che evoca l’agonia che precede la morte; per lui la morte è tutto e la vita, nelle sue vane illusioni, è niente. Cioran compie l’ulteriore passo di vedere il non senso della vita nella propria condizione autobiografica, la consapevolezza della delusione, la disincantata deposizione dei suoi desideri e la rinuncia a ogni ambizione diventano i sintomi più evidenti del fatto che il non essere è superiore all’essere; la morte è superiore alla vita e il non essere nati sarebbe la migliore condizione dell’esistenza. La saggezza orientale e quella antica, pur essendo apprezzate, sono su-

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perate dalla consapevolezza abissale del nulla e solo il disprezzo per l’umanità ci fa accettare gli altri, solo la sventura e la sofferenza dell’altro desta in noi un amore che è un’emozione di pietà e di compatimento. La storia umana è stupida e ripetitiva; la vita è inganno e la sola salvezza è sapere che non vi è salvezza, l’intelligenza apre il baratro del non-senso, l’azione e l’ambizione fanno dimenticare il vero senso del reale. Nel mondo solo l’uomo è colpito dalla noia, fugge la monotonia e cogliere il vero senso dell’esistenza, significa vedere nella morte il non-essere che precede la nascita. Si tratta di avanzare nella soppressione dei desideri e nell’avventura della rinuncia. La condizione migliore dell’uomo è quella di non-nascere, l’essere è vuoto e la vita è vana; il tempo è illusorio, soggettivo ed inutile e solo la morte riesce a ristabilire la quiete dell’impossibile ritorno al torpore originario. L’uomo non sopporta i propri difetti, sfugge, non è mai soddisfatto ed appagato delle proprie ambizioni, egli si cerca e non si trova e quando si trova, sfugge se stesso. È la nascita, in definitiva, la causa delle sofferenze e dell’inevitabile schiavitù della vita. Cioran costruisce una specie di etica esistenziale del negativo il cui pessimismo è la legge rivelativa dell’essere. Il concetto che le virtù sono apparenti ed illusorie mentre l’ascesi e la meditazione non riescono a narrare la rivelazione abissale è autorevolmente confermato da una remota tradizione filosofica. In questo difficile e sofferto itinerario, il nostro filosofo trova i suoi compagni nei saggi antichi, negli eremiti dell’Oriente e nei filosofi del negativo, figli della contemporaneità. Egli si sente diverso da tutti questi e pretende di andare oltre nel raggiungimento di un negativo ottenuto attraverso la passività; l’abulia e la rinuncia riescono solo ad aprire la via impenetrabile nella profondità più completa. L’unico elemento rivelativo di questa condizione, nella quale il vero essere coincide col nulla, è il senso profondo dell’unico inconveniente, quello di essere nati.

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19. Per una politica reazionaria Cioran, ammiratore del pensiero di Joseph de Maistre, del quale ripubblica l’opera Du Pape, elabora un’introduzione alla medesima dal significativo titolo Essai sur la pensée réactionnaire. In questo saggio si manifesta la sconfinata ammirazione per l’autorità dei regimi reazionari e il punto di partenza di questo discorso tende al recupero delle radici tradizionali di questa singolare trattazione di carattere politico. Come F.W. Nietzsche e, analogamente, a san Paolo, J. de Maistre, mostro di arroganza e conservatore capace di sostenere l’ingiustizia nelle sue varie forme, suscita l’ammirazione del pensatore romeno in una visione paradossale della politica. J. de Maistre è l’occasione per dare forma alla domanda se possa essere giudicato per le sue dottrine come un fanatico o un esteta, anche se appare come un profeta del Vecchio Testamento collocato nel diciottesimo secolo. La questione approda alla concezione alternativa per cui le espressioni più esasperate del paradosso e della sofferenza sono il cattolicesimo, l’esaltazione della guerra, l’ammirazione per il Papa e per i tribunali dell’Inquisizione, l’anti-protestantesimo e l’anti-enciclopedismo; egli interpreta J. de Maistre secondo un’affinità ideale con la propria situazione autobiografica di esule, privato della sua patria, in balia della paura e del disorientamento. Il pensatore francese, attraverso l’iperbole e l’esaltazione della tradizione nonché della Provvidenza, esalta la guerra nei risultati che la divinità, attraverso essa stessa, riesce a conseguire; la guerra medesima è condannabile soltanto qualora sia opera dell’arbitrio della libertà umana. Egli esalta la guerra attraverso il Dio degli eserciti dell’Antico Testamento e si compiace nell’illustrare la sofferenza del Cristo in croce, attraverso le immagini della cultura spagnola, in tal caso è il male che trionfa nella storia umana unitamente al bene. Ciò, da un lato, richiama la responsabilità di Dio e, dall’altro, manifesta la

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presenza nella storia stessa dei due principi contrapposti del bene e del male. J. de Maistre, a differenza di Cioran, non arriva alla conclusione di trovare in Dio la responsabilità del male ma giustifica la sua presenza nell’universo, manifestando un certo compiacimento per le sofferenze dell’umanità. Come ogni metafisico egli rivela una concezione qualificabile tra le posizioni di un conservatore e reazionario e come tale diffida, come tutti i reazionari, della rivoluzione nonché della modernità. Egli difende da conservatore la teocrazia ed interpreta il cristianesimo alla luce della concezione giudaica dell’Antico Testamento. J. de Maistre subordina la religione alla politica, predilige un cristianesimo giuridico privo di misticismo nel quale vi è poco spazio per la Gerusalemme Celeste, antepone nella concezione trinitaria della Chiesa cattolica il Padre al Figlio e valorizza l’autorità del Papa. Nell’atmosfera della restaurazione, J. de Maistre appare come profeta e non come mistico, poiché esalta l’apocalisse rispetto all’utopia e in ciò consiste l’attualità del suo pensiero in cui emerge, nell’esaltazione del negativo, il non-senso della storia associato al non-senso del tempo. Nell’interpretazione di questo autore si colloca la visione particolare del nostro commentatore che, rispetto alla vita politica, riconferma le contraddizioni interne al suo pensiero infatti per Cioran la vita politica è governata da una dinamica del potere nella quale la prassi si allontana dalle teorie in una situazione in cui destra e sinistra, reazione e rivoluzione, costituiscono prospettive relative ed intercambiabili. Su tale linea, la rivisitazione del pensatore conservatore e legittimista difende il pensiero unico e nel suo fanatismo condanna le eresie e si presenta come il Machiavelli della teocrazia. In questo quadro J. de Maistre viene preso in considerazione poiché, reazionario ed antimoderno, difende la religione per consolidare il potere e apprezza il controllo sociale ottenuto mediante

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la schiavitù; il suo spirito di conservazione si oppone alle istanze rivoluzionarie della Francia del XVIII secolo. Cioran, animato da una spontaneità per il dogmatismo, costruisce la sua intransigenza come ricerca di originalità, utilizzando paradossalmente il modello contraddittorio dell’ammirazione-odio. In questa direzione, J. de Maistre si presenta in modo simile a tutti i polemisti, mentre Cioran accomuna l’intransigenza del reazionario a quella dell’utopista. Così J. de Maistre viene confrontato con Saint-Simon, su una linea in cui il primo rappresenta l’ultimo erede della controriforma. Egli ammira per la sua forza fanatica e per l’intransigenza condotta fino al paradosso ed in politica apprezza l’esercizio indiscriminato del potere, se esso viene amministrato a servizio tanto di una Chiesa quanto di un’ideologia. Le considerazioni che precedono vanno ricondotte alla concezione filosofica in base alla quale lo scetticismo è un valore, la tolleranza è sintomo di debolezza e di decadenza; J. de Maistre, quindi, rappresenta un esempio paradigmatico del reazionario da proporre come modello al di là del suo contesto storico. Così il principio di autorità viene salvato come esercizio del potere indipendentemente dal dogmatismo di qualsiasi posizione ideologica.

20. Un metafisico solitario Cioran, nella sua opera Squartamento, può essere definito un metafisico solitario. Nel suo approccio esistenziale ai problemi dell’uomo, egli esorcizza il negativo con l’atteggiamento confidenziale di un amico ed abbandona l’intenzione neutrale dello storicista nei confronti della storia per accostarsi al passato delle vicende umane, in una modalità sostanzialmente diversa, animata da una viva curiosità e da una profonda empatia esistenziale. Il suo esasperato misantropismo lo pone in competizione con Dio, in un esilio metafisico nel quale la condanna del pensiero filo-

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sofico è inevitabilmente una filosofia che si esprime con il linguaggio poetico attraverso aforismi. Il sentimento che egli privilegia nelle sue analisi del negativo è l’odio, manifestato nella sua forma paradossale ed intensa, per tutto e per tutti, e l’oggetto preferito della sua attenzione è il linguaggio, attraverso il quale egli dà espressione e colore agli altri sentimenti e agli abbondanti riferimenti storici che, nel tempo dell’esistenza, evocano un senza tempo delle costanti della condizione umana. Secondo una tradizione gnostica, per il filosofo romeno, la storia è il mondo delle difficili scelte che, suscettibili di essere compiute o rinviate, non costituiscono il tutto della storia poiché la maggior parte di questa ha il suo senso nel nascondimento del mistero; quindi la storia stessa attinge il suo vero senso nel nulla che la caratterizza. Questo è il regno dei sonnambuli e degli errori, poiché la verità è nel risveglio dell’abbandono che conduce ad una lucidità che è consapevolezza del fallimento. La storia offre una rassegna di popoli e di civiltà, che trionfano fino a che è vivo l’orgoglio e cadono nel declino quando questo li abbandona. Tale situazione è caratterizzata dalle scelte degli individui nonché dal destino dei popoli, in cui il mosaico delle vicende umane è tappezzato di verità parziali e di ingiustificabili errori. Cioran, rivolgendosi al destino storico della Francia, evidenzia, nel contesto decadente dell’assolutismo pre-illuministico, la condizione che caratterizza la storia umana nel tempo della fine. Emerge così la negatività della tolleranza, della raffinatezza, del buon gusto, della satira e dell’ampollosità del linguaggio e la lingua francese, amata e soprattutto odiata dal nostro pensatore, costituisce l’espressione tipica della conversazione inutile, esprimente una lucidità sterile e una passiva imbecillità. Di fronte a tale esempio il laconismo lapidario delle espressioni linguistiche è il supremo oggetto di ammirazione. La storia è una bizzarra anomalia del tempo e poiché questo è soggetto alla caduta, essa trova nel suo inizio anche la sua fine. La fine della storia è necessaria e la post-histoire segue il post-cristiane-

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simo; quindi, le vicende storiche hanno senso solo a partire dalla negatività che le caratterizza. È un demone cattivo quello che domina il corso delle civiltà umane, dal momento che l’uomo è travolto nel fallimento e nella decadenza come, del resto, la storia e gli utopisti sono consapevoli della fine della storia. Ci si può interrogare se, essendo inevitabile l’evento della fine, non sia il caso che l’uomo si impegni per accelerare la catastrofe conclusiva. A tal proposito, Cioran utilizza il modello dell’apocalisse laicizzandolo, per interpretarne il tempo abissale della fine, e il suo itinerario speculativo colloca la storia nel tempo apocalittico, compreso tra la caduta iniziale e la salvezza finale per determinare il corso negativo degli eventi umani. Per lui i modelli rappresentati dall’apocalittica medioevale, da un lato, e dalla decadenza dell’Impero romano, dall’altro, si trasformano nella civiltà moderna, caratterizzata da un attivismo esasperato. La fine della storia e l’esaurimento del tempo giungono così nel periodo della scomparsa della metafisica, in tal caso nascono il tempo del panico e la consapevolezza dell’agonia, si produce la vertigine dell’abisso e si fa strada il modello del vegetale. Questa è in sintesi per il nostro pensatore l’immagine del negativo del tempo. Cioran avvia una filosofia come antifilosofia, una metafisica che nega la metafisica, una visione dell’uomo, privata di ogni fondamento. Egli si muove alla ricerca di un Dio negato, che è incapace di trovare ed il suo bisogno religioso non l’abbandona mai, ma non approda neppure al suo appagamento. Lo scetticismo che egli professa non è incredulo ma raggiunge, attraverso la noia, la vertigine del vuoto e del nulla ed esalta la vertigine dell’inazione, della rinuncia e del fallimento giungendo, sulla linea degli stoici e degli orientali, alla soppressione dei desideri. Il tempo si estenua e si dissolve, mentre la storia, nel suo declino progressivo, si disfa, senza spazio per le utopie, nell’abisso della sua fine.

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21. I compagni di viaggio Cioran, nella sua opera Esercizi di ammirazione raccoglie le sue affinità elettive rispetto a quegli autori che permettono lo sviluppo di alcuni aspetti che caratterizzano il suo pensiero. Si tratta di un lavoro composto di frammenti critici, nei quali, invece di tracciare una storia della filosofia, egli espone dei ritratti riferiti ad alcune figure speculative, caratterizzate nella loro autonomia e diversità. In questa sede, è il caso di riferirne soltanto alcuni aspetti, nell’intento di giustificare, sul piano del pensiero occidentale, le tesi frammentarie del pensatore romeno. È, il suo, un volume che raccoglie in forma di ritratti i profili degli autori che, secondo modalità diverse, ispirano Cioran ad un dialogo complementare, rispetto agli itinerari da lui percorsi nelle sue riflessioni sul negativo. Il libro è stato composto per la presentazione del volume Sommario di decomposizione nel 1953, tempo in cui i suoi idoli erano W. Shakespeare e Shelley e metodologicamente egli preferisce in modo esplicito gli aforismi, mentre il suo scrivere si colloca tra il profetico e l’antiprofetico. Cioran riflette sul significato della sua attività di scrittore rispetto alla quale sente di essere giunto alla fine. Scrivere per lui significa stimolare la sua aggressività poiché la serenità non lo ispira, in quanto essere scrittore non è saggezza ma, piuttosto, espressione di una creatività impetuosa con la quale si rapporta in modo titanico a Dio. Riprendendo l’esposizione dell’argomento, effettuata nell’opera Sommario di decomposizione emerge la sua consapevolezza della fine dell’attività di scrittore con il compiacimento di naufragare, insieme al contemporaneo e progressivo affondamento della lingua francese. In particolare Cioran, negli Esercizi di ammirazione, traccia in modo critico, più che analitico, i profili concettuali di alcuni autori2 da lui ritenuti fondamentali per il suo itinerario esistenziale. 2. Cioran, negli Esercizi di ammirazione, elabora i ritratti di questi autori qui riportati secondo l’ordine della trattazione da lui compiuta nell’opera: J. de Maistre,

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Si tratta di incontri che gli permettono di ritrovare nell’arco della modernità e della contemporaneità dei compagni di viaggio, rispetto ai quali egli imposta una dialettica di affinità e differenze, elaborando dei ritratti sull’esempio di una lunga tradizione letteraria consolidata nel pensiero occidentale, rispetto a cui emergono gli accordi e i disaccordi, le ammirazioni e i rifiuti. Queste situazioni estreme vengono da lui caratterizzate nella consueta metodologia che gli è propria, dell’accoglienza e dell’allontanamento. Ne deriva un’opera che supera la storia a favore della letteratura, nel delineare dei sentieri interrotti, attraverso i quali si snoda il suo pensiero complesso e contraddittorio. Al di là dell’opera letteraria da lui elaborata è importante ricondurre la nostra attenzione su alcuni aspetti di natura autobiografica. Cioran si trasferisce a Parigi nel 1937, scegliendo come sua lingua di scrittore proprio quell’idioma francese che gli risulta difficile e non incontra le sue simpatie; ciò comporta la sofferta rinuncia ad esprimersi nella sua lingua materna, quella romena. L’opera L’amico lontano del 1957 si apre con la lettera di Cioran, proveniente da Parigi, a Constantin Noïca3. Tale amico romeno è un brillante filosofo appartenente alla cosiddetta generazione del 1927 e, come tendenza filosofica, è un metafisico sistematico nonché un ottimista nei confronti del destino della storia umana. La sua ispirazione etico-politica è quella della rinascita e liberazione della Romania dall’emarginazione che la opprime, per effetto del giogo politico cui è costretta a sottostare. La questione filosofica centrale, che anima il dibattito epistolare tra i due amici, è quella della filosofia della storia che ci fa assistere ad un dialogo stimolante tra un pessimista e un ottimista; nel nostro caso, il primo è Cioran e il secondo è l’amico lontano. Valéry, Beckett, Saint-John Perse, M. Eliade, R. Caillois, H. Michaux, B. Fondane, J.L. Borges, M. Zambrano, O. Weininger, F.S. Fitzgerald, G. Ceronetti. 3. Constantin Noïca, caro amico di Cioran, filosofo, saggista e scrittore, nato nel 1908 e morto nel 1987, vive in Romania durante il regime comunista negli anni compresi tra il 1949 ed il 1964.

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I due amici sono separati dalla lingua e dalla cultura; il loro dialogo si pone in rapporto al destino di tali differenze per ipotizzare il superamento della crisi che investe l’umanità nella civiltà contemporanea. In questa differenza e distanza si collocano la difficoltà della partenza e l’impossibilità del ritorno e muovendo da questo nucleo centrale si pongono le riflessioni storiche e politiche sull’incontro e sullo scontro di due civiltà, quella dell’Oriente e quella dell’Occidente, in merito alle quali si costruiscono le relazioni trai due regimi, tirannico e democratico. A tal proposito, Cioran sostiene che la libertà è positiva a partire dallo scetticismo e dal vuoto negativo che la accompagna, il che comporta che la crisi vissuta dall’uomo contemporaneo deriva dalla perdita di senso, conseguente alla caduta della speranza utopica nella storia umana. Come di consueto Cioran si esprime attraverso il paradosso con lo stile letterario dei suoi aforismi, egli è un pessimista che, con le sue digressioni, ottiene l’effetto di compiere una liberazione dal negativo, in una catarsi implicita nel pensiero. Attraverso la mediazione della cultura, egli riesce a costruire una antifilosofia che è poi null’altro se non una profonda interpretazione esistenziale della condizione umana, compiuta attraverso i vissuti della sofferenza ineludibile. È alla luce di questi criteri inattuali che va letto il pensiero del nostro filosofo, evitando di indulgere alle tentazioni di un decadentismo crepuscolare.

22. Dall’autobiografia agli ultimi scritti Il diario filosofico dello scrittore romeno è contenuto nei Quaderni 1957-1972, nei quali, attraverso considerazioni autobiografiche e mediante riflessioni critico-speculative, vengono percorsi e illustrati gli itinerari analitici delle sue opere. Essi comprendono il periodo che va da giugno 1957 a novembre 1972 ed in essi sono documentati i rapporti con gli amici N. Jonesco, Michaux e S. Beckett.

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I Quaderni, destinati dallo stesso Cioran alla possibilità di essere pubblicati come un libro, non costituiscono un diario bensì un insieme di appunti e di meditazioni. Gran parte del contenuto ripete in forma scarna e lapidaria quanto nei libri è esposto in forma letteraria, a volte molto elaborata e ricercata e, a volte, frammentaria nonché meditativa. Anche in questa raccolta di considerazioni trionfa il negativo, che viene espresso nelle forme predilette dall’autore costituite dalla delusione, dall’umiliazione, dal fallimento, dalla rinuncia e dal vuoto. Esse rappresentano le chiavi rivelative dell’unica verità, posta al di là delle apparenze e delle illusioni, vale a dire il non-senso della vita e della storia umana. In questo caso, i veicoli per giungere alla consapevolezza sono costituiti dalla sofferenza, dal rimpianto, dalla noia, dalla tristezza, dalla melanconia e dall’insonnia. Nell’orizzonte del negativo, emerge lo spettro ideale del suicidio, evocato ed invocato, ma sospeso sempre sull’indecisione della sua effettiva possibilità di compimento. La vasta cultura filosofica di Cioran privilegia l’antichità ed avanza riserve nei confronti della modernità nonché della contemporaneità. La sua esaltazione più profonda è per lo scetticismo mentre, nei confronti delle visioni religiose, egli elabora un atteggiamento ambivalente di amore ed odio, di positività e negatività. In questo complesso itinerario spirituale, la filosofia e la letteratura sono superate dalla musica, ma il grido enigmatico del nostro pensatore si esplicita nella forma desiderata e rifiutata della preghiera che è sempre cercata ma mai compresa. La struttura della raccolta è costituita da 34 quaderni che documentano quindici anni di meditazioni, compiute prevalentemente durante le sue passeggiate e le notti insonni. Non si tratta di un diario ma di appunti da utilizzare per comporre un’eventuale opera a proposito della quale l’autore, in un’annotazione, propone questi titoli: Interiezioni o L’errore di nascere. Negli ultimi anni della sua vita, Cioran pubblica in lingua francese alcuni testi già prodotti nei suoi anni giovanili in lingua romena.

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Ci riferiamo ora in particolare all’opera Le livre des leurres4 apparsa nel 1936 con il titolo originale Cartea Amăgirilor. I temi affrontati anticipano in modo particolarmente significativo quelli trattati nelle opere successive, vale a dire la questione del cristianesimo, il pessimismo concernente la natura umana, l’ammirazione per la morte, l’esaltazione del suicidio e la condizione rivelativa dell’esistenza umana, data dalla malattia. Gli argomenti trattati sono: l’estasi musicale, la fortuna di non essere santi, il più grande rimpianto, ai più soli, profezia e dramma del tempo, morire di entusiasmo, Mozart o l’incontro con la fortuna, Mozart o la melanconia degli angeli, le promesse della vita, i sussurri della solitudine, suppliche al vento, peccato e transfigurazione, confessione delle cose, il fascino delle ombre, l’ora degli anatemi, le regole per vincere il pessimismo ma non la sofferenza, l’arte d’evitare la santità, le regole per non essere in preda alla melanconia, farla finita con la morte, farla finita con la filosofia, all’ombra dei santi Nella riedizione delle opere precedenti rientrano anche Crépuscule des pensées5, apparso nel 1940 con il titolo originale Dacia Traianà6. Qui le problematiche privilegiate, oltre a quelle del misticismo, della vertigine e della lucidità, comprendono il consueto tema del suicidio, nonché il compiacimento del negativo che investe globalmente l’esistenza umana. Oltre a questi due volumi riediti in traduzione, è di un certo interesse documentativo, per le relazioni di Cioran con gli uomini di cultura del suo tempo, l’ulteriore volume Entretiens7 nel quale vengono tratteggiati i suoi rapporti culturali. Per comprendere l’ampiezza dei suoi interessi e dei suoi scambi dialogici delle idee, possiamo riferirci agli autori oggetto dei contenuti del volume: François Bondy, Fernando Savater, Helga Perz, Jean-François

4. ID., Le livre des leurres, Gallimard, Paris 1992. 5. ID., Crépuscule des pensées, L’Herne, Paris 1991. 6. ID., Dacia Traianà, edita da Amargul Gândurilor, Sibiu 1940. 7. ID., Entretiens, Gallimard, Paris 1995.

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Duval, Léo Gilet, Luis Jorge Jalfen, Verena von der Heyden-Rynsch, J.L. Almira, Lea Vergine, Gerd Bergfelth, Esther Seligson, Fritz J. Raddatz, François Fejtö, Benjamin Ivry, Sylvie Jaudeau, Gabriel Liiceanu, Bernard-Henri Lévy, Georg Carpat Focke, Branka Bogavac Le Comte, Michael Jakob.

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Conclusione

L’opera di Cioran, nei suoi aspetti polimorfici e polisemantici, presenta numerosi itinerari avviati ed interrotti, rispetto ai quali la soluzione migliore sarebbe quella di riconoscere l’impossibilità di una conclusione. Ciò deriva dal carattere programmaticamente asistematico della sua filosofia, la quale esprime un pensiero all’insegna, a volte implicita e altre volte esplicita, di un’antifilosofia. Queste difficoltà argomentative non sono casuali ma volute e ricercate in una dialettica che si sviluppa giocando letterariamente sugli effetti che le contraddizioni producono. La metodologia del pensiero interrogativo è dal filosofo romeno trasformata in quella degli effetti stilistici che sconcertano e disorientano il lettore, così, pensare significa raccogliere una sfida ed essere coinvolti nel naufragio di uno scacco radicale. Gli estremi delle sue argomentazioni non si escludono ma si combinano in un’oscillazione ottenuta attraverso atteggiamenti esistenziali di natura opposta. Esaminare il pensiero di Cioran significa lavorare sui suoi testi, per completare il non detto che emerge dal detto, nella direzione di dare forma all’implicito e di attenuare gli effetti troppo bruschi delle sue espressioni esplicite. Egli propone degli itinerari nei quali l’aiuto degli interpreti è molto relativo, per cui occorre rivolgersi alla critica con una certa parsimonia evidenziando, attraverso l’analisi ermeneutica, degli esempi di disorientamento. A tal proposito, altri compagni di viaggio possono proporre, in un dialogo sempre aperto con il nostro

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autore, delle argomentazioni che nel loro contenuto manifesto sembrano comunicare affermazioni apodittiche sulle quali è impossibile ogni osservazione o critica. La nostra scelta ermeneutica si rivolge ai testi di Cioran, per rimanere fedeli alle dichiarazioni a volte paradossali e a volte persino bizzarre che i testi stessi comunicano con uno stile letterario che associa la fascinazione allo sconcertamento. Il metodo di Cioran è quello di spiazzare comunque e sempre il lettore, per costringerlo a pensare e, soprattutto, a porre in dubbio le sue certezze fino al punto di rinunciarvi per seguire con curiosità e disorientamento le sue proposte sempre nuove, diverse e inconsuete. In costanza di una tale metodologia dinamica, i problemi da lui affrontati sono pochi e abbastanza simili e danno luogo agli itinerari contraddittori, attraverso i quali i problemi stessi vengono tematizzati. L’interesse di Cioran è per l’uomo, collocato nel paradossale conflitto che oppone una soggettività ribelle ed esasperata ad una presenza disturbante dell’altro che irrompe in noi e nei confronti del quale viene nutrita una sfiducia radicale. La relazione intersoggettiva si apre ad una compassione profonda per le sofferenze esistenziali, attraverso le quali si genera un’empatia complessiva che, al di là di ogni attesa, finisce per accomunare noi e gli altri in una condizione umana tragica ed inaccettabile. Prendono così forma filosofica gli universali dell’esistenza umana quali la sofferenza, la noia, l’angoscia, la disperazione e il male nelle sue varie forme, e questi esistenziali determinano la tragicità di un destino al quale l’uomo non si rassegna nell’inaccettabilità della situazione ontologica che lo sospende tra la caduta nel tempo e la caduta dal tempo. In tale contesto argomentativo, la razionalità si esaspera nella duplice forma della ribellione e dell’assurdo, prendendo corpo nell’ossessiva formulazione della lucidità. La tragicità della condizione umana si apre all’etica di una libertà che non è certezza di autonomia o di scelta, ma è soprattutto una

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Conclusione

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rivolta individuale verso la liberazione. Quest’ultima coinvolge integralmente la finitezza dell’essere umano nelle sue condizioni limite che costituiscono i confini del tempo esistenziale a lui concesso. Si delineano la riflessione sulla nascita e quella sulla morte; la prima vissuta da Cioran come l’inconveniente unico e prevalente dell’esistenza e la seconda come la condizione di una liberazione che non prelude ad una vita ulteriore, ma precipita l’uomo nel vuoto di un annientamento radicale. In questo senso, l’essere si disgrega e l’individuo si affaccia sullo spazio del nulla; ecco che il nichilismo, invece di essere una teoria metafisica, si propone come la consapevolezza di una situazione limite nella quale la perdita di ogni parametro di riferimento coincide con l’approdo alla nomadicità del pensiero, che senza fondamento galleggia nel mare inconsistente del nulla. In questa chiave interpretativa, i vissuti dell’insonnia e della noia, quest’ultima riletta in senso leopardiano, costituiscono le situazioni crepuscolari nelle quali il pensiero si dissolve nella precarietà dell’inconsistente. Questa è la situazione in cui Cioran tematizza il suicidio, non come decisione etica dell’autoannientamento, bensì come possibilità libera di cui l’uomo dispone rispetto alla morte come suo ultimo confine dell’esistenza. Il nostro filosofo non esalta il suicidio, non lo compie e non lo consiglia, bensì lo salva come la possibilità ultima nella quale l’uomo manifesta la sua capacità di liberarsi e di opporsi all’inconveniente di esser nato. È facile comprendere che lo scetticismo metodologico costituisce per Cioran, in questo contesto, l’unico approdo possibile della sua metodologia filosofico-esistenziale. Sul binario dello scetticismo Cioran si rivolge ai problemi religiosi, rispetto ai quali la sua apertura critica, a favore dell’eresia, e la sua esaltazione del misticismo condotto fino alle vertigini più elevate, lo conducono a salvare il demoniaco e ad ammirare il santo, in una del tutto particolare concezione a proposito della quale

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le definizioni contrapposte dell’ateo e del credente sono del tutto inadeguate. Cioran, rispetto al problema religioso, è costantemente alla ricerca ed è sempre in cammino, non trova mai un approdo e distrugge in ogni momento le certezze costruite in precedenti dichiarazioni contro Dio ma, di contro, in quasi tutte le pagine della sua opera, si occupa di Dio. Non esiste in lui confine tra sacro e profano, tra demoniaco e divino, il suo ideale è una ribellione destrutturante, rivolta sia all’interno che all’esterno, tanto a se stesso quanto agli altri. Tale ribellione assume la duplice via dell’espressione blasfema irriverente nonché della preghiera appassionata ed intensa fino alla vertigine. Il pensatore romeno trasfigura la sua filosofia in letteratura, la sua riflessione in poesia, il suo pensiero in immaginazione estetica; i suoi atteggiamenti, sono a volte semplici e maldestri, allorché egli si scontra con la realtà, sia questa rappresentata dal mondo della politica o sostituita dal contesto sociale delle situazioni storiche. Il suo pensiero negativo tende all’annientamento e alla distruzione, demolisce la positività dell’utopia, tenta di destrutturate il tempo, esalta in modo compiaciuto il mondo rarefatto e crepuscolare della decadenza e aspira, con tutte le sue forze, a ridurre se stesso alla sterilità di un fallimento in cui la vita si riconduce nel bozzolo della pura e semplice vegetazione. Gli eroi di questa etica negativa sono il fallito e il rinunciatario. La sua non è una viltà, è un titanismo rovesciato nei termini del negativo, è una contrapposizione di una vita ridotta alla propria condizione minimale, di fronte all’inconveniente della nascita ed alle illusioni del tripudio orgiastico della vita stessa, che è causa di sofferenze ineludibili. Leggere l’opera di Cioran significa riflettere sulle condizioni esistenziali della sofferenza umana in tutte le sue forme, con l’intento di cercare una via d’uscita e una forma di redenzione, senza riuscire a trovarle né sul piano umano né tanto meno sul piano religioso. La lezione che possiamo trarre dal suo pensiero è quella di un’analisi consapevole ed irriverente delle condizioni negative del

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Conclusione

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nostro tempo, cui si accompagna un vissuto di consapevolezza del male e di ricerca fortemente negativa di una speranza, che però l’uomo da solo non riesce a trovare.

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Appendice critica

1. Nota esplicativa Il pensiero di Cioran è stato analizzato nelle pagine precedenti in base a quanto risulta da un commento delle tematiche, presenti nelle sue opere, ma il metodo asistematico con il quale gli argomenti vengono da lui affrontati, insieme all’utilizzazione della potenza espressiva delle metafore poetiche, propone dei percorsi speculativi suscettibili di interpretazioni divergenti. Per comprendere nel modo più adeguato il pensatore romeno è opportuno rivolgersi, a titolo esemplificativo, ad alcune interpretazioni del suo pensiero, desumibili dalle opere più note che circolano nella letteratura filosofica della cultura italiana. In questi scritti troviamo delle ricostruzioni critiche della sua concezione filosofica che si polarizzano su alcuni temi e problemi, di volta in volta privilegiati, dalle prospettive ermeneutiche, dalle quali gli interpreti stessi prendono le mosse per esaminare il suo pensiero. L’utilità di questa, sia pure limitata rassegna critica consiste nel creare i presupposti per un dibattito interpretativo, relativo al pensiero di Cioran, finalizzato anche alla chiarificazione delle tematiche da lui affrontate, che costituiscono delle questioni epocali per la nostra cultura. A tale scopo non pretendiamo di realizzare una rassegna esauriente della fortuna che il nostro pensatore ha avuto in coloro che si sono confrontati con le sue opere; d’altra parte, la bibliografia che lo riguarda, è abbastanza recente e spesso è costituita da re-

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censioni e da articoli brevi concentrati soltanto su problematiche di dettaglio. Il nostro contributo al dibattito, non è realizzato con la rassegna delle opere su Cioran, bensì con l’interpretazione diretta dei suoi scritti che abbiamo compiuto nel corso di questo lavoro.

2. Pensare la fine nella cultura europea Tra le interpretazioni di rilievo del pensiero di Cioran, emerge quella di Susan Sontag che propone un’analisi della sua concezione filosofica in un saggio dal titolo Pensare contro se stessi: riflessioni su Cioran, incluso in un volume di respiro più ampio1. Il paradigma culturale di partenza si configura in un’interpretazione complessiva del nostro tempo, in cui la cultura occidentale, dopo la crisi storicistica e l’emergenza del negativo, giunge alla teorizzazione della disfatta nonché della fine. L’esistenza nel tempo dà luogo alla scoperta del precario e della dissoluzione in cui va tenuto presente che nel pensiero occidentale, la filosofia attraversa un processo di sviluppo il quale, dalla narrazione metrica attraverso la stazione speculativa, giunge all’esaltazione della coscienza storica. Alla fine di questo processo emerge il pensiero meditativo, espresso in aforismi; gli esempi più significativi di questa modalità di riflessioni sono dati dal pensiero di S. Kierkegaard, F.W. Nietzsche e L. Wittgenstein. A quest’ultimo orientamento speculativo appartiene la posizione di Cioran nel quale si delinea una riflessione che valorizza il rischio dell’esistenza ed esprime la fatica del pensare. In tal caso, la modalità non argomentativa in senso logico della filosofia di Cioran è interpretata come una forma di approccio visuale ai problemi affrontati, poiché «negli scritti di Cioran la mente 1. S. SONTAG, Interpretazioni tendenziose, dodici temi culturali, Einaudi, Torino 1975.

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Appendice critica

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è un voyeur. Ma non guarda il “mondo”, bensì se stessa. Cioran, in un certo senso, ricorda Beckett nella sua preoccupazione per l’integrità assoluta del pensiero. Cioè nella riduzione della delimitazione del pensiero al pensare sul pensare»2. La mancata chiarezza delle riflessioni di Cioran è attribuita ad uno stile drammatizzato nel quale i ruoli dei personaggi vengono sottoposti ad un’intercambiabilità continua; «nella sacra rappresentazione del pensiero, il pensatore interpreta contemporaneamente le parti del protagonista e dell’antagonista. Egli è insieme Prometeo sofferente e l’aquila spietata che consuma le sue viscere perpetuamente rigeneratesi»3. L’originalità speculativa di Cioran è negata poiché il suo ruolo è ricondotto a livello degli epigoni; in tal caso l’originalità è attribuita a F.W. Nietzsche, in quanto «egli viene dopo Nietzsche, il quale presentò quasi interamente la sua stessa posizione un secolo prima»4. La questione permette di stabilire una distinzione a proposito della quale si può dire che «se Nietzsche voleva dominare la propria solitudine morale, Cioran vuole dominare il difficile. Non che i suoi saggi siano di ardua lettura, ma il loro fondo morale, per così dire, è la rivelazione incessante della difficoltà»5. Su tale linea, la contraddittorietà e l’oscurità delle sue composizioni pone dubbi sul significato e sulla validità dello scrivere, mentre la filosofia è collocata nel confine fragile che separa la normalità dalla follia. Ciò sempre in uno stretto legame tra il pensatore romeno e il filosofo tedesco. A proposito del concetto di decadenza, il nostro interprete riconduce, ancora una volta la questione ad un ambito culturale più ampio, che investe l’intero pensiero europeo. Così «nonostante tutto il suo disprezzo per la fiacchezza e per il destino provinciale della

2. Ivi, pp. 69-70. 3. Ivi, p. 70. 4. Ibid. 5. Ivi, p. 71.

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civiltà di cui fa parte, Cioran ne è anche un dotato elegiaco. Forse uno degli ultimi elegiaci della “morte d’Europa”: della sofferenza europea, del coraggio intellettuale europeo; del vigore europeo, della supercomplessità europea»6. Da un punto di vista politico la situazione è più chiara e nonostante le oscillazioni della critica che stabiliscono le preferenze, a volte a destra ed altre volte a sinistra, è sottolineato che «politicamente Cioran deve essere definito un conservatore. L’umanesimo progressista per lui non è assolutamente una proposta realizzabile o interessante, e la speranza in una rivoluzione radicale è una posizione che la mente matura finisce per superare»7. Anche in merito alla storia, l’affinità tra i due pensatori, F.W. Nietzsche e Cioran, appartenenti rispettivamente a due secoli diversi, è conservata soprattutto per l’opposizione allo storicismo; «ancora una volta non si insisterà mai troppo sulla discendenza di Cioran da Nietzsche. Per entrambi la critica delle “verità” è intimamente legata all’atteggiamento verso la “storia”»8. Pertanto, una volta che è «riconosciuto che l’impronta di Nietzsche è rintracciabile sia nella forma del pensiero di Cioran, sia nei suoi atteggiamenti principali, si deve dire che egli assomiglia a F.W. Nietzsche soprattutto nel temperamento. È questo temperamento, questo stile personale che ha in comune con F.W. Nietzsche, a spiegare i collegamenti riconoscibili nell’opera di Cioran tra materiali disparati quali: l’importanza data al vigore di un’ambiziosa vita spirituale; l’aspirazione al dominio di sé attraverso il “pensare contro se stesso”; le ricorrenti tematiche nietzschiane della forza contrapposta alla debolezza, della salute contrapposta alla malattia; lo sfoggio crudele e a volte stridulo dell’ironia (parecchio diverso dal rapporto dialettico, quasi sistematico, tra ironia e serietà che si osserva negli scritti di Kierkegaard); le preoccupazioni per la lotta con la banalità e la noia; l’atteggiamento ambivalente verso la vocazione del poeta; 6. Ivi. p. 74. 7. Ivi, p. 76. 8. Ivi, p. 79.

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l’attrazione seducente ma sempre respinta della coscienza religiosa; e naturalmente l’ostilità verso la storia e verso quasi tutti gli aspetti della vita “moderna”»9. Emergono dei significativi dualismi introdotti dal pensatore romeno, a volte per giustificare le contraddizioni e altre volte per avvalorare l’assurdo sottolineato dall’ironia. L’interprete in questione si riferisce ad un’ipotizzata forma di platonismo che risulta chiaro dall’«antitesi tra tempo e eternità, tra mente e corpo, tra spirito e materia; nonché altre più moderne tra vita e Vita, tra essere e esistere»10. In tale prospettiva, la conclusione è che Cioran appartiene ad una specie di teologia laica nella quale il pensiero cristiano viene esaminato per contrasti, come avviene in F.W. Nietzsche. Il nostro pensatore ama il successo, esalta la follia e interpreta simbolicamente la malattia e in politica è un conservatore reazionario che si colloca volentieri a fianco di J. de Maistre. Le sue riflessioni sul misticismo e sul pensiero religioso orientale assolvono in lui lo scopo di aprire in una solitudine aristocratica, gli orizzonti negativi del vuoto e del nulla.

3. Alcuni pensatori a confronto Mario Martini, nel suo volume Forme dell’impegno morale. Sartre, Adorno, Cioran11, dedica una parte al nostro pensatore, caratterizzando la sua dottrina come una delle espressioni significative della filosofia morale del Novecento. Per una collocazione critico-interpretativa del pensatore romeno nella storia della filosofia contemporanea, Martini si riferisce ad una tradizione consolidata, ricordando che «tra i primi critici ad occu-

9. Ibid. 10. Ivi, p. 80. 11. M. MARTINI, Forme dell’impegno morale. Sartre, Adorno, Cioran, Porziuncola, Assisi 1991.

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parsi del primo libro pubblicato in francese dal romeno Cioran vi fu Claude Mauriac. Recensendo nel 1950 il Précis de décomposition, egli poneva Cioran in quel filone di pensiero che lega la grandezza umana al senso della inutilità della vita: da Qoelet all’uomo come “passione inutile” di Sartre, da Kierkegaard a Kafka, dai pensatori accomunati da quel tratto che Jean Wahl ha individuato nella hegeliana conscience malheureuse, fino ad Albert Camus. All’interno di questo filone egli vede particolarmente affini tra loro il Cioran della decomposizione e il Camus del Mito di Sisifo»12. Questo interprete corregge l’indirizzo critico tenendo presente l’interesse apparentemente ingiustificato, che il pensatore romeno manifesta per la filosofia religiosa di Gabriel Marcel. A tal proposito, così caratterizza questa situazione: «Per Cioran la posizione di Marcel è legittima in quanto è un moto di rivolta contro le anomalie del presente, contro un uomo che è diventato la caricatura di se stesso»13. L’interesse di Martini concentra l’attenzione sull’opera di Cioran a partire da una duplice linea interpretativa che, da un lato, si concentra su un’opera specifica del pensatore romeno e, dall’altro, sottolinea il rapporto tra questa filosofia e altre posizioni di pensatori europei ritenute affini. «Il Précis de décomposition può essere considerato, con le sue proprie modalità di analisi che si è cercato di anticipare, una vera e propria teoria della decomposizione, e richiama il noto paragrafo della Dialettica negativa di Adorno sulla “logica della disgregazione”. Si tratta di una medesima situazione storica che costituisce l’oggetto di attenzione dei due autori pur così lontani tra loro»14. L’elemento centrale di questa filosofia è rappresentato dalla negatività sottolineata attraverso la decadenza; «Cioran inizia con la “genealogia del fanatismo” ma poi finisce con l’enfasi del contingente, della situazione momentanea scambiata per assoluto»15. 12. Ivi, p. 229. 13. Ivi, p. 233. 14. Ivi, pp. 234-235. 15. Ivi, pp. 238-239.

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Da un punto di vista esistenziale, emerge il vissuto solipsistico delle riflessioni, per cui la definizione più naturale della sua filosofia pone l’accento sull’incomunicabilità che, per certi aspetti, dipende dall’incapacità di far partecipare gli uomini alle proprie sofferenze ma, per altri, deriva dalla volontà di escludere gli uomini stessi dal mondo privato della coscienza soggettiva. Quindi «Cioran è un apologeta dell’incomunicabile, un sostenitore dell’incomunicabilità della letteratura e almeno in ciò si contrappone a Sartre»16. In una prospettiva di natura metodologica, il carattere asistematico del nostro pensatore si rivela attraverso la rinuncia ad ogni dimostrazione di ordine logico, in un procedimento nel quale tale rinuncia investe anche la definizione nella sua semantica espositiva. Perciò, «per Cioran la coscienza critica si pone come un cimitero di definizioni dove la dimostrazione dell’insufficienza della precedente è la base dell’affermazione della seguente. E qui potremmo trovare d’accordo anche Popper con la teoria del falsificazionismo, ma non con quanto segue e cioè che questo rende ogni definizione non solo insufficiente ma inutile»17. La negatività investe l’ambito del filosofare che comprende tanto la sua semantica, quanto la sua struttura. La conclusione è quella di un pessimismo sistematico perseguito in tutte le forme e accompagnato da un’intenzionalità costante orientata al suo approfondimento. Pertanto, «il pessimismo storico di Cioran, oltre a quello teoretico, parte dalla constatazione che è del tutto insensato accordare interesse alle discussioni sulla democrazia e le sue forme, non meno di quanto nel medioevo fiorirono le dispute sul nominalismo e il realismo»18. L’itinerario si approfondisce in una consequenzialità dialettica che, nonostante la frammentarietà espositiva, recupera un’unità di fondo, sia pure di carattere singolare. «Per Cioran la vita, che ha

16. Ivi, p. 240. 17. Ivi, pp. 240-241. 18. Ivi, p. 251.

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sostituito il niente, è a sua volta sostituita dalla storia, nient’altro che un susseguirsi di non senso»19. Il suo razionalismo trae ispirazione dalla metodologia che N. Machiavelli utilizza sul piano delle considerazioni storico-politiche. Da tale punto di vista, Martini pone in rilievo come Cioran sia orientato ad esaltare il ruolo di N. Machiavelli nel pensiero moderno, sottolineando che «la prima cosa che salta agli occhi di Cioran è il fatto che la posizione di Machiavelli non fu recepita, anzi fu avversata nel Settecento e nell’Ottocento. Questo perché in quei secoli veniva affermandosi un’idea dell’uomo universale sotto il segno della razionalità»20. La prospettiva illustrata enfatizza l’interpretazione tradizionale che traduce il pensiero di N. Machiavelli nel machiavellismo, vale a dire, in un atteggiamento di ordine generale, capace di porre l’accento sulla prosa utilitaristica delle vicende umane. Così, «per Cioran ciò che rende interessante la figura di Machiavelli, la sua fisionomia intellettuale, è la sua ostilità ad ogni utopia poiché egli non crede in altro che nel dato, nell’esperienza, nel fatto, non guardando ad uno Stato ideale ma alla “relatività delle fluttuazioni storiche”»21. Su questo piano emerge l’occasione di puntualizzare il carattere, essenzialmente scettico, della posizione espressa dal filosofo romeno e ciò viene criticamente rapportato al razionalismo privo di ideali espresso da N. Machiavelli. In tale orizzonte, la conseguenza è quella che «Cioran nota come Machiavelli sia troppo scettico per sottoscrivere una morale “esemplare” o per “abbassarsi alla fatuità di un gesto eroico”, e, con una certa ironia, come forse sia stato giusto che l’apologeta della Ragion di Stato ne fosse anche la vittima»22.

19. Ibid. 20. Ivi, p. 257. 21. Ibid. 22. Ivi, p. 261.

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4. Il pessimismo etico nella storia umana Da quanto detto nel precedente paragrafo deriva che la storia si dissolve e la filosofia della storia assume il carattere di una teologia della storia, rientrando in quella tradizione giudaico-cristiana, sottoposta da Cioran a critiche decostruttive che gli impongono di distaccarsene radicalmente. Quindi, è chiaro che «per Cioran ogni filosofia della storia si ricongiunge ad una teologia della storia: Bossuet, Hegel, Marx sono accomunati nella logica immanente al divenire, nel significato complessivo che scorgono nella storia in quanto tale»23. Il passaggio determinato dalla caduta della filosofia della storia in teologia della storia comporta l’integrazione, assurda per un pensiero logicamente dimostrativo ma perfettamente coerente per Cioran, tra la concezione di N. Machiavelli e quella di J. de Maistre, il quale ultimo è un altro degli autori prediletti dal filosofo in esame. Siamo di fronte ad un’occasione particolarmente propizia per introdurre nella storia il concetto di Provvidenza e, nel contempo, per svalutarne la sua semantica filosofica. Perciò, «Cioran sottolinea la contraddizione in cui cade il savoiardo, messo nell’impossibilità di conciliare l’onnipotenza divina con la libertà umana. Egli nota come il suo autore usi il termine “divino” per indicare la sovranità, la monarchia ereditaria, il papato, insomma tutte quelle cose e istituzioni esecrate dal pensiero liberale. Ma per Cioran “divino” equivarrebbe ad “irrazionale”; se in de Maistre si sostituisse quel termine con quest’ultimo, ne verrebbe attenuata la qualità scandalosa di un pensatore così virulento»24. J. de Maistre assume su di sé, all’interno delle riflessioni di Cioran, il ruolo di un difensore di Dio, in una situazione in cui l’amore-odio per le posizioni religiose costituisce una regola inconsueta e costante, a cui il nostro autore rimane fedele. 23. Ivi, p. 264. 24. Ivi, pp. 265-266.

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L’ammirazione professata esplicitamente da Cioran per la concezione di J. de Maistre trova giustificazione nell’intenzione di esaltare il pensiero reazionario nella sua forza e nella sua inattualità nel mondo contemporaneo. La conseguenza può essere espressa nei termini seguenti: «Il pensatore romeno, in questo suo saggio sul pensiero reazionario, ci dà un’analisi acuta dell’essenza di tale pensiero che viene riassunto nella posizione di de Maistre il quale “oppone alle indiscrezioni dello spirito critico i veti dell’ortodossia”»25. A partire dall’itinerario di J. de Maistre attraverso i concetti di Provvidenza e di Male, si torna a riflettere sull’immagine di Dio e, a tal proposito, Cioran stabilisce la sua distanza rispetto alla posizione di J. de Maistre. «Cioran nota che il Dio di de Maistre è il Dio dei profeti che lo stesso Cioran considera “assorbito dal tempo, traditore dell’eternità, assolutamente esteriore e superficiale”. Egli invece è per il Dio del mistico, un Dio dei soliloqui e delle lacerazioni interiori»26. Martini si riferisce ad una delle opere fondamentali del nostro pensatore, ritrovando in questa l’essenza e lo sviluppo del suo pensiero. Del resto, Cioran molto spesso nelle sue opere ripercorre itinerari simili e puntualizza concetti del medesimo tipo. La posizione dl nostro interprete viene precisata in questi termini: «Il Précis de décomposition è il libro che, ricostruendo la “genealogia del fanatismo”, distrugge ogni speranza e credenza dell’uomo. In esso si prepara, attraverso la sfiducia nella storia e il pessimismo etico, una visione di disimpegno totale che si può cogliere anche nell’esposizione non sistematica, volutamente antifilosofica, ma che, come s’è cercato di dimostrare, non è invece aliena dal fare i conti con tutta una tradizione di pensiero, da Nietzsche a Bergson, fino al dialogo con Gabriel Marcel»27. Nonostante l’avversione che Cioran nutre nei confronti del ruolo assunto e rivendicato dagli ebrei nella storia umana, egli si riferi25. Ivi, p. 270. 26. Ivi, pp. 271-272. 27. Ivi, p. 274.

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sce a questo popolo per evocare la condizione tragica dell’umanità; «nel cuore del giudaismo Cioran scorge il tragico, a livello di evento in tutta la storia d’Israele e a livello di massima coscienza ed espressione in Giobbe, il “Prometeo biblico”, che lotta con Dio e lascia come retaggio ai suoi la lotta con gli uomini»28. Quella dell’ebreo diviene una figura paradigmatica per caratterizzare la condizione assurda e tragica dell’umanità nella storia, perciò «Cioran assegna un significato paradigmatico al popolo ebraico nella vicenda e nella lettura della condizione umana, che è poi un modo come un altro per dire che non solo “per la loro sorte”, ma per quella di tutti «soluzioni non esistono: restano gli accomodamenti con l’Irreparabile»29. L’itinerario critico elaborato da Martini segue questa linea ermeneutica, diretta a stabilire un’unità nei luoghi in cui le opere del filosofo che stiamo analizzando, evidenzierebbero soltanto frammenti. In particolare, possiamo tenere presente questo tentativo di sintesi, per cui Cioran viene significativamente definito da C. Mauriac come metafisico del nulla. Egli nella sua religiosità inquieta approdante ad un nichilismo scettico dialoga con G. Marcel ispirandosi ad un esistenzialismo problematico. La storia è una continua disfatta degli assoluti ed in questo quadro Cioran scambia la crisi contemporanea con il destino storico; così nasce la sua teoria della decadenza e, per lui, la storia è nonsenso. La sua profezia e la sua antifilosofia sono un’esplosione della soggettività, anche il linguaggio si impoverisce e la semantica della parola decade istaurando nel mondo l’incomunicabilità assoluta. Da tale punto di vista, traggono origine le contraddizioni sistematiche dei suoi aforismi. Cioran sottolinea, a proposito di N. Machiavelli, la presenza e l’importanza dell’anti-utopia, infatti è il suo realismo storico, che trae ispirazione da Tito Livio e da Tacito, ad essere la radice dell’immoralismo scettico, in cui figure come quella di Marco Aurelio 28. Ivi, p. 293. 29. Ivi, p. 294.

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diventano eccezioni mentre Tiberio e Caligola diventano modelli, oggetti di ammirazione e N. Machiavelli si identifica con la ragion di stato. Cioran sottolinea, a proposito di J. de Maistre, che il pensiero reazionario si basa sulla forza e su una religione del Dio dei profeti nonché della divina Provvidenza; da ciò emerge la presenza del male nel mondo giustificata dalle teodicee tradizionali. Il nostro pensatore, invece, si rivolge al Dio dei mistici ed è sconcertato dalla presenza del male la cui responsabilità egli attribuisce direttamente all’essere divino. In questa forma di agnosticismo si delineano alcune contraddizioni tra le quali la più significativa è l’esaltazione della forza reazionaria, da un lato, cui si accompagna, dall’altro, la professione di scetticismo. Cioran esprime un radicale pessimismo nei confronti della storia umana dove la Provvidenza scompare e la libertà si chiude nell’individuo. Il suo approdo nichilistico nei confronti della storia umana esprime un criticismo radicale sostenuto dall’idea che ogni filosofia della storia è sottesa da una teologia della storia. Pertanto, poiché egli nega la seconda, perde il suo senso anche la prima: la storia è governata dal non-senso radicale. Cioran applica le sue concezioni relative alla decadenza nella storia alla Romania che, dopo l’instaurazione del regime sovietico, diviene l’espressione metaforica della patria lontana che, travolta in istituzioni politiche oppressive, viene caratterizzata attraverso la simbolica del male. Per il nostro pensatore, esule metafisico, la disfatta della condizione umana non approda al nulla bensì rimane nell’essere per negarlo. In questo caso l’ebreo, non il cristiano, viene da lui difeso quale simbolo tragico dell’umanità sofferente. Questo popolo si trova unito nella perdizione senza alcuna speranza nella salvezza.

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5. Per una metafisica della regressione Anna Maria Tripodi, nel suo volume dal titolo Cioran, metafisico dell’impossibile30, fornisce un’interpretazione filosofica del pensiero di Cioran, compiendo il tentativo di riordinare i suoi spunti esistenziali, di carattere meditativo, in una visione interpretativa che si propone di dare un’immagine concettuale alla posizione espressa. Il problema fondamentale diviene quello della metafisica o, meglio, di quale metafisica sia possibile all’interno di un pensiero negativo, quale è quello del nostro autore. Di conseguenza, «Tutto ha l’aria di esistere e nulla esiste, tutto è irreale: questo è l’asserto metafisico cioraniano. Non serva però sapere che si è nulla, occorre convincersene veramente»31. Sul piano della consapevolezza del vivere Cioran, a proposito del peso esistenziale e della negatività ribelle del corporeo, esprime una concezione rispetto alla quale si può dire che: «In ciò appare consentaneo a Baudelaire, Swift, Buddha. A noi, una tale visione ricorda lo stadio che Sciacca chiamava della “libertà incatenata”. Indubbiamente non è propria dell’uomo una libertà totale; essa è condizionata, come condizionato è tutto il suo essere, ma tale è il grado di autonomia a lui concesso»32. In questo quadro, la libertà emerge nel suo carattere esistenziale ma anche nel significato di sfida e di ribellione, pertanto «libertà per Cioran è la libertà di se stessi, processo di liberazione e di distacco che non può che partire da sé, rinuncia a “diventare qualcuno o qualche cosa”, esercizio quotidiano di riconoscimento del proprio niente. Occorre essere superiori agli esseri alle cose a se stessi, restii a lasciarsi irretire dal mondo e così, attraverso il sacrificio della propria identità, si potrà conseguire la libertà indisgiungibile dall’“anonimato” e dall’“abdicazione”»33. 30. A.M. TRIPODI, Cioran, metafisico dell’impossibile, Japadre, L’Aquila

1987. 31. Ivi, p. 25. 32. Ivi, p. 27. 33. Ivi, p. 28.

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Il contesto filosofico in cui ci si muove è così caratterizzato: per Cioran, alcuni autori del pensiero occidentale assumono un valore paradigmatico di simboli rappresentativi e problematici della nostra cultura. Rispetto a questi possiamo condividere l’idea in base alla quale «l’esercizio all’indifferenza aiuta, anche se non è il caso di essere troppo fiduciosi perché secoli di attenzione al tempo e di idolatria del divenire hanno inevitabilmente segnato l’uomo, specie quello occidentale, figlio di un’epoca moderna iniziata con due isterici: Don Chisciotte e Lutero. Saggezza e ribellione sono ancora splendide illusioni, incapaci di fornire la formula della salvezza; Rimbaud e Nietzsche sono invece esempi di ingegni eccezionali che si sono distrutti per dare un senso alla loro vita»34. L’elemento fondamentale rimane quello della metafisica, attraverso la quale la nostra interprete valuta il pensiero di Cioran, confrontandolo con quello degli autori che ne sono stati i suoi maggiori critici. Ciò viene espresso attraverso questo sintetico itinerario speculativo. «Viene così delineandosi una metafisica della regressione, per la quale la resistenza al proprio annullamento suona come una imperdonabile scortesia verso se stessi. Ma è proprio sulla possibilità/volontà dell’annullamento che c’è da discutere, è proprio la eventualità incessante di fallimento dell’incarnazione dell’“uomo-all’infuori-di-tutto” che giustifica il nostro interrogativo: Cioran, metafisico dell’impossibile? “Provocante e indisponente” per Popescu, “squartatore misericordioso” per Ceronetti, “Pascal senza religione” per Mauriac, “metafisico antimetafisico” per Nejera, Cioran attinge le profondità metafisiche della psicologia umana, viviseziona l’uomo ma, “non distante, non eterico, non enigmatico” è amico che porge la mano, confida ciò che pensa, confessa i propri vissuti. Torna di continuo alle radici dell’esistenza dell’uomo e del mondo, ne denuncia l’inconsistenza, ma ne rimpiange l’innocenza»35.

34. Ivi, p. 29. 35. Ivi, p. 32.

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I termini della questione si spostano sul nucleo esistenziale del pensiero speculativo, infatti, «non compiamo alcuna forzatura del pensiero di Cioran se rammentiamo che accanto all’asserzione categorica secondo la quale esistere non ha nessun senso permane la formulazione per la quale esistere “equivale a un atto di fede, a una protesta contro la verità, a una preghiera interminabile […]”, e non si comprende perché, alla fine, la fede, la verità, la preghiera non possano avere il sopravvento sul fantasma del nulla»36. Il pensiero negativo conduce Cioran a disgregare, svalutandole, le diverse componenti dell’umanesimo speculativo; il primo attacco è diretto al contesto storico nel quale l’uomo colloca i suoi tentativi di miglioramento dell’esistenza. Perciò, «la prima connotazione cioraniano della civiltà è quindi negativa; essa costituisce una delle tante illusioni che incitano l’uomo alla vita, allontanandolo dalla sua autentica realtà, rendendolo in altri termini smemorato e convincendolo di avere degli scopi da raggiungere»37. Su questo piano, la natura e la cultura sono accomunate nel medesimo orizzonte negativo, per cui, «ciò non toglie che il giudizio di Cioran accomuni, nella sua negatività, ogni forma di civiltà, responsabile, sempre e dovunque, di distogliere gli uomini dal proprio nulla. Anche la natura è corrotta, ma la sua corruzione risale ai primordi del tempo, ha origine con esso, è un male inevitabile; la civiltà, per contro, implica una “corruzione tardiva”, è un male di importazione al quale, per giunta, ci si sforza di adeguarsi, nella speranza di trarne benefici»38. In quest’ordine d’idee, è tutta l’umanità ad essere coinvolta nella spirale della negatività, infatti, «nel saggio Portrait du civilisé Cioran definisce “sospetto” l’interesse del “popolo civile” nei confronti del “popolo atterrato”; consapevole che ormai la civiltà, frutto della sua follia creativa, è un castigo del quale è il solo responsabile, ma di cui non sa più fare a meno, esso invidia le chances di quanti non 36. Ivi, p. 36. 37. Ivi, p. 38. 38. Ivi, p. 39.

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sono ancora evoluti, prova il rancore del temerario sconfitto ed avvilito e non sa fare di meglio, per placare il proprio risentimento, che coinvolgere gli altri nella propria disgrazia»39. La critica investe tanto la realtà quanto gli ideali e dalla civiltà passa al concetto di patria in una costante crescita di un processo di destrutturazione di ogni forma di illusione, prodotta tanto sul piano del pensiero quanto sul piano dei valori. Perciò, «la civiltà, esaltante al momento del suo sorgere, umiliante nel suo decadere distoglie l’uomo da se stesso, la “patria” lo incatena e contribuisce a fornirgli una sicurezza fallace. Questa la critica fondamentale di Cioran, che pur tuttavia ha il gusto delle letture storiche ed un profondo interesse per l’accaduto storico perché, a suo dire, ogni avvenimento non esiste che in vista della sua fine»40. La questione della decadenza viene presa in considerazione in tutta la sua portata destrutturante e in tutti gli aspetti che la accompagnano, pertanto, «torna anche in Cioran il tema della crisi, decadenza, morte della civiltà occidentale che, a partire da Hegel, ha affascinato molti scrittori, seppure sotto risvolti ed in prospettive ampiamente diversificate. Se la lezione di Nietzsche suona come denuncia del nichilismo della cultura dell’Occidente conseguente alla perdita dell’essere ed alla morte di Dio; Spengler ha quale principale referente la civiltà tedesca o faustiana; Schubart riconduce la civiltà occidentale a quella anglo-nordica-tedesca già in fase di decadenza; Sciacca inserisce la critica dell’Occidentalismo nel più ampio discorso della storicizzazione della “stupidità”»41.

6. Il cristianesimo e la storia L’elemento più esplosivo dell’intera questione è dato dall’analisi del fatto religioso di cui, per Cioran, il cristianesimo è il maggiore 39. Ivi, p. 42. 40. Ivi, p. 44. 41. Ivi, p. 47.

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bersaglio, «lo scrittore romeno che, soprattutto ne I nuovi dèi, si propone di redimere Dio, di salvarlo, di scagionarlo dalle malefatte dell’universo, compie una spietata analisi del cristianesimo responsabile, a suo parere, di essersi servito “del rigore giuridico dei romani e dell’acrobazia filosofica dei greci non per affrancare ma per incatenare lo spirito”, e ne denuncia nel contempo la crisi»42. L’attenzione si concentra sul divino quale elemento responsabile di ogni conseguenza, anche di ordine negativo, che caratterizza la presenza delle istituzioni religiose nella storia umana, «con Dio Cioran fa continuamente i conti; si tratta di un rapporto conflittuale che male accetta l’esistenza del tramite della fede e fortemente critica lo sforzo di conciliazione Dio-creatura compiuto dalla Chiesa»43. La nostra interprete accomuna hegelianamente i popoli agli uomini eccezionali, così la responsabilità storica dei primi è parallela a quella dei fondatori delle religioni, «se i popoli giovani hanno la funzione di decretare la fine delle civiltà esauste per farne rinascere altre dalle loro ceneri; eretici e mistici sono, per lo scrittore romeno, conditio sine qua non per la vitalità del cristianesimo e della Chiesa. È pur vero che questi personaggi finiscono per riproporre nuove illusioni, ma almeno agiscono istintivamente, con entusiasmo e non ragionevolmente, per calcolo o per apatia. Sono più vicini alla vita proprio perché, non interessati ai meccanismi della conoscenza, la loro condizione è analoga allo stadio della “vera innocenza” antecedente la caduta dall’eternità nel tempo»44. La conclusione dell’analisi della negatività, all’interno del pensiero di Cioran, approda alla riflessione sulla storia umana, «anche la storia, come già la civiltà, si connota negativamente agli occhi di Cioran, nonostante e forse proprio in relazione alla sua passione per l’accaduto storico […] l’uomo è in pericolo non quando si distoglie dalla vita, bensì allorché vi si immerge e in essa si sistema 42. Ivi, p. 51. 43. Ivi, p. 52. 44. Ivi, p. 55.

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comodamente. Un siffatto atteggiamento è deprecabile in quanto, privando l’individuo della capacità di diffondere attorno a sé una vaga irradiazione funebre e di lasciare al suo passaggio una traccia di soffusa melanconia e quasi nostalgia di momenti lontani, lo inserisce e lo precipita in quella forma si sotto-zoologia che è la storia umana, che pretende di avere uno scopo così come l’uomo avrebbe un destino»45. La questione si caratterizza con un riferimento ad autori che, sia pure nella loro inconciliabile distanza filosofica, vengono accomunati in un’affinità a volte eccessiva e inconsueta, «da un simile punto di vista, un Bossuet, un Hegel, un Marx, per il fatto stesso che ricercano un senso negli avvenimenti, appartengono ad una medesima famiglia; poco importa se elaborano una concezione teologica o metafisica o connotabile in termini di materialismo storico, si tratta pur sempre di forme diversificate di “provvidenzialismo”, laddove per provvidenzialismo si intende l’attribuzione di un significato al processo storico»46. Ne deriva un’antropologia nichilista in cui «nella visione cioraniana l’uomo non solo rimane “irrimediabilmente prigioniero” della propria natura e della caduta originaria, ma deve altresì la sua stessa caduta ad una tara a lui connaturale. Nella critica che rivolge al pensiero di de Maistre risulta chiaramente come il peccato originale sia inteso da Cioran non nei termini di una “trasgressione primitiva”, ma in quelli di un vero e proprio “vizio di natura”»47. Cioran privilegia l’antico al moderno e compie il tentativo di riattualizzare il pensiero delle origini per dare ragione delle questioni presenti nella nostra cultura, «le tre narrazioni – biblica, esiodea, gnostica – nella interpretazione cioraniana, consentono alcune riflessioni: a) la storia è eminentemente storia umana, nella duplice accezione che è fatta dagli uomini e che l’uomo è alla sua origine; b) essa è una condanna, non solo in quanto punizione per una qual45. Ivi, pp. 59-60. 46. Ivi, p. 60. 47. Ivi, p. 61.

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che mancanza dell’uomo, ma in sé, in quanto decadimento rispetto all’unità primitiva ed all’eterno presente primigenio; c) implica quindi la molteplicità parcellizzata ed il tempo; è una condanna al tempo, all’azione, alla scelta, in altri termini all’esteriorità»48. L’essenza del negativo è connaturata alla condizione umana e la prima forma della negatività stessa consiste nell’inconveniente di essere nato, il male di esistere diviene il nucleo della filosofia cioraniana, «si va così delineando con sufficiente chiarezza una critica spietata all’impiego dell’uomo nel mondo, logica e coerente conseguenza della visione cioraniana della vita. L’azione è condannata in termini radicali ed onnicomprensivi, per se stessa; non si tratta di un salutare ridimensionamento degli engagements alla moda, non ci si limita al biasimo per la mondanità dimentica della dimensione verticale dell’uomo, non si commisera la stupidità umana incapace di “vedere” le cose, l’interiorità, Dio, non siamo, in altri termini, di fronte ad una critica positiva o in positivo. La condanna coinvolge tutto e tutti perché l’uomo non ha il diritto di esistere»49. Cioran, nel sottolineare la negatività della storia e l’illusorietà dell’utopia, propone una metafisica del regresso nella quale il ritorno alle origini non è il ritorno ad un paradiso perduto, bensì la sottolineatura delle radici della negatività cui soggiace l’intera avventura dell’umanità. Da ciò dipende la destrutturazione di ogni ideale anche qualora questi si convertano nella forma di pura e semplice illusione, «si tratta di un’operazione diabolica; non sarà l’illusione a salvare l’uomo, per Cioran, ma la presa di coscienza del proprio nulla oppure […] che l’utopia faccia il gioco del Diavolo è esplicitamente e chiaramente affermato e spiegato in poche righe»50.

48. Ivi, pp. 65-66. 49. Ivi, p. 69. 50. Ivi, p. 73.

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7. Un futuro senza salvezza Dopo l’analisi dei problemi che comporta la questione del cristianesimo, quella dell’utopia e quella delle affinità e differenze tra rivoluzione e tradizione, la nostra interprete si rivolge alla questione di fondo che investe il pensiero negativo, vale a dire, quella di un futuro impossibile ed altamente interrogativo. Il suo tentativo è quello di tener conto della psicologia esistenziale di Cioran, per ricondurre la tragedia disperata del filosofo romeno, in una speranza, sia pure paradossale e fortemente problematica, nei confronti di un futuro negativo nel mondo e tematizzabile sul piano ulteriore. «Con Cioran, anche noi riteniamo che l’avvenire appartenga alla “periferia del globo”, e ricordiamo come tale fosse anche la convinzione di Sciacca. A differenza di Cioran, non ci compiacciamo della decadenza, perché la nostra accezione della creazione ci consente di guardare avanti, ad un futuro trans-storico, che non annullerà il tempo storico, bensì lo incererà. Questa serenità di fondo che può accompagnare solo chi parte da certi presupposti è preziosa, però, per comprendere il dramma intimo di un uomo sensibile come Cioran»51. La questione del futuro emerge nella sua negatività attraverso l’atteggiamento di radicale sfiducia che Cioran nutre per le questioni della politica, «l’azione politica è un non-senso nell’economia del discorso cioraniano, se non altro perché toglie la speranza di “smentire il futuro”, essendo tutta proiettata nel futuro. Ma i popoli si stancano ben presto della “gente normale”, indifferente al passato ed all’avvenire, insediata nel presente senza rimpianti o speranze; una situazione del genere li annoia e così la storia si connota come “prodotto sanguinante del rifiuto della noia”, in cui predomina la “volontà di potenza” di pochi sulla stupidità dei molti»52. L’avventura del negativo di Cioran, che condanna la storia, biasima il tempo e nega l’utopia, si iscrive nel senso dell’originario, da 51. Ivi, p. 82. 52. Ivi, p. 83.

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cui il reale, allontanandosi, precipita nella decadenza e nella radicale caduta di senso di ogni aspirazione umana, «se il solo rimedio per i mali dell’uomo è la guarigione dal mondo e dal tempo, “distacco” e “decadenza” rappresentano i gradi preparatori di quell’accesso ai primordi ove, solamente, l’uomo troverà gli elementi della propria salvezza che gli consentiranno di “riscattare” con una storia vissuta sotto l’egida dell’albero della vita, una storia nata all’insegna dell’illusione della conoscenza»53. Vengono poste in luce le figure cioraniane di ordine paradigmatico che, nel tempo e nella storia, superano il tempo e la storia, «la visione della nullità del tempo è all’origine di due figure – i “santi” ed i “poeti” – plastica espressione dell’“uomo a vocazione metafisica”, raro a trovarsi, per quanto gli elementi della sua vocazione siano virtualmente presenti nell’umanità intera»54. Le figure paradigmatiche da lui privilegiate rappresentano un’eccezione nel tempo e nella storia anche nei confronti della negatività tipica della condizione umana, «nella visione cioraniana santi e poeti – degni rappresentanti dell’“uomo interiore” – occupano una posizione avanzata rispetto all’umanità in quel cammino di progressivo distacco, teso a fare scomparire anche le tracce di quello scandalo, il più grave e intollerabile di tutti, che è la nascita, origine di ogni forma di attaccamento, in quanto attaccamento essa stessa»55. Cioran è innamorato della decadenza e convive con un certo compiacimento con il negativismo della civiltà contemporanea, la sua caduta dal tempo e il suo abbandono della storia si accompagnano ad un’esaltazione per la decomposizione. Di fronte alla negatività della storia e alla progressività regressiva della decadenza della civiltà umana, la nostra interprete riconduce i pensiero di Cioran ad un orizzonte di natura apocalittica, sostenendo che «si verificherà, in altri termini, quella salutare regressio53. Ivi, p. 85. 54. Ivi, p. 87 55. Ivi, p. 90.

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ne dell’umanità intera, propedeutica alla cancellazione della storia nella sua totalità; avrà così inizio una fase post-storica, preparata dalla progressiva decadenza dell’umanità, in cui il gioco che aveva regolato fino ad allora la successione delle civiltà avrà termine»56. Ne emerge l’affermazione paradossale di un futuro possibile al di là del tempo e a prescindere dalla caduta, futuro che viene interpretato dalla nostra commentatrice nei termini di una realtà, oggetto di una concreta speranza mentre, nell’opera cioraniana, è lo sviluppo interrogativo di un’illusione suscettibile di aprire il baratro di una delusione più profonda. La Tripodi si esprime in questi termini «un interrogativo è però presente negli scritti cioraniani: l’uomo post-storico si troverà a vivere in una situazione analoga od anche peggiorata rispetto alla preistoria, situazione frutto di una catastrofe, di un cataclisma finale o sarà capace di raggiungere in se stesso l’intemporale, cioè tutto quello che è stato soffocato in noi dalla storia?»57. La conclusione della nostra interprete è, nella sua apparenza contraddittoria, la seguente: «Se tutta la sua opera è un “febbrile ansioso annuncio della fine del mondo”, tuttavia – come abbiamo già avuto modo di sostenere – non è fondamentalmente apocalittico»58. Di fronte e in contrapposizione alle figure paradigmatiche positive, Cioran tematizza anche delle figure paradigmatiche, questa volta nell’ordine del negativo. Nella sua esaltazione della decadenza e nel suo tentativo di uscire dalla storia e dal tempo, valorizza, sia pure contrapponendole, le due figure del decaduto e del fallito, figure negative che nella loro diversità esaltano la miseria dell’uomo, in vista di una idealizzazione della fine che è poi null’altro se non il compiacimento vissuto di una caduta definitiva. In questa chiave negativa, la nostra interprete accomuna Cioran al filone critico degli autori che sottolineano la decadenza dell’Oc56. Ivi, p. 92. 57. Ibid. 58. Ivi, p. 96.

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cidente, «ecco perché, pur sognando le epoche barbariche e shakespeariane della storia, prevalentemente istintive, pur giocando con la religione e burlandosene, mai perde la sua “lucidità inesorabile” e la sua “chiarezza intellettuale” e come noi appartiene al lungo tramonto, alla inesorabile decadenza che sembra essere la vocazione dell’Occidente»59. La pensatrice sottolinea che «la eventuale possibilità di salvezza che Cioran adombra, ma sulla quale non esiste, non può teoreticamente configurarsi come la soluzione prospettata dal cristianesimo al problema dell’uomo e della storia, in quanto presuppone tutto un discorso di negatività ed una concezione spietata del tempo, ma apre uno spiraglio “rivoluzionario” nella visione di un amante della “Apocalisse”, che si diletta nel pennellare la catastrofe»60. A questo punto occorre riferirci alla tesi evidente, anche se implicita, che costituisce in certo senso l’ideale cioraniano così caratterizzabile per via ipotetica. «Si viene così delineando una ipotesi, che nel corso del lavoro abbiamo più volte adombrato, e che denomineremmo, per usare una terminologia cioraniana, “caduta consapevole dal tempo”. Dicevamo che ad essa Cioran non dedica molto spazio nei suoi scritti, ma lascia libertà di circolazione nella sua vita»61. La paradossalità della situazione, più che dell’evento ipotizzato, è altamente problematica e come tale è comunemente riconosciuta dalla critica, «se non avessimo presente il “lievito” nascosto cui fa riferimento C. Mauriac, non potremmo che sostenere con Cioran l’imminenza della “caduta dal tempo” nonché disperare della realizzabilità della “caduta consapevole dal tempo”. È chiaro che la posizione cioraniana è “squartatrice” e non può essere diversamente per un pensatore che ha il “gusto di scandalizzare e di irritare” e che ha dimostrato come pochi il proprio disprezzo per il cristianesimo»62. 59. Ivi, p. 97. 60. Ivi, p. 99. 61. Ivi, p. 101. 62. Ivi, p. 107.

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L’approdo critico della nostra autrice tende a sovrapporre nelle argomentazioni cioraniane il positivo della speranza al negativo della disperazione, con l’osservare che «Cioran, frequentatore di tutte le decadenze, non può non frequentare l’attuale, giunta ad un singolare “momento di prodigiosa disgregazione spirituale e storica”, ma la sua diagnosi è “spietatamente risanatrice”»63. L’orizzonte religioso da cui muove la nostra interprete è rivelato da questa osservazione «la lettura degli scritti cioraniani è sano antidoto contro i falsi nuovi déi dei quali parlavamo in precedenza: a Cioran è connaturale lo “spirito religioso” e, se non ha la fede, paradossalmente può aiutare a trovarla od a ritrovarla»64. La chiave interpretativa che l’autrice utilizza per valutare la produzione letteraria e filosofica di Cioran è quella della metafisica utilizzata per vagliarne i limiti e le possibilità della sua interpretazione filosofica asistematica del reale nel suo complesso. Da un punto di vista speculativo, la questione riguarda ancora una volta il problema dei generi del filosofare, problema che in realtà non preoccupa Cioran il quale nella sua fedeltà al pensiero asistematico rifiuterebbe qualsiasi determinazione di genere. Così si può sintetizzare la conclusione critica della nostra commentatrice: che Cioran sia filosofo è fuori discussione, la questione è piuttosto di attribuire o meno il carattere di metafisico al suo pensiero asistematico, letterario e comunque sempre artistico. Da un punto di vista stilistico, le espressioni aforismatiche, con l’ironia che le accompagna, costituiscono degli elementi fondamentali per far comprendere la fortuna di un pensatore schivo e solitario, «la presenza di Cioran nei propri scritti è costante – non a caso si dichiara “segretario delle proprie sensazioni” – ed è proprio lui il primo critico di se stesso; i suoi aforismi, apparentemente e spesso estemporanei, costituiscono un vaglio di singolare raffinatezza: a volte si ha l’impressione che sorrida di se stesso e che non si pren-

63. Ivi, p. 108. 64. Ibid.

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da sul serio, e questo dopo avere seguito implacabilmente sino alle estreme conseguenze il proprio pensiero»65. Nella prospettiva metodologica, lo stile meditativo costituisce già una scelta di ordine filosofico che ci permette di comprendere l’importanza degli itinerari esistenziali, «per Cioran non si può eludere l’esistenza con delle spiegazioni, la si può solo subire, amare, odiare, adorare o temere; non si comincia a vivere che sulle rovine della filosofia, allorché si è compresa la sua terribile nullità. No alla “mediazione” quindi, sì alla “meditazione”, ma quest’ultima è sconosciuta alla filosofia moderna che, in questo senso, nulla aggiunge a quella cinese, indù o greca»66. I critici, sia pure nella loro discordanza di prospettive, concordano nell’evidenziare dei caratteri di fondo ai quali Cioran rimane fedele in tutte le sue analisi filosofiche. L’elemento che le unifica è quello della negatività, anche se ne possiamo sottolineare degli aspetti differenziati, «abbiamo esordito chiamandolo, con Ceronetti, filosofo-artista, e su questa linea si trovano in maggioranza quanti si sono avvicinati a lui. Rigoni lo reputa “metafisico e psicologo implacabile”; Duvignaud considera la sua una “visione metafisica dell’esistenza”; Sigaux parla di lui come di un “filosofo fuori e contro la filosofia”»67.

8. La religione e la politica, problemi non risolti Il filosofo spagnolo Fernando Savater, nel suo volume Cioran. Un angelo sterminatore68, fornisce un’interpretazione sintetica ma particolarmente esauriente del pensiero di Cioran, problematizzandone i suoi elementi fondamentali. Ne risulta un’esposizione sistematica della sua filosofia che non disturba il carattere frammentario

65. Ivi, p. 112. 66. Ivi, p. 117. 67. Ivi, p. 118. 68. F. SAVATER, Cioran. Un angelo sterminatore, Frassinelli, Piacenza 1998.

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e asistematico a cui il pensatore romeno è rimasto fedele in tutta la sua trattazione. Il punto di partenza concerne lo stile espressivo e una rapida rassegna dei problemi essenziali, «Cioran è tanto filosofo quanto tutti gli altri: per la sua forma – di saggio o di aforisma, due delle più apprezzate da numerosi autori – e per i suoi temi: morte, esistenza, tempo, vita, Dio, storia, libertà»69. L’elemento caratterizzante il pensiero di Cioran, come risulta dalle nostre pagine, è costituito non dalla razionalità, ma dalla lucidità che ne costituisce la sua esasperazione esistenziale. Il nostro interprete sottolinea l’argomento con queste parole: «Ho scelto Cioran come prisma per mettere a fuoco la lucidità perché mi sembra un pensatore esemplare: nessuno ha assunto l’inutilità del discorso lucido con tanto fervore quanto lui»70. Dopo aver posto in evidenza il carattere asistematico del pensiero di Cioran, egli enfatizza l’atteggiamento, antifilosofico del pensatore romeno, «filosofare – almeno nella tranquillizzante accezione che si suole dare a questa parola e che non si adatterebbe a un Nietzsche o a un Unamuno – è evitare di vivere il pensiero fino al suo limite, non collocarsi alla punta estrema del sapere, non patire le idee, bensì soltanto usarle»71. In tal caso, non possiamo parlare né di umanesimo né di antiumanesimo ma di un’attenzione ai problemi dell’uomo, manifestata nel riserbo di una solitudine esasperata, «Cioran non aiuta l’Uomo; non lo lusinga né lo conforta; ma neanche si erge a suo giudice da una posizione di forza o di autocompiacimento; non si preferisce agli altri»72. Le sue critiche nei confronti della relazione sociale evidenziano una solitudine ricercata e sofferta, immersa nelle contraddizioni dell’amarezza e della ribellione e la lucidità del pensare viene favorita dall’ironia di un costante atteggiamento scettico. 69. Ivi, p. 3. 70. Ibid. 71. Ivi, p. 11. 72. Ivi, p. 14.

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In questo ateismo problematico si apre uno spazio ossessivo per le problematiche religiose, «Cioran dedica numerose pagine della sua opera a divagare sull’eterno tema della divinità, le religioni, le Chiese, i teologi e gli eretici, la fine del paganesimo […] Si sente più vicino al linguaggio di Tertulliano, Agostino o Pascal che a quello di Hegel o Husserl; lo affascina la lotta fra S. Paolo e Celso, mentre dubito di poter dire lo stesso della disputa sulla sociologia fra Adorno e Popper»73. Le questioni religiose vengono analizzate in tutti i loro aspetti, compresi quelli della liturgia e della teologia, per cui non possiamo parlare di uno spazio accogliente per la fede ma dobbiamo constatare che la preghiera e la contemplazione non lo abbandonano. Siamo di fronte ad una condizione tragica nella quale l’ossessione del divino è più disperazione che speranza. Ciò comporta che «quando parla della mistica o di Lutero è nel suo campo, e non per mancanza di capacità o conoscenze per opinare in altre materie; è che le ossessioni di ognuno si orientano come vogliono, non come desidererebbe chi le patisce. Il trascendente l’ossessiona; il fiammeggiare delle passioni inquisitoriali lo affascina; ha bisogno della Chiesa ancora più del credente, perché niente lo stimola quanto l’ortodossia; la sua vera vocazione è quella di eretico»74. Questa è la prospettiva di chi, avendo oltrepassato l’orizzonte della fede, conserva la nostalgia per una religiosità perduta nella quale «se si può parlare rispetto a Cioran di una nostalgia del cristianesimo è come puro rimpianto del fervore, ammirazione per quei giorni in cui l’artificio della fede funzionava, costituendo un nemico a sua misura […] Attualmente, Cioran vede nella Chiesa il rifugio del disinganno, non il pilastro più solido e stabile dell’illusione»75. C’è un fascino combinato tra cristianesimo e paganesimo, per cui la perdita del primo si accompagna alla nostalgia per il secondo, «Cioran, come Lucrezio, trema di rabbia davanti alla potenza 73. Ivi, p. 64. 74. Ivi, pp. 64-65. 75. Ivi, p. 65.

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di una frode le cui ripercussioni scopriamo all’interno di noi stessi cento volte al giorno»76. Il momento centrale della razionalità è per lui, come constatato più volte, la lucidità da considerare come una consapevolezza rigorosa dei problemi e dei vissuti, completamente disincantata e sfrondata da ogni consolazione delle illusioni. Savater osserva che «la lucidità non ha alcun programma di riforma universale né conosce alcun sistema di salvazione collettiva: ancor più, sa perché queste cose falliscono sempre»77. Questa istanza metodologica è applicata in tutti gli ambiti e permette di rilevare le contraddizioni più profonde nell’ambito delle analisi di carattere politico nelle quali egli non sposa nessuna ideologia ma compie delle scelte in senso generale contraddittorie e incoerenti, dettate piuttosto dagli impulsi del momento e dalle estremizzazioni delle sue ribellioni esistenziali. Così, «il rifiuto del capitalismo, la ricusazione della falsa “società dell’opulenza”, il disperato rimpianto di una rivoluzione che purgasse il mondo dalla proprietà, tutto questo obbliga Cioran a proporsi il tema del comunismo»78. Ne risultano delle opzioni che permettono di conciliare l’inconciliabile e di accordare insieme sistemi e regimi che fra loro non presentano nulla di simile. Savater afferma che «due ossessioni contrapposte delimitano la meditazione politica di Cioran: la tirannia e la tolleranza. La figura del tiranno è il simbolo dell’irrimediabile solitudine dell’uomo e dell’illimitatezza dei suoi desideri»79. Il discorso è ancora più chiaro attraverso un’ulteriore constatazione di Savater, in cui viene sintetizzato il suo atteggiamento ribelle nei confronti di ogni incasellamento ideologico, «sarebbe inutile cercare di trasformare Cioran in bandiera rivoluzionaria o cercare in lui compiacenze positive con qualsiasi movimento libertario: an-

76. Ivi, p. 74. 77. Ivi, p. 102. 78. Ivi, p. 107. 79. Ivi, pp. 109-110.

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cor più stupido sarebbe pretendere di dar conto del suo pensiero politico classificandolo “di destra”. Fra la vertigine della tirannia e la rassegnazione della tolleranza, Cioran costruisce il difficile discorso del conformista disperato che rinuncia a giudicare la storia dallo schema omniesplicativo di qualche teoria salvatrice»80.

9. Le forme espressive della negatività In un’interpretazione complessiva, possiamo dire che Cioran manifesta un atteggiamento pessimistico connotato da scetticismo incluso nella rivalutazione della rinuncia; questa etica che nega la volontà è perfettamente consona alla combinazione, apparentemente impossibile, tra l’ammirazione del buddismo e la professione costante dello scetticismo. Savater pone in rilievo l’importanza di questo legame, recuperandone la semantica nella vanificazione dell’impulso volontario, «Cioran ha letto attentamente Buddha e forse è il saggio indiano, insieme allo scettico Pirrone, il suo maestro più influente; la dottrina della rinuncia ai desideri – piuttosto dovremmo dire “alle concrezioni oggettuali del desiderio” – lo affascina e lo respinge al tempo stesso. Fascino spiegabile in chi ha capito il meccanismo della volontà e l’alienante sottomissione all’altro che impone»81. In questa prospettiva, l’ossessione del tempo, insieme a quella di un razionalismo assurdo, perseguito attraverso la lucidità, sono le costanti dell’itinerario che impegna Cioran all’interno del pensiero negativo, «il tempo è il corollario inevitabile del desiderio: per questo la lucidità di tutte le epoche, dal buddismo a Cioran, ha aspirato a rinunciare a questo per liberarsi di quello. Sottomessi a tutti gli aspetti dell’ideologia del volere, con la sua caterva forzata di illusioni e miraggi, la successione e il rinvio sono la nostra stessa sostanza, il nostro tessuto»82. 80. Ivi, p. 111. 81. Ivi, p. 116. 82. Ivi, p. 130.

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Se da un punto di vista religioso l’unico atteggiamento coerente di Cioran è quello dell’eresia e da quello filosofico l’unica opzione costante è lo scetticismo, la conclusione che ne deriva è così espressa da Savater, «dico che Cioran è molto lontano dal cedere alla tentazione della metafisica e che, di fronte a questa, sceglie la semplicità e lo spirito, il casuale, il veniale o, sintetizzando: la letteratura»83. Il suo passaggio dalla filosofia alla letteratura sottolinea gli effetti speculativi dello stile in cui il momento estetico enfatizza il carattere esistenziale dei vissuti, «non c’è discorso più strano, più impossibile, di questo di Cioran, affaccendato a negare tutto e a negarsi, a smentire i suoi prestigi, il suo fondamento e la sua portata, la sua stessa verosimiglianza»84. Il linguaggio si riempie di contenuti, acquistando uno spessore filosofico, «la parola in Cioran dà voce alla lucidità o, meglio, al ricordo della lucidità: è memoria di quell’accesso di ampio giudizio che per un momento dissipa le brume del delirio»85. La prospettiva metodologica perseguita dal filosofo romeno incontra nello stile espressivo l’elemento irrinunciabile e inseparabile dal suo pensiero meditativo, «lo stile di Cioran dà costantemente l’impressione di essere un po’ contenuto; la sua prosa sembra sempre mordere il freno, lottare contro una mano di ferro che le impedisce di scatenarsi. Le sue parole non si abbandonano mai: non esiste scrittore meno prolifico di lui»86. La semplicità espressiva è complicazione delle domande e degli itinerari esistenziali perseguiti, «il testo di Cioran non si appiattisce in lunghezze superflue, ma si delinea nella pura insistenza su quello che più duole: la parola invalidante di quei grandi discorsi che cercano di difendere quello che c’è dalle loro stesse apparenze»87.

83. Ivi, p. 134. 84. Ibid. 85. Ivi, p. 135. 86. Ivi, p. 138. 87. Ivi, p. 140.

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Nel quadro apparentemente estetico e formale delle sue espressioni letterarie, si innesta la sua etica dell’assurdo e della ribellione, nella quale trionfa il negativo che sembra accompagnato costantemente da un compiacimento demoniaco. Anche questa è un’estremizzazione del reale vissuto cioraniano dei problemi che emergono alla sua coscienza, relativamente alla tragicità della condizione umana, «Cioran può essere a volte molto crudele e la sua ironia adotta spesso il volto di uno sgarbo altero di fronte all’incurabile stupidità che lo circonda; ma poi il suo spirito si innalza e si va a poco a poco allontanando dai monotoni deliri umani verso le radici stesse di questo “scherzo supremo” di fronte al quale ogni alterigia è dislocata»88. Savater espone la sua interpretazione del pensiero di Cioran, attraverso un itinerario di riflessione che si inquadra nella semantica del titolo della sua opera, in cui viene enfatizzata la sintesi bizzarra e singolare tra la figura dell’angelo e quella dello sterminatore. La prima è proiettata al religioso, quindi al modello di santità, la seconda, invece, al demoniaco, ad un compiacimento distruttivo universale in cui il masochismo e il sadismo si accompagnano e si completano, assumendo una prospettiva cosmica. Su queste linee interpretative, il pensiero del filosofo romeno viene rivisitato e ricostruito in un itinerario complessivo che presenta queste caratteristiche. Il punto di partenza è quello in cui la lucidità è un risveglio che non va confuso con la coscienza, in quanto è piuttosto un equilibrio precario, un’esistenza che si colloca tra la febbre e il delirio, la follia, l’estasi. Questa è una mistica che ha orrore del vuoto. A proposito dell’umanità, dal punto di vista collettivo, si stabilisce un itinerario che dall’idea, attraverso la fede, giunge all’azione; l’altra via è quella della solitudine che dallo scetticismo, attraverso la filosofia, giunge alla lucidità. Da quest’ultima passa alla rivelazione, quale forma diversa della conoscenza rispetto alla razionalità, la rivelazione stessa giunge all’essenziale attraverso la vertigine del vuoto e il senso dell’inanità, 88. Ivi, pp. 146-147.

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le forme della negatività permettono di procedere oltre le illusioni e gli inganni dell’oggettività, garantita dalla conoscenza scientifica nonché dalla conoscenza filosofica. In definitiva, l’esistenza umana è governata dal caso, dalla futilità, dalla precarietà e dalla provvisorietà. In questa prospettiva, la morte di Dio apre l’orizzonte dello scetticismo, l’ironia e l’aggressività demoliscono le caratteristiche dottrinali del cristianesimo, mentre il Paganesimo e la saggezza antica manifestano un’indubbia superiorità. A tal proposito va ancora ribadito che nel pensiero di Cioran non vi è pagina in cui non sia presente la religiosità di un’esistenza tragica. Il luogo criticamente fondamentale della filosofia esistenziale di Cioran è costituito dall’ambito della storia, in cui l’uomo vive la sua realtà collettiva e vede cadere le illusioni utopiche. Perciò, accanto alla questione del tempo, nell’orizzonte della decadenza della civiltà, la storia stessa costituisce il luogo obbligato delle riflessioni sul contesto sociale dell’esistenza umana. Per Cioran, la storia è ineludibilmente il regno del male, l’azione è negativa e il progetto è illusione. Il momento centrale della storia è il tempo che nega l’eterno e costringe l’uomo alla sofferenza e l’esistenza umana è sospesa tra la caduta nel tempo e la caduta dal tempo; la nuova barbarie della contemporaneità è segnata dalla decadenza e dal destino dell’intellettuale affaticato. In tale ordine di idee, trovano spiegazione le riflessioni concernenti l’organizzazione sociale delle istituzioni pubbliche, nelle quali, la lucidità conduce la politica all’inazione. Da un punto di vista ideologico, si tratta di un conformismo disperato, equidistante tanto dalla figura del reazionario quanto da quella del rivoluzionario, vi sono perciò delle ragioni sia a favore del tiranno, sia a favore del tollerante. L’orizzonte di queste riflessioni è quello di un pessimismo sociale incapace di utopie e nel contempo non idoneo a concepire una società priva di ingiustizie. In questa direzione tanto il comunismo quanto il capitalismo, presentano vantaggi e svantaggi.

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Se torniamo ad un’analisi dei problemi sul piano esistenziale, ci rendiamo conto che la razionalità, convertita nella forma della lucidità, conduce alla disperazione ma quest’ultima ha la sua sede nel desiderio e tra tutte le sue diverse forme, l’amore è quella prevalente in quanto nel suo slancio comunicativo tenta di vincere la solitudine. L’altra forma fondamentale del desiderio è quella della morte, in cui il suicidio acquista un ruolo ineludibile e l’obiettivo che sovrasta tutti gli altri è quello del vuoto attraverso il quale ci si orienta verso l’inanità dell’essere. La conclusione dell’itinerario speculativo perseguito da Cioran è quella che si colloca contro ogni metafisica. Si delinea un itinerario che dalla lucidità conduce al silenzio ed in particolare il superamento del pensiero apologetico sfocia nella consapevolezza dell’inanità dell’essere. In tal caso, il linguaggio, nella sua chiarezza espressiva, si manifesta attraverso le allusioni dell’ironia e dell’umorismo per esprimersi nell’amara serietà del comico.

10. Un romantico in esilio S. Jaudeau, nel suo volume Conversazioni con Cioran89, propone un’interpretazione del pensiero del filosofo romeno molto articolata espressa nella forma di una relazione dialogica, in cui i problemi emergono da un confronto e da un’analisi delle interrogazioni sulle quali le questioni vengono impostate. L’autrice prende le mosse dalla condizione di Cioran in esilio e nel tentativo di focalizzare la sua irreligiosità, ricollega la sua testimonianza negativa al misticismo, nonché al nichilismo, quindi, per lei Cioran non va considerato né come cinico, né come scettico. Il filosofo da lei analizzato ricollega Dio al negativo, quindi, la sua immagine coincide con quella del nulla. L’autrice precisa, da un punto di vista categoriale, che «Cioran è un romantico che si fa beffe del suo romanticismo, consumato da una nostalgia che gli suggerisce le posizioni più estreme»90. 89. S. JAUDEAU, Conversazioni con Cioran, Guanda, Parma 1990. 90. Ivi, p. 40.

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In particolare, relativamente al problema specifico della questione religiosa, emerge l’itinerario centrale di Cioran, a proposito del quale «tutti i suoi interrogativi sull’assoluto, lo riconducono inevitabilmente al nome di Dio, questo grande fomentatore di disordini, che è stato motivo della guerra nietzschiana contro il cristianesimo, perpetuata sotto certi aspetti da Cioran»91. In quest’ottica, il superamento della razionalità metafisica, condotta a favore della lucidità e dell’assurdo, insieme all’inadeguatezza della rivoluzione come categoria redentiva dell’umanità dalla schiavitù sociale, dà luogo ad una ribellione che non va intesa come liberazione etica dell’esistenza individuale, bensì come una realtà più complessa, a proposito della quale la nostra interprete sente la necessità di precisare che «Cioran fa della ribellione una pratica profondamente spirituale»92. La ribellione assume la veste letteraria, in certo senso estetica, della sfida titanica e prometeica. Questo atteggiamento anarchico ed anomico emerge specificamente nell’ambito religioso in cui «non c’è da stupirsi, allora, se l’odio e la bestemmia si sostituiscono all’amore e alla preghiera, e se la salvezza consiste nell’esorcizzare quest’odio. Dio è un avversario che occorre sfidare a duello, e di fronte al quale si devono impiegare le risorse più ingegnose dello spirito»93. In questa situazione, l’interrogazione cede il passo alla bizzarria dell’inesplicabile, nella quale gli steccati che separano la fede religiosa dall’ateismo divengono precari ed inconsistenti, attraverso la costruzione di un atteggiamento interrogativo ma anche enigmatico, a proposito del quale si può condividere l’idea per cui Cioran «se può detestare Dio, può anche amarlo; gli è sufficiente simulare l’odio perché si manifesti l’innocenza della fede, come il libertino di Pascal finge dei sentimenti ai quali finirà forse per credere»94.

91. Ivi, pp. 40-41. 92. Ivi, p. 44. 93. Ibid. 94. Ivi, p. 45.

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In questo terreno minato, dove il relativo si congiunge all’assoluto, l’ineffabile si alterna al demoniaco, l’esaltazione mistica si lega alla protesta irriverente, si colloca l’intero sentiero di Cioran tutto proiettato a conquistare la dimensione del nulla. Qui le contraddizioni si congiungono ad esprimere l’inesprimibile e sostituiscono la metafora al paradosso, «il segno del paradosso è abbozzato ancora una volta, in questa coscienza torturata dal conflitto tra chiaroveggenza e bisogno d’unità, “anima scettica” consumata dalla passione dell’assoluto. Si dovrebbe rinunciare all’intelletto discriminante per insediarsi nell’unità divina, come il santo, che sacrifica l’orgoglio della sua intelligenza di creatura»95. Il filosofo romeno si trova in una situazione nostalgica di rimpianto per un passato perduto e di pessimismo per un presente decaduto, in cui la forza dell’utopia perde la sua consistenza, vanificando la novità di un futuro sostituito dal nulla. In tal caso, egli «è tormentato dalla nostalgia romantica per un’età felice, in cui regnava l’illusione di una unità garantita da Dio. L’era del nichilismo ha spodestato “l’unico errore prezioso” ai suoi occhi. Questa problematica ci riconduce al tema dell’illusione vitale, fondamento di tutti gli interrogativi di Cioran, sul quale torneremo»96. Il problema di Dio, non chiarificato dai frammenti allusivi dell’opera cioraniana, viene interpretato dalla nostra autrice con una spiegazione che rende plausibili i contrasti insiti nel paradosso religioso, così come viene elaborato dal filosofo romeno, «il Dio che Cioran invoca “non esiste”: è il punto di fuga dello sguardo interiore; in altri termini, appare come la sola occasione di dialogo nella pienezza del nulla. La potente seduzione di questo Dio, in cui Cioran vede un’irresistibile tentazione, gli viene dal suo essere un viatico nella solitudine»97. A completamento di quanto ricordato, dobbiamo ancora aggiungere che «il Dio invocato da Cioran, “rivale del nulla”, procede

95. Ivi, p. 46. 96. Ibid. 97. Ivi, pp. 46-47.

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da questa visione in negativo, la cui logica rovinosa l’autore spinge alle estreme conseguenze»98. L’approfondimento conseguente dell’itinerario caratterizzato consiste in una situazione nella quale, per Cioran, l’estasi e la noia rappresentano gli estremi contrapposti della sospensione del tempo, due vie per l’approdo mistico non religioso alla dimensione del nulla. «All’uomo moderno si potrebbe applicare la formula di Pierre Boutang riferita a Kafka: “Un minimo di grazia e un massimo di trascendenza”. Ciò che un tempo era chiesto alla grazia divina, è avvicinato oggi in stati analoghi alla vertigine, capaci di turbare radicalmente il rapporto dell’uomo con il mondo. Cioran ha coltivato tali stati come una via privilegiata verso la prova spirituale, e mostra una particolare predilezione verso condizioni interiori destabilizzanti (come l’angoscia, la noia e il disinganno), in cui vede una versione profana o negativa dell’illuminazione mistica»99.

11. Un pensatore della notte Da un punto di vista religioso, intendendo quest’ultimo termine in un significato del tutto particolare nel senso adeguato per la concezione contraddittoria sistematica di Cioran, possiamo recuperare, al di là delle cristallizzazioni delle confessioni religiose di tipo storico, la semantica di alcune figure quali quella dell’angelo o quella del santo e, nelle manifestazioni spirituali dell’uomo, quelle della preghiera, nonché del misticismo. A quest’ultimo proposito è plausibile questo tentativo di spiegazione: «Nulla ci impedisce di qualificare come mistico un simile cammino, se si definisce la mistica, secondo Alain Cugno, come un ritorno al reale tramite la distruzione dell’immaginario. Questo reale si caratterizza per la sua forza nello smentire le rappresentazioni, oltrepassa l’idea che possiamo farcene e si offre soltanto in un’esperienza radicale»100. 98. Ivi, p. 47. 99. Ivi, p. 50. 100. Ivi, p. 51.

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Da tale punto di vista, Cioran attinge ai contesti delle manifestazioni e delle testimonianze di ordine religioso, trasvalutandone la loro semantica in un’ermeneutica in gran parte nietzscheana ma anche camusiana, nella quale ha ragione il nostro autore, allorché così si esprime «è negli scritti dei santi che Cioran trova la fonte delle sue riflessioni, cercando nella loro testimonianza una conferma alla propria esperienza. Perché può, a buon diritto, arrogarsi il diritto alla parola: il mistero di cui parla l’ha intravisto lui stesso, e le sue affermazioni hanno l’autorità del vissuto»101. La conclusione critica della questione è la seguente: «Eccoci sulla soglia di una mistica profana, spogliata delle forme religiose che la mistica, tradizionalmente, ha vivificato: quella su cui Cioran fissa lo sguardo è una sete d’assoluto selvaggia, senza veli, ridotta alla sua essenza e sbarazzata delle pastoie del sacro. I binari ufficiali della religione sono superflui, costituiscono addirittura un ostacolo alla visione pura: i più grandi mistici cristiani, al termine del loro percorso spirituale, li hanno fatti saltare e li hanno ridotti a meri strumenti della loro ascesi»102. Da un punto di vista filosofico, la categoria della decadenza valorizza il vuoto del nulla, senza fornirne una teoria di ordine ontologico, «se è consentito parlare di nichilismo in Cioran, è proprio nel senso di un “reale” spossessato della propria realtà, grazie a un’esperienza di ripiegamento in sé o fuori di sé»103. Alle soglie del nulla, la cui consapevolezza promossa dall’esaltazione mistica dell’estasi, prodotta esistenzialmente dalla lucidità dell’assurdo, conduce Cioran al vuoto ontologico indotto dall’esistenzialità della noia, per approdare infine alla condizione di una rinuncia sistematica, nella quale si può condividere l’idea per cui «l’uomo più immiserito da un destino avverso accede alla propria verità e arriva al sublime. La figura del fallito, immagine dostoevskiana che ossessiona Cioran, s’avvicina a quella del Cristo. Nella 101. Ivi, p. 52. 102. Ivi, p. 55. 103. Ibid.

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nostra modernità, l’uomo che giunge al divino è quello che la società ha deluso, schiacciato. Tutta la profondità del mondo e la sventura allo stato puro si rivelano in lui, sorta di santo-martire […] costretto alla rinuncia dalle tribolazioni del suo destino»104. I suoi compagni di viaggio, nell’orizzonte del nulla, sono quelli ricordati dal nostro interprete, allorché, riferendosi al filosofo romeno, dichiara «pensatore della notte, si fa eco dei precetti di Böhme, Meister Eckart o Teresa de Avila, esortanti ad approfondire il nulla che scopriamo in noi»105. Sono questi dei compagni scomodi, poiché la loro avventura mistica è guidata da una fede in un Dio che li salva. Cioran, invece, è nomade nello spazio del nulla, in una solitudine che enfatizza la condizione tragica dell’esistenza umana. Per Cioran la melanconia rappresenta l’emergenza consapevole del negativo, in cui viene attaccato, tanto l’essere, quanto l’essenza; ci troviamo alle radici del nulla e alla soglia del suo annientamento. Da un punto di vista esistenziale, sono da privilegiare alcuni vissuti chiave che permettono di intraprendere la via del nulla. A tal proposito non va dimenticato che per Cioran, la melanconia e la nevrastenia costituiscono il substrato oscuro della specie umana, come se fossero una tara originaria, retaggio di un’essenza divina convertita in negativo, vale a dire, una sorta di peccato originale. Queste sono anche le condizioni in base alle quali l’uomo riesce a costruire il vissuto della conoscenza di se stesso. In questo orizzonte del nulla si colloca l’interesse per le forme di religiosità orientali, in cui la positività del buddismo, per Cioran, consiste nella conciliabilità dell’ateismo con la meditazione. «Uno spirito come Cioran, adepto del disinganno, non poteva fare a meno di volgersi verso questa dottrina, vera e propria eco delle sue ossessioni. La sua opera si presta, in modo singolare, all’illustrazione dei grandi temi su cui si fonda l’insegnamento del Buddha: sofferenza, illusione, desiderio, salvezza»106. 104. Ivi, pp. 63-64. 105. Ivi, p. 64. 106. Ivi, p. 73.

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In questa prospettiva ricorrente negli scritti di Cioran, è da condividere l’interpretazione che stiamo esponendo, nella quale si sostiene che «nessuno ha parlato del buddismo meglio di Cioran, che non vi ha mai aderito. Le sue osservazioni testimoniano una comprensione profonda di questa dottrina, che propone un atteggiamento mentale stranamente in sintonia con il suo»107. La conclusione dell’itinerario cioraniano aperto all’oriente è questa: «“L’unico futuro è nel buddismo”, mi ha confidato un giorno Cioran. Ma lui stesso si vieta la pace dello spirito che il buddismo raccomanda, troppo inquieto e troppo indipendente per scegliere una simile liberazione, offerta da una dottrina che presenta, malgrado tutto, severe costrizioni»108.

12. Le due vie non filosofiche La non-filosofia di Cioran supera il dubbio scettico attraverso due vie non filosofiche, quella del misticismo religioso e quella dell’esaltazione estetica. Tali vie si fondono e si confondono nelle complicazioni contraddittorie dei suoi itinerari speculativi e l’orizzonte del nulla conduce Cioran a superare l’immagine della decadenza in quella, molto più negativa, del fallimento. Tale approdo realizza l’idea dell’autoannientamento come avvio di un processo di liberazione dal tempo e dalla storia che, in seguito alla prima caduta nel tempo, presuppone e aspira ad una seconda caduta dal tempo. È in quest’ottica che si collocano le numerose riflessioni cioraniane sul suicidio e sulla morte e, relativamente al primo, la critica è rimasta sconcertata dalla vastità dello spazio dedicata all’argomento nelle sue pagine, non si tratta né di un’esaltazione né di un incitamento, ma soltanto di una possibilità, affidata e rivendicata a favore dell’uomo nella consapevolezza della sua libertà. In questo senso possiamo accettare quest’interpretazione. «Cioran non ha mai in107. Ivi, p. 74. 108. Ivi, p. 75.

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citato nessuno a porre realmente fine ai propri giorni; al contrario, agita l’idea del suicidio come il più efficace deterrente contro il desiderio di autodistruggersi»109. Da un punto di vista metodologico, Cioran converte la figura del filosofo in quella dello scrittore, in un modo diverso da quello di S. Kierkegaard che è illuminato dall’edificante sul piano della salvezza proposta dalla fede cristiana. Cioran, invece, vede nella scrittura una riflessione comunicata ed approfondita, nella quale amore e odio si accompagnano nell’affermare e nel negare, nel dubbio di un itinerario che, una volta proposto, mostra tutta la sua inconsistenza. Il nostro autore così si esprime: «Ciò che il lavoro di scrittore insegna a poco a poco a Cioran è l’usura delle parole, e l’indebolimento lungo il corso degli anni, fino alla sua totale scomparsa, della passione per la scrittura. Nessun testo, evidentemente, potrà portare testimonianza dell’ultima tappa del suo percorso. La pulsione che guidava la sua penna si spegne, e non scrive più. Questa fase, la più significativa per noi, è il compimento stesso dell’opera, lo sboccio di quanto essa conteneva in germe»110. Nella contraddittorietà che caratterizza i rapporti di Cioran con la scrittura, si manifesta il suo atteggiamento dialettico e dinamico anche all’interno della negatività; due vie sembrano aprire il vicolo cieco dello spazio aperto sul mondo, quella della religiosità, che si orienta sul misticismo e sull’ammirazione della santità e quella estetica che, in modo superiore alla prima, trova la sua esaltazione nell’ineffabilità dell’espressione musicale. Per Cioran, la musica supera la negatività di tutti gli anatemi e diviene il rapimento emotivo ed estatico che equivale a una vera e propria prova di dimostrazione del divino nella sua essenza religiosa, «“la passione della musica è di per se stessa una confessione”, osserva Cioran. Confessione della coscienza che si pone in ascolto di una dimensione essenziale, irriducibile all’essere finito»111. 109. Ivi, p. 80. 110. Ivi, p. 88. 111. Ivi, p. 93.

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Le due vie indicate, vale a dire quella religiosa e quella estetica, finiscono per convergere in una via sola, quella religiosa in modo inconsueto trasfigurata attraverso l’estetica musicale. «È evidente, quindi, che l’amore di Cioran per la musica è in relazione diretta con il suo interrogativo circa il divino, al quale essa fornisce la sola risposta soddisfacente: tutto è detto in qualche battuta di Bach»112. Ciò è possibile, anche se inconsueto, dal momento che «nessuna delle mistiche è riuscita a guarire quel gran malato di tempo che è Cioran. Solo la musica, grazie al suo potere di redenzione, trionfa dove quelle hanno perso. Di essenza materiale e spirituale insieme, essa propone una via mediana»113. Questo discorso indubbiamente affascinante, anche se intraducibile in un processo logico dimostrativo, si risolve in un’estetica dell’allusivo e dell’inconsistente, nella quale la precarietà formula i suoi registri in una creatività dinamica che produce immagini e sensazioni, all’interno degli slanci meditativi. Ciò si realizza in un itinerario nel quale la traccia è sempre segnata e sempre interrotta, il che accade in un contesto in cui «riferendosi alla musica, l’autore la chiama in causa nei momenti cruciali; quando tenta di circoscrivere ciò che non può essere individuato, quando si scontra contro i limiti del concetto e si ribella al suo “imperialismo”. La musica si fregia di una funzione esemplare facendosi metafora dell’unità, riesce ad evocare uno stato di grazia che il discorso filosofico non può tradurre senza tradire. Chiave misteriosa e discreta, risposta agli interrogativi metafisici, essa apre e conclude il discorso sulla mistica»114. L’enfatizzazione dell’importanza conferita all’espressione musicale accosta il filosofo romeno ai pensatori che in una certa misura raccolgono il debito decadente del romanticismo. In tale ambito, abbiamo un esempio significativo, dato dall’affinità che lo lega ad un pensatore del tutto particolare, «l’affinità che lega Schopenhauer 112. Ibid. 113. Ivi, p. 94. 114. Ivi, p. 95.

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e Cioran è ancora una volta dimostrata, più stretta in questo caso che nella visione negativa del mondo. I due sono meno vicini per il loro preteso e superficiale pessimismo che per l’idealismo e la nostalgia di un mondo delle essenze, rappresentato da quel fenomeno singolare che è l’esistenza della musica»115. Il problema della musica si rapporta a quello del tempo e, anche in questo caso, emerge il fascino della rarefazione, «sempre a proposito della musica, è proprio l’apparizione di un tempo alleggerito della propria pesantezza a rendere Cioran così sensibile a quest’arte, capace di dissipare i languori della noia. Proiettato in una dimensione di eternità salvifica, l’ascoltatore gode di una grazia che sfida le leggi naturali»116. Ancora una volta è la musica che realizza il legame tra il duplice momento della religiosità del tempo e della creazione estetica. «La possibilità del miracolo che salva, per un istante, questo mondo senza luce, e che Cioran talora evoca, sorge per merito di una grazia musicale, in un breve slancio fuori dal tempo. È grazie alla musica che lo gnostico intravede il mondo perduto da cui proviene. Essa è l’affacciarsi, su questa terra derelitta, di una grazia che riscatta il tempo»117. Attraverso il percorso illustrato da S. Jaudeau riusciamo a comprendere ciò che porta Cioran ad unificare quello che è distinto e contraddittorio, realizzando l’unità del frammento e la sistematicità di ciò che è asistematico. In questo senso, gli algoritmi dell’espressione letteraria e i pensieri interrotti della meditazione compongono un mosaico realizzato attraverso il caleidoscopio dell’estetica, nel quale prende forma una visione filosofica, capace di catturare il nostro pensiero e di costringerci a procedere nella ricerca impietosa di una verità profonda, ponendoci sulla linea immaginativa dell’estetica, anziché su quella dimostrativa del dialogo.

115. Ivi, p. 96. 116. Ivi, p. 100. 117. Ivi, p. 102.

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13. Alle radici di un nichilismo asistematico A proposito della duplice questione del negativo e dell’atteggiamento pessimistico presenti nelle considerazioni di Cioran, i suoi critici si pongono il problema della genesi e dello sviluppo del processo che lo conduce al nichilismo. In tale ambito, F. Wiedmann propone delle considerazioni che permettono di effettuare una caratterizzazione dettagliata del problema in esame. Ciò viene compiuto in un breve articolo in cui Cioran è preso in considerazione quale pensatore d’urto118. L’analisi dell’argomento prende le mosse da uno stretto legame tra la posizione del filosofo romeno e i vissuti autobiografici che lo accompagnano, per cui emerge il consueto legame tra riflessione e vita. L’interprete, riferendosi ad una intervista, pone in rilievo il problema della coerenza tra un’esistenza apparentemente serena e la consapevolezza tragica di un nichilismo senza limiti. Egli osserva che «non senza malizia gli viene chiesto come possa ancora starsene seduto nel Caffè di Sartre e godersi qualcosa, dato il suo atteggiamento verso la realtà, dato che prova disgusto. E Cioran reagisce, tra il pacato e il contrariato, dicendo che non si tratta di stati d’animo, a meno che non lo si voglia fraintendere»119. Uno dei caratteri costanti della filosofia esistenziale di Cioran è proprio quello dell’incoerenza e della contraddittorietà delle sue affermazioni sempre lapidarie e unilaterali, «occasionali giudizi che Cioran scrive in momenti “di vera disperazione”, oppure “nel mezzo della notte”, sembrano confermare la provvisorietà e mutevolezza della sua visione del mondo»120. La sua filosofia trova l’originalità nella reinterpretazione di autori che hanno già affrontato le problematiche da lui predilette, ne 118. F. WIEDMANN, Pensatori d’urto. Punti di vista controcorrente sulla realtà come natura e storia, Cultura e Pace, S. Domenico di Fiesole (FI) 1990, pp. 236250. 119. Ivi, p. 236. 120. Ibid.

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deriva che «egli è “un fratello di Nietzsche”, anche se “ha smesso da tempo di frequentarlo”»121. Questa considerazione è paradigmatica ma rispecchia quanto si potrebbe dire anche in merito alle affinità elettive che legano Cioran con altri pensatori del passato. Dal punto di vista dello stile, una delle questioni più dibattute è quella dell’ironia che permette al nostro filosofo di affrontare gli argomenti più disparati, stabilendo dei legami certamente inconsueti. Il trionfo di questa soluzione stilistica lo troviamo nelle argomentazioni sulle tematiche religiose che riempiono numerose pagine della sua opera. Si pensi, ad esempio, a quanto viene riferito in rapporto alle due divinità, del bene e del male, presenti tanto nel manicheismo, quanto nello gnosticismo, «non si può fare a meno di sentire l’ironia di Cioran sulla costruzione ausiliaria di due dèi. Egli sa che con ciò riprende antichissimi tentativi del manicheismo (egli stesso si definisce “un buon manicheo”) e che non serve a niente un innocuo dualismo senza linfa»122. L’altro elemento che permette la fusione tra i dubbi interpretativi che caratterizzano lo stile e le modalità di sviluppo delle argomentazioni filosofiche è quello della rinuncia al sistema. Di fronte a quest’ultimo nodo problematico, il nostro interprete compie il tentativo difficile di far rientrare il sistema stesso nelle soluzioni asistematiche predilette da Cioran, «per quanto acuti, brillanti e saggi possono essere questi giudizi, essi rimangono rapsodici lampi di spirito. Ciò che manca loro non è tanto la “fatica del concetto” quanto la continuità della disposizione. La qualità filosofica non ha bisogno del busto costrittivo del sistema, ma il pensare sistematico è indispensabile»123. Il medesimo problema accomuna Cioran con altri filosofi, molti dei quali finiscono per costruire in modo diverso un vero e proprio sistema filosofico. In questa direzione troviamo che «in manie121. Ibid. 122. Ivi, p. 240. 123. Ivi, p. 244.

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ra molto simile la pensava anche Schopenhauer, il quale però non scrisse solo i Parerga, gli aforismi sulla saggezza della vita. La sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, è un libro ampio, esigente, concepito con intento sistematico»124. Un ulteriore argomento, che non viene eluso dalla letteratura critica presente, relativamente al filosofo romeno, è quello di compiere il tentativo di sintetizzare tutto il suo pensiero in una definizione complessiva, capace di comprenderlo. Seppure inadeguati possono essere questi tentativi, certamente riduttivi e unilaterali, è forse opportuno ricordarne qualcuno: “chi è, volendone dare una definizione, Emil Michel Cioran? “Il grande filosofo del nichilismo”, come pensa Susan Sontag, uno “scandagliatore delle profondità del terrore”, come lo ha presentato Fritz J. Raddatz, o semplicemente (e ciò non sarebbe meno sostenibile) “uno dei più importanti scrittori francesi contemporanei”? […] Oppure è uno dei profeti di sventura autodefinitosi tale, quali se ne presentano sempre e vengono a ragione ignorati dagli storici della filosofia?»125. La difficile relazione tra il momento sistematico e quello asistematico del pensiero è presente, tanto nella via filosofica, quanto nella via teologica. Del resto, Cioran in entrambe le vie si manifesta rispettivamente come antifilosofo e antiteologo. A tal proposito, «che questo unico dio divenne poi un “cattivo demiurgo” e ci incluse nella sua opera di vergogna generando malvagità, provocando “disturbi di equilibrio” in lui e negli uomini, divenne infine chiaro nel “passaggio dalla mitologia alla teologia”; questo è altrettanto chiaro quanto l’irrilevanza dello stesso tema per la filosofia»126. Per quanto concerne il problema della radice genetica del nichilismo da cui siamo partiti in questo paragrafo, l’argomento obbligato è quello dell’origine dell’esistenza finita, collocata nella nascita avvolta, così com’è, dal velo dell’inconsapevolezza. La nostra interprete afferma che «il non essere nati sia infinitamente più dolce 124. Ivi, pp. 244-245. 125. Ivi, p. 245. 126. Ibid.

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della più piacevole esistenza mortale e a questa sempre da preferirsi. Ma poiché non ci è stata lasciata nessuna scelta, non rimane altro che un rassegnato dispiacere; molto di più non si può fare per questa deprecabile realtà, tranne il suicidio»127. Viene da lui così stabilito un legame tra l’inizio e la fine della vita nel raccordo tra l’inconveniente di essere nati e la possibilità del suicidio che permette il recupero, nel momento finale della vita, della consapevolezza del negativo assente nella fase iniziale della medesima. In merito a quest’ultima questione, l’interprete al quale ci riferiamo stabilisce un significativo, per quanto inconsueto, legame tra il suicidio e il problema religioso e «per comprendere la sua posizione, è necessario chiarire il punto focale del suicidio con tutte le conseguenze ad esso collegate: l’idea di essere padroni della propria vita, di goderla e di intensificarla o di portarla a termine quando mi pare giusto. Cioran confessa che quest’idea è diventata per lui come Dio per il fedele»128. Il filosofare di Cioran così frammentato e destrutturato, come appare dallo stile dei suoi aforismi, pone il problema del ruolo e del significato della scrittura, «lo scrivere è inteso come un rito di evocazione che rende possibile sopportare tutte le pazzie della vita, una specie di “religione capovolta”, come egli stesso dice, liturgia, pubblica funzione religiosa»129. Il vivere ed il morire, lo scrivere ed il pensare, l’emergenza tragica e prepotente del suicidio nella continuità del vivere appaiono come altrettante contraddizioni che trovano, nella complessa opera di Cioran, un’armonia sintonica delle contraddizioni del tutto particolari, «l’idea del suicidio, l’immagine fissa di andarsene, da una parte, dall’altra la decisione rinnovata ogni giorno, ogni momento, di rimanere in vita; in fine il medium, lo strumento dello scrivere

127. Ibid. 128. Ivi, p. 246. 129. Ibid.

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come terzo momento che annienta appunto la realtà del suicidio. Questa è la triplice essenza del pensatore Cioran»130. Anche la nostra interprete non sfugge alla tentazione di incasellare Cioran nelle numerose scuole e tendenze che caratterizzano le filosofie del Novecento. Per svolgere questo difficile compito, la Sontag osserva che «come espressione di afflato religioso, il modo di pensare di Cioran si avvicina alla tendenza spiritualista degli esistenzialisti francesi; la sua abitazione vicina a quello che era stato il quartier generale di Sartre e dell’avanguardia letteraria degli anni ’50, il caffè Flore in Saint-Germain-des-Prés a Parigi, appare da questo punto di vista più che altro una casualità esteriore»131. Per caratterizzare adeguatamente la posizione nichilista del pensatore romeno, non può esser elusa la negatività che, nelle sue riflessioni, accompagna l’intero stato della condizione umana, «gli uomini sono agli occhi di Cioran potenziali delinquenti, che lui vorrebbe tutti annientare»132. Di fronte alla tragica negatività che emerge da questa considerazione, si staglia contraddittoriamente il comportamento autobiografico nel quale «Cioran nel quotidiano è pieno di pietà verso gli uomini. È stato di sostegno a molte persone, moralmente e praticamente; ad alcune ha trovato rifugio a Parigi durante la guerra»133. Si produce una posizione teoretica del filosofare che rivendica per opposizione una fratellanza simpatetica di Cioran con la sofferenza che accomuna, nella storia, l’umanità in cammino alle soglie del nulla. Dal punto di vista delle affinità con la genesi biblica di molte sue argomentazioni, si riferisce al contesto negativo del Qoelet, rispetto al quale il suo procedimento è del tutto particolare; «Cioran è su questa via, ma in direzione inversa: egli prende come punto di

130. Ibid. 131. Ivi, p. 247. 132. Ivi, p. 248. 133. Ibid.

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partenza l’essere a disagio nel mondo, che non è sufficiente per la propria richiesta di senso»134. Le riflessioni di F. Wiedmann non sfuggono alla tentazione di elaborare, a partire da Cioran, il compito di una filosofia disposta al recupero metodologico e contenutistico di una tradizione che il nostro pensatore sembra avere definitivamente interrotta. A tal proposito, F. Wiedmann afferma che «la veemente risposta di Cioran, una personalità in disaccordo col mondo e con Dio, è un serio invito a superare la nostra pigrizia intellettuale e a riproporre di nuovo le domande metafisiche sparite dal catalogo dei problemi della filosofia ufficiale: su Dio e il mondo, sulla nostra autocomprensione, non solo sulla “posizione dell’uomo nel cosmo” (Max Scheler), ma sulla nostra risposta personale attraverso un comportamento consapevole e deciso, come, o, se si vuole, diversamente che in Cioran»135.

14. Conclusione critica Il percorso critico che abbiamo compiuto in compagnia di alcuni autori che hanno tentato il dialogo ermeneutico con l’opera di Cioran non pretende di essere esaustivo e non si propone di completare l’illustrazione della fortuna che il pensatore romeno possiede nel nostro tempo, in tutti gli aspetti che la caratterizzano. Abbiamo voluto fornire degli esempi, adatti a chiarire il rapporto che Cioran ha stabilito con i temi fondamentali che caratterizzano la crisi del pensiero filosofico nella cultura odierna, appartenente al tempo di povertà dell’indagine metafisica. Cioran non è un pensatore che abbandona in linea di principio la metafisica ma trasforma le istanze perseguite da questa disciplina filosofica in occasioni, nel migliore dei casi interrogative e nel peggiore fallimentari di ripensare la nostalgia dell’essere nella crisi

134. Ivi, p. 249. 135. Ivi, p. 250.

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di negatività che sembra travolgere le categorie ontologiche del filosofare. Da questa rassegna critica appare rafforzato il carattere asistematico e frammentario della speculazione meditativa, proposta dal pensatore romeno. Tale metodologia non appare come il prodotto necessario della destrutturazione finale del filosofare, bensì come l’ultimo tentativo di salvare la filosofia, collocata in una negatività che sembra travolgerla e, soprattutto, di fronte alla verità della scienza sperimentale che appare precludere ogni possibilità di sviluppo creativo per il pensiero speculativo. L’analisi meditativa di Cioran, con tutto il suo impietoso realismo che l’accompagna e con tutta la sua ironia che destruttura le illusione dell’immaginazione umana, rappresenta il prodotto conclusivo di una civiltà che, alle soglie di un rinnovamento radicale, sembra chiudersi nel compiacimento autodistruttivo che anticipa una morte annunciata nella paura di un futuro impossibile. Il pensiero del nostro filosofo si colora delle fosche tinte di una visione apocalittica in cui, tra la disperazione dell’oggi e la speranza di un domani lontano, si frappone un valico insormontabile che viene caratterizzato dall’estetica di un baratro senza fondo. È questo il desiderio estremo di un disperato che, legato in modo indissolubile al tripudio della vita, non si rassegna alla fine e non è disposto a rallentare il suo slancio creativo nel riposo dell’attesa e nell’immaginazione di una speranza possibile. La situazione, da un punto di vista storico, riconduce i lettori al tempo antico del conflitto tra paganesimo e cristianesimo, in cui all’ansia di coloro che erano immersi nella certezza della fine, realizzata nell’immagine della plenitudo temporum, si oppongono altri che sono disposti al superamento del dramma della fine, attraverso la concezione agostiniana della salvezza, sospesa tra i due momenti del già e del non ancora. Questa immagine teologica dell’apocalisse non è estranea al pensiero di Cioran, affascinato dall’eresia, dall’idea del paganesimo tramontato e da uno gnosticismo proprio delle origini del cristianesimo.

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Il nostro è un pensatore che vive la tragicità dell’oggi nella nostalgia del passato, in una condizione filosofica nella quale valorizza, fino alle sue estreme possibilità, la condizione nietzschiana di una pensiero inattuale che vorrebbe redimere l’epoca odierna immergendosi nella nostalgia del ricordo da sottrarre alla cancellazione dell’oblio. Questi sono i termini del paradosso che, per Cioran, costituisce una figura privilegiata dell’ermeneutica filosofica; paradosso che si allontana radicalmente da quello kierkegaardiano, il quale dà forza all’intento di ripensare e riattualizzare il cristianesimo drammatico delle origini. La concezione di Cioran utilizza l’immagine retorica di carattere allusivo, per dare espressione ad una dialettica della contraddizione e dell’aporia che, invece di risolversi nel pensiero ostacolato dall’errore, si propone di tematizzare il non tematizzabile e di pensare il non pensabile. Ciò si realizza in una via esistenziale in cui la filosofia si avventura nelle sabbie mobili delle immagini estetiche, troppo deboli per costituire i pilastri di una dimostrazione logica ma molto più libere dei passaggi obbligati del discorso apofantico. In tal caso, è per loro possibile superare il non dicibile verso un dire più profondo, radicalmente diverso dal dire limitato della scienza sperimentale e del pensiero finito dell’essere umano, circoscritto nello spazio ristretto della propria prospettiva individuale. Il pensiero di Cioran, letto attraverso ciò che è implicito nei suoi testi, indica nell’esistenzialità filosofica che lo caratterizza lo spazio affascinante di una via ermeneutica nella quale la filosofia non si rassegna al limite della logica dimostrativa per cogliere tutte le potenzialità di un linguaggio animato dai vissuti e reso più profondo dalle strategie creative dell’immaginazione umana.

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Ringraziamenti

A compimento di questo lavoro, ringrazio innanzitutto la Fondazione Metanexus che, con il suo sostegno economico, ha facilitato la pubblicazione di quest’opera. Inoltre, rivolgo il mio pensiero grato a tutti quelli che, con il loro incoraggiamento, hanno rafforzato il mio impegno a condurre la fatica della ricerca per il lungo periodo necessario alla realizzazione di questo studio. In particolare, ricordo mia madre che, con la sua lettura e il suo consiglio, ha dato sostanza a tutto ciò che non si vede ma che è presente dietro la pagina scritta. Ringrazio la mia collaboratrice Marilù Cianchi che, con la sua preziosa competenza, ha organizzato le schede nelle tematiche molteplici presenti in questo autore complesso. Non posso dimenticare la dedizione delle collaboratrici Sara Zarletti e Laura Mattioli che hanno reso ordinata e precisa la stesura del testo. Infine, la mia gratitudine si estende ai miei allievi ormai sulla via della ricerca filosofica, Andrea Fioravanti e Alessandro Poli, che hanno riletto lo scritto e hanno fornito consigli nonché validi suggerimenti per il miglioramento del medesimo.

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