Massimo Mila alla Scala. Scritti 1955-1988 8817240192


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Massimo Mila alla Scala. Scritti 1955-1988
 8817240192

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cioè l'abbandono delle forme chiuse a favore d’un declamato continuo, mentre in orchestra risiede il flusso della principale invenzione musicale, oggi, che di questo sistema teatrale si conoscono ampiamente 1 pregi e le limitazioni, quello che più favorevolmente colpisce in Fedra è l’originalità, la personalità del linguaggio musicale, comunque se ne voglia valutare la potenza rappresentativa. Scrivendo questa musica nel 1912-13, Pizzetti faceva fuoco della propria legna: è musica che non somiglia a nessun’altra del tempo. Una quasi citazione wagneriana nel punto culminante del secondo atto, quando Fedra si appresta a intontire il figliastro con il bacio ci o.

0

«Nelle scene di gusto miceneo ideate da Nicola Benois l’opera ha avuto

un'eccellente esecuzione grazie alla direzione sapientissima di Gavazzeni, giustamente abbracciato da Pizzetti, e alla magnifica prestazione del coro.» Figurino per Fedra, di Benois.

MASSIMO MILA ALLA SCALA

fatale, è deplorata dagli ammiratori di Pizzetti con severità eccessiva, trattandosi appunto di caso eccezionale ed isolato, che non in-

tacca durevolmente la qualità del discorso musicale. La «radice debussyana» che Gavazzeni avverte nella Fedra riguarda assai più la concezione teatrale, il rapporto di musica e parola, che non l’invenzione di specifiche figure musicali. Certo, opere come questa non si sarebbero potute concepire senza l’esempio del Pelléas, ma non si potrebbe tacciare di debussysmo il melos pizzettiano, alimentato di canto gregoriano e confii i gurato entro gli schemi modali dell’antichità. fanno sì che solite le son e genere Le riserve da fare son d’altro sul dramma musicale pizzettiano: riguardano la quantità di musica che il compositore riesce effettivamente ad introdurre nelle singole attuazioni del suo principio drammatico. Il quale non si contesta

in sé, anche se non gli si accorda il privilegio esclusivo che Pizzetti gli rivendica nei suoi scritti teorici. Non si chiedono aPizzetti le arie e i bei disegni di note, da lui tanto efficacemente ripudiati. Si osserva solo quanto il declamato vocale e il discorso strumentale che lo sorregge restino generalmente lontani dalla pregnante ricchezza di valori musicali che lo stesso sistema consegue negli ultimi capolavori verdiani e nel Pelléas. Non si fa nessuna opposizione preconcetta al criterio di affidare all’orchestra il flusso principale dell’invenzione musicale, rivolgendo il canto a un’analitica intonazione della parola. Ma non ci si può dissimulare che la continuità del flusso musicale in orchestra è ottenuta attraverso l’inerte ripetizione di microrganismi tematici, assai più che attraverso una concatenazione discorsiva. E non è raro il caso limite, in cui il discorso strumentale ristagna in pedali di lunghe note tenute degli

archi o dei fiati, su cui le voci appoggiano la loro recitazione intonata: sono i punti di cui si potrebbe dire che l’invenzione musicale «tiene bene il minimo», come un motore ben regolato; ma si aspet-

ta con desiderio che il compositore voglia decidersi a premere un poco il piede sull’acceleratore. Questo avviene più raramente di quanto affermino il Gatti e il Gavazzeni, affettuosi commentatori dell’opera del maestro. Messe fuori causa quelle pagine ormai acquisite ai valori duraturi della nuova musica italiana, come il preludio sinfonico e la trenodia corale per la morte d’Ippolito, che apre il terzo atto, la caratterizzazione musicale dei personaggi si limita a qualche aspetto della torbida passione di Fedra e a qualche figura minore felicemente delineata: si vorrebbe, per esempio, che tutti i personaggi maggiori avessero un declamato così singolarmente risentito e incisivo quale ha la nutrice Gorgo (anche se ci ha la sua parte di merito la dizione energica e scolpita di Anna Maria Canali). Nelle scene di gusto miceneo ideate da Nicola Benois (veramente bella la prima, centrata su una rozza scala intagliata nella pietra, ed ottimamente cospirante all’attuazione degli intenti drammatici), l’opera ha avuto un’eccellente esecuzione musicale, grazie alla direzione sapientissima di Gianandrea Gavazzeni, giustamente abbracciato da Pizzetti dopo la prova generale, e alla magmifica prestazione del coro istruito da Norberto Mola: la trenodia di Ippolito è apparsa ancora più bella di quanto la si ricordasse, veramente una pagina classica. La cantante francese Régine Crespin ha sostenuto la parte principale con grande dignità scenica e con intelligenza musicale: la voce ha un che di forzato nel registro acuto, come per un emissione troppo chiusa. Il tenore Limarilli e il baritono

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LA PARABOLA DI PIZZETTI

Dondi hanno invece messo voci naturalmente felici a servizio dei personaggi poco riusciti di Ippolito e di Teseo, ma dal punto di vista della misura e dello stile la loro interpretazione ci ha lasciati un po’ perplessi. Quanto s’è detto circa lo spicco conseguito dal personaggio secondario di Gorgo per merito della Canali, va ripetuto per quello dell’auriga Eurito, impersonato da Nicola Rossi Lemeni. La civiltà letteraria della regìa di Squarzina si è manifestata principalmente intorno alla protagonista, mettendone abilmente in rilievo la conturbante modernità.

(«L’Espresso», 3 gennaio 1960)

113 9.

AllaScala

Le astuzie di Cimarosa

Scriveva Stendhal in Henri Brulard: «Confesso che trovo perfettamente belle solo le arie di questi due autori: Cimarosa e Mozart, e potrebbero impiccarmi prima di farmi dire con sincerità quale dei due preferisca... Quando ho sentito Mozart 0 Cimarosa, l’ultimo che ho ascoltato mi sembra sempre un pochino preferibile all’altro». Più tardi, nella Vie de Haydn, cercò di precisare: «Nei giorni di felicità, preferirete Cimarosa; nei momenti di tristezza, Mozart». Precisazione infondata, ma che suggeriva, per la superiorità convenzionale che tacitamente si suole accordare al serio sul comico, la maggior statura del salispurghese. Ché altrimenti nemmeno Cimarosa può dirsi veramente il maestro dell’allegria tutta spiegata, come sarà di lì a poco Rossini. Anch’egli è uno di quei maestri tardosettecenteschi, dove la protervia comica dell’opera buffa già si tempera largamente di profonde vene patetiche. Due atti delle Astuzie femminali, con cui s'è inaugurata la stagione della Piccola Scala, non sono propriamente una scoperta, ché li aveva presentati una ventina d’anni fa un Maggio Musicale Fiorentino e furono ripresi l’autunno scorso a Napoli. Si comprende come esercitino una forte tentazione e giustifichino le più ardite speranze: un’opera di Cimarosa, di due anni posteriore al Matr?momio segreto, come sottrarsi alla lusinga che possa essere magari ancor più bella di quel capolavoro? Invece non è così: anche a prescindere dalla gagliofferia in cui traligna il libretto del Palomba, dopo un'impostazione iniziale che non è né meglio né peggio di quanto sì trova nella maggior parte delle opere settecentesche, la forma musicale impressavi dalla fantasia di Cimarosa raramente si solleva oltre il piano della genericità illustrativa. E ciò accade soprattutto nelle parti serie ed affettuose, cioè nei tre duetti degli innamorati contrastati, che giungono alla meta per mezzo di buffi stratagemmi e passando attraverso a momenti di trepidazione e d’affanno. Sono precisamente questi momenti, in particolare il secondo e il terzo duetto, dove Cimarosa ritrova la grandezza del Matrimonio segreto, quella capacità di calare con la musica entro l'intimità degli affetti, che lo porta, come ha scritto il Della Corte, «al margini fioriti del Romanticismo».

Ma fuori di questa oasi d’approfondimento lirico resta a Cimarosa il facile privilegio di venire dopo gli altri, d'essere l’ultimo d’una catena prestigiosa di maestri dell’opera comica, che dal vecchio Scarlatti si protende fino a lui attraverso Pergolesi, Piccinni, Paisiello. E così, anche là dove l’ispirazione manca ed è rimpiazza114

LE ASTUZIE DI CIMAROSA

ta dal mestiere, la riuscita dello spettacolo sul piano d’un gustoso passatempo è assicurata da una maturità di concezione teatrale che i vecchi maestri ancora non possedevano, e ch’essi potevano raggiungere solo a prezzo di colpi di genio. Per questo avviene che le loro opere mancate, decisamene non stanno su; mentre Cimarosa anche con un’opera meno riuscita può fornire sufficienti pretesti ad un fatto teatrale consistente e valido sul piano dell’intrattenimento. Basti accennare, a proposito di questa sua maggiore accortezza pratica rispetto ai predecessori, alla stupefacente scarsezza di recitativo in queste Astuzie femminili: anche ammettendo che l’opera ne sia stata ripulita al massimo nella revisione moderna, resta il fatto ch’essa è costruita in modo da potersi eseguire e comprendere perfettamente con uno scarsissimo ricorso al recitativo; è un seguito quasi ininterrotto di arie, duetti e concertati, do-

ve ben raramente la vita della musica si eclissa in omaggio alle prosaiche esigenze esplicative. In opere di questo genere, scarsamente provviste di vero valore poetico, ma non prive di risorse teatrali, passa in primo piano l'elemento esecuzione, e qui è il caso di dire una buona volta l’elogio della Piccola Scala, di questo teatrino che quando sorse fu da

più parti biasimato come un lusso immorale, una costosa superfluità, e al quale si vollero trovare un sacco di difetti struttuali. Sarà, ma il fatto è che da quando c’è, la Piccola Scala sta svolgendo rispetto alla grande una funzione molto simile a quella che nel settecento svolse l’opera comica rispetto all’opera seria. E una scuola di gusto e di realismo teatrale contro la retorica del far grande e contro le tentazioni pacchiane della ricchezza. Da quando c’è la Piccola Scala, le maggiori soddisfazioni scaligere ci son venute di lì e dispiaceri pochi. Nella concezione unitaria di Franco Zeffirelli, che ha felicemente unificato le funzioni di scenografo e regista, anche queste Astuzie femminili, con tutta la loro comprovata debolezza drammatica e musicale, sono uno spettacolo positivo, che raggiunge un successo non volgare né equivoco, perché l’esecuzione riesce a concretare il fatto teatrale implicito nella partitura. La Sciutti, la Adani e la Cossotto costituiscono un incantevole terzetto femminile, per bravura vocale, leggiadria e intelligenza scenica: se rivivesse ai nostri giorni, Stendhal farebbe un abbonamento multiplo alla Piccola Scala per andarsele ad ascoltare e contemplare ogni sera. Leggiadria a parte, Alva, Panerai e Montarsolo non sono da meno. Sotto la direzione ultrarapida di Nino Sanzogno, al limite delle risorse di speditezza consentite all’umano scilinguagnolo, tutti e sei i bravi artisti danno un saggio di quello stile Piccola Scala che è ormai una realtà, e che essendo moderno e tradizionale ad un tempo può fare molto per riaccostare all'opera lirica le generazioni più recenti. Stile che consiste principalmente in questa prerogativa semplicissima: di capire quello che si canta e preoccuparsi di farlo capire al prossimo; ricordarsi che ilteatro, anche quello in musica, è sempre

prima di tutto comunicazione ed esposizione di avvenimenti, e che

pertanto prima degli urli e dei grandi gesti canori ci viene, sacra e i inalterabile, la parola. («L'Espresso», 31 gennaio 1960) È cai

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Tragedia senza personaggi

Anche questo Macbeth di un Bloch venticinquenne, «fuori anco-

ra dell'orbita strettamente etnica», come rilevava a suo tempo il

Liuzzi, lo porremo nel novero di quelle ideali «opere 1», di quei la-

vori giovanili, cioè, che si scrivono una volta sola nel corso d’una carriera artistica, quando è appena compiuta la conquistadi un

maturo mestiere e l'impegno dello stile non ha ancora affacciato le sue torturanti esigenze sull’orizzonte dell’artista, ed è per una volta lecito dire tutto quello che si affaccia alla fantasia, dentro gli argini d’un linguaggio ricevuto, di cui ci si appropria in buona fede, con l’entusiasmo d’una creduta conquista. Qualche cosa di simile a quanto chiariva di recente l’Angioletti per illustrare la differenza che passa tra lo scrittore dilettante e il professionista: «Il dilettante accetta tutto quanto gli viene suggerito dalla tradizione o dall'attualità esterna, mentre il professionista rifiuta o per lo meno sceglie». Probabilmente, anzi, costruisce tutto ex novo, pezzo per pezzo, guardandosi bene, come dice ancora l’Angioletti, d’impiegare «materiale prefabbricato». Nonostante l’adozione di quel malthusianesimo melodico a cui s’ispira la concezione del «dramma musicale» (adozione del resto non così rigorosa che impedisse all’ammirato commento del Pizzetti di rimproverare certe «soste dell’azione» e l’indulgenza ad alcuni «ritorni di motivi» non completamente assimilati in un’assoluta indistinzione della trama musicale), il Macbeth di Bloch partecipa infatti di quella sanguigna e incontrollata abbondanza di linfe che caratterizza gli inizi di quasi tutti i maggiori compositori del nostro tempo, in una specie di felice ma temporanea irresponsabilità stilistica. Quando compose l’opera, «nei boschi e nei monti della Svizzera», dopo essersi per un anno immerso nel poema apprestatogli abilmente da Edmond Fleg, Bloch scialava liberamente nello sfruttamento d’un linguaggio musicale di recente formazione, che dava ancora ai suoi seguaci l’illusione della verginità e della conquista da pionieri, anche se in realtà era stato messo a punto sulla fine del secolo nell’ambiente francese, cui il Bloch artisticamente apparteneva.

A questo linguaggio si suole assegnare la paternità di Debussy, sebbene il gregorianismo di un Fauré, l’arcaismo di D’Indy e di Dukas vi abbiano avuto la loro parte. Praticamente si tratta soprattutto dell’armonizzazione per quarte e quinte, che viene, se non sostituita, per lo meno equiparata a quella tradizionale per terze e seste, quasi con la speranza che quest’ultima, quand’è conservata, abbia ad assumere un sapore nuovo e specifico, mentre

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TRAGEDIA SENZA PERSONAGGI

quell’altra apre al discorso musicale orizzonti interminati di un vago gregorianismo ed esotismo biblico dove sfumano i contorni melodici e si ottundono gli spigoli delle svolte armoniche. Dentro questi suggerimenti d’un linguaggio convenuto, ma abbastanza recente per presentare il fascino dell’attualità, sguazza allegramente la fantasia di Bloch nel Macbeth, creando, all’interno di esso, combinazioni di vocaboli ben sonanti e forniti di ricca elo-

quenza. E l’aspetto «debussystico» che fu immediatamente individuato nell’opera, pur affannandosi i commentatori a dichiararne il carattere meramente esteriore: oziosa precauzione, la quale sì riduce alla pacifica constatazione che Debussy è una cosa e Bloch un’altra. Su questo sfondo dell’armonia di quarte e quinte, che costituiva in quei tempi l’aspetto moderno dell’opera, si palesano al«Nella scena del delitto, coni

fremiti, è SUSSUTTÌ, 4 brividi febbrili che sgomentano Lady Macbeth, il musicista parla veramente în persona prima e sì vedono le premesse del suo autentico stile.» Figurini per al Macbeth, di Corrado Cagli.

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MASSIMO MILA ALLA SCALA

tre influenze, che furono anch'esse subito rilevate: quella wagneriana, che sussiste non solo nella concezione generale del SII musicale, ma anche in alcuni specifici atteggiamenti musica n 0 ticolarmente nelle scene guerresche e nei momenti di grandiosità solenne ed epicamente maestosa; e quella musorgskiana, Sa scritta chiaramente alla canzone del portiere ubriaco, a cui il La o, probabilmente ancora ignaro del Bor2s, trovava «un curioso colorito berlioziano», e alla scena del banchetto con le apparizioni dell’ombra di Banquo, dove le allucinazioni di Macbeth ricercano industriosamente gli accenti di declamazione melodica del delirio dì eo: Do i Boris. La freschezza giovanile, l’empito, la convinzione con cui larti sta impiega questi materiali prefabbricati, quasi illudendosi d’a-

verli inventati, spiegano la forza persuasiva dell’opera. La musica non offusca la potenza del dramma shakespeariano, che la riduzione del Fleg ha abilmente

essenzializzato,

riducendolo

all’osso, e

tuttavia osando l’audacissima aggiunta di un incipiente duetto d’amore tra Macbeth e la moglie, interrotto da un’indelicata apparizione del fantasma di Banquo. Ma ci sono nell’opera i due intermezzi sinfonici, particolarmente il primo, e una scena, quella del delitto, nel secondo quadro del primo atto, con i fremiti, i SUSSUTTI, i brividi febbrili che sgomentano Lady Macbeth nella notturna at. tesa che il marito compia il regicidio, dove il musicista parla veramente in persona prima, e dove si vedono le premesse di quello che sarà in seguito il suo autentico stile. Più nessuna possibilità, nella 118

TRAGEDIA SENZA PERSONAGGI

«E come nobile retorica hanno realizzato il dramma le macchinose scene di Corrado Cagli er movimenti di massa della regèa di Squarzina.» Figurini e bozzetti per il Macbeth, di Cagli.

scena del delitto, di riferimenti al debussysmo, a Musorgski], a Wagner: rotti accenti e barlumi timbrici che non somigliano a niente, tanto sono elementari e semplici, di quella semplicità che è l’antitesi dei luoghi comuni: la sola cosa, l’unico vocabolo musicale che in quella situazione si potesse e dovesse dire. Ma è la concretazione musicale d’un momento d’angoscia e di attesa, cioè d’una situazione. Non concorre alla creazione di personaggi: che lì ci sia Lady Macbeth o chiunque altro in quella situazione, fa lo stesso. E l’opera fallisce infatti nella drammaturgia dei caratteri, contrariamente alle rosee previsioni che cinquant'anni fa diagnosticavano nel futuro sinfonista un eccezionale temperamento drammatico. Rivelatrice in questo senso è la lentezza fastidiosa con cui trascorre il monologo finale di Macbeth, sull’insensata vanità della vita, di cui il librettista ha creduto necessario avver-

tire con un curioso asterisco che è «come la filosofia estrema di tutto il dramma». Ma la musica vi passa sopra senza approfondire, ricorrendo a un’ennesima rievocazione del motivo conduttore iniziale; e l'ascoltatore aspetta con impazienza che la foresta di Birnam si muova, e che i fatti, unico elemento della tragedia sopravvissuto nel travestimento musicale, riprendano il sopravvento. Alla luce di quei frammenti d’autentica validità, è facile accorgersi come il resto sia principalmente nobile retorica, servita da una vena fluente, ancor priva delle inibizioni corinesse con il controllo stilistico. E come nobile retorica hanno realizzato il dramma le macchinose scene di Corrado Cagli e i movimenti di massa della regìa di Squarzina, mentre Nino Sanzogno ha condotto bravamente la vasta partitura, dando un eccellente rilievo agli intermezzi strumentali e disciplinando le numerose forze del palcoscenico: nobile protagonista il basso Nicola Rossi Lemeni; un po’ giù di voce Christel Goltz, ma ben calata nella parte della perfida Lady Macbeth, e favorita in questo dalla dura pronuncia italiana. Particolare rilievo ha dato il coro, istruito da Norberto Mola, ai finali del primo e terzo atto, più magistrali e imponenti che dotati di reale forza espressiva. («L’Espresso», 7 febbraio 1960)

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Le contraddizioni di Busoni

Fra le tante differenze che nel Dottor Faust di Busoni colpiscono di primo acchito l'ascoltatore avvezzo al Faust di Gounod e al Mefistofele di Boito, c'è l'inversione della distribuzione tradizionale delle voci nei ruoli maschili: la pienezza della condizione umana, con tutte le sue miserie, ma anche con la sua responsabile dignità intellettuale, si manifesta in un caldo timbro di baritono per Faust, mentre Mefistofele è un tenore di testa, dalla voce forzata e tesa.

Ciò mette forse sulla traccia di una delle fonti intellettuali che possono avere orientato Busoni nella scelta del soggetto, dopo avere vagheggiato un’opera su Leonardo e avere esitato a lungo intorno al tema di Don Giovanni. Nell’Adolescente di Dostoevskij, durante il pranzo malaugurato nel ristorante mondano sulla Morskaja, Trisciatov, «il ragazzo simpatico», s'accosta a Dolgoruki e si confida con lui: «Sentite, amate la musica? Io l’amo terribilmente. Vi suo-

nerò qualcosa quando verrò da voi. Suono molto bene il piano e l’ho studiato molto tempo. Ho studiato con serietà. Se dovessi comporre un’opera lirica prenderei il soggetto del Faust. E un argomento che amo moltissimo. Penso spesso alla scena nella cattedrale, vedo nella mia immaginazione la cattedrale gotica, l’interno, il coro, gli inni... Poi, a un tratto, la voce del diavolo, il canto

del diavolo. E invisibile, non si sente che il suo canto; s'accompagna agl’inni, quasi sì fonde con essi, eppure è qualcosa di completamente diverso, si potrà farlo sentire in qualche modo. È un canto lungo, senza tregua; ci vuol la voce di un tenore, assolutamente

di un tenore». Busoni fece molte cose diversamente dai progetti lirici di Trisciatov: non si servì del Faust di Goethe, troppo augusto e impegnativo, ma risalì all’umile «Puppenspiel», allo spettacolo di marionette settecentesco, ed espunse accuratamente il personaggio

di Margherita, per evitare di ricadere nella consueta trama sentimentale delle opere liriche desunte dal primo Faust. Sono tutte intuizioni intelligentissime, compresa quella dello scambio di voci tra i personaggi maschili, che però restano in gran parte sul piano dell’intelligenza. Quest'ultimo testamento della nobile musicalità busoniana, rappresentato postumo nel 1925, e tutt'ora in corso di lenta penetrazione nella cultura contemporanea, sl viene purtroppo ridimensionando ad ognuna delle rare audizioni come una di quelle opere piene di spunti d’eccezionale interesse, ricche di efficacia sull'arte circostante, ma nelle quali bisogna distinguere accuratamente tra le intenzioni e le realizzazioni. Sul piano della riuscita, bisogna ammettere che il capolavoro teatrale 120

LE CONTRADDIZIONI DI BUSONI

di Busoni si deve cercare nelle piccole opere precedenti, Arlecchino e soprattutto Turandot, molto meno ambiziose, e protette dal ripiegamento nella stilizzazione delle maschere o della fiaba esotica. Il motivo della minor riuscita del Dottor Faust va cercato proprio nella poetica busoniana, nelle sue idee, spesso incautamente elogiate, sulla musica e sull’opera lirica. Il Dottor Faust è esattamente l’opera di uno che crede «che tutte le manifestazioni musicali costituiscono una unità» e che «è tempo di dare l’addio alla divisione della musica secondo il suo scopo, la sua forma e i mezzi adoperati»: che la musica, in forza della sua unità, non deve preoccuparsi di mutare a seconda delle esigenze del teatro, della chiesa o del concerto, che lo stile fugato va benissimo per l’opera lirica e che «in Mozart ogni opera è una partitura puramente sinfonica, ogni quartetto ha qualche cosa che fa pensare a una scena d’opera». Non si può pensare senza raccapriccio all'esperimento, che Busoni cita con elogio, di un «intelligente teorico Momigny», il quale adattò al primo tempo del Quartetto in re minore di Mozart un testo tenuto nel carattere dell’opera seria: «Ascoltando il pezzo così interpretato», assicura Busoni, «abbiamo l’impressione di tro-

varci nel bel mezzo di un’opera mozartiana». Pensare che se c’era un musicista sensibile come un barometro alle esigenze del luogo e perfino delle persone per cui scriveva, era proprio Mozart. Del resto lo stesso Busoni si dà la zappa sui piedi e seppellisce la propria teoria quando afferma che «nella musica da concerto troviamo continuamente reminiscenze teatrali»: questa è la prova provata che una differenza c’è, poco importa se con continue e feconde interferenze. Nel Dottor Faust la musica funziona benissimo quando ci sta come citazione: gli inni pasquali che entrano nello studio di Faust mentr’egli sta stringendo il patto col diavolo, i concenti d'organo che solcano la cattedrale gotica durante l’assassinio del soldato, il luminoso «Valzer danzato» su cui si svolge la scena mondana alla corte di Parma, e ancora i dostoevskiani cori sacri che provengono dall’interno della chiesa nell’ultima scena. Ma la musica drammatica che accompagma l’azione non riesce quasi mai a stabilire con essa quel parallelismo su due piani distinti che si ammira in Turandot. Nel Dottor Faust si può dire che l'operazione riesca soltanto quando si tratta di suggerire gli inquietanti aspetti della magia, per esempio nell’apparizione dei tre studenti di Cracovia, portatori del libro cabalistico, e in quella tragica ultima scena, dove il sortilegio timbrico dell’orchestra busoniana riesce a tratti davvero ad istituire una specie di surreale incantesimo e a trasferire azione e personaggi almeno sulla soglia misteriosa dell’ignoto. Ma alle vicende terrene dei personaggi la musica è volutamente indifferente: tira dritto per la propria strada, tutta impegnata nella dotta elaborazione di cellule sostanzialmente indifferenti, puri pretesti allo sviluppo sinfonico, senza badare alle cose talvolta enormi che accadono o si dicono in scena. Ur caso minimo, ma sl gnificativo: considerando che Busoni fu illibrettista di se stesso, è sorprendente come resti senza eco musicale il sarcasmo di certe battute di Mefistofele quando, travestito da frate, minaccia l’inferno agli sgherri che hanno trucidato il soldato in chiesa, e pol conclude «A parte ciò, do la mia benedizione». Il brusco voltafaccia non è raccolto dalla musica, refrattaria pure all’atroce cinismo dell’ultima battuta di Mefistofele, quando s’imbatte nel cadavere di i TILLI[‘""è."RNI.))).||)6 ll‘ [[‘ zi

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MASSIMO MILA ALLA SCALA

Faust in mezzo alla strada: «Che sarà accaduto a quest'uomo? Una disgrazia?». Spiritoso era in Busoni il letterato; non il musicista. Il sarcasmo musicale di un Mefistofele derivato da questo ce lo darà, di lì a pochi anni, Prokof'ev nell’Angelo di fuoco. La Scala ha presentato il Dottor Faust nell’allestimento scenico che fa parte del repertorio dell’Opera Municipale di Berlino con scene e costumi di Caspar Neher, coreografie della Gsovski. La regìa di Carlo Maestrini non sembra essersi discostata da quelle in uso in quel teatro. E uno spettacolo tenuto tutto in armonia di mezze tinte e di luci smorzate, e a questo criterio sì è pure attenuta la concertazione di Hermann Scherchen, limitando l’orchestra ad

una sonorità quasi cameristica, che ha permesso alle voci di emergere ottimamente e ha messo in valore le preziose raffinatezze dello strumentale busoniano. Resta tuttavia il sospetto che l’esecuzione più italiana proposta da Previtali al Maggio Musicale del 1942 irrobustisse i valori drammatici generali e conferisse allo spicco di qualche scena, come quella della disputa fra gli studenti nella cantina di Wittemberg. Diligenti e accurati gli interpreti vocali, tra cui il Dondi, il Bertocci, la Roberti e il Testi e, importantissimo, il coro. («L’Espresso», 27 marzo 1960)

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Come è nato il melodramma

Nello sforzo costante di ampliamento del repertorio che s'impone all’attività dei grandi teatri d’opera, accade che ci si spinga sempre più verso le origini del melodramma. L’anno zero, cioè il 1600, sarà toccato, a quanto s’annuncia, dal prossimo Maggio Musicale Fiorentino, che si chiuderà con l’esecuzione, nel cortile di Palazzo Pitti, del primo melodramma vero e proprio che la storia conosca, cioè dell’Euridice di Jacopo Peri: giusto e tardivo riconoscimento ad un gentile musicista fiorentino, la cui fama ha troppo sofferto del soverchiante confronto col grande Monteverdi, messosì sul cammino da lui iniziato. Senza risalire tanto indietro nel tempo è accaduto alla Scala di trapassare oltre alle origini stesse del melodramma, che non sono state in tutti i Paesì così precoci come in Italia, da andare a rovistare in quella zona che la musicologia francese ha definito con la formula «l’opéra avant l’opéra». Invitando nella propria sede un illustre teatro di prosa come la Comédie Francaise, e mettendogli a disposizione, oltre alle risorse del palcoscenico, l'orchestra, il coro, e il corpo di ballo, ha reso possibile un’esecuzione del Bourgeois gentilhomme di Molière qual è raramente possibile conoscere, cioè con l’intero spiegamento delle inserzioni musicali e coreografiche dovute alla collaborazione del fiorentino Giovanni Battista Lulli. Quale lo presentarono i due uomini di teatro, recitandovi entrambi, Molière nella parte di Monsieur Jourdain, e Lulli come «baladin», ballerino-buffone nelle vesti turchesche del Gran Mufîti, Le bourgeois gentilhomme appartenne al genere della «comédieballet», una delle tante forme pre-operistiche germogliate nei vari Paesi europei dallo sviluppo di elementi e tendenze locali, prima che l’esempio italiano riuscisse ad imporre ovunque la forma definitiva del melodramma. Siamo nel 1670: in Italia l’opera lirica ha già una storia ricca d’esperienze, durante le quali il centro di produzione s’è spostato da Firenze a Roma e a Venezia, e ogni città ha dotato il nuovo genere di caratteristiche particolari. In Francia si sono già viste alcune opere di autori italiani ed eseguite da elementi italiani, ma non se ne sono ancora prodotte, sebbene molti s’arrabattino per fare qualche cosa di simile e si disputino il brevetto regio, cioè l'autorizzazione a dare spettacoli teatrali con musica. Il furbo Lulli ha presto fatto ad eliminare 1 maldestri rivali e ad assicurarsi l’esclusività, ma non crede ancora, lui che sarà il fondatore dell’opera francese, nella possibilità d’un vero e proprio melodramma in Francia. Si applica quindi per un decennio alla collaborazione con Molière nel genere misto della 123

MASSIMO MILA ALLA SCALA

«comédie-ballet», ossia uno spettacolo sostanzialmente di prosa, arricchito e variato da «entrate» di musica e danza. Dal punto di vista storico-musicale l'interesse del fastoso spet-

tacolo visto ora alla Scala, nella classica esecuzione dei membri della Comédie Francaise, sta nel vedere come funzioni l’«agence-

ment», l'integrazione della commedia di Molière con gli elementi coreografici e musicali apportati da Lulli. Sono veramente solo, come abbiamo detto sopra, delle inserzioni, e perciò dei diversivi ornamentali sostanzialmente oziosi e parassitari, oppure ci troviamo in presenza d’una specifica forma teatrale, che non è né l’opera lirica né la commedia in prosa? A giudicare dallo spettacolo offerto dalla regìa di Jean Meyer, della cui assoluta fedeltà storica non abbiamo la certezza, ma nemmeno seri motivi per dubitare, saremmo tentati di dare al problema una risposta molto positiva. In gran parte la collaborazione delle tre arti, commedia, musica e balletto, riesce egregiamente e dà luogo a un tipo di spettacolo che non s’esaurisce in nessuna delle tre componenti. E che, diciamo la verità, possiede maggiore dinamismo, più autentica freschezza vitale che non i melodrammi seri ai quali si sarebbe poi studiosamente applicato Lulli con la collaborazione del poeta Quinault. D'altra parte questo Bourgeois gentilhomme, con musica e danze, è certo più soddisfacente che la sola commedia in prosa. Se qualche momento di peso s’avverte, è proprio quando le arti sì dissociano e vanno per conto loro: il quarto e quinto atto della commedia di Molière non sono all’altezza dei primi tre, perché i personaggi galanti di Dorimene e Dorante sono ben lontani dal possedere la corposa evidenza di tutti i membri della famiglia Jourdain, compresa la servitù. E la lunghissima suite strumentale premessa al quarto atto (ma corrisponde veramente a un uso dell’epoca?) è il solo punto dello spettacolo dove la presenza della musica cominci ad importunare. Per contro, come si potrebbe immaginare senza musica e senza danze non solo la gran buffonata turchesca dell’ultimo atto, ma anche tutte le entrate e le scene dei maestri di musica, di danza e di scherma, del sarto coi suoi apprendisti, nei primi atti? Davvero i posteri non hanno aggiunto molto a questi temi immortali di commedia: la lepidezza del «pappataci» rossiniano nell’/taliana in Algeri è già presente nei «mamamusci» di Lulli e Molière, e le scene iniziali del Cavaliere della rosa sono solo più baroccamente ridondanti ma non più spiritose che il galante minuettino vocale del maestro di ballo, le buffonesche interruzioni di Monsieur Jourdain all’esecuzione d’una languida canzonetta pastorale, la gavotta dei sarti, le danze esemplificative durante la lezione di ballo. Qui si vede la musica del seicento con le sue venerabili forme strumentali, sarabanda, allemanda, bourrée, gagliarda, ecc., nella verità funzionale della sua vita quotidiana con un’autenticità che né il concerto né l’opera sanno restituirle. E in più con la capacità di ironizzare su se stessa e di canzonare i propri luoghi comuni. Il talento essenzialmente mimico di Lulli gli ha qui fatto mettere in musica, come dice lo storico della danza André Levinson, «a stilizzazione, anzi la deformazione burlesca del movimento usuale, del gesto caratteristico delle varie condizioni o mestieri, del sarto e dei suoi garzoni, del maestro di ballo e dello spadaccino». E certamente la musica di Lulli ha qui una disinvoltura che ritroverà rara-

mente nell’impettita etichetta del melodramma tragico e classicheggiante. E un divario abbastanza simile a quello che si avverte

124

COME È NATO IL MELODRAMMA

tra l’Offenbach pretenzioso dei Racconti di Hoffmann e l’Offenbach irresistibile della Bella Elena e del cancan dei Briganti. Oppure tra il Kurt Weill dell’opera Die Bargschaft e quello della Dredigroschenoper. Non ci si spiega perciò l’ingiusta condanna pronunciata da Noverre nelle Lettres sur la danse (1760): «Questa danza, che si chiamava “nobile”, era priva d’espressione e di sentimento. La languida musica di Lully, fatta per regolare i movimenti dei danzatori, imprimeva loro un carattere di tristezza, più adatto ad

annoiare il pubblico che a interessarlo». Oppure bisogna pensare che Noverre avesse in mente l’opera seria di Lulli e Quinault, con la sua rigidezza da museo, e che in meno di un secolo si fosse perduta la memoria della «comédie-ballet» nella sua autentica formulazione scenica. («L’Espresso», 10 aprile 1960)

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La rivincita di Wagner

Il più lusinghiero elogio del Preludio del Parsifal lo scrisse Nietzsche, dopo aver fatto tutto quel baccano contro il tradimento ideologico e il falso estetico ch'egli ravvisava in quest'opera. Ascoltò il Preludio per la prima volta a Montecarlo, ai primi del 1887, e scrisse all’amico Peter Gast: «Da un punto di vista meramente estetico, Wagner ha mai fatto qualcosa di meglio? Ha espresso, “comunicato” la più alta consapevolezza e determinatezza psicologica in rapporto a ciò che in quel caso doveva essere detto; ha usato a questo fine la forma più concisa e diretta, e ha portato ogni sfumatura del sentimento fino all’essenzialità epigrammatica; una chiarezza di musica come arte descrittiva, per la quale vien fatto di pensare ad uno scudo sublimemente lavorato; e infine un sentimento, un’esperienza, un evento dell’anima, sublime e straordinario, nell’abisso della musica, che fa a Wagner il più grande onore... Cose del genere si trovano solo in Dante, altrimenti in nessun altro. Vi è mai stato un pittore che abbia dipinto un così malinconico sguardo d'amore come Wagner con gli ultimi accenti del suo preludio?».. E Debussy, dopo aver fatto dello spirito sull’ambiguità psicologica dei personaggi, dichiarava: «Nella musica di Wagner nulla raggiunge una bellezza più serena che il Preludio del terz’atto del Parsifal e tutto l'episodio del Venerdì Santo». Smentito, sconfitto, convinto di ipocrisia e di finzione sul terreno delle idee e delle parole, Wagner aspetta tranquillamente sul terreno della musica la sua rivincita. E proprio i valori religiosi, la lentezza ieratica dell’agape sacra, il riposo della rinuncia, l’intuizione naturalistica della Pasqua come lavacro d’innocenza primaverile sono i momenti alti della partitura, dove la musica si solleva a certezza di valori assoluti; assai più che la tormentata espressione musicale delle forze del male e dell’insidia costante del peccato, pur così interessante com'è, emerge quest’espressione, per l’anticipazione di aspetti modernissimi nel discorso sonoro, particolarmente vocale. Certo, l'esecuzione e la rappresentazione delle opere wagneriane in genere, e di questa in particolare, pongono tanti e così complessi problemi, che non è facile salvare in tutta la sua evidenza quella concretezza di valori artistici che s'avverte senza equivoci alla lettura musicale. L'esecuzione allestita alla Scala sotto la direzione di André Cluytens presenta tutti i requisiti preliminari indispensabili per la riuscita, soprattutto per quanto riguarda la realizzazione musicale. Manca solo il gradino supremo, e cioè quello stato di grazia che soffia definitivamente la vita nell’azione scenica

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LA RIVINCITA DI WAGNER

e che permette di superare la fatica dell’ascolto prolungato e gli innegabili momenti depressi della partitura. Poiché in sostanza non si saprebbe quale preciso appunto avanzare sulla degnissima esecuzione musicale, è probabile che le ra-

gioni dell’appena percettibile insoddisfazione siano da ricercare piuttosto nell’insieme della realizzazione scenica. Il legame tra musica, parola e scena non fu predicato da Wagner soltanto in teoria, ma specialmente nel Parsifal ne è portata tant’oltre l’attuazione, che ad esso si deve ascrivere quel tanto di delusione che non raramente sì prova quando si passa dalla lettura personale dello spartito ad uno spettacolo, per quanto eccellente. Anzitutto, la difficoltà della lingua originale rompe qualche volta anche per i più preparati fra gli ascoltatori quella continuità assoluta della comu«La lentezza ieratica

dell’agape sacra, il riposo della rinuncia, l'intuizione naturalistica

della Pasqua come lavacro d’innocenza

primaverile sono i momenti alti della partitura, dove la musica s1 solleva a certezza di valori assoluti.»

Bozzetto per al Parsifal, di Nicola Benois.

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MASSIMO MILA ALLA SCALA

nione fra suono e idea, che nell’ascolto del dramma musicale è pre-

supposto assai più indispensabile di quanto non lo sia nelle opere

concepite secondo lo stile del melodramma tradizionale. In questa esecuzione, poi, sia le nuove scene di Nicola Benois, che del resto sì scostano solo con cautela dalle consuetudini, sia soprattutto la regìa di Frank De Queli sembrano obbedire a un pregiudizio che sì può definire oratoriale. All’idea, cioè, che essendo il Parsifal un dramma eminentemente sacro, la sua realizzazione scenica debba

essere contenuta entro un minimo d’appariscenza, castigandone gli aspetti individuali entro una specie di generale compostezza corale e collettiva. Questo pregiudizio è dannoso alla vivacità e all'evidenza drammatica della rappresentazione. Le prescrizioni affidate da Wagner alle didascalie sceniche manifestano chiara l’intenzione che il Parsifal, pur nella solennità religiosa della concezione, non rinunci affatto alla freschezza e all’ingenuità episodica d’una rozza cronaca o d’un mistero medioevale. Nella prima scena dovrebbe vedersi bene, come in un quadretto di primitivi, la stradetta sinuosa che ascende alla rocca del Gral. Durante l’agape sacra «i Cavalieri si mettono alle mense», ossia siedono a tavola, come gli apostoli nell’ultima cena, e Gurnemanz, il quale ha lasciato libero un posto vicino a sé, chiama con un cenno Parsifal a sedervi. Parsifal non sì muove, e «resta in piedi, rigido e muto, del tutto sbalordito». Poiché Gurnemanz non s'è seduto nemmeno lui, va perduta tutta questa gustosa pantomima, che sottolinea l’estraneità e l’impreparazione di Parsifal a quanto gli si presenta, e prepara, giustificandolo, l’umoristico scatto d’irritazione di Gurnemanz, alla fine dell’atto, contro quello zoticone. Nell’ultimo atto, così come le luci smorzate e i colori sfumati

della scena si sforzano poco opportunamente di temperare il tripudio della rinascita primaverile nel grigiore d’un indistinto misticismo, parimente la regìa si sforza di ridurre al minimo, come se fosse una cosa sconveniente, l'evidenza narrativa, quasi pettegola, dei gesti prescritti per l’azione: Gurnemanz che sente il gemito di Kundry e la cerca e la scopre semiassiderata dietro un cespuglio, poi la porta su un vicino rialzo del terreno e le stropiccia con vigore le mani e le tempie per rianimarla, il gioco di sguardi silenziosi tra i due personaggi, il gesto taciturno di Kundry che segnala al vecchio l’apparizione improvvisa di Parsifal, tutto questo apparato romanzesco e ariostesco d’immagini narrative è stato in gran parte sacrificato a un preconcetto di severità oratoriale. Questa impostazione un po’ burbanzosa dello spettacolo, fondata sopra una pretesa incompatibilità del misticismo con la freschezza d’un sentire ingenuo, è probabilmente responsabile del peso che talvolta s'è avvertito, assai più che la risaputa predilezione del maestro Cluytens per tempi riposati e per sonorità riccamente guarnite, quali del resto la partitura del Parsifal innegabilmente richiede. Eccellente distribuzione delle parti in palcoscenico, con un Boris Christoff che dava al personaggio di Gurnemanz una imponenza e un rilievo di protagonista, un ottimo Amfortas in Gustav Neidlinger, un buon Klingsor in Gustav Stern e una generosa Kundry in Rita Gorr. Ma Soprattutto lieta è stata la conoscenza di Sandor Kénya: essa cl assicura che non sarà necessario sospendere sine die le esecuzioni di opere wagneriane per mancanza di tenori. («L'Espresso», 15 maggio 1960) 128

«I Troiani» ridimensionati

Fra tanti ricuperi con cui teatri e festival musicali cercano d’evadere dall’angustia del repertorio, quello dei Troiani di Berlioz sembra uno dei più utili. Non si tratta solo d’una riesumazione culturale, da prendere e metter là come un aumento di cognizioni: pare piuttosto d’aver messo le mani su un anello mancante che, ricollocato al suo posto, trova i suoi attacchi e le sue diramazioni verso molteplici direzioni nella storia del teatro musicale. La composizione dei Troiani è contemporanea a quella del Faust di Gounod. L’unica rappresentazione parziale avvenuta durante la vita dell’autore è del 1863: due anni prima del Tristano e Isotta a Monaco, due anni dopo il celebre crollo del Tannhduser a Parigi; Verdi aveva scritto La forza del destino, e fra due anni avrebbe rifatto il Macbeth, proprio per il Théatre-Lyrique che aveva ospitato l’opera di Berlioz. Si affacciavano alla vita musicale Musorgski] e Rimskij-Korsakov, vedendo in Berlioz, come in Liszt, un faro sulla via del progresso musicale. L’opera cui Berlioz consacrò il maggiore sforzo creativo della sua età matura, con l'ambizione di contrapporre alla brumosa epopea teutonica di Wagner un poema teatrale mediterraneo e latino, si colloca perfettamente in questa rete di rapporti storici, e non certo a rimorchio. L'accertamento dell’influenza che può avere esercitato quest'opera semiclandestina costituirebbe un argomento d’indagine appassionante. L’ascolto permette di smentire la taccia d’arcaismo gluckiano che, avanzata da Debussy, viene spesso ripetuta. Non c’è vecchiume, non c’è gusto d’antiquariato nei Troiani. Non solo la partitura s’avvale della magica orchestrazione berlioziana, ma non è vero che la scrittura vocale retroceda verso la rigidità settecentesca di Gluck e il neoclassicismo di Spontini. Nel terreno specifico del rinnovamento melodrammatico ottocentesco, cioè nel passaggio dalla forma chiusa dell’aria a una più libera maniera di declamazione melodica, Berlioz dice nei Trotani una parola sua, più originale delle contemporanee soluzioni di Gounod, e non indegna d’affiancarsi a quanto Verdi andava in quegli anni sperimentando, appunto nel nuovo Macbeth, e poco dopo nel Don Carlos e nell’Aida. Alle spalle di questa melodia vocale berlioziana ci sta forse in parte l’esperienza del Lohengrin, mentre invece essa non ha nulla a vedere col sistema della melodia infinita e dei motivi conduttori. Anche si distingue dallo scultoreo eloquio vocale di Verdi per minore urgenza drammatica e minor potenza di caratterizzazione. La melodia di Berlioz ha piuttosto la vaghezza curvilinea, la penetran-

«L’opera cui Berlioz consacrò il

maggiore sforzo creativo della sua età matura,

con l'ambizione di contrapporre alla brumosa epopea teutoni-

ca di Wagner un poema teatrale mediterraneo e latino.» Alle pagine successive bozzetto per I Troiani, di

Piero Zuffi.

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MASSIMO MILA ALLA SCALA

te finezza psicologica e la stemperata indecisione di contorni della

romanza da camera, ed in questo non è meno francese di quanto lo sia la melodia di Gounod, di Massenet e di Debussy. Col suo lungo

respiro essa alimenta quasi tutte le scene dei Troiam: nel duetto d'amore di Enea e Didone, sopra il moto ondoso dell’orchestra, e nel celebre settimino che lo precede, essa tocca due vette divenute celebri, ma in realtà manifesta la propria efficacia anche in scene marginali, non sorrette da particolare importanza drammatica, come il lungo duetto di Didone con la sorella, che s’affida soltanto alPola. l'eccellenza sopraffina dei valori musicali. Nonostante la grandiosità epica della concezione e l’inclinazione di Berlioz alla magniloquenza del gesto sonoro, I Troiani mostrano chiaro come l’accento specifico della sua ispirazione fosse la malinconia elegiaca, quella che tanto amava in Virgilio. In questa deliberata romanticizzazione del mito latino, Shakespeare non gli fornisce, come a Verdi, la selvaggia energia vitale degli eroi tragici, bensì la dimensione fantastica, il senso dell’ambiente, il prolungamento delle anime umane nell’amica risonanza della natura. La qualità shakespeariana dell’opera si manifesta soprattutto nella sinfonia descrittiva del quadro coreografico «La caccia durante il temporale», percorsa da un evocatore motivo sincopato dei corni: qui tacciono le voci dei personaggi, e la natura interviene come un deus ex machina risolutivo, una natura tutta magiche apparizioni di elfi e di ninfe e di creature fantastiche, da Sogno d’una notte di

mezza estate. Oppure Shakespeare è presente in certe infiltrazioni marginali di realismo: come il dialogo burlesco, in verità poco riuscito, di due soldati troiani, o la poetica canzone del marinaio, sorprendente anticipazione d’un colore esotico che tutti avremmo giurato fosse stato inventato e donato all’opera lirica dai russi. Nonostante le sue pose roboanti e l’enormità delle masse orchestrali, Berlioz era soprattutto un mite e un gentile: nulla in lui dell’indomabile potenza eroica che Wagner ereditava dal sinfonismo beethoveniano, e, rispetto a Verdi, appare chiaro che i personaggi di Berlioz non vivono nella nitida evidenza della realtà, bensì nella sfumatura del sogno, dell'evasione romantica in un passato vagheggiato e idealizzato. Con la stanchezza dell’età matura Berlioz lascia cadere, insieme all’esasperazione degli atteggiamenti passionali, anche la tracotanza della polemica artistica: nei Troiani la sapienza orchestrale non è mai fine a se stessa e non ha lo scopo d’abbacinare il borghese, ma si piega utilmente alle esigenze drammatiche e narrative. La scrittura musicale è per lo più condotta su un solido sistema a tre parti reali, dove alla fioritura vocale fa da contrappeso una costante mobilità melodica dei bassi: il più cherubiniano dei professori di Conservatorio non potrebbe trovarci nulla a ridire. L’antico rivoluzionario non disdegna di fare una pace affettuosa, e piena d’intelligente comprensione storica, con le stesse convenzioni melodrammatiche del «grand opéra», tante volte derise. Nella Presa di Troia il grande concertato a 8 voci dopo l’annuncio del prodigio funesto di Laocoonte è il tributo a una decrepita tradizione del mestiere operistico: sopra una situazione di stupefatto sbigottimento collettivo elevare a poco a poco il castello di bravura contrappuntistica del compositore. Né è il solo omaggio a Rossini: la marcia dei Troiani che risuona ora «in modo trionfale» ora «in modo dolente», cercando di conferire unità al poema teatrale, è uno dei tanti rampolli che la marcia degli Ebrei del Mosè ha disseminato lungo il melodramma ottocentesco.

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«I TROIANI» RIDIMENSIONATI

La semiclandestinità dei Troiani non si deve a ragioni recondite, ma solo a quei «difetti di proporzioni» che, secondo il giudizio di Debussy, «ne rendono la rappresentazione difficile e l’effetto quasi uniforme». Spezzate le cinque ore di musica in due opere fittizie, la prima, La presa di Troia, fu praticamente sacrificata, poiché raccolse tutta la congerie dei più esteriori e macchinosi fattacci scenici. Eppure vi campeggia l’unico carattere vigorosamente tratteggiato, Cassandra; invece nei Troiani a Cartagine Enea e Didone non pervengono a reale individuazione drammatica. Oggi si tende a ricostituire la spezzata unità del «poema lirico» berlioziano, rappresentando le due giornate in unico spettacolo, con larghi tagli. Così ha fatto la Scala, valendosi della sapiente direzione musicale di Rafael Kubelik, che in questa forma ha già richiamato l’opera in vita al Covent Garden. Mario Del Monaco, Giulietta Simionato e Neli Rankin primeggiano nella folta schiera di cantanti. Il coro e l'orchestra danno pure un contributo di prim'ordine alla buona realizzazione musicale. Le scene di Zuffi e la regìa di Margherita Wallmann collocano lo spettacolo in quell’alta retorica tragica da «grand opéra», che praticamente non è affatto estranea alla concezione del compositore. E alla regìa va dato merito d’avere azzeccato la magia shakespeariana di quella «caccia durante il temporale», che è come l’ombelico e il centro generatore di tutta l’opera.

(«L’Espresso», 5 giugno 1960)

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La moglie eroica di Donizetti

Siamo davvero esagerati e ingiusti quando definiamo borbonica la censura democristiana che imperversa sugli spettacoli. Sotto i Borboni veri, a Napoli, il povero Donizetti non riuscì a fare rappresentare il Poliuto: «La revisione fa il viso arcigno, dicendolo troppo sacro; oh vedi un po’!». Invece ora il Poliuto s'è potuto benissimo rappresentare alla Scala per l'inaugurazione della stagione, destinata a rimanere memorabile per il ritorno della Callas e per l’intervento di illustri personaggi. E nemmeno il dottor Trombi, a quanto pare, ha trovato nulla da ridire. Speriamo che non ci ripensi. Il Poliuto è quell’opera dei cui progressi Donizetti informava il cognato in questi termini: «L’opera nuova per settembre va avanti. (Toto mio, mi par troppo fracassosa; poco amore vi è, et timeo Danaos et dona ferentes)». A parte il sibillino accenno ai danai (forse il romantico Donizetti credeva poco alla solennità di soggetti classici e catalogava come danai gli antichi romani e gli armeni di Mitilene), nei dubbi di Donizetti c’è il miglior giudizio critico dell’opera. Forse essi furono espressi mentre il compositore lavorava al primo atto, veramente il più povero d’«amore» e d’ispirazione musicale. In seguito, il soggetto gli offriva, almeno in qualche scena, le situazioni predilette. Tanto per cominciare, nonostante il titolo, un’eroina femminile non dissimile da Lucia, da Anna Bolena, da Eleonora, da Lucrezia Borgia e da Pia de’ Tolomei. La situazione è la solita che informava gli altri romanzi musicali borghesi di Donizetti: una donna che per forza di cose non ha potuto sposare l’uomo che amava, ne ha sposato un altro, e quando il primo riappare all'orizzonte, resta pateticamente dilaniata tra l’amore e il dovere. Al solito schema si aggiunge qui lo zenzero dell’alone di religiosità e del sacrificio eroico verso il quale infine, superate le burrasche, i coniugi marciano insieme, «al suon dell’arpe angeliche». Che in questo caso il marito non sia un vilain, ma un nobile cuore, come del resto il primo pretendente, e che tanto l’uno che l’altro, nella presente edizione scaligera, fossero impersonati da quei due maggiorati fisici che sono il tenore Corelli e il baritono Bastianini, non fa che aggiungere complicazioni ed interesse ai sottili «égarements du coeur» a cui è sottoposta la povera Paolina, e che costituiscono l’alfa e l’omega della drammaturgia musicale di Donizetti. Dove l’elegiaca tenerezza delle vicende individuali degli amori infelici e delle virtuose rinunce può affiorare dalla fracassosa cornice storica, sì hanno le cose migliori dello spartito. In particolare

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LA MOGLIE EROICA DI DONIZETTI

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«Al suono esaltante della sua elementare melodia le

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definitivamente dai lacci delle passioni terrene ed essi si avviano lietamente al sacrificio.» Fagurini per il Poliuto, di Nicola Benois.

nei duetti del secondo e terzo atto, tra soprano e baritono e tra so-

prano e tenore. Nel primo Paolina si ritrova davanti l’antico amore, che credeva estinto, e «l’antico ardore si ridesta nel suo cuore», ma virtuosamente ella resiste. L’anima dibattuta tra la tentazione e la risoluzione, il dolce assalto dei ricordi e la crudele fermezza del dovere, si manifesta nella qualità della invenzione melodica: non più futile e incontrollata, essa acquista mordente, non si limita ad allineare orecchiabili cantilene ma veramente attinge negli affetti del personaggio. L’indecisa oscillazione cromatica di «Quest’ultima è troppo debole», sopra accordi staccati che scandiscono con rigore i tempi delle battute, concreta la sostanza del personaggio e della situazione in un'immagine musicale che fa pensare, per analogia di procedimenti, a «Gran Dio, morir sì giovane» della Traviata. (L’altra grande anticipazione verdiana del Poliuto è il coro dei sacerdoti nel grandioso finale secondo, sulla frase «Sii maledetto», che ricorda un celebre spunto del finale secondo di Aida.) Nel terzo atto il duetto fra gli sposi, che vede passare Poliuto dal sospetto geloso alla più commossa ammirazione per la consorte,

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MASSIMO MILA ALLA SCALA

presenta lo stesso fenomeno di riscatto dalla futilità della melodia

edonistica, fine a se stessa. Il tempo musicale e gli episodi mutano attivamente col mutare delle situazioni psicologiche, e a partire dalle poche battute di «andante» dell’introduzione orchestrale a «Questo pianto favelli», d’una gravità severa, quasi beethoveniana, tutto è vero, mosso e commosso; l'invenzione è autentica, accesa nel fuoco della fantasia, non intralciata da qualche tributo al virtuosismo vocale, e spesso trova insolitamente il suo centro di gravità nelle figurazioni strumentali: per esempio in quella, così trascinante, dell’«allegro» che precede il prorompere del motivo finale, «Il suon dell’arpe angeliche». Nell’ultima scena questo adempie senza infamia la sua funzione di elemento liberatore e catartico: al suono esaltante della sua elementare melodia le anime dei due sposi si sciolgono definitivamente dai lacci delle passioni terrene ed essi si avviano lietamente al sacrificio. A questi punti va ridotta la consistenza della partitura donizettiana, senza indulgenze casalinghe per la copiosa quanto futile vena melodica, per la grandiosità fracassosa dei concertati, di cui l’autore era il primo ad aver fastidio. Né si deve omettere di rilevare la cialtroneria di certe soluzioni virtuosistiche, dove l’invenzione musicale si muove decisamente a controsenso rispetto alle situazioni e al testo: per esempio, l’arietta «Sfolgorò divino raggio», nel second’atto, dove i buoni propositi cristiani di Paolina sì fanno strada su un gaglioffo ritmo di marcetta. Sopraffatta da uno strepito di ottoni, la partitura non ha quella preziosa finezza di coloriti timbrici in funzione psicologica, di cui Donizetti aveva già dato prove, e che avrebbe tosto perfezionato. L'esecuzione ha ricondotto una Callas che, attesissima ed ac-

clamata a gran voce con grida affettuose di «Maria, Maria!», si trova esattamente allo stesso punto di quando ci aveva lasciati, due anni fa, col Pirata di Bellini. La sua voce non è più quella di dieci anni or sono, ma non è ulteriormente scaduta. Un poco stridula e metallica negli acuti e nel vano virtuosismo di «Perché di stolto giubilo» al primo atto, commovente d’intimità e di misurato calore espressivo nelle mezze voci del secondo e terzo atto, quando un po’ di valore autentico si fa luce nella musica. Immutate l’intelligenza musicale e la naturale nobiltà del gestire tragico. Veniva fatto di pensare, ascoltandola, al ritratto storico di Giuditta Pasta che Eugenio Gara ha or ora pubblicato nella «Rassegna Musicale», cercando di ricostruire sulle testimonianze l’arte di questa grande cantante dell’ottocento, che a forza d’intelligenza e di sensibilità riusciva a trarre risultati eccelsi da mezzi naturali indocili e perfino ingrati. Franco Corelli e Ettore Bastianini, entrambi in voce, in gran forma, pieni di salute vocale, dovevano avere una gran voglia di strafare e di gigioneggiare, ma hanno saputo astenersene, con virtuosa rinuncia al virtuosismo. Merito loro e merito della ferma direzione di Antonino Votto. Buoni il basso Zaccaria e gli altri elementi vocali; sicura la partecipazione del coro istruito da Norberto Mola, grandiose le scene di Benois e la regìa di Herbert Graf.

(«L’Espresso», 18 dicembre 1960)

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Un dramma per due bassi

Della sorprendente ignoranza con cui si soleva, fino ad epoca abbastanza recente, liquidare il Don Carlo di Verdi come un’opera mancata, può essere buon documento uno scritto di Papini a proposito del dramma di Cicognani Yo, el rey. Con quel suo gusto fastidioso di sostituire a un luogo comune altri luoghi comuni di colore opposto, lo scrittore cattolico insorge contro la «leyenda negra» accanitasi sulla figura di Filippo II a partire dalle «calunnie» del suo ministro fuggiasco Antonio Perez e crede di poterne scorgere un esempio rilevante nel libretto del Don Carlo di Verdi. «Questa versione semplicista e volgata si fonda, come nelle tragedie romantiche e nei melodrammi dell’ottocento, sopra l’antagonismo tradizionale e convenzionale del nero e del bianco, del basso tenebroso e del tenore luminoso, del tiranno spietato e dell’eroe generoso». Dato e non concesso che tale si presenti il libretto che Méry e Du Locle derivarono dal dramma di Schiller, non v’è alcun costrutto a giudicare un libretto d’opera senza la musica a cui è subordinato, e manco a farlo apposta l’opera verdiana è la più sorprendente smentita alle consuete accuse di sommarietà psicologica che gli intellettuali sogliono rivolgere al melodramma. Riascoltandolo di recente alla Scala, in una delle numerose riprese che da una dozzina di anni sanzionano il ricupero di questo capolavoro un tempo misconosciuto, s'ammirava una volta di più l’eccezionale molteplicità degli strati drammatici che lo compongono. Ciò che Papini chiama il «fatale e mortale contrasto» di Filippo II col figlio Don Carlo, rinfocolato dalla supposta passione di quest’ultimo per la

«Il polo negativo non è il bieco tiranno, bensì il Grande Inquisitore, che Verdi contrappone a

Filippo con geniale intuizione drammatica in un formidabile duetto di bassi.» Alle pagine SUCCESSIVE, bozzetto per Don Carlo, di Georges Wakhévitch.

matrigna Elisabetta, non è che un modesto filo conduttore, intor-

no al quale si dispongono numerosi altri motivi drammatici, più intensamente sentiti ed attuati nel fuoco dell’invenzione musicale. Tra questi c’è anche, indubbiamente, il contrasto fra l’assolutismo monarchico impersonato in Filippo II e l’anacronistica concezione liberale, quest’ultima incarnata non già nel velleitario e febbrile principe ereditario, ma nel Marchese di Posa, l’unico personaggio dell’opera che, dal punto di vista musicale, può offrire presa a qualche sospetto di semplicismo ingenuo, come se fosse un portatore esclusivo di ragioni positive, un campione tutto d’un pezzo della virtù politica e morale. Ma anche egli si colora di sfumature più complesse nell’amicizia virile che lo lega al debole Don Carlo e nell’ammirazione reciproca che, attraverso il contrasto ideologico, si sviluppa tra lui e il tiranno Filippo: al di sopra della barriera che li divide, si riconoscono entrambi uomini capaci di realizzarsi 137 11.

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nell'azione. D'altra parte lo stesso tema un po’ quarantottesco del-

l’amicizia eroica di Rodrigo e Don Carlo s’arricchisce d’allarmanti

sottintesi psicologici risuonando in tono minore, quasi dolorosamente deformato, al culmine del gran finale terzo, quando proprio Rodrigo disarma l’incauto Don Carlo, insorto contro il sovrano in Ros una esasperata quanto inane crisi di nervi. Ben lontano dall’essere il «basso tenebroso» e il «tiranno spletato» che ci vede Papini, Filippo è personaggio d’estrema complessità: il bene e il male vi si stemperano in una problematica terra di nessuno, e questa sospensione di giudizio si rispecchia nella condotta musicale della parte, che schiva la rotondità formale delle arie e s’esprime attraverso un libero declamato, duttilissimo aseguire i moti dell’animo eppure mai povero di sostanza melodica. Nel celebre arioso del quarto atto, «Ella giammai m’amò», sì conclude gloriosamente, come in un grande ritratto a figura intera, un personaggio drammatico di cui Nabucco, il vecchio Foscari, il Monforte dei Vespri Siciliani e Simon Boccanegra sono altrettanti studi, bozzetti e disegni sempre più vicini a fermare l’immagine definitiva. E il ritratto rembrandtiano del vecchio principe, cui l'ambizione di potere ha alienato gli affetti privati, mentre la conoscenza del cuore umano, acquisita proprio nell'esercizio del potere, gli rivela la vanità della potenza e della gloria mondana. Il classico tema della solitudine sul trono affascinava Verdi, che in queste figure di vegliardi vigorosi, carichi d’amara saggezza, trovava una complessità di situazione drammatica ben superiore a quella offerta dalle smanie amorose od eroiche dei giovani tenori. Lungi dall’essere il polo negativo dell’opera, Filippo ne è, nonostante il titolo, l’autentico protagonista, quel protagonista che non può essere l’imbelle Don Carlo. Il polo negativo c’è, ma non è il bieco tiranno, bensì il Grande Inquisitore, che Verdi contrappone a Filippo con geniale intuizione drammatica in un formidabile duetto di bassi: ma quest’esplosione del feroce anticlericalismo verdiano, Papini preferiva ignorarla e credere che Filippo fosse l’eroe negativo del dramma. Principale motivo d’interesse del nuovo allestimento scaligero è la coraggiosa adozione dell’edizione in 5 atti col ripristino, cioè, di quel primo atto che, oltre a contenere una bella pagina musicale nel duetto di Don Carlo ed Elisabetta, pone le indispensabili premesse psicologiche da cui si sviluppa il risentimento di Don Carlo contro il padre. Purtroppo, però, s'è cercato di rimediare alla lunghezza che così assume lo spettacolo con alcuni tagli poco considerati, in particolare quello apportato nel quarto atto alla drammatica scena di Filippo ed Elisabetta. L'imponente schieramento d'’artisti richiesto dall'opera vedeva Boris Christoff in quella parte di Filippo II ch'è una delle sue migliori interpretazioni, Antonietta Stella e Flaviano Labò nelle parti di Elisabetta e Don Carlo, Ettore Bastianini, un po’ affaticato vocalmente, nella parte del Marchese di Posa, e la straordinaria Simionato come Principessa Eboli. Al povero Neri, specialista indimenticabile della parte del Grande Inquisitore, s'è trovato un degno successore nel basso Nicolai Ghiaurov, dotato della necessaria

Imponenza di figura e di voce: dovrebbe soltanto gestire meno e

restare nella statuaria, inesorabile staticità di chi sa d’avere il coltello per il manico. Il direttore Gabriele Santini ha tenuto fermamente le fila della complessa partitura, cui le masse corali, istruite da Norberto Mola, recano un così importante contributo. Le scene

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UN DRAMMA PER DUE BASSI

e i costumi di Georges Wakhévitch e la regìa di Margherita Wallmann ambientano ottimamente il dramma in un ombroso, cupo clima spagnolo, evocato con abili allusioni pittoriche. Nel primo atto s'è data della foresta di Fontainebleau una versione un po’ troppo fastosa e cortigiana, secondo quel gusto del lusso ch’è una malattia inguaribile della Scala: omettendo di seguire alcune precise prescrizioni sceniche dello spartito («Elisabetta si pone a sedere sopra un masso di roccia», «Don Carlo rompe alcuni ramoscelli sparsi a terra ed avviva il fuoco»), s'è perduto l’insolito colore romanzesco in cui Verdi aveva voluto calare il primo incontro di Don Carlo con la futura matrigna. («L’Espresso», 1° gennaio 1961)

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L’Arcadia a fumetti di Paisiello

Nella bella scena disegnata da Luciano Damiani per la Nîna pazza per amore di Paisiello, un verde paesaggio italiano alla Poussin, l'occhio è attirato da un’alta cascata dipinta, tutta ben

ravviata e, naturalmente, immobile. La musica di Paisiello è un po” come quella cascata. Accuratissima e obbediente alle situazioni, tl seduce, alla prima con la vaghezza del coretto iniziale e col ritratto

della soave protagonista, svanita nella sua dolce follia: certamente quando il sospiroso suono del flauto, fin qui tenuto in serbo dal compositore, si allaccia direttamente alle ultime parole recitate da Nina «Se Lindoro venisse...», e ad esso subentra poi dialogando l’oboe, e così si avvia la celebre romanza iniziale, «Il mio ben quando verrà», si ha davvero la sensazione d’essere introdotti con mano leggera nell’intimità più segreta d’una tenera anima di fanciulla. Ma come l’atto procede oltre questa presentazione, sempre più ci si rende conto che la cascata è dipinta e ferma, e che la musica è sempre uguale, rimediata coi luoghi comuni di un’espressione dei sentimenti tanto corretta quanto convenzionale. La teoria cara allo Stuckenschmidt circa la superiorità delle espressioni artistiche in statu nascenti, rispetto a quelle ormai assise nella stabilità d’una tradizione, non è valida soltanto per le

manifestazioni di punta dell’arte contemporanea, ma sì riscontra anche in altre epoche storiche. Che un tocco di sentimento patetico non svigorisse, ma al contrario ravvivasse per virtù di contrasto, il brio dell’opera comica, e le conferisse veridicità, la ri-

scattasse dalla volgarità della farsa tutta per ridere, s’era visto dalla Serva padrona, dove, a un certo punto, tra i lazzi buffi salta

fuori una nota di sentimento sincero, quando Ubaldo s’intenerisce sulla sorte di Serpina, decisa ad allontanarsi da lui per sposare un soldataccio. Passano cinquant’anni da quell’aurorale capolavoro, tutto balenante d’intuizioni rapide, appena accennate, con l’asciutta concisione allusiva delle intuizioni nuove, e il sentimentalismo settecentesco straripa nell'opera comica e la trasforma in «commedia lacrimosa». Il tono minore, che i primi settecentisti lasciavano cadere col contagocce, spadroneggia. La mollezza sospirosa dell’«andante» si estende a quasi tutte le arie.

Sotto l’influsso del sentimentalismo, l’aria stessa riprende le pro-

porzioni ingombranti che nell'opera comica aveva perduto. È lo stesso rozzo procedimento mentale di chi, avendo scoperto che un pizzico d’angostura giova a una bevanda alcolica, pensasse che triplicando, quadruplicando la dose la bevanda debba riuscire tre, quattro volte migliore. 142

L’ARCADIA A FUMETTI DI PAISIELLO

._ E si ha allora questa troppo celebrata Nina, dove la freschezza intuitiva del Pergolesi si appesantisce in una consapevole, deliberata diligenza di illustrazione sentimentale: tutto (0 quasi tutto, perché la parte del Conte è anche proprio inopportuna) è giusto, ma tutto è fatto apposta, studiosamente, con sapiente impiego di abusati moduli espressivi, anziché essere intuito nell’immediatezza dell’invenzione musicale. La Nina riesce così un piccolo capolavoro di arte conformista: quella che vi fa vedere il «lato buono» della vita, infarcita fino alla nausea di buoni sentimenti, il tutto trattato con mezzi talmente collaudati e risaputi, da permettere anche al più ottuso degli ascoltatori di prevedere gli svolgimenti del discorso musicale, assicurandogli così la piacevole convinzione di essere un intenditore. La dolce follia di Nina, si dice, prelude ad altre follie più grandi del melodramma ottocentesco: Amina, Elvira, Anna Bolena, Lucia di Lammermoor. Più grandi, decisamente, ché nell’arcadico idillio di Paisiello è totalmente ignorato l’elemento che attirerà irresistibilmente la vena degli operisti romantici verso il tema della follia: la liberazione, attraverso lo smarrimento della ragione, di quelle facoltà segrete dell’anima che la parola non riesce a fissare artisticamente, e per le quali il ricorso alla musica è imprescindibile. Di qui la genialità dell’intuizione iniziale di Donizetti, anche se poi sciupata nell’attuazione, di fare del delirio di Lucia un vocalizzo, dove la voce umana gareggia con la bravura senza parole d’un flauto. Come l’antico giubilo alleluiatico, espressione del delirante entusiasmo religioso: voce di esultanza tale che sembra il giubilante «non posse verbis explicare quod gaudet». Questo superamento della razionalità verbale attraverso il puro canto, che fu per i musicisti romantici il segreto fascino della follia, è ignoto a Paisiello. Egli celebra la sua orgia di sentimento con la più razionalistica sistematicità, ed evita accuratamente, per esempio, di affrontare con la musica quel momento culminante dell’azione in cui l’antico fidanzato, creduto morto, viene condotto davanti a Nina, nel supremo tentativo di ricondurla alla ragione. Questo processo, del rientrare in sé, che la parola non può nemmeno tentare di rendere, e che è di precisa competenza dell’espressione musicale, la musica di Paisiello lo schiva, rifugiandosi nella consueta illustrazione esteriore di sentimenti convenzionali, quali sono accuratamente catalogati e descritti nei vari «Traités des passions». La grande fortuna di Nina fu essenzialmente un fatto di moda. Il soggetto divulgava con fumettistica evidenza le dilaganti idee di Rousseau sul primato e l’innocenza della natura, sulla necessità di non contraddire la spontaneità del cuore per bieche ragioni d’interesse. Alla polemica progressiva in favore dei matrimoni d’amore s’accompagnava, nel successo sproporzionato di questa graziosa miniatura sentimentale, un’assai meno progressiva polemica artistica. I noti entusiasmi di Carlo Botta per Paisiello («se posso voglio che in punto di morte mi si suoni intorno la Nîna») sono in acerba, ottusa funzione anti-rossiniana. Napoleone idolatrava Paisiello perché la sua flebile melodiosità lo riposava e gli distendeva i nervi dopo le fatiche di Stato, a differenza della fragorosa drammaticità delle opere di Cherubini. Le fortune del conformismo sfidano i secoli, naturalmente, e

non si potrebbe immaginare nulla di meglio che la Nina per imaugurare la stagione della Piccola Scala. Messa in scena con gusto inn___ o m______m

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MASSIMO MILA ALLA SCALA

(salvo la luminaria finale), cantata con suadente morbidezza di mezzi vocali specialmente da Graziella Sciutti, da Adriana Martino e dal piccolo coro, recitata con impegno da tutti gli interpreti, diretta con sicurezza e precisione da Nino Sanzogno alla testa di un’orchestra selezionata e per nulla arida o secca com'è stato detto (ci sarebbe mancato ancora un po’ più di giulebbe in orchestra, e poi sì moriva tutti asfissiati!), la Nina ha riportato ancora uno dei suoi poco meritati trionfi. («L’Espresso», 29 gennaio 1961)

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«Torneo notturno»

di Malipiero

In uno spettacolo di opere brevi contemporanee è andata in scena l’opera vincitrice del concorso bandito dalla casa editrice Ricordi per un’opera in un atto. La fortuna dei concorsi di composi-

zione, particolarmente operistica, è generalmente relativa, e per

una Cavalleria rusticana scoperta in quel modo, quanti concorsi si chiudono lasciando il tempo che trovano! Nonostante quanto si potrebbe credere, il teatro ha fame e sete di buone opere nuove, e se qualcuna ne nasce, non incontra troppe difficoltà per trovare le vie del palcoscenico. Tuttavia questi concorsi sono sempre una iniziativa lodevole, una delle forme moderne che può prendere il mecenatismo e certamente gli sforzi di chi li promuove meriterebbero di essere premiati da risultati splendenti. Non riteniamo che questa volta tali risultati si siano conseguiti, ma comprendiamo benissimo che, in mancanza di manifestazioni d’una geniale originalità, il favore della giuria, presieduta da Ildebrando Pizzetti e composta da altri eminenti musicisti come il maestro Victor De Sabata, i compositori Werner Egk, Goffredo Petrassi e Francis Poulenc, e dal poeta e critico musicale Eugenio Montale, si sia rivolto ad una di quelle tipiche musiche che per l’onesta validità del mestiere e la scolastica correttezza sembrano fatte apposta per vincere concorsi. Per di più l’autore è giovane, praticamente alla sua prima opera teatrale, poco conosciuto negli ambienti internazionali, sicché sulla scelta dell’opera, salvo il caso poco probabile che tra gli altri invii ci fossero dei Wozzeck o dei Volo di notte, non c’è nulla da ridire. Jean-Pierre Rivière è nato nel ’29, insegna nel conservatorio di Bordeaux, si professa seguace d’un gusto moderatamente moderno, dice di ammirare Barték, Hindemith e Manuel de Falla (noi vi aggiungeremmo Ravel) e di nutrire per l’ambiente e il colore spagnolo quel gusto che ha tanto peso nella cultura francese, e

in particolare in quella musicale. Il libretto fornitogli da Randal Lemoine

viene incontro a questo gusto e presenta un discreto

pregio letterario, che può forse avere influito non poco sul parere della giuria. Tre soli personaggi, Don Chisciotte ormai vecchio e completamente ravveduto, consapevole della pazzia che aveva guidato i suoi celebri trascorsi, e Sancio e Dulcinea, invece, che

come tutti i posteri hanno ora compreso il valore di quelle imprese e il senso delle intenzioni da cui le azioni erano dettate: e vogliono che Don Chisciotte ritorni qual era, e muoia in modo degno

della sua fama, e tanto fanno e dicono che riescono a suscitare nel

morente

un supremo

scatto dell’antica generosa follia. Sicché

145 12.

AUa Scala

MASSIMO MILA ALLA SCALA

Don Chisciotte muore con la spada in pugno, quasi crocifisso sopra

una scala a pioli a cui si appoggia nella sua ultima vampata di entusiasmo attivo. Purtroppo bisogna aggiungere che oltre a questi tre personaggi cantanti c'è pure un recitante, il quale spiega quelle intenzioni che non riescono a trovare autentica estrinsecazione drammatica. i | | Dobbiamo pure aggiungere che abbiamo sentito quest'opera alla prova generale, dove l’eminente soprano Denise Duval, indispoin scena. Si perse così tutta la sta, si limitò a fare atto di presenza con l'ampia canzone specialmente che Dulcinea, di vocale parte della chitarra deve convogliare in sé la più gran parte del colorito spagnolo su cui l’opera fa affidamento. Ma pur riconoscendo la non riteniamo che le imgrave portata di questa menomazione, pressioni favorevoli riportate dall’audizione potrebbero andare molto oltre la stima per l’efficacia dell’orchestrazione e per la appropriata correttezza nell’intonazione melodica della parola. Buoni interpreti il baritono Gaston Bacquier e il tenore Gianni Oncina. Bozzetto e figurini di Emanuele Luzzati, regìa di Maner Lualdi, dii rezione di Nino Sanzogno. L’opera veniva dopo l'esecuzione del Torneo notturno di Malipiero, scritto nel 1929. Ne avevamo un ricordo, lontano ma tutt’altro che vago, d’una audizione radiofonica di venti anni fa e forse più. Non potremmo proprio dire che l’attuale messa in scena, per la regìa di Beppe Menegatti, su bozzetti e figurini di Silvano Falleni, coreografie di Giulio Perugini, abbia giovato a chiarire gli enigmi narrativi di quella lontana audizione cieca, che a noi allora aveva

suggerito immagini, perfettamente gratuite, d’un canto disperato che passa via inarrestabile e rapinoso come il tempo, un canto come di personaggi oscuramente intabarrati, lungo vicoli bui e tortuosi, cinti da alte mura, un poco come in certi quadri di Rosai. Ma d’altra parte c’è stata confermata in pieno l’antica impressione che questa sia, insieme a un paio di Quartetti, la più bella musica che Malipiero abbia mai composto, d’una ricchezza d’invenzioni,

d’un perenne zampillare fantastico e d’una poesia timbrica che non hanno quasi mai sosta. Una casa d’incisioni che osasse produrre su un microsolco questi sette notturni per voci e orchestra rivelerebbe al mondo uno dei più bei titoli di merito che possa esibire la musica italiana rinnovata dalla generazione dell’ottanta. Senza indulgere alle ripudiate convenzioni della dialettica tematica, ci sono tuttavia nel Torneo notturno alcuni abili impieghi di ritorni strofici che consentono all’orecchio maggiori punti di riferimento di quanti di solito ne offra la musica di Malipiero. Le immagini musicali hanno una concretezza plastica e pastosa in tutte le dimensioni: melodia, ritmo, armonia, timbro strumentale. Qualche lieve abbandono alla rotondità melodica del canto non compromette la continuità della libera declamazione e la castità del contorno. Di più s’avverte in questa partitura una pienezza poetica dell’orche-

rr 146

strazione, soprattutto nei timbri elegiaci del clarinetto, dell’oboe, del corno inglese, e un sottilissimo, appena accennato patetismo di colore vagamente slavo: più che dalle esperienze artistiche d’un Musorgskij in orchestrazione raveliana, si direbbe che esso risurga per li rami da misteriose ascendenze d’una Venezia illirica e adriatica) protesa verso l'Oriente. Di questa partitura preziosa Nino Sanzogno ha diretto un’esecuzione ammirevole, come gli accade quando s’impegna a fondo, ed è stato bene coadiuvato dai numerosi interpreti vocali, tra i E A ce "mr rr

«TORNEO NOTTURNO» DI MALIPIERO

quali il tenore Nicola Filacuridi e il baritono Antonio Boyer disimpegnavano le parti principali del Disperato e dello Spensierato. Ultima opera della serata, la fortunata Maria Egiziaca di Respighi, che nelle scene di Nicola Benois e nella regìa di Maner Lualdi trasse lustro specialmente dalle belle voci del soprano Marcella Pobbe, del tenore Regolo Romani e del baritono Rolando Panerai. («L’Espresso», 19 marzo 1961)

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Giuliano figlio di due padri

Gli artisti nei quali predomina la vocazione seria, cioè drammatica e tragica, son proprio quelli che nutrono e maturano il desiderio lungamente vagheggiato del comico. Così spiega Riccardo Bacchelli a proposito della commedia musicale in 2 atti Il calzare d’argento, di cui Ildebrando Pizzetti gli ha chiesto illibretto, contravvenendo per la terza volta, dopo la Fedra e La figlia di Jorio, alla propria abitudine di scrivere da sé il testo delle proprie opere. Ovvia l’allusione alla parabola verdiana culminante nella liberazione comica del Falstaff e giustissime le considerazioni dell’eccezionale librettista sulla saggezza del riso quale coronamento d’ogni piena e compiuta esperienza umana. Qualunque cosa scriva, Bacchelli è sostanzialmente un umorista, e difendendo la dignità del comico, così volentieri e così spesso messa in dubbio dalla retorica accademica dei generi letterari, difende la propria arte. Che Pizzetti fosse un umorista, invece, non era mai venuto in

mente a nessuno, e francamente non s'è indotti a pensarlo nemmeno dopo questa prova. Senz’alcuna intenzione di spacciare i soliti complimenti sulla mirabile alacrità creativa del canuto maestro, si sarebbe tentati di dire che il suo cuore non è ancora abbastanza vecchio per placare la propria agitazione nella rasserenata contemplazione comica. Egli aveva manifestato allo scrittore «il desiderio di musicare un soggetto di commedia, non di farsa, non di opera buffa, ma, per l'appunto e propriamente, di commedia venata di patetico e d’appassionato». Ora il fatto è che nel Calzare d’argento le venature patetiche e appassionate sì mangiano largamente la sostanza comica. Non ci scappa il morto, ma quasi, e abbiamo il commovente canto d’addio del protagonista dal patibolo, a cui sfugge per miracolo, nel senso letterale e tecnico del termine. Non c'è alcun personaggio che possa dirsi veramente comico, e tanto meno i personaggi son comici quanto più sono importanti: il comico è spinto severamente ai margini dell’opera, praticamente confinato ai lazzi, alle pose boriose o alla goffaggine di numerosi «personaggi che non parlano». Ma il nucleo della storia è serio, amaro, e se non cì scappa il morto, non c’è però il lieto fine. Il giullare Giuliano della Viola, accusato a torto del furto d’un calzare d’argento donato al Volto Santo nel duomo di Lucca da una ambasceria del duca di Boemia, non sposerà la figlia dell’orafo Paio di Nocco, e pur riconosciuto innocente e riccamente risarcito del danno patito, abbandona l’improvvisa ricchezza e riprenderà il suo canoro cammino per il mondo, perché la bella Metarosa, pur amandolo e avendo compassione di lui, ha anch'essa creduto alla sua colpa. 148

GIULIANO FIGLIO DI DUE PADRI

Nonostante l’asserita comunione d’intenti e di fattura che ha presieduto alla concezione dell’opera, la mancanza del lieto fine segna la sottile discrepanza tra la natura artistica di Bacchelli e quella di Pizzetti. Il lieto fine non è soltanto una convenzione retorica. In ogni commedia i protagonisti giovani finiscono per sposarsi, ad onta di tutte le traversie, come Fenton e Nannetta nel Falstaff. Che la fine d’ogni commedia sia il trionfo dell'amore non è solo un contentino dato al pubblico perché torni a casa soddisfatto. Significa credere che l’amore è la forza creatrice e determinante della vita. E tale è il credo, morale e estetico, di Pizzetti. Ma Bacchelli, ch'è ingegno ironico, smaliziato e scaltro, crede invece nella poesia, e fa del suo Giuliano un eroe dell’arte, che ad essa subordina anche i sentimenti umani. Dopo Fedra, è la prima volta che in un’opera di Pizzetti l’amore esce sconfitto: sconfitto non dal peso materiale di circostanze avverse, ma dalla propria intrinseca insufficienza a redimere le creature dal male, dalla propria inferiorità rispetto a un alto ideale, che nella fattispecie è quello dell’arte e della sua libertà. Questo. sottile divario si rispecchia nella figura del protagonista, una preponderante parte di tenore, alla quale il musicista non ha esitato ad affidare larghezza generosa di canto, particolarmente nel citato saluto di Giuliano a Metarosa dal patibolo, e nel suo finale congedo, quando il coro lo supplica di non partire (e par di scorgere una dotta e pur fresca allusione monteverdiana nell’impianto musicale della scena, che presenta qualche analogia con la morte di Seneca nell’Incoronazione di Poppea: la vena neomadrigalistica della musica italiana contemporanea continua a funzionare). Ma di Giuliano la musica colorisce volentieri le venature patetiche e appassionate, finché il personaggio è infelice. Quando è trionfante, e diventa perciò spavaldo, e con sarcasmo instaura la

polemica dell’artista contro i filistei, la musica lo abbandona, e se mai trasferisce questa funzione rivendicativa al personaggio laterale di Tingoccio d’Arno Nero, il pescatore di frodo, un irregolare, se non proprio un fuorilegge, e l’unico che abbia creduto in Giuliano. Ma è significativo che la partitura musicale prenda quota e s’avvii verso la grandiosa perorazione dell’ultimo coro, non appena il protagonista ha girato le spalle e, con la sua sacca a tracolla, se ne va per sempre, allontanandosi attraverso lo sfondo della scena, apertosi lentamente ai suoi passi con bell’effetto teatrale. Allora i rimasti intonano il solenne, commosso coro di lode al Volto Santo, che è l’inno della fede di Pizzetti nell'amore delle creature. E Giuliano, e con lui la commedia alla quale s’è assistito, sono a

questo punto favolosamente lontani, tanto lontani da essere già cancellati dalla memoria e dall’animo, come una parentesi senza tracce.

L’opera ha avuto un ottimo successo, ed un’esecuzione perfettamente adeguata al suo carattere di rispettabile decoro ufficiale. La scena unica e soprattutto i costumi di Lorenzo Ghiglia non potevano fare a meno di concretare pericolosamente quella retorica medioevale e toscana del «fresco dugentesco» che, dopo i misfatti

esercitati da Benelli, Berrini, Forzano e Zandonai, fa considerare con irresistibile fastidio soggetti ambientati tra il Decamerone e la Divina Commedia. E c’è voluta tutta la nobiltà musicale di Pizzetti, tutta la finezza letteraria di Bacchelli, tutto il gusto figurativo di Margherita Wallmann, per essercisi tuffati senza lasciarci troppe penne. Ma qualcuna ce n’hanno lasciata: onestà vuole che lo si

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MASSIMO MILA ALLA SCALA

dica, soprattutto di fronte al consenso affettuoso ed unanime riscosso presso il pubblico. Molto merito del successo va alla generosa interpretazione di Giuseppe Di Stefano che ha sentito e reso il personaggio di Giuliano con un impegno, una misura, un'efficacia superiori ad ogni elogio. Qualche improvvisa velatura e appannatura vocale l’ha colto nell’ultimo atto: e ciò induce a chiedersi se la sua parte, per estensione e continuità d’impegno, non sia letteralmente inumana, cioè superiore alle forze di qualunque tenore fatto di carne e d’ossa. Rosanna Carteri ha dato la sua gentilezza, scenica e vocale, alla figura di Metarosa, e Rolando Panerai, nella parte di Tingoccio, e Marco Stefanoni, in quella dell’orafo, sono emersi fra la numerosa schiera di cantanti, tutti adeguati e lodevoli.

(«L’Espresso», 2 aprile 1961)

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Cesti anticipa il Vaudeville

Bel tipo di frate francescano sempre imbrancato con cantanti e attrici, infine prete spretato per intercessione imperiale presso il papa, l’aretino Antonio Cesti viene generalmente assegnato alla scuola del melodramma veneziano secentesco, sebbene le sue relazioni artistiche fossero vive specialmente con l’ambiente romano, oltre che con quello toscano, e Vienna sia stata il teatro dei suoi ultimi e maggiori successi. Qui appunto fece rappresentare, in occasione di nozze imperiali, quel Pomo d’oro che fa di lui il maestro e lo specialista dell’opera a grande spettacolo, fondata sopra la magnificenza della messa in scena, secondo l’estetica secentesca del «maraviglioso». Di questo Pomo d’oro nessuno oggi ha conoscenza esauriente, mentre invece è ritornata con fortuna sulle scene la Orontea che nel 1649 costituì la grande affermazione giovanile dell’ambizioso frate, il successo con cui, nel 1649 a Venezia, «Cesti dovette apparire, al punto culminante della carriera di Cavalli» (il grande maestro dell’opera veneziana), «come Racine quando giunse a minac-

ciare la gloria di Corneille». Tale il parallelo istituito dallo storico Prunières. L'utile principale che si ricava dalla conoscenza di questa Orontea è d’essere riportati a una condizione del melodramma anteriore alla cristallizzazione settecentesca di opera seria e di opera comica: quella d’argomento tragico e soprattutto d’ambiente elevato, aulico; questa d’ambiente umile, borghese o perfino rustico, fondata sull’osservazione della vita quotidiana. L’Orontea prova che il seicento non solo amava mescolare baroccamente elementi comici e popolari in seno alla nobile tragedia storica, come si vede benissimo anche nella Incoronazione di Poppea di Monteverdi; conosceva inoltre un genere leggero ma nobile, fantastico, avventuroso e spesso venato di esotismo pittoresco, con molti di quei caratteri d’evasione che si accompagnano agli spettacoli moderni di musica leggera, quali l’operetta viennese, la rivista franco-italiana e il «musical» di Broadway. Questa Orontea è la regina di Pafo, inaccessibile all'amore. Naturalmente basta che arrivi alla sua corte, lievemente ferito per la vendetta d’una principessa fenicia da lui disdegnata, lo sciocco bellimbusto Alidoro, sempre pronto a correr dietro a tutte le gonnelle, e accompagnato dalla madre Aristea, anche lei affetta da senili smanie amorose, perché il cuore di ghiaccio della regina si sciolga come neve al sole. Equivoci, gelosie. Alidoro, che a tempo perso fa il pittore, accetta le grazie della damigella Silandra, che per lui congeda l’innamorato Corindo, e le i _____ rc _____——__ 151

MASSIMO MILA ALLA SCALA

fa il ritratto: fenomenale anticipazione della Tosca e caso certamente senza precedenti nel teatro lirico, allora affacciantesi alla

Sosoglia del mezzo secolo, questa scena di un pittore al lavoro. pital testa in quadro il sfonda ima, praggiunge Orontea e, gelosiss

tore e alla modella: questa fugge confusa, quello, gaglioffo, non trova miglior rimedio che di svenire fino all’inizio del terzo atto. S’intersecano a questa vicenda principale le smanie di Aristea per quello ch’ella crede un baldo cavaliere e invece è la fedele schiava Giacinta, travestita da uomo per uccidere Alidoro su ordine della principessa fenicia, in realtà innamorata anche lei dell’irresistibile Alidoro. Puntualmente compare in ogni atto, fastidiosissimo e privo di ogni giustificazione drammatica, il personaggio buffo di Gelone, sempre ubriaco, che canta truculente lodi del vino, e con la sua grossolana comicità lacera la tenue eleganza della trama galante. Lieto fine, naturalmente, perché a quel cialtrone di Alidoro vanno tutte bene: quando la regina si era ormai rassegnata ad obbedire alla ragion di Stato, imprecando alla «politica reale, cagion d’ogni mio male», e Silandra offesa per l’incostanza di Alidoro l’aveva piantato in asso ritornando al paziente Corindo, si scopre che Alidoro è figlio del re di Fenicia, e Orontea se lo sposa allegramente.

Siamo dunque in presenza di un’opera che, a parte l’intrusione volgare di Gelone, dove è già maturo lo stile dell’opera buffa, appartiene per intero alla sfera nobile dell’opera seria, col suo linguaggio musicale elevato ed aulico, ma che nello stesso tempo ha la leggerezza e il disimpegno d’un divertimento fantastico, lontanamente dedotto dalla immaginosa vena epica ariostesca. Vi si coglie la vocalità italiana secentesca in un momento storico di grande interesse, quando il vecchio recitar cantando dei fiorentini e del primo Monteverdi s’è talmente gonfiato di melodia, che la forma

chiusa dell’aria è ormai lì in boccio, e sta per fiorire dal germoglio d’una libera, vaga declamazione. Ma è più rapida a cristallizzarsi la breve forma comica della canzonetta, che non la vasta aria lirica o

drammatica: per lo più, in questa sfera d'espressione, siamo ancora alla libertà di un «arioso», già melodicamente mosso, ma conciso ed alieno da eccessi di ripetizioni strofiche (sempre che la concisione ammirevole riscontrata nella maggior parte delle scene della Orontea non sia dovuta semplicemente a una drastica abolizione di ritornelli e riprese operata dal revisore moderno, il maestro Vito Frazzi). Capolavoro di questo momento che potremmo chiamare dell’aria ancora in boccio, è la bellissima chiusa del secondo atto, la quasi-aria di Orontea, «Intorno all’idol mio», universalmente nota attraverso antologie vocali ed esecuzioni da concerto. Altrimenti è ben significativo che la sola aria pienamente formata che si riscontri nell'opera, cioè la prima aria di Orontea, «Adorisi sempre», non appare nel libretto originale del 1649 e dovette essere stata aggiunta in seguito, in occasione di qualcuna delle numerose repliche che l’opera, fortunatissima, ebbe in varie città, per esempio a Milano ancora nel 1664. i

In tempi moderni, essa era stata ripresa a Siena, a cura del-

l'Accademia Musicale Chigiana, nel 1953. Per quest'occasione appunto il maestro Vito Frazzi ne aveva curato la revisione moderna, col suo ben noto criterio di rinunciare a pretese filologiche di fedeltà storica per badare soltanto alle esigenze e alle abitudini foniche del pubblico odierno. Anche a Cesti ha perciò generosamente largito la propria sapienza d’orchestrazione, che è grande e spe152

CESTI ANTICIPA IL VAUDEVILLE

rimentata, e ciò giustifica l'affidamento della concertazione ad un giovane direttore come Bruno Bartoletti, più esperto di moderne complessità orchestrali che di problemi filologici. Sotto la sua direzione hanno assai ben cantato Teresa Berganza, protagonista, che ha dato una vera lezione di belcanto, stilisticamente appropriato, e tanto più pregevole quanto meno appariscente; il soprano Adriana Martino; il contralto Irene Companez, che nelle vesti maschili di Corindo unisce una voce incredibilmente profonda ad apparenze di vamp incontestabilmente femminili; il soprano Edda Vincenzi, anche lei in panni maschili, e il mezzosoprano Bianca Maria Casoni, che ha lottato con gusto e con misura contro la banalità del perso-

naggio malamente comico di Aristea. Su un piano lievemente inferiore le voci maschili: tenore Alvinio Misciano nella parte del fatuo Alidoro, Giorgio Tadeo in quella di Gelone, dalla ingombrante comicità, Carlo Cava e il tenore Franco Ricciardi, abbastanza incisivo e autorevole nella parte secondaria del guerriero Tibrino. Scene un po’ sofisticate, ma indubbiamente eleganti e pittoricamente preziose di Fabrizio Clerici. La regìa di Luigi Squarzina avrebbe forse potuto far di più per assorbire gli elementi disturbatori della comicità volgare di Gelone ed Aristea: ma il difetto sta nel manico, cioè nell’ibridismo della concezione teatrale barocca, che solo in mano a geni come Shakespeare o Monteverdi poteva funzionare in maniera soddisfacente. Per contro, apprezzatissimi certi ingredienti scenici come i giochi delle ammirevoli, e ammirate, schiavette negre che allietano l’occhio senza far niente di preciso per tutto lo spettacolo. («L’Espresso», 18 giugno 1961)

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n Ori porpore pennacchi

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e cattiva musica

Nella musica come nel paesaggio ci sono i luoghi celebri, che acquistano una loro vita esemplare ed emblematica, quasi sganciati dal contesto di cui fanno parte. Il Minuetto di Boccherini o il Largo di Handel sono per la musica qualcosa di corrispondente a ciò che è nella natura il golfo di Napoli. Ascoltare tutto intero l’ultimo Quintetto dell’op. 13 di Boccherini, di cui il celebre Minuetto fa parte, oppure il Serse di Hindel, da cui il celebre Largo proviene, è come prendere il treno o l’aereo e andare a Napoli a vedersi il golfo nella realtà, per uno che l’abbia sempre solo conosciuto in carto-

lina. Quest’occasione è stata ora offerta, per il Largo di Handel, dall'inaugurazione della stagione alla Piccola Scala con, appunto, l’opera Serse, e si è risolta in una grave delusione. Cucinato in tutte le salse, il Largo di Hàndel era specialmente finito in chiesa (da cui l’ha cacciato una recente deliberazione pontificia) in una ibrida versione per organo e orchestra d’archi, mentre altro non era che l’aria «Ombra mai fu» del Serse. Confessiamo di avere spesso fantasticato, fin dalla nostra giovinezza, su questa bella aria, e fatto congetture sulla funzione ch’essa potesse avere nel corso dell’opera. Un notevole passo avanti lo facemmo quando fummo in grado di stabilire che l’ombra di cui parliamo non era quella d’un estinto, bensì l'ombra «cara e amabile» di un «vegetabile», precisamente d’un platano, ombra di cui mai fu la più soave. Sedotti dall’esotismo del personaggio, noi veramente, non conoscendo il recitativo che precede l’aria, pensavamo piuttosto ad una palma, e ci immaginavamo scene suggestive, dove il barbaro sovrano, alla testa dei suoi guerrieri, cercava ristoro dall’arsura del deserto nell’ombra del benigno vegetabile. Delusione! niente di tutto questo. L’aria «Ombra mai fw è la prima dell’opera, e sta lì quasi come un’appendice vocale dell’ouverture. Il delicato sentimento della natura che in essa manifesta il monarca persiano non lascia la minima traccia sul personaggio che in seguito s'avvolge in un mare di stupide peripezie amorose e di equivoci tirati per i capelli. Messa lì sulle soglie dell’opera, «Ombra mai fu» è come una malinconica firma lasciata dal compositore, prima d’immergersi anche lui nel mare senza fondo dell’idiozia melodrammatica settecentesca. Ché la fama di quest’aria non è casuale: il Largo era un’espressione tipica del genio di Hindel, che lasciò lo stampo di questa sua concezione solenne, grave e pacata, quasi un anelito alla pace dello spirito nel corso della sua battagliera esistenza d’impresario teatrale, in numerose Sarabande e Ciac-

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ORI PORPORE PENNACCHI E CATTIVA MUSICA

cone per clavicembalo, in alcuni tempi lenti dei Concerti grossi e

delle Sonate per violino, e in alcune altre arie d’opera e d’oratorio,

tra cui il celebre «Lascia ch’io pianga» del Rinaldo, tanto celebre da essere poi trasferito in molte altre opere dell'autore. . Dopo «Ombra mai fw», l’opera scivola irrimediabilmente nella più fastidiosa convenzionalità del belcanto settecentesco e si riduce a una sfilza di arie ed ariette, appena ravvivate da un paio di duetti e da qualche terzetto, tutte ben scritte, da quel fior di musicista che era Hindel, tutte superficialmente espressive di quanto viene indicato dalle ineffabili parole del libretto di Niccolò Minato, collera, gelosia, amore, speranza, civetteria, balordaggine, e via

specificando attraverso le categorie stabilite degli «affetti» in uso nel teatro settecentesco, e tutte perfettamente inutili. Bisogna ascoltare il Serse per misurare pienamente la portata delle nobili parole premesse da Gluck alla sua Alceste, quando annunciò il suo proposito di spogliarne la musica «di tutti quegli abusi, che introdotti o dalla mal intesa vanità dei cantanti, o dalla troppa compiacenza de’ Maestri, da tanto tempo sfigurano l’Opera italiana e del più pomposo e più bello di tutti gli spettacoli, ne fanno il più ridicolo e il più noioso». Resta da chiedersi che cosa possa mai aver spinto qualcuno a riportare sulle scene questo noioso florilegio d’arie convenzionali e a spenderci molti quattrini di splendida realizzazione figurativa e musicale. Cultura, quanti delitti si commettono in tuo nome! Ma nasce il sospetto, considerato che l’opera ha riportato uno splendido successo, che sì stia determinando una specie di coincidenza tra l’idiozia dell’opera seria settecentesca e l'atmosfera da miracolo economico dell’ambiente scaligero milanese. Si ammira nello spettacolo lo sfarzo, l’ostentazione della ricchezza, la qualità preziosa delle materie esposte. La bellezza delle voci si pone sullo stesso piano dei broccati e degli ori, delle porpore, dei pennacchi, dei lustrini e delle altre materie preziose profuse a piene mani nelle scene e nei costumi disegnati da Attilio Colonnello. Sui pochi metri quadrati di palcoscenico della Piccola Scala la ricostruzione delle abitudini fastose del melodramma settecentesco avviene con puntigliosa fedeltà e con conoscenza di gusto sicuro. Di questo passo, però, si va verso un’alienazione totale dei valori drammatici, e non tarderà a giungere il momento in cui il pubblico, per ora ammirevole nella sua bovina sopportazione in omaggio al mito d’una nebulosa «cultura», trarrà le debite conseguenze dalla situazione, e si comporterà giustamente come il pubblico settecentesco, il quale si guardava bene dall’ascoltare religiosamente tutta l’opera, ma chiacchierava, cenava, giocava a carte e amoreg-

giava durante i recitativi e le arie secondarie, ascoltando dello spettacolo soltanto i punti culminanti. E si dovrà licenziare il regista, perché naturalmente sono inutili, in uno spettacolo di questo genere, i lodevoli sforzi di Franco Enriquez per dare una parvenza di verosimiglianza all’azione e di naturalezza al comportamento dei cantanti. Nel settecento nessuno si preoccupava di queste co-

se, e un regista di merito è sciupato in rievocazioni d'uno spettacolo che era stupido per definizione. A meno di autorizzarlo ad introdurre un pizzico d’ironia e trasformare il tutto in una satira dell’opera seria: ma alla Scala l’ironia non è di casa, soprattutto per quanto riguarda la ricchezza, il lusso e l’ostentazione, che vengono presi maledettamente sul serio. Se si pensa che, con un po meno di fondi a disposizione, passerebbe la voglia di tentare spettacoli di e __—_____€