Il melodramma italiano dell'Ottocento. Studi e ricerche per Massimo Mila 8806467972, 9788806467975

Coll. saggi einaudi

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Italian Pages 668 [692] Year 1997

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Il melodramma italiano dell'Ottocento. Studi e ricerche per Massimo Mila
 8806467972, 9788806467975

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IL MELODRAMMA ITALIANO DELL’OTTOCENTO STUDI E RICERCHE PER MASSIMO MILA

EINAUDI

Questo volume di studi in onore di Massimo Mila, affettuosa testimonianza della gratitudine di tanti studiosi per quanto egli ha fatto per la cultura musi­ cale, è dedicato al melodramma italiano dell’Ottocento, non solo perché Mila vi ha profuso una particolare attenzione sin dagli inizi della sua attività, ma anche perché è parso un campo di indagine op­ portuno per il suo interesse intrinseco e per il modo spesso approssimativo e con­ fuso con cui viene oggi affrontato. Il vo­ lume si propone quindi di avvicinare l’o­ pera romantica italiana con rigore critico e storico. I contributi sono divisi in tre sezioni: la prima, e più cospicua, è dedicata a Giu­ seppe Verdi; la seconda riunisce gli studi sui compositori del secolo, da Rossini a Puccini; la terza raccoglie scritti di argo­ menti vari, in cui l’opera viene per lo più proiettata verso la storia letteraria. Pur nella varietà dei metodi e delle an­ golazioni, due «costanti» emergono da questi saggi: l’intento di arricchire la do­ cumentazione fin qui disponibile, e lo sforzo di inserire il melodramma italiano dell’Ottocento in una prospettiva euro­ pea: un tema, quest’ultimo, molto caro a Massimo Mila.

Le opere di Massimo Mila in edizione Einaudi:

Breve storia della musica L'esperienza musicale e l'estetica Cronache musicali 1955-1959 Maderna musicista europeo Di imminente pubblicazione:

Lettura della Nona Sinfonia

SAGGI

575

Copyright © 1977 Giulio Einaudi editore s. p.a., Torino Questo volume è stato promosso dalla Società Italiana di Musicologia L’editore ringrazia Giorgio Pestelli che ha collaborato in ogni fase alla realizzazione dell’opera

Il melodramma italiano dell’Ottocento Studi e ricerche per Massimo Mila

Giulio Einaudi editore

Indice

p. XI

XIII

Dedica di Alberto Basso Nola del curatore

Il melodramma italiano dell’ottocento Parte prima 5

Verdi

nino PIRROTTA

Semiramis e Amneris, un anagramma o quasi

Saggio di critiche e cronache verdiane dalla « Allgemeine musikalische Zeitung » di Lipsia ( 1840-48 )

i3

marcello conati

45

roman vlad

9i

carlo parmentola

Unità strutturale dei Vespri siciliani Rataplan. Confessioni sulla Forza del destino

Baldacci I libretti di Verdi

113 125

luigi

157

Wolfgang osthoff II Sonetto nel Falstaff di Verdi

Luciano Alberti «I progressi attuali [1872] del dramma musicale». Note sulla Disposizione scenica per l'opera «Aida» compilata e re­ golata secondo la messa in scena del Teatro alla Scala da Giulio Ricordi

Parte seconda

Da Rossini a Puccini

187

Ferruccio tammaro Ambivalenza ddV Otello rossiniano

237 281

paolo gallarati

319

Francesco degrada Prolegomeni a una lettura della Sonnambula

351

Pierluigi petrobelli Bellini e Paisiello. Altri documenti sulla nascita dei Puritani

Dramma e ludus àaWItaliana al Barbiere

Friedrich lippmann Belliniana

Vili

p. 365

Indice Giovanni Carli ballola Mercadante e II Bravo

403

Guglielmo barblan Gaetano Donizetti mancato direttore dei Con­ servatori di Napoli e di Milano

413

benedict sarnaker

Chi cantò L'Esule di Roma? ovvero, Parti in

cerca di cantanti

Brogliaccio donizettiano

425

gianandrea gavazzeni

437

Claudio

451

Sergio Martinotti I travagliati Avant-Propos di Puccini

511

Claudio casini Introduzione a Puccini

sartori

Parte terza

Antonio Bazzini e il teatro lirico

Dalla letteratura alle fantasie pianistiche

539

Claudio gallico Scena nel Saul

545

folco PORTiNARi

«Pari siamo». Sulla struttura del libretto roman­

tico

La Scapigliatura milanese e il teatro d’opera

567

guido salvetti

605

Giorgio pestelli I Cento Anni di Rovani e l’opera italiana

631

Vincenzo vitale Thalberg e Liszt: l’opera in salotto e in concerto

643

Indice dei nomi

Elenco delle illustrazioni

i.

Antonio Bàsoli (1774-1848), Grande pescarla, bozzetto scenico per un’opera comica. Bologna, Accademia di Belle Arti.

2.

Alessandro Sanquirico ( 1777-1849), Tempio. Milano, Accademia di Brera.

3.

Romolo Liverani (1809-72), Atrio, bozzetto a penna e acquerello. Faenza, Biblioteca comunale.

4.

Luigi Asioli (1817-77), Carcere, bozzetto ad acquerello, forse per l’opera di Fer­ dinando Paèr Agnese. Ferrara, Collezione privata.

5.

Domenico Ferri (1795-1878), La Foresta per Norma, bozzetto ad acquerello. Bologna, Collezione privata.

6.

Domenico Ferri, Scena per Lucia di Lammermoor (Parigi, Theatre Italien, 1837), bozzetto ad acquerello seppia e nero. Ferrara, Collezione privata.

7.

Luigi Bazzani (1836-1926), Tempio dei Druidi per Norma, bozzetto. Roma, Collezione privata.

8.

Luigi Bazzani, Chiostro per La Favorita, bozzetto policromo. Roma, Collezione privata.

9.

Francesco Cocchi (1788-1865), Cripta, bozzetto policromo. Roma, Accademia di San Luca.

io.

Giuseppe Migliari (1790-1858), Bozzetto a matita per I Lombardi alla prima crociata, circa 1844. Ferrara, Collezione privata.

11.

Girolamo Magnani (1815-89), Rovine, bozzetto. Parma, Collezione privata.

12.

Anonimo del secolo xix, Litografia per una rappresentazione tedesca di Nabucco a Lipsia nel 1845. Da «Leipziger illustrierte Zeitung», 1845.

13.

Riccardo Fontana (1840-1915), Salone per Gli Ugonotti. Roma, Gabinetto delle Stampe.

14.

Carlo Ferrano (1833-1907), Scena 11 per l’atto III di Don Carlos (primo allesti­ mento al Teatro alla Scala, 1868). Milano, Museo Teatrale del Teatro alla Scala (proprietà Ricordi).

X

Elenco delle illustrazioni

15. Francesco Zuccarelli (seconda metà del secolo xix), Scena 1 per Otello, incisione di A. Bonamore (Milano, Teatro alla Scala, 1887). Da «L’Illustrazione Italiana», 1887.

16. [Giulio Ricordi (1840-1912)], Pianta della Disposizione scenica per la scena 1 di Otello, Milano 1887.

Un volume di studi in onore di Massimo Mila era nei sogni di molti fra noi da gran tempo, ben prima che maturasse una di quelle scadenze accademiche da cui si trae il pretesto per celebrazioni, encomi, omaggi. Il nome di Mila ce lo portiamo dentro, da quando ci siamo avvicinati alla strada che lui aveva incominciato a percorrere allo scadere degli anni venti, allorché l'interesse primario per la musica già s'intrecciava con il principio della ribellione al fascismo. Non aveva ancora raggiunto il «mezzo del cammin» e Mila era già. un mito, lui che ai miti e alle superstizioni, ai dogmi e alle petizioni di principio, alle sopraffazioni culturali e agli schemi preordinati non ha mai prestato fede, lui che la vera fede ha trovato nella musica, nella di­ fesa della libertà, nella frequentazione della montagna, nel pacato e ci­ vico senso della vocazione all'apprendimento e all'insegnamento. Ribel­ le al conformismo e aperto a ciò che è avanguardia o, più semplicemente, novità, progresso ed evoluzione, Mila non ha mai desistito dall'attingere al registro della storia, mantenendo il giusto equilibrio, una com­ passata equidistanza fra tradizione e rinnovamento, fra esperienza ed avventura. Non a caso i suoi interessi di storico ondeggiano fra Dufay e Bartók e passano attraverso antitesi sublimi, Beethoven e Rossini, Brahms e Verdi, mentre il filtro di Mozart sembra conciliare tutte le contraddizioni dello spirito critico. Contagiato ma non corrotto dall'estetica crociana - ma Mila, che ha solide virtù dialettiche, dirà che i corrotti siamo noi - e$i ha saputo raccogliere intorno all'idea di musica opinioni un tempo inconciliabili: critica e musicologia, interpretazione e ricerca, sintesi ed analisi, intui­ zione e documento procedono affiancati, l’uno appoggiandosi all'altro, l'uno rispecchiandosi nell'altro. Questa coincidenza di opposti è la ra­ gione prima del suo metodo di scrittore - si, di scrittore - che sa tempe­ rare l'entusiasmo con lo scetticismo e, per un giusto senso del pudore, attenuare la virtù con l'ironia. La Società Italiana di Musicologia, che gli è grata per quanto egli ha

xn

Dedica

saputo fare a favore della cultura musicale, ha raccolto alcuni studiosi intorno al suo nome e li ha invitati a scrivere per testimoniare in modo tangibile e concreto la riconoscenza di tutti.

Quanto alla casa Einaudi, non ci si può limitare a dire che ha aderito prontamente all’iniziativa di pubblicare questo volume: bisogna aggiun­ gere che essa ha dato prova fin dalla prima idea, e via via nel corso del lavoro, di una partecipazione nella quale è facile riconoscere, oltre alla stima profonda per lo studioso e lo scrittore, l’amicizia e lo spirito di collaborazione che legano il nome di Mila, fin dagli inizi, alla storia cul­ turale della casa editrice stessa. ALBERTO BASSO presidente della Società Italiana di Musicologia

Nota del curatore

Se una raccolta di studi intitolata a Massimo Mila era questione di spontanea e pacifica evidenza, la forma in cui inscriverla poteva dare materia a varie esitazioni e perplessità. Innanzi tutto, trattandosi di per­ sona alienissima dalle cerimonie, si poteva discutere l’opportunità della cornice che solitamente accompagna i volumi in omaggio di’, tomi di te­ mibili proporzioni, catafratti del termine tedesco Festschrift e contor­ nati di parole latine dal suono ostile {contulerunt} o maccheronico {ta­ bula gratulatoria, e giù una sfilza di nomi). Se di questo apparato si è risolto in breve di non lasciare traccia, piu difficile e rischiosa la decisione sull’asse lungo il quale polarizzare gli scritti: uno studioso come Mila, cosi lontano dalle divisioni comparti­ mentali, che interviene con piacere pari all’autorità in settori diversi del­ la storia musicale, poteva sembrare grave travisamento limitarlo entro un tema preciso, inchiodarlo a una «specialità», tanto più scelta indi­ scretamente da noi, senza il suo assenso, fuori dal cerchio delle simpatie private. Certo al Melodramma italiano dell'ottocento, fin dall’esordio, Mila ha dedicato le più risolute energie; ma la scelta era aperta anche per Mozart o Brahms, forse più indicativi di tutta una misura umana e intellettuale; oppure per la musica del nostro secolo, dove più continua e capillare è l’azione informativa e critica di Mila; e infine si poteva an­ che, senza menomare la sua ampiezza di interessi, rimuovere ogni con­ fine e lasciare che i più lontani argomenti convivessero beatamente, go­ mito a gomito; che so: Virgae cornute nel Ms V3& di Cracovia, Sociolo­ gia del colpo di piatti nel romanticismo, Stile e Idea in Morlacchi, Mu­ sica quantunque. Modelli comunicazionali e/o ludici, Il pudore in Bel­ lini, L'acciaccatura in Donizetti, ecc.: soluzione che avrebbe allargato senza paragone la schiera di quanti volevano attestare con uno scritto la stima e l’amicizia a Massimo Mila. Il Melodramma italiano dell'ottocento è parso campo d’indagine op­ portuno sopra tutto per certi caratteri interni al tema stesso, per i con­ torni con cui si presenta nella vita musicale odierna: un campo con una

XIV

Nota del curatore

forte tendenza a sfumare ancora nel dilettantismo, sia in quello di segno negativo, per mera ignoranza, sia in quello di segno positivo, per enfasi di alcune componenti che si somatizzano in hobbies, in specialismi ma­ niacali ma anche redditizi; dal desiderio di affacciare esigenze professio­ nali — di storia e analisi musicale — nei confronti dell’opera romantica italiana è nata la scelta di questo argomento, a preferenza di altri, per onorare Massimo Mila. La coltivazione del campo ha sofferto in questi ultimi decenni per eccesso non per difetto: si pensi al modo come si è sviluppata, come un problema occupazionale, come una caccia al tesoro, l’operazione dove­ rosa di inventario e studio delle opere quali che siano di autori secon­ dari e di quelle minori dei primari; oppure all’intervento fino ad oggi senza flessioni degli uomini di lettere (non ce ne vorranno se continuia­ mo a chiamarli cosi per comodità), che tanto piu frutterebbe se fosse fatto sul terreno loro proprio di tecnici della letteratura, piuttosto che su quello dei conoscitori e appassionati dell’opera. Basta nominare il me­ lodramma e si spianano sorrisi d’intesa: la parola d’ordine è melodram­ ma, in se stesso, come istituto, come rito. Per contro, non si è del tutto spenta la corrente severa del risorgimento (ma oggi ripetuta da muffiti campioni collet monte) che guardava al melodramma italiano come a un peccato di famiglia, come a un panno da sciacquare a casa, avendo sco­ perto (bontà loro) che Mozart Beethoven Schubert Chopin Schumann e Brahms erano altra cosa. Esaltazioni e denigrazioni che riaffermano per vie opposte la peculiarità del genere operistico, quella peculiarità che Mila nelle prime righe del suo saggio verdiano del 1933 considerava già archiviata e che oggi è invece risospinta in prima linea, non sempre in buona fede: l’unicità del suo presentarsi al pubblico (e chi vorrà negar­ la?) viene ribaltata in una unicità di stato d’animo da parte di chi ascol­ ta, o legge o studia, come se qui si spuntassero gli strumenti consueti dell’indagine storica (buoni per quartetti o sonate) e si dovesse ricorrere ad esperienze di altro genere, magari mistiche: le piu lontane pensabili dal metodo di lavoro di Mila. Teatro degli effetti senza cause era per Wagner il grand-opéra, ma la stessa espressione usata da Nietzsche (La nascita della tragedia, 14) può essere estesa a comprendere tutta l’opera (non wagneriana) con la sua componente irrazionale o surreale: ora, mettere in luce le cause che sem­ pre, in un modo o nell’altro, nel bene e nel male, sono alla base di quegli effetti è la via concreta seguita da Mila nel suo lungo colloquio con l’ope­ ra italiana; e Le cause degli effetti, se non fosse suonato eccessivamente cancelleresco, sarebbe stato il titolo giusto per raccogliere la maggior parte degli scritti che seguono.

Nota del curatore

xv

Entro il confine generale suddetto, nessun’altra sollecitazione è stata fatta ai collaboratori, non presumendo in un volume a più mani di rag­ giungere alcuna unità, se non puramente pragmatica. Gli scritti su Verdi, risultando più numerosi di quelli su ogni altro argomento, formano una sezione a sé che si è posta in capo al volume; la seconda parte riunisce gli studi monografici su compositori del secolo che va da Rossini a Puc­ cini; un’ultima sezione raduna scritti su argomenti vari, con l’opera che proietta la sua ombra fuori di sé, per lo più verso la storia letteraria. Pur nella varietà dei metodi e delle angolazioni, due direttive comuni si sono fatte avanti spontaneamente: allargamento della documentazione (fine che la Società Italiana di Musicologia persegue si può dire per sta­ tuto) e sforzo di inserire il melodramma italiano dell’Ottocento in una prospettiva europea, tema quest’ultimo molto caro a Mila. Altro ele­ mento unificatore: il dedicatario si troverà spesso chiamato in causa dai dedicanti, con affettuosa insistenza lungo quasi tutto il volume; conge­ dando il quale, non sapremmo augurargli sorte migliore che quella di fa­ vorire un seguito a questo dialogo, lungo quelle linee di riflessione e discussione su dati, testi, carte, documenti, in cui consiste il proprium, e il piacere, del lavoro dello storico. G. P.

Un particolare ringraziamento va alla casa editrice Ricordi, che ci ha consentito di ri­ produrre gli esempi musicali che accompagnano i testi di questo volume; a questo propo­ sito ci corre l’obbligo di ricordare, per VEdgar e la Tosca di Giacomo Puccini, i rispettivi copyrights: Copyright © 1905 e 1899 by G. Ricordi & C., Milano. Il saggio di Luigi Baldacci, I libretti di Verdi, riproduce con una nuova conclusione e alcuni ritocchi la prefazione al volume Tutti i libretti di Verdi, edito nel 1975 da Garzanti, che siamo lieti di ringraziare per la cortese concessione.

Il melodramma italiano dell’Ottocento

parte prima

Verdi

NINO PIRROTTA

Semiramis e Amneris, un anagramma o quasi

Di Semiramide, anzi «Semiramis» si legge «che succedette a Nino e fu sua sposa»; ma non so dove Antonio Ghislanzoni leggesse il nome di Amneris prima di darlo ad uno dei personaggi di uno dei suoi libretti ver­ diani l; e mi assilla il dubbio (per il quale non posso, mentre scrivo, chie­ dere aiuto a Massimo Mila) che Amneris e Semiramis fossero, tra mito e storia, un solo personaggio, il cui nome sarebbe giunto a noi in forme diverse per l’approssimativa resa fonetica di scritture, rispettivamente, in ideogrammi geroglifici e caratteri cuneiformi. So bene peraltro quanto poco affidamento meriti un libretto d’opera come fonte d’informazione storica. E un altro dubbio operistico mi mostra che per amore dell’amico cui queste pagine sono dedicate, e che è tanto più esperto di me degli intimi recessi della vulcanica fucina verdiana, sto addentrandomi in selve a me inconsuete - vorrei dire in « selve opache ». Si addita il Mosè come il modello cui si rifecero non poche opere di Verdi degli anni ruggenti; non mi risulta invece se sia stato ipotizzato un simile rapporto tipologico tra Semiramide e Aida1. Tra le due opere, è vero, correva doppia la distanza che nel 1842 divideva il Nabucco dal primissimo Mosè napoletano del 1818; e la rendeva maggiore la diffe­ renza tra il Verdi giovane che nel confronto con altri scopriva la sua vera statura, e l’artista al colmo del successo che con cosciente travaglio inda­ gava per quali vie nuove potesse avanzare senza rinnegarsi. Ma è anche vero che Semiramide con quasi mezzo secolo di vita reggeva meglio di12 1 Una risposta a questo mio retorico interrogativo verrà da ciò che dirò dello scenario proposto da Auguste Mariette. Il quale, come risulta dalle lettere pubblicate da saleh abdoun, Genesi dell'Aida, Parma 1971 (Quaderni dell’istituto di Studi Verdiani, 4), e da Ursula gunther, Zur Entstehung von Verdis «Aida» in «Studi musicali» 11, 1973, pp. 15-71, aveva avuto affidato, o si era assunto, il compito di controllare l’esattezza archeologica di ogni particolare di architettura, costume e costumi egiziani. Accompagnando l’invio dello scenario a Camillo Du Locle, Mariette scri­ veva: «Ne vous effarouchez pas du titre. Aida est un nom égyptien. Il faudrait régulièrement Aita. Mais le nom serait trop dur et les chanteurs l’adouciraient irrésistiblement en Aida» (lettera del 27 aprile 1870, ibid., pp. 42-43); è da presumere che avesse proposto nomi egiziani anche per altri personaggi. La forma Anmèris, riportata più sotto, non influisce sui miei fantasiosi anagrammi. 2 Devo ricredermi, perché vi accenna lele (Fedele) d’amico, Gioacchino Rossini, Torino 1939, P. 33.

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Nino Pirrotta

ogni altra opera seria di Rossini il peso degli anni, e aveva avuto in tempi vicini al 1871 memorabili esecuzioni con le due sorelle Marchisio nei ruoli principali. Mentre Aida, prodotto di gran lusso di un artigianato d’eccezione, nasceva con alcuni caratteri arcaizzanti imposti dalle circo­ stanze della commissione che l’avvicinavano a Semiramide. Primo e più ovvio di essi è lo svolgersi dell’azione, in riva al Nilo e all’Eufrate, tra templi giganteschi, regge fastose e giardini lussureggianti. In questa ambientazione (e il parallelismo include le cripte tra le cui om­ bre luna e l’altra opera raggiungono il loro epilogo) vi è l’impronta del­ l’archeologia orientalizzante divulgata da schizzi e disegni di Champollion; che aveva avuto un peso nel gusto dell’età napoleonica e conservava qualche attualità ancora al tempo della Semiramide (1823), ma era tor­ nata ad essere velleità di filologismo operistico negli anni dell’Aida, im­ mediatamente successivi alla caduta dell’ultimo napoleonide. Consentiva però il battage dei cortei pittoreschi, delle bande o fanfare in palcoscenico e delle fluttuanti maree di comparse e masse corali. Più sottilmente sug­ geriva la ricerca di sfondi atmosferici sacrali o di saporosi esotismi. Non meno anacronistico è il disporsi delle tre figure principali dell’in­ treccio di Aida secondo il tradizionale diagramma metastasiano di attra­ zione amorosa e di ripulsa, che rinnova inoltre nel condottiero Radames il conflitto, altrettanto tradizionale nella storia dell’opera, tra amore e dovere. A Radames fa riscontro nella Semiramide il giovane guerriero Arsace, posto tra la concupiscenza amorosa di una regina che potrebbe essergli (ed è) madre, e l’amore corrisposto di una giovinetta, la «cele­ ste» Azema; la quale è figura di scarso rilievo ma non senza peso nell’e­ conomia dell’opera, perché risponde all’esigenza di un ruolo femminile di soprano che affianchi il contralto-soprano di Semiramide. Poco premi­ nente sarebbe del resto, senza la musica di Verdi, anche la «celeste Aida» (assurta all’onore del titolo per il sopraggiunto predominio dei ruoli sopranili nella convenzione operistica), se non l’animasse ancora una volta il conflitto tra amore e amor di patria. Di spirito di clan o di tribù non è il caso di parlare, ché nulla, tranne il nostalgico ricordo di «cieli azzurri» e di «foreste imbalsamate», fa sentire in lei l’immediatezza primitiva di una creatura barbarica. Che Arsace si scopra essere Ninia, figlio di Nino e Semiramide (e quindi doppiamente un travestito, dacché è un contralto che canta), non trova equivalente nel tenorile Radames; ma travestimento è anche in Aida quello di Amonasro che dissimula la sua vera identità. Diverso da Amonasro, benché gli corrisponda nel ruolo di baritono, è Assur; le sue torbide allusioni all’uccisione di Nino e il suo delirio nell’evocazione os­

Semiramis e Amneris, un anagramma o quasi

7

sessionante del delitto non potevano tuttavia non associarlo nella mente di Verdi all’interesse mai venutogli meno per le vicende e i pensieri della coppia omicida del Macbeth. Infine, ma non ultima di importanza, Amne­ ris è, in parallelo con Semiramide, la personalità piu vigorosamente scol­ pita dell’itófl, e quella che più influisce sugli altri personaggi e sull’azione imponendosi con l’irruenza passionale associata alla dura volontà dell’au­ tocrate. È meno politicizzata di Semiramide, ma in compenso non turbata da complessi di colpa e più decisa a raggiungere con ogni mezzo Io scopo, anche con l’inganno, mentre Semiramide usa come strumento la tergiver­ sazione. La regalità la affranca da ogni condizione di inferiorità femmi­ nile — almeno cosi credo che la pensasse Verdi, che era a suo modo un femminista e che l’affiancò a Violetta per l’empito della passione, dan­ dole in più una carica di sensualità non repressa. Parlando proprio di Amneris, in una lettera a Giulio Ricordi del io luglio 1871, Verdi affer­ mava la necessità che i cantanti avessero le diable au corps’. «... quel certo non so che, che dovrebbe chiamarsi scintilla e vien comunemente defi­ nito colla frase aver il diavolo addosso» ‘. Meglio che in ogni altra parte dell’opera questo aspetto del personag­ gio è delineato nella prima scena dell’atto II da una sola frase melodica, ripetuta due volte nel contesto, destinato a inquadrarla e meglio defi­ nirla, di «un coro ben lirico, colle ancelle che abbigliano Amneris e con una danza di moretti etiopici». Non è cavatina, perché è ridotta realisti­ camente a «parola scenica».(anzi «sospiro scenico») dove un monologo in presenza delle ancelle sarebbe stato incongruo; ma adempie al compito di autodefinizione psicologica che la tradizione operistica aveva per lungo tempo assegnati specificamente alle cavatine, non di rado collocandole in un boudoir col personaggio femminile fisicamente e psicologicamente allo specchio. La scena, prescritta in una lettera di Verdi a Ghislanzoni (14 agosto 1871) fin nei particolari del metro, dei «due versi voluttuosi» di Amneris e della danza di moretti (della quale generalmente sfugge l’in­ tenzione allusiva alla schiavitù dell’etiope Aida), ha un puntuale antece­ dente del «Coro e cavatina» che apre la seconda parte dell’atto I di Se­ miramide 2. In entrambi i casi l’autodefinizione ha luogo dopo che il per1 La scelta di una cantante per la parte di Amneris è argomento che ritorna più volte nelle let­ tere di Verdi. Non pare che egli avesse difficoltà per gli altri ruoli; ma per questa parte, scritta aven­ do in mente le doti vocali e di temperamento di Isabella Gaietti Gianoli, non trovava compietamente soddisfacenti le interpreti proposte per la prima assoluta del Cairo, cioè la belga Marie Grasse, la Grossi (che fu poi prescelta) e l’austriaca Maria Waldmann (che invece ebbe gran successo nella prima scaligera). 2 Verdi aveva chiesto (suggerendone il contenuto) «due couplets di dieci versi l’uno; la prima strofa di quattro versi di carattere guerriero; la seconda pure di quattro versi amorosi e due versi voluttuosi di Amneris. Il secondo couplet idem». E aveva prescritto anche il ritmo: «... faccia dei versi settenari doppi, cioè due settenari in uno; e se a lei non urta troppo faccia tanti versi tronchi, che sono talvolta graziosissimi in musica». Ghislanzoni rispettò questi desideri costruendo due

8

Nino Pirrotta

sonaggio ha già fatto pubblica apparizione: in Semiramide nella gran­ diosa scena della consacrazione del tempio di Belo (un equivalente del «Gran Finale secondo» di Aida\ in Aida in tutta la prima parte dell’at­ to I, culminante in cori bellici e nella consegna del vessillo a Radames da parte della stessa Amneris (dello stesso atto fa parte il «Finale primo» con la consacrazione di Radames nel tempio di Vulcano a Menfi, nel quale però Amneris non compare). In tutte e due le opere la scena del boudoir o gineceo è seguita da un duetto, rispettivamente tra Amneris e Aida e tra Semiramide e Arsace; e a sua volta ciascun duetto è seguito da un cambiamento di scena e dal trapasso a luoghi aperti e grandiosi, in un ca­ so per il trionfo di Radames vittorioso, nell’altro per il giuramento di fe­ deltà al futuro sposo imposto da Semiramide ai suoi sudditi. Queste corrispondenze non sono casuali e non provengono esclusivamente dallo scenario (stampato in quattro copie! ) di Mariette Bey, o dalle modifiche apportatevi da Verdi e da Du Lode durante la settimana, o poco meno, che questi trascorse a tale scopo a Sant’Agata tra il 18 e il 26 giugno 1870l. Nascono invece da una ulteriore modifica, né la sola né l’ultima, voluta interamente da Verdi. Dello scenario di Mariette non pare sia rimasta traccia; di quello riformato di Verdi e Du Lode, spedito da Verdi il 25 giugno a Giulio Ricordi perché l’inoltrasse a Ghislanzoni, scorgo un riflesso nella notizia Aida di Verdi pubblicata da «Il Trova­ tore» di Milano (anno xvn, n. 36) 1’8 settembre 1870. Nell’argomento ivi riassunto non vi è accenno al coro e alla scena delle ancelle e degli schiavi etiopi in «una sala dell’appartamento di Amneris». L’atto II ini­ zia invece direttamente vicino a «Una delle entrate della città di Tebe [...]. Il popolo è radunato. Rhadamès fu vincitore [...]. Entra la princi­ pessa Anmèris [tzc]; il suo amore si è ingrandito per il trionfo del suo amato [...]. Chiama Aida e fingendo dolore le annunzia che Rhadamès è morto»2. L’informazione, rilasciata credo da Giulio Ricordi, non teneva conto del nuovo cambiamento deciso nel frattempo da Verdi, il cui piano particolareggiato è dato a Ghislanzoni nella lettera già citata del 14 agosto. strofe di 4 + 4 + 2 versi ciascuna, nelle quali si alternano settenari sdruccioli e tronchi. Anche Ros­ sini manipolò a suo piacimento i versi fornitigli da Gaetano Rossi per la Semiramide, riducendoli nella prima parte della scena a due strofe quasi identiche, una del coro e l’altra di Semiramide. Se si considera il verso che esse hanno in comune, «Arsace ritornò, I qua a te [o «a me»] verrà», come la somma di un settenario e un quinario tronchi, anche la strofa corale della Semiramide rag­ giunge i dieci versi; gli altri versi sono settenari piani, sdruccioli e (la maggior parte) tronchi. 1 L’ultima lettera di Du Locle prima della partenza da Parigi è del 18 giugno 1870; la prima dopo il suo ritorno è del 2 luglio. Ma i termini possono essere ulteriormente ristretti tenendo conto della lettera del 25 giugno con la quale Verdi accompagnò l’invio a Ricordi dello scenario con­ cordato con Du Locle. 2 Non mi è stato possibile accertare se il nome dato come Anmèris sia un refuso de «Il Tro­ vatore» o provenga dallo scenario di Mariette.

Semiramis e Amneris, un anagramma o quasi

9

Anche nel modello rossiniano il personaggio è in larga misura tratteg­ giato attraverso lo specchio compiacente e adulatorio del coro (la scena si intitola infatti «Coro e cavatina»); e nella cavatina di Semiramide, che è una molto libera variazione della strofe corale che la precede, gli accenti caratterizzanti l’aspettazione voluttuosa e l’orgoglio per il valore guer­ riero dell’amato (es. i a, ib) sono direttamente ripresi dalla parte corale. Semiramide

Il lato esotico della figura di Semiramide era già stato indicato (fuga­ cemente rispetto ai molti orientalismi dell’Aida) dal disegno strumentale e corale che ne accompagna l’entrata nella scena della consacrazione del tempio di Belo, una specie di fandango, il cui carattere modale è accen­ tuato nella ripetizione in do maggiore con l’afrore della quarta eccedente

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Nino Pillotta

La nota iberica può essere stata suggerita dalla personalità dell’inter­ prete, Isabella Colbran, ma può anche darsi che Rossini utilizzasse gli unici spunti musicali etnici di cui aveva conoscenza. Un simile impulso fece si che Verdi chiedesse, nella didascalia suggerita a Ghislanzoni, che i « ragazzi etiopi » intrecciassero la loro danza « a suon di nacchere » . Le analogie di situazione e di atmosfera tra le attese voluttuose di Se­ miramide e di Amneris non possono farne dimenticare le differenze. Dell’ambivalenza di Verdi verso il modello rossiniano è un sintomo lo sfogo contenuto in una sua lettera del 25 luglio 1871 a Opprandino Arrivabene, evidentemente ancora fresca dei ricordi del più recente trava­ glio creativo. Verdi vi afferma che «... le melodie non si fanno né colle scale né coi trilli, né coi gruppetti»; e cita, come esempio di ciò che egli non ammette che si possa più fare, accanto a due opere rossiniane che serie non sono, proprio quell’una tra le serie che più si avvicina ad Aida per taglio e ambientazione: «...non sono melodie le cavatine del Bar­ biere, della Gazza ladra, della Semiramide». Possiamo udire in queste frasi l’eco di riflessioni fatte durante la com­ posizione BAVAida (se non già durante quella tanto più remota del Na­ bucco). Semiramide doveva apparire a Verdi ben più ricca di suggestioni ambientali che non a noi, avvezzi come siamo oltre che all’insolita ric­ chezza di colori dell’Az^ a molti abusi romantici di più forti aromi. Ap­ prezzava certamente l’horror sacrale creato nei modi più diversi: gli spunti contrappuntistici e i giri armonici che accompagnano all’inizio del­ l’opera l’estasi mistica di Oroe (e sono presi alla fine della scena iv), i fruscii orchestrali che precedono la cavatina di Arsace, il quartetto vocale del giuramento, il coro dei Magi entro il santuario dell’atto II, e (benché contrassegnata da un tema che siamo abituati a sentire nel contesto bril­ lante della Sinfonia) l’introduzione strumentale del «Finale secondo». Non potevano poi lasciarlo indifferente, oltre che le scene di terrore per 1 Su questo punto Ghislanzoni non si attenne ai suggerimenti di Verdi e ritenne piu ortodosso che i «giovani schiavi mori» danzassero agitando ventagli di piume. La sua didascalia passò al li­ bretto definitivo, benché il «Piu mosso» della musica di Verdi per la danza (metronomo 152 per la semiminima) renda poco probabile che essa abbia potuto essere mai danzata con ventagli di piume.

Semiramis e Amneris, un anagramma o quasi

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il manifestarsi soprannaturale di Nino, i molti spunti di forte drammati­ cità di cui abbondano arie e recitativi di notevole intensità gestuale, scene di ampia e varia struttura come i duetti di Semiramide con Assur e con Arsace nell’atto II, e concertati dall’onda melodica copiosa e commossa. Ma... Ma se lo toccano dov’è il suo debole (che è poi magari un punto di forza) anche Verdi ha reazioni veementi, forse al di là delle sue stesse intenzioni. Penso che questo sia il caso dei suoi giudizi sul canto di colo­ ratura. La cavatina di Semiramide non è efficace soltanto nei passi in cui la melodia come la voleva Verdi esprime l’ardore amoroso; fanno parte del personaggio anche l’impetuosità e l’imperiosità rappresentate dai passi di coloratura, secondo un topos il cui valore semantico non è infi­ ciato dal ricordo della cavatina del Barbiere che esso suscita anche in noi: Rosina non appariva forse a Stendhal «une veuve alerte et non pas une jeune-fille de dix-huit ans»? Su un piano più generale non è esatto che coloratura significi negazione della melodia, come Verdi era indotto a dire dal suo sforzo appassionato verso altre forme melodiche più scarne e incisive. Sono innumerevoli le melodie rossiniane delle quali nemmeno Verdi avrebbe voluto incrinare la miracolosa integrità togliendo una sola nota alla loro floridità. Anche su noi influisce un concetto negativo del canto di coloratura de­ rivato dalla volatilità acrobatica dei soprano leggeri, che oggi sono i soli a praticarla sistematicamente, e dalle intonazioni approssimative, o (peg­ gio) dalle deformanti accelerazioni di tempo alle quali sono costretti a ri­ correre, con poche eccezioni, i cantanti di altro tipo. Ci manca quasi com­ pletamente l’esperienza dell’agilità agevole in pienezza di suono e ugua­ glianza di timbro, per la quale fu celebre, tra tante altre, la voce di Isa­ bella Colbran (cfr.es. 3). E dalla mancanza delle condizioni dalle quali dovrebbero emergere spontanei e senza sforzature i valori melodici e la loro implicita espressi-

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Semiramis e Amneris, un anagramma o quasi

vita nascono a mio parere le riserve che accompagnano i giudizi critici sulla Semiramide, dal «nonostante i difetti» del Radiciotti, al «nonostan­ te i suoi pregi» e all’accenno alle «formule obbligate del virtuosismo ca­ noro» di pronunciamenti recenti1. Non vorrei contestare questi giudizi, ma mi piacerebbe che fossero nuovamente delibati astraendo dalla tentazione di ogni impossibile con­ fronto (o anagramma) tra Rossini e Verdi. Nella Semiramide io vedo an­ zitutto un gesto di affetto di Rossini verso la Colbran (l’unico che si co­ nosca) nell’illusione che ne fosse ancora recuperabile il «dolcissimo me­ tallo di voce tonda e sonora, massimamente nei tuoni di mezzo e ne’ bas­ si», il «cantare finito, puro, insinuante», il «bel portamento di voce, in­ tonazione perfetta, e scuola forbitissima»12. Ma non escluderei che fosse in Rossini anche il disegno di emulare col canto la nobiltà espressiva del virtuosismo strumentale che egli aveva appena pochi mesi prima ascol­ tato nei Concerti dei grandi maestri viennesi. 1 Si veda paolo isotta, I diamanti della corona in Gioacchino Rossini, Mosè in Egitto ecc., Torino 1974, pp. 252-57; e luigi rognoni, Gioacchino Rossini, Torino 1968, p. 1732 Giuseppe carfani, Le Rossiniane, Padova 1824 (ristampa anastatica Bologna 1969), p. 158.

MARCELLO CONATI

Saggio di critiche e cronache verdiane dalla « Allgemeine musikalische Zeitung» di Lipsia (1840-48)

Alcuni studiosi sembrano orientati ad attribuire le corrispondenze dall’Italia che metodicamente apparvero dal 1812 al 1847 sulla «Allge­ meine musikalische Zeitung» di Lipsia (che per brevità qui citeremo semplicemente con la ben nota sigla «amz») al dottor Peter Lichtenthal \ sebbene a lui non accennino minimamente né J. Loschelder nel suo Rossinis Bild und Zerrbild in der «Allgemeinen musikalischen Zeit­ ung» Leipzig1 23, né W. Fr. Kiimmel nel suo Vincenzo Bellini nello spec­ chio dell"«Allgemeine musikalische Zeitung» di Lipsia, 1827-1836'. L’ostinato silenzio della redazione lipsiense sul nome del suo abituale corrispondente dall’Italia, che essa si limita a indicare sempre e solo co­ me «unserer Mailànder Correspondent», non aiuta a risolvere l’enigma; né si spiega la tenacia con la quale il corrispondente milanese non volesse mai rivelare il proprio nome4. L’attribuzione al Lichtenthal non manca tuttavia di qualche fondamento quando si pensi solamente alla coinci­ denza delle date del suo arrivo a Milano nel 1810 in qualità di censore per il Lombardo-Vene to e dell’inizio di quelle corrispondenze nell’au­ tunno del 18125. L’ampiezza degli interessi storico-musicali quale emer­ ge da tali relazioni per un arco di circa trentacinque anni (non solo minu­ ziose notizie su tutte le stagioni d’opera e sui principali avvenimenti mu­ sicali della penisola, ma anche elenchi sempre aggiornati dei lavori dei 1 Bratislava, io maggio 1780 - Milano, 18 agosto 1833. Compositore di balletti, di musica stru­ mentale e da camera, più noto come autore del Dizionario e bibliografia della musica in 4 voli, pub­ blicato a Milano nel 1826 e di alcuni scritti su Mozart. 2 In «Bollettino del Centro rossiniano di studi», Pesaro 1973, n. 1, pp. 23-42 (trad. it. alle pp. 43-56) e n. 2, pp. 23-42 (trad. it. alle pp. 43*55). 3 In «Nuova Rivista Musicale Italiana», vii, n. 2, aprile-giugno 1973, pp. 183-205. 4 Vedi ad esempio la nota redazionale in calce alla corrispondenza pubblicata nel n. 47 del 21 novembre 1832: per l’occasione del ventesimo anno di collaborazione, la redazione dell’«AMZ» (di cui era allora responsabile G. W. Fink) nel porgere al «Mailànder Correspondent» il proprio ringra­ ziamento e quello dei lettori nonché l’augurio di duratura collaborazione, si rivolge all’«uomo alta­ mente meritevole», ma ne tace ancora una volta il nome. 5 Per l’esattezza, col n. 48 del 25 novembre 1812; si tratta di una corrispondenza da Napoli, datata 24 ottobre, per la «prima» locale del Don Giovanni di Mozart; parte di essa fu da me pub­ blicata nel vol. Ili (a p. 31) dell’edizione discografica di quest’opera per la serie Grandi Opere Liriche della Fratelli Fabbri Editori.

Marcello Conati

compositori italiani contemporanei, lo stato attuale delle scuole di mu­ sica a Bergamo, Bologna, Napoli, ecc., recensioni alle piu recenti pubbli­ cazioni di argomento musicale apparse in Italia, notizie biografiche, ecc.) può ben ricollegarsi all’attività di tipo storiografico ed enciclopedico del­ l’autore del Dizionario e bibliografia della musica. E quasi certamente al Lichtenthal, medico oltre che musicista, possono attribuirsi una recen­ sione alla «memoria» del Vergari sul tarantismo musicale1 nonché altri cenni sul medesimo argomento apparsi in «amz»12. Infine è da rilevare che una delle numerose corrispondenze dall’Italia, precisamente quella per la stagione di primavera del 1838, fu effettivamente firmata dottor Lichtenthal34 . Ma proprio il fatto che si tratta dell’unica corrispondenza firmata dal Lichtenthal (e benché a una prima analisi stilistica del testo questo non riveli una sostanziale dissimiglianza di tono rispetto a quello delle altre corrispondenze) può dare anzi motivo a ritenere che tutte le altre relazioni siano invece opera d’altro autore. D’altronde in quegli anni non mancavano a Milano critici musicali in grado di corrispondere direttamente in tedesco: tali Ansari e G. Caracci, ad esempio, inviarono corrispondenze in tedesco da Milano agli «Jahrbucher des deutschen National-Vereins fiir Musik und ihre Wissenschaft», pure di Lipsia. Per­ tanto, l’attribuzione al Lichtenthal non apparendo per il momento incon­ trovertibilmente dimostrata, ritengo dovermi riferire, ancora, per quan­ to riguarda l’autore delle corrispondenze dall’Italia dell’«AMZ», a un «anonimo corrispondente», come già feci in una relazione presentata al I Congresso internazionale di studi verdiani, in occasione della quale presentai per l’appunto la prima recensione di un’opera verdiana appar­ sa su11’«amz» \ Onde meglio comprendere l’atteggiamento di questo corrispondente nei confronti dell’opera italiana del periodo 1840-48, e di quella verdia­ na in particolare, occorre non dimenticare che egli iniziò le sue critiche 1 Vedi il n. 37 del 9 novembre 1840. Cosi definì il tarantismo il Lichtenthal nel vol. Il del citato Dizionario: «Specie di malattia ipocondria ed isterica, che prende gli abitanti del golfo di Taranto alla fine di giugno fino a tutto luglio e che si suole derivare dal morso della Tarantola, o sia Falangio di Puglia, e la quale viene guarita colla musica». Sui vari aspetti di questa «malattia» - in cui il morso della mitica «taranta» è per lo più immaginario - vedi l’opera fondamentale di ernesto de martino, La terra del rimorso (II Saggiatore, Milano 1961; rist. 1968), frutto di un’indagine in­ terdisciplinare condotta nel Salento nel giugno 1959. Per la cura rituale del tarantismo vedi nello stesso volume il contributo di diego carpitella, L’esorcismo coreutico-musicale del tarantismo, re­ centemente ripubblicato da Carpitella nel suo volume Musica e tradizione orale (Flaccovio, Palermo I973)- Un esempio sonoro per la cura musicale dei «tarantati» rilevato a Nardò (Lecce) nel 1966 si trova nel disco Italia, vol. I della serie della Albatros «Documenti originali del folklore musicale europeo» (Vedette vpa 8082). 2 Cfr. i numeri dell’n novembre 183.5 e dell’n agosto 1841. 3 XL, n. 39, 26 agosto 1838, c. 646. 4 m. conati, L’«Oberto conte di San Bonifacio» in due recensioni straniere poco note e in una lettera inedita di Verdi, in Atti del I Congresso internazionale di studi verdiani (Venezia [...] 1966), Istituto di studi verdiani, Parma 1969, pp. 83-87.

Saggio di critiche e cronache verdiane

nel 1812, una data che noi consideriamo come l’inizio dell’epoca di Ros­ sini e quindi della grande avventura del melodramma romantico italiano; ma la prospettiva che allora si apriva sullo stato della musica in Italia era ben diversa da quella che oggi appare storicamente a noi. Nel primo ven­ tennio dell’ottocento per il teatro musicale della penisola si andava len­ tamente verificando una situazione opposta a quanto era avvenuto sino a quel tempo: in luogo di esportare compositori e opere, le scene italiane cominciavano ad importarli dall’estero. Già la venuta di Mayr non era stata che il lontano preludio di quella pressione dell’opera viennese, o per meglio dire, dell’opera italiana di stile viennese, che andava attuan­ dosi in quel ventennio — attraverso il varco aperto da compositori italiani trapiantati a Vienna e a Dresda, quali Salieri, Paér, Morlacchi, e fors’anche favorita dalle circostanze politiche, specie dopo l’assegnazione del Lombardo-Veneto all’Austria e il subordinamento della penisola all’in­ fluenza diretta di quella potenza - ad opera di compositori stranieri quali Joseph Weigl, esponente dello stile mozartiano, Peter von Winter, for­ matosi a Mannheim e a Vienna, il boemo Adalbert Gyrowetz, allievo di Paisiello ma attivo a Vienna ed esponente dello stile haydniano, lo sviz­ zero Joseph Stuntz, allievo di von Winter e di Salieri, e, poco più tardi, Otto Nicolai, nonché attraverso la diffusione delle opere di Mozart sino a quel tempo pressoché sconosciute sulle scene italiane. La venuta del «Mailànder Correspondent» e l’inizio della sua attività critica coincide­ va con il momento di maggiore penetrazione dell’opera di autori di scuo­ la tedesca, o meglio, viennese, in Italia. Che tale penetrazione venisse inopinatamente arrestata e quindi impedita nel secondo decennio dell’Ottocento (e proprio a partire dal 1812) dall’improvvisa esplosione dell’opera rossiniana, era cosa che non corrispondeva certamente alle at­ tese del corrispondente dell’«AMZ», devotissimo a Mozart, fervido di­ fensore della, musica tedesca, sostenitore strenuo della profonda cono­ scenza dell’armonia e del contrappunto di fronte alla faciloneria melo­ dica e al cattivo gusto dei compositori italiani. Alla ristrettezza del pano­ rama musicale di quegli anni nella penisola, già impoverito dall’esodo dei Cherubini, Spontini, Salieri, Pàer, Morlacchi, ecc., alla mediocrità degli Zingarelli, Generali, Orlandi, Pavesi, Mosca, ecc. egli opponeva il fervore creativo dei compositori tedeschi, i capolavori dei suoi idoli, Mo­ zart sopra tutti, Gluck, Haendel, Beethoven, Spohr, Mendelssohn, poco più tardi anche Meyerbeer, e gli stessi von Winter, Weigl, ecc. Non po­ trà dunque meravigliare che nelle sue corrispondenze dall’Italia si av­ verta un astio particolare nei confronti di Rossini e dell’entusiasmo sem­ pre crescente che le sue opere andavano suscitando presso i pubblici ita­ liani, e che gli si opponga quasi rimpiangendo addirittura i già disprez-

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zati Zingarelli e socil. E se col tempo l’avversione alla musica rossiniana si verrà lentamente e lievemente ammorbidendo (quasi di riflesso all’en­ tusiasmo in lui suscitato dalle opere di Meyerbeer) ciò avverrà solo per­ ché dopo Rossini l’evoluzione del melodramma italiano approderà allo stile di Bellini e di Donizetti, i quali a loro volta attirarono strali se pos­ sibile ancora piu infuocati da parte dell’anonimo corrispondente mila­ nese che in ogni sua relazione non si stancava mai di rimproverare ai compositori italiani mancanza di vera scienza musicale, incapacità di ela­ borazione contrappuntistica, assenza di idee originali, ignoranza stru­ mentale, sciattezza di forme, mancanza di gusto, eccessivo baccano orche­ strale, effetti teatrali violenti e ostentati, arte intesa come divertimento dal pubblico e come affare commerciale dagli autori... Decadenza della musica italiana, decadenza del canto e dei cantanti, decadenza del gusto del pubblico reso cieco e sordo dal reiterato ascolto di opere del sempre medesimo stile: fu un monologo durato sulle pagine dell’«AMZ» per trentacinque anni. Nel dicembre del 1842, compiendosi il trentennale della sua attività critica, il nostro corrispondente pubblicava un articolo panoramico sulla musica italiana del decennio 1832-42, dal quale ripro­ duco qui un frammento1 2 per dare una pur vaga idea del suo atteggia­ mento giusto nel momento in cui all’orizzonte cominciava a profilarsi la figura di Giuseppe Verdi: Quale epoca segnano gli anni 1832-42?... La risposta è molto lunga ed è: l’epoca donizettiana dell’opera-industria, opera-orrore, opera-convulsione, operasofferenza, opera-variazione [...]. La vera caratteristica dell’opera italiana dell’ul­ timo decennio è la pesante uniformità3. Nei primi anni dell’epoca rossiniana, che è durata vent’anni, erano ancora attivi Mayr, Generali, Pavesi, Mosca, Or­ landi, Coccia ed altri, i quali, benché non avessero assolutamente nulla in co­ mune con la musica della nuova moda [cioè quella rossiniana], tuttavia scrive­ vano in stile schiettamente italiano; il pesarese scriveva alla sua maniera, spesso originale: e destò per un certo tempo l’interesse dell’intenditore. In questi dieci anni decorsi l’opera ha conservato ancora la fisionomia rossiniana, ma ha assun­ to tuttavia una tinta in parte piagnucolosa, in parte stomachevole e dolciastra, talvolta lasciva, e l’urlo dei cantanti e il fragore degli strumenti è salito al mas­ simo. (xliv, n. 49, 7 dicembre 1842, cc. 982 sgg.).

Ci si sarebbe potuto quindi attendere che l’apparizione di Verdi su­ scitasse attacchi non meno virulenti di quelli mossi in precedenza con­ tro Bellini e Donizetti, oltre che Mercadante, Pacini, Luigi Ricci e al­ 1 Molte cronache e critiche dell’«AMZ» su Rossini sono state riportate dal radiciotti nel suo Gioacchino Rossini. Vita documentala, Tivoli 1927-29. 2 Già pubblicato nella mia citata relazione (cfr. sopra, p. 14, nota 4). 3 Le principali opere apparse in Italia in questo decennio furono: L'elisir d'amore (1832), Lucrezia Borgia (1833), Lucia di Lammermoor (1835), Belisario (1836), Roberto Devereux (1837) dì Donizetti, I Puritani (1835) di Bellini, Il giuramento (1837), H Bravo (1839), La vestale (1840) di Mercadante, Saffo (1840) di Pacini, oltre naturalmente aWOberto (1839) di Verdi.

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tri compositori affermatisi dopo Rossini. Ciò avverrà puntualmente. Tuttavia al primo apparire di Verdi con VOberto, il corrispondente delF«amz» era stato particolarmente colpito dal talento del giovane com­ positore e aveva saputo intuire in lui colui che avrebbe potuto superare tutti i compositori italiani contemporanei, Donizetti e Mercadante com­ presi. La lunga e interessante recensione delTOberto, corredata da estesi esempi musicali riproducenti alcuni squarci del quartetto, tanto ammi­ rato dal critico milanese, è rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi ver­ diani 1 ed è stata da me interamente riprodotta negli Atti del I Congresso internazionale di studi verdiani, ai quali per brevità rinvio, limitandomi qui a riportarne la parte conclusiva (con qualche leggero ritocco alla mia traduzione di allora) : Quest’opera, commissionata in origine per il Pio Istituto dell’Orchestra alla Scala, ha fatto ora la fortuna del suo autore. Si dice in generale che il Sig. Me­ rchi, impresario del suddetto teatro e associato zWimpresa dell’opera viennese, abbia firmato una scrittura con il Sig. Verdi per la composizione di altre due opere per Milano e di una per Vienna. Il caso ha voluto che quest’autunno i maestri Speranza e Savi, ambedue di Parma12, abbiano fatto furore, il primo a Torino, il secondo a Roma; ed ora in Milano pure il Sig. Verdi, da Borgo S. Donnino (secondo alcuni da Busseto) nella regione di Parma; ragion per cui codesto trifoglio parmense è stato portato alle stelle da un giornale locale. La rivista milanese «Moda» ha pubblicato dei versi che alludono ai nomi di Verdi e di Speranza, attribuendo al primo l’arte di commuovere, al secondo il brio. I di­ sprezza tori di Mercadante arrivano al punto di affermare che questi, lo volesse il cielo! dovrebbe andare a scuola dal Sig. Verdi... Gli attuali maestri in attività si potrebbero forse cosi classificare: Donizetti, Mercadante, Ricci, Verdi, ecc.; Donizetti canta di piu di Mercadante e conosce la composizione altrettanto be­ ne che questi. Ricci è piu originale di Verdi. Resta da vedere se quest’ultimo potrà spingersi più in alto; è da augurarselo molto, poiché egli potrebbe supe­ rare tutti i suoi colleghi, (xlii, n. 6, 5 febbraio 1840, cc. 109-10. In questa e nelle seguenti citazioni i termini in corsivo sono in italiano nel testo).

Lungimirante profezia, indubbiamente, ma che per quanto riguarda Panonimo corrispondente milanese delP«AMZ» vedremo in seguito rego­ larmente e totalmente smentita dagli apprezzamenti da lui espressi nei confronti delle successive opere di Verdi, con una crescente ostilità qua­ le non suscitarono le opere di altri compositori italiani. Intanto dei pregi 1 È strano come questa recensione, che costituisce la prima vera critica a un’opera verdiana, sia sfuggita agli stessi studiosi tedeschi e in particolare al Fellerer che pure nel suo Verdi und Deutsch­ land (in «Italien-Jahrbuch 1939», herausgegeben vom Deutsch-Italienischen Kultur-Institut «Petrarca-Haus», Kòln, vol. Ili, pp. 51-70) cita alcune critiche verdiane dell’«AMZ». 2 In realtà Giovanni Speranza, allievo di Zingarelli a Napoli, era mantovano; la sua opera buffa I due Figaro, su libretto di Felice Romani, era andata in scena al Carignano di Torino il 30 ottobre 1839. Di Luigi Savi la Caterina di Clèves (che, pure su libretto di F. Romani, era stata data la prima volta nel 1838 alla Pergola di Firenze) era andata in scena il 16 novembre 1839 all’Argentina di Roma con grande successo.

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àeTCOberto il nostro corrispondente era ancora cosi convinto che si ri­ tenne in dovere di controbattere l’acerba critica che ne fece l’autorevole Felice Romani sulla «Gazzetta Piemontese»1 dopo la rappresentazione fattane al Teatro Regio di Torino, dove l’opera era andata in scena nel gennaio 1840 a tambur battente onde parare i danni provocati dal fiasco del Guglielmo Teli, e dove anch’essa, pur con due degli interpreti scali­ geri, fece un «orribile fiasco»: Torino. [...] il famoso poeta e giornalista Felice Romani, che ragiona di mu­ sica come tanti suoi colleghi e come tante migliaia di persone che non conoscono una nota di musica, fa sentire la sua voce a proposito di questo secondo avve­ nimento in un lungo articolo. Egli cosi s'esprime tra l’altro: la musica del Gu­ glielmo Teli era soverchiamente straniera pel gusto italiano, quella deWOberto soverchiamente italiana per i dilettanti del gusto straniero; quella era troppo studiata, questa è troppo negletta; l’una troppo difficile, l’altra troppo facile; alla rumorosa strumentazione succede il vuoto dell’orchestra; alla sublimità dei concetti la bassezza dello stile; a tutto ciò che v’ha di piu elaborato in fatto di armonia e di melodia, tutto ciò che v’ha di piu triviale e di più insipido; si di­ rebbe che cotesta sostituzione sia quasi un castigo del freddo accoglimento da noi fatto al primo spettacolo. Dopo aver fatto perciò un rabbuffo all’impresario, Romani descrive in poche righe il libretto, dice che esso è affatto semplice, che il maestro vi ha scritto una musica del tutto corrispondente in semplicità, per­ ciò il tutto è freddo e senza interesse. Ora biasima il canto svogliato della Ra­ nieri, il ruolo di Badiali avrebbe dovuto esser assunto da Botticelli, Salvi avreb­ be meritato dal poeta una parte più confacente, l’Abbadia di quando in quando strilla un po’ troppo, ecc. [...]. L’Allgemeine Musikal. Zeitung nel suo n. 6 di quest’anno già da Milano s’è espressa sull’opera del Sig. Verdi; cosi questa volta c’è solo da osservare che la sua musica non merita per niente affatto l’amaro biasimo sopra espresso da Romani; che essa sia meno rumorosa - ciò che ora si definisce «semplice» — ridonda a sua lode; nonostante la mancanza di novità, essa tuttavia ha del bello, fra cui specialmente la romanza del tenore, gran parte del quartetto nel secondo atto, e molt’altro ancora. Quale prima opera del Sig. Verdi, con un tale libretto, il critico avrebbe potuto essere più indulgente. Ma in Italia fu, è, e sarà sempre cosi. Ogni capitale e ogni altra grande città si crede l’Atene musicale; un’opera che qui fa furore, altrove cade, e ciò tocca talvolta a un Maestro di gran Cartello, (xlii, n. 24, io giugno 1840, cc. 513-14).

II 5 settembre 1840, dopo un inizio di serata che si prometteva fe­ lice, la seconda opera di Verdi, Un giorno di regno, cadeva alla Scala di Milano; il corrispondente dell’«AMZ» si limitò a comunicare l’avveni­ mento affermando che essa a causa della grande povertà della sua musica, trovò un’accoglienza molto fred­ da [...] e la sua esistenza durò appena più di quanto il titolo stesso diceva. (xliii, n. 9, 3 marzo 1841, c. 203). 1 n. 15 del 17 gennaio 1840; l’articolo di Romani fu riportato in «La Farfalla» di Bologna del 28 gennaio 1840 e in «Teatri Arte e Letteratura», pure di Bologna, del 30 gennaio 1840.

Saggio di critiche e cronache verdiane

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Dalle corrispondenze tedesche dell’«AMZ» si apprende intanto che la cantante inglese Maria Shaw, la prima interprete del ruolo di Cuniza AeWOberto, era partita dall’Italia per ritornare in patria e stava effet­ tuando una tournée concertistica in alcune importanti città di Germania. In occasione di un concerto dato a Lipsia il 17 febbraio 1842 (XVIII concerto in abbonamento), oltre alla preghiera di Haendel «Holy, holy, Lord God almighty!» e a due canti scozzesi, essa esegui anche un’aria deU’O^er/o, presumibilmente quella di Cuniza «Oh chi torna l’ardente pensiero»: era questa la prima esecuzione di una musica di Verdi in Germania1. Il relatore lipsiense dell’«AMZ», che non poteva natural­ mente avere coscienza dell’importanza storica di questo avvenimento, si limitò a lodare l’esecuzione della signorina Shaw per aver dato «prova della sua rara abilità nello stile moderno»1 2. E veniamo cosi a quel 9 marzo 1842 in cui per la prima volta fu dato il Nabucco. Precisamente a partire da quest’opera, con la quale Verdi aveva definitivamente trovato il suo stile, comincia a mutare l’atteggia­ mento critico del corrispondente milanese dell’«AMZ»: Milano (Teatro alla Scala). [...] andò finalmente in scena il Nabucodonosor, nuova opera di Verdi, con scroscianti e universali applausi. La musica, per la quale s’è fatto cosi tanto chiasso, ha qualcosa degno di lode, ma nulla di nuovo e di particolare; reminiscenze e molto di comune. Purtuttavia il Sig. Verdi me­ rita l’incoraggiamento datogli (si veda la nostra relazione sulla sua prima opera seria in questa rivista, anno 1840, n. 6). Accanto alla Strepponi, Ronconi e altri cantanti primari si fece notare un basso francese, di nome Derivis, nel ruolo di Zaccaria, per la bella voce e un discreto metodo di canto; la sua Aria con ac­ compagnamento di violoncello (!) fu in seguito tralasciata a causa della musica stravagante, (xliv, n. 42, 19 ottobre 1842, c. 838).

Piuttosto sorprendente il taglio dell’aria di Zaccaria «Vieni o Levita» (cui evidentemente si riferisce il cronista), del quale si ha notizia per la prima volta da questa corrispondenza e che costituisce un’indiretta con­ ferma che qualcosa «di nuovo e di particolare» (anche se sotto le appa­ renti spoglie di una «musica stravagante») emergeva nell’opera del gio­ vane compositore. Ad ogni modo l’incontro del Nabucco, che era stato rappresentato in fine di stagione come opera di ripiego, fu tale che, ri­ preso nell’agosto successivo ad apertura della stagione d’autunno, sem­ pre alla Scala, ebbe ben cinquantasette repliche, una cifra non più supe­ rata nella storia di quel teatro e che sbalordì alquanto l’indaffarato cor­ 1 II programma del concerto comprendeva inoltre una sinfonia in Si bemolle maggiore di Haydn, una fantasia per arpa su motivi del Mosè di Rossini composta ed eseguita da Parish-Alvars, l’ouverture del Fidelio e una «polacca» per fagotto. 2 xuv, n. 9, 2 marzo 1842, c. 190.

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rispondente dell’«AMZ»1, LTi febbraio 1843 andavano in scena alla Scala I Lombardi, quarta opera di Verdi; le reazioni del nostro anonimo rivelano un atteggiamento già decisamente ostile: Milano (Teatro alla Scala). [...] la nuova opera del Sig. Verdi, I Lombardi alla prima Crociata, andò in scena con un fanatismo senza precedenti, laddove i veri intenditori, italiani e non, in tutta quella musica - esattamente come in Nabucodonosor, cui è tuttavia di gran lunga inferiore — non hanno trovato nulla di particolare, bensì poco canto e molto rumore. Il libretto, in cui saltan fuori un parricidio e altri consimili orrori dell’opera moderna, ha da esibire 13, dico tredici preghiere. La nostra rivista, a suo tempo, ha debitamente apprezzato la prima opera del Sig. Verdi; ora non v’è più nulla da dire su di lui se non che la sua nuova opera ha perduto in maniera rilevante sotto l’aspetto melodico; vi si canta in scena un’Ave Maria che è veramente meschina. Che 1 Lombardi contro Ì quali nessuno osava dire alcunché per non ferire il bon ton del carne­ vale milanese 1843 - abbiano avuto il maggior numero di repliche della sta­ gione, è ben facile a immaginarsi, (xlv, n. 25, 21 giugno 1843, c. 460).

Una settimana più tardi il corrispondente dell’«AMZ» concludeva il suo servizio sulla stagione di carnevale 1842-43 in Italia pubblicandone al­ cuni dati statistici, secondo una consuetudine che egli aveva intrapreso da alcuni anni alla fine di ogni stagione (carnevale, primavera, estate, autunno) allo scopo di offrire un panorama sintetico del repertorio dei teatri italiani e dei mutamenti cui era soggetto. Tali statistiche sono tutt’altro che prive d’interesse e poiché sul teatro italiano della prima metà del secolo scorso ne sappiamo meno di quanto si possa supporre, non mi sembra inutile riportarne alcune, almeno quelle relative .alle stagioni di carnevale. Per il carnevale 1842-43 (che per solito si inaugurava il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano) si erano aperti oltre 80 teatri italiani, di cui 18 nel Lombardo-Veneto (inclusi Trieste, Fiume, Trento), 19 nel­ lo Stato della Chiesa, 16 nel regno di Sardegna, 12 in quello delle Due Sicilie, io in Toscana e 8 nei restanti ducati. Nella classifica dei compo­ sitori Donizetti era nettamente in testa risultando presente in 59 teatri con 82 allestimenti di 18 opere (dei quali ben 14 della sola Gemma di Vergy, io deU’EZzizr, 7 ciascuno della Regina di Golconda e della Lucre­ zia Borgia). Seguiva Bellini, presente in 22 teatri con 26 allestimenti di 6 opere (di cui 9 della Beatrice di Tenda); quindi Luigi Ricci (18 teatri e 20 allestimenti); Rossini, il cui repertorio, dopo gli entusiasmi suscitati fino a pochi anni prima, regrediva notevolmente (15 teatri e 16 allesti­ menti), Mercadante (12 e 12), Pacini (9 e io), Nicolai (presente in 7 tea­ tri col suo Tempiario), ecc. Il giovane Verdi risultava in fondo alla clas­ 1 xlv, n. 19, io maggio 1843, c. 348. Veramente il corrispondente dice che l’opera fu data 67 volte; tuttavia la cronologia della Scala curata da G. Tintori (vedi c. gatti, Il Teatro alla Scala, Milano 1964, vol. Il) computa 57 rappresentazioni per la ripresa estiva del Nabucco, che insieme alle 8 del marzo precedente assommano a 65 rappresentazioni complessive.

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sifica con i tre allestimenti di Nabucco: Venezia, Trieste e Roma (I Lom­ bardi, costituendo una novità, non rientravano nel computo statistico, riservato solo alle opere entrate in repertorio). Il 4 aprile 1843 nel corso della stagione d’opera italiana al Kàrtnerthortheater di Vienna il Nabucco andava in scena diretto dall’autore. SuI1’«amz» ne riferiva direttamente il corrispondente da quella città, il quale passando in rassegna gli spettacoli presentati dalla compagnia ita­ liana diretta da Bartolomeo Merelli, scriveva del Nabucco: Ciò su cui l’impresa molto contava, il Nabucodonosor di Verdi, sotto la di­ rezione personale del giovane maestro, andò a vuoto, nonostante che Ronconi rendesse in modo magistrale il ruolo protagonista. In fatto di gusto operistico Vienna e Milano divergono già da tempo con troppa frequenza. Ciò che a Mi­ lano fa furore qui viene accolto per lo piu freddamente, e viceversa. Forse ne è causa il repertorio della Scala, che offre all’ascolto musica del giorno quasi tutta monotona e che non fa alcun serio tentativo con le opere della vecchia e miglio­ re scuola, quella unilateralità di gusto, che qui a Vienna viene in gran parte evi­ tata dacché accade d’ascoltare di quando in quando le opere migliori di vecchi e nuovi maestri e gli stili piu disparati, ciò che unito a una certa intelligenza musicale del pubblico protegge abbastanza bene dai passi falsi. È dal palcosce­ nico che il grosso pubblico dev’esser guidato. Se sente sempre le stesse cose, allora pensa che tutto deve suonare esattamente allo stesso modo di quanto gli viene spifferato davanti. In queste innumerevoli repliche di un solo medesimo maestro, oggi per es. di Donizetti come ieri di Rossini e Bellini, può ben anche accadere che i migliori compositori in Italia facciano subito il loro tempo e che le loro forme invecchino piu rapidamente che altrove. Intanto, per tornare a Verdi, qui a Vienna gli è stato riconosciuto solo un talento assai minuscolo. Se si priva questo dramma lyrico in quattro atti - che tratta in modo arbitrario ma non senza abilità scenica un episodio storico del regno di Giuda e un conflitto per la corona babilonese - della pompa delle masse di cui consiste, del baccano strumentale, delle evoluzioni corali, ecc., non resta altro per quanto riguarda la sostanza lirica che un magro e torbido ruscelletto di melodia, il quale per giunta riceve le sue affluenze da fonti rossiniane, belliniane, donizettiane e altre ancora. Mercadante, con la pompa e la foggia esteriore, ne ha fatto le spese maggiori; e cosi ne è nata un’eclettica opera-rumore, la quale, se fosse la prima nel suo ge­ nere, avrebbe almeno il pregio della novità; ma cosi, poiché questo guazzabuglio di stile è già noto e inoltre viene da altri applicato con maggiore ingegno e abi­ lità, deve solo suscitare nuovo rammarico per lo stile vacillante, la ricerca degli effetti, il vuoto d’invenzione dei maestri italiani, propriamente eletti per il ge­ nere melodico. Nemmeno l’onesto concorso dei cantanti [...] è stato d’aiuto; la scarsezza di buoni pensieri musicali spuntava da ogni parte. Se Verdi, secondo la nostra opinione, vuol essere utile all’opera in musica italiana nient’altro che come fornitore di novità, deve allora diventare diverso, migliore, fare cioè meno vecchio rumore e più musica nuova, (xlv, n. 39, 27 settembre 1843 , cc. 696697).

Il Nabucco proseguiva intanto il suo cammino sulle scene italiane accolto quasi sempre con grande successo; il corrispondente dell’« amz» — o per

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troppo amore alla sua gradita tesi secondo cui un’opera acclamata al suo apparire in un teatro doveva necessariamente cadere altrove o forse per­ ché non sempre bene informato - dava tuttavia ad intendere che esso fosse accolto con moderato o addirittura con scarso favore; e commen­ tando l’esito di Torino scriveva: Gli amici del Sig. Verdi, i quali non arrivano a comprendere come i suoi Nabucco e Lombardi, che fecero un grande furore a Milano, possano naufragare altrove, danno l’unica e sola colpa al fatto che gli altri teatri sono molto più pic­ coli e non hanno la possibilità di presentare le masse della grande Scala di Mi­ lano. Cercare di contraddirli su questo argomento sarebbe del tutto inutile, per­ ché anche con la migliore volontà non capirebbero; perfino il furbo Rossini tace, si direbbe con le labbra ermeticamente chiuse, a proposito di questo così miracoloso fenomeno dell’opera modernissima, (xlvi, n. 7, 14 febbraio 1844, c. irò).

«Gli amici del Sig. Verdi», per la verità, non avrebbero avuto poi tutti i torti, anche se ben presto - come risulterà dalle successive cronache della stessa «amz» - Nabucco e Lombardi finiranno con l’imporsi pure sui piccoli teatri di provincia1. Proprio la circostanza di poter scrivere per un teatro che disponeva di grandi masse quale la Scala di Milano, aveva consentito a Verdi di affrontare quel genere «grandioso» che già in precedenza s’era affermato con II giuramento e II Bravo di Merca­ dante, ambedue scritte per la Scala, e la cui affermazione in quegli anni sulla scia del «grand opera» francese, e in particolare di Mosè, Gugliel­ mo Teli, Roberto il Diavolo che proprio in quel tempo andavano dif­ fondendosi al di qua delle Alpi, rispondeva (come in altra occasione m’è accaduto di rilevare12) al gusto della grande borghesia lombarda. Si vedrà poi che dopo la Giovanna d'Arco, pure scritta per la Scala e pure (come i precedenti Nabucco e Lombardi} su libretto del Solera, Verdi abbando­ nerà - non definitivamente, ma, si direbbe, deliberatamente e non solo a causa delle minori disponibilità degli altri teatri per i quali dovrà scri­ vere - il genere «grandioso», per impegnarsi in una più approfondita in­ dagine su singoli personaggi e su singole situazioni: al dramma corale a sfondo patriottico-religioso succederà il dramma individuale di Emani, Foscari, Macbeth. Nell’aprile del 1844 appariva su11’«amz» una lunga recensione allo spartito per canto e pianoforte del Nabucco pubblicato dall’editore Dia1 Per dare solo qualche esempio relativo a piccoli centri, Nabucco nel 1843 fu dato a Faenza e a Crema, nel 1844 a Saluzzo, Finale Em., Feltre, Cividale, Castiglione dello Stiviere, Mortara; e I Lombardi nel 1845 a Voghera e a Lugo, nel 1846 a Fermo, Cesena, Codogno, Lodi, Crema; e così via. 2 Vedi la mia relazione negli Atti del II Congresso internazionale di studi verdiani (Verona [...] 1969), Istituto di studi verdiani, Parma 1972, pp. 255-56.

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belli di Vienna con testo tedesco e italiano; la tranquilla, analitica let­ tura dello spartito, non condizionata dall’esito aleatorio di una rappre­ sentazione teatrale, consentiva all’anonimo recensore, lontano dalle po­ lemiche che infiammavano la vita musicale italiana, di esprimere un giu­ dizio meditato che badava alla sostanza delle cose e non agli aspetti este­ riori d’una moda, giudizio che in definitiva risulterà quanto mai positivo sull’opera dello sconosciuto compositore. Di tale recensione, consistente in una descrizione analitica dei singoli brani dell’opera, si riporta qui per brevità solo la parte introduttiva: Non è nostro compito spezzare una lancia in favore dell’ammissibilità o del­ l’efficacia drammatica di questo grandioso argomento ricavato dal venerando libro del mondo, la Bibbia. Tuttavia ci sia almeno concesso di affermare che in questa tragedia lirica ci sono momenti che, accennando a un rapporto analogo per argomento, sono da collocare a lato delle scene più commoventi del Joseph di Mehul e del Mosè di Rossini. - E per quanto riguarda la composizione del maestro Verdi, che per la prima volta si presenta a noi, non esitiamo ad anno­ verarla fra le composizioni drammatiche più ragguardevoli dei moderni italiani. [...]. (xlvi, n. 16, 17 aprile 1844, c- 265).

Ma torniamo al nostro corrispondente dall’Italia, arrabattato nel dar notizie sulla stagione di carnevale 1843-44, che nel riferire sugli spet­ tacoli napoletani irrompe in un’ennesima invettiva contro l’opera italia­ na moderna: Napoli. [...] tranne la Goldberg e Coletti, opere e cantanti, tutti insieme, so­ no in una situazione degna di rimpianto in questi teatri reali [San Carlo e Fon­ do], ed è questo il caso di tutta l’Italia, nonostante lo splendore qua e là appa­ rente. La moderna opera terribile (non più seria} è con i suoi orrori in tutti i sensi spaventevole: il soggetto in sé e per sé, il grande spreco al massimo grado di masse vocali e strumentali, il garbuglio caotico di armonie e di dissonanze, l’ascolto completamente degenerato per la musica elevata, la rovina di molti cantanti e strumentisti... In tal modo tanta opera seria, a paragone di questa opera terribile, è per cosi dire diventata buffa e, giudicata nella sua vera luce e con assai poche eccezioni, tutta la musica operistica moderna - salva venia - è in un civettuolo, malizioso, grazioso stato di disfacimento. Sulla mia cara patria, dove essa ora imperversa ben più che prima, sovrasta ancora molta gioia. Il ri­ comparso Pacini *, nel prossimo autunno probabilmente farà felice della sua pre­ senza Berlino. E Verdi! già, questo maestro, del tutto sconosciuto in Teutonia tranne che a Vienna, ora domina Rossini, Bellini e Pacini, i quali hanno fatto il loro tempo, e perfino il Maestro Dappertutto Donizetti. E se recentemente sulla 1 Dopo un periodo di silenzio succeduto al fiasco del Carlo di Borgogna alla Fenice di Venezia nel 183^, che aveva fatto pensare al ritiro dalla sua attività di operista per dedicarsi alla scuola di musica da lui fondata a Viareggio, Pacini era ritornato sulla cresta dell’onda con il successo della Saffo, oggi considerata il suo capolavoro, rappresentata per la prima volta al San Carlo di Napoli, il 29 novembre 1840.

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Gazzetta Musicale di Milano (n. n del 17 marzo) in un articolo su Meyerbeer si sostiene che Mozart è stato il piu grande musicista che ci sia stato al mondo (l’articolo è di un tedesco a me del tutto ignoto), e subito sotto, in una nota in calce, qualcuno afferma di ritenere per tale Rossini (sulla qual cosa Rossini stes­ so certamente riderà) cosi altri ora penseranno: no, è Verdi. Strano! perfino quegli italiani che come molti loro colleghi d’oltr’Alpe ritengono che Haydn e Mozart dopo Beethoven non siano più da ascoltare, alla parola «Verdi» sono pieni di considerazione. Dunque, Germania, attenzione e pazienza! (xlvi, n. 20, 15 maggio 1844, cc. 339-40).

In quel carnevale alla Fenice di Venezia veniva rappresentata una nuova opera di Verdi: Emani-, così ne scriveva il nostro anonimo: Venezia (Teatro alla Fenice). [...]. Il 9 marzo finalmente andò in scena l’ope­ ra Emani di Verdi tanto ardentemente attesa [...] e a poco a poco fece furore. Verdi - esattamente come Rossini, Pacini, Donizetti, Mercadante, Bellini e Ric­ ci - sembra fare una sua propria epoca e diventare quanto prima l’idolo del­ l’opera italiana cosi come a suo tempo lo furono i sunnominati signori, sebbene nessuno di essi, o per meglio dire, tutti insieme non possano sostenere un para­ gone col primo di loro e loro progenitore [Rossini]. Verdi, cui non si può ne­ gare originalità melodica, è un compositum chimico (non meccanico) di Rossini, Bellini, Donizetti e Mercadante, il quale ultimo egli cerca di imitare nell’im­ piego delle masse. Nella sua recentissima opera Emani egli inclina di più verso Bellini; il Largo del Finale della Prima parte, l’aria di Superchi nella seconda, un coro nella terza e il terzetto alla fine sono i brani più belli dell’opera. Summa summarunr. questo nuovissimo maestro alla moda dell’opera italiana non ha propriamente nulla di proprio che possa improntare la sua musica all’ultima merce di moda, e a tale riguardo egli sta dietro a Donizetti, Bellini e Mercadan­ te, ma è tuttavia sempre interessante, specialmente per i non intenditori, sotto l’aspetto melodico ed armonico, (xlvi, n. 24, 12 giugno 1844, c. 410).

Qualche impressione favorevole sembra dunque che VErnani l’abbia su­ scitata anche nel corrispondente dell’«AMZ», che peraltro ora pare rim­ piangere i tempi del già vituperato Rossini; e Verdi viene giudicato un musicista interessante almeno per gli incompetenti. Ma ben presto verrà il momento in cui Emani, rappresentato in ogni angolo d’Italia nel vol­ gere di pochissimi anni e tosto diffusosi all’estero, darà nelle staffe al nostro giornalista: e allora sarà giunto il momento di rimpiangere anche i non meno vituperati Bellini e Donizetti. Intanto dalle statistiche ri­ guardanti il carnevale 1843-44, in cui si aprirono in Italia 84 teatri (di cui 23 nel Lombardo-Veneto, 18 nello Stato della Chiesa, ecc.) vediamo che Verdi si fa decisamente luce nella classifica degli autori piu rappre­ sentati: è sempre primo Donizetti, presente in 56 teatri, i due terzi, con ben 89 allestimenti di 22 opere, di cui 14 della sola Figlia del reggimento (Vivano i tamburi! commenta il corrispondente dell’«AMZ»); seguono a distanza: Bellini (19 teatri e 20 allestimenti di cui 7 della beatrice), Luigi Ricci (15 e 19), Mercadante (14 e 14), Rossini (13 teatri con 8

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allestimenti del solito Barbiere), e infine Verdi (io teatri e 11 allesti­ menti di Nabucco e Lombardi) alla pari con Pacini (io teatri e 11 al­ lestimenti di 5 opere). Anche le corrispondenze per la stagione di primavera 1844 iniziano da Napoli con alcune considerazioni di carattere generale e con un parti­ colare riferimento al musicista del giorno, Verdi: Napoli. [...]. Non facciamoci illusioni! Il detto kein Geld, kein Schweizer [niente soldi, niente svizzeri] equivale a niente teatro, niente Italia-, in questo cosiddetto Bel Paese il teatro è Valter ego-, sia opera o commedia, i suoi sacer­ doti siano buoni, discreti o addirittura cattivi, in teatro si «deve» andare, fosse anche solo per chiacchierare, per dormire, per concludere affari, per effettuare visite e cosi via; esso è come una seconda e dopotutto economica abitazione. Giacché ora solo assai di rado si può trovare l’eccellente fra tutti i nostri maestri e cantanti attuali, così il passabile diventa naturalmente eccellente, il meglio su­ blime, e nel paese del superlativo tutto sale «relativamente» in progressione geometrica. Solo un esempio. Nei Campi d’Esperia il Sig. Verdi è ora il sublime Giove dei maestri. Si potrebbe chiedere: sotto quale aspetto? Quale melodista egli non può sostenere alcun paragone con Donizetti e Bellini - lasciamo Ros­ sini, il creatore di un’epoca musicale, come un solitario a sé stante. Quale armo­ nista o addirittura per le nuove combinazioni armoniche, per l’unità nella va­ rietà, per il caratteristico, ecc.? La prima cosa solo degli idioti la sostengono, quanto al resto si vede bene che manca e nessuno se ne dà pensiero. Ma poiché l’abbondante repertorio principale donizettiano, al quale s’accompagnano talora Rossini, Bellini, Pacini, Ricci e Mercadante, a poco a poco comincia a calare, come già quello rossiniano, cosi la moda ha eletto a suo beniamino il Sig. Verdi, fornitore di una merce un po’ migliore di quella dei suoi colleghi, e ha giudicato sublimi lavori i suoi Emani, Nabucodonosor e Lombardi. [...]. Il Sig. Verdi è ancora agli inizi: le sue creazioni appartengono ancora al futuro, (xlvi, n. 30, 24 luglio 1844, cc. 505-6).

L'Emani, intanto, aveva subito iniziato il suo cammino sulle scene italia­ ne, un cammino folgorante quale in seguito conoscerà solo un’altra opera di Verdi, Il trovatore-, neanche tre mesi dopo la «prima» veneziana ve­ niva rappresentato a Vienna: il corrispondente viennese dell’«AMZ» tace completamente sulla stagione italiana al Kàrtnerthortheater; tutta­ via un’eco di quella rappresentazione si trova in una corrispondenza dal­ l’Italia del nostro anonimo: Roma. [...]. Nella capitale austriaca, dove questo Emani ha addirittura fatto furore, i giornali viennesi hanno biasimato particolarmente il grande baccano degli ottoni in quell’opera, laddove i giornali italiani lo ignorano del tutto per glorificare unicamente il loro idolo. (Ivi, c. 508).

Il quale anonimo, dopo aver puntualmente registrato i successi di Na­ bucco e dei Lombardi a Ferrara, Firenze, Parma, Tortona, si reca a Livor­ no per riascoltare 1 Lombardi-.

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Livorno. [...]. Il terzetto ha dovuto essere fin bissato, e il pubblico era tutto fuori di sé dalla gioia [...]. Un monaco benedettino assai colto nella musica, che al Nabucco di Verdi aveva nientedimeno abbandonato il teatro, assolutamente si meravigliava, ascoltando cotesti Lombardi, che venissero strombazzati come lavoro di superlativa eccellenza, (xlvi, n. 31, 31 luglio 1844, c. 522).

Confortato dal parere autorevole di un «intenditore» come il monaco benedettino, il nostro corrispondente ha finalmente occasione di sfogarsi con il successo ottenuto dal Koberto il Diavolo di Meyerbeer dato per la prima volta a Milano al teatro Carcano. Già in precedenza, per altre rappresentazioni italiane, egli si era lungamente diffuso sui pregi del Roberto-, questa volta, pur dedicando all’avvenimento quasi un’intera colonna, si limita a deprecare che simile capolavoro non si sia ancora dato alla Scala e coglie l’occasione per un immediato confronto con il compositore alla moda, Verdi: Milano. Quest’opera imponente e cosi esuberante di molteplici bellezze musicali ha fatto sensazione anche a Milano, ad onta della recentissima frenesia verdiana..In realtà la sola Introduzione al Roberto fa da contrappeso a tutte le opere finora scritte e probabilmente a quelle ancora da scrivere di Verdi. (xlvi, n. 32, 7 agosto 1844, c* 539)*

Oggi che l’opera di Meyerbeer — sulla scia delle stroncature espresse da alcuni fra i massimi esponenti del romanticismo musicale, quali Schu­ mann e Wagner - viene considerata come un equivoco in estetica e ap­ pare a noi del tutto spenta nei suoi valori artistici, come relegata (sep­ pure a torto) ai margini della storia del teatro musicale, quasi a rappre­ sentarne più un fatto di costume che un autentico risultato d’arte, è fin troppo facile assumerla al ruolo di cartina tornasole rivelatrice dei malin­ tesi in cui cadde tanta parte della critica musicale e teatrale dell’Ottocento. Ed è quindi facile oltre che ingiusto, direi anzi, antistorico, far leva sull’entusiastica ammirazione espressa dal nostro corrispondente dell’«AMZ» nei suoi confronti, di contro all’irriducibile ostilità manife­ stata verso l’opera di Verdi (sia pure di quel primo Verdi che però solo ai nostri giorni si viene riscoprendo in tutta la sua vitalità d’espressione artistica), per porne implicitamente in rilievo la mancanza di acume cri­ tico, l’incapacità di intuire gli autentici valori d’arte sottraendosi ai con­ dizionamenti del formalismo accademico. Il successo di critica e di pubblico dell’opera di Meyerbeer si colloca in una situazione culturale europea alquanto complessa e non priva di profonde contraddizioni (basti accennare al fatto che in Italia essa veniva considerata come la più alta espressione del romanticismo, laddove in Germania era sentita, più giustamente, come un freno agli eccessi del

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romanticismo musicale se non addirittura come ad esso opposto ’). Essa fu certamente anche un fatto di costume e rappresentò una moda cultu­ rale che raccolse le piu calde adesioni proprio in quell’ambito speciali­ stico cui dichiarava d’appartenere il nostro anonimo corrispondente, cioè quello degli «intenditori» ovvero competenti, da Fétis a Scudo (due ac­ caniti antiverdiani) a Filippi e Hanslick (ambedue, sia pure in misura diversa, estimatori dell’opera del Verdi più maturo). Ma rappresentò anche un fatto artistico che esercitò un prestigio non indifferente presso compositori quali un Berlioz e lo stesso Verdi, e al quale non potè sot­ trarsi nemmeno Wagner, del cui teatro essa oggi si rivela essere stata un’indispensabile premessa. Non è scopo di questo documentario analizzare da un lato le ragioni per cui quasi tutta la cultura ufficiale europea, e particolarmente l’am­ biente degli addetti ai lavori (non si dimentichino gli entusiasmi meyerbeeriani e l’opera di divulgazione di un Angelo Mariani, che pure passa per esser stato un direttore verdiano!) fosse attratta dal tecnicismo del­ l’opera di Meyerbeer sino al punto di porla al vertice dei valori assoluti del teatro musicale, e dall’altro le ragioni (che a noi oggi parrebbero in­ comprensibili) della costante ostilità, durata si può dire fino alle soglie della Verdi-Renaissance, di quella cultura nei confronti di Verdi, mas­ sime del Verdi di Nabucco, Emani, Macbeth, Trovatore, di contro al favore incondizionato e costante delle platee non solo d’Italia ma di tut­ ta Europa (le cronache del tempo e ancor più la frequenza delle esecu­ zioni d’opere verdiane ne forniscono una testimonianza estremamente eloquente). Vorrei tuttavia accennare alla possibile presenza nelle opere del compositore italiano di «segnali» che rimanevano incomprensibili ai cosiddetti «intenditori» mentre venivano immediatamente recepiti e compresi dai pubblici definiti «incolti» o «semicolti», insomma dai con­ sumatori popolari tout-court, quei pubblici che in fin dei conti accoglie­ vano con entusiasmo anche le stesse opere di Meyerbeer pur non essendo apparentemente condizionati dal tecnicismo dell’alta cultura. Erano pro­ babilmente quegli stessi «segnali» che - nel fragore degli ottoni e dei colpi di grancassa, nello scatto ritmico delle «strette», negli improvvisi trapassi d’azione, nelle marcette e nei valzer, negli accordi ribattuti di «Arpa d’or», negli unisoni di «Noi siam tutti una sola famìglia», nei 1 Vedi ad esempio i Saggi critici sulla ragione della musica moderna di N. marselli (Napoli 1859); nella seconda parte del volume, dedicata all’analisi del «passato», del «presente» e dell’« avvenire della musica», l’autore ripartisce il «presente» in tre aspetti o, meglio, scuole: «musica classica», «musica romantica» e «musica moderna», che egli vede rappresentate nell’opera rispetti­ vamente di Mercadante, di Meyerbeer (cfr. pp. 45-69) e di Verdi. Per contro vedi le affermazioni polemicamente antiromantiche contenute nella biografia critica di Meyerbeer di K. Mendel (G. Meyerbeer. Sein Leben und seine Werke, Berlin 1869; trad. it. Torino-Napoli 1870).

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violenti strappi vocali del tipo «Ma noi donne italiche» - sembravano contraddire le buone regole accademiche o, peggio, esularne, e che dagli «intenditori» venivano interpretati come manifestazioni di cattivo gu­ sto, di insipienza tecnica, di monotonia d’idee, di mancanza di origina­ lità, di superficialità d’espressione, di eccessiva ricerca dell’effetto, di semplicismo, di volgarità. Il 2i settembre 1844 il Nabucco veniva dato per la prima volta a Berlino; la cattiva esecuzione non consenti al corrispondente berlinese, che si firmava H. T., di esprimere un giudizio altrettanto favorevole di quello ben più meditato del recensore dello spartito; ma non gli sfuggi tuttavia il valore del musicista: Berlino. Notizie. [...]. Nonostante i pregi melodici, questa composizione, che in parte aspira anche alla descrizione dei caratteri, presenta quei difetti che i moderni compositori italiani sogliono effettuare attraverso il sovraccarico dell’istrumentale, specialmente con l’abuso degli ottoni in orchestra e sulla scena, ragion per cui spesso il canto viene interamente coperto e le voci dei cantanti vengono rovinate. Fosse anche da rimproverare tale abuso ai compositori fran­ cesi (specialmente a Berlioz), costoro hanno almeno ragioni ben più drammati­ che che non il baccano che serve solo a sorprendere e che ora persino gli italiani, un tempo cosi molli, prediligono. Peraltro è da riconoscere in Verdi un talento non comune. [...]. H. T. (xlvi, n. 45, 6 novembre 1844, c. 753).

Alcuni mesi più tardi il corrispondente berlinese ritornava ancora su Verdi in una sua «notizia storica» riguardante le ultime cinque stagioni d’opera italiana a Berlino: Verdi, ora il più in voga fra i nuovi maestri, che ha iniziato la sua carriera col Nabucodonosor, è innegabilmente un talento, ma come compositore è da considerarsi al massimo un abile dilettante. Egli non possiede né l’invenzione, l’elegiaca mollezza di Bellini, né la tecnica finita, l’abilità formale e la versatilità di Donizetti. Egli è un imitatore di entrambi, e quanto di grandioso e di origi­ nale gli italiani trovano in lui, altro non è che grossolanità nella padronanza del­ la forma e della materia. Non è affatto lecito dare qui un giudizio dettagliato su questo nuovo compositore e sulle sue opere [...] forse ne avremo prossimamente occasione; ma tanto crediamo di dover qui osservare: ci sembra che egli con­ duca l’opera italiana verso l’inevitabile bancarotta, dalla quale solo un vero ge­ nio può salvarla. [...]. H. T. (xlvii, n. 23, 4 giugno 1845, c. 388).

Continuava inarrestabile intanto il cammino àeWEmani sulle scene ita­ liane, fedelmente registrato, anche se con disgusto, nelle cronache del nostro solerte «Mailànder Correspondent». Alcuni stralci: Cremona. Incredibile dictu! La nuovissima opera italiana del giorno, Ernani di Verdi, qui ha fatto fiasco [...]. I lettori della nostra rivista conoscano il sano giudizio espresso dal giornale locale 1 in occasione della rappresentazione 1 «Gazzetta di Cremona», 1844, n. 37. La recensione cremonese fu riportata in alcuni giornali teatrali milanesi del tempo, fra cui «Il Bazar» del 18 settembre 1844, «La Fama» del 19 settembre

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qui avutasi di Roberto il Diavolo di Meyerbeer. Nel suo lungo articolo egli dice tra l’altro: «Noi non seguiamo alla cieca il giudizio degli entusiastici ammira­ tori del compositore alla moda (sic) su questo Emani, che non sostiene alcun confronto col suo Nabucco e I Lombardi. Dove si eccettui il Largo del Finale del primo atto seguito da una stretta assai meschina, un duettino del secondo atto, il terzetto finale di effetto sicuro e non senza pecche, cos’altro ci resta?... Reminiscenze. Tutta l’opera è monotona, denuncia una certa povertà di fantasia, ecc.». (xlvi, n. 50, n dicembre 1844, c. 844).

Brescia. [...]. L'Emani di Verdi [...] fece furore! Che ciò debba accadere mentre è ancora in vita Donizetti, mentre ora il grande Rossini è quasi dimen­ ticato, è cosa da far ridere e piangere a un tempo. (Ivi, c. 845). Vicenza. Nonostante tutta la siccità di questa estate in Italia, al nord vi piovve sempre YErnani di Verdi, giacché in quasi tutta l’Italia settentrionale e anche in Vienna s’è fatto rumore con quest’opera. (Ivi).

Firenze. [...]. Il teatro Nuovo, sostituto della Pergola, diede nuovamente YErnani [...]. Questo Emani, che anche i viennesi hanno avuto il piacere d’ascol­ tare, è opera singolare; fa furore, fiasco, grande baccano nella musica e sulla boc­ ca degli amici del maestro, viaggia da un teatro all’altro; molti non sanno vera­ mente cosa dire e pensare; ascoltano codesto prodigio e alzano le spalle. Senza dubbio, però, si può difficilmente predire a questo Emani la sola quarta parte di sopravvivenza di una delle migliori opere di Donizetti e Bellini, anche me­ no di Rossini, il quale ride a crepapelle di simili pazzie musicali, (xlvii, n. 9, 26 febbraio 1845, c. 145).

Finalmente VEmani veniva rappresentato alla Scala di Milano il 3 settembre 1844 (se ne fecero 37 rappresentazioni) e il corrispondente dell’«AMZ» potè giudicarne per conoscenza diretta: Milano (Teatro alla Scala). [...]. L'Emani di Verdi [...] tanto glorificato dalle strombazzature giornalistiche, lasciò smarrito il pubblico. Un giornalista di qui s’è perfino spaventato d’aver dato in precedenza fiato alle trombe, e ha confes­ sato d’esser stato ingannato da altri. Summa summarum di quest’opera è pia­ ciuto a Milano solo qualcosa, particolarmente il terzetto finale, anche per merito della situazione. L’autore di queste righe non ha trovato in codesto Emani nient’altro che una tollerabile banalità, mai una volta una melodia nuova. Di armo­ nia non se ne trova per nulla, giacché la composizione, ciò che noi tedeschi in­ tendiamo per tale e senza la quale non sarà mai possibile scrivere alcunché di duraturo e di grande, per tutti questi nostri maestri è terra incognita. Se anche fanno qualcosa di bello in armonia, è di provenienza tedesca, subito dopo sca­ dono nella più meschina robaccia armonica. [...]. Naturalmente s’è dovuto strom­ bettare Emani per tutto il corso della stagione. Rossini non si osa più rappre­ sentarlo; Donizetti, dopo di lui il migliore e fra tutti il più fecondo, è già in diminuzione; Mercadante, Ricci, Pacini quasi più non esistono; Verdi, ora, con le sue sei, o per meglio dire, quattro opere (Nabucco, Lombardi, Emani, Foscari) è già catapultato verso lo zenit. E qui è finita. Dio abbi pietà di noi. L’in­ cessante caccia all’effetto da parte di Verdi, gli unisoni, l’artiglieria musicale, 1844 e «La Moda» del 20 settembre 1844. Il frammento riprodotto nell’«AMZ» è praticamente un condensato di quella recensione.

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non possono a meno di potenziare atrocemente la monotonia dell’opera italiana moderna. Non abbiamo nemmeno grandi cantanti, che assai pochi resistono sino alla fine o stonano pietosamente. Oltr’Alpe si ha almeno un avvicendamento di opere tedesche, italiane e francesi; nel cosiddetto paese dell’eterna primavera sin dal sorgere dell’astro di Rossini, cioè da trentacinque anni, s’è affermato un modello operistico variato in parecchie forme, distillato, amalgamato con in­ gredienti germanici e gallici, e la fisionomia musicale italiana è stata totalmen­ te cancellata; il gusto incolto viene pertanto guidato orribilmente senza meta e ogni musica veramente buona cagiona al pubblico interminabili sbadigli. (xlvii, n. ir, 12 marzo 1845, cc. 185-86).

Nel frattempo all’Argentina di Roma era andata in scena un’altra opera nuova di Verdi: I due Foscari; il corrispondente dell’«AMZ» ne dà relazione sulla probabile scorta di notizie pervenutegli da quella città: Roma (Teatro Argentina). [...]. L’attesa del pubblico era tutta per la nuova opera del Sig. Verdi'. I due Foscari, che si diede per la prima volta il 3 novem­ bre, ma che tuttavia non ottenne il successo desiderato a causa dell’indisposi­ zione del tenore Roppa. Non appena questi si fu ripreso, l’opera fece un furore cubico; il Maestro non solo ebbe 35, dico trentacinque, chiamate, ma fu accla­ mato rumorosamente da una grande quantità di persone: Viva Verdi!, accom­ pagnato a casa, dove egli dovette mostrarsi al balcone per ricevere di nuovo gli applausi. Concediamo pure al signor Verdi la sua fortuna (in Italia lo chiamano il maestro fortunato), concediamo pure alla massa entusiastica dei profani la sua gioia e lasciamo tranquillamente scoppiare in aria tutti i razzi dell’ultramoderna opera italiana e dei suoi esultatoti; l’intenditore 1 giudica questi Due Foscari come una creatura molto molto magra = povertà d’invenzione e di idee nuove, una caccia all’effetto priva di significato, un abuso degli unisoni fra voci e stru­ menti, assai raramente qualcosa di veramente tollerabile. Poiché essa è già la sesta opera di codesto maestro, veramente non si può dire che egli dopo il suo Nabucco (cioè la terza opera) abbia fatto progressi. È singolare il fiasco della Creazione di Haydn a Parigi contemporaneo (quasi nello stesso giorno) al furore dei Due Foscari a Roma! [...]. (xlvii, n. 6, 5 feb­ braio 1845, cc. 92-93).

Nell’estate del 1845 cominciano ad apparire sull’« amz» le prime cor­ rispondenze dall’Italia riguardanti la stagione di carnevale 1844-45, che ben dieci teatri inaugurarono con Frnani, mentre altri quattro si apri­ rono col Nabucco, due con 1 Foscari e uno con I Lombardi. L’avveni­ mento piu importante di quella stagione fu l’andata in scena alla Scala di un’altra opera nuova di Verdi, Giovanna d’Arco, e ad esso dedicò una maggiore attenzione il nostro corrispondente: Milano (Teatro alla Scala). [...]. Il 15 febbraio la nuova opera di Verdi, Giovanna dArco, andò in scena, si può ben immaginare, accolta da fragorosi 1 «Intenditore»: deve trattarsi di qualche corrispondente privato del «Mailànder Correspon­ dent», seppure questi non fu presente alla recita romana. Il critico romano piu autorevole a quel tempo, Antonio Tosi, che scriveva sulla «Rivista di Roma», si espresse in termini entusiastici su 1 due Foscari.

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applausi, i quali tuttavia vennero sempre meno nelle repliche successive: data sola l, fece pochi biglietti d’entrata; con la Elssler1 2 il teatro nei due atti dopo che s’era dato il balletto era vuoto! L’opinione comune a Milano è che ora Verdi dopo il suo Nabucco è andato sempre indietro, e che quest’ultimo resta la sua opera migliore, il che è pur vero. Il libretto, in un prologo e tre atti, trattato non al meglio dal poeta Solera, presenta alcune situazioni di cui Verdi non ha saputo valersi convenientemente, e cosi tutto si basa su alcuni pensieretti (graziosi pen­ sieri melodici), come gli italiani si curano di chiamarli, e su alcuni moderni ef­ fetti teatrali. La Sinfonia (Ouverture), già in precedenza stamburata come lavo­ ro sublime, comincia con un’introduzione, un grazioso canto tirolese (come quel­ lo del Guglielmo Teli di Rossini) esposto da flauto, oboe e clarinetto (e che non ha proprio nulla a che vedere con l’opera), cui segue un breve allegro che non dice assolutamente niente. Dov’è qui la maestria del compositore? Quanto mi­ seri al sommo non sono i due cori che si cantano l’un dopo l’altro: Coro di Spi­ riti malvagi e Coro di Spiriti eletti, un inno per l’incoronazione di Carlo VII, la marcia, ecc. Cosa non avrebbe qui fatto Meyerbeer! Verdi voleva pure imitare qualcosa del Roberto il Diavolo, ma non gli è riuscito. Del suo trattamento del testo diamo qui solo un esempio. Nel finale del prologo Carlo VII domanda a Giovanna chi essa sia. Lei risponde: «Io sono un guerriero che t’invita alla gloria. O cara Orleans, ti conforta (profetico), io ho una spada» ecc. Tutto que­ sto il Sig. Verdi lo declama cosi, cominciando con un All°

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Com’è marziale! profetico! prosodico! i due segni di staccato espressamente indicati sulla sillaba vi, la lunga fermata che immediatamente segue sulla sillaba ta che suona tà, quell’incantevole Orléans ti tirato pei capelli: non dovremmo qui esplodere dalla voluttà?... Queste e ancora cosi tante altre manchevolezze della Giovanna d’Arco e delle precedenti opere del Sig. Verdi, anzi, di tutta l’at­ tuale scuola rossiniana, si sarebbero potute evitare da parte dei seguaci di tale scuola con la loro eccellente disposizione per la melodia, se essi oltre alla for­ mazione necessaria a un compositore d’opera, come un Spohr, Meyerbeer, C. M. v. Weber, Mendelssohn, fra gli altri, avessero compiuto profondi studi nel con­ trappunto e nell’elaborazione tematica e quindi avessero studiato seriamente le opere dei grandi compositori. Per tali quisquilie, però, agli italiani manca in ge­ nere la pazienza, in particolare essi non sono affatto convinti che tali lavori e tali studi costituiscano il vero fondamento e sussidio per comporre la vera e buo1 Era consuetudine a quel tempo nei teatri italiani di inserire fra un atto e l’altro di un’opera (di solito dopo il secondo atto) un’azione coreografica ovvero balletto; ciò però non avveniva in tut­ te le rappresentazioni della stagione. 2 La grande Fanny Elssler (Gumpendorf ps. Vienna 23 giugno 1810 - Vienna 27 novembre 1884), definita da Th. Gautier la danseuse payenne in contrapposizione alla Taglioni danseuse chrétienne*, esponente della danza terre à terre e dello stile taqueté essa fu infatti la grande rivale della Taglioni, che fu a sua volta la prima e più pura incarnazione della danse aérienne.

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na musica; oltre a ciò in Italia mancano del tutto gli Albrechtsberger, abate Vogler, Reicha, Seyfred, Sechter, Lobe, Schneider e cosi tanti altri valenti inse­ gnanti di contrappunto. Senza le su accennate condizioni essenziali, in una pa­ rola, senza scuola tedesca, l’opera italiana resterà sempre tale, cioè un momen­ taneo, transitorio godimento sensuale ‘. (xlvii, n. 27, 16 luglio 1845, cc. 460462).

Le statistiche della stagione di carnevale 1844-45 compilate dal corri­ spondente dell’«AMZ» per le opere di repertorio rappresentate in Italia vedono sempre in testa Donizetti, presente in 37 su 80 teatri, con 19 opere per 48 allestimenti, di cui 8 della Gemma di Vergy; Verdi compie un balzo avanti insediandosi al secondo posto con 16 teatri e 21 allesti­ menti di cui 11 deWEmani, seguito da Bellini (13 e 14), Mercadante (io e 13), Luigi Ricci (9 e 9), Rossini (8 e 9) e cosi via. Per la successiva stagione di primavera il «Mailànder Correspon­ dent» non ha nulla da segnalare d’importante riguardo a Verdi se non il continuo diffondersi delle sue opere; ma gli accade anche, dopo aver tanto invocato lo studio dei classici tedeschi da parte dei compositori italiani, la non lieta sorpresa di leggere su un giornale fiorentino il rim­ provero a Verdi di farsi seguace della scuola tedesca...: Firenze (Teatro Pergola). La cosiddetta apertura della stagione doveva es­ sere splendida. Si cominciò con la Giovanna d’Arco di Verdi [...] ma l’opera fece fiasco, come naturalmente doveva succedere dopo cosi grande attesa. Il lo­ cale Riccoglitore in un suo lungo articolo, fra alcune osservazioni giuste, ne fa anche di queste, abbastanza divertenti: «Piuttosto di seguire la scuola tedesca, Verdi dovrebbe studiare ne’ sommi italiani, e darci una musica ispirata al nostro cielo. Il M. Verdi non ascoltò che le lodi sperticate; e seguitando nella sua via, si sostenne con VErnani rubacchiando dal Rossini, dal Bellini, e dal Meyerbeer; incominciò a cadere coi Due Foscari\ ed oggi segna un nuovo passo verso la de­ cadenza colla sua Giovanna d’Arco. Si apre lo Spartito con una sinfonia bella e graziosa se volete; ma che risente troppo di quelle ben conosciute di Haendel (???!!!) e Mayseder (?!) Il M. Verdi ci permetta di domandargli dove ha tolta quella cantilena si strana dei due cori degli spiriti eletti e malvagi? Ben si po­ trebbe esclamargli con le solenni parole di quel filosofo [Machiavelli]: Anima sciocca, va al limbo de’ bambini! [...]». (xlvii, n. 39, 24 settembre 1845, cc. 666-67).

Dopo aver continuato nella citazione, molto riassuntiva e non molto pre­ cisa, dell’articolo del «Ricoglitore» fiorentino dovuto alla penna di A. Carrière1 2, il corrispondente dell’«AMZ» polemizza con il resoconto del­ 1 Parte di questa recensione è stata da me letta in occasione della relazione presentata al Con­ vegno Verdi-Schiller promosso dall’istituto di studi verdiani nella sua sede di Parma nel novembre 1973; gli atti di tale convegno saranno prossimamente pubblicati. 2 L’articolo del «Ricoglitore Fiorentino» fu riportato nel «Messaggero Bolognese» del 30 apri­ le 1845 e quindi in «Teatri Arte e Letteratura» del 3 maggio 1845.

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l’editore Escudier sulla visita da lui fatta a Verdi a Milano, pubblicato sulla «France Musicale» del 25 maggio 1845 (sia il resoconto dell’Escudier che le note polemiche dell’« amz» sono riportate nella mia relazione contenuta negli Atti del III Congresso internazionale di studi verdiani, svoltosi alla Piccola Scala di Milano nel 1972, recentemente pubblicati, alla quale per brevità rinvio). Il 25 agosto 1845 nel corso della stagione d’opera italiana al Teatro Reale di Berlino veniva rappresentata una seconda opera di Verdi: I Lombardi', riportiamo la parte più interessante della corrispondenza ber­ linese, sempre firmata H. T., la lettura della quale, dopo le intemerate del corrispondente dall’Italia, ci riporta coi piedi felicemente a terra a vedere le cose in una prospettiva meno irreale: Berlino. Relazione di settembre. [...]. Il Nabucodonosor di Verdi, che gli ita­ liani chiamano semplicemente Nabucco, è stata la prima opera di questo giovane maestro che è stata rappresentata a Berlino, e precisamente nella stagione scor­ sa. Essa fu eseguita molto mediocremente da parte dei cantanti, ad eccezione della signora Schieroni, a tal punto mediocremente che noi non potemmo risol­ verci ad assistere a una seconda rappresentazione. Per questa ragione il nostro giudizio ci riuscì duro verso il giovane musicista, che sebbene non geniale è quanto mai dotato di ricco talento. La nuova opera I Lombardi ha contribuito a una diversa migliore opinione, e noi riconosciamo in Verdi il talento attual­ mente più rilevante per l’opera italiana, il rivale vittorioso dell’abbastanza logo­ rato Donizetti. Verdi lotta per l’espressione drammatica, per l’emancipazione del coro che da un mezzo secolo in Italia, come altrove, porta le catene della schiavitù, per nuove forme; però egli non riformerà certamente l’opera italiana, decaduta ad articolo di moda, perché a ciò occorre ben più che talento. A ciò occorre un genio di prima classe che, soccorso da profondi studi musicali e scien­ tifici, possieda tutto l’orgoglio d’artista di un Gluck e di un Beethoven, onde respingere rigorosamente con ferreo puntiglio tutti gli insulsi allettamenti della moda, rinunciando forse per un’intera vita a tutti gli allori dei con temporanei. Oltre al genio e alla vasta cultura, un tale artista riformatore dovrebbe certa­ mente avere, e purtroppo!, anche denaro; perché altrimenti colla sua olimpica ostinazione in quell’infelice Italia dove l’arte è diventata compassionevole og­ getto di mercimonio, morrebbe miseramente di fame. Certo nell’intelligente Germania non la va molto meglio! - No, un genio Verdi non lo è, anch’egli è afflitto dal modello dell’opera italiana moderna, e ha imparato poco come Bel­ lini, il quale, nonostante il suo grande anche se unilaterale talento per l’inven­ zione melodica, è stato il più meschino guastamestieri che mai abbia acquistato fama mondiale, e, fosse anche egli noto per aver inventato gli andamenti per terze, in tutta la sua vita non è mai riuscito a fare un duetto. Da lui derivano quegli unisoni ensemble insopportabilmente bercianti, quel confuso rumore di strumenti à la cirque olympique che solitamente uccide tutta la poesia di una bella melodia elegiaca. Un’opera di Verdi è un giardino inselvatichito, un muc­ chio d’erba cattiva, nel quale si trova qua e là un leggiadro fiore profumato, co­ me ad esempio il «Salve Maria» nel primo atto dei Lombardi, Varia di sortita «O madre mia» di Oronte nel secondo, il duo «O belle, a questa misera» e il

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Marcello Conati terzetto conclusivo «Deh non morire» nel terzo atto di quest’opera. La prima scena del quarto atto con il Coro di celesti, e con Giselda che nel sogno vede il cielo e dal cielo ode la voce del suo amato ucciso, inizia per la verità con la musica adatta alla situazione poetica, ma poi si perde in un grande brano di pas­ saggio, ricco d’effetto, per la voce della Prima Donna assoluta. Il pezzo piu im­ portante della partitura è in ogni caso il sopra citato terzetto finale del terzo atto per soprano, tenore e basso con violino obbligato. [...]. In questo brano Verdi si dimostra compositore quanto mai ricco di talento, ed è veramente da deplorarsi che egli debba affondare nel caos dell’opera italiana dei nostri giorni. Verdi è nato in Parma, è all’incirca ventenne e finora ha scritto una mezza doz­ zina di opere delle quali, tranne Nabucco, solo i Lombardi ci sono noti. Delle altre sue opere conosciamo dalle recensioni italiane solo i titoli: Emani, Due Foscari e Giovanna d’Arco. Nabucco è ritenuto in Italia per il suo migliore la­ voro; lo riascolteremo e torneremo a parlarne '. (xlvii, n. 44, 29 ottobre 1845, cc. 778-80).

Due settimane prima era andata in scena al San Carlo VAlzira, un’al­ tra opera nuova di Verdi; ecco come ne riferisce, sempre sulla probabile scorta di giornali o di lettere private, il «Mailander Correspondent»: Napoli (Teatro San Carlo). [...]. Alzira andava in scena il 12 agosto, si può ben immaginarlo, fra l’attesa più ansiosa e con teatro pieno zeppo [...]. In que­ sta prima rappresentazione si verificò una scaramuccia secondo le regole con applausi, chiamate, zittii e fischi; i fischi crebbero sempre più tanto che alla quinta rappresentazione, il 21 agosto, solo la cavatina della Tadolini ebbe qual­ che applauso, ma tutto il resto ricevette i segni del malcontento2. Con quest’o­ pera Verdi ha nuovamente confermato il suo moto retrogrado dal Nabucco in poi. È sorprendente che di tutti i migliori maestri dell’opera rossiniana attuale il solo Donizetti si conservi il più a lungo, ed egli deve aver già composto cento opere. Pacini, che invece ne ha già scritte ottanta, è ora quanto mai attivo (il «come» è altra questione). Mercadante, troppo presto esaurito melodicamente, è soggiaciuto alla pesantezza delle sue armonie completamente inutili, che solo pochi italiani spiattellano per alta scienza musicale. Bellini mori giusto a tempo per la sua fama; egli era finito con la sua settima opera, I Puritani. Luigi Ricci ha messo al mondo solo alcune opere buffe sopportabili. Se Verdi salirà ancora più in alto, ce lo dirà il tempo, (xlvii, n. 47, 19 novembre 1845, c. 844). 1 Cfr. oltre, p. 39. 1 Circa l’esito dell* Alzira a Napoli, Verdi scrisse alla contessa Maffei (lettera del 13 agosto 1843, fotocopia dell’autografo presso Istituto di studi verdiani, Parma): «E’Alzira è andata bene e spero andrà meglio di sera in sera. L’esito di quest’opera parmi si possa paragonare a quello della prima sera dell’Erw/wz a Venezia. Molta esigenza nel pubblico ed un partito contràrio. Cose solite! Ap­ plausi e chiamate a quasi tutti i pezzi, e, ad alcuni, fragorosissimi». Analogamente al Toccagni (let­ tera del 13 agosto 1843, in «Natura e Arte», Milano, 15 febbraio 1901, p. 18); «L’esito di ieri seta dell’Alzira è stato eguale a quello delVErnani alle prime sere a Venezia. Voi che foste presente alYErnani vi farete un’idea perfetta della serata di ieri. Sono le solite storie e esigenze estreme del pubblico, ed esecuzione sempre indecisa appunto per queste pretese del pubblico»; e al Piave (in F. abbiati, Giuseppe Verdi, Milano 1959, vol. I, p. 566): «Le prime sere sono non recite ma bat­ taglie: bisogna combattere i partiti, le prevenzioni, ed il diavolo che se li porti. E'Alzira è piaciuta come VErtiani a Venezia alla prima sera. Con questo t’ho detto tutto. Spero che in seguito piacerà di più e starà in repertorio chi sa quanto tempo». Ma a Giovannina Lucca, molto laconicamente (lettera del 17 agosto 1846, fotocopia presso Istituto di studi verdiani, Parma): «L’Alzira piacque discretamente la prima sera, e meno la seconda».

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Il 17 dicembre, nel severo ambiente del Gewandhaus di Lipsia, in occasione del decimo concerto in abbonamento, oltre alla Sinfonia in La maggiore di Onslow, a una fantasia di Kummer su melodie scozzesi per violoncello, a due quintetti da Cosi fan tutte e alle musiche di Beethoven per VEgmont, veniva eseguita quale secondo pezzo del programma e nel­ l’interpretazione di Miss Dolby la «scena e cavatina» di Emani (quasi certamente «Surta è la notte»). Ne riferiva il critico lipsiense L. R.: L’italiano G. Verdi, che ora con le sue opere sostiene sui teatri della sua patria un ruolo non insignificante, è per noi tedeschi, con poche eccezioni, an­ cora una celebrità sconosciuta; anche in Lipsia nessuna delle sue opere è giunta alla rappresentazione. Se il pubblico di qui ha motivo di lagnarsene, un unico Solo tratto da una di quelle opere non è certamente sufficiente per esprimere su di esse un’opinione; ma, senza voler esser precipitoso, il vostro recensore può e deve tuttavia confessare apertamente che s’accontenta volentieri di un unico incontro con il sig. Verdi e non nutre particolare desiderio di rinnovarne la conoscenza. La suddetta aria àeWErnani è precisamente un brano di musica come ne escono a dozzine dalla fabbrica dei maestri italiani attuali, somiglianti l’un l’altra come un uovo somiglia a un altro uovo, fedelmente copiata dal ben noto e abusato modello, sul quale quei pittori musicali strisciano quei pochi colori che sono a disposizione sulla loro tavolozza, ma senza dimenticare di sfo­ derare una verniciatura di roulades e cadenze che offrano all’esecutore una ba­ stevole occasione per brillare con bravura e abilità '. L. R. (xvlii, n. 52, 31 di­ cembre 1845, c. 933).

Iniziando le sue relazioni sulla stagione d’autunno in Italia da Roma e cogliendo lo spunto dal successo che YAlzira aveva avuto in questa cit­ tà, il «Mailànder Correspondent» offriva una breve panoramica sulla situazione della moda verdiana: Roma. In ogni grande capitale italiana tanto la classe colta, quella che dà il tono, quanto il giornalismo teatrale hanno per regola di considerare la pro­ pria città, o per meglio dire, se stessi, gli intenditori musicali sovrani dell’intera penisola, e le città che più si vantano sono: Napoli, Roma, Milano e Venezia; perciò abbastanza spesso, senz’alcun motivo, un’opera che fa furore in una di queste capitali, nelle altre, spesso già in anticipo, finisce con un fiasco. I due fioscuri di Verdi, che qui piacquero molto, a Napoli trovarono un’accoglienza affatto tiepida; la sua Alzira, che proprio nella scorsa stagione fece un fiasco rispettabile, trovò qui a Roma i suoi innamorati. Verdi, la cui gloria nata a Milano ivi s’è quasi già spenta, qui continua a sopravvivere e seppure la febbre verdiana presso i romani non è cosi violenta come ora presso i parigini1 2, per 1 Quasi un anno più tardi questa cavatina fu nuovamente eseguita in un concerto d’abbona­ mento al Gewandhaus di Lipsia dal soprano Wittmann. 2 II 16 ottobre 1845 per la prima volta un’opera di Verdi, Nabucco, fu rappresentata a Parigi, al Theatre Italien; il 6 gennaio 1846 vi veniva rappresentato VErnani. Già il titolo di un articolo, Nabucco et les Verdìstes, a firma di R., apparso sulla « Revue et Gazette musicale de Paris» dell’n gennaio 1846, può fornire un’idea del rumore provocato dall’opera di Verdi nella capitale euro­ pea del tempo.

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ora non v’è certamente da sperare in una guarigione. Sulla locale Rivista s’è già fatto sentire un Delirium furiosum verdiano che per intensità quasi equivale a quello della France musicale \ Un’altra Rivista, quella fiorentina, è assalita solo da un Delirium placidum. Ultimamente essa si è espressa nei seguenti termini: «Verdi chiese a Bellini il segreto della sua potenza e si ebbe per risposta: il cuore; segui le ombre di Haydn, Mozart, Beethoven, Pergolesi e Allegri. Cosi fecero recentemente il mago Meyerbeer, il maestro di tutti i maestri, dei cui raggi creatori Bellini e Verdi sono entrambi riverberi»1 2. [...]. (xlviii, n. 5, 4 febbraio 1846, c. 86).

I termini medici usati in questa corrispondenza sembrano rivelare la fir­ ma di un esperto di... tarantismo musicale, probabilmente quella stessa del Lichtenthal; resta comunque il fatto che poco piu tardi, in una corri­ spondenza da Torino il nostro anonimo dovrà ridimensionare l’affrettato giudizio sugli insuccessi verdiani a Napoli coll’ammettere che I Foscari s’erano dati nel frattempo settanta volte-e la stessa Alzira aveva rag­ giunto le trenta repliche; ma si tratta secondo lui nient’altro che di un «divertente avvenimento»3.

Fra l’autunno del 1845 e l’inverno del 1846, giusto durante il pe­ riodo di gestazione dell’Attila, Verdi, com’è noto, si ammalò molto se­ riamente: alle febbri reumatiche che l’assalirono a Milano prima della partenza per Venezia, si aggiunse piu tardi una grave forma di gastrite che lo costrinse a letto per parecchi giorni. La crisi più acuta, a quanto pare, si ebbe in gennaio a Venezia e fu tale che si propagò la voce che egli fosse addirittura morente. L’«amz», nella rubrica di brevi notizie a chiusura di ogni numero intitolata Feuilleton, dava l’inatteso annuncio: In Venezia è morto Giuseppe Verdi, il compositore d’opera salito a subi­ tanea rinomanza in questi ultimi tempi4, (xlviii, n. 8, 25 febbraio 1846, c. 149)-

La smentita a questa notizia tardò a venire sino a maggio ed apparve in una breve nota redazionale in calce alla prima corrispondenza dall’Ita­ lia 5. La cosa più singolare tuttavia è che il redattore dell’indice generale 1 Periodico fondato e diretto da Leon Escudier, l’editore di Verdi in Francia. 2 Questa citazione, anch’essa molto condensata per i tagli operati nel testo, proviene da una recensione al Lorenzino di Pacini pubblicata da Enrico Montazio sulla «Rivista di Firenze» nell’ot­ tobre del 1845; la parte riguardante Verdi, di questa recensione, e citata sull’«AMZ», si trova inte­ gralmente trascritta (con un errore evidente: saggio invece di raggio) in una lettera del Muzio del 31 ottobre 1845 al Barezzi (vedi G. Verdi nelle lettere di E. Muzio ad A. Barezzi, a cura di L. A. Garibaldi, Milano 1931, pp. 252-53). 3 xlviii, n. 6, 11 febbraio 1846, c. 107. 4 È a questa notizia che si riferisce un trafiletto apparso sull’«Omnibus» di Napoli trascritto dal Muzio in una lettera senza data (ma tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1846) al Barezzi: «Si legge in un giornale di Lipsia che Verdi è morto; no; Egli sta bene; forse avranno voluto dire che è morto il suo Attila» {Verdi nelle lettere di Muzio a Barezzi cit., p. 241). 5 xlviii, n. 18, 6 giugno 1846, c. 308.

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dell’«AMZ», pur pubblicato dopo il 1848, con teutonica precisione regi­ strò tale notizia, che doveva rivelarsi così tanto prematura, nell’elenco dei necrologi pubblicati dalla rivista lipsiense!... Nel frattempo in Italia s’era iniziata la stagione di carnevale 1845-46 che in almeno 16 teatri fu inaugurata con Emani'; e ancora aVRErnani è costretto ad accennare, con la consueta ostilità, il «Mailànder Corre­ spondent» nella sua relazione da Roma: Roma (Teatro Apollo). Il celebre Verdi ha qui stregato tutti, anche se al­ cuni romani che si dicono musicalmente dotti pensano il contrario. Il suo Emani ha fatto fanatismo nel 1844 al Teatro Argentina, nel 1845 al Teatro Valle, ora al Teatro Apollo, per tacere delle altre sue opere che durante questo periodo hanno cosi tanto entusiasmato gli spettatori di questi teatri. Questo Emani, che dal giorno della sua nascita a Venezia due anni fa sta facendo il giro d’Italia, cosi come una volta il famosissimo Tancredi di Rossini, da tempo dimenticato, e col quale non regge certamente alcun confronto, non trovò una splendida ac­ coglienza nello scorso autunno a Parigi, nonostante tutte le lodi avanzate dal sig. Escudier sulla France Musicale. (Nella citata «France musicale», n. 3 del 18 gennaio, p. 19, il signor Escudier redarguisce tutti coloro che non lodano l’Ertftfwi ed anche la « Revue musicale» del signor Schlesinger, che essa chiama La feuille germanico-musicale. La diatriba si presenta con simili amenità: «Le Journalisme allemand devait se distinguer dans cette lutte: depuis que l’Allemagne ne produit que des Compositeurs de troisième qualité [anche Spohr, Meyerbeer, Mendelssohn?], des compositeurs à vingt neuf sous, elle s’est mise à japper contre toutes les renommées italiennes»). Prossimamente lo si ascol­ terà a Londra, e probabilmente anche in Germania. [...]. Se YEmani raggiungerà l’età [di Lucia di Lammermoor e di Lucrezia Borgia] è cosa da dubitare molto. La musica verdiana ha soprattutto quell’essere che, coll’udirla spesso, diventa pesante, (xlviii, n. 19, 13 maggio 1846, c. 322).

Ma l’avvenimento piu importante di quella stagione di carnevale era costituito dall’Attila, la nuova opera di Verdi andata in scena a Venezia, dove la stagione si era iniziata sotto poco lieti auspici a causa dell’insuc­ cesso della Giovanna d'Arco: Venezia (Teatro Fenice). La Giovanna d’Arco di Verdi fu accolta coi sonori segni del malcontento, e l’imperatore di Russia, che assisteva alla rappresenta­ zione insieme al Viceré nel palco di corte, avrà visto per la prima volta in vita sua come si è soliti andare prossimi a un grande fiasco in occasione dell’apertura della stagione d’opera dei maggiori teatri italiani a S. Stefano (26 dicembre). [...]. Sebbene ci fossero due eccellenti cantanti, la Lówe e il tenore Guasco, l’o­ pera anche nelle successive rappresentazioni, quando vi era meno distrazione, piacque assai poco; perfino la nuova cavatina composta da Verdi per la Lòwe 1 I giornali del tempo parlano di diciassette teatri inaugurati con Y Emani; sicuramente con quest’opera si inaugurarono, come ho potuto appurare dalle cronache giornalistiche del tempo, i teatri di Crema, Pisa, Lodi, Pistoia, Cagliari, Firenze (teatro Alfieri), Novara, Pesaro, Roma (teatro Apollo), Saluzzo, Spoleto, Rieti, Pallanza, Fossombrone, Foligno e Prato.

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Marcello Conati

non fu accolta molto favorevolmente \ [...]. L’opera nuova di Verdi, lungamente attesa, Attila, andò finalmente in scena il 17 marzo. Nella prima rappresenta­ zione solo il Prologo suscitò entusiasmo (composto da una cavatina magistral­ mente cantata dalla Lòwe, un duetto dei due bassi, un coro di eremiti, quindi una specie di crepuscolo mattutino e levar di sole alla Haydn e David, in cui l’orchestra alle parole «Lode al Creator» irrompe in un fortissimo - tutto que­ sto pezzo è di teatrale effetto - e una insignificante cavatina di Guasco); il pri­ mo atto, il secondo e il terzo, che consta di un terzetto che sfocia in un quar­ tetto, riportarono rispettivamente un piccolo, un meno piccolo e un grande fia­ sco (= silenzio perfetto)', in questi tre atti s’è talvolta anche fischiato. Nella se­ conda rappresentazione gli amici cercarono di dare un altro aspetto alla situa­ zione. Si applaudì fortemente anche in questi tre atti e il maestro fu chiamato fuori circa dodici volte. Intanto un noto poeta1 2 ha subito fatto annunciare da Venezia sulla Gazzetta milanese del tutto poeticamente: Verdi fu chiamato fuo­ ri quaranta volte e il suo Attila può essere posto accanto a tutte le opere celebri di ogni tempo. Qui a Venezia tuttavia si insiste in generale su questo giudizio: solo il Prologo merita lodi, gli altri atti sono molto deboli, pieni di reminiscen­ ze, ed è veramente cosi. Il 24 marzo fini la stagione, il cui vero trionfo è stata la Elssler3. (xlviii, n. 23, io giugno 1846, cc. 387-88).

Le statistiche della stagione di carnevale 1845-46 vedono sempre in te­ sta Donizetti presente in 58 su 88 teatri aperti (di cui 21 nello Stato del­ la Chiesa, 19 nel Lombardo-Veneto, 17 nel Regno di Sardegna; ecc.) con 84 allestimenti; segue ancora Verdi con 37 teatri e 41 allestimenti, di cui ben 19 del solo Emani', quindi Bellini (23 e 24), Rossini (18), Mer­ cadante (12), Luigi Ricci, ecc. Con queste notizie statistiche, seguite da­ gli abituali brevi cenni sulle rappresentazioni delle compagnie italiane all’estero, hanno termine dopo circa trentaquattro anni le regolari corri­ spondenze stagionali dall’Italia sulP«AMZ»; nei pochi mesi di vita che ancora resteranno alla gloriosa rivista (cesserà infatti le sue pubblica­ zioni al suo cinquantesimo anno, nel 1848) dall’Italia si avranno solo al­ 1 Si tratta della nuova aria di sortita «Potrei lasciare il margine» da cantarsi nel Prologo del­ l’opera; il testo fu pubblicato nel libretto edito per la rappresentazione veneziana; non se ne cono­ sce la musica e l’autografo è tuttora irreperibile; cfr. n. lawton - d. rosen, Verdi’s Non-definitive Revisions: The Early Operas, in Atti del III Congresso internazionale di studi verdiani (Piccola Scala, Milano 1972), Parma 1974, pp. 204-6 e 233. Sull’esito della Giovanna d’Arco a Venezia cosi Verdi si espresse in una lettera del 27 dicembre 1845, dopo la seconda rappresentazione, alla con­ tessa Maffei: «[...] non ho assistito alla prima rappresentazione in cui eravi teatro illuminato e l’imperatore di Russia: silenzio perfetto dalla prima all’ultima nota. Jeri sera (dicesi) si applaudì alla cavatina della Loeve, molto al duetto soprano e basso ed alla preghiera del tenore, e nulla alla sinfonia ed all’ultimo finale che sono i migliori pezzi dell’opera». 2 Andrea Maffei; vedi «Gazzetta Musicale di Milano», 22 marzo 1846, pp. 94-95. 3 Circa l’esito dell’Attila Verdi così scrisse alla Maffei: «L’Attila ebbe nel complesso esito as­ sai lieto. Applausi e chiamate ve ne furono anche troppo per un povero ammalato. Forse non tutto fu compreso e si capirà stasera». Non diversamente si espresse con la contessina Gina Somaglia: «L’Attila ebbe esito lietissimo. Vi furono chiamate ad ogni pezzo ma si applaudì con maggior fana­ tismo l’intero atto primo. Io sperava molto sul finale secondo, e terzo, ma od io mi sono ingannato od il pubblico non ha capito, perché si applaudì con minor fervore» (in abbiati, Giuseppe Verdi cit., vol. IV, p, 606) e con il conte Arrivabene: «L’Attila ha avuto successi lietissimi alla prima sera, ed ha fatto fanatismo alla seconda rappresentazione. Non vi fu pezzo senza applausi e quindi chiamate senza numero».

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cune brevi corrispondenze isolate da singole città, ma senza periodicità e soprattutto senza quella metodicità e quella completezza che in prece­ denza aveva consentito di avere, stagione per stagione, un quadro pano­ ramico ed esauriente su tutta la vita musicale italiana. Per il 1846 non resta altro da segnalare se non una breve corrispondenza da Berlino per Nabucco, che ancora una volta non fu debitamente apprezzato a causa della mediocre esecuzione della compagnia di canto italiana1 e dovrà at­ tendere quasi novantanni prima di tornare nuovamente sulle scene ber­ linesi. Il 20 gennaio 1847 andava in scena ad Amburgo VEmani’. era questa la prima volta che quest’opera veniva eseguita in lingua tedesca (in quel­ lo stesso anno seguirono, in tedesco, gli allestimenti di Emani a Stoc­ carda, Braunschweig, Hannover, Brno, Darmstadt, Coburg, Graz, Kas­ sel e Mannheim, nonché quelli, sempre in tedesco, di Nabucco a Breslavia, Francoforte, Colonia e Kassel). La rappresentazione ebbe grande successo, come conferma il corrispondente da quella città sull’«AMZ»: Amburgo. [...]. Certamente al successo hanno contribuito molto sia l’esecu­ zione che il valore dell’opera, la quale è in parte brillante e abbastanza ricca d’effetto, ma manca di originalità. Nabucodonosor ed Emani sono entrambi, quanto a fattura e modo di trattamento, stessi e medesimi. Inoltre il fragoroso baccano degli ottoni vi è piu che di troppo. Solo alcuni brani si elevano al di sopra dell’usuale e offrono la prova che Verdi può considerarsi un compositore notevole. A questi appartengono il duetto fra Emani ed Elvira nel secondo atto e, particolarmente, il bel terzetto, pieno d’effetto, dell’ultimo atto. Anche il coro dei congiurati nel terzo atto: «Haltet euch fest, ihr Manner umschlungen», è un brano pregevole, (xlix, n. ir, 17 marzo 1847, c. 178).

Di ben diverso parere fu il corrispondente da Copenaghen, dove Emani (peraltro in «ripresa», essendo già stato dato alcuni mesi prima) e I Foscari erano andati in scena sotto la guida di un giovane violinista desti­ nato a grande carriera direttoriale, Angelo Mariani: Lettere da Copenaghen. [...]. L’opera italiana, sotto la direzione del signore Napoleone Torre gode della particolare protezione del re, il quale ha anche assi­ stito a quasi tutte le rappresentazioni; e diventa quindi bon ton infatuarsi per le sciocchezze di un Verdi. Di costui si diedero finora due opere, Emani e I due Fose ari, che fanno riconoscere in Verdi un debole imitatore di Donizetti; quel musicista che è condannato ad ascoltare simili opere dall’inizio alla fine, si armi della pazienza di Giobbe, (xlix, n. 12, 24 marzo 1847, c. 200).

All’appressarsi della tempesta quarantottesca la rivista lipsiense sem­ bra circoscrivere maggiormente l’attenzione a quanto, in fatto di mu­ sica, avviene nei paesi tedeschi; di qui il diradarsi delle corrispondenze 1 XLvni, n. 46, 18 novembre 1846, cc. 774-75.

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dall’estero e in particolare dall’Italia, dove la voce del cantor è sempre quella^ dopo trentaquattro anni di geremiadi sulla decadenza della mu­ sica in Italia, infatti, il «Mailànder Correspondent» ribatte sempre il medesimo tasto, senza nemmeno azzardare una pur semplice modula­ zione: non ci sono più maestri, non ci sono più cantanti, l’opera è uni­ forme, ecc. «Come andrà tutto a finire? Si dovranno chiudere i teatri d’opera?» l. In Germania, frattanto, l’editore Schott aveva pubblicato, con testo italiano e tedesco, una melodia di Verdi, Il poveretto \ che at­ tirò l’attenzione di un critico dell’«AMZ» che ne fece la seguente re­ censione: Bisogna pur concederlo a questi italiani: essi sanno scrivere con abilità e in maniera gradevole per la voce e con grande effetto. Si faccia eseguire questo semplice canto da una buona voce e tutti ne saranno rapiti, non per una convin­ cente energia e per altezza di pensiero musicale, non per la ricchezza dell’armonia, non per la genialità della modulazione, bensì unicamente per semplice ca­ lore, per la melodia che va nel cuore, e nella quale sono abilmente impiegati i registri più belli della voce e una combinazione di suoni la più conforme. Non lo dovremmo finalmente imparare una buona volta anche noi tedeschi onde ser­ vircene alla nostra maniera? Sempre ed eternamente noi ci lamentiamo del pre­ giudizio recato all’opera tedesca da quella italiana. Ma perché, invece, non ci appropriamo del buono e di quanto è degno d’imitazione dei compositori ita­ liani? Con quale abilità essi sanno trattare la voce! Come angoloso e come scon­ troso scrivono, per contro, molti nostri compositori tedeschi di Lieder, buon Dio!1 23. (xlix, n. 46, 17 novembre 1847, c. 796).

L’opera di Verdi si va diffondendo in Germania; ed anche il corri­ spondente da Coburg vuol dire la sua a proposito dell’opera del giorno, Emani di fresco rappresentata in quel teatro di corte: Koburg. Chi caso mai volesse ritenere che quest’opera stia al di sopra di tutte le altre opere italiane, si sbaglierebbe fortemente; essa sta al di sotto delle opere di Rossini, Bellini, Donizetti, Mercadante, e di gran lunga, assai di gran lunga, delle vecchie opere italiane. Emani è un miscuglio in cui si trovano qua e là dei brani piuttosto buoni, quindi dei brani piuttosto cattivi. Verdi si compiace farsi bello delle altrui penne; ma non solamente di penne di pavone egli se ne va in giro tronfio - non disprezza nemmeno le penne di struzzo; non solo Rossini, Donizetti, Meyerbeer si trovano nelle sue opere, bensì anche Strauss, il re del valzer [vi è qui un gioco di parole: il sostantivo tedesco Strauss significa struzzo]. Eseguita da buoni cantanti italiani su un grande teatro l’opera potrà anche far effetto, poiché contiene belle melodie e offre ad abili cantanti molte occasioni per far risplendere il loro talento; ma per l’amor del cielo, solo 1 xlix, n. 34, 23 agosto 1847, c. 382. 2 Su versi di M. Maggioni, librettista e poeta ufficiale del teatro italiano di Londra; era appena stato pubblicato a Milano dall’editore Lucca. 3 Questa recensione, insieme ad altri frammenti di critiche dell’«AMZ» qui riportati, fu pub­ blicata in un mio articolo, L'Ottocento musicale italiano, sulla rivista «L’opera» di Milano (n. n, 1968).

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in uno spazio imponente, poiché in generale si tratta di vera musica alla moda, cioè musica poderosamente rumorosa. La rappresentazione è riuscita bene (l, n. 5, 2 febbraio 1848, cc. 72-73).

Né piu favorevole è l’opinione del corrispondente di Francoforte nei con­ fronti del Nabucco: Frankfurt a. M. [...]. L’opera Nabucco di Verdi, data come novità dopo le feste, non la ascrivo fra le manifestazioni importanti del nostro repertorio. Pec­ cato solo che tanta bella fatica se ne sia andata via per questa musica frivola, ostentativa, di scarsa sostanza e senza sentimento! Un plagio così sfacciato non m’era ancora capitato nel regno dell’arte musicale, e tuttavia non si possono disconoscere alcune geniali intenzioni. Solo che il Signor Verdi non ha saputo cosa farne, (l, n. 6, 9 febbraio 1848, c. 91).

Siamo ormai in pieno Quarantotto; la vita artistica, soprattutto quel­ la teatrale, viene come paralizzata dalle turbolenze sociali e politiche che sconvolgono l’Europa. Qualcosa trapela anche fra le pagine dell’«AMZ», come ad esempio una fuggevole eco dello «sciopero del fumo» attuato dai cittadini milanesi per protesta contro le autorità austriache, raccolta in una corrispondenza da Vienna: Vienna. [...]. Quest’anno noi non avremo opera italiana. L’Italia, com’è no­ to, ora ci odia terribilmente. Non fuma più i nostri sigari e adesso si rifiuta an­ che di darci le sue roulades. Noi già ci accingiamo a concorde disperazione. (l, n. 13, 29 marzo 1848, c. 220).

Anche in tempi di rivoluzione l’umorismo non fa difetto agli educati viennesi, cosi come non fa difetto allo spiritoso, anche troppo, corri­ spondente parigino dell’« amz», il Dr. C., come si firmava, il quale a pro­ posito della «prima» di Jerusalem all’Opéra si limita al seguente an­ nuncio: Parigi. Jerusalem è sepolta - e il Verdismo con essa. Requiescat in pace! Un po’ di chiasso, un po’ di strombazzamenti, potenti colpi di grancassa: Entrr-rez, Messieurs! pr-r-renez vos billets! cosi si è arrivati a dieci rappresentazioni. Un colpo di vento ha spazzato via le rimanenti! '. (l, n. 12, 22 marzo 1848, c. 201).

Le notizie d’interesse verdiano diradano rapidamente, limitandosi a due rapidissimi cenni sul preteso fiasco dell’Attila a Londra e su quello delVErnani a Monaco, mentre il corrispondente di Amburgo, dove già dal 1845 continuano le rappresentazioni del Nabucco in tedesco, pur am­ mettendo la «bizzarra mescolanza di stile» di un’opera in cui l’eroico confina col burlesco e il grandioso con il futile, scrive che Cfr. nota precedente.

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difficilmente fra le recenti opere si può trovarne una che sia più ricca di parti­ colari musicalmente interessanti come il Nabucco di Verdi. Oltre alla predomi­ nante ricchezza della melodia essa ha cori eccellenti e l’istrumentazione, senza apparire sovraccarica, è veramente splendida. Tutto questo certamente non è ancora di gran lunga bastante per farne un capolavoro completo, ma è sicura­ mente qualcosa, e nei tempi attuali ciò deve e può tollerarsi, (l, n. 39, 27 set­ tembre 1848, cc. 633-34).

Cala infine il silenzio sul compositore e sulle sue opere, silenzio che vie­ ne rotto proprio nell’ultima pagina dell’ultimo numero della rivista con una breve notizia (se cosi vogliamo chiamarla...) apparsa in apertura al feuilleton : Pare che il signor Verdi debba completare tra breve due partiture d'opera, probabilmente col suo sistema-delle-quaranta-trombe, delle quali una per Pie­ troburgo, l’altra per Napoli. È noto che a Pietroburgo il compositore Sarti intro­ dusse in un Te Deum dei cannoni obbligati. Se in Russia vi sono ancora alcuni avanzi di un gusto che quelle esplosioni sono in grado di soddisfare, al compo­ sitore del?Attila verrà assicurato un successo maggiore che a tutti gli altri Mae­ stri e sicuramente il bastone di maresciallo1, (l, n. 52, 27 dicembre 1848, c. 858).

Si conclude cosi l’itinerario dell’opera verdiana allo specchio delle critiche e delle cronache della prima, in ordine di tempo, e più illustre rivista musicale: un bilancio quanto mai negativo, sul piano dell’atten­ zione critica e, tutto sommato, non molto diverso da quello che può rica­ varsi da altri autorevoli fogli musicali tedeschi di quegli anni, quali «Neue Berliner Musik-Zeitung», «Signale fiir die musikalische Welt», «Rheinische Musik-Zeitung». Bilancio che presso la critica specializzata di lingua tedesca rimarrà sostanzialmente negativo - nonostante il pro­ cedere di Verdi verso la cosiddetta «trilogia popolare» prima e verso Un ballo in maschera e Don Carlos poi - anche negli anni seguenti e, si può dire, per tutto il corso dell’Ottocento, di pari passo con il diffon­ dersi del dramma wagneriano, ad eccezione della favorevole attenzione suscitata in Germania da Aida e Requiem e infine da Otello e Falstaff. Per un nuovo giudizio della critica tedesca su Verdi e la sua opera si do­ vrà attendere sino agli anni venti del nostro secolo, con la Verdi-Renais­ sance: ma sarà allora l’inizio di un esame di coscienza su tutto il teatro musicale dell’Ottocento, un esame che tuttora dura. E di questo esame gli stessi giudizi negativi della critica ottocentesca, anche i più ostili, ol­ tre che un indispensabile mezzo di conoscenza per lo studio delle con­ dizioni storiche dell’evoluzione del melodramma italiano, costituiscono 1 Cfr. sopra, p. 40, nota 3; fu riportato anche nell’articolo del fellerer, Verdi und Deutschland

cit.

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un banco di prova che consente di apprezzare meglio la stessa esperienza verdiana, un'esperienza irripetibile nel suo ampio e profondo contenuto sociale oltre che artistico, che ha saputo spazzare ogni barriera fra il competente e l’incolto, fra il complesso e il semplice, fra l’accademico e il naturale; pur senza mai abdicare alla conquista dell’espressione poe­ tica nel senso più alto della parola, attraverso una conoscenza tecnica che oggi ci appare in tutta la sua dimensione e con una consapevolezza mo­ rale che ebbe ragione di ogni incertezza e di ogni ostacolo.

ROMAN VLAD

Unità strutturale dei Vespri siciliani

Le pagine che seguono risultano da un approfondimento della ma­ teria che aveva costituito l’oggetto della relazione svolta nel quadro del Convegno di studi sui Vespri siciliani organizzato nell’aprile 1973 dal­ l’istituto di studi verdiani e dal Teatro Regio di Torino in occasione dell’inaugurazione del Nuovo Regio. Nella stessa circostanza Massimo Mila aveva curato per la collana di guide musicali «Opera» diretta da Alberto Basso1 una magistrale monografia sulla stessa opera. La mia re­ lazione e questa sua elaborazione assumono un aspetto in qualche senso complementare rispetto alla «lettura dello spartito» mediante la quale Mila sviluppa un capitolo dedicato ai Vespri siciliani nel suo precedente Giuseppe Verdi12. Ed è anche perciò che dedico questo scritto a Massimo Mila nell’intento di testimoniargli un’antica quanto profonda amicizia, nutrita in pari misura d’ammirazione e d’affettuosa simpatia umana.

La relazione che svolsi a Torino si riallacciava a quella che avevo pro­ nunciato nella cornice del III Congresso internazionale di studi verdiani tenuto a Milano nel giugno 1972. Scopo di quest’ultima relazione era stato di contribuire al definitivo superamento di taluni vecchi pregiudizi e inveterati luoghi comuni concernenti la qualità della materia musicale delle opere di Verdi. Soprattutto di quelli per cui Verdi - similmente agli altri grandi operisti italiani dell’ottocento - non avrebbe parteci­ pato in modo rilevante agli sviluppi formali e a quell’intrinseco divenire della musica europea che dovevano portare conseguentemente nel nostro secolo all’allargamento, e successivamente al superamento del tradizio­ nale sistema diatonico fondato sul concetto della funzionalità armonica e dell’unità tonale, nonché all’emancipazione delle dissonanze e al cro­ matismo dodecafonico che segna il limite di sviluppo e di dispiegamento 1 Giuseppe verdi, Les Vépres Siciliennes / I Vespri siciliani, a cura di M. Mila, Torino 1973, PP- 159-237. 2 M. mila, Giuseppe Verdi, Laterza, Bari 1958.

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delle strutture insite potenzialmente nel sistema equabilmente tempe­ rato. Importava anche dimostrare l’intima coerenza, l’unitarietà struttu­ rale dei capolavori di Verdi. Ora l’analisi strutturale che investiva l’ope­ ra di Verdi nella sua totalità verrà applicata in modo specifico ai Vespri siciliani in collegamento con la particolare problematica ingenerata dalla «posizione singolarissima, in un certo senso cruciale, che quest’opera occupa nella carriera artistica del compositore» l. Verdi si accinse alla composizione dei Vespri dopo aver toccato con i tre capolavori popolari Rigoletto, Trovatore e Traviata un limite oltre il quale doveva rinnovarsi se voleva evitare un’involuzione ripetitiva. Questa tesi sostenuta da Mila è certamente giusta. Com’è corrispondente alla realtà la constatazione che negli anni che seguono a Rigoletto, Tro­ vatore e Traviata, Verdi fosse entrato in «una fase di pensiero artistico ardentemente progressivo»1 2 invocando novità, liberazione dalle conven­ zioni e forme nuove. Questa disposizione spontanea di Verdi veniva a convergere con l’esigenza obiettiva legata al fatto che I Vespri nascevano per commissione dell’Opéra di Parigi e «non era un mistero che le piazze straniere - particolarmente Parigi - esigevano dai nostri operisti un mag­ giore impegno compositivo, soprattutto dal punto di vista della stru­ mentazione, e anche dell’armonia»3. Per operare il suo rinnovamento Verdi non aveva bisogno di rifarsi alla sostanza musicale delle opere di Meyerbeer. Il fatto stesso d’aver accettato di comporre I Vespri secondo gli schemi e le esigenze del grand opera che imperava a quell’epoca a Parigi e di cui Meyerbeer era l’esponente più celebrato, rendeva inevi­ tabile che Verdi fosse tacciato di meyerbeerismo, soprattutto da parte dell’ambiente italiano. In realtà il paragone con Meyerbeer può investire più che altro l’impostazione formale e l’estrinseco taglio del libretto. Con questo non si vuol dire peraltro che la materia sonora dei Vespri sia del tutto priva di riflessi dell’esperienza meyerbeeriana. Gli aspetti innovatori della tecnica orchestrale di Meyerbeer non sono certo stati ignorati da Verdi. Ma qual è il compositore di quel periodo che non se ne sia giovato in qualche misura? Persino Wagner, il quale manifestava un sovrano disprezzo per i presunti «effetti senza cause» del Meyerbeer, finiva poi per impossessarsene surrettiziamente (senza considerare inol­ tre che attribuire a qualcuno la capacità di produrre degli «effetti senza cause» può risolversi invece che in una critica spietata nel riconosci­ mento di poteri addirittura magici). Il fatto è che, se si volesse misurare 1 mila, in Les Vépres Siciliennes cit., p. 1^9. 2 Ibid., p. 164. 3 Ibid., p. 163.

Unità strutturale dei Vespri siciliani

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davvero il debito che Verdi può aver contratto nei confronti di Meyer­ beer, bisognerebbe studiare finalmente i rapporti reali tra V Africana e YAida. Per quanto riguarda I Vespri siciliani un confronto con la pre­ cedente produzione di Meyerbeer potrebbe dimostrare semmai la mag­ giore modernità di Verdi. E se è vero quanto asserisce Mila e cioè che I Vespri siciliani «sono meno belli del Rigoletto, ma sono più avanza­ ti» è vero altresì che quest’opera è più avanzata anche delle contigue composizioni di Meyerbeer (e, oserei dire, anche di tante pagine di Ber­ lioz, malgrado ogni apparenza contraria). Comunque sia, I Vespri apro­ no quel ciclo centrale della creatività di Verdi che abbraccerà il Ballo in maschera, il Don Carlos, YAida e il Simon Boccanegra. Va subito detto però che il grado di modernità dei Vespri non è determinato tanto dalla quantità di dissonanze emancipate che vi ricorrono (la presenza di simili intervalli affrancati non costituirebbe, peraltro, una novità in Verdi giac­ ché la liberazione dai vincoli della preparazione e della risoluzione delle dissonanze comincia in opere del suo primo periodo quali YAlzira e PAt­ tila1) quanto da innumerevoli arditezze di ordine armonico, ritmico e costruttivo e soprattutto da una fitta rete di relazioni infratematiche che, ancor più che nella Traviata e nel Don Carlos1 23, prefigurano procedimenti strutturalistici che verranno poi teorizzati solo nel nostro secolo. I Ve­ spri siciliani ci offrono anche un precoce esempio di quel superamento della dicotomia maggiore-minore col conseguente ricupero dell’antico senso modale che, com’è noto, costituirà una delle leve principali di cui la generazione dell’ottanta si varrà per rinnovare il linguaggio musicale italiano. Giustamente Mila ravvisa nei Vespri «l’alba d una nuova con­ cezione del dramma dove la musica non si preoccupa soltanto di scolpire a tutto tondo le figure dei protagonisti, ma anche di collocarli entro un ambiente storico e di costume...»4. La definizione musicale dell’«ambien­ te storico e di costume» della Palermo del 1282 che costituisce il luogo dove si svolge l’azione dei Vespri siciliani riceve particolare pregnanza dal ricorso ai modi antichi fin dall’inizio della Sinfonia che apre e insieme anticipatamente riassume l’opera. Gli archi (ai quali rispondono come in eco timpani, tamburo e gran cassa) vi enunciano pianissimo un inciso rit­ mico che suggerisce mirabilmente il sordo, sotterraneo fremere dell’in­ quietudine e della ribellione popolare (cfr.es. 1). Mila lo fa derivare dall’episodio corale del Finale secondo, là dove si 1 Ibid., p. 169. 2 Cfr., dello scrivente, Alcune osservazioni sulla struttura delle opere di Verdi, in Atti del III Congresso internazionale di studi verdiani, Parma 1974, p. .519. 3 Ibid., pp. 514-19. 4 mila, in Les Vépres Siciliennes cit., p. 169.

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dipinge l’avvilimento dei siciliani ai quali i francesi hanno rapito le don­ ne: «Il rossor mi copri! Il terror ho nel sen! » (cfr. es. 2) *. Ora non ha forse molta importanza disquisire se sia giusto dire che il motivo d’apertura della Sinfonia viene da quel Finale (ciò che postule­ rebbe la composizione della Sinfonia come successiva a quella del resto dell’opera) o se per converso sarebbe più esatto dire che il Coro nel Fi­ nale secondo sviluppa il motivo in questione esposto nella Sinfonia (la quale, in tal caso, dovrebbe essere stata concepita prima). Il quesito pre­ senta solo una relativa importanza documentaria per il semplice fatto che la Sinfonia dei Vespri, alla pari di quella del Don Giovanni di Mozart, è una di quelle sinfonie che presuppongono la vicenda drammaticomusicale dell’opera come già accaduta nell’atto stesso in cui ne vanno esponendo e sinfonicamente sviluppando o sintetizzando i motivi salien­ ti. Importa notare invece che nel Finale secondo il motivo dell’agità-

1 Ibid., p. 192.

>o

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zione popolare si dispiega compiutamente (anche nelle sue elementari connotazioni melodiche che vedono dapprima l’alternarsi di un semitono discendente e di uno ascendente, poi la successione di due toni interi e successivamente l’alternarsi di una terza minore ascendente e di una se­ conda minore discendente), la struttura ritmica del motivo medesimo permea, con innumerevoli varianti, tutto il tessuto dell’opera. Le singole varianti risultano perloppiù da aumentazioni o diminuzioni in diversa guisa dei valori metrici che compongono la forma originaria del motivo Tfi J (che indicheremo con R voli., Paris 1869-76); ma il giudizio di Verdi sul­ l’opera è severo: «non m’ha giovato a nulla. Quando non sa inventa, con un toupet incredibile. E dire che molti lo credono un grand’uomo! Vi è in questo libro una storiella sulla Flute egiziana del Museo di Firenze che non è bella. Su delle misure mandategli ha fatto fabbricare, lui Fétis, una Flute da cui ha scoperto la tonalità antica!!!» (Genova, 12 agosto 1870: abbiati, Giuseppe Verdi cit., p. 379)In ogni caso, anch’egli per Aida chiede che gli venga fabbricato un flauto speciale. Sempre a Giulio Ricordi, il 26 agosto 1871, da Busseto: «Dunque si poteva fare questo maledetto Flauto in la come io avevo domandato in prima? No;/ possumus non è soltanto la parola dei frati, ma di tutti i poltroni e gli imbecilli! Oh non si sbaglia mai! quando uno in casi simili dice "non si può” potete essere sicuro che è un coglione» {ibid., p. 484). L’espressione equivale a uno di quei «grossi "per Dio!” », di cui alla nota di p. 126. 2 Cfr. il «quelche chose de grandioso» della lettera del Mariette al Du Lode, di cui alla nota di p. 128. 6

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Ma quel principio è di fatto inestinguibile: esso è solo regredito a un limite inconscio: là dove la critica e ormai la stessa interpretazione scenica hanno incominciato a operare sondaggi; ai quali, certo, la consul­ tazione di documenti come l’opuscolo ricordiano per la messinscena di Aida (e il relativo epistolario) non potranno non offrire appigli dì sor­ prendente consistenza.

Wagner: il confronto. Consideriamo la lettera a Giulio Ricordi, Sant’Agata, io luglio 1871. Fra le garanzie che Verdi chiede categoricamente per la sua Aida alla Scala, una - l’ultima, dopo altre sei esattamente elencate - riguarda l’or­ chestra: un’orchestra valutata ora non solo come strumento musicale, ma come delicatissimo elemento di tangenza tra sipario e pubblico, tra illusione e realtà. Verdi incomincia col chiedere: «7) Se la collocazione degli strumenti d’orchestra sarà fatta come io, fin dall’inverno passato in Genova v’ac­ cennai in una specie di quadro?» Sottolinea: «questa collocazione d’orchestra è d’un’importanza ben maggiore di quello che comunemente si crede, per gli impasti degli stromenti, per le sonorità, e per l’effetto». E subito dopo: «Questi piccoli perfezionamenti apriranno poi la strada ad altre innovazioni che verranno certamente un giorno, e fra queste quella di togliere dal palcoscenico i palchetti degli spettatori, por­ tando il sipario alla ribalta: l’altra di rendere l’orchestra invisibile. Quest’idea non è mia, è di Wagner: è buonissima. Pare impossibile che al giorno d’oggi si tolleri di vedere il nostro meschino frack, e le cravattine bianche, miste per es. ad un costume Egizio, Assiro, Druidico etc. etc. e di vedere inoltre la massa d’orchestra “che è parte del mondo fittizio” quasi nel mezzo della platea fra il mondo dei fischiami o dei plaudenti. Aggiungete a tutto questo lo sconcio di vedere per aria le teste delle arpe, i manichi dei contrabbassi, ed il molinello del Direttore d’orchestra». Wagner: il nome è stato profferito. Lungi dalla retorica di artificiose vite parallele, è però necessario e interessante notare come proprio l’at­ tesa di Aida (non si dice la sua composizione; ma di sicuro la prepara­ zione del suo allestimento) viva nella tensione del confronto storico or­ mai divenuto diretto. Il Lohengrin è rappresentato a Bologna il i° novembre 1871; VAida al Cairo andrà in scena il 24 dicembre, e alla Scala dopo poco più di un

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mese. Si sa che Verdi assiste ad una replica dell'opera wagneriana, in incognito solo nelle intenzioni. Le sue celebri note in margine allo spar­ tito di Lohengrin, segnate a caldo ma lucidissimamente durante lo spet­ tacolo, sono documento ancora apparentabile a quelli che veniamo con­ sultando per Aida-, l’epistolario e l’opuscolo ricordiano. C’è anche un’os­ servazione «visuale»: «brutto il cigno». Ma di fatto quasi tutti i rilievi sono sub specie scenae-. gli appunti su certe lungaggini in quanto com­ promettenti l’«effetto», come le varie (quante!) défaillances esecutive. La responsabilità del duello è netta nel compositore, non meno che nel pubblico: quello che intanto lo riconosce al Comunale di Bologna e lo applaude come anti-Wagner; come il pubblico della Scala all’attesissima Aida. In tutta la documentazione relativa alla preparazione di Aida, Verdi appare impegnato nella cura di chi, prima del duello, verifichi l’efficenza della propria arma: che assolutamente non abbia a incepparsi. «Raccomandate poi al maestro dei Cori di vegliare molto molto mol­ to sull’attacco della nota. È il difetto generale di tutti i Cori d’Italia di non attaccare, o attaccare fiaccamente. Quelli tanto vantati di Bologna hanno anche loro lo stesso difetto. Dite di vegliare inoltre sulle voci aperte; quelle voci da ebreo che par che gridino stringhe e ferri da cal­ zette [la voce di Mastro Trabuco, viene in mente] non si devono sentire alla Scala. Se l’opera deve far fiasco voglio che sia per colpa mia, e non dell’esecuzione. PS. Datemi notizie del Lohengrin di Firenze. Ho un dispaccio non tanto favorevole» (la sintomaticità di questo «PS.»!) ‘. È un duello - e Verdi lo sa bene - che trascende le individualità e coinvolge due culture, due tradizioni culturali, due «razze» (parola cara a Verdi, e innocentissima). Da una lettera di questi stessi giorni a Domenico Morelli: «Non du­ bitate però; l’ora del risveglio verrà, se dimenticheremo la frase fatale “Noi siamo stati” e ci ricorderemo che siamo d’ijna razza, ed abbiamo un sole, non voglio sapere se più bello e più brutto, ma diverso da quello che risplende di là dai monti. Diverso!... Voi mi capite!!... Con questa parola voglio dire arte non forestiera, ma nostra, e dell’epoca nostra.. L’artista che rappresenta il suo paese e la sua epoca diventa necessariamente universale, del presente e dell’avvenire». 1 «Se devo far fiasco voglio che sia tutto per colpa mia...» la stessa affermazione Verdi la rivol­ ge a Giulio Ricordi (da Busseto, il 26 ottobre 1871) per la realizzazione alla Scala della Forza del destino, nella stessa stagione che vedrà, dopo pochi mesi, la «prima» italiana di Aida (ibid., p. 484; cfr. inoltre p. 146, nota).

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Verdi non doveva sapere degli opuscoli che il giovane Wagner — esule - aveva scritto per le realizzazioni del Vascello fantasma e del Tann­ hauser, che egli non poteva seguire personalmente. Ma ciò non toglie nulla alla convergenza tra la pubblicazione ricordiana per Aida e quegli scritti: a parte la priorità di essi. Ma intanto Verdi che vediamo sul palcoscenico della Scala presie­ dere alle prove di Aida precede di un lustro Wagner che, a Bayreuth, prova la Tetralogia, lasciando le proprie indicazioni registiche nelle note di cui Felix Motti ha corredato la partitura. Piu che una convergenza, è l’effettiva coincidenza di ricerche impe­ gnate in senso nuovo, per un nuovo decoro scenico, per una verità dram­ matica basata su una nuova coesione, sulla aspirazione a una profonda unità fra i vari elementi dell’opera, per cui si arrivano a definire, bat­ tuta per battuta, i movimenti, i gesti, gli sguardi dei cantanti, e i rag­ gruppamenti armonici e variati dei cori. Per altro, da questa coincidenza - che è poi quella dell’empirica espe­ rienza comune di palcoscenico - lo scarto fra gli atteggiamenti e le con­ cezioni teatrali in Verdi e in Wagner aumenta quanto piu ci si alzi dalla quota palcoscenico, appunto, verso formulazioni d’ordine generale. Verdi non ha scritto trattati per una riforma dei teatri, come invece ha fatto Wagner, secondo un’impostazione utopica e rivoluzionaria ma, nello stesso tempo, tenendo d’occhio molto concretamente l’affermazio­ ne del proprio teatro. Tuttavia anche Verdi, costretto dalle insistenze ministeriali, ha fermato la propria riflessione su problemi di riforma. Ed è un fatto che anch’egli si appunta per intero sul teatro - scartando espli­ citamente i Conservatori, verso cui non nasconde la propria diffidenza misoneista - essendo il teatro, anche per lui, il centro focale della vita musicale della nazione. Siamo sempre entro questa medesima fervida annata 1871. Il suo pragmatismo di tempra machiavellica («Nelle cose, siano gran­ di o piccole, bisogna riescire o non intraprenderle»), arriva ad esprimersi in questi termini: «Che il ministro rialzi i teatri e non mancheranno né Compositori, né Cantanti, né Istromentisti. Ne istituisca per esempio tre da servire di modello a tutti gli altri. Uno nella Capitale, l’altro a Napoli, il terzo a Milano. Orchestra e Cori stipendiati dal Governo. In ogni teatro, scuola di canto gratis pel popolo, coll’obbligo agli allievi di servire nel teatro per un dato tempo. Per ogni teatro un solo Maestro Concertatore e Direttore dell’orchestra, e responsabile di tutta la parte musicale. Un Regisseur solo, da cui dipende tutto ciò che riguarda mise en scène». Alla quota piu alta, si chiude cosi il cerchio del «direttore di scena»,

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ovvero (più riguardosamente) «regisseur», con forti premonizioni nella direzione del futuro regista, sempre secondo un responsabile impegno di esemplarità e un tenace criterio di unità.

La messinscena per una nuova continuità drammaturgica.

Si sa bene che a Verdi la frase più «wagneriana» era sfuggita quando di Wagner egli non aveva ancora Ì1 più lontano sentore: «In quanto alla distribuzione dei pezzi vi dirò che per me quando mi si presenta della poesia da potersi mettere in musica, ogni forma, ogni distribuzione è buona, anzi più queste sono buone e bizzarre io ne sono più contento. Se nelle opere non vi fossero né Cavatine, né Duetti, né Terzetti, né Cori, né Finali etc. etc., e che l’opera intera non fosse (sarei per dire) un solo pezzo, troverei più ragionevole e giusto». La data: Busseto, 4 aprile 1851. Verdi confidava queste intuizioni avveniristiche al Cammarano nella corrispondenza per II trovatore: per un’opera, per l’appunto, che segnava piuttosto una riconversione al più acceso cabalettismo. Nella diversità profondissima dei venti anni trascorsi, una riconver­ sione in qualche modo analoga è ravvisabile in Aida rispetto alle opere che la precedevano: e non senza i segni di una conflittualità, in Verdi: con se stesso e con il librettista, per quella sua rècidiva tendenza a in­ durlo, appunto, in tentazioni cabalettistiche1. Ora, nella sua autenticità di compositore, Verdi non avrebbe dram­ matizzato tale conflittualità, sicuro di poter assumere e rendere plausi­ bili anche i vecchi schemi formali. 1 Dalla corrispondenza col Ghislanzoni: Sant’Agata 17 agosto 1870, a proposito del duetto Aida-Amneris: «So bene ch’ella mi dirà: E il verso, la rima, la strofa? Non so che dire; ma io quando l’azione lo domanda, abbandonerei subito ritmo, rima, strofa; farei dei versi sciolti per poter dire chiaro e netto tutto quello che l’azione esige. Pur troppo per il teatro è necessario qualche volta che poeti e compositori abbiano il talento di non fare né poesia, né musica. Il duetto finisce con una delle solite cabalette, ed anche troppo lunga per la situazione». E pochi giorni dopo (22 agosto): «Non dubiti, io non aborro dalle cabalette, ma voglio che vi sia il soggetto ed il pretesto. Nel duet­ to del Ballo in maschera, c’era un pretesto magnifico. Dopo tutta quella scena bisognava, sto per dire, che l’amore scoppiasse...» Da Sant’Agata, il 20 settembre: «Vedo ch’ella ha paura di due cose: di alcuni dirò cosi, ardimenti scenici, e di non far cabalette! Io sono sempre d’opinione che le cabalette bisogna farle quando la situazione lo domanda. Quelle dei due duetti non sono doman­ date dalla situazione, e quella specialmente tra padre e figlia non parmi a suo posto. Aida, in quello stato di spavento e di abbattimento morale non può né deve cantare una cabaletta». Dalla lettera fiume, da Sant’Agata, iniziata in data 16 ottobre 1870 e protratta per circa dieci giorni; a proposito del duetto Radames-Amneris: «Ah! queste maledette cabalette che hanno sem­ pre la stessa forma e che si assomigliano tutte! Veda un po’ se vi è mezzo di trovare qualche cosa di piu nuovo...» (ibid., pp. 384-85, 388 e 401). E a Giulio Ricordi, un biglietto degli stessi giorni: «Povero Ghislanzoni! Io lo tormento molto, ma non posso farne a meno. Se si trattasse di far della musica per Salons non vi sarebbe compositore piu facile di me d’accontentare; ma la scena è un affare così curioso!!» (ibid., pp. 401-2).

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D’altra parte, la sua forma mentis continua a confermarsi nettamente strofica, nel momento stesso in cui si apre a quel senso della «parola sce­ nica», che viene definendosi proprio nell’epistolario con il Ghislanzoni, e che riguarda sia le libere parti dialoganti e declamatorie come l’accen­ tuazione delle più tornite melodie strofiche ’. Estrinseco alla natura del musicista, l’assillo della «continuità» mu­ sicale, come garanzia e pegno di unità, è un portato inquietante dei tempi nuovi, laddove il genio eminentemente sintetico di Verdi avrebbe teso a raggiungere - ha sempre raggiunto e raggiungerà - unità granitica in altri modi: per accostamenti, giustapposizioni (nel caso, sovrapposi­ zioni) di elementi distinti, ma dotati di un’intrinseca forza di coesione, di una reciproca calamitazione drammatica. E attraverso la funzione uni­ ficante della «tinta». Ora, la tinta, in Aida, è luce: sole (il sole medi terraneo della lettera al Morelli), o anche luna; sempre luce dilagante, senza nubi e senza vel. In buona misura estrinseco al fatto compositivo, dunque, l’assillo della continuità, nel Verdi di Aida, trova rispondenza piuttosto al livello dell’ideazione scenica e quindi della realizzazione spettacolare. Scorriamo il nostro opuscolo, col continuo riscontro delle didascalie del libretto e delle varie indicazioni nello spartito. «Alla penultima battuta del preludio s’alza la tela. Ramfis e Radames sono in scena, molto sul davanti, discorrendo, in modo che all’attacco del recitativo "Si corre voce che l’Etiope ardisca” questo figuri come la continuazione del discorso stesso»: un attacco ex abrupto e discorsivo, una novità (e sorprendente in un’opera eroica), mutuata — diremmo dal teatro drammatico borghese, per un effetto di «continuazione», ap­ punto: di continuità. Subito dopo «Celeste Aida», Amneris non può che entrare in scena «frettolosa»: prima di attaccare ha appena una battuta d’orchestra, che oltretutto deve coprire con «un gesto di soddisfazione» nello scorgere Radames1 2. 1 In correlazione con le citazioni di cui alla nota precedente, spesso dalle medesime lettere, si sottolineano le seguenti specifiche affermazioni verdiane (per altro, ben note): «Farmi altresì che la parola scenica non vi sia, o se v’è, è sepolta sotto la rima o sotto il verso, e quindi non salta fuori netta ed evidente come dovrebbe». «Non so s’io mi spiego dicendo parola scenica; ma io intendo dire la parola che scolpisce e rende netta ed evidente la situazione». «I versi non sono scenici, vale a dire non danno campo ad azione per l’attore; l’attenzione del pubblico non è attirata e la situa­ zione si perde». «Aida non è bene in scena (con questa frase non intendo parlare della collocazione materiale degli attori) e forse non dice quello che dovrebbe dire in questo momento». «È il Re che non è bene in scena» (ibid., pp. 382, 383, 394, 428, 429), 2 L’excursus della Disposizione scenica per l'opera «Aida» compilata e regolata secondo la mes­ sa in scena del Teatro alla Scala da Giulio Ricordi induce a continui confronti con le attuali messin­ scene dell’opera verdiana. Al di là delle indicazioni di fondo, relative a tendenze generali dei recenti (o meno recenti) allestimenti, jsi limiterà la nostra verifica a quella che ci è parsa la piu interessante - diremmo senz’altro la più bella - fra le realizzazioni spettacolari cui si abbia avuto modo di assi-

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Finito il «Terzettino» Radames-Amneris-Aida, «attaccano immedia­ tamente le trombe». «Appena attaccano le trombe, dalla porta di fondo entrano i Sacerdoti». «Immediatamente dopo entrano da destra in fon­ do dodici guardie», seguite dal Re, da Ramfis, dall’Uffiziale e dal resto del coro maschile. La successione delle entrate è incalzante. «Tutti gli artisti, e cori de­ vono essere ben disposti fra le quinte, i Sacerdoti dietro il telone, in modo da poter entrare in scena presto e in bell’ordine, le battute della musica durando poco tempo». Sono sedici, queste battute, e in «Allegro sostenuto». La metà e in andamento «piu mosso» devono bastare per l’uscita ge­ nerale dopo il Concertato: finito il quale, infatti, «il Coro si divide im­ mediatamente in mezzo, ed il Re, presa per la mano Amneris, monta la scena ed entra nelle quinte di destra, seguito dal Messaggero, dall’Uffiziale, da tutto il Coro e dalle Guardie: Ramfis fa segno a Radames di seguirlo, ed alla testa dei Sacerdoti esce dalla porta di fondo in modo che la scena resti vuota al finire delle poche battute strumentali con cui si chiude il pezzo». Si pensa per contrasto alle ampie entrate (non che uscite, sia pure con la debita contrazione, sempre) di comparse e cori in schiera «in una Nor­ ma o in un Belisario», su cui Wagner amò ironizzare; si pensa alle nume­ rose battute d’orchestra, agli ingegnosi moduli iterativi usati allo scopo. In Aida l’effetto descritto per la conclusione del primo quadro — quel­ lo spaccarsi in due della massa corale con il dietro-front dei solisti - è un preciso partito spettacolare. Giocato interamente sulla rapidità e l’or­ dine, esso si rinnova — simile — ’alla chiusa del secondo quadro e poi - as­ solutamente identico - a conclusione della scena del trionfo. Per il passaggio dal primo al secondo quadro, nel primo atto, si leg­ ge: «Un ritardo nel cambiamento di scena guasterebbe tutto l’effetto musicale». Dovendo escludere un mutamento a vista, perché la scena del primo quadro non può essere «corta» (ha bisogno della agibilità di tutto il pal­ coscenico, come pure quella del secondo quadro), quel che si chiede è che stere come assidui frequentatori di teatri d’opera italiani: la realizzazione firmata da Franco Zeffi­ relli, per la regia, e da Lila De Nobili per le scene e i costumi, al Teatro alla Scala nel 1963 (diri­ geva Gianandrea Gavazzeni e ne erano interpreti Leontyne Price, Fiorenza Cossotto, Carlo Bergonzi, Aldo Protti e Nicolai Ghiaurov). Mentre per questo spettacolo si avrà ragione di rilevare il fascino e la coerenza di un’imposta­ zione evocativa di antiche messinscene pittoriche ottocentesche, proprio per lontrata di Amneris ci si imbatteva in un «errore», che non esiteremmo a dare per obiettivo, se solo si potessero (e si po­ trebbero, juxta musicavi) dare per normativi certi «obblighi» anche spettacolari. Zeffirelli volle dare ad Amneris un’entrata trionfalistica, assolutamente non prevista da Verdi, per cui - mancandogli musica - dovette manomettere il finale di «Celeste Aida» con l’armeggìo, nel fondo della scena, dei reggitori della portantina.

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il sipario (verisimilmente quello supplementare, il «comodino», non il sipario aulico) si chiuda e si apra (ovvero si abbassi e si alzi) nel minimo tempo possibile: il tempo per gli applausi dopo la scena di Aida «Ritor­ na vincitori » E già gli applausi disturberebbero - se mai gli applausi di­ sturbano - «l’effetto musicale» in sé. Consideriamolo: esso consiste in una continuità armonica assoluta (la modulazione da La bemolle a Mi bemolle), e in una continuità di rap­ porti fonici, di piani sonori, raccordati secondo una caratteristica intui­ zione verdiana di una teatralità (di una spazialità) squisita. Aida, infatti, conclude la propria invocazione-leitmotiv («Numi pietà») dietro le quin­ te, con un Do centrale filato. Di dietro le quinte attacca su un morbido Mi bemolle l’invocazione della Sacerdotessa («Possente Fthà»). Tra l’una e l’altra nota, magicamente, la scena avrebbe dovuto cam­ biarsi davanti agli occhi degli spettatori: dalla lucentezza della sala, ri­ masta vuota, alla penombra del Tempio, popolato di sacerdoti e di sacer­ dotesse, ma bloccati nella più assoluta immobilità di tableau vivant. «Una luce misteriosa scende dall’alto»; «dai tripodi d’oro s’alza il fumo degli incensi»; ed è l’unico movimento. Far concludere proprio la grande scena della protagonista con un can­ to che «si perde» e «muore» dietro le quinte è anche questa una novità, sempre dettata dall’esigenza di una «continuità». È un nuovo gusto di «dissolvenza»: ed è un effetto che, ripetendosi, vuol essere tratto carat­ teristico del personaggio, leitmotiv anche scenico. E si ripeterà in piena simmetria, nel secondo atto, al passaggio - ancora - dal primo al secondo quadro, dall’appartamento di Amneris a «uno degli ingressi della città di Tebe»: l’itinerario della principessa; la quale, appunto, seguita dalla schiava, esce per partecipare alla pompa trionfale di cui or ora sono risuo­ nati, lontani, gli appelli delle trombe e dei cori. Quella lontananza si fa primo pianole anche questa volta rapida­ mente. «Cambia scena subito»; ma ora si tratta di una scena corta cui segue una scena lunga, interamente predisposta dietro di quella. Dopo che i primi due atti erano divisi ciascuno in due quadri, il terzo atto è tutto «atto del Nilo». Ma il quarto torna a riproporre una bipartizione. Ancora una scena corta - la sala, teatro della disperazione di Amneris - cede alla grande scena finale «divisa in due parti». In essa il Tempio di Vulcano ricom­ pare, ma sopràelevato sul corrispettivo sotterraneo, sempre esigendo secondo le indicazioni di Verdi - la piena agibilità per la presenza in sce­ na del coro dei Sacerdoti e per le danze delle Sacerdotesse che si rin­ novano. È chiaro: per il finale dell’opera Verdi punta sulla piena spettacela-

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rità, non avendo potuto collaudare la capacità di tenuta della sola pre­ senza visibile di Amneris sul piano sopraelevato del tempio (vertice del triangolo, imminente sulla coppia moribonda nel sotterraneo-tomba). Di questa capacità tende invece a far tesoro la messinscena moderna di Aida; la quale per altro recupera - ignara — la prescrizione verdiana cir­ ca l’illuminazione delle due zone sceniche dettata da una fine e nuova ricerca di contrasto. Ancora una volta, «il cambiamento deve aver luogo subito». Quest’ultimo cambiamento è l’unico, in tutta VAida, che abbia note­ voli implicazioni scenotecniche. E di fatti l’opuscolo ricordiano ne dà la sezione in profondità e lo schema frontale. La divisione in due piani comporta l’ingombro di una «costruzione» nel gioco corrente delle tele dipinte: quinte, principali, fondali, nella cui bidimensionalità si era tranquillamente disposta tutta la monumentale volumetria archi tettonica egizia per le altre scene. Per esse, dunque, la prescrizione categorica - così insistita - di muta­ zioni rapidissime, non era assolutamente platonica; era nell’ordine di una scenotecnica comune; la quale, anzi, risulta semplificata — secondo la stessa Disposizione ricordiana e la diretta documentazione iconogra­ fica di quelle prime realizzazioni - in una costante centralità, in una pie­ na simmetria frontale. L’eccezionaiità dell’impegno spettacolare di Aida, al livello sceno­ grafico, precipitava tutta nel momento dell’«invenzione» dei grandi qua­ dri. Comunque, la vera macroscopica mobilitazione era d’ordine registi­ co; meglio: nell’ordine «militaresco» del direttore di scena, al livello di regolazione e ordinamento di grandi masse di cori e figuranti (clou, natu­ ralmente, la marcia trionfale). È stata la concezione scenografica novecentesca (volumetrica, tridi­ mensionale, «modernistica»; post-Appia e comunque in reazione vio­ lenta rispetto alla vecchia tradizione scenografica pittorica), che ha com­ plicato indefinitamente il destino spettacolare di Aida; che ha finito per fare di quest’opera lo spettacolo da Arene, per antonomasia: per teatri, appunto, che, per essere en plain air, mancano proprio della precipua disponibilità scenotecnica della tradizione: mancano della «soffitta». Questa complicazione tridimensionale, volumetrica, «costruita», in ultima analisi, rischia di essere un tradimento, nella misura in cui com­ porti delusione sistematica della fluida continuità dei mutamenti di sce­ na, che la musica esplicitamente richiede.

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La musica e una nuova concezione drammaturgica. Questa continua fluidità di quadri, proprio per il finale di Aida ha una singolare funzione di raccordo narrativo: essa si ribadisce, infatti, in una precisa contiguità spaziale. La sala del primo quadro - vogliami dire - è immaginata accanto al Tempio: dalla grande porta aperta, nel fondo, la scala per dove scendono e risalgono i Sacerdoti, da cui scende e non risale Radames, sulla quale si piega convulsa Amneris, è la scala che fra poco verrà chiusa dalla «fatale pietra». Abbandonato sui suoi gradini, Radames apparirà, subito all’inizio del quadro successivo; e su di essi spirerà Aida ’. Il gusto della dissolvenza ha ceduto dunque a uno scorrimento di piani scenici - connesso secondo un’organica, oggettiva concezione pia­ nimetrica - di cui pure il linguaggio cinematografico si impossesserà. Né si tratta di miracolismi profetici da parte di Verdi, ma di una naturale evoluzione del concetto di continuità visuale. Regia di masse.

Clou della mobilitazione spettacolare di Aida, in quanto impegno re­ gistico di articolazione di grandi masse, è la marcia trionfale. Ma la regia di Aida, anche restando in questa dimensione estroversa, ha molti altri punti salienti. Il fatto, però, è che essa non è affatto chiamata a vivere esclusivamente in questa dimensione, al contrario di quanto vorrebbe la prassi corrente, per cui quest’opera, con poche eccezioni, è divenuta campo di registi «pratici» e, per cosi dire, militareschi. La regia di Aida, sempre juxta Verdi, si appunta anche, e spesso, in una messa a fuoco di sottili dettagli espressivi, nella ricerca di una reci­ tazione attenta e tesa da parte degli interpreti per la rappresentazione di personaggi alquanto problematici. In vero, questa bifocalità, che è propria di tutta la drammaturgia ver1 L’Aida scaligera 1963, realizzata da Zeffirelli e da Lila De Nobili, nascendo da un prezioso gusto «antiquario» e affidandosi pertanto al sistema delle scene dipinte di tradizione ottocentesca (dipinta sul fondale del «Trionfo» perfino la folla accalcata, in lontananze polverose e dorate) fece giustizia dei ripetuti «tradimenti» delle messinscene volumetriche, ritrovò una suggestiva fedeltà alle intenzioni originarie, pur puntando su una dimensione squisitamente decorativa (e qui, semmai, il limite). Del tutto indipendentemente dalla conoscenza della Disposizione scenica ricordiana, quel­ lo spettacolo, per la forza intrinseca dell’antico sistema scenotecnico, rispondeva alle istanze musi­ cali piu forti nella dirézione della continuità, della fluidità di mutazioni che veniamo verificando. In particolare, per la scena finale «divisa in due parti», fu allora escogitata una soluzione tanto con­ grua quanto scenotecnicamente aggiornata: la contiguità spaziale presupposta in quel cambiamento di scena si obbiettivava con il sollevamento a vista del palcoscenico, e con la conseguente rivela­ zione del sotterraneo: visibile anche l’operazione di chiusura della «fatale pietra».

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diana, giunge in Aida — come in poche altre opere prima, e in nessuna dopo - a un’oscillazione amplissima fra grandiosità e intimità, fra campi lunghi e primi piani. Quanto alla marcia trionfale, essa è il culmine di tutto un quadro che vive nella successione di «entrate», secondo un principio spettacolare antichissimo: quello — appunto - della parata, a sezioni differenziate. Verdi, a questo principio spettacolare aderisce naturalmente, per quella sua tecnica per accostamenti reciprocamente coesivi, perseguenti l’unità attraverso la varietà. Sant’Agata, 8 settembre 1870; al Ghislanzoni: «Dopo la sua parten­ za... non ho fatto che la marcia la quale è molto lunga e dettagliata. L’in­ gresso del Re alla Corte, Amneris, sacerdoti; il canto del Popolo, delle donne; un canto ancora di sacerdoti (da aggiungere); l’entrata delle trup­ pe con tutti gli arnesi di guerra, danzatrici che'portano vasi sacri, cose preziose etc.; Almèe che danzano; finalmente Radames con tutto il bataclan, non formano che un pezzo solo, la marcia». Da questa lettera alla lettera al Du Lode per la realizzazione al Cairo \ fino alla Disposizione scenica, le indicazioni per la marcia ribadiscono questo principio di unità «dettagliata»: nell’opuscolo ricordiano con esauriente ricchezza si pre­ cisano le notazioni pratiche, corredate di ideogrammi e vignette, e se­ condo costanti riferimenti alla musica, alla partitura, là dove germina il principio di unità, quella coincidenza musicale-spettacolare, fonica-visuale, che proprio per la Marcia si esalta nella duplice entrata dei trom­ bettieri - il primo gruppo con trombe lunghe, il secondo con trombe corte, tutte appositamente costruite — nel segno di una erudita evoca­ zione caratteristica. Ma nel quadro alla porta di Menfi, l’andamento di parata non esclu­ de, nel suo costante spessore corale, un colpo di scena. È uno schema drammaturgico meyerbeeriano, già collaudato da Verdi nel grande qua­ dro dell’autodafé del Don Carlos’, là, il colpo di scena era affidato ai De­ putati fiamminghi con Don Carlos; qui ai Prigionieri etiopi, con Amo­ nasro. «Egli! Mio padre!» esclama Aida; «Suo padre!» fa eco il Coro. 1 Da Torino, il 12 agosto 1871: «La Marcia è lunga molto. Durerà circa 8 minuti!!! Ma, non vi spaventate, è frammista da un piccolo ballabile, e perciò riesce lunga. Eccovi la descrizione. 1) Fanfara in scena con coro di popolo; Canto di Donne; Canto di Sacerdoti; Entrata del Re che va a mettersi sul trono, Amneris, Aida, seguito, etc. 2) Entrata di truppe egiziane con alla testa dei Trombettieri pei quali ho fatto fare espressamente a Milano delle trombe lunghe, diritte, di forma antica egiziana. 3) Altra sfilata di truppe con altri trombettieri idem, ma un po’ piu corte perché hanno divèrsa modulazione musicale. 4) Ripresa della Fanfara con Coro e Coda, ed entra Radames in trionfo etc. etc. etc. Dopo breve Recitativo vi sono alcune poche battute di Marcia per l’entrata dei Prigionieri. Ciò nulla ha a che fare colla lunga Marcia di prima» (abbiati, Giuseppe Verdi cit., pp. 476-77).

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È a questo punto — circostanziato con cura dall’opuscolo della Disposi­ zione scenica - che la dinamica della parata (un iter dal fondo-centro in avanti, con rapida conversione in corrispondenza del trono: un iter che per altro aveva già ceduto, nell’abilissimo incastro delle danze a un’evo­ luzione vorticosa di figurazioni per tutta l’ampiezza del palcoscenico) slitta nella parata del Concertato finale, parallela alla ribalta: solisti in primo piano, alle loro spalle il coro variamente distinto, nel fondo i dan­ zatori e i figuranti. La Disposizione scenica per i solisti e per il coro pre­ vede una varia palpitazione dinamica pur contenuta entro la fascia della ribalta. «Assai artisticamente», in particolare deve essere composto «il gruppo dei Prigionieri etiopi». Nella convenzione sovrana del gran fina­ le, in cui l’irto contrappunto del baritono e della relativa sezione del coro costituisce un magnifico partito musicale (come sempre in Verdi, i con­ giurati), l’arte scenica è chiamata a coprire l’implausibilità di un Amonasro, che, coram populo - eppure «non visto» - non desiste dall’ordire trame oscure. Arte scenica per i cori significa vivacità e naturalezza di reazioni indi­ viduali: polarità antitetica agli ordinati schemi rituali e marziali che pu­ re in Aida hanno grande parte. L’insistenza con cui si ricorre all’indica-’ zione «raggruppamenti artistici» ipotizza alti modelli pittorici, il mo­ dello sublime essendo — come armonica ipostatizzazione mimica di una reazione collettiva — il raggrupparsi variato dei Dodici nel Cenacolo leo­ nardesco. «Persuadere i Cori, specialmente uomini, che non devono raffigurare una massa insignificante di persone, ma che bensì ciascuno rappresenta un personaggio e come tale deve agire, muoversi per conto proprio, se­ condo i propri sentimenti, mantenendo soltanto cogli altri una certa uni­ tà di azione, atta a meglio assicurare l’esecuzione musicale». Questo pre­ cetto fondamentale figura nella Disposizione scenica, di bel principio, sotto l’elenco dei Personaggi e le loro sintetiche definizioni psicologiche. È uno dei punti di pragmatica tangenza con Richard Wagner, con i suoi opuscoli registici per 11 Vascello fantasma e per il Tannhauser. E inoltre: «Dans Lohengrin les choeurs ne sont pas comme dans la plupart des autres opéras posés là pour chanter des choses plus ou moins nettes, ils agissent tout comme les personnes principales de la pièce». Così Cosima Liszt, oracolo del Maestro, aveva scritto al Mariani, poco prima di Aida, in vista della esecuzione del Lohengrin a Bologna \ 1 La lettera (da Tribschen, datata 23 ottobre 1871) dà ulteriori precisazioni al proposito: « Ainsi au second acte un grand mouvement scénique des choeurs est indispensable», per ribadire alla fine: «Ainsi le drame avant tout comme conducteur et comme indicateur, il vous indiquera la précision musicale. Surtout pas de choeurs immobile;> mais une foule prenant part à l’action» (ibid., p. 474).

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È vero: Wagner era andato oltre; egli aveva contenuto l’istanza di verità drammatica estesa alle masse sceniche in una stilizzazione congrua con l’astrattezza del linguaggio melodrammatico, vietando ai coristi e ai figuranti di far finta di conversare fra loro, in quanto «in ogni circostanza questa imitazione del parlare deve essere rigorosamente bandita in un dramma musicale» \

I tre ballabili. Il Don Carlos come precedente di Aida nella ideazione scenica è evo­ cato da Verdi stesso: per l’inizio del secondo atto, per il quadro del bou­ doir d’Amneris. «So bene che non vi è azione, ma con un po’ A’adresse si può sempre riuscire a qualche cosa. Non vi è azione alcuna nel Don Carlos quando le dame aspettano la regina, stando sotto gli alberi fuori del convento; nonostante, con quel piccolo coro e quella canzone che ha tanto carattere e colore nella poesia francese, si è riuscito a fare una vera piccola scena. Qui pure bisogna fare una scena con un coro ben lirico, colle ancelle che abbigliano Amneris, e con una danza di moretti etiopi». Colore e carattere, quindi, bastano a colmare l’assenza di azione; e il co­ lore va inteso anche nel senso più strettamente strumentale: le arpe che accompagnano il coro «ben lirico» («Siamo in Egitto e le arpe lavorano molto»), «esotico» e «archeologico» anche nel rapporto antifonico con la frase iterata di Amneris. «Subito ed a tempo» attaccherà la danza «dei piccoli schiavi mori (ballerine)», la quale «deve essere vivacissima ed alquanto grottesca, senza molte complicazioni di passi, che sarebbero ineseguibili, stante la velocità del tempo della musica»: tutte concessioni che legittimano il ricorso, da tempo in uso per questa celebre piccola danza, a schiere di minuscole allieve dei primi corsi di ballo; in virtù delle quali il «grotte­ sco» si vena di tenerezze domestiche e copre maternamente le inevitabili sprecisioni (in fondo, previste anch’esse). La danza dei moretti è uno dei tre «ballabili» di Aida, fra la danza sacra delle sacerdotesse nel Tempio e la danza che si inserisce nella Mar­ cia trionfale. Suprema efflorescenza decorativa del «carattere», cioè di un peregrino archeologismo esotico, che proprio i «ballabili» di Aida appaiano oggi nella direzione di Manzotti e del Ballo Excelsior è nell’or­ dine naturale, cioè storico, al livello musicale e a quello spettacolare: al livello musicale, per la naturalezza delle imitazioni conseguenti ad ogni 1 Per questo, come per gli altri riferimenti wagneriani, cfr. L. Alberti, Lo spettacolo wagne­ riano e le sue vicende, in «La Rassegna Musicale», 1961.

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grande successo, come partecipazione all’intima compromissione al gu­ sto corrente che, da parte sua, ogni grande successo, ogni esplosione di popolarità presuppone: al livello spettacolare con una immediatezza an­ che maggiore. Per la danza sacra la Disposizione scenica prevede un superamento della corrente («moderna») danza accademica: «Il coreografo deve com­ porre una danza tranquilla, religiosa, nella quale, ai soliti passi moderni, siano sostituite movenze semplici, atteggiamenti contemplativi, genu­ flessioni, ecc., ecc., cercando imitare quelle danze antichissime, di cui gli orientali conservano ancora qualche tradizione». Che poi, da questa semplicità arcaica e contemplativa, sia potuta sca­ turire per la musica un’utilizzazione natalizia, da presepi campagnoli (di tradizione ottocentesca, quindi immediata)1 è ancora nel destino del­ l’autenticità popolare verdiana, ad onta dell’originale paludamento so­ lenne. Esso prescriveva, in particolare, «gruppi piramidali» per la disposi­ zione delle ballerine ad apertura di sipario, ai piedi dei quattro tripodi d’oro. Ciascuna ballerina tiene in mano «larghi ventagli di penne bian­ che», i quali si comporranno alla fine in un «ventaglio solo ed immenso», al centro della scena, davanti all’altare, con un trionfalistico effètto a sor­ presa allorché - al solito - il coro dei sacerdoti si sarà aperto in due con mossa rapida e simmetricissima. Il Ballo Excelsior è in atto. Il ventaglio - il flabello - oggetto-emblema di attendibilità antiqua­ ria, in sé, ma già assimilato nella comune iconografia di pompe vaticanesche, e compromesso in una ferialità anche più comune, salottiera, è ora elevato a «idea» compositiva, attraverso un processo di moltiplica­ zione che è proprio del palcoscenico, secondo una disponibilità decora­ tiva felicemente degradante sino alle soglie dell’avanspettacolo. Proprio nella dimensione del ballo, la speculazione commerciale di Aida si sviluppa già sulla attesa di Aida\ dall’epistolario si sa come Verdi protesti con l’impresa della Scala che intendeva mettere in scena un bal­ lo egizio (La figlia dei Faraoni) nella stessa stagione della «prima di Aida»1 2. 1 Con l’indicazione «pastorella» si è avuto modo di sentire comunemente indicato il motivo della danza delle sacerdotesse, nella campagna marchigiana, con riferimento a lontane esecuzioni all’organo (o all’armonium) in occasione dell’esposizione del «Bambinello», in chiesa, sull’altar mag­ giore, durante la notte di Natale. 2 A Tito e Giulio Ricordi, da Genova, il 25 luglio 1871: «Vedo sui giornali, e Giulio me lo confermò che si preparava per la Scala un Ballo egiziano. È questo un gravissimo errore tutto a dan­ no dell’impresa, e dello spettacolo che verrà secondo [...] un errore [...] dei più grossi che si possano commettere in teatro». E da Busseto, il 13 novembre: «Vedo che si parla ancora della Figlia de' Fa-

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D’altra parte, l’Egitto aveva antica cittadinanza sui palcoscenici. An­ che a lasciare da parte le fantasie massoniche mozartiane (del resto pros­ sime alle documentate evocazioni egizie di un «Maurino» Tesi, l’amico dell’Algarotti), un forte incremento alle egizianerie da palcoscenico — e da arredamento - era venuto dalle imprese napoleoniche e dalle rileva­ zioni dello Championnet. «Aida» sono già ai nostri occhi certe scene faraoniche-neoclassiche di un Sanquirico \ Ma Verdi vedeva giusto: con Aida l’Egitto, nel teatro musicale, era sua invenzione e pertanto, da allora in poi, sua esclusiva.

Filtri attualistici: moda e ideologia. Altri segni di difesa contro il rischio di una compromissione con il gusto corrente è dato rilevare nell’epistolario verdiano, soprattutto al­ lorché il maestro registra le proprie impressioni per quel delicatissimo parametro spettacolare costituito dai costumi: dal Mariette al Magnani. Talvolta, l’entusiasmo per l’attendibilità erudita e - insieme - per l’invenzione caratteristica («Vi mando un altro convoglio di Egiziani! Oh i bei figurini! Bellissime le Ballerine! e bellissimo il Gran Prete! Le ballerine troveranno lunghe le sottane, ma tenete fermo!2. Anche il sol­ dato di Amonasro ha molto carattere! infine a me pajono bellissimi!») non esclude adeguamenti alle convenienze correnti. «La Stolz desidera vedere il suo costume per dare ordinazione a Pa­ rigi sulla acconciatura della testa» (e sarà una bijoutérie che richiederà una sollecitazione in extremis, presso il gioielliere Granger, da parte di Verdi stesso, attraverso il Du Lode). Verdi, dunque, accusa in qualche modo la presenza di quel filtro che, trasparente agli occhi dei contemporanei, stenderà invece agli occhi dei raoni!!! Ciò non può essere; badate bene non si facciano pasticci» (ibid., rispettivamente p. 462 e p. 504). 1 L’esempio piu qualificato è dato, in questo senso, dalle scene per il Melodramma serio Emira Regina d'Egitto di G. Mosca, rappresentato alla Scala nel Carnevale 1821: dalla «Raccolta di varie decorazioni sceniche inventate ed eseguite per 1*1. R. Teatro alla Scala da Alessandro Sanquirico» (Milano, Museo Teatrale alla Scala, e Biblioteca dell’Accademia di Brera). 2 Questo «tenete fermo» risponde perfettamente all’ultima raccomandazione al direttore di sce­ na che chiude la Disposizione scenica: cfr. sopra, p. 127, nota. D’altra parte, proprio a proposito delle sacerdotesse in Aida, sono interessanti certi tratti della iniziale corrispondenza tra Verdi e il Du Locle; da Busseto, il luglio 1870: «Ditemi anche, v’erano sacerdotesse d’Iside e d’altre divi­ nità? Nei libri che ho scartabellati trovo anzi che questo servizio era riservato agli uomini. Datemi queste nozioni e pensate seriamente ai costumi. Oh in questo bisogna far bene e farli veri, che servi­ ranno anche per l’Europa». Rispondendo, il Du Locle precisa: « Cette dance s’exécutait en robes longues [ecco: 'Te ballerine troveranno lunghe le sottane, ma tenete fermo!”] et sur un rhythme lent et solennel». Seguono altre indicazioni sul canto e sugli strumenti d’accompagnamento (abbiati, Giuseppe Verdi cit., pp. 376-77)-

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posteri su quelle immagini sopravvissute il colore dominante del tempo: il filtro della moda. A un certo punto con apprensione: «Ho ricevuto gli altri figurini che vi rimando subito... Ah brutti assai quei nudi! Andiamo alla Duchesse de Gérolstein, alla Belle Hélène etc. etc.». Ma in un’altra lettera si dà subito la correzione: i moretti siano com­ pletamente neri «ed allora passerà anche tutta quella esposizione di nudi». Che poi, invece, alla sensibilità dei posteri quegli stessi brividi di ap­ prensione possano diventare inebrianti chiavi interpretative rientra nel­ l’ordine della storia spettacolare: rientra in pieno - soprattutto - nel gusto storicizzante di tanta messinscena melodrammatica italiana — da Luchino Visconti in poi - tesa alla suggestione del documento «antiqua­ rio». Dove l’antiquariato non è già l’egittologia del Mariette, ma la bijou­ terie di Granger per la Stolz. Pensiamo con un riferimento piu che puntuale, pungente, ai moretti quali ci furono offerti nell’edizione scaligera di Aida (1964) curata da Franco Zeffirelli regista e da Lila de Nobili, scenografa e costumista. Si trattò - meglio - di «Morette», e per la verità neppure svestite: co­ munque, offenbachiane in pieno, bell’époque, can-can. Fu il sobbalzo di una spettacolosa agnizione. Dunque, il sospetto è ormai certezza: il sospetto corrucciato della Belle Hélène in Verdi - intendiamo dire - e la certezza dei nostri metteurs en scène. Ma ancora oltre: che il procedere di questo gusto «antiquario» della messinscena melodrammatica italiana, oltre il filtro della moda, verso una sorta di spaccati documentari, di radiografie storico-sociologiche — si pensa a Luca Ronconi1 - possa trarre alimento dalle stesse fonti che veniamo indagando per Aida, è ipotesi teoricamente non arbitraria, an­ che se, in coscienza, non sapremmo dire quanto augurabile per la for­ tuna prossima futura di Aida. Il fatto è che in questa direzione si pos­ sono verificare, non senza trasalimenti, penetranti interferenze attualistiche nel vivo della composizione dell’opera. In questa direzione, appunto, procederà il nostro discorso, fino alla sua conclusione, sviluppando un sondaggio che, al di là (al di sotto) della 1 Le esperienze melodrammatiche di Luca Ronconi, regista, in sodalizio con Pier Luigi Pizzi scenografo e costumista, che hanno puntato sulla visualizzazione scenica di riferimenti, allusioni, simboli di natura socio-politica, sono state le realizzazioni presso il Teatro alla Scala della Walkiria e di Sigfrido - rispettivamente nelle stagioni 1973-74 e 1974-75 - e, con una congruenza maggiore, quella del Faust di Gounod al Teatro Comunale di Bologna nella stagione 1974-75. Quanto alla loro messinscena dell’Or/eo di Gluck al «Maggio musicale fiorentino» 1976, direm­ mo che essa, nella sua cimiteriale dimensione fantastica, trascendeva la radiografia sociologica. Non si è assistito all’anteriore realizzazione berlinese deìì’Oberon di Weber.

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consapevolezza programmatica verdiana — colta, archeologica, si è visto - vuole attingere al limite inconscio di profonde risonanze personali. Nella citata lettera a Giulio Ricordi, si nota come un elemento di tro­ varobato fermi l’attenzione di Verdi: il flabello, per l’appunto, la cui for­ ma egli renderebbe «piu teatrale, accostandosi a quelli che portano a Roma nelle funzioni papali». Un pezzo d’attrezzeria può diventare un passepartout per penetrare al fondo di una problematica e di una deli­ cata sensiblerie scenica. I Sacerdoti per Verdi sono preti. «I preti non sono abbastanza pre­ ti»: è un appunto al Ghislanzoni durante la travagliata stesura della sce­ na della Consacrazione. Nella identificazione attualistica, due ordini di conseguenze: uno strettamente musicale e uno — diremmo — empiricamente ideologico, se­ condo un rapporto di amore-odio. Vale a dire: appassionato e aggior­ nato culto «ceciliano» per la musica sacra, dal gregoriano a Palestrina, e altrettanto attualistico anticlericalismo. In ogni caso, una tensione privilegiata nelle sollecitazioni inventive. Soprattutto sul tema dei sacerdoti-preti, in effetti, l’epistolario ver­ diano relativo ad Aida mostra, in filigrana, i segni dell’attualità politica, dell’intensità con cui Verdi la vive per riversarla, in qualche misura, nel suo stesso lavoro. Ad esempio: per una strofa da aggiungere al coro dei Sacerdoti al terzo atto, Verdi fa riferimento ai «telegrammi del re Gu­ glielmo» («Abbiamo vinto con l’aiuto della divina provvidenza. Il ne­ mico si è arreso. Iddio ci aiuti- anche per l’avvenire»). E ancora: sulla «questione di Roma» e sulle «furberie dei preti» slitta un discorso in­ cominciato a proposito dei «vestiari e scenarj» per l’opera destinata al Cairo. D’altro lato - diciamo pure agli antipodi — sintomaticamente, pro­ prio la dimensione sacra di Aida, secondo lo stesso epistolario, risulta attrarre più profondamente il compositore, assorbendone il massimo in­ teressamento erudito. E fra tutte le scene dell’opera, quella della «Consacrazione» rispon­ de in pieno a questo interesse, e puramente ad esso, nella sua totale gra­ tuità (eliminabilità) drammaturgica. «Bisogna studiarvi sopra ancora per poter darle maggior carattere e maggior importanza scenica»; con il Ghislanzoni viene ribadita con insi­ stenza l’«importanza di quel tableau». Sulla suggestione del quale Verdi - si è visto bene - gioca, poi, per intero, il finale dell’opera. Varie lettere di Verdi del tempo di Aida, che pure non trattano di Aida, dimostrano una sensibilizzazione straordinaria per i problemi del­

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la mise en scène relativi al proprio teatro \ Una in ispecie ci sembra apri­ re uno spiraglio profondo nel gusto spettacolare del maestro: una let­ tera che parla del Macbeth, l’opera che in misura superiore alle altre, a suo tempo, aveva mobilitato il «regista» Verdi: «Il Macbet |>'c] si pre­ sta poi ad una mise en scene e ad uno spettacolo superiore a tutte le opere che si conoscono». Una frase come questa, nel tempo di Aida — essendo il tempo del con­ fronto diretto con Wagner - fa pensare che Verdi ambisca sostenere quel confronto anche sul terreno «fantastico» proprio dell’avversario, esiben­ do - appunto - il Macbeth, l’unica opera della sua produzione che ap­ partenga decisamente al genere «fantastico», bilanciandosi le altre piut­ tosto tra il «grandioso» e l’«appassionato» (secondo la classica e fonda­ mentale distinzione verdiana). Ora, bilanciata tra «grandioso» e «appassionato», Aida ci sembra che tuttavia tenda anche al «fantastico», proprio nella scena della Con­ sacrazione: nella sua dimensione misteriosofica, nella sua staticità rituale. La compensazione rispetto alla tensione attualistica «anticlericale», la sua mimetizzazione non potrebbero essere maggiori. In questa scena, e per questi caratteri, è anche il più profondo tratto di tangenza fra Aida e il Requiem imminente. Nelle sue singolari ambizioni meta-liturgiche, per la musica di Aida, il limite «Palestrina» — luogo culturale astratto - è consapevolmente osato e tormentosamente eluso: «Coro religioso, Corale alla Palestrina (alla Palestrina di quel tempo s’intende)»: l’indicazione è nella prima traccia di questa scena. Ma più tardi: «Mi sono venuti degli scrupoli sul fare di Palestrina, sull’armonia della musica egizia... Infine è destinato... non sarò mai un savant ». A questo punto Verdi dice di aver sostituito «un coro a 4 voci ben lavorato ad imitazioni uso Palestrina, che avrebbe potuto farmi buscare un bravo dai parrucconi e poteva con questo aspi­ rare [...] ad un posto di contrappuntista in un qualche Liceo qualunque». 1 Due esempi: una cattiva esecuzione del Don Carlos al San Carlo, con conseguente insuccesso, induce Verdi a scrivere a Cesarino De Sanctis (da Firenze, il 22 marzo 1871): «finché voialtri avrete quegli elementi di esecuzione, non dovrete far rappresentare le Opere che richieggono mise en scene caratteristica, ed alta interpretazione musicale del dramma (notate bene interpretazione, non esecu­ zione)». Nella stagione successiva, la ripresa della Forza del destino alla Scala lo preoccupa, in quan­ to, oltretutto, precede la «prima» di Aida. In particolare, la necessità di sostituire un interprete valido lo porta a cercare compensazioni in altre componenti dell’esecuzione (le masse e la messin­ scena); dalla lettera a Giulio Ricordi (Genova, 6 dicembre 1871): «Mi raccomando che il bleu dei vestiti dei frati sia piu scuro. Per rimediare al vuoto che, temo, lascierà Tiberini, bisogna che l’ese­ cuzione delle masse sia ancora migliore di quello che era allora e che la mise en scene sia eguale a quella. Guai se queste due cose mancano. Avrete un mezzo fiasco, bisognerà accelerare gli altri spet­ tacoli [...]. Badate dunque e badate molto molto a queste due cose principalmente esecuzione di masse movimento scenico» (abbiati, Giuseppe Verdi cit., rispettivamente pp. 445 e 516).

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Ma in vero, sembra la descrizione del coro «Nume, custode e vindice». Per esso, nella Disposizione scenica è detto: «Ciascuna frazione di coro, all’attacco della propria parte farà due passi innanzi, alzando le mani e volgendosi alquanto verso la statua di Vulcano». E tutta una pa­ gina contiene l’ideogramma di queste quattro «entrate». Il preconcetto palestriniano, dunque, frutta - tanto è forte e fertile - un inusitato li­ mite registico di astrattezza coreutica. Quanto poi all’altro polo «ceciliano», che è il canto Gregoriano, i riferimenti tanto copiosi nell’epistolario a Requiem, De profundis, Lita­ nie («parmi che le litanie - e scusi per la millesima volta l’ardire - do­ vrebbero essere strofette di un verso lungo e di un quinario [...]. Il qui­ nario sarebbe Yora pro nobis») hanno un riscontro puntuale nella par­ titura. Il loro culmine, fuori della scena della Consacrazione, lo ravviserem­ mo in quella - simmetrica - del Giudizio: nel colore stranamente «bene­ dettino» del coro interno (dal sotterraneo; dal sottopalco) «Spirto del Nume sovra noi discendi», a cappella, cancellate le sbarre fra battuta e battuta. Scenicamente vale un effetto di rarefazione, secondo quel gioco di piani sonori diversi, che — dall’esempio piu alto — diremmo del Miserere. Anche qui la donna, sola, in scena (una frase «disperata» ricorrente) \ un coro religioso interno; una differenza: adesso, il tenore non canta ac­ compagnandosi col liuto, «egli tace». Il segno dei venti anni trascorsi fra II trovatore e Aida, nel rapporto tra queste due scene, è soprattutto — diremmo - nello stile di femminili­ tà tra Leonora ed Amneris, e nel peso di implicazioni ideologiche sottese alla stessa rarefazione «gregoriana» del coro a cappella, interno: non cosi pateticamente innocuo, scenografico, come il «coro dei moribondi» del Trovatore, non senza volto. Il volto di questi Sacerdoti-Preti lo cono­ sciamo bene: ha i connotati di un preciso presente storico. Quanto poi all’aggiornamento della femminilità di Amneris, rispetto alla antica Leonora, il discorso da fare è ampio, spostandosi entro il cer­ chio più interno e segreto dello stile «appassionato», cioè della proble­ matica specifica dei singoli personaggi. Ma prima di staccarci da questa grande scena del Giudizio si osser­ verà che, intanto, il fatto che in essa Amneris rappresenti l’antagonista 1 Al Ghislanzoni nella citata lettera fiume iniziata il 16 ottobre 1870 (da Sant’Agata): «Ometta anche quel "morrò d’amore". Ci vogliono invece due versi più desolati e fatti in modo ch’io possa prenderne qualche frammento per farli ripetere da Amneris tutte le volte che sente un atto d’accusa nel sotterraneo. Amneris non può restare in scena tanto tempo ad ascoltare le terribili sentenze sen­ za esclamare una frase disperata» (ibid., p. 400).

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dei Sacerdoti - la figura che, nell’attrito con quelli sprigiona allo stato puro le invettive del viscerale anticlericalismo verdiano — è un dato del suo privilegiatissimo rilievo. Dell’anticlericalismo di Verdi - intendia­ mo dire — e dell’Italia laica e liberale del suo tempo. Quelle invettive appassionano fervidissimamente, durante la stesura del libretto, il compositore. Tutta sua, poi, è l’idea di far rientrare in scena i Sacerdoti, dopo la sentenza, in modo che lo scontro fra essi ed Amneris sia diretto, fisico *. Per un momento Verdi vuol vedere faccia a faccia la principessa - imma­ gine di umanità palpitante e vulnerata — e Ramfis; «il gran Prete» («au­ tocrata, crudele»: così è indicato nella lista dei Personaggi all’inizio del­ la Disposizione scenica), personificazione del potere sanguinario di tutta la casta, dell’«empia razza».

Aida, Radames, Amonasro e — soprattutto — Amneris. Amneris, fra i personaggi di Aida, è il personaggio: il piu forte, anche se alla fine dei conti un vinto, come tutti gli altri. Vediamo questi altri: Aida, Radames, Amonasro (a parte, i perso­ naggi-emblema: Ramfis e il Re, grandi corifei). Per Aida il ritrattino psicologico che la Disposizione scenica delinea nella lista dei personaggi, è anch’esso un sensibile aggiornamento di un modello antico di femminilità: quella vittimistica. «Amore, sommissio­ ne, dolcezza sono le qualità principali di questo personaggio». «Liù amore! Liù dolcezza! »: la direzione pucciniana nell’indicazione letteraria è piu chiara che nella realtà musicale; mentre l’analogia dram­ maturgica tra le vicende delle due schiave - Aida e Liù — provoca un effetto di risonanza. Quanto poi alla «sommissione», è qualità che si obiettiva già in quel caratteristico raccogliersi del personaggio in pp, alle sue uscite di scena (si è visto), con il perdersi dietro le quinte del suo leitmotiv implorante («Numi pietà»), in quel suo sfumare in dissolvenza, che tanto si accorda anche con il più generale principio di continuità drammatica e spetta­ colare 1 2. 1 «Io avrei un’idea che ella troverà forse troppo ardita e violenta... Farei ritornare in scena i sacerdoti, ed a vederli, Amneris come una tigre scaglierebbe contro Ramfis parole acerbissime»: al Ghislanzoni, il 4 novembre 1870 {ibid.y p. 404). 2 Sovviene esattamente a questo proposito il ricordo di una soluzione interpretativa adottata da una grande cantante, Renata Tebaldi (ma non sapremmo dire da chi suggeritale), la quale era in sé di una ingenuità forse imbarazzante, ma evidentemente partiva da una certa intuizione - sebbene confusa - del senso scenico che hanno, in effetti, queste uscite-leitmotiv di Aida: Renata Tebaldi

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E, in simmetria, non si pongono anche le entrate in scena di Aida, segnate dall’altro leitmotiv interiettivo («Amore, amore, gaudio, tor­ mento»; felice bis in idem, rispetto al fatidico «croce e delizia»)? Ma, piu che una qualità, la «sommissione» è il dramma e la tragedia di Aida: un dramma che si consuma, in particolare, nel duetto con Amne­ ris; già per questa entrata («dal fondo, tenendo fra le mani la corona» della principessa), la figura della protagonista sembra delinearsi come l’allegoria stessa della sommissione; e nel corso del dialogo — un gioco crudele, da parte di Amneris, un duello impari fra gatto e topo - un unico scatto di ribellione; poi la supplica. La tragedia di Aida si consuma nel rapporto con il padre (cioè nel duetto con lui), secondo quella costante verdiana che Luigi Baldacci ha individuato nella conflittualità degli eroi-vittime «contro il padre» \ Fra tutti i padri verdiani, anzi, Amonasro è quello in cui l’antitesi «contro il figlio» (contro la sua possibile felicità) si manifesta esplicita, non al grado di superiore destino (quello che poi, per lo più, risultava provocato piuttosto dalla disobbedienza, dalla trasgressione del figlio), ma al grado di consapevole, machiavellica, crudeltà. E oltretutto in modi barbarici («Amonasro, re d’Etiopia e padre d’Aida: pelle olivastra rossiccio-scuro — 40 anni: guerriero indomabile, pieno d’amor patrio: ca­ rattere impetuoso, violento»). Nella corrispondenza col Ghislanzoni, così come nella Disposizione scenica il duetto Aida-Amonasro emerge come vertice drammatico; oltre­ tutto esso deve reggere e contrapporsi ai grandi blocchi corali e spetta­ colari in cui fino a questo punto l’opera si è articolata. Il librettista è messo sotto torchio. Quanto ai cantanti: «È in questo duetto che il talento scenico degli artisti ha il maggior campo di rivelarsi. Quindi nessun accento musicale, nessun dettaglio mimico dev’essere menomamente trascurato; la musica stessa sarà poi la miglior maestra agli attori, così che basterà qui limitarsi alle semplici indicazioni delle distanze, dei movimenti, ecc.». Gesti e azioni si tendono fino alla colluttazione: Amonasro respinge Aida; la «afferra» («pel braccio sinistro», cantando «Una larva orribi­ le»); Aida «si svincola»; il padre si «allontana»; Aida «lo segue e si gitta alle sue ginocchia che tenta di abbracciare». È il culmine: ed è già fissato nella positura che subito diverrà reper­ torio della più popolare iconografia melodrammatica: «Alle parole soleva uscire di scena atteggiandosi di profilo a mo’ di figura di antica grafica murale egiziana; le mani orizzontali a quote diverse (dita unite e tese rispettivamente in avanti e indietro): dove si travedeva la dissolvenza in bidimensionalità. 1 luigi Baldacci, Libretti d'opera, Firenze 1974.

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"Dei Faraoni tu sei la schiava” - Amonasro, nel massimo furore afferra di nuovo il braccio sinistro d’Aida, la quale getta un grido straziante: - "Ah! ” — nel mentre che il padre la respinge da sé con tale forza ch’essa cade quasi esanime al suolo, sorreggendosi col braccio destro, e levando in alto la mano sinistra supplichevole verso il padre». Ma «Amonasro si allontana di due passi a sinistra, e volge le spalle alla figlia, rimanendo cupo e minaccioso». Allora «Aida si trascina ginocchioni presso il padre, e cerca di affer­ rargli le mani e di ottenere il perdono, promettendogli di obbedire ai suoi desideri». Per questo punto al Ghislanzoni, a suo tempo, Verdi aveva scritto: «Ad Aida, dopo il quadro orribile e gli insulti detti dal padre, non resta... fiato a parlare: quindi parole tronche ed a voce bassa e cupa»... «Non penserei a far cantare». Fra Aida ed Amneris (rovesciato il rapporto vocale e drammaturgico delle due donne rivali rispetto a quello Norma-Adalgisa) Radames, non avendo fra i propri requisiti l’iniziativa dongiovannesca di un Pollione, si ancora tutto nella propria baldanza guerriera. Su di lui (ventiquattro anni, carattere entusiasta) sembra pesare ancora l’ipoteca alfieriana di una generosità disarmata: quella che attenderebbe da un’esuberanza ado­ lescenziale - cosi scarsamente attagliabile alla realtà dei tenori - una qualche plausibilità. E in effetti ogni plausibilità vien meno, per lui — prima e più che nel­ l’attimo incontrollato del tradimento involontario - in quel suo baldan­ zoso giungere all’appuntamento notturno con Aida presso le rive del Nilo, come se l’impegnativa proposta di nozze con Amneris, avanzata tanto solennemente e pubblicamente dal Re al finale della scena prece­ dente, non lo avesse toccato. Più ingenuo del Rodolfo della Miller (suo fratello: aveva anche lui fiducia di poter scongiurare le nozze principesche impostegli dal padre attraverso un leale chiarimento proprio con la fidanzata ufficiale, Fede­ rica: lei stessa un embrione di Amneris), ecco che Radames entra in sce­ na, sull’onda della frase che subito intonerà «col più giulivo trasporto, col più amoroso entusiasmo». Si direbbe che Verdi, una volta operata l’opportuna modificazione rispetto al canovaccio francese, col rendere in volontario il tradimento di Radames, ne sottovaluti tuttavia i rischi persistenti. Per esempio, è Verdi che, per amore di quest’altra baritonale «gioia feroce», aggrava l’imperdonabile intemperanza di Amonasro: «Di Napata le gole! Ivi saranno i miei! » È vero che, nel contraccolpo, è il recupero di Radames, musicale e

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scenico. Dall’epistolario: «qui Radames deve tenere ed occupare quasi solo la scena con parole strane, pazze esaltatissime». Dalla Disposizione scenica'. «"Tu, Amonoastro!... tu il Re? ” Queste parole si pronunciano chiaramente, con molto accento drammatico e facendo una pausa abba­ stanza sensibile tra Tuna e l’altra [si sottolineino queste pause]. Dicen­ do: "Tu! ” l’attore si pieghi un po’ col corpo verso Amonasro, stendendo il braccio sinistro, e segnando col dito». Il gusto della positura espres­ siva dettagliatissima (gusto manzoniano, diremmo) cede a indicazioni ricche di interiorità: «dopo queste frasi spezzate Radames si volgerà ver­ so il pubblico ed a tempo dirà: "Numi! che dissi? ” cominciando sotto­ voce, agitatissimo, e crescendo poco a poco con ansia: sulle parole "no! no! ” farà tre passi innanzi, e pronuncerà con grandissima forza, con un grido: "non è ver!... no! ” quindi, cercando di farsi illusione a se stesso, dirà : " sogno... delirio è questo...” » Epistolario e Disposizione scenica^ infine, convergono nella ricerca di una precipitosa concitazione per il finale d’atto — rispettivamente - al livello del taglio dialogico e della relativa resa spettacolare: ardua e per­ tanto esattissimamente circostanziata e caldamente raccomandata. «Sacerdote, io resto a te! » Il dramma di Radames e di Aida è com­ piuto. Dopo, per Radames, il confronto breve con Amneris sarà tenuto tutto in un distaccato atteggiamento di dignità «calma e serena» (ma non senza un’interessante increspatura ironica); quindi il silenzio, al Giudi­ zio: recidivo e fatale. Oltre il quale non resterà che una risoluzione li­ rica: a lui e ad Aida, «larve» entrambi, compete solo la «voluttà ineffa­ bile» del vagheggiamento della morte (appena «delirante» nella donna): «una scena di canto puro e semplice». Dopo il «Sacerdote, io resto a te!», il dramma è tutto e soltanto di Amneris, personaggio superstite. Amneris dunque. Nella Disposizione scenica è indicata ventenne, coe­ tanea di Aida (ma questa dell’età è una delle tante sfide che dalla pagina del libretto sogliono alzarsi alla realtà effettuale del palcoscenico), «mol­ ta vivacità, carettere impetuoso, impressionabile». Sono dati positivi­ stici. Meglio, per Amneris Verdi parla di «quel certo non so che che si chiama comunemente aver il diavolo addosso» l. J Questa espressione è usata nella lettera a Giulio Ricordi da Sant’Agata, il io luglio 1871 (let­ tera importante e già citata); ma già prima, il 24 maggio, scrivendo sempre a Giulio Ricordi per la composizione della compagnia: «Notate bene che questa Amneris ha il diavolo addosso, una voce potente, molto sentimento, e molto molto drammatica. Cosa sono la Waldmann, la Bisiach? Su que­ sta parte non bisogna metter il piede in fallo. Una mediocre Amneris significa opera rovinata» (abbiati, Giuseppe Verdi cit., rispettivamente pp. 461 e 458).

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Per lei egli ha una cura particolare, le fa spazio - vocale e scenico anche nell’assembramento dei grandi concertati, come neppure alla pro­ tagonista. Per esempio, per quello del primo quadro: «Amneris potreb­ be prendere una spada, una bandiera o qualche altra diavoleria e indi­ rizzar la strofa a Radames calda, amante, guerriera». È la strofa: «Di mia man ricevi, o duce». È per Amneris che Verdi pensa - ed è un’altra idea che gli si presenta con l’eccitazione della grande trovata — a Teresa Stolz. E del resto Amneris è «soprano». Il passaggio della Stolz al ruolo di Aida, comportando fra l’altro l’ag­ giunta di «O cieli azzurri» (aria già tentata e poi esclusa, ora portata a levigatissimo compimento in chiave di «idillio», di «odor d’Egitto» ma come «souvenir ai luoghi natii», come «un balsamo») rientra nella forza delle vecchie convenienze teatrali, nel preconcetto per cui il puro eroevittima sembrava appartenere a un rango più alto di quello dell’anta­ gonista: ancora per poco. Già tra Aida e Amneris, dunque, si stabilisce, un bilanciamento di peso drammatico analogo a quello che si verificherà tra Otello e Jago. È la modernità di Verdi che, via via sposando la propria prima linea nei vari momenti dell’amplissima produzione, costantemente punta sul­ l’antagonista, fino ad eroicizzarne i caratteri specifici anomali, e quindi ad assumerlo a provocatorio protagonista (Rigoletto; ma anche Vio­ letta). La storia dell’interpretazione di Amneris, col passaggio al timbro di mezzosoprano (passaggio naturale, del resto, e antico; felice per tanti versi e certo irreversibile) ha coperto in parte la fisionomia originaria del personaggio. Così essa emerge sorprendente dalle rilevazioni che proprio la ricordiana Disposizione scenica induce a operare in corpore vivo, nello spartito. Sorprende assistere — diremmo — allo sciogliersi di una ipostatizza­ zione paludata, statuaria del personaggio, al suo sforare oltre l’involucro di una regalità costrittiva della sua alta tensione umana secondo atteg­ giamenti aulici, forse di tragedia. Laddove invece la tensione di Amneris è piuttosto tensione fremente di dramma borghese: il «diavolo addos­ so» è quello di una femminilità promettente, altera, ma nervosissima. È Sarah Bernardt. Amneris in trasparenza è Tosca: e si dice un dramma che il vecchio Verdi prenderà in seria considerazione, prima ancora di voler ribadire premonizioni drammaturgiche pucciniane (né l’accostamento Aida-Liù ci trarrà nella tentazione di un parallelismo, che sarebbe soltanto estrin­ seco, tra Amneris e Turandot).

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Amneris è una dama del gran mondo, già fin de siècle, abilissima nel­ l’arte della simulazione e della dissimulazione (fin dal «terzettino» d’ini­ zio); la sua mobilità mimica è incisiva, felina. La gelosia - come si com­ pete - è la passione che la sconvolge, in quanto ha radici in una sensua­ lità che se convenientemente si chiude nel superbo portamento delle ap­ parizioni ufficiali, si rivela, si apre quasi sfacciatamente, nel segreto del proprio boudoir, «intanto che fa la toilette». Il primo quadro del quarto atto è interamente suo. Osserviamola con gli occhi di Verdi (e le lenti - vogliamo dire? - di Giulio Ricordi). Ad apertura di sipario ella è già in scena, e «mestamente atteggiata». Per agevolare questo atteggiamento - e solo a questo fine - si prevede nel mezzo della scena una colonnetta reggente un idolo (ingombro calco­ lato al successivo, pur rapidissimo, difficile e circostanziato cambiamento di scena). «Appoggiata alla colonna ella nasconde la testa fra le mani». «Al cominciare del suo recitativo, essa farà qualche passo innanzi: il maestro ha indicato in due punti del recitativo stesso: pausa lunga lungo silenzio. Si raccomanda all’artista di osservare queste indicazioni alla let­ tera, senza timore di esagerare: queste pause sono di bellissimo effetto drammatico, e scolpiscono con grande evidenza la terribile perplessità dell’animo di Amneris». Il cenno alle guardie sarà debitamente «imperioso»; ma il duetto con Radames la vedrà implorante; lo «comincerà con tutta la passione» pur cercando «in pari tempo di nasconderla». Ma «alla parola “morir”... non sa piu frenarsi» e l’«ah!... tu dèi vivere!» deve essere esclamato «colla piu ineffabile passione», «con anima grandissima, marcando bene gli accenti e le parole». Amneris è la prima depositaria della parola scenica (parola e pausa scenica). La sua espressività deve essere sempre al grado massimo: «colla mas­ sima agitazione», «nella massima concitazione», «nel massimo dolore», «nella massima desolazione». Così, nelle poche righe con cui si segue la conclusione del duetto con Radames. Come al solito, la Disposizione scenica, quanto è dettagliata nelle grandi scene di insieme e ancora nelle scene con pochi personaggi - nei duetti, in particolare - di fronte al cantante solo in scena si ritira, fa cre­ dito alla sua sensibilità, all’iniziativa personale, al suo talento: soprat­ tutto all’evidenza ispiratrice della musica. «Nella susseguente scena del giudizio, un’artista può elevarsi a su­ blime altezza, sia con la scena sia con l’espressione della parola. Il voler dare un’idea drammatica mi pare cosa impossibile, poiché la musica ginn-

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ge a tal punto di sublimità, che basta da sola ad ispirare l’artista: mi limi­ terò dunque alle materiali indicazioni sceniche; senza entrare nella parte intuitiva della scena». Nonostante la premessa, le sottolineature ricordiane sono molte: al­ l’apparizione dei sacerdoti, Amneris si «copre inorridita il volto con amendue le mani». «Oh! chi lo salva!» deve essere «un grido»; e «mi sento morir» è esclamazione «con la voce singhiozzante». La triplice apostrofe del sinedrio a Radames (interna) e il triplice silenzio del guerriero chiedono ad Amneris un crescendo emozionale. «Convulsa»: così ella «si avvicina alla porta che mette al sotterraneo, e curvandosi alquanto verso la scala, ascolta ansiosamente»; è l’atteggia­ mento di Tosca che ascolta i gridi di Cavaradossi torturato, di qua dalla porta dello studio di Scarpia; poi «trambasciata», quindi «mezzo tra­ mortita»; «appoggiandosi alla parete sta aspettando la risposta di Ra­ dames». Dopo, l’immobilità, e, ascoltata la sentenza, «un gesto marcatissimo di disperazione, d’ira, di dolore». I Sacerdoti, che Verdi ha voluto far rientrare in scena, Amneris «li investe con impeto». Rimasta sola, ella resta «stupefatta dal dolore» fino a che «non sa più frenarsi e, facendo due o tre passi rapidi fin presso la ribalta, nel parossismo dell’ira grida: "Empia razza!” e quindi cor­ rendo esce per la porta n. i ». Ad Amneris spetta l’ultima parola dell’opera. Sulla fine del duetto dei due amanti nel sotterraneo-tomba, ella en­ tra, nella parte superiore della scena bipartita; è nel suo elemento (anche se elemento odiato): il Tempio, davanti al coro immobile dei Sacerdoti. «Pace... pace». Là dove la tradizione esecutiva di Amneris (mezzoso­ prano) ci ha abituati a un filato ppp su questo Re basso (secondo una sug­ gestione musicale che partecipa quanto più possibile della «purezza» del canto propria del duetto Aida-Radames), Verdi da Amneris (soprano) in contrasto con quella purezza vocalistica si aspettava una esclamazione «colla voce rotta dai singhiozzi e con accento straziante». Naturalmente la falcidie che annotazioni come queste hanno subito nella storia dell’interpretazione di Amneris (la più travagliata, sintoma­ ticamente, rispetto a quella degli altri personaggi di Aida) è motivata da un senso di misura «moderno», dal timore comprensibile di .rischi effet­ tivi, dall’esigenza di cancellare le «esagerazioni» del passato. Ma per l’appunto quel passato coincide con il presente di Verdi, e quelle «esagerazioni», secondo la formulazione autorizzata della Dispo-

Note sulla Disposizione scenica per Vopera «Aida»

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dizione scenica ricordiana, coincidono con le punte piu avanzate di quel presente. Legittimo resta il sospetto di valori autentici perduti (recupe­ rabili?) e di caratteri stilistici sfocati.

L’ultima parola. Infine: al sistematico confronto fra epistolario e Disposizione sce­ nica non può sfuggire come questa ultima scena di Aida tenda ad assur­ gere al ruolo di «summa» verdiana musicale-spettacolare. Al Ghislanzoni, ancora, il 3 novembre 1870 il Maestro ha scritto: «Cosi con un cantabile un po’ strano per Radames, un altro a mezz'aria di Aida, la nenia dei sacerdoti, la danza delle sacerdotesse, Vaddio alla vita degli amanti, Vin pace [jzc] di Amneris, formerebbero un insieme variato, bene sviluppato; e sfio posso musicalmente arrivare a legar bene il tutto, avremo fatto una buona cosa, o almeno cosa che non sarà co­ mune. Coraggio, dunque; siamo alle frutta; ella almeno». Nella Disposizione scenica, per questa scena, a ribadire il suo carat­ tere sincretistico (verdiano al massimo: per sovrapposizione di elementi distinti), l’appello deH’ottimismo avveniristico scaturisce dall’aridità di una nota tutta pratica, impegnata a precisare la dislocazione dei maestri di palcoscenico per le varie, delicate mansioni: «Per tal modo si potrà assicurare una perfetta esecuzione musicale, per quanto sembri difficile ottenere un insieme con tante suddivisioni di parti, sempreché vi sieno persone istrutte, intelligenti ed amanti dell’arte: il che è a sperarsi si verifichi nei nostri teatri».

WOLFGANG OSTHOFF

Il Sonetto nel Falstaff di Verdi

L’ultimo canto d’amore di Verdi ottantenne è ancora per due giovani innamorati... su loro Verdi ha effuso la tenerezza con cui i vecchi che hanno molto vissuto e la vita lasciano senza rimpianti, si volgono compiaciuti a riguardare i primi passi del­ le giovani creature sulla strada che essi stanno per lasciare. massimo mila, Giuseppe Verdi, Bari 1958, p. 93.

Nella storia delle arti e nell’attività dei singoli artisti vi sono casi di fortuna che, come ogni fortuna vera, compaiono inattesi, in fondo inspie­ gabili, regali puri e semplici. Fu appunto un caso fortunato - ancor oggi lo sentiamo tale -, che Verdi a ottantanni scrivesse il Falstaff. Dopo una vita dedicata a realizzare la tragedia nel teatro d’opera - in quel che a tutt’oggi vive della storia operistica, il genere tragico in senso stretto è rappresentato quasi esclusivamente da Verdi -, egli si accommiata dalle scene con la commedia musicale. Questo processo ha molti e probabil­ mente inesauribili aspetti - biografici, spirituali, storico-teatrali, storico­ musicali -, dei quali non s’intende trattare direttamente qui. Cerchere­ mo semmai di cogliere concretamente e integrare, sulla base di un breve brano del Falstaff, l’immagine di quello che guardando a quest’opera si suol chiamare, con proprietà ma genericamente, saggezza senile. Se è vero che Falstaff è un caso di fortuna, anche all’interno dell’ope­ ra meritano tale denominazione alcuni episodi. Mi riferisco agli incontri amorosi, solo marginalmente collegati all’azione, di Fenton e Nannetta. Arrigo Boito, autore del libretto, cosi ne scrive a Verdi il 12 luglio 1889 (all’inizio del lavoro comune), immedesimandosi nelle intenzioni del compositore: «Quel loro amore mi piace, serve a far piu fresca e più solida tutta la commedia. Quell’amore la deve vivificar tutta e sempre per modo che vorrei quasi quasi eliminare il duetto dei due innamorati. In ogni scena d’insieme quell’amore è presente a modo suo. È presente nella seconda parte del secondo atto. Nella prima e seconda parte del terzo. È quindi inutile di farli cantare insieme da soli in un vero duetto. La loro parte, anche senza il duetto, sarà efficacissima; sarà anzi più effi­ cace senza. Non so spiegarmi; vorrei, come si cosparge di zucchero una torta, cospargere con quel gaio amore tutta la commedia senza radunarlo

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in un punto» l. Le episodiche apparizioni di quell’amore, introdotte in vece di un vero e proprio duetto e sempre prontamente interrotte, singo­ larmente culminano in un canto solistico dell’innamorato, Fenton, in cui la voce dell’amata Nannetta interviene solo un attimo prima dell’impreveduta interruzione (che neppure qui manca). Questo canto di Fenton, in apertura della seconda parte del terz’atto (e quadro finale dell’opera), fu ed è sempre sentito come qualcosa di straordinario anche all’interno della straordinarietà di tutta l’opera, nonostante le riserve estetiche e drammaturgiche che si potrebbero magari avanzare. Lo stesso Boito ne scrive dubitoso a Verdi il 7 luglio 1889: «Certo la canzone di Fenton è appiccicata per dare un assolo al tenore e questo è male. Vogliamo to­ glierla?»12. Ma l’assolo di Fenton restò3. Occorre però chiedersi se ab­ biamo qui da fare unicamente con l’esigenza distributiva di addobbare d’una musica toccata dalla grazia la parte del tenore, o se la singolarità di questo brano si possa illustrare mediante la ricognizione di qualche carattere particolare. Come tant’altre volte, vai la pena di porre seriamente la questione del «genere». Boito parlava di «canzone»: espressione, a quest’epoca, assai neutrale, e che non conduce molto in là. Possibile anche che alla data di questa lettera il testo non fosse ancora redatto. In epoca prece­ dente il canto di Fenton sarebbe forse stato chiamato, per la brevità, il carattere di entrata in scena, e anche per la velata tonalità di La bemolle maggiore, «cavatina»4: ma questo termine era fuor d’uso già dagli anni sessanta dell’Ottocento. Un’occhiata alla bibliografia verdiana non chia­ risce gran che: Hans Kuhner parla del testo come di «una poesia di tre strofe»5, Antonio Capri della «breve romanza di Fenton»6, Spike Hu­ ghes dice che «the exquisite love song that Fenton sings, and which Ver­ di called his sonetto, is not, in fact, a sonnet but the only aria in the opera...»7. L’idea di un sonetto in un testo operistico potrà riuscire scon­ certante: ma qui lo scetticismo del critico falla. Il brano di Fenton è dav­ 1 Carteggi verdiani, a cura di Alessandro Luzio, vol. II, Roma 1935, pp. 146 sg. 2 Ibid., p. 145. 3 Quest’unico assolo di Fenton corrisponde all’unico assolo di Nannetta nel quadro finale (sulle «parole armoniose» da lei preannunciate nella parte I, atto III): «Sul fil d’un soffio efesio», anche per l’impiego dell’arpa, che compare solo in questi due brani dell’opera, come segnalò il Roncaglia (Volti musicali di Falstaff, a cura di Adelmo Damerini e Gino Roncaglia, Siena 1961, p. 89). 4 Cfr. Wolfgang osthoff, Mozarts Cavatine» und ibre Tradition, nella miscellanea Frankfurter musikhistoriscbe Studien, Helmuth Osthoff zu seinem siebzigsten Geburtstag, a cura di Wilhelm Stauder, Ursula Aarburg e Peter Cahn, Tutzing 1969, pp. 139-77. 5 HANS kuhner, Giuseppe Verdi in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Reinbek (Hamburg) 1961, p. 138. 6 Antonio capri, Storia della musica, vol. IV, 1, Milano 1969, p. 200. Cfr. inoltre l’imprecisa descrizione di Gabriele baldini, Abitare la battaglia, Milano 1970, p. 187. 7 spike hughes, Famous Verdi Operas, London 1968, p. 514.

Il Sonetto nel Falstaff di Verdi

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vero un sonetto, e questo fatto non è forse senza rapporto col suo parti­ colare carattere: FENTON

Dal labbro il canto estasiato vola Pe’ silenzi notturni e va lontano E alfin ritrova un altro labbro umano Che gli risponde colla sua parola. Allor la nota che non è più sola Vibra di gioia in un accordo arcano E innamorando Faer antelucano Come altra 1 voce al suo fonte rivola. Quivi ripiglia suon, ma la sua cura Tende sempre ad unir chi lo disuna. Cosi baciai la disiata bocca! Bocca baciata non perde ventura. NANNETTA

Anzi rinnova come fa la luna. FENTON e NANNETTA

Ma il canto muor nel bacio che lo tocca.

Dover musicare un sonetto, compito inconsueto al compositore d’o­ pera, pare aver inquietato lo stesso Verdi. Contro le sue abitudini, egli non compose il testo del Falstaff nella successione drammatica effettiva, se in una lettera del 6 ottobre 1890 dice: «... Mi tormentava il sonetto del terz’atto e per togliermi questo chiodo dalla testa ho messo da parte il second’atto, e, cominciando da questo sonetto, giù.,.»1 2. Vedremo che in seguito egli riesaminò e modificò spesso la composizione del sonetto. Si pone per prima cosa il quesito di sapere le intenzioni che condus­ sero Boito e Verdi a ricorrere al genere lirico del sonetto. Se mai fosse necessario escludere l’ipotesi della fortuità della disposizione delle rime basterebbe guardare la traduzione francese del Falstaff, alla quale secon­ do il titolo ufficiale3 collaborò Boito, e inufficialmente anche lo stesso Verdi4: anche li ritroviamo la forma del sonetto. I primi due versi del­ 1 Verdi ha palesemente composto «con altra» invece di «come altra», come dimostrano il fac­ simile della partitura autografa («stampato per conto dell’Ente autonomo del Teatro alla Scala», Milano 1951 ), c. 3i3r, e tutte le edizioni (compresa la bozza dello spartito citata qui alla nota 3, p. 168): si tratta probabilmente d’un errore di lettura, che non altera però sensibilmente il senso del­ la frase. 2 franco abbiati, Giuseppe Verdi, vol. IV, Milano 1959, p. 405. 3 FALSTAFF | COMÉDIE LYRIQUE EN TROIS ACTES | DE | ARRIGO BOÌTO | MUSIQUE DE | GIUSEPPE verdi II théàtre National de l’opéra comique I Première representation 18 Avril 1894 11 Version fran?aise de m. m. paul soulanges et Arrigo boito II partition pour chant et piano II arran­ gement de c. carignani 11 ... I editeurs - G. ricordi & c. ... I i2, Rue de Lisbonne - paris . ..^nu­ mero editoriale 96413 (p. 1: Copyright 1894 by G. Ricordi & Co.). 4 Lettera di Verdi a Giulio Ricordi, del i° novembre 1892: «...Fate pure la traduzione in tedesco. Ma sapete che io mi riservo la traduzione francese» (abbiati, Giuseppe Verdi cit., p. 467); lettera di Verdi a Giuseppina Negroni Prati, del io settembre 1893: «... Sto ancora lavorando il

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l’ultima terzina, «Bocca baciata non perde ventura, | Anzi rinnova come fa la luna», sono citati già due volte nella seconda parte dell’atto primo, dove conchiudono i due episodici duettini di Fenton e Nannetta. Il li­ bretto, qui, li riporta tra virgolette ‘. La citazione è ricavata dalla chiusa della novella settima della seconda giornata del Decameron del Boccac­ cio, dove è forse la «prima testimonianza del proverbio popolarissimo»2. Che Boito abbia desunto da fonti letterarie almeno singoli versi per le proprie composizioni poetiche, non è caso singolare3. Il riferimento al Boccaccio viene del resto confermato, nel nostro caso, dall’invito alla pre­ mière del Falstaff che Boito mandò all’amico Camille Bellaigue: «... L’éclatante farce de Shakespeare est reconduite par le miracle des sons à sa claire source toscane de Ser Giovanni Fiorentino4. Venez, venez, cher ami, venez entendre ce chef-d’oeuvre! Venez vivre deux heures dans les jardins du Décaméron et respirer des fleurs qui sont des notes et des brises qui sont des timbres»s. A parte i versi boccacceschi, il sonetto nel­ la sua integrità è però, se vedo bene, opera autentica di Boito stesso, co­ me pare verosimile non solo per il linguaggio6, ma anche per un passo epistolare del Bellaigue al Boito, del 9 gennaio 1894: «Alors ce sera le printemps et, la fenètre ouverte sur les marronniers du convent voisin, nous chanterons, mais en Italie, votre adorable sonnet de Falstaff et l’aer antelucano»7. Boito non smentì le parole «votre sonnet» scrittegli dal Bellaigue. Per un artista della versificazione par suo8 sarà stata allettante Falstaff. Boito è qui e diamo l’ultima mano alla traduzione francese. È un lavoro inutile, perché ora certamente non anderemo a Parigi; ma infine era questa traduzione incominciata e bisognava finir­ la» (I copialettere di Giuseppe Verdi, pubblicati e illustrati da Gaetano Cesari e Alessandro Luzio e con prefazione di Michele Scherillo, Milano 1913, p. 721). 1 Libretto Ricordi, Milano 1961, pp. 29 e 32. Le virgolette non figurano nella partitura stam­ pata e neppure negli spartiti italiani. Lo spartito francese (cfr. sopra, p. 159, nota 3) dà i due versi «Heur point ne perd une bouche baisée I Ains refleurit comme rose arrosée» in corsivo nel secondo episodio dell’atto I (pp. 92-94). Nell’autografo (cfr. sopra, p. 159, nota 1) entrambi gli episodi del primo atto (cc. 83^-84^ e 95P-97P) danno le prime parole di questi versi sottolineate (alla c. 83P Ver­ di ha inoltre scritto inizialmente «fortuna» invece che «ventura»). 2 Decameron, a cura di Vittore Branca, vol. I, Firenze 1951, p. 249, nota 7. Debbo l’identi­ ficazione della fonte boccaccesca all’amico Lorenzo Bianconi. 3 Alla fine del 1894 Verdi voleva comporre, in occasione del terremoto in Calabria, una para­ frasi italiana dell*Agnus Dei: mandò al Boito il primo verso di una sua propria versione, con la preghiera di continuarlo. Boito rispose: «Ecco qua, veda se combina colla frase musicale, il primo verso è suo e il secondo è di Dante Alighieri: "Pietà di me, della miseria mia I Agnel di Dio, che le peccata levi...”» (cfr. abbiati, Giuseppe Verdi cit., p. 564). 4 La novella seconda della prima giornata del Pecorone di Giovanni Fiorentino (Milano 1554, Giovann’Antonio de gli Antonij, cc. 7P-14P) è una fonte delle Merry Wives of Windsor. 5 Camille bellaigue, Arrigo Boito. Lettres et Souvenirs, in « Revue des deux Mondes », Lxxxvni (sixième période, tornerò, 1918), p. 906. 6 Tutte le testimonianze per la parola «estasiato» date per esempio nel Grande Dizionario della Lingua Italiana di salvatore battaglia, vol. V, Torino 1968, p. 429, sono dell’Otto e No­ vecento. 7 pierò nardi, Vita di Arrigo Boito, Milano 19442, p. 626. Il Bellaigue cita versi del sonetto anche nel succitato necrologio per Boito nella « Revue des deux Mondes », p. 904. 8 Cfr. luigi pagano, Arrigo Boito: l'artista, in «Rivista Musicale Italiana», xxxi, 1924, pp. 199-234, e in particolare gli esempi tratti dal Falstaff.

Il Sonetto nel Falstaff di Verdi

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l’idea di cimentarsi in un genere «storico» come il sonetto. Che egli però l’abbia inserito senza qualche motivo in questo punto del Falstaff non sembra probabile. Nel canto di Fenton culminano gli episodi amorosi dell’opera. Al mo­ do che quest’ultimi sono poco più di un giuoco di baci (cfr. la partitu­ ra1, pp. 96-99, 108-14), o si concentrano in un bacio drammaturgicaihente necessario (p. 278), così anche il pensiero di Fenton nel suo canto assolo mira all’atto del baciare: Così baciai la disiata bocca!

Bocca baciata non perde ventura.

E Nannetta risponde da lontano; Anzi rinnova come fa la luna.

Questi ultimi due versi in canto alterno figuravano già, s’è detto, alla fine dei due episodi della seconda parte dell’atto primo. Nel sonetto, Fenton aggiunge il versò conclusivo: Ma il canto muor nel bacio che lo tocca.

La fonte dell’opera, le Merry Wives of Windsor di Shakespeare, non fornisce alcun modello a questa scena sostanzialmente monologica. È però dimostrato che Boito poco prima si era occupato intensamente del dramma amoroso par excellence di Shakespeare. Dopo aver tradotto per la sua amante Eleonora Duse Anthony and Cleopatra, 1’8 dicembre 1888 le scriveva di aver letto e studiato Romeo and Juliet e averne «tracciata la pianta»1 2. Il biografo di Boito Piero Nardi suppone34che nell’estate 1889 egli abbia eseguita questa traduzione e revisione per la Duse, ma aggiunge che «s’ha però l’impressione che in quell’estate e autunno del ’89, l’interesse di Boito per Eleonora venisse un po’ sacrificato all’inte­ resse per Verdi» \ossia pel lavoro comune al Falstaff. Le prime paróle scambiate da Romeo e Giulietta sono un sonetto, che irretisce, nel concettoso giuoco cortese e spiritoso intorno al bacio convenzionale di saluto, l’amore che germoglia (atto I, scena v): If I profane with my unworthiest hand This holy shrine, the gentle fine is this, My lips, two blushing pilgrims, ready stand To smooth that rough touch with a tender kiss. 1 Partitura Ricordi, Milano 1953, numero editoriale P.R. 154. 1 nardi, Vita di Arrigo Boito cit., p. 556. 3 Ibid., p. 567. 4 Ibid., p. 568.

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Il giuoco sulle immagini della mano e del labbro, del toccare e baciare, sottende anche il sonetto 128 di Shakespeare: Since sausie Jackes so happy are in this, Give them thy fingers, me thy lips to kisse.

I tasti del cembalo toccati dalle dita dell’amata collegano però questo so­ netto anche all’altro motivo del sonetto di Fenton, la musica: How oft when thou my musike musike playst, Upon that blessed wood whose motion sounds, With thy sweet finger when thou gently swayst, The wiry concord that mine eare confounds, Do I envie those Jackes...

Al «concord that mine eare confounds» corrisponde la «nota» di Boito che «vibra di gioia in un accordo arcano». Ma l’idea della consonanza musicale come immagine della comunanza amorosa è poi tema esclusivo del sonetto 8 di Shakespeare: If the true concord of well tuned sounds, By unions married do offend thine eare, They do but sweetly chide thee, who confounds In singlenesse the parts that thou should’st beare:

Marke how one string, sweet husband to an other, Strikes each in each by mutuali ordering: Resembling sier, and child, and happy mother, Who all in one, one pleasing note do sing: Whose speechlesse song being many, seeming one, Sings this to thee, thou single wilt prove none.

La «nota» di Boito, usata nel senso non propriamente corrente di «suono», fa supporre che egli si sia rifatto non soltanto al sonetto del bacio dal Romeo and Juliet, bensì anche ai due sonetti musicali di Shake­ speare, e particolarmente all’ottavo. Nel suo sonetto l’idea del supera­ mento della solitudine sterile attraverso la unificazione nella consonanza ricompare assai puntualmente: Allor la nota che non è più sola Vibra di gioia in un accordo arcano E innamorando l’aer antelucano Come altra voce al suo fonte rivola.

Quivi ripiglia suon, ma la sua cura Tende sempre ad unir chi lo disuna.

Che Boito ricorra qui immediatamente alla fonte piu prossima, a Shakespeare, è verosimile. Che egli conoscesse analoghi «concetti» sul

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bacio nella poesia italiana del Cinque e Seicento — per esempio il coro finale del second’atto del Pastor fido o le canzoni dei baci del Marino - è dubbio, se si tien presente che egli non seppe identificare il celebre ver­ so iniziale del terzetto del Pastor fido, «O primavera, gioventù dell’an­ no» *. E comunque sia non si può escludere che l’idea di far figurare nel Falstaff un sonetto fosse con buoni motivi ben accolta da Verdi, che in­ fatti già prima di decidersi per il Falstaff e poi ancora durante il lavoro all’opera aveva letto Goldoni2: non sappiamo di quali commedie si trat­ tasse, ma egli avrebbe potuto trovare dei sonetti, per esempio, nella Donna di garbo (1743, atto II, 11 e III, vii)3 o nel Frappatore (1757, II, xii)4, dove per la verità sono inseriti piuttosto artificialmente e paro­ disticamente (per tacere affatto dei sonetti conclusivi a mo’ di licenza3 nelle commedie goldoniane) 6. Importa di più far riferimento alla tradizione del sonetto nel dram­ ma. Nel Romeo and ]uliet Shakespeare compose in forma di sonetti an­ che i prologhi all’atto primo e al secondo7; una funzione formale simile ha il sonetto-epilogo del King Henry Vs. Shakespeare impiega spesso sonetti e forme affini in Love's Labour's Lost 3, e una volta anche in All's Well that Ends Well. In particolare poi il sonetto sembra esser stato frequente nel dramma spagnolo del xvi e xvn secolo. In Calderon se ne trovano parecchi esempi, e Verdi doveva saperlo, se non altro per la «tragi-comedia» A secreto agravio, secreta vengama,0, annotata tra i suoi progetti operistici verso il 1849 Lope de Vega ci dà l’illuminante indi­ cazione drammaturgica che i sonetti si adattano bene alle situazioni d’a1 Carteggi verdiani cit., vol. IV, 1947, p. 54, nota. 2 abbiati, Giuseppe Verdi cit., pp. 382 e 385. 3 Tutte le opere di Carlo Goldoni, a cura di Giuseppe Ortolani, vol. I, Milano 1935, pp. 1049 e 1158-62. 4 Ibid., vol. II, 1936, p. 129. 5 Alla fine della Putta onorata (1749; ed. cit., vol. II, pp. 516 sg., cfr. vol. XII, 1952, pp. 985 e 1203), della Buona moglie (1750; ed. cit., vol. II, pp. 618 sg., cfr. vol. XII, pp. 988 e 1204), e del Servitore di due padroni (ed. cit., vol. II, p. 1203). 6 In questo contesto può essere interessante che ancora nel 1874 Teresa Stolz riferisca a Verdi di essere stata gratificata di «insipidi sonetti» in occasione di una recita di beneficenza al Cairo (Carteggi verdiani cit., vol. IV, p. 195). 7 Si rammenti a questo proposito che Verdi pensò pure a una composizione di questa tragedia. Il 15 dicembre 1868 scriveva a Giulio Ricordi: «Avete fatto male a dire che io non ho mai pensato a Giulietta e Romeo. Ci ho pensato molto e molte volte, e potrebbe ben darsi che io finissi per farne un’opera» (abbiati, Giuseppe Verdi cit., voi. ITI, p. 235). 8 Cfr. intorno a questo complesso di problemi karl-heinz wendel, Sonettstrukturen in Shake­ speares Dramen, Bad Homburg v.d.H. 1968 (Linguistica et Litteraria, r), in particolare pp. 44-48. Qui si nominano comunque solo i sonetti formalmente inequivoci dei drammi shakespeariani. 5 Due dei sonetti del quarto atto ricompaiono anche in The Passionate Pilgrim (nn. 563). 10 Sonetti presenti in questo lavoro: Jornada primera: Don Lope, «Cuando la fama en lenguas dilatada... », e (immediatamente di seguito) Dona Leonor, «Yo me firme rendida antes que os viese»; Jornada segunda: Dona Leonor, «Leonor, si yo pudiera, obedecerte»; Jornada tercera: Man­ rique, «Cinta verde, que en termino su cinta». s 11 michele scherillo, Verdi, Shakespeare, Manzoni, spigolature nelle lettere di Verdi, in «Nuova Antologia», 47, fase. 974, 16 luglio 1912, p. 210.

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spettativa: «E1 soneto està bien en los que aguardan» \ Non ha grande importanza che la «memoria storica» della grande arte sia o non sia sorretta dalla consapevolezza dell’autore. Anche qui non si tratta di sapere se a Verdi, o anche a Boito, fosse nota la tradizione del sonetto nel ge­ nere drammatico: importa soltanto che a questa tradizione essi senza fallo, — e certamente per ultimi — si ricolleghino. E infatti Fenton pro­ prio all’inizio deH’ultimo quadro si trova in una situazione d’attesa per eccellenza: attende Nannetta travestita da regina delle fate, e dalla con­ fusione della gran mascherata attende il buon esito del proprio sposali­ zio. A questo fa riferimento il sonetto; ma Fenton esprime tacitamente anche un po’ dell’aspettativa del pubblico che attende con fervore lo scioglimento dell’azione nella magia notturna del parco di Windsor. Nell’adozione del sonetto Verdi e Boito si situano innanzitutto in una tradizione genericamente drammatica. Nell’opera, i sonetti sono invece certamente rari. È per esempio indicativo che Gounod per la scena del­ l’incontro nel Romèo et Juliette ( 1867) conservi si il carattere della stra­ ordinarietà poetica, componendola come «Madrigai à deux voix» su una specie di terzine12, e però eviti la forma del sonetto. Semmai i sonetti ri­ compaiono come intenzionali veicoli drammatici, o come oggetti artistico-parodistici chiaramente designati, come, assai tardi, nel Capriccio di Richard Strauss (1941), per il quale il librettista Clemens Krauss ri­ corse a un sonetto di Ronsard3. Qualcosa di simile abbiamo osservato per i sonetti nelle commedie del Goldoni. Lo stesso Goldoni ebbe a mette­ re piuttosto a disagio il proprio compositore con un tal sonetto inserito a mo’ di «veicolo» in un suo testo operistico, Le virtuose ridicole date a Venezia nel 1752 al teatro San Samuele con musica di Baldassare Galuppi. Goldoni si fa burla di talune pretese accademie, tenute soprattutto nelle ville di campagna come giuoco di società, e volentieri dominate da esaltate signore di risibili ambizioni spirituali ed artistiche. Pietro Toldo4 ha ragione di rilevare che in questo libretto «nous nous trouvons au mi1 lope de vega, Arte ntievo de hazer comedias en este tiempo, v. 308, in «Annales de la Faculté des Lettres de Bordeaux», xxm, «Bulletin Hispanique», 3, 1901, p. 381. 2 n. 4, «Ange adorable». Si noti che Verdi riteneva l’opera di Gounod sproporzionata al mo­ tivo drammatico: « Gounod è un gran musicista, un gran talento, che fa il pezzo da Camera e l’istrumentale in modo superiore e tutto suo. Ma non è artista di fibra drammatica. Il Faust stesso benché riuscito è diventato piccolo nelle sue mani. Cosi la Giulietta e Romeo...» {Verdi intimo, carteggio di Giuseppe Verdi con il conte Opprandino Arrivabene, raccolto e annotato da Annibaie Alberti, con prefazione di Alessandro Luzio, Milano 1931, pp. 221 sg., lettera di Verdi del 14 ottobre 1878). 3 Cfr. Richard Strauss - Clemens Krauss, Briefwechsel, a cura di Gotz Klaus Kende e Willi Schuh, Munchen 1963, pp. 62 sg,, 78 e passim. Richard Strauss, in una lettera del 4 agosto 1941, addirittura prendeva in considerazione la possibilità di intitolare l’opera Das Sonett o Das Sonett der Gratin (p. 200). 4 Pietro toldo, L'oeuvre de Molière et sa fortune en Italie, Torino 1910, p. 383.

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lieu des femmes savantes», né è privo d’interesse in questo contesto che Giovanni Maria Mazzuchelli abbia tradotto in italiano le prime nove scene della commedia molièriana, col titolo goldoneggiante Le sapienti ridicole \ Effettivamente Goldoni pare dovere a Molière lo stimolo per la scelta del sonetto: nella scena seconda del terzetto delle Femmes sa­ vantes (1672) si recita e si commenta per esteso un sonetto dell’abbé Cotin12, del 1659, Votre prudence est endormie. Ma nel contenuto del proprio sonetto il Goldoni procede autonomo. Melibea, una delle «vir­ tuose ridicole», vive nell’illusione di essere una importante poetessa; nella scena ottava del primo atto, insieme a Pegasino, il suo letterato in­ namorato, che lei chiama «il mio Petrarchino», Melibea confeziona un sonetto, dove ciascuno dei due si ingegna a lodare il reciproco sesso: MELIBEA

Ecco in lode degli uomini un sonetto. PEGASINO

In lode delle donne anch’io dirò, E i miei versi coi vostri intreccierò. MELIBEA

Uomo, tu sei un animai perfetto, Bello, ben fatto, e non ti manca niente. PEGASINO

Donna, tu sei di noi gioia e diletto, Ed è senza di te l’uomo impotente...

L’«intreccio» viene condotto in maniera che i partner si alternano nelle quartine ad ogni coppia di versi, e nelle terzine verso per verso, finché le loro voci si uniscono nel verso finale: (A due} Tutti sono più bei se sono uniti.

Formalmente e sostanzialmente questa conclusione corrisponde al so­ netto di Falstaff. Salve tutte le altre differenze, il rango di Verdi già si rivela al semplice confronto di quel che i due compositori hanno saputo fare, in musica, del genere del sonetto. Per Galuppi, che apre il dialogo della scena col recitativo secco3, il sonetto rappresenta innanzitutto visi­ bilmente una serie di sostenuti endecasillabi, da musicare dunque, in quanto tali, in maniera analogamente «alta». La prima soluzione a por­ tata di mano è il genere del recitativo accompagnato (cfr. es. 1 ). 1 Manoscritto autografo nella Biblioteca Vaticana, cfr. ibid., p. 562. 2 Moliere, (Euvres completes, vol. Il, Garnier, Paris 1962, p. 930, nota 1838. 3 Partitura ms a Wolfenbiittel, Niedersachsisches Staatsarchiv, 46 Alt, Bùndel XXVIII (plim Braunschweig, Landestheater).

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Galuppi compone in questo modo tutto il sonetto, e non se ne discosta neppure nel verso finale cantato a due, dove però la buffonesca ripeti­ zione sillabica accusa vistosamente l’intenzione caricaturale (cfr. es. 2). Al carattere parodistico già si adegua il genere stesso del recitativo ac­ compagnato, che nell’opera buffa sovente appare come contrassegno di

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un patetico esagerato. E in questo senso Galuppi rende giustizia al pro­ prio pretesto drammatico. Ma proprio nei confronti del non del tutto obliterato motivo poetico di fondo, comune a Shakespeare, e certo non privo di interrelazioni col genere stesso del sonetto («thou single wilt prove none» — «Tutti sono più bei se sono uniti»), risulta evidente la

Violini II Melibea

Bassi Mtjlf

f

(Viole allattava alta)

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degradazione che qui, nell’opera buffa, il sonetto ha subito. Galuppi è sordo alla costruzione artistica, al significato ideale, al tono lirico di que­ sto genere poetico, che è anche per Goldoni piuttosto un fastidioso ge­ nere di moda. Lo stesso Verdi non se la vide comoda col proprio sonetto. Già s’è menzionato l’inconsueto iter compositivo. In una lettera a Giulio Ri­ cordi da Genova, del 16 novembre 1892, ossia poco meno d’un tre mesi avanti la première, Verdi parla di modificazioni apportate alla composi­ zione del sonetto: «... Vi mando raccomandato il fascicoletto del Sonet­ to 30 atto. Vi ho cambiato qualche armonia: ho aggiunto, e levato qual­ che istromento etc. etc. etc., ad es. l’accompagnamento del corno inglese sulle parole “unir chi le disuna...”» \ Di importanti modifiche apportate alla musica del sonetto ancora nel gennaio del 1893 siamo fortunatamen­ te informati grazie alla nota bozza di stampa dello spartito, in cui Verdi annotava le proprie correzioni durante le prove dell’opera. E finalmente, un anno più tardi, Verdi deve aver cambiato ancora qualcosa per la pri­ ma esecuzione parigina all’Opéra Comique. Da Genova, il gennaio 1894, scrive a Giulio Ricordi: «Eccovi le correzioni. Nel pezzettino staccato vedrete le due battute aggiunte al Sonetto. Fate come volete...»1 2. Non resta traccia di queste due battute aggiunte: visibilmente non ne fu te­ nuto conto. Per contro Guglielmo Barblan ha estesamente descritto la citata boz­ za dello spartito, conservata nella biblioteca del Conservatorio di Mi­ lano34: in particolare, della canzone di Fenton ha riprodotto il facsimile della bozza", e ne ha amorevolmente commentate le varianti5. Già l’ini­ zio della melodia fornisce occasione significativa al commentatore6 (cfr. es. 3). . Annota il Barblan : «... certamente il suo moto iniziale “ discendente ” per grado dovette ben presto convincere Verdi che un siffatto stacco me­ lodico predisponeva all’idea di discesa anziché a quella di “volo”; si che provvide opportunamente a far “ascendere” la melodia dal Fa al Si be­ molle. Né miglior sorte toccò al successivo La bemolle acuto già da Verdi 1 abbiati, Giuseppe Verdi cit., vol. IV, p. 466. 2 Ibid., p. 530. 3 Guglielmo barblan, Un prezioso spartito del «Falstaff», Milano s. a. (Edizioni della Scala) e, in versione leggermente piu concisa, sotto il titolo Spunti rivelatori nella genesi del «Falstaff», in Atti del I Congresso internazionale di studi verdiani (Venezia 1966), Parma 1969, pp. 16-21; si cita qui dalla prima versione. 4 barblan, Un prezioso spartito cit., pp. 30-34. 5 Ibid., pp. 23 sg. 6 È necessario riprodurre qui ancora una volta, nonostante le pubblicazioni del Barblan, gli esempi musicali.

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* Questa battuta appare già nella ia versione come «oppure».

considerato passibile di esser variato...» ’. Con l’alterazione direzionale delle prime tre crome Verdi pare rifarsi alla musica dei secoli xvi-xvm, che voleva catturare il senso verbale nella figuratività dei «soggetti». Nel contempo istituisce così una chiara corrispondenza musicale tra il primo e il terzo verso del sonetto («...il canto... vola» - «E alfin ritrova...»), e anche, in minor misura, col secondo verso, le cui terzine iniziano con un moto ascensionale di terza (La bemolle-Si bemolle-Do bemolle). Domina i primi tre versi l’immagine del «volo» che, culminando, final­ mente conduce il canto a un «altro labbro umano». A questo culmine Verdi riserba il La bemolle acuto, che nella versione primitiva aveva già assegnato (come variante alternativa primaria) a «vola». L’idea musi­ cale dell’ascesa per gradi si ritrova però anche alla fine del secondo ver­ so («... e va lontano»): Mi bemolle - Fa - Sol. A questo moto corrispon­ de, a senso, il volo del canto che ritorna, da lontano, nel verso ottavo («rivola»). Anche qui incontriamo la corrispondente ascesa, stavolta in Mi maggiore, e come corrosa, da un cromatismo che trascolora in que­ sta battuta anche il contrappunto dei secondi violini, clarinetto e corno inglese. Il quarto verso, con le tre crome iniziali su un solo tono, conduce a un altro modo di enunciazione musicale del verso. Ma questo tipo di ini­ zio trova propriamente forma solo nella seconda quartina del sonetto, che ne è tutta caratterizzata: piu precisamente, i tre primi versi di que­ sta quartina (versi 5-7) si corrispondono esattamente per le tre crome iniziali uguali in «non legato». Le tre crome iniziali del quarto verso delbarblan,

Un prezioso spartito cit., p. 24.

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la prima quartina sono invece trattenute nel puro e semplice «legato», non hanno dunque il profilo declamatorio che assumono nei versi 5-7, pei quali Verdi prescrive «poco più marcato». Verdi ha evidenziato in una piccola modifica la differenziazione tra il verso 4 e i versi 5-7. Origi­ nariamente le tre crome del quarto verso dovevano distaccarsi dall’ac­ compagnamento altrettanto quanto le crome «non legato» dei versi 5-7 (e soprattutto dei versi 5 e 7, dove l’orchestra - tolto il La bemolle acuto dei violini primi su «Allor la» - tace): dalla bozza dello spartito pare risultare che in questo punto il primo flauto, in ottava col canto, doveva tenere il suo Mi bemolle alla fine di «umano» solo per una croma \ co­ sicché la ripresa della voce colle tre crome «legato» avrebbe ben risal­ tato. Verdi, a cose fatte, preferì attenuare il profilo dato alla voce, facen­ do tenere il Mi bemolle del flauto - come risulta dalla modifica nello spar­ tito - non per una croma, bensì per tre semiminime. Ne dipende l’ag­ giunta successiva del La bemolle del primo flauto2 nella battuta succes­ siva (cfr. es. 4). Come gli inizi gradatamente ascendenti dei versi (1-3) caratterizzano melodicamente la prima quartina del sonetto, così fanno le crome iniziali

1 Ma nel facsimile della partitura autografa, c. 311P, questo non si vede. 2 Cfr. il facsimile, c. 3i2r.

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uguali e «non legato» nei riguardi della seconda (versi 5-7): le correzioni apportate da Verdi evidenziano entrambe. La cesura principale di un sonetto è tuttavia il passaggio dalle quar­ tine alle terzine. Originariamente, Verdi iniziava qui non solo con un

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nuovo motivo, bensì pure con un atteggiamento vocale diverso, piu li­ bero che nei versi precedenti, e con l’orchestra impiegata piu a modo d’interpunzione che non d’accompagnamento. In tal modo rispettava e osservava il contrasto di quartine e terzine. Ma il concetto di contrasto non rende affatto giustizia alla struttura del sonetto: piu che un contra­ sto, le terzine (o anche solo l’ultima terzina) compiono una svolta rias­ suntiva, generalizzante, conclusiva1. Ad essa può accompagnarsi la sor­ presa: ma la sorpresa, la meraviglia, non ne è lo scopo. Il sonetto di Boito segue esattamente le leggi del «genere». L’attività vera e propria del canto, il volo d’andata e di ritorno, è conchiusa nelle quartine; nella prima terzina si tratta di quello cui esso agogna ed aspira («... la sua cu­ ra | Tende sempre...»), e della trasposizione dell’immagine all’io che can­ ta («Così baciai...»); la seconda terzina, in canto alternato, comporta la conclusione generalizzante: «Bocca baciata non perde ventura...» Però Boito introduce lo stato di desiderio nella prima terzina mediante il ri­ torno del canto alla sua sorgente — il labbro che l’ha emanato - per riprendervi voce: «Quivi ripiglia suon...» L’introduzione delle terzine, di per sé differenti, è nel contempo una ripresa dell’azione iniziale del sonetto, dell’inizio delle quartine. Verdi realizza musicalmente questa struttura mediante la sua modifi­ cazione: il corno inglese riprende, «ripiglia» la melodia del primo verso, «Dal labbro il canto estasiato vola». L’effetto di questa ripresa è tanto forte che l’ascolto intuitivo di un «dilettante» come Gabriele Baldini potè annoverare il canto di Fenton tra le «vere e proprie arie, con ri­ presa»1 2, sebbene esso, de facto y non lo sia: giacché nel contempo tutto Vhabitus musicale - melodia all’orchestra (un’orchestra che consiste di solo corno inglese! ) e declamazione quasi parlata - è talmente nuovo che l’articolazione del sonetto ne risulta chiaramente profilata3 (cfr. es. 5). L’ultima terzina si differenzia infine mediante la ricomparsa dell’arpa e il passaggio ai 3/4, a parte l’alternanza delle voci e la loro finale con­ giunzione. Qui non v’era granché da cambiare: ma il trattamento del­ l’orchestra, fin qui considerato solo fuggevolmente, merita alcune osser­ vazioni, poiché anch’esso contribuisce a evidenziare la struttura del so­ netto. L’arpa distingue non solo la seconda terzina rispetto alla prima, 1 Nel sonetto inglese, di schema leggermente differente, questa svolta avviene nella coppia finale di versi, a rima baciata. Vedi la subita apostrofe del sonetto 128 di Shakespeare («Since sausie Jackes so happy are in this, I Give them thy fingers, me thy lips to kisse»), o la conclusione del sonetto 8 («Whose speechlesse song being many, seeming one, [ Sings this to thee, thou single wilt prove none»). 2 Gabriele baldini, Abitare la battaglia cit., p. 187. 3 II Re diesis di Fenton alla fine di «disuna» è probabilmente sopravvissuto per dimenticanza alla correzione.

morendo

3

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ma anche la seconda quartina rispetto alla prima. Gino Roncaglia1 ha segnalato che proprio qui Verdi impiega per la prima volta Tarpa nel Falstaff12. Si vorrebbe pensare alle corde del liuto cui allude Shakespeare nell’ottavo sonetto: «Marke how one string, sweet husband to an other, | Strikes each in each by mutuali ordering: | Resembling sier, and child, and happy mother, | Who all in one, one pleasing note do sing», cui cor­ risponde nel Falstaff «Allor la nota che non è più sola». Con quanta cu­ ra Verdi abbia trattato qui l’arpa, risulta da una piccola variante nella sua seconda battuta, da un «basso albertino» un po’ irriflesso trasfor­ mata in una sorta di eco in contrappunto al canto: alla linea vocale La bemolle - Sol bemolle - Si bemolle - Re bemolle - Fa - Mi bemolle l’arpa risponde La bemolle - Do - Mi bemolle, e, dopo, al Sol bemolle - Fa - La bemolle - Do - Mi bemolle - Re bemolle risponde La bemolle - Re bemol­ le (cfr. es. 4). Altre connotazioni strumentali della seconda quartina sono il silenzio quasi totale degli archi e (nella seconda metà) il tremolo dei flauti. La somma prestazione verdiana, più che nelle corrispondenze formali tra la musica e la forma poetica, consiste però (proprio se si ripensi un momento a Galuppi) nell’«invenzione» del tono lirico adeguato al ge­ nere poetico del sonetto, che a lui stesso dovette inizialmente riescire in­ grato. Senza che egli tout court mettesse in musica (alla maniera del Ga­ luppi) gli endecasillabi come un recitativo di tono sostenuto ed enfatico, pure anche per Verdi quel tipo di versi comportava la equivalente tenta­ zione di una declamazione musicale molto patetica. Da una lettera ad Antonio Ghislanzoni all’epoca della composizione di Aida si ricava a quale concezione dell’endecasillabo tendesse a quell’epoca Verdi: «Il coro interno è bello, ma quel verso di sei mi pare piccolo per la situazio­ ne. Io qui avrei amato il gran verso, il verso di Dante, ed anche la ter­ zina» 34 . Nello stesso duetto finale dell’Az^, pel quale Verdi volle unica­ mente «bei versi endecasillabi» \ si manifesta questo atteggiamento. Ag­ giunge: «Ma perché siano cantabili bisogna vi sia l’accento sulla quarta e ottava» (l’accento sulla decima sillaba è comunque obbligatorio, e quin­ di ovvio). La musica prepara questi accenti con gruppi di note (sillabe) caratterizzati da patetici salti melodici (in riguardo alla melodia, la quar­ ta e l’ottava sillaba sono evidenziate dal Re bemolle, «asse» della tona­ lità di Sol bemolle) : 1 Volti musicali di Falstaff cit., p. 89. 2 La chitarra del secondo atto (partitura, p. 232) è invece un mero requisito scenico. 3 I copialettere cit., p. 665. La frase si riferisce al coro dei sacerdoti, «Spirito del Nume, sovra noi discende», nella terza scena dell’atto quarto dell’A/Ja. 4 Ibid., p. 670.

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Es. 6

O

ter - ra ad - dio, ad - di

o

vai - le

di

pian - ti

Il sonetto del Falstaff si basa in gran parte, e soprattutto all’inizio, su endecasillabi di identica fattura. Gli accenti sono rispettati pure qui, ma l’ardore è contenuto, Io slancio placato, il pathos cede alla sobrietà d’una più profonda verità. Corrisponde al procedimento del Galuppi la maggior prossimità (in confronto di'Aida} col parlato, che si manifesta nelle abbastanza frequenti ripetizioni di nota. Ma del tutto diverso dal Galuppi è lo smalto lirico, fondato anche su di un’armonia differenziata ma mai dissolvente, su un trattamento orchestrale sfumato ma mai colo­ ristico e impressionistico. È sintomatica del carattere di tutto il brano la indicazione «dolcissimo», o «dolce», che compare non meno di sette volte nelle trentatre battute del canto. Verdi ha annotato un’ottava volta «dolce» nella bozza dello spartito alla parola «bocca» (alla fine della se­ conda terzina)', ma non l’ha poi introdotto nell’autografo1 2, sicché non figura nelle edizioni. Altrettanto indicativi sono i segni dinamici, che so­ lo nelle chiuse delle due terzine prevedono un’intensificazione rispetto al pp, ppp o pppp del brano. Barblan3 segnala aggiunte di questo tipo che figurano nella bozza di stampa dello spartito ma non nell’autografo4 e nelle edizioni: per esempio, all’inizio del terzo verso «attaccando pp», all’inizio del quarto «dim. dolce», all’inizio del settimo e ottavo «sotto voce». Canto d’amore è cosa ovvia e scontata in un’opera. Ma in questo so­ netto, come in tutti gli altri episodi amorosi di Fenton e Nannetta, Verdi ha eluso ogni convenzione. L’intenzione che lo guidò risulta dal grande taglio apportato a cose fatte nel secondo finale5. Palesemente il canto dei due amanti rammentava ancora troppo i modelli passati, tale il duetto di Rodolfo e Federica nel primo atto della Luisa Miller (1849), come si può vedere dall’esempio 7 a pagina seguente. 1 barblan, Un prezioso spartito cit., p. 33. 2 Facsimile, c. 314?-. 3 barblan, Un prezioso spartito cit., p. 24. 4 Facsimile, cc. 31112 e 31212. La partitura autografa (c. 31212) contiene addirittura per il sistema superiore nella prima battuta in Mi maggiore un ppppp per l’arpa, che non fu assunto nelle edizioni. 5 Cfr. HANS gàl, A Deleted Episode in Verdi's «Falstaff», in «The Music Review», 11, 1941, pp. 266-72; cfr. anche barblan, Un prezioso spartito cit., pp. 16-18: ma comunque sia la versione originaria non è «oggi ravvisabile soltanto nella bozza di stampa» {ibid., p. 16), bensì anche conser­ vata nella prima edizione dello spartito italiano (Ricordi, numero editdriale 96000), alle pp. 272-88.

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Con tutto ciò l’inchiesta intorno al senso di questo brano eccezionale non è ancora soddisfacentemente compiuta. Che a Boito librettista im­ portasse poco procurare un assolo al tenore, s’è visto. A Verdi l’abbozzo dell’intiero terzo atto era dapprima parso freddino più tardi non avrà più rinunciato al sonetto proprio per contrastare quell’impressione. Ma il cantante previsto, Edoardo Garbin, gli pareva inadeguato, e, poche settimane avanti la «prima» (21 dicembre 1892), scrive irritato da Ge­ nova: «... sono impensierito pel Sonetto; non perché m’importi molto del pezzo del quale à la rigueur si potrebbe, anche come azione, far sen­ za; ma perché quello squarcio mi dà un colore nuovo nel componimento musicale, e completa il carattere di Fenton...»12. Conferma, anche da un punto di vista drammaturgico, l’indifferenza di Boito per quell’« inser­ to»; e d’altra parte il brano (e la sua appropriata esecuzione) gli importa per il suo nuovo colore musicale. In una prospettiva puramente orche­ strale, questo colore si rivela tra l’altro, s’è detto, nell’impiego dell’arpa. Ma riesce diffìcile intendere questò accenno a un colore nuovo, differente (e integrativo del carattere di Fenton), che riscaldi tutto l’atto, solo nel senso dell’economia musical-drammaturgica. L’intensità del brano fa pensare che sia qui confluito qualcosa che stava a cuore a Verdi, e che, se mai, proprio in questo solo punto dell’opera egli poteva esprimere. È allettante ripensare a un vago progetto compositivo di Verdi che dal Falstaff fu poi soppiantato. Ne siamo informati molto indirettamen ­ te, tramite un anonimo X. Y.3, «che bene o male h(a) vissuto sempre d’arte e per l’arte»4. Alla fine del suo articolo l’anonimo, che evidente­ 1 Lettera a Boito, del 6 luglio 1889, in abbiati, Giuseppe Verdi cit., vol. IV, pp. 383 sg. 2 Ibid., p. 4693 x. Y., Manzoni e Verdi, in «La Lettura» (foglio letterario del «Corriere della Sera»), 1923, pp. 445-48: la presente citazione è a p. 4454 È suo lo «scampanio» per pianoforte nell’ultima colonna dell’articolo (p. 448)?

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mente conobbe bene Boito, fa «una rivelazione che riuscirà una sor­ presa...» Durante una delle frequenti visite che Arrigo Boito fece a Verdi nella sua villa di Sant’Agata... Boito, sapendo che un vecchio sogno del Maestro era di scrivere, se mai, un’opera comica, insisteva sul Falstaff... E Verdi confessò, si, che gli sarebbe piaciuto finir la sua carriera come l’aveva cominciata: con un’o­ pera buffa; ma gli confessò che un altro sogno ben piu caro, ben più bello, fol­ gorante, anch’esso ispirato dal candido Manzoni1 2, fu l’assillo e il cilicio della sua vita; ed egli lo dovette abbandonare, non cessando mai e mai (sono proprio di Verdi i due mai e ben posandovi su la voce, mi faceva notar Boito)' di rievo­ carlo e amaramente rimpiangerlo... Una pausa seguì fra i due maestri. Era il vespero e già il paesaggio s’annerava - l’ombre s’allungavano, l’ombre s’allargavano, s’addensavano fiottanti come fantasmi al vento -. Il silenzio dei due maestri faceva sentire più profondo quello dell’ora e del luogo e faceva sembrare più cupa la penombra, più triste la solitudine. E... fu allora che dalle remote lontananze giunse vago, intermittente il rintocco d’una campana che suonava l’Avemmaria. Verdi parve scuotersi e guardò Boito con occhio fosfo­ rescente e si lasciò andare alla confessione che quel sogno caro, bello, folgo­ rante, cui gli aveva accennato: era un grande poema sinfonico, La notte del­ l’innominato quale appunto la descrive Manzoni nei Promessi Sposi; sfondo e cornice le campane, l’aurora, il baccanale campestre, ecc., finale il trionfo della Fede dopo il colloquio Cardinale-Innominato. Quell’uragano psicologico che si scatena nell’animo dell’innominato, dopo il rapimento di Lucia e dopo la di lei supplicazione, il turbine di pensieri, di propositi, cozzanti, fuggenti, il suicidio, la morte, eppoi... quell’aurora, quelle campane... E qui (mi disse Boito) Verdi si mise a recitar a memoria il brano del Manzoni: «Ed ecco, appunto sull’albeggiare, pochi minuti3 dopo che Lucia s’era ad­ dormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva un non so che di festante...» Poi il Maestro, restò muto, immoto, con quel suo occhio verdastro-fosforescente, fisso, quasi ipnotizzato...

Anche se decurtiamo questo resoconto di tutti i suoi ornamenti poe­ tici, rimane il «sogno» di Verdi di comporre un poema sinfonico sulla Nolte dell"Innominato, sul pentimento e la conversione del nobile rapi­ tore dei Promessi Sposi. E rimane soprattutto l’immagine memorabile di Verdi che nella penombra serotina rècita quel passo della fine del ca­ pitolo xxi, che cosi conchiude: ...ma che pure aveva non so che d’allegro4. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l’eco del 1 2 3 4

Manzoni e Verdi cit., p. 448. L’articolo si occupa soprattutto del Requiem di Verdi. L’edizione dei Promessi Sposi da me impiegata dà «momenti». Così nell’edizione che ho sott’occhio.

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Wolfgang Osthofi monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di li a poco, sente un altro scampanio più vicino, anche quello a festa; poi un altro. - Che allegria c’è? cos’hanno di bello tutti costoro? - Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, al­ tra che usciva dalle case, e s’avviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un’alacrità straordinaria. ... Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungen­ do chi gli era avanti, s’accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s’univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio conve­ nuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più, quali meno vicine, pareva, per dir cosi, la voce di que’ gesti, e il supplimento delle pa­ role che non potevano arrivar lassù. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa.

Secondo il resoconto dell’anonimo, campane, aurora e festa campe­ stre avrebbero procurato lo sfondo e la cornice del poema sinfonico so­ gnato da Verdi: il respiro della natura, e il suono che la pervade e mani­ festa la gioia della comunità umana. L’avvenimento centrale è la meta­ morfosi dell’innominato che sente il suono delle campane, vede la gioia degli uomini. È come se spirasse qui un’aura parente di quella dei nostri due sonetti di Shakespeare e di quello del Boito. All’Innominato, prima del passo recitato da Verdi, «venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte». Ma poi: «Musick to heare, why hear’st thou musick sadly?» (sonetto 8). Come in Shakespeare cosi in Manzoni e in Boito-Verdi non si tratta af­ fatto di un indefinito intenerimento, di una soffusa distensione dell’ani­ mo provocata dalla musica: è piuttosto «the true concord of well tuned sounds, | By unions married» (sonetto 8), il «concento» manzoniano di varie sonorità, l’«accordo arcano» che, oltre a simboleggiare un’umana unificazione, nell’unione di suoni differenti produce esso stesso armonia. Nell’unificazione armonica del disparato mediante la musica risiede il si­ gnificato che concordemente Shakespeare, Manzoni e Verdi-Boito qui condividono. Fa parte della fusione sonora l’«eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento» (Manzoni), come l’«altro lab­ bro umano» che al canto iniziale «risponde colla sua parola». Questa eco — che genera qualcosa come il «wiry concord that mine eare con­ founds» (sonetto 128) - «si confondeva» (Manzoni) nella consonanza delle campane, e, come la «nota», «come altra voce al suo fonte rivola». Questo movimento va e viene, giacché la nota «tende sempre ad unir

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chilo disuna», che si tratti d’«un altro scampanio» (Manzoni) o d’«un altro labbro» pel quale «My lips, two blushing pilgrims, ready stand» (Romeo), Sempre si tratta del superamento della «singlenesse» (sonet­ to 8), finché il singolo «non è più sol(o)», sia quando esso «ritrova un altro labbro», sia quando «uno, raggiungendo chi gli era avanti, s’ac­ compagnava con lui; un altro... s’univa col primo... e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto» (Manzoni). In questa riunione «joy delights in joy» (sonetto 8), e sorge «una gioia comune» (Manzoni). Il singolare «vibra di gioia in un accordo arcano», così come nasce la vi­ brazione, «how one string, sweet husband to an other, | Strikes each in each by mutuali ordering» (sonetto 8). Che le corde, «Resembling si er, and child, and happy mother... all in one, one pleasing note do sing» (sonetto 8), appare non meno inspiegabile di quello che «potesse comu­ nicare un trasporto uguale a tanta gente diversa» (Manzoni): poiché l’«accordo» arcano è. Il «concord» doppiamente «confounds» (sonet­ to 128) l’orecchio, lo rallegra e lo confonde a un tempo. Questa lettura concentrica di Shakespeare, Manzoni e Boito-Verdi si potrà intendere soltanto come una stimolante associazione d’immagini, o la si potrà prendere per reale: rapporti ultracasuali di tal fatta non si lasciano né dimostrare né negare. Quantomeno nel «sogno» di quel poe­ ma sinfonico che Verdi vagheggiava prima della composizione del Fal­ staff pare accolto qualcosa della non descrivibile poesia che il sonetto dell’opera tramutò in realtà. Nei «silenzi notturni» percorsi a volo dal «canto estasiato» di Fenton parrebbe di risentire qualcosa di quel «si­ lenzio dei due maestri» che «faceva sentire più profondo quello dell’ora e del luogo», come riferisce l’anonimo. Verdi ha modestamente qualifi­ cato la poesia del sonetto come «un colore nuovo nel componimento mu­ sicale». Anche nella fattispecie del «colore» potremmo pensare al brano manzoniano. A vero dire l’«aer antelucano» del sonetto, colorito da Verdi con evidenza e delicatezza mediante il tremolo in Mi maggiore del flauto1, contraddice di un tantino all’indicazione scenica, «Notte». Ci pare di essere temporaneamente calati nel «chiarore che pure andava a poco a poco crescendo» (Manzoni), come l’innominato nel momento che il «concento» delle campane tocca il suo orecchio. Non è senza interesse in tal senso constatare che Verdi espressamente abbia prescritto un poco di luce sulla scena per la canzone di Fenton, come risulta da una lettera del gennaio 1893 : «Domando solo un po’ di luce nel Sonetto»1 2. 1 I flauti in Mi maggiore per «aer» si situano in un contesto tradizionale di lunga ascendenza, e a Verdi ben noto: cfr. il mio Musikalische Ziige der Gilda in Verdis Rigoletto, in Verdi, Bollet­ tino dell’istituto di studi verdiani, vol. Ili, n. 8, Parma 1973, pp. 956*62. 2 abbiati, Giuseppe Verdi cit., vol. IV, p. 471.

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La descrizione shakespeariana dell’armonia nell’ottavo sonetto si fon­ da su dati concreti dell’acustica naturale: «Marke how one string, sweet husband to an other, | Strikes each in each by mutuali ordering». La rispettiva corda simpatica (la corda «coniuge», nell’immagine di Shake­ speare) vibra insieme a quella che è stata percossa: «Vibra di gioia in un accordo arcano». Nella consonanza naturale dei suoni armonici risuo­ na e si rispecchia quell’umanità cui è rivolto l’appello: «... the parts that thou should’st beare» (sonetto 8). Un tale ritorno alla originarietà natu­ rale, ossia — nel tardivo stadio della storia musicale cui il Falstaff appar­ tiene — una tale limitazione all’elementarietà stessa della musica, si ri­ trova anche nell’introduzione verdiana al sonetto di Fenton, e merita particolare menzione nel presente contesto. Quest’ultimo quadro del­ l’opera, nel parco di Windsor, è introdotto dagli «appelli lontani dei guardiaboschi», e senz’altro l’impiego verdiano del corno in La bemolle basso senza chiavi intende essere innanzitutto realistica rappresentazio­ ne. Un secondo significato sta forse in un’allusione ai corni del «caccia­ tore nero» Herne, o Horne ‘, cioè al travestimento di Falstaff e alla quer­ cia dell’appuntamento notturno. Però, in una terza sfera di significa­ zioni, la limitazione ai suoni naturali del corno senza pistoni eloquente­ mente si collega alle vibrazioni armoniche di melodia ed eco, di canto e bacio dei labbri che si ricercano e ritrovano nella natura notturna. Che Verdi tenesse assai all’impiego di un corno naturale risulta dalla lettera del 18 settembre 1892 a Giulio Ricordi: «... ed abbisogna anche un Cor­ no da caccia: vero Corno da caccia antico, senza chiavi, piantato in La bemolle basso»12. Che poi il vecchio Verdi, oltre ad utilizzare gli ottoni senza pistoni né chiavi come realistici requisiti scenici, attribuisse loro precisi significati musicali, risulta chiaro per altro verso dalle trombe che annunziano gli ambasciatori veneziani nel terz’atto di Otello-. per simul­ taneamente annunziare la imminente esplosione della catastrofe, Verdi impiega il settimo suono naturale, palesemente cosciente della sua impu­ rità d’intonazione negli strumenti naturali3. Forse, a proposito dell’impiego del corno naturale nel Falstaff è le­ cito pensare ancora una volta alla naturalità sonora (diremmo) che per­ vade la Notte dell’innominato. Nel Manzoni «uno scampanare a festa lontano», nel Falstaff un corno che risuona dall’«interno molto lonta­ no». Nella leggenda di Herne, il «cacciatore nero», alla fine del quadro 1 The Merry Wives of Windsor, atto IV; Falstaff, partitura, pp. 327 sgg. 2 I copialettere cit., p. 382. 3 Lo stimolo a quest’impiego della settima, ma senza il conseguente e consapevole effetto di suono armonico, gli venne forse dal «Tuba mirum» del Requiem di Berlioz e dal passo corrispon­ dente del suo proprio Requiem, da Berlioz influenzato.

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precedente, Verdi pare aver realmente utilizzato le note basse del corno per connotare le campane della mezzanotte: nel secondo, terzo e quarto corno risuona per quattro volte il La contrabbasso (reale), nel punto ove Alice riprende e svolge il racconto di Quickly: «Quando il rintocco della mezzanotte | Cupo si sparge nel silente orror...» Anche questa ripresa a mo’ d'eco, non meno della magica illuminazione sonora del Fa ripetuto dodici volte dalla vera campana della mezzanotte nell’ultimo quadro del­ l’opera, rievoca l’unificatrice armonia della pagina manzoniana che Verdi sognava di musicare. Proprio se si guardi al sonetto di Fenton in tutti i contesti e le con­ cordanze qui accennate apparirà chiaro il modesto valore esplicativo del­ l’indagine biografica e della cronaca nelle vicende creative d’un’opera. L’esigenza di assegnare al tenore un assolo sarà stata non la causa che originò il sonetto, ma tutt’al più la sua occasione. Che Boito poco prima del Falstaff traducesse per la sua amica Romeo and Juliet e si imbattesse dunque nel soggetto del bacio e nella forma, ad esso collegata, del so­ netto, è un caso avventurato ma non basta a spiegarne l’inserzione nel­ l’opera. Che Verdi alla stessa epoca leggesse il Goldoni poteva tutt’al più contribuire a fargli consapevolmente riflettere su una tradizione che egli comunque nel profondo condivideva. Solo il rapporto tra il sonetto del Romeo y stimolo al Boito, e i sonetti «musicali» di Shakespeare apre la strada verso il centro ideale di quest’episodio del Falstaff. Le parole di Verdi sul «colore» nuovo e sul completamento del carattere del perso­ naggio Fenton sono invece soltanto sintomi periferici. Lo stesso rappor­ to col progetto compositivo legato ai Promessi Sposi - al quale io credo resta mero aneddoto fin che non si riconosca la struttura interiore del passo manzoniano e la sua parallelità col sonetto di Fenton (e i sonetti shakespeariani). L’immagine commovente del vecchio Verdi che com­ pleta e chiude la propria opera creativa con serena saggezza, o che ap­ profondisce la propria giovanile passione manzoniana1 e ancora la cele­ bra dopo il Requiem, ce ne precluderebbe addirittura la comprensione, se ci fermassimo qui. Infatti, al di là di tutto questo, e della nostra giu­ sta commozione, il sonetto di Fenton fa risuonare quell’idea dell’armo­ nia che concretamente sottende l’intiero millennio della musica polifo­ nica europea: la concordanza delle voci in un «concentri concorditer dis­ sono», come dice la Musica Enchiriadis alla fine del ix secolo1 2, il «rim­ 1 II 24 maggio 1867 Verdi scriveva a Clarina Maffei, a proposito dei Promessi Sposi: «Io ave­ va sedici anni quando lo lessi per la prima volta... ma per quel libro il mio entusiasmo dura ancora eguale; anzi, conoscendo meglio gli uomini, si è fatto maggiore...» (Carteggi verdiani cit., vol. IV, p. 176). 2 martin gerbert, Scriptores Ecclesiastici De Musica Sacra Potissimum... Collecti, vol. I, St. Blasien 1784 (rist. Hildesheim 1963), p. 165.

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bombo non accordato ma consentaneo», come la chiama il Manzoni. Alla fine dell’Ottocento la musica di Verdi per i versi shakespeariani di Boito incarna un’ultima volta quest’aspetto, e ne celebra a un tempo il signi­ ficato ultramusicale. Per comprovarne la singolarità basta un’occhiata al suo grande anta­ gonista, Richard Wagner. Wagner, concependo la musica — sotto il segno di Schopenhauer — come «un’idea del mondo che rappresenta senza me­ diazioni la propria essenza», accenna nel suo Beethoven del 18701 agli stessi fenomeni, alle stesse immagini di Shakespeare, Manzoni e BoitoVerdi. La «volontà», collegata immediatamente all’«intimo della natu­ ra» 12, per Wagner raggiunge «il mondo esteriore mediante la manifesta­ zione del suono. Essa chiama, e nel richiamo che le fa eco si riconosce: chiamare ed essere richiamata è un giuoco con se stessa, che la consola e finalmente la rapisce»3. L’esperienza dei suoni e delle note che si ri­ chiamano e confondono a vicenda — gridi di gondolieri veneziani, o ma­ gari di alpigiani d’Uri -4 sommerge addirittura, per Wagner, il mondo reale e visibile, e solleva l’uomo in quella condizione sognante «ove per­ cepisce attraverso l’udito quel che la vista gli dissimulava in un’illusione sbadatamente dispersiva: essere la sua piu intima essenza tutt’uno con l’intima essenza di ogni cosa percepita, e soltanto in questa percezione rivelarsi veramente l’essenza di quel che appartiene al mondo esterio­ re»s. Cosi, secondo Wagner, il musicista «come per miracolo disinnesca dalle nostre facoltà percettive ogni percezione che non sia quella del no­ stro mondo interiore»6. La concezione musicale di Wagner è indirizzata verso l’interiorità dell’io; l’armonia tende ad esser conosciuta passivamente dall’individuo; in essa trovano quiete, morte, estrema identità certe figure del suo tea­ tro, Isolde, Briinhilde. L’armonia dei suoni, in Wagner, non appartiene allo spazio né al tempo. Il sonetto verdiano rappresenta invece l’armonia come un processo che nel tempo e nello spazio si compie. Vi è affermata l’alterità, la diversità, la «dissonantia» del reale, e però il suono aspira 1 Richard wagner, Gesamnielte Scbriften und Dichtungen, vol. IX, 4a ed. 1907, p. 72: «... eine Idee der Welt, in welche diese ihr Wesen unmittelbar darstellt...» 2 Ibid., p. 67: « ... zum Innern der Natur...» 3 Ibid., pp. 73-74: «...schafft sich der Wille [...] ein zweites Mitteilungsorgan, welches [...] die [...] Aussenwelt dutch einzig unmittelbar sympathische Kundgebung des Tones berùhrt. Er ruft; und an dem Gegenruf erkennt er sich auch wieder: so wird ihm Ruf und Gegenruf ein tròstendes, endlich ein entziickendes Spiel mit sich selbst». 4 Ibid., p. 74. 5 Ibid., pp. 74-75: «...in welchem er durch das Gehòr das wahrnimmt, woriiber ihn sein Sehen in der Tauschung der Zerstreutheit erhielt, namlich dass sein innerstes Wesen mit dem innersten Wesen alles jenes Wahrgenommenen Eines ist, und dass nur in dieser Wahrnehmung auch das Wesen der Dinge ausser ihm wirklich erkannt wird». 6 Ibid., p. 75: «... dass er es [unser Wahrnehmungsvermògen] fùr jede andere Wahrnehmung, als die unserer eigenen inneren Welt, wie durch Zauber, ausser Kraft setzt».

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attivamente a unificare («unir») la duplicità che genera l’accordo e al tempo stesso lo scinde («disuna»). Il paradosso del «concentus concorditer dissonus» guida al ritrovamento dell’identità nella collettività: «thou single wilt prove none». La musica del sonetto di Verdi non si estingue nel mondo interiore dell’io, essa sfocia semmai sull’« altro lab­ bro» dell’innamorata, donde conduce poi verso una riconciliata comu­ nanza. Non è dunque un inserto episodico, e appartiene di diritto al ge­ nere drammatico che di questa comunanza è il veicolo, alla commedia. Come in Wagner, l’armonia vi si manifesta in una visione ultramusicale: ma, diversamente, in Verdi essa si rivolge al mondo reale e ne simbolizza la norma etica, anzi l’incarna. [Traduzione di Lorenzo Bianconi].

parte seconda

Da Rossini a Puccini

FERRUCCIO TAMMARO

Ambivalenza dell’Otello rossiniano

i.

Si sa che Shakespeare trovò nella musica dell’ottocento romantico ampia e feconda risonanza. Ma che dire di quei lavori che, pur in rela­ zione con Shakespeare, hanno poco o nulla che fare col romanticismo? Lasciamo pure da parte gli Amieti di Domenico Scarlatti e di Gasparini, il cui testo dell’Apostolo Zeno è stato tratto direttamente dalla matrice •originaria di Saxo Grammaticus, lasciamo pure il Romeo e Giulietta dello Zingarelli, cosi come le musiche di scena (dubbie) di Haydn per Amleto e King Lear, ma che dire dell’Otello di Rossini? Può quest’opera essere intesa, se non come testo romantico, almeno come una produzione da Sturm und Drang, ovviamente da Sturm und Drang «all’italiana», ammettendo il principio del naturale ritardo della musica sulle altre for­ me artistiche? È infatti proprio lo Sturm und Drang di Goethe, di Biirger, di Schiller che avverti e diffuse l’interesse per il drammaturgo in­ glese: il discorso Zum Shakespeare Tag di Goethe è addirittura ritenuto uno dei manifesti dello Sturm und Drang medesimo. D’altra parte i pro­ fili critici tracciati su Rossini quale musicista «classico», «ancien re­ gime» o «della restaurazione» inducono ancora una volta ad andare cauti con le classificazioni fini a se stesse e quindi inutili. Lasciamo dunque per il momento aperto il problema ed esaminiamo da vicino questo lavo­ ro rossiniano che ha molti requisiti per essere considerato una parola importante nella storia del melodramma italiano. A dire il vero tutti i problemi critici dell’opera sembrano subito sva­ nire nel nulla quando si venga a conoscenza del libretto creato dal mar­ chese Francesco Berio di Salsa, il nobiluonlo napoletano noto soprattut­ to per il suo cenacolo e per le sue «conversazioni» letterarie. Malgrado l’ammirazione di lady Morgan («The marchese Berio is a nobleman of wealth, high rank and of very considerable literary talent and acquire­ ment...»)1, il libretto che egli forni a Rossini è, come si sa, uno dei piu 1 s. Morgan, Italy, London 1821, cit. in P- 67.

h.

Weinstock, Rossini: a biography, New York 1968,

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brutti di quelli con cui il musicista si trovò a lavorare, forse anche più scadente dell’altro che il nostro dilettante poeta forni in seguito, sempre a Rossini, per il Ricciardo e Zoraide. «Le dernier des hommes comme poète» lo qualificò Stendhal, aggiungendo: «aussi aimable comme homme de société qu’il était prive de talents comme poète» *. È anzi curioso che ogni pagina dello scrittore francese Otello rossiniano possegga immancabilmente uno sfogo contro il librettista; in Rome, Naples et Flo­ rence: «Il fallait bien de savoir faire à l’auteur du libretto pour rendre insipide à ce point la tragèdie la plus passionnée de tous les théàtres»1 2; e in Notes d’un dilettante: «Quel dommage que le libretto soit écrit avec tant de sottise! A chaque instant les personnes qui ont le malheur de savoir l’italien, au lieu d’etre émues par l’accent avec lequel les paroles sont chantées, se trouvent indignées des énormes platitudes que le faiseur du libretto a mis dans la bouche d’Othello et des autres personnages»3. Si tratta effettivamente di un libretto in cui non traspare neanche il mestiere (che Berio non possedeva) né si avverte il ricordo di Shake­ speare; basti pensare al fatto che manca la figura chiave di Cassio e che la vicenda è ridotta ad una convenzionale passione da salotto aristocra­ tico, ad una specie di triangolo amoroso con un pretendente alla mano di Desdemona (Rodrigo) che fa ingelosire Otello. «They have been cru­ cifying Othello into an opera», esclamava scandalizzato un altro uomo di lettere, Byron, e continuava: «as for the words, all the real scenes with Jago cut out, and the greatest nonsense inserted; the handkerchief tur­ ned into a billet doux... »4. In realtà siamo lontani da Shakespeare non solo perché il «pannicello da naso» è stato sostituito da un biglietto galante e da una ciocca di ca­ pelli o perché Otello pugnala e non soffoca la moglie, quanto soprat­ tutto perché vi manca il sottile filare della perfidia di Jago che lenta­ mente avvolge Otello e Desdemona nella sua ragnatela: in Berio il «vil­ lain» si limita a favorire una duplice incomprensione e cosi, se in Shake­ speare abbiamo alla fine l’impressione che ineluttabile è la tragedia degli sposi, dal momento che cosi sottile e concatenata è stata la di lui azione disgregatrice, in Berio abbiamo invece la sensazione che tutto il dramma di pseudoincomunicabilità e di incomprensione potrebbe essere messo a posto da due brevi ma chiare parole. Il vago ricordo di una struttura 1 stendhal, Vìe de Rossini, Paris 1929, cap. xix, pp. 314 e 321. 2 id., Rome, Naples et Florence, in data 17 marzo 1817, Paris 1973, p. 327. 3 id., Notes d’un dilettante, in data 22 settembre 1826 sul «Journal de Paris». 4 A Samuel Rogers in data 3 marzo 1818, cit. in Aus Moscheles’ Leben, hrsg. von seiner Frau, Leipzig 1873, p. 309.

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drammatica simile a quella che ritroviamo nella Zaire di Voltaire ci sem­ bra del tutto casuale. D’altra parte cercare di giustificare la traballante impalcatura del li­ bretto pensando che Berio, in uno slancio di patriottismo letterario, si sia direttamente rifatto alla novella del Cinzie Giraldi ci sembra quanto mai azzardato: vero è infatti che anche neXVHecatommithi dello scritto­ re italiano l’« Alfiero» Jago è una figura molto più sbiadita che in Shake­ speare (la privazione del grado a Cassio è una pura casualità della qua­ le Jago approfitta in modo fortunato, cosi come il fare leva sull’intercessione di Desdemona per far ingelosire Otello è addirittura involontaria­ mente suggerito a Jago da Otello stesso), tuttavia nel Giraldi è pur sem­ pre presente quella tensione di menzogne e calunnie che in Berio nean­ che lontanamente appare. Se mai, possiamo supporre con buona certezza che il librettista nella sua stesura abbia piuttosto tenuto presente la riela­ borazione che della tragedia shakespeariana aveva fatto nel 1792 Jean Francois Ducis: in quest’ultima infatti la fanciulla Hédelmone viene co­ stretta a firmare inconsapevolmente una dichiarazione in cui accetta di sposare, anche se controvoglia, Lorédan, il favorito del padre; a costui la donna, pur ricusando la mano, dona tuttavia la dichiarazione ed anche una sua coroncina di diamanti in segno di fiducia e come pegno affinché il ricco innamorato aiuti il padre di lei caduto in indigenza. In seguito l’amico di Otello Pézare (alias Jago) trova sul corpo di Lorédan, da lui ucciso in duello, i due compromettenti indizi e scatena cosi il dramma. Se diamo ascolto a quel ritratto biografico che Stendhal pubblicò sul «Paris Monthly Review», tradotto poi sulla «Gazzetta di Milano», ap­ prendiamo che Rossini «promosse molti ostacoli contro il dramma di Otello, ma l’Autore, il Marchese Berio, disse francamente che Shake­ speare era un barbaro e che bisognava correggerlo» \ Non abbiamo nes­ suna conferma di questo atteggiamento e potremmo anche credere la notizia introdotta da Stendhal solo per giustificare una ennesima frec­ ciata contro l’esecrato librettista. Rossini era in fondo già abituato a la­ vorare su scadenti libretti e non dovette preoccuparsi molto del testo, dal momento che le esigenze essenziali di alcune tradizionali situazioni emotive erano pur sempre rispettate; d’altra parte il tempo di Wagner e di Verdi doveva ancora venire. Il lavoro vide cosi la luce a Napoli alla fine di quell’anno 1816 («pri­ ma» il 4 dicembre al Teatro del Fondo in attesa che il San Carlo, distrut­ to da un incendio, fosse ricostruito) comunemente additato come l’anno 1 Cit. in l. rognoni, Rossini, Torino 1968, p. 298.

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del Barbiere', un anno certo importante per l’opera buffa e tuttavia, co­ me cercheremo di mettere in luce, anche per l’opera seria, grazie proprio Otello. Fu un anno di discreti impegni per il ventiquattrenne musici­ sta: dopo la burrasca in febbraio del Barbiere, in aprile Rossini aveva dovuto soggiacere all’antiquato gusto della cantata Le nozze di Leti e Peleo, aveva poi curato la «prima» napoletana del Tancredi, in settem­ bre infine aveva presentato La gazzetta; inoltre in questo stesso periodo doveva aver verosimilmente steso nella versione definitiva le musiche di scena per VEdipo a Colono. Fu a quanto sembra l’abile Barbaja, quel­ l’uomo di «ignoranza mitica» per il Rovani1, ad avere il fiuto di «piaz­ zare sul mercato», in un’epoca in cui il dopo Waterloo favoriva la diffu­ sione della cultura inglese (in questo stesso giro di anni videro la luce VElisabetta e La donna del lago), VOtello. Anche quest’opera nacque all’insegna di quella fretta che caratterizzò la giovinezza del musicista: lo si comprende subito appena ci si accosti all’ouverture, in stile francese con immancabile crescendo, ancora una volta un collage di precedenti motivi. In questo caso si trattò anzi di una stesura in buona parte di terza mano, dal momento che l’Andante ini­ ziale è già presente nelle ouvertures sia del Turco sia del Sigismondo. Del resto lo stesso Rossini, se vogliamo prestare fede a quella famosa per quanto dubbia lettera riguardante la fretta con cui scriveva proprio le ouvertures, ci conferma: «Ho composto l’ouverture delVO tetto in una cameretta del Palazzo Barbaja, ove il più calvo e feroce dei direttori mi aveva rinchiuso per forza, senz’altra cosa che un piatto di maccheroni e con la minaccia di non poter lasciar la camera, vita durante, finché non avessi scritto l’ultima nota»1 2. Le varianti rispetto al Turco ed al Sigismondo sono effettivamente minime: la melodia dell’Andante è affidata all’oboe anziché al corno, co­ me è invece nel Turco, e nell’Allegro vivace solo il secondo tema si diffe­ renzia da quello usato nel Sigismondo. In breve si tratta di una ouver­ ture dalla struttura assai semplice e di carattere poco impegnativo, con in evidenza soprattutto il pungente e brioso tema dell’Allegro vivace: se prescindiamo cosi da un fugace momento in cui questo tema, sfociando in un severo turbine di scale, si accende di alcuni bagliori drammatici, l’ouverture de\P Otello non può certo offrire un’idea delle aspre vicende a cui si assisterà. Al proposito Stendhal aveva annotato nel suo Rome, Naples et Florence: «L’ouverture est d’une fraìcheur étonnante, délicieuse, facile à comprendre et entraìnante pour les ignorants, sans avoir 1 Cento anni, Milano 18.59, libro XIX, cap. xiv, vol. V, p. 1.50. 2 rognoni, Rossini cit., p. 273-

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rien de commini»1, Ma nel suo già citato articolo giornalistico aggiun­ geva polemicamente: «Del resto si conosce dalla festevol sinfonia come il Maestro fosse animato dallo spirito tragico del dramma». A questo la decisa e attenta Righetti-Giorgi ribatteva sullo stesso giornale: «In genere tutte le sinfonie [di Rossini] spiegano molta vivacità e vaghezza. Pretende taluno che le sinfonie debbano per fine essere il riassunto del­ l’opera, mentre altri sostengono che nulla avendo a che fare colle mede­ sime, il loro andamento e la loro composizione possono essere liberi e liberissimi. L’opera dell’O/eZZo ha un ingresso festevole: Otello indi si presenta con una cavatina lietissima. Il Maestro si attenne nel comporre la Sinfonia di questo dramma all’idea che da questi primi pezzi gli furon suscitate. Questo non è errore»12. Il fatto che l’ouverture in questione non fosse stata espressamente composta ex novo per V Otello basterebbe a tacitare subito la polemica: tuttavia bisogna convenire che la cantante coglieva un poco nel segno con l’osservare che l’ouverture rossiniana poteva e può essere considerata non certo come ideale riassunto o com­ mento dell’opera e della sua Stimmung, ma come un vero e proprio av­ venimento particolare, inserito nel naturale corso degli eventi. In ogni modo è interessante notare che la polemica si accendeva proprio attorno edV Otello e che proprio nei riguardi dell’O/eZZo la Righetti-Giorgi sentiva in qualche modo l’esigenza di giustificare Rossini, segno che quest’ope­ ra in particolare, più di altri precedenti lavori, mette in evidenza la ne­ cessità, già romantica, di legare in stretta consequenzialità sinfonia d’a­ pertura e indole generale dell’opera: la problematica si acuisce cioè pro­ prio attorno all’O/eZZo innanzitutto perché, ci sembra, esso è uno dei pri­ mi drammi italiani e rossiniani a contraddire la classica necessità del «lieto fine»; se infatti per altri lavori seri, come Tancredi, Elisabetta o La gazza ladra, la giocondità delPouverture può in fondo essere spiegata, se non con le ragioni addotte dalla Righetti-Giorgi, almeno dal fatto che la morale della vicenda, per quanto drammatica, è pur sempre un «tutto è bene quel che finisce bene», per VOtello ciò non si può più dire. L’esu­ berante e lieto accavallarsi dei motivi nelle ouvertures dell’opera buffa rispecchia in sostanza il medesimo divertito accavallarsi di situazioni buf­ fe della vicenda; ma per l’opera seria la discordanza dell’ouverture col soggetto viene avvertita sempre più come una stonatura, sintomo di quel clima di transizione dall’astrattismo illuminista al melodramma ottocen­ tesco, per di più proprio su quel terreno che per tutto il Settecento era 1 Rome, Naples et Florence cit., p. .527, in data 17 marzo 1817. 2 rognoni, Rossini cit., p. 298.

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stato essenzialmente coltivato con l’opera buffa. Poco prima dell’Otello un’ouverture da dramma serio, per l’Aureliano e YElisabetta, poteva trahquillamente traslocare nell’opera buffa del Barbiere} e così la «Sinfo­ nia concertata a più strumenti obbligati» poteva essere annessa sia ad una farsa cóme La cambiale sia ad un dramma come l’Adelaide, proprio come cent’anni prima, quando Bach e Picander operavano le loro «parodie». Ma con YOtello questa disinvolta intercambiabilità dei temi viene a per­ dere ormai molte sue giustificazioni, dal momento che si trova di fronte ad una vicenda dotata, rispetto ad altre, di contrasti e passioni capaci di turbare più incisivamente ogni temperato equilibrio settecentesco. An­ che dopo YOtello Rossini non rinuncerà certo definitivamente, nei con­ fronti delle ouvertures, a questo tipico distacco oggettivo che gli valse l’appellativo di «ultimo dei classici» e ricorrerà ancora a dei veri potspourris musicali. Tuttavia, malgrado ciò, dopo l’ouverture AeW Otello, Rossini perseguirà con maggiore attenzione anche quella ricerca di più stretta compenetrazione tra sinfonia e trama: già il Torwaldo e poi il Ricciardo e La donna del lago, con la loro ouverture trasformata in pre­ ludio, YEmione, con il suo coro a sipario calato, il Mosè, per giungere poi sino al Teli, sono infatti chiare tappe verso una concezione più ro­ mantica dell’orchestra e del teatro.

2.

Per quanto riguarda le voci, Rossini, probabilmente anche per le so­ lite ragioni di cassetta e di favori, complice l’imperizia del Berio, noil evitò palesi squilibri, dal momento che Otello, Jago e Rodrigo sono tutti tenori, quasi che fossero tre pretendenti ad armi pari alla mano di Desde­ mona: in fondo questo livellamento potrebbe essere anche vero, nel sen­ so che l’equiparazione dei tre principali protagonisti maschili potrebbe rappresentare l’impossibilità di tutti e tre a stabilire un vero rapporto positivo con Desdemona. Sta tuttavia di fatto che il personaggio «tito­ lare» dell’opera non ha, come vedremo meglio in seguito, quella capa­ cità accentratrice e quel rilievo che in piena epoca romantica avrebbe senz’altro posseduto. D’altra parte neanche Jago, proprio come il bieco Norfolk delYElisabetta, non è distanziato con la sua voce dagli altri per­ sonaggi in modo da spiccare in qualche modo come «genio del male», artefice dell’azione. Inoltre pure tenori sono il Doge, il gondoliere e l’a­ mico di Otello, Lucio: figura quest’ultima del tutto inutile che forse vor­ rebbe ripetere il Ludovico o il Gradano di Shakespeare ma che avrebbe

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potuto essere tranquillamente sostituita da Emilia, come del resto è in Shakespeare, almeno per la scena della rivelazione finale. L’unico basso è dunque Elmiro Barberigo (il Brabantio delTOthello), il quale per di più si limita a cantare un poco solo nei concertati. Desdemona è Punico soprano (mezzosoprano è Emilia) ed invero appare, almeno nelle inten­ zioni, l’effettiva protagonista del dramma. Come il lavoro verdiano anche quello rossiniano prende le mosse dal secondo atto dell’originale, nel momento in cui Otello ritorna vincitore in patria. Ma se Boito, seguendo fedelmente Shakespeare, lascia come antefatto già accertato tutta la vicenda del matrimonio segreto fra i due protagonisti, della scoperta della loro relazione e della loro successiva autodifesa, Berio invece riprenderà l’episodio in cui gli sposi dovranno palesare la loro realtà e, come vedremo, non riuscirà ad evitare alcune incongruenze. Un’introduzione con coro d’esaltazione ci immette in Cipro festante: poco dopo udiamo una marcia di tipiche note puntate e quindi un esor­ dio del protagonista, ancora in tono Vivace marziale; tutto concorre dun­ que a creare in questo inizio, grazie anche all’ouverture, un clima milita­ resco e trionfale forse un po’ troppo insistito. D’altra parte però, pur in questa pompa ritmica, udiamo sovente un disinvolto e poco «ufficiale» pigolare di legni: non è solo il confronto, del resto esteriore e antisto­ rico, col «Dio terror della bufera» di Verdi a farci notare questo, ma è indubbio che soprattutto la marcetta ci appare invero poco eroica, nel senso in cui questo aggettivo verrà inteso in un contesto compiutamente romantico: i tratti sovente ammiccanti dei legni, soprattutto del clari­ netto fanno da cornice ad un personaggio tutt’altro che solenne né gra­ vato da una sanguigna passionalità: tuttavia, come cercheremo di chia­ rire meglio in seguito, crediamo che sarebbe un errore attribuire questi scompensi rossiniani (sintomatico il caso della «marcia degli ebrei» nel Mosè) solo all’insopprimibile mano frivola dell’operista giocoso e buffo che non può fare a meno di lasciare ovunque la sua firma, anche a scapito della serietà drammatica. Malgrado questi tratti un po’ bandistici Sten­ dhal ritiene il coro iniziale «écrit avec infinement d’esprit» e ricco «plus de grace et de légèreté que de majesté et de grandiose» \ forse perché lo confronta idealmente con l’opéra francese, dal quale ovviamente è an­ cora lontano, essendo sì compassato, ma non troppo retorico. Otello chiede di poter essere riconosciuto «figlio dell’Adria»: è il tema latente della mésalliance che si fa strada, tema che diverrà tipica­ mente romantico, ma del quale Berio non sembra preoccuparsi molto, 1 Vie de Rossini cit., cap. xix, pp. 303-6. 8

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per quanto ci voglia far capire che Otello desidera essere equiparato ai veneziani proprio per legittimare il suo legame con Desdemona («Allor sarò felice quando il coroni amor»). In coerenza con la sua comparsa, Otello intona una cavatina da tenorino leggero che non contribuisce certo a dare credibilità al tempera­ mento di un personaggio che dovrà essere capace di uccidere e di ucci­ dersi. Del resto si sa che Rossini ancora non si preoccupava di conferire col timbro della voce ai protagonisti di ogni sua opera, specialmente se­ ria, una romantica virilità ed una maschia fermezza: le tradizionali parti di contralto affidate a Tancredi, a Sigismondo, all’Enrico deWElisabetta, a Pippo della Gazza ladra o ad Arsace della Semiramide sono infatti una testimonianza, di come egli avesse, in questo caso, lo sguardo ancora ri­ volto al passato. Giustamente il Castil Blaze vede1 in questa cabaletta qualche attinenza con la parte di Ramiro della Cenerentola, giustamente perché anche quella parte, oscurata com’è dallo scambio dei ruoli con Dandini, non ha la vera forza per affermarsi: non per nulla quando quel­ lo, con la tipica funzione di deus ex machina, capovolgerà alla fine la si­ tuazione urlando in faccia a Don Magnifico, Clorinda e Tisbe «Alme vili, paventate: il mio fulmine cadrà», non si farà prendere subito sul serio, dal momento che intonerà un tema ancora giubilante e spensierato. - Stendhal nota, forse troppo sottilmente, che il recitativo d’esordio di Otello «Vincemmo, o padri», «est entremélé de teintes de tristesse dans l’accompagnement. Au moment où le chant d’Othello triomphe, l’accompagnement dit: Tu mourras». Dice questo per chiarire meglio il com­ mento che fa subito dopo seguire sulla cavatina: «Rossini s’étant une fois résigné à suivre les contre-sens du libretto, il a dù renoncer à peindre le bonheur d’Othello, et piacer des teintes de melancolie»12. In realtà questa piega melanconica dell’aria quando passa dal Vivace marziale ad un Andante in 6/8 con efficaci pizzicati d’accompagnamento giunge ben opportuna perché finalmente rompe la secchezza un po’ forzosamente militaresca che abbiamo sino ad ora udito e ci rivela, anche se quasi di sfuggita, l’aspetto di Otello innamorato. Presto la cavatina del Moro si trasforma quasi in un concertato, dal momento che al suo canto si uniscono prima il coro e poi Jago. È una scena che sarebbe stata sfruttata al massimo da un artista romantico per imbastirvi un efficace gioco prospettico di umori, dal momento che al di sotto del tripudio generale Jago serpeggia col suo livore. Rossini avverte 1 castil-blaze, L'opéra italien de 1548 à 1856, Paris 1856, p. 395. 2 Vie de Rossini cit., cap. xix, p. 305.

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si questa possibilità, ma non si abbandona completamente ad essa e si limita ad affidare ad un violoncello una significativa scala strisciante in concomitanza con le parole di Jago «T’affrena la vendetta». Da tutto quanto osservato si nota facilmente che Rossini non ha affi­ dato ad Otello una potente aria di sortita alla Radames, ma l’ha subito coinvolto nell’intreccio: del resto per tutto il corso dell’opera Otello non avrà mai un’aria esclusivamente per sé. La scena seguente ci presenta un lungo recitativo di Rodrigo prima con Elmiro poi con Jago: e qui ci troviamo di fronte al primo di quei non pochi problemi sul perché Berio abbia arbitrariamente costruito cer­ te scene e certe situazioni completamente inutili ai fini del dramma: Ro­ drigo chiede trepidante al padre di Desdemona quando il suo sogno di sposarla sarà coronato, ma Elmiro lascia bruscamente in sospeso la ri­ sposta, perché delle trombe lo chiamano alla «pubblica pompa»: atteg­ giamento questo che scatena in Rodrigo il geloso sospetto che il padre dell’amata, «abbagliato dalla gloria fallace dell’Affro insultator», gli an­ teponga segretamente Otello; è un timore che contribuirà a convincere il giovane ad allearsi con Jago, ma è anche un timore che si rivelerà incon­ sistente, dal momento che Elmiro, quando ricomparirà, inviterà la figlia a giurare fedeltà proprio a Rodrigo. Verrà cosi da chiedersi che cosa sia mai successo dietro le quinte. Del resto Rodrigo, dopo che, contraria­ mente alle sue previsioni, avrà visto Elmiro a lui favorevole, non sarà costretto a ritornare sulle sue decisioni ed a rinnegare l’alleanza con Jago, perché Otello rimarrà pur sempre un rivale, che Elmiro e Jago vogliano o no. Berio dunque complica inutilmente la situazione (introvabile in Shakespeare) costruendo una serie di momenti drammatici ingiustificati e fini a se stessi. Il duetto Jago-Rodrigo («No, non temer») è un luminoso canto d’a­ micizia: Jago consola e rasserena l’innamorato promettendogli il suo aiu­ to con una melodiosità aperta e chiara, tanto che viene da chiedersi se costui non sia veramente sincero e se non abbia in realtà la tipica gene­ rosità dell’amico schietto che ha a cuore la situazione altrui. Questo non è certo dovuto solo alla debolezza di Berio, che offre di Jago un profilo quanto mai incerto, ma anche alla musica di Rossini, incapace, ci sem­ bra, di dipingere per la sua naturale espansività la cattiveria. E forse neanche Rossini si poneva il problema di tratteggiare il carattere di Jago come quello di un mefistofelico spirito del male. In questo duetto l’al­ fiere e Rodrigo sembrano due onesti masnadieri che si alleano per una giusta causa, magari contro un tiranno prevaricatore, e certo non pos­ siamo ripetere quello che scriveva Verdi al Morelli per un ritratto del

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«villain»: «Mi par di vederlo questo prete, cioè questo Jago colla faccia da uomo giusto! » \ Jago estrae un non ben precisato foglio del quale nessuno conosce sino ad allora il contenuto: è un’altra falla nel libretto di Berio perché esso crea, senza certo volerlo, quasi un clima di suspense; solo più tardi infatti l’ascoltatore, il quale neanche può aiutarsi nella comprensione con l’originale shakespeariano o tantomeno giraldiano, dal momento che in quelli semplicemente non esiste, capirà che si tratta del biglietto amo­ roso segretamente inviato da Desdemona ad Otello, ma intercettato dal padre e creduto diretto a Rodrigo. Berio con questa innovazione ricade cosi nel più stanco ed obsoleto luogo comune della letteratura libretti­ stica: se poi si pensa che l’espediente del «biglietto» era stato ed era ancora un importante ingrediente per l’opera buffa e per i suoi scambi di persona e per i suoi malintesi, si comprende bene come la tragica tra­ ma dell’Ote/Zo venisse in tal modo indebolita. Dunque Jago inizia la sua macchinazione con questo gesto dichiaran­ do solennemente: «ogni ritardo or puote render vana l’impresa» e sem­ bra cosi meditare chissà quale diabolico piano; ma in realtà farà ben poco dal momento che la costruzione di Berio non si basa affatto sulle sottili trame da doppio gioco di quello, ma solo sul reciproco equivoco di Otel­ lo da una parte e di Rodrigo e di Elmiro dall’altra: tutti infatti a causa del compromettente foglio si convinceranno di essere stati ingannati da Desdemona. Lo Jago di Shakespeare crea in sostanza ogni cosa dal nulla ed è sempre il padrone degli eventi da lui provocati, in modo che tutti gli altri personaggi sembrano teleguidati dalla sua perfidia; lo Jago di Berio invece fa ben poco poiché si limita a coltivare la gelosia di Otello facen­ dogli credere che il messaggio amoroso di Desdemona sia diretto non a lui, ma a Rodrigo. Dopo che Jago e Rodrigo si sono alleati fra di loro (chiaro a tal pro­ posito il loro canto appaiato per fraterne terze parallele), è la volta di Desdemona che esordisce con un Duettino insieme alla confidente: an­ che la protagonista dunque non si presenta con una potente ed afferma­ tiva aria di sortita o di bravura, ma con toni smorzati e delicati, per nulla da prima donna. Importante novità questa, della quale bisogna rendere atto sia a Berio sia a Rossini, in quanto è un atteggiamento in perfetta coerenza con quelli che saranno i caratteri precipui della figura rossi­ niana: prima che comparisse in scena già abbiamo appreso da Elmiro che 1 In data 7 febbraio 1880, in Copialettere di G. Verdi, a cura di A. Luzio e G. Cesari, Milano 1913, p. 693.

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la donna era «dagli affanni oppressa» e qui ne abbiamo la conferma, dal momento che assistiamo ad un suo singhiozzante dialogo con Emilia: sino ad ora ella ha sofferto nel timore che Otello perdesse la vita in bat­ taglia ed ora soffre nel timore che Otello interpreti male il biglietto e il suo destinatario. La scena si apre con un’introduzione orchestrale in Maestoso suffi­ cientemente ampia e nella piena tonalità di Mi bemolle maggiore: in coerenza con questa spicca nel discorso il nobile canto del corno, lo stru­ mento che diverrà romantico per eccellenza. È palese l’intenzione di Ros­ sini di conferire alla figura di Desdemona una nobile signorilità, chiara­ mente intangibile da ogni più bieca calunnia, per quanto possa venire da chiedersi se il corno, lo strumento di Oberon e di Emani, offra il colore giusto per annunciare la tenera personalità della donna. Vero è che noi udiamo oggi il corno con un timbro più pieno e pastoso di quello che si aveva nel 1816, ma sta di fatto che può permanere il dubbio: non si sarà forse Rossini limitato classicamente ad ascoltare il suo gusto del timbro fine a se stesso? Certo, il corno è anche lo strumento che udiamo nell’Andante dell’ouverture e viene spontaneo porre una correlazione fra quel timbro, oltre che fra quella melodia, e la protagonista. Del resto non bisogna anche dimenticare che VOtello, cosi come Semiramide e La don­ na del lago, furono opere espressamente create in funzione della signori­ lità scenica, della Colbran: ed il corno potrebbe essere a questo propo­ sito lo strumento più adatto. Una novità comunemente additata dagli esegeti dell’OteZZo è l’elimi­ nazione completa dei recitativi secchi: è un processo che, iniziato già neWElisabetta, doveva cosi non solo ampliare e sostenere meglio le de­ clamazioni dei cantanti ma anche e soprattutto dare più romanticamente spazio all’orchestra, non più del tutto subordinata allo sfoggio delle voci. E qui, con il recitativo di Desdemona, incontriamo anche un significativo tremolo, per sottolineare il racconto della donna nei riguardi del fatale biglietto; è altresì un tremolo modulante dal momento che dal magnilo­ quente Mi bemolle maggiore contribuisce a portarsi attraverso alcuni passaggi d’incertezza e di smarrimento- (significativa una caduta di set­ tima diminuita sulla parola «Otello») al Sol maggiore del Dilettino. Questo celebre «Vorrei che il tuo pensiero» è un brano assai bello, interessante fra l’altro per l’equilibrata mescolanza di aria e di recita­ tivo, non nel senso di essere simile ad un arioso, ma in quello che ad al­ cuni passaggi più declamati se ne alternano altri più melodici, a seconda proprio delle sottili necessità espressive delle parole. Appunto per que­ sta interessante ambiguità può sembrare addirittura discutibile il punto in cui l’aria vera e propria ha inizio e non per nulla Stendhal commenta

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dicendo che il brano «commence avec tant de genie» invero solo alle parole «quanto son fieri i palpiti» la musica si abbandona ad una dolce scorrevolezza, mentre in precedenza è rimasta prudentemente ancorata ad una specie di declamato introduttivo. Tutto infatti concorre a rivelare l’estrema esitazione della donna a concedersi alla speranza: inizialmente la linea del canto è inframmezzata da varie pause e si eleva con estrema fatica per poi subito ricadere in cromatiche pieghe di sfiducia. Partico­ larmente bella è la modulazione transitoria che alle parole «eterno è il suo dolor» dal Sol maggiore ci riporta per un attimo al Mi bemolle mag­ giore quasi per meglio nobilitare la sofferenza della protagonista. È dunque questo un passo i cui pregi non si affermano con smaccata prepotenza ma scaturiscono con delicata pacatezza, proprio come le emo­ zioni di Desdemona; ne fa fede fra l’altro Patteggiamento di Stendhal che in un primo tempo, nel 1817, notava con sufficienza: «Ce soir la troupe de San Carlo chantait V Otello au théàtre Del Fondo. J’ai dis­ tingue quelques jolis motifs dont je ne me doutais pas, entres autres le duo du premier acte entre les deux femmes»1 2. Ma piu tardi, nella Vita lo definiva «admirable» e «le chef d’oeuvre de la pièce»3 e nelle Notes addirittura commentava: «Au milieu d’une partition qui est un volcan, le style doux et touchant de ce délicieux duo repose et refraìchit le sang. Mais aussi comme tous les mérites simples qui ont à se faire jour dans ce siècle de Fenleminure et de la charlatanerie, ce pauvre petit duo fait une plaisir extreme et personne n’en parie»4. Si è detto che Desdemona non si presenta come un personaggio po­ tentemente drammatico, ma appunto con un duettino inteso a metterne in luce la tenerezza introversa. La npvità espressiva di questa struttura dovette però fare a lungo i conti con le ambizioni delle cantanti e con l’abitudine cristallizzata dalla tradizione, che imponevano l’entrata sem­ pre in qualche modo spettacolare della prima donna. E cosi, se sfogliamo un poco alcuni libretti di teatri alla prima metà dell’Ottocento, troviamo il duetto ora sostituito ora manipolato in mo­ do da offrire alla cantante ed al pubblico l’atteso e ovvio numero d’at­ trazione. Ad esempio per la rappresentazione alla Scala nella primavera del 1834 veniva soppresso il duo di Jago e Rodrigo, quasi che la protago­ nista avesse la vanitosa urgenza di presentarsi sul palcoscenico, e non per ultima, in modo da poter declamare: 1 3 3 4

Vie de Rossini cit., cap. xix, p. 310. Rome, Naples et Florence cit., p. 528. Vie de Rossini cit., cap. xix, p. 310. «Journal de Paris», 15 dicembre 1824, in Notes d’un dilettante cit., cap. xnr.

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Misera! Qual tumulto io provo in seno! L’ora s’appressa ornai da cui dipende la mia sorte, oh Dio! Qual funesto presagio agita il core! Fra il giubilo comune io sola... ahi, lassa, palpito, gemo e in si fatale giorno funeste larve sol mi veggo intorno.

Quindi la donna poteva cantare: L’alma incerta, o Ciel, paventa il furor di sorte irata nel crudel fatai cimento il timor maggior diventa, fra l’amore e ’1 genitore vacillar mi sento il cor. Nel tuo seno, o padre amato vengo a sciór gli estremi accenti: il rigor d’estremo fato son già stanca di soffrir. Ma pure il cor - non so perché tremar non sa. Forza d’amor - eguale a te no, non si dà.

Così solo piu tardi giungeva Emilia per intavolare con la protagonista questo dialogo: EMILIA

Carco d’allori a noi riede, amica, il tuo bene. Odi d’intorno come l’Adria festeggia il suo ritorno. DESDEMONA

Emilia, ah tu ben sai quanto finor l’amai: come quest’alma al racconto fedel del suo periglio, del suo valore palpitando incerta si pingea palpitante sul mio ciglio, e fra i palpiti miei, fra le mie pene quante volte dicea: perché non viene? Ed or ch’è a me vicino mi veggo in preda al piu crudel destino! Questa sua gloria accresce per me in lui l’affetto come nel padre mio l’odio e il dispetto. EMILIA

Sicura del suo core, ogni altra tema inutile si rende. desdemona Ah, ch’io pavento ch’ei sospetti di me, ecc.

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Al teatro di Alessandria nell’autunno del

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ciava invece con Pancetta questo dialogo: DESDEMONA

Ei riede alfine. Tutto al cor mi parla di desiato piacer, di nuova speme, ma un’anima che geme fra l’ansie del timor non rassicura nemmen d’amor la gioia. Emilia Torna Otello vincitore ed amante e ogni timore reso è inutile ormai. Desdemona Ah no! del padre temo lo sdegno. Se mai scopre... EMILIA Oh Dio! Non funestarti più. desdemona Si, del mio core solo potrà l’amore togliere palpiti ed affanni e col mio bene felice scorderò timori e pene.

E quindi la protagonista cantava da sola quest’aria: Il soave e bel contento di quest’alma appien felice del mio labbro il grato accento tutto esprimere non sa. I tuoi frequenti palpiti deh, frena, o cuore amante, tu rivedrai l’amabile oggetto del tuo ardor. La fiamma tua vorace esprimerà il mio sguardo; dirò: mia bella face, per te divampo ed ardo. Vedrò quel vago ciglio che amore, ardore addita, tutto a goder m’invita, pago sarai mio cor.

Parimenti al Carignano di Torino nel successivo autunno 1836 Jago e Rodrigo rinunciavano al loro duo per dare posto a Desdemona che cosi si sfogava: Stanca di più combattere con la crudel mia sorte sento avanzar la morte ma, o Dio, lontan da te. Seppi i sospiri reprimere penar, tacer, languire, or mi vedran morire

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e non sapran perché. Sperava un giorno stringere la destra tua si cara, congiunta a te di vivere in sen di puro amor; ma lungi i fati trassero quelle adorate faci e a me dolente tolsero la speme del mio cor. Ah no, m’ingannano i miei desir, le liete immagini tutte sparir.

Infine, per fare ancora un ulteriore esempio, alla Scala nel Carnevale del 1845 e del 1846, dopo che Elmiro si era congedato da Rodrigo, come nei casi precedenti giungeva subito Desdemona per intonare questo reci­ tativo : Ahi! la pompa t’invola agli occhi miei; ma dell’Adria festosa le gioie avranno posa: ti rivedrò, mia vita e piu soavi premi al tuo valore presso alla tua fedel s’appresta amore.

E quindi si sfogava con l’aria «Il soave e bel contento» già di Alessandria e poi, giunta Emilia, scambiava con lei le parole già del 1834 «Carco d’allori ecc.». Queste interpolazioni, oltre ad essere la testimonianza di un diffuso costume ottocentesco, rivelano forse involontariamente la coscienza che il profilo di Desdemona proprio per la sua novità sembra mancare della tradizionale componente psicologica dell’amore. Avremo modo di ritor­ nare più tardi su questo problema e tuttavia non ci possiamo esimere dal notare già ora che la protagopista capace di morire per amore mai ci apparirà veramente innamorata. Queste aggiunte arbitrarie sembrano cosi voler quasi colmare questa lacuna, dal momento che dànno l’occa­ sione alla donna di mostrare non solo la sua abilità di cantante ma anche la sua volontà e la sua decisione d’amare: questo è infatti l’elemento che accomuna le interpolazioni citate. Il duetto con Emilia offre dunque la possibilità di contrapporre all’e­ steriore e generale tripudio l’animo turbato di Desdemona: ma col Fi­ nale dell’atto il dolore della donna viene fagocitato dal ritorno delle fe­ stevoli luminosità da cerimoniale pubblico. Dopo un fuggevole incontro con Jago, introdotto da Berio solo per farci sapere che anche quello è

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un amante disprezzato di Desdemona e per questo desideroso di vendi­ carsi, la scena finale si apre con un lungo ed invero un po’ pesante reci­ tativo in cui Elmiro espone a Rodrigo tutto Podio che prova per Otello: e cosi, come già notammo, il gesto di tenere precedentemente in sospeso il giovane sui suoi sentimenti non è servito ad un bel niente. Elmiro dunque chiede alTamico alleanza e lo prega di rivelare a suo padre, il Doge, le «trame» e il «nascosto orgoglio» di Otello. Dobbiamo cosi pensare che anche il Moro è in fondo vittima di una calunnia, in quanto non abbiamo prove che egli tenti disonestamente la conquista del potere; anzi da quanto Berio gli ha messo in bocca all'inizio sappiamo che la sua vera meta non è tanto la gloria o il potere fra i veneziani ma il coronamento del suo legame con Desdemona. In questo modo pertanto si indebolisce ulteriormente la figura di Jago la cui azione viene ad es­ sere in pratica sostituita dall’ostilità verso Oteffo che Elmiro ha già per conto suo. Il coro «Santo Imen» dovrebbe essere in sostanza un coro nuziale, ma i secchi ritmi cadenzati gettano su di lui un’ombra ancora militaresca; è tuttavia un passo importante perché nel suo deciso incedere ha già qualche cosa di Donizetti e di Verdi1. Secondo Stendhal in esso invece «il y a encore de bien beaux souvenirs des idées fraìches et jeunes de Tancrède», ma ciò non toglie che sia «l’un de plus beaux morceaux que l’on puisse placer dans un concert. C’est encore un exemple de la perfec­ tion de l’union de l’harmonie allemande avec la melodie de la belle Parthénope»12. Rossini vuole in sostanza insistere su atmosfere sufficientemente sfolgoranti per preparare così nuovamente un efficace contrasto con la figura di Desdemona spaventata e smarrita nella cerimonia a cui deve sottostare: proprio per questo la pompa disturba meno che all’ini­ zio dell’atto. Elmiro cerca di rincuorare la figlia con un’aperta e generosa melodia «Nel cuor d’un padre amante» che denota in fondo una sin­ cera bontà d’intenzioni: Rossini preferisce non approfondire la psico­ logia e il segreto movente delle parole per creare esclusivamente un ec­ cellente momento di «bel canto», assai pregevole anche per l’affannoso pulsare di scale con note «sfuggite» d’accompagnamento. Stendhal non ha dubbi: riguardo a questo brano «on peut dire avec véri té qu’aucun des rivaux de ce grand maitre n’a pu s’élever à un morceau semblable»3. È un passo sufficientemente ampio tanto da sembrare una vera e propria aria per voce sola: in realtà però ne è solo un embrione in quanto sfocia 1 II Roncaglia ha scorto un’effettiva somiglianza fra questo coro e quello del quarto atto del Profeta di Meyerbeer «Ecco già il re profeta» (Rossini, VOlimpicot Milano 1946, p. 305). 2 Vie de Rossini cit., cap. xix, p. 311. 3 Ibid.

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con naturalezza in un terzetto altrettanto bello per l’intrecciarsi delle voci smarrite e confuse. Solo alcuni ricordi di un tipo di scrittura «alla Barbiere» cancellano un poco il teso raccoglimento. Forse per questa privazione ad Elmiro di una vera e propria aria e quindi per la conse­ guente assenza nell’opera di un basso di primo piano il Castil-Blaze nota che il ruolo di quello, «un peu plus étouffé que celui de Orbassano (de Tancredi), n’est pourtant qu’un ròle de deuxième basse»1 e sottintende quindi la domanda: e il ruolo di primo basso? Evidentemente manca. In questo clima d’attesa Desdemona, che dovrebbe essere il centro verso cui convergono le forze emotive di tutti gli altri personaggi, non riesce ad ergersi a protagonista tanto che nega la mano a Rodrigo con un prudente ed ambiguo «Deh, taci», non senza aver prima indugiato in retorici «Dove son?» e «Che mai veggio?» La Desdemona di Berio è a quanto pare un essere completamente passivo, in perenne stato di prostrazione, sempre avvolta in voluttuose pieghe di dolore e di soffe­ renza. È cosi inerte che stentiamo a credere che sia veramente innamo­ rata di Otello: notiamo questo non solo perché la figura di Shakespeare ha invece il coraggio di proclamare subito, senza esitazioni, il suo amore eia sua sottomissione ad Otello di fronte a tutti i protagonisti del dram­ ma1 2 («Here is my husband! »), ma anche perché dalla musica di Rossini è sino ad ora difficile vedere la donna veramente sicura del suo amore. Anche nella Elisabetta dell’anno prima mancano espliciti duetti d’amo­ re, tanto che viene quasi spontaneo dare ragione a Stendhal quando af­ ferma, proprio a proposito dell’Otello, che Rossini non ha «l’àme possedée de l’amour à la Werther» e che «ne sait pas faire parler l’amour»3. Altrove lo scrittore precisava ulteriormente: «Il manque à l’opéra d’Otello un duetto exprimant le tendre bonheur dont Othello récompensait la tendresse de Desdemona avant qu’un scélérat ne fut parvenu à lui ispirer les fureurs de la jalousie»4 proprio perché la presenza dell’amore nell’OteZZo non è mai in re, ma sempre post rem e questo crea un inevi­ tabile squilibrio nel gioco delle tensioni emotive dell’opera; per evitare appunto un simile effetto neW Otello verdiano fu dato spazio, rispetto al testo shakespeariano, alla notturna scena d’amore fra i due sposi dopo la lite di Cassio ubriaco. La Desdemona della Colbran doveva essere un personaggio soprattutto commovente e colmo di accattivante tenerezza e comprendiamo bene come nell’Ottocento, ad esempio agli Escudier «chacun de ses soupirs» potesse sembrare «le son plain tif dune lire qui 1 castil-blaze, L’opéra italien de 1548 à 1836 cit., p. 395. 2 Atto I, scena in. 3 Vie de Rossini cit., cap. xviii, p. 292. 4 «Journal de Paris», 22 settembre 1826, in Notes d’un dilettante cit., cap. xxxm.

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se brise» In questo modo a causare la rovina della donna non sarà tan­ to la geniale astuzia di Jago quanto l’inerzia della personalità di Desde­ mona stessa; mentre alla protagonista di Shakespeare la rovina giunge proprio dal suo carattere pervicace e pieno d’iniziativa (si pensi alla fer­ mezza con cui, ignara, intercede per quel Cassio che Berio ha pensato bene di sopprimere), alla protagonista di Rossini la rovina giunge solo per la sua incapacità di affermare il suo amore; e forse il musicista indu­ gia su questo aspetto del carattere per mettere in luce il fallimento di un amore basato esclusivamente su tenere lacrime e pietosi sospiri. Dunque nella Napoli di Paisiello (che moriva proprio in quel 1816) la figura di Desdemona in tal modo delineata sembra attingere direttamente dal patetismo commovente di Nina pazza per amore> nonché di Cecchina-. la novità sta però nel fatto che qui tale melanconica delica­ tezza è inserita non piu per temperare la vena farsesca dell’opera buffa ma per avvolgere di preromantica, sofferta umanità l’opera seria e per rendere così più immediato il dolore che nel teatro tragico era stato reci­ tato sino ad allora su aristocratici coturni; in altre parole questa melan­ conia è già l’adesione ad un’umanità borghese ed ottocentesca dalla qua­ le trarrà utili spunti Bellini. Al raccapriccio per il rifiuto della donna, rifiuto più che altro intuito e non dichiarato, segue un geniale terzetto di scorrevole dolcezza (Lar­ ghetto, Si bemolle maggiore, «Ti parli l’amore») in cui Rodrigo ed El­ miro supplicano Desdemona a ritornare sulla sua decisione; ma costei si limita a rinnovare le sue proteste di dolore facendo uso, fra l’altro, di quei glissandi dall’apparenza lamentosa che ritroveremo nella Ceneren­ tola, nel punto in cui ella si presenta velata per dichiarare: «M’offra chi mi vuol sposa». Il copioso canto fiorito dei tre personaggi non dà invero grande fastidio né appesantisce il meditato incedere della musica: sem­ bra anzi contribuire a delineare meglio lo smarrimento dei personaggi che si esprimono alternativamente con monconi di frasi melodiche. An­ cora una volta l’espansiva chiarezza del canto affidato non solo a Rodrigo, ma anche ad Elmiro rende convincente la buona fede e la sincerità di quello e non fa sorgere il sospetto che a farlo supplicare sia solo l’inte­ resse politico. Dopo la commossa.serietà del terzetto un faceto tema di marcia an­ nuncia l’appressarsi di un Otello invero goffo ed impettito, quasi non volesse essere preso sul serio. La scena è del resto drammaticamente risi­ bile dal momento che il Moro si ingelosisce solo al vedere Desdemona accanto a Rodrigo ed Elmiro: ciò basta a scatenare la sua ira per quanto 1 escudier frères, Rossini, sa vie, ses oeuvres, Paris 1854, p. 71.

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la donna non sia sorpresa ad un segreto convegno con l’amante. Berio probabilmente pur mantenendo un vago ricordo di Shakespeare voleva conferire alla scena l’aspetto di una cerimonia nuziale interrotta nel mo­ mento culminante da Otello, ma in realtà egli non riesce a sostenerla con motivate giustificazioni. Il brano è in Re maggiore, ma alla comparsa d’Otello con l’esclama­ zione della folla («Il cor nel sen gelò») passa al Re minore; ciò però non basta e l’urlo di raccapriccio non giunge con il potenziale adatto in quan­ to abbiamo ancora nell’orecchio la marcetta sfilacciata di tanti petulanti strumentini di poco fa; del resto ci si potrebbe anche chiedere perché mai il coro debba venire colto dall’orrore solo per l’intromissione nella ceri­ monia di quell’Otello che non molto tempo prima tutti avevano esaltato ed ammirato. Lo spavento se mai dovrebbe giungere con l’annuncio del già avvenuto legame con il Moro: questo però non viene detto e unica­ mente più tardi si parlerà di un «dato giuramento»; anzi, il fatto vero e proprio che Desdemona sia sposa di Otello sarà appreso privatamente da Rodrigo addirittura nel secondo atto. Ancora una volta Berio disperde e confonde la tensione della vicenda introducendo ora l’annuncio del «giuramento», potremmo dire del «fidanzamento», e più tardi, all’ini­ zio dell’atto successivo, quello del reale matrimonio con Otello: in que­ sto modo, se era salva per cosi dire l’etichetta aristocratica, non lo era certo la musica di Rossini, costretta ad adeguarsi a situazioni assurde. Una controprova di ciò consiste del resto nel fatto che in alcuni libretti dell’ottocento (ad esempio a Torino nel 1826, ’36, ’55, ’64) la scena in cui appunto Rodrigo apprende la verità su Desdemona veniva comple­ tamente soppressa proprio per evitare un’inutile ripetizione di momenti scenici e di stati emotivi pressoché uguali. Malgrado tutto ciò Stendhal, grazie proprio alla musica, non sfodera, in questo finale del primo atto, il suo dente avvelenato contro il dilettante librettista, anzi: «L’entrée d’Otello est superbe. Voici enfin une de ces situations que réclame la musique, et il faut convenir que Rossini l’a traitée avec tout le feu pos­ sible». Non basta: nella dichiarazione di Otello «Virtù, costanza, amo­ re» il musicista «a été l’égal de Mozart»; insomma, in questo episodio «il est impossible de rien d’écrire de plus beau comme musique et en méme temps de plus vrai, de plus fidèle au véritable accent de la passion et de plus éminement dramatique» ’. Otello non interviene certo per prendere le difese della donna ma anche lui per ammonirla e vessarla in modo da accentuare il profilo vit­ timistico di Desdemona; di fronte all’ammissione languida e debole di 1 Vie de Rossini cit., cap. xix, p. 313.

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costei il padre lancia la sua maledizione su un tipico accordo di settima diminuita. È una situazione che offre connotazioni già romantiche innan­ zitutto per la figura del padre che, in contrasto con la figlia o il figlio, è causa della sua rovina o del suo sacrificio, come lo saranno Miller, Rigo­ letto, Germont, Wotan, ecc.; in secondo luogo per l’elemento della ma­ ledizione, anche questo prettamente romantico, tipico di Edgardo della Lucia o di Monterone del Rigoletto, di Simon Boccanegra o dell’Olan­ dese. È interessante notarlo anche se la presenza di questi due futuri to poi è ancora ad un livello embrionale né viene espressamente messo in risalto, tanto che Stendhal ci precisa che Rossini «vola ce passage dans l’Adelina de Generali» \ Si pensi invece alla maggiore vigoria dramma­ tica che si incontrerà nella seconda parte della Lucia ove la situazione teatrale sarà molto simile (arrivo improvviso e terribile di Edgardo che interrompe il matrimonio della tremebonda Lucia con Arturo). Dopo il raccapriccio per l’«anatema» paterno si apre un altro squar­ cio di pensosa calma con un quintetto e coro (Andante maestoso, La be­ molle maggiore, «Incerta l’anima») caratterizzato da note puntate quasi di marcia funebre. A questi rintocchi che accompagnano il canto a imi­ tazione si alternano passaggi piu liricamente distesi per creare cosi un momento di rattenuta emozione, anche se assai di mestiere. Per Sten­ dhal, cosi emotivamente coinvolto nel pathos di questo finale, un simile momento «exprime, avec un rare bonheur, le premier moment de repos par fatigue, par impossibilité de continuer à étre ému à ce point, qui suc­ cède dans le coeur humain à une impression si horrible»12. Rossini si ri­ vela senza dubbio preromantico in queste scene di delicato dolore, più che negli agitati e negli allegri, ove fa ancora pur sempre trasparire il sorriso dell’opera buffa. Si può dire che in questo passo, che vuole espri­ mere lo stupore e la desolazione dopo la scoperta del giuramento, la di­ stanza che ancora separa Rossini dal pieno romanticismo è rappresen­ tata soprattutto e semplicemente dal fatto che il brano è in un morbido modo maggiore e possiede quindi ancora una luminosità lontana dai tan­ to severi concertati romantici; il modo minore contribuirebbe infatti ad oscurare un poco l’eccessiva aria trionfalistica che qui, malgrado tutto, ancora si respira e si chiuderebbe cosi in un clima di tragica sospensione l’atto. Rossini invece per concludere modula addirittura in Do maggiore per dare cosi sfogo all’ira repressa di Rodrigo ed Otello da una parte e di Elmiro dall’altra; è uno scontro in cui dà un poco fastidio l’evidenza data volutamente a Rodrigo, che con i suoi «Smanio, deliro e fremo» 1 Ibid., p. 314. 2 Ibid., p. 315.

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sembra un poco messo in caricatura tanto da ricordarci una brutta copia di Don Ottavio. Stendhal ha invece ormai preso lo slancio ed al propo­ sito precisa senza esitazioni che quest’ultimo episodio «termine dignement ce magnifique final. Telle est la beau té de ce morceau, qu’on ne sait comment en faire l’éloge ou la description» l.

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Allo schiudersi del secondo atto incontriamo Desdemona, ancora av­ volta nella sua nube di sospiri in dialogo con Rodrigo che non si è ar­ reso: per disarmare definitivamente le sue profferte la donna si decide a rivelare di essere sposa del rivale. Con grande espressività Rossini a tale annuncio trasforma il recitativo in arioso e, dopo una corona, addi­ rittura in aria, per ampliare cosi suggestivamente lo smarrimento del giovane: da una parte in Mi bemolle maggiore (con in evidenza pun­ genti inflessioni del clarinetto) Rodrigo passa alla dominante minore per esprimere meglio, con il sostegno di un efficace pulsare d’accordi, anche il dispetto per l’affronto subito: il caratteristico ed espansivo intervallo di sesta maggiore con il quale il giovane esordiva nella prima parte del­ l’aria, diviene nella seconda un piu duro salto di sesta minore. Già si è detto che questa scena, per quanto musicalmente pregevo­ le, in molte edizioni ottocentesche veniva completamente saltata. E ad esempio nella rappresentazione di Alessandria del 1835 si coglieva l’oc­ casione per inserire al suo posto un’aria di Elmiro, da Rossini convocato solo nei concertati. Il secondo atto si apriva così con il padre di Desde­ mona che in mezzo ai parenti recitava: Congiunti, cavalier, qui alfin mi lice esalar Pira ardente che mi ferve nel core. Ogni speranza mi rapi quell’indegna ed ogni gioia. Oh scorno! Oh mio dispetto! Ella giurava e fede a un vii straniero mal mio grado ella serba! Ah che per sempre afflisse il genitore! sol dileggio per me resta e rossore.

Quindi cantava: Ecco il giorno ch’io sperava sacro a gioia, a illustre imene; figlia ingrata; oltraggi e pene 1 Ibid.

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apprestava al genitor. Ad un vii sua fe’ giurava poneva il colmo al disonor. Ah, piuttosto foss’io spento che soffrir tal onta estrema! Trema, o figlia: tu pur trema vile indegno seduttori coro Dovrà la figlia arrendersi, cadranno i tuoi nemici e in bella prole ai posteri il genitor vivrà. elmiro Si, questo voto, o amici, sperar ancor mi fa. Questa soave immagine calma i miei spirti e parmi veder sereno splendere il tempo che verrà. Se il ciel consente arrendermi, se padre udrò chiamarmi, un giorno di letizia il viver mio sarà. coro In bella prole ai posteri il genitor vivrà.

Desdemona si trova cosi, dopo l’abbandono di Rodrigo, ancora piu sola con se stessa. Un nuovo recitativo con Emilia la porta a decidere di raggiungere, seppur sorvegliata, Otello («a lui mi chiama il mio dovere») e per la prima volta rivela una certa positiva iniziativa. La scena successiva anticipa il cammino della donna in quanto ci con­ duce direttamente nel giardino d’Otello, che sta per essere avvicinato da Jago: una specie di marcia in punta di piedi1 prepara l’entrata del?Al­ fiere senza però mettere in guardia, come sarebbe stato invece nelle in­ tenzioni di un romantico, dalle menzogne che fra poco inganneranno Otello. Jago dovrebbe poi agire con quella falsa reticenza che lo carat­ terizza in Shakespeare ed in Boito, ma qui egli amplifica a tal punto i suoi atteggiamenti («Il vuoi? T’appagherò!... Che dico!... Io gelo!... Oh, quale arcano io svelo!») da mettere addirittura bene in chiaro che egli sta recitando e che è in mala fede. Otello tuttavia deve cadere nell’in­ ganno: né lui né Berio sembrano preoccuparsi di spiegare come quel fo­ glio, che noi sappiamo intercettato dal padre, sia finito nelle mani di Jago; è un problema non trascurabile se si pensa invece al grande lavoro svolto dallo Jago di Shakespeare per venire in possesso, senza destare sospetti, del fatale fazzoletto. Ma le «perfide trame» dell’Alfiere hanno 1 II Roncaglia (Rossini, l’Olimpico cit., p. 307) nota una parentela fra l’esordio di questa me­ lodia puntata e la frase del secondo atto del Teli alle parole «Allor che scorre de’ forti il sangue».

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malgrado tutto compimento e Otello, convintosi dell’infedeltà di Desde­ mona, può cosi dare sfogo alle sue «furie nitrici». Come la scena precedente anche questa fra Jago ed Otello è condotta su un continuo crescendo di tensione; anche qui, ad esempio, il recitativo accompagnato sfocia in arioso, in particolare nel momento cruciale della lettura del foglio; la musica poi, presto si libera in un’aria, tanto più che le due voci si sovrappongono mentre spessi accordi d’accompagna­ mento cercano di dare coesione alle spezzate frasi esclamative. Le carat­ teristiche dell’aria si fanno quindi ancora piu evidenti nella sezione suc­ cessiva (Andante — «No, più crudel un’anima») ove i due commentano per loro conto la rivelazione e si trovano tradizionalmente accomunati da uno stesso discorso musicale per quanto le loro emozioni siano oppo­ ste. Un bel ponte con fatalistici accordi ribattuti, benché sempre dal sa­ pore d’opera buffa, porta al drammatico e famoso episodio (Poco più al­ legro) de «L’ira d’avverso fato», una efficacissima melodia già presente nel Torvaldo1 e ripresa poi molto simile nel «Si, vendetta» rigolettiano. L’impeto delle terzine ad onde, delle quali si ricorderà anche Meyerbeer per il suo duo fra Roberto il Diavolo e Isabella, è già molto vicino al ca­ ratteristico e romantico gigantismo delle passioni e qui, più facilmente che altrove, dimentichiamo che il passo è in un aperto La maggiore. La linea melodica possiede già quella tagliente linearità di Verdi e il duo diviene simile quasi ad una sfida. Otello è lasciato solo in preda alla sua ira, ma per poco, dal momento che presto giunge Rodrigo per sostenere con lui un nuovo duetto. Pro­ babilmente per offrire un po’ di respiro al cantante nell’edizione al Re­ gio di Torino del 1826 le due scene erano separate da una breve com­ parsa di Emilia che veniva a recitare: Desdemona mal cauta! Amor, timore Faccecano a vicenda. Ah, mai l’arcano che già d’Otello è sposa mai svelar non dovea... Ella a perdersi va. Seguirla io deggio. Sola?... Che fo’ se giunge il padre? Ah prima le mie compagne, le sue fide amiche • avvertire si denno: alcun soccorso posso almeno sperar... In qual cimento è questo cor in si fatai momento!

Rodrigo giunge ad offrire amicizia ad Otello se costui «cede al suo volere». Quale volere? Dovrebbe forse ripudiare Desdemona e lasciarla 1 Si tratta in particolare dell’aria del Duca «Cento larve d’intorno mi stanno»: si noti che il tema delle «larve» sarà un soggetto congeniale alla fantasia dei romantici.

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così libera di unirsi a Rodrigo? Forse neanche Berio ha le idee molto chiare ma, dal momento che gli serve un motivo qualsiasi per far en­ trare il giovane in scena non si preoccupa molto della attendibilità di tale scusa; del resto nel suo Rodrigo sono fusi sia il Cassio sia il Roderigo di Shakespeare, difficile fusione invero, in quanto i due sono, come si sa, personaggi diversissimi. Ne deriva che nel libretto di Berio gli at­ tori sembrano quasi intralciarsi vicendevolmente con le rispettive parti e sono ben lontani dal matematico intreccio dell’originale inglese ove ogni figura, anche quella collaterale di Bianca, è a ben vedere una inso­ stituibile tessera nel mosaico di Jago. Otello deve quindi sostenere un nuovo duello, e questa volta coscien­ temente a viso aperto, con l’avversario: anche se ogni severo bagliore viene attenuato dal Do maggiore, la secchezza delle note ribattute e di quelle puntate, i potenti salti d’ottava e l’ebbrezza di vittoria che entram­ bi i contendenti già sognano di assaporare dànno alla pagina un’efferve­ scenza preromantica. Efficaci sono al proposito sia il cozzare di scale per moto contrario nelle voci dei due sia il piombare con rabbia su una stes­ sa nota contesa, tanto che il Do maggiore viene alla fin fine ad essere as­ sai appropriato perché nasconde quel sapore di trionfo a cui i duellanti ambiscono. Il duo si trasforma presto in un trio a causa dell’arrivo di Desdemona che, accompagnata da un affannoso sincopato degli archi, ripreso poi da Donizetti per la scena finale della sua Lticrezia, separa i rivali e blocca l’azione e la musica in un momento carico di tensione: secondo i con­ sueti canoni dell’opera seria si apre cosi un maestoso momento d’aspet­ tativa, anche se non privo dell’intervento rasserenante degli strumentini. Desdemona si leva con accenti di nobiltà alle parole, opportunamente sottolineate da un tremolo, «che fiera crudeltà»: è una bella campitura melodica che a sua volta introduce un episodio rabbiosamente impera­ tivo («Perché da te mi scacci») ove la donna, invero per la prima volta, sembra ergersi a protagonista e dominare con la fierezza della sua inno­ cenza i due rivali: le voci, trascinandosi quasi a staffetta, concorrono a formare un robusto movimento ascendente, anche se, soprattutto nella stretta finale (Vivace - «Ah per pietà»), pare far capolino il tipico finale da opera buffa. All’inizio di quest’ultimo episodio il movimento saltante dell’orchestra ripetuto in crescendo è quanto mai vicino a tutti quegli episodi di generale disordine tipici del teatro comico; quindi la frase ascendente «Fra tante smanie e tante» sembra voler far coagulare attor­ no a sé il turbinio dell’orchestra proprio come avviene nei concertati del­ le stesse farse e burlette giocose; infine il canto che si diparte solitario da tutto quel mulinare di voci alle parole «l’amor dall’ira, spira vendetta

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il cor» è un brandello abbandonato a se stesso molto simile ad esempio a quello che nella Stretta finale del primo atto del Barbiere incontriamo alle parole «e il cervello poverello già stordito, sbalordito ecc.». Il trio s’accende nuovamente dei bagliori di un duello; Desdemona malgrado tutto non riesce a far desistere i rivali dai loro propositi e viene scacciata: nessuno dei due prende le sue difese, per quanto tutti e due in fondo lottino per lei. Lo sforzo per la debole donna è stato invero enorme per cui, mentre i due partono, la poveretta sviene. Si può sup­ porre che i rivali vadano a sfidarsi, dopo tutto quello che si son detti («All’armi! Qual gioia! AlTarmi! »), ma Berio non sembra preoccuparsi di ciò, tanto che, quando noi rivedremo Otello nel terzo atto udremo da lui la notizia della morte di Rodrigo, ma per mano di Jago. Che cosa sarà capitato? Presto detto: Berio di tanto in tanto vuole rifarsi fedelmente a Shakespeare ed al proposito si ricorda che nell’originale Roderigo, men­ tre duellava con Cassio veniva ferito a tradimento (e piu tardi addirit­ tura ucciso) da Jago e si sforza cosi di mantenere il parallelismo delle si­ tuazioni, in un punto invero trascurabile, se confrontato a quegli arbitri che altrove egli si è invece permesso. Desdemona rinviene fra le braccia di Emilia e subito si lancia in una nuova, bella aria di disperazione e di invocazione: è un tipico Allegro agitato da opera seria, ricco di tremoli e di cromatismi fra i quali intravvediamo, un poco più chiaramente che altrove, l’amore della donna per Otello. L’aria è in sostanza una preghiera, una specie di voto, dal mo­ mento che la donna accetta di sacrificarsi e di morire, purché Otello, che è andato a duellare, rimanga in vita. Da questo momento pertanto si può dire che Desdemona ha già segnato il suo destino: sarà proprio colui in cambio del quale lei accetta di morire a darle morte. È un tema nuovo, già pienamente romantico, da Forza del destino o da Rigoletto, non pre­ sente in Shakespeare. Rossini sembra accorgersene, a giudicare da come inserisce con un pregevole passaggio il coro di damigelle che compaiono in un empito d’affanno sostenuto potentemente dai tromboni: la musica è abilmente penetrante dal momento che sfrutta l’iterazione di una stes­ sa cellula non tanto in senso edonistico-spettacolare per un solito «cre­ scendo», ma per offrire con il suo ostinato un’impressione di fatale ine­ luttabilità. Ritroveremo questo stesso effetto dei tromboni nel Mosè per conferire un senso di solenne grandiosità e di sacrale potenza al momento della spartizione delle acque. In questo punto invece il libretto si compiace di effetti plateali e vuo­ ti, dal momento che in un primo tempo le damigelle non sanno risponde­ re alle ansiose domande della donna sulla sorte del marito accrescendo così lo smarrimento di quella, ma subito dopo smentiscono il suo timore

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annunciandole che Otello è in vita: tutto è dunque creato solo per pro­ lungare l’affanno di Desdemona e per offrire cosi a Rossini, in modo mal­ destro e quasi sicuramente involontario, la possibilità di creare un episo­ dio di intensità drammatica sufficientemente ampia. Agli astanti si unisce, senza soluzione di continuità, Elmiro che torna a rimproverare la figlia, mentre il coro fa dal canto suo la morale con i versetti Se nutre nel suo petto un impudico affetto giusta è la crudeltà.

Stendhal acutamente precisa1 che Desdemona in questo punto per essere coerente con se stessa e per confermare la sua dedizione ad Otello, do­ vrebbe cantare non «Se il padre m’abbandona, da chi sperar pietà? », ma «Se Otello m’abbandona, da chi sperar pietà?»: in questo modo infatti l’amore per il Moro non risulta per la donna tale da renderla capace, co­ me in Shakespeare, di affermarlo di fronte al padre e di contrapporsi cosi a lui: Desdemona insomma conferma ancora una volta il suo flebile ca­ rattere di vittima. L’atto si conclude così in un clima un po’ artificiosamente amplifica­ to, dal momento che l’azione sempre si è mantenuta ed ancora si man­ tiene in una pesante staticità; i personaggi si lamentano, si adirano, fan­ no minacce, ma sempre rimangono fermi, legati ancora al cliché dell’o­ pera seria classica.

4Si può pertanto dire che i primi due atti sono in funzione del terzo, dal momento che in esso il dramma avrà almeno il suo compimento. La musica subito ci conferma l’impressione che l’ultimo atto sia effettiva­ mente il piu importante dal momento che ci pone di fronte ad un’intro­ duzione orchestrale superlativa: siamo di nuovo in un maestoso Mi be­ molle maggiore e, dopo una cadenza piagale d’apertura, clarinetto, cor­ no, oboe, flauto stendono una loro penetrante frase al di sopra di un eloquente e severo pulsare degli archi. Sono solo poche concise battute, scritte però in un lucido e semplice contrappunto e pregne di una Stimmung densa ed ancora inudita nei primi due atti. Senza piu i lepidi motti degli strumentini si fa così strada un’atmosfera acutamente premonitri­ ce: quello che non avevamo avvertito nell’ouverture lo incontriamo ora, 1 Vie de Rossini cit., cap. xix, pp. 319-20.

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in questo preromantico preludio. A tal proposito non sappiamo come potesse essere risolto il problema di conferire la giusta importanza a que­ sto passo in quelle edizioni dell’opera, come ad esempio nel 1826 al Re­ gio di Torino, ove la tragedia veniva ridotta ai consueti due atti della tradizione: dopo la scena di Desdemona, delle confidenti e di Elmiro, Emilia si presentava sola sulla scena: relegata da Berio e da Rossini alla funzione per cosi dire di «spalla» di Desdemona, la donna aveva cosi anche lei la possibilità di fare sfoggio della sua voce; in particolare de­ clamava: Desdemona infelice! io per te sento i più teneri moti di vera amistà. Divisa ho l’alma fra speranza e timor. Deh: Voglia il cielo che prevalga al timor la mia speranza e trionfi cosi la sua costanza

E quindi cantava: Ah! Qual nembo a lei minaccia, qual mai tema il cor m’agghiaccia! Ma se il ciel non è tiranno i miei voti ascolterà. Deh! Si plachi a tanto affanno del destin la crudeltà.

In questo modo però dal momento che subito dopo ci si agganciava di­ rettamente all’inizio del terz’atto, si sacrificava l’effetto evocatore del preludio, in quanto privato del suo giusto rilievo. All’inizio del terz’atto accanto ad Emilia ritroviamo Desdemona, an­ cora s. Musikaliscbes Skizzenbuch cit., p. 323. Ibid., p. 323Cit. in Bellini, Epistolario cit., pp. 204-3.

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matrice e con soggetto simile: ma a renderle distanti e differenti nel rap­ porto col sognante e col fantastico interviene in mezzo proprio VOtello, che sconvolge la quieta ed aproblematica fruizione dell’opera settecente­ sca e prepara tutta la catena di opere serie a cui Rossini, con la sola ecce­ zione della Cenerentola (il cui frequente grigiore la avvicina all’atmosfe­ ra del genere serio), si dedicherà sino al 1828, anno del Comte Ory. Sen­ za la rottura operata con VOtello Rossini sarebbe riuscito l’anno seguen­ te a presentare un’Arwz^ ove fra l’altro assistiamo ad un coro di de­ moni che sprofondano sottoterra ed al crollo finale del palazzo della Maga ad opera delle Furie? Perché in quest’opera del 1817 non abbiamo piu a che fare con le solite «macchine» barocche, ma ci troviamo ormai di fronte a frutti di impetuosità romantica. La strada per giungere al Teli deve dunque necessariamente passare per VOtello. Sulla novità con cui a lungo fu avvertito questo lavoro (esso «rifulge di perpetua gioventù e d’immortale bellezza» scrisse il Romani)1 il CastilBlaze ci riporta un aneddoto sul vecchio bibliotecario del Conservatorio di Napoli Sigismondi che, per quanto scandalizzato dalle audacie rossi­ niane, aveva acconsentito ad esaminare assieme al giovane Donizetti la partitura proprio dell’O/eZZo: il pover uomo non aveva però potuto an­ dare oltre l’esame dello strumentale dal momento che si era subito indi­ gnato, nella sua prevenzione, dal momento che aveva confuso primo, se­ condo e terzo trombone (fatto già notevole) scritti su un solo pentagram­ ma con ben 123 tromboni1 2. È un trascurabile episodietto, una modesta facezia che tuttavia rivela come Rossini dovesse rendere prevenuti gli ambienti accademici d’allora anche per l’audacia e la novità della stru­ mentazione. Al proposito si pensi anche al pensiero già citato di Sten­ dhal: «Nous sommes sans cesse dans les trombones». Del resto il CastilBlaze puntualizzava la novità dell’Oz^ZZo proprio sul trattamento dell’or­ chestra ed a ragione, dal momento che col romanticismo l’orchestra si sarebbe liberata dalla subordinazione al canto: La réforme de Y opera seria heuresement entreprise dans Tancredi, est menée à la plus brillante conclusion par Rossini dans Otello. Le clavecin disperai t de Torchestre et, pour la première fois, les symphonistes en corps accompagnent les recitatifs [lo studioso dimentica però YElisabettd\ devenus plus courts et plus rates, puisque toutes les situations ont passé dans la musique. Les Italiens étaient jusqu’alors restés fidèles aux frappements insipides et d’une froideur glaciale du cembalo que Gluck avait banni de nos orchestres depuis quarante-deux ans. Rossini donne plus de largueur à son style, de plus grand déve1 e. branca, F. Romani ed. i più riputati maestri di musica del suo tempo, Torino 1882, p. 206. 2 L’opéra italien de 1548 à 1856 cit., pp. 400-2.

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loppemcnts à ses morceaux concertés, plus d’éclat, de pompe à la partie instru­ mentale dans Otello l.

In tale opera dunque il dramma si fa veramente musica in quanto non è piu paludato in scene immobili: l’orchestra aumenta così il suo spes­ sore e viene ad essere anche lei un personaggio ed una componente es­ senziale, ben caratterizzata. Il canto non è più il sovrano assoluto: tanto è vero che mancano nell’opera arie scopertamente virtuosistiche; anche nella celebre romanza gli abbellimenti si riducono a qualche catena di gruppetti che ancora bene si conciliano con l’espressività della scena. Gra­ zie anche a questo fattore il Fétis poteva porre l’accento sulla «instru­ mentation pittoresque» dei recitativi, in modo da conferire un «caractère plus décide à chaque situation, une expression plus vive à toutes les pas­ sions» e da cancellare cosi «la langueur de l’opéra serieux»12. Sullo slancio della sua fama V Otello sarebbe cosi rimasto in florida vita sino a quello verdiano: Viganò si affrettò ad utilizzare lo stesso ar­ gomento per un balletto e Liszt nel 1839, definendo II Barbiere ed Otel­ lo degli « chefs d’oeuvre», testimonia trattarsi di musica «que les enfants savent par coeur et que le peuple fredonne dans les rues»3; più tardi poi Theophile Gautier, in uno dei suoi Portraits contemporains, in partico­ lare in quello dedicato alla Sontag, non ha esitazione ad usare per Ros­ sini l’appellativo di «l’auteur d’O/eZZo»; e cosi quando si riferisce al­ l’esordio della cantante nella parte di Desdemona, nota: «Shakespeare commentò par Rossini, tout un monde! » 4. Verso la metà del secolo sia­ mo dunque sul versante opposto dello sdegno di Stendhal, in un primo tempo incapace di trascurare la bruttezza del libretto; qui un altro lette­ rato, grazie alla musica, dimentica la versione «spampanata e mucillagi­ nosa» (Checchi)5 di Berio. Anche il Fétis, negli stessi anni, cercava per cosi dire di metter pace fra musica e libretto pseudoshakespeariano pre­ cisando: Quel est le musicien, le simple dilettante, qui ne sent encore emù au souve­ nir de cette musique pénétrante des deux premiers actes si remplis d’energie et du troisième, où le genie du compositeur égale celui de Shakespeare, mais non dans le méme sentiment? Les enthousiastes de Shakespeare se sont montrés sevères, disons le mot, injustes pour la musique de Rossini parce qu’ils auraient voulu qu’il se fit traducteur des inspirations du créateur de la tragedie anglaise; 1 Ibid,, p. 394-95. 2 F. j. fétis, Biograpbie universelle des Musiciens, tomo VII, Paris 1864, p. 322. 3 f. Liszt, Lettres d’un bachelier de musique: De l’état de la musique en Italie, apparso sulla «Gazette Musicale» del 28 marzo 1839, cit. in liszt, Pages romantiques, a cura di J. Chantavoine, Paris 1912, p. 284. 4 th. Gautier, Portraits contemporains, Madame Sontag, Paris 1881, pp. 446 e 450. 5 Rossini cit., p. 101.

Ambivalenza deWOtello rossiniano

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mais c’est précisement parce qu’il est tonte autre chose, parce qu’il est lui, genie indipendent, qu’il mérite toute notte admiration. Ce sujet étant donne, il l’a senti et rendu avec l’originalité du musicien de mème que Shakespeare l’avait traité avec l’imagination du poète *.

7-

Senza dubbio YOtello è uno dei lavori che, segnando con la sua am­ bivalenza la svolta dell’opera seria ai primi dell’Ottocento, meglio pre­ para il terreno alla nuova musica di Bellini, Donizetti e Verdi. È neces­ sario però precisare, al termine di questa nostra indagine, che la presen­ za di topoi ancora classici non deve essere vista in Rossini solo come una scontata ed inevitabile eredità storica passivamente accettata. Ad esempio l’uso di temi musicali molto semplici ed apparentemente poco partecipi del dramma non è solo l’indice dell’incapacità da parte del mu­ sicista di adeguarsi piu profondamente alla serietà drammatica di alcune scene; anche Verdi, almeno il primo Verdi, farà uso di temi apparente­ mente poco pertinenti con il vigore tragico di particolari situazioni: e il vero movente ci sembra lo stesso. Consiste cioè, secondo noi, nel deside­ rio di superare la drammaticità del passo in questione e di non farsi coin­ volgere da essa; sono piccoli temi che suonano in sostanza come un in­ vito ad andare oltre ed a vedere il più possibile il lato positivo ed utile della situazione. Proprio sotto questa luce bisogna vedere anche quanto osservavamo ad esempio sul duo Rodrigo-Jago e sulla ambigua figura di Elmiro: Rossini non dipinge la cattiveria perché, dotato di un tempera­ mento sostanzialmente‘positivo, cerca di mettere in evidenza quanto di costruttivo è sempre possibile estrarre da ogni intreccio, anche se ciò va a scapito di quella logicità drammatica a cui invece s’atterranno piena­ mente i romantici. Proprio questo suo atteggiamento spiega, fra l’altro, anche il copioso uso di modi maggiori là dove sarebbe stato più imme­ diato quello di minori: la sua tragicità non si fa mai cupa e cieca ma sem­ pre vuole conservare un sentiero d’uscita. I suoi temi buffi non ci sem­ brano dunque mossi dal desiderio di ironizzare e di ricoprire col cinismo anche le situazioni più disastrose e neanche sembrano una conseguenza della superficialità, in realtà solo apparente, a cui si era abituati nell’ope­ ra buffa. Per «atmosfera morale» del dialogo con lo Zanolini bisogna infatti intendere non tanto lo stato emotivo che la musica dovrebbe ri­ specchiare e tanto meno il giudizio personale su quanto sta avvenendo, Biographic universelle cit., p. 322.

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Ferruccio Tammaro

ma piuttosto proprio Palone di pensiero attivo e volenteroso, e quindi sempre «morale», con il quale secondo lui occorreva avvolgere l’esterio­ rità del fatto, fosse esso buffo o drammatico. Il fatto dunque che la mu­ sica sua non sempre si piega facilmente alle sfumature dell’azione ma che anzi la costringe ad adattarsi alle sue necessità formali è il miglior indice che Rossini ragiona ancora in modo classico: ed egli sfrutta proprio que­ sta sua sensibilità per conferire un’«atmosfera morale», ovvero quell’e­ quilibrio grazie al quale egli può «riempire il luogo in cui i personaggi del dramma rappresentano l’azione»; ecco dunque che la musica per lui «non è un’arte imitatrice» dal momento che non si adegua né amplifica, a differenza dei successori romantici, l’interscambio emotivo delle azioni. Se collochiamo in fine VOtello nella sua giusta importanza storica sorge ancora una volta l’ormai usuale problema: come conciliare que­ st’opera e di conseguenza tutta la sua produzione seria con quella specie di rinnegamento che Rossini avrebbe lasciato con il noto epitafio: «Bon Dieu, j’étais né pour l’opera buffa...»? Dobbiamo tenere presente che, se concordiamo con questa conclusione autografa, dovremo allora anche concordare con la visione di Rossini esclusivamente edonistico, preso solo dalle seduzioni belcantistiche; dovremo scandalizzarci per la «trivia­ lità» di tanti passaggi drammatici, dovremo rimproverargli la teatralità profana dello Stabat. Ma in realtà, rifacendoci proprio a quanto detto poco fa, crediamo giusto pensare che, grazie fra l’altro proprio a\V Otello, Rossini con quella dichiarazione di resa voleva in realtà ironizzare su se stesso: con quella frase egli cioè giocava sulla fama a cui era andato in­ contro grazie al Barbiere, al Turco, alV Italiana. Si trattava in sostanza di scherzare sulla situazione che imprigionava la sua notorietà nella tradi­ zione dell’opera buffa italiana, poiché Rossini aveva ben capito che al­ lora come in seguito la sua posizione di compositore avrebbe dovuto fare i conti soprattutto con quella mentalità italiana cristallizzata nella abitu­ dine del Settecento buffo di Cimarosa e Paisiello, ormai apprezzati più che altro per la loro produzione comica, anche se autori di considerevole numero di opere serie. Questo sapeva Rossini e forse lo capiva anche Beethoven, quando lo invitava a seguire esclusivamente il gusto italiano. Come infatti poteva Beethoven pensare diversamente, dal momento che Bellini, Donizetti e Verdi erano ancora di là da venire? In realtà Rossini assieme a Donizetti chiude la tradizione italiana del buffo, ma apre quel­ la del dramma romantico: e Verdi arriverà al Falstaff alla fine della sua evoluzione teatrale, Nel 1863, quando Rossini si scusava col «buon Dio» per il suo ulti­ mo «peccato mortale» della Petite Messe Bellini e Donizetti, che egli aveva visto nascere e morire, avevano già fatto il loro tempo e Verdi si

Ambivalenza deWOtello rossiniano

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era ormai potentemente affermato: è difficile credere che Rossini, la cui produzione si era aperta e chiusa all’insegna dell’opera seria e le cui ope­ re serie sono superiori in numero a quelle buffe, non si fosse accorto che senza di lui la strada per i suoi tre successori non sarebbe stata tracciata.

PAOLO GALLARATI

Dramma e ludus d^Italiana al Barbiere

I.

Delimitazione del campo d'indagine.

Il rapporto voce-orchestra è notoriamente il perno centrale su cui ruota la struttura linguistica, stilistica e drammaturgica di un’opera li­ rica. Da Monteverdi a Berg, non solo in senso diacronico ma all’interno d’un medesimo periodo, nel cuore duna koiné linguistica ben definita, la propensione dell’orchestra verso una maggiore o minore emancipazione rispetto al canto, o viceversa, potè addirittura mutare segno all’espres­ sione melodrammatica nella sua complessità. In Rossini questo rapporto emerge con tale peculiarità che mi pare necessario assumerlo come punto di partenza per un’indagine tesa ad indagare, sia pure sommariamente, il funzionamento del suo sistema drammatico-musicale. Riguardo a tale problema, le opinioni degli esegeti rossiniani fluttua­ no ancora entro un’incerta impostazione di vedute che li fa parlare, alter­ nativamente, di riduzione strumentale del canto o di mimesi della parola da parte del discorso strumentale l, sino alla coniazione di nuove formule terminologiche come per esempio quella di «recitativo sinfonico» attri­ buita a certe tipiche configurazioni rossiniane del rapporto canto-orche­ stra e peraltro già criticata come dotata di insufficiente chiarezza1 2. Que­ ste note non pretendono di esaurire l’argomento ma solo di focalizzare alcuni punti, di individuare alcune costanti stilistiche e trarne le neces­ sarie conseguenze, limitando il campo di indagine ^Italiana in Algeri ed al Barbiere di Siviglia^ due capolavori in cui il suddetto problema si offre in modo particolarmente stimolante e tale da soddisfare l’esigenza di una loro più precisa collocazione storica e stilistica all’interno del me­ desimo corpus rossiniano. Premetto che la mia indagine escluderà momentaneamente di consi­ derare i «concertati statici» di fine atto o le strette a più voci di singoli pezzi o di singole scene quando, terminata l’azione, i personaggi ne com­ mentano l’effetto sgusciando fuori di essa in statici «a parte»; sorvolerò 1 Cfr. f. Lippmann, Per un'esegesi dello stile rossiniano, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», 1968, 5, p. 851. 2 Ibid., p. 826, nota 15.

238

Paolo Gallatati

pure sulle acquisizioni relative alla novità dell’orchestra buffa rossiniana, giunta nel 1813 alla sua prima compiutezza in seguito ad un processo maturato in seno alla tradizione e filtrato attraverso la lettura assidua dei sinfonisti viennesi (Haydn e Mozart in particolare); mi soffermerò in­ vece piuttosto sulla combinatoria dell’orchestra stessa nei confronti del canto e sulla fenomenologia relativa in arie, duetti, terzetti e concertati d’azione.

2. La combinatoria canto-orchestra nell’«Italiana in Algeri».

Nell'Italiana in Algeri il rapporto canto-orchestra è quasi sempre uni­ vocamente inteso come duttile e flessibile collaborazione della seconda rispetto al primo. Alla voce viene tradizionalmente affidato il ruolo pri­ mario di guida dell’azione musicale e drammatica ed è continua infatti la cura del musicista di sbalzarla dal sottostante tessuto sinfonico, attraver­ so l’incisiva peculiarità del disegno ritmico e melodico. Anche quando l’orchestra sembra concentrare in sé tutto il peso del discorso, la voce ha qualcosa da dire: dall’ampia fioritura melismatica essa scende fino alla nuda sillabazione ma non si riduce mai ad un anonimo balbettamento: sempre il canto è dotato di un certo spessore melodico oppure si arti­ cola in una notevole varietà prosodica cui Rossini affida talvolta il com­ pito di aderire strettamente al melos della parola e della frase. Anche la funzione espletata dal discorso strumentale è quanto mai duttile: essa va dal semplice accompagnamento armonico-ritmico alla proposta di mi­ crocellule melodiche o di configurazioni tematiche lievemente piu estese che si snodano direttamente sotto la voce, procedendo parallele ad essa; per la frequenza dell’integrazione nei confronti del canto e per l’elasticità della loro natura esse servono benissimo il mutevole e capriccioso intrec­ ciarsi del dialogo. La prima impressione che un orecchio abituato alle bi­ lanciate cadenze dell’opera settecentesca prova di fronte alla sintesi com­ binatoria (Dell'Italiana in Algeri è quella di una nuova dimensione tem­ porale nello snodarsi del dramma: qui dilaga un’incalzante pulsazione nel ritmo degli eventi che trasferisce sulla scena dell’opera buffa un rea­ lismo temporale dotato di una scioltezza e di una evidenza rappresenta­ tiva assolutamente uniche: la conversazione viene fuori in tutta la incal­ zante successione dei suoi frammenti ’ e, forse per la prima volta nella opera buffa, la durata musicale sembra esser dettata dal dramma stesso. 1 Tipiche in questo senso le scene d’azione dei due finali, le arie dialogate n. 16 di Isabella, e n. 11 di Taddeo, il terzetto «Pappataci! che mai sento» n. 15 ed in generale tutte le scene di con­ versazione.

Dramma e ludus dall’italiana al Barbiere

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3. La combinatoria canto-orchestra nel «Barbiere di Siviglia». Nel Barbiere di Siviglia il rapporto canto-orchestra offre una fenome­ nica assai più complessa. Tutta l’opera è costruita infatti secondo una costante alternanza di due modelli combinatori, cui se ne affianca occa­ sionalmente un terzo. Il primo di questi schemi vede l’orchestra distendersi in ampie confi­ gurazioni tipicamente strumentali e perfettamente formate che assorbo­ no il massimo interesse dell’ascoltatore: su di esse la voce si inserisce quasi come una proiezione timbrica che ne riproduce la linea melodica oppure, del tutto svuotata di melodia, ne scandisce lo schema ritmico, interamente o per formanti. La struttura prosodica del canto perde cosi ogni elasticità e viene sottoposta ad un criterio rigorosamente simmetri­ co che la allaccia strettamente alla linea musicale maestra dipanata dagli strumenti: anzi, la cura principale della voce sembra proprio esser quel­ la di celarsi e di mimetizzare la propria presenza nei confronti dell’even­ to sinfonico: la lettura dello spartito potrebbe avvenire quasi esclusivamente sui righi pianistici, senza timore di tralasciare linee essenziali. (Cfr. es. 1 a, 1 b e 1 c). Chiamerò questo caso (I), dell’«orchestra guida». Il secondo modo di definire il rapporto canto-orchestra nel Barbiere segue un criterio opposto. Qui è infatti la voce che assume un ruolo protagonistico ed afferra la guida del discorso svolgendolo con abbondante e regolare profusione di simmetrici melismi (oppure, nelle arie dei bassi, con una delirante scarica di fonemi ottenuta attraverso la rapidissima sil­ labazione). Il trattamento vocalistico mantiene un carattere strumentale

1 Gli esempi musicali sono basali su g. rossini, L/Iialiana in Algeri, Ricordi n. 87409, Milano 1953, e su id., Il Barbiere di Siviglia, Ricordi n. 131809, Milano 1973.

Dramma e ludus dalY Italiana al Barbiere

Finale I. Es. ic

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Paolo Gallarati

per una sorta di coincidentìa oppositorum rispetto al caso precedente: se là era la scarnificazione del canto in semplici pulsazioni ritmiche o in spigolosi disegni strumentali, qui è la struttura melismatica (o fonetica) che impedisce qualsiasi effetto di declamazione. L’orchestra si limita a scandire un ritmo regolare senza offrire alternative tematiche alla linea vocale. All’opposto di (I), la lettura dello spartito può avvenire, parados­ salmente, solo sul rigo del canto. Diamo alcuni esempi: Duetto n. 7.

Dramma e ludus dall’Italiana al Barbiere

243

Quintetto n. 13. Conte

8

Ch’ei

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Paolo Gallatati

Chiamerò questo caso (II), della «voce guida». È necessario ancora notare che l’alternanza di (I) e (II) è costante in quasi tutti i pezzi della partitura ed essi vanno perciò considerati insieme, come un binomio stilistico inscindibile in cui il canto e l’orchestra, pra­ ticamente su di un piano di parità qualitativa (sono frequenti gli scambi di materiali identici), si palleggiano il bandolo del discorso musicale. Alla casistica ora descritta si affianca ancora un terzo modo di inten­ dere il rapporto canto-orchestra. Esso si presenta più raramente rispetto agli altri, talvolta all’inizio dei singoli pezzi, talvolta durante il loro svol­ gimento dove determina un’improvvisa interruzione del regolare flusso musicale portato avanti da (I) e (II): le maglie della simmetria si alien-

Dramma e ludus àaWItaliana al Barbiere

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tano e lasciano affiorare alcune battute di «recitativo» dove il canto, final­ mente rispettoso delle leggi della declamazione, viene appena discreta­ mente sorretto dagli strumenti che talvolta tacciono e lo lasciano padrone assoluto dell’azione musicale. L’emersione di questi momenti dal terri­ torio circostante e la loro capacità di sprigionare energia dialettica, tanto in senso stilistico che in senso drammatico, è sottolineata da Rossini che scrive talvolta «a piacere» sul rigo del canto e «col canto» in orchestra. La parola è gonfiata ed evidenziata in questi casi mediante la cesellatura prosodica od attraverso una forte pregnanza della frase musicale. Ecco alcuni esempi: Duetto n. 7.

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Paolo Gallatati

Finale I. Figaro [piano al Conte]

Es. 3c

Definirò questo caso (HI), della «parola scenica», appropriandomi della celebre formula verdiana il cui impiego giustificherò in seguitol. Viene ora spontaneo domandarsi se questa casistica musicale non si possa mettere in qualche relazione con i contenuti letterari e dramma­ turgici del libretto di Cesare Sterbini. L’operazione di confronto approda a risultati che mi pare si presentino con una certa attendibilità e suffi­ ciente coerenza. Notiamo infatti che Rossini usa per lo più il metodo dell’«orchestra guida» (I) quando si richiede alla musica la traduzione del discorso diretto; quello della «voce guida» (II) quando il testo intro­ duce degli «a parte», esclamazioni, immagini metaforiche in cui — per 1 A proposito della frase di Figaro «Signor giudizio per carità» del Finale I, scena xv, ripor­ tata nell’esempio 3c, Verdi scrisse in una lettera all’Arrivabene: «Fate con questi mezzi [melodia, armonia, declamazione, canto fiorito, effetti d’orchestra, color locale] della buona musica, ed am­ metto tutto, e tutti i generi. Per es. nel Barbiere la frase "Signor giudizio per carità", questa non è né melodia né armonia: è la parola declamata giusta vera; ed è musica... Amen...» (cit. in f. ab­ biati, Giuseppe Verdi, 4 voli., Milano 19.59, vol. IV, p. 195).

Dramma e ludus dall’Italiana al Barbiere

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dirla con Jakobson1 — il linguaggio acquista una funzione «emotiva» che serve a sottolineare l’atteggiamento del soggetto rispetto all’oggetto; quello della «parola scenica» (III) nei momenti cruciali del dramma, quando avviene un fatto risolutivo o l’azione è ad una svolta decisiva. A questi tre momenti stilistici corrispondono anche tre diversi ritmi temporali della rappresentazione melodrammatica. Il più realistico è ovviamente l’ultimo, quello della «parola scenica»: la voce nella sua scioltezza, libera dai vincoli dell’incastellatura strumentale, può libera­ mente articolarsi nel gioco di botta e risposta tra i singoli personaggi, ri­ producendo la fitta dialettica temporale della conversazione. Il caso (I) offre rispetto a (III) un’articolazione temporale indubbiamente più qua­ drata, imposta dalla natura strumentale, simmetrica e perfettamente «formata» del discorso sinfonico. Il ritmo narrativo è assai meno sciol­ to: la voce è condizionata nella propria dialettica interna da un principio a lei estraneo e di cui essa stessa è - come s’è detto - la proiezione: in ter­ mini di linguistica si potrebbe quasi dire che la voce «è parlata» dall’or­ chestra che le impone il proprio codice ritmico1 2. Il caso (II) introduce invece una dimensione temporale drammaticamente sospesa: l’azione si arresta ed il vuoto è riempito da una vertigine musicale che risucchia le voci dei personaggi in un delirio fonetico o melismatico, avvitandole vor­ ticosamente su se stesse nell’ebbrezza del puro movimento.

4. Le due combinatorie a confronto.

Paragoniamo ora la combinatoria stilistica del Barbiere di Siviglia e le sue implicazioni temporali con quella precedentemente rilevata nelV Italiana in Algeri. Il potere di autodeterminazione, vale a dire la liber­ tà, che il canto godeva in arie, duetti, e concertati d’azione del capola­ voro precedente, si annida qui nelle fugaci apparizioni di (III) che sem­ brano avanzate dal musicista per il gusto di violentarle e travolgerle at­ traverso l’impiego dirompente di (I) e (II). Inoltre, la presenza di «or­ chestra guida» (I) e «canto guida» (II) intesa come binomio pressoché indissolubile e rapporto costante di due fattori complementari, quasi rec­ to e verso d’una stessa medaglia, non esiste rxAV Italiana-, esistono solo singoli e rari casi di (I) e (II), o meglio alcune loro anticipazioni che cer­ cherò in seguito di inquadrare entro una più ampia valutazione del si­ stema che presiede alla definizione dell’opera, 1 Cfr. R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano 1966. 2 Ai fini drammaturgici tra (I) e (HI) c’è un po’ la differenza che separa la battuta teatrale in versi da quella in prosa.

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Paolo Gallarati

Da queste osservazioni si può trarre un primo ordine di conclusioni: BaWItaliana al Barbiere esiste senza dubbio un rovesciamento di rapporti linguistici e la messa a punto di una più complessa dialettica temporale1 nella scansione musicale e teatrale del dramma. Se poi dalla regione della lingua ci innalziamo alla considerazione dell’impianto generale delle due opere abbiamo la conferma del mutamento anche su un piano più vasto. Dal semplice conteggio dei pezzi risulta infatti che: su 16 numeri can­ tati BAVItaliana i pezzi d’assieme più le arie allargate alla partecipazione del coro o di altri personaggi sono io; le arie rigorosamente solistiche sono 4, i duetti 2. Nel Barbiere di Siviglia su 18 numeri cantati i pezzi d’assieme sono 5, le arie solistiche 9, i duetti 4, se consideriamo come duetto l’aria di Rosina «Contro un cor» che ad un certo punto coinvolge anche la voce di Almaviva. Balzano allora evidenti le connessioni tra il piano della lingua e la struttura generale dei drammi: da una parte L'Ita­ liana in Algeri nella sua articolazione stilistica e temporale, lascia pochis­ simo spazio all’aria solistica ed offre una rosa di pezzi in cui è evidente il desiderio di istituire la massima densità di rapporti tra le «dramatis personae»; dall’altra II Barbiere di Siviglia, basato sull’alternanza di (I) e (II), non teme di allineare una lunga serie di arie solistiche in cui il personaggio è catafratto nella corazza del monologo e non offre agganci ad una sua immediata relazionabilità con gli altri.

5. Drammaticità dell’«Italiana in Algeri». L’arco evolutivo (laVC Italiana al Barbiere assume allora l’aspetto di un capovolgimento che investe il sistema rossiniano nella sua com­ plessità. Il rapinoso gioco di incastri stilistici, simmetricamente strutturati nel capolavoro del 1816, è assente Italiana-. l’opera coltiva piuttosto l’idea chiave della tradizione buffa, quell’idea di profonda e sempre più efficiente scioltezza drammatica, già pervenuta, in altro contesto di gusto e di cultura, ad una prima perfezione nel teatro musicale di Mozart. Il grande modello è presente infatti neW Italiana come in nessun’altra opera di Rossini, profondamente assimilato e rivissuto nell’ambito squisita­ mente latino di questo «dramma giocoso»: il quale possiede, non dimen­ tichiamolo, la medesima dicitura del Don Giovanni, e non quella di «me­ 1 Si ricordino le tre dimensioni temporali diverse legate nel Barbiere a (I), (II) e (III). Vedi sopra, p. 247.

Dramma e ludus àaWItaliana al Barbiere

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lodramma buffo» che il titolo del Barbiere porterà di li a poco in calce. La tradizionale interpretazione del passaggio Italiana al Barbiere come superamento della grottesca deformazione comica e della pura gra­ tuità musicale in seno al limpido realismo della commedia dotata di im­ pegno drammatico va quindi rivisto ed eventualmente arricchito alla luce di una ricognizione stilistica che sembra a prima vista contraddire le immagini correnti delle due opere, o per lo meno proiettarle entro una problematica ben piu complessa. Il mediatissimo esempio mozartiano, con tutte le sue implicazioni drammaturgiche agisce infatti neXVItaliana a tutti i livelli, dalla cesella­ tura finissima del rapporto tra melos e verbo alla definizione della forma, dalla conquista della nuova dialettica temporale alle effettive reminiscen­ ze drammatiche e musicali \ Non era forse mai accaduto nell’opera buffa italiana che il canto raggiungesse un cosi alto grado di scioltezza e va­ rietà prosodica: il recitativo accompagnato di Isabella «Amici, in ogni evento»12, per esempio, discende in linea retta dall’alchimia declamatoria del recitativo mozartiano. L’elasticità dell’andamento ritmico, l’accortis­ sima distribuzione delle pause (si noti la prima frase significativamente spezzata in tre incisi declamatori), l’impercettibile lievitazione del canto verso la melodia su lunghe note tenute dall’orchestra in un rapporto sti­ listico che, attraverso Mozart, sembra persino risalire a Gluck, tutto con­ tribuisce a rendere il melos della frase ed a seguirne flessibilmente la linea fonica e la parabola emotiva. Ma questo interesse per una declama­ zione accurata e varia non si limita ai recitativi accompagnati: esso pene­ tra anche all’interno delle forme chiuse, senza timore di rompere la sim­ metria proposta dallo schema metrico dei versi o logicamente implicita in certe ripetizioni. (Si confrontino i passi riportati negli esempi 4^, 4b e 4c). In tutti questi casi è chiarissima in Rossini la volontà di negare gli schematismi prosodici della tradizione buffa e di cogliere ed interpretare la parola nella sua indissolubile unità di fonema e semantema. Proprio questo fatto produce l’impressione di dominio incontrastato della voce che si è notato all’inizio come elemento caratterizzante BAVItaliana in Algeri. È ovvio tuttavia che un trattamento prosodico di questo tipo non ga­ rantisce automaticamente la totale comprensione del testo: la parola sfo1 Già il Radiciotti (g. radiciotti, Gioacchino Rossini. Vila documentata. Opere ed influenza su Varie, 3 voli., Tivoli 1927, vol. I, p. 123) aveva rilevato la natura mozartiana del «terzetto» cantato da Lindoro, Zulma ed Elvira nel Finale I («Pria di dividerci»): «si direbbe uno di quei brevi ter­ zetti che cantano i genii nel Flauto Magico». Un’altra indubbia reminiscenza di quest’opera è nel­ l’aria di Haly «Le femmine d’Italia» dove il tema principale assomiglia irresistibilmente a quello del rondò di Papageno «Ein Màdchen oder Weibchen». 2 Prima del rondò «Pensa alla patria».

Finale I.

Es. 4 b

ra dal tessuto musicale ora con maggiore ora con minore evidenza e que­ sta dialettica è sottolineata da Rossini in tutta la sua grande potenzialità espressiva. Italiana in Algeri risale infatti il gusto per l’improvvisa emersione della «parola scenica» che folgora il momento drammatico, sprigionando in un semplice atto di pronuncia intonata un’enorme ten­ sione catalizzatrice: tanto che l’uso ante litteram del vocabolo verdiano sorge spontaneo e chiarificatore (cfr. es. 5a, jb, 5 c). L’alto tasso rappresentativo depositato in questi casi dall’accortissima distribuzione del materiale ritmico e melodico sarà sfruttato, come ab­ biamo visto, nel Barbiere di Siviglia dove acquisterà ancora in tensione

Finale I. Isabella

Dramma e ludus dall’Italiana al Barbiere

253

dialettica: se neB'Italiana infatti la «parola scenica» rappresenta il frut­ to quintessenziato di uno stile basato essenzialmente sulla varietà pro­ sodica e sulla libertà del rapporto canto-orchestra, nel Barbiere di Siviglia essa compare come momento di rottura all’interno di una combinatoria Terzetto n. 15. Lindoro Es. $b 8 [Pappa] - ta - ci Pap-pa - ta - ci dee man - giar

[Pappa] - ta - ci Pap-pa - ta - ci dee man - giar

L.

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e

che affida ad un taglio squisitamente strumentale e geometrico gran parte della propria articolazione interna \ 1 II desiderio di evidenziare la parola giunge persino a spogliarla completamente del suo con­ tenuto musicale, come dimostra la battuta parlata di Isabella «Ehi! Caffè...» nel cuore del quintetto «Ti presento»: in queste tre sillabe semplicemente «dette» da Isabella, Rossini esperisce direttamente i rischi che il realismo della parola comporta e che sfocieranno un giorno nel disarticolato grido verista.

Dramma e ludus dall’Italiana al Barbiere

255

Il tenace perseguimento di un’interpretazione del canto in chiave ri­ gorosamente espressiva nell’Ita/^rf in Algeri informa anche l’impiego del virtuosismo vocale che viene sovente elevato ad un’essenziale fun­ zione connotatoria. È evidente, per esempio, nella parte di Mustafà, il ruolo espressivo dei vocalizzi in cui si avvolge il canto monumentale del basso che offre in tal modo l’immagine personalissima della propria ba­ rocca e grottesca maestà; ma ancora più straordinario mi pare l’uso della coloratura in tutta la parte di Isabella e particolarmente nel citato rondò

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del secondo atto. Qui, come in molti altri passi, il vocalizzo viene sot­ tratto alle suggestioni dell’arabesco per sostanziare musicalmente la pa­ rola in due direzioni opposte e complementari insieme: interiormente, come scavo semantico; esteriormente, come resa del «tono» declamatorio, non per mimesi diretta, ma quasi per metafora stilistica, attraverso un procedimento che guadagna in efficacia proprio nella misura in cui sa porsi al riparo da tentazioni naturalistiche Non sempre tuttavia in que­ st’opera il canto si qualifica in senso rigorosamente espressivo: talvolta è condotto come la linea d’un puro arabesco e questo avviene in passi strutturalmente rivelatori cui riserverò in seguito alcune osservazioni. Per il momento mi interessava mettere in rilievo la peculiarità di una ricerca che fa tesoro d’un’esperienza culminata nel teatro mozartiano cui il giovane Rossini si accosta non con pedissequa sudditanza ma nella pie­ na consapevolezza dell’impiego di ben precisi strumenti stilistici. Anche la scioltezza del rapporto canto-orchestra che si svincola dalle bilanciate ed euritmiche cadenze cimarosiane per acquistare una dutti1 A proposito di questo brano, Lippmann scrive (Per un’esegesi dello stile rossiniano cit., p. 817): «Le prime nove battute del canto si frangono in piccole figurazioni che, nonostante gli abbel­ limenti, hanno carattere sostanzialmente declamatorio». A me pare invece che proprio gli abbelli­ menti siano in questa pagina il principale elemento stilistico atto a conferire alla voce un tono de­ clamatorio: Rossini agisce qui in senso opposto a Gluck che aveva eliminato gli abbellimenti per imprimere al canto una maggiore incisività, proprio sul piano del declamato. Al rifiuto preconcetto del melisma Rossini oppone l’utilizzazione espressiva del medesimo e sfrutta con sagacia una delle carte vincenti della tradizione italiana.

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lità assoluta nella libera frequenza dell’integrazione reciproca, fa tesoro dell’esperienza di Mozart. Nel Matrimonio segreto (1792) l’alternanza di canto ed orchestra in un gioco continuo di risposte regolarmente rit­ mate - quasi ogni frase, ogni inciso del canto ha, prima o dopo, la sua clausoletta orchestrale che puntualmente lo annuncia, lo rifrange o lo completa - cristallizzava la vicenda melodrammatica in una temporalità ancora piuttosto lenta, squisitamente convenzionale e composta in astrat­ to in cui era il senso stesso dell’opera: non tanto dramma quanto gioco, convenzione, divertimento allo stato puro. Mozart scioglie questo illu­ ministico sistema di incastri nella fluidità estrema del suo discorso: egli non intende più il rapporto canto-orchestra come regolare successione di interventi in sé formati ma stringe insieme i due elementi, opera la so­ vrapposizione simultanea di due linee musicali ben distinte ed interpre­ tate ciascuna secondo la propria peculiarità. L’accelerazione del tempo è allora un fatto compiuto ed il tasso di realismo circolante nelle vene del­ l’opera comica si alza di colpo. È proprio partendo da queste premesse che Rossini, assiduo lettore mozartiano, pervenne Italiana in Algeri ad un’ulteriore concentrazione del tempo narrativo: il realismo psicolo­ gico delle Nozze di Figaro viene sostituito da una sorta di realismo tem­ porale che tende a «cogliere il ritmo della vita quotidiana» ed a stabili­ re «tra ritmo musicale e ritmo della vita quotidiana, in ogni sua profon­ da o banale modificazione», «una diretta connessione» *. Anche Rossini rompe le bilanciate cadenze del rapporto canto-orchestra cimarosiano, operando come Mozart la sovrapposizione simultanea delle due linee, con le ovvie differenze di spessore sinfonico e di struttura vocale che lo scarto tra due diversi mondi drammaturgici logicamente comporta: dal­ l’esempio mozartiano trae spunto per una profonda assimilazione di certi 1 Cfr. L. rognoni, «L’Italiana in Algeri» paradosso del realismo comico rossiniano, programma del Teatro alla Scala, Milano 1974-75. Mozart e Rossini erano abbinati nell’opinione del pubblico contemporaneo come due paladini della velocità. Geltrude Righetti Giorgi, la prima interprete di Rosina, scriveva nell’opuscolo intitolato Cenni di una donna già cantante sopra il maestro Rossini, in risposta a ciò che ne scrisse nella state dell’anno 1822 il giornalista inglese in Parigi e fu ripor­ tato in una gazzetta di Milano dello stesso anno e pubblicato in appendice a l. rognoni, Gioacchino Rossini, Torino 1968: «La musica poi de’ giorni nostri è essenzialmente rapida, sia essa composta da Rossini o da Mozart. Io non dico già che i larghi siano veloci come gli allegri. No: ma i larghi scorreranno anch’essi non lasciando posa negli animi degli ascoltanti, e lo si permetta; o questi larghi faranno una subita dolce impressione, o vi annoieranno immediatamente. Nel primo caso non è dal loro moto che se ne trae il piacere; egli è dalla novità e dalla vaghezza con che sono composti. E cosi sarà ed è degli allegri, e dirò di più, che se si potesse formare un raziocinio, un concetto men­ tale sovra una frase, o un motivo musicale e l’animo soprafatto dalla occupazione della mente vi per­ derebbe l’occasione del diletto. E vaglia il vero: immaginate una poesia strana, o colma di astruse parole, e fatela soggetto di composizione musicale. Se avvenga che il pubblico, come sovente avvie­ ne, abbia bisogno di applicazione speciale per comprendere il senso delle parole, gli sfugge allora la soavità della melodia e non ne prova il diletto che sarebbe da sperarsi. Voglio dire con ciò che la musica nostra è essenzialmente rapida, e la sua rapidità non nuoce e non giova alla sua bellezza».

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modelli strutturali atti a svincolare il dramma dagli schemi illuministici e ad imprimergli la massima scioltezza e coerenza narrativa. L’urgenza di questa necessità fa dAVltaliana in Algeri un’opera stra­ ordinariamente progressista (con buona pace di chi vuole vincolare a tut­ ti i costi Rossini al clima della Restaurazione), non solo per il suo bru­ ciante realismo temporale ma anche per il desiderio di infittire al mas­ simo grado i rapporti tra le dramatis personae. Già si è detto, nei freddi dati della statistica, che Rossini tenta in quest’opera di rompere l’isola­ mento dell’aria e di introdurla all’interno del tessuto drammatico. Solo quattro numeri AeWltaliana si presentano infatti come rigorosamente solistici e fra questi l’aria di Mustafà (n. 7) si apre nella parte centrale ad un pungente effetto di dialogizzazione: il Bey si rivolge concitatamente ad Elvira, Zulma ed Haly in una sorta di «recitativo» che, nella sua efficace varietà ritmica, rompe il regolare flusso musicale precedente. Inutile sottolineare quanto la dialogizzazione dell’aria debba alla dram­ maturgia mozartiana da cui Rossini trae spunto per concretare l’effet­ tiva trasformazione della vecchia struttura in concertato a più voci (cfr. «Per lui che adoro») o in «aria con coro». Questo secondo caso porta sul palcoscenico del suo teatro buffo una forma che veniva largamente praticata in quel tempo dagli operisti della scuola postgluckiana e la cui diffusione risale indubbiamente alla riforma del melodramma. Rossini ne infittisce la dialettica interna, svincolandola da un andamento mecca­ nicamente iterativo e, legando in una stretta consequenziarietà musicale gli interventi del solista e quelli del coro, allarga la struttura dell’aria a quella di una vera e propria «scena». Efficacissime in questo senso l’aria di Taddeo «Ho un gran peso sulla testa» ed il rondò di Isabella «Pensa alla patria» in cui, oltre all’interlocutore diretto del coro, vi sono alcuni interlocutori muti cui i due personaggi si rivolgono nel corso del pezzo: Mustafà, nell’aria di Taddeo; Lindoro e Taddeo nell’aria di Isabella, che si apre in tal modo alla sintesi di serio e buffonesco. Questo celeberrimo rondò patriottico costituisce, come è notò, il ver­ tice patetico dell’opera e completa con un tratto decisivo il carattere di Isabella che acquista in tal modo una complessità di sfaccettature impos­ sibili a etichettarsi sotto l’univoco cartello di un «tipo» razionalistica­ mente inteso. In un mondo di burattini, Isabella emerge come una donna e distilla nella ricchezza delle sue movenze interiori, il frutto dell’assidua ammirazione per la drammaturgia mozartiana che portò Rossini non ad un pedissequo ricalco ma all’assimilazione, in un contesto culturale fon­ damentalmente diverso, di un certo tipo di caratterizzazione psicologica. Ma, oltre alla peculiarità dei contenuti, è notevole in questa pagina l’e­ strema libertà di articolazione formale, tanto da rendere verificabile lo

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schema del rondò su di un piano esclusivamente espressivo, come alter­ nanza di episodi lirici ed episodi drammatici conclusi da una coda, e non sul piano tradizionale della circolarità tematica L’intento di rappresen­ tazione realistica, l’assunzione di Isabella a cardine centrale e perno ruo­ tante della grande scena (e dell’opera intera), il suo dialogo con il coro, le allocuzioni rivolte a Lindoro e a Taddeo, tutto ciò porta Rossini a trat­ tare l’aria come un recitativo ed a saldarla in modo impercettibile con il recitativo precedente, la cui progressiva lievitazione verso un clima d’a­ rioso aveva già preparato da tempo il passaggio. Questa liberazione da­ gli schemi simmetrici - ravvisabile anche in altre pagine solistiche2 - av­ viene pure nei concertati d’azione3 dove ciascun personaggio tende a rita­ gliarsi una tematica propria e la parabola musicale a descrivere in senso lato una linea durchkomponiert'. la forma non segue più, come nei con­ certati di Mozart, un arco autonomo con le sue simmetrie e le sue rispon­ denze interne basate sul principio strumentale della ripresa: qui il «te­ ma» è legato al personaggio e nel suo fugace ripresentarsi sembra tal­ volta quasi instaurare una lievissima tecnica di leitmotiv prewagneriano: procedimento che sfiora il rischio della dispersione cui Rossini porrà ri­ medio nel modo che vedremo \ 1 Lo schema della pagina potrebbe essere il seguente: Recitativo: «Amici, in ogni evento». I Rondò: «Pensa alla patria»: Drammatico; I «vedi per tutta Italia»: Lirico; 1 «Sciocco! tu ridi?»: D; | «Caro, ti parli in petto»: L; I «Amici in ogni evento»: D; | «Qual Piacer!»: Coda vitalistica. 2 Cfr. per esempio la «sortita» di Mustafà «Delle donne l’arroganza» nella Introduzione al­ l’atto I e la prima sezione dell’aria di Isabella «Cruda sorte! » 3 Non nei concertati statici, che considereremo in seguito. * Un caso tipico si può ravvisare per esempio nel Finale I dove la cellula:

che circola insistentemente nella scena xn viene inaspettatamente ripresa per sole quattro battute alla fine della scena xm, in un contesto tematico del tutto diverso dopo quattro episodi musicali nuovi e ben distinti (l’Allegro: «Costui dalla paura»; l’Andantino in due sezioni «Pria di divi­ derci» - «Confusi e stupidi»; l’Allegro: «Dite; chi è quella femmina?»): il significato di questa ripresa, slacciata da qualsiasi schema strutturale, è probabilmente «letterario» e mi sembra possi­ bile metterlo in relazione con l’«idea» del goffo cicisbeismo di Mustafà: la cellula compare infatti per la prima volta con la sorpresa di Taddeo nel constatare la galanteria del Bey verso Isabella («Ohimè!... qual confidenza!...»); accompagna ironicamente la condanna di Taddeo (Haly: «Signor, quello sguaiato...» | Mustafà: «Sia subito impalato») ed è ripresa nel dialogo galante tra Isabella e Mustafà (Isabella: «Caro, capisco adesso | che voi sapete amar» | Mustafà: «Non so che dir; me stesso, | cara, mi fai scordar»). Un altro caso in cui mi sembra possibile individuare una larvata tecnica di leitmotiv è nel Ter­ zetto «Pappataci! che mai sento!» dove la ritorta configurazione tematica che compare sotto le pa­ role di Taddeo: «Voi mi deste un nobil posto» viene ripresa assai più lontano sotto le parole di Mustafà: «Ma spiegatemi, vi prego» ed è evidentemente connessa con l’idea della misteriosa ono­ rificenza del «Pappataci».

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6. Ludicità del «Barbiere di Siviglia». Questo grandioso tentativo, attuato neWItaliana di articolare il dram­ ma in una frequenza di rapporti interni sinora sconosciuta all’opera buf­ fa, viene indubbiamente accantonato nel Barbiere di Siviglia dove l’ot­ tica squisitamente drammatica del capolavoro precedente lascia il posto ad una prospettiva di tipo prettamente «ludico». Questo non significa affatto che nel Barbiere viene compromessa la scioltezza dell’azione, ma che l’icastica efficacia teatrale dell’opera appare piuttosto come il felice risultato d’un intento di costruzione squisitamente musicale. Si pensi al­ la strumentizzazione del canto attuata nel Barbiere di Siviglia, dove il ri­ spetto della parola e l’impiego di una vocalità generalmente «espressiva» sono limitati ai punti cruciali che ho detto. Anche la coloratura che nel capolavoro precedente si era mossa volentieri su un terreno denso per l’ascoltatore di forti virtualità evocative in senso mimetico, psicologico e drammatico, offre piuttosto una sorta di esercizio esplorativo al cuo­ re del materiale musicale: basta mettere a confronto le prime sezioni delle due arie con coro di Isabella (nn. 5 e 16) con l’incipit dell’aria di Rosina per rendersi conto di come la coloratura serva qui il desiderio di gustare la qualità della voce, il capriccioso frastagliarsi del ritmo, la pungente dialettica dei colori piuttosto che l’intento di definire un carat­ tere o una situazione. In questo modo il personaggio è presentato nella sua natura musicale, viene impostato prima di tutto come « voce» cui se­ guirà, quasi risultante involontaria, la connotazione espressiva. La coerenza compositiva del Barbiere di Siviglia nasce dalla perfetta strutturazione dei tre modi di intendere il rapporto canto-orchestra in relazione a precise funzioni del linguaggio librettistico e secondo la com­ plessa dialettica temporale descritta sopra. La qualità strutturale dei due fattori stilistici (I) «orchestra guida» e (II) «canto guida», rilevati ap­ punto come scrittura base dell’opera, è infatti strettamente interdipen­ dente: i due modelli combinatori non sono accostati come elementi estra­ nei ma sfociano l’uno nell’altro con la massima naturalezza. Già si è no­ tato che in ambedue i casi, in virtu d’opposto trattamento, il canto viene strumentizzato: ma la predisposizione al gioco d’incastri deriva soprat­ tutto dalla natura regolare e musicalmente formata di (I) che offre al mo­ nologo od al dialogo la possibilità di comporsi in simmetria, sulla base del disegno strumentale, e quindi di scivolare naturalmente in (II) dove la voce s’inebria appunto di simmetrici melismi. Questo libero abbando­ narsi del canto all’ebbrezza del vocalizzo punteggiato discrétamente dal ritmo orchestrale, che si presenta nel corso dei pezzi alternato ad (I), ver­

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so la fine letteralmente dilaga, imprimendo alle sezioni terminali di arie e duetti una dimensione inaudita. Il personaggio, tratteggiato con impa­ reggiabile ed univoca evidenza, è cosi progressivamente attratto dalla se­ duzione del puro gioco musicale: prima, nella continua alternanza di (I) e (II), sempre strettamente legati alla significazione «psicologica» e drammatica; poi, nella delirante iterazione di certi segmenti che perdono in tal modo il loro valore caratterizzante e determinano il superamento dell’entità individuale in seno alla vorticosa girandola fonetica o melismatica: il personaggio s’inebria a tal punto del proprio carattere fonda­ mentale che viene per cosi dire polverizzato come una statua da uno scal­ pello impazzito. Questa vicenda stilistica e drammatica, tesa in un arco parabolico meravigliosamente fluido, s’organizza in una struttura equilibratissima che non raccoglie l’invito alla liberazione formale avanzato con perento­ rietà in numerosi passi AdLItaliana in Algeri: qui, il desiderio di un’as­ soluta compattezza formale porta Rossini all’eliminazione di tutto ciò che non sia immediatamente giustificabile sul piano dell’essenzialità mu­ sicale: il recitativo accompagnato per esempio viene abolito, o meglio assimilato alla sezione iniziale dell’aria \ cosi come il musicista lascia ca­ dere quelle forme di aria aperta ad interventi estranei, dialogizzata12 o. svolta quasi come un arioso di cui L'Italiana aveva offerto splendidi esempi. La rispondenza interna della struttura, il principio della ripresa sono nel Barbiere condizione prima della forma musicale stessa: e non solo nelle arie: anche nei concertati d’azione la musica del Barbiere dise­ gna, per cosi dire, colossali en]ambements formali3, divagando per pa­ gine senza smarrire il filo del discorso che viene ricondotto poi, nel mo­ mento e nel modo piu inaspettato, al punto di partenza: il miracolo sta nella spontanea adesione della forma musicale all’azione drammatica, nel­ la sua capacità di incarnarla senza residui in una sorta di armonia presta­ bilita che rinnova sul palcoscenico dell’opera buffa i fasti del melodram­ ma di Mozart. Anche nel Barbiere di Siviglia l’esempio di Mozart si pone quindi come un modello ideale: ma, mentre nell "Italiana di Algeri aveva offerto lo spunto all’ulteriore sviluppo della concentrazione narrativa, sino allo sfioramento piuttosto frequente della «forma», qui, nel Bar­ biere di Siviglia, esso porta Rossini ad un impegno squisitamente archi­ tettonico. 1 Si veda, per esempio, l’aria della «Calunnia» dove l’inizio è concepito come un seguito di «parole sceniche» e, nella sua apparente libertà di articolazione, introduce all’aria vera e propria come un vecchio recitativo accompagnato. 2 L’unica aria dialogica del Barbiere è quella di Bartolo «A un dottor» ma, nell’insistenza del­ la sua simmetria formale, nega di fatto qualsiasi suggestione in questo* senso derivante dal testo. 3 Cfr. Introduzione all’atto I e Finale I.

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Grandissimo spazio assume dunque in quest’opera l’elemento ludico, inteso prima di tutto come recupero di un’esigenza di costruzione for­ male che i concertati d’azione di Mozart non avevano mai abbandonato1 e che viene qui riassunta dopo l’esperienza in senso opposto Italiana in Algeri. Ma non si pensi ovviamente ad una meccanica riesumazione di modi dall’autore stesso ormai superati: il ritorno al passato avviene con piena consapevolezza di causa e la forma chiusa è ripresa non più come garanzia di illuministica stilizzazione ma come mezzo per garantire un trapasso fluido e quasi inavvertibile dall’azione drammatica all’aspetto più rivoluzionario del ludus rossiniano: la sospensione del «tempo», o meglio il suo smisurato allargamento in seno ad episodi dove è la mu­ sica sola ad imporre la propria forma ed il proprio ritmo interiore. Il che non avviene solo a livello di aria singola, o nei duetti, ma anche nel cuo­ re dell’azione tra molti personaggi (in questi casi, se dapprima la dialet­ tica musicale procede secondo la solita alternanza dei tre principi (I), (II) e (III), verso la fine, quando le voci si stratificano in un ampio com­ plesso polifonico, l’aerea fioritura melismatica, che nelle strette delle arie faceva da padrona assoluta del campo, viene sostituita dalla scarica ritmico-fonetica dell’intero complesso vocale e strumentale). Tipica in que­ sto senso la seconda metà del Finale I in cui, a partire dalla scena xv i personaggi, travolti dagli eventi, cessano di esistere come individui e la­ sciano affiorare la voce della collettività, destinata a precipitare nella vor­ ticosa rapida della stretta finale. Sono ben quattro sezioni concertate (il Vivace «Questa bestia di soldato»; l’Andante «Fredda ed immobile»; l’Allegro con le due parti «Ma signor...» e «Mi par d’esser con la testa») per un totale di 318 battute su 687 comprensive dell’intero Finale I, in cui non succede più nulla ma si consuma questa lievitazione del dramma verso il puro delirio vitalistico dell’ultimo brano: l’intero atto trova così il proprio coronamento proporzionato all’arco descritto e capace di ri­ produrre in grande quello dei numeri solistici, secondo una perfetta cor­ rispondenza delle parti al tutto, del microcosmo al macrocosmo infor­ mati da un analogo principio dialettico. All’interno di questa vicenda, nei pezzi d’assieme come in quelli soli­ stici, si comprende allora la straordinaria funzione di contrasto espletata dal terzo tipo di intonazione, quello già designato con il nome di «parola scenica». Della sua presenza all’interno dei dialoghi già s’è detto: ma il gusto per la improvvisa sortita del semantema matura anche nella qua­ 1 Cfr. per esempio il terzetto n. 7 «Cosa sento»; il terzetto n. 13 «Susanna or via sortite»; il sestetto n. 18 «Riconosci in questo amplesso» delle Nozze di Figaro.

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drata struttura ritmica dei concertati «statici»: folgorante, in questo sen­ so, la frase di Figaro «Guarda don Bartolo» nell’Andante «Fredda ed immobile» del Finale I \ Con un vero tratto di genio Rossini riaggancia qui alla situazione drammatica un brano che nel suo fitto intreccio poli­ fonico stava progressivamente lievitando verso gli astratti paradisi mu­ sicali: l’inserzione di questo frammento in discorso diretto reso perce­ pibile al massimo grado ristabilisce un rapporto concreto tra i personag­ gi) catalizza l’attenzione del pubblico attorno ad un fuoco drammatico da cui la situazione intera riceve senso ed icastica evidenza. Ancora una volta l’emersione della parola accende il teatro: l’origine di tanta parte della drammaturgia verdiana risale indubbiamente qui. Concludendo: nel Barbiere di Siviglia l’opera buffa, dopo anni di ri­ cerca nel senso di una sempre maggiore coerenza e scioltezza narrativa si diverte a negare l’azione, arrestandola continuamente per lasciar spazio ad un astratto principio vitalistico incarnato musicalmente. Ma, cosa an­ cora piu straordinaria, questo fatto non produce la minima impressione di staticità: anzi, proprio in grazia di quella dialettica, tutta l’opera è spinta sul filo di una ritmica indiavolata verso la propria risoluzione nel­ la «gioia fisica del ritmo e del suono» (Rognoni). Lo scarto è quindi per­ fettamente voluto e Rossini fonda proprio su di esso una nuova dimen­ sione drammaturgica: il dramma in quanto tale viene gratificato di una formidabile capacità di evidenziazione solo per il desiderio sistematico di travolgerlo e di bruciarlo nei vortici di una pura ebbrezza musicale: questo il significato da attribuire alla continua alternanza dei due fattori stilistici (I) e (II) entro cui la «parola scenica» (III) si inserisce come catalizzatore di contrasto, come realistica articolazione d’un dramma che gioca a scomporsi e a ricomporsi con meravigliosa e fantastica intelli­ genza.

7. Anticipazioni ludiche nell’«Italiana in Algeri».

Sorge a questo punto un’ovvia domanda: è possibile che la nuova di­ mensione stilistica e drammaturgica attinta da Rossini nel Barbiere di Siviglia non abbia proprio avuto anticipazioni nel capolavoro preceden­ te? E se ciò fosse avvenuto, in che termini, entro quali strutture, con 1 In questo caso la parola non è interpretata realisticamente nella sua intrinseca natura ritmica ma viene colta nel particolare atteggiamento espressivo conferitole in quel momento dai personaggi che la pronunciano ridendo.

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quali conseguenze per il funzionamento del sistema drammatico, gli ele­ menti anticipatori avrebbero operato all’interno dell'italiana? Vediamo. Dicevo sopra che, accanto ai fattori stilistici atti ad instaurare un alto tasso di realismo drammatico (scioltezza prosodica del canto, duttilità dell’accompagnamento orchestrale, interpretazione in chiave espressiva della coloratura, temporalità modellata sul ritmo della vita quotidiana, allargamento dell’aria solistica alla partecipazione diretta del coro o degli altri personaggi) esistono nell'italiana in Algeri momenti più «astratti» in cui il canto «è condotto come la linea d’un puro arabesco». In alcuni di questi passi sembra di poter cogliere una anticipazione di quel rap­ porto canto-orchestra che nel Barbiere di Siviglia ho designato con la si­ gla (II) e con il nome di «canto guida»: in particolare nel duetto del pri­ mo atto «Se inclinassi a prender moglie» ad un certo punto la voce di Lindoro, ritiratasi improvvisamente «a parte» («Ah mi perdo, mi con­ fondo») decolla in una meravigliosa volatina punteggiata dal ritmo mec­ canico dell’orchestra. La sortita è improvvisa ed inonda di luce la scena musicale del duetto, analogamente a quanto avviene in passi celeberrimi del Barbiere di Siviglia come le frasi di Almaviva e di Rosina «Ah che d’amore la fiamma sento» ed «Ah tu solo amor tu sei» nei rispettivi duet­ ti con Figaro \ Anche qui la funzione del luminoso vocalizzo è quella di agganciare la situazione (la sua linea melodica serve egregiamente a ren­ dere il dibattersi dell’anima di Lindoro nelle maglie dello sgradevole im­ broglio), prenderla dolcemente per mano ed elevarla ad uno stadio meta­ drammatico governato dalle auree leggi della simmetria musicale. Tutto l’episodio inoltre propone un taglio stilistico che potrebbe esser di peso trasportato nel Barbiere di Siviglia', il rapporto canto-orchestra (II), che affida alla voce l’espansione melismatica sull’orologeria ritmica dell’ac­ compagnamento strumentale, è infatti puntualmente seguito dalla sua «controfigura» stilistica (I): le incalzanti domande e risposte tra Lin­ doro e Mustafà («Ha begl’occhi?» «Son due stelle» «Schietta e buo­ na...» «È tutta lei» «chiome?» «Nere!» «guance?» «belle!») vedono l’orchestra assorbire tutto il melos della frase in un disegno ben intaglia­ to mentre alla voce non resta che una semplice scansione sillabica. Ma si noti come, all’interno di questa combinatoria ormai decisamente proiet­ tata verso gli esiti che saranno un giorno tipici del Barbiere, sia sempre vivissima l’esigenza di «personalizzare» il canto: sarà un’inezia, ma la diversa struttura ritmica del rintocco che si palleggiano i due cantanti vuole evidentemente differenziare la domanda imbarazzata di Lindoro dalla tronfia sicumera di Mustafà: 1 Si noti anche l’analoga funzione «emotiva» espletata dal linguaggio poetico nei tre casi.

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Se si considera poi che il medesimo passo appare nella prima parte del duetto con una struttura ritmica e melodica lievemente diversa (cfr. es. 7), si nota in questo giovanissimo Rossini àeB'Italiana in Algeri un lavoro di cesello sulle voci che sparirà affatto negli analoghi momenti sti­ listici del Barbiere di Siviglia-, ancora una volta l’influenza mozartiana appare evidente. Questo duetto tra Lindoro e Mustafà costituisce l’esempio più equi- * librato in tutta l’opera del connubio tra stilemi innovativi, destinati a svilupparsi nel Barbiere di Siviglia e l’esigenza di dare spicco individuale al canto, secondo una prospettiva drammaturgica che fa perno essenzial­ mente sulle dramatis personae, e non ancora sulla dialettica del loro su-

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peramento in seno alla «gioia fisica del ritmo e del suono», con tutte le simmetrie schematizzanti che questo fatto comporterà. Afi’inizio per esempio è ravvisabile in una forma ancora acerba l’esigenza di articolare il discorso secondo l’alternanza dei due rapporti canto-orchestra che sarà tipica del Barbiere: al primo episodio dominato da una frase di natura prettamente strumentale che il canto riproduce con assoluta fedeltà, ne segue un’altra in cui la voce tende irresistibilmente alla fioritura melismatica mentre l’orchestra ne segue l’articolazione con una ritmica an­ cora irregolare:

co - se;

se in- eli - nas- si a prender moglie

ci vor-reb-ber tan-te

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Tuttavia, ciò che trattiene Rossini dalle radicali soluzioni stilistiche adot­ tate in seguito nel Barbiere di Siviglia è il timore di meccanizzare troppo il discorso, di inchiodare la voce ad una semplice scansione ritmica, svuo­ tata d’ogni valore melodico, o di lasciarla planare in melismi regolari e simmetrici sulla ritmica cronometrica dell’orchestra come avverrà per esempio nel passo del duetto tra Rosina e Figaro che riportiamo all’esem­ pio 9Il timore di togliere alla voce quello che ho chiamato il suo «potere di

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autodeterminazione», si ribalta in scoperta volontà espressiva alla ripre­ sa del primo episodio, sotto le parole di Mustafà «Vuoi bellezza? »: qui la simmetria con il passo precedente è decisamente rotta, cosa che mai av­ verrà nel Barbiere, e Mustafà lancia brandelli di recitativo spezzati irre­ golarmente da pause e prosodicamente assai liberi, per riprendere solo in seguito la linea vocale di Lindoro, quando il testo riaffaccia il proble­ ma della fantomatica sposa (a partire dalle parole «Trovi tutto in questa sola»). Anche nella parte centrale del duetto («Per esempio, la vorrei») è notevole la duttilità metrica del canto che si staglia con perfetta evi­ denza dal sottostante tessuto strumentale, rappresentando realisticamen­ te i conflitti dei personaggi e colorando cosi l’intero pezzo di «une nuance de dramatique et de sérieux» come rilevava acutamente Stendhal Mi sono soffermato a lungo su questa pagina perché ritenevo neces­ sario chiarire l’equilibrio di elementi stilistici il cui rapporto non tarde­ rà ad entrare in crisi: infatti nel secondo duetto dell’opera «Ai capricci della sorte» la presenza dei fattori ludici si impone in modo assai piu squilibrante e fortemente negativo sul piano della funzionalità dramma­ tica. Già Stendhal riconosceva che « il-y-a moins de passions dans ce duetto que Cimarosa n’en eùt mis»12: l’opera buffa aveva sempre più insistito sul pedale della drammaticità ed ecco ora Rossini proporre un gioco astrattizzante di linee musicali in cui il puro incanto ludico sacrifica fin dal principio la connotazione individuale. La dialettica dei due diversi rapporti canto-orchestra (I) e (II) è infatti visibile anche qui, nella forma «primitiva» che impone al canto di non rinunciare alla propria autode­ terminazione, neppure, quando il melos scorre tutto in orchestra (vedi «Sciocco amante...») Ma, mentre nel duetto precedente il gioco musi­ cale aderiva strettamente alla parabola psicologico-emotiva descritta dal testo, qui esso vi si sovrappone con la massima non-curanza, senza ti­ more di ridurre i personaggi ad un puro gioco di specchiature simmetri­ che. Se infatti all’inizio la linea melodico-ritmica rende efficacemente la realistica sfrontatezza di Isabella, la sua ripresa testuale in bocca a Tad­ deo è in flagrante contraddizione con l’immagine di goffa flemmaticità proposta dal testo. L’assoluta simmetria formale allarga poi indebitamen­ te le maglie della conversazione tra i due personaggi che si scambiano insulti mentre l’orchestra effonde i suoi stupendi ricamini tra un’ingiuria e l’altra: d’altronde basta confrontare la parte centrale del duetto prece1 stendhal, Vie de Rossini, Paris 1854, p. ^7. 2 Ibid., p. .59-

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dente con questa per rendersi conto della differenza che li separa sul pia­ no della scioltezza drammaturgica. Un altro esempio di quanto l’impiego della simmetria formale nei pezzi d’azione sia vincolante in quest’opera sul piano della resa dramma­ tica, viene offerto dal quintetto «Ti presento» in cui le tre sortite di Mustafà, Isabella e Lindoro sono letteralmente spaccate in due parti:, la prima, diversa, per ciascuno, è perfettamente adatta a tradurre musi­ calmente il testo; la seconda, che vede il canto schematizzarsi nella ritmi­ ca incisiva di scattanti vocalizzi, viene ripresa per tre volte quasi eguale e non riesce a mordere nella situazione drammatica ma divaga irrimedia­ bilmente nel decorativo. L’errore sta qui nell’impiego del canto fiorito su un discorso privo di funzione «emotiva», cosa che mai avverrà nel Barbiere dove la lievitazione melismatica sarà giocata sempre nel mo­ mento più adatto '. L’esigenza ludica che Rossini tenta in questi casi con scarso successo di conciliare all’espressione drammatica, s’impone con prepotenza ancora maggiore alla fine dei singoli duetti e delle arie. S’è vista l’eccezione fe­ lice del duetto n. 3. Ma si noti come nel duetto n. 6 tra Isabella e Taddeo la coda si amplifichi a dimensioni inusitate, atte ad accogliere l’urgenza dell’espressione vitalistica senza riuscire a descrivere un arco organico perché spezzettata in una serie di false partenze che ne frantumano la tensione interiore: il meccanismo musicale che nel Barbiere di Siviglia porterà gradatamente l’azione all’ebbrezza della scarica vitalistica in una parabola fluida, naturalissima e talmente assimilata al gioco drammatico da renderla quasi inavvertibile, agisce in questi casi per sovrapposizione e sfugge al controllo dell’autore, stabilendo un divario inconciliabile con il dato drammatico: è una forma di acerbità che caratterizza tutti gli ope­ risti giovani, da Mozart a Verdi, dall’L/o#ze«eo al Trovatore, e che li por­ ta a vivere affascinanti avventure musicali a spese talvolta della coerenza psicologica e drammatica dei personaggi e dell’azione. Anche alla fine delle arie, nel tentativo d’allargare smisuratamente le code dei singoli pezzi, Rossini ricade spesso nella dilatazione artificiosa attraverso la ripe­ tizione di luoghi comuni cadenzanti (cfr. l’aria di Mustafà o la prima aria di Lindoro) o tutt’al più in un delizioso decorativismo privo d’autentico mordente vitalistico (seconda aria di Lindoro). Manca ancora in questi casi l’impiego di quegli elementi stilistici che nel Barbiere rappresente­ ranno la conseguenza più matura della grande scoperta del «ritmo»: «l’espressione, vi dissi, sta nel ritmo, nel ritmo tutta la potenza della 1 Cfr. sopra, p. 247. Perfetto in questo senso è invece il terzetto «Pappataci!» dove, durante la conversazione, ciascun personaggio si ritaglia una tematica propria e solo nei due concertati statici («Se mai torno a’ miei paesi» e «Fra gli amori e le bellezze») avviene uno scambio di materiali.

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musica» secondo le confidenze rivolte dall’autore stesso ad Antonio Zanolini durante la celebre «Passeggiata parigina»1. Parziale eccezione a questo carattere vagamente inconcludente fanno le cabalette delle due arie di Isabella «Cruda sorte» e «Pensa alla Patria», soprattutto la se­ conda dove Vimperium della voce, affermandosi in rapinose ghirlande di vocalizzi che impongono al pezzo un tono decisamente concertistico, di­ stilla il prezioso estratto della più nobile scuola belcantistica. Il supera­ mento dionisiaco del personaggio non avviene neppure qui ed il canto di Isabella trapassa piuttosto nell’abbagliante evocazione dei fasti acro­ batici, gloria di una tradizione settecentesca che si accingeva a vivere nel­ l’opera di Rossini l’ultimo suo travolgente exploit. In tutti questi casi, quindi, il tentativo di imporre le leggi della sim­ metria musicale fallisce, tanto sul piano dell’espressione drammatica che nell’intento di dar libero corso alla «gioia fisica del ritmo e del suono». Ma esiste un altro settore Italiana in Algeri, sinora volutamente trascurato, in cui le simmetriche specchiature del ludus sono condizio­ ne prima e felicissima dell’espressione: quello degli splendidi «concer­ tati statici» che scandiscono con una frequenza altissima l’articolarsi dei pezzi a più voci. Il terzetto, il quintetto, l’introduzione al primo atto e i due finali presentano una stupenda campionatura di questi brani in cui, terminata l’azione, i personaggi ne commentano gli effetti pratici od emo­ tivi, irrigidendosi alla ribalta in un metafisico arresto: è la musica allora, ed essa sola, a risucchiare attori e pubblico nella stessa delirante verti­ gine, con un’intensità assolutamente ignota alle consuetudini dell’opera buffa. Anche l’ampiezza di questi brani esce decisamente dalla normale pratica compositiva dell’epoca: una simile dilatazione del momento con­ templativo in seno ad un’opera buffa tesa alla massima efficienza narra­ tiva, avrebbe potuto suonare come flagrante controsenso se Rossini non vi avesse depositato un’esplosiva carica ritmica la cui «durata reale» fa giustizia della spazializzazione cronometrica del tempo empirico: il mu­ sicista tocca qui la corda centrale della sua poetica ed introduce questi brani come pilastri portanti nella dialettica strutturale della propria ope­ ra. Si è detto infatti che ncWItaliana in Algeri il rapporto canto-orchestra e la linea tematica si articolano, soprattutto nei passi d’azione, con un’e­ strema scioltezza, sino a sfiorare il rischio della dispersione formale: per ovviarvi Rossini affida proprio ai concertati statici un fondamentale ruo­ lo di equilibrio, raccogliendovi in ranghi compatti le linee musicali che si sono precedentemente dipanate senza chiari centri di attrazione. La 1 A. ZANOLiNi, Una passeggiata in compagnia di Rossini, in Biografia di Gioacchino Rossini, Bologna 1875, pubblicata in appendice a rognoni, Rossini cit., pp. 375-81.

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conferma ci viene dal diverso taglio formale dei due finali d’atto: il pri­ mo brucia il proprio materiale tematico molto piu in fretta nel vorticoso succedersi «a catena» degli eventi ed ha bisogno per il proprio equilibrio compositivo di ben tre concertati statici ’, che concludono altrettante sce­ ne d’azione, prima di quello finale; il secondo, in cui la ripetitiva gestua­ lità della cerimonia dell’investitura impone che le idee musicali vengano sfruttate più a lungo e ritornino a distanza con ovvio vantaggio per la compattezza formale2, presenta un solo concertato intermedio3; nel Fi­ nale I del Barbiere di Siviglia, dove la forma musicale descrive arcate va­ stissime ma evidentissime, stringendo in uno schema unitario lo svolger­ si dell’azione, i concertati statici sono radunati tutti di seguito nella se­ conda metà ed assolvono una diversa funzione di contrappeso formale. Ma, al di là del valore strutturale, questi pezzi (ben 13 individuabili in tutta l’opera contro i 6 del Barbiere)' sono importantissimi perché in essi Rossini realizza compiutamente, come s’è detto, per la prima volta l’espressione di quella irrefrenabile corrente ritmica che della sua musica costituisce la novità fondamentale e l’essenza più vera. Nei concertati statici BeXYItaliana Rossini anticipa esattamente il capolavoro futuro ed attinge di colpo il livello qualitativo che caratterizzerà queste pagine nel Barbiere, soprattutto nella folgorante evidenza e nella straordinaria va­ rietà dei contenuti espressivi e musicali. Insomma, l’urgenza dell’espres­ sione vitalistica fine a se stessa, la definizione di beati territori abitati solo dall’ebbrezza travolgente del ritmo e del suono che nel Barbiere costi1 Sono precisamente: nella scena xi: «In gabbia è già il merlotto» che, pur essendo a due voci, ha tutta la meccanicità e la natura ritmica e tematica del concertato statico; nella scena xn: «Costui dalla paura» a quattro voci; nella scena xin «Confusi e stupidi» a sette voci. 2 Si noti che in questo Finale II la simmetria formale, addirittura esasperata nella scena xiv («Non sei tu che il grado eletto»), non è usata come mezzo espressivo ma viene assunta come og­ getto stesso dell’espressione drammatica in quanto inerente all’andamento previsto dalla cerimonia: il che non contraddice la tendenza alla liberazione dallo schema simmetrico come mezzo espressivo che caratterizza tutta la struttura di quest’opera. Questa oggettivazione della forma richiede a Rossi­ ni singolari cure sul piano tematico-fraseologico come dimostrano le tre successive entrate di Lindoro («Dei Pappataci s’avanza il coro») Taddeo («Le guance tumide, le pance piene») e Mustafà («Fra­ tei carissimi ») strettamente affini sul piano melodico eppure straordinariamente calzanti al tono dei tre personaggi attraverso lievi modificazioni ritmiche od intervallati: è un lavoro di cesello sulle voci che deriva indubbiamente da Mozart. 3 Nella scena xiv: «Che babbeo! Che scimunito!»' 4 Eccone l’elenco: Atto I: Introduzione: «Oh! che testa stravagante!» Finale I, scena xi: «In gabbia è già il merlotto»; scena xn: «Costui dalla paura»; scena xm: «Confusi e stupidi», «Nella testa ho un campanello». Atto II: Aria «Per lui che adoro» n. 12: «Cara!» «Furba!», «Oh che donna è mai costei!» Quintetto «Ti presento» n. 13: «Maledetto quel balordo», «Sento un fre­ mito». Terzetto «Pappataci! che mai sento!» n. 15: «Se mai torno a’ miei paesi», «Fra gli amori». Finale II, scena xiv: «Che babbeo! Che scimunito!»; Scena ultima: «Andiamo, Buon viaggio». Nel Barbiere di Siviglia i concertati statici sono: Atto I: Introduzione: «Mille grazie...» Finale I, scena ultima: «Questa bestia di soldato», «Fredda ed immobile», «Mi par d’esser con la testa». Atto II; Quintetto «Don Basilio» n. 13: «Buona sera», «Bricconi! birbanti!» La definizione di «concertati statici» ha tuttavia nel Barbiere solo più un significato musicale perché la staticità drammatica di questi brani è genialmente rotta dall’uso del discorso diretto che li aggancia strettamente alla situazione.

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tuirà il secondo polo d’attrazione della vicenda musicale e drammatica, si realizza compiutamente nell’Italiana in Algeri solo nei concertati sta­ tici: in altri passi, escluso parzialmente il duetto tra Lindoro e Mustafà e pochi altri (la fine dell’aria di Taddeo, per esempio), il tentativo non raggiunge la meta e resta ad un livello di semplice decorazione. Questo fatto ha una sua logica interna: i concertati rappresentavano infatti la struttura piu adatta ad accogliere l’esigenza di «musica pura» che Rossini sentiva in modo impellente: durante il corso del Settecento queste strut­ ture non avevano mai rinunciato a modellarsi secondo criteri rigorosa­ mente architettonici che d’altra parte costituivano la ragione stessa della loro esistenza. Perciò fu estremamente facile a Rossini colarvi il proprio incandescente magma musicale, tanto più esplosivo quanto più costretto à scorrere entro le sponde della regolarità ritmica e formale: l’operazione non richiedeva un vero e proprio atto rivoluzionario ma solo il coraggio di sottoporre ad una tensione spasmodica le vecchie strutture, con la spe­ ranza che non si piegassero: e non si piegarono. D’altra parte era pur lo­ gico che l’idea del superamento del dato drammatico in seno alla pura vitalità musicale, una volta individuato il proprio fondamentale segno linguistico (il ritmo inteso come spasmodica regolarità), incominciasse ad annidarsi in sezioni tradizionalmente estranee alla rappresentazione dell’individualità: infatti, nonostante i tentativi, talvolta assai ben riu­ sciti, di stabilire differenze di caratterizzazione tra i personaggi, tentativi di cui neWItaliana esiste per lo meno un paio di splendidi esempi ‘, i con­ certati statici avevano complessivamente mantenuto il carattere di stre­ pitose «morali della favola» in cui l’individualità del singolo era supe­ rata e completamente dissolta.

8. La prospettiva incrociata.

L'Italiana appare dunque come opera ambivalente che persegue da un lato un ideale di efficienza drammatica e dall’altro è spinta a superarlo in seno agli astratti paradisi della «musica pura». Essa si pone quindi co­ me un punto di passaggio tra il genere dell’opera buffa, di cui consegna ai posteri il frutto drammaturgicamente più maturo, ricco di spunti per il melodramma ottocentesco, e la nuova dimensione teatrale del Barbiere di Siviglia che chiude la tradizione centenaria, aprendosi ad esiti del tut­ to rivoluzionari. HeWItaliana il dramma inteso come dialettica della pro­ pria negazione progressiva in seno alla musica pura è una meta cui Ros­ sini si avvicina con un certo impaccio in arie e duetti e che raggiunge con 1 Nel Finale I, scena xn, «Costui dalla paura»; scena xm, «Confusi e stupidi».

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pieno dominio dei propri mezzi nelle scene d’assieme, attraverso l’acco­ stamento paratattico di ampie sezioni drammatiche, caratterizzate dall’e­ strema scioltezza di movimento musicale, con ampi concertati statici in cui quella scioltezza si rapprende nella spigolosa concrezione del ritmo per lasciare spazio al puro incanto ludico. L’aspetto farsesco e l’irresisti­ bile comicità dell’opera derivano proprio dalla mancanza di predispo­ sizione reciproca di questi due momenti e dal frequente irrigidirsi dell’a­ zione e del realismo temporale che la informa in seno alla surrealistica meccanizzazione del momento contemplativo: essi sono, io credo, i frutti, inconsapevoli di un interesse squisitamente musicale che trasforma di fatto il valore drammaturgico del concertato statico, sganciandolo dai suoi legami con l’azione precedente e proiettandolo in una sfera meta­ fisica, governata da puri rapporti architettonici e, vorrei dire, squisita­ mente asemantica. Sull’ampiezza enorme di questo scarto tra dramma e ludus riposa secondo me la grande potenza comica ùABItaliana in Algeri la quale non si esaurisce affatto in quella girandola di colori sgargianti che molti credono, ma alberga nelle segrete della sua vita ritmica una venatura di tenui mezzetinte. Sorvoliamo sulle reminiscenze elegiache d’alcune arie legate ancora alla tradizione settecentesca e sulla seriosità patetica di certe pagine di Isabella: ma negli stessi concertati statici, i pezzi piu moderni dell’opera, par di cogliere talvolta la foschia d’uno sta­ to embrionale, quasi il passo titubante di personaggi incerti ad affron­ tare la piu travolgente avventura nichilistica che il melodramma abbia mai conosciuto. Nella maggiore coerenza formale del perfettissimo Barbiere, tout se tien in una logica perfetta. Dramma e ludus non rappresentano pili un accostamento paratattico di due sfere tangenti ma entrano l’uno nell’al­ tro, intrecciati in una stretta dipendenza: essi animano l’opera, dalle arie singole ai piu complessi concertati, e, proprio per la loro predisposizione reciproca, rendono assai minori le virtualità comiche di questo capola­ voro rispetto al suo diretto antecedente. Rossini attua dunque nel Bar­ biere il miracolo di introdurre l’espressione vitalistica fine a se stessa al­ l’interno del dramma, nel cuore dell’azione, senza più contraddire la qua­ lità individuale dei singoli e la coerenza drammatica, anzi assumendole come trampolino di lancio per l’inebriante avventura: il che si traduce stilisticamente nell’alternanza dei tre diversi modi di intendere il rap­ porto canto-orchestra (I), (II) e (III), da cui sono partito nella ricogni­ zione di questo studio. Cosi il cerchio si chiude, ma quella che era parsa l’impostazione fon­ damentale delle due opere muta radicalmente di segno: il loro carattere viene attinto dall’autore non per via diretta, con una visione aprioristica

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che imposti il lavoro nelle sue linee essenziali, ma per via indiretta, im­ boccando strade che parrebbero condurre a risultati antitetici. Infatti Ultaliana che, vista nella trasparenza della sua struttura, denuncia una impostazione prettamente drammatica, nel contesto diacronico della sua vita teatrale acquista poi un volto diverso: in virtù dell’intensissima funzione catalizzatrice esercitata in ogni senso dai numerosi concertati statici (ed in arie e duetti da quei rari momenti di astratta musicalità che nella simmetria delle proporzioni si innestano naturalmente sulla vicen­ da narrativa); nella grottesca ed inaspettata meccanizzazione in cui la vi­ cenda drammatica viene continuamente catapultata, l’opera acquista il suo vero volto di «folie organisée et complète», gioco tanto più folle in quanto, per cosi dire, accidentale ed antipodico alle intenzioni genetiche dell’opera stessa. D’altra parte II Barbiere di Siviglia, rapito sin dal prin­ cipio nel gioco alternativo dei tre elementi stilistici (I), (II) e (III) che dovrebbero proiettarlo senza possibilità di scampo nella sfera della più pura gratuità ludica, finisce per mordere con somma incisività nel tessuto drammatico e teatrale della vicenda perché, come s’è visto, quei modelli combinatori sono strategicamente impiegati con grande attenzione al te­ sto, in corrispondenza a tre diverse funzioni del linguaggio poetico. L’o­ pera acquista alla fine, non solo per l’argomento trattato ma proprio in virtù della sua incarnazione musicale, il volto specifico della commedia di mezzo carattere, dotata di impegno drammatico. In questa sorta di prospettiva incrociata sta secondo me il profondo senso storico e la stra­ ordinaria originalità delle due partiture. Dramma e ludus avevano caratterizzato nel loro rapporto tutta la storia dell’opera buffa per raggiungere nel teatro mozartiano una mira­ colosa e perfetta compenetrazione'. Il proseguimento su quella strada avrebbe solo potuto determinare le vicende d’un pedissequo «mozartismo», teso nello sforzo spasmodico di emulare il modello: tanto sul ver­ sante tedesco (linea Fz^eZzo-Weber) che su quello italiano (Rossini), l’e­ redità di Mozart venne quindi messa a frutto in una dimensione dram­ maturgica ed in un sistema di rapporti musicali sostanzialmente nuovi. Al di là del messaggio inerente al romanticismo in atto dei contenuti, l’attenzione di Rossini s’appuntò proprio su quella miracolosa identifi­ cazione di dramma e ludus che l’opera buffa aveva raggiunto nel teatro di Mozart dopo un processo evolutivo apparentemente irreversibile: ma solo apparentemente, perché Rossini dimostrò, con un atto rivoluziona­ rio, che il binomio poteva èssere scisso e i due termini trovare un equili1 Generalmente concepita come fatto ludico, l’opera buffa aveva talvolta forzato le proprie regole formali per inseguire la corsa del dramma. La concentrazione narrativa permise a Mozart la fusione dei due principi.

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brio nuovo, fondato sull’esasperazione del contrasto, anziché sulla sua euritmica composizione. Dramma e ludus sono infatti concepiti nell’Italiana come momenti successivi che si escludono reciprocamente: soprat­ tutto nei pezzi d’assieme, con la loro netta bipartizione in «concertati d’azione» e «concertati statici», il dualismo acquista, come s’è visto, la massima tensione interna e tra i due poli s’instaura l’irresistibile flusso energetico entro cui scorre la parte più vitale dell’opera. Nel Barbiere di Siviglia dramma e ludus s’intrecciano invece più strettamente, vivono l’uno nell’altro ma non, per così dire, attraverso l’amalgama d’una pen­ nellata unitaria e polivalente, com’è dell’inconfondibile segno mozartia­ no, bensì attraverso una sorta di stesura «a mosaico» in cui le singole tessere (ludiche o drammatiche), per quanto minute, restano sempre chiaramente individuabili nella loro peculiarità. È quanto succede nel gioco dei tre elementi stilistici (I), (II) e (III), descritto sopra. La separazione dei due principi fondamentali dell’opera buffa,- reci­ procamente esasperati nel loro carattere, instaura quindi nel dramma ros­ siniano una dialettica nuovissima: non solo all’interno dei singoli brani, ma nella globalità delle due opere il fatto che la loro immagine finale nasca, come s’è visto, dalla negazione più o meno consapevole del suo opposto (L’Italiana, d’impostazione prettamente drammatica finisce per apparire ludica ed II Barbiere viceversa) acquista secondo me un’impor­ tanza straordinaria per capire la problematica interna a queste due parti­ ture e la loro forza di rottura rispetto alla tradizione dell’opera buffa set­ tecentesca.

9. Conclusione. Per un’interpretazione delle due opere.

Ricordiamo la celebre confessione di Hegel nella lettera da Vienna del 1824: «Ho sentito II Barbiere di Rossini per la seconda volta. Biso­ gna dire che il mio gusto si sia molto depravato perché trovo questo Fi­ garo molto più attraente di quello di Mozart». Che cosa doveva aver af­ fascinato il filosofo per condurlo sino al ripudio di Mozart ed alla vitu­ perata preferenza per l’opera buffa italiana? Certamente, l’asciutta con­ cretezza della musica di Rossini, la totale assenza da quel mondo poetico dei sentimenti vaghi ed inafferrabili, della tensione introspettiva tipiche della sua età; l’estetica del «non so che» era decisamente ripudiata da Hegel che aborriva tutte le tendenze sentimentali o misticheggianti del romanticismo. Ma, andando oltre, è fortemente suggestivo verificare l’o­ rigine dell’entusiasmo rossiniano di Hegel, al di là del semplice fattore gusto, nelle più intime ragioni espressive e strutturali dell’opera stessa.

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Tema centrale del pensiero hegeliano è la presenza, tipicamente ro­ mantica, d’un principio infinito che anima la realtà e la compenetra sino ad identificarsi con essa. A differenza di altri sistemi romantici che ve­ dono in quest’infinito un elemento irrazionale e lo identificano con il sentimento libero, fluttuante e privo di determinazioni, per Hegel l’infi­ nito è l’idea o Ragione assoluta che si muove da una determinazione al­ l’altra con lucida regolarità. La celebre formula «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale», oltre a ribadire la natura dell’asso­ luto hegeliano indica e sintetizza il concetto d’un infinito che annulla il finito, risolvendolo in sé '. Nessuna meraviglia dunque se Hegel ha pro­ vato una naturale attrazione verso un’opera in cui la rappresentazione della vita aborre dall’ineffabile fluttuazione sentimentale e si articola in­ vece con precisione assoluta nella lucidità dei colori orchestrali, nell’in­ taglio nettissimo della melodia e dell’armonia, nella spasmodica regola­ rità del ritmo. Un’autentica presenza razionalizzante sembra animare la vita del Barbiere di Siviglia, la risoluzione del finito nell’infinito che già il teatro mozartiano aveva raggiunto, preromanticamente, nella forma d’un’intuizione poetica e sentimentale sembra presentarsi qui, hegelia­ namente, come dimostrazione in atto: il gioco combinatorio dei forman­ ti musicali che travolge a poco a poco personaggi e situazioni e li risolve nell’universale ebbrezza ritmica e sonora, distende sotto gli occhi dello spettatore un processo dialettico perfettamente definito e razionalmente verificabile. Lo stesso schema di tesi, antitesi e sintesi che il filosofo del­ la conciliazione dialettica individuava proprio in quegli anni come legge di sviluppo della realtà è infatti rispecchiato in modo singolarmente pun­ tuale nella struttura musicale del Barbiere di Siviglia, Non mi sembra troppo azzardato affermare che in quest’opera l’astra­ zione ludica e la concretezza della propulsione drammatica descritte so­ pra stanno in qualche modo fra loro come la tesi sta all’antitesi mentre, a ben guardare, nelle code vitalistiche di arie e duetti, solcate dal fre­ quente emergere della parola e nei concertati statici, audacemente co­ struiti sulla base di un discorso direttoz, i due elementi paiono avvici­ narsi e fondersi nella conciliazione della sintesi. Tutto ciò produce quel senso di appagamento formale e di perfetta organicità che caratterizza II 1 Cfr. n. abbagnano, Storia della filosofia^ 3 voli., Torino 1974, vol. Ili, pp. 97 sgg. 1 Cfr. p. 273, nota 4. Ma si obietterà che la parola non è percepibile in un concertato statico di Rossini: ma, a parte il fatto che questo non è sempre vero (si danno casi nel Barbiere di concertati statici forniti di buona trasparenza semantica) sarà allora la gestualità dei personaggi condizionata dal discorso diretto a proiettare questi brani nel cuore dell’azione, incrociando in modo inedito l’a­ strazione musicale con la concretezza del rapporto drammatico tra i personaggi. Chi ha pratica di teatro musicale sa che, sul piano della gestualità (anche se governata da registi mediocri), una cosa è cantare «Mi par d’esser con la testa, | in un’orrida fucina», un’altra è cantare «Ma zitto, dottore, I vi fate burlar. | Tacete, tacete, l non serve gridar».

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Barbiere (soprattutto il suo primo atto) come una cifra tipica ed incon­ fondibile. Nell’Italiana in Algeri manca questa circolarità dialettica e l’impressione di pura follia che accompagna l’opera deriva proprio dalla posizione di un macroscopico e grottesco contrasto: tesi ed antitesi non superano l’antagonismo in una sintesi finale, tanto meno nei concertati statici, dove non compare il discorso diretto ed il collegamento con l’a­ zione precedente deve avvenire in modo affatto esteriore, attraverso una frase del basso che slitta a poco a poco dalla scioltezza del canto dram­ matico alla regolare pulsazione ritmica del canto ludico1. Ultaliana in Algeri rappresenta quindi la posizione di una problematica, l’apertura d’uno squilibrio che il perfettissimo Barbiere neutralizzerà nel suo gioco spasmodicamente lucido di pesi e contrappesi, senza compromettere la dirompente carica energetica insita nel dualismo strutturale del capola­ voro precedente. Nel Barbiere di Siviglia Rossini chiude un ciclo aperto neU Italiana in Algeri’, la messa in crisi del mirabile equilibrio fra dram­ ma e ludus, raggiunto nell’opera mozartiana è risolta, come s’è detto, nella scoperta d’un equilibrio nuovo, fondato non più sull’elisione ma sull’esasperazione dialettica dei contrasti e raggiunto attraverso il pro­ cesso razionalizzante di tesi, antitesi e sintesi. Questa prospettiva offre dunque una chiave per puntualizzare i con­ troversi rapporti fra Rossini, «razionalismo» e romanticismo, nella mi­ sura in cui il sistema stilistico-espressivo del Barbiere di Siviglia è visto come teatro di realizzazione di una forza razionale che nella lucidissima articolazione di ludus (tesi), dramma (antitesi) e «vitalismo drammati­ co» (sintesi)12, si identifica con la realtà musicale e drammatica dell’ope­ ra e la risolve in sé romanticamente, come in un «principio assoluto» anima del tutto. L’affinità con la «scuola romantica della ragione»3 ed in particolare con alcuni concetti basilari del sistema hegeliano mi pare a questo punto piuttosto plausibile: naturalmente essa maturò in Ros­ sini, digiuno di filosofia non solo hegeliana, in modo del tutto inconscio, grazie alla misteriosa facoltà di captazione che permette al vero artista di inserire la propria opera nella problematica più viva della cultura con­ temporanea. Accanto al celebre binomio Beethoven-Kant non esiterei quindi a proporre quello Rossini-Hegel come rappresentativo di un al­ tro momento cruciale dello spirito europeo: il rapporto fra dramma e ludus, nella concretezza della struttura melodrammatica rossiniana, sem­ 1 Si noti, una per tutte, la frase di Mustafà «Cara m’hai rotto il timpano... di te non so che far» che introduce il concertato finale nell’introduzione al primo atto; ma quasi tutti i concertati statici dell’opera posseggono questo cordone ombelicale che li lega all’azione precedente. 2 Proporrei di chiamare così la sintesi dei due elementi che avviene nelle code di arie e duetti, solcate dal frequente emergere della parola, e nei concertati statici, costruiti in discorso diretto. 3 Cfr. n. abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino 1971, voce Romanticismo.

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bra porsi come il precipitato estetico di quella vasta dialettica filosofica. Donde due ordini di considerazioni. Primo: uno schema di pensiero co­ me quello hegeliano, considerato tradizionalmente refrattario a qualsiasi utilizzazione in sede estetica1 viene introdotto nei circuiti più vivi del­ l’arte del suo tempo. Secondo: L'Italiana in Algeri e II Barbiere di Sivi­ glia che parvero a molti concludere la parabola evolutiva dell’opera buf­ fa in una trascinante, ma in fondo superficiale girandola pirotecnica, ac­ quistano uno straordinario spessore di significati, proponendosi non co­ me un semplice luogo di evasione ma come la specificazione artistica di una «forma mentis» che solcò indelebilmente il contesto della cultura moderna. Il Barbiere di Siviglia è il compiuto centro nevralgico di que­ sta problematica; L'Italiana in Algeri il suo primo, rapinoso manife­ starsi: ambedue si pongono ai vertici di una realizzazione artistica la cui profonda densità di contenuti verrà progressivamente in luce nella mi­ sura in cui, al di là della dimensione emotiva delle due opere, la si cer­ cherà nell’«autonomia del significante», vale a dire nel complesso siste­ ma di rapporti, qui sommariamente indagato, che determina il funzio­ namento segreto della loro struttura musicale e drammatica. 1 Cfr. l. mittner, Storia della letteratura tedesca, II: Dal pietismo al romanticismo (17001820), Torino 1964, p. 449: «Dato il suo estremo razionalismo Hegel non ispirò direttamente nes­ sun poeta, ma impresse con la sua dialettica un nuovo indirizzo a tutte le scienze storiche e filo­ sofiche».

FRIEDRICH LIPPMANN

Belliniana

Nelle pagine seguenti verranno presentati e discussi alcuni documenti emersi negli ultimi anni: autografi di lettere e manoscritti musicali di Vincenzo Bellini in possesso di collezioni europee e nordamericane. Negli Stati Uniti i documenti belliniani sono presso la Pierpont Morgan Library di New York (The Mary Flagler Cary Collection), la New York Public Library, la Collezione Toscanini depositata presso la suddetta biblioteca (proprietari: gli eredi di Arturo Toscanini). Per l’Europa so­ no da menzionare i seguenti proprietari: Accademia Chigiana, Siena; Conservatorio di Musica San Pietro a Majella, Napoli; Istituto Mazziniano, Genova; il pro­ fessor dottor H. C. Robbins Landon, Vienna. Desidero ringraziarli tutti, per aver­ mi dato il permesso di studiare e analizzare i manoscritti - per la maggior parte in forma di fotoriproduzioni - e di pubblicarne le lettere. Questi studi non sarebbero stati messi a punto senza il valido aiuto di alcune persone, che io desidero in questa sede ringraziare di cuore ancora una volta: la professoressa Anna Bossarelli Mondolfi, Napoli; il professor Francesco Bossarelli, Napoli; il signor Herbert Cahoon, New York; don Giosuè Chisari, Catania; il dot­ tor Salvatore Enrico Failla, Catania; il maestro Agostino Girard, Roma; il profes­ sor H. C. Robbins Landon, Vienna; il signor Latessa, Catania; il signor Ben Meiselman, New York; il dottor Leo Morabito, Genova; la signora Luciana Pestalozza, Milano; la signora Susan T. Sommer, New York; la signora Wally Toscanini, Mi­ lano; il signor J. Rigbie Turner, New York; il professor Agostino Ziino, RomaSiena. Con gratitudine ricordo il defunto Herbert Weinstock, che gentilmente ri­ chiamò la mia attenzione sui documenti belliniani a New York.

I.

LETTERE. La trascrizione segue fedelmente l’originale. Le parole sottolineate nelle lettere sono poste in corsivo.

I. Lettera del 13 febbraio 1828 a Francesco Fiorimo, nel Conservatorio San Pietro a Majella, Napoli (Segnatura: Rari 1. 6. iod/95; dono del maestro Mario Persico, 1972).

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La lettera è da porre fra le lettere xm e xiv nell’Epistolario di Luisa Cambi1 (lettere del 23 gennaio e del 16 febbraio 1828). Agli oggetti no­ minati nella lettera - Potpourri (da II Pirata), ritrattini (del Pirata Eroe G. B. Rubini), dentifricio -, e alle persone per mezzo delle quali Bellini vuole inviarli al suo amico, si riferiscono in parte anche le lettere pubblicate dalla Cambi del 16 e 20 febbraio. Più importanti sono le no­ tizie sul lavoro alla seconda versione di Bianca e Fernando. Mio caro Fiorimo

Ti scrivo in fretta, e per non farti restare senza mie nuove. Con la partenza che fa De Marini il comico, che si porta in cotesta ti mando l’oppiata pei denti; se lo stesso mi vuol portare una copia dello spartito del Pirata in uno ai Potpurri pure te li manderò; e di ciò ti scriverò in altra la certezza, perché egli parte Martedì prossimo. = Il resto poi, delle tre copie te li manderò con Ta­ glioni. Sono dietro ad accomodare la Bianca. Di già ho fatto la Sinfonia, com­ posta del Largo, che vi stava, che serviva di Introd:ne ed uno allegro fatto nuo­ vo, ma tirato ad una maniera nuovissima, e breve assai. Credo che non farà male; se quell’orchestra sarà valente, e vigorosa. = Da qui per Genova partirò a li io: o 12: del mese entrante: tu mi scriverai per questa sino al giorno 2: di marzo, e poi le lettere dirigeli a Genova. Ho progetto di lasciare forse la stretta del Finale; ma camin facendo, secondo mi detta la mia gloriosa testa accommoderò tutto. Domani metto mano a ritoccare qualche pessettino alla cavatina di David. = Aspetto anzi osamente, quel che ti dice il Crescentini; ti ricordi, che la Bianca, non gli piacea niente, che disse al Duca di Noja che avrebbe fatto fiasco? E ciò mi fà dubitare, che non suborni la Tósi, non per cantare l’opera, perché lo deve per necessità; ma perché gli rifacessi tutti i suoi pezzi; poiché per lui ne la Cavatina, ne la Romanza erano buone, e per me sono i migliori pezzi, specialmente in un teatro piccolo; cioè più grande del Fondo, ma sempre di molto più piccolo di S. Carlo: basta dalle tue lettere vedrò il loro pensare. Cercherò per le Rossiniane che vuoi, ed i ritratti, che ti manderò con Taglioni, che spero tutto ti porterà. Adesso aspetta a te darmi delle notizie, perché io non ne ho delle nuove. Finisco perché io2 pranzato da Pollini, e non ho forza di se­ guitare perché questa mane ho scritto assai. Son sicuro che mi scuserai in questi giorni che ti scriverò sempre in breve, per essere occupato; ma senza mai man­ care di dirti il necessario. La mia salute và bene: Tu spero che non avrai biso­ gno per la tua che maccheroni, e cosi abb:“ strettamente al cuore mi esco salu­ tando tutti gli amici. Addio mio caro Fiorimo Il tuo amico che t’ama Bellini Milano 13: Fejo 1828: 1 Vincenzo Bellini, Epistolario, a cura di Luisa Cambi, Milano 1943, PP- 45 sgg. 2 Dopo «io» vi sono 3-4 parole cancellate e divenute illeggibili; invece del pranzato che segue ciò che è cancellato, stava prima: pranzo.

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2. Lettera del i° settembre 1831a Giuditta Pasta, nella New York Pu­ blic Library. Questa lettera è stata pubblicata dall’autrice del libro Giuditta Pasta e i suoi tempi. Memorie e lettere, Maria Ferranti Nob. Giulini, Milano 1935. La Ferranti Giulini l’ha pubblicata a p. 139 del suo libro, facen­ dola precedere dalla seguente osservazione: «Nel viaggio di ritorno dal­ la capitale inglese a quella francese, la Pasta vi riceveva la presente inte­ ressante lettera del maestro Bellini». Luisa Cambi1, che l’ha tratta da questa edizione, non aveva potuto - come sembra.- prendere visione diretta dell’autografo. La versione della Ferranti Giulini è cosi piena d’errori, che mi pare opportuno pubblicare di nuovo la lettera1 2. Essa pro­ va la grandissima stima che Bellini nutriva per la cantante Pasta; inoltre veniamo a sapere con precisione che Romani diede al compositore il 31 agosto 1831 i versi dell’introduzione (non «intreccio», come lesse la Ferranti Giulini) dell’opera Norma. Madame Madame Juditte Pasta au theatre Italien de Paris Milano i°: Sett:c 31:

Mia cara amica L’altro giorno ho lasciato Borgo Vico. La brava ed amorosa mamma Rachele seguita ad assistere la disgraziata Giuditta, e v’assicuro che la sua compagnia le è assai cara, poiché è piena d’affettuose cure. Io credo che la Giuditta anderà a passare qualche giorno alla Roda, e mi spiace che io non potrò farle compagnia, dovendo ora applicarmi nell’opera di cui Romani jeri solamente mi ha dato l’Int:nc. Spero che questo soggetto si trovi di vrò gusto: Romani lo crede di grande effetto e proprio pel vro carattere enciclopedico, perché tale è quello di Norma. Egli imposterà in modo le situazioni che non avranno alcuna remini­ scenza con altri soggetti, e toccherà, e sino cambierà dei caratteri se la necessità lo richiederà per cavarne piu effetto. Voi di già l’avrete letto, se qualche pen­ siero ci s’affacciasse in mente scrivetemelo, frattanto procurate di portare i figu­ rini dei personaggi simili al come si sono eseguiti in Parigi, e se lo credete po­ tete ancora farli migliorare se il vrò talento non li trovasse di fino gusto: questi sono necessari all’impresa, quindi liberamente potrete farli eseguire. - Prendo questa occasione per congratularmi con voi dei trionfi nuovi che avete aggiunti agli altri innumerevoli vostri. Mio bravo angelo, il vrò talento ed il sentimento 1 cambi, Epistolario cit., pp. 278-79. 2 Di un’altra lettera di Bellini a Giuditta Pasta, che si trova anch’essa nella New York Public Library - con data Napoli, 21 febbraio 1832 - l’autrice diede alle pp. 145-47 un facsimile, del quale potè servirsi Luisa Cambi per una trascrizione corretta (cambi, Epistolario cit., pp. 303-5).

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delicato che alligna in tutto il vro essere è impossibile che non accreschi dei gradi all’onore che vi tributa l’epoca nostra, seppure ve ne restano nella scala della Gloria, che già parea esaurita da voi, ma che Milano e Londra hanno de­ ciso che ancora nuove mozioni destaste in quest’anno, inaspettate e grandi e quindi per voi il tempio di questa Gloria ancora si è di più inalzato. Scusate questo sfogo del mio cuore che preso da tenero sentimento d’amirazione avea bisogno di trasfondere tutto ciò che per voi sentiva, non dimenticando ancora quello della gratitudine, per quell’impegno che avete preso nel far bene concer­ tare la mia Sonnambula in Londra. Io voglio sperare che anche il Pirata sarà a voi affidato, avendo saputo da Marietti che la Comelli non deve cantare in cote­ sto teatro. - Fate che ancora Rossini s’interessi per l’esecuzione esatta della mia musica: egli non dovrebbe sdegnare tale preghiera da uno che l’ha chiamato suo maestro. Addio mia buona amica! siate cosi, sempre contenta che la vrà tenera madre ne gode assai come i vostri veri amici. Abbraccio l’aereo Peppino e saluto La­ blache con sua famiglia. - Se volete presentare un salutino alla vostra amata figlia, fatelo: la mamma mi disse, che anche essa lavora per la mia cosa, ed io me ne chiamo assai obbligato: Intanto mi resto e vi prego di credermi a tutte prove Vostro aff.mo Vin:° Bellini

3Lettera del 24 settembre [1831] a Francesco Fiorimo, nella Pierpont Morgan Library, New York. Tratta principalmente del progetto di una nuova opera per il Teatro San Carlo di Napoli. Questa lettera è preceduta da quella del 19 settem­ bre a Fiorimo, alla quale Bellini si riferisce; a quella lettera1 era accluso lo scritto, menzionato anche nella nuova lettera, al principe Ruffano12 (Rullano era «Intendente dei teatri reali di Napoli»)3. Il timore espres­ so da Bellini per l’epidemia di colera allora in atto lo conosciamo anche dalla lettera del 19 settembre a Fiorimo. Deux Sidles Monsieur Francois Fiorimo à Naples

Milano 24: ymbre [1831] Mio caro Fiorimo

Sei assai curioso nel tuo pensare riguardo al mio venire a scrivere in Na­ poli: tutte le osservazioni che mi hai fatto nella tua ultima lettera dovevi farle nella penultima, e non dopo, che naturalmente io avea dovuto rispondere; ma non importa: se ancora non hai portato la lettera a Ruffano, stracciala, e digli a voce che risolverò; mentre ora ho la testa sconvolta perché il Cholera si trova 1 Cfr. cambi, Epistolario cit., pp. 282-84. 2 Ibid., pp. 284-86. 3 Francesco pastura, Bellini secondo la storia, Parma 1959, p. 292.

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di già in Vienna ec: ec: Io poi ti dico che penso a lasciar Milano, poiché seb­ bene il Cholera è ottocento miglia lontano, pure una disgrazia impreveduta po­ trebbe avvicinarlo ed io allora non potrei più sortire della Lombardia; quindi lunedì, o Mercoledì ti dirò la mia risoluzione definitiva, e dove anderò. Frat­ tanto ti lascio, perché devo sortire appunto per combinare su di ciò. Ricevi i miei abb:cl e vogliami bene Addio Il tuo Bellini

4Lettera del 28 aprile 1832 a Vincenzo Fedito (zio di Bellini), nella Pierpont Morgan Library, New York. La lettera segue le altre tre in pari data finora note ’. Bellini getta un gioioso sguardo all’indietro, al suo viaggio in Sicilia, e ricorda i parenti e gli amici. Ma lo preoccupa anche, verso il futuro, l’impegno composi­ tivo che era in procinto di assumere con il teatro La Fenice di Venezia. Monsieur Vincent Ferliti Catane

Napoli 28: Aprile 32:

Mio caro Zio Sarò corto ma sugoso, perché ho dovuto e devo ancora scrivere delle gran lettere, avendono qui trovato delle vostre. - Il nostro viaggio, avrà saputo da Palermo, è stato assai felice, e la nostra salute è ottimissima. Giunto qui ho tro­ vato una lettera delTImpressario di Venezia, il quale da otto mila franchi che m’offriva, ora l’ha cresciuti d’altri quattro; e quindi sarebbero di già 12000: FrJ = Io come opino di lasciar Napoli fra dieci giorni, gli ho risposto che al mio passaggio da Firenze, ov’esso si trova, aggiusteremo qualche differenza; ma che io quasi mi trovo contento delle sue offerte. - Io poi sono veramente contento, poiché non credea mai che il teatro di Venezia potea dare tal paga; pure cer­ cherò d’aggiustare qualche articoletto, ed accetterò; e dopo forse scriverò a Napoli pel 30: di Maggio del 1833: la mi vorranno, poiché ancora non si sà chi sarà l’Impressario. - Dite tante cose al mio caro Zio D: Ciccio che tanto mi ha sgridato perché non gli scrivea lunghe lettere; ma ciò succedea, perché io le credea superflue stante quelle che gli scrivea Carmineddu e voi. I miei saluti a tutti gli amici di casa. Tanti baci a papà, mammà, alle mie sorelle, fratelli, cugini, cugine, in particolare Pudda e Zudda, Zia Saruzza, Zia Mara, Zia D: Judda ec: ec:r ec: Tanti cordiali saluti di Fiorirne a tutti tutti: egli non scrive perché si trova fuori Napoli in campagna. Io sono ancora in esta­ si nel ricordarmi la mia cara Catania: questa mattina ne ho parlato col cav:rc D. Ciccio Paterno, e ne ho parlato per delle ore intiere senza potermi saziare. Vedendo D: Ignazio Giuffrida tante cose affettuose per me, come anche a D:a Lidda ed a Jano Paola, a cui scriverò in ventura, rispondendo ad una sua di Palermo. I saluti al senato d’Atene, al Capitano e capitanessa Zuccaro ed a tutti 1 Cfr. cambi, Epistolario cit., pp. 311-13; pastura, Bellini cit., p. 336.

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tutti i nostri stretti amici, in particolare D:“ Emmanuele Gagliano e Leonardi, segretario degli ospizii ec: ec: Voi ricevete i miei più teneri abb:ci e cred:m‘ Vostro affez.mo Nip.lc Vincenzo

[A destra in alto:] La Pasta canterà quel carnevale in Venezia (Ho scritto all’intendente)

5Lettera del 22 dicembre 1832 a Giovanni Ricordi, nella Pierpont Morgan Library, New York. Nella lettera Bellini si occupa principalmente dei diritti di proprietà sulla nuova opera Beatrice di Tenda. Di particolare interesse è l’accenno ad un eventuale viaggio in Inghilterra (il progetto risale, come si sa, già all’anno 1828)’. Il contratto definitivo con Francois Laporte (senza da­ ta) è stato recentemente .pubblicato da Luisa Cambi12. Al Sig:r Giovanni Ricordi Editore di musica - Dirimpetto al teatro la Scala Milano

Venezia 22: Dic:e 32: Mio caro Ricordi

Ho tardato a rispondere alla vostra del 13: cor:‘e avendo voluto prima ve­ dere come opinava Zamboni sulla vendita della proprietà della Beatrice Tenda: or vedo che questi è forte nella sua domanda, e che non vuole cedere la sola pro­ prietà di stampa ec: come v’avrà scritto; quindi se non comprerete da Zamboni tale proprietà, sarebbe inutile vendervi la mia sola mettà, perciò fatemi sapere quel che combinerete; frattanto, perché facciate bene i vn conti, potete calco­ lare che la mia non la potrei cedere a Ricordi a meno di 1500: f? ad altri di più. Vedo che Zamboni cederebbe tutto ciò che gli spetta al prezzo di 2500: svanzihe, e forse colla vrà politica a poco meno, perché egli dice che di già molti sono arrivati ad offrirgli 2000: Lire A: che egli ha rifiutato; quindi vedete che fra me, e Zamboni non spendereste che l’istesso prezzo che deste per la Sonnambula, con la diversità che in quella possedete il terzo dei profitti, e qui ne avreste la mettà. - Risolvete, o aspettate l’esito, chi sà allora che non accet­ terei la società che m’offrite riguardo a Londra, poiché potrebbe darsi che io stesso mi porterei in quel paese, mentre sin’ora nulla è fissato con Laporte che mi concerne. - Le prove della Norma vanno bene, e spero di Curioni, avendo una bella voce e bella figura, ed anche del foco. - Sento che anche le prove del­ l’opera destinata pel 26: alla Scala, van bene, e che la Tosi la trovano brava; 1 Cfr. cambi, Epistolario cit., p. 173; anche pastura, Bellini cit., pp. 379-80. 2 l. cambi, Bellini. Un pacchetto di autografi, in Scritti in onore di Luigi Ronga, MilanoNapoli 1973, p. 73.

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quindi speriamo che queste prevenzioni incoragiscano il publico, e lo dispon­ gano bene, e che veramente possa trovare di che allegrarsi. - Ricevete i miei sa­ luti e fateli a Cerri. Il vro aff.mo A.° Bellini

6.

Lettera del 26 agosto 1833 a Giuditta Pasta, nella New York Public Library. La lettera offre una bella prova della venerazione e dell’amicizia di Bellini per Giuditta Pasta, cosi come del suo amore per la patria italiana. Apprendiamo che i coniugi Pasta e Bellini avevano lasciato Londra sepa­ ratamente, in date diverse (non erano quindi partiti insieme per Parigi, come suppone Pastura ’). Sono anche attestati i primi tentativi di Bellini di metter piede nel mondo dell’opera parigino, tentativi resi difficili a causa dell’abbandono estivo della città. Bellini scrive di un suo progetto per un viaggio a Ginevra. Si realizzò? La mancanza di documenti relativi a quel periodo rende per ora impossibile la risposta. à Madame Madame Pasta à Como [Sopra:] à Milan S.‘ Giovanni 4:0 faccia casa Pasta

Parigi 26: Agosto 1833

Mia cara Giuditta Con l’occasione che M:,a [?] Selviassetti si porta a Milano vi scrivo le mie nuove, che sono corte corte: cioè che Parigi è deserto e m’annoja: che con Ve­ ron ancora non ci siamo incontrati, che con biglietti di visita; che aspetto Nouri per sapere se si potrà combinare cosa, che finalmente verso il due del mese en­ trante è mia intenzione lasciar Parigi, e portarmi a Ginevra, ove se avrete cosa a dirmi scrivetemi posta restante, io conto d’esserci verso il cinque di Sett:c La mia salute va bene, ed il mio animo male, non avendo ricevute piu lettere da Lombardia, e cosi l’essere all’oscuro degli affari della G. con suo marito, ove ne attenderò il dettaglio a Ginevra, e colà risolvere se sarà delicato il mio avvici­ namento alla G., o nò ecc. ce: Ho scritto a lei che la credo a Milano; ma per mezzo della Pollini. - Sapete che alla vra partenza da Londra, io risolsi di re­ starmi in casa: ebbene svegliandomi l’indomani, ho dovuto uscirmene, ed an­ dare ad abitare con Gambussi, poiché mi sentiva appreso da tale malinconia che m’uccideva: mi credea abbandonato da tutto il mondo. I padroni di casa n’eb­ bero dispiacere; ma io li feci persuasi, e cosi restammo amicissimi. - Vi mando con la Selviassetti un spillone a serpe per voi, ed un lapis in oro con turchesi per la Clelia: ricordi che vi manda la Duchessa di Cannizzaro: il lapis per la Clelia lo trovo Biutiful non è vero? Il vrò (dice la Duchessa) che è bello perché pastura,

Bellini cit., p. 395.

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è l’arme delle Visconti, ad essa simpatica, perché rimasta da suo Marito: ecco ciò che mi incaricò dirvi. Che fà quel vaccone di Peppino? ha finito di gridare? mi sveglio tutte le mattine e mi sembra sentirlo alle mie orecchie con i suoi ar­ gomenti logici e figure retto riche. Pregatelo che mi scriva a Ginevra le notizie di tutta vrà famiglia, e quelle di Milano in tutti i generi. La mamma sta bene? Il vrò viaggio fu feÉce? Ho inteso che siete partite da Parigi la Domenica a tutta fretta: veramente mia cara Giuditta voi soffrite il mal di patria> e felice che lo potete far cessare con volare in mezzo alle vré foglie, e felice ancora tro­ vandovi in mezzo alla vrà buona famiglia: basta, io ancora desidero di trovarmi in Lombardia, e venire da voi per rivedere quei luoghi di paradiso, abitati vera­ mente da un angiolo, che siete voi, o mia buona amica, che con le tante affe­ zioni che mi avete prodigato vi siete formato nel mio cuore un’altare di rico­ noscente adorazione che solo si distrurrà con la mia vita. Dite tante cose alla mamma Rachele, ed i miei abb:ci a Peppino: voi ricevete quelli dell’amicizia e credete a tutte prove all’aff :0 vró a : ° Bellini

PS. Sono stato a vedere la famiglia Onloch e avendo parlato di voi alla Carolina ho richiamato le sue lacrime: quella creatura v’adora, e ne ha ragione: Fiore vi saluta io lo vedo spesso perché mi piace estremamente: sono stato con lui da Onloch, e forse io ritornerò un’altra volta, se il tempo quel permetterà. 7-

Lettera delFn marzo 1835 a Giovanni Ricordi, nella Collezione To­ scanini1. A questa lettera si riferisce una notizia nelFEpistolario (Cambi, p. 532): «(Il catalogo Charavay segnala una "jolie lettre musicale” a G. Ricordi, da Parigi Pi 1 marzo 1835, dove il musicista annuncia che I Pu­ ritani e il NLarin Falierò saranno presto stampati)». In quel catalogo il contenuto era citato in modo inesatto. Lombardie Monsieur Jean Ricordi Editeur de Musique vis à vis au Théàtre la Scala à Milan

Parigi 11: Marzo 35 Mio caro Ricordi - Ho fatto subito legete la vrà lettera a Troupenas, egli mi ha risposto che le opere comprate da voi di Herz, una appartiene a lui, e l’altra ad altro Editore - La sua l’ha di già publicato nei primi di Febrajo, e non come voi mi dite, il 15: Marzo, e l’altra è stata publicata piu avanti assai, men­ 1 In questa raccolta si trova una seconda lettera di Bellini: Bergamo, 23 agosto [1832], al conte Barbò (possiedo fotocopie anche di questa). Si tratta chiaramente, però, di un facsimile, e non del­ l’autografo stesso. Questo si trova nell’Istituto Mazziniano di Genova, dove io lo controllai nel­ l’autunno del 1974. La lettera è pubblicata in cambi, Epistolario cit., pp. 318-19. Un facsimile si trova nel libro di f. cicconetti, Vita di Vincenzo Bellini, Prato 1859.

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tre voi avevate ricevuto la prescrizione di publicarle il i:° Marzo; quindi non temete nulla pei Puritani, mentre vedete che è uno sbaglio del Sig:r Herz, e non ladrocinio di stampatori, cosa che mai si darà a Parigi, poiché tengono molto al loro impiego. - A quest’ora avrete ricevuto i primi pezzi dei Puritani, e fissato il giorno della publicazione. - la vrà ultima lettera è un poco piena di sover­ chie convenienze, il suo stile lo credo figlio della mancanza di mie lettere a voi; ma nel riceverne una che v’ho scritto spero che esilierete il pregmo Signore dal­ le lettere che mi scriverete - Amen - Nessuna novità, solamente questa mattina sarà la prova generale del barino Palierò di Donizetti, domani la i:a rap:ne Addio, mio caro Ricordi, contate sempre sul mio attaccamento e non vi alterate la testa - Tanti saluti al caro Cerri - Addio Il vro afl.mo Bellini

[In margine:] Avete la bontà [...]’ la qui acclusa.

8. Lettera del io giugno [1835] a Giuseppe Denza, nella Pierpont Mor­ gan Library, New York. Anche a questa lettera ha accennato L. Cambi1 2: «{Una lettera a G. Denza da Puteaux, io giugno, su le rappresentazioni della Norma a Lon­ dra faceva parte della vendita Charavay del 15 giugno 1912)». Cfr. an­ che la lettera frammentaria di Bellini del io maggio 1835 al tenore Curioni, che L. Cambi ha pubblicato con una nota di commento3. Sul cat­ tivo esito — fiasco dell’esecuzione londinese di Norma del luglio 1835 — cfr. Cambi, pp. 573-74, e Pastura, pp. 500-1. à Monsieur Monsieur Joseph Denza 20: Hanover-square à Londres

19: bis rampe de Neully à Puteau Banlieue de Paris io: Giugno [1835]

Mio caro Denza - Vi ringrazio della vra premura per le cose che m’interes­ sano, ed avete fatto una cosa buona avvisarmi che gli affari di M:r Laporte non vanno bene. Io per servire il nostro amico Curioni, permisi a questi di noiegiare a Laporte la Norma, che voi tenete da me, per L:c 30:, ma non vorrei per­ derle; quindi direte a Curioni, che non voglio rischiarle, e se Laporte non paga puntuale gli attori, devo ben dubitare che mi manchi, e come io sono responsa­ bile presso l’impressario Lanari, cosi voglio esser sicuro del denaro, e ciò Curioni 1 Illeggibile, poiché apparentemente incollato sopra (chiusura della lettera). 2 cambi, Epistolario cit., p. 562. 3 Ibid., p. 548.

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lo deve trovare giusto ed onesto; quindi fategli legere quest’articolo per assi­ curarlo del mio parere e desiderio, e se sarà che Laporte pagherà, prendetevi voi le 30: lire e mandatemele o con occasione o con cambiale. - A proposito di cambiale, scrissi alla Sig :ra Duchessa perché impegni il suo uomo d’affari a Lon­ dra per esazzione della cambiale che io ho sopra Laporte p [per] duecento lire st:ne ella mi rispose che avea scritto; ma credo che se voi potrete, non sarebbe male di ricordarlo a cotesto uomo d’affari, acciò, se Laporte al presentargli la cambiale (, che scade o in questo o nel mese di luglio), non pagherà, dare tutti i passi secondo le leggi di Londra perché paghi; poiché non vorrei perdere con tante lungherie, e cattivi affari che cotesto pazzo di Laporte incontra. - Tanto mi piace sentire sempre i vrì progressi, e certamente il bravo e buono Rubini vi avrà ajutato coi suoi consigli: bravo Denza! Seguitate sempre cosi, che farete piacere ai vrl amici. - Se potete dividere tutto quanto avete di mio, fra tutti i cantanti ed amici che torneranno a Parigi, mi farete un gran piacere. Sappia­ temi dire se si trovano in mezzo a tali oggetti delle scatoline di Scozia, che a Milano non sono giunto, credendo averle mandate con quel tedesco Sig:r Zobel, che portò anche la Magnesia e le polveri ec: ec: - Sapete? Tutta la musica che non appartiene allo spartito Norma, è della Pasta; quindi mettetela in una cassettina a parte col resto che appartiene alla Pasta, anche metteteci la bottiglia di Magnesia e le polveri, e poi avvisate M:c Pasta se vuole che glie la mandiate a Como: la Magnesia e le polveri sono di M:e Turina. Lo spartito Norma resterà sempre a voi in consegna sino che si venderà, poiché è inutile farlo venire quà o in Italia. Forse l’anno venturo l’avrò bisogno a Parigi: voi frattanto tenetelo presso di voi. - Certamente, vedrete il caro Doca: ditegli tante cose affettuose da mia parte, e ditegli di non obbliarmi, come io non ho obbliato le sue immen­ se amabilità che mi prodigò l’anno passato. - Dite ancora mille cose a quel Baron di Caltagirone di Costa, che gli scrissi e non mi rispose mai lamentandosi con tutti che non gli scrivo: ditegli di salutarmi tutta la buona famiglia dell’Editore che abita S:‘ ]aìme St:' e che tiri le orecchie da mia parte a tutte quelle diavoletto di ragazze. Salutatemi Rubini e sua moglie, la fam:° Deangelis La Salvi, se la vedete, Tamburini, Jacchelli, e la Famig:a di Curioni - Voi aggradite le assicurazioni della mia amicizia ed i miei ringraziamenti per quanto per me oprete. L’aff:° V: Bellini La Duchessa mi ha scritto gridandomi perché non l’avvisai che il Duca andava a Milano: io le risposi che avea giurato di non piu mischiarmi delle cose Ducali. —

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Lettera del 24 luglio 1835 a Giuditta Pasta, nella New York Public Library. Ancora una prova dell’intima amicizia fra Bellini e la grande cantante. Sei esemplari del busto, che aveva modellato Dantan, erano stati poco prima inviati in Sicilia da Bellini: cfr. la lettera, della medesima data, a

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Filippo Santocanale l. Anche in quest’ultima lettera Bellini esprime il suo timore per la nuova epidemia di colera. Lo stesso giudizio su Giulietta Grisi, che si trae dalla lettera a G. Pasta, è contenuto nella lettera a F. Fiorimo del i° luglio 18351 2. Madame Madame Juditte Pasta à Milan

Puteaux 19: bis rampe de Neuilly 24: Luglio 35: Mia cara ed illustre amica

Col ritorno del Conte Barbò vi mando un modello del piccolo mio busto che Dantan ha fatto: esso, nel guardarla vi dirà, quanto Bellini ancora si ra­ menta della vrà affettuosa amicizia, e come non l’obblierà mai. - Sperai un mo­ mento vedervi a Parigi di passaggio per Londra ma ne restai deluso - Avete intenzione venirci l’anno venturo? Il Cholera inferisce a Tolona ed a Marsiglia, come ad Aix e a Nizza: sapete come io lo temo, e chi sà, se Italia ancora ne sarà libera, io non vengo a Milano fra pochi mesi - Veramente partendo Barbò il desiderio di rivedere la mia seconda patria si fece sentire con più forza nel mio cuore e se gli affari dell’opera fossero stati decisi, forse avrei fatto una corsa, fosse per restarci anche 15: giorni soli. Novelle musicali non ne ho che siano nuove per voi; perché il Galignani parla sempre dei TT: di Londra, e questo giornale l’avete a Milano - Avrete letto come la povera Grisi ha fatto male la Norma e come tutto Londra mostrò dispiacere al pensare non avere la sua pre­ diletta Pasta! Io sono stato più contento che la Grisi l’abbia cantato ora a Lon­ dra, perché a tutto costo mi si volea obbligare d’arrangiarla qui per Rubini e Lablache: io che era arci-persuaso che la Grisi non sarà mai ne Semiramide, ne Medea, ne Anna Bolena, e ne Norma, rifiutai otto mila franchi che m’offrivano: ora dopo tale esperienza spero che non ritorneranno a volerla dare, e cosi la mia povera e cara Norma non vedersi lacerare, o per dir meglio da Possente Donna, Divina, Sublime in tutti i punti, divenire un’altra Adalgisa, tenera e naive. Fiore mi ha dato le vrè nuove e di tutta la famiglia, e mi dice che siete a Milano per finire l’educazione della Clelia; ed il vro lago? Credo che con questi caldi, che sin qui si muore, ci sarete andata: è vero che allora la Clelia non avrà maestri sul lago; basta: i figli non finiscono mai di costare dei sacrifizii; felice­ mente per voi che la Clelia li merita, perché buona e riconoscente - Tante cose alla mamma e Peppino, come alla Clelietta - Voi credete al vfo aff :° Bellini IO.

Lettera del 25 agosto 1835 a Giovanni Colleoni, nella Pierpont Mor­ gan Library, New York. 1 cambi, Epistolario cit., p. 578. 2 Ibid., pp. 573-74-

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Sul destinatario, L. Cambi scrive la seguente nota: «Molto amico del musicista era Giovanni Colleoni, presidente dell’Accademia Filarmonica della Fenice, di Bergamo; che alla morte del maestro scrisse una poesia in suo onore vivacemente criticata da L'Eco» \ Noi conosciamo una let­ tera destinata a «Madame Benoìte Colleoni Corti, Bergamo», che è con­ servata all’istituto Mazziniano di Genova: Parigi, 21 marzo 1835 1 23 . L. Cambi ha pubblicato un frammento della lettera del 25 agosto 1835,1! cui testo (pieno di errori) essa ha tratto dalla Biografia di Vincenzo Bel­ lini di Filippo Gerardi (Roma 1835)\ Il menzionato scritto di Simon Mayr su Palestrina costituisce, come sembra, una parte della seguente opera del Mayr: Letteratura musicale o Biografie di alcuni illustri com­ positori e artisti italiani... (Ms.)4. Lombardie Monsieur Monsieur Jean Colleoni ( Cont :da di Prato 1042 : ) Bergame Puteaux 25: Agosto 35: Mio carissimo Amico

Aspettai occasione per rispondere alla tua graditissima, ma come sin’ora non mi si presenta, ti diriggo due linee per la posta, perché la mia gratitudine non può piu restare taciturna all’espressioni della tua sincera amicizia. - Ricevi ora li miei complimenti per la tua magnifica Ode, che hai avuto la compiacenza di spedirmi: veramente, che meglio non si potea rendere sublime un dolore che provato fu da tutti i cuori portati alla gloria ed al Grande dei Grandi. - Oh! come piango tanti talenti, come il tuo che languiscono in Italia, in mezzo a selve di vessazioni letterarie! Ho provato piacere ancora nel legete l’osservazioni su Palestrina del mio caro e tragico Maestro Mayer, che ti prego abbracciarlo affettuosamente da mia parte, e ripetergli che il mio cuore deve la sua maniera di sentire allo studio che io feci sulle sue sublimi composizioni, piene di vera passione, e di lagrime, e digli che qui a Parigi non vi è discorso musicale ove non si senta il suo nome con onore ripetuto. Tengo alla tua promessa, e voglio essere uno dei primi a legere i racconti, che dici dover publicare fra poco. Io sarò alla campagna (, della quale troverai la direzione qui sotto) sino alla mettà d’ottobre, poi sarò a Parigi, ove potrai dirigermi le tue lettere Aux Bains Chinois Boulevard des Italiens à Paris. I miei rispetti alla Sig:ra Imperatori e tutta sua famiglia - Ricordami a tutti gli amici nostri, e scrivimi di tanto in tanto, particolarmente se posso servirti in 1 cambi, Epistolario cit., p. 320, nota 2. 2 Essa fu pubblicata in frank walker, Lettere disperse e inedite di Vincenzo Bellini, in «Rivi­ sta del Comune di Catania», vin, ottobre-dicembre i960, n. 4, p. 14 dell’Estratto. 3 cambi, Epistolario cit., p. 377 (fra le lettere del 1833). 4 Potrebbe anche trattarsi del seguente scritto di Mayr stampato a Bergamo nel 1835: Osserva­ zioni di un vecchio suonatore di viola, intorno ad un articolo del Sig. De Sèvelinges, e sulla vita ed opere di P. L. da Palestrina.

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qualche cosa a Parigi - Ti prego per la qui acclusa al nostro Tosi - Ricevi i miei abbracci e cred:mi Tuo aff.mo Bellini PS. Io stesso sono andato dal Sig:r Tommaseo, e ho consegnato il plico ai suoi servi, perché egli non si trovava in casa -

(rampe de pont de Neuilly N:° 19: bis à Puteaux (pres de Paris)

n. MANOSCRITTI MUSICALI AUTOGRAFI.

Ms del «Pirata» a Siena e New York. i.

L’Accademia Chigiana di Siena1 conserva un foglio e mezzo autografi, scritti da entrambe le parti. In margine, attestati dell’autenticità degli autografi da parte dei fratelli di Bellini Mario e Carmelo. 20 righi per pagina. La pagina intera ha un formato di 31,5 (larghezza) x 22,5 cm. Anche la mezza pagina (strappata) sembra dello stesso formato. Essa so­ la presenta una filigrana: una A e una mezzaluna in uno scudo. a) Sulla pagina strappata un po’ a sinistra del centro originale: tratto del Largo agitato del primo finale. La pagina corrisponde esattamente, nella distribuzione, alle carte ijj8r e 1582? della partitura autografa del­ l’intera opera (Conservatorio San Pietro a Majella, Napoli, Rari 4. 2. 8/9)1 2: tutto è identico, salvo le ultime due battute sulla parte posteriore del foglio senese che presentano un andamento leggermente diverso. Qui sta evidentemente la causa dell’eliminazione del foglio dalla partitura definitiva; qui anche, forse, il motivo della lacerazione del foglio. Z?) Sul foglio intero: due pagine del duetto Imogene-Ernesto nel se­ condo atto dell’opera. Si tratta del passo, nella parte di Imogene, che in­ comincia con «ma d’amor che non ha speme» é termina con «col mio cor insiem morrà», alla fine della prima parte di questo-duetto (subito 1 L’Accademia possiede inoltre gli abbozzi manoscritti dei libretti La Sonnambula e Norma (autografi di Felice Romani con annotazioni di Bellini). Cfr. franco schlitzer, Mondo teatrale dell’Ottocento, Napoli 1954. 2 Spartito per canto e pianoforte Ricordi, numero di lastra 108189, pp. 173-76.

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prima del Larghetto)\ Il passo corrispondente esiste nella partitura au­ tografa, ma - come poi anche nell’edizione Ricordi - è scritto un tono sotto. Verosimilmente, Bellini eliminò il foglio, poiché traspose l’episo­ dio (tuttavia non apportando cambiamenti)1 23. 2.

La Pierpont Morgan Library di New York possiede 4 fogli scritti da entrambe le parti. N. 76 nel catalogo della Mary Flagler Cary Music Col­ lection \ 12 righi per pagina. Formato 30 (larghezza) x 24 cm. Filigrana: CANSELL 1831. Pagine in partitura dal terzetto Imogene-Gualtiero-Ernesto nel secon­ do atto. Sui fogli, ad Imogene è assegnato il seguente testo: [...] Ti renderà, ti renderà virtù. Tutto è ad un cor possibile, Quando lo guida onore: Del tuo des tin maggiore Ti renderà virtù.

(Le ultime parole ripetute)

(In entrambe le altre voci abbiamo il testo conosciuto attraverso i li­ bretti e gli spartiti Ricordi). Nella riduzione per canto e pianoforte Ricordi, numero di lastra 108189, a queste pagine corrispondono le pagine 281 dal fondo, fino alla 286 in fondo. Herbert Weinstock ha riprodotto le prime due pagine nel suo libro Vincenzo Bellini. His Life and his Operas, New York 197145 . Sul rap­ porto delle pagine con la partitura autografa (Napoli) egli scrive: «Nella partitura autografa di II Pirata nella biblioteca del Conservatorio di Na­ poli, le pagine che cominciano con “ti renderà” (p. 281 dello spartito Ricordi per canto e pianoforte, con numero di lastra 108189), e che fini­ scono con “virtù, virtù” (p. 286) non sono autografe. Queste pagine si trovano nella Pierpont Morgan Library, New York. Con il generoso permesso di questa biblioteca, ho ottenuto nel 1969 il favore di portare una riproduzione delle pagine autografe alla biblioteca di Napoli»Que­ 1 Spartito per canto e pianoforte Ricordi, p. 253. 2 Fogli complementari, che si riferiscono allo stesso tratto, si trovano nella Biblioteca Comu­ nale di Palermo (un foglio scritto da entrambe le parti, con segnatura zQq - G - 296 n. 6) e nel Museo Belliniano di Catania (Materiale per II Pirata, pp. 59, 60, 123, 124). L’abbondanza degli schizzi per questo passo melodico dimostra che l’episodio stava molto a cuore a Bellini. 3 The Mary Flagler Cary Music Collection. Printed Books and Music - Manuscripts - Auto­ graph Letters - Documents - Portraits, Pierpont Morgan Library, New York 1970. L’autografo fu indicato nel Music Catalogue n. 100 di R. Macnutt (pp. 51-52). 4 A p. 308. 5 p. 531, nota 21.

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sta descrizione dell’autografo di Napoli è sbagliata. Manca in esso l’in­ tero Andante sostenuto «Cedo al destin orribile»; e manca, poiché Bel­ lini stesso ve l’ha tolto, verosimilmente costretto ad abbreviare\ Nell’e­ dizione a stampa dell’opera l’Andante esiste. Io non lo ritengo «medio­ cre», come il Weinstock (p. 307), bensì soltanto troppo lungo e, alla fine, eccessivamente ricco di colorature. Il fatto che esso sia stato accolto nell’edizione a stampa, anche se con alcune varianti rispetto alla stesura autografa di New York, dimostra che Bellini lo apprezzava2. Di nuovo: Bellini ha eliminato dalla partitura autografa tutto il passo che incomin­ cia con «Cedo al destin orribile», e non solo la parte che ora si trova a New York. Alcune delle pagine eliminate, e cioè le prime del pezzo, sono fino ad oggi irreperibili. Bellini, nella partitura autografa, incollò sopra la restante parte della pagina, nella quale aveva musicato la frase di Er­ nesto «... è in mio poter! » (Ricordi, p. 280 in alto) e pose un segno di rimando, che è ripetuto sulla pagina seguente; su questa incomincia l’Al­ legro «Parti alfine» (Ricordi, p. 287 in alto). La filigrana cansell 1831 stranamente non si incontra nella parti­ tura autografa e negli abbozzi conservati a Catania, Palermo e Siena. In­ vece, nell’autografo di Napoli si trovano: una A con una mezzaluna in uno scudo; una mezzaluna senza scudo; un uccello con due teste sotto una corona, e sotto di esso le sigle fv; ega.

Afj dì «Bianca e Fernando» (seconda versione).

Nell’Istituto Mazziniano di Genova (Segnatura: 1154; provenienza secondo la scheda: Legato Francesco Polleri). 6 pagine (di formato oblungo), numerate recentemente a matita. 16 righi per pagina. Filigrane: ega e una mezzaluna sotto, entrambe in uno scudo; una mezzaluna senza scudo. Si tratta di due diverse scene. ’ Già per la prima rappresentazione, come sembra. -L’osservazione di Bellini nella lettera a Vin­ cenzo Ferlito del 29 ottobre 1827, che il Terzetto del secondo atto aveva fatto furore (cfr. cambi, Epistolario cit., p. 28), può riferirsi all’Allegro di questo. E non dimentichiamo che un critico della prima esecuzione chiedeva con rimprovero nella rivista milanese «I teatri» (2 novembre 1827): «Perché... non ci fu dato che un lampo di terzetto?» (ibid., p. 28, nota 3). 2 II pezzo manca però - evidentemente in dipendenza dalla partitura autografa - in tutte le importanti copie della partitura, che mi sono note: Napoli, Conservatorio, 58.2.20; Milano, Conser­ vatorio, ms 21; Venezia, Archivio del Teatro La Fenice, n. 19. Nel libretto della prima esecuzione e in tutte le ristampe del libretto esso è conservato.

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I.

Pagine 1-4 (foglio doppio): Recitativo. Parti delle scene n e m del primo atto della nuova versione dell’opera. Bellini ha musicato su questi fogli i seguenti versi, scritti da Felice Romani *: Fine della scena 11 Ascolta: D’alta e gradita insieme Novella apportato!*, posso a Filippo, Adolfo, presentarti. Ora ne giovi Separarsi : non lunge dalla Reggia Starti dovrai... Forse di te grand’uopo Filippo avrà. Non paventar. Son io Che farti lieto intendo... Udisti?... FERNANDO Addio. (Partono da lati opposti).

viscardo

Scena ni Appartamenti di Filippo nella Reggia. Filippo solo, poi Viscardo; infine i Grandi. FILIPPO

E alcun non giunge!... Estranea gente è voce. Che approdasse al mio lido, e... ad ogni istante Per il regno, per me tremar degg’io... Empio destino è il mio. Ma parmi... Ah vieni!... Viscardo,... di’... già poco in Agrigento Molte navi approdar; qual mai n’è il duce? E in questi lidi qual ragion lo adduce?

Romani aveva previsto un cambiamento di scena, in confronto a Gilardoni che fa invece svolgere l’intero primo atto nell’«Atrio della Reggia». Evidentemente questo progetto poco sensato fu abbandonato poco pri­ ma delle rappresentazioni (già la scena v richiedeva un nuovo ambiente: «Piazza d’Agrigento» dice il libretto). L’edizione Ricordi della seconda versione1 2 non prevede alcun cambiamento di scena; qui la fine della sce­ na li e l’inizio della in appaiono come Gilardoni le aveva concepite. Come mostrano i fogli genovesi, Bellini aveva musicato i nuovi versi di Romani. (Il recitativo della scena 11 è accompagnato da accordi degli archi. All’inizio della scena in e dopo le parole di Filippo «Empio destin è il mio», negli archi e nel flauto risuona il motivo che noi conosciamo 1 Cito dal libretto della seconda versione delPopera (ed. Fratelli Pagano, Genova 1828). 2 Prima edizione [1837], numero ed. 9826-9842 (precedentemente, intorno al 1828, solo singoli «pezzi staccati»); nuova edizione senza anno, numero ed. 108911.

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attraverso l’edizione Ricordi 108911, p. 50; anche in questa scena il can­ to di Filippo è accompagnato dai soli archi, procedenti per accordi). I segni di abbreviazione, che Bellini apportò in un secondo momento alla fine della seconda scena e alla fine del testo riportato in alto —, di­ mostrano l’intenzione di accorciare, un’intenzione che poi, certamente dopo discussioni con Romani, egli mise in atto in un terzo momento con la rinuncia al cambiamento di scena e ai nuovi versi composti. 2. Pagine 5 e 6 (un solo foglio). Sopra, la scritta autografa: Rec:vo do­ po il Duetto del 2:do Atto». A destra in alto, sembra anche di mano di Bellini: «^^ro 1». Si tratta del recitativo che conosciamo dall’edizione Atto 2do Ricordi 108911, pp. 238-39 (Uggero: «Sai tu, Clemente, ove s’aggiri il Duce?») Note e testo coincidono con la versione stampata. Alla fine Bellini ha annotato: «Cambia scena e subito attacca il Coro e Scena di Fernando».

«Sinfonia dell'opera Emani». Nella Pierpont Morgan Library, New York. 18 pagine. Formato 30 (larghezza) x 24 cm. 12 righi per pagina. Fili­ grana (stando alla gentile informazione del signor Turner, New York): cansell 1831. N. 73 nel catalogo della Mary Flagler Cary Music Col­ lection. Qui si legge, a p. 17: «...[Emani. Ouverture]. Sinfonia dell’o­ pera Emani. Partitura... Un indizio per l’identificazione di questa com­ posizione è stato tratto dall’etichetta del ventesimo secolo sulla coper­ tina della legatura, ma questo non assicura proprio nulla, benché il ma­ noscritto sia provenuto dall’eredità di Giuditta Pasta, che avrebbe can­ tato il ruolo di Emani...» Herbert Weinstock scrive nel suo libro su Bellini (p. 260): «Nel 1969 la Pierpont Morgan Library di New York acquistò un autografo belliniano di 18 pagine di una partitura d’orchestra, rilegate, con questa etichetta sulla copertina: Vincenzo Bellini | Sinfonia dell'opera Emani | Partitura | Autografi. Il suo precedente proprietario aveva riferito di aver acquistato l’autografo dagli eredi di Giuditta Pasta, i quali succes­ sivamente avevano precisato che Bellini l’aveva regalato alla Pasta, e che anticamente era stato chiuso in un involucro, sul quale era-scritto Sinfo-

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nia dell'opera Emani donata a Giuditta Pasta da Vincenzo Bellini, ag­ giungendo tuttavia che la scritta, a mano, non era né di Bellini né della Pasta». Weinstock dà nelle pagine seguenti una buona descrizione della par­ titura. Egli mostra a ragione lo stretto rapporto con l’aria di Filippo nel secondo atto di Bianca e Fernando (prima e seconda versione) *. Tuttavia non posso consentire con lui su quanto afferma sulla possibile datazione del pezzo (a p. 262), e non posso perché egli non prende in considera­ zione la possibilità che il « 1831 » sulla filigrana del manoscritto, anziché un numero d’anno, fosse un semplice numero commerciale. Deve sen­ z’altro trattarsi di un numero di questo tipo, poiché anche il manoscritto del Pirata della Pierpont Morgan Library, che appartiene incontestabil­ mente all’anno 1827, ha, secondo l’asserzione dei bibliotecari americani, la stessa filigrana. L’ouverture (frammento di ouverture, poiché dell’in­ troduzione, lenta, vi è nelle 4 battute superstiti, con ogni verosimiglian­ za123soltanto la chiusa) può dunque senz’altro risalire a prima del 1831. L’uguaglianza della filigrana nelle carte di questa ouverture e nel mano­ scritto del Pirata potrebbe essere indicativa. Bellini, durante la compo­ sizione della definitiva ouverture del Pirata era ritornato su un brano, che aveva composto per una nuova versione di Adelson e Salvini (verosi­ milmente nel 1826) \ Non è fuori luogo supporre che egli in un primo momento abbia pensato anche di servirsi della briosa parte orchestrale dell’aria di Filippo dal secondo atto di Bianca e Fernando per l’Allegro della progettata ouverture del Pirata. Piu probabile è però che Bellini abbia abbozzato la sinfonia per la seconda versione di Bianca e Fernando (1826): i fogli da lui usati per II Pirata e la seconda versione di Bianca sono identici per formato e filigrana. Contro l’attribuzione dXPErnani parla il fatto che Bellini stese invece gli schizzi AAYEmani sulla stessa carta di formato gigante che usò anche per quelli della Sonnambula (vedi* sotto): 28 (lunghezza) x 40,5 cm. 1 Spartito per canto e pianoforte Ricordi 108911: pp. 176 sgg. 2 Nonostante la dicitura Lento e la distribuzione strumentale al margine sinistro. 3 Gfr. Friedrich Lippmann, Vincenzo Bellini und die italienische Opera seria seiner Zeit, Kòln-Wien 1969 («Analecta musicologica», 6), pp. 370-71.

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Schizzi di «La Sonnambula». Nella Pierpont Morgan Library, New York, e nella Collezione Tosca­ nini, New York. 1.

Gli schizzi della Pierpont Morgan Library pervennero evidentemente alla biblioteca soltanto dopo il 1970, poiché nel catalogo della raccolta di quello stesso anno non sono menzionati, e neanche il libro di Wein­ stock non ne fa alcun accenno. Tanto piu ringrazio la direzione della bi­ blioteca per le fotocopie degli abbozzi e per il gentile permesso di po­ terne dare una relazione. 3 fogli, scritti davanti e dietro, di formato molto grande: 28 (lun­ ghezza) x 40,5 cm. 24 righi per pagina. Senza filigrana. Rilegatura mo­ derna. Ai margini di ogni pagina autenticazioni, con annotazioni mano­ scritte e timbri. Si ripetono le seguenti annotazioni: «Autografo di Vin­ cenzo Bellini | i suoi fratelli | Mario Bellini | Carmelo Bellini. - Io qui sottoscritto, Perito-Calligrafo presso la Corte d’Appello di Catania, in accertamento di questo autografo di Vincenzo Bellini, ò rilasciato Certi­ ficato, che trovasi depositato in Atto presso Notaio Carmelo Carbonaro di oggi stesso. Catania 19 di Marzo 1902. Prof. Venturino Caravella» Piu in là frasi di autenticazione del notaio Carmelo Carbonaro e di altre autorità di Catania, dell'aprile 1902. Le pagine sono numerate a matita, sembra in epoca molto recente. A p. 2 a sinistra in alto la scritta di epoca anteriore (ma non autografa): N° 2. A p. 3 a sinistra in alto N° 5 e a destra in alto 24 (depennato). A p. 5 a sinistra in alto N° 3 e a destra 23 (depennato). La stessa mano ha scritto i numeri di pagina sugli schizzi di Norma della Collezione Tosca­ nini, cfr. sotto, p. 307; là s'incontrano anche le stesse autenticazioni. Come la maggior parte degli schizzi conservati di Bellini (schizzi di diverse opere nel Museo Belliniano di Catania), anche questi hanno il carattere di abbozzi di melodia. Viene per lo piu delineata una voce (i passi in duetto, naturalmente, a due), e solo talvolta si trova un motivo di accompagnamento orchestrale o corale (nello stesso sistema o in altro vicino). Sul processo di composizione della Sonnambula offrivano testimo­ nianza finora solo pochissimi schizzi che si trovano nel Museo Bellinia­ no ’. Pastura dava, in base a questi pochi fogli, un giudizio un po’ affret1 Ibid., p. 385, nota 35.

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tato: «... Dato il tempo che Bellini ebbe a disposizione per comporre La Sonnambula, si può essere certi che egli scrisse l’opera direttamente in partitura e senza concedersi troppe soste per i soliti abbozzi preparatori: ma è anche da credere che in quel periodo egli si trovasse in un partico­ lare stato di grazia perché l’unico abbozzo dell’opera che possediamo - e che reca l’inizio del famoso quintetto finale del primo atto, dall’ingresso di Lisa e di Elvino, all’attacco del Sostenuto «D’un pensiero e d’un ac­ cento» - appare identico alla stesura definitiva che conosciamo» (p. 557). Gli schizzi dettagliati della Pierpont Morgan Library - che meri­ terebbero una edizione in fac-simile - sono in contraddizione con quanto dice Pastura. (E ad essi si accostano anche gli schizzi della Collezione To­ scanini, cfr. pp. 303-4). Pagina 1: Recitativo di entrata di Elvino (primo atto, al quale tutti gli abbozzi appartengono) «Perdona, o mia diletta», fino alla fine, cioè fino a «Ah! tutto è il core! » Un tono sopra rispetto all’edizione Ricordi; inoltre varie divergenze musicali, ma non di carattere fondamentale. (Nella partitura autografa, conservata nell’Archivio Ricordi di Milano, il recitativo è nella stessa tonalità dell’abbozzo). Pagina 2: Duetto «Prendi, Panel ti dono». Gli schizzi corrispondono alle pp. 40-43 dello spartito per canto e pianoforte Ricordi, numero di lastra 41686. Anch’essi sono un tono sopra rispetto alla stampa (dun­ que in Si bemolle maggiore, cosi come nella partitura autografa). Tra le differenze dalla versione definitiva, due, depennate da Bellini, sono par­ ticolarmente interessanti. L’inizio, nella prima versione, suonava così h

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Secondo gli schizzi, il coro doveva entrare con le-sue parole «Scritti nel cielo...» prima di quanto avvenga nella definitiva configurazione della scena: dopo cioè la prima strofa del testo di Elvino (dopo «...nostro amor»). Bellini abbozzò la parte del coro nel modo seguente: 1 Trascrivo la melodia (come anche le seguenti) in chiave moderna.

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L’idea gli tornò a profitto per la composizione del racconto del fantasma «A fosco cielo» (da «al fioco raggio» fino a «di tuon lontano»). Pagine 304: Duetto «Son geloso del zefiro errante». Gli schizzi cor­ rispondono alle pp. 85-89 dello spartito Ricordi 41686. Anche questo duetto è scritto un tono sopra (Sol maggiore). L’abbozzo è relativamente vicino alla forma definitiva; Bellini, in essa, modificò piu gli abbellimenti che la melodia vera e propria. Le pagine 5 e 6 hanno un carattere un po’ diverso: gli schizzi sono di corto respiro, per cui nelle due pagine sono ammassate molte idee. Le pagine presentano sbarre di battuta che valgono per tutti i righi; Bellini talora vi incastrò metricamente gli abbozzi, ma per lo piu mise nuove sbarre nel rigo stesso. Bellini s’occupa particolarmente delle scene di sortita di Amina e Lisa. La pagina 5 incomincia con il recitativo d’ingresso in Amina «Care compagne» (Ricordi 41686, pp. 21-22). Bellini voleva in un primo tem­ po far entrare Amina con un motivo patetico:

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Ma la soppressione della corona (nell’abbozzo) mostra quanto si guar­ dasse dalla falsa retorica. All’abbozzo del recitativo segue uno schizzo melodico senza parole, che nella partitura definitiva -porta il testo di Amina «Sovra il sen la man mi posa»; seguono anche abbozzi di abbel­ limenti, a noi noti attraverso questa Cabaletta. Ma non è affatto sicuro che Bellini, con lo schizzo di questa melodia, pensasse già alla Cabaletta di Amina; forse pensava ancora all’aria d’entrata di Lisa, che doveva essere anch’essa composta su versi ottonari («Tutto è gioia, tutto è fe­ sta»), e la melodia abbozzata è in effetti una tipica melodia per ottonari. In ogni caso ha provato l’idea per i versi di Lisa, poiché sulla metà infe­ riore della pagina sta la melodia, un po’ variata, con il testo di Lisa:

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Prima però, nel mezzo della pagina 5, Bellini abbozzò, senza testo - per la cavatina di Lisa? - un’altra melodia, in chiave di soprano:

Fra questo schizzo e quello delineato nell’esempio 4 Bellini abbozzò il motivo degli archi che noi conosciamo dalla fine del recitativo d’entrata di Amina (alle parole «Compagne, teneri amici...») Alla fine della pa­ gina 5 è delineato il primo tempo dell’Aria di Amina, con testo. La melo­ dia abbozzata non presenta ancora il livello qualitativo che ha raggiunto nella successiva fase compositiva, né al principio né nel seguito (qui non riprodotto).

Come per me

se - re

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A pagina 6 in alto compare la melodia che servi poi per il secondo duetto Amina-Elvino («Son geloso del zefiro errante»), senza testo, ab­ bozzata in Mi maggiore (quattro battute e mezza). Lo schizzo verosimil­ mente precede quello di pagina 3 1 e rappresenta anch’esso, probabil­ mente, un tentativo di musicare i versi ottonari di Amina o di Lisa. Ac­ canto a queste quattro battute e mezza, nel rigo, si trova uno schizzo del motivo degli archi che conosciamo dalla parte centrale del primo tempo dell’Aria di Amina «Come per me sereno» (spartito Ricordi 41686, p. 23). Sotto, Bellini continuò lo schizzo della melodia in Mi maggiore. Compaiono figurazioni molto vicine a quelle del definitivo duetto «Son geloso». Sotto ancora, a p. 6, Bellini compose su parole dell’aria di Lisa 1 Sembra giusta la seguente successione delle pagine: 5, 6, 1, 2, 3, 4.

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(«e per colmo di tormento son costretta a simular. O beltade») alcune parti della melodia che, nella partitura definitiva, leggermente modifi­ cate, si trovano nella Cabaletta di Amina «Sovra il sen». Gli schizzi della Sonnambula della Pierpont Morgan Library confer­ mano quanto ho scritto circa il procedimento compositivo di Bellini1. Avevo insistito sullo sforzo di Bellini per trovare un’espressione musi­ cale che fosse adeguata allo specifico testo. Ma nello stesso tempo ho fatto notare che questo compositore, non meno di Rossini, ricorreva al procedimento della «parodia» e buttava giù sistematicamente melodie in «studi giornalieri» che poi gli tornavano utili quando riceveva dal li­ brettista il testo specifico. Ho messo inoltre in evidenza che Bellini oc­ casionalmente provava ad adattare le più varie melodie su determinati versi1 2. Anche le pagine 5 e 6 dei fogli di schizzi della Pierpont Morgan Library offrono una testimonianza di tali «prove» con diverse melodie. Vi compaiono, con divergenze più o meno grandi, le melodie che ritro­ viamo nell’aria d’entrata di Lisa «Tutto è gioia», nella Cabaletta di Ami­ na «Sovra il sen la man mi posa», e nel secondo duetto Amina-Elvino «Son geloso del zefiro errante». Ma nessuna di esse appare in queste pagine con il testo definitivo, anzi o recano i versi dell’altra scena, o so­ no senza testo3. Bellini, lavorando evidentemente alla composizione del­ le scene 1 e ni del libretto, provò varie melodie, e anche qui, come nelle menzionate scene della Norma e in molti altri casi in cui si serviva di melodie «prefabbricate», gli riuscì di dare loro, nella partitura defini­ tiva, un aspetto tale che nessuno sospetterebbe siano state composte per altri versi da quelli dell’ultima redazione. 2.

Gli schizzi della Collezione Toscanini, New York. Su carta, misure e filigrana nulla si può dire4, né si può affermare se le due pagine esistenti rappresentino, come io suppongo, il recto e il ver­ so di un solo foglio. Solo questo è chiaro: 20 righe per pagina. Le pagine sono da leggersi di seguito. Sulla prima pagina a destra stanno le seguenti annotazioni: «Autografo di Vincenzo Bellini | i suoi fratelli | Mario Bel­ 1 lippmAnn, Vincenzo Bellini cit., pp. 342-48. 2 Per esempio, nella composizione della prima parte del duetto Adalgisa-Pollione nel primo atto della Norma. Cfr. a questo proposito la p. 347 del mio Vincenzo Bellini cit. 3 La sola melodia delle pp. 5 e 6 che ha ricevuto subito il «suo» testo, è il «Come per me sereno» di Amina. 4 La collezione Toscanini giace imballata in un deposito della New York Public Library, in attesa della divisione del materiale fra gli eredi. Io possiedo solo fotocopie (mal riuscite) dei docu­ menti belliniani.

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lini | Carmelo Bellini. — Regalato al carissimo R. E. Pagliara da | Peppino Auteri». All’inizio della prima pagina Bellini scrisse in 8 battute, Fa maggiore, una sequenza di sedicesimi prevista, come sembra, per il primo violino; non mi pare che lo spunto sia stato sfruttato in alcun luogo. Forse il com­ positore stava progettando un altro preludio strumentale al secondo at­ to? Di certo, negli abbozzi seguenti mostra di occuparsi proprio della pri­ ma scena di questo. Quindi si trovano notate, in Mi bemolle maggiore, ad una sola voce, figurazioni che compaiono nell’attuale introduzione strumentale (spartito Ricordi, p. 128). Segue un pezzo per il coro «Qui la selva», 9 battute in Fa maggiore, che Bellini interruppe e riscrisse in Mi maggiore (questa tonalità è, come si sa, quella definitiva). Nella ver­ sione finale Bellini ha gettato un ponte fra le cesure dei versi mediante lunghe formule cadenzali (e di conseguenza con pause brevi), realizzando anche qui una delle sue «melodie lunghe lunghe lunghe». Nella prima versione una pausa di semiminima separa i versi 1 e 2, poi la condotta melodica del secondo verso è leggermente diversa:

Bellini abbozza l’andamento del coro (in tre righi, con alcune varianti) fino al passo che nello spartito Ricordi si trova a p. 131 in alto. Seguono schizzi per l’episodio «Consolati al villaggio» (Ricordi, pp. 134 sgg.): Bellini scrisse questa parte dapprima in tempo di 4/4, poi passò al 6/8.

Sezioni in partitura e schizzi di «Norma». Nella Collezione Toscanini, New Yorkl. Per quanto riguarda la descrizione delle fonti, cfr. p. 303, nota 4.

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i.

4 pagine in partitura dal coro «Guerra, guerra» nel secondo atto. 24 righi per pagina, come nella partitura autografa (Roma, Conservatorio Santa Cecilia). Annotazioni in margine: «Autografo di Vincenzo Beh lini | I suoi fratelli | Mario Bellini | Carmelo Bellini. - Regalato al caris­ simo R. E. Pagliara da Peppino Auteri». Nella partitura autografa il coro è scritto, come si sa, dalla mano di un copista. (Lo precedono tre battute autografe, che appartengono alla scartata prima versione del coro ‘). Le pagine della Collezione Toscanini mostrano, con alcune altre pagine che si trovano a Catania (Museo Belliniano), una parte di una nuova versione autografa del coro. E scrivo intenzionalmente «una nuova versione autografa» perché è possibile, anzi probabile, che la trascrizione del copista si basi su un’altra e defi­ nitiva versione autografa. Il fatto che Bellini intendesse in origine an­ nettere almeno le prime tre pagine alla partitura autografa (o addirit­ tura che lo abbia fatto), è documentato da alcune cifre autografe. Sulla prima pagina, a sinistra, sta il numero 7, che evidentemente serve come numerazione di una serie di carte; ma soprattutto appaiono in basso, sul­ le prime tre pagine, alla costante distanza di 5 battute, i numeri 31-37. Ora, nella partitura autografa, essi sono preceduti dai numeri 1-30. (La quarta pagina è cancellata e non porta alcun numero). All’inizio, prima dell’entrata delle voci, Bellini prevedeva in un pri­ mo momento la partecipazione dell’orchestra; oltre alla banda, dovevano suonare archi, legni (clarinetti, oboi, fagotti), cimbasso e timpani. È de­ gno di nota inoltre che Bellini abbia previsto, fra i timpani e la Gran cas­ sa, 2 righi per arpa. Qui il compositore ha notato le trombe, però con l’osservazione: «L’arpa prenderà al cessar delle Trombe». La coda so­ lenne in La maggiore (con arpe), dunque, era una parte essenziale in que­ sto stadio della composizione1 2 e a Catania sono conservate alcune pagine autografe (42-41) che ci tramandano in parte questa conclusione (e ap­ partengono allo stesso stadio di composizione)3. 1 Della prima versione si trovano frammenti autografi nel Museo Belliniano. Pastura ne ha riportata una sezione in Bellini cit., pp. 568-70. È molto strano che Raffaello Monterosso, nel suo saggio Per un’edizione di «Norma» (in Scritti in onore di Luigi Ponga, Milano 1973, PP. 501-4), stampi di nuovo questa sezione (senza descriverla come tale), e non cominci 19 battute prima. I fogli di Catania, che tramandano frammentariamente la prima versione del coro, sono i se­ guenti: 40/39, 99/100, 125-128 (foglio doppio). 2 Cfr. Friedrich Lippmann, Quellenkundliche Antnerkungen zu einigen Opern Vincenzo Bel­ linis, in «Analecta musicologica», 4, 1967, pp. 145-46. 3 Trascrizione in monterosso, Per un’edizione di «Norma» cit., pp. 496-97. Le pagine auto­ grafe 42/41 portano in basso i numeri autografi 53-58 della indicata numerazione di Bellini. Ad essi segue nella partitura autografa il n. 59.

3o6

Friedrich Lippmann

Bellini, sui 4 fogli, giunse fino all’ultimo (quarto) verso della seconda strofa del testo1 Ei gorgoglia con...

La quarta pagina (sulla quale sono scritte solo le parti vocali) è però più volte cancellata. Ad essa segue la «p. 87» di Monterosso, quel «fo­ glio isolato» di Catania che egli ha trascritto alle pp. 499 e 500 del suo studio (il verso, cioè «88 », è vuoto). Qui si trovano musicati la fine del­ la seconda e l’inizio della terza strofa: ... funebre suon. Strage, sterminio...

In questa fase della composizione, Bellini aveva posto in musica la prima strofa del testo così come noi la conosciamo dalla versione finale; invece aveva musicato la seconda e la terza strofa (p. 3 Toscanini, alla fine; p. 4 Toscanini; «p. 87» di Catania) con qualche modificazione (sia pure servendosi degli stessi motivi): lo si può rilevare sia dalla «p. 87» trascritta da Monterosso, sia dalla p. 4 Toscanini. Qui vengono citati i soprani: Es. 8 fi-no al

tron-co

ba

-

gna - te

ne

son.

Bellini poi scartò la composizione del secondo verso. La p. 4 Toscanini è, come già detto, cancellata. Bellini lasciò le 2 battute con l’inizio della seconda strofa alla p. 3 Toscanini, ma cambiò il testo poetico. Invece dell’inizio della seconda strofa con le parole «Sangue, sangue», appare ora, scritto sopra : Stragge, stragge, ster...

E qui si saldano le «pp. 37-38» di Catania pubblicate da Monterosso (sono il recto e il verso di un unico foglio)3*. 1A2 «p. 37» il testo inco­ mincia: ... minio, vendetta! Già comincia (ecc.) 1 Si tratta di 3 strofe di decasillabi (e non di ottonari, come scrive monterosso, Per un'edi­ zione di «Norma» cit., p. 494)2 Ibid., p. 495- Per altro le «pp. 37-38» di Monterosso sono riportate in Omaggio a Bellini, Catania 1901, p. 38 (appartenevano nel 1901 al direttore del «Circolo Bellini» in Catania, Giuseppe Giuliano). Se ci fosse ancora bisogno di una prova che le pagine di Catania si saldano a quelle di New York, la si ricava chiaramente dalla numerazione di cinque battute di Bellini: alle «pp. 3738 » troviamo in basso i numeri 38-41 (cosa che Monterosso non ci dice). Essi seguono al numero 37 della p. 3 Toscanini.

Belliniana

307

È la terza strofa del testo. Bellini aveva evidentemente deciso, in que­ sta fase della composizione, di tralasciare di musicare la seconda strofa. In merito alla seconda strofa, il coro appare abbreviato anche nelle pri­ me edizioni Ricordi del 1832. (La prima edizione «per canto e pianofor­ te», numeri di lastra 5900-5911, presenta il lungo e solenne finale in La maggiore come soluzione alternativa; la prima edizione «per piano­ forte solo», numeri 5775’5/86, lo presenta senza accennare ad un’altra possibilità). Nei libretti ci son sempre, fin da quello della prima esecu­ zione (Milano, carnevale 1831-32), tutte e tre le strofe. Soltanto le suc­ cessive edizioni Ricordi per canto e pianoforte (1859: numero 3098130995; 1869-70: numero 41684) presentano il coro così come sta nella partitura autografa (scritto da un copista), cioè con tre strofe e senza il solenne finale. Lo spartito del 1859 (esemplare nel Museo Belliniano) s’intitola: Nuova Edizione corretta secondo le ultime modificazioni pra­ ticate dall"Autore. Come si vede, la genesi di questo coro guerresco ha una storia assai complicata. La qualità del pezzo esige di ripercorrerne le tappe. 2.

2 pagine con schizzi di Norma. Verosimilmente un foglio, scritto da­ vanti e dietro. 20 righi per pagina. Queste pagine appartengono ai fogli di schizzi autografi la cui auten­ ticità i fratelli Mario e Carmelo Bellini fecero convalidare nel 1902. An­ notazioni, firme e timbri sono identici a quelli degli schizzi della Son­ nambula nella Pierpont Morgan Library. Si vedono anche, scritti nella stessa calligrafia, qui come là, determinati numeri: N° 7 in alto a sinistra su una pagina, 26, cancellato, sull’altra, in alto a destra. Come nel caso degli schizzi della Sonnambula pp. 5 e 6, si tratta an­ che qui di abbozzi brevi, talvolta di sole 2-4 battute. Prevalgono abbozzi per una voce sola. Non tutti gli abbozzi vengono qui esaminati, bensì soltanto alcuni di particolare interesse. Ap. [1] (con numero 26) compare al secondo posto un tema, somi­ gliante a quello che si trova negli schizzi di Norma conservati nel Museo Belliniano, col testo «Ah, riedi ancor, qual eri allor» (in origine il testo della Cabaletta dell’aria d’entrata di Norma, parzialmente musicato nel­ la coda della versione finale). Pastura pubblicò il tema catanese a p. 563 del suo libro ’. 1 Bellini si è servito poi del motivo nei Puritani, nel terzetto Enrichetta-Arturo-Riccardo del primo atto (cancellato però prima della rappresentazione): cfr. pastura, Bellini cit., esempio musi­ cale a p. .583.

308

Friedrich Lippmann

Ecco il tema degli schizzi di New York (citato per intero):

Al centro della p. [i] si trova il seguente tema (da leggersi, credo, in chiave di violino): Es io

L’idea s’incontra, variata, anche al centro della p. [2], ora in La maggiore

Entrambi i tentativi rievocano fortemente la melodia dell’Andante nel duetto Norma-Adalgisa nel secondo atto (Adalgisa: «Mira, o Norma, a’ tuoi ginocchi»). Nella metà inferiore della p. [1] è abbozzato il canto finale di Norma «Qual cor tradisti» (con testo). Lo schizzo è molto vicino alla versione definitiva. A p. [2] in alto si trova un’idea che doveva essere ulteriormente svi­ luppata in Beatrice di Tenda (cfr. «Ah, non pensar che pieno» di Agnese, nell’introduzione) :

Che Bellini potesse talvolta cadere nella banalità anche all’epoca di Nor­ ma, è dimostrato dalla seguente melodia presente nella metà inferiore della p. [2] (la citazione è integrale): Es. 13

Belliniana

309

La melodia era si venuta in niente a Bellini, ma il maestro l’ha espunta ben presto! Quartetto, a cappella, per 4 soprani.

Nella Pierpont Morgan Library, New York. In merito a questo brano il catalogo della Mary Flagler Cary Music Collection riferisce: «[N.] 79... [Frammento non identificato] [2] pp. cm 28 x 22%. Parti­ tura a 4 voci, tempo 6/8, Mi bemolle maggiore. A piè di p. 1 : "Autografo di mio fratello Vincenzo Bellini. Carmelo”. Una nota a matita suggerisce che questo può essere un frammento da I Puritani o da Norma» \ La supposizione è del tutto infondata. Si tratta dell’intonazione a 4 voci (4 soprani) dei versi di Metastasio: T’intendo si, mio cor; Con tanto palpitar, So che ti vuoi lagnar Che amante sei.

Ah, taci il tuo dolor; Ah soffri il tuo martir: Tacilo, e non tradir Gli affetti miei.

Appartengono ad una Cantata intitolata Amor timido che incomincia con le parole «Che vuoi, mio cor? » e che contiene, oltre alla citata prima aria, ancora una seconda, «Placido zefiretto»2. Anche Beethoven musicò i versi «T’intendo sì, mio cor» (op. 82 n. 2). Bellini aveva in principio previsto anche una quinta voce di soprano (sul rigo più basso), ma poi non l’ha composta. Incipit del primo soprano: Es. 14 T’in

-

ten - do, si, mio

cor,

con

tan - to

pai - pi

-

tar,

1 A p. 18 del catalogo. 2 Cfr. Tutte le opere di Pietro Metastasio, a cura di Bruno Brunelli, Mondadori, Milano 1947, vol. II, pp. 725-26.

Friedrich Lippmann

3io

A quanto pare la composizione non è frammentaria ma conclusa. Secon­ do la gentile informazione del signor R. Turner, le pagine hanno la se­ guente filigrana: un toro in una cornice rotonda con sotto le lettere PC. La stessa filigrana presenta il manoscritto seguente (Terzetto). Questo, come sarà dimostrato, è da datare circa al 1824 e la stessa cosa vale, con ogni verosimiglianza, anche per il Quartetto.

Terzetto per soprano, due tenori e orchestra.

Nella Pierpont Morgan Library, New York. Nel catalogo della Mary Flagler Cary Music Collection si legge: «[N.] 78... Terzetto. [16] pp. 22 x 29 cm. Partitura completa (sopra­ no, 2 tenori e orchestra). Pubblicata in: Rielaborazione di F. P. Frontini, Ricordi, Milano 1901. Titolo di copertina: Cantata. Composta fra il 1813 e il 1819. Incipit: «Ombre pacifiche dal sen di Lete» \ Ci sarebbe da aggiungere che in margine alla prima pagina una mano sconosciuta ha annotato: «Originale di V. Bellini» (12 righi per pagina). Il signor R. Turner mi ha gentilmente comunicato la filigrana: essa coincide, come già detto, con quella del quartetto «T’intendo sì, mio cor» nella stessa collezione. Anche Weinstock menziona nel suo catalogo2 questo manoscritto, e cosi pure una copia di 24 pagine nel Museo Belliniano. Egli stabilisce come data di composizione «Catania, 1818 (?)». Anche lui menziona un’edizione Ricordi del 1901 (revisore F. P. Frontini). Due dati poggiano su fragili basi: le datazioni «1813-1819» e «1818 ( ?•)», così come l’affermazione di un’edizione Ricordi del 1901. La prima datazione si basa su Pastura3, la seconda è stata proposta da Weinstock stesso. Guido Pannain è il primo studioso che menziona un’edizione Ri­ cordi4. (Altri cataloghi, come quelli di Cicconetti, Fiorirne, Pougin, e quello anonimo in Omaggio a Bellini, Catania 1901, non menzionano af­ fatto la composizione). Dietro mia richiesta all’editore Ricordi, la signora Luciana Pestalozza ha gentilmente scorso gli interi cataloghi della casa editrice; e la sua risposta (1970) è questa: «Abbiamo controllato tutti ! 2 3 4 vol. I,

A p. 18 del catalogo. A p. 382 del suo citato libro. Bellini cit., p. 711. G. pannain, articolo Vincenzo Bellini, in La Musica. Enciclopedia storica, Utet, Torino 1966, p. 465.

Belliniana

311

i numeri di catalogo degli anni intorno al 1901 e non abbiamo trovato nulla». Nel Museo Belliniano di Catania ho trovato l’edizione che ha curato F. Paolo Frontini: Ombre Pacifiche | Terzetto | per Soprano e Due Tenori | con accompagnamento di Pianoforte. — Premiato Stabilimento Musicale | Genesio Venturini | Editore-Stampatore | Firenze | Succursa­ le: Roma - Corso Umberto I, 387. (Questo sul frontespizio). Nell’inte­ stazione si dice: Postuma Riordinata e Ridotta | da F. Paolo Frontini. L’edizione ha il numero di lastra 7295 e appartiene a una serie di Com­ posizioni | di | Vincenzo Bellini | (Postume), tra le quali rientrano an­ che le opere seguenti: O Souvenir (numero 7294); Tantum ergo e Geni­ tori (7296); Tantum ergo (7297); Pensiero Musicale (7298). Tutte que­ ste stampe si trovano nel Museo Belliniano. Sulla prima pagina della partitura autografa della Pierpont Morgan Library sta, a sinistra in alto, la scritta autografa: Terzetto. La partitura prevede dall’alto al basso: Violini I, II, Flauto, (2) Clarinetti, (2) Oboi, Corni in Do, Fagotto, 1 soprano, 2 tenori, Viole, Violoncelli. L’indica­ zione di tempo in 3/8 è stata corretta in 3/q. Il testo è il seguente: Ombre pacifiche, Dal sen di Lete La chioma ergete Di maestà. Suvvia godete Ne’ di remoti De’ bei nipoti La voluttà. Gelosa invidia Non turbi il core, Eterno amore V’assisterà. Lingue malediche, O coppia amabile, Vostra non turbino Prosperità.

Affetti teneri, Dolce letizia, Sacra amicizia Trionferà. Indissolubile Nodo perpetuo Fia vostra amabile Felicità.

Friedrich Lippmann

312

Evidentemente si tratta di una poesia nuziale o di una parte di una poesia nuziale. Le anime degli antenati sono chiamate a partecipare alla gioia dei nipoti e la giovane coppia riceve le felicitazioni. La composizione è suddivisa come segue: le prime due strofe del testo = Larghetto. Incipit (primo tenore):

Le due strofe di mezzo = Allegro. Incipit (soprano): Es. 16 Ge-lo-sa in

vi - di - a

non tur-bi il

co - re

Le ultime due strofe = Piu allegro. Incipit (primo tenore):

8

Af -fet - ti

te - ne - ri,

dol

-

- ce le -

ti - zi

-

a

Alla fine dell’ultima pagina si trova una corona, ma non c’è doppia sbar­ ra. Il secondo tenore esegue una breve cadenza e si accinge ad una ripeti­ zione della melodia (cfr. es. 17). Nella sua edizione sopraricordata Fron­ tini, invece del tenore, ha fatto entrare nuovamente il soprano, e alla fine ha posto arbitrariamente 4 battute di accordi di chiusura. L’orche­ stra entra alla battuta 1 della composizione con l’accordo di settima di­ minuita Sol diesis - Si - Re - Fa, dal quale escono le voci dei flauti e dei clarinetti: siffatto inizio sarebbe assai strano per una cantata di nozze, per cui è molto facile supporre che ci troviamo di fronte ad una sola par­ te di cantata: per una parte importante, che richiama l’attenzione (l’in­ vocazione alle «ombre» dei defunti), una tale entrata armonica andava a pennello. Ci sta davanti, in questo terzetto, una parte della perduta cantata nuziale Ismene (più verosimile: Imenei A questo riguardo Fiorimo scrisse che Bellini l’aveva composta «per le nozze del suo amico signor 1 Cfr. «Allgemeine Musikalische Zeitung», xxix, Leipzig 1827, p. 871 («una cantata, intito­ lata l'imene»).

Belliniana

313

Antonio Naclerio colla signora Gelsomina Ginestrelli» nel 1824, rite­ nendola tuttavia perduta1. Sono interessanti le informazioni nell’anoni­ mo catalogo delle Composizioni musicali di Vincenzo Bellini, in Omag­ gio a Bellini cit., il migliore catalogo prima di Pastura: «Cantata, per le nozze del signor Antonio Raclerio colla signora Gelsomina Genestrelli, ora irreperibile. Catania 1824»12. Pastura accenna ad un frammento autografo di una cantata nel Museo Belliniano: «un frammento di cantata a tre voci, con accompagnamento d’orchestra. Le voci sono anonime, esse appaiono indicate — nel principio della composizione, in mezzo agli strumenti - come Soprano, Tenore e Basso. La composizione non porta nessun titolo, ma il testo poetico è inequivocabilmente un epitalamio»3. Carta e conformazione grafica han­ no, secondo Pastura, i caratteri dell’epoca intorno al 1824, ed egli con­ gettura che qui si ha da fare con la scomparsa cantata Ismene (o Imene), o quanto meno con la «prima stesura della Cantata» (poiché alcuni trat­ ti della partitura sono rimasti incompleti). Pastura riporta4 alcuni esem­ pi musicali del frammento, e descrive cosi la struttura del pezzo: Terzet­ to, i° Canto di Soprano, 20 Canto di Soprano durante il quale la partitura s’interrompe. Ho studiato recentemente a Catania i frammenti autografi menzionati e citati da Pastura: essi appartengono al periodo 1824-26; carta, filigrana e tipo di scrittura sono caratteristici del periodo di Adelson e Salvini (composto nel 1824, rappresentato al principio del 1825) e di Bianca e Fernando (composto negli anni 1825-26, rappresentato il 30 maggio 1826). Dimensioni della pagina: 22 cm di altezza x 29 di larghezza. Fili­ grana: un toro in cornice rotonda: scafati ald. Pastura ha commesso alcuni errori di trascrizione (per esempio, nella battuta 2 del suo secondo esempio a p. 65, nella parte del tenore, dev’esserci un Re diesis anziché un Re). Inoltre ha ignorato un particolare importante: al principio del terzetto (alle parole «Coppia gentile»), sopra la voce di basso sta la scrit­ ta autografa: Si copii in chiave di tenore. Bellini dunque, in una seconda fase del lavoro di composizione, si è risolto per una versione per soprano e due tenori, versione senza dubbio suggeritagli dalla disponibilità delle voci. Inoltre, Pastura non è corretto nella descrizione del terzetto. Val la pena di ricordare che il terzetto è stato tramandato frammentario: tra lap. i4elap. 15 (numerazione moderna mediante timbri) mancano al­ cune pagine. A p. 14 ha inizio una nuova parte del terzetto sulle parole 1 f. florimo, Bellini. Memorie e lettere, Firenze 1882, pp. 8 e 8;. 2 A p. 333. 3 Bellini cit., p. 64. 4 Alle pp. 65-67.

314

Friedrich Lippmann

«Ve’ come lieto | Sorride I=». E sopra le note delle parti vocali Bellini ha scritto: parole del ultimo coro. Ciò si riferisce alle parole che egli ha posto sopra il soprano. Non ho potuto decifrare le prime parole. Segue: «... risplende il». A p. 15 troviamo la fine del terzetto sia d’inizio sia di chiusura («coro» nella terminologia belliniana: evidentemente egli vo­ leva vedere le voci del terzetto occupate in modo molteplice): «...feli­ cità» sopra le voci, «prole coronerà» sotto le voci. Cosi il problema si chiarisce: la cantata doveva concludersi con la ripetizione del coro d’ini­ zio, almeno secondo la volontà del compositore nel momento in cui scris­ se queste parole in questo autografo. Una terza inesattezza di Pastura: egli parla, in riferimento all’introduzione strumentale di «Coppia gen­ tile», di «movenze di marcia», di una musica, «che evidentemente do­ veva servire da marcia all’ingresso degli sposi in chiesa». Si tratta invece di una musica senza un carattere particolare, che risuona alquanto mar­ zialmente soltanto in poche battute (quelle citate da Pastura a p. 65 in alto). Si noti ancora che piu avanti si trovano due annotazioni autografe: sulla pagina nella quale ha inizio il «Coppia gentile», al fondo, Bellini ha scritto: Laudamus. Sotto il Larghetto «Ore di pace» è scritto: Qui sedes. Ciò richiede un ulteriore studio. I versi posti sotto le note, nei frammenti autografi catanesi sono i se­ guenti: Coppia gentile, T’appressa e giura Devota cura, Qui Fara alzò. Ve’ come lieto Sorride 1= ...

Ore di pace, Dal ciel scendete, Fiori spargete Sulla beltà. Colgon le rose Onore e merto, Virtude il serto Ne intreccerà.

Gioia immutabile Il cor v’inondi, E vi circondi Ilarità.

Belliniana

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Amor benefico Procuri all’anima La più durevole Tranquillità.

Di lieto giubilo Riempi il core, Gli affanni e i palpiti Dileguerà.

Come si vede, si tratta, proprio come nel frammento di New York, di versi quinari. Ad essi potrebbero collegarsi (direttamente o dopo una o più strofe che sarebbero poi andate perdute) i sopracitati versi del fram­ mento ora nella Pierpont Morgan Library: il collegamento avverrebbe senza la più piccola frattura di stile. Con ogni verosimiglianza ci stanno davanti, a New York come a Ca­ tania, parti di una stessa cantata nuziale, nella quale è lecito vedere la cantata, già ritenuta perduta, Imene (nella seconda strofa di Catania vie­ ne forse interrotta la parola Imene! Io credo che possediamo ora tutte le sue parti, anche se queste sono talvolta frammentarie: coro iniziale Aria per soprano (evidentemente la voce più capace) in due tempi e due tonalità - terzetto per soprano e due tenori «Ombre pacifiche» - ripeti­ zione del coro iniziale su altri versi. Verosimilmente, della parte della cantata che è conservata nei fram­ menti autografi che incominciano con «Coppia gentile» (Catania), esiste­ va una copia (Bellini, cfr. sopra: «si copii...»); essa è irreperibile. Del­ l’autografo «Ombre pacifiche» (New York) possediamo invece una co­ pia nel Museo Belliniano. Weinstock l’ha già nominata (cfr. sopra), ma ha parlato solo di «24 pagine», non rendendosi conto che due fascicoli appartengono ad uno stesso manoscritto: a) 1-24 (cosi contrassegnato) e b) di nuovo 1-12 (contrassegnato; recentemente cancellato con un se­ gno a matita 1-12 e corretto in 25-36). Titolo della copia: Terzetto | Ombre Pacifiche | Del Sige Vincenzo Bellini. La carta è la stessa di quel­ la dei frammenti autografi. Bellini l’ha evidentemente affidato al copista controllandone personalmente la bella-copia, come provano particolari annotazioni autografe. Questa bella copia ci trasmette un po’ più di mu­ sica che il frammento autografo di New York: la parte ripetuta (di cui nel suddetto frammento abbiamo solo l’arsi) è conservata, mancano pe­ rò anche qui le battute di chiusa. Pastura propende per una destinazione della cantata nuziale a un ma­ trimonio a Napoli piuttosto che in Sicilia: «Ma né dell’amico Antonio Naclerio né della di lui sposa Gelsomina Ginestrelli ricorrono mai i nomi in tutto l’epistolario belliniano; si tratterà quindi di una occasionale

3i6

Friedrich Lippmann

amicizia contratta a Napoli anche perché dei due cognomi non si tro­ vano tracce tra quelli degli amici catanesi del musicista e nemmeno sono di origine siciliana» \ Ciò è sufficiente ad escludere una destinazione del­ la cantata per un matrimonio in Sicilia? Si ricordi a questo proposito che nel catalogo contenuto in Omaggio a Bellini (1901) vengono dati come luogo e data di composizione «Catania 1824». E si ricordi anche che Bel­ lini, secondo una sua propria testimonianza, nell’anno 1824 intraprese un viaggio nella terra natale di Sicilia, viaggio che lo portò, attraverso Messina, fino a Catania2.

Sonata per organo in Sol maggiore.

Nella Pierpont Morgan Library, New York. Cito dal catalogo della Mary Flagler Cary Music Collection: «[N. 77]... [Sonata, organo, Sol maggiore]. Sonata per organo composta da Vincenzo Bellini allievo del Real Collgio [!]3 di Musica di Napoli. [3] pp. 23 x 28 cm. Una scritta alla fine, per mano del fratello del compositore, Carmelo, dona il manoscritto a Peppina Appiani in occasione della morte di sua madre. È datato Catania, 21 maggio 1846. Carmelo definisce suo fra­ tello “quell’angelo della italiana melodia”»4. Tra le illustrazioni del catalogo (tavola xi) è riprodotta la prima pa­ gina. Incipit: Es. 18

1 Bellini cit., p. 64. 2 Cfr. la lettera di Bellini del 27 settembre 1828 ad uno zio (sembra, Filippo Guerrera), stam­ pata in cambi, Epistolario cit., pp. 166-67. Cfr. poi Giuseppe arenaprimo, Un episodio inedito, in Omaggio a Bellini cit., pp. 65-67. Pastura ritiene di dover contraddire alla datazione del viaggio nel 1824 (che deriva dallo stesso Bellini), e, come già prima di lui Cicconetti, assegna il viaggio al 1825 basandosi sullo scritto di un anonimo: sulla scorta del quale tuttavia egli avrebbe dovuto propria­ mente scrivere 1826 («sette anni di assenza» [da Catania])! Io non vedo alcun motivo per non fidarsi deH’affermazione di Bellini (fatta in un contesto in cui difficilmente avrebbe potuto sba­ gliarsi). 3 Gli editori del catalogo non hanno badato alla linea di abbreviazione sopra gio. 4 A p. 18 del catalogo.

Bellini ana

317

La filigrana non è stata identificata. La composizione appartiene, come dice il titolo, agli studi napoletani di Bellini negli anni 1819-25.

Studi di contrappunto. Il musicologo H. C. Robbins Landon, Vienna, possiede un mano­ scritto di 32 pagine1, la cui copertina (da attribuire circa all’inizio del nostro secolo) porta la seguente impressione a stampa: «Studio del Con­ trappunto | fatto da | Vincenzo Bellini | Napoli 1819. Autografo». For­ mato 28,5 (larghezza)x 23 cm. Due tipi di carta: a) pp. 1-16 senza fili­ grana visibile; b) pp. 17-32 con filigrana «S. Giovanni G», fiore di giglio in uno stemma. Su entrambi i tipi di carta, 12 righi. I fogli contengono studi in contrappunto a 2 e 3 voci: brani di lun­ ghezza variabile da 3 battute fino a una pagina e oltre. Sono presenti va­ rie correzioni. La differenza fra i tipi di carta corrisponde ad una differenza di scrit­ tura: le pagine da 17 alla fine sono scritte da un’altra mano. I segni gra­ fici sia dell’uno sia dell’altro gruppo di carte non trovano corrispondenza precisa negli autografi belliniani di quell’epoca. 1 Possiede anche la parte di clarinetto 20 (autografa) della Salve Regina in La maggiore.

[Traduzione di Giulia Giachin].

FRANCESCO DEGRADA

Prolegomeni a una lettura della Sonnambula

Mai il teatro lo aveva preso come allora; la pas­ sione di quelle melodie era per lui come il battito d’ali di grandi uccelli scuri, come se potesse sentire le linee che il loro volo tracciava nella sua anima. Non erano più passioni umane quelle che udiva, no, erano passioni fuggite via dai cuori umani co­ me da gabbie anguste e troppo volgari. In quell’ec­ citazione non poteva neanche pensare alle persone che laggiù - invisibili - rappresentavano quelle passioni; se provava a immaginarsele, subito fiam­ me oscure divampavano davanti ai suoi occhi, o forme gigantesche mai vedute, così come nel buio i corpi umani crescono a dismisura e gli occhi bril­ lano come gli specchi di acque profonde... E chi aveva creato l’opera? Non lo sapeva. Forse il li­ bretto era qualche insipida storia sentimentale. Il suo creatore aveva sentito che messa in musica di­ ventava qualcos’altro? R.

musil,

I turbamenti del giovane Tórless.

La Sonnambula ha assunto, insieme con Norma e l'Puritani, ma forse in misura più diffusa e generalizzata che non questi lavori sia nell’opi­ nione corrente, sia in settori rilevanti della tradizione critica, valore di documento emblematico e per ciò stesso privilegiato, in qualche modo esclusivo, della personalità creativa di Vincenzo Bellini, del suo mondo fantastico e poetico. In particolare, più che non le altre due opere, è stata elevata a simbolo di quella sua dominante disposizione estetica che vo­ lentieri s’è definita «lirismo puro», nonché come ideale campo di espli­ cazione di quella sua prediletta forma di espressione che con altrettanto fortunata quanto poco chiara sigla critica s’è detta del «canto puro» Semplificazioni di comodo che sarebbero accettabili a livello di larga ap­ prossimazione metaforica, ove non si risolvessero poi, di fatto, in un reale impoverimento dell’arte belliniana, in tal modo privata della sua 1 Si veda, per tutti, Ildebrando Pizzetti: «Lirico puro (il più puro lirico di tutto il nostro Ot­ tocento, e uno dei più puri lirici che sian mai vissuti su questa terra) creatore che doveva sentire l’arte non come espressione di conflitti, di vita in continuo divenire, ma come risoluzione di dram­ mi, come conclusione purificatrice di travagli sentimentali; egli doveva dunque sentire che la sua vera forma d’espressione non poteva essere che una, o doveva essere soprattutto una: quella lineare, il canto puro: che dall’accompagnamento delle sue misteriose armonie generatrici avrebbe potuto ricevere luci ed ombre, sì da averne intensificata e rilevata la sua potenza espressiva; ma che in sé stesso, nel suo disegno, nelle sue movenze, nei suoi accenti, avrebbe dovuto trarre gli elementi essenziali della sua bellezza» {Intermezzi critici, Firenze s. d. [ma 1921}, p. 57).

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dinamica interna e chiusa a piu vari e dialetticamente relazionati conte­ nuti, cosi come a non meno essenziali atteggiamenti di stile e di gusto, quali possono emergere da un esame obiettivo e attento del suo modus operandi. Queste semplificazioni che sin dalla prima metà dell’Ottocento fu­ rono alla base di un vero e proprio mito europeo di Bellini1 e che contri­ buirono a diffonderne dall’epoca romantica un’immagine elegiaca (rap­ portata a veri o presunti accadimenti biografici e atteggiamenti esisten­ ziali) persino stucchevole nella sua manierata oleografia, facendo dimen­ ticare la forza e la dialettica drammatica sottesa a tante sue pagine, non mancarono, se non di un vero fondamento critico, di una loro efficacia sul piano del gusto. Si pensi solo al commosso omaggio del giovane Wagner1 2; il quale, tuttavia, faceva riferimento alla «klare, fassliche Melodie», all’«einfach, edle und schòne Gesang» del «sanfter Sizilianer» per esaltarne la capa­ cità di sintetizzare fulmineamente e saldamente («mit einem festen Striche») un sentimento («die augenblickliche klare Erfassung einer ganzen Leidenschaft») in tutte le sue sottigliezze e sfumature («mit alien Nebengefuhlen und Nebenempfindungen»). Contrapposto allo «sconfinato disordine, alla confusione delle forme, della costruzione dei periodi e del­ le modulazioni» («die grenzenlose Unordnung, den Wirrwarr der Formen, des Périodenbaues und der Modulationen») nei quali si dibatte­ vano, travolti dall’ondata delle nuove problematiche agitate dalla Romantik i piu timidi e impacciati artisti tedeschi, la musica di Bellini as­ sumeva agli occhi di Wagner il valore di un provvidenziale ritorno a una resuscitata classicità; le sue architetture nitidamente stagliate, illuminate dalla serenante forza della forma, gli sembravano acquistare di fronte al vago, al confuso, all’incerto di progetti che non giungevano alla com­ piuta vita dell’espressione, un carattere esemplare, che gli richiamava alla mente illustri, anche se per la nostra coscienza storica abbastanza am­ bigui e sibillini, paralleli. («Alle die Leidenschaften, die sein Gesang so eigentumlich verklart, erhalten dadurch einen majestetischen Grund und Boden, auf dem nicht vague umherflatten, sondern sich zu einem grossen und klaren Gemàlde gestalten, das unwillkiirlich an Glucks und Spontinis Schópfungen erinnert»). Nella sua piu vulgata e appiedata versione il nucleo di concetti o di pseudoconcetti critici legati al nome di Bellini ha rivelato e tuttora viene 1 Sul problema della critica belliniana, si veda in particolare l. ronga, Note sulla critica belli­ niana, in Arte e gusto della musica. Dall1 Ars Nova a Debussy, Milano-Napoli 1956, pp. 244-37. 2 r. wagner, Bellini, ein Wort zu seiner Zeit (1837), in R. Wagners Ausgetvdhlte Scbriften, a cura di von J. Kapp, Leipzig s. a., vol. II, pp. 27 sgg.

Antonio Bàsoli (1774-1848), Grande pescaria, bozzetto scenico per un’opera comica. Bologna, Accademia di Belle Arti. 2. Alessandro Sanquirico (1777-1849), Tempio. Milano, Accademia di Brera. i.

3- Romolo Liverani (1809-72), Atrio, bozzetto a penna e acquerello. Faenza, Biblioteca comunale. 4. Luigi Asioli (1817-77), Carcere, bozzetto ad acquerello, forse per l’opera di Ferdinan­ do Paèr Agnese. Ferrara, Collezione privata.

j. Domenico Ferri (1795-1878), La Foresta per Norma, bozzetto ad acquerello. Bologna, Collezione privata. 6. Domenico Ferri, Scena per Lucia di Lammermoor (Parigi, Théàtre Italien, 1837), boz­ zetto ad acquerello seppia e nero. Ferrara, Collezione privata.

7- Luigi Bazzani (1836-1926), Tempio dei Druidi per Norma, bozzetto. Roma, Collezione privata. 8. Luigi Bazzani, Chiostro per La Favorita, bozzetto policromo. Roma, Collezione privata.

9- Francesco Cocchi (1788-1865), Cripta, bozzetto policromo. Roma, Accademia di San Luca, io, Giuseppe Migliati (1790-1858), Bozzetto a matita per I Lombardi alla prima crociata, circa 1844. Ferrara, Collezione privata.

ri. Girolamo Magnani (1815-89), Rovine, bozzetto. Parma, Collezione privata. 12. Anonimo del secolo xix, Litografia per una rappresentazione tedesca di Nabucco a Lipsia, nel 1845. Da «Leipziger illustrierte Zeitung», 1845.

13. Riccardo Fontana (1840-1915), Salone per Gli Ugonotti. Roma, Gabinetto delle Stampe. 14. Carlo Ferrano (1833-1907), Scena 11 per l’atto III di Don Carlos (primo allestimento al Tea­ tro alla Scala, 1868). Milano, Museo Teatrale del Teatro alla Scala (proprietà Ricordi).

ATTO PRIMO.

15. Francesco Zuccarelli (seconda metà del secolo xix), Scena 1 per Otello, incisione di A. Bonamore (Milano, Teatro alla Scala, 1887). Da «LTllustrazione Italiana», 1887. 16. [Giulio Ricordi (1840-1912)], Pianta della Disposizione scenica per la scena 1 di Otello, Milano 1887.

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rivelando la sua fondamentale debolezza e inadeguatezza, non si dice solo in rapporto a una generale definizione della sua esperienza estetica, ma come approccio e chiave d’interpretazione di singole opere e, per quel che qui piu particolarmente ci occupa, della stessa Sonnambula, un la­ voro meno semplice e univoco, peraltro, di quanto la sua trasparenza sublime potrebbe far supporre. Quelle astratte categorie critiche che si incontrano ad ogni passo nelle analisi di questa e di altre opere belliniane, risultano infatti schematizzazioni poco o nulla significanti ove non se ne chiariscano i reali termini e le precise connotazioni storiche e signi­ ficative. Il che potrà essere attuato anzitutto stabilendo, non solo in sede metodologica e non semplicemente a livello di analisi letteraria, il valore da attribuire al libretto nell’economia del piano drammaturgico belliniano. Se è impensabile la riproposta di ingenui psicologismi .di ascendenza tardoromantica, per cui la musica assumerebbe la funzione tutt’affatto subordinata e accessoria di un esteriore commento e illustrazione di per­ sonaggi e di situazioni già chiaramente definiti in sede letteraria, altret­ tanto inaccettabile appare la tendenza a spogliare di ogni significato il testo poetico concependolo come semplice e accessorio pretesto di un’in­ tuizione puramente musicale. Occorrerà insomma intendere, anche nel caso di Bellini, le relazioni dialettiche che intercorrono tra musica e testo, considerando la loro unio­ ne come insieme stratificato e complesso di significati, organizzati in un delicato equilibrio di interrelazioni, di tensioni, di condiscendenze com­ piacenti e di piu o meno rilevate resistenze tra i due sistemi di segni; molteplicità dinamica e attiva di situazioni dunque (aperte sino a un certo grado all’ulteriore intenzionalità del gesto interpretativo), ognuna delle quali mantiene una propria valenza specifica all’interno del singolo momento linguistico e dell’opera nel suo insieme (intesa come totalità onnicomprensiva del progetto drammatico). Il confronto tutt’altro che pacifico che si instaurava tra Bellini e i suoi librettisti (e in particolare con il principe dei suoi librettisti, Felice Romani) all’atto della stesura dei testi operistici a lui destinati (come ri­ sulta dalle testimonianze documentarie e come meglio risulterà allor1 Oltre ^'Epistolario belliniano e alla non numerosa bibliografia critica sul musicista, si ve­ dano soprattutto su questi problemi e. branca, Felice Romani e i più riputati maestri di musica del suo tempo, Torino-Firenze-Roma 1882; f. schlitzer, Mondo teatrale dell'Ottocento. Episodi, testi­ monianze, musiche e lettere inedite, Napoli 1954, pp. 15 sgg.; f. pastura, Bellini secondo la storia, Parma 1959; M. rinaldi, Felice Romani. Dal melodramma classico al melodramma romantico, Roma 1965; inoltre la fondamentale monografia di f. lippmann, Vincenzo Bellini und die italienische Opera Seria seiner Zeit. Studien iiber Libretto, Arienform und Melodik, Kòln-Wien 1969 («Ana­ lecta Musicologica», 6). Sul problema specifico delle fonti librettistiche, assai utili, di franca cella le Indagini sulle fonti francesi dei libretti di Vincenzo Bellini, estratto dai Contributi dell'istituto di filologia moderna. Serie francese, Milano 1968, vol. V, pp. 430-376. 12

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quando saranno disponibili edizioni critiche delle sue opere, con ampio corredo di schizzi, abbozzi e varianti) è ben lontano dall’esaurirsi una volta elaborata la versione ultima del testo poetico; poiché esso prosegue nella concreta strutturazione musicale della parola, nella complessa fe­ nomenologia del rapporto music a-testo. Per questo, tornando alla Sonnambula, lasciano perplessi le proposte di lettura del lavoro, avanzate da più critici, e in particolare da Guido Pannain, in una chiave tutt’affatto astratta ed allusiva, togliendo ogni peso e significato al libretto del Romani, si che il soggetto dell’opera ha potuto apparire al limite come «un ingenuo fatterello... .di un’inconsi­ stenza che rasenta la puerilità» \ e l’opera intera configurarsi addirittura come «una specie di Sinfonia pastorale, in cui parole, e gesti e figure con­ tano, come determinazione poetica, quanto in didascalie della Pastorale di Beethoven, “mehr Ausdruck der Empfindung als Malerei”»1 2. Questa disposizione critica cela il tradizionale senso di fastidiò e di diffidenza nei confronti del libretto — nei quali si sommano arcaiche pre­ venzioni di origine letteraria e meno remote rimozioni di indole ideo­ logica - e rischia di togliere all’opera il suo significato più profondo e specifico, bruciandola, per dir cosi, nello sfavillio di un fascio di melodie stupende, delibate per sé, fuori di un centro ideativo, di un punto di riferimento dal quale possano acquistare un senso globale. Infatti, se è incontestabile che le più belle pagine di Bellini «possono benissimo vivere di vita autonoma, e anche, entro certi limiti, indipen­ dentemente dal timbro cui sono affidate» e che «allo stesso modo in cui nessuno penserebbe più a ricostruire una storia psicologica di una sin­ fonia di Beethoven o di Schubert, cosi bisognerebbe rinunziare in gran parte al facile desiderio di trovare nei "libretti” di cui il Bellini si valse, un aiuto per interpretare meglio la musica che li riveste» e che, infine, «le migliori melodie belliniane possono fare a meno di riferimenti eco­ nomici contingenti a personaggi, a situazioni, a intrecci, o peggio alla convenzionale prosodia del Romani»3, rimane tuttavia incontrovertibile il carattere «drammatico» della musica belliniana. E il tipo e le caratte­ ristiche di questa drammaticità bisognerà dunque indagare e approfon­ dire, sia pure prescindendo dall’uso di grezze categorie psicologiche (la mitica caratterizzazione del personaggio di ascendenza naturalistico-positivista). 1 2 1935, 2 1965,

g. pannain, Vincenzo Bellini, nell’enciclopedia La Musica, Torino a. della corte - G. pannain, Vincenzo Bellini. Il carattere morale.

1966, vol. I, p. 462. I caratteri artistici, Torino

P. 104. r. monterosso, Vincenzo Bellini, in Dizionario biografico degli Italiani, voi. VII, Roma PP. 737-38.

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Non si scopre nulla affermando che il testo e la musica delle opere di Bellini (contrariamente, per esempio, alla prassi di Rossini che man­ tenne verso i propri libretti un atteggiamento di relativa indifferenza, assumendoli in una prospettiva mediata, riflessa, oggettivata, e affidando alla musica, intesa nella sua più astratta geometricità una netta premi­ nenza all’interno della propria visione drammaturgica), recano il segno di un preciso e stretto adeguamento alla dinamica espressiva della pa­ rola, sia pure secondo una concezione espressiva nuova e originale ri­ spetto all’appiedata prosaicità dei libretti (non privi comunque di un loro decoro letterario); sia nel senso totale di Stimmung poetica della scena, sia nei più analitici rapporti tra nuclei logico-espressivi e struttura della frase musicale. Né fa certo eccezione, in questo senso, La Son­ nambula. Non esistono, del resto, elementi per ipotizzare che Bellini non abbia affrontato con estrema serietà la sostanza del libretto fornitogli dal Ro­ mani; la sua interpretazione musicale è una profonda trasfigurazione del­ la vicenda, che non prescinde, tuttavia, né vuol prescindere, da una pre­ cisa linea drammatica implicita al libretto o quanto meno da questo sug­ gerita. In tal senso è da sottoscrivere il parere di Friedrich Lippmann che «Sonnambula... ist trotz aller Weicheit, ein Drama. Bellini hat das Drama auskomponiert und es weiter in die Arien eindringen lassen, als es irgendein anderer italienischer Musiker jener Tage getan hatte» ’.

Il libretto del Romani abbonda - come è stato più volte osservato di oscurità e di contraddizioni; ma molti dei suoi aspetti problematici si chiariscono seguendo la trasformazione subita dalle fonti francesi prese a modello per la stesura alquanto affrettata e affannosa - ma non più di quanto fosse costume — dell’opera che Bellini volle sostituire all’ultimo momento al già avviato Lrnani, improvvisamente rifiutato per ragioni non ancora del tutto chiarite: rispettivamente il ballet-pantomime di E. Scribe e P. Ammer La Somnambule ou L’arrivée d’un nouveau seigneur, rappresentato a Parigi nel 1827, e la comédie vaudeville La sonnam­ bule, dello stesso Scribe e di G. Delavigne, rappresentata a Parigi nel 1829. Franca Cella ha osservato con molta finezza che nel passaggio dal bal­ letto al melodramma «la vicenda subisce un processo idealizzante e d’ap­ profondimento sentimentale, accresciuto anche dal fatto che Romani e Bellini dimenticano l’assolutizzazione simbolica cui l’espressione per ge­ sti costringe, e assumono quei dati, deformati per eccesso, come verità... 1 Lippmann, Vincenzo Bellini cit., p. 118.

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Il gesto, carico d'espressione, entra a far parte della tradizione gestuale già propria del melodramma, si lega ad essa nonostante la diversa prove­ nienza e fisionomia» \ Occorrerà aggiungere che la mediazione tra gesto pantomimico e gesto melodrammatico è offerta da un linguaggio che l’a­ derenza assoluta ai moduli e alle convenzioni della tradizione melica e operistica italiana priva di ogni connotazione realistica. La sua consisten­ za, ancorché il registro adottato sia, per quanto attiene alle scelte lingui­ stiche, medio e non sublime, è esclusivamente, iperbolicamente, direm­ mo, letteraria: In Elvezia non v’ha rosa Fresca e cara al par d’Amina; È una stella mattutina, Tutta luce, tutto amor. Ma pudica, ma ritrosa, Quanto è vaga, quanto è bella: È innocente tortorella, È l’emblema del candor.

O ancora: Te felice e avventurato Piu d’un prence e d’un sovrano, Bel garzon, che la sua mano Sei pur giunto a meritar! Tal tesoro amor t’ha dato Di bellezza e di virtude, Che quant’oro il mondo chiude, Che niun re potria comprar.

Indicativa in questo senso è anche la scelta dei nomi dei protagonisti, che abbandonano la connotazione cittadina dell’originale francese senza peraltro assumerne una campagnola. Si inseriscono, al contrario, nel so­ pramondo dell’idillio: Amina, Elvino, Alessio, Lisa... Anche le indicazioni sceniche, che nel balletto facevano riferimento malizioso a luoghi, oggetti, situazioni proprie di una specifica tradizione melodrammatica, quella dell’opéra-comique francese grondante di allu­ sioni, di ammiccamenti, di sottintesi («un carrefour de village; à droite l’entrée de la ferme d’Edmond; à gauche une auberge avec une enseigne: Veuve Gertrude, aux Needs galants. Au fond... un commencement de maison sur laquelle on lit: La Mère Michaud, meùnière...») suggerisco­ no nella loro genericità più che «gli spazi fiabeschi»12 che vi scorge la Cel­ la, lo stereotipo fondale della pastorale. 1 cella, Indagini cit., p. 501. 2 Ibid., p. ^02.

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Dalla pastorale o dall’idillio arcadico è mediata anche la cordiale e sin petulante presenza corale degli abitanti del villaggio, con gli evviva, le scappellate, gli entusiasmi e gli stupori di prammatica, solidali al riso e alle lacrime dei protagonisti. Lontana dalla leggerezza del «tutti» ballettistico donde è mediata, essa appare irrigidita in un tono manierato dal quale a fatica emergono i tocchi di ironia che il Romani vi infuse o tentò di infondervi. Il problema che si presentò al Romani e che egli riuscì solo in parte a risolvere (e sarà interessante cercare di capire le ragioni delle sue dif­ ficoltà, dal momento che siamo di fronte a un letterato che conosceva assai bene il proprio mestiere), era quello di mediare due tradizioni tea­ trali e letterarie, quella francese e quella italiana, a loro volta speculari di realtà socio-culturali profondamente diverse. Romani volle o forse meglio, fu costretto a trasporre il gioco brillante e disincantato del bal­ letto e i piccanti accenni di costume della comédie-vaudeville dello Scri­ be (non immemore anche in questo ambito minore delle sue ambizioni di tipizzazione quasi giornalistica e di satira delle convenzioni della mo­ da) in strutture letterarie (linguistiche, formali) renitenti per caratteri­ stiche e tradizioni radicate ad accogliere la sia pur minima carica reali­ stica; donde l’evidente impaccio di forzare gli strumenti a disposizione - lo schema e i modi perenti della pastorale, quelli quasi altrettanto inat­ tuali della commedia lagrimosa e quelli di ancora incerta caratterizza­ zione della commedia borghese di costume -, giocandoli su più piani nel tnoule di un’opera semiseria (di andamento comico, rettoricamente par­ lando, ma di tono assai sostenuto). Ne venne una commediola sentimentale, in linea con i tardi prodotti della tradizione settecentesca, nella quale il tono cede bene spesso a una rarefatta estenuazione lirica, svolta in uno stile aperto a inattuali recu­ peri arcadici, a sospirose dolcezze metastasiane, subito avvertite e regi­ strate dalla critica contemporanea. Strofette quali: Son geloso del zefiro errante Che ti scherza col crine, col velo, Fin del sol che ti mira dal cielo, fin del rivo che specchio ti fa...

O passi di tenero recitativo, come questo: O quante volte sedemmo insieme Di questi faggi all’ombra Al mormorar del rio! L’aura che spira

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Dei giuramenti nostri anco risuona... Gli obliò il crudele, ei m'abbandona!

potrebbero essere firmati da qualsiasi verseggiatore settecentesco. Altrove, con quella disponibilità sin candida al sincretismo stilistico che gli è tipica, il Romani può recuperare, come nella scena ottava del primo atto una dimensione di schietta commedia erotica, rifacendosi esplicitamente a modi del Da Ponte. O come nella scena del fantasma che è un’innovazione rispetto agli immediati modelli francesi, ma non, in assoluto, un’invenzione ', può strizzare l’occhio ai romantici lombardi con una romanza di sapore quasi oltremontano: A fosco cielo, a notte bruna, Al fioco raggio d’incerta luna, Al cupo suono di tuon lontano Dal colle al piano un’ombra appar. In bianco avvolta lenzuol cadente, Col crin disciolto, con occhio ardente, Qual densa nebbia dal vento mossa Avanza, ingrossa, immensa appar.

Dovunque inoltra a passo lento Silenzio regna che fa spavento: Non spira fiato, non move stelo; Quasi per gelo il rio si sta. I cani stessi accovacciati, Abbassan gli occhi, non han latrati. Sol tratto tratto, da valle fonda La strige immonda urlando va.

Questa pluralità di riferimenti a tradizioni diverse e non omogenee, comporta non solo un senso di scarsa fusione stilistica, ma mette in for­ se, di fatto, la coerenza del piano drammatico. Così, per esempio, il coro dei villici non ha la sfumata e astratta gene­ ricità di contorni caratteristica del coro della pastorale, né l’idealizzata, primitiva fervida ingenuità propria del modello segreto della Sonnam­ bula, La Nina pazza per amore del Paisiello12 (che faceva peraltro riferi­ mento esplicito a un assetto sociale affatto immaginario e fittizio, quello 1 La probabile fonte di ispirazione del Romani fu per questo aspetto la Dame bianche del Boieldieu, rappresentata a Parigi nel 182.5, forse a lui nota attraverso la rielaborazione curata da G. Rossi per Stefano Pavesi, La donna bianca d’Avenello, rappresentata a Milano nel Teatro della Canobbiana il 13 novembre 1830. Il tema del sonnambulismo era del resto diffusissimo nella tradizione melodrammatica e ballettistica europea di primo Ottocento (cfr. L. orrey, Bellini, London 1969, p. 40). Lo stesso Romani aveva scritto per Michele Carafa un «melodramma semiserio» di soggetto storico intitolato Il sonnambulo, rappresentato al Teatro alla Scala di Milano nel 1824, 1 Cfr. i precisi riferimenti del Bellini all’opera paisielliana in Bellini. Memorie e lettere, a cura di F. Fiorimo, Firenze 1882, pp. 444 e 473.

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della colonia illuministico-borbonica di San Leucio) ', senza peraltro at­ tingere una qualsiasi concretezza storica o soltanto di costume: è l’Ar­ cadia, proposta al pubblico romantico con un sorriso di benevola suffi­ cienza e una punta di parodia, attraverso l’occhio di un letterato che a quei fantasmi poetici guardava ancora con un senso di malcelato rim­ pianto. Presentare questo mondo inattuale attraverso gli occhi di un per­ sonaggio pure inattuale, il roussoviano Conte Rodolfo, in un gioco mali­ zioso di ammiccamenti a forme teatrali precisamente datate, nello stile di un prezioso gioco di riferimenti, di un raffinato divertimento dram­ matico dovette essere l’ambiziosa intenzione del Romani. Il fatto che il progetto andasse a poco a poco arenandosi, nella concreta realizzazione, sulle secche di goffaggini, oscurità e contraddizioni che ne modificarono o comunque ne alterarono il significato e le intenzioni originarie non de­ ve indurci a non tener conto delle pur chiare idee programmatiche del librettista. Chi come il Baldacci ha preso per buono il ritratto che il Romani offre degli abitanti del villaggio non sospettando negli interventi corali la mi­ nima riserva ironica, ha potuto leggere La Sonnambula come una delle espressioni piu significative della «sensibilità politica e sociale inaugu­ rata e promossa dal Congresso di Vienna», rilevare che tutta l’opera «spira desiderio d’autorità» e addirittura leggere il coretto d’apertura del secondo atto («Qui la selva è più folta ed ombrosa...») come «docu­ mento insigne dell’autoritarismo sanfedista»2. In questa prospettiva la figura del Conte, sulla quale peraltro il Baldacci fornisce alcune precisa­ zioni davvero sottili, appare quella di un «illuminato aristocrate del Set­ tecento» e di un «libertino emendato» che sembra ricoprire per certi aspetti il ruolo autoritario che nella drammaturgia verdiana spetterà alla figura del padre. «Non è un padre», appunto, «ma un re». Donde la con­ clusione che l’opera si colloca su un piano strettamente ideologico «ma altresì intimamente realistico nei termini di quella ideologia»3. Le cose non stanno, a nostro parere, esattamente in questi termini. Innanzitutto il naturale ruolo di padre è stato precluso al Conte Rodolfo da una decisione drastica di Bellini che rifiutò la situazione stucchevole del suo finale riconoscimento come genitore di Amina. Ciononpertanto egli continua, seppure in forma monca e contraddittoria, almeno nella prima parte della vicenda, a vestire i panni dell’incognito padre della fanciulla. 1 Si veda l’illuminante prefazione di Pompeo Carafa duca di Noia al libretto originale della Nina approntato per la rappresentazione, nella versione di «commedia in un atto in prosa ed in verso per musica » allestita nel Belvedere della Reggia di Caserta l’estate del 1789. 2 l. BALDACCI, Libretti d’opera e altri saggi, Firenze 1974, PPsgg. 3 Ibid., p. 167.

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Si rileggano le sue parole, al primo incontro con la promessa sposa (I vi), accorto preludio per una successiva, sensazionale scena di agni­ zione: RODOLFO

Ma fra voi, se non m’inganno, Oggi ha luogo alcuna festa. TUTTI

Fauste nozze qui si fanno. Rodolfo (accennando a Lisa) E la sposa? è quella? tutti (additando Amina) È questa. RODOLFO

È gentil, leggiadra molto. Ch’io ti miri. Oh, il vago volto! Tu non sai con quei begli occhi Come dolce il cor mi tocchi, Qual.richiami ai pensier miei Adorabile beltà. Era dessa, qual tu sei, Sul mattino dell’età.

Scena di agnizione che si verificava puntualmente, secondo quanto riferisce la Brancal, allorché Amina rivelava infine la sua infelice condi­ zione di orfana e di figlia illegittima: AMINA

Nella fresca età ridente, Che inesperto e giovin core, Troppo incauto e troppo ardente S’abbandona al primo amore,

La mia madre sciagurata Fu sedotta... e abbandonata, E mori qual fior reciso Di vergogna e di dolor. Chiude un sasso il triste arcano, È sepolto colla madre. Da tre lustri io chiedo invano Alla terra e al ciel un padre... Sola io peno, e ai gridi miei Non risponde umano cor. RODOLFO

Ah! dal cielo udita sei, Ah! ti è reso il genitor. Ibid., pp. 162-63.

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Ei bandito dai parenti Più non vide il suol natio, Eri tu ne’ suoi tormenti La sua speme, il suo desio...

Il finale colpo di scena sarà risparmiato dunque agli spettatoril; ma il Conte continuerà a comportarsi in maniera contraddittoria, da galante vagheggino (com’è - almeno nel teatro settecentesco - nella migliore tra­ dizione dei nobili — non certo dei re —, ma non senza una tal quale gof­ faggine che giungerà ad esiti francamente comici nella prima scena del sonnambulismo)12, da paterno e un po’ spazientito protettore dei suoi zotici sottoposti e da roussoviano promeneur solitair. Il sale della lieve vicenda sta (o dovrebbe stare), all’interno del gioco di piani teatrali di cui s’è detto, nella divertita contrapposizione e nello scontro lepido tra il modo d’essere e di comportarsi degli «abitanti di città» e l’ingenuità candida e un po’ greve dei villani. Questi ultimi sono portatori di una concezione arcaica, addirittura sacrale dell’assetto sociale, esibita dal Romani, si diceva, in tempi «di rapina e di barricate» e in una tradizione teatrale nella quale la lezione di Beaumarchais, anche nella Vandea italiana, non era passata senza la­ sciar traccia, con ironia maliziosa. L’idea di giocare il senso di reveren­ ziale timore dei sottoposti verso il Conte prima in una piccante scena di seduzione (I vili) poi nel confronto con il disarmato Elvino (II vm) che per ben due volte sopporta l’onta, sia pur supposta, del tradimento, è da ascrivere al desiderio del Romani di aggiungere alla vicenda ten­ dente anzi che no al lagrimoso, il pepe di un sia pur bonario e casereccio erotismo. Non si può non sorridere, in questo contesto, a certe uscite davvero enormi del coro dei villici, come l’annunzio ad Elvino dell’esito del col­ loquio con il Conte, a proposito del suo supposto convegno galante, im­ barazzante e pruriginoso, con la verginale Amina: 1 L’accenno che nella versione finale sostituì questa confessione (I vi) circonda la figura del Conte di un’aura romantica di mistero: «elvino: Contezza dèi paese | Avete voi, signor? | Rodol­ Vi fui da giovinetto I Col signor del castello. Teresa: Oh! il buon signore! I È morto or son quattr’anni! Rodolfo: E ne ho dolore I Egli mi amò qual figlio... Teresa: Ed un figlio egli avea: ma dal castello I Sparve il giovane un di, né più novella I N’ebbe l’afflitto padre. Rodolfo: A’ suoi congiunti I Nuova io ne reco, e certa. Ei vive, lisa: E quando I Alla terra natia farà ritorno? coro: Ciascun lo brama. Rodolfo: Lo vederete un giorno». 2 Si veda lo spassoso crescendo, fors’anche esplicitamente ironico del Conte di fronte all’indi­ fesa Amina: «Dorme... È sonnambula... Degg’io destarla?... Destisi... Ah! non si desti... Alcuno a turbarmi non venga in tal momento... O ciel!... Che tento?... No, non sarai tradita, | Alma gentil da me... Giglio innocente e puro, | conserva il tuo candor!... Fuggasi... Ah, se più resto, io sento | la mia virtù mancar». fo:

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Francesco Degrada Buone nuove! Dice il Conte ch’ella è onesta, Ch’è innocente, e a noi già move.

E il buon Elvino che si mostra ragionevolmente perplesso («Signor Conte, agli occhi miei | negar fede non poss’io...») viene redarguito seve­ ramente: Sciagurato! e tu potresti Dubitar della mia fede?

D’altra parte, anche la superiorità intellettuale di cui il Conte fa sfog­ gio e la sua professorale didascalicità hanno un che di grottesco e di se­ squipedale nel contesto in cui si esplicano: V’han certuni che dormendo Vanno intorno come desti, Favellando, rispondendo Come vengono richiesti, E chiamati son sonnambuli Dall’andare e dal dormir.

I suoi lumi da quattro soldi («... verrà stagione | Che da siffatte larve | fia purgato il villaggio...») uniti alla sua tronfia alterigia comitale («Un mio par non può mentir...») sono la caricatura palese e patente, pur nella discrezione degli accenni, dell’assolutismo illuminato. Come si vede, il tessuto librettistico - con tutte le sue incertezze non era privo di una serie di motivi adatti ad alimentare un contrappunto brillante e variato, in chiave giocosa, intorno al Kern delle tenere effu­ sioni e dei melodrammatici contrasti di Amina e di Elvino. Tanto più interessante è la soluzione offèrta da Bellini, che affrontò la vicenda del libretto in chiave di estrema interiorizzazione espressiva e di profonda, assoluta serietà e concentrazione sentimentale.

Il tono espressivo della musica della Sonnambula è da definirsi pro­ priamente religioso: religione del sentimento, degli affetti, della frater­ na e partecipe comunità degli spiriti con il mondo dell’uomo e della na­ tura. Religione dei valori contemplati con lo stesso rimpianto e la stessa struggente malinconia che è la vita e la sostanza della più alta poesia leo­ pardiana. La scena dell’azione è un sognato paesaggio dell’anima: e i per­ sonaggi divengono momenti e aspetti complementari di un malinconico vagheggiamento di un mondo perduto. Si comprende, pertanto, come essi possano coinvolgere interamente e senza riserve, la personalità arti­ stica e morale di Bellini, che nel loro esile dramma può rivivere una sua intima e sofferta vicenda spirituale.

Prolegomeni a una lettura della Sonnambula

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La poesia di Sonnambula, infatti, vive tutta nel nostalgico anelito a una realtà di ingenua e incontaminata purezza, a un mondo di forme e di valori contemplati con la struggente consapevolezza che essi possono rivivere solo nella magica illusione dell’arte; favola o meglio, romantica ^ràumerei che proietta al di là delle dilanianti contraddizioni del reale il sogno di un mitico eliso, esperito e reso nella dimensione di una bru­ ciante quanto vana tensione verso qualcosa di definitivamente perduto, di irrecuperabile. È chiaro, allora, perché la favola sembra rimandare continuamente ad altro da sé, perché i suoi personaggi e le sue situazioni possono assur­ gere a un valore emblematico, divenire indici di una realtà piu complessa e profonda, che di tanto ne trascende l’empirica limitatezza. Cosi la sto­ ria amorosa dei due protagonisti Elvino ed Amina, perde il carattere di delicato e sin manierato idillio pastorale per assumere quello di un in­ tenso e purissimo legame di anime, nel quale rivivono valori ancestrali tipici di una tradizione squisitamente meridionale e cattolica: la poesia del matrimonio, della famiglia, la tenera pietà per gli estinti la cui muta presenza aleggia benedicente sui viventi, colloca le due figure in un’at­ mosfera che non si esiterebbe a definire religiosa, non immemore di ac­ centi foscoliani. Laddove l’elemento di contorno, il coro, la stessa pro­ spettiva paesistica delineano in forma delicatamente allusiva, una mitica concordanza tra uomo e società, tra mondo umano e mondo naturale, nella quale trovano pace e risoluzione i brucianti conflitti dell’anima ro­ mantica. Non sarà inutile, al proposito, rimarcare cori le parole dello stes­ so Bellini1 l’ardente temperie emozionale - priva di qualsiasi riserva o schermo critico - che caratterizzava l’ascolto della Sonnambula da parte del pubblico contemporaneo: Mio caro Fiorimo, mi affretto a darti la novella che iersera la Sonnambula ha fatto un fanati­ smo al Teatro Italiano. Rubini e la Grisi hanno cantato con tale passione e slan­ cio che non vi fu persona in tutto l’immenso uditorio che non sparse lagrime, o non restò commossa. Il finale del primo atto particolarmente fece un effetto ma­ gico, largo e stretta. Alla metà di questa il pubblico non si poteva piu frenare; pareva che i nervi di tutti fossero stati tocchi da elettricismo. Figurati alla fine dell’atto che strepiti! Il secondo atto non fece meno piacere, né mancò di com­ muovere tutti alle lagrime. Io mi trovava nel palco della contessa Manhes, ove erano cinque signore; non ti parlo dell’aria di Rubini, che si volle sino replicato il largo, ma nella scena di lei tutte cinque piangevano come ragazze. Francesi ed Italiani finalmente iersera hanno provato delle sensazioni eguali a quelle che si sono provate sinora in Italia nell’assistere alle mie musiche. 1 Bellini. Memorie e lettere cit., pp. 451-^2.

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Francesco Degrada

È stata autorevolmente sottolineata quale dote caratteristica di Bel­ lini «l’intuito infallibile dell’ambiente», per cui «egli sente e coglie con invidiabile lucidità l’atmosfera richiesta dal luogo e dal tempo dell’azio­ ne, dalla qualità dei personaggi, dalla stessa scenografia, che per lui vive nel complesso del dramma come un valore spirituale» l. È vero d’altron­ de che «i personaggi belliniani vivono non in un’atmosfera fittizia di pal­ coscenico, fatta di luci di ribalta, coristi di melodramma e scenari di car­ tapesta, bensì immersi nella vita stessa, in una collettività umana che ha parvenze ben definite e con la quale essi intrecciano una rete impercetti­ bile di rapporti e di reazioni reciproche»12. Se analizziamo le componenti stilistiche che entrano in gioco nella delineazione dell’ambiente specia­ lissimo e dell’atmosfera particolarissima della Sonnambula, dobbiamo ri­ levare che il ricorso al «brillante» e al «caratteristico» legato alle piu fa­ cili formule e ai piu scontati stilemi di una ben definita tradizione melo­ drammatica (quella dell’opera italiana di mezzo carattere) è relegato nel­ lo sfondo o preferibilmente utilizzato in quelle situazioni in qualche mo­ do obbligate e convenzionali (come l’introduzione e il Finale, per esem­ pio) avvertite sia dal musicista sia, del resto, dal suo pubblico, come qual­ cosa di estraneo alla sostanza più intima del lavoro. Tra queste pagine (non necessariamente più modeste sotto il profilo estetico o inessenziali all’equilibrio espressivo dell’insieme, e niente af­ fatto da emarginare o da isolare mentalmente secondo la metodologia dell’accertamento meccanico della poesia e della non poesia) sono da annoverare senz’altro, insieme con la tarantella iniziale spensieratamente bandistica, la «canzone» che il coro «intuona» ad onore di Amina («In Elvezia non v’ha rosa»), o ancora certe cadenze del canto dei villici che si recano a porgere omaggio al Conte3 (cfr. es. i ). O infine quella sorta di baldanzosa fanfaretta di Amina, introduttiva del «Tutti» finale («Ah non giunge uman pensiero»), non a caso, una melodia in senso proprio archetipica ed esemplare nei confronti della successiva tradizione melodrammatica donizettiana e verdiana. Concepi­ ta da Bellini come «qualche cosa che innalz^yyé* la Pasta e la solle^^yie ai sette cieli»4, fu realizzata dunque, come un brillante exploit belcantistico confezionato tenendo d’occhio esplicitamente alcune precise regole del 1 m. mila, Bellini, cent’anni dopo, in Cent’anni di musica moderna, Milano 1944, p. 41. 2 Gli esempi musicali sono citati dallo spartito per canto e pianoforte edito da Ricordi, Milano 1974 (numero di lastra 41686), ma sono stati riveduti e corretti sulla base della partitura autografa conservata nell’archivio dello stesso editore: al quale mi è grato porgere il più vivo ringraziamento per aver favorito il mio lavoro. 3 Ibid., pp. 41-42. 4 branca, Felice Romani cit., p. 164.

Prolegoineni a una lettura della Sonnambula Sottovoce e brillante

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piu scoperto gioco teatrale; che Bellini non s’accontentasse anche in que­ sto caso di un testo purchessia, ma tempestasse di richieste sino alla sera della prova generale dell’opera il povero Romani (che già gli aveva forni­ to una decina di diverse redazioni dell’aria) tanto da provocarne un’esa­

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sperata reazione, è significativo dell’importanza annessa dal musicista al tessuto verbale dei suoi lavoril. Ma questo filone di brillante verve teatrale, sempre tenuta però su un registro di estrema raffinatezza formale, costituisce non piu di una ve­ natura, sia pure a momenti rilevata e vistosa di un marmo che ha la rac­ colta perfezione ma anche il palpitante pulsare di vita di una scultura gre­ ca. Qui, nella commossa e - si diceva - quasi religiosa idealizzazione di tono squisitamente romantico di un mondo insieme popolare e fanciul­ lesco nel suo disarmato candore attuata a diversi livelli significativi, at­ traverso diversificate soluzioni linguistiche miracolosamente convergenti alla creazione di una singolare coerenza di tono e d’atmosfera, è da indi­ viduare il cuore piu segreto della Sonnambula. Si coglierà questo tono, anzitutto, in certi momenti del discorso co­ rale, stillante nell’eufonia soave delle armonie, volentieri cullate su lun­ ghi pedali o mosse su relazioni tonali volutamente elementari, morbide e sin languide dolcezze che si vorrebbero definire addirittura bussottiane:

Dove le terze argentee dei registri femminili (secondo un gesto ricor­ rente in tutta l’opera), richiamano con tenerezza struggente certi luoghi di un melodizzare corale italiano o forse meglio tipicamente padano, del 1 Su questo punto, si vedano in special modo branca, 'Felice Romani cit., e teatrale cit.

schlitzer,

Mondo

Prolegomeni a una lettura della Sonnambula

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quale chi scrive ha potuto cogliere negli anni d’infanzia, la risonanza estrema: tenerezza che l’eco dei corni in sesta riecheggia nel congedo commosso. Si osservi, a riprova, il coro d’introduzione al secondo atto: è possi­ bile rilevarvi, nella stesura librettistica, un’intonazione ironico-affettuo­ sa, con la divertita caratterizzazione dei villici, impacciati e goffi nell’esternare la pietosa sollecitudine circa le sorti della «meschina» che ha messo inconsapevolmente a repentaglio il proprio onore. Bellini ne ha fatto un delizioso pastello romantico, nel quale si indovina anche nella pronunciata stilizzazione del segno, l’idealizzazione di canti giuntigli da favolose lontananze, tra il leggero vaporare di brume azzurrine, nei suoi soggiorni vissuti in abbandono dei sensi e di ardente esaltazione dei sen­ timenti, nel paesaggio incantato del lago di Como. Proprio per questo, non deve essere lasciato cadere totalmente, a patto di non interpretarlo in senso semplicistico e banale, il suggerimento della Branca1 circa le sug­ gestioni che Bellini potè ricavare dall’ambiente nel quale prese forma la musica della Sonnambula-, la villa Passalacqua a Moltrasio, ove il musi­ cista era ospite dei Turina. Alla sera il Bellini, quando il sole co’ suoi raggi infocati indorava ancora la cima dei circostanti monti, si compiaceva di adagiarsi in una navicella e di vo­ gare sulle quiete onde del lago, lasciandovisi cullare mollemente in un co’ suoi pensieri. Rapito dall’incanto di quelle rive, di quelle valli, di quei monti, ove una ricca cultura ne feconda i declivi [jzc] quel clima temperato, quel cielo splen­ didissimo, quella natura tutta vaghezza e sorriso, ove l’uomo respira liberamen­ te e dimentica le contrarietà della vita, immerso in un’estasi inenarrabile, il gio­ vane entusiasta sentiva la sua anima trasportarsi oltre le sfere celesti verso la sorgente eterna di ogni bellezza, e porvisi. Al sabato sera era per lui uno spasso seguire le contadine operaie quando raccolte in un battello ritornavano alle loro case dalle filande cantando or tenere or gaie canzoni, non meno vinto dalle at­ trattive di quelle cantilene, che dal desiderio di studiarvi sopra. Già il Maestro aveva osservato gl’innocenti costumi e le sincere affezioni di quei villici; ed i luoghi incantevoli, spiranti tutti poesia e armonia destavano nella mente sua esaltata dei pensieri musicali soavissimi, dei veri idilli, che andava scrivendo nel portafogli.

In questi sfondi paesistici miracolosamente recuperati per via di pura suggestione fonica, non si avvertirà nulla della rusticità furbesca o del­ l’arguzia sapida del donizettiano Elisir d'amore, anche se potranno es­ sere non invocati invano i nessi di quel «discorso lombardo» sul quale ha scritto con tanta consentaneità di ragioni umane Gianandrea Gavaz1 branca, Felice Romani cit., pp. 161-62.

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zeni \ beninteso, le mitiche terre dei gelsi e delle filande si indovineranno attraverso la stilizzazione estrema del segno, l’idealizzazione astrattizzante - anche se di impronta anticlassicistica, almeno nella musica - iso­ late affatto dalla concretezza realistica e dall’impegno morale insepara­ bile, mettiamo, dalle poetiche dei romantici lombardi. Ha scritto con la consueta acutezza Giulio Gonfalonieri1 2 che nella Sonnambula le pecu­ liarità del libretto trassero Bellini «a concretare un paesaggio sonoro compiuto in ogni sua parte, à inventare la musica di un ideale sito agre­ ste ed a rompere quei ritegni che avevano trattenuto, li ai confini dello stesso sito, i vecchi Piccinni e Paisiello e Cimarosa. Senza dirette allu­ sioni, ma per arcano contatto con i segreti dello spirito, egli fa si che la campagna della Sonnambula, il villaggio di Amina, siano e non possano essere se non campagne, se non villaggi italiani. Forse di un’italianità che nessuno ha mai incontrato viaggiando, desto, per la penisola; ma che molti si sono figurata, chiudendo gli occhi dopo aver osservato i paesag­ gi; rifugiandosi nel silenzio dopo aver udito le parole e le voci»; o anche, potremmo aggiungere, rimemorando le immagini della più illustre tra­ dizione letteraria e poetica nazionale. Si noterà come il paesaggio sugge­ rito per via allusiva, più che non esibito facendo ricorso alla fisicità di scene e fondali (che dovrebbero essere tenute nelle odierne riproposte dell’opera su un registro di discrezione estrema) è sempre un paesaggio segnato da una presenza umana. Non le solitudini palpitanti di un miste­ rioso, inquietante pullulare di vita, mettiamo, di un Freischutz ma la ras­ sicurante dolcezza di una natura che l’umano intervento ha domato e plasmato. Sono sostanzialmente ancora i pascoli e i campi cantati da Vir­ gilio, nel cui abbraccio cercava in quegli stessi anni conforto la «maladive sensibilité» di un eroe di Berlioz {Symphonic Phantastique, 3). Qui la campagna ha tuttavia la luminosità incantata degli sfondi dei pittori ita­ liani del Rinascimento: la suggestione sonora non è affidata come nel ci­ tato luogo berlioziano alla voce querula delle ance, ma alla patriarcale, agreste poesia del corno, forse secondo non dimenticate suggestioni del Teli rossiniano3: 1 g. gavazzeni, Il paesaggio dell'Elisir d'amore, in No// eseguire Beethoven e altri saggi, Mi­ lano 1974, pp. 162-64. 2 G. gonfalonieri, Storia della Musica, Milano 1958, vol. II, p. 205. 3 II corno costituisce una sorta di sigla timbrica della Sonnambula-, si pensi solo al rilievo che esso assume nell’introduzione al cantabile di Elvino (II in) «Tutto è sciolto». Ma in questa scena di tramonto non è improbabile anche un riferimento alla Nina del Paisiello (scena ix, ed. cit., p. 35): «NiNA: Ah! mia cara. Il pastore che suona, susanna: È lui. Siam sulla sera, e i villani si rac­ colgono verso casa. Si sente suonare una zampogna, ed il pastore comparisce seguito da’ villani e villanelle, che per le strade delle collinette si ritirano al villaggio loro». Un vero calco stilistico di matrici picciniane e paisielliane è rilevabile inoltre all’inizio della scena vm dell’atto II, nella frase di Teresa: «Piano amici, non gridate, | dorme alfin la stanca Anima...» (Spartito, ed. cit., pagine 172-73).

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E arriviamo al momento della massima tensione, al vero Hdhepunkt drammatico dell’opera (ogni melodramma ne ha uno proprio, non im­ porta quale ne sia la temperatura, essendo questa misura, come tutte le misure, relativa). Nella Sonnambula questo momento arriva nella scena ultima, quando Amina, in stato di sonnambulismo, rischia di perdere la vita tra le pale del mulino, e infine, scampato il pericolo, il coro esclama sommessamente la propria gioia: ed ecco si ode il risuonare dolcissimo (ed è un vero spunto — e non il solo — di fascinazione timbrica) di uno scampanio ovattato di bronzi benedicenti:

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Non si sottolineerà mai abbastanza il senso favoloso e arcano di que­ ste evocazioni, attuate con mezzi di estrema varietà, ferma restando la mirabile unità di tono che il quadro, nella sua interezza, possiede. Si osservi per esempio nella scena quinta dell’atto primo il duetto Amina-Elvino: «Ah, vorrei trovar parole...» ’: Amina

[Allegretto]

Basterà qui un ritmo rilevato, impreziosito dal calore della tonalità e dal sapore pungente dell’intervallo di terza diminuita (Mi bequadro / Sol bemolle) in corrispondenza dell’impiego (o meglio diremmo ormai: della citazione) dell’accordo di sesta napoletana (su un giro armonico ca­ ratteristicamente indugiante sulla dominante, abbandonata con una so­ spirante cadenza d’inganno e di nuovo subito riproposta, carezzata, si direbbe, con un accordo di settima sul quarto grado alterato) - per far emergere una dimensione insieme arcaica e «ingenua», anche se d’una «ingenuità» costruita e a suo modo letteratissima: come può confer­ mare e contrario, e paradossalmente, l’esplicita banalità del successivo sviluppo melodico nella tonalità del relativo maggiore (secondo un uso delle alternanze modali tipico di Bellini) anch’esso rispondente a una sua caratterizzante funzione espressiva e a suo modo propriamente dram­ matica1 2 (cfr. es. 6). Talora questa «connotazione popolare» è suggerita con mezzi ancor più delicatamente allusivi, in contesti affatto estranei e apparentemente contraddittori; in una delle melodie più alte della Sonnambula, una di quelle melodie «lunghe, lunghe, lunghe» per dirla con Verdi, nelle quali 1 Gli esempi musicali 5, 6, 7, 8 vengono forniti nella tonalità invalsa nella pratica teatrale, cioè un tono sotto rispetto alla tonalità originale testimoniata dalla partitura autografa. 2 Si noti qui la sfasatura stilistica tra la musica belliniana e il cincischiato preziosismo lettera­ rio del Romani: «Tutto, ah! tutto in quest’istante 1 Parla a me del foco ond’ardi: I Io lo leggo ne* tuoi sguardi, | Nel tuo vezzo lusinghieri II L’alma mia nel tuo sembiante | Vede appien la tua scol­ pita I E a lei vola, è in lei rapita | Di dolcezza e di piacer! »

Prolegomeni a una lettura della Sonnambula

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sembra sublimarsi la tradizione più aulica e illustre del canto italiano, un controcanto in seste di un corno sembrerà aprire spazi incontaminati di «natura», tanto limpidi e trasparenti - si diceva - quanto leggendari e misteriosi sono quelli evocati dai magici squilli weberiani e schubertiani: Elvino

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Più oltre, ed è un gesto ricorrente nell’opera, lo stesso procedimento, in sé frusto e scontato dell’accompagnamento per seste, attinge la mede­ sima allusività nell’incantato alone timbrico del quale la voce di Amina circonda, velandola di una luminescenza argentea la melodia, affidata ad Elvino (cfr. es. 8). È evidente che sólo con un’operazione analitica e forzando una sintesi perfettamente realizzata sul piano stilistico-espressivo, è possibile iso­ lare astrattamente questa componente del linguaggio della Sonnambula*. che rifiuta, ovviamente, la tecnica della citazione o dell’encausto, caratte­ ristica della tradizione comica napoletana, per procedimenti più mediati e raffinati, fondati sulle capacità di suggestione di gesti organicamente solidali alle sue più intime disposizioni stilistiche; non a caso, per l’unica

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melodia chiaramente riferibile a un contesto popolareggiante (non certo popolare) - la presunta citazione di Fenesta ca lucive nell’aria di Amina «Ah non credea mirarti», si ha il ragionevole sospetto che la pagina bel­ liniana ne costituisca la fonte, piuttosto che la ripresa. Lo sfondo della Sonnambula fa riferimento a un mondo «comico» (nel senso etimologico del termine) popolato da personaggi che con l’ec­ cezione del Conte Rodolfo il Romani avrebbe detto ignobili, svincolati cioè dal mondo regale del dramma per musica. Tuttavia la loro connota­ zione sociale avviene solo in senso negativo e in maniera nominalistica; il loro lessico, i loro costumi, il loro modo di essere e di agire li inserisce in una tradizione di fatto aulica e cortese. Si comprende allora come in Bellini questa tensione romantica all’ingenuo, all’incontaminato, a quel­

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l’insieme di disposizioni d’abbandono aurorale e innocente verso la vita che la cultura del primo Ottocento volentieri identificò come proprie dell’infanzia e dello spirito popolare, si dia come pura aspirazione, ane­ lito vago privo di ogni consistenza realistica e pratica. In questo senso, esse non possono che rifuggire da ogni troppo netta e determinata carat­ terizzazione: tendono infatti a un colore, a un’atmosfera, a una Stimmung, infine, entro la quale si inseriscono — e dalla quale a loro volta prendono vita e contorni - i personaggi. Bene avvenne al Romani di caratterizzare questa tonalità in un arti­ colo dettato nel 1840 per la «Gazzetta piemontese»: Io non so se l’Italia possa vantare ai di nostri un’opera nel suo genere di si squisita e perfetta fattura. Essa è in musica ciò che in poesia è VAminta-, è una nobile e commovente pastorale, semplice e sublime nel tempo istesso come una bella natura: v’ha l’unione dell’ideale col vero, vi hanno idee ridenti e melanco­ niche, affetti e passioni improntate dalla condizione del popolo e dai costumi, e dipinte con tale efficacia di colori che non si possono alterare nella piu piccola graduazione senza nuocere all’effetto. Giammai la campagna non ebbe piu ricca verdura, il ruscello piu dolci sussurri, l’amore piu teneri sospiri: si direbbe che il Bellini sia ito ad ispirarsi in Elvezia ai soavi canti della musa Gessner per isposarsi ai bei numeri della greca melodia. Ad esprimere il concetto di tanto lavoro, l’arte sola non basta: è d’uopo che il cantante senta quella musica nel cuore

Ora, proprio in questa fusione di «semplice» e di «sublime», di «ve­ ro» e d’«ideale» sta la difficoltà interpretativa della Sonnambula, che non a caso fu opera specificamente pensata per una prima donna, Giu­ ditta Pasta, e di prime donne (dalla Malibran alla Grisi a Jenny Lind, su su sino a Maria Callas e a Joan Sutherland) rimase appannaggio splen­ dido e prestigioso. Sempre il Romani, notava con acutezza i problemi interpretativi posti dal personaggio di Amina: Sebbene a prima vista possa sembrare assai facile a rappresentarsi, è forse più difficile di molti e molti che sono giudicati importantissimi. Conviene che l’attrice sia schietta, ingenua, innocente, e nel tempo istesso appassionata, sen­ sitiva, amorosa; che abbia un grido per la gioia come pel dolore, un accento pel rimprovero come per la preghiera; che abbia in ogni sua mossa, in ogni occhiata, in ogni sospiro un non so che d’ideale ed insieme di vero, come si vede in certe pitture dell’Albani, come si sente in certi idillii di Teocrito, conviene finalmente che il suo canto sia semplice e nello stesso tempo fiorito, che sia spontaneo e nel punto medesimo misurato, che sia perfetto e non apparisca lo studio. Cosi fu creato da quel poetico intelletto del Bellini, così fu sentito da Giuditta Pasta2. Rinaldi, Felice Romani cit., branca, Felice Romani cit.,

p. 250. p. 165.

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Giuditta Pasta (che - non dimentichiamo - aveva tra i suoi ruoli pre­ feriti quello di protagonista della Nina pazza per amore del Paisiello), portò nell’interpretazione dell’incantevole protagonista belliniana alme­ no un riflesso della sua tendenza alla stilizzazione scenica di ascendenza neoclassica', quella che Bellini chiamava la sua predisposizione al «su­ blime tragico», tanto ammirata da Stendhal, e soprattutto l’organica di­ sposizione al vocalismo belcantistico. I recensori della prima esecuzione parlarono infatti di un’occasione splendida offerta dal musicista all’in­ terprete per «far pompa di un genere di canto... nuovissimo» nonché di «fioriture difficilissime e sorprendenti». Indipendentemente dalle pra­ tiche estemporanee della fioritura virtuosistica legate alla prassi esecu­ tiva dell’epoca, la componente belcantistica costituisce nella Sonnambula una sorta di «trasparente», che vela le caratteristiche specifiche dei sin­ goli personaggi, offrendoli in un’uniformità di aspetti e di movenze che hanno spesso fatto parlare, come già si è accennato, di una strutturale antidrammaticità dell’opera. Riteniamo non occorra insistere su questo fossile critico di ascendenza natural-positivistica incredibilmente riaffio­ rante anche ai nostri giorni nonostante tutte le esperienze teatrali nove­ centesche di segno opposto. Comunque, come si potrà rimproverare Bel­ lini di non aver fatto del bozzettismo spicciolo, di non averci consegnato l’equivalente di una stampa romantica di sapore campagnolo? Che in tutt’altra direzione si muovesse la sua fantasia, lo si coglie subito, ad aper­ tura di sipario, nelle poche battute di introduzione alla cavatina di Lisa, che ci dicono subito nella loro intensa temperatura lirica, nel loro malin­ conico abbandono, nelle aristocratiche movenze, quali mai ostesse cir­ colino per questo «villaggio della Svizzera» (cfr. es. 9). Alle quali ostesse bisognerà addirittura rammentare, dopo un compia­ cente «a piacere» concesso su una nota acuta e filata, di non indulgere Esce Lisa dall’Osteria.

1 Da notare anche la consentaneità della Pasta con la componente neoclassica della poesia del Romani e con le sue proiezioni e virtualità mimiche: «Quando si canta coi versi di Romani - ella soleva dire - cosi fluidi, così scorrevoli, così espressivi, la bocca e Ì lineamenti della faccia si com­ pongono in modo che par fino di sentirsi belli! » (branca, Felice Romani cit., pp. 164-65).

Prolegomeni a una lettura della Sonnambula

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a troppo languide e sospirose svenevolezze, mediante un discreto «in tempo» posto su un vocalizzo da prima donna (e quasi da «parte seria») (cfr. es. io). Che l’incanto della Sonnambula — come in genere delle opere di Bel­ lini - risieda nella magica fascinazione della voce e che a questo aspetto siano subordinati tutti gli altri aspetti del linguaggio è diventata una di quelle affermazioni tanto ovvie da necessitare una messa a punto. Certo nella Sonnambula straordinaria è la risonanza, la virtualità espressiva che assume la voce, anche quando venga esibita, come spesso accade con squisita sensibilità teatrale, nella sua nuda purezza. E nei recitativi, pri­ ma ancora che nelle arie sembra di cogliere allo stato nascente, pur nella

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stretta adeguazione tra prosodia testuale e prosodia musicale, quella «concezione dinamicamente attiva... tutt’altro che elegiaca e sospirosa, bensì agonistica sino all’eroico» 1 propria della ritmica di Bellini, e cioè del segreto motore della sua vocalità. Le capacità formanti di questo stru­ mento d’elezione della fantasia belliniana sono tali che possono far pas­ sare in secondo piano alcune intuizioni preziose, giocate su altri livelli. Sul piano armonico, ad esempio, dove per sottolineare nella gioia e nella disperazione certi trasalimenti d’Amina, certo smagarsi dell’anima dinanzi alla piena dei sentimenti, vengono utilizzati mezzi assai fini, che fanno assai dubitare dell’esattezza del noto giudizio verdiano: «Bellini è povero... nell’istromentazione e nell’armonia»1 2. La verifica sul testo autografo risulterà - a questo come ad altri livelli - indispensabile per non cadere nelle insidie di modificazioni arbitrarie fornite dalle edizioni pratiche. Si veda, per esempio, questo procedimento modulante giocato su una serie di concatenazioni eccezionali o comunque inconsuete : da un accor­ do di sesta sul sesto grado sottinteso di Fa minore (3) a una quarta e sesta seguita da una settima sulla dominante di Mi bemolle maggiore (4); tonalità quest’ultima elusa con una cadenza d’inganno sul sesto grado minore (5) e infine con un deciso quanto inaspettato moto cadenzale.ver­ so Re bemolle maggiore (5, 6, 7). In realtà la lezione dell’autografo si arresta, con una cadenza perfetta, sulla prima metà della battuta 5 : quan­ to segue è stato aggiunto per permettere un concatenamento con il suc­ cessivo episodio (Recitativo e Duetto) trasportato per comodo dei can­ tanti un tono sotto, dall’originale tonalità di Mi bemolle maggiore a quella di Re bemolle maggiore: 1 monterosso, Vincenzo Bellini cit., p. 738. 2 II giudizio è espresso in una lettera del 2 maggio 1898 a C. Bellaigue, cfr. G. Cesari e A. Luzio, I copialettere di G. Verdi, Milano 1913, p. 416.

Prolegomeni a una lettura della Sonnambula

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Si consideri piuttosto questo scaltro gioco di ambiguità enarmoniche che interrompono la loro ben calibrata serie d’incastri nella stupita svolta finale sul quinto grado di Mi bemolle maggiore, facendosi tramiti di un estremo sussulto sentimentale, di una dolorosa consapevolezza, dalla quale si scioglierà la preghiera implorante di Amina (cfr. es. 12). Ma al di là di questi momenti di esplicita ed in qualche misura comElvino (con rabbia concentrata)

Alpina Lento ed a piacere

Es. 12 Qui!...

per-ché?...

chi miv’ha spinta?... Il tuo core

ingan- na-

Amina (si getta nelle braccia della madre)

. Elvino

Amina

Ah!

sei con-vin-ta!...

Ah!

sei-con- vin-ta!...

Ah?

sei con-vin-ta!...

Oh!

mein-fe7

CORO

Madre! oh! ma - dre!

Lisa (Teresa si copre il volto

8 Bassi

sottovoce

Ah!

-

lice!...

Che

fe-ci io mai?

f

sei con-vin-ta!...

Oh miodo-lor!

piaciuta ricerca1, come non rilevare Fuso esattissimo e puntualmente funzionale alla dinamica semantica del testo e dunque alla generale situa­ zione drammatica - dell’armonia belliniana? Si noti, in una pagina mi1 Ai quali occorrerà aggiungere almeno la progressione armonica preziosa ricorrente nel coro che descrive l’apparizione del fantasma in corrispondenza con i versi: «I cani stessi accovacciati | abbassan gli occhi, non han latrati» (Spartito, ed. cit., pp. 76-77),

Prolegomeni a una lettura della Sonnambula

347

tica, con quanta sottigliezza sia graduato il peso della dissonanza e della tensione armonica in corrispondenza con 1 "evoluzione logica e l’espan­ dersi del diagramma sentimentale del discorso di Amina, parola per pa­ rola, frase per frase: con quell’ostinato protrarre l’esito della parabola armonica, rilanciata infine come arsi della semifrase corale che sfocia nel­ la magia della rimemorazione, nella luce diafana del delirio: Elvino A i Lent°

Amina (inginocchiandosi) a tem?°

r

Es. 13

8

fWiy74

Guido Salvetti

Alla morte di Meyerbeer avvenuta nello stesso anno ritornavano nei ne­ crologi e nei giudizi di saggisti e di cronisti lodi al grande scomparso im­ bastite con le parole già usate dal Marselli qualche anno prima': «le scene senza strofe cantabili sono quasi pari ad un accentato discorso, ed il Meyerbeer è impareggiabile nel dipingere quei quadri in cui predomina la forma discorsiva... L’istrumentazione è eminentemente drammatica» [il corsivo è nostro]. Il Dramma è quindi fusione sintetica degli elementi scenici e musica­ li. Da qui il cosiddetto «sinfonismo», la propensione cioè a spostare ver­ so l’orchestra il polo dell’unità drammatica, finora collocato nella «cantabilità». Ed è questo un concetto altrettanto condiviso sui versanti più diversi: da Verdi che comincia ad usare il termine «sinfonico» fin dal Ballo in maschera1 2, a Boito tutto impegnato, come si è detto, nel nuovo fervore strumentale e sinfonico della Società del Quartetto, ma con l’oc­ chio tutto attento al melodramma. La «fusione delle arti» insomma non è formulazione originale del­ l’ambito scapigliato: essa si incarna in tutto il dibattito sull’opera, venen­ do a coincidere con il disprezzo per la convenzione (schemi formali di recitativo-aria, gerarchie tradizionali tra vocalità pura e accompagna­ mento orchestrale), considerata come il vero ostacolo alla complessa co­ struzione del Dramma. Ciò che, in questo dibattito, tutti gli scapigliati misero di più originale fu il tono profetico, a suon di «alti destini», «pa­ lingenesi dell’arte», e simili: ma, a ben guardare, anche questa imposta­ zione profetica aveva forse la sua matrice nel pur disprezzato Wagner, ed era comune ad un atteggiamento di aspettazione quasi miracolistica nella «nuova» opera. In Verdi non è raro trovare frasi come «Parte futu­ ra ci deve ben pensare. Non si può andare avanti cosi», oppure «quando verrà il poeta che darà all’Italia un melodramma vasto, potente, libero d’ogni convenzione...» 3. E ancora il Marselli, qualche anno prima: «Non ho trovato ancora l’Artista della mia mente, non mi riposo ancora sod­ disfatto in questa ultima forma dell’arte, e il mio pensiero è sospinto innanzi da una voce prepotente che grida: non basta... La Società in­ tera appunta lo sguardo in un futuro ideale di Musica... di una Musica che segue la poesia». E citiamo il Marselli per la sicura lontananza, lui napoletano desanctisiano, dal dibattito scapigliato. Se però le parole coincidono, se i termini di una nuova poetica sono 1 a. marselli, Ragione della musica moderna, Napoli 1859, p. 102. 2 Nella Difesa, scritta contro i censori napoletani del Ballo in maschera, Verdi, accennando al momento culminante del primo quadro del terzo atto (il sorteggio di chi dovrà uccidere Riccardo), usa la frase: «Quale squarcio sinfonico pel maestro nel ritrarre il momento in cui va compito il tre­ mendo sorteggio!! » 3 abbiati, Giuseppe Verdi cit., p. 261.

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comuni a tutti gli ambiti della nostra cultura impegnata sul melodram­ ma, di fronte alle scelte critiche concrete, di fronte alle scelte artistiche concrete sorge un autentico smarrimento, tutti si disorientano: ed è in questa crisi, affiorante nel passaggio dai principi astratti alla concreta storia dell’opera, che Boito e i suoi amici cominciano a delinearsi piu originalmente. Si veda ad esempio la scelta compiuta da Verdi in quegli anni: il concetto di Dramma (da lui del resto prepotentemente attuato, con i propri mezzi, già dal Rigoletto) va ad incontrarsi con una inedita aspirazione alla Varietà, di stampo, se si vuole, francese: «Io desidero soggetti nuovi, grandi, belli, variati, arditi». E non è chi non veda il mag­ gior profluvio di colori e di situazioni variate dai Vespri Siciliani, al Bal­ lo, alla Forza del destino, al Don Carlos, ad Aida. L’intenzione «dram­ matica» trova con la varietà un punto d’incontro proprio nella nuova necessità di allargare i mezzi linguistici (di orchestrazione, di armonia, di nuovi rapporti voce-orchestra, di nuova cantabilità con nuove forme, ecc. ecc.). Ma questo non parve a Boito - che pure lodò oltre misura pro­ prio I Vespri1 e il Ballo1 - l’incarnazione del proprio Ideale, tanto che proprio al culmine di quella parabola verdiana (cioè dopo La forza del destino) si colloca la rottura con Verdi (l’episodio del Brindisi, fra tutti, o la qualifica di «gran Prete»): ed una dichiarata avversione per gli imi­ tatori di Verdi che faceva il paio, in quell’ambiente, con l’amore-avversione per il Manzoni123. Entrambi troppo grandi e famosi perché, nono­ stante tutti gli aggiornamenti, non venissero a rappresentare un’arte pas­ sata; se non altro, per Verdi, perché non sufficientemente «colta», in senso letterario e filosofico (e abbiamo chiarito come il vero problema fosse, soprattutto per gli scapigliati, di innalzare il livello «intellettuale» del vecchio spettacolo). Uguale ammirazione Boito dimostrò per l’opera francese, da tutti amata e rispettata e lodata negli anni seguenti al 1862, l’anno del gran 1 Nella Cronaca pubblicata nel «Figaro» del 18 febbraio 1864, troviamo: «...dopo i Vespri siciliani, la Notte di Saint-Barthélemy. le due piu romantiche epopee della storia moderna». I Ve­ spri vengono addirittura definiti: «la piu solenne opera di Verdi». 2 Nella Cronaca pubblicata nel «Figaro» del 7 gennaio 1864, Boito, dopo aver affermato che 1 Lombardi «sono invecchiati», sottolinea al contrario come nel Ballo dominino «le imperiose esi­ genze del dramma e della musica». 3 Per Verdi, basti ricordare quanto già detto a p. 568, nota 4, a proposito del «gran Prete» e il profondo risentimento con cui Verdi accolse l’«Ode saffica col bicchiere alla mano», All’arte ita­ liana, pubblicata nel «Museo di famiglia» di Milano il 20 novembre 1863. Il complesso rapporto con il Manzoni è ben analizzato dal mariani, Storia della Scapigliatura cit., pp. 90-100; ricorderemo qui soltanto la famosa quartina del Preludio di Penembre di E. Praga: «Casto poeta che l’Italia ado­ ra, | vegliardo in sante visioni assorto, | tu puoi morir! Degli anticristi è l’ora, I Cristo è rimorto». L’ammirazione per il Manzoni veniva quindi a coincidere con la coscienza della sua inattualità, e quindi con l’esecrazione degli imitatori, come si può leggere in questo passo del Boito, apparso nel «Figaro» del 4 febbraio 1864: «Se un uomo benedetto e privilegiato dalla natura [...] cantò soave­ mente i piu placidi canti, una torma di bertuccie dev’essa forse corrergli dietro, e scimmieggiare ogni giorno colle zanche vellose il suo segno di croce? »

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successo del Yaust di Gounod alia Scala, immediatamente seguito dai trionfi - sempre scaligeri - delle maggiori opere di Meyerbeer \ E dice­ vamo di come, al coro di lodi in morte di Meyerbeer si aggiunga puntua­ le quello di Boito e di tutti i cronisti delle riviste grandi e piccine. «Ar­ te seria», «grandi musiche», «severe creazioni» aveva giudicato Boito quelle opere francesi. E vedremo come il Praga rimanga nel complesso di quest’avviso. Ma, almeno nel caso di Boito, se era importante svecchia­ re il tradizionale repertorio dei nostri teatri1 2, non per questo si poteva dire in alcun modo risolto il problema dell’arte futura, che solo uno sno­ bismo innocuo (evitare la locuzione wagneriana «arte dell’avvenire», venuta in disprezzo) gli faceva ancora definire «arte del presente»3. Tranne gli elogi a Meyerbeer del 1864, non è dato rintracciare alcun se­ gno, in tutta la pubblicistica seguente, che ci consenta di pensare ad un riferimento a lui — o ad altro francese — come a modello per il futuro svolgimento dell’opera. Anzi, quando si tratterà di presentare il libretto del Mefistofele, nel 1866, è titolo d’onore dichiarato quello di aver com­ piuto opera più degna di quella di Gounod. Ecco quindi, in sintesi, il contributo che quella pubblicistica, in gran parte scapigliata, diede sia alla formulazione di una nuova poetica del melodramma, sia al giudizio sui modelli passati e presenti, in attesa di una futura riforma: partecipazione ad un dibattito comune, con proble­ matiche simili e universalmente condivise; forse una maggiore carica di insoddisfazione verso il presente verdiano e francese, ma, in termini teo­ rici, non molto di più. Per rintracciare un contributo più specifico alla storia della musica occorre allora definire un campo di indagine più arti­ colato e più vicino al vivo della pratica musicale: il libretto d’opera, la composizione musicale vera e propria. È questo un campo d’indagine pos­ sibile a patto che, facendo tesoro proprio delle precisazioni della critica letteraria sui reali rapporti tra scapigliati4, e sull’estensione cronologica del fenomeno, ci si autoimponga dei limiti, sia nell’abbinare al Boito so­ lo chi ebbe documentata e assidua attività assieme con lui in campo mu­ 1 Già nel 1861 Roberto il diavolo ha ben 27 repliche alla Scala. Nel 1863 II profeta ha 12 re­ pliche. Nel 1864 gli Ugonotti 1 replica (nel 1869, 9 repliche; nel 1870, 13 repliche). Nel 1866 L'afri­ cana ha 9 repliche in marzo e altre 12 in novembre; nel 1867 altre 13. 2 Gran parte della Cronaca apparsa sul «Figaro» del 7 gennaio 1864 è dedicata da Boito all’ar­ gomento del rinnovamento del repertorio; e ciò - significativamente - prima di intessere le lodi del Ballo verdiano. 3 Ci riferiamo alla famosa enunciazione dei quattro principi dell’«opera in musica "del pre­ sente”», contenuti nella Cronaca del «Figaro» del 21 gennaio 1864. 4 All’argomento è dedicata buona parte del primo capitolo di mariani, Storia della Scapiglia­ tura cit., pp. 27-50. In quelle pagine si dà ragione di tutti gli accostamenti perpetrati dalla pubbli­ cistica letteraria: il binomio Boito-Praga; la cricca delle tre F (Ferrari, Fortis e Filippi); la posizione leggermente decentrata del Ghislanzoni e del Tarchetti; l’accostamento progressivo del Dossi; l’a­ scendenza comune dal Rovani; ecc. ecc.

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sicale (e cioè Emilio Praga1), sia nell’uscire dall’ambito letterario per attingere a chi faceva parte a pieno diritto del sodalizio (e cioè Franco Faccio2), sia nel delimitare l’indagine al periodo 1862-1872 che è la mas­ sima estensione di questi rapporti «a tre» intorno ad un impegno artistico-musicale che - come vedremo - possa dirsi «scapigliato». La posizione più problematica è quella di Emilio Praga, per il rispet­ to verso la tradizione melodrammatica, soprattutto verdiana, che tra­ spare dai suoi numerosi libretti. È veramente arduo rintracciare i temi cari al poeta di Tavolozza e di Penombre nel librettista, tranne per alcu­ ni divertiti giochi di parola e per qualche vena anticlericale, affiorante però senza alcuna centralità drammatica3. Ma, nonostante questa pesante assunzione delle regole del «genere», il melodramma che Praga persegue è esattamente quello che si sta affermando in Italia per contaminazione col gusto francese: un melodramma ricco di effetti e di colori, ma soprat­ tutto capace di un sapiente gioco tra diversi livelli e atteggiamenti espres­ sivi: dal tragico al comico, dal sentimentale al popolaresco, con innesto di scene «caratteristiche», spesso citazioni o ricostruzioni di altre situa­ zioni non propriamente melodrammatiche, ma folkloriche, canzonettistiche, di ballo, di nenia, ecc. ecc. È la nascita di quello che può ben dirsi 1 Oltre alla ben nota amicizia e reciproca stima (almeno fino al 1870), è opportuno ricordare le liriche che Boito dedicò a Praga, e Praga a Boito, intrise di intenti programmatici e di un vivo senso di gruppo. L’esempio piu vistoso di collaborazione letteraria è dato dalla commedia Le madri ga­ lanti. rappresentata al teatro Carignano di Torino nel marzo del 1863, con clamoroso insuccesso. Una rilettura della commedia, condotta con occhio ad altri lavori teatrali di E. Praga (Fantasma. ad esempio), ci porta a supporre una preminenza di Praga nella scelta delle tematiche e nella con­ dotta drammatica; non si ha invece traccia, nell’opera di Boito, di alcun altro lavoro, come questo, con motivi moraleggianti e note di costume; Praga, di converso, mantenne negli anni una certa sti­ ma di questo suo lavoro giovanile, rifiutandosi di annoverarlo nel numero delle «famose porcherie», com’egli diceva. Il nome di Praga si trova accostato a quello di Boito per l’ultima volta nel libretto per Un tramonto di Coronare: il Praga vi premise un breve «programma» poetico, destinato al pre­ ludio orchestrale. 2 I dati biografici sono qui altrettanto numerosi. Ricorderemo per tutti la partecipazione di Boito, Praga e Faccio alla terza guerra d’indipendenza, come volontari. I rapporti artistici tra Boito e Faccio risalgono al 1859 con la «Cantata patria», Il quattro giugno, in commemorazione della bat­ taglia di Magenta. Faccio ne musicò la prima parte (I martiri), Boito la seconda (La profezia); fu eseguita come saggio finale al Conservatorio, nel settembre del i860. La collaborazione si ripetè per occasione analoga, nel settembre del 1861, con Le sorelle d’Italia, di cui Faccio musicò il Prologo e la prima parte, Boito la seconda. Per l’Amleto vedi più oltre. Cosi pure, a proposito dei rapporti Praga-Faccio, per I profughi fia?nmingbi. Il Barbiera (Il salotto della contessa Maffei cit., p. 12) ci racconta che il 13 marzo 1864, in occasione del cinquantesimo compleanno di Clara Maffei, fu eseguito in quel salotto un coro «di signorine e di signore», su testo del Praga, musicato «con gar­ bo» dal Faccio. Ricorderemo ancora la collaborazione di Boito e Praga per il testo di Un tramonto di Coronare, allievo di Faccio. Anche il giovanissimo Catalani potè godere, per La falce, della colla­ borazione di Boito (per il testo) e di Faccio (per l’orchestrazione). 3 Nei Profughi fiamminghi questi riflessi «letterari» ci sembrano più evidenti; eppure appaiono pur sempre smorzati rispetto alle raccòlte poetiche. Ad esempio lo scatenato anticlericalismo di Penombre (vedi Spes unica-. «Tu, tu, fatai pontefice, i vecchio dal cuor di bronzo | tu, mitrata pu­ tredine, | sognante un’orbe gonzo...») appare filtrato nel libretto d’opera: «Via! scherani d’orribili frati I cui l’altare alla reggia menò...» Ai giochi di Meriggio («Fuori lucertole I e moscherini, | bruchi, larvuccie | e farfalluccie, 1 lumache e rane | fuor dalle tane...»), corrisponde nel libretto: «Fra aguglie e comignoli I le picche non vanno: I è là che gli eretici | convegno si danno; I là stre­ ghe e fanatici | ghignando, trescando, | le fila rigirano ] del patto esecrando...» 20

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il grand-opéra italiano, quello che, tratto lo spunto dal Ballo in maschera e dalla Forza del destino, nonché dalla recente conoscenza delle opere di Gounod e Meyerbeer, uniformerà il gusto di una schiera di giovani (Mar­ chetti e Gomes in testa) nonché di compositori quasi attempati (Lauro Rossi, Enrico Petrella), fino ai successi di Ponchielli, con il gran monu­ mento dei Lituani e la coloritissima Gioconda. Questa corrente di gusto è talmente comune in quegli anni che è fin ozioso porsi problemi di imitazioni o precedenze nell’osservare alcune evidenti somiglianze tra le situazioni dei libretti di Praga e quelle dei piu famosi melodrammi di quel tempo. Se L'avvocato Patelin (1869, per Montuoro) guarda ancora con simpatia dPElisir d'amore con scoperti riferimenti alla novellistica del Sacchetti, il rifacimento dei Promessi Sposi per Ponchielli (1872) e V Edmondo Dantès (1876) per Dell’Aquila sono calati nelle nuove usuali strutture. In entrambi questi soggetti, di larghissima popolarità, l’opera del librettista è attenta soltanto a capta­ re, all’interno delle famose vicende, situazioni paragonabili al repertorio effettistico corrente. Nel primo atto dei Promessi Sposi, ad esempio, ciò che ha gran rilievo è soprattutto il coro dei contadini, festanti per l’im­ minente matrimonio. Piu innanzi il matrimonio segreto è concepito co­ me pezzo caratteristico in stile burlesco. Durante il dialogo tra la mona­ ca di Monza e Lucia, l’attenzione del poeta si rivolge soprattutto a cori di sicari, in strada, e a cori di monache sul fondo. Nel Lazzaretto si vede soprattutto un’occasione per cori e processioni penitenziali. Analogamente II conte di Ntontecristo viene brutalmente assimilato alla solita struttura: nel primo atto, grande movimento al porto per l’ar­ rivo della nave che porta il Dantès. Tutto l’intrigo di Fernando viene or­ dito su questo sfondo, divenendo, tra l’altro quasi incapibile. Il tradi­ mento di Fernando si consuma in aperta campagna, ove, piu del resto, interessano i graziosi coretti dei villici. Quando infine Dantès fugge dal­ la prigione, la serie delle atroci vendette descritte da Dumas sono concen­ trate in una scena di ballo in maschera: proprio come nel Ballo verdiano si immagina che, sullo sfondo delle danze, si svolga sul proscenio tutta la serie dei riconoscimenti, degli intrighi, delle violenze. In tal modo i due famosi testi narrativi si riducono ad una serie di oleografie popolari: il riferimento letterario si scioglie senza residui nella pratica melodram­ matica. Il libretto di Atala (1876, per Gallignani) è un ricalco del Guarany di Gomes, tanto famoso in quegli anni: stesso sommario sfondo «selvag­ gio», stessi intrighi amorosi e politici, immersi in una esoticità molto approssimativa. Solo che al poeta si offre qualche migliore occasione per un rinnovamento di lessico e di metro, ai fini di una migliore am­

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bientazione della vicenda. Anche Maria Tudor (che verrà musicata nel 1879 da Gomes) sembra un ricalco, in questo caso del Ruy Bias di Mar­ chetti, altro lavoro di grande notorietà: stessa corte spagnola intrigante, stesso cortigiano diabolico (Don Gii), stesso amore della regina per un favorito. Ma alcune situazioni richiamano subito alla memoria il Don Carlos di Verdi (le scene di corte; la scena del giardino percorsa da can­ ti e suoni di Spagna, la scena della prigione), nonché il solito Ballo in maschera, dove al ballo si intreccia la congiura e la vicenda amorosa. Ed ecco, per il musicista una serie multiforme di occasioni: serenate con chitarre, coretti folkloristici, ballabili, ecc. ecc., in cui si stempera la cen­ tralità - se pur esiste - della vicenda. Altri testi drammatici, musicati per decisione posteriore del musici­ sta, fanno piuttosto parte della storia del teatro, e ne riferiamo in nota \ Vorremmo ora riferire del primo dei libretti di Praga, destinato alPamico Franco Faccio, I profughi fiamminghi, dati a Milano nel 1863. Per la data, cosi vicina al sodalizio con Boito, e per la collaborazione con un musicista amico, partecipe degli stessi ideali del gruppo, ci si potrebbe aspettare in questo libretto qualcosa di più di una semplice accettazione della convenzione melodrammatica. Ed invece è proprio solo questo. Lo stesso Boito, che pur ne lodò tanto la musica12, attribuì alcuni limiti di quella proprio alla convenzionalità del poeta-librettista. Proprio per valutare i termini delPintervento di Faccio, è pur dove­ 1 II viandante fu musicato da G. Litta e rappresentato a Milano, al Teatro della Commedia, nella primavera del 1873. Priva di qualsiasi ambientazione realistica o storica, priva di qualsiasi svolgimento drammatico, la vicenda può ben dirsi di taglio psicologistico; i personaggi rispondono ad un simbolismo estenuato: il fanciullo puro, povero e libero, la donna fatale, lussuriosa, ricca. Fantasma, scena drammatica in un atto, fu musicato da Andrea Ferretto e rappresentato a Vicenza nel 1908; anche in tal caso l’attenzione è tutta rivolta a una tipizzazione sommaria, centrata sulla donna-demonio, l’adultera, cui si contrappone la donna-angelo, la madre; nel mezzo il figlio ancora puro e l’altro figlio sconvolto dalla lussuria. L’ambien fazione, pur sempre sommaria, è qui dichiara­ tamente «borghese», mentre nel Viandante si faceva ancora riferimento ad un improbabile Medio­ evo fiorentino. Alcuni tratti, infine, ricordano, in Fantasma, tipici procedimenti di Maeterlinck: nel dramma del Praga rimane sospesa su tutta la vicenda la morte della madre, il cui simbolo mostruoso (il Fantasma, appunto) si affaccia a tratti alla finestra; il pensiero corre direttamente all’Intrusa di Maeterlinck, in cui per tutta la vicenda i personaggi intuiscono la presenza della morte, presentita anche attraverso apparizioni simboliche (il falciatore nel prato antistante la casa, ecc.). Come si ve­ de, è più che capibile che un simile soggetto potesse interessare un qualsiasi musicista in clima deca­ dente all’inizio del Novecento. Meno ovvia L’attenzione del Litta per una vicenda cosi impalpabile, in anni di grand-opéra, e per un impianto letterario cosi verboso e concettoso. Sono questi i segni di una ricerca «letteraria» nel melodramma, cui Boito - come diremo più innanzi - tentò di dare uno sbocco con l’Amleto e il primo Mefistofele. 2 Oltre al Brindisi, già citato, vedi anche in de rensis, L’« Amleto » di A. Boito, Ancona 1927, un’ampia analisi dell’articolo che Boito dedicò ai Profughi fiamminghi sulla «Perseveranza» del no­ vembre 1863. Boito affermava, da un lato, che nella musica di Faccio vi erano «strutture e idee af­ fatto nuove»; dichiarava d’altro lato che il dramma di Praga «non si avvicinava neppure di un pas­ so alle rinnovate idealità». Anche nella musica di Faccio il Boito osservava tuttavia alcune tendenze al «vecchio», nella «melodia ad ogni costo», nella «sensualità tonica», nell’«epicureismo ritmico»: tutte osservazioni che sono di grande interesse per comprendere le linee dell’intervento successivo di Boito, nella collaborazione con Faccio, a proposito dell’Amleto.

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roso avanzarne una breve descrizione. La trama dei Profughi fiammin­ ghi è la donizettiana vicenda amorosa intrecciata ad una vicenda politi­ ca. Atto primo: i fiamminghi, guidati da Bergh, congiurano contro gli spagnoli. Ilda, figlia di Bergh, innamorata infelicemente di Ruggero, no­ bile spagnolo, si reca da un’indovina per sapere il futuro del proprio amore. Ilda e l’indovina, sorprese da guardie spagnole, sono arrestate per stregoneria. L’indovina e Ilda invano spiegano di non essere colpe­ voli; vengono imprigionate. Al processo Ruggero riconosce Ilda e si ri­ promette di liberarla. Atto secondo: in un giardino Margherita, fiam­ minga promessa sposa dello spagnolo Ruggero, si appresta felice alle nozze. Giunge Ruggero: duetto d’amore. Ruggero poi si reca nella pri­ gione da Ilda e la convince a fuggire dietro promessa che la raggiungerà ad un punto deffa costa; ed invece egli si reca alle nozze. Corteo nuziale. Arriva Ilda sconvolta per l’inganno di Ruggero. Bergh infiltratosi con i suoi nella folla per impedire il matrimonio tra una fiamminga e uno spagnolo, riconosce la figlia, si sente oltraggiato dall’amore di lei per Ruggero e dà il segnale della rivolta, che è vittoriosa. Atto terzo: Rugge­ ro imprigionato riceve la visita di Bergh che gli concede la figlia, poiché capisce che ella ne è profondamente innamorata. Ma Ruggero rifiuta: è innamorato di Margherita. Giunge Ilda che fa fuggire Ruggero con Mar­ gherita. Indi si uccide e spira tra le braccia del padre. Si diceva: solito intreccio tra vicenda amorosa e vicenda politica. La prima è occasione di strutture strofiche chiaramente destinate a pezzi chiusi tradizionali; la seconda è spesso risolta con scene di massa — cora­ li - e con una certa larghezza di tratto. La prima è affrontata con un me­ tro e un linguaggio di un sentimentalismo non proprio tradizionale per l’opera. Si veda una quartina della confessione di Ilda nel primo atto: Egli parti!... lasciavami innamorata e mesta; chi consolar potevami, chi nella mia foresta?

Ed anche il prode Ruggero, nella prigione del terzo atto: Fido amor di Margherita, puro, santo, espia tor... tu redimi la mia vita con un bacio del Signor!

In entrambi questo andamento da ballata popolare; queste rime alter­ nate; questa infantile alternanza tra piano e sdrucciolo, o tra piano e tronco. Ma, ancor più, questa indeterminazione crescente dell’espressio­

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ne, che arriva al nonsense degli ultimi versi. Ed è questo un procedimen­ to «sentimentale» più vicino al Prati che al Cammarano o al Piave! La vicenda patriottica è invece definita mediante un lessico e un me­ tro di derivazione romantico-risorgimentale: Berchet, Manzoni. Bergh, al momento della rivolta, intona: Non eterne le umane possanze non eterni.i castighi d’iddio! Ei dal volto del popolo mio il suggello d’infamia strappò.

E il coro risponde, forse animato anche da quel fuoco anticlericale che, appena può, erompe in questi libretti del Praga: Via! maestri di roghi e di croci via dai solchi che i padri ci han dati, via! scherani d’orribili frati cui l’altare alla reggia menò!

Qualche sicuro accenno allo sviluppo della futura struttura degli altri libretti è pur rintracciabile: in particolare tutto il secondo atto è un se­ guito di occasioni di colore, e di ricostruzione sonora di varie ambienta­ zioni musicali. Coretto di fanciulle nel giardino di Margherita. Corteo nuziale. Rivolta dei fiamminghi. E suggerimenti, in tutta l’opera, per ardite sovrapposizioni d’effetto, soprattutto nelle scene di massa: si pen­ si all’incontrarsi, nella grande scena finale del secondo atto, delle diver­ se passioni di fida, Ruggero, Bergh, Margherita, dell’erompere della ri­ volta, delle urla degli spagnoli decisi a resistere: un invito insomma ad un grande affresco ampio, articolatissimo al proprio interno. Questa prima prova del Praga si presenta quindi con le caratteristi­ che dell’ambiguità: da un lato l’impegno nel melodramma comporta un abbandono quasi totale di letterarietà autonoma a favore dei «luoghi» riconosciuti del teatro in musica; dall’altro si nota una tendenza verso un altro teatro musicale, più mosso e colorito di quello romantico-risor­ gimentale. Né forse è da sottovalutare la corda un poco intimistica, un poco infantilmente elegiaca (predecadente5 direbbe sicuramente il Binni), con cui si risolvono le pene d’amore e si costruiscono soprattutto i personaggi femminili. Una verifica sull’effettivo significato di queste timide novità di con­ cezione non può avvenire che nel confronto con quanto di esse viene re­ cepito, o superato, nella musica di Faccio. Per quanto riguarda la convenzionalità dell’impianto, non c’è dubbio che essa trapassi pari pari nella struttura musicale complessiva. È abba­ stanza noto che, in quest’opera, le forme chiuse sono ancora presenti,

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non solo per la rigida cesura che separa le varie scene, non solo per la netta distinzione tra il declamato della scena, spesso di movimento, e il cantabile, di intonazione lirica, ma anche per l’adozione di una metrica regolare e di uno schema simmetrico in molti di questi cantabili. La «sor­ tita di Ilda», ad esempio, «Del mio diletto errante», contiene una ripre­ sa appena mascherata da alcuni cambi di tonalità. Anche la romanza di Ruggero, nel terzo atto, «Bianca, bianca, muta, muta», ripete con parole diverse il primo episodio dopo una lunga sospensione affidata ai cori dei fiamminghi festanti, fuori scena. L’aspetto più convenzionale di questi momenti è sicuramente l’adozione di formule fisse di accompagnamento, a volte abbastanza complesse

a volte veramente sconcertanti nella loro banalità:

Non ci nascondiamo neppure un certo impaccio, dovuto forse all’ine­ sperienza del giovane Faccio, nell’affrontare scene forse un po’ troppo complesse, ma non prive nel libretto di una certa efficacia: basti per tutte la grande scena della rivolta del secondo atto, in cui i vari — e diversissi­ mi - sentimenti di Bergh, di Ilda, di Ruggero, di Margherita vengono tra-

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volti dal clamore dei cori e finiscono per confondersi sulle linee melodi­ che simili di un sommario concertato. Altre volte la presenza verdiana è quasi citazione; si osservi l’uso di un discorso melodico continuo portato in orchestra, a sostegno dell’/ronia con cui lo spagnolo Velasco si rivolge a Bergh:

In un caso analogo, poi, la melodia in orchestra è sorprendentemente simile a quella famosa della Forza del destino-.

Es. 4

L’avvertenza di questi limiti e di questi impacci crediamo sia un buon punto di partenza per isolare successivamente, nel contesto dei Profughi fiamminghi, una serie di fermenti non usuali, destinati, come vedremo,

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ad avere un futuro sviluppo — di indubbio interesse — nel successivo Amleto. Si osserverà, innanzitutto, come gli stimoli provenienti da Pra­ ga verso una tavolozza drammatica varia siano pienamente recepiti, an­ zi amplificati. I coretti di fanciulle, all’inizio del secondo atto, nel Giar­ dino, sono ricostruiti in punta di pennello, con un cenno sapiente alla coralità omoritmica - e popolaresca - di tante frottole o villanelle:

Es. 5

Sarcastica — e pienamente in sintonia con gli sfoghi anticlericali di alcuni momenti del libretto — è anche la ricostruzione del coro dei bigotti spa­ gnoli di fronte alle presunte streghe, con una melodia tratta dal reperto­ rio innodico piu conosciuto:

Sire-gain - fa - me-il tuo pec - ca - to san - ti fra - ti han con dan - na

-

to

Di sapiente fattura ci sembra anche il «Coro della ronda» che apre gu­ stosamente il secondo atto: un poco goliardico, e ben disposto in quel suo avvicinarsi progressivo alla scena. Abbiamo già citato i cori dei fiam­ minghi festanti dopo la vittoria che rompono il colore opaco della scena della prigione, ed introducono, in un momento di largo uso dei mezzi sentimentaliy un insieme di procedimenti corali vivacissimi nella loro rude schiettezza: Coro di fiamminghi

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Nei Profughi affiora quindi una certa propensione verso un grandopéra nostrano, si fa strada tutto un ammirevole impegno di complessi­ tà e di dignità linguistica che si riallaccia più direttamente ai termini del dibattito teorico, sopra accennati: una certa complessità armonica (no­ nostante non vada molto oltre il semplice uso dei giochi di settima, o, al più, degli accordi alterati — molte quinte aumentate —) è segno, più che altro, di una buona conoscenza di alcuni procedimenti del romanticismo tedesco, di Chopin e di Liszt in ispecie:

Né può sfuggire la cura riposta nell’orchestrazione, non solo per l’am­ piezza dei brani «sinfonici» (per esempio i Preludi orchestrali al primo e al terzo atto), ma anche per il colore drammatico, non del tutto usuale, dell’orchestra stessa. Ricordiamo l’insinuante inciso dei contrabbassi che dal Preludio del primo atto passa a rendere inquieto tutto il coro dei congiurati; oppure la preziosa trasparenza dell’impasto timbrico che si crea intorno ai cori femminili nel Giardino del secondo atto, con un’or­ chestra ridotta ai soli archi nel registro acuto: oppure la pensosità elegia­ ca del clarinetto solo, nella scena della prigione del primo atto; oppure la staticità rarefatta dei violini divisi e delle viole in accordi lenti all’ini­ zio del terzo atto; oppure il fagotto solo che rende arguto e mosso il «Co­ ro della ronda» nel secondo atto. Ciò che più colpisce, in tutti questi esempi, è che la tanto accusata clamorosità dell’orchestrazione di questo presunto «germanofilo» non riguarda che le parti più trascurate e di

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maniera: i cori patriottici, gli obbligatori finaloni con concertato, ecc. Ma, nei momenti più attenti e curati, l’orchestrazione rivela al contrario un gusto tutto nuovo per colori puri, per immagini terse e leggere. Qui s’appunta — a nostro parere — l’aspetto più nuovo del giovane Faccio: in questa capacità di introdurre nel dramma a forti tinte stori­ che e a grandi passioni una inflessione intimistica, una fragilità di modi neppure del tutto derivabile dall’esperienza francese di quell’epoca. E non solo per l’orchestrazione. Questo gusto si affida forse ancor più all’e­ sile vocalità dei personaggi sentimentali (Margherita e Ilda, soprattutto, ma anche Ruggero nel terzo atto), con una corrispondente «depurazio­ ne» armonica rivolta all’accostamento immediato degli accordi minori, a un indebolimento sia dei nessi tonali, sia della tensione dei passaggi cromatici:

Scopriamo allora che proprio quella debilità un poco decadente del bamboleggiare librettistico ha un corrispondente abbastanza preciso nel linguaggio musicale. Il mondo dei piccoli affetti, a cui Praga si accoste­ rà sempre di più col passare degli anni, è qui sufficientemente compreso

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ed amato dal musicista. Ed anche con questo strumento si affina la gra­ na grossa della tradizione; anche con questa più debole corda si lavora per l’innalzamento dell’opera ad un livello di decorosa letterarietà. Negli stessi mesi in cui Praga lavorava per I profughi fiamminghi, Boito lavorava per Y Amleto, completato il 2 luglio 1862, e già destinato alla musica dell’amico Faccio \ La coincidenza cronologica ci permetterà di cogliere ancor meglio le differenze di impostazione e di «poetica», nei confronti del melodramma. Come poi per il Mefistofele, la scelta di ba­ se, rivelatrice di nuovo impegno, è l’esplicito riferimento alla grande opera letteraria di un grande autore, nell’evidente convinzione che l’ope­ ra in musica non avesse esigenze tanto proprie da non poterne ricevere tutta la complessità concettuale e drammatica. Nell’affrontare l’Amleto di Shakespeare non c’è quindi alcuno sforzo di una riduzione al già noto appena paragonabile a quella che abbiamo osservato in Praga per II con­ te di Montecristo o I Promessi Sposi. Unica avvertenza: il testo viene snellito per tener conto degli inevitabili rallentamenti che l’incontro con la musica deve comportare, se si vuole — come Boito vuole — che la mu­ sica «scavi» nel significato della parola. Da qui la necessità di isolare mo­ menti salienti e significativi, non per ripercorrere il repertorio dei «luo­ ghi» melodrammatici, ma - con ogni evidenza - per cogliere i momenti salienti del dramma, messo quasi a nudo, in questo libretto, nelle sue strutture fondamentali. Eccone, brevemente lo schema, che è già di per sé abbastanza illuminante dell’operazione: Atto primo Parte prima - Gran sala reale nel Castello di Elsinora : feste e danze; corruc­ cio di Amleto per il lutto violato; Laerte e il Re guidano brindisi e danze; Ofelia smarrita; Orazio e Marcello raccontano Tapparizione dello spettro. Conclusione festosa delle danze. Parte seconda - Incontro di Amleto con lo spettro del padre ucciso.

Atto secondo Parte prima - Amleto si aggira sconvolto per le sale del castello. Incontro con Ofelia. L’ordine a Polonio di allestire una «grande tragedia: L’orribile as­ sassinio di Re Gonzaga». Parte seconda - Rappresentazione della tragedia a corte. Reazione violenta del Re, che fugge..

Atto terzo Parte prima - «Pazzia di Amleto»: uccisione di Polonio; l’accusa al Re e alla madre. Parte seconda - Rivolta guidata da Laerte. Pazzia di Ofelia. 1 Nella lettera scritta in tale data a Faccio, Boito, annunciando il completamento del libretto, cosi si esprimeva: mi pare di rinvenirvi l’idea di quel tale melodramma cosi fatto, presentito, so­ gnato, invocato dall’arte e un pochino anche dal pubblico.

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Guido Salvetti Atto quarto Scena dei becchini al cimitero. Funerali di Ofelia. Duello tra Laerte e Amleto, Amleto atterra Laerte e si scaglia contro il Re, uccidendolo.

Nella partitura autografa risulta una seconda parte del quarto atto, forse rappresentata a Genova nel 1865, ma tagliata nella versione scali­ gera del 1871, come d’altronde sostiene anche il Nardi1. In quella prima versione l’uccisione del Re non avveniva a conclusio­ ne del duello con Laerte, ma era riportata nella sala del castello e veniva seguita dalla morte dello stesso Amleto. La riduzione dei duelli, delle morti e, insomma, della «catastrofe» tragica in un unico quadro rispose a quella rassegna (senza ripetizioni) delle situazioni salienti fondamenta­ li, che, dicevamo, unicamente guidò Boito nel lavoro di riduzione dei tempi. Che poi la «riduzione» non risponda affatto a intenzioni di adegua­ mento melodrammatico, ci è subito confermato dal ritrovamento pres­ soché intatto, nel libretto, di situazioni shakespeariane che solo un acce­ so intellettualismo poteva ritenere operistiche: si pensi ad esempio al monologo di Amleto, mantenuto in tutto il suo allucinato sgomento ra­ ziocinante: Essere o non essere! codesta la tesi ell’è. - Morir? - dormire - e poi? Finir le angosce di quest’egra e lercia di carne eredità con un letargo!... Morir? - dormire - e poi?... - Dormir - sognare Qui si dismaga l’intelletto; ...

Oppure si osservi il lungo racconto dello spettro, significativamente svolto in terzine dantesche: Tu dèi saper ch’io son l’anima lesa del morto padre tuo, su cui lo sdegno dell’Eterna Giustizia incombe e pesa. 1 boito, Tutti gli scritti cit., p. 1531. Analoga indicazione sta in de rensis, L’« Amleto » di A. Boito cit., p. 23. Lo stesso De Rensis mette a raffronto il manoscritto originale del 1862 con il li­ bretto di Genova da cui risulta un certo ampliamento della parte di Ofelia e alcuni accorciamenti nel monologo di Amleto (secondo atto) e nella scena dei becchini (quarto atto). L’opera andò in scena al Carlo Felice di Genova il 30 maggio 1865. La «Gazzetta di Genova» del 31 maggio riferiva sul discreto successo della rappresentazione, applaudita alla fine del primo atto, al duetto di Ofelia e Amleto e al finale del secondo atto, alla canzone di Ofelia del terzo, alla marcia funebre del quar­ to. Come si vede il pubblico dimostrò di gradire solo i punti che meglio potessero assimilarsi ai pezzi chiusi (vocalistici, o «di colore») tradizionali. La stessa «Gazzetta» giudicava l’opera piuttosto povera di «melodia all’antica», pur apprezzandone la «fine e varia armonizzazione» e il «nutrito strumentale» (vedi s. martinotti, Angelo Mariani direttore e musicista nel suo tempo, in «Studi Musicali», 11, 1973, n. 2). Ricordiamo che la ripresa avvenne alla Scala il 9 febbraio 1871, con esito disastroso, dovuto anche, tra le altre ragioni, ad una serie di malattie tra i cantanti principali che avevano costretto a frettolose sostituzioni e a prove lacunose.

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Me stesso fei per mio fallire indegno ed ora le colpe della vita lieta purgo col foco del dolente regno.

Oppure il lungo dipanarsi del lamento di Ofelia; o Fagitarsi impaurito del Re e della Regina in lunghe perorazioni concettose. Rispettata in tal modo la complessità letteraria della fonte shakespea­ riana, è poi la ricerca letteraria dello stesso Boito ad immettersi in que­ sto singolare libretto, senza alcuna mediazione che sveli un minimo di rispetto per la specificità del genere operistico. Qui ritroviamo pari pari (a nostro parere ottimamente espresse) tutte le ricerche salienti del Boi­ to poeta letterato. Il fin troppo famoso Dualismo \ con il tipico procedimento ad antite­ si non mediate, penetra in molti monologhi, soprattutto quelli del Re. Ricorderemo il «Requiem» del primo atto: Requie ai defunti. - E colmisi D’almo liquor la tazza. Oriam per essi. - E il calice Trabocchi sull’altar.

dove è appena il caso di sottolineare anche la violenza compiaciuta delFimmagine dissacratoria. E ancor meglio, nel terzo atto: O Padre nostro, - che sei nel cielo, Sii benedetto, - nel tuo splendor... Pregan le labbra, - ma son di gelo Anima e cor. Venga il tuo regno - e sulla terra si compia l'alta - tua volontà Ah! che un demonio - pel crin, m’afferra. Pietà, pietà!

Altrettanto diffuso è il compiacimento per un sentimentalismo flebile (alFAleardi12?), soprattutto per il personaggio di Ofelia: 1 Cosi s’intitolava la raccolta di poesie del 1863. La prima analisi esauriente del «contrasto in­ componibile» che è alla base della stessa personalità del Boito, ci sembra quella compiuta da nardi, Scapigliatura cit., pp. 151-71. 2 Sul «Figaro» del marzo 1864, Boito aveva condotto un’analisi precisa sui Canti di Aleardo Aleardi, pronunciandosi in genere contrario a tutto quanto di paludato ed aulico quella poesia con­ teneva, ma affermando «in molta parte essere tutto musica quel bello che caramente emana dalle sue poesie». Le distanze che Boito, in questa ed altre occasioni, prende dall’Aleardi, non sembrano però al Mariani {Storia della Scapigliatura cit., p. 302) tanto ampie da non potersi cogliere quanto nell’Aleardi sia «ricco di svolgimento e di riprese nella poesia della Scapigliatura». Ed è quel suo «mondo poetico assolutamente contrastante nelle sue linee in cui l’invecchiato aulicismo di certe pagine cozza con l’espressività modernissima, quasi presimbolista di altre conviventi accanto a re­ sidui della piu fragile Arcadia».

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È un sonno forte Quel della morte!

O anche: Sugli occhi tanto azzurri e tanto belli Seminerò due grani di napelli.

Ciò significa, ci sembra, una ricerca lessicale sempre vigile all’allargamen­ to dell’area linguistica propria del melodramma, sia nella direzione del sublime (gli scoperti riferimenti danteschi dello spettro), sia in quella del sentimentale (Ofelia), o — ad esempio nella beffa sarcastica dei bec­ chini - del volgare realistico: Cacciamola giù! Mors tua, vita mea. Gli è un gotto di più.

Il personaggio di Amleto raccoglie in sé tutto questo vasto universo lin­ guistico, divenendo veramente protagonista di una ricerca letteraria che si infiamma, però, soprattutto, nelle tonalità violentemente sarcastiche e beffarde: O re ladrone! Che rubi e insudici Troni e corone,

O Re assassino! T’indraca in sordide Orge e nel vino, Re Pulcinella ! L’hai fatta orribile La gherminella,

A differenza del Praga, quindi, che, nell’entrare nel gran palazzo dell’o­ pera, lascia dietro alla porta tematiche e ricerche letterarie - tranne quel­ la propensione sentimentalistica predecadente1 -, Boito investe con tut­ ta la forza di cui è capace il diverso «genere» proponendo al giovane Fac­ cio un enorme impegno di ricostruzione drammatica da una materia - ric­ ca, certo - ma anche nel complesso disorganica e velleitaria. Franco Faccio dimostra, con questa partitura, di aver pienamente 1 Si veda ancora, a questo proposito, il magistrale saggio di nardi, Scapigliatura cit., nel capi­ tolo L'involuzione, in cui si mostrano gli elementi decadenti dell’arte e della vita del Praga.

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compreso l’impegno nuovo a cui era chiamato. Il suo Amleto non somi­ glia affatto, tanto per intenderci, a quanto molto disinvoltamente farà quindici anni dopo il buon Bottesini, musicando Ero e Leandro senza ricavarne alcuno stimolo alla ricerca e alla critica. Qui l’impegno è sco­ perto, e si pone su un piano di sperimentalismo direttamente desunto dal tipo di libretto. In parte l’impegno (che potremmo dire di «dignità drammatica») passa attraverso strade già accennate nei Profughi', prima di tutto attra­ verso una cura «sinfonica» fuori dall’ordinario, sia nell’individuazione di episodi strumentali autonomi, sia nella costruzione di un ambito sinfo­ nico complesso in cui le voci si inseriscano. Per il primo aspetto citere­ mo la vastità fonica del Preludio del primo atto, ottenuta con stereofoni­ ci effetti di ottoni in orchestra, dialoganti con ottoni sul palco, quasi pre­ messa all’idea-base del Prologo del Mefistofele. Preziosissimo è poi il Preludio alla scena dello spettro, orchestrato, con stile cameristico e se­ vero, per violino solista e quattro violoncelli. Altrettanta cura crediamo di scorgere anche nella ricostruzione sonora di bande e suonatori in scena durante le scene di corte: ballabili fortemente caratterizzati

o ricostruzione addirittura di uno stile antico «che sa di muffa», come dice Amleto: Suonatori in scena con arpe viole e lironi Andantino

La partecipazione sinfonica alla vicenda è poi intessuta di luoghi interes­ santi, di soluzioni in gran parte inedite: l’enigmatico passaggio del cla­ rone, con funzione sospensiva, prima dello scatenarsi dell’Orgia, nel se­ condo atto - idea ripresa, con il clarinetto in La, nel corso della rappre­ sentazione dell’«uccisione del Re Gonzaga» quasi ad interrompere anche

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li il convulso accavallarsi degli elementi con una livida luce di contem­ plazione tragica. L’immagine timbrica più frequente ricorda anch’essa uno spunto pre­ sente nei Profughi', lievitazione verso l’alto dell’orchestra, con accordi eseguiti dai violini divisi. Il personaggio di Ofelia, già dal suo primo in­ gresso l, è sostenuto da violini all’acuto in sordina. Così pure nella secon­ da parte del terzo atto, tutta dominata dalla pazzia di Ofelia, è frequen­ tissimo l’uso di violini primi nell’acuto, appoggiati soltanto dai secondi violini; il tutto fermo sull’accordo di La maggiore (Lohengrin\ ) L’impegno linguistico di Faccio non si ferma, comunque, a questa ricerca timbrica. L’adeguamento di tutte le altre strutture all’assunto intellettuale del Dramma è persino più scoperto. Non si tratta solo del­ l’abolizione quasi totale della forma chiusa (recuperata solo per il perso­ naggio di Ofelia, a fini di caratterizzazione della fragilità un poco infanti­ le del personaggio). Si tratta ancor più di una rottura totale di simme­ trie e di corrispondenze nel concetto di melodia (lacerata metricamente dall’intenzione di aderire al complesso agitarsi dei concetti del testo) e parimenti nel concetto di accompagnamento. L’abbandono delle formu­ le «fisse» di accompagnamento, l’adozione al loro posto di un fine gioco di controcanti, o di accordi tenuti (per rilevare la declamazione), sono sicuramente gli aspetti più innovatori nei confronti delle vecchie struttu­ re. Non è di poco peso il fatto che proprio questa ricerca coincida — ve­ dremo - con quella del primo Mefistofele, iniziato molto probabilmente l’anno dopo la prima di Amleto. L’allargamento dei mezzi linguistici (si noti anche, nella ricerca armo­ nica l’uso di dissonanze «pure»): Es. 13

si confronta quindi con la complessità del dramma. E ne nasce una capa­ cità nuova di aderire alla mutevolezza tormentata del testo di Boito. Ab­ 1 La Sortita di Ofelia «Dubita pur che brillino» è l’unico brano che l’editore ritenne commer­ ciabile, stampandolo in partitura. Altri brani pubblicati, nella riduzione per canto e piano di mano dell’autore: a) monologo di Amleto; b) Atto primo, Parte seconda (festa al castello e «Orgia»); c) Sortita di Ofelia.

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biamo citato il «Requiem» e il «Padre nostro» del Re, lacerati da uno schema dualistico rigido: osserviamo ora, nella partitura di Faccio come, ad esempio, nel «Requiem», in corrispondenza alle parole «sacre» il tempo sia di 2/4, con accordi tenuti, orchestrati da corni e trombe; le espressioni beffarde siano collocate in battute di 3/4, con ritmi rapidi di semicrome, a tutta orchestra. E cosi, anche se meno schematicamen­ te, ogni volta che ci sia opposizione di concetti e di toni. Con tali mezzi Faccio affronta la scoglio più arduo, quello del lungo «meditare» dei personaggi maggiori, prima di tutto Amleto. Lo svolger­ si del pensiero attraverso concetti! Quanto di meno operistico! Ma è proprio la libertà metrica della melodia — la sua indipendenza da ogni ri­ gidità di «accompagnamento» - a rendere possibile un primo approccio alle strutture testuali. Si osservi, a questo proposito, come l’inizio del fa­ moso monologo sia, in termini di declamazione, assolutamente accetta­ bile: Amleto

8

Es-se-re

o non

es-se-re

co - de-stala te-siel - l’è

La voce è sostenuta parcamente soltanto dai primi violini nell’acuto, dai secondi, divisi, e dai violoncelli. Un poco più regolare l’impianto delle scene di Ofelia: una certa sere­ nità formale si riflette, in esse, anche negli interventi di Amleto Amleto

Es. 15

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Ma è proprio l’articolarsi di una tavolozza linguistica molto ricca a per­ mettere questa adesione all’intimo trasformarsi del protagonista, segui­ to fedelmente dal musicista - con diversi mezzi - anche nel tono beffar­ do defl’invettiva contro il «Re ladrone» (cfr. es. 16). Crediamo però di avvertire, nell’interpretazione musicale di Faccio, alcuni limiti nell’adesione alla «letterarietà» del testo di Boito. Per quanto ricca e libera si faccia la sua tavolozza (e con questo si mostri capace di seguire molte delle complicazioni concettuali del testo), il mu­ sicista rifugge, nelle scene di massa del primo e del secondo atto, dal procedimento di Boito di disporre un gran numero di interventi lun-

ghi uno dopo l’altro. Si veda ad esempio come nella prima scena Amleto esordisca con tredici endecasillabi di seguito, e il Re parli con Amleto, per ben diciassette endecasillabi, e cosi via. Il musicista, pur rischiando di rompere la coerenza logica di questi discorsi, sceglie allora la via della sovrapposizione, volgendo l’attenzione più ad un risultato drammatico complessivo, che all’analitico intervento dei singoli. Nel primo atto l’in­ tervento di Amleto è quindi liberamente e continuamente interrotto dai cori festanti, dagli inviti alla festa del Re e di Laerte, dall’ingresso di Ofelia, di Marcello e di Orazio. Si crea in tal modo un duplice sfondo: quello dei canti e delle danze, quello della meditazione amara e continua di Amleto; poi, mutevoli, in primo piano, i personaggi più vari, con in­ terventi brevi e gesti veloci. Nel secondo atto lo sforzo di Faccio si concentra sulla necessità di svolgere, sì, ininterrottamente la recitazione di Re e Regina Gonzaga, ma di non collocare dopo, a parte, le invettive di Amleto, la crescente agitazione del Re, i vari commenti dei cortigiani. Da qui la più ardita delle sovrapposizioni dell’opera: sullo sfondo la recitazione del «teatro nel teatro», con un canto semplice retto da una orchestrina esile e mono­ tona, sul proscenio gli interventi veloci, i gesti vocali violenti, di questo o di quello, sostenuti da confusi fremiti in orchestra (cfr. es. 17). Anche di fronte ai lunghi monologhi di Amleto, di Ofelia, dello Spettro, ci sembra che l’intervento del musicista sia di segno più sinteti­ co, di quanto testi ricchi delle più svariate immagini possano permette­ re. Ci sembra cioè che proprio l’individuazione da parte di Faccio di un’ambientazione timbrica in genere fissa ed allucinata per gran parte di questi episodi tenda a fermare il carattere visionario degli stessi, ten­ da cioè a dare un’interpretazione «unica» di quei lunghi interventi, sen­ za poi penetrare veramente nel loro intimo tormento lessicale ed espres­ sivo.

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Es. 17

Suonatori in scena

Amleto

D’altro lato è proprio qui, nella scelta di una fissità antidrammatica ottenuta sia attraverso una orchestrazione volta a pure trasparenze nel­ l’acuto, sia attraverso un armonizzare in tali casi esasperantemente man­ tenuto in un seguito di accordi minori, (si pensi al seguito armonico del­ la marcia funebre di Ofelia1), che noi rintracciamo una delle premesse dei Profughi', quella di una sensibilità lontana sia dalle solidità costrut­ tive dell’opera verdiana, sia dalle sgargianti apparenze del grand-opéra] una sensibilità finemente intimista, nel complesso - si diceva - antidram­ matica. Il rapporto tra Boito e Faccio ci sembra, quindi, singolarmente com­ plesso: lo sperimentalismo letterario del libretto si dimostra indubbia­ mente fecondo per un radicale rinnovamento del linguaggio musicale, per nuove prospettive di dramma musicale, libero dal repertorio delle situazioni «canoniche». Eppure nella soluzione di Faccio si dimostrano anche i limiti della possibilità che quel programma potesse tutto attuar­ si in sede operistica, senza le opportune avvertenze alle esigenze specifi­ che dello spettacolo. Di enorme interesse sarebbe, a questo punto, poter disporre della partitura del Mefistofele prima versione, quello cioè composto tra il 1866 e il 1868 (quindi tra la prima e la seconda rappresentazione delRe minore - La minore - Re minore - Mi minore, ecc.

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V Amleto} e caduto tanto ignominiosamente alla Scala nel 1868. Ma que­ sta partitura, come si sa, è stata distrutta dall’autore in occasione del ri­ facimento del 1875: ed allora, per definire il rapporto tra il programma di «letterarietà» del poeta Boito e l’effettiva incidenza di questo sull’o­ pera in musica, siamo costretti a basarci sul libretto del 1868, ma anche, fortunatamente, sulle notizie dirette ed indirette che sulla partitura del 1868 possiamo ricavare osservando il manoscritto di Boito, recante al­ l’interno (in altra grafia e su diversa carta) le parti rimaste intatte o po­ co modificate della prima versione: PARTI RIMASTE

PARTI RIFATTE

PARTI AGGIUNTE

PARTI TOLTE

Prologo

Tutto l’intervento di Mefistofele. Gli episodi orchestrali. L’episodio corale « Ave signor». L’episodio corale «Siam nimbi ».

Una strofe dei Serafini.

Tre dei quattro interventi delle Penitenti.

Atto primo

La danza dell’«Obertas ». Introduzione orchestrale. Coro concertato «Guarda! quanti focosi destrier». Gli interventi dell’operaio e del borghese. Tutto l’intervento di Mefistofele «Son lo spirito che nega». Tutto l’intervento di Faust «Al soave raggiar di primavera» e «Dai campi lai prati». La seconda parte di «Al soave raggiar di pri­ mavera». L’intervento di Mefistofele «Fin da stanotte» sino alla fine. .Rifatti testo e musica di «Se tu mi doni» di Faust. Il contrasto Faust-Wagner con tutta la parte in stile «fugato» del pedante Wagner. Tutta la riflessione di Faust sul Vangelo. L’episodio di Faust «Pon la mia scienza l’in­ ferno nell’Eliso. Ivi il mio spirto vagolerà tra i filosofi». Atto secondo Il breve preludio, fino al dialogo Margherita-Faust escluso. Intervento di Faust «Ascolta, vezzoso angelo mio». Le risposte di Margherita. Il finale della scena del giardino. Tutto l’inizio del Sabba. Intervento di Faust «Folletto, folletto». L’intervento del Folletto: «Zig-zag». Tutto l’episodio di Mefistofele «Largo, largo a Mefistofele». Episodio corale « Rampiamo, rampiamo ». La parte relativa alle parole di Faust e Mefi­ stofele «Orrido un lume», «È Dio Mam­ mone», «Infuria il vento», «Hai sotto un precipizio» fino a «S’agita il vento» com­ preso.

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PARTI RIFATTE

PARTI AGGIUNTE

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PARTI TOLTE

La danza delle streghe. Accorciato il coro «Re! Re! Re! » La conclusione «gridata» di «Ecco il mondo». Gli interventi dell’orca Lilith, del primo stregone, del Coro («Scope, rampon») di Mefistofele («Ve’ come l’infernal ciur­ ma»). Intervento di Mefistofele «Popolo, scettro e clamide». Modifiche della parte vocale di Faust in «Stupor, stupor». Amplificazioni a «Ridda e fuga infernale». Terza strofe di «Ecco il mondo». Episodio di Mefistofele «Ecco il mondo». Il coro «Riddiamo, riddiamo». Gli interventi di Faust, Mefistofele e Lilith nel corso della Ridda infernale. Atto terzo

Declamato di Margherita fino alle parole «ho affogato il fantolino mio». Introduzione orchestrale. Il Lento non troppo «Rivolgi a me lo sguardo» di Faust. I momenti realistico-grotteschi nel canto di Margherita: «La folla s’accalca»; e simili. L’Allegro Agitato di Faust «Deh ti scongiuro, fuggiamo». Episodio di Margherita: « L’altra notte in mezzo al mar». L’episodio «Lontano lontano». L’Agitato prima di «Spunta l’aurora». Il «parlato» di Margherita. Intervento di Mefistofele «Cessate, cessate». L’episodio corale «come nel prologo». L’ultima parte dell’allucinazione di Margherita, con aggiunta di parti di Mefisto­ fele e Faust. Intervento di Margherita «O Dio m’aiuta». Il coro «Padre santo». La parte di Faust nel concertato finale. Episodio «Spunta l’aurora pallida». Atto quarto

Dall’inizio dell’atto a tutto l’arrivo di Faust (con modifiche marginali nell’orchestrazione). Episodio di Faust; «Forma ideal purissima». Concertato «Dal tuo respiro pendo e me chiamo beata ». Duetto Faust-Elena da «Amore! misterio celeste» fino alla fine. Intervento di Elena: «O incantesimo, parla! » Epilogo

Prime 8 battute.

Tutti gli interventi di Mefistofele durante la morte di Faust. Tutta la prima parte del monologo di Faust, dove si rivolge alle streghe. La parte di Faust durante il Coro angelico. Secondo episodio di «Or giunto al passo estremo». La parte corale «Siam nimbi». Intervento di Mefistofele dopo la morte di Faust.

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Occorre ripetere, per il primo libretto del Mefistofele, la stessa osser­ vazione che abbiamo fatto a proposito di Amleto : s’impone una dichia­ rata volontà di aderire al grande testo letterario senza intento di ridu­ zione librettistica. Nel caso del Mefistofele di Goethe, il confronto im­ mediato, in quegli anni, era col Faust di Gounod, che, dalla complessa materia originaria, aveva isolato, in fondo, solo la traccia amorosa, con­ cludendosi appunto con la morte di Margherita e venendo a coincidere, pressappoco, con il primo Faust goethiano. La volontà di Boito fu di ri­ farsi a tutto il Faust, poiché, come scrisse, «il secondo Faust è la conti­ nuazione ed il complemento necessario del primo». Ma, se il primo Faust avrebbe anche potuto uniformarsi ad una convenzionale trama amoro­ sa, il secondo significava già l’immissione in campo operistico di figura­ zioni politiche (la scena nel Palazzo Imperiale e la Battaglia), mitico-classiciste (la Notte del Sabba classico), e morali (la salvazione di Faust co­ me innalzamento del protagonista ad una visione civile e politica della felicità) \ In particolare, con la scena nel Palazzo Imperiale, stando al libretto, Boito si era costituito una occasione non del tutto dissimile da quella del secondo atto dell’Amleto : anche qui una «finzione scenica nella fin­ zione» (il teatro fantastico), anche qui interventi dei personaggi (Faust e Mefistofele), e i commenti del pubblico dei cortigiani. Ampio metricamente e di lunga estensione era poi l’intervento del­ l’imperatore, destinato a proporre immagini di decadenza civile e poli­ tica. Gli interventi della folla seguivano il gusto tipico di Re Orso: quel­ lo di affastellare rime e brevi versi in rapido turbinio di parolez: Nuovo buffone, Nuovo ladrone, Nuovo padrone, Nuovo terror.

Dell’Intermezzo sinfonico «La Battaglia» ci rimane il programma, anch’esso carico di significazione filosofico-politica: la battaglia delle truppe dell’imperatore, contro le forze del Male e a difesa della Chiesa, ha l’incredibile appoggio di Mefistofele: e Boito non si lascia sfuggire, in nota, una compiaciuta sottolineatura della chiaroveggenza di Goethe nell’ideare questa alleanza! 1 Si può osservare però come in Boito diventi «-estatica visione» e «sogno» quanto in Goethe è concreto «stridio di vanghe», di una turba umana che, faticosamente, strappa la terra al mare con la costruzione delle dighe. La carica politica dei versi goethiani «Nur der verdient sich Freiheit wie das Leben, I Der tàglich sie erobern muss! » è praticamente assente nella versione di Boito. 2 Fin dai tempi della Ballatella, dedicata a détto Arrighi e apparsa sulla «Cronaca grigia» del i° gennaio 186.5, Boito aveva dichiarato di amare i giochi di parole: «Se vuoi sapere [...] lo scopo

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La presenza della scena nel Palazzo Imperiale e della Battaglia ven­ gono poi a coincidere con una serie di motivi di riflessione morale (in senso lato) disseminati negli altri atti ed aboliti anch’essi nella nuova versione. Nel primo atto figurava, nella scena della Domenica di Pasqua, una gustosa caricatura del Borghese: Mi talenta, in Domenica, - cianciar di guerre e d’armi. E intanto che si squartano - laggiù in Turchia, succhiarmi Un buon gotto e coll’animo - sempre lieto e loquace Ritornarmene a casa - e benedir la pace.

Piu innanzi il confronto Faust-Wagner era insistito e considerato degno da Boito addirittura di una nota esplicativa: «Wagner, tipo di pedante scipito e pretenzioso, sta al tipo ideale di Faust come la scimmia sta al­ l’uomo, come il pedagogo al poeta». La nota avvertiva che, per sottoli­ neare la goffaggine di Wagner egli canta sempre «in istile fugato». Ci pare altrettanto significativa la presenza in questo libretto di tutta la ri­ flessione religioso-filosofica di Faust, al ritorno nel suo studio: «In principio era il Verbo». Qui già risto. Chi a proseguir m’aita? Dar tanta possa al Verbo indarno io tento. Se m’acuisce lo spirito il senno, Altra chiosa farò. Scriver degg’io: «In principio era l’Ente». Eppur, vergando ciò, segreta voce Mi disconsiglia. Ma il superno spiro Mi viene a guida e fidente trascrivo: «In principio era il fatto».

In nota, come si sa, Boito precisava di aver voluto tradurre «That» con «Fatto» e non con «Atto» (come è in Gounod), proprio per ribadire la propria convinzione materialista. Anche il patto con Mefistofele, alla fine dell’atto, si colorava di una precisa significazione culturale: ... Pon la mia scienza L’Inferno nell’Eliso. Ivi ’1 mio spirto Vagolerà co’ filosofi antichi.

Degli altri atti ricorderei soprattutto un’altra presenza di riflessione morale: quella del monologo di Faust, dopo l’apparizione delle streghe \ in cupa meditazione sul proprio peccato di superbia. [di questa mia poesia], ti dirò che non è né filosofico, né politico, né religioso; ho voluto semplice­ mente esercitarmi nella scabrosa rima in iccio». 1 Nella nota all’inizio dell’atto quinto Boito scrive: «Goethe mette nel principio di questa see-

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Di altro significato, ma pur sempre confluente con il «nuovo» melo­ dramma che si voleva edificare, è un’altra serie di aspetti, avvertibili nel­ le scene di massa. Esse, nella versione definitiva, non si differenziano molto dalle abituali situazioni d’effetto, ottenute con movimento di mas­ se corali ed orchestrali in funzione di conclusione grandiosa del quadro (il Prologo), dell’atto (il Sabba romantico), dell’opera (il Coro angelico finale). Nel libretto del 1868 invece si riscontra che tutte queste parti sono state posteriormente di molto amplificate (di questo fa testo anche il confronto delle pagine aggiunte in partitura, come ad esempio la «Rid­ da e fuga infernale» inserita probabilmente ancor successivamente al 1875). Si riscontra anche che l’effetto di massa non interessava a Boito più delle immagini e dei concetti portati in tali casi da interventi di sin­ goli personaggi: nel Sabba vi era un arguto intervento del Folletto, se­ condo un gusto tutto letterario e «scapigliato»: Zig-zag, zig-zag L’incerto volar, Zig-zag, zig-zag, non so raddrizzar.

Anche la strega Lilith aveva funzione di rompere ogni compatto effetti­ smo di massa con le sue immagini grottesche e macabre: Sul candido seno di vergine esangue Trovai questo ferro che gocciola sangue;

Un altro aspetto del libretto del 1868 va rilevato: il personaggio di Margherita intonava versi di gusto realistico che offrivano un saporoso incontro con altri versi più sentimentali. Ad esempio, dopo L’altra notte in fondo al mare Il mio bimbo hanno gettato

che noi tutti ricordiamo (con la musica del 1875) come fonte di lacrimo­ sa commozione, si trovava: Tutti cantano canzoni Su di me, - m’han messa in favola, Cosi fan le rime e i suoni. He is a he! na quattro larve intorno a Faust, le quali proferiscono parole oscure e sinistre; ciò che Goethe col­ locò sul palco noi lo collochiamo in orchestra...» Siccome però tutta la parte relativa alle streghe, nel monologo di Faust, venne abolita nella versione del 1875, è molto probabile che il preludio or­ chestrale che oggi noi conosciamo sia diverso da quello «delle streghe».

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Che è poi la spietata annotazione di Goethe sull’angoscia di Margherita rispetto al proprio buon nome. Ancora più innanzi, a conferma, trovia­ mo con Margherita, poco prima della morte (là dove noi conosciamo es­ serci «Lontano, lontano»): La folla s’accalca, - feroce, demente, Le strade, le piazze - son piene di gente. Che vuol quella folla, - quel rosso dimon, E questa campana - dal funebre suon?

Per avvicinarsi più accosto allo spirito del primo Mefistofele può es­ ser utile ora un’analisi delle parti rimaste intatte, per il cui elenco riman­ diamo alle pp. 596-97. Come si può vedere l’unico personaggio rimasto pressoché intatto è Mefistofele: i famosi pezzi del primo atto («Son lo spirito che nega») e del secondo («Ecco il mondo») sono del 1868, sen­ za alcuna modifica, neppure nell’orchestrazione. Al contrario, il perso­ naggio di Faust appare completamente rifatto. Il Faust che noi conoscia­ mo è propenso alla vocalità tenorile, è personaggio «amoroso» per ec­ cellenza; e questo perché lo conosciamo attraverso una serie di sfoghi belcantistici: nel primo atto «Al soave raggiar di primavera» (comple­ tamente rifatto), «Dai campi, dai prati» (rifatto), «Se tu mi doni un’ora di riposo» (idem), «Ascolta, vezzoso angelo mio» (idem), «Folletto, fol­ letto» (idem). Nel terzo atto sono aggiunte posteriormente tutte le me­ lodie che Faust intreccia con Margherita. Rifatta è pure «Forma ideal purissima» del quarto atto. Una indicazione di come dovesse essere in origine il personaggio di Faust ci può venire sia dal duetto del quarto atto con Elena («Amore! misterio celeste»), contenutissimo vocalisticamente, sia dalle parti che ancora figurano nelle vecchie pagine della partitura e che traspaiono chiaramente sotto alla cancellatura (la nuova parte è in genere scritta su altro rigo). In tutti questi casi il confronto ci convince che la trasforma­ zione del canto di Faust è avvenuta tendendolo verso l’alto, dandogli ampie esecuzioni tra i vari registri, togliendogli tutta la caratteristica di declamato che per quanto vario e commosso, ben si addiceva a chi — co­ me abbiamo visto - doveva cosi spesso intonare riflessioni di significato profondo. Del personaggio di Margherita abbiamo in parte già detto: come in Goethe essa doveva abbinare un leggero sentimentalismo con un rea­ lismo talvolta più corposo. E non intonava, in quella versione, pagine «romanticissime» come «Lontano, lontano», «Spunta l’aurora pallida». Nel contesto originario, quindi, soltanto il personaggio di Mefistofe-

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le aveva dei pezzi a solo, delle forme chiuse. Non crediamo di sbagliare nell’affermare che, in quel contesto, la forma chiusa, tradizionale mo­ mento* del belcanto e della commozione, veniva sbeffeggiata dal fischio e dai gestacci vocali di Mefistofele. Mefistofele veniva cosi ad incarnare la beffa goliardica che il lucido intellettualismo dello Scapigliato gioca­ va al borghese, e al suo desiderio di edonismo nello spettacolo d’opera. Le caratteristiche drammatiche, che tanto fervore di letterarietà del primo libretto immette nell’opera, sono quindi soprattutto le seguenti: nessuna centralità alla vicenda amorosa; il centro è caso mai occupato dalla vicenda interiore di Faust, dalla sua recherche', abolizione delle forme chiuse nel canto, tranne che il loro «negativo» in Mefistofele; in­ trusione di elementi propri della poesia scapigliata (come il gioco metri­ co e lessicale, come le beffarde riflessioni politico-moraleggianti), risolti in un «continuo» di declamazione. La complessità dei temi e la loro alta intellettualità spinsero poi sicu­ ramente il musicista a compiere un’operazione non molto dissimile da quella di Faccio, almeno per quanto riguarda l’abolizione pressoché to­ tale delle formule d’accompagnamento, a vantaggio di una assoluta liber­ tà di costruzione formale e di intreccio delle parti orchestrali con le voci. Citerei, tra le pagine rimaste del 1868, alcuni momenti della Domenica di Pasqua, caleidoscopici nel mutare del ritmo, dell’orchestrazione, dei procedimenti armonici: il tutto per aderire in piena libertà fantastica al movimento dei personaggi e delle masse, alla vitalità di tutta la scena. La forma chiusa, recuperata nel 1875 e nelle successive aggiunte, nasce proprio dal recupero di una nuova regolarità dei metri e delle tra­ dizionali funzioni canto-orchestra, scena-cantabile. Non è difficile però vedere che l’assenza di forme chiuse tradizionali nel 1868 ha il suo mo­ tivo in qualcosa di piu profondo: l’assenza di una funzione sentimentale dello spettacolo; l’esaltazione - tutta scapigliata - del ruolo critico, ri­ flessivo, polemico dello stesso. E quindi niente commozione. Crediamo di scorgere, in questo impianto del primo Mefistofele, il culmine cui poteva giungere il dibattito critico nel trasformare radical­ mente lo spettacolo operistico tradizionale. L’aspirazione diffusa di in­ nalzare a più alti destini il melodramma, quasi come - si diceva - una aspirazione a restaurare l’arte nazionale ed ufficiale della nuova Italia, non poteva forse produrre più profonde lacerazioni nel linguaggio mu­ sicale e, in genere, nell’impianto drammatico, di quelle che constatiamo nell’Amleto e ipotizziamo per il Mefistofele. Un giudizio su quelle operazioni non può rimanere all’interno dei testi esaminati; né può avere come punto di riferimento la disastrosa sorte dell’Amleto o quella del primo Mefistofele. Lo smacco, la caduta

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delle velleità, l’abbandono della battaglia mi sembra accomunino tutti questi interventi, di Praga, di Faccio, di Boito, nella storia dell’opera. In Praga il desiderio proclamato a parole di un’opera «ideale» decade al livello dello spettacolone ad effetto, art pompiere ed è uno smacco che siamo portati — anche non volendolo — ad accostare alla misera sorte della persona. Franco Faccio abbandonò la composizione: la sconfitta fu per lui l’abbandono del campo; significò l’impegno in altra attività, al servizio — per quanto glorioso — delle opere altrui. La sorte di Boito ci sembra la piu amara: egli si ridusse a trasforma­ re completamente il senso della propria ricerca, riconducendola punto per punto nell’alveo della tradizione, rinunciando cioè definitivamente a voler trasporre nel teatro d’opera una cultura piu vasta e profonda, una immagine più complessa dell’uomo, un pensiero critico. Non mi sembra però che la strada migliore per valutare questa scon­ fitta sia di chiedersi se Praga, Boito, Faccio avessero nei rispettivi cam­ pi capacità sufficiente di attuare le velleitarie intenzioni. Abbiamo anzi visto, almeno per Faccio e Boito, che non mancarono le capacità tecniche di far penetrare nel concreto del linguaggio musi­ cale l’intenzione letteraria, il programma estetico. Lo smacco ci fu perché quell’operazione non fu considerata spettacolo; perché cioè non c’era un pubblico disposto a valutarla come tale. Da qui l’evidente scissione tra un’arte nata nel chiuso delle discussioni di un gruppo ristretto e le esi­ genze del vasto pubblico dell’opera. Ed era, per quel movimento, un mo­ do per toccare con mano davvero la crisi della propria identità di intel­ lettuali nella crisi della borghesia postrisorgimentale. Ma poi, naturalmente, pensando anche ad altri clamorosi casi di in­ comprensione operista-pubblico (si pensi al Tannhauser a Parigi!) non si può fare a meno di aggiungere che ben labile doveva essere quella vo­ cazione ad un’arte nuova, tanto sbandierata, ma poi subito dimenticata! Un caso come quello del Mefistofele «normalizzato» non si spiega se non con una scarsa motivazione ai propri ideali, forse proprio per il fatto che, dietro la ricerca del rinnovamento drammatico, strutturale, lingui­ stico, non premeva alcuna vera esigenza di trasformare il ruolo, la fun­ zione, sia della letteratura, sia dell’opera in musica. Altri1 può dire que­ sta stessa cosa dicendo che, dietro all’antiborghesismo degli scapigliati, dietro al loro ribellismo, non c’era alcuna forza sociale portatrice davve­ ro di una nuova cultura; o, se c’era, essi non l’avvertirono; anzi, quello che perseguirono con tanti sacrifici e tante amarezze personali lo fecero, 1 Vedi ad esempio r. tessari, La Scapigliatura cit., nel capitolo L'impegno politico di un'a­ vanguardia ottocentesca, pp. 17-21.

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in fondo, proprio per «restaurare» rinnovando, proprio per ottenere una ufficialità culturale che ormai non era più possibile, in un’Italia che stava piuttosto identificandosi intorno alle esaltazioni scientiste del Bal­ lo Excelsior, o, più tardi, al falso populismo dell’opera verista. L’ambiguità culturale degli scapigliati nel loro intervento nella sto­ ria dell’opera non ci esime però dal valutare non soltanto il loro valore di testimonianza di una crisi di cui furono vittima, ma anche, proprio come nella letteratura, il valore di «anticipazione» di tanta tematica drammatica dei decenni seguenti. Certo, finché la storiografia musicale non seguirà che il filone Verdi-Puccini-Mascagni, non si vede quale va­ lore possano rivendicare i Faccio e i Boito. Ma se si comincerà ad avver­ tire la presenza di un filone antiverista, spiritualista e decadentista in tutta l’opera italiana di fine Ottocento e in quella del primo Novecen­ to, non si potrà non rifare la storia di queste opere ricercando i rappor­ ti sotterranei tra esse e l’ultimo Smareglia, Mancinelli, lo stesso Boito del Nerone, e poi Pizzetti, Ghedini, e quanti costruirono, sulle ceneri del vecchio melodramma romanticoverista, una presenza italiana — oggi si­ curamente innegabile - nel Novecento musicale.

Ringrazio la Casa Ricordi per avermi permesso la lettura delle partiture autografe dei Profughi fiamminghi, dell’Amleto e del Mefistofele.

GIORGIO PESTELLI

I Cento Anni di Rovani e l’opera italiana

E adesso, buon Cesario, cantaci solo quel fram­ mento di canzone, quella vecchia e antica canzone che udimmo la notte scorsa: mi parve che conso­ lasse molto il mio dolore, piu di tutte le arie leg­ gere e le frasi musicali artifiziose di questi vivaci e vertiginosi tempi. La notte delPEpifania, II iv

I.

Rivolti al passato (1750-1850), i venti libri dei Cento Anni di Giu­ seppe Rovani sono ricchi d’informazioni sulle idee e sul gusto musicale degli anni in cui apparvero, a sbalzi irregolari, fra il 1856 e il 1864. Non solo nel senso generale e pacifico che ogni scrittura porta i segni del suo tempo, ma piu coscientemente per l’assunto dell’autore - dover essere il romanzo «anche un trattato di estetica» - e per l’abituale confronto del passato col presente, nella convinzione che gli spettacoli teatrali «di so­ lito [siano] il frontispizio più fedele della condizione di un paese in un dato punto» \ Sicché, «sentiremo a cantare i tenori e i soprani del secolo passato al teatrino del palazzo Ducale [di Milano]; e prendendo le mosse da essi e con essi e cogli altri che lor tennero dietro, calcheremo per cen­ to anni il palco e la platea dei nostri teatri; e vedremo lo spiegarsi e il ripiegarsi e l’estendersi e l’accartocciarsi della musica»1 2: un invito so­ lenne e un poco favoloso (quel «sentiremo a cantare»), proclamato con una certa sopravalutazione della capacità di assorbimento consentita dal veloce inseguirsi delle appendici3. Un primo saggio di ricostruzione del «secolo passato» è posto da Ro­ vani all’apertura del romanzo (I 2), con l’avviarsi di tutto il racconto, secondo una ben accetta simulazione, dalla bocca di un finto narratore, 1 Per le citazioni del romanzo seguiamo il testo dell’edizione 1868, 2 voli., fratelli Rechiedei, Milano. Cfr. anche l’edizione con prefazione, note e commenti di B. Gutierrez, 2 voli., Rizzoli, Mi­ lano 1934. Nelle citazioni che seguiranno indicheremo con un numero romano il libro (I-XX) e con numeri arabi i paragrafi compresi nel libro stesso. Il presente passo, in Preludio d’intermezzo, apparve nella «Gazzetta di Milano» del 9 gennaio 1858 e non fu pubblicato in nessuna edizione successiva: è cit. in Gutierrez, ed. cit., I, p. 5. 2 Cento Anni, Preludio. 3 Sulla «Gazzetta di Milano», dal 31 dicembre 1856; cfr. P. nardi, Scapigliatura da Giuseppe Rovani a Carlo Dossi, nuova ed. Milano 1968, p. 253.

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«un tal Giocondo Bruni» incontrato dall’autore pellegrino alla casa na­ tale di Parini; il vecchio saggio, che a suo tempo «a Roma udì il Misere­ re dell’Allegri, a Napoli assistette al fiasco Armida di Jomelli» e a Torino «fece una rissa ferocissima di parole con l’Alfieri», comincia il racconto da una sera di carnevale dell’anno 1750, luogo la platea del re­ gio Ducal Teatro di Milano, occasione la Semiramide riconosciuta di Bal­ dassarre Galuppi. Al colpo d’occhio entro il teatro, il sipario provoca una prima vibra­ zione del contrasto oliminunc (già caro alla poesia classica), al quale Ro­ vani accorderà ampio raggio di risonanza: Il sipario rappresenta la primavera, trionfante sopra le altre stagioni, e co­ ronata da Minerva; bel lavoro dei fratelli Galliari, che oggi farebbe arrossire i nostri contemporanei della tolleranza onde lasciano che tutti i siparj de’ teatri in Milano offrano a’ forestieri la più misera idea delle arti nostre l.

Segue il dialogo di due spettatori, un milanese e un veneziano (lo spet­ tacolo per il momento è in teatro, non ancora sulla scena): Colei è una delle nostre più infocate dilettanti di musica; del resto non v’ha bella signorina in Italia, la quale, nel ricevere la visita d’un giovane cavaliere, dopo aver fatto pompa delle sue grazie, non passi al cembalo a cantare un’a­ rietta per rendersi più amabile. - Quella dama là della passionata [tale il nome del neo all’angolo dell’occhio] pigliò molti alla rete cantando l’arietta - Se tutti i mali miei - ed è così bizzarra che, quando di recente gli fu presentato un gio­ vanotto per essere il suo cavalier servente, così lo interrogò sulle qualità che lo dovevano far degno di quel posto: Signore, sapete la musica? - No, quegli rispose. — Ebbene, ripigliò la dama, andate ad impararla e poi venite a ritro­ varmi. La musica nel mondo galante è divenuta indispensabile; senza di essa un amante corre sovente pericolo di cadere in disperazione per non essere in istato di cantare un’arietta. - E quel cavalierino che ora siede rimpetto a colei, fu re­ spinto più volte dalla crudele, ed egli sarebbe morto se non avesse imparato a memoria quell’aria del Buranello: Ah che nel dirti addio Cara, morir mi sento...

che gli salvò la vita - e cosi press’a poco fan tutte...12.

Come si vede la commedia segue il canovaccio della frivolità sette­ centesca come il secolo seguente amerà ri trarla; col pennello di Mosè Bianchi ad esempio, o con la condiscendenza benevola che usa il grave Arnaboldi, prefatore dell’edizione italiana 1881 del Settecento della Lee 1 Cfr., quale esempio di sipario piu vicino a Rovani, Descrizione del Nuovo Sipario dell'impe­ riale regio Teatro alla Scala in Milano, dalla Tipografia del d. Giulio Feriario, Milano 1821. 2 Allusione mozartiana? È molto probabile, anche se Cosi fan tutte non fu più ripreso in Italia dal 1814 fino al 1872: cfr. w. A. Mozart, Cosi fan tutte, a cura di D. Berlocchi, Torino 1975, Ap­ pendice II a cura di G. Gualerzi, pp. 200-3.

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(al secolo Violet Paget, ma sempre detta «il signor Lee» in ossequio ad antichi rigori contro le donne artiste), che vede il Settecento e i suoi personaggi «avvolti tutti in una nuvolaglia di cipria, profumati tutti d’acqua di rose» ’, un luogo ameno ove distrarre lo sguardo dalle cure del tempo presente. Lo spettacolo sta per cominciare e la musica reclama per sé tutta l’at­ tenzione; Rovani muove dal dato tecnico1 2, in totale contrasto con la tra­ dizione più letteraria che parla di musica a parte subiectj e che aveva avu­ to in Stendhal il maestro supremo: Ma già i suonatori, incipriati anch’essi, eran tutti al loro posto in numero di trenta, e il primo violino, signor Belletti, aveva dato il primo colpo d’archet­ to. Il maestro Galuppi sopranominato il Buranello, il quale era il compositore della Semiramide riconosciuta, stava già alla sua spinetta, [...]. Seduto tra il con­ trabasso e il violoncello, aveva dietro di sé due viole da gamba, strumento soa­ vissimo, che scomparve per dar luogo alle catube, ai bombardoni, ai serpenti, ai pelittoni, e a tutto il parco di artiglieria della musica d’oggidl; e sedevano innanzi a lui due suonatori di flutte, due di oboè, due di corni. Il resto eran con­ trabassi, viole e violini.

O i delicati timpani degli scapigliati! per la scomparsa della viola da gamba la giuntura olimfnunc dà un nuovo rintocco, al quale può far eco in modo più esplicito una Nota Azzurra di Carlo Dossi: In musica, come in tutto, Rovani era italianissimo. Odiava la nuova scuola musicale che cerca di compensare la mancanza delle idee col fracasso de’ suoni e dicea di Faccio, di Boito e compagnia, spregiatori della Euterpe italiana «chi disprezza Omero non sarà mai Virgilio» 3.

Ma il fracasso militaresco dell’orchestra moderna, e la sua traslitte­ razione nel dominio dell’artiglieria4, è un topos passatista che accomuna i cervelli più lontani fra loro; né sarebbe piaciuto a Rovani o a Dossi tro­ varsi all’unisono con l’«epatico Botta»5 che nella dissertazione stampa­ ta a conclusione della Storia d’Italia continuata sino al 1789 tuonava: Io detesto coloro che vogliono disonorare la musica col ridurla da un’arte liberale, ch’ella è, ad una arte meccanica. I maestri sterili, cioè incapaci di tro­ 1 Cfr. v. lee, Il Settecento in Italia, Dumolard, Milano 1881 (Prefazione di A. Arnaboldi, p. xxin). 2 «Nei Cento Anni sentiamo uno scrittore, che non è un trattatista, parlare di musica senza scambiarla con i sentimenti che essa suscita. Questo scrittore non si cura quasi mai di descrivere l’effetto musicale; ma quasi sempre risale alle origini meccaniche di esso» (nardi, Scapigliatura cit., p. 51). 3 Cfc. c. dossi, Note Azzurre, a cura di D. Isella, Milano 1964, I, p. 440. 4 Cfr. nel presente volume, p. 29, la corrispondenza del 12 marzo 1845 sulla «amz» (conati, Saggio di critiche e cronache verdiane}. 5 Cento Anni, XII 4 e 8; cfr. anche per la distanza spirituale con Botta il ritratto biografico che Rovani ne fa in Storia delle lettere e delle arti in Italia, Milano 1855-38 (vol. IV, pp. 32-58).

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vare motivi nuovi, sono appunto quelli che danno nel fracasso: manca in loro la divina favilla e perciò fanno ciò che anche i venti sanno fare nelle elei cave. [...]. Questa è una età pessimamente corrotta: nella morale vuole la forza, nella musica il fracasso. I compositori sono diventati servi dell’orchestra, le quali sempre vogliono sbracciarsi per fare un gran rumore, e far vedere che sanno sonare le difficoltà ed eseguire il concerto, i cantanti sono soffocati ed obbligati di strillare, ed il pubblico, che ha perduto il cuore, ed è divenuto tutto orecchi, applaude; gente veramente da tamburi e da cannoni *.

Per Rovani il salvacondotto alla modernità in musica consiste nello sbertare il contrappunto , cui si oppone come valore positivo V espressio­ ne \ lo dicono sempre i due spettatori di prima indicando Galuppi alla spinetta: Come compositore vai più del nostro Lampugnani [Giovanni Battista], suo collega concertatore, il quale è un buon ambrosiano e un forte contrappuntista, ma quando non assorda fa dormire; codesto Buranello invece compone con molt’arte, va in traccia dell’espressione, e la trova;

e lo ribadiscono in seguito più facete postille, alla fuga della contessa Clelia, IV 2 («le fughe hanno sempre trovato entusiasti in tutti i tempi, ad eccezione di quelle in musica»), oppure al coro di Francesco Antonio Valletti cantato in casa del conte Alvise Pisani, IV io («E il coro fuga­ to venne eseguito tra gli sbadigli dell’adunanza, che esso stava alla mu­ sica come il Pape Satan Aleppe alla poesia, sebbene Tartini lo ammirasse e ne fosse compunto»). Rovani fa suo il credo dello Stile Galante, giu­ dica Y espressione come il fine della musica, e fuga e contrappunto li ese­ cra come sinonimi di conteggi, gerarchie, scuola e aule. Ma intanto comincia la rappresentazione; il sipario si alza sulla Babi­ lonia dei fratelli Galliari e il pubblico ne è abbagliato, tanto più che le scene «a quel tempo \olimlnuncy ancora] raggiungevano il più completo effetto, perché la quasi oscurità della platea concedeva tutto lo splendo­ re al palco scenico, e la ribalta non ancora riboccante di fiamme (che le lucerne ad argand s’introdussero posteriormente), permetteva che la di­ stribuzione della luce si facesse nel modo più conveniente e più propor­ zionato alle leggi prospettiche». Entrano i personaggi: comparve Semiramide tra gli applausi del pubblico, Semiramide in abito virile, sotto il nome di Nino, ed era la virtuosa signora Cassarmi, che cantò il recita1 Con questi argomenti consuona ancora, moki anni dopo, una Nota Azzurra di Dossi: «Ai moderni matematici della musica, questa non piace loro che pei problemi di acustica. Né ci vedono altro, né ci trovan di bello che numeri e combinazioni di numeri, che vibrazioni di onde sonore ecc. L’occulta famigliarità fra la musicale armonia e la bontà che s’indovina nelle opere antiche, è affatto perduta nelle moderne. Non dominano in questa che le dissonanze dell’odio» (Note Azzurre cit., Il, p. >48, n. 5421).

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tivo: Olà, sappia Tamiti, con quel che segue; dopo del quale venne fuori Sibari, o la seconda donna signora Ghiringhella, e li s’impegnava un lungo reci­ tativo intercalato di guaiti di violoncelli e viole, sino al punto che Semiramide, con solenne portamento di voce, diceva alla seconda donna: T’accheta, ecco Tamiti.

È il momento, in fine, di Ircano, cioè Angelo Amorevoli, uno dei pro­ tagonisti di tutta la storia, la cui comparsa produce «un movimento nel teatro, come quando il vento investe una selva»: tocco da grande boz­ zettista di accadimenti teatrali, spiati in anni di frequentazioni alla Sca­ la, alla Canobbiana, a Santa Redegonda, al Teatro Re, al Carcano *. «L’opera nel complesso annoiava anziché no», ma l’entrata di Amo­ revoli, «l’occulta passione delle donne», solleva l’entusiasmo della pla­ tea e accende nuove dispute nel pubblico e chiose nel relatore: - Vengano ora i musici - gridava un giovinetto - ora che finalmente questo Amorevoli canta come un uomo e non come una donna. Il tenore Amorevoli diffatto fu il primo che, per l’ineffabile dolcezza d’una voce naturale e pel gusto squisitissimo del suo canto fece sperare che col tempo si potesse far senza de’ musici. Ma cosi non la pensavano i vecchi, uno de’ quali diceva indispettito: — Tutto va bene, ma bisognava sentire Carestini a cantar quest’aria. Egli aveva gli estremi dei bassi e degli acuti, tanto che il Giardini tenore disse, che voleva farsi evirare per poter cantare il basso come lui. - E dove lasciate Cafariello? diceva un altro che portava ancora la parrucca a riccioiii; giammai uomo mortale spinse così lungi l’audacia del canto. E Bernacchi il patetico? - E dove lasciate Egiziello, il grande, l’unico Egiziello, il re dell’espressio­ ne? fu egli che nell’opera Artaserse fece piangere tutta Roma per questo solo accento: E pur sono innocente. E dopo lui Guadagni e Salimbens e Monticelli e Reginelli e Carducci e l’Elisi; se il men valoroso di costoro fosse qui, codesto Amorevoli non piacerebbe né poco né assai... Intanto si compiaccia a sentirlo. Per forza, non c’è altri...

Ora, nel tempo in cui il racconto si finge (1750), i castrati non erano certo un passato che potesse essere rimpianto e tutto il jeu parti andreb­ be ritardato di mezzo secolo, ai primi decenni dell’Ottocento quando, ad esempio, lascia traccia in un celebre luogo del Barbiere di Siviglia (II in Bartolo: «Ma quest’aria, cospetto! è assai noiosa; | La musica a’ miei tempi era altra cosa. | Ah! quando per esempio | Cantava Caffariel1 Cfr.

nardi,

Scapigliatura cit., p. 37.

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lo | Quell’aria portentosa la, ra, la...») e un più tardo rimpianto è an­ cora leggibile nel 1821 in una pagina di Andrea Majer ove il buon sen­ so rasenta l’efferatezza: Quello che è certo, è che l’apparizione dei castrati segna l’epoca più lumi­ nosa nei fasti del canto italiano. Queste voci artificiali sono sfortunatamente le più atte di tutte ad abbellire il canto ed a penetrare nel cuore colla più viva espressione degli accenti della voce umana commossa dalle varie passioni. Il divieto adunque della evirazione quanto è stato un provvedimento che onora la filantropia del secolo in cui viviamo, altrettanto è stato fatale ai diletti degli amatori della Musica, i quali non potranno più bearsi per l’avvenire colle voci di queste Sirene, che univano la forza ed estensione dell’organo maschile colla morbidezza e soavità del femminile. Avranno perciò giusta ragione i posteri di stupirsi, che in una delle epoche in cui si è fatto maggior scialacquo della ma­ teria umana vivente, la filantropia del secolo siasi limitata ad impedire la muti­ lazione di qualche dozzina di fanciulli, i quali, oltre al contribuire ad accrescere i piaceri innocenti della vita, facevano colare in Italia l’oro delle straniere na­ zioni 12.

Ad ogni uscita al proscenio lo sguardo' di Amorevoli va dritto ad un palchetto, ad incontrare un altro sguardo; qui finisce per il momento il «trattato d’estetica» ed incomincia il racconto con la prima circolazione di figure, con l’amore fra la contessa Clelia e Amorevoli, il testamento involato dal Galantino, l’arresto di Amorevoli, la fuga a Venezia di Cle­ lia seguita dal marito e tosto dall’amante. Nella ricostruzione di questo spettacolo galuppiano, «frontispizio fe­ dele delle condizioni di un paese in un dato punto», Rovani non sem­ bra incorrere nella censura contemplata nella Nota 3419 di Dossi3: «una volta nelle opere d’arte, che avevano per oggetto epoche anteriori a chi le concepiva, non c’era mai studio di costumi etc. tutto si piegava al tempo corrente, alla ispirazione momentanea, il che serviva mirabilmen­ te alla storia»; a parte la devozione senza condizioni di Dossi per Rova­ ni, per cui la censura in ogni caso non avrebbe corso, il confronto impli­ cito o manifesto fra passato e presente assicurerebbe all’autore, di Cento Anni un posto fra quelli che Dossi chiama «storici contemporanei». Tuttavia la sua conoscenza dei «casi della musica» del secolo xvm era inusitata nel suo ambiente, arricchita dalla sua pratica con le carte della biblioteca di Brera, dove ebbe impiego dal 1845 al ’47 e poi ancora co­ me scrittore diurnista dal 1851 al 18644; e il suo modo di sfruttare la 1 Cfr. per una simile struttura di rimpianto dell’antico, Cento Anni, XI 4: «Ma siccome ho sentito la Betulia liberata del maestro Guglielmi, dove cantava l’Ajugari [« Lucrezia Aguiari, "La Bastardella”] [...] che voce eh [...] marchese? che vocalizzi! che trilli! quelli eran tempi! » 2 Discorso sulla origine progressi e stato attuale della musica italiana, Padova 1821. 3 Note Azzurre cit., I, p. 337. 4 «E, difatti, l’assiduo contatto con tante anime insigni di trapassati gli mantenevano il sangue in feconda agitazione. Stampe che non avevano ormai piu lettori tornando sotto a’ suoi occhi, gli

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conoscenza erudita anticipa singolarmente la tecnica della Vernon Lee, il cui proclama nelle prime pagine del Settecento italiano sembra ripete­ re Rovani, o appartenere ad uno stesso filone di interessi: Studiando l’arte, fummo tratti per incidenza a studiare i tempi. Dietro il suono della musica di Pergolesi e di Cimarosa, volendo farci da presso alle Bettine e ai Lindori di Goldoni, ai Truffaldini, ai Brighella di Carlo Gozzi, abbiam fatto strada nel mondo quotidiano dell’Italia del secolo scorso ’;

e ancora: Il libro parla di letteratura e di musica, perché il punto di vista dello scrit­ tore non è né letterario esclusivamente né musicale, ma estetico in generale; perché lo scrittore ebbe di mira lo studio, non già della natura speciale e della storia di un’arte isolata, bensì i modi con che si costituirono e si svolsero le arti diverse paragonate l’una all’altra2.

Siffatti paragoni fra le arti corrispondono a quello che Rovani chiama le «reciproche rispondenze»3, o il cammino delle arti «a spina-pesce»4, resto dei parallèles settecenteschi su cui si è disputato recentemente5. Ma l’affinità non va oltre la superficie perché diverso è l’occhio dei due osservatori: per questo Settecento musicale Rovani non ha nessun rimpianto; il pendolo oliminunc batte per la musica con periodo diver­ so da quello della pittura: potrà rimpiangere lo scenario dei fratelli Galliari e l’illuminazione del palco, magari anche la viola da gamba in imba­ razzante vicinanza col Botta; ma «l’opera nel complesso annoiava anzi­ ché no», e il lungo recitativo era «intercalato di guaiti di violoncelli e viole». Nessuna nostalgia è possibile per questo Settecento, considerato con sufficienza perché preparazione a qualcosa che non è ancora venuto e che si chiamerà Rossini-, e che diventerà a sua volta Volim del gusto di Rovani. suscitavano, gli tributavano idee; pagine manoscritte come le Miscellanee del Frate di S. Ambrogio ad Nemus, esumate dalla polvere braidense, gli narravano fatti meritevoli di ricordo, momenti di vite illustri ed accumulavano mano a mano nel suo spirito il materiale prezioso donde dovevano erompere la nuova critica delle tre arti e il nuovo romanzo dell’Italia» (c. dossi, Rovaniana, cap. vi: In Biblioteca; cfr. Dossi, a cura di C. Linati, Milano 1944, pp. 920-21). Anche senza lasciarsi commuovere da quest’aura da Pimen milanese che Dossi dispone attorno a Rovani, è sorprendente il solo elenco di voci musicali incluso nelle biografie di Storia delle lettere e delle arti in Italia cit. 1 lee, Il Settecento in Italia cit., pp. 10-.11. 2 Ibid., p. 2. 3 Nel titolo completo della Storia, che suona: Storia delle lettere e delle arti in Italia giusta le reciproche loro rispondenze ordinata nelle vite e nei ritratti degli uomini illustri dal secolo xin fino ai nostri giorni. 4 Cento Anni, Preludio. 5 Cfr. g. baldi, Giuseppe Rovani e il problema del romanzo nell’ottocento, Firenze 1967, e nardi, Scapigliatura cit., pp. 9-10.

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Al contrario della piu usuale e fruttifera direzione di ricerca che va dal teatro drammatico e dal romanzo, considerati come fonti, al melo­ dramma ’, nelle pagine dei Cento Anni si è sollecitati piu volte a compie­ re il cammino opposto: constatando in un’opera letteraria, un romanzo (sia pure allargato, nuovo, ma forse più nelle intenzioni di chi l’ha scrit­ to che nella realtà), la presenza di una forma artistica come l’opera in mu­ sica che domina la fantasia dello scrittore e che diventa più volte un ter­ reno di intesa, un codice fra lui e il lettore. In tal senso i Cento Anni so­ no una testimonianza preziosa della penetrazione del melodramma in una certa fascia della società italiana; anche per il periodo in cui appaio­ no, 1856-64, anni cruciali per la storia dell’opera italiana, per lo sforzo di rinnovamento in cui è impegnato il suo massimo rappresentante e per le cure di salvaguardia e di riforma che il neonato Stato italiano intende praticarle. Muovendo dalle minime entità, correntemente si trovano inframesse nel dettato di’ Rovani locuzioni che risalgono alla letteratura libretti­ stica, come corpi estranei catturati da una lingua mobilissima: «L'amore è il sole dell'anima, ha detto e stampato Vittore Hugo» (ed anche Piave in Rigoletto I xn): si apre cosi I 8, e le carte son pronte per tratteggiare la notte d’affanno di Clelia innamorata di Amorevoli. Più avanti, separa­ ta da Amorevoli nel tempo e nello spazio, Clelia ne intravede le fattezze nel riso della figlia cinquenne (Ada) : mentre Rovani si sporge al prosce­ nio in pena per il suo cuore — «che brividi ella senti corrersi pel sangue nel sorprendere il fuggitivo baleno di quell’antico sorrisola (il corsivo è nostro) - è credibile che non ricordasse la celebre romanza del Trova­ tore (Il in)? Per Ada ragazza che si innamora del Galantino non più gio­ vane, Rovani giunge più consciamente alla citazione diretta, «E tutta as­ sorta in quel leggiadro aspetto [ Un altro ciel mirar credetti in lui» (Nor­ ma I vili: Adalgisa innamorata di Pollione trentacinquenne)1 2. 1 Fondamentale a questo proposito è il saggio di f. l. arruga, Incontri fra poeti e musicisti nell'opera romantica italiana, in Contributi dell'istituto di Filologia moderna, serie «Storia del Teatro», vol. I, Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 1968, pp. 235-90. Nello stesso volume è del pari ammirevole lo studio di F. cella, Prospettive della librettistica ita­ liana nell'età romantica, pp. 217-34, nel quale è anche contemplata (p. 233) quella inversione di corso (dal melodramma al romanzo) cui sollecita Rovani: «D’altra parte la loro influenza [dei li­ brettisti], la struttura e il ritmo ch’essi danno a determinate situazioni, le cadenze di certi atti, di­ ventano quasi un’iconografia romantica accolta dai grandi autori (le scene dei Promessi Sposi deri­ vate dalla commedia settecentesca e dal melodramma con temporaneo), scambio fertilissimo da ambo le parti, e che conferma il riconoscimento, già allora, di quelle forme accettate e ricercate». 2 Annota il Gutierrez a questo proposito: «Mentre Adalgisa non è infrequente nelle famiglie oneste, Norma è nome di guerra delle donnette marciapedanti» (in Cento Anni, ed. cit., I, p. 379).

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A volte si trovano scambi di battute che hanno il tono da libretto (Rovani ne scrisse anche uno, il Garila *); nelle prime righe del libro XI: - Domani vi aspetto, all’ora solita. - All’ora solita io sarò là.

Oppure (VII 7): - Chi?... quell’angelo?... - Quello appunto... ma oggi ha da volar via, e sei tu quello che gli dee far spiegar l’ali [cfr. inoltre \Jn ballo in maschera, finale, «quell’angelo tu sei!» e Lucia di Lammermoor, finale, «Tu che a Dio spiegasti l’ali»].

Ancora, la contessa delle Nozze di Figaro sembra apparire alle spalle del conte Achille S., quando questi riconosce (XIII 7) di possedere an­ cora dei «bei momenti»: un riferimento che l’ammissione connessa - «per usare una frase da teatro» — rende ancora più esplicito12. Innumeri poi le analogie e le similitudini retoriche che si cibano della dispensa melodrammatica; già altri hanno notato3 l’uso generoso di ter­ mini musicali per indicare parti del romanzo, Sinfonia del Romanzo (poi Preludio), Preludio d'intermezzo, caratteristica in cui lo seguirà Dossi che ripartisce La colonia felice in Preludio — Parte prima — Parte secon­ da — Finale, e La desinenza in «A» in Sinfonia — Atto primo — Intermez­ zo primo - Atto secondo — Intermezzo secondo — Atto terzo — Finale. E all’interno del racconto è un continuo lampeggiare di allusioni musica­ li, in particolare di attinenza operistica: Se non che il dialogo che s’impegnò fra questo e la bellissima danzatrice, e il terzetto a cui si allargò il duetto, al sorgiungere di Pietro Verri... (V 8).

... stiamo attendendo quel che sarà per succedere, giacché pare che il celebre se­ stetto della Cenerentola - O che nodo avviluppato - sia stato scritto espressamente dal maestro ne per essere poi applicato come epigrafe al nostro libro. (VI 1). O giovinette [...] non vi fidate mai della bella faccia e del bel vestito di un giovane ignoto [...] che rinnovi le pazzie del conte d’Almaviva sotto al vostro balcone. (Vili 6). 1 Per il Teatro Carlo Felice di Genova, carnevale 1839. 2 g. gualerzi, in Cosi fan tutte, ed. cit., p. 201, nota 3, dà notizia di alcune recite delle Nozze di Figaro al Teatro Carignano di Torino nel maggio 1869. 3 «Si osserverà che il Rovani [...] mostra una predilezione per il frasario musicale» (Gutierrez, ed. cit., I, p. 8); «Ricorrono continuamente i termini "aria”, "recitativo”, "cadenza”, "risoluzio­ ne”» (nardi, Scapigliatura cit., p. 52). Una fonte in tal senso può essere stata E.T.A. Hoffmann; ad esempio: «Non appena Ottomaro ebbe pronunziato la parola “magnetismo”, una prima lieve contrazione passò sul viso di Bickert, si propagò a tutti i muscoli in un impressionante "crescendo” per esplodere nel "fortissimo” di una smorfia cosi inverosimilmente buffa che il barone fu li li per scoppiare a ridere» (da 11 magnetizzatore, in hoffmann, Romanzi e racconti, Einaudi, Torino 1969, I, pp. 146-47).

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dobbiamo però incominciare il preludio della nuova opera seria con un andan­ tino allegro... (XVIII x).

e cosi [...] avremmo fatto l’istrumentale d'introduzione all1aria di sortita del te­ nore Amorevoli, che usci di fatto di prigione in primavera... (Ili 7). il signor Andrea che in quella sera, come il Beltrame del Roberto il Diavolo, lavorava con le occulte sue armi... (XI 9).

La Falchi pareva la Lucrezia Borgia nel famoso sestetto dell’opera di Doni­ zetti. (XIX 26).

Lo spirito del melodramma lascia impronte consistenti anche in epi­ sodi di più largo respiro e talvolta pare intervenire nell’invenzione di in­ teri episodi e negli accorgimenti tattici della narrazione. Ancora il Nar­ di1 notava che l’uscita dal carcere di Amorevoli (III 7), per via di «po­ che parole o frasi tecniche» riesce «a creare una situazione da melodram­ ma, e a comunicarla per via suggestiva al lettore»; ma la corrente melo­ drammatica avvertita dal lettore non è solo provocata dalla terminologia tecnica, ma anche dalla posizione delle figure all’interno del quadro, dal­ la regia con cui Rovani organizza il ritorno di Amorevoli fra gli amici e la gente di teatro. Il suo servo di palcoscenico, Zampino, potrebbe can­ tare un’aria buffa mentre rimette all’onor del mondo i costumi del pa­ drone: era bello vederlo a togliere da un cassone un elmo che aveva servito nella parte &Alessandro nelle Indie, e pulirlo colla seppia; toglier da un altro una daga con lama di damasco, che aveva brillato neWArtaserse, e strofinarla con panno lano;.sprigionare e spiegazzare un manto rosso tutto ricamato in oro, e met­ terlo a pigliar aria sulla ringhiera; e tirar fuori stili e stiletti d’ogni. sorta con foderi di velluto di tutti i colori...

una mano esperta di teatro fa tosto seguire un terzetto fra Amorevoli, la Gaudenzi e donna Paola Pietra; e quindi un finale d’atto con tanto di coro e tavola imbandita: prima cominciarono a parlare alcuni, poi ad uno ad uno entrarono tutti gli al­ tri col sistema precisamente degli stromenti d’orchestra; e col sistema del cre­ scendo rossiniano, allora nemmen sospettato dai maestri, quantunque fosse un modo spontaneo della combinazione dei suoni; tutti si confusero finalmente in quel poderoso e strepitoso unisono che compromette il timpano degli orecchi delicati. Quando poi corse il moscadello e il monterobbio, e le idee nei cervelli riscaldati cominciarono a far la ruota, non vi fu più ritegno né di parole né d’allegria. - Viva il tenore Amorevoli! - Viva il re dei tenori! 1 Ibid.

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Altre volte è possibile, oltre generici congegni melodrammatici, in­ travedere riferimenti a opere particolari. Almeno in un caso, il Don Giovanni di Mozart, il parallelo è traccia­ to coscientemente: l’opera, come è noto, non usci mai di repertorio1, fu modello a generazioni di aspiranti operisti1 2, nonché oggetto di una Appendice di Rovani sulla «Gazzetta di Milano»3 che è un documento non futile nella storia della fortuna italiana di quel capolavoro4. Già in occasione della festa in maschera al teatrino Ducale (II 5) un esplicito riferimento «intanto sentivasi la musica del minuetto, la quale con po­ che variazioni, era quella che introdusse poi Mozart nella festa da ballo del suo Don Giovanni, e oggi dì, con altre poche variazioni, rifece Verdi nell’introduzione del suo Rigoletto'» — ci mostra il romanziere attento a tracciare derivazioni, precorrendo una delle attività più ambite dalla critica moderna5. Ma in IX 8 non solo ritorna sull’individuazione della fonte, ma ripete in un episodio compiuto, quello della festa del marche­ se Alberico F., alcuni elementi della festa del Finale I del Don Giovanni. Clelia, Ada e il cocchiere si avvicinano al luogo della festa di notte, in un clima misterioso da «terzetto delle maschere»: Arrivata la carrozza dove il bastione inclina alla città, uno splendore straor­ dinario che usciva dalle piante di un giardino e una confusa armonia di voci e canti e suoni colpirono l’attenzione della contessa...

I tre si concertano sul da fare: - Non pensi a nulla signora contessa... . .. la contessa s’era come sgomentata al nome del marchese Alberico F. [Cfr. Don Giovanni} Don Ottavio: «Discaccia, o vita mia, l’affanno ed il timor»], 1 Cfr. P. petrobelli, «Don Giovanni» in Italia, in Mozart und Italien, Atti del Colloquium tenutosi nel marzo 1974 a cura dell’istituto Storico Germanico di Roma (in corso di stampa), e G. barblan, La fortuna di Mozart operista a Milano nell'Ottocento, ibid. 1 Cfr. m. mila, La giovinezza di Verdi, Torino 1974, p. 69. 3 In data 8 marzo 1871: Appendice - Teatro alla Scala I II Don Giovanni del divino Mozart. 4 Per la fortuna italiana del Don Giovanni cfr. Mozart und Italien cit. 5 Nell’Appendice della «Gazzetta di Milano» sopra ricordata, Rovani scriveva: «A Milano [Mozart] la fece da conquistatore e si appropriò tutte le cose del maestro Galuppi detto il Buranello, e tra l’altre il minuetto del quale Verdi fece la terza edizione»: mentre nel romanzo (IX 8) aveva detto che Mozart si era preso il tema in piazza, «affinché trionfasse la verità in tutta la sua schiettezza ne’ suoi drammi sublimi». È interessante notare che s. kunze nella relazione Die «Tanzszene» in Mozarts «Don Giovanni» al Colloquium sopra citato ha mostrato la parentela del minuetto del Don Giovanni con un Tempo di Minué da II duello di Paisiello. Per il rapporto del minuetto mozartiano con il Rigoletto vedi P. petrobelli, Verdi e il «Don Giovanni». Osservazioni sulla scena iniziale del «Rigoletto», in Atti del I Congresso internazionale di studi verdiani, Parma 1969, pp. 232-46, e g. Baldini, Abitare la battaglia, Milano 1970, p. 203; per il raffronto con U« giorno di regno I 11 (Edoardo-Giulietta: «Bella speranza invero»), cfr. f. abbiati, G. Verdi, Mi­ lano 1959, I, p. 3»; J- buddf.n, The Operas of Verdi, London 1973, I, pp. 80-81; mila, La giovi­ nezza di Verdi cir., p. 69.

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e quando nell’opera sopraggiunge il Minuetto (Leporello alla finestra: «Signor guardate un poco, che maschere galanti! »), nel punto corrispon­ dente del racconto Rovani protocolla l’arrivo del tema mozartiano fidan­ do in lettori consapevoli: «E intanto s’udiva la musica d’un minuetto; ed era quella precisamente che Mozart trasportò molti anni dopo nel suo Don Giovanni nella scena della festa». La flagranza è confermata dal parallelo implicito fra Don Giovanni e l’organizzatore del festino, il mar­ chese Alberico F.^ che è detto essere «in voce del più sfrenato libertino della città», che «capricciosamente cangiava [donne] quasi ad ogni can­ giar di luna»; e qualcosa dell’aria del catalogo resta rappreso in «E non sempre erano le venali alunne di Tersicore e di Pafo quelle di cui si com­ piaceva; ma faceva la corte anche alle dame», o a «qualche fanciulla ine­ sperta», come dire la «giovin principiante». Se nel caso del Don Giovanni sembra difficile negare il calco intenzio­ nale, per altre situazioni la matrice resta più o meno coperta; ma è tutta­ via possibile individuare alcune strutture della fantasia concretatesi in opere nate attorno al romanzo dì Rovani. Si rilegga l’episodio della festa mascherata al teatrino Ducale (II 6), quando Lorenzo Bruni attira in un tranello la contessa Clelia; anche se la situazione ballo-maschera-inganno è un topos di tutta la stagione ro­ mantica 1 l’episodio può essere utilmente confrontato con l’ultima sce­ na di Un ballo in maschera (alla Scala nel gennaio 1862) per il doppio registro di festa pubblica e di angoscia privata, per le brevi frasi scoccate dai protagonisti sullo sfondo imperturbabile della danza (del resto, giu­ sta un suggerimento di Petrobelli1 2, si può vedere nel finale del Ballo una definitiva assunzione nel sistema verdiano della scena della festa del Don Giovanni): Lorenzo Bruni, che, tutto coperto dal domino nero e dalla nera maschera, stava dietro alla pupilla, quando la vide indietreggiare perplessa...

[Un ballo in maschera, Finale III: «Riccardo in domino nero col nastro rosa s’avanza pensieroso, e dietro a lui Amelia»]. Maschere d’ogni generazione passavano davanti alle dame per avventar lo­ ro motti e scherzi e complimenti [...]. Si rimise allora lo schiamazzo nelle sale, si rinnovarono le grida, l’orchestra tornò a suonare; e dodici coppie strisciarono la danza...

[Ballo: «in questo momento gruppi di maschere e coppie danzanti attraver­ sano il davanti della scena e separano il paggio da Renato»]. 1 Cfr. nel presente volume, g. salvetti, La Scapigliatura milanese e il teatro d’opera, p. 578. 2 In Verdi e il «Don Giovanni» cit.

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Lorenzo Bruni ritornò dove s’era trattenuta la contessa Clelia, e giran­ dole dietro le spalle, le accostò la bocca della maschera nera all’orecchio, e, par­ landole con voce sottomessa e alterata, l’invitò a danzare... [Ballo, Amelia: «sottovoce in modo da non essere riconosciuta»; «tra sin­ gulti che svelano la sua voce naturale»].

La contessa sentì scorrersi un brivido per Fossa...

[Ballo, Riccardo: «Non penetra nel mio petto il terror»]. ...che quanto aveale detto il fratello l’aveva messa in gravissima apprensione...

[Ballo, Riccardo: «Che nel ballo alcuno alla mia vita attenterà, sta detto»].

... la maschera trasse la contessa a sedere nel vano d’un finestrone. - Signora, sapete voi chi sono? -No. [Ballo, Riccardo: «Rivelami il nome tuo»].

Un’opera che doveva contare anche di più in quanto a ricchezza di suggerimenti era il Rigoletto, del quale neanche il Rovani critico si sente di disconoscere il valore1 e che del resto il romanzo già menziona come prolungamento del Don Giovanni di Mozart. La conquista della giovi­ netta Ada intrapresa dal Galantino (VI 5 e 6) è parallela alla commedia degli inganni nell’amore nascente fra Gilda e il duca di Mantova: ...la fanciulla, uscendo al giovedì dal monastero per recarsi a casa di donna Paola... [Bigoletto I ix, Rigoletto: «Non uscir mai»; Gilda: «Non vo che al tem­ pio»].

... cominciò a guardare il mondo circostante...

[Bàgoletto, Gilda: «Già da tre lune son qui venuta | Né la cittade ho ancor veduta»]. ... gironzando poi là in vicinanza del monastero di San Filippo [...] il Suardi [= il Galantino] si comportò di maniera che la fanciulla s’accorgesse com’egli uscisse da una casa accosto al monastero. \Bigoletto I xi, Rigoletto: «Vi seguiva alla chiesa mai nessuno?»]

Ahi! che un giorno il Suardi, il quale già l’aveva adocchiata altre volte [...] si fermò a contemplarla con perfida intenzione, guardandolo pur essa con inno­ cenza mal presaga; che il volto e gli occhi del Suardi erano di quella fatale qua­ lità... In realtà quando vide la fanciulla, e quando la fanciulla guardò lui, segna­ tamente alla seconda ed alla terza volta... \Bigoletto II vi, Gilda: «Tutte le feste al tempio | Mentre pregava Iddio, | Bello e fatale un giovane ] S’offerse al guardo mio»]. 1 Giuseppe Verdi, in Storia delle lettere e delle arti in Italia cit., IV, p. 504.

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Giorgio Pestelli ... il volto e gli occhi del Suardi [...] quando vide la fanciulla, e quando la fan­ ciulla guardò lui [...] appena l’occhio maliardo del bellissimo Suardi... [Rigoletto, Gilda: «Se i labbri nostri tacquero | Dagl’occhi il cor parlò»]. È tutta sua madre...

[Rigoletto I ix, Gilda: «... almen chi sia | Fate ch’io sappia la madre mia»].

Un taglio scenico, un’attenzione ad impaginare la descrizione con in­ dicazioni prospettiche alle quali collabora attivamente la musica, ricor­ rono nella cerimonia che precede il ratto di Ada da parte del Galantine (VII 8): In quell’ora, nella chiesuola del monastero di San Filippo, nella parte ch’e­ ra segregata dal pubblico, eran discese la madre badessa, le suore maestre, le monache semplici, le converse, le incipienti, e il drappello delle educande. [...]. L’organo, come al solito, dava in sulla parte della chiesa aperta al pubblico, e i pochi che a quell’ora erano intervenuti, guardando attraverso la griglia di legno che dal parapetto dell’organo si alzava fino a due terzi della canna maggiore, vedevano per la luce di due ceri [...]. Poco dopo, dall’altare, collocato dietro al muro che divideva la chiesa in due parti [...] una suora in tuonava le litanie della Beata Vergine; ad essa, le altre monache, le educande, il pubblico rispondeva­ no, mentre l’organo con le sue echeggianti variazioni interpolava ogni terna di que’ predicati, coi quali la più sublime poesia sgorgata dall’entusiasmo della fede e dell’amore decorò il nome di Maria.

È un attimo di rapimento cattolico, un momentaneo rilassamento delranticlericalesimo liberale di Rovani un quadro di luce fioca ma fidata da cui affiorano tuttavia precisi particolari («la suora inginocchiata all’al­ tare cantava già il concede nos famulos tuos [...] aveva già rintronato sotto alle vòlte della chiesa il sub tuum e Fa periculis cunctis libera nos semper»)-, una luce non lontana, a parte la sostituzione del coro virile (frati anziché suore), dal finale secondo nella Forza del destino: «La gran porta della chiesa si apre. Di fronte vedesi l’aitar maggiore illumi­ nato. L’organo suona. Dai lati del Coro procedono due lunghe file di Frati con cerei ardenti»; inoltre, Padre Guardiano: «Il santo nome di Dio Signore sia benedetto» Coro: «Sia benedetto». Altro episodio che risente di varie fonti melodrammatiche è la sere­ nata sotto il balcone di Stefania Gentili (XVIII i), una specie di equiva­ lente ottocentesco (siamo ormai nel 1820) del resoconto galuppiano al­ l’apertura del romanzo, con osservazioni da conoscitore sulle musiche in programma (tutte di Rossini) e battute fra spettatori occasionali. Ma le suggestioni musicali aumentano con l’avventarsi su musicanti e pubblico dei giovani della Compagnia della Teppa («dal vicino vicolo Porlezza 1 Attivo sopra tutto in XI 2 e in XII 2-3.

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una schiera di dodici o quattordici giovinotti irruppero nella via, si ro­ vesciarono come una tempesta maggenga sulla piazzetta, improvvisando una cadenza di legnate formidabili, dedicate al merito insigne di quei filarmonici notturni»); se la vicinanza del tumulto che ne deriva col fina­ le secondo dei Meistersinger è casuale (ma assai prossimo nel movimento dell’episodio), lo scioglimento del gruppo, dopo che tutti hanno fatto pace e si sono dati ritrovo a una cena per il posdomani, sembra ricalcare la cicalosa insistenza iterativa di celebri luoghi del Barbiere (ad esempio: «Mille grazie... mio signore... del favore... dell’onore», dopo la serenata del conte): «E qui vennero i saluti, i buona notte, gli a rivederci, gli ad­ dio»-, e quindi, dopo aver avviato gli amici per la topografia di Milano notturna, «altri saluti ed altri buona notte come sopra». I soci della Teppa, cui Rovani dedica larghe porzioni di racconto (li­ bri XVIII e XIX) sono poi trattati con la stessa simpatia di fondo per il brigante che circola in opere verdiane come Emani o I masnadieri-, gio­ vani «attaccabrighe e turbolenti e maneschi», i quali «si diedero [...] a fiutare dappertutto dove vi fosse da menar le mani, da mettere la via a rumore, da portar lo scompiglio in qualche pubblico o privato conve­ gno, a disturbare qualche crocchio di persone»; ma sono energie male indirizzate, di fondo buono, ché i giovanotti «avevan tutta l’attitudine, se fosse continuato il tempo delle guerre, a saltar in mezzo a un battaglio­ ne quadrato, ad afferrare un caporale austriaco per la cravatta, a far pro­ digi investendo il nemico a baionetta in canna». La spedizione notturna nasce nella noia di un’osteria: Si era là all’osteria del Galletto fuori di porta Vercellina, annojati tutti ma­ ledettamente, perché son già tre giorni che non s’è rotta nemmeno una testa...

[I masnadieri III 11, Coro: «Fratelli! cacciamo quest’oggi la noia, | ché for­ se domani ci strangola il boia»].

Non si stette nemmeno un minuto a far consulta; e via tutti, senza nemmen pagar l’oste... [Emani I 11, Emani: «Si rapisca». | Coro: «Sia rapita!... Quando notte il cielo copra | Tu ne avrai compagni all’opra»].

Questa indulgenza per il brigante e le masnade di core buono e ma­ no lesta, malgrado le pensose smentite di certo Verdi tardo1, era desti­ nata a durare a lungo, o ad ogni modo a riemergere molto più tardi, se ancora al Croce doveva toccare farne sdegnata rampogna1 2. 1 Cfr. G. pestelli, Le riduzioni del tardo stile verdiano, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», VI, 3 (1972). 2 «L’idealizzazione, che dei briganti e di altri delinquenti si fece per malintesa passione di li­ bertà dal romanticismo, aveva questo a sua scusa: che era fatta per la prima volta, sotto l’impulso

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Su un ultimo caso si può ancora attirare l’attenzione del lettore, l’ac­ cesso di Giunio Baroggi al letto funebre di Stefania Gentili, a Parigi, nelle ultime pagine del romanzo; tutto l’episodio (XX 14) è un notturno di movenze melodrammatiche che qui di seguito mettiamo a riscontro con il prologo di Simon Boccanegra (avvertendo inoltre che la vera fonte del passo, il precedente storico, andrà rintracciato nel finale della Lucia di Lammermoor\. A un tratto si sveglia e balza giu dal letto; un suono speciale lo aveva scos­ so, ma egli non lo sapeva. Stette cosi un poco su due piedi come smemorato; ma giù nella via, intercalato a un sordo mormorio come di vento che mugghia in basso tono, sente lo squillo di un campanello. Un brivido gelato lo percorre tut­ to [...]. Spalanca i vetri della finestra e s’affaccia. Era il viatico che venendo da Notre Dame passava sul Pont Double. [...]. L’irrequietudine convulsa che lo agitò fu tale, che quasi senza mettere a consulta i proprj pensieri, si vesti fret­ tolosamente per uscire, [...]. Pareva uscito di ragione affatto. [Simon Boccanegra I, Simone (esce dal palazzo atterrito)’. «È sogno!... Si; spaventoso, atroce sogno il mio! »]

Tende l’orecchio con faticosa attenzione alle voci delle devote del Santissi­ mo, che rispondevano in lugubre cadenza alle litanie intuonate da una vecchia: - Consolatrix afflictorum - Ora pro ea. - Refugium peccatorum - Ora pro ea. [Boccanegra, Fiesco: «Prega, Maria, per me». (S'odono lamenti dall'interno del palazzo)’, Coro (interno e molto lontano)’. Donne: «È morta!» Uomini: «Miserere! »]

... collo scarso lume degli occhi che per lieve deliquio gli fuggiva, vede nel tem­ po stesso piegare il baldacchino verso la casa del conte. [...]. Egli entrò nel cor­ tile della casa, in coda alle divote. Stette un momento perplesso sul limitare [...]. Il Baroggi, senza pensare ch’era in mezzo a una fitta di persone che lo vedevano, misurava a gran passi il cortile [...] [Boccanegra’. (varie persone escono dal palazzo, e traversando mestamente la piazza, s'allontanano}]. A un tratto si ferma [...] poi risoluto, a due, a tre gradini per volta ascende le scale. È all’uscio dell’abitazione del conte [...] va oltre, passa duna in altra camera [...]. Quando il Baroggi s’accorse d’esser presso la camera dove la con­ tessa giaceva a letto e dove era entrato il parroco, si fermò quasi colpito da un sacro spavento.

[Boccanegra, Simone: «Vederla io voglio... | Coraggio! (Va alla porta del palazzo e batte tre colpi). | Muta è la magion de’ Fieschi? | Dischiuse son le por­ te!... Quale mistero!... entriam. (Entra nel palazzo)»]. dell’animo esacerbato e della sconvolta immaginazione, in modo irriflesso e ingenuo. Ma quelle che se ne fanno ora sono calcolate invenzioni, che i documenti storici smentiscono, o sono viete combi­ nazioni teatrali, che non commuovono e non divertono nessuno. Disgustevoli e muffiti cavoli riscal­ dati, insomma, di quelli che neppure le bestie appetiscono» (Pagine sparse, Bari i960, IH, pp. 206-7).

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Il Baroggi s’accosta al letto, cade in ginocchio, le prende la mano [...]. Il par­ roco, che era un prete gallicano dei piu tremendi e che rappresentava la ven­ detta di Dio piu della misericordia: Che è questo? gridò; e afferrò un campa­ nello [...]. D’improvviso grida il conte: — Chi è l’infame che profana la mia casa, che profana la dimora di una moribonda? Lei che rappresenta Iddio qui, scacci l’abbominando sacrilego. [Boccanegra, Fiesco: «Qual cieco fato | A oltraggiarmi ti traea?... | Sul tuo capo io qui chiedea | L’ira vindice del ciel »]. Il prete, che aveva l’aspetto di un Domenicano inquisitore [...] mise la scar­ na sua mano, come se fosse quella di Samuele, sulla spalla del Baroggi... La campana minore di Notre Dame suonava a lenti rintocchi.

[Boccanegra: (Le campane suonano a stormo}}.

Non solo la veloce e convulsa attività del Baroggi è quella stessa di Simone che raggiunge Maria cadavere, in una stessa scenografia musicale di rintocchi e lamentazioni funebri; anche la figura del conte ha un pro­ filo rupestre, alla Fiesco; e il parroco di Notre-Dame, «che rappresenta la vendetta di Dio più della misericordia», è consanguineo a tante figure verdiane di preti-profeti: come nel Don Carlos il frate-Carlo V, o il Grande Inquisitore («aspetto di un Domenicano inquisitore»; cfr. an­ che «mise, la scarna sua mano, come se fosse quella di Samuele» con «Perché evocar allor l’ombra di Samuel?» in Don Carlos IV 11). Sono personaggi posteriori alla gestazione del romanzo, di cui nulla pertanto sapeva Rovani, ma utili a testimoniare una comune matrice fantastica e più in generale, come si diceva all’apertura di questo paragrafo, l’as­ sunzione del melodramma a codice espressivo.

in. Nonostante l’allargarsi del discorso ad ampie zone narrative, le idee di Rovani sulla musica e sul melodramma italiano trovano spesso collo­ cazione in esplicite dichiarazioni teoriche (tenendo fede alla promessa di un romanzo che sarà «anche un trattato d’estetica»): in modo libero, rapsodico e frantumato, ma a conti fatti chiarissimo. Il tono di causerie, la prevalenza di annotazioni giornalistiche, di assiomi da conoscitore su una autentica architettura di racconto, non consente il coagularsi di reali personaggi; nemmeno fra quelli di cui mol­ to si parla, per non dire delle miriadi che si affollano in brevi citazioni. Chi è ad esempio il tenore Amorevoli? un’ombra, un fantasma che sva­ nisce attorno a una serie di nomi d’opera, di arie, di incipit; non solo non è un carattere, ma non è nemmeno una funzione narrativa, è piuttosto

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un luogo critico, adatto a dirci tutto quello che Rovani pensa dei tenori o meglio della voce di tenore. Conforme un’antica convinzione, Rovani non ha molta fiducia nel vigore intellettuale,.fra i cantanti tutti, dei tenori; «ma già si sa quel che può uscire dalla bocca di un tenore», dice uno dei suoi anonimi dialo­ ganti; e poi esplicitamente: «Amorevoli non era uomo di sterminato in­ gegno [...] bisognava si facesse ajutare per afferrar bene il concetto dei paragrafi de’ contratti teatrali, e più ancora per comprendere alcune stro­ fe dei libretti di Metastasi©» (I 4); ma altrettanto chiaro è il privilegio che Rovani accorda a questa voce d’oro: non v’è nulla al mondo di piu penetrante negli umani petti di una voce in quel­ la chiave [...]. La voce di soprano sfogato ferisce le orecchie, ma non lascia nulla nel cuore; la voce di basso provoca il rispetto ma non l’affetto; ci sarebbe la vo­ ce di contralto, ma nei subiti trabalzi dai suoni gravi agli acuti compromette troppo sovente i buoni successi. Soltanto la voce di tenore impera sugli animi. (IV 9).

Uno degli episodi più ricchi in tutto il romanzo di riferimenti musica­ li è l’accademia in casa del conte Alvise Pisani in onore di Algarotti (IV 6-10); la contessa Clelia vi giunge ignara d’incontrare il suo Amorevoli, ma la voce glielo rivela a distanza: La contessa discese, preceduta dal servo, e s’indugiò perplessa sotto l’atrio che mette allo scalone... E soffrirò che sia Si barbara mercede Premio della tua fede, anima mia? Tanto amor, tanti doni! Ah! pria ch’io t’abbandoni Pera l’Italia, il mondo. La prima sillaba della parola mondo del celebre recitativo della Bidone di Vinci, usciva dalle finestre del piano superiore, portata a volo [...]. La contessa subi la sorte di chi s’affaccia per veder la battaglia, e senza piu è colto nel petto da una palla che fischia. [...] attraversò gli spazj dell’aria, e non pareva voce d’uomo, no, ma quella bensì di un essere soprannaturale, incaricato di dar qual­ che buona notizia ai mortali.

Sono molte le agnizioni musicali che avvengono sotto questo segno, da Pierotto nella Linda, a Manrico nel Trovatore, ad Alfredo nella Tra­ viata, a Fenton (e Nannetta) nel Falstaffl; e codesta esaltazione del tim­ bro tenorile si accorda anche con il favore raro fra tutte le opere di Verdi che Rovani mostra per Luisa Miller1, «a tenor’s opera» come suona la recente definizione del Budden3. 1 Cfr. nel presente volume il saggio di w. osthoff, pp. 1^7 sgg. 2 In Storia delle lettere e delle arti in Italia cit., IV, p. 503. 3 The Operas of Verdi cit., p. 446.

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Questa antinomia, di chi non cela la predilezione per qualcosa di cui si riconosce sul piano razionale lo scarso pregio, è il sale delle argomen­ tazioni del nostro scrittore. E la contraddizione più generale è quella che l’autore svela quando mette a tacere la sua passione esistenziale per la musica (il suo vivere in essa) e sacrifica a quel filone moralistico che la vede (riducendola a opera, a spettacolo) come arte della seduzione, la più lontana dalle esigenze di una società attiva e ben regolata; a questo spirito, che attraversa la tradizione risorgimentale, da D’Azeglio a Lam­ pedusa (ma cfr. anche Fanzini, Io cerco moglie: «E io odio la musica - esclamò il dottor Pertusius - perché è l’arte emolliente»), Rovani si accosta talvolta con zelo: in tutta la passione di Ada per il Galantino (VI 5) la musica è trattata da mezzana e quando è a secco di onde sonore Rovani arriva persino a sottoscrivere con un sussiego quanto mai inabi­ tuale diagnosi di tal fatta: «La musica, onde giungere all’intelletto, de­ ve attraversare necessariamente i sensi; e non rendendo essa nessun con­ cetto preciso e determinato che attragga l’intelletto con velocità, spesso avviene che, indugiandosi troppo a lungo coi sensi stessi, smarrisca poi la via di pervenire allo spirito» (VI 5). Altro contrasto, da sciogliere con maggiore pazienza, è quello che si offre nei riguardi del divario fra aria e recitativo, o fra melodia e canto declamato, cioè uno dei punti di maggior momento in tutta la storia del melodramma italiano, anzi forse il punto, lo spartiacque della sua vicen­ da ottocentesca. La preferenza per un canto ancorato alla parola su quel­ lo più autonomo concesso all’aria (per Yaccentus sul concentus) è espres­ sa chiaramente quando l’Amorevoli sceglie le musiche per la suddetta accademia in casa Pisani: trasse dal baule la sua biblioteca musicale portatile, e si mise a sfogliazzarla, onde cercarvi qualche cosa che potesse fare all’uopo per l’accademia del giorno successivo. Un’aria della Merope di Jomelli [...] un’altr’aria dell’Achille in Stiro dello stesso maestro; l’aria celeberrima deW Olimpiade di Pergolesi Un grande recitativo deWArtaserse del Vinci, il maestro perfezionatore dei recita­ tivi obbligati1. Alcuni madrigali dell’abate Steffani1 2 [...]. D’una in altra cosa, Amorevoli cominciò a provare qualche frase sottovoce, accompagnandosi alla spinetta; ma quando dalle arie passò al recitativo di Vinci, la musica declamata eccitandolo ad entusiasmo, gli fece mandar fuori tutta la sua voce piena, come se fosse alla ribalta d’un grande teatro. 1 Nella biografia di Vinci in Storia delle lettere e delle arti in Italia cit., Rovani fonda questa asserzione su Le rivoluzioni del teatro musicale italiano di Arteaga; una fonte può essere stata an­ che Algarotti, il Saggio sopra Vopera in musica, ben noto a Rovani (cfr. f. algarotti, Saggi, a cura di G. Da Pozzo, Bari 1963, pp. 160-61). 2 Probabilmente si devono intendere i Duetti da camera, a due voci e basso continuo.

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L’omaggio alla «musica declamata» è ancora ribadito nel corso del­ l’accademia stessa, dopo che il brano della Bidone già riportato sopra aveva trafitto la contessa Clelia nell’atrio di casa Pisani: Ma tornando a donna Clelia, conquisa dalla voce d’Amorevoli, ella si trat­ tenne sotto Patrio premendosi il cuore, finché il recitativo si svolse nell’aria: Se resto sul lido, Se sciolgo le vele Infido, crudele Mi sento chiamar.

E intanto, confuso Nel dubbio funesto Non parto, non resto Ma provo il martire Che avrei nel partire Che avrei nel restar.

Dove appar chiaro che i fervori della passione si congelassero nell’anima fredda di Metastasio in tante formole precise e quasi aritmetiche, avverse al genio del­ la poesia e del dramma.

Già sappiamo la scarsa considerazione che Metastasio gode presso Rovani («si lasciava allegare i denti persin dalle strofe di Metastasio»); ora depreca che il recitativo si svolga nell’aria, che la passione si congeli aritmetica, bestia nera degli scapigliati; e pare una paladino del dramma, e i lettori dovevano intendere dramma musicale, genere nuovo che negli anni sessanta dell’ottocento si profilava minaccioso all’oriz­ zonte italiano preceduto da apocalittiche voci su Wagner, la punta più avanzata e scomposta del rinnovando teatro musicale Ma questa esaltazione del declamato nell’episodio in parola dei Cen­ to Anni è frutto di un diligente desiderio di ricostruzione storica, che sarebbe — questa volta si — potuto incorrere nella censura dossiana1 2 con­ tro la tendenza recente di «far rivivere i costumi vecchi perfettamente»: per «fabbricare» la cultura illuminista Rovani ripete il filone riformista settecentesco, tanto più che l’accademia si svolge in presenza di France­ sco Algarotti il cui «trattateli© sulla musica» è menzionato espressamente in una disputa con il Vallotti. Le proposizioni di Rovani osserva­ tore all’accademia Pisani sono infatti eco del Saggio sopra l'opera in mu­ sica (ad esempio: «Il recitativo [dei passati maestri] era vario e pigliava forma ed anima dalla qualità delle parole. Correva talvolta con rapidità eguale al discorso, tale altra procedeva lentamente, e faceva sopra tutto 1 Per la penetrazione di Wagner in Italia sono fondamentali a. ziino, Rassegna della letteratura wagneriana in Italia, in Colloquium «Verdi-Wagner» («Analecta Musicologica», n), Koln-Wien 1972, pp. 14-139, e f. Lippmann, Wagner und Italien, ibid., pp. 200-47. 2 Nota Azzurra 3419 (ed. cit., I, p. 337).

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bene spiccare quelle inflessioni e quei risalti che la violenza degli affetti ha forza d’imprimere nell’espressione. Lavorato a dovere era udito con diletto; e si ricordano ancor molti come certi tratti di semplice recitati­ vo commovevano gli animi dell’udienza in modo, che niun’aria a’ giorni nostri ha saputo fare altrettanto») e simili argomenti potevano giun­ gere a Rovani ribaditi attraverso la tradizione più letteraria, da Alfieri («al venir dell’arietta interrompitrice dello sviluppo degli affetti, appun­ to quando mi ci cominciava ad internare, io provava un dispiacere gran­ dissimo») a Monti («perché nei soli recitativi sta lo sviluppo delle pas­ sioni»)12. Si sarà reso conto Rovani che parole come «dramma», «fervori della passione» e simili avevano nell’Italia di metà secolo tutt’altra risonan­ za di quella concessa loro dal trattato di Algarotti? il quesito è legitti­ mo, poiché nel contrasto del suo tempo fra i binomi del canto e canto de­ clamato, forma chiusa e aperta, melodramma e dramma musicale, Rossi­ ni e Verdi (di Wagner non si dice), egli è tutto e risolutamente a favore del primo membro, contrario per tanto a quel rinnovamento profondo del genere che Verdi, con le opere coeve al romanzo, I Vespri siciliani, Si­ mon Boccanegra, Araldo, Un ballo in maschera, La forza del destino, testimoniava in prima persona. Sulla crescita dell’elemento orchestrale­ sinfonico in seno all’opera abbiamo già visto che Rovani non era lontano dalla linea Botta; sulla soluzione della forma chiusa è esplicito quanto re­ gistrato da Dossi in una Nota Azzurra3: quando a Rovani «si vantavano i progressi della scienza musicale moderna, la quale ha per esempio abo­ lito la cabaletta, certamente — diceva — l’è pussee facil a falla no, che a falla»', è vero che anche Verdi, alla vigilia dell’OteZZo, aveva pianto una lacrima di coccodrillo sulla cabaletta4, facendo torto, come spesso gli ac­ cadeva quando interveniva sul piano teorico, alla sua facoltà maestra di sfruttare ogni novità ai propri fini; ma l’elogio della cabaletta, nel roman­ zo di Rovani, trova eco in varie geremiadi sulla decadenza dell’opera in musica, saldandosi a quel coro che attorno alla metà del secolo, perdu­ rando il silenzio di Rossini, scomparsi Bellini e Donizetti, si era alzato unanime da tutta la pubblicistica nazionale a salvaguardia della vera ope­ ra italiana: 1 algarotti, Saggi cit., p. 160. 2 Cit. in arruga, Incontri cit., p. 239. 3 Nota Azzurra 3859 (Qd. cit., I, p. 440). 4 «Le cabalette!! (Apriti o terra!) Io però non ho tanto orrore delle cabalette, e se domani na­ scesse un giovane che ne sapesse fare qualcuna del valore per es. del “Meco tu vieni o misera” op­ pure "Ah perché non posso odiarti” andrei a sentirla con tanto di cuore, e rinuncerei a tutti gli arzigogoli armonici, a tutte le leziosaggini delle nostre sapienti orchestrazioni» (20 novembre 1880, a Giulio Ricordi; cfr. I copialettere di Giuseppe Verdi, Milano 1913, p. 559). Cfr. inoltre nel sag­ gio di l. Alberti contenuto nel presente volume, p. 133, nota.

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Ora il tempo dei tenori è passato; la musica ha dato luogo all’arte bellica. (X 2). La musica e la danza, le trachee e le tibie, che per un secolo intero avevano tenuto il mondo nel loro dominio, avevano dovuto cedere il campo alle grandi cose e ai grandi fatti, tanto che la musica serviva più d’occasione che di scopo, e se voleva attrarre la gente e scuoterla, bisognava che si facesse ausiliaria della politica e dei fasti militari. (X 3).

La colpa è dei rivolgimenti sociali, della guerra, è questo un motivo ri­ corrente alla luce del quale furono giustificate le prime «rumorose» ope­ re verdiane ma l’arte vera era morta: Codeste irruzioni di pubblico nel teatro, le quali presentano i pericoli di una battaglia, dopo la decadenza dell’arte, non si verificarono più affatto; e i giovani ventenni, che, a spettacolo incominciato, oggi possono, anche in una prima sera, avere accesso in platea, crederanno esagerata la nostra relazione. Ma noi avemmo più volte compresse le costole agli spigoli dell’andito [...] quando adolescenti ci recavamo ad assistere agli ultimi splendori dell’arte vera. (X3).

Ora, quest’^f/e vera, Rovani non ne ha mai fatto mistero1 2, si chiama­ va Gioachino Rossini; la sua impermeabilità a Verdi è il rovescio dell’a­ more per Rossini e su questo discrimine si misura il gusto contempora­ neo di Rovani e dei suoi seguaci. Tre sono le opere predilette, Il Barbie­ re di Siviglia, Otello, Mose (attestazioni di affetto vanno anche alla Se­ miramide3), e continua è l’assimilazione del pesarese (che piu?) con Por­ ta e Manzoni; il romanzo non fa che riprendere e compendiare questi giudizi, in particolare nell’ultimo libro quando la vicenda si sposta a Pa­ rigi. Il portavoce dell’autore è qui Giunio Baroggi che in una notte di ago­ sto 1829 (création del Guillaume Teli) contesta ad alcuni begli ingegni francesi, Halévy fra gli altri, la supremazia del Teli nel canone delle ope­ re rossiniane: Si, io sono felice che codesta specie di Bibbia dell’arte musicale sia uscita dalla testa prodigiosa di Rossini; ma non sarò mai per sagrificarle il Mosè, dove 1 «Pochi uomini hanno fatto un ingresso nell’arte più splendido e più rumoroso del suo» (Ro­ vani, in Storia delle lettere e delle arti in Italia cit., IV, p. 499). 2 Cfr. Gioachino Rossini, in Storia delle lettere e delle arti in Italia cit., IV, pp. 157-72; di qui derivano La mente di G. Rossini, Milano 1868, e il confronto fra Rossini e Manzoni in Appen­ dice a La mente di Alessandro Manzoni, Milano 1873. 3 Cento Anni, XX 2: «Rossini in dodici anni scrive quaranta spartiti che fanno di lui il più rivoluzionario, il più immaginoso, il più versatile, il più grande dei maestri melodrammatici d’Ita­ lia e d’Europa; ma presto la sua patria, volubile come l’antica Grecia, annoiata di lui e de’ suoi trionfi, lo coglie al varco in un momento di stanchezza e d’indolenza, e lo umilia con quel tra­ sporto onde in addietro lo aveva esaltato; poscia ostenta di non comprenderlo nel punto massimo della sua sterminata abbondanza, allorché nella Semiramide aveva gettate a profusione le ricchez­ ze della sua fantasia, come i principi del medio evo in un giorno di corte bandita; e lo lascia deluso, iracondo e ancora povero. Gli Italiani trattano gl’ingegni come gli agricoltori i Augelli; arricchi­ scono della loro seta e li gettano poi, conversi in bruchi, nel letamaio».

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il genio lampeggia di una luce ancora piu abbagliante, abbagliante si che par quasi eccedere la natura umana. Ma tra il Guglielmo Teli e le altre opere della scuola germanico-francese e i capolavori della scuola italiana corre quella diffe­ renza che intercede fra il dramma diffuso, fatto per la lettura \ e il dramma con­ centrato fatto per la rappresentazione. Ma io non posso ammettere che si deb­ bano far drammi per la sola lettura, perché allora vien più opportuna un’altra forma dell’arte... (XX 3).

Verdi esce dalle acque territoriali del romanzo, ma dietro molte lodi a Rossini si legge in filigrana la censura a Verdi; d'altra parte, Rovani ha espresso il suo giudizio su Verdi (fino al 1858) in un ampio profilo critico1 2, mai ricordato dagli storici della musica sebbene larghissimo di suggerimenti per la comprensione del gusto operistico intorno alla metà del secolo. Sono due i pregiudizi in cui si congela l’esperienza verdiana di Rovani: Verdi non è originale, ha uno stile «composito» che mette a frutto Rossini, Meyerbeer, Mercadante e in minor misura Bellini e Donizetti (ma questa mappa, salve alcune correzioni, non è stata oggi presa in mano dalla critica più solerte? 3); in secondo luogo, il successo di Verdi è il frutto di una violenza inferta a un pubblico già eccitato dal tumulto dei tempi moderni4. Un aspetto Rovani riconosce tuttavia come affatto esclusivo di Ver­ di, la velocità', «il solo elemento proprio che introdusse negli elementi ch’egli tolse da più parti, è un eccesso veloce e determinato pel quale, correndo senza divagazioni al suo fine, coglie il più prezioso intento del­ l’artista qual è quello di strascinar seco irresistibilmente la moltitudi­ ne» s. Su questa base, è facile, con un salto di oltre mezzo secolo, perve1 Forse è presente in questo riferirsi a opere fatte per la lettura un’allusione a quanto si diceva allora in Italia del dramma wagneriano; anche tenendo conto di un accenno alla lunghezza presente nelle righe che seguono («non posso ammettere che ci debbano essere opere in musica che condan­ nino il pubblico a star confìtto sulle panche cinque o sei ore...») 2 In Storia delle lettere e delle arti in Italia cit., IV, pp. 495-^06. 3 Cfr. f. d'amico, Note sulla drammaturgia verdiana, in Colloquium «Verdi-Wagner» cit., pp. 272-87. 4 I termini del ritmo olim/nunc, cosi attivo nel romanzo, sono resi più espliciti in pagine d’im­ postazione critica: come la prefazione a Le tre arti (Milano 1874, I, Introduzione, pp. xm-xiv), dove Volivi è l’« aureo periodo» che lega assieme Manzoni Grossi Bellini Donizetti Bartolini Hayez Arienti, mentre il nunc è posto sotto il segno di una caotica provvisorietà opportunistica: «I nuovi ingegni [...] tentarono allora, per cosi dire, un colpo di stato, che loro veniva suggerito, non dall’i­ spirazione spontanea, ma dalla disperazione. Tentarono‘di ubriacare questa moltitudine, che nella prima sobrietà aveva acquistata così lucida intelligenza, e mescendo a gara tutti i generi, e caricando le dosi, e vestendo di nuovi prestigi più gli accessori che la sostanza dell’arte, e alle esagerazioni domandando quegli aiuti che non si sapevano rinvenire altrove, inventarono un nuovo genere d’arte che, se ci si concede l’espressione, compromise terribilmente il sistema nervoso, e nelle violente esaltazioni onde si fece ministro, minacciò di mandare affogato il buon gusto e il buon senso». 5 In Storia delle lettere e delle arti in Italia cit., IV, p. 499; ibid., p. ^01: «quella velocità ch’è il suo suggello», e p. 50^: «In questa nuova opera [I Vespri siciliani} ha smarrito il suo carat­ tere distintivo, quella felice velocità di stile, quell’incesso concitato e determinato e sicuro...» Cfr. anche Cento Anni, II 2: «... quella parte di pubblico che preferisce la musica veloce di Verdi a tante altre musiche». Sull’influsso di Vittorio Alfieri in questa nuova dinamica melodrammatica, cfr. axruga, Incontri cit., p. 237; vedi anche, nel presente volume la nota a p. 541 del contributo di c. gallico, Scena nel «Saul».

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nire agli enunciati verdiani di un altro letterato contagiato dì melodram­ ma, Bruno Barilli; per lui, la velocità di Verdi assume quasi contorni futuristi: «[Verdi] divora senza por tempo in mezzo, come un bolide ra­ dente, le scorciatoie più impensate, sempre fugace e irraggiungibile per colmo di forza e di impeto» e in quanto a forzare le moltitudini Barilli è ancora più inequivoco: «piomba sul pubblico, lo mette tutto in un sac­ co, se lo carica sulle spalle e lo porta a gran passi entro i rossi, vulcanini domimi della sua arte»1 2. Ma dall’identità del rilievo si rimbalza su posi­ zioni che più lontane è difficile concepire; soccorre ancora una Nota Az­ zurra a dipingere l’atteggiamento di Rovani nei confronti dell’arte ver­ diana: «Verdi lo ammirava, ma lo avrebbe voluto talora un po’ meno villano. Ne cantava a mezza voce qualche brano dei migliori come per persuadere se stesso di avere torto, ma poi diceva: se ghe sent denter la vanga (e faceva insieme col piede l’atto di vangare)»3 (cfr. Barilli: «il suo alito ha un sano odor di cipolla»)45. A differenza di Barilli è proprio il Verdi villano che Rovani respinge; e lo si vede alla prova del Trovatore, pietra angolare della nuova lettura verdiana, anni venti, di Barilli, rifiutato invece da Rovani come «lavoro in parte indegno» della fortuna che gli arride". Le obbiezioni di Rovani a Verdi sono accademiche, nell’ordine del «buon gusto»6; vale anche per il caposcuola milanese l’asserzione di Contini sugli scapigliati piemonte­ si: «Se eccessi commisero, e ne commisero certamente, furono eccessi d’ordine»7.

La trasformazione, come spesso avviene, parve un fine. Ogni nuovo venne respinto con l’imputazione comune, mancanza di melodia8; la mu­ 1 II paese del melodramma (1929), in II paese del melodramma e altri scritti, Milano 1963, p. 105. 2 II paese del melodramma cit., p. 113. Secondo Mila, qui Barilli «saccheggia, anzi traduce Chateaubriand» {La giovinezza di Verdi cit., p. 447). 3 Note Azzurre cit., I, p. 440. 4 II paese del melodramma cit., p. 113. 5 In Storia delle lettere e delle arti in Italia cit., IV, p. 504. 6 Del tutto gratuita pare dunque la seguente asserzione di F. Filippi: «per far montare su tutte le furie il povero Rovani bastava dirgli che la musica veramente bella, che merita il nome d'arte, era appunto quella, gustata da pochi, capita da pochissimi. - Egli la voleva patrimonio del pubblico volgare: l’epiteto di piazzoso l’ha inventato egli e questa qualità ch’era poi niente altro che Veffettaccio, pel Rovani invece era il non plus ultra della bellezza». Può darsi che Rovani avesse inven­ tato l’epiteto piazzoso-. ma da rivolgere, con spregio, in direzione opposta a quella che mostra cre­ dere il dott. Filippi (cfr. La musica nel 1877, in «Rivista Europea - Rivista Internazionale», i° gennaio 1878, Tipografia della Gazzetta d’Italia, Firenze). 7 Prefazione a Racconti della Scapigliatura Piemontese, Milano 19^3, p. 7. 8 Riassumeva il Filippi: «Tutta la guerra cieca, ostinata che taluni muovono alla musica dram­ matica, a quella stessa che ha benissimo adottata anche il Verdi ne’ suoi ultimi lavori, si riassume in questa formula aristotelica: la musica è melodia; la musica drammatica dell'avvenire non ha me­ lodia; quindi non è musica»-, e ancora meglio la situazione è illuminata riferendo la battuta di un dialogo immaginario: «... cosi una volta si doveva canterellare tutta un’opera da principio alla fine;

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sica era uscita dal suo isolamento, figurato come turris melodica, e Rova­ ni e i passatisti dicevano che c’era uscita a forza di cannonate (guerre, patria, ecc.). Ma non era solo questo; quando Thomas Mann riporta in uno dei suoi saggi wagneriani1 un passo del duetto fra Senta e l’olandese - e ne districa il significato, e conclude: «sono parole cantabili, ma non mai prima di allora si era destinato al canto qualcosa di cosi complesso nel pensiero, di cosi psicologicamente tortuoso» — ecco aprirci tutta un’altra, ben piu feconda dimensione! L’uscita della musica dal suo iso­ lamento, senza arrivare ad alterare i dati «sempre inequivoci»2 su cui si fonda l’arte verdiana, volle dire abolizione della distinzione fra mate­ rie musicabili e no: le pagine pubblico-politiche del Simon Boccanegra e del Don Carlos nascono dalla convinzione a volte tracotante di mette­ re in musica qualunque argomento («Tutto ciò è politico, non dramma­ tico; ma un uomo d’ingegno potrebbe ben drammatizzare questo fat­ to»3); il «motivetto»4 non ce la faceva piu a catturare qualcosa dell’uo­ mo nuovo uscito dalle rivoluzioni culturali e sociali della metà del secolo o a tenere il passo con le nuove situazioni che la sua ambizione intrave­ deva; né nelle travagliate «opere posteriori ai Vespri siciliani» poteva esserci «sintomo nessuno di ravvedimento5, ma invece ricerca di un « testo che si realizzi vocalmente e strumentalmente in una fusione uni­ taria, dove a volte le voci dei cantanti possono scendere a far parte del­ l’orchestra o gli strumenti possono salire a invadere la scena»6: una via, in fondo, suicida, che portava al dissolvimento dell’opera in musica, alla fine della sua ragion d’essere. Avevano dunque ragione i rossiniani, la Decadenza era inevitabile? forse si, solo che da buoni profeti erano in anticipo di mezzo secolo, con uno sguardo presbite che faceva perdere loro uno dei momenti più fecondi della storia dell’opera, vissuto inoltre con un impegno e uno sforzo personale che avrebbero diradato dalla mu­ sica il belletto di arte della seduzione, emolliente, anche agli occhi della tradizione letteraria più austera. Quanta musica, in senso assoluto, c’è nel prologo della Forza del destino versione 1869, o nel prologo del Boccanegra versione 1881, pagine più difformi dallo standard melodram­ matico di quanto fosse il Wagner allora.noto in Italia; ma cosa saranno parse a Rovani?: «prosa calcolata e a frastagli dell’ultima maniera di adesso, guai se un motivo vi rimane nella testa; siete scomunicati» (f. Filippi, Musica e musicisti, Milano 1876, pp. 219-20). 1 Dolore e grandezza di Wagner, in Nobiltà dello Spirito. Saggi critici, vol. X di Tutte le Opere di t. mann, a cura di L. Mazzucchetti, Mondadori, Milano 19.53, p. 448. 2 D'AMICO, Note sulla drammaturgia verdiana cit., p. 284. 3 1 copialettere di Giuseppe Verdi cit., p. ^59. 4 Filippi, Musica e musicisti cit., p. 219. 5 Rovani, in Storia delle lettere e delle arti in Italia cit., IV, p. 506. 6 c. sartori, Verdi, in La Musica. Enciclopedia storica, ad vocem.

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Tommaseo», di fronte alla «prosa ampia e veloce e poderosa e trionfan­ te di Foscolo» 1 {scilicet'. Rossini). I Cento Anni (e le annotazioni critiche che lo circondano) documen­ tano rigidezze classiciste, papillonage di acutezze, nostalgia del passato, divorzio fra intellettuali e musicisti tipico della storia italiana più recen­ te, vanità delle avanguardie. Già nelle avanguardie c’è sempre una mol­ la d’insofferenza reazionaria, per cui è bene non fidarsene troppo; ma si resta col rimpianto che ad accompagnare Verdi dopo I Vespri siciliani accanto, o invece dei Basevi, Filippi, D’Arcais, non siano stati, proprio in quella cultura lombarda che è la culla dell’arte verdiana, i Rovani i Dossi i Praga; ci sarà Boito è vero, ma un Boito molto diverso da quello dei primi «astratti furori». Conti del genere tuttavia sono difficili da far tornare; difficili già nel­ la storia sociale e politica, impossibili in quella artistica. E poi non era Verdi stesso, nel 1880, a ripetere Rousseau scrivendo «l’arte che manca di spontaneità, di naturalezza e di semplicità, non è piu arte»1 2, enuncia­ to che tutta la sua fatica artistica dopo il ’60 (vedi i rifacimenti) insidia alle radici? Divorzio quindi non solo fra intellettuali e musicisti, ma spac­ catura nello stesso artista, quando lavora radicato nel mestiere e quando firma raziocini con gli strumenti estetici che il tempo e il luogo gli met­ tevano a disposizione; in realtà non molto lontani da quelli dell’autore dei Cento Anni e dei suoi interlocutori. Carattere inconsapevole dell’espressione artistica? È indubbio che l’assunto di Mila, saggiato nel compositore cosi a lun­ go e intensamente studiato, conservi tutta la sua rassicurante attrattiva. 1 In Storia delle lettere e delle arti in Italia cit., IV, p. ^03. 2 I copialettere di Giuseppe Verdi cit., p. .5.59.

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Thalberg e Liszt: l’opera in salotto e in concerto

Tre salottini, pomposamente detti: anticamera, salotto verde e salot­ to rosso, comunicanti fra loro per mezzo di porte ornate da drappeggi damascati. Zia Annina, quarantenne, magra e vergine, nerovestita, il collo cir­ condato da un ricamo di denteile sostenuto da piccole stecche, li attra­ versava a sera inoltrata per raggiungere, nel «rosso», il pianoforte ver­ ticale «Ramsperger», collocato sotto due bracci di lampadine a for­ ma di candela. Girava l’interruttore e le candele elettriche illuminava­ no debolmente il salotto, riverberando nella specchiera una luce giallo­ gnola. Il moretto veneziano, di legno policromo, appariva nell’angolo, le penne di pavone occhieggiavano dal vaso di porcellana sull’etagere, i ninnoli «capodimonte» si profilavano vezzosi e inchinevoli sulla menso­ la a sinistra in fondo e il lampadario di Boemia, spento, al centro della sala, appariva leggermente iridato nelle sue gocce di cristallo. Zia Annina sedeva sul tabouret girevole, apriva il coperchio dello strumento (tenuto sempre chiuso a chiave) e collocava sul leggio un li­ brone rilegato in tela ed oro. Io andavo a sedermi su di una bassa pol­ troncina, lontano dal pianoforte. Era la conditio per la mia ammissione, unico di casa a poter seguire zia Annina in questo cammino verso il Par­ naso di famiglia. Ero un bambino buono e sensibile: amavo la musica, che allora offri­ va solo rare occasioni di contatto. E mi ci commovevo: non ancora gua­ stato dai bandi di concorso e dalle circolari ministeriali. Zia Annina mi proteggeva e tollerava la mia presenza a quei riti pianistici notturni. Questi avevano inizio sempre con un pezzo che mi estasiava e del quale avevo imparato ormai a canticchiare la melodia principale: nientedime­ no che «Casta Diva», trascritta da Sigismondo Thalberg. Non tento spiegazioni esoteriche sul perché quelle cerimonie quasi lunari dovessero cominciare a svolgersi al suono della cavatina di Nor­ ma. Fatto sta che se esiste un complesso psichico, diciamo cosi, «musica­

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le» io contrassi il vizio della «parafrasi» e delle «reminiscenze» duran­ te quei primi traumatici abboccamenti con Euterpe. E, come un male inconfessabile, nascosi questa tendenza, mentendo a parenti ed amici. Anzi, man mano che passavano gli anni, facevo fìnta di tenere in spregio la trascrizione e la rielaborazione, e deploravo persino le letture busoniane di Bach; ostentando il massimo orrore per’quei magistrali pasti­ ches. Ma in fondo all’animo coltivavo sempre le parafrasi. E quando les­ si nell’iridescente saggio di Beniamino Dal Fabbro (Crepuscolo del Pia­ noforte) l’aggettivo «lutulente», affibbiato alle Fantasie pianistiche in genere ed a quelle lisztiane in specie, n’ebbi un cruccio, un dispiacere che offuscarono non poco il diletto che andavano procurandomi quelle pa­ gine. Allora, per rifarmi, riaprivo il libro di Alfredo Casella, Il Pianoforte, e rileggevo le lodi della trascrizione, provando un senso di tenerezza in­ finita per le contorsioni dialettiche con cui il caro eroe del rinnovamento musicale italiano cercava di spiegare, al colto ed all’inclita, l’estetica del rifacimento pianistico, l’ethos della rielaborazione e della trascrizione. Ma cosa fu, in fondo la trascrizione, nelle sue molteplici sfaccettature: para­ frasi, fantasie, reminiscenze, ecc.? Un mezzo di comodo per rivivere i motivi d’opera ascoltati in teatro? Un pretesto d’esibizione al virtuoso più o meno au­ tentico? Un fatto editoriale e commerciale favorito da maestri di scarsa cultura e di gusto sbavato? Un’esperienza salottiera imposta da un pubblico che defi­ niva musica italiana l’opera e musica tedesca il resto, ignorato, manco a dirlo, quasi totalmente? Fu una cosa seria o una buffonata? Fu arte o non arte? Fu un po’ di tutto; un pizzico di questo ed uno di quello. Ed ebbe coi suoi molteplici aspetti influenze contrastanti sul farsi e il definirsi del pianismo. Cor­ ruttrice ma pure stimolante del gusto armonico, contribuì alla ricerca timbrica, cosi necessaria per tentare un accostamento al colore vocale su di uno strumen­ to a percussione.

Thalberg.

L’art du chant appliqué au piano. In questo titolo c’è tutto il program­ ma non solo di Thalberg, ma di ogni pianista d’allora e di oggi, attento ad estendere alla cantabilità la definizione di «tecnica». Nell’Ara du chant appliqué au piano le parafrasi, le reminiscenze, le fantasie hanno funzione dimostrativa. La stessa grafia indica il proposito didascalico. Le note della melodia sono marcate con caratteri decisi: le aggiunte pia­ nistiche, invece, hanno sembianze fini e sottili; quasi che con questo espediente si voglia dare il primo suggerimento all’esecutore per il gioco delle ombreggiature, per il contrasto fra tema e variazione; perché pos­

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sa, insomma, risultare subito evidente alla prima lettura il canto ed il suo contrappuntarsi in volatine e ghirigori Altra escogitazione grafica attribuita a Sigismondo Thalberg fu la scrittura su tre righi, adottata in alcune sue trascrizioni2. Ma essa, certo più significativa della precedente, e quasi necessaria, fu una trovata che risale a Francesco Pollini (Leybach 1763-Milano 1846) che ne dà notizia a Meyerbeer in una lettera. Thalberg forse la ignorò e se ne servì in una maniera del tutto diffe­ rente3. Ma più di questo espediente grafico, usato del resto molto di rado da Thalberg, e di cui Liszt si servì con maggiore frequenza, si deve a lui la trovata di alternare le note del canto, fra mano sinistra e mano destra, senza che lo snodarsi di arpeggi e di passaggi di bravura debba subire in­ terruzioni, pause, singhiozzi (cfr. es. 1). L’equa distribuzione della melodia fra le due mani fu tra le principali cause di stupefazione dei salons parigini. Chi non aveva ancora avuto occasione di leggere, sul foglio stampato, quanto Thalberg realizzava sulla tastiera si chiedeva come un solo esecutore potesse suonare un così grande numero di note senza offuscare la chiarezza della dizione. E tutti 1 Indicazione apposta all’inizio di alcune trascrizioni: «Le chant, par tie principale, est grave en notes plus fortes». 2 Lacrimosa da Mozart; Variazioni su God save the King; Home sweet home e Rule Britannia, nonché in composizioni originali. 3 In Pollini il canto si trova al rigo superiore e l’armonia è divisa fra gli altri due. Ne risulta un gioco tecnico macchinoso che talvolta confonde invece di semplificare:

dove il continuo incrociarsi della sinistra sulla destra per raggiungere un’ottava piuttosto alta rischia di creare soluzioni di continuità nella melodia.

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gridarono al miracolo e si estasiarono alla «nuova scuola», compreso il severo Fétis, che ne fece frequentemente l’apologià nelle sue polemiche con Berlioz, gran partigiano di Liszt, Thalberg, questo signore del pianoforte, fu tra i primi ad esaltare i

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motivi di opere, servendosi della rielaborazione virtuosistica di essi. Un esame delle sue tre principali Fantasie: Barbiere, Don Pasquale e Mose, mette in evidenza la chiara visione ch’egli ha del mezzo strumentale, ed il dichiarato proposito di realizzare un gioco sonoro di sola pretesa colo­ ristica. Nel Barbiere, però, si possono scorgere angoli che, pur apparen­ do oggi ingenua esercitazione, denunciano un mestiere, per quei tempi, assai scaltrito:

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Ma è solo al Mosè che spetta la palma della popolarità: ad esso soltan­ to si raccomanda il ricordo del «virtuoso» Thalberg. Motivo e perno principale del pezzo è la famosa Preghiera «Dal tuo stellato soglio», ma­ trice di infinite scorribande pianistiche, torturata da molti raffazzonatori, da troppi Thalberg in formato ridotto. Un tema dal pathos altissimo, ma anche pretesto ad un pirotecnico esplodere di girandole sonore, di accordi spezzati, di arpeggi, di trilli, di guizzi pianistici. Una statua mar­ morea dalle classiche forme, calamita involontaria di maniaci dell’imbrattare e del guastare. Il Mosè di Thalberg, eseguito da lui, fu il paradigma non solo di un ben definito genere di manipolazione e variazione tematica, ma anche e soprattutto di una nuova maniera di suonare il pianoforte. Ed in ciò es­ so si riscatta. Thalberg se ne servi per realizzare la pratica dei suoi princi­ pi tecnici ed interpretativi cosi limpidamente accennati nella prefazione all\4r£ du chant. «Non percuotere i tasti nell’eseguire il canto, ma attac­ carli da vicino ed affondarli»... «Suonare con mano libera da rigidezza [désossée]»... «Non attaccare la sinistra prima della destra»... «Osser­ vare la respirazione del cantante» e, dulcis in fundo: «... Studiare il can­ to!» (Egli stesso confessa di averlo studiato «cinque anni, [...] sotto la guida di uno dei più celebrati maestri» *). Non si può non sottolineare il risultato di queste e di altre norme sul suo modo di stare al pianoforte. Testimonianze ineccepibili confermano l’eccezionaiità di una compostezza che non subiva alterazioni neanche nei momenti di maggiore impegno di tecnica virtuosistica o quando la sonorità si amplificava. Dagli ascoltatori medi ciò fu attribuito ad una particolare distinzione dovuta alla sua discendenza nobiliare12, ai più scaltriti sembrò che Thalberg avesse inventato un nuovo metodo piani­ stico. Il che era più vicino alla realtà, tenute presenti le norme cui s’era accennato più sopra. Esse, e le altre che per brevità non sono state qui riportate, possono considerarsi, infatti, un avvio al razionale uso dei mu­ scoli necessari all’esecuzione: e quindi mezzo per eliminare gesticola­ zioni superflue o addirittura dannose. Questa Fantasie sur des thèmes de Móise en Egypte3 fu il vessillo dietro il quale turbe osannanti corsero per vedere e sentire Thalberg. Con essa l’idolo degli spensierati parigini si cimentò in casa della principessa Beigioioso in occasione della famosa gara con Franz Liszt nel marzo del 1837, con un successo che spinge George Sand ad affermare, tra una boc1 Si penserebbe al suocero: Luigi Lablache, ma pare (Hitchcock) che sia stato Manuel Garcia. 2 Pare ch’egli, nato a Ginevra nel 1813, fosse figlio naturale del conte Moritz Dietrich Stein della famiglia imperiale austriaca. 3 Da notarsi che il nome di Rossini non viene citato nel titolo.

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cata e l’altra dei suoi famosi sigari: « Liszt è il piu grande, ma c’è solo un Thalberg» e la Beigioioso di rimando: «Thalberg è il primo pianista del mondo, ma c’è solo un Liszt ». Sibilline esercitazioni critiche da conside­ rarsi le capostipiti di certe risibili sentenze emesse a conclusione dei mol­ ti degli attuali concorsi pianistici, ineffabile e talvolta squallida progenie di quell’incontro parigino fra personaggi di ben altra mole. La misura del «mestiere» scaltrito e raffinato di Thalberg si può ave­ re rileggendo quanto, a proposito di questa fatidica Fantasia sul Mosè rossiniano, dissero molti famosi con temporanei. Il professionale Marmontel, rispettato insegnante parigino di pianoforte, in Les pianistes celebres sottolinea «ces belles qualités de style, cette large manière de faire chanter le piano». Robert Schumann, dall’alto del suo soglio criti­ co, evita di pronunziarsi, redigendo un pezzettino di cronaca: La Fantasia sul tema del Mosè è notissima come uno dei piu trionfanti pro­ dotti di Thalberg ed in cui questi ha ottenuto clamorose vittorie dovunque. Specialmente negli arpeggi ascendenti e discendenti del finale, dove l’esecutore sembra sdoppiarsi e lo strumento produrne un secondo. Questa Fantasia fu ela­ borata certamente in uno dei momenti più felici dedicati a questa maniera di scrivere ed offre al virtuoso ogni possibile mezzo per soggiogare il suo pubblico. Chi non osserva con piacere un pubblico eccitato dall’entusiasmo? E quando la Fantasia ha realmente molti apprezzabili passaggi, anche un vero competente può ascoltarli con piacere per qualche minuto. Thalberg è un matador nei pezzi di questo genere...

Giochetti di parole talmente ben congegnati e cosi largamente conditi di zuccherini laudativi da trarre in inganno (e spesso è accaduto) circa il vero punctum dolens del rilievo critico, taciuto ma trasparente. Liszt, più esplicito, dopo aver ascoltato Thalberg a Vienna nel 1830 scrisse: Thalberg suona brillantemente, ma non è il mio tipo: è più giovane di me, ha successo presso le signore, scrive pot-pourris su temi dell’opera Masaniello, ma produce il «piano» col pedale invece che con le mani '.

Mendelssohn fu più chiaramente un ammiratore: Thalberg ha dato un concerto ieri sera e mi è straordinariamente piaciuto. Una sua Fantasia su La Donna del Lago era ricca di raffinati effetti, ed offriva uno stupefacente crescendo di difficoltà e di eleganze. Inoltre questo pianista ha una forza incredibile nelle mani ed anche una grande leggerezza. 1 E qui faccio un balzo di gioia nel sentirmi d’accordo col Titano Ungherese: accomunato a lui nel deplorare l’uso e l’abuso che della «sordina» fanno certi pianisti di oggi. Piegati in due sulla tastiera, i volti disfatti ed emaciati, le dita rattrappite e generanti suoni esangui e smorti, essi incen­ tivano la commozione, spinta fino alle lagrime, di molte dame zelatrici di giovani speranze della interpretazione à la sourdine. Epoca strana davvero la nostra in cui il microfono e l’altoparlante amplificano fino all’esasperazione le voci dei cantanti e degli strumenti della musica detta per iro­ nia «leggera», mentre la sordina mette la museruola al povero pianoforte inutilmente mastodontico!

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Liszt. Con la sua straripante personalità Franz Liszt soffiò sul fuochi fatui

delle trascrizioni di Thalberg: e le disperse. Sopravvissute per poco a loro autore, apparvero presto prive di quella vitalità di cui egli le puni­ va con la sua bravura strumentale. Liszt, a differenza del mite Ihalberg pago di scrivere pagine rabescate di ghirigori, fece della Fantasia qual­ cosa di più dello scatolone a sorpresa generatore di facili applausi. Nella parafrasi lisztiana, sotto tutto il bagaglio di orpelli, lustrini e falsi bijoux pianistici, s’impone con la sua consistenza un ferreo edifìcio sonoro i cui punti di tensione sono i temi d’opera. Talvolta quegli stessi che in Thalberg affiorano come ninfee sull’ac­ qua di un pianismo tutto eleganze e fragilità. Il più brillante campione di questa stoffa policroma è la parafrasi del Rigoletto. Lo è per la sua aderenza allo spirito che anima il famoso quartetto dell’ultimo atto. Lo è per la misura con cui si generano i passaggi pianistici, mai soverchianti e mai soffocanti il respiro della melodia. Il gioco compositivo si apre, si sviluppa e si esauiisce in un breve arco di durata, senza insistenze su ma­ stodontiche e schiaccianti difficolta meccaniche. Il che non avviene nella infernale Fantasia sulla Norma: una delle pagine più difficili di tutta la letteratura pianistica ottocentesca; una vetta alla quale agognano virtuosi d ogni età, cultura e censo. La Fantasia sulla Norma è il più clamoroso esempio della prevarica­ zione pianistica. Un tempestoso rovesciarsi di ottave, arpeggi ScX su temi innocenti e spauriti, che un capaneo del pianoforte ghfrmlsce aUa loro matrice indifesa e sgomenta (cfr. es. 3) ghermisce alia E non è che una spigolatura. Ma la costruzione sonora rimane sempre ben salda TI • j 1 architettura formale non ha tentennamenti e com i 1 domin110 ,de1' le smargiassate tecniche di cui è materiato 1J ’ umunclue si giudichino esempio di abffi.à d, scrittu “ dei St ’t è ""

materiale sonoro. Meno allegro

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Del melodramma italiano molti furono ad opera di Liszt i rimaneg­ giamenti. In un calderone enorme venivano gettati gli elementi più e te-

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rogenei: temi purissimi, spezie armoniche, coloranti e lieviti, ribolliva­ no fra rigurgiti melodici e schiume di note: ma alla fine tutto prendeva consistenza, configurandosi in robustezza di linee archi tettoniche. Il «Miserere» del Trovatore s’incupiva, con accenti ancora più scuri, nei registri gravi del pianoforte:

mentre la «Vergin Vezzosa» dei Puritani s’illeggiadriva indossando un costume degno della festa di «Mi-carème» degli ultimi decenni dell’Ottocento.

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Alla pianistica cena di Trimalcione, Donizetti è invitato d’onore: ma gli è riservato qualche intingolo più leggero. Le impennate pindari­ che della parafrasi sulla Lucia di Lammermoor si placano spesso in di­ stensivi abbandoni. Da «Chi mi frena in tal momento», di punto in bian­ co zampilla una cadenza che, coi suoi svolazzi ed il suo planare ad ali spiegate, alleggerisce un canto carico di tensione. Ma più che le complesse ornamentazioni da cui è appesantita nella più nota parafrasi, la Lucia s’agghinda di fronzoli eleganti e s’ingentili­ sce nella Valse sur des thèmes de Lucia et Parisinay quasi sconosciuta fino alla sua comparsa nell’edizione della Liszt’s Society. Qui la pagina non è travolta dall’arroventato magma pianistico, ma alita di freschi passaggi e passaggetti. Un «imaginifico» della tastiera, vestito da innocente, vuole farsi perdonare certe iperboli sonore, certi clangori tromboneschi:

una corda

La suggestione chopiniana di scrittura è evidente. È la stessa poliritmia del valzer in La bemolle op. 42 (cfr. es. 6). Nell’oceano sconfinato del catalogo lisztiano le parafrasi occupano un posto di preminenza. Per numero, ma anche per qualità. Condannate o apprezzate da un metro critico fluttuante, da un indiriz­ zo estetico e di gusto che mai sono stati cosi sfuggenti, irresoluti, capric­ ciosi, arroganti come oggi. Riserve di elementi dal valore disparato: eser­ citazioni tecniche e spunti armonici eleganti, guasti operati su talune me­ lodie e rispetto di altre uscite dalla trasposizione sul pianoforte indenni da ferite e tagli. Tutte testimonianti l’amore di un pianista geniale, d’un artista di preminenza assoluta, per il nostro melodramma, cui dedicò, 22

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piu ancora che a Wagner, a Schubert o a Bach stesso, le sue cure di letto­ re e di trascrittore. Fantasie, parafrasi, fiori alla memoria, omaggi, reminiscenze. Rove­ sci di note su motivi scarni ed essenziali, grandinare di passaggi su melo­ die lineari e purissime, rutilanti addobbi, sovrapposizioni decorative e floreali, niente è rimasto inattivo del bagaglio di ferramenta ed utensile­ ria pianistica. Ma il fiume incandescente e divoratore della trascrizione è stato gua­ dato con levità e senza conseguenze infamanti da una melodia transuma­ na: «Casta Diva», giunta all’altra sponda appena sfiorata da Sigismon­ do Thalberg e da lui consegnata alle mani verginali di zia Annina.

Indice dei nomi

I numeri in corsivo mettono in rilievo le parti dedicate in particolare ad un compositore.

Aarburg, Ursula, 158 n. Abbadia, Natale, 18. Abbagnano, Nicola, 278 n, 279 n. Abbiati, Franco, 34 n, 38 n, 123 n, 125 e n 126 n, 128 n, 129 n, 139 n, 146 n, n n 160 n, 163 n, 168 n, 176 n, 179 n, n 573 n, 574 n, 615 n. Abdoun, Saleh, 5 n, 125 n. Adam, Adolphe-Charles, 478. Adami, Giuseppe, 448, 459, 511 n> 5I2 n „2 523,534. ’ Adorno, Theodor Wiesengrund, 436. Agnelli, Salvatore, 405 n. Aguiari, Lucrezia, 610 n. Albani, Francesco, 341. Alberti, Annibale, 164 n. Alberti, Luciano, 141 n, 625 n. Alborghetti, Federico, 425. Albrecht Sberger, Johann Georg, 32. Aleardi, Aleardo, 589 e n. Alfano, Franco, 519 n. Alfieri, Vittorio, 539-4L 542 n, 543, 606, 625, 627 n. Algarotti, Francesco, 143, 563 n, 622, 623 n, 624,625 e n. Allegri, Gregorio, 36, 606. Alvaro, Corrado, 427. Amadei, M. L., 503 n. Ambrosoli, editore, 568 n. Ammer, P., 323. Ancelot, J.-A.-P.-F., 353 e n, 356 n, 359. Anceschi, Luciano, 427, 485, 567 e n. Andreoli, Carlo, 470. Angelini, Sandro, 427. Angioletti, Giovan Battista, 427. Anicet-Bourgeois, Auguste, 352 n, 379, 380 e n. Ansari, 14. Apollonio, Mario, 460 n, 461 n, 474 n. Appiani, Peppina, 316. Arbasino, Alberto, 460. Arenaprimo, Giuseppe, 316 n. Arienti, 627 n. Arnaboldi, Alessandro, 606, 607 n. Arrighi, Cletto, 568 n, 598. Arrivabene, Opprandino, 10, 38 n, 164 n, 246 n 523. Arruga, Franco Lorenzo, 612 n, 625 n, 627 n. Arteaga, Stefano, 623 n.

Ashbrook, William, 4i, n, 476 e n 483, 487 n, 488 e n, 489 e n, 496 n, 503 n. * Asioli, Bonifazio, 539-44. Asor Rosa, Alberto, 568 n. Assandri, Laura, 422. Auber, Daniel, 79, 446, 515. Auteri, Peppino, 304, 305. Azevedo, Alexis Jacob, 219, 221. Bach, Johann Sebastian, 192, 612 Bachelet, Alfred, 457. 4 Badiali, Cesare, 18, 422. Baldacci, Luigi, 120 n, 121 n, 122 n, 149 e n, 327 e n, 349 e n, 371 n, 380 e n, 460, 487 e n. Baldi, Guido, 567 n, 611 n. Baldini, Gabriele, 53, 58, 91-93, 97> IOI> IIO> 118, 158 n, 172 e n, 615 n. Barbaja, Domenico, 190, 413. Barbati, libraio, 427. Barbier, Jules, 514. Barbiera, Raffaele, 571 n, 577 n. Barbieri, maestro del coro, 503 n. Barblan, Guglielmo, 125 n, 168 e n, 169 n, 175 e n, 615 n. Barbò, conte, 288, 291. Bardare, Leone Emanuele, 113, II4> I2o. Barezzi, Antonio, 36 n. Barilli, Bruno, 425, 427, 628 e n. Barrière, Théodore, 515, 516. Bartók, Béla, 469. Bartolini, Lorenzo, 627 n. Baschenis, Evaristo, 427. Basevi, Àbramo, 630. Basily, Francesco, 407, 409 e n. Basso, Alberto, 45. Basti'anelli, Giannotto, 455. Battaglia, Salvatore, 160 n. Baudelaire, Charles, 532, 570 n. Bava Beccaris, Fiorenzo, 530. Bazzini, Antonio, 437-49, 456, 463, 470, 540 n, Bazzini, Tina, 439. Beaumarchais, Pierre-Augustin Caron de, 329. Becucci, 465. Beethoven, Ludwig van, 15, 24, 33, 35, 36, 216, 227, 234, 279, 309, 322, 457, 461,470. Bekker, Paul, 457. Belasco, David, 517 e n, 518, 520, 521. Belgiojoso, Lodovico, 442.

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Indice dei nomi

Beigioioso Trivulzio, Cristina, 352, 636, 637. Bellaigue, Camille, 160 e n, 344 n. Belli, Gioacchino, 434. Bellini, Carmelo, 293, 299, 304, 305, 307, 316. Bellini, Mario, 293, 299, 303, 305, 307. Bellini, Vincenzo, 16, 20-25, 28, 29, 32-34, 36, 38, 40, 104, 115 e n, 116, 204, 225, 228, 230, 233, 234, 281-363, 365-71, 374, 375, 392, 401, 405, 429, 465, 625, 627 e n. Belotti, Bortolo, 427. Berchet, Giovanni, 121, 581. Beretta, Antonio, 442. Berio di Salsa, Francesco, 187-89, 192, 193, 195, 196, 201-5, 208, 210, 211, 213-15, 217, 219, 220, 228, 232. Berg, Alban, 237, 457. Bergonzi, Carlo, 135 n. Berlioz, Hector, 27/28, 47, 84, 180 h, 336, 470, 472,634. Bernhardt, Sara, 152, 517, 520. Berrettoni, Antonio, 380. Bertani, Agostino, 568 n. Berlocchi, Diego, 606 n. Bertolazzi, Carlo, 434, 474. Besana, Antonio, 442, 444. Bettera, 427. Biaggi, Alessandro, 571 e n. Bianchi, Giovan Battista, 439. Bianchi, Mosè, 460, 606. Bianchi Bazzini, Teresa, 439. Bianconi, Lorenzo, 160 n. Bignami, Enrico, 568 n. Bindocci, Antonio, 378, 380. Binni, Walter, 485, 569 n, 570 e n, 581. Bis, Hippolyte, 230, Bizet, Georges, 451, 456, 461, 469-71, 479 4g5 500 n, 514. ’ ’ Bizzoni, Achille, 568 n. Bocca, Giuseppe, 427. Boccaccio, Giovanni, 160. Boìeldieu, Francois-Adrien, 326 n. Boito, Arrigo, 79, 80, 118, 119, 127 ( I57.g2 ,64 172, 176 e n 177-79, 181, 182, i93, 2o8’ J’ 451, 464, 469, 470, 514, 524, ,67-604, 607 630. Boito, Camillo, 87. Borges, Jorge Luis, 456. Borghetti, G., 442. Borghi, Gaetana, 422. Borgonovo,503 n. Bortolotto, Mario, 374 n, 456 e n, 469 n, 512 Bossarelli, Francesco, 281, 415 n. Bossarelli Mondolfì, Anna, 281, 415 n Bossi, Marco Enrico, 454. Botta, Carlo, 607 e n, 611, 625. Bottesini, Giovanni, 591. Bourgeois, Anicète, 379, 380 e n. Boutet de Monvel, E., 403 n. Brahms, Johannes, 470, 479, Bramante, Donato, 427. Branca, Emilia, 231 n, 321 n, 328, 332 n 3,4 n 335 e n, 341 n, 342 n. ' n’ Branca, Vittore, 160 n. Brelet, Gisèle, 429.

Britten, Benjamin, 456. Bruneau, Alfred, 457. Brunelli, Bruno, 309 n. Brunello, impresario, 444. Buccelleni, Antonio, 437-39. Budden, Julian, 615 n, 622. Bulow, Hans von, 117. Biirger, Gottfried August, 187. Buffalo Bill, pseudonimo di William Cody, 522. Bulterini, Carlo, 443, 444. Busoni, Ferruccio, 485. Byron, Georg Gordon, Lord, 188, 223, 546 n. 547 n. Cahn, Peter, 158 n. Cahoon, Herbert, 281. Cajkovskij, Pètr Il'ic, 79. Caillavet, Gaston Arman de, 515. Calderón de la Barca, Pedro, 163. Callas, Maria, 430. Calzabigi, Ranieri de’, 542 n. Cambi, Luisa, 115 n, 225 n, 282 e n, 283 e n 284 n, 285 n, 286 e n, 288 e n/289 e n^ 291 n, 292 e n, 295 n, 316 n, 352 n, 361 n. Cambiasi, Pompeo, 410 n. Camerana, Giovanni, 471, 567, 570 n. Cameroni, Felice, 568 n. Camisani, Faustino, 437. Cammarano, Salvatore, 113, u4> II9> r20-23 133, 403. 541, 550, 553, 581. Campagnoli, Bartolomeo, 415, 416. Cantu, Cesare, 549. Capponi, Giuseppe, 443, 444. Capranico, 415. Capri, Antonio, 158 e n. Carabba, 426, 427. Caracci, G., 14. Carafa, Michele, 326 n, 546 n. Carafa, Pompeo, 327 n. Caravella, Venturino, 299, Carbonaro, Carmelo, 299. Cardarelli, Vincenzo, 427. Carducci, Giosuè, 465. Garetti, Lanfranco, 427. Carignani, Carlo, 489 n. Carli Ballola, Giovanni, 365 n, 366 n Carner, Mosco, 460, 462 e n/463 n,'464 n, 466 e n, 467, 469 n, 470, 471 n, 475 e n, 479, 481 n, 482 n, 485 n, 487 n, 488-90, 491 n, 493 n, 496 n, 500 e n, 502 n, 511 n, 512. Carpani, Giuseppe, 12 n. Carpitella, Diego, 14 n. Carrà, Carlo Dalmazzo, 426. Carré, Michel, 514. Carrière, A., 32. Casella, Alfredo, 86, 458 e n, 632 Casini, Claudio, 365 n. Cassi Ramelli, A., 471 n, 473 n, 4g9 n Castelbarco, Emanuele, 425. Castelli, Dionigi, 439. Castil-Blaze, Francois Henry, i9d Catalani, Alfredo 451, 452,438,’ 46i', 465, 469-71, 475, 476, 479, 480, 483, 485, 487 513 571,577 0. h /.7 3, Catalano, Franco, 567 n.

Indice dei nomi Cavallotti, Felice, 568 n. Cazzami™ Mussi, F., 571 n. Cecchi, Emilio, 428. Cella, Franca, 321 n, 323, 324 e n, 371 n, 612 n. Celletti, Rodolfo, 471 e n, 475 n, 478 n, 479» 485 n, 503 n. Celli, Teodoro, 519 n. Cerri, 287, 289. Cesardi, T. O., 479 e n. Cesari, Antonio, 214. Cesari, Gaetano, 116 n, 160 n, 196 n, 344 n, 573 n. Cesarotti, Melchiorre, 342. Cesti, Marcantonio, 91. Championnet, Jean-Etienne, 143. Champollion, Jean-Fran^ois, 6. Chantavoine, Jean, 232 n. Chaplin, Charlie (Chariot), 103. Chateaubriand, Fran^ois-Auguste-René de, 628 n. Checchi, Eugenio, 219, 224, 232. Cherubini, Luigi, 15, 387. Chiabrera, Gabriello, 542. Chisari, Giosuè, 281. Chizzola, Gaetano, 415. Chopin, Frederic, 404 n, 461, 585. Cicconetti, Filippo, 288, 310, 316 n. Cimarosa, Domenico, 234, 270, 336, 611. Civinini, Guelfo, 321. Clément, Felix, 373. Clerici, A., 317 n. Coccia, Carlo, r6, 467 n. Cceroy, André, 457. Colapietra, Raffaele, 567 n. Colbrand, Giulietta, 445. Colbran, Isabella, 10-12, 197, 203. Coletti, Ferdinando, 23. Coli, Antonio, 339. Colleoni, Bartolomeo, 427. Colleoni, Giovanni, 291, 292. Colleoni Corti, Benoìte, 292. Comagro, Gianluigi, 303 n. Combarieu, Jules, 457. Comelli, 284. Conard, 434. Conati, Marcello, 14 n, 607 n. Conconi, Luigi, 472. Confalonieri, Giulio, 336 e n, 365 n, 368 341 Consoli, 503 n. Conti, Carlo, 406 n. Contini, Gianfranco, 628. Cooper Fenimore, James, 379, 380 e n. Coppola, Pier Antonio, 410 n. Corazzini, Sergio, 476. Corneille, Pierre, 403. Coronaro, Gaetano, 377 n. Cossa, Pietro, 473. Cossotto, Fiorenza, 133 n. Cotin, abate, 163. Cremona, Tranquillo, 472. Crescenti ni, Girolamo, 282. Croce, Benedetto, 121, 460, 367 e n, 619 Curioni, Alberico, 286, 289, 290.

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Dal Fabbro, Beniamino, 632. Dall’Ongaro, Francesco, 440. Damerini, Adelmo, 138 n. D’Ambra, Lucio, 439. D’Amico, Fedele, 3 n, 92, 363 n, 427, 4g9 n 499 n, 300 n, 303 n, 311 n, 312 n, 627 n’ 629 n. ’ D’Amico, T., 333 n. D’Annunzio, Gabriele, 436, 461, 473 Da Nova, Giovanni, 425-27. 7 ‘ 522' Danton, Antoine-Laurent, 290, 291. Dante Alighieri, 160 n, 174, 214. Da Ponte, Lorenzo, 326, 363 n. Da Pozzo, G., 623 n. D’Arcais, Francesco, marchese, 371 e n, 630 D’Azeglio, Massimo, 349, 623. Deangelis La Salvi, 290. Debenedetti, Giacomo, 460. Debussy, Claude-Achille, 433, 437, 484, 300, 319, 332. De Gasperini, 447. De Giosa, Nicola, 403 n. Delacroix, Eugène, 472. Delavigne, Germain, 323. Del Fiorentino, Dante, 311 n. Delibes, Clément-Philibert-Léo, 436, 479. Della Corte, Andrea, 322 n, 377, 431, ^•71 n Dell’Aquila, 378. Della Peruta, Franco, 571 n. De Lollis, Cesare, 121. De Marini, 282. De Martino, Ernesto, 14 n. De Nobili, Lila, 133 n, 138 n, 144. Denza, Giuseppe, 289, 290. De Rensis, Raffaello, 79, 379 n, 388 n. De Roberto, Federico, 469. De Santis, Cesare, 79,113, J20,146 n, 373 n. Destin, Maria, 443, 446. Diabelli, Antonio, 22. Doca, 290. Dolby, 33. Dolci, Antonio, 406 n, 422, 423. Donati Petteni, Giuliano, 423. Donizetti, Gaetano, 16, 17, 20-23, 28, 29, 32 33, 38-40, 104, 116, 117, 119-21, 202, 210’, 226-28, 231, 233, 234, 289, 365-71, 374, 373’ 378, 392, 401, 405-35, 454, 465, 546 n, 373 n,’ 614, 623,627 e n, 641. Donzelli, Domenico, 384, 410 e n, 421, 423. Dorè, Gustave, 472. Dossi, Carlo, 367 e n, 369 n, 376 n, 607 e n, 608 n, 6ro,6ri n, 613, 623, 630. Ducis, Francois, 189, 213. Dumas, Alexandre (figlio), 72, 346 n. Dumas, Alexandre (padre), 380, 378. Duparc, Henri, 300. Duprez, Gilbert, 403. Duse, Eleonora, i6r.

Elena, regina d’Italia, 463. Eliot, Thomas Stearns, 456. Elmo, Cloe, 303 n. Elssler, Fanny, 31 e n, 38. Engelfred, Abele, 433. Escudier, editori, 76, 89, 203, 204 n, 216, 223.

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Indice dei nomi

Escudier, Leon, 33, 36 n, 37. Euripide, 365. Fabrizi, A., 541 n. Faccio, Franco, 446, 448, 470, 514, 577 e n 570 e n, 581, 582, 587 e n, 590, 592-95, 602-4 607. ? Failla, Enrico Salvatore, 281. Fancelli, Giuseppe, 445. Fattori, Giovanni, 458, 461, 472. Fauré, Gabriel, 457, 500. Fellerer, Karl Gustav, 17 n, 42 n, 459. Ferdinando I, re di Napoli, 408, ’409. Ferdinando II, re di Napoli, 405, 406. Ferlito, Vincenzo, 285, 295, 353/ Ferranti Giulini, Maria, 283. Ferrari, 576 n. Ferrari, Bruno, 428, 429. Ferrarlo, Carlo, 445. Ferretto, Andrea, 579 n. Festa, Francesca, 224. Fétis, Fran^ois-Joseph, 27, 129 n, 230 232 373 634. Filicaia, Vincenzo da, 542. Filippi, Filippo, 27, 447, 448, 463, 482, 570, 571 e n, 573 n, 576 n, 628 n, 629 n, 630. Finzi, Riccardo, 539 n. Fink, Gottfried Wilhelm, 13 n. Fiore, 291. Flaubert, Gustave, 427, 434, 457, 516, 565. Flers, 515. Fiorimo, Francesco, 281, 282, 284, 285, 291, 310 312, 313 n, 326 n, 331, 351, 352 ó, 354 n, 360 e n, 361, 362 e n, 363 n, 375, 404, 405 n, 406, 415. Flotow, Friedrich von, 470. Fogazzaro, Antonio, 451, 460, 473. Folchetto, 113 n. Fontana, Ferdinando, 457, 461, 471, 473-76, 478, 480, 485-87, 489, 491, 513, 525* 571 nFortis, Leone, 568 n, 576 n. Forzano, Giovacchino, 522, 523, 533. Foscolo, Ugo, 214, 630. Fournier, 515. Fraccaroli, 459, 512 n, 520. Franchetti, Alberto, 452, 465, 470, 471, 485, 520,523. Franck, César-Auguste, 457. Freschi, Antonio, 439, 441. Fricci (Frietsche), Antonietta, 442. Frigerio, Mario, 503 n. Frontini, Francesco Paolo, 310, 3ri. Frugoni, Cesare, 432, 542. Fucini, Renato, 458, 466, 468.

Gadda Conti, Piero, 460. Gagliano, Emanuele, 286. Gal, Hans, 175. Gaietti Gianoli, Isabella, 7 n. Galignani, 291. Gallarani, M., 539 n. Galli, Amintore, 425, 571. Galliari, fratelli, 606, 608, 611. Gallico, Claudio, 627 n.

Gallignani, Giuseppe, 578. Gailini, Natale, 355 n, 462 n, 463, 489 n. Galuppi, Baldassarre, 164-68, 174, 175, 606-8, 615 n. Gambussi, 287. Gara, Eugenio, 460, 571 n. Garbin, Edoardo, 176. Garcia, Manuel del Popolo Vicente, 219, 636 n. Garibaldi, L. A., 36 n. Gasparini, Francesco, 187. Gastaldon, Stanislao, 465. Gatti, Carlo, 119 n, 425, 571 n. Gatti, Guido Maria, 458 e n, 460 e n. Gatto, Alfonso, 426. Gautier, Théophile, 31 n, 232, 479 e n, 482 n. Gavazzeni, Gianandrea, 119 n, 125 n, 135 n, 335, 336 n, 454 e n, 457 e n, 459 e n, 461 n, 478. Gazzoletti, Antonio, 440-42, 445, 447, 448. Generali, Pietro, 15, 16, 206, 371. Gerardi, Filippo, 292. Gerbert, Martin, 181 n. Ghedini, Giorgio Federico, 604. Gherardini, Vittoria. 539. Ghiaurov, Nicola), 135 n. Ghidetti, E., 567 n. Ghidini, Alberto, 542 n. Ghislanzoni, Antonio, 5, 7 e n, 8, io e n, 119, 120 n, 127, 133 n, 134, 139, 145, 147 n, 148 n, 149, 150, 155, 174, 469, 513, 568 n, 569 e n, 571 n. Giacosa, Giuseppe, 460-62, 469, 474, 489, 514519,521,527. Giampieri, Alamiro, 406. Giannetti, Raffaele, 405 n. Giarelli, F., 571 n. Gilardoni, Domenico, 296, 413, 415, 416, 42I. Gille, Philippe-Emile-Fran?ois, 514. Ginestrelli, Gelsomina, 313, 315. Ginori, marchesi, 466. Giordano, Umberto, 451, 465. Giovanni Fiorentino, 160 e n. Giraldi Cinthio, Giovan Battista, 189. Girard, Bernardo, 281, 419, 422, 423. Giuffrida, Ignazio, 285. Giuliano, Giuseppe, 306 n. Gluck, Christoph Willibald, 15, 33, 144 n> 225> 229, 231, 249,256 n, 320, 428, 541. Gobatti, Stefano, 573 n. Godet, Robert, 426. Godowsky, Leopold, 485. Goethe, Johann Wolfgang von, 187, 598 e n, 599 n, 600 n, 601. Gogol' Nikola) Vasil'evic, 434. Gold, Didier, 522. Goldberg, 23. Goldmark, Karoly, 471. Goldoni, Carlo, 163-65,168, 181, 611. Gomes, Carlos Antonio, 568 n, 571, 578, 579 Goncourt, Edmond de, 518. Gor'kij, Maksim, pseudonimo di Aleksej Maksimovic Peskov, 522. Gossett, Philip, 367, 375 n, 419 n. Gounod, Charles, 128 n, 144 n, 164 e n 447 461, 470, 514, 571, 576, 578, 598, 599.

Indice dei nomi Gozzano, Guido, 456, 460, 461. Gozzi, Carlo, 445, 447, 448, 513 n, 523, 611. Gramola, Antonio, 477, 491, 500 n. Grandi, Giuseppe Domenico, 472. Granger, 143, 144. Grasse, Marie, 7 n. Grisi, Giulia, 291, 331, 341, 361 e n. Grossi, 7. Grossi, Tommaso, 546 n, 627 n. Gualerzi, Giorgio, 606 n, 613 n. Guasco, Carlo, 37, 38. Guerrazzi, Francesco Domenico, 548. Guerrera, Filippo, 316 n. Guglielmi, Pietro, 610 n. Guidi, Giovan Gualberto, 438,445. Giinther, Ursula, 5 n. Gussoni, 426. Gutierrez, Beniamino, 605 n, 612 n, 613 n. Gyrowetz, Adalbert, 15. Haendel, Georg Friedrich, 15, 19, 32. Halévy, Jacques-Francois, 403 n, 411, 514, 626. Hanslick, Eduard, 27, 30, 545, 546. Hartig, Franz von, 408, 409. Hauptmann, Gerhard, 460. Haydn, Franz Joseph, 19 n, 24, 30, 36, 38, 238, 387, 410 n. Hayez, Francesco, 627 n. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 277-80. Heine, Heinrich, 513, 514, Herz, Henry, 288, 289. Hiller, Ferdinand, 411 e n. Hitchcock, 636 n. Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus, 227, 613 n. Hoffmannsthal, Hugo von, 456. Holbein, Hans, detto il Giovane, 431. Hopkinson, Cecil, 469 e n, 489, 512 n. Horne, Marilyn, 367. Hughes, Spike, 158 e n. Hugo, Victor-Marie, 217, 380, 460, 546 n, Hiittenbrenner, Josef, 223.

Ibsen, Henrik, 485. Illica, Luigi, 488, 489, 512 n, 514, 515, 517, 520,323. Imperatori, 292. Invernizio, Carolina, 560 n. Isella, Dante, 567 n, 607 n. Isotta, Paolo, 12 n. Jacchelli, 290. Jacovacci, Vincenzo, 118. Jakobson, Roman, 247. Janacek, Leos, 469. Jommelli, Niccolò, 606, 623. Jouy, Victor-Joseph-Etienne, detto de, 230. Joyce, James, 425. Junck, Teresa, 571 n. Kant, Immanuel, 279. Kapp, Julius, 320 n. Kende, Gòtz Klaus, 164 n. 23

649

Kleist, Heinrich von, 227. Krauss, Clemens, 164. Kiihner, Hans, 158 e n. Kummel, Werner Friedrich, 13. Kummer, Friedrich August II, 35. Kunze, Stephan, 615 n.



187,

515

612.

Lablache, Luigi, 284, 291, 361 e n, 415-17, 422, 423,636 n. La Cainea, 539, 540. Lampedusa, Tommaso, 623. Lampugnani, Giovanni Battista, 608. Lanari, Alessandro, 289. Laporte, Francois, 286, 289, 290. Latessa,28i. Lawton, David, 38 n. Léhar, Franz, 489. Leibowitz, René, 464 e n, 511 n. Leonardi, 286. Leoncavallo, Ruggero, 455, 465, 514. Leopardi, Giacomo, 222, 352. Lessona, Michele, 129. Levi, 489 n. Levi, P,, 571 n. Lichtenthal, Peter, 13, 14 e n, 36. Lickl, Aegidius Ferdinand Karl, 441. Linati, Carlo, 611 n. Lind,Jenny,341. Linguaglossa, principessa, 359 n. Lippmann, Friedrich, 256 n, 298 n, 303 n, 305 n, 321 n, 323 e n, 362 n, 365 n, 624 n. Liszt, Franz, 79, 140, 232, 373, 472, 585, 633, 634, 636, 637, 638-42. Litta, Giulio, 579 n. Lobe, Johann Christian, 32. Locle, Camille du, 5 n, 8 e n, 89, 128 e n, 129 e n, 139, M3 e n. Lodi, Luigi, 568 n. Lope de Vega, vedi Vega Carpio, Félix Lope de. Lortzing, Gustav Albert, 368. Loschelder, J., 13. Loti, Pierre, 517, 518, 521. Lowe, Sophie Johanna, 37, 38. Lucca, Francesco, 40 n, 423, 424, 440, 442, 446. Lucca, Giovannina, 34 n, 469, 480. Lugli, Vittorio, 426, 427. Luther Long, John, 517 e n, 518. Lutti, Vincenzo, 441. Luzio, Alessandro, 114 n, 116 n, 158 n, 160 n, 164 n, 196 n, 344 n, 573 n. Luzzatto, Gino, 567 n. Machiavelli, Niccolò, 32. Maeterlinck, Maurice, 579 n. Maffei, Andrea, 38 n, 119, 440, 441. Maffei, Clara (Clarina), 34 n, 38 n, 116, 181 n, 446,577 n. Maggi, Paolo, 434. Maggioni, Manfredo, 40 n. Magnani, Girolamo, 128,143. Mahler, Alma, 457 e n, 500. Mahler, Gustav, 457. Majer, Andrea, 610. Malibran, Maria Felicita, 219, 341, 362, 409 Mancinelli, Luigi, 483, 486, 488 e n, 489 n/604.

6jo

Indice dei nomi

Mandelli, Alfredo, 511 n, 512 n. Manfroce, Nicola Antonio, 369, 373. Manhes, contessa di, 331. Mann, Thomas, 629 en.Mantegazza, Pietro, 422. Manzoni, Alessandro, 122, 177-80 182 434> 569 n, 575 e n, 581, 626 e n, 627 n. Manzotti, Luigi, 141. Marcelliano, Marcello Marco, 378. Marchetti, Arnaldo, 512 n. Marchetti, Filippo, 470, 571, 573 n, 57s Marchisio, Barbara, 6. ’ 37 ’ 579’ Marchisio, Carlotta, 6. Marek, George R., 459, 512 n. Mariani, Angelo, 27,140. Mariani, G., 567 e n, 568 n, 569 e n, 575 n n, 589 n. ’ 570 Mariani, Renato, 459 e n, 481 n, 48-» n a8q n 498 n. ’ 4 J n’ Mariette, Auguste, 5 n, 8 e n, 127, 128 e n n, 143,144. ’ 129 Marietti, 284. Marini, Ignazio, 421. Marliani, Aurelio, 380. Marmontel, Antoine-Fran^ois, 637. Marotti, Guido, 511 n, 512 n. Marrast, Armand, 230. Marschner, Heinrich August, 368 d7T Marselli, A., 574 e n. Marselli, Nicola, 27 n. Marsollier, Bénoit-Joseph, 359 n, 360 Martini, Ferdinando, 458. Martini, Giambattista, 427. Martinotti, Sergio, 588 n. Martucci, Giuseppe, 469. Marussig, Piero, 426. Marx, Heinrich Karl, 568 n. Mascagni, Pietro, 91, 434, 45I 4„ , 46j, 470, 475, 478, 483, 6o4. ”• 456> 461’ Masini, Pier Carlo, 568 n. Massenet, Jules, 452, 456, 461, 469-71 47Q .0. 514, 515» 520,521,571. ’ 4°4’ Mattei, Stanislao, 53, 427. Mayr, Johann Simon, 15, 16, 292 e n 37T n, 424,437’ 7 * 4 Mayseder, Joseph, 32. Mazzatinti, G., 542 n. Mazzuccato, Alberto, 470, 546 n. Mazzucchetti, Lavinia, 629 n. Mazzuchelli, Giovanni Maria, 165. Méhul, Etienne-Nicolas, 23, Meilhac, Henri, 514. Meiselman, Ben, 281. Melzi, Gaetano, 407, 408, 410 e n. Mendel, K. Hermann, 27 n. Mendelssohn-Bartholdy, Felix, 31, 37 Menegatti, Beppe, 503 n. ’ Menotti, 503 n. Menotti, Gian Carlo, 456. Mercadante, Giuseppe Saverio, 16 e n 24, 25, 27 n, 29, 34, 38, 40, 116, 365-4Oi2,O4O5’ 406, 409, 627. * » Mercier, Sébastien, 545. Merelli, Bartolomeo, 21. Meric-Lalande, Enrichetta, 417.

Mérimée, Prosper, 87, 437, 472. Merli, 503 n. Messager, André, 456, 517. Metastasio, Pietro, 309, 541-43, 560 n, ó24 Meyerbeer, Giacomo, i>, 16, 24, 26 27 e n 20 32, 36, 37, 40, 46, 47, ir7, 202 n, 2o9, ’224 399, 4to n, 452. 47o, 513, J7I) J74> J?6 g' 627,633. Meyerowitz, Jan, 511 n. Mila, Massimo, 5, 45 e n, 47 e n, 53 e n 56 e n 58 60, 63 e n, 66, 68, 72 n,73, 74 en%6 £ 77-83, 86 e n, 87 e n, 89 n, 91, 92, 105 113 n, 117-19, 120 n, 157, 229, 332 n, 354’e n 428,6150,6280,630. , Missiroli, Bindo, 432. Mittner, Ladislao, 280 n. Modesti, 503 n. Moestrup, Jorn, 567 n. Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto, 165 e n. Molinelli, Pietro, 442. Monaldi, Gino, 459. Monplaisir, Ippolito Giorgio, 128. Montale, Eugenio, 456, 460, 461 e n, 469. Montazio, Enrico, 36 n. Monterosso, Raffaello, 305 n, 306 e n, 322 n, 344 n. Monteverdi, Claudio, 237, 458. Montuoro, 578. Morabito, Leo, 281. Morazzoni, G., 407. Morelli, Cosimo, 195. Morelli, Domenico, 131,134. Morgan, S., Lady, 187 e n. Morini, Mario, 466, 467 n, 512 n. Morlacchi, Francesco, 15, 405. Mosca, Giuseppe, 15, 143 n. Moscheles, Ignaz, 214. Motti, Felix, 132. Mozart, Wolfgang Amadeus, 13 n, 15, 24, 36, 48, 205, 238, 248, 249, 257 e n, 259, 271, 273 n, 276, 277, 606 n, 615-17, 633 n. Mugnone, Leopoldo, 489. Miirger, Henri, 516, 520, 568 n. Musil, Robert, 319. Musorgskij, Modest Petrovic, 426, 563 n. Musset, Alfred de, 457, 461, 473, 485, 513, 514Muti, Riccardo, 125 n. Muzio, Emanuele, 36 n. Naclerio, Antonio, 313, 315. Nardi, Piero, 160 n, 161 e n, 567 n, 569 e n, 570 n, 588, 589 n, 590 n, 605 n, 607 n, 609 n, 611 n, 613 n, 614 n. Natali, 423, 424. Neera, pseudonimo di Anna Radius Zuccari, 459, 460. Nicastro, Aldo, 511 n. Niccodemi, Dario, 455. Niccolini, 410 e n. Nicodemi, G., 571 n. Nicolai, Otto, 15, 20. Nono, Luigi, 545. Nourrit, Adolphe, 287, 403, 404 n, 411 e n. Novello, Clara, 410 e n.

Indice dei nomi Offenbach, Jacques, 84, 86, 457, 47I> 5IOliva, Domenico, 514, 515. Omero, 607. Onloch, 288. Onofri, Arturo, 425. Onslow, Georges, 35. Oppo, 503 n. Orlandi, Fernando, 15, 16. Orrey, L., 326 n. Orselli, Cesare, 511 n. Ortolani, Giuseppe, 163 n. Osthoff, Wolfgang, 158 n, 622 n.

Pacini, Giovanni, 16 e n, 22, 23 e n, 24 25 29, 34, 36 n, 116, 369, 371, 546 n. Padoan, Carlo, 503 n. Paèr, Ferdinando, 15. Paganini, Niccolò, 438. Pagano, Luigi, 160 n. Pagliara, Rocco, 304, 305, 359 n. Pagnì, Ferruccio, 459, 472. Paisiello, Giovanni, 15, 204, 234, 326 336 e n 342, 359-63, 369, 615 n. Palestrina, Giovanni Pierluigi da, 145 146 2Q-, Panelli, 472. ’ ’ J ‘ Panichelli, Pietro, 512 n. Pannain, Guido, 310 e n, 322 e n. Panzini, Alfredo, 623. Paola, Jano, 285. Parigi, Luigi, 455. Parini, Giuseppe, 606' Parish-Alvars, Elias, 19 n. Pascoli, Giovanni, 96, 215, 216, 476. Pasini,-Ignazio, 422-24. Pasta, Giuditta, 283 e n, 286-91, 297, 298 332 341, 342 e n, 359 n, 410 n. ’ Pastura, Francesco, 284 n, 285, 286 n, 287 e n 289, 299, 300, 305 n, 307 e n, 310, 313 3I4’ 3l6 n, 321 n, 352 n, 353 n, 355 e n. Paterno, Ciccio, 285. Pavesi, Stefano, 15, 16, 326 n. Pelliccioli, Mauro, 427. Pepoli, Carlo, 351-53, 354 n, 355, 356 n, 358 n 359 n, 360, 362. Peralta, Angelica, 446. Pergolesi, Giovanni Battista, 36, 611, 623. Peri, Jacopo, 540 n. Persico, Mario, 281, 406 n. Perticati, Giulio, 212. Pestalozza, Luciana, 281, 310, 424 n. Pestelli, Giorgio, 569 n, 571 n, 619 n. Petrella, Enrico, 546 n, 578. Petrobelli, Pierluigi, 351 n, 352 n, 353 n, 354 n, 357 n, 615 n, 616, Petrucciani, Mario, 567 n. Piave, Francesco Maria, 34 n, 114, 115, 119,120, 122, 123, 541, 559, 560, 563 n, 581, 612. Piazzi, F., 571 n. Picander, pseudonimo di Christian Friedrich Henrici, 192. Piccinni, Niccolò, 336, 368, 541. Pinagli, Paimiro, 115 e n. Pintorno, Giuseppe, 488 n, 512 n, 521 n. Pinzanti, Leonardo, 473 n, 480 n, 483 n, 487 n, 491 n, 498 n, 51T n.

651

Pistilli, Achille, 405 n. Pizzetti, Ildebrando, 319 n, 452 n 453*55, 459 n, 469, 471, 482, 484, 490, 496’ n, 519, 604. Pizzi, Pier Luigi, 144 n. Poggi, Gianni, 410 n. Polleri, Francesco, 295. Pollini, Francesco Giuseppe, 282, 633 e n Pollini, Marianna, 287. Ponchielli, Amilcare, 448, 451, 456, 461 463 465, 469, 470, 478, 479, 481, 496, 525 546 n’ 573 n, 578. ’ ' ’ Poniatowski, principe, 128. Porta, Carlo, 626. Porter, Andrew, 351, 357 e n, 360, 361. Pougin, Arthur, 113 e n, 119, 310. Poulenc, Francis, 458. Pozzoni, Antonietta, 443. Praga, Emilio, 513, 567 e n, 568 n, 569 e n 575 n, 576-78, 579-^7, 590 e n, 603, 630 Praga, Marco, 460, 469, 471, 514, 5I5> 52O Prati, Giovanni, 121, 581. Prati Negroni, Giuseppina, 159 n. Praz, Mario, 471 e n, 473. Price, Leontyne, 135 n. Pretti, Aldo, 135 n. Proust, Marcel, 456, 462, 565. Puccinelli, Michele, 420. Giacomo, 368, 448, 449, 451-535, 604, Puskin, Aleksandr Sergeevic, 434. Puzone, 405 n.

Quicherat, Louis, 403 n. Quintili-Leoni, 443. Radiciotti, Giuseppe, 12, 16 n, 219 n, 227 n 249 n, Raimondi, Pietro, 404. Rameau, Jean-Philippe, 455. Ranieri, 18. Ranzoni, Daniele, 472. Ravel, Maurice, 456, 458 e n, 500, 530 531, Reicha, Antonin, 32. Respighi, Ottorino, 457. Revel, Bruno, 425. Ricci, Federico, 440, 441. Ricci, Luigi, 16, 20, 24, 25, 29, 32, 34, 38 455 460 n. ’ Ricci, Rosa, 415. Ricordi, Giovanni, 286, 288, 289, 353 n 438 Ricordi, Giulio, 7, 8 e n, 125, 126 e n, 128-30 131 n, 133 n, 134 n, 142 n, 145, I46 n, 151’ 153, 159 n, 163 n, 168, 180, 446, 448, 440’ 461, 477, 489 n, 496 e n, 512 n, 514, 51g’ 520,523-25,531.625 n. ’ 1 Ricordi, Tito, 142 n, 439, 440, 521. Righetti-Giorgi, Gertrude, 191, 257 n. Rimbaud, Jean-Arthur, 456. Rinaldi, Mario, 321 n, 341 n, 379 n. Ringer, Alexander L., 379 n. Rinuccini, Ottavio, 542. Robbins Landon, Howard Chandler 281 317 Rogers, Samuel, 188 n. Rognoni, Luigi, 12 n, 189 n, 190 n, 191 n, 217 n 257 n, 263,272 n, 458. ’ ’ Rolla, Alessandro, 437.

6^2

Indice dei nomi

Romani, Felice, 17 n, 18 n, 119, 231, 283, 293 n 296, 297, 321, 322, 323, 325, 326 e n, 327,’ 329, 333, 338 n, 340, 341, 342 n, 349, 331, 333, 378, 379, 380, 430, 467 n, 356. Roncaglia, Gino, 80, 82, 89, 123 e n, 138 n, 174, 202 n, 208 n. Ronconi, Luca, 144 e n. Rondinella, Francesco, 413. Ronga, Luigi, 320 n, 423. Roppa, 30. Rosei, Marco, 427. Rosen, David, 38 n. Rossi, Gaetano, 8 n, 326 n, 378, 379, 380 e n. Rossi, Lauro, 378. Rossini, Gioacchino, 6, 8 n, io, 12, 13, 16, 17 19 n, 20-23, 29, 30-32, 37, 38, 40, 79, 104,’ 106, 187-280, 284, 303, 323, 348, 337 n, 363369, 375, 386, 400, 4143 n, 463, 373 n, 611, 618, 623-27, 630, 636 n. Rota, Giuseppe, 368 n. Rousseau, Jean-Jacques, 339, 630. Rovani, Giuseppe, 190, 223, 367, 569 e n, 376 n, 603-30. Rovetta, Gerolamo, 439, 469. Rubini, Giovanni Battista, 282, 290, 291, 331, 414-16,419,420,423,431. Rubinstein, Anton Grigor'evic, 471, 483. Rullano, principe, 284. Roggeri, Pietro, 434.

Sacchetti, Franco, 378. Saint-Saèns, Camille, 374. Sala, Marco, 469, 473, 480, 323. Salatino, Pietro, 403 n. Saldati, Luciano, 303 n. Salieri, Antonio, 13. Salvador!, 414, 416. Salvetti, Guido, 616 n. Samara, Spiro, 483. San Clemente, Simone Vincenzo, duca di, 439, 442,445Sand, George, pseudonimo di Aurore Dupin 636. Sanquirico, Alessandro, 143 e n. Santi, Piero, 470 e n, 496 n, 311 n. Santocanale, Filippo, 291, 334 n. Sanzogno, Nino, 499 n, 303 n. Sarasate y Navascuéz, Pablo Martin Melitón, 485. Sardou, Victorien, 317, 321, 329. Sarmiento, Salvatore, 403 n. Sarti, Giuseppe, 42. Sartori, Claudio, 433 n, 460 e n, 462 n, 463 n, 464 n, 470 n, 473 n, 479, 486 n, 488 n, 489 n^ 496 n, 302 n, 311 n, 312 n, 629 n. Sartorio, Giulio Aristide, 472. Savi, Luigi, 17 e n. Savoia, 403 n. Saxo Grammaticus, 187. Scarlatti, Domenico, 187. Scharwenka, (Franz) Xaver, 483. Schedilo, Michele, 160 n, 163 n. Schieroni, 33. Schiller, Friedrich, 187, 230, 443, 447, 448, 347 n.

Schippers, Thomas, 366. Schlesinger, Moritz Adolph, 37. Schlesinger, signora, 427. Schlitzer, Franco, 293 n, 321 n, 334 n. Schneider, Johann Christian Friedrich, 32. Schoenberg, Arnold, 437, 438, 311 n. Schopenhauer, Arthur, 119, 182. Schott, 40, 438. Schubert, Franz, 223, 322, 404 n 642. Schuh, Willi, 164 n. Schumann, Robert, 26, 423, 461, 637. Sciattino, Salvatore, 311. Scott, Walter, 333, 346 n. Scribe, Augustin-Eugène, 72, 118, 119, 323, 323, 380,315Scudo, Paul, 27, 373. Seligman, Vincent, 302 n, 312 n. Selviassetti, 287. Seyfred, Ignaz Xaver von, 32. Shakespeare, William, 118, 160-63, 167, 172 n, I74> 178-82, 187-89, 192, 193, 193, 196, 203, 208, 210, 211, 214, 217, 219, 220, 227-30, 232, 233., 512, 515, 547 n. Shaw, George Bernard, 431, 436, 485. Shaw, Maria, 19. Sigismondi, Giuseppe, 231. Signorini, Telemaco, 438. Simoni, Renato, 448, 317 n, 323, 334. $innone, Ileana, 303 n. Sironi, Mario, 426. Sivori, Camillo, 438. Smareglia, Antonio, 470, 471, 483, 604. Soffredini, Alfredo, 488. Solera, Temistocle, 22, 31, 113, n8, 341. Somaglia, Gina, 38 n. Somma, Antonio, 440. Sommer, Susan T., 281, 333 n. Sontag, Henriette Gertrude Walpurgis, 232. Soulanges, Paul, 139 n. Specht, Richard, 438, 439. Speranza, Giovanni, 17 e n. Spiaggi, Domenico, 417. Spohr, Louis, 31, 37, 368. Spontini, Gaspare, 13, 320. Stander, Wilhelm, 138 n. Steffani, Agostino, 623. Steger (Stazics), Francesco, 442, 446. Stein, Moritz Dietrich, 636 n. Stendhal, pseudonimo di Henri Beyle, 11, 188T9O, 193, I94> *97, 198, 202, 203, 203-7, 212, 213-18, 219 n, 222-24, 231, 232, 270 e n, 341. Sterbini, Cesare, 246. Sterbini, Tito, 443. Stolz, Teresa, 143, 144,132,163 n. Strauss, Johann jr, 87. Strauss, Richard, 164 e n, 319, 332. Stravinskij, Igor7 Fèdorovic, 68, 438, 333. Strepponi, Giuseppina, 420. Stuntz, Joseph, 13. Superchi, 24. Sutherland, Joan, 341, 367.

Tacchinardi, Nicola, 224. Tadolini, Eugenia, 34, 421, 423, 424 n. Taglioni, Maria, 31 n, 282.

Indice dei nomi Taglioni, Paolo, 445. Tamagno, Francesco, 488 n. Tamburini, Antonio, 290. Tansman, Alexandre, 458. Tarchetti, Iginio Ugo, 513, 567 e n, 569 e n, 576 n. ’ Tartini, Giuseppe, 357 n, 608. Tasca, Gaudenzio, 422. Tebaldi, Renata, 148 n. Tedeschi, Rubens, 92. Teocrito, 341. Tesi, 143. Tessati, Roberto, 568 n, 572 n, 603 n Thalberg, Sigismund, 631, 632-37, 638 642 Thiess, 459. ' Thomas, Charles-Louis Ambroise 470 471 47q 515,571’ Tiberini, 146 n. Tifone, Antonino, 469 e n, 499 n> 5O3 n ?II Titta Rosa, Giovanni, 426, 427. Toldo, Pietro, 164 e n. Toma, Gioachino, 426. Tommaseo, Niccolò, 293, 432, 549, 630. Tommasi, A., 472. Toni, Alceo, 125 n. Torchi, Luigi, 453, 454, 458, 490. Torelli, Vincenzo, 118. Torre, Napoleone, 39. Torrefranca, Fausto, 368, 453-55, 45g .„o 322 n. Toscanini, Arturo, 28r, 428, 453, 489 n, 498 n. Toscanini, Wally, 281. Toscanini, Walter, 425. Tosi, Adelaide, 282, 286, 415, 4I6, 422j 42, Tosi, Antonio, 30 n, 293. Tosi, Piero, 426. Tosti, Francesco Paolo, 465, 480. Traetta, Tommaso, 541. Tronconi, Cesare, 568 n. Troupenas, editore, 288. Turati, Filippo, 568 n. Turina Cantù, Giuditta, 290, 335. Turner Rigbie, J„ 281, 297, 310.

Ungher, Caroline, 443. Vaccai, Nicola, 367, 408-10, 546 n. Valera, Paolo, 568 n. Valiani, Leo, 572 n. Vallès, Jules, 568 n. Valletti, Francesco Antonio, 608, 624. Vanzo, Vittorio Maria, 125 n. Vaselli, 433. Vecchi, Luigi, 445, Vega Carpio, Felix Lope de, 163,164 n. Verdi, Giuseppe, 5-183, 189, 193, 195, 202, 209, 219, 221, 228, 229, 233, 234, 246 n, 271, 338^ 365, 366,368, 369, 374,373, 378, 381, 382,390, 393, 394, 400, 428, 432, 437, 444, 447, 448, 451, 454, 456, 461, 464, 465, 470, 496, 500 n, 312, 514-16, 520, 523-26, 541, 548, 569 n, 572^75, 579, 610, 615 e n, 619, 622, 625-28, 630 Verga, Giovanni, 460, 469, 568 n. Vergati, 14. Verlaine, Paul, 456.

653

Vernon Lee, pseudonimo di Violet Paget, 606, 607 e n, 611 e n. Veron, 287. Viani, Lorenzo, 472. Vigano, Salvatore, 232. Vighi, Giovanna, 503 n. Vigny, Alfred de, 380. Vincenzi, Geminiano, 420 n. Vinci, Leonardo, 622, 623 e n. Virgilio Marone, Publio, 336, 607. Visconti, Luchino, 144, 561 n. Vivaldi, Antonio, 92. Vlad, Roman, 72 n. Vogler, Georg Joseph, 32. Vollard, Ambroise, 461. Voltaire, Francois Marie Arouet, detto, 547 n. Votto, Antonino, 503 n.

Wagner, Richard, 26, 27, 46, 83, 117, 122, 126, 128 n, 130, 132, 133, 135, 140, 141, 146, 182 e n, 183, 189, 320 e n, 429, 447, 453, 457, 470, 479Waldmann, Maria, 7 n. Walker, Frank, 292 n. Weber, Cari Maria von, 31, 74, 144 n, 227, 276. Webern, Anton von, 84. Weigl, Joseph, 15. Weinstock, Herbert, 187 n, 281, 294, 295, 297, 298, 310, 315, 415 n. Weis, Michele, 420 n. Wendel, Karl Heinz, 163 n. Werfel, Franz, 432. Werlé, Heinrich, 223 n. Wienawski, Józef, 458. Wilde, Oscar, 460. Winter, Berardo, 414, 416 e n, 417, 419, 422, 423Winter, Peter von, 15. Wittmann, 35. Wolff, Beverly, 366.

Xavier, J. X. B., 353 e n, 356 n, 359. Ysaye, Eugène-Auguste, 485. Zamboni, editore, 286. Zanardini, Angelo, 487. Zandonai, Riccardo, 455, 458, 465, 519. Zangarini, Carlo, 521. Zanolini, Antonio, 216, 233, 272 e n. Zavadini, Guido, 403 n, 415 n, 422 n, 426. Zecca Laterza, A., 539 n. Zédda, Alberto, 374 n. Zeffirelli, Franco, 135 n, 138 n, 144. Zeno, Apostolo, 560 n. Ziino, Agostino, 281, 624 n. Zingarelli, Nicola Antonio, 15, 16, 187, 369, 384, 405, 406. Zobel, 290. Zola, Emile, 568 n. Zuccaro, 285.

Finito di stampare il 12 marzo 1977 per conto della Giulio Einaudi editore s. p. a. presso la Litografia Bona in Torino

c. l. 4679-7

Saggi

i

raimondo crateri,

Voltaire politico del-

l’illuminismo. 2 paolo treves, Biografia di un poeta. Mau­ rice de Guérin. 3 Zino Zini, I fratelli nemici. Dialoghi e mi­ ti moderni. 4 pier Silverio leicht, Corporazioni roma­ ne e arti medievali. 3 johan huizinga, La crisi della civiltà. 6 ettore Ciccotti, Profilo di Augusto. 7 Angelina la piana, La cultura americana e l’Italia. 8 gertrude stein, Autobiografia di Alice Toklas. 9 niccolò tommaseo, Diario intimo. io rudyard kipling, Qualcosa di me. Per i miei amici noti e ignoti. ii gregorio maranón, Amiel, o della timi­ dezza. i2 cesare de lollis, Scrittori francesi dell’Ottocento. 13 egmont colerus, Piccola storia della ma­ tematica da Pitagora a Hilbert. 14 tommaso parodi, Giosuè Carducci e la letteratura della nuova Italia. 15 luigi Salvatorelli, Pio XI e la sua ere­ dità pontificale. 16 Siro Attilio nulli, I processi delle stre­ ghe. 17 Pietro pancrazi, Studi sul D’Annunzio. 18 niccolò tommaseo, Cronichetta del Sessantasei. 19 augusto ROSTAGNi, Classicità e spirito mo­ derno. 20 Bernard faV, La massoneria e la rivolu­ zione intellettuale del secolo xvm. 21 Walter pater, Mario l’epicureo. 22 GEORGE MACAULAY TREVELYAN, La rivolu­ zione inglese del 1688-89. 23 Adolfo omodeo, La leggenda di Carlo Al­ berto nella recente storiografia.

24 aldo MAUTiNO, La formazione della filo­ sofia politica di Benedetto Croce. 25 frank thiess, Tsushima. Il romanzo di una guerra navale. 26 JOHAN HUIZINGA, Erasmo. 27 futabatei scimei, Mediocrità. 28 Adolfo omodeo, Vincenzo Gioberti é la sua evoluzione politica. 29 Giacomo savarese, Tra rivoluzioni e rea­ zioni. Ricordi su Giuseppe Zurlo (17591828). 30 sven hedin, Il lago errante. 31 e. r. hughes, La Cina e il mondo occiden­ tale. 32 carlo cattaneo, L’insurrection de Milan e le Considerazioni sul 1848. 33 carlo pisacane, Saggio su la Rivoluzione. 34 J- hersch, L’illusione della filosofia. 35 will winker, Rugger il ricco. 36 madame de rémusat, Memorie. 37 paolo sbrini, Pascal. 38 carl Gustav jung, Il problema dell’in­ conscio nella psicologia moderna. 39 luigi Bandini, Uomo e valore. 40 Mario Praz, La carne, la morte e il dia­ volo nella letteratura romantica. 41 cesare de laugjer, Concisi ricordi di un soldato napoleonico. 42 pierò martinetti, Ragione e fede. Saggi religiosi. 43 lev tolstòj, Carteggio confidenziale con Aleksandra Andréjevna Tolstàfa. 44 luigi Salvatorelli, Pensiero e azione del Risorgimento. 45 fjòdor dostojevskij, Diario di uno scrit­ tore (1873). 46 Bernhard bavink, La scienza naturale sul­ la via della religione. 47 Charles de Montesquieu, Riflessioni e pensieri inediti (1716-1755).

48 CLEMENS VON METTERNICH, Memorie. 49 emilio lussu, Marcia su Roma e din­ torni. 50 Giacomo perticone, Due tempi. Note e ricordi di un contemporaneo. 5i Werner Heisenberg, Mutamenti nelle ba­ si della scienza. 52 nikolàj berdjajev, La concezione di Dostoievskij. 53 h. w. russel, Profilo d’un umanesimo cristiano. 54 bruno zevi, Verso un’architettura organi­ ca. Saggio sullo sviluppo del pensiero ar­ chitettonico negli ultimi cinquant’anni. 55 carlo levi, Cristo si è fermato a Ebolì. 56 Alexander werth, Leningrado. 57 felice balbo, L’uomo senza miti. 58 cesare pavese, Dialoghi con Leucò. 59 emilio lussu, Un anno Sull’Altipiano. 60 Julien benda, Le democrazie alla prova. Saggio sui principi democratici. 61 Mario praz, Motivi e figure. 62 BERNHARD PAUMGARTNER, Mozart. 63 augusto monti, Realtà del Partito d’Azione. 64 carlo sforza, Panorama europeo. Appa­ renze politiche e realtà psicologiche. 65 harold j. Laski, Fede, ragione e civiltà. Saggio di analisi storica. 66 Mario soldati, America primo amore. 67 norman cousins, L’uomo moderno è an­ tico. 68 Lucio lombardo-radice, Fascismo e anti­ comunismo. Appunti e ricordi 1935-1945. 69 Walter lippmann, La giusta società. 70 paul hazard, La crisi della coscienza eu­ ropea. 71 Filippo Buonarroti, Congiura per l’egua­ glianza 0 di Babeuf. 72 carlo levi, Paura della libertà. 73 luigi sturzo, L’Italia e l’ordine interna­ zionale. 74 THOMAS BABINGTON MACAULAY, La Con­ quista dell’india. 75 Wilhelm ròpke, La crisi sociale del no­ stro tempo. 76 emilio sereni, Il capitalismo nelle cam­ pagne (1860-1900). 77 samuel bernstein, Filippo Buonarroti. 78 w. goethe e f. schiller, Carteggio. 79 robert g. vansittart, Insegnamenti del­ la mia vita. 80 Adolfo 0M0DE0, Aspetti del cattolicesimo della Restaurazione. 81 felice balbo, Il laboratorio dell’uomo. 82 matthew Arnold, Cultura e anarchia. 83 johan huizinga, Homo ludens.

84 kurt hildebrandt, Platone. La lotta del­ lo spirito per la potenza. 85 iljà ilf e evghénij petròv, Il paese di Dio. 86 Sherwood anderson, Storia di me e dei miei racconti. 87 aldo garosci, Storia della Francia mo­ derna (1870-1946). 88 ernest hemingway, Morte nel pomerig­ gio. 89 0. MAENCHEN-HELFEN e B. NICOLAJEVSKI, Karl Marx. 90 barbara wootton, Libertà e pianifica­ zione. 91 giovita scalvini, Foscolo Manzoni Goe­ the. Scritti editi e inediti. 92 Pierre lecomte du NOUY, L’avvenire del­ lo spirito. 93 ruggero zangrandi, Il lungo viaggio. Con­ tributo alla storia di una generazione. 94 gvsxanq a. WETTER s. j., Il materialismo dialettico sovietico. 95 leone ginzburg, Scrittori russi. 96 bruno zevi, Saper vedere l’architettura. Saggio sull’interpretazione spaziale del­ l’architettura. 97 peter viereck, Dai romantici a Hitler. 98 franco venturi, Jean Jaurès e altri sto­ rici della Rivoluzione francese. 99 max weber, Il lavoro intellettuale come professione. 100 Karl marx e Friedrich engels, Manife­ sto del Partito Comunista. 101 igor markevitch, Made in Italy. 102 Silvio GUARNiERi, Carattere degli italiani. 103 marcel Raymond, Da Baudelaire al sur­ realismo. 104 josiF Stalin, Il marxismo e la questione nazionale e coloniale. 105 emmanuel mounier, Che cos’è il perso­ nalismo? 106 Thorstein veblen, La teoria della classe agiata. Studio economico sulle istituzioni. 107 aleksàndr 1. herzen, Passato e pensieri. 108 henri lefebvre, Il materialismo dialet­ tico. 109 Christopher caudwell, La fine di una cultura. no p. m. s. blackett, Conseguenze politiche e militari dell’energia atomica. III luigi russo, De vera religione. Noterelle e schermaglie, 1943-1948. 112 Silvio spaventa, La giustizia nell’ammi­ nistrazione. 113 massimo D’AZEGlio, I miei ricordi. II4 Georges lefebvre, L’Ottantanove. II5 Filippo turati e Anna kuliscioff, Car­ teggio, vol. I. Maggio 1898 - giugno 1899-

n6 EISENSTEIN, BLEIMAN, KOSINZEV, IUTKEviC, La figura e l'arte di Charlie Chaplin. 117 marcello soleri, Memorie. 118 Georges friedmann, Problemi umani del macchinismo industriale. 119 George Thomson, Eschilo e Atene. 120 Christopher caudwell, Illusione e real­ tà. Saggio sulle origini della poesia. 121 massimo mila, L'esperienza musicale e l'estetica. 122 bertrand russell, Storia delle idee del secolo xix. 123 giaime pintor, Il sangue d'Europa ( 19391943). 124 hector berlioz, L'Europa musicale da Gluck a Wagner. 125 hugh j. schonfield, Il Giudeo di Tarso. Ritratto eterodosso di Paolo. 126 CARLO levi, L'Orologio. 127 gyòrgy lukacs, Saggi sul realismo. 128 s. m. eisenstein, Tecnica del cinema. 129 etienne gilson, Eloisa e Abelardo. 130 Enrico falqui, Prosatori e narratori del Novecento italiano. 131 aldo Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa. 132 pierò GOBETTI, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia. 133 Giuseppe SQUARCIAPINO, Roma bizantina. Società e letteratura ai tempi di Angelo Sommaruga. 134 Arrigo cajumi, Pensieri di un libertino. 135 erick eyck, Bismarck. 136 bruno zevi, Storia dell'architettura mo­ derna. 137 mmlc bloch, Apologia della storia. 138 andré gide, Viaggio al Congo e Ritorno dal Ciad. 139 pierò gobetti, Coscienza liberale e classe operaia. 140 gaston baty e rené chavance, Breve sto­ ria del teatro. 141 BARROWS DUNHAM, Miti e pregiudizi del nostro tempo. 142 ernest hemingway, Torrenti di primave­ ra. Storia romantica in onore di una gran­ de razza al tramonto. 143 John maynard keynes, Politici ed econo­ misti. 144 guido aristarco, Storia delle teoriche del film. 14.5 beniamino dal fabbro, Crepuscolo del pianoforte. 146 bruno snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo e altri saggi. 147 Georges Sadoul, Storia del cinema. 148 cesare pavese, La letteratura americana e altri saggi.

149 benjamin farrington, Francesco Bacone filosofo dell'età industriale. 150 Lettere di condannati a morte della Re­ sistenza italiana (8 settembre 1943 - 25 aprile 1945). 151 carlo l. RAGGHiANTi, Cinema arte figura­ tiva. 132 louis de saint-just, Frammenti sulle Istituzioni repubblicane seguito da testi inediti. 153 Giovanni GiOLiTTi, Discorsi extraparlamen­ tari. 154 Giorgio graziosi, L'interpretazione musi­ cale. 133 Arnold rose, I negri in America. 136 lewis jacobs, L'avventurosa storia del ci­ nema americano. 137 cesare pavese, Il mestiere di vivere (Diario 1935-1950). 1^8 morelly, Codice della Natura. 139 béla balazs, Il film. Evoluzione ed es­ senza di un'arte nuova. 160 aneurin bevan, Il socialismo e la crisi in­ ternazionale. 161 c. w. ceram, Civiltà sepolte. Il romanzo dell'archeologia. 162 estes kefauver, Il gangsterismo in Ame­ rica. 163 john Middleton Murry, Shakespeare. 164 Antonina Vallentin, Il romanzo di Goya. 163 ROBERTO BATTAGLIA, Storia della Resisten­ za italiana (8 settembre 1943 - 23 aprile 1943). 166 ivanoe BONOMi, La politica italiana dopo Vittorio Veneto. 167 Filippo turati e anna kuliscioff, Car­ teggio, vol. V. Dopoguerra e fascismo (1919-22). 168 Lettere dei Macchiaioli. 169 gyòrgy lukacs, Il marxismo e la critica letteraria. 170 Raffaele ciAMPiNi, Gian Pietro Vieusseux. I suoi viaggi, i suoi giornali, i suoi amici. 171 Ludovico Geymonat, Saggi di filosofia neorazionalistica. 172 dina bertoni jovine, Storia della scuola popolare in Italia. 173 luigi rognoni, Espressionismo e dodeca­ fonia. 174 james boswell, Diario londinese (17621763)173 H diario di Anna Frank. 176 robert jungk, Il futuro è già cominciato. 177 f. o. matthiessen, Rinascimento ameri­ cano. Arte ed espressione nell’età di Emer­ son e Whitman. 178 Lettere di condannati a morte della Re­ sistenza europea.

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eugène delacroix,

Diario (1804-1863). Livio bianco, Guerra p artigiana. franco venturi, Saggi sull'Europa illu­ minista. I. Alberto Radicati di Passerano. Isacco ed ernesto artom, Iniziative neutralistiche della diplomazia italiana nel 1870 e nel 1915. theodor w. adorno, Minima moralia. Roberto cessi, Martin Lutero. henry Francis Taylor, Artisti, principi e mercanti. Storia del collezionismo da Ramsete a Napoleone. luigi preti, Le lotte agrarie nella valle padana. léon Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli Ebrei. max j. Friedlander, Il conoscitore d'arte. Siro Attilio nulli, Erasmo e il Rinasci­ mento. HANS mayer, Thomas Mann. ALESSANDRO PASSERIN D’ENTRÈVES, Dante politico e altri saggi. Norberto bobbio, Politica e cultura. roman vlkv. Modernità e tradizione nel­ la musica contemporanea. Mario untersteiner, Le origini della tragedia e del tragico. Dalla preistoria a Eschilo. tommaso fiore, Il cafone all'inferno. carlo levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia. c. w. ceram, Il libro delle rupi. Alla sco­ perta dell'impero degli Ittiti. gyòrgy lukAcs, Breve storia della lettera­ tura tedesca dal Settecento ad oggi. erich auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale. Tibor mende, Conversazioni con Nehru. franco fortini, Asia Maggiore. Viaggio in Cina. ada Gobetti, Diario partigiano. angelos ANGELOPOULOS, L'atomo unirà il mondo? franco venturi, Il moto decabrista e i fratelli Poggio. Cristoforo M. negri, I lunghi fucili. Ri­ cordi della ritirata di Russia. carlo falconi, La Chiesa e le organizza­ zioni cattoliche in Italia (1945-1955). carlo levi, Il futuro ha un cuore antico. Viaggio nell'anione Sovietica. Giovanni ferretti, Scuola e democrazia. carlo casalegno, La regina Margherita. Frederick pollock, Automazione. pasquale jannaccone, Scritti e discorsi opportuni e importuni (?947-i955). Adolfo venturi, Epoche e maestri dell'ar­ te italiana. d.

Gli animali nella storia della ci­ viltà. 214 Roberto guiducci, Socialismo e verità. 215 cesare brandi, Elicona III-IV. Arcadio o della Scultura. Eliante o dell'Architet­ tura. 216 No al fascismo a cura di ernesto rossi. 217 felice del vecchio, La chiesa di Can­ neto. 218 Francois fejtò, Ungheria 1945-1957. 219 Pierre francastel, Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo. 220 Leonard woolley, Il mestiere dell'archeo­ logo. 221 Danilo dolci, Inchiesta a Palermo. 222 guido Calogero, Scuola sotto inchiesta. Saggi e polemiche sulla scuola italiana. 223 cesare brandi, Elicona II. Celso o della Poesia. 224 Manlio dazzi, Carlo Goldoni e la sua poetica sociale. 225 armando gavagnin, Vent'anni di resisten­ za al fascismo. 226 egon corti, Ercolano e Pompei. Morte e rinascita di due città. 227 PIETRO SECCHIA e CINO MOSCATELLI, Il Monte Rosa è sceso a Milano. La resisten­ za nel Biellese, nella Valsesia e nella Valdossola. 228 Ultime lettere da Stalingrado. 229 EDMUND WILSON, I manoscritti del Mar Morto. 230 robert jungk, Gli apprendisti stregoni. 231 ROMAN VLAD, Strawinsky. 232 primo levi, Se questo è un uomo. 233 Alberto nirenstajn, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek. 234 marcus cunliffe, Storia della letteratu­ ra americana. 235 vance Packard, I persuasori occulti. 236 Alexander werth, Storia della Quarta Repubblica. 237 marcel proust, Giornate di lettura. Scritti critici e letterari. 238 mario tosino, Passione per l'Italia. 239 william h. prescott, La Conquista del Messico. 240 ernesto n. rogers, Esperienza dell'archi­ tettura. 241 Leonard woolley, Ur dei Caldei. 242 Eugenio levi. Il comico di carattere da Teofrasto a Pirandello. 243 Gillo dorfles, Il divenire delle arti. 244 leo Spitzer, Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna. 245 theodor w. adorno, Filosofia della musi­ ca moderna.

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morus,

246 Filippo turati e anna KULisciOFF, Car­ teggio, vol. VI. Il delitto Matteotti e l'Aventino (1923-25). 247 j. j. lador-lederer, Capitalismo mondia­ le e cartelli tedeschi tra le due guerre. 248 ANGELO MARIA RIPELLINO, Majakovskij e il teatro russo d'avanguardia. 249 arturo Carlo jemolo, Società civile e so­ cietà religiosa (1955-1958). 250 carlo levi, La doppia notte dei tigli. 251 Ambroise vollard, Quadri in vetrina. 252 gaetano salvemini, Italia scombinata. 253 Mario einaudi, La rivoluzione di Roose­ velt, 1932-1952. 254 aldo GAROSCI, Gli intellettuali e la guerra di Spagna. 255 Alois riegl, Arte tardoromana. 256 jean rostand, L'uomo artificiale. 257 carl Gustav jung, La simbolica dello spi­ rito. Studi sulla fenomenologia psichica con un contributo di Riwkah Sch'àrf. 238 massimo mila, Cronache musicali 19551959259 JOHN CHADWICK, Lineare B. L'enigma del­ la scrittura micenea. 260 FREDERICK antal, La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento. 261 WILLIAM h. WHYTE JR, L'uomo dell'orga­ nizzazione. 262 La cultura italiana del '900 attraverso le riviste, vol. I. «Leonardo», «Hermes», «Il Regno». 263 erwin piscator, Il teatro politico. 264 Eugenio battisti, Rinascimento e Ba­ rocco. 265 WALTER BINNI, Carducci e altri saggi. 266 La cultura italiana del '900 attraverso le riviste, vol. III. «La Voce» (1908-1914). 267 luigi Salvatorelli, Leggenda e realtà di Napoleone. 268 Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Hòss. 269 Ladislao mittner, La letteratura tedesca del Novecento e altri saggi. 270 Danilo dolci, Spreco. Documenti e in­ chieste su alcuni aspetti dello spreco nel­ la Sicilia occidentale. 271 Alberto caracciolo, Stato e società civi­ le. Problemi dell'unificazione italiana. 272 Robert jungk, Hiroshima, il giorno dopo. 273 renato biRolli, Taccuini (1936-1959). 274 Corrado maltese, Storia dell'arte in Ita­ lia 1785-1943. 275 Adolfo OMODEO, Libertà e storia. Scritti e discorsi politici. 276 h, H. stuckenschmidt, La musica mo­ derna.

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massimo l. salvadori, Il mito del buon­ governo. La questione meridionale da Ca­ vour a Gramsci. theodor h. gaster, Le piu antiche storie del mondo. II diario di David Rubinowicz. Geoffrey Bibby, Le navi dei Vichinghi e altre avventure archeologiche nell'Europa preistorica. FERDINANDO SALAMON, Il conoscitore di stampe. Antonina Vallentin, Storia di Picasso. La cultura italiana del '900 attraverso le riviste, vol. IV. «Lacerba», «La Voce» (1914-1916). Federico zeri, Due dipinti, la filologia e un nome. Il Maestro delle Tavole Barbe­ rini. Ingmar bergman, Quattro film'. Sorrisi di una notte d'estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, Il volto. 1. a. Richards, I fondamenti della critica letteraria. RAFFAELLO giolli, La disfatta dell'otto­ cento. IPPOLITO NIEVO, Lettere garibaldine. Julius von schlosser, L'arte del Medio­ evo. gunther anders, Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki. luigi Salvatorelli, Unità d'Italia. Saggi storici. lanfranco caretti, Ariosto e Tasso. vance Packard, I cacciatori di prestigio. p. m. s. blackett, Le armi atomiche e i rapporti fra Est e Ovest. Trent'anni di storia italiana (1915-1945). Dall'antifascismo alla Resistenza. Alfredo parente, Castità della musica. nikolàj lébedev, Il cinema muto sovie­ tico. lev trotskij, Scritti 1929-1936. cesare brandi, Carmine o della Pittura. Gioachino belli, Lettere Giornali Zibal­ done. nuto revelli, La guerra dei poveri. Alfredo todisco, Viaggio in India. gillo dorfles, Simbolo comunicazione consumo. danilo dolci, Conversazioni. harold acton, Gli ultimi Medici. La cultura italiana -del '900 attraverso le riviste, vol. V. «L'Unità», «La Voce po­ litica» (1915). Racconti di bambini d'Algeria. Lionel trilling, La letteratura e le idee. walter benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti.

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erwin panofsky,

Il significato nelle arti

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peter szondi, Teoria del dramma mo­ derno. Giorgio fano, Saggio sulle origini del lin­ guaggio. Heinrich schliemann, La scoperta di Troia. bertolt brecht, Scritti teatrali. WrtKiAK ginzburg, Le piccole virtù. William gaunt, L’avventura estetica. Enrico CASTELNUOVO, Un pittore italiano alla corte di Avignone. Matteo Giovannetti e la pittura in Provenza nel seco­ lo xiv. Attilio Milano, Storia degli ebrei in Ita­ lia. john Golding, Storia del cubismo (19071914). Lettere della Rivoluzione algerina. P. A. QUARANTOTTI GAMBINI, Sotto il CÌelo di Russia. fred k. prieberg, Musica ex machina. Mortimer wheeler, La civiltà romana oltre i confini dell’impero. La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. VI. «L’Ordine Nuovo» (1919-1920). Giorgio MELCHiORi, I funamboli. Il ma­ nierismo nella letteratura inglese contem­ poranea. Claudio magris, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna. michele ranchetti, Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo. Konstantin s. stanislavskij, La mia vi­ ta nell’arte. cesare cases, Saggi e note di letteratura tedesca. rosario romeo, Dal Piemonte sabaudo al­ l’Italia liberale. frank lloyd wright, Testamento. ANTONIO LA penna, Orazio e l’ideologia del principato. benvenuto Terracini, Lingua libera e li­ bertà linguistica. Introduzione alla lingui­ stica storica. Adolfo omódeo, Lettere 1910-1946. franca pieroni bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia (18481892). Roberto giammanco, Dialogo sulla socie­ tà americana. HERBERT MARCUSE, Eros e civiltà. leone ginzburg, Scritti. paolo spriano, L’occupazione delle fab­ briche. Settembre 1920. victor w. von hagen, La Grande Strada del Sole.

341 Paul Goodman, La gioventù assurda. 342 Tristan tzara, Manifesti del dadaismo e Lampisterie. 343 Giovanni previtali, La fortuna dei primi­ tivi. Dal Vasari ai neoclassici. 344 vance Packard, Gli arrampicatori azien­ dali. 345 Danilo dolci, Verso un mondo nuovo. 346 Sergej m. ejzenStejn, Torma e tecnica del film e lezioni di regia. 347 Vittorio lugli, Pagine ritrovate. Memo­ rie fantasie e letture. 348 Mario GiovANA, Resistenza nel Cuneese. Storia di una formazione partigiana. 349 PAUL ROTHA e RICHARD GRIFFITH, Storia del cinema. 350 Lamberto vitali, L’opera grafica di Gior­ gio Morandi. 351 MICHELANGELO ANTONIONI, Sei film. 352 luigi Salvatorelli, Miti e storia. 353 Carlo levi, Tutto il miele è finito. 354 Ernst h. GOMBRiCH, Arte e illusione. Stu­ dio sulla psicologia della rappresentazione pittorica. 355 Giovanni macchia, Il mito di Parigi. Sag­ gi e motivi francesi. 356 angelo maria ripellino, Il trucco e l’a­ nima. I maestri della regia nel teatro rus­ so del Novecento. 357 Gillo dorfles, Nuovi riti, nuovi miti. 358 Mario silvestri, Isonzo 1917. 359 Giuseppe galasso, Mezzogiorno medieva­ le e moderno. 360 augusto monti, I miei conti con la scuola. 361 eugène Ionesco, Note e contronote. Scrit­ ti sul teatro. 362 j. Christopher herold, Bonaparte in Egitto. 363 Giorgio GUAZZOTTi, Teoria e realtà del Piccolo Teatro di Milano. 364 Antonio cederna, Mirabilia Urbis. Crona­ che romane 1957-1965. 365 claire-éliane engel, Storia dell’alpini­ smo. In appendice Cento anni di alpini­ smo italiano di Massimo Mila. 366 Leonard woolley, Un regno dimenticato. Storia di una scoperta archeologica. 367 barry ulanov, Storia del jazz in America. 368 Vladimir ja. propp, I canti popolari russi. Con una scelta di canti a cura di Gigliola Venturi. 369 Sergio donadoni, Arte egìzia. 370 Roland barthes, Saggi critici. 371 Frank lloyd wright, La città vivente. 372 Studi e documenti del tempo fascista: Al­ berto aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario.

407 carl th. dreyer, Cinque film’. La Passio­ 373 Charles f. delzell, I nemici di MussoUni. ne di Giovanna d'Arco, Vampiro, Dies irae, Ordet, Gertrud, seguiti da tutti gli 374 giulio carlo argan, Walter Gropius e la scritti sul cinema. Bauhaus. 408 Maurice blanchot, Lo spazio letterario. 375 nuto revelli, La strada del davai. 409 CARLO dionisotti, Geografia e storia della 376 theodor w. adorno, Wagner. Mahler. letteratura italiana. 377 esnkbb h. carr, Sei lezioni sulla storia. 410 anouar abdel-malek, Esercito e società 378 erich ruby, I russi a Berlino. La fine del in Egitto 1952-1967. Terzo Reich. 411 johan huizinga, La civiltà olandese del 379 Geoffrey bibby, Quattromila anni fa. Un Seicento. quadro della vita nel mondo durante il se­ condo millennio a. C. 412 victor serge, L'Anno primo della rivolu­ zione russa. 38o f. w. Deakin e g. R. storry, Il caso Sorge. 413 Antonio GiOLiTTi, Un socialismo possibile. 381 Giorgio bassani, Le parole preparate e al­ tri scritti di letteratura. 414 luigi capello, Caporetto, perché? La 2a armata e gli avvenimenti dell'ottobre 1917. 382 gar alperovitz, Un asso nella manica. La diplomazia atomica americana: Potsdam e 415 Antonio ghirelli, Storia del calcio in Hiroshima. Italia. 383 luigi rognoni, La scuola musicale di 416 cesare brandi, Struttura e architettura. Vienna. Espressionismo e dodecafonia. 417 Richard hofstadter, Società e intellettua­ 384 g. Francesco malipiero, Il filo d'Arian­ li in America. na. Saggi e fantasie. 418 RUDOLF e MARGOT WITTKOWER, Nati sotto 385 karl Lowith, Saggi su Heidegger. Saturno. La figura dell'artista dall'Anti­ chità alla Rivoluzione francese. 386 E. J. hobsbawm, I ribelli. Forme primiti­ ve di rivolta sociale. 419 gyórgy lukAcs, Marxismo e politica cul­ turale. 387 BONAVENTURA tecchi, Goethe scrittore di fiabe. 420 john Kenneth galbraith, Come uscire dal VietNam. Una soluzione realistica del più 388 andré breton, Manifesti del Surrealismo. grave problema del nostro tempo. 389 Emilio sarzi amadé, Rapporto dal Viet­ 421 william sheridan Allen, Come si diven­ nam. ta nazisti. Storia di una piccola città 1930390 danilo dolci, Chi gioca solo. 1935391 Mario tronti, Operai e capitale. 422 augusto monti, Scuola classica e vita mo­ 392 Edoardo sanguineti, Guido Gozzano. In­ derna. dagini e letture. 423 JOHN KENNETH GALBRAITH, Il nUOVO Stato U mberto saba , Lettere a un'amica. 393 industriale. 394 michele pantaleone, Mafia e droga. 424 Giorgio Fano, Neopositivismo, analisi del linguaggio e cibernetica. 395 edgar snow, L'altra riva del fiume. La Ci­ na oggi. 425 Robert jungk, La grande macchina. I nuo­ vi scienziati atomici. 396 La storia dell'arte raccontata da E. H. Gombrich. 426 gillo dorfles, Artificio e natura. 427 Miguel barnet, Autobiografia di uno 397 lev trotskij, La rivoluzione permanente. schiavo. 398 serge mallet, La nuova classe operaia. 428 Antonin artaud, Il teatro e il suo dop­ 399 augusto illuminati, Sociologia e classi pio. Con altri scritti teatrali e la tragedia sociali. «I Cenci». 400 john beckwith, L'arte di Costantinopoli. 429 Mario silvestri, Il costo della menzo­ Introduzione all'arte bizantina (330-1453). gna. Italia nucleare 1945-1968. 401 garrett mattingly, L'invincibile Armada. 430 Pierre boulez, Note di apprendistato. 402 vance Packard, La società nuda. 431 Adolfo omodeo, Momenti della vita di 403 Autobiografia di Malcolm X. guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti william l . shirer , Diario di Berlino 404 1915-1918. (1934-1947)432 ernesto n. rogers, Editoriali di architet­ 405 Boris pasternak, Lettere agli amici geor­ tura. giani. 433 C. w. ceram, I detectives dell'archeologia. 406 albert ducrocq, Cibernetica e universo. Le grandi scoperte archeologiche nel rac­ Il romanzo della materia. conto dei protagonisti.

434 Lamberto vitali, Un fotografo fin de sìècle. Il conte Primoli. 435 LAURENCE Thompson, 1940: Londra bru­ cia. 436 ved mehta, Teologi senza Dio. 437 Raffaele amaturo, Congetture sulla «Hotte» del Parini. In appendice i ma­ noscritti ambrosiani criticamente ordinati. 43» Ferdinando Bologna, Novità su Giotto. Giotto al tempo della cappella Peruzzi. 439 theodor w. adorno, Il fido maestro sosti­ tuto. Studi sulla comunicazione della mu­ sica. 440 michele pantaleone, Antimafia: occasio­ ne mancata. 441 Gisela m. a. richter, L'arte greca. 442 Arnold Hauser, Le teorie dell'arte. Ten­ denze e metodi della critica moderna. 443 william Hinton, Panshen. Un villaggio cinese nella rivoluzione. 444 Vittorio strada, Tradizione e rivoluzione nella letteratura russa. 445 Mario bortolotto, Fase seconda. Studi sulla Nuova Musica. 446 Jacques m. verges, Strategia del proces­ so politico. 447 nikolaus pevsner, L'architettura moder­ na e il design. Da William Morris alla Bauhaus. 448 carl th. dreyer, Gesù. Racconto di un film. 449 paul rozenberg, Vivere in maggio. 450 jane jacobs, Vita e morte delle grandi città-. Saggio sulle metropoli americane. 451 norman cohn, Licenza per un genocidio. I «Protocolli degli Anziani di Sion»: sto­ ria di un falso. 452 Maurice blanchot, Il libro a venire. 453 Gian Carlo roscioni, La disarmonia pre­ stabilita. Studio su Gadda. 454 Leonard R. palmer, Minoici e micenei. L'antica civiltà egea dopo la decifrazione della lineare B 455 michele pantaleone, Mafia e politica 1943-1962. 456 paul PHiLippoT, Pittura fiamminga e Ri­ nascimento italiano. 457 George c. vaillant, La civiltà azteca. Nuova edizione riveduta a cura di Susan­ nah B. Vaillant. 458 Giovanni romano, Casalesi del Cinque­ cento. L'avvento del manierismo in una città padana. 459 vance Packard, Il sesso selvaggio. I rap­ porti sessuali oggi. 4óo massimo l. salvadori, Gramsci e il pro­ blema storico della democrazia.

461 frank Popper, L'arte cinetica. L'immagi­ ne del movimento nelle arti figurative. 462 denis bablet, La scena e l'immagine. Saggio su Josef Svoboda. 463 j. eric s. Thompson, La civiltà maya. 464 ezio Raimondi, Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca. 465 louis a. Christophe, Abu Simbel. L'epo­ pea di una scoperta archeologica. 466 lev TROTSKij, I problemi della rivoluzio­ ne cinese e altri scritti su questioni in­ ternazionali 1924-1940. 467 Lionello venturi, La via dell'Impressionismo. Da Manet a Cézanne. 468 Leonardo sciascia, La corda pazza. Scrit­ tori e cose della Sicilia. 469 Ernst h. GOMBRiCH, A cavallo di un ma­ nico di scopa. Saggi di teoria dell'arte. 470 Enrico fubini, Gli enciclopedisti e la mu­ sica. 471 nuto revelli, L'ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale. 472 danilo MONTALDi, Militanti politici di base. 473 I fratelli di Soledad. Lettere dal carcere di George Jackson. 474 bruno zevi, Saper vedere l'urbanistica. Ferrara di Biagio Rossetti, la prima città moderna europea. 475 karol górski, L’Ordine teutonico. Alle origini dello stato prussiano. 476 Frederick antal, Studi su Fuseli. 477 robert havemann, Domande Risposte Domande. Autobiografia di uno scienzia­ to marxista. 478 paolo fossati, L'immagine sospesa. Pit­ tura e scultura astratte in Italia, 1934-40. 479 Simone de beauvoir, La terza età. 480 Felix klee, Vita e opera di Paul Klee. 481 Claudio magris, Lontano da dove. Jo­ seph Roth e la tradizione ebraico-orien­ tale. 482 bobby seale, Cogliere l'occasione! La sto­ ria del Black Panther Party e di Huey P. Newton. 483 alan Gardiner, La civiltà egizia. 484 Vincenzo di benedetto, Euripide: teatro e società. 483 franco corderò, L’E pistola ai Romani. Antropologia del cristianesimo paolino. 486 PHILIPPE jullian, Oscar Wilde. 487 Frances a. yates, L'arte della memoria. 488 roman ghirshman, La civiltà persiana an­ tica. 489 v. gordón childe, L’alba della civiltà eu­ ropea.

490 l. n. gumilev, Gli Unni. Un impero di nomadi antagonista dell’antica Cina. 49i ALLEN GINSBERG, Testimonianza per il processo di Chicago, 1969. 492 JEAN-LUC Godard, Cinque film-. Fino al­ l’ultimo respiro, Questa è la mia vita, Una donna sposata, Due o tre cose che so di lei, La Cinese. 493 Vittorio lugli, La cortigiana innamorata e altri saggi. 494 f. w. d. Deakin, La montagna più alta. L’epopea dell’esercito partigiano jugo­ slavo. 495 william Hinton, Buoi di ferro. La rivo­ luzione nell’agricoltura cinese. 496 basil davidson, La civiltà africana. Intro­ duzione a una storia culturale dell’Africa. 497 Francis donald klingender, Arte e rivo­ luzione industriale. 498 bjòrn kurtén, Non dalle scimmie. 499 Antonio faeti, Guardare le figure. Gli il­ lustratori italiani dei libri per l’infanzia. 5oo c. w. ceram, Il primo americano. Archeo­ logia e preistoria del Nordamerica. 501 LIONELLO VENTURI, Il gusto dei primitivi. 502 paolo fossati, Il design in Italia 19451972. 503 samuel mines, Gli ultimi giorni dell’u­ manità. Sopravvivenza ecologica o estin­ zione. 504 Ernst h. gombrich, Norma e forma. Stu­ di sull’arte del Rinascimento. 505 Vladimir markov, Storia del futurismo russo. 506 edgar snow, La lunga rivoluzione. 507 aldo POMiNi, Il ballo dei pescicani. Sto­ ria di un forzato. 508 Danilo dolci, Chissà se i pesci piangono. Documentazione di un’esperienza educa­ tiva. 509 Alexander Werth, L’Unione Sovietica nel dopoguerra 1945-1948. 510 bruno zevi, Spazi dell’architettura mo­ derna. 511 luigi Salvatorelli, Vita, di san France­ sco d’Assisi. 512 gunter grass, Viaggio elettorale. Discor­ si politici di uno scrittore. 513 gustave glotz, La Città greca. 514 angelo maria ripellino, Praga magica. 515 Antonio ghirelli, Storia di Napoli. 5i6 bertolt brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte. 517 Gillo dorfles, Dal significato alle scelte. 5i8 Nadar. Testi di Nadar, Jean Prinet e An­ toinette Dilasser, Lamberto Vitali. Con 100 fotografie di Nadar e altri documenti.

519 Andreina GRiSERl e Roberto gabetti, Ar­ chitettura dell’eclettismo. Un saggio su G. B. Scheilino. 520 ugo duse, Gustav Mahler. 521 Luis bunuel, Sette film-. L’età dell’oro, Nazar in, Viridiana, L’angelo sterminatore, Simone del deserto, La via lattea, Il fascino discreto della borghesia. 522 Luciano BELLOSi, Buffalmacco e il Trion­ fo della Morte. 523 c. p. Fitzgerald, La civiltà cinese. 524 cesare brandi, Teoria generale della cri­ tica. 525 Sergio solmi, Saggio su Rimbaud. 526 Giuseppe galasso, Potere e istituzioni in Italia. Dalla caduta dellTmpero romano a oggi. 527 Elaine Morgan, L’origine della donna. 528 h. r. hays, Dalla scimmia all’angelo. Due secoli di antropologia. 529 tomas maldonado, Avanguardia e razio­ nalità. Articoli, saggi, pamphlets, 19461974530 vance Packard, Una nazione di estranei. 531 arturo schwarz, La Sposa messa a nudo in Marcel Duchamp, anche. 532 Arnold Schoenberg, Analisi e pratica mu­ sicale. Scritti 1909-1950. 533 Federico fellini, Quattro film- I Vitello­ ni, La dolce vita, 8%, Giulietta degli spi­ riti. 534 gianni rondolino, Storia del cinema d’a­ nimazione. 535 Frances fitzgerald, Il lago in fiamme. 536 j. innes miller, Roma e la via delle spe­ zie. Dal 29 a. C. al 641 d. C. 537 Wilfrid mellers, Musica nel Nuovo Mondo. Storia dela musica americana. 538 gustave glotz, La civiltà egea. bertolt brecht, Scritti teatrali. 539 i- Teoria e tecnica dello spettacolo 19181942. 540 il. «L’acquisto dell’ottone», «Breviario di estetica teatrale» e altre riflessioni 1937-19^541 in. Note ai drammi e alle re zie. 542 robert jungk, L’uomo del millennio. 543 P. A. allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra. 544 Julian beck, La vita del teatro. L’artista e la lotta del popolo. 545 William hinton, La guerra dei cento giorni. Rivoluzione culturale e studenti in Cina. CARLO raggelanti, Arti della visione. 546 i. Cinema. 547 11. Spettacolo.

548 Gian Carlo ferretti, «Officina». Cultu­ ra, letteratura e politica negli anni cin­ quanta. 549 Erwin panofsky, Studi di iconologia. I te­ mi umanistici nell'arte del Rinascimento. 550 luigi magnani, Beethoven nei suoi qua­ derni di conversazione. 55i susan Sontag, Interpretazioni tendenzio­ se. Dodici temi culturali. 552 Frederick antal, Classicismo e romanti­ cismo. 553 lalla romano, Lettura di un'immagine. 554 Lionello venturi, Come si comprende la pittura. Da Giotto a Chagall. 555 ROBERTO GABETTI e CARLO OLMO, Le Corbusier e «L’Esprit Nouveau ». 556 nino pirrotta, Li due Orfei. Da Polizia­ no a Monteverdi. 557 folco portinari, Le parabole del reale: Romanzi italiani dell'Ottocento. 558 Michail alpatov, Le icone russe. Proble­ mi di storia e d'interpretazione artistica. 559 Edoardo SANGUiNETi, Giornalino 197319735Ó0 romano bilenchi, Amici. Vittorini, Rosai e altri incontri. 56i Nicola CHiAROMONTE, Scritti sul teatro. 562 Marco Cavallo. A cura di Giuliano Scabia, Una esperienza di animazione in un'ospe­ dale psichiatrico. 563 Gillo dorfles, Il divenire della critica. 564 luigi aurigemma, Il segno zodiacale del­ lo Scorpione nelle tradizioni occidentali dall'antichità greco-latina al Rinascimento. 565 roger gentis, Guarire la vita. >66 albert ducrocq, Il romanzo della vita. 567 Johannes br0ndsted, I Vichinghi. >68 c. a. burland, Montezuma signore degli Aztechi. 5Ó9 r. w. hutchinson, L'antica civiltà cretese. 570 cesare brandi, Scritti sull'arte contempo­ ranea. 57i luigi magnani, Goethe, Beethoven e il demonico. 572 Federico zeri, Diari di lavoro 2. 573 edgar snow, La mia vita di giornalista. Un viaggio attraverso la storia contempo­ ranea. 574 Francesco arcangeli, Dal romanticismo all'informale. 1. Dallo «spazio romantico» al primo Novecento. n. Il secondo dopoguerra. 575 Il melodramma italiano dell'ottocento. Studi e ricerche per Massimo Mila.

ATTO PRIMO.

Il melodramma italiano da Rossini a Puccini in una vasta gamma di analisi, sondaggi, contributi storico-critici.

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