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Italian Pages 488 Year 2012
ERACLITO AD ALESSANDRIA. STUDI E RICERCHE INTORNO ALLA TESTIMONIANZA DI FILONE
MONOTHÉISMES ET PHILOSOPHIE Collection dirigée par Carlos Lévy
ERACLITO AD ALESSANDRIA. STUDI E RICERCHE INTORNO ALLA TESTIMONIANZA DI FILONE
LUCIA SAUDELLI
F
© 2012 – Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise,without the prior permission of the publisher. D/2012/0095/88 ISBN 978-2-503-54339-0 Printed on acid-free paper
Alla mia famiglia Devo tutto a voi al vostro genio al vostro esempio E vi dedico questo libro se di voi è degno
RINGRAZIAMENTI
Non sarò mai capace di ringraziare adeguatamente il mio maestro, il Professor Carlos Lévy dell’Università Paris-Sorbonne, i cui giudizi penetranti, i cui consigli proficui, le cui critiche consapevoli e sapienti hanno fatto maturare le riflessioni fondamentali di questo libro. Posso e devo invece ringraziare i Professori André Laks e Glenn Most per avermi concesso di fruire della loro grande competenza metodologica, di cui ho cercato e cerco tuttora di fare tesoro. E come esprimere la mia ammirazione per il Professor Philippe Hoffmann, che ha amabilmente seguito le mie ricerche dottorali all’École Pratique des Hautes Études, e la mia riconoscenza al Professor Michel Tardieu, che con squisita generosità mi ha accolta nell’illustre dimora del Collège de France e onorata della sua assistenza personale. Vorrei rendere omaggio, inoltre, al Professor emerito Alain Le Boulluec, cui devo le minuziose ed erudite correzioni di studi paralleli a questo progetto principale, e ricordare la Professoressa Liana Lomiento, eminente filologa dell’Università di Urbino in cui ho ricevuto la mia formazione di base. Rivolgo un pensiero affettuoso, infine, ad Adrien Lecerf e Frédérique Woerther, giovani studiosi di fine ingegno e rara onestà, amici veri, amici carissimi.
SOMMARIO Abbreviazioni
13
Introduzione 1. Argomento 2. Metodo 3. Struttura
21 21 30 31
PARTE PRIMA. LA NATURA
35
I. La natura che si nasconde 1. Filone e «la natura che ama nascondersi»: Dio, uomo e parola 1.1. Dall’allegoresi alla visione 1.2. Il cambiamento dei nomi 1.3. Il significato naturale 1.4. La profondità della conoscenza 1.5. La falsa profezia 2. Le fonti del detto eracliteo 2.1. Porfirio: i vestimenti della natura e i veli del mito 2.2. Giuliano e Temistio: i riti e i culti sacri 3. «La natura ama nascondersi» (fr. 123 DK) di Eraclito
37 37 37 47 54 59 63 67 70 74 78
II. L’unità dei contrari 1. Filone sulla dottrina eraclitea dei contrari: la creazione dicotomica 1.1. Le bipartizioni della natura 1.2. Le divisioni e opposizioni della realtà 1.2.1. Il catalogo dei contrari
89 89 89 94 98
10
SOMMARIO
1.2.2. Il sunto della dottrina eraclitea 2. Paralleli rilevanti 2.1. De mundo: l’armonia universale 2.2. Refutatio omnium haeresium: Dio Padre e il Figlio Gesù Cristo 3. L’unità dei contrari di Eraclito
104 108 110
III. Il dio cosmico 1. L’«Uno» e il «tutto» secondo Filone: eraclitismo e stoicismo 1.1. Il Creatore e la creazione 1.1.1. «Sazietà e indigenza» 1.1.2. «Uno il tutto» 1.1.3. «Tutte le cose tramite lo scambio» 1.2. L’olocausto 1.2.1. «Uno tutte le cose» 1.2.2. «Dall’uno e all’uno» 1.2.3. «Sazietà e indigenza» 2. Excursus. Dio e il mondo: Accademici contro Stoici 3. Le testimonianze principali 3.1. Teofrasto: lo scambio del fuoco 3.2. Plutarco: la lettera epsilon e il numero cinque 3.3. Refutatio omnium haeresium: il giudizio e l’incendio universale 4. L’«uno» è il «tutto» (frr. 10, 50, 65 e 90 DK) per Eraclito
129 129 129 132 135 136 136 139 139 140 142 146 146 151
PARTE SECONDA. L’ANIMA
165
116 121
156 159
I. Il ciclo dell’anima 167 1. Filone sulla «morte delle anime»: Eraclito nel medioplatonismo 167 1.1. L’isonomia cosmica 167 1.2. La morte e la rinascita degli elementi 174 1.2.1. «Quando sembrano morire, divengono immortali» 177 1.2.2. «Scambiandosi» 178 1.2.3. «La stessa via verso l’alto e verso il basso» 178 1.3. Eraclito e la «morte delle anime» 179
SOMMARIO
11
2. Diverse versioni 184 2.1. Numenio, Porfirio e i Neoplatonici: il piacere e l’umido 187 2.2. Clemente di Alessandria: il plagio di Orfeo 196 3. «Per le anime è morte diventare acqua» (fr. 36 DK), dice Eraclito 199 4. La scala macrocosmica e microcosmica di Filone 205 4.1. Le vicende umane 214 4.1.1. La Fortuna che gioca 214 4.1.2. I giochi della sorte 218 5. Excursus. Il flusso e i contrari: tra scetticismo e pitagorismo 221 6. La storia del detto eracliteo 228 6.1. Diogene Laerzio: le trasformazioni elementari 228 6.2. Cleomede e Massimo di Tiro: la rigenerazione dell’universo 237 6.3. Plotino: la discesa e la salita dell’anima 242 6.4. Refutatio omnium haeresium: il divino e l’umano, uno e lo stesso 246 7. La «via verso l’alto verso il basso» (fr. 60 DK) di Eraclito 249 8. Filone sul «vivere la morte» e «morire la vita»: Eraclito e Mosé 255 8.1. La morte dell’uomo e la morte dell’anima 255 8.2. La morte del corpo e la vita dell’anima 260 8.3. «Morire la vita» dell’anima e «morire la vita» del corpo 262 8.3.1. Morire la vita della virtù 263 8.3.2. Morire la vera vita 266 8.3.3. Morire la vita corporea 268 8.3.4. I morti viventi 270 8.3.5. Morti da vivi e vivi da morti 272 9. Le parti e le varianti del frammento 274 9.1. Eraclito e la Refutatio omnium haeresium: dei mortali, uomini immortali 274 9.2. Numenio, Sesto Empirico e Ierocle: noi uomini e le nostre anime 279 10. Gli «immortali mortali, mortali immortali» (fr. 62 DK) di Eraclito 286
12
SOMMARIO
II. Il ciclo dell’essere umano 1. Il «cadavere» di Filone: un corpo senz’anima 1.1. Il male immortale 1.2. Il malvagio come cadavere 2. Dalla citazione di Eraclito al proverbio 2.1. Strabone: i costumi funerari dei Nabatei 2.2. Plutarco e Celso: la putrefazione della carne 2.3. Plotino, Giuliano e Simplicio: il disdegno del corpo 3. I «cadaveri» (fr. 96 DK) di Eraclito 4. Filone e il «bagliore» di Eraclito: l’anima con il corpo 4.1. L’anima asciutta 4.2. L’anima asciugata 5. Confronto filologico 5.1. Da Musonio Rufo a Stobeo: il nutrimento dell’anima 5.2. Galeno: l’intelligenza degli astri 5.3. Porfirio: la nuvola e l’ombra 6. L’«anima asciutta» (fr. 118 DK) di Eraclito 7. La «generazione» eraclitea secondo Filone: padre e figlio, nonno e nipote 8. Le altre testimonianze 8.1. Aezio: la pubertà 8.2. Plutarco e Censorino: il ciclo dell’età 9. La «generazione» (test. 19 DK) di Eraclito
293 293 293 296 297 297 299 302 307 312 312 315 317 317 324 326 331 338 340 340 342 346
Appendice. Filone e i Presocratici
353
Conclusioni
361
Bibliografia
370
Indice
424
ABBREVIAZIONI
Edizioni di Eraclito DK
H. Diels-W. Kranz (edd.), Die Fragmente der Vorsokratiker. Edizione dei testi presocratici: 22 (Eraclito); A (testimonianze); B (frammenti autentici); e C (imitazioni), con traduzione tedesca, 3 voll., Zurich-Berlin 19516 Marc.-Mond.-Tar. M. Marcovich-R. Mondolfo-L. Tarán (edd.), Eraclito, Testimonianze, imitazioni e frammenti. Testo greco a fronte, intr. di G. Reale, Milano 2007 Mour. S.N. Mouraviev (ed.) Heraclitea. Édition critique complète des témoignages sur la vie et l’œuvre d’Héraclite d’Éphèse et des vestiges de son livre et de sa pensée, II (Traditio: La tradition antique et médiévale), A (Témoignages et citations. Textes et traduction), Sankt Augustin 1999, 1 (D’Épicharme à Philon d’Alexandrie); II.A.2 (De Sénèque à Diogène Laërce), 2000; II.A.3 (De Plotin à Étienne d'A lexandrie), 2002; II.A.4 (De Maxime le Confesseur à Pétrarque), 2003; III (Recensio: Les vestiges), 1 (Memoria Heraclitea. La Vie, la Mort et le Livre d’Héraclite), 2004; III.2 (Placita Heraclitea: Thèses et doctrines attribuées à Héraclite par les Anciens), (A) Textes et (B) Commentaire, 2008; III.3 (Fragmenta Heracliti. Les fragments du livre d’Héraclite), A (Le langage de l’Obscur. Introduction à la poétique des
14
ABBREVIAZIONI
fragments), 2002; III.3.B (Les textes pertinents), i (Textes, traductions et apparats I-III), 2006; III.3.B/ii (Langue et forme. Apparats IV-V), 2006; III.3.B/iii (Notes critiques), 2006; IV (Refectio. Héraclite d’Éphèse. La recontruction), A (Le Livre « Les Muses » ou « De la Nature », Texte reconstruit, traduit et annoté), 2011. Edizioni di Filone Aucher
PAPM
PCH
PCW
PLCL
PR
Philonis Judaæi Sermones tres hactenus inediti, Edidit J.-B. Aucher (Awgerean), Venetiis 1822, Philonis Judaæi Paralipomena Armena, Venetiis 1826 Les Œuvres de Philon d’Alexandrie, Traduction française sous la direction de R. Arnaldez, J. Pouilloux et C. Mondésert (36 voll.), Paris 1961–1992 Philo von Alexandria: die Werke in deutscher Übersetzung, Hrsg. von L. Cohn, I. Heinemann et al. (7 voll.), Breslau-Berlin 1909–1964 Philonis Alexandrini opera quæ supersunt, Ediderunt L. Cohn, P. Wendland, S. Reiter (6 voll.), Berlin 1896–1915 (Index H. Leisegang, Berlin 1916, 1930) Philo in Ten Volumes (and Two Supplementary Volumes), English Translation by F.H. Colson, G.H. Whitaker (and R. Marcus) (12 voll.), London 1929–1962 Filone di Alessandria, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, a cura di R. Radice, pres. di G. Reale, Milano 1994; Testo greco a fronte, Milano 2005
Trattati di Filone Abr. Aet. Agr. Anim. Cher.
De Abrahamo De aeternitate mundi De agricultura De animalibus De Cherubim
ABBREVIAZIONI
Contempl. Conf. Congr. Decal. Deo Det. Deus Ebr. Flacc. Fug. Gig. Her. Hypoth. Ios. Leg. 1–3 Legat. Migr. Mos. 1–2 Mut. Opif. Plant. Post. Praem. Prob. Prov. 1–2 QE 1–2 QG 1–4 Sacr. Sobr. Somn. 1–2 Spec. 1–4 Virt.
De vita contemplativa De confusione linguarum De congressu eruditionis gratia De Decalogo De Deo Quod deterius potiori insidiari soleat Quod Deus sit immutabilis De ebrietate In Flaccum De fuga et inventione De gigantibus Quis rerum divinarum heres sit Hypothetica De Iosepho Legum allegoriae I, II, III Legatio ad Gaium De migratione Abrahami De vita Moysis I, II De mutatione nominum De opificio mundi De plantatione De posteritate Caini De praemiis et poenis, De exsecrationibus Quod omnis probus liber sit De Providentia I, II Quaestiones et solutiones in Exodum I, II Quaestiones et solutiones in Genesim I, II, III, IV De sacrificiis Abelis et Caini De sobrietate De somniis I, II De specialibus legibus I, II, III, IV De virtutibus
Riviste, periodici, collezioni, serie, enciclopedie e dizionari AA A&A
Aevum Antiquum Antike und Abendland
15
16 AANap ABD AC ACF AEHE AJPh AncPhil ANRW APh ArchHS ASR BCNH BIFGP BJS BP BT CAG CAH C&M CChrSG CChrSL CChrSA CFC CFilos CH CIG CIL CO CPF CPh CQ CR CSCO CSEL DECA
ABBREVIAZIONI
Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Napoli The Anchor Bible Dictionary, 6 vol. (New York 1992) L’Antiquité Classique Annuaire du Collège de France Annuaire de l’École Pratique des Hautes Études American Journal of Philology Ancient Philosophy Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt L’Année Philologique Archives Internationales de l’Histoire des Sciences Annali di Scienze Religiose Bibliothèque Copte de Nag Hammadi Bollettino dell’Istituto di Filologia Greca dell’Università di Padova Brown Judaic Studies Biblia Patristica Bibliotheca Teubneriana Commentaria in Aristotelem Graeca The Cambridge Ancient History Classica et Mediaevalia Corpus Christianorum, series Graeca Corpus Christianorum, series Latina Corpus Christianorum, series Apocryphorum Cuadernos de Filología Clásica Cuadernos de Filosofía Corpus Hermeticum Corpus Inscriptionum Graecarum Corpus Inscriptionum Latinarum Cahiers d’Orientalisme Corpus dei Papiri Filosofici Greci e Latini Classical Philology Classical Quarterly Classical Review Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum Dictionnaire Encyclopédique du Christianisme Ancien
ABBREVIAZIONI
DBSup DPhA DSpir EC EP EPRO FHG FrGH GCFI GCS GM GRBS HR ICS JA JbAC JBL JCS JHI JHPh JHS JSJ LSJ LThPh MAI Mnem MCr MH NHC NHS NPhU NT NT.S NTS OLD
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Dictionnaire de la Bible, Supplément Dictionnaire des Philosophes Antiques Dictionnaire de Spiritualité Les Études Classiques Les Études Philosophiques Études préliminaires aux religions orientales Fragmenta Historicorum Graecorum Fragmente der Griechischen Historiker Giornale Critico della Filosofia Italiana Die Griechischen Christlichen Schriftsteller der ersten (drei) Jahrhunderte Giornale di Metafisica Greek, Roman and Byzantine Studies History of Religions Illinois Classical Studies Journal Asiatique Jahrbuch für Antike und Christentum Journal of Biblical Literature Journal of Classical Studies Journal of the History of Ideas Journal of the History of Philosophy Journal of Hellenic Studies Journal for the Study of Judaism A Greek-English Lexicon (Oxford 19969) Laval Théologique et Philosophique Mémoires de l’Académie des Inscriptions et BellesLettres Mnemosyne Museum Criticum Museum Helveticum Nag Hammadi Corpus Nag Hammadi Studies Neue Philologische Untersuchungen Novum Testamentum Supplements to Novum Testamentum New Testament Studies The Oxford Latin Dictionary (Oxford 1982)
18 OSAPh PG PGL PhilAnt PhQ PhU PG PLS PW
PWSup QFU QS QUCC RAL RAC RB RCSF REA REAug RecSR REG REJ REL RF RFIC RFNS RhM RHPR RMM RPh RPhA RPhLIA RSC
ABBREVIAZIONI
Oxford Studies in Ancient Philosophy Patrologiae cursus completus: series Graeca A Patristic Greek Lexicon (Oxford 1961) Philosophia Antiqua Philosophical Quarterly Philologische Untersuchungen Patrologiae cursus completus: series Latina Patrologiae cursus completus, Series Latina, Supplementum Pauly-Wissowa-Kroll, Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft (Stuttgart 18941980) Supplement to PW Quaderni dell’Istituto di Filosofia di Urbino Quaderni di Storia Quaderni Urbinati di Cultura Classica Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei Reallexikon für Antike und Christentum Revue Biblique Rivista Critica di Storia della Filosofia Revue des Études Anciennes Revue des Études Augustiniennes Recherches de Science Religieuse Revue des Études Grecques Revue des Études Juives Revue des Études Latines Rivista di Filosofia Rivista di Filologia e di Istruzione Classica Rivista di Filosofia Neoscolastica Rheinisches Museum für Philologie Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses Revue de Métaphysique et de Morale Revue Philosophique de la France et de l’Étranger Revue de Philosophie Ancienne Revue de Philologie, de Littérature et d’Histoire Anciennes Rivista di Studi Classici
ABBREVIAZIONI
RScF RSF RSPhTh RSR RThPh SBLDS SBLMS SBLSPS SC SCO SIFC SO SP SPh SPhA SVF TAPhA TRE VChr VChr.S VetChr VT WUNT YCS ZA ZAC
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Rassegna di Scienze Filosofiche Rivista critica di Storia della Filosofia Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques Revue des Sciences Religieuses Revue de Théologie et de Philosophie Society of Biblical Literature. Dissertation Series Society of Biblical Literature. Monograph Series Society of Biblical Literature. Seminar Papers Series Sources Chrétiennes Studi Classici e Orientali Studi Italiani di Filologia Classica Symbolae Osloenses Studia Patristica Studia Philonica The Studia Philonica Annual Stoicorum Veterum Fragmenta Transactions and Proceedings of the American Philological Association Theologische Realencyklopädie Vigiliae Christianae Supplements to Vigiliae Christianae Vetera Christianorum Vetus Testamentum Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testament Yale Classical Studies Ziva Antika Zeitschrift für Antikes Christentum
INTRODUZIONE
1. Argomento Tema e ambito di ricerca; obiettivi dell’indagine; realizzazione dello studio Eraclito raggiunse il suo primo floruit nella sessantanovesima olimpiade (504-501 a. C.)1. Della sua vita sappiamo ben poco, se non che nacque ad Efeso, centro della Ionia sulle coste dell’Asia Minore, territorio abitato da Greci, ma in contatto con l’Oriente fin dai tempi più antichi2 . Agli inizi del V secolo a. C., dopo la rivolta di Mileto e la sua distruzione per opera dei Persiani, Efeso divenne la prima città greca dell’Asia Minore per opulenza economica e vivacità culturale, accogliendo l’eredità scientifico-filosofica dei milesii Talete, Anassimandro, Anassimene ed Ecateo. Primogenito di Blosone, Eraclito apparteneva a una delle più nobili famiglie ioniche, gli Androclidi, discendenti di Androclo, figlio del re degli Ateniesi Codro, il leggendario capo della migrazione greca in Ionia e fondatore di Efeso3. Eraclito era dunque erede del titolo
1 Gran parte della vita di Eraclito si situa sotto il regno di Dario (522-486 a. C.), come indica la polemica contro Senofane ed Ecateo (22 B 40 DK), contro gli Efesini che bandirono Ermodoro dalla città (22 B 121 DK), e come conferma la biografia eraclitea in Diogene Laerzio, IX 1 (= 22 A 1 DK), che proviene dallo storico Apollodoro di Atene e risale ad Aristotele. Eraclito sarebbe dunque nato verso il 520 a. C., avrebbe scritto il suo libro tra il 492 e il 478 (485-480) a. C. e sarebbe morto nel 460 a. C. circa. Cf. S.N. Mouraviev (ed.), Heraclitea, Édition critique complète des témoignages sur la vie et l’œuvre d’Héraclite d’Éphèse et des vestiges de son livre, Textes réunis, établis et traduits par S.N. M. (d’ora in avanti: Mour.), III (Recensio) 1 (Memoria: Testimonia de Vita, Morte, ac Scripto), Sankt Augustin 2003, pp. 110 ss. 2 Cf. E. Riverso, Eraclito, fr. 90 DK, in Atti del Symposium Heracliteum 1981, a cura di L. Rossetti (ed.), Roma 1983, vol. I. Studi, pp. 213-230, pp. 213 ss. 3 Cf. 22 A 1-3a DK.
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INTRODUZIONE
onorifico di re e sacerdote dei misteri di Demetra Eleusina, titolo al quale sembra aver rinunciato, in favore del fratello4, per prendere parte alle lotte politiche del suo tempo. Ma quando gli Efesini espulsero il legislatore Ermodoro dalla città, nel 485 a. C. circa, Eraclito abbandonò l’attività pubblica e cominciò a dedicarsi alla vita filosofica5. Dispregiatore delle masse popolari da un lato6 e degli aristocratici suoi concittadini dall’altro7, Eraclito fu un sapiente senza maestri8 – e probabilmente senza allievi – che scrisse un discorso in cui racchiuse la sua visione dell’unica legge divina della natura su cui si fonda ogni legge umana9. Questo è per Eraclito il solo principio dell’ordine cosmico, cui hanno parte tutti coloro che sono in grado di pensare10, cioè convenire che tutte le cose sono una sola e la stessa11. Secondo la tradizione12 , Eraclito depose lo scritto Sulla natura nel tempio dedicato ad Artemide Efesia, la divinità indigena protettrice della Ionia prima della colonizzazione greca13. Seguendo la prassi arcaica dell’affidare un testo a un santuario, Eraclito manifestava così la volontà di rendere omaggio alla dea e insieme di conservare la forma originaria della sua composizione14. L’Artemisio, una delle sette meraviglie del mondo antico, fu distrutto da un incendio
4
Cf. 22 A 1-3a DK. Cf. 22 B 121 DK. La data dell’espulsione di Ermodoro dalla città non è sicura (cf. S. Mouraviev, in DPhA, vol. III (2000), s.v. Hermodore d’Éphèse, pp. 659-663). 6 Cf. 22 B 104 DK. 7 Cf. 22 B 125a DK. 8 Cf. 22 B 101 e 108 DK. 9 Cf. 22 B 114 DK. 10 Cf. 22 B 113 DK. 11 Cf. 22 B 50 DK. 12 Cf. Diogene Laerzio, IX 6 (= 22 A 1 DK); Taziano, Or. ad Gr. 3. 13 L’Artemide efesina è diversa da quella ellenica, dea vergine della caccia e dei boschi, e con le sue decorazioni pettorali, che fonti di epoca cristiana hanno interpretato come innumerevoli mammelle, rappresenta la dea madre della fecondità, della vita e della morte della terra, di tutti i viventi e dell’uomo. Artemide è dunque la denominazione greca della dea indigena della Ionia, identificata con l’anatolica Cibele o Ecate: come divinità del mondo naturale, era associata alla circolazione delle acque e allo scorrere delle fonti, ma anche all’età umana della pubertà, cioè al periodo di transizione tra la fanciullezza e la maturità dell’uomo; come divinità della vita politica, era considerata protettrice di Efeso, degli Efesini e degli stranieri che supplicavano rifugio. Cf. R. Lesser, The Nature of Artemis Ephesia, «Hirundo: The McGill Journal of Classical Studies» IV (2005-2006), pp. 43-54. 14 Cf. G. Cerri, I significati di sphragis in Teognide e la salvaguardia dell’autenticità testuale nel mondo antico, «QS» 17 (1991), pp. 21-40. 5
INTRODUZIONE
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doloso nel 356 a. C.15, e con esso l’esemplare originario del libro di Eraclito, ma molteplici copie dovevano circolare attraverso il mondo greco, dalla Ionia alla Magna Grecia passando per Atene, il centro culturale dell’Ellade classica16. Qui si costituì un circolo di Eraclitei, cui apparteneva Cratilo, personaggio eponimo del dialogo platonico17 e principale fonte dell’“eraclitismo” di Platone18, una forma radicalizzata o estremizzata della dottrina di Eraclito. L’impatto e il successo dello scritto eracliteo è testimoniato dagli echi e dalle reazioni che si possono rilevare in diversi poeti e pensatori di V secolo a. C., quali Simonide, Epicarmo, Pindaro, Eschilo, Anassagora, Democrito e altri ancora. Platone e Aristotele (IV sec. a. C)19 sono i primi filosofi a riflettere criticamente sulla dottrina di Eraclito, senza pertanto cercare di comprenderla in modo preciso o valutarla da un punto di vista oggettivo – almeno nella più parte dei casi –, ma utilizzandola in funzione dei propri interessi e scopi. Platone allude implicitamente ed esplicitamente a Eraclito, secondo cui la realtà è in perpetuo divenire, nulla rimane uguale, ma tutto si muove e si trasforma continuamente; il reale è molteplice e uno, perché ad un tempo differente e identico: discorda da sé e con sé concorda20. Aristotele, dal canto suo, attribuisce a Eraclito la dottrina secondo cui tutto scorre, perché tutto deriva dal fuoco e ad esso ritorna periodicamente; la stessa cosa può essere e non essere, lo stesso soggetto avere predicati opposti nello stesso tempo e secondo lo stesso rispetto: i contrari, infatti, costituiscono un’unica cosa21. Un resoconto della dottrina eraclitea è dato quindi da Teofrasto (IV-III sec. a. C.), ultimo allievo di Aristo15 Erostrato è l’Efesio che, in cerca di celebrità, appiccò l’incendio del tempio di Artemide la notte in cui nacque Alessandro Magno: il 21 luglio del 356 a. C. Cf. l’articolo di L. Bürchner, Ephesos, in PW V 2, Stuttgart 1905, coll. 2810-2811 e quello di G. Plaumann, Herostratos, in PW VIII 1, Stuttgart 1913, coll. 1145-1146. 16 Sempre secondo la tradizione, il poeta tragico Euripide avrebbe trasmesso o portato a Socrate lo scritto di Eraclito (cf. Taziano, Or. ad Gr. 3; Diogene Laerzio, II 22 e IX 11). Secondo un’altra versione, un certo Cratete avrebbe introdotto il libro ad Atene (cf. Diogene Laerzio, IX 12). 17 Cf. M. Marcovich-R. Mondolfo-L. Tarán (edd.), Eraclito. Testimonianze, imitazioni e frammenti, intr. di G. Reale, bibl. di G. Girgenti con la coll. di I. Ramelli, tr. dei testi inglesi di P. Innocenti, Milano 2007 (d’ora in avanti: Marc.-Mond.-Tar.), Intr., pp. LXXXIV, CXIX. 18 Cf. Aristotele, Met. 987 a 32 e 1010 a 11. 19 Cf. C.H. Kahn (ed.), The Art and Thought of Heraclitus. An Edition of the Fragments with Translation and Commentary, Cambridge 1979, p. 4. 20 Cf. Mour., op. cit., II (Traditio), A (Témoignages et citations), 1 (D’Épicharme à Philon d’Alexandrie), Sankt Augustin 1999, TT 94-135, pp. 60-96. 21 Cf. Mour., op. cit., II.A.1 (1999), TT 140-196, pp. 100-148. Aristotele (Ret. 1407b 14) fa anche riferimento alla costruzione grammaticale e sintattica dello scritto eracliteo.
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INTRODUZIONE
tele e scolarca del Liceo, la cui raccolta delle Opinioni dei Fisici [o Opinioni fisiche]22 è stata variamente rielaborata e parzialmente accorpata a dossografie di epoca ellenistica, confluite poi nel materiale conservato da Diogene Laerzio nel libro delle Vite e dottrine dei filosofi antichi dedicato a Eraclito (IX 7-11). Teofrasto attribuisce a Eraclito una concezione puramente fisica dell’universo, in cui il principio elementare del cosmo è il fuoco, tutte le cose nascono da esso e muoiono di nuovo in esso secondo determinati periodi e una fatale necessità, trasformandosi in base a processi di condensazione e rarefazione23. Ma i principali “eraclitei” dell’Antichità sono gli stoici Zenone e Cleante (III sec. a. C.) che, considerando Eraclito loro antenato e precursore, adottarono e adattarono alla filosofia stoica tanto la fisica quanto la psicologia eraclitea, sia la dottrina del fuoco che incendia periodicamente il cosmo, sia quella dell’anima che esala dall’umido24. Cleante scrisse un commento a Eraclito in quattro libri di cui non si hanno tracce sicure, come del resto non sono sopravvissuti gli scritti degli altri commentatori antichi, dal filosofo Antistene al grammatico Diodoto25. Sebbene Eraclito sia studiato come un classico della letteratura greca dal IV secolo a. C. in poi, la ricostruzione del libro Sulla natura dipende principalmente dagli autori che lo utilizzano nei primi secoli della nostra era. Si dovrà attendere il filosofo platonico Plutarco di Cheronea (I-II sec. d. C.), l’apologista cristiano Clemente di Alessandria (II-III sec.) e la Refutatio omnium haeresium attribuita a Ippolito di Roma (III sec.) per fruire di un gran numero di citazioni testuali dello scritto eracliteo. Soprannominato σκοτεινός26 – ovvero obscurus27 –, cioè «l’Oscuro», per il suo stile laconico ma brillante, e le sue immagini emblematiche ed enigmatiche, Eraclito è dunque sopravvissuto al parziale naufragio della letteratura antica e ci è stato trasmesso attraverso il filtro di molti intermediari: autori che citano altri autori, copisti che ricalcano precedenti copisti. Più di un centinaio
22 Cf. J. Mansfeld, Physikai doxai and Problêmata physika from Aristotle to Aëtius (and beyond), in W. W. Fortenbaugh and D. Gutas (edd.), Theophrastus, His Psychological, Doxographical and Scientific Writings, New Brunswick–London 1992, pp. 63-111, che spiega perché si debba preferire il titolo Physikai doxai a Physikôn doxai. 23 Cf. Mour., op. cit., II.A.1 (1999), TT 197-210, pp. 149-166. 24 Cf. Mour., op. cit., II.A.1 (1999), TT 256 ss., pp. 186 ss. 25 Cf. 22 A 1 DK. 26 Cf. 22 A 1a e 3a DK. Timone di Fliunte (ap. Diogene Laerzio, IX 6), satirico del III secolo a. C., chiama Eraclito αἰνικτής («l’enigmatico»). 27 Cf. Cicerone, De finibus II 5, 15 e passim.
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di frammenti del suo discorso, spesso ridotti a qualche frase o a qualche parola, sono citati direttamente da apologisti cristiani, filosofi pagani o eruditi bizantini, cui si aggiungono decine di testimonianze indirette sulla sua vita e sul suo pensiero. Per conoscere e capire il contenuto del libro di Eraclito28 senza annegare nelle sue profondità – come un buon «tuffatore delio»29 –, gli Heraclitea sono stati raccolti da diversi editori e confrontati tra loro da numerosi critici, soprattutto nel secolo scorso30. Tuttavia, lo studio dei testi eraclitei nella loro forma più letterale, rimossi dal testo in cui sono incastonati, è necessario, ma non sufficiente, alla comprensione della parola di Eraclito. Per progredire ulteriormente nella ricerca, sfatando erronei miti del passato e dirimendo annosi conflitti tra gli specialisti, si impone l’analisi dettagliata e approfondita dei contesti delle testimonianze31. La critica filologica e letteraria, storica e filosofica, ci ha fornito gli strumenti necessari per inquadrare il testo citato all’interno del contesto di citazione, ma anche per ricavare dalla cornice argomentativa informazioni utili per comprendere le parole dell’autore presocratico rispetto a ciò che comprende e vuole fare comprendere la sua fonte. La pratica della contestualizzazione32 è inoltre legata allo studio della dossografia – anche se quella non si riduce a questo –, perché capire la logica secondo cui opera una presentazione dossografica permette di estrarre informazioni utili su una data dottrina presocratica liberandola dagli schemi di sistemazione che la
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Cf. 22 A 1 DK. Si fa qui riferimento all’aneddoto secondo cui Cratete o Socrate avrebbe affermato che bisognava essere un palombaro di Delo per non annegare nel libro di Eraclito (22 A 1 e 4 DK). In un testo letto alla Conferenza inaugurale della International Association for Presocratic Studies (Ionian Philosophy and Science, Provo, Utah (USA), 23-27 giugno 2008), F. Casadesús ha ipotizzato che l’espressione «tuffatore delio» faccia riferimento all’oscurità di Eraclito, sulla base del legame etimologico tra il nome proprio Δῆλος («Delo») e l’aggettivo ἄδηλος («oscuro»). 30 Si possono consultare E.N. Roussos, Heraklit-Bibliographie, Darmstadt 1971 e F. De Martino-L. Rossetti-P. Rosati, Eraclito. Bibliografia 1970-1984 e complementi 1621-1969, Napoli 1986. 31 Sui temi e i problemi delle edizioni di frammenti, cf. G.W. Most (ed.), Collecting Fragments-Fragmente sammeln, Aporemata: Kritische Studien zur Philologiegeschichte 1., Göttingen 1997, pp. 166 ss. e passim. 32 Una rappresentante dello studio del “testo in contesto” è C. Osborne, Rethinking Early Greek Philosophy. Hippolytus of Rome and the Presocratics, London 1987. Si veda anche S. Mouraviev, Comment interpréter Héraclite: vers une méthodologie scientifique des études héraclitéennes, in Comment interpréter Héraclite. Vers une méthodologie scientifique des études héraclitéennes, in K.J. Boudouris (ed.), Ionian Philosophy, Athens 1989, pp. 270-279. 29
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costringono33. I dossologi contemporanei34 hanno non solo proposto una ricostituzione della principale dossografia di epoca tardo-ellenistica, ma anche ricavato dal metodo della contestualizzazione una nuova prospettiva critica per valutare lo sviluppo del pensiero e delle filosofie scolastiche nell’Antichità postalessandrina, e che consiste nel subordinare lo studio della fonte individuale (Quelle) a quello della tradizione cui essa appartiene. Un esame accurato delle varie testimonianze, in relazione all’orientamento intellettuale e all’opera letteraria di ogni testimone, al suo stile e metodo da un lato, ai suoi interessi e obiettivi dall’altro – ma anche alla tradizione o alle tradizioni cui è legato –, è allora indispensabile per distinguere la dottrina di Eraclito dalle molteplici interpretazioni e dalle rappresentazioni leggendarie che si sovrappongono e si intrecciano nella storia del pensiero antico. Il testo trasmesso non può essere scisso dalle questioni relative alla sua trasmissione, e la dottrina primitiva deve essere studiata alla luce delle sue diverse ricezioni. Ciò vale soprattutto per le fonti considerate minori, e che sono spesso solo meno conosciute. Il presente studio è dedicato alla testimonianza di Filone, il massimo esponente del giudaismo ellenistico, vissuto tra il 15 a. C. e il 50 d. C. ad Alessandria di Egitto e appartenente a una delle famiglie più ragguardevoli della comunità ebraica della città. Filone non solo scrisse il più celebre commentario alla Bibbia greca dei Settanta in chiave platonica – e precisamente medioplatonica –, ma capeggiò anche l’ambasceria ebrea inviata a Roma all’imperatore Caligola nel 39 d. C. La fedeltà alla Legge del suo popolo e alla tradizione dei suoi padri, quindi l’apologia e la propaganda del giudaismo, indissociabili dall’amore per la cultura e soprattutto per la filosofia greca, caratterizzano l’attività intellettuale dell’Alessandrino. La sua produzione letteraria è considerevole, e la lista dei trattati che Eusebio leggeva nella Biblioteca di Cesarea (Hist. Eccl. II 18, 1 ss.), così come le stesse indicazioni filoniane e le citazioni di autori posteriori, indicano che l’insieme dell’opera non è stato integralmente conservato. Filone scrisse in totale oltre 70 trattati, 37 dei quali sono disponibili nell’originale greco e 12 in una traduzione armena di VI secolo, cui si aggiungono
33 Sulla problematica e le relative implicazioni, si consulti A. Laks, Histoire, Doxographie, Vérité. Études sur Aristote, Théophraste et la philosophie présocratique, Louvain-La-Neuve 2007. 34 Cf. J. Mansfeld and D.T. Runia, Aëtiana. The Method and Intellectual Context of a Doxographer, vol. I. The Sources, Leiden-New York-Köln 1997; vol. II. The Compendium; Leiden-New York-Köln 2009, vol. III. Studies in the Doxographical Traditions of Ancient Philosophy, Leiden-New York-Köln 2009.
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frammenti papirologici ed estratti preservati in catene esegetiche o florilegi spirituali e dogmatici35. Si suole suddividere il corpus philonicum in tre gruppi di scritti: esegetici, storico-apologetici e filosofici. Il primo gruppo (scritti esegetici) è il più importante e consta di 39 trattati, a loro volta ripartiti in tre serie molto diverse l’una dall’altra, tanto per forma quanto per contenuto. La prima serie è il “Commentario Allegorico” ai primi 17 capitoli della Genesi, in 21 libri; la seconda serie è quella delle opere di “Esposizione della legge”, in 12 libri, che comincia con La creazione del mondo, poi seguono le vite dei Patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe e Mosé; la terza serie è costituita dalle Quaestiones et Solutiones in Genesim e in Exodum, di cui si hanno solo 6 libri (4 sulla Genesi e 2 sull’Esodo) tradotti in lingua armena. Il secondo gruppo (scritti storicoapologetici), quindi, è composto di 4 trattati che descrivono e commentano gli eventi alessandrini degli anni 37-39 d. C. Il terzo gruppo (scritti filosofici), infine, si costituisce di 5 trattati, dedicati a diversi argomenti e quasi privi di riferimenti biblici, che mostrano la grande erudizione di Filone e rappresentano una fonte preziosa per la storia della filosofia antica36. Nel corpus philonicum sono reperibili citazioni, parafrasi e reminiscenze di Eraclito non contemplate dalla prima e ancora unica raccolta critica dei testi presocratici a cura di H. Diels-W. Kranz (DK)37. L’Editio Maior dei frammenti e delle testimonianze su Eraclito a cura di M. Marcovich38 e i monumentali
35 Cf. J.R. Royse, The Spurious Texts of Philo of Alexandria, A Study of Textual Transmission and Corruption with Indexes to Major Collections of Greek Fragments, Leiden-New York-København-Köhln 1991; Id., Reverse Indexes to Philonic Texts in the Printed Florilegia and Collections of Fragments, «SphA» 5 (1993), pp. 156-179. 36 Cf. D.T. Runia, Philo, Alexandrian and Jew, in Id., Exegesis and Philosophy: Studies on Philo of Alexandria, Aldershot 1990, pp. 1-18. Nel corso del XX secolo il corpus philonicum è stato tradotto in tedesco, inglese, francese e spagnolo; in italiano disponiamo del corpus di 18 trattati, in 21 libri, che costituisce il grande “Commentario allegorico”, edito assieme a La creazione del mondo in R. Radice (ed.), Filone di Alessandria, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, Milano 1994, Testo greco a fronte, Milano 2005 (d’ora in avanti: PR); e di qualche altro scritto esegetico e storico-apologetico: P. Graffigna (ed.), Filone di Alessandria, La vita contemplativa, Genova 1992; P. Graffigna (ed.), Filone di Alessandria, La vita di Mosé, Milano 1999; F. Calabi (ed.), Filone di Alessandria, De Decalogo, Pisa 2005. 37 Cf. H. Diels (ed.), Die Fragmente der Vorsokratiker, griechisch und deutsch, Berlin 1903; H. Diels– W. Kranz (edd.) Die Fragmente der Vorsokratiker, griechisch und deutsch, Berlin 19516 (d’ora in avanti: DK), vol. I, pp. 139-190; tr. it. di G. Giannantoni (ed.), I Presocratici. Testimonianze e frammenti, RomaBari 1981, 19935, pp. 179-221; tr. it. a cura di G. Reale (ed.), I Presocratici, Testo greco a fronte, Milano 2006, pp. 315-393. 38 Cf. M. Marcovich (ed.), Heraclitus, Greek Text with a Short Commentary (Editio Maior), Merida 1967; Sankt Augustin 2001; tr. it. abbr. e agg. a cura di P. Innocenti, Firenze 1978; ora in Marc.-Mond.-Tar.
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Heraclitea di S.N. Mouraviev39 tracciano il più ampio quadro dei luoghi filoniani in cui si rileva la presenza della parola e della dottrina eraclitea. Tuttavia, la lista dei riferimenti filoniani a Eraclito non è completa; inoltre, M. Marcovich non traduceva le testimonianze di Filone su Eraclito, e S.N. Mouraviev non le ha ancora commentate. Se poi dalle edizioni critiche di Eraclito si passa alla letteratura secondaria su Filone40, si constata la carenza di studi dedicati all’Alessandrino in quanto testimone del pensiero eracliteo: esistono monografie su Eraclito in Platone41 e Aristotele42 , in Clemente di Alessandria43 o Plotino44, ma solo qualche articolo segnala la presenza di Eraclito in Filone45. Eppure, l’Alessandrino rappresenta una fonte anteriore agli apologisti ed eresiologi cristiani da un lato, ai filosofi medio- e neo-platonici dall’altro, una fonte originale e poliedrica a tutt’oggi mai studiata in modo sistematico ed esaustivo. Sia nel grande “Commentario allegorico” al Pentateuco sia nei trattati di “Esposizione della Legge” e negli “Scritti filosofici”, Filone cita la parola di Eraclito e allude alla sua dottrina. In molti casi, è arduo determinare se si tratti di una citazione diretta dello scritto eracliteo o piuttosto di un resoconto indiretto del suo pensiero, nonché definire il tipo di testimonianza, che può variare dalla formula riassuntiva alla parafrasi esplicativa46. La difficoltà che si pone,
(2007), op. cit. 39 Cf. Mour., op. cit., II.A.1 (1999), Chap. 59. Philo Judaeus Alexandrinus, TT 326-343, pp. 237-253. 40 Cf. R. Radice-D.T. Runia, Philo of Alexandria: An annotated Bibliography 1937-1986, VChr.S 8, Leiden 1988; D.T. Runia, Philo of Alexandria: An annotated Bibliography 1987-1996, with addenda for 1937-1986, by D.T. R. with the assistance of H. M. Keizer and in collaboration with The International Philo Bibliography Project, VChr.S, Leiden 2000. 41 Cf. I. Banu, Platon heracliticul, Contributie la istoria dialecticii, Bucaresti 1972. 42 Cf. C. Viano, Héraclite dans Aristote (Thèse), Lille 1986. 43 Cf. H. Wiese, Heraklit bei Klemens von Alexandrien (Diss.), Kiel 1963. 44 Cf. E.N. Roussos, ῾Ο ῾Ηράκλειτος στὶς ᾿Εννεάδες τοῦ Πλωτίνου (Tesi), Athens 1968. Per i numerosi contributi parziali su Eraclito in altri autori antichi (Teofrasto, Seneca, Plutarco, Enesidemo, Ippolito, etc.) o moderni (Hegel, Nietzsche, Heidegger, etc.), si vedano le rassegne citate nella bibliografia. 45 Cf. J. Mansfeld, Two Heraclitea in Philo Judaeus, in Atti del Symposium Heracliteum (1983), op. cit., vol. I, pp. 63-64; Id., Heraclitus, Empedocles, and Others in a Middle Platonist Cento in Philo of Alexandria, «VChr» 39 (1985), pp. 131-156; J.R. Royse, Heraclitus B 118 in Philo of Alexandria, «SPhA» 9 (1997), pp. 211-216. 46 Di qui l’esigenza di abolire la differenza tra “testimonianza”, filologicamente intesa come il resoconto indiretto sulla vita e l’opera di un autore, e “frammento”, la citazione diretta del testo di un autore, già suggerita da A. Laks, Du témoignage comme fragment, in G.W. Most (ed.) (1997), op. cit., p. 237. Diversa è la posizione di S. Mouraviev (op. cit., III.3.B/i (2006), pp. XIV-XV e III.2 Placita (2008), pp. XIIIXIV), secondo cui abolire qusta distinzione implicherebbe l’esclusione della poetica del testo eracliteo, che lo specialista intende ricostruire.
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allora, è valutare il contributo di Filone e stimarne l’utilità, poiché, come molti altri autori antichi, l’Alessandrino non si preoccupa di alterare il testo di Eraclito e modificarne il significato quando il suo intento – come spesso accade – non è tanto capire o far capire il Presocratico, bensì sfruttarlo secondo le proprie esigenze. Nell’opera filoniana, il testo biblico e i concetti filosofici si influenzano reciprocamente: secondo Filone, la parola di Mosé “nasconde” teorie fisiche e dottrine morali, queste; a loro volta, “illuminano” quella. Dopo Platone, Eraclito è per Filone un filosofo privilegiato, ma le testimonianze dell’Alessandrino sul discorso dell’Efesio non possiedono sempre la chiarezza e l’esattezza di quelle cui si attribuisce indiscutibilmente valore scientifico, anche se non sono affatto scevre di valore storico. Nella maggior parte dei casi, infatti, i passaggi filoniani forniscono elementi che, sottoposti a un’adeguata critica, sono utilizzabili per cercare di risalire al significato genuino della dottrina eraclitea attraverso la storia della sua tradizione. Occorre quindi analizzare gli Heraclitea di Filone in funzione del suo orizzonte giudeo-ellenistico, ma anche confrontarli con le altre fonti dirette e dossografiche su Eraclito per rilevarne e studiarne le analogie e le differenze, le continuità e gli sviluppi, le dipendenze e i nessi. Esamineremo quindi la testimonianza di Filone con un triplice intento: innanzitutto, distinguere le citazioni testuali di Eraclito da parafrasi e reminiscenze, che, sebbene mantengano il contenuto del pensiero eracliteo, alterano la forma della sua espressione; in secondo luogo, isolare gli elementi appartenenti alla dottrina di Eraclito dall’interpretazione datane da Filone in funzione del proprio credo religioso e secondo gli scopi della sua opera letteraria; infine, separare le informazioni su Eraclito da ciò che costituisce il contesto argomentativo filoniano, ivi incluse le considerazioni che esprimono l’assimilazione o il rigetto del pensiero eracliteo. Ci chiederemo allora se e come Filone abbia avuto accesso all’opera di Eraclito, e cercheremo di individuare le caratteristiche e le implicazioni di questa trasmissione e ricezione giudeo-alessandrina della filosofia eraclitea. I testi filoniani di e su Eraclito saranno poi confrontati con altre fonti che si iscrivono nei limiti dell’Antichità, classica e tarda; lo scopo della ricerca, infatti, è lumeggiare il contributo di Filone e coglierne la specificità attraverso due tipi di testimonianze: quelle prossime alla sua epoca e al suo ambiente filosofico, e quelle più utili alla conoscenza e alla comprensione della dottrina eraclitea. Oltre a indagare il rapporto di Filone con gli altri testimoni, studieremo anche il suo rapporto con gli altri Presocratici, cioè il modo in cui li cita, interpreta e
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utilizza. E siccome il pensiero di Eraclito non può essere scisso dalle congiunture politiche e dalle pratiche religiose del suo tempo e della sua città, né dallo scopo del suo discorso o dal suo tipo di pubblico, i passaggi di Filone dovranno essere valutati anche e soprattutto in relazione ad altri testi eraclitei, quindi alla lingua, alla letteratura e alla filosofia pre-platonica. Tale ricerca è necessaria, tanto per determinare il ruolo di Eraclito nell’elaborazione dell’opera filoniana, quanto per stabilire il contributo di Filone a una maggiore conoscenza degli Heraclitea. Da un lato, dunque, questa indagine permetterà di capire perché Filone ricorre a Eraclito e come lo utilizza nella sua esegesi biblica, produzione filosofica e attività politico-sociale, e dall’altro, consentirà di assegnare a Filone una posizione nel panorama delle fonti antiche di Eraclito. 2. Metodo Analisi, confronto e sintesi delle testimonianze: Filone e la tradizione interpretativa di Eraclito La ricerca adopera un metodo di lavoro che si articola in tre momenti. Il primo di questi è l’analisi del testo di Eraclito nel contesto di Filone in una duplice prospettiva: Eraclito secondo Filone, vale a dire l’esame della citazione e dell’interpretazione di Eraclito data dall’Alessandrino; ed Eraclito in Filone, cioè la riflessione sulla funzione della dottrina eraclitea nei diversi luoghi filoniani. Questo è il primo stadio del lavoro, in cui il passaggio filoniano contenente il riferimento a Eraclito è studiato al fine di determinare, da un lato il grado di letteralità della parola eraclitea, dall’altro il significato attribuitogli da Filone. Dopo aver individuato il testo o il pensiero di Eraclito cui l’Alessandrino si riferisce, ci si dovrà allora interrogare sul senso dell’utilizzo filoniano nel particolare argomento di un certo trattato e nella generale prospettiva giudeoellenistica della sua opera. Il secondo momento è il confronto di Filone con le altre fonti, anteriori e posteriori, dirette e dossografiche, pagane e cristiane, greche e latine, dello stesso detto o tratto di dottrina eraclitea. Questa fase mediana consiste in uno studio diacronico in cui Filone è paragonato ad altri autori che presentano, ciascuno nel proprio contesto, analoghi testi di e su Eraclito. Tale collazione permetterà di abbozzare un quadro delle principali versioni e differenti interpretazioni della stessa espressione o concezione eraclitea, con particolare
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attenzione alle fonti cronologicamente e ideologicamente vicine a Filone. In questo modo, infatti, ci si farà un’idea più precisa del tipo di materiale eracliteo usato da Filone e delle caratteristiche peculiari del suo impiego, vale a dire del modo in cui Filone restituisce e recepisce Eraclito rispetto alla tradizione filosofica e alessandrina di I secolo. Il terzo e ultimo momento è la sintesi, in cui le testimonianze di Filone, già studiate separatamente e paragonate ad altre, sono messe in relazione con la speculazione scientifica e religiosa di Eraclito e dei Presocratici di V secolo a. C. Solo questo studio sincronico dei passi filoniani di e su Eraclito con frammenti eraclitei prossimi per forma e contenuto, e di questi con altri testi filosofici di epoca arcaica, permetterà di trarre qualche conclusione sul ruolo che il contributo filoniano gioca nella ricostituzione della storia dello scritto e del pensiero di Eraclito. Si potrà così determinare il rapporto che Filone intrattiene con la tradizione degli Heraclitea e precisare il suo apporto specifico. 3. Struttura La natura e l’anima La ricerca si struttura in due parti, che corrispondono alle unità tematiche in cui si possono raggruppare le testimonianze di Filone su Eraclito: la prima è dedicata alla natura, cioè al termine e al concetto eracliteo di physis in tutta la sua pregnanza e nei suoi diversi significati, mentre la seconda, all’anima, e in particolare alla natura e all’esistenza della psychê umana. La Parte prima si divide a sua volta in tre sezioni, la prima delle quali concerne la concezione eraclitea della natura che ama nascondersi, vale a dire il frammento 123 DK di Eraclito. Il detto eracliteo sulla tendenza della natura a sfuggire e scomparire è studiato nei diversi luoghi in cui Filone lo utilizza per giustificare e promuovere l’esegesi allegorica della Sacra Scrittura che conduce alla visione del Dio invisibile. Il confronto con le altre fonti del frammento, soprattutto neoplatoniche, e con gli altri frammenti di Eraclito, rivela allora il contributo di Filone a una più adeguata riflessione sul significato ontologico e logico del detto e del pensiero eracliteo. La seconda sezione della prima parte è dedicata alla concezione dei contrari di Eraclito, vale a dire all’intuizione secondo cui la realtà è unità e distinzione di opposti. Interpretando allegoricamente la Genesi biblica, Filone afferma che Eraclito ha tratto la sua dottrina dei contrari dal racconto mosaico del
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sacrificio di Abramo, il cui significato è la creazione del mondo, per opera di Dio e a mezzo del suo Logos, tramite successive divisioni, di tutto il reale e di ogni ente, in parti uguali e contrarie. La testimonianza di Filone, che non ha pari nella tradizione interpretativa, contiene non solo impliciti riferimenti a termini e concetti eraclitei, ma anche indicazioni sulla forma e sul contenuto dello scritto di Eraclito e una definizione precisa del caposaldo della sua filosofia. La terza e ultima sezione sulla natura ha per tema la concezione eraclitea di dio e del cosmo, espressa nei frammenti 10, 50, 65 e 90 DK, cui Filone fa allusione in due diversi passaggi con formule sintetiche. I detti eraclitei sull’unico principio divino, che si identifica con la totalità del mondo, perché si trasforma periodicamente e continuamente in esso, sono studiati negli argomenti sul macrocosmo fisico e sul microcosmo animale di Filone, che critica e supera la posizione eraclitea e stoica secondo il creazionismo giudaico. Lo studio comparativo delle fonti dossografiche, filosofiche e cristiane permette allora di distinguere l’apporto personale di Filone al dibattito antico e moderno sulla cosmogonia e cosmologia di Eraclito. La Parte seconda, dedicata all’anima, si suddivide in due sezioni. La prima di queste riguarda il ciclo di vita e morte dell’anima, e precisamente i frammenti 36, 60 e 62 DK di Eraclito. I testi eraclitei sono esaminati nei vari contesti di Filone che inserisce anche l’anima nel ciclo dell’universo che si trasforma continuamente secondo il movimento ascendente e discendente di rarefazione e condensazione della materia. Citazioni parziali e vaghe reminiscenze di questi detti ricorrono in vari luoghi del corpus philonicum, in cui trovano diverse applicazioni, cosmologiche, psicologiche e antropologiche. Il parallelo con le altre fonti mostra quindi il valore della testimonianza filoniana per uno studio più documentato e adeguato dei frammenti che esprimono la dottrina eraclitea dell’anima universale e delle anime particolari, e di quelli che, invece, avevano probabilmente un altro significato. La seconda e ultima sezione sull’anima concerne il ciclo dell’essere umano, vale a dire i frammenti 96, 118 DK e la testimonianza 19 DK. I detti di Eraclito sui cadaveri e sull’anima asciutta, e la concezione eraclitea della generazione umana, sono studiati nei vari luoghi e nei diversi argomenti esegetici e filosofici di Filone. Il confronto con le altre fonti dell’antropologia di Eraclito rivela quindi il contributo decisivo di Filone alla comprensione della dottrina eraclitea: l’alternanza di morte e vita dell’uomo, conforme a quella dell’anima e del cosmo.
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L’appendice mostra come Filone cita e interpreta altri filosofi presocratici, in particolar modo Empedocle. Le conclusioni generali, infine, riassumono e rielaborano le conclusioni parziali sugli Heraclitea di Filone, determinando le caratteristiche principali e peculiari della trasmissione e ricezione dell’Alessandrino, e precisando gli aspetti generali e i punti particolari del testo e del pensiero di Eraclito che lo studio della testimonianza filoniana ha permesso di mettere in luce o rimettere in questione.
PARTE PRIMA. LA NATURA La Parte I della ricerca è dedicata alla concezione eraclitea della physis. Diversi sono i riferimenti di Filone alla natura che tende a nascondersi – come dice Eraclito –, alla concezione eraclitea dell’unità essenziale di ogni cosa nella duplicità dei suoi aspetti contrari, all’identificazione eraclitea, poi stoica, dell’unico divino con la totalità del cosmo. In alcuni casi Filone cita, parafrasa e allude allo scritto eracliteo Sulla natura, in altri casi, riassume il pensiero di Eraclito senza citarlo o si appropria della sua parola senza menzionarlo. Questo studio permetterà di scoprire e capire come i detti di Eraclito sulla natura che si trasforma sono stati letti e compresi, assimilati e utilizzati da Filone nei suoi commentari allegorici della Bibbia e nei trattati di esposizione della Legge, cioè come il concetto eracliteo di natura, assieme a quelli di contrari e mondo, sia stato di volta in volta paragonato all’insegnamento mosaico e usato per spiegarlo, per difenderlo, per avvalorarlo.
I. LA NATURA CHE SI NASCONDE
1. Filone e «la natura che ama nascondersi»: Dio, uomo e parola In almeno cinque trattati della sua opera vasta ed eterogenea, Filone di Alessandria ricorre al frammento 123 DK di Eraclito: φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ («la natura ama nascondersi»). Il detto eracliteo compare per la prima volta nella letteratura di lingua greca proprio con la testimonianza filoniana, anteriore a quelle dei filosofi neoplatonici Porfirio (ap. Macrobio e Proclo), Giuliano e Temistio che menzionano esplicitamente e citano letteralmente Eraclito. Filone, invece, si appropria dell’espressione eraclitea che utilizza nelle sue esegesi allegoriche, ma l’unico luogo in cui l’attribuisce a Eraclito è un passo delle Quaestiones (et Solutiones) in Genesim 4.1 il cui originale greco non è stato conservato. Questo testo, che è anche la testimonianza più complessa, sarà il punto di partenza della nostra indagine. 1.1. Dall’allegoresi alla visione Le Quaestiones (et Solutiones) in Genesim e in Exodum sono una sorta di paralegomena al grande “Commentario Allegorico” al Pentateuco di Mosé: non un’interpretazione preparatoria o preliminare (prolegomena) rispetto a questo, ma un componimento didascalico di diversa natura e finalità, e precisamente un commento di testi biblici tratti dai primi due libri del Pentateuco (Gen. 2:428:9 e Es. 12:2-28:34), citati in sequenza e spiegati versetto per versetto1. In 1 Sul rapporto tra le Quaestiones e il “Commentario Allegorico”, cf. A. Méasson et J. Cazeaux, From Grammar to Discourse: a Study of the Quaestiones in Genesim in Relation to the Treatises, in D.M. Hay (ed.), Both Literal and Allegorical: Studies in Philo of Alexandria’s Questions and Answers on Genesis and Exodus, BJS 232, Atlanta 1991, pp. 125-225; D.T. Runia, Secondary Texts in Philo’s Quaestiones, ibid., pp.
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PARTE PRIMA. LA NATURA
questo gruppo di scritti, Filone si interroga sul senso di parole o espressioni bibliche e fornisce principi e concetti utili a produrre risposte adeguate, sottoponendo i passi “in questione” a un’interpretazione dapprima letterale, poi allegorica2 . Il testo delle Quaestiones (et Solutiones) filoniane non è sopravvissuto all’Antichità né in lingua originale (greco) – eccetto frammenti –, né in redazione completa (6 libri), ma in una parziale traduzione in lingua armena (VI secolo), su cui si basa la versione latina di J.-B. Aucher del 18263. E se R. Marcus
47-79; G.E. Sterling, Philo’s Quaestiones: Prolegomena or Afterthought?, ibid., pp. 99-123; A. Terian, The Priority of the Quaestiones among Philo’s Exegetical Commentaries, ibid., pp. 29-46. Si vedano anche S.K. Wan, Philo’s Quaestiones et Solutiones in Genesim: a Synoptic Approach, in E.H. Lovering, jr. (ed.), Society of Biblical Literature 1993 Seminar Papers, SBLSPS, Atlanta 1993, pp. 22-53; A. Passoni Dell’Acqua, Upon Philo’s Biblical Text and the Septuagint, in F. Calabi (ed.), Italian Studies on Philo of Alexandria, BostonLeiden 2003, pp. 25-52, spec. pp. 30-32. 2 E sebbene il genere letterario di questioni e soluzioni (ζητήματα καὶ λύσεις) sia impiegato soprattutto nell’esegesi della poesia di Omero, Filone è il primo autore di opere zetematiche sul testo della Scrittura, vale a dire nella tradizione giudaica. Il metodo dialettico di domanda e risposta sarà in seguito utilizzato dal commentatore Eraclito (I-II sec.), da Plutarco (I-II sec.) e da Porfirio (III sec.) nelle loro rispettive Quaestiones Homericae. Come illustrano I. Ramelli e G. Lucchetta (Allegoria, vol. I. L’età classica, intr. e a cura di R. Radice, Milano 2004, p. 310), nelle Ὁμηρικὰ ζητήματα, e non solo, Porfirio si pone quesiti sul testo dei poemi omerici cui risponde allegoricamente, ispirandosi all’allegoresi stoica: crisippea e apollodorea. Probabilmente anche l’orazione nelle sinagoghe giudeo-ellenistiche si basava su domande e risposte, come del resto l’esegesi rabbinica, di cui si hanno testimonianze in ebraico e in aramaico nei seriori testi del Midrash. Sul versante filosofico, già il «tiaso» pitagorico, cui accenna Filone definendolo «santissimo» e attribuendogli «principi divini» (Prob. 2-3), si avvaleva di un simile metodo di ricerca e studio. Sembra infatti che i Pitagorici, di nuovo in auge all’epoca e nell’ambiente di Filone, iniziassero i novizi in due fasi, la prima delle quali comprendeva una serie di domande e risposte sulla natura delle cose. Cf. M. Petit (ed.), in R. Arnaldez, J. Pouilloux, C. Mondésert (edd.), Les Œuvres de Philon d’Alexandrie, traduites en français et publiées sous le patronage de l’Université de Lyon, Paris 1962-1992 (d’ora in avanti: PAPM), vol. 28 (1974), p. 61. 3 Cf. J.B. Aucher (ed.), Philonis Judaei Opera in Armenia Conservata, Venezia 1822; Philonis Judaei Paralipomena Armena. Libri videlicet quatuor in Genesin, Libri duo in Exodum, Sermo unus de Sampsone, Alter de Jona. Tertius de tribus angelis Abraamo apparentibus, Venezia 1826; [C.E. Richter (ed.)] Philonis Judaei Opera omnia. Textus editus ad fidem optimarum editionum, Leipzig 1828-1830, 1851-1853 (d’ora in avanti: Aucher). Solo due piccole sezioni dell’originale greco delle Quaestiones – in 6 libri, come testimonia il Codex Vindobonensis theologicus graecus 29 – sopravvivono come parte della tradizione manoscritta, assieme ai frammenti contenuti in Catenae e Florilegia (cf. F. Petit (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 33 (1978)). Una di queste, che corrisponde grossomodo a QG 2.1-7, si trova nel manoscritto Vatopedinus 659 e la sua edizione risale a più di venti anni fa (J. Paramelle (ed.), avec la collaboration de E. Lucchesi, Philon D’Alexandrie, Questions sur la Genèse II 1-7: Texte grec, version arménienne, parallèles latins, CO 3, Genève 1984); l’altra comprende QE 2.62-68 e si trova alla fine del Vaticanus graecus 379, edito per la prima volta nel 1831 da A. Mai, dopodiché almeno altre cinque volte (cf. F.H. Colson-G.H. Whitaker (edd.), Philo in Ten Volumes, (and Two Supplementary Volumes), with an English Translation by F.G. C. and G.H. W., with Greek text and R. Marcus’ English translation of the Armenian text of Quaestiones et Solutiones, 12
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(1953)4 traduce in inglese il testo delle Quaestiones dall’armeno, C. Mercier (1979-84)5 e A. Terian (1992)6 lo traducono in francese, correggendo la versione latina di Aucher grazie all’esame di nuovi manoscritti armeni e tenendo conto dei frammenti greci7. L’incipit del Libro IV delle Quaestiones (et Solutiones) in Genesim consiste in una questione-soluzione su Genesi 18:1-2: «E Dio gli [scil. ad Abramo] apparve presso la quercia di Mambre, mentre sedeva all’ingresso della sua tenda, a mezzogiorno; e levando lo sguardo vide con i suoi occhi, ed ecco: tre uomini si tenevano sopra di lui» (Ὤφθη δὲ αὐτῷ ὁ θεὸς πρὸς τῇ δρυὶ τῇ Μαμβρῇ καθημένου αὐτοῦ ἐπὶ τῆς θύρας τῆς σκηνῆς αὐτοῦ μεσημβρίας. ἀναβλέψας δὲ τοῖς ὀφθαλμοῖς αὐτοῦ εἶδεν, καὶ ἰδοὺ τρεῖς ἄνδρες εἱστήκεισαν ἐπάνω αὐτοῦ). Il sottotesto biblico del testo filoniano concerne dunque l’apparizione di Dio ad Abramo presso la quercia di Mambre sotto le sembianze di tre uomini, che per l’Alessandrino rappresentano lo stesso Dio accompagnato dalle sue due Potenze principali: la Potenza Creatrice (θεός) e quella Regale (κύριος)8. La domandarisposta formulata da Filone concerne il significato della quercia di Mambre presso cui avviene la teofania; e a questo proposito è evocato il detto di Eraclito (QG 4.1): [Perché (la Scrittura) dice «E il Signore Dio apparve ad Abramo alla quercia di Mambre, mentre sedeva nell’ora più calda del giorno all’ingresso della sua tenda; e levò i suoi occhi?» (Gen. 18:1-2)] Il senso letterale [dei versetti biblici citati] mi sembra abbastanza evidente, solo l’allegoria dell’albero, tuttavia, deve essere spiegata attraverso l’espressione caldaica [i.e. ebraica]. L’albero è, secondo Eraclito, “la nostra natura che ama velarsi e nascondersi”. Bisogna dunque sapere anzitutto che “Mambre” significa “[che viene] dalla vista” e in questo senso: come l’essere sapiente viene dalla sapienza e il comportarsi saggiamente, dalla saggezza, e ciascun modo di essere ha l’atto che proviene da esso, così anche per ciò che concerne i sensi: dal tatto viene il tocca-
voll., London-Cambridge (Mass.) 1929-1962 (d’ora in avanti: PLCL), Supplement II: Questions and Answers on Exodus (1953), pp. 253-256; A. Terian (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 34c (1992), pp. 283-286). 4 Cf. R. Marcus (ed.), in PLCL, op. cit., Supplement I-II (1953). 5 Cf. C. Mercier (ed.), in PAPM, op. cit, voll. 34a (1979) e 34b (1984). 6 Cf. A. Terian (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 34c (1992). 7 I ricercatori tedeschi dell’Institutum Judaicum Delitzschianum di Münster, beneficiando del supporto della Deutsche Forschungsgemeinschaft, sono attualmente impegnati nel progetto della prima traduzione tedesca delle Quaestiones direttamente dall’armeno, ma con riferimento agli idiomi greci rintracciabili nel testo. Non esiste ancora alcuna traduzione italiana delle Quaestiones. 8 Cf. QG 4.2; Abr. 121 s.; QE 2.62; Deo 4.
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re, dal gusto il gustare, dall’udito l’udire, e dalla vista viene necessariamente il vedere. È ciò che, venendo da una mente virtuosa, spirituale e veggente – che in caldeo [i.e. ebraico] si dice “Mambre” e in greco “dalla vista” –, arricchisce l’animo con la sua presenza che le permette di vedere meglio, di avere una vista più acuta e di vigilare senza dormire, affinché possa vedere non solo il mondo creato, la cui contemplazione spetta propriamente dalla filosofia, ma anche il Padre e Creatore, Dio increato9.
Filone fa riferimento al frammento 123 DK di Eraclito, che il traduttore latino – traducendo l’armeno che traduce il greco – rende con l’espressione: natura nostra, quae se obducere ac abscondere amat («la nostra natura che ama velarsi e nascondersi»), laddove il testo greco più prossimo all’originale eracliteo sarà dato dai posteriori filosofi neoplatonici: φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ («la natura ama nascondersi»). Il latino rivela che l’armeno presenta allotropi per tradurre una sola parola greca: il primo termine fornisce in generale il senso etimologico, l’altro o gli altri – che hanno la stessa radice, ma forma diversa – indicano solitamente il senso preciso che il termine acquisisce nel passaggio in questione10. E’ dunque verosimile che l’originale greco di Filone comportasse una formula simile, se non identica, a quella citata dai Neoplatonici11. L’Alessandrino ricorre al dictum eracliteo per introdurre e giustificare la propria interpretazione allegorica del testo sacro, e precisamente, della «quercia» (δρῦς) (Gen. 18:1) di Mambre, l’«albero» (δένδρον) (Gen. 18:4) presso il quale Abramo vede Dio12: Arbor est secundum Heraclitum natura nostra («l’albero è secondo Eraclito la nostra natura»). Per comprendere l’allegoria dell’al-
9 La versione armena dell’originale greco di Filone, QG 4.1 è stata tradotta in latino da Aucher (1826), op. cit., p. 237 , poi in inglese da R. Marcus (ed.), in PLCL, op. cit., Supplement I (1953), pp. 265-266, cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 8 (a1), p. 401 e Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 326, p. 237; quindi in francese da C. Mercier (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 34b (1984), pp. 145, 147, cf. Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 326, p. 237. 10 Ma vale anche il contrario: lo stesso termine armeno può talora tradurre diversi termini greci (quasi sinonimi), e l’originale greco presenta talvolta allotropi, come precisa C. Mercier (ed.), in PAPM, op. cit, vol. 34a (1979), Introduction, pp. 27-28. 11 Per uno studio globale del frammento eracliteo e delle sue molteplici interpretazioni nella storia del pensiero, cf. P. Hadot, Le voile d’Isis. Essai sur l’histoire de l’idée de Nature, Paris 2004. 12 Cf. Targum Neofiti su Gen. 13:18, che menziona già la quercia di Mambre e parla della «piana della visione»; Origene, Hom. Gen. IV 5: «albero della visione».
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bero della Genesi, secondo Filone, bisogna rifarsi al termine ebraico13, poiché l’etimologia dell’espressione nella lingua originaria permette di coglierne il significato più profondo14. Filone spiega allora che “Mambre” (min-mar’êh) significa in ebraico “[ciò che viene] dalla vista”, cioè l’atto della visione, e perciò, presso la quercia di Mambre, la mente di Abramo è resa capace di vedere più acutamente e profondamente, non solo il mondo creato, ma anche lo stesso Dio Creatore15. Secondo Filone, tra i due estremi rappresentati da Dio – Colui che appare – e l’uomo – colui cui Dio appare – la Scrittura pone simbolicamente la quercia che indica il fatto di vedere e dunque la visione. Come rivela il seguito del passo, l’albero presso cui Dio si manifesta ad Abramo rappresenta per Filone la natura umana essenzialmente duplice, originariamente cieca, vale a dire ottusa e limitata, ma potenzialmente dotata di vista. Per questo Filone afferma che l’albero è, per dirla con Eraclito, «la nostra natura che ama velarsi e nascondersi»; nelle altre versioni del frammento e negli altri frammenti conservati, tuttavia, Eraclito non paragona la natura umana a un albero. Il passo potrebbe dunque testimoniare la perdita di un frammento eracliteo, un fraintendimento del traduttore armeno, o più semplicemente
13 Sebbene lo status quaestionis sia ancora aperto, e alcuni eminenti studiosi, come H.A. Wolfson (Philo. Foundation of Religious Philosophy in Judaism, Christianity and Islam, Cambridge (Mass.) 1948, 19623, vol. I, p. 89) e J. Daniélou (Philon D’Alexandrie, Paris 1958, p. 45) abbiano in passato sostenuto che Filone conoscesse l’ebraico sulla base delle etimologie che propone nei suoi scritti, tanta parte della critica più recente, sulla scia di V. Nikiprowetzky (Le commentaire de L’Écriture chez Philon D’Alexandrie, Leiden 1977, p. 81), nega che Filone conoscesse la lingua dei suoi padri, o che la conoscesse bene. Le spiegazioni etimologiche dei nomi biblici fornite dall’Alessandrino, infatti, tutt’altro che rigorose, ma spesso incomplete e in qualche caso fantasiose, gli permettono di attribuire a ogni nome il significato voluto (cf. PR (2005), op. cit., pp. XX ss.). Sembra quindi verosimile che l’Alessandrino si sia servito di tavole di corrispondenza greco-ebraico e di manuali etimologici giudaici (cf. E. Schürer, The History of the Jewish People in the Age of Jesus Christ (175 b. C.-a. D. 135), Edimburgh 1987, p. 874), cioè che abbia utilizzato i cosiddetti onomastica, i quali contenevano lunghe liste di nomi ebraici e le rispettive etimologie greche (cf. D.T. Runia (1990), art. cit., p. 11). L’esegesi filoniana si basa prevalentemente sulla traduzione greco-alessandrina della Bibbia o versione dei Settanta, ma non è ancora chiaro secondo quale recensione (cf. A. Passoni Dell’Acqua, Upon Philo’s Biblical Text and the Septuagint, in F. Calabi (ed.) (2003), op. cit., pp. 45-52). 14 Dedicato a questo argomento è lo studio di L. Grabbe, Etymology in Early Jewish Interpretation, The Hebrew names in Philo, BJS 115, Atlanta 1988. 15 In Migr. 164-166, Filone racconta la marcia di Abramo verso la montagna su cui sacrificherà il figlio, allegoria dell’ascensione dell’anima nel suo itinerario spirituale. Eshkol rappresenta il buono per natura, dato che il suo nome significa etimologicamente “fuoco”, Aunan rappresenta colui che ama la contemplazione, poiché l’etimologia del suo nome rimanda a “occhi”, e Mambre rappresenta la “vita contemplativa” che i due compagni di Abramo riceveranno in sorte, in quanto rispettivamente “fuoco” che si eleva fino al cielo e “occhi dell’anima” che si apprestano alla visione di Dio.
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un’interpretazione di Filone, che in questo caso utilizza la parola di Eraclito per fare dell’albero biblico un simbolo filosofico. Nella Bibbia, oltre agli alberi della Vita e della Conoscenza del Bene e del Male che si trovano nel Paradiso dell’Eden (Gen. 2:9 e 3:3), e alla vigna di Noè (Gen. 9:20), l’albero appare spesso come simbolo di fecondità del popolo16. Ma è precisamente in Deuteronomio 20:19 che Filone trova la metafora dell’alberouomo. Se dalla Sacra Scrittura si passa poi alla letteratura greca, in Omero il santuario oracolare di Dodona è una «quercia» (δρῦς, φηγός) che comunica in voce articolata la volontà di Zeus17; per il presocratico Ferecide di Siro (VI sec. a. C.), il cui scritto si situa a mezza strada tra la mitologia degli antichi poeti e la filosofia dei primi naturalisti18, «la quercia alata» (ἡ ὑπόπτερος δρῦς) è l’«albero» (δένδρον) coperto dal «mantello» (πέπλος) (7 A 11 DK), vale a dire il mondo sotterraneo rivestito dalla crosta terrestre, dunque il simbolo del cosmo e una metafora della cosmogonia19. Per Platone (Tim. 90 a 6), infine, la «pianta celeste» (φυτὸν οὐράνιον) rappresenta proprio la natura dell’uomo, la cui testa è la radice che lo attacca al cielo: pur vivendo sulla terra, l’essere umano può infatti elevarsi intellettualmente fino a raggiungere le realtà celesti20. Filone ricorre all’immagine dell’albero in molti trattati21, applicandola tanto al macrocosmo universale quanto al microcosmo umano22 . In particolare, l’Alessandrino considera Abramo il seme23 da cui nascerà il «germoglio»
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Cf. Is. 11:1; 17:8; 60:21; Es. 15:17-18; Ez. 19:10-14, 34:29; Giob. 14:7-9; Os. 14:6-7; Salmi 91:12-13. Cf. Omero, Il. V 693; Od. XIV 327; Eschilo, Prom. 829-835; Sofocle, Trach. 170-173; Filostrato, Imag. II 33, 3. 18 Cf. 7 A 7 DK. 19 Come riferisce Aristotele (68 A 69 D), alcuni [scil. i Democritei] hanno sostenuto che la causa della genesi degli animali e delle piante non è la fortuna, bensì la natura o l’intelletto o qualcosa di simile: l’«olivo» (ἐλαία) si genera da un certo seme e l’«uomo» (ἄνθρωπος) da un altro tipo di seme. 20 Già il presocratico Democrito di Abdera (68 B 5 DK) sosteneva che φυτά τε καὶ δένδρα γέγονε πρὸς τῆι γῆι κάτω ἐρριζωμένην τὴν κεφαλὴν ἔχοντα («le piante e gli alberi sono stati generati nella terra, avendo la testa radicata in basso»). 21 Cf. Opif. 41; Sacr. 25; Ebr. 61; Post. 163-164; Deus 37; Migr. 125; Somn. 2.169-173; Sobr. 65. 22 Cf. Plant. 17; Her. 34; Det. 84-85. 23 La terminologia del seme e della semina è ricorrente nel Nuovo Testamento (Mt. 13:24, 27, 32, 37-38; 22:24-25; Mc. 4:31; 12:19-22; Lc. 1:55; 20:28; Gv. 7:42; 8:33, 37; At. 3:25; 7:5-6; 13:23; Rom. 1:3; 4:13, 16, 18; 9:7-8, 29; 11:1; 1Cor. 15:38; 2Cor. 9:9; 11:22; Gal. 3:16, 19, 29; 2Tim. 2:8; Ebr. 2:16; 11:11, 18; 1Gv. 3:9; Ap. 12:17) e la metafora della semenza è un tema portante dell’antropologia e della soteriologia gnostica alessandrina, soprattutto basilidiana e valentiniana. Cf. Clemente Alessandrino, Exc. ex Theod. 1, 3, 56 e passim, secondo cui i Valentiniani sono il seme eletto: l’uomo “pneumatico” o spirituale è infatti colui che vede Dio (o Israele), ed è salvato per natura (Strom. VI 13, 89, 2). 17
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(ἔρνος) Israele: il suo nome significa etimologicamente “colui che vede Dio”24, e nel nostro passaggio (QG 4.1) Filone spiega che Abramo vede Dio presso l’albero o la quercia di Mambre il cui significato è “dalla vista”. Quello della visione di Dio è uno dei temi principali della speculazione filoniana, elaborato a partire dall’espressione biblica «levando lo sguardo lo [scil. Dio] vide con i suoi occhi» (Gen. 18:1)25 attraverso varie suggestioni platoniche: la supremazia della vista e le sue finalità (Tim. 47 a-c), la metafora del volo della mente che si eleva dalla terra al cielo e attraversa l’intero universo (Theaet. 173 e), l’immagine dell’apertura dell’occhio dell’anima (Soph. 254 a)26, oltre al paradigma della visione di sé attraverso il riflesso della parte intellettiva e divina dell’anima nell’occhio dell’altro (Alc. I 132 ss.). Ma l’argomentazione filoniana riprende e rielabora anche e soprattutto l’analogia del sole, della luce e della vista, con cui Platone spiega la forma del Bene in Resp. VI 507 b ss. Nel frammento De Deo di un altro trattato perduto in greco e sopravvissuto nel corpus armeno degli scritti filoniani27, Filone propone un’interpretazione allegorica dello stesso passo biblico (Gen. 18:2) a proposito del quale cita Eraclito (QG 4.1). Il lungo frammento: «Sulla denominazione di Dio: fuoco che consuma per benevolenza, nella visione dei tre uomini apparsi ad Abramo nella pausa di mezzogiorno: Levati gli occhi, vide» (Gen. 18:2) comincia con l’affermazione: «Effettivamente, ciò che può essere paragonato alle concezioni di Dio si contempla con gli occhi più grandi dell’anima» (μείζοσι τοῖς τῆς ψυχῆς) (Deo 1). Anche in questo caso, la teofania di Mambre è collegata da Filone al tema platonico della visione con lo sguardo dell’anima, l’unico capace
24 Cf. Leg. 2.34; Her. 78; Post. 92; Plant. 59; Ebr. 82; Conf. 56, 72, 92; Mut. 81, 207; Migr. 38, 54, 113, 125; Congr. 51; Fug. 208; Somn. 1.62, 129; Abr. 57; Praem. 44; Legat. 4; QE 2, fr. 47. 25 Cf. anche il precedente ordine divino (Gen. 15:5): «Solleva gli occhi al cielo». 26 Sugli occhi o sullo sguardo dell’anima, si vedano anche Resp. VII 519 a, 533 d; Symp. 219 a; Theaet. 164 a. A questi vanno aggiunti il passaggio platonico del Timeo (40 c-d) sulla contemplazione, dalla terra, dei movimenti degli astri, e quello del Fedro (250 c) sulla contemplazione, dalla sommità della volta celeste, degli intelligibili al di là di essa. La tematica è dettagliatamente trattata da A. Méasson, Du char ailé de Zeus à l’Arche d’Alliance. Images et mythes platoniciens chez Philon d’Alexandrie, Paris 1986. 27 Oltre Aucher (1826), op. cit., pp. 613-619, cf. F. Siegert, Philon von Alexandrien, Über die Gottensbezeichnung «wohltätig verzehrendes Feuer» , Rückübersetzung aus dem Armenischen, deutsche Übersetzung und Kommentar, Tübingen 1988; aggiornamenti della retroversione greca e traduzione francese in F. Siegert, Le fragment philonien De Deo. Première traduction française avec commentaire et remarques sur le langage métaphorique de Philon, in C. Lévy (ed.), Philon D’Alexandrie et le langage de la philosophie, Paris 1998, pp. 183-228; traduzione inglese in F. Siegert, The Philonian fragment De Deo. First English Translation, «SPhA» 10 (1998), pp. 1-33.
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di vedere la luce pura e originaria, superiore e soprannaturale, poiché non è creata da Dio28, ma è Dio stesso. Secondo Filone29, infatti, solo l’uomo che chiude gli occhi sul mondo sensibile e rivolge quelli dell’anima a ciò che sta più in alto, levandosi verso l’intelligibile30, cioè trascendendo il cosmo e se stesso31, ottiene in dono la capacità di “vedere” Dio32 . Per Filone, «Dio è Luce» (Θεὸς φῶς ἐστιν) (Somn. 1.75), una luce considerata in opposizione al suo derivato sensibile, la luce naturale, perché nulla è simile a Dio, anche se l’uomo lo paragona allegoricamente ora all’anima, ora al sole, creature luminose e illuminanti33. D’altronde, il fatto che Dio appaia ad Abramo (QG 4.1) «nell’ora più calda del giorno», non è un caso, secondo Filone, perché il mezzogiorno è l’ora in cui vi è più luce, quando l’anima pura è illuminata dal sole intelligibile. Il tema platonico della visione caratterizza la filosofia post-aristotelica, come dimostra il De mundo dello pseudo-Aristotele (I sec. a. C.?), secondo cui le cose divine sono colte dal «divino occhio dell’anima» (θείῳ ψυχῆς ὄμματι) (391 a 15), sfocia nella mistica neoplatonica di Plotino (Enn. I 6 [1], 8, 25-27) e si ritrova nei commentari di Simplicio ad Aristotele (In Categ. 8, 5)34. Negli scritti di Filone, l’immagine dello sguardo dell’anima si incrocia con quella del volo dell’intelletto verso Dio e coincide con l’itinerario spirituale dei Patriarchi biblici35. Sic-
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Cf. Spec. 4.192; QG 2.51; Virt. 164; Her. 236. Cf. Deo 6; Spec. 2.30, 3.4-6; Somn. 1.164; Her. 257; QG 1.11. 30 Cf. Op. 31; Spec. 4.192, 231; QE 2.51; Her. 263; Somn. 1.77 ss.; Deo 1. 31 Secondo la tassonomia filoniana dei tre tipi di visione sulla base dell’oggetto percepito e dell’organo percipiente (Abr. 57-58): gli occhi del corpo vedono il mondo sensibile; l’intelletto vede l’intelligibile; gli occhi dell’anima vedono Dio. 32 Sul tema della visione, cf. QG 4.146 che commenta Gen. 27:1: Isacco diventava vecchio e i suoi occhi si erano indeboliti a tal punto che non vedeva più. Filone interpreta l’incipiente cecità del Patriarca come l’iniziativa volontaria di chiudere progressivamente gli occhi al mondo per aprire quelli dell’anima a Dio: il passaggio fisiologico dalla visione alla non visione corrisponderebbe al viaggio spirituale verso la vera visione divina. L’applicazione del tema della “migrazione” platonica al passo della Scrittura sulla cecità di Isacco costituisce per V. Nikiprowetzky (Études philoniennes, Paris 1996, p. 128) un esempio rappresentativo dell’attitudine filoniana per l’invenzione di temi esegetici. 33 Su questo argomento, cf. anche QG 4.1-9, Cher. 106, Sacr. 59 s. o Abr. 119 ss. 34 Cf. A.-J. Festugière, La révélation d’Hermès Trismégiste, vol. II. Le Dieu cosmique, Paris 1949, pp. 561-564; tome IV. Le Dieu inconnu et la Gnose, Paris 1954, pp. 88, 138, 243 ss. 35 In Opif. 69-71 l’intelletto esplora dapprima il cosmo fino all’etere più alto, dove si unisce al moto degli astri, per poi contemplare gli intelligibili e, raggiunta la sommità del cielo, è condotto dall’amore della sapienza ancora più in alto, finché è colpito e accecato dai raggi purissimi di una luce concentrata. Per diverse formulazioni della stessa allegoria o altre allegorie dell’ascensione dell’anima, cf. Plant. 21-22; Conf. 100; Mut. 179-180; Cont. 11-12; Migr. 148-175; Her. 68-76; Spec. 1.36-39, 198-211, 2.44-45, 3.185-191; Abr. 161-166; Virt. 12; Praem. 118-126, QG 2.34; QE 2.40, passi attentamente analizzati e commentati 29
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come, dunque, il tema di Gen. 18:1-2 è la teofania, e poiché il principio basilare dell’esegesi filoniana è che Mosé – cioè la Scrittura – non impiega nessuna parola o espressione in modo casuale36, la quercia di Mambre del passo biblico è considerata da Filone l’allegoria della visione di Dio. In QG 4.1, Filone ricorre dunque a una sentenza filosofica di antica e autorevole fonte, Eraclito, per costruire un ragionamento che mette in relazione Dio, Abramo e la quercia di Mambre sulla questione dell’invisibilità-visione di Dio. L’argomento è complesso, e la mancanza dell’originale greco rende ancora più difficile la comprensione del passaggio. Sulla base dei testi filoniani evocati e di quelli che saranno analizzati in seguito, l’Alessandrino potrebbe intendere il detto di Eraclito in almeno tre sensi: «la natura», cioè il vero significato della Sacra Scrittura, «ama nascondersi» nella lettera del testo, e solo l’interpretazione allegorica permette di comprenderlo; inoltre, «la natura» di Dio «ama nascondersi» dietro il cosmo, che è la natura creata, in quanto non si lascia cogliere se non dall’anima purificata che trascende il sensibile; infine, «la natura» dell’uomo «ama nascondersi» nell’oscurità di un intelletto cieco e incapace di vedere, che realizza se stesso e ottiene la visione solo in virtù dell’illuminazione divina. Tra l’uomo e Dio, per Filone, c’è la rivelazione del testo sacro, la cui comprensione è propriamente una “visione”: Dio illumina l’uomo, rendendolo in grado di illuminare le cose e le parole per scoprire, al di là di esse, la Verità divina, l’unica vera φύσις. Il detto eracliteo doveva avere in origine tutt’altro significato, ma il contesto dell’Alessandrino induce a domandarsi se esso abbia un senso preciso e puntuale o piuttosto un significato di vasta portata, ontologica e gnoseologica. In alcuni frammenti Eraclito allude alla natura visibile e invisibile delle cose, ora affermando che l’armonia invisibile – cioè il vincolo o la relazione che unisce le diverse realtà – è superiore a quella visibile: «congiunzione (harmoniê) invisibile più forte di quella invisibile» (ἁρμονίη ἀφανὴς φανερῆς κρείττων) (54 DK); ora privilegiando le realtà sensibili: «le cose di cui c’è visione, audizione e apprendimento, queste io onoro» (ὅσων ὄψις ἀκοὴ μάθησις, ταῦτα ἐγὼ προτιμέω) (55 DK) – che potrebbe anche essere tradotto in senso opposto «più
da A. Méasson (1986), op. cit., pp. 192 ss., in cui sono relazionati secondo lo schema del duplice volo: quello dell’intelletto che si eleva al cielo per prendere posto tra gli astri (esplorazione o purificazione, ascesa conoscitiva o morale); quello dell’anima che supera la volta celeste per giungere alla visione di Dio (rivelazione, contatto con il divino). 36 Cf. Fug. 54.
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che alle cose di cui c’è visione, audizione e apprendimento, io onoro queste». In un altro frammento, quindi, Eraclito esprime la fallacia dei sensi nel condurre alla scienza della natura: «nella conoscenza delle cose che appaiono chiaramente gli uomini sono tratti in inganno allo stesso modo di Omero, che fu il più sapiente di tutti gli Elleni. Dei bimbi che uccidevano pidocchi, infatti, lo ingannarono dicendogli: “Quello che vediamo e prendiamo, lo lasciamo; quello che non vediamo né prendiamo, lo portiamo via”» (ἐξηπάτηνται οἱ ἄνθρωποι πρὸς τὴν γνῶσιν τῶν φανερῶν παραπλησίως Ὁμήρῳ, ὃς ἐγένετο τῶν Ἑλλήνων σοφώτερος πάντων. ἐκεῖνόν τε γὰρ παῖδες φθεῖρας κατακτείνοντες ἐξηπάτησαν εἰπόντες· ὅσα εἴδομεν καὶ ἐλάβομεν, ταῦτα ἀπολείπομεν, ὅσα δὲ οὔτε εἴδομεν οὔτ᾽ ἐλάβομεν, ταῦτα φέρομεν) (56 DK). Lo stesso Filone37 evoca a più riprese il frammento eracliteo 101a DK che decreta la superiorità della vista sugli altri sensi, e soprattutto sul secondo per rango, l’udito: «gli occhi sono testimoni più sicuri degli orecchi» (ὀφθαλμοὶ τῶν ὤτων ἀκριβέστεροι μάρτυρες). La vista è quindi per Eraclito – prima che per Platone (Tim. 45 b) – il primo dei sensi, il più importante per esperire e capire la natura. Che il rapporto tra la natura delle cose e la loro percezione visiva sia una preoccupazione dei Presocratici ionici di V secolo a. C., lo dimostra il frammento di Anassagora: «i fenomeni sono la visione delle cose non visibili» (ὄψις ἀδήλων τὰ φαινόμενα) (59 B 21 DK) o la testimonianza aristotelica (68 B 112 DK) che attribuisce a Democrito il detto secondo cui, o non esiste niente di vero, o il vero sfugge alla nostra vista (ἄδηλον). Per concludere, Filone non intende spiegare il detto eracliteo «la natura ama nascondersi», ma lo utilizza nella sua esegesi biblica per fare della quercia di Mambre l’allegoria della visione divina e della vita contemplativa. Senza cercare di capire Eraclito, ma piegandolo alle proprie esigenze, Filone induce tuttavia a riflettere sulla natura eraclitea che si chiude e si schiude alla nostra vista, quindi alla nostra comprensione, che viene alla luce e ritorna nell’oscurità, così come si vela e si svela nel linguaggio che la comunica. 37 Cf. Conf. 57: ὄψει πρὸ ἀκοῆς σαφεστέρῳ χρησαμένοις μάρτυρι («grazie alla testimonianza della vista, che è più chiara dell’udito»), e 140: ὄψιν γὰρ ἀπλανῆ πρὸ ἀκοῆς ἀπατεῶνος ἄξιον μάρτυρα τίθεσθαι («la vista, infatti, che non si sbaglia mai, è ritenuta un testimone più degno dell’udito, che è soggetto ad errori»); Sacr. 34: ἡ ἐπίλαμψις ἀμάρτυρος πίστις ὀφθαλμοῖς ὤτων ἐναργεστέρῳ κριτηρίῳ βεβαιουμένη («la luminosità è una prova che non necessita testimonianze, garantita dagli occhi, che sono un criterio di giudizio più evidente di quello degli orecchi»); Abr. 150: βραδύτερα δέ πως καὶ θηλύτερα ὦτα ὀφθαλμῶν [...] προνομία δ᾽ ἔστω τις ἐξαίρετος ὁράσει («ma gli orecchi sono in qualche modo più lenti e femminili degli occhi [...] e che un privilegio speciale sia conferito alla vista»).
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1.2. Il cambiamento dei nomi In diversi luoghi del corpus philonicum, l’Alessandrino utilizza il detto eracliteo che corrisponde al frammento 123 DK, ma, diversamente da QG 4.1, senza nominare Eraclito. Il primo di questi passaggi appartiene a un trattato esegetico del grande “Commentario allegorico” al Pentateuco di Mosé – in realtà dedicato solo ai primi 17 capitoli della Genesi –, cioè al De mutatione nominum, un libero commento di Genesi 17:1 ss., che concerne i nomi biblici e i loro cambiamenti. Dopo aver ricordato che l’uomo vede Dio grazie all’«occhio dell’anima» (τῆς ψυχῆς … ὄμμα) (Mut. 3), Filone precisa che l’essenza divina rimane tuttavia inconoscibile e ineffabile (Mut. 7 ss.). A suo avviso, infatti, solo il saggio perfetto, l’uomo sapiente e virtuoso, può beneficiare dell’alleanza con Dio, l’Essere supremo, che «in verità, dunque, era l’unico a rimanere stabile, mentre tutto ciò che si ammette dopo di Lui subisce cambiamenti e trasformazioni di ogni genere» (πρὸς ἀλήθειαν ἑστὼς ἓν ἦν ἄρα, τῶν μετ᾽ αὐτὸ τροπὰς καὶ μεταβολὰς παντοίας ἐνδεχομένων) (Mut. 57), perché immerso nel flusso del divenire che caratterizza il mondo in cui viviamo. L’Alessandrino spiega che ci sono diversi tipi di patto, ma per gli uomini come Abramo, Dio stesso è il patto, cioè «il principio e la fonte di tutte le grazie» (ἡ πασῶν χαρίτων ἀρχή τε καὶ πηγὴ) (Mut. 58). Secondo Filone, questi uomini sono i pochi eletti con cui Dio stringe un’alleanza, concedendo loro il privilegio di un nuovo nome, ad indicare la loro rinascita a nuova vita. Ecco dunque Mut. 59-62 (III, p. 167 Wendland): A certi uomini, infatti, Dio è solito elargire i propri benefici attraverso la mediazione della terra, dell’acqua, dell’aria, del sole, della luna, del cielo e di altre potenze incorporee; ad altri, invece, da solo, dichiarandosi lui stesso la parte di coloro che Lo ricevono, che ritiene anche subito degni di un’altra denominazione. E’ detto, infatti, «non sarai più chiamato col nome di Abramo, ma il tuo nome sarà Abraamo» (Gen. 17:5). Certuni, dunque, che amano la polemica e vogliono sempre biasimare quel che non è da biasimare, riguardo agli oggetti corporei come alle realtà incorporee, e che combattono una guerra implacabile contro le cose sacre, accusano calunniosamente tutte le espressioni che sembrano non rispettare l’uso convenevole del linguaggio, e che sono in realtà simboli della “natura che sempre ama nascondersi”, denigrandole attraverso un’indagine cavillosa; ciò vale soprattutto per i cambiamenti dei nomi. Anche di recente ho sentito di un uomo ateo ed empio che osava dire con scherni e ingiurie: sono davvero doni grandiosi e straordinari quelli che, secondo quanto dice Mosé, il Sovrano dell’universo dispensa: aggiungendo una lettera, un solo alpha, e un’al-
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tra volta ancora, con l’aggiunta di un rho, sembra aver procurato un beneficio meraviglioso e di portata eccezionale. la moglie di Abramo, Sara, l’ha chiamata Sarra raddoppiando il rho (cf. Gen. 17:15). E collezionando tutti i casi simili, quell’uomo li passava in rassegna allo stesso tempo senza prendere fiato e coprendoli di sarcasmo. Non molto tempo dopo, dunque, scontò la giusta pena per la sua follia: per un motivo futile e fortuito, infatti, finì impiccato, perché un uomo abominevole e riluttante alla purificazione come lui non morisse di una morte pura38.
Senza alcuna menzione di Eraclito, Filone ricorre alla formula eraclitea φύσεως τῆς ἀεὶ κρύπτεσθαι φιλούσης («la natura che sempre ama nascondersi»), prossima alla citazione che sarà data dai filosofi neoplatonici (φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ). Il detto eracliteo è inserito nel commento di Gen. 17:5 sul cambiamento del nome di Abramo: Filone afferma la necessità di interpretare allegoricamente le espressioni bibliche che, intese letteralmente, sarebbero difficili da comprendere, e innesca la polemica, sempre latente, contro quanti accusano il testo sacro di essere insensato o indecoroso. Dal canto suo, Filone invita a non fermarsi al senso letterale della Scrittura, ma a trascenderlo per cogliere la Verità che è racchiusa nei nomi, nelle parole e nelle espressioni bibliche, cioè a riempire di contenuto filosofico una forma meramente comunicativa, a scoprire la φύσις che – per dirla con Eraclito – «ama nascondersi» nelle apparenze della lettera. Secondo l’Alessandrino, il cambiamento del nome di Abramo denota l’avvenuta alleanza con Dio, il patto più alto in virtù del quale l’uomo diventa un uomo divino. Come mostra il seguito dell’argomento, infatti, per Filone 38 τοῖς μὲν γὰρ δι᾽ ἑτέρων τὰς εὐεργεσίας εἴωθε προτείνειν ὁ θεός, γῆς, ὕδατος, ἀέρος, ἡλίου, σελήνης, οὐρανοῦ, δυνάμεων ἄλλων ἀσωμάτων, τοῖς δὲ δι᾽ ἑαυτοῦ μόνου, κλῆρον ἀποφήνας τῶν λαμβανόντων ἑαυτόν, οὓς εὐθέως καὶ προσρήσεως ἑτέρας ἠξίωσε. λέγεται γὰρ ὅτι "οὐ κληθήσεται τὸ ὄνομά σου Ἀβράμ, ἀλλ᾽ ἔσται τὸ ὄνομά σου Ἀβραάμ" (Gen. 17:5). ἔνιοι μὲν οὖν τῶν φιλαπεχθημόνων καὶ μώμους ἀεὶ τοῖς ἀμώμοις προσάπτειν ἐθελόντων οὐ σώμασι μᾶλλον ἢ πράγμασι καὶ πόλεμον ἀκήρυκτον πολεμούντων τοῖς ἱεροῖς πάνθ᾽ ὅσα μὴ τὸ εὐπρεπὲς ἐν λόγῳ διασῴζειν δοκεῖ σύμβολα φύσεως τῆς ἀεὶ κρύπτεσθαι φιλούσης ὑπάρχοντα μετὰ ἀκριβοῦς ἐρεύνης φαυλίσαντες ἐπὶ διαβολῇ προφέρουσι, διαφερόντως δὲ τὰς τῶν ὀνομάτων μεταθέσεις. καὶ πρῴην ἤκουσα χλευάζοντος καὶ κατακερτομοῦντος ἀνδρὸς ἀθέου καὶ ἀσεβοῦς, ὃς ἐτόλμα λέγειν· μεγάλαι δὴ καὶ ὑπερβάλλουσαι δωρεαί, ἅς φησι Μωυσῆς τὸν ἡγεμόνα τῶν ὅλων ὀρέγειν· στοιχείου προσθήκῃ, τοῦ ἑνὸς ἄλφα, [στοιχείῳ περιττεύει] καὶ πάλιν ἑτέρᾳ προσθέσει τοῦ ῥῶ θαυμαστὴν ἡλίκην ἔδοξεν εὐεργεσίαν παρεσχῆσθαι ***τὴν Ἀβρὰμ γυναῖκα Σάραν Σάρραν ὠνόμασε δὶς τὸ ῥῶ παραλαβών· καὶ ὅσα ὁμοιότροπα συνείρων ἀπνευστὶ καὶ ἐπισαρκάζων ἅμα διεξῄει. τῆς μὲν οὖν φρενοβλαβείας οὐκ εἰς μακρὰν ἔδωκε τὴν ἁρμόζουσαν δίκην· ἀπὸ γὰρ μικρᾶς καὶ τῆς τυχούσης προφάσεως ἐπ᾽ ἀγχόνην ᾖξεν, ἵν᾽ ὁ μιαρὸς καὶ δυσκάθαρτος μηδὲ καθαρῷ θανάτῳ τελευτήσῃ. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 8 (a5), pp. 402; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 329, pp. 238-239.
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(Mut. 63 ss.) i minuscoli cambiamenti che modificano i nomi, come l’aggiunta di una vocale o di una consonante, indicano le enormi trasformazioni di coloro che li portano. Nella fattispecie, il cambiamento del nome di Abramo in Abraamo rivela l’intervento imperscrutabile di Dio che trasforma la sua vita: se il patriarca rimane lo stesso per continuità spazio-temporale, egli cambia radicalmente nella “migrazione” spirituale dall’astronomia caldaica alla religione giudaica39. Filone (Mut. 66) spiegherà, infatti, che quest’essenziale mutazione è simboleggiata dall’impercettibile variazione che subisce il suo nome: da Abramo, che significa “padre che si eleva”, in riferimento alla pratica dell’astrologia, ad Abraamo, che significa “padre eletto del suono”, simbolo dell’intelletto purificato e perfetto40. Lo stesso principio è ribadito da Filone in altri trattati41: la mutazione del nome corrisponde alla trasformazione della realtà, sulla base dell’intimo rapporto tra la cosa (soggetto o oggetto) e il nome che le è attribuito. Secondo Filone, infatti, Dio è l’autentico ποιητής, poeta e creatore ad un tempo – secondo l’ambivalenza del termine greco –, che scrive la verità incidendola nella natura, cioè creando il mondo, e la Scrittura è il poema filosofico che precede e supera tutte le finzioni mitopoietiche e tutte le produzioni filosofiche del passato42 . Per questo motivo, d’altronde, l’Alessandrino ricorre alle etimologie dei nomi propri a partire dall’ebraico, ritenendo che il significato autentico di un nome è quello evocato dalla lingua originaria, la sola che può condurre alla vera “natura” della realtà. Secondo Filone, la Bibbia dei Settanta, traducendo la Torah ebraica in greco, dimostra che i nomi devono essere tradotti resi letteralmente «nella nostra lingua»43 rispettando le radici dell’ebraico, e il loro significato va spiegato dall’esegeta che fa conoscere la verità rivelata da essi44. Il 39
Cf. PR (2005), op. cit., p. 1623, nn. 36-37. Cf. Leg. 3.83; Gig. 62 ss.; Abr. 82 ss.; Cher. 4 e 7. 41 Si vedano, ad esempio, Cher. 56, Congr. 44 o QG. 4.194. 42 Cf. D. Dawson, Allegorical Readers and Cultural Revision in Ancient Alexandria, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1992, p. 107. Per Filone, l’azione per eccellenza è propriamente una creazione, anzi è la creazione, come già per il filosofo giudeo-alessandrino Aristobulo (II sec. a. C.), secondo cui la voce di Dio non è un discorso parlato, ma una realizzazione di opere, e l’intera creazione del mondo sono le sue parole, come indica Mosé nella Genesi biblica, ripetendo ogni volta: “E Dio disse e così fu” (ap. Eusebio di Cesarea, Praep. Ev., XIII, 12, 3-8). 43 Congr. 44. 44 L’importanza di invocare gli dei con il nome giusto, cioè appropriato ed efficace, appare già in epoca presocratica col tragico Sofocle (Ag. 160 ss.) e caratterizza la filosofia e la religione greca (cf. Platone, Crat. 400 c). La specificità intraducibile dei nomi propri e il magico potere attribuito al nominare individui 40
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principio dell’onomastica di Filone, vale a dire la corrispondenza tra nome e persona o luogo designati da esso, istituita dalla Bibbia45 e valorizzata dalla posteriore esegesi midrashica46, può essere paragonato, in ambito greco, a quello della teoria del nome «per natura» (φύσει) – o nominalismo “forte”47 – abbozzata da Eraclito e sviluppata dalle ricerche etimologico-filosofiche degli Eraclitei48: la natura di una cosa viene letta nel suo nome. E’ evidente che la prospettiva eraclitea è anteriore ed estranea alla fede di Filone nell’intervento di Dio che modifica i nomi. La spiegazione filoniana dei nomi biblici, tuttavia, ricorda il metodo esegetico praticato dai grammatici e dai retori greci49, il cui principio risale in ultima istanza alla teoria “naturalisti-
o divinità nella loro lingua originale sono poi documentati da vari scritti di epoca tardo-antica. In un frammento degli Oracoli caldaici (fr. 150 des Places), attribuiti a Giuliano il Teurgo (II sec. d. C.), si avverte di non cambiare i nomi segreti degli dei, rivelati agli iniziati come serie di lettere prive di senso nella lingua greca: ὀνόματα βάρβαρα μήποτ᾽ ἀλλάξῃς («i nomi barbari, non cambiarli mai»). La credenza nell’efficacia magica dei nomi diffusasi nell’Alessandria ellenistica con il culto egiziano di Sarapide è testimoniata anche e soprattutto dalle Papyri magicae (III 145 ss. e passim), dai trattati gnostici della Biblioteca copta di Nag Hammadi (VIII 1, 6 e passim), dal Corpus Hermeticum (XVI 2 e passim), da Origene (Contr. Cels. I 6 e passim) e da Giamblico (De myst. VII 4-5). 45 Nell’antica Israele, il nome di un individuo lo caratterizzava e lo distingueva da tutti gli altri, ed era pertanto considerato parte integrante della persona (1Sam. 25:25) o la persona stessa (Num. 1:2), come avviene nel caso di “Signore” (Es. 3:15; Ger. 14:9; Salmi 20:2, 8), in cui il nome indica ed evoca la presenza del Signore. Per estensione, lo stesso vale per i nomi propri di luogo come “Israele” (Deut. 28:10; Es. 63:19) o “Gerusalemme” (Ger. 25:29). 46 E’ noto che a partire dal II secolo a. C. era attiva a Gerusalemme una scuola farisea di esegesi biblica, in cui si praticava già quel commento della Legge che sarebbe confluito, due secoli dopo la distruzione del Tempio, nel Talmud e nel Midrash, la cosiddetta “Legge orale” giudaica che permette di applicare in pratica i precetti della Legge scritta o Pentateuco. Non solo il principale maestro della scuola di Gerusalemme, Hillel (80 a. C.-10 d. C.), era ancora in vita durante la gioventù di Filone – così come il suo rivale Shammai –, ma sembra anche che intraprendesse relazioni con Alessandria (cf. M. Hadas-Lebel, Philon D’Alexandrie. Un penseur en diaspora, Paris 2003, pp. 249-254). La somiglianza della spiegazione etimologica filoniana dei nomi biblici con le relative etimologie dell’esegesi farisaica è innegabile, ma l’interpretazione della Scrittura ebraica attraverso la filosofia greca è peculiarità di Filone e termine di distinzione dei due tipi di commentario biblico. Cf. P. Borgen, Philo of Alexandria: Reviewing and Rewriting Biblical Material, «SphA» 9 (1997), pp. 37-53. 47 Per nominalismo “debole” si intende, invece, quello platonico, secondo cui il nome imita la cosa. Sul tema del linguaggio divino, biblico e umano in Filone, cf. F. Calabi, Lingua di Dio, lingua degli uomini. Filone Alessandrino e la traduzione della Bibbia, «Castelli di Yale» 2 (1997), pp. 95-113 e R. Radice, The “Nameless Principle” from Philo to Plotinus. An Outline of Research, in F. Calabi (ed.) (2003), op. cit., pp. 167-182, spec. pp. 173-174. 48 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., p. 91. 49 Cf. P. Hadot, Théologie, exégèse, révélation, écriture, dans la philosophie grecque, dans M. Tardieu (ed.), Les règles de l’interprétation, Paris 1987, pp. 13-34.
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ca” di Eraclito50. L’esegesi data da Filone è “etimologica” non in senso propriamente linguistico e scientifico, ma nel senso del termine greco “etimologia” – la scienza che studia il «vero» (ἔτυμον), cioè il significato originario delle parole secondo la loro natura51 –, ed è parte integrante della tecnica filoniana di interpretazione allegorica della Scrittura52 . La ricerca dell’“esattezza naturale” del linguaggio, infatti, è la forma primitiva dell’etimologizzare. L’affermazione della corrispondenza tra nome designante e cosa designata risale alla concezione “naturalistica” del linguaggio che concerne non solo la logica, ma rinvia necessariamente all’ontologia e alla gnoseologia: spiegare l’etimologia di una parola significa comprendere e conoscere l’essenza della cosa. È quanto sembra esprimere Eraclito nei frammenti 32 DK: «uno, ciò che solo è sapiente, non vuole e vuole essere chiamato col nome di Zeus» (ἓν τὸ σοφὸν μοῦνον λέγεσθαι οὐκ ἐθέλει καὶ ἐθέλει Ζηνὸς ὄνομα)53; 48 DK: «il nome dell’arco è “vita”, mentre la sua opera è morte» (βίος: τῶι οὖν τόξωι ὄνομα βίος, ἔργον δὲ θάνατος); e 67 DK: «il dio [...] muta come 54, che quando unito agli aromi [dell’incenso] è chiamato secondo il piacere [i.e. il profumo] di ciascuno» (ὁ θεὸς [...] ἀλλοιοῦται δὲ ὅκωσπερ , ὁπόταν συμμιγῆι θυώμασιν, ὀνομάζεται καθ´ ἡδονὴν ἑκάστου)55. Questi frammenti testimoniano la dottrina eraclitea del nome “per natura”, enunciata successivamente dall’eracliteo Cratilo, personaggio eponimo del
50 Secondo Democrito (68 B 26 DK), invece, il cambiamento dei nomi, come quello di Aristocle in Platone, è uno degli argomenti che provano l’esistenza dei nomi θέσει («per convenzione»), e non per natura. 51 Cf. Esiodo, Theog. 26: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ᾽ εὖτ᾽ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι («sappiamo dire molte menzogne che somigliano al vero, ma sappiamo, quando vogliamo, proferire verità»). 52 Cf. D.T. Runia, Etymology as an Exegetical Technique in Philo of Alexandria, in «SPhA» 16 (2004), pp. 101-121. 53 L’etimologia di Zeus (Ζεύς/Διός), Padre degli dei e degli uomini, come il dio del «vivere» (ζῆν) o colui «grazie al quale» (διά) tutto riceve la vita e viene all’esistenza, risale al VI-V secolo a. C. e si ritrova nei tragici Eschilo (Suppl. 584 s.) ed Euripide (Orest. 1635), in Platone (Crat. 396 a-b) e nell’orfico Papiro di Derveni (col. XVII), nello stoico Crisippo (SVF II 1021, 1062; cf. Diogene Laerzio VII 147), nell’autore giudeo-alessandrino della Lettera di Aristea a Filocrate (15-16), nel trattato pseudo-aristotelico De mundo (401 a 13-15), nel commentatore omerico Eraclito (Quaest. Hom. 23, 6), nell’oracolo pseudo-sibillino 38 (Buresch, p. 106, r. 15 ss.), negli Inni orfici (15, 3 e 73, 3), etc. 54 La congettura di H. Fränkel ἔλαιον («olio») è accettata e commentata da R. Dilcher, Studies in Heraclitus, Hildesheim-Zürich-New York 1995, p. 124. 55 Cf. anche i frammenti 22 B 23, 59, 60, 88, 103 DK.
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dialogo di Platone sull’origine del linguaggio (390 e)56, e confluita nell’interpretazione dell’antica mitologia greca elaborata dai Cinici socratici in epoca classica57, poi dagli Stoici in epoca ellenistica58, quindi dai grammatici alessandrini59. Secondo tale teoria fisiologica, la genesi del nome avviene in base alle caratteristiche naturali della realtà che esso denomina: ecco la relazione biunivoca tra significante e significato, e la mutazione del nome in virtù del cambiamento della cosa corrispondente; la giustezza dei nomi non è dunque la loro immutabile esattezza, bensì la loro adeguazione alla realtà che è caratterizzata proprio dalla mutevolezza. Per Eraclito, se la natura si trasforma da un contrario all’altro, il nome deve rifletterne l’essenza con l’intrinseca ambiguità del suo senso: di qui la polifonia e la polisemia delle sue parole e del suo discorso60.
56 Un commentario sistematico e recente del dialogo è quello di M.L. Gatti, Etimologia e filosofia. Strategie comunicative del filosofo nel “Cratilo” di Platone, Vita e Pensiero, Milano 2006. 57 Cf. ad es. le testimonianze di Aristotele (Met. 1024 b 26) e Alessandro di Afrodisia (In Topic. 101 b 39) sul socratico-cinico di V-IV secolo a. C. Antistene – che affermava l’unica enunciazione propria di ogni cosa –, contenute nella raccolta Antisthenis fragmenta, F. Decleva Caizzi (ed.), Milano 1966, riprese in Les cyniques grecs. Fragments et témoignages, L. Paquet (ed.), nouvelle édition revue, corrigée et augmentée, Philosophica 35, Ottawa 1988, chap. 1. Antisthène, test. 16, 18 e 19, pp. 21-22. Sull’interpretazione antistenica di Omero, cf. Socratis et Socraticorum Reliquiae, G. Giannantoni (ed.), Napoli 1990, vol. II, testi V A 185-197 (“Homerica”), pp. 209-217, commentati nel vol. IV, pp. 338-346, che affronta sia la controversa questione dell’interpretazione (allegorica?) antistenica di Omero, sia il problema della relazione (di continuità?) tra tradizione socratico-cinica e allegorismo stoico nella lettura dei poemi omerici. Sul significato corrispondente a ogni nome, e in generale sull’indagine linguistico-semantica condotta da Antistene intorno ai nomi e al loro uso, cf. anche A. Brancacci, Oikeios logos. La filosofia del linguaggio di Antistene, Napoli 1990, spec. pp. 55-75. 58 Cf. SVF II 146, ma anche Cicerone, De nat. deor. III 24, 63 (SVF II 1069) e Diogene Laerzio, VII 147-148 (SVF II 1021). L’esegesi allegorica del mito teologico si avvale dello strumento del metodo etimologico a partire da Zenone, il primo caposcuola della Stoà, e si ritrova in Cleante, Crisippo, Antipatro di Tarso, Diogene di Babilonia e discepoli (Apollodoro di Atene e forse Cratete di Mallo), nel trattato allegorico usato da Cicerone (De nat. deor. II 1), in Anneo Cornuto (nonché in autori a lui variamente legati, come il satirico Persio o l’epico Silio Italico), nello stoico egiziano Cheremone, nel grammatico Eraclito e nell’autore (pseudo-Plutarco) del De vita et poesi Homeri. Cf. I. Ramelli, G. Lucchetta (2004), op. cit., pp. 85 e passim. Sull’interpretazione allegorica dei poemi omerici data dalla Stoà e del suo rapporto con Eraclito, cf. A.A. Long, Stoic Studies, Cambridge 1996, pp. 58 ss. (Stoic Readings of Homer) e pp. 35 ss. (Heraclitus and Stoicism). 59 Se Platone e gli Stoici sostenevano la naturalità del linguaggio, quindi l’“anomalia”, Aristotele e gli Alessandrini propendevano per la convenzionalità, quindi per l’“analogia”. Sull’argomento, si consulti la raccolta di studi a cura di D. Frede and B. Inwood (edd.), Language and Learning. Philosophy of Language in the Hellenistic Age, Cambridge 2005. 60 Cf. G. Martano, Cratilo: una crisi dell’Eraclitismo, in Atti del Symposium Heracliteum (1983), op. cit., vol. I, pp. 399-408, p. 406.
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Eraclito non distingue nomi comuni e nomi propri, nomi di uomini e nomi di dei, conformemente alla concezione greca arcaica del nome come aspetto, idea o forma che si identifica con la cosa cui si riferisce61. Lo dimostrano i frammenti eraclitei sopraccitati, secondo cui un nome giusto (come βίος) significa insieme cose diverse, e un nome univoco è adatto e inadatto alla realtà che è sempre duplice. Secondo Eraclito, nessuna cosa è in se stessa e per se stessa una sola, ma è anche l’opposto in cui si tramuta, e dio è la sostanza e il principio in trasformazione perenne costituito di tutti i contrari che esistono nella realtà. Per questo, la divinità cosmica vuole e non vuole esser chiamata con un certo nome, il quale designa solo un aspetto particolare della sua natura. Il nome Zeus (Ζεύς/Διός), ad esempio, che indica il dio del «vivere» (ζῆν), secondo Eraclito è inadeguato perché non comunica la complessa e completa natura di vita-morte del divino universale. La tematica del divenire perpetuo di ogni cosa, ripresa da Platone (Theaet. 152 d; Crat. 402 a), condurrà alla teoria dell’instabilità dei nomi (Epist. 343 a)62 e dell’innominabilità del Primo principio – che trascende l’essere, e solo gli esseri hanno nome (Resp. 476 e ss.) – da cui dipende la cosiddetta “teologia negativa”63 dei filosofi medioplatonici, degli autori cristiani e dei dottori gnostici64. Secondo la via negationis di Filone65, l’innominabilità di Dio si basa sul testo biblico (Num. 23:19; Es. 3:14) e sottintende la differenza tra essenza ed esistenza divina: “Israele” è “colui che vede Dio”, ma non che cos’è Dio, bensì che Dio è66, poiché solo Dio può conoscere la sua Natura, e quindi nominarla67. Diversamente da Eraclito, dunque, Filone ritiene che il cambiamento dei nomi biblici ha un significato profondo. Per l’Alessandrino, la verità è celata
61 Cf. M. Kraus, Name und Sache, Amsterdam 1987, pp. 44 ss. Sul tema, si veda anche D. Gambarara, Alle fonti della filosofia del linguaggio. “Lingua” e “nomi” nella cultura greca arcaica, Roma 1984. 62 Platone concluderà che il nome, imitando l’idea della cosa o dell’azione che indica, non ha niente d’immobile (Epist. 343 a): ὄνομά τε αὐτῶν φαμεν οὐδὲν οὐδενὶ βέβαιον εἶναι («il loro nome, diciamo, non ha in alcun modo alcuna fissità»). 63 Come rileva J. Dillon, The Middle Platonists, 80 B. C. to A. D. 220, New York 19962 , p. 155, Filone (Somn. 1.67) è il primo a definire Dio ἀκατονομάστος (“innominabile”), ἄρρητος (“ineffabile”), κατὰ πάσας ἰδέας ἀκατάληπτος (“incomprensibile sotto ogni forma”). 64 Cf. R. Radice (2003), art. cit., p. 176. 65 Sull’argomento, cf. F. Calabi, Conoscibilità e inconoscibilità di Dio in Filone di Alessandria, in Ead. (ed.), Arrhetos Theos. L’ineffabilità del primo principio nel medioplatonismo, Pisa 2002, pp. 53-54. 66 Cf. Praem. 44. L’idea che Dio esista, ma sia innominabile (Mos. 1.75; Somn. 1.230; Mut. 11), implica per Filone l’inconoscibilità dell’essenza di Dio (Conf. 137 ss.; Spec. 1.32). 67 Cf. Leg. 3.206.
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nella parola divina e solo l’interpretazione “naturalistica” dei termini e delle espressioni mosaiche può svelarla68. In questo caso – ancor più che nel precedente –, Filone non cerca di capire Eraclito, ma si appropria del detto eracliteo per spiegare che «la natura», cioè l’essenza di ogni persona o cosa, di Dio e del mondo69, «ama nascondersi», cioè tende a cambiare, come indica la parola che parla di essa: la sacra Scrittura. 1.3. Il significato naturale Il frammento 123 DK di Eraclito ricorre anche in un altro trattato del grande “Commentario allegorico” di Filone, intitolato De fuga et inventione e dedicato a Gen. 16:6 ss., che narra la fuga della serva egiziana Agar dalla padrona Sara. Filone interpreta allegoricamente le due figure femminili: Sara rappresenta a suo avviso la saggezza, laddove Agar, l’anima imperfetta e la cultura media. La prima parte del trattato filoniano è dedicata alla fuga di Agar, mentre la seconda, al suo ritrovamento, sulla base di Gen. 16:7: «[La Scrittura] dice dunque “un angelo del Signore la trovò presso la fonte d’acqua”» (εὗρεν" οὖν φησιν "αὐτὴν ἄγγελος κυρίου ἐπὶ τῆς πηγῆς τοῦ ὕδατος). Dopo aver analizzato tutti i casi possibili del cercare e del trovare, l’Alessandrino (Fug. 177 ss.) inserisce una digressione sul luogo del ritrovamento: la «fonte» (πηγή), termine che secondo lui ha almeno cinque significati differenti. Lo sviluppo sulla fonte e sulle fonti costituisce la terza parte del trattato, che comincia così (Fug. 177-179, III, p. 149 Wendland): Il termine “fonte” è impiegato in molti sensi: in primo luogo, designa il nostro intelletto; in secondo luogo, la condizione razionale e l’educazione; in terzo luogo, la cattiva disposizione; in quarto luogo, la buona disposizione, contraria alla precedente; in quinto luogo, infine, lo stesso Creatore e Padre dell’universo. Lo mostrano gli oracoli della Scrittura, che registrano testimonianze di queste
68 Così il grammatico Eraclito (I-II sec.) interpreterà celebri passaggi omerici, come la rivolta degli dei contro Zeus di Iliade XXI, con la stessa terminologia della tradizione esegetica stoica precedente, e cioè quella “naturalistica” che associa alle divinità, e alle loro azioni, elementi e processi di dottrine fisiche (Quaest. Hom. 25, 1; 26, 13; 36, 1). Secondo la prospettiva del commentatore omerico, infatti, il naturalismo presocratico non va scisso dal pensiero poetico, né la cosmologia dalla cosmogonia, in virtù del comune sostrato teologico da recuperare per via allegorica; per questo, Omero va inteso φυσικῶς (Quaest. Hom. 46, 1). Cf. I. Ramelli, G. Lucchetta (2004), op. cit., p. 416. 69 Sulla physiologia come interpretazione della Scrittura che permette di scoprire in essa un insegnamento su Dio, oltre che sul mondo, cf. M. Harl (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 15 (1966), pp. 13-14, n. 1.
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diverse accezioni: bisogna dunque esaminare quali sono. Uno degli oracoli suona all’inizio del codice della Legge, subito dopo la creazione del mondo, ed è questo: «Una fonte saliva dalla terra e irrigava tutta la superficie della terra» (Gen. 2:6). Coloro dunque che non sono iniziati all’allegoria, cioè alla “natura che ama nascondersi”, si rappresentano la suddetta fonte con il fiume d’Egitto [i.e. il Nilo], che ogni anno straripando inonda la pianura, e che sembra ostentare una potenza quasi equiparabile a quella del cielo70.
Senza menzione di Eraclito, Filone utilizza ancora l’espressione φύσεως τῆς κρύπτεσθαι φιλούσης («la natura che ama nascondersi»). Quest’altra occorrenza del detto eracliteo è inserita in uno sviluppo sui vari significati attribuiti al termine biblico πηγή («fonte»): dall’intelletto umano, che è “fonte” di ogni pensiero o azione dell’uomo, a Dio stesso, Padre e Creatore di tutto. Filone polemizza contro gli esegeti che non comprendono il significato allegorico della «fonte», bensì solo quello di “sorgente d’acqua”; secondo l’Alessandrino, la fonte di Gen. 2:6 non può essere il Nilo, come sostengono i letteralisti. Nel seguito del passo, infatti, Filone dirà che la nostra parte egemonica, l’«intelletto» (nous) è collocata nella testa – la parte direttrice del corpo –, ma come una fonte d’acqua viva irrora tutte le parti dell’organismo e attiva gli organi di senso con le sue facoltà (Fug. 182). Il passo comporta quindi un argomento filoniano contro quanti non sanno interpretare gli «oracoli» (χρησμοί)71 della Scrittura: «coloro dunque che non sono iniziati all’allegoria» (οἱ μὲν οὖν ἀλληγορίας … ἀμύητοι). «La natura» che «ama nascondersi» di Eraclito è qui intesa da Filone come il significato “naturale” dei termini biblici che non è compreso da quanti li intendono superficialmente. Nella fattispecie, il Nilo, cui pensano i non-allegoristi quando la Scrittura menziona la «fonte», è il grande fiume divinizzato dal popolo egizia-
70 λέγεται δὲ πολλαχῶς πηγή, ἕνα μὲν τρόπον ὁ ἡμέτερος νοῦς, ἕτερον δὲ ἡ λογικὴ ἕξις καὶ παιδεία, τρίτον δ᾽ ἡ φαύλη διάθεσις, τέταρτον ἡ σπουδαία καὶ ἐναντία ταύτης, πέμπτον αὐτὸς ὁ τῶν ὅλων ποιητὴς καὶ πατήρ. τὰς δὲ τούτων πίστεις οἱ ἀναγραφέντες δηλοῦσι χρησμοί· τίνες οὖν εἰσιν, ἐπισκεπτέον. ᾄδεταί τις ἐν ἀρχῇ τῆς νομοθεσίας μετὰ τὴν κοσμοποιίαν εὐθὺς τοιόσδε· "πηγὴ δὲ ἀνέβαινεν ἐκ τῆς γῆς καὶ ἐπότιζε πᾶν τὸ πρόσωπον τῆς γῆς" (Gen. 2:6). οἱ μὲν οὖν ἀλληγορίας καὶ φύσεως τῆς κρύπτεσθαι φιλούσης ἀμύητοι τὴν εἰρημένην εἰκάζουσι πηγὴν τῷ Αἰγυπτίῳ ποταμῷ, ὃς κατὰ πᾶν ἔτος ἀναχεόμενος λιμνάζει τὴν πεδιάδα, μονονοὺκ ἀντίμιμον οὐρανοῦ δύναμιν ἐπιδείκνυσθαι δοκῶν. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 8 (a4), p. 402; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 330, p. 239. 71 Come rileva A. Passoni Dall’Acqua (2003), art. cit., p. 34, l’Alessandrino usa i termini χρησμός (“risposta oracolare”), λόγιον (“oracolo”), θεοπρόπιον (“divino insegnamento”) come sinonimi: il linguaggio profetico, come quello della Sibilla, è per Filone un oracolo da interpretare allegoricamente. Cf. Mos. 1.57 o Spec. 1.315.
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no, che Filone considera idolatra e quindi ateo, perché preferisce la terra al cielo, il corpo all’anima (Fug. 180)72 . Impiegando in senso metaforico il vocabolario religioso greco, l’Alessandrino sostiene che solo l’“iniziazione” all’allegoria permette all’uomo di penetrare i “misteri” della Scrittura73. Secondo Filone, infatti, coloro che giungono a conoscere le verità profonde e a sollevare il velo della «natura che ama nascondersi» sono i veri iniziati74: gli uomini spirituali, intellettualmente e moralmente perfetti75. Per Filone, la φύσις non si lascia cogliere dalla moltitudine, né dalla sola spiegazione letterale dei testi, ma dai pochi interpreti allegoristi che prepongono l’intelligibile al sensibile e sono capaci di “vedere” al di là della lettera76. Solo coloro che passano all’interpretazione “naturalistica” – cioè filosofica –, potranno comprendere la Verità, perché, secondo l’Alessandrino, «la natura ama nascondersi», ma la sua conoscenza non è preclusa all’anima pura. La physiologia filoniana77 è dunque affine a quella che già Aristotele (Met. 989 b 29) attribuisce ai Pitagorici, e Plutarco (De Daed. Plat. 1), agli antichi sapienti greci e barbari, ai poemi orfici, alle dottrine egiziane e frigie:
72
Cf. Mos. 2.193 ss.; Leg. 3.212; Her. 203; Post. 2. Contro la teoria dei misteri filoniani di E. Goodenough (By Light, Light, New Haven-London 1935), cf. É. des Places, Platon et la langue des mystères, in Études platoniciennes, Leiden 1981, pp. 83-98; C. Riedweg, Mysterienterminologie bei Platon, Philon und Klemens von Alexandrien, in W. Bühler, P. Herrmann und O. Zwierlein (edd.), Untersuchungen zur antiken Literatur und Geschichte, Band 26, BerlinNew York 1987, p. 90; N.G. Cohen, The Mystery-Terminology in Philo, in R. Deines and K.-W. Niebuhr (edd.), Philo und das Neue Testament: Wechselseitige Wahrnehmungen. 1. Internationales Symposium zum Corpus Judaeo-Hellenisticum Novi Testamenti (Eisenach/Jena, Mai 2003), WUNT 172, Tübingen 2004, pp. 173-187. Già prima di Filone, il filosofo giudeo-alessandrino Aristobulo (ap. Eusebio di Cesarea, Praep. Ev. XIII, 12, 3-8) cita l’incipit dello hieros logos di Orfeo. L’uso del termine “mistero” nel senso di segreto religioso si trova nel Nuovo Testamento (Mc. 4:11) e caratterizza l’era cristiana, come ricorda W. Burkert, Les cultes à mystères dans l’antiquité [1987], tr. fr. par A.Ph. Segonds, Paris 2003, Intr., p. 10. 74 Su Filone come anello della catena di filosofi, da Platone (Gorg. 497 c e passim), ad Arisotele, agli Stoici, ai Medio- e Neo-platonici, che assimilano la speculazione filosofica al culto misterico, come iniziazione alla verità, cf. P. Boyancé, Sur les Mystères d’Éleusis, in «REG» 75 (1962), pp. 460-482; J. Dillon, The Trascendence of God in Philo: some possible sources, in Id., The Golden Chain: Studies in the Development of Platonism and Christianity, Aldershot 1990, pp. 1-6; V. Nikiprowetzky (1996), op. cit., p. 119. 75 Cf. PAPM, op. cit., vol. 17 (1970), pp. 276-277. 76 Cf. Abr. 200. 77 La physiologia come indagine condotta sui fenomeni naturali in vista di scoprirne le cause ultime, e quindi come scienza portatrice di un insegnamento fondamentale riguardo al mistero delle profondità divine, riservato a coloro che hanno raggiunto la perfezione morale e intellettuale, è stato studiato da L. Rizzerio, Clemente di Alessandria e la “physiologia veramente gnostica”. Saggio sulle origini e le implicazioni di un’epistemologia e di un’ontologia “cristiane”, Louvain 1996, pp. 39 ss.; su Filone, pp. 120 ss. 73
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un discorso «sulla natura» (περὶ φύσεως) che risale fino al fondamento divino della natura. Questa è l’interpretatio physica che permette di comprendere la verità dei principi eterni sulla base dell’esame dei fenomeni presenti, e di cogliere l’Essere supremo oltre a tutto ciò che dipende da Lui. All’inizio della nostra era, d’altronde, il termine φυσικός indica non più e non solo lo studioso dei fenomeni fisici e astronomici del mondo, vale a dire lo scienziato, ma il sapiente specialista delle corrispondenze o “simpatie” della natura – già indagate dai medio-stoici come Posidonio –, quindi delle sue virtù nascoste e misteriose78 . In più luoghi del corpus philonicum, l’Alessandrino dà agli allegoristi suoi predecessori il nome di «naturalisti» (φυσικοί ἄνδρες)79, perché i soli a penetrare la superficie della lettera e a cogliere la “natura” ad un tempo profonda e superiore delle cose80. Con ogni probabilità, Filone si riferisce all’esegesi “naturalistica” iniziata dagli Orfici in epoca pre-platonica, perfezionata dagli Stoici e diffusasi in Egitto in epoca ellenistico-romana81, poi in ambito medio-platonico82 , e già praticata da Ebrei alessandrini come 78
Cf. A.-J. Festugière, op. cit., vol. I. L’astrologie et les sciences occultes, Paris 1944, p. 79, n. 2. Cf. Post. 7; Abr. 99; Mos. 2.103; Spec. 2.147, 3.117. Il termine φυσικοί indica coloro i quali hanno indagato la φύσις («natura») delle cose: gli esegeti filosofici o allegoristi. Già secondo il vetero-stoico Crisippo (SVF II 1009), quanti ci hanno tramandato la venerazione degli dei, si espressero in tre modi: in primo luogo in «forma fisica» (φυσικὸν εἶδος), quella dei filosofi, in secondo luogo in forma mitica, quella dei poeti, e in terzo luogo nella forma testimoniata dalle norme delle singole città. Questa suddivisione si ritrova nella cosiddetta Theologia tripartita di Varrone (ap. S. Agostino, De civ. Dei VI 5), nel trattato stoico-allegoristico esposto da Balbo in Cicerone (De nat. deor. II 1), e in Cornuto (Comp. theol. graec. 35). 80 Sul tema, cf. R. Goulet, La philosophie de Moïse. Essai de reconstitution d’un commentaire philosophique préphilonien du Pentateuque, Paris 1987; Id., Allégorisme et anti-allégorisme chez Philon d’Alexandrie, in G. Dahan et R. Goulet (edd.), Allégories des poètes, Allégories des philosophes. Études sur la poétique et l’herméneutique de l’allégorie de l’Antiquité à la Réforme, Paris 2005, pp. 60 e passim. 81 Sull’intepretatio physica, utilizzata da Varrone nell’elaborazione della sua dottrina della “teologia tripartita”, e precisamente della theologia naturalis, cf. Agostino, De civ. Dei VI 2-9 e VII 5-6. 82 Tra i contemporanei di Filone vanno anche menzionati gli allegoristi come Cheremone, sacerdote egiziano, e sacro scriba d’Iside, cioè interprete e custode dei libri sacri (ἱερογραμματεύς), ma anche filosofo stoico, autore di una teologia naturalistica (il φυσικὸς λόγος sugli dei) in cui le divinità egizio-greche sono la personificazione di astri celesti o fenomeni fisici. Cf. P.W. Van der Horst, Chaeremon. Egyptian Priest and Stoic Philosopher, Leiden 1984, pp. 13 e passim. L’eresiologo della Refutatio omnium haeresium (IX 27), a proposito degli ebrei Esseni, sostiene che Πυθαγόρας καὶ οἱ ἀπὸ τῆς Στοᾶς παρ᾽ Αἰγυπτίοις τούτοις μαθητευθέντες («Pitagora e gli Stoici d’Egitto si affiliarono alla loro scuola»), e così affermarono che vi sarà un giudizio e una conflagrazione universale. D’altro canto, secondo la notizia di Eusebio di Cesarea (Hist. Eccl. VI 19, 2 ss.), Porfirio, nel terzo trattato dei suoi scritti Contra Christianos, rammenta che il cristiano Origene, il quale era sempre in compagnia di Platone e frequentava anche le opere dei pitagorici (medioplatonici) Numenio, Cronio, Apollofane, Moderato, Nicomaco, ἐχρῆτο δὲ καὶ Χαιρήμονος τοῦ Στωϊκοῦ Κορνούτου τε ταῖς βίβλοις, παρ᾽ ὧν τὸν μεταληπτικὸν τῶν παρ᾽ Ἕλλησιν μυστηρίων γνοὺς τρόπον 79
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Aristobulo (II sec. a. C.)83 o da altri asceti che vissero contemplando le “verità” di natura attraverso la “filosofia” biblica. Nel trattato apologetico dedicato alla comunità giudeo-egiziana dei Terapeuti del lago Mareotide, intitolato De vita contemplativa, Filone informa della loro pratica quotidiana di esercizi spirituali84 in questi termini (Cont. 28, VI, p. 53 Cohn-Reiter): leggendo le sacre Scritture, infatti, praticano la filosofia tradizionale tramite l’allegoria, poiché ritengono che i significati dell’interpretazione letterale siano simboli della “natura nascosta”, che si lascia intravedere per allusioni85.
L’accenno alla «natura nascosta» (ἀποκεκρυμμένης φύσεως) è una vaga reminiscenza del detto di Eraclito, che l’Alessandrino applica ancora una volta all’interpretazione “naturalistica” del testo biblico86. Per i pii contemplatori della natura di cui parla Filone, la Scrittura è la legge della realtà, cioè la parola allusiva che racchiude un significato filosofico. Il termine «allusione» (ὑπόνοια), già impiegato da Platone (Resp. 378 d) a proposito dell’esegesi allegorica di Omero87, ricorre in più trattati filoniani con riferimento al significato profon-
ταῖς Ἰουδαϊκαῖς προσῆψεν γραφαῖς («si avvaleva, d’altra parte, anche dei libri dello stoico Cheremone e di Cornuto, dai quali apprese l’esegesi interpretativa dei misteri dei Greci e l’applicò alle Scritture giudaiche»). Che lo stoicismo di Cheremone integrasse elementi greco-pitagorici a quelli egiziani, lo testimonia anche Giamblico (De Myst. VIII 4): Χαιρήμων δὲ καὶ οἵτινες ἄλλοι τῶν περὶ τὸν κόσμον ἅπτονται πρώτων αἰτίων, τὰς τελευταίας ἀρχὰς ἐξηγοῦνται («Cheremone e quegli altri che trattano delle cause prime del cosmo spiegano i principi finali»). 83 Cf. G. Reydams-Schils, Demiurge and Providence. Stoic and Platonist Readings of Plato’s Timaeus, Turnhout 1999, pp. 137 ss. In uno dei pochi (cinque) frammenti sopravvissuti, Aristobulo (ap. Eusebio di Cesarea, Praep. Ev. VIII 10, 5) ammonisce i suoi lettori di ammettere le interpretazioni bibliche πρὸς τὸ φυσικῶς («secondo il senso naturale»), perché la giusta concezione di Dio si accorda con esse. 84 E nel trattato filosofico dedicato alla comunità giudaico-palestinese degli Esseni del Mar Morto, Filone (Prob. 82) descrive la loro attività di lettura e interpretazione dei testi sacri, affermando che presso di loro la filosofia si pratica διὰ συμβόλων («tramite simboli»). 85 ἐντυγχάνοντες γὰρ τοῖς ἱεροῖς γράμμασι φιλοσοφοῦσι τὴν πάτριον φιλοσοφίαν ἀλληγοροῦντες, ἐπειδὴ σύμβολα τὰ τῆς ῥητῆς ἑρμηνείας νομίζουσιν ἀποκεκρυμμένης φύσεως ἐν ὑπονοίαις δηλουμένης. Il passaggio è assente dalle maggiori edizioni dei frammenti e delle testimonianze su Eraclito: Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 8, pp. 401 ss.; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), pp. 237 ss. 86 Lo segnala P. Graffigna (1992) nella sua edizione italiana de La vita Contemplativa, op. cit., p. 124. 87 Cf. anche Senofonte, Symp. III, 5-6 (Test. V A (Antistene) 185 Giannantoni), in cui Socrate afferma che i rapsodi di Omero non intendono le ὑπονοίας («i sensi riposti») di ciò che recitano, mentre Antistene, suo discepolo e interlocutore, ha pagato per farsi istruire sull’importante significato dei poemi omerici.
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do e segreto, cioè al «pensiero» (-νοια) che sta «sotto» (ὑπό-) il linguaggio enigmatico e figurato88 del testo sacro89. Ricorrendo implicitamente al frammento eracliteo, dunque, Filone intende spiegare che «la natura» appare e scompare, si mostra e si cela nel racconto biblico, ma si lascia cogliere da coloro che praticano l’esegesi allegorica – e precisamente l’allegoria fisica –, cioè interpretano i termini del testo sacro come simboli di realtà spirituali, non materiali, e i segni del mondo, o quel segno che è il mondo, per giungere al Principio di tutte le cose. In questo senso, per Filone, tali interpreti sono gli “iniziati” al “mistero” giudaico, che è quello della Scrittura, in cui si celebra la Verità e l’insegnamento teorico si fonde con la pratica liturgica. Già Eraclito (112 DK) sosteneva che la verità essenziale e universale è comunicata da parole e azioni conformi alla natura: «Esser saggi è la massima virtù, e sapienza è dire cose vere e agire secondo la natura [scil. delle cose] che si capisce» (σωφρονεῖν ἀρετὴ μεγίστη, καὶ σοφίη ἀληθέα λέγειν καὶ ποιεῖν κατὰ φύσιν ἐπαΐοντας). La duplice testimonianza filoniana si allinea quindi alle precedenti mostrando che, per l’Alessandrino, «la natura» di Eraclito, cioè l’essenza reale di ogni cosa, «ama nascondersi» nel linguaggio allegorico della Scrittura, che deve essere a sua volta interpretato e compreso – dagli iniziati all’allegoria – in modo “naturale”: non tanto e non solo fisico, bensì metafisico. 1.4. La profondità della conoscenza Il frammento 123 DK di Eraclito compare anche in un altro scritto del grande Commentario filoniano: il De Somniis, un trattato su Gen. 28:10 ss., vale a dire sui sogni mandati da Dio, originariamente in cinque libri90, di cui ne rimangono solo due. Il Libro I – verosimilmente il secondo nella redazione originaria – è dedicato all’interpretazione della scala vista in sogno da Giacobbe in Gen. 28:12 ss. L’Alessandrino afferma innanzitutto che «indispensabile è il preambolo della visione, esaminato il quale potremo agilmente comprendere allo stesso modo anche i significati della visione» (προκατασκευὴ δ᾽ ἐστὶ τῆς
88
Cf. J. Pépin, Mythe et allégorie. Les origines grecques et les contestations judéo-chrétiennes, Paris 1958,
p. 85. 89 90
Cf. Cont. 78; Praem. 61 ss.; Abr. 119; Congr. 172; Cher. 21. Cf. Eusebio di Cesarea, Hist. Eccl. II 18.
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φαντασίας ἀναγκαία, ἣν ἀκριβώσαντες εὐμαρῶς ἴσως δυνησόμεθα καὶ τὰ δηλούμενα ὑπὸ τῆς φαντασίας καταλαβεῖν) (Somn. 1.4). Il testo biblico che Filone considera precedente e preparatorio, cioè introduttivo al sogno di Giacobbe, è Gen. 28:10: «[La Scrittura] dice: “E Giacobbe uscì dal pozzo del giuramento e si diresse verso Haran”» ("καὶ ἐξῆλθε" φησίν "Ἰακὼβ ἀπὸ τοῦ φρέατος τοῦ ὅρκου καὶ ἐπορεύθη εἰς Χαρράν) (Somn. 1.4). A proposito di questo versetto, Filone si pone tre domande: «primo: che cos’è il pozzo del giuramento e perché si chiama così» (ἓν μὲν τί τὸ τοῦ ὅρκου φρέαρ καὶ διὰ τί οὕτως ὠνομάσθη) (Somn. 1.5). Ed eccone la risposta (Somn. 1.6, III, p. 205 Wendland): A me, dunque, il pozzo sembra essere il simbolo della scienza; “la natura” di questa, infatti, non è superficiale, ma estremamente profonda; e non si espone alla visibilità, ma “ama nascondersi” in qualche modo nell’oscurità; né si trova facilmente, bensì a prezzo di molte fatiche e con pena. E questo si osserva non solo a proposito delle scienze che hanno oggetti di investigazione immensi e indicibili, ma anche per quelle più banali91.
Senza menzionare Eraclito, Filone utilizza ancora il detto ἡ φύσις ... κρύπτεσθαι φιλεῖ («la natura ... ama nascondersi»). In questo caso, l’Alessandrino applica l’espressione eraclitea alla natura del «sapere scientifico» (ἐπιστήμη), che a suo avviso è simboleggiata dal «pozzo» (φρέαρ) di Gen. 20:10. Secondo Filone, infatti, il pozzo biblico, caratterizzato da profondità, oscurità, difficoltà di penetrazione e perlustrazione, rappresenta la scienza, ovvero la conoscenza umana. Questa è una variazione sul tema del raggiungimento mediato della verità, che Filone affronta per giustificare la propria esegesi allegorica della Scrittura. Secondo l’Alessandrino, la natura del sapere è come un pozzo «che non ha limite, né fine» (ὅρον καὶ τελευτὴν οὐκ ἔχον) (Somn. 1.11), e la verità è nascosta in fondo ad esso. In questo senso, per Filone, «la natura» dell’umana scienza, profonda e oscura come il suo oggetto d’indagine, «ama nascondersi». L’interpretazione filoniana del pozzo come simbolo del sapere richiama il detto di Democrito (68 B 117 DK), citato da Cicerone (Acad. Pr. II 10, 32 = 91 ἐμοὶ τοίνυν δοκεῖ σύμβολον εἶναι τὸ φρέαρ ἐπιστήμης· οὐ γάρ ἐστιν ἐπιπόλαιος αὐτῆς ἡ φύσις, ἀλλὰ πάνυ βαθεῖα· οὐδ᾽ ἐν φανερῷ πρόκειται, ἀλλ᾽ ἐν ἀφανεῖ που κρύπτεσθαι φιλεῖ· οὐδὲ ῥᾳδίως, ἀλλὰ μετὰ πολλῶν πόνων καὶ μόλις ἀνευρίσκεται. καὶ ταῦτ᾽ οὐ μόνον ἐπὶ τῶν μεγάλα καὶ ἀμύθητα ὅσα θεωρήματα ἐχουσῶν, ἀλλὰ καὶ ἐπὶ τῶν εὐτελεστάτων θεωρεῖται. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 8 (a 2), pp. 401-402; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 328, p. 238.
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Luc. 32, 6-7): «Accusa la natura, che, come dice Democrito, ha nascosto la verità a una profondità inaccessibile» (Naturam accusa, quae in profundo veritatem ut ait Democritus penitus abstruserit), poi sotto altra forma da Diogene Laerzio (IX 72): «in realtà non sappiamo nulla; la verità, infatti, è nell’abisso» (ἐτεῆι δὲ οὐδὲν ἴδμεν· ἐν βυθῶι γὰρ ἡ ἀλήθεια). Il cristiano Lattanzio (Inst. Div. III 28, 14), quindi, sostituisce all’astratta profondità l’immagine concreta del pozzo, affermando «Democrito [dice] che la verità è precipitata in un pozzo così profondo da non avere fondo» (Democritus quasi in puteo quodam sic alto, ut fundus sit nullus, veritatem iacere demersam): tanto è difficile scoprirla92 . E’ dunque lecito chiedersi quando la tradizione comincerebbe a relegare la verità di Democrito nella profondità di un pozzo e se Filone, che non menziona Eraclito, potrebbe avere in mente l’immagine associata al detto democriteo. Per Democrito, infatti, «in realtà» (ἐτεῆι)93 non conosciamo nulla, e possiamo avere solo opinioni delle cose, ma l’Alessandrino parla di φύσις – termine eracliteo – sottintendendo un gioco tra la conoscenza della natura e la natura della conoscenza: in questo caso, è la natura del sapere, non la natura tout court, che «ama nascondersi». In molti frammenti, Eraclito lamenta l’ignoranza degli uomini e i limiti della conoscenza umana (86 DK): «a causa dell’incredulità, sfugge per non essere conosciuto» (ἀπιστίηι διαφυγγάνει μὴ γιγνώσκεσθαι). L’Efesio si considera un sapiente (1 DK), mentre «gli altri uomini non si rendono conto di tutto ciò che fanno da svegli, così come non si rendono conto di tutto ciò che fanno dormendo» (τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται)94, perché «pur presenti, sono assenti» (παρεόντας ἀπεῖναι) (34 DK). Oltre ai numerosi frammenti che alludono all’incapacità umana di cogliere la profondità della realtà95, Eraclito dichiara espressamente la profondità dell’anima, ovvero la sua facoltà di estendersi oltre le
92 In Cicerone, Acad. Post. I 44, leggiamo solo: ut Democritus, in profundo veritatem esse demersam... Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., p. 403 e nota 5. Su questi passi anche P. Hadot, op. cit., pp. 63-64. Il tema del nascondimento della verità negli abissi profondi caratterizza la speculazione di epoca medioplatonica, come dimostra anche il frammento 183 des Places degli Oracoli caldaici: τὸ δ᾽ ἀτρεκὲς ἐν βαθεῖ ἐστι («Il vero è nel profondo»). 93 68 B 7 DK. 94 Sull’identità degli opposti sveglio e dormiente, e sulla metafora dei dormienti come coloro che non vedono, cioè non comprendono la verità delle cose, cf. 22 B 21, 26, 73, 75, 88, 89 DK. 95 Sulla critica di Eraclito all’ignoranza umana come incapacità a passare dalla percezione alla conoscenza, cf. 22 B 1, 2, 17, 19, 22, 51, 71, 72, 95 DK.
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misure degli oggetti fisici che hanno inizio e fine, nel 45 DK: «per quanto tu possa andare, non troverai mai i confini dell’anima, anche percorrendo ogni via: tanto profondo è il suo logos» (ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει)96. L’anima di Eraclito sembra così “aumentare” la sua natura grazie al resoconto sulla realtà di cui è capace, cioè approfondisce la sua conoscenza cogliendo la natura profonda delle cose, e anche di se stessa97. Secondo Filone, invece, il Dio biblico ha rivelato la Verità nella Scrittura, ma per comprenderne il linguaggio è necessaria un’adeguata interpretazione: per penetrare tale ermetismo occorre una certa ermeneutica. Fin dagli inizi della filosofia greca, poi nel Cratilo platonico, ma soprattutto con gli Stoici a partire da Crisippo98, il mitico «Ermete» (῾Ερμῆς), messaggero e intermediario degli dei omerici, è identificato con il Logos che manda i sogni, ovvero il dio che governa la mente nel sonno, e che permette di «interpretare» (ἑρμηνεύειν), cioè vedere in modo perspicace, avere una visione acuta e profonda. Così, in epoca ellenistica Hermes-Logos diviene la figura del mediatore per eccellenza: ad un tempo parola ermetica e divino ermeneuta. Filone, nel suo trattato sui sogni, adotta e adatta il tema greco della comunicazione divina, attraverso un linguaggio criptico e segreto, alla sua interpretazione della Scrittura. Il pozzo biblico, che precede e annuncia il sogno di Giacobbe, va inteso, secondo Filone, come il simbolo della natura che si nasconde: non solo la natura di cui l’uomo è parte, ma anche la natura della facoltà umana che la compren96
Cf. anche 22 B 115 DK, di dubbia autenticità. Cf. G. Betegh, The Limits of the Soul: Heraclitus B 45 DK. Its Text and Interpretation, in E. Hülsz Piccone (ed.), Nuevos Ensayos sobre Heráclito. Actas del Segundo Symposium Heracliteum, México 2009, pp. 391-414. 98 L’allegoria di Ermete, il mitico messaggero degli dei, come λόγος, nel duplice senso di sermo e ratio, risale probabilmente al rapsodo di VI secolo a. C. Teagene di Reggio (8 A 2 DK). Ippocrate, nel trattato La malattia sacra (V sec. a. C.) definisce il cervello umano come l’«interprete» (ἑρμηνεύς) di ciò che proviene dall’aria, perché la sua funzione è quella di trasmettere la conoscenza; Platone nel Cratilo (407 e ss.) fa derivare il nome Ermete (῾Ερμῆς) dal sostantivo ἑρμηνεύς, da cui l’italiano “ermeneuta”. Il verbo ἑρμηνεύω significa in effetti “esprimere”, “spiegare”, dunque “interpretare”. E se già la dottrina di Hermeslogos è operante nei vetero-stoici come Crisippo (SVF II 1079), secondo il quale Ermete esercita il suo potere sugli occhi e sul sonno (SVF III 777), solo nel medio-stoicismo diventa un vero e proprio luogo comune, come testimonia Apollodoro di Atene (fr. 129 Jacoby), che attribuisce a Ermete le quattro invenzioni del logos (lettere, musica, ginnastica e geometria), e fornisce un’etimologia dell’epiteto “Cillenio” (Κυλλήνιος) di Ermete (fr. 130 Jacoby) basata sulla medesima connessione del dio con il sonno e il sogno, in quanto colui che tiene κύλων/κυλάδων ἡνίας («le briglie delle palpebre»). Sull’identificazione HermesLogos, cf. anche Filone, Prov. 2.41 (cf. I. Ramelli, G. Lucchetta (2004), op. cit., pp. 162 e passim). 97
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de. Questa testimonianza di Filone sul detto eracliteo «la natura ama nascondersi» si distingue dalle altre proprio nell’intendere la «natura» come l’essenza, non tanto dell’uomo, ma del sapere umano. Secondo Filone, la natura delle cose è profonda, così come quella della loro conoscenza, poiché il soggetto conoscente ha la stessa realtà dell’oggetto conosciuto, e si identifica con esso nel caso dell’autocoscienza. Il significato implicitamente attribuito al frammento di Eraclito è che «la natura» di ogni cosa «ama nascondersi» come quella del sapere qualcosa. 1.5. La falsa profezia Il frammento 123 DK di Eraclito risuona, infine, in un trattato appartenente al gruppo di scritti filoniani detti di “Esposizione della legge”, che con quelli del “Commentario allegorico” e le Quaestiones costituisce l’opera esegetica di Filone. De specialibus legibus è dedicato alla spiegazione allegorica della Legge ebraica; l’ultimo dei quattro libri di cui si compone ha per oggetto l’ottavo e il nono comandamento di Es. 22:1 ss. e 23:1 ss., vale a dire il divieto di furto e falsa testimonianza. In questo libro, Filone paragona la falsa testimonianza alla calunnia (Spec. 4.42-43) e considera la pratica della divinazione una falsa testimonianza contro l’essere di Dio e una caricatura della profezia (Spec. 4.48). Proponendo la distinzione, già prospettata da Platone (Phaedr. 244 a ss.) e ripresa da Cicerone (De div. II 11), tra mantica naturale e artificiale (tecnica), Filone rifiuta la seconda in favore della prima. A suo avviso, la divinazione è una contraffazione: la predizione autentica è solo quella ispirata dall’unico Dio99, che coincide con la profezia100 e riunisce in sé i caratteri filosofico-religiosi dell’ispirazione poetica – entusiasmo o mania –, dell’invasamento misterico e dell’estasi mistica101. Secondo Filone, l’adepto della divinazione è un falso pro-
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Cf. Mos. 1.284; 2.190 o Mut. 203. Sulla profezia in Filone, cf. la tesi dottorale di S. Marculescu-Badilita, Recherches sur la prophétie chez Philon d’Alexandrie (Université Paris-Sorbonne, Paris IV, 2007), di prossima pubblicazione nella collezione Études Augustiniennes. L’autrice esamina i diversi aspetti della profezia in Filone: il vocabolario specifico, la figura di Abramo, il rapporto tra le diverse funzioni di Mosé, la questione dell’ispirazione divina, la critica della divinazione, la classificazione degli oracoli e dei sogni, il ruolo dei profeti anteriori e posteriori. 101 Cf. soprattutto Her. 248 e 264. Sull’esperienza personale filoniana di esegesi ispirata, cf. Migr. 34 s.; Cher. 27; Somn. 2.252; Spec. 3.1-6 e lo studio di J.R. Levison, Inspiration and the Divine Spirit in the 100
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feta che spaccia le sue parole per quelle di Dio (Spec. 4.50): «crede, infatti, di dover predicare le cose divinate, non come inventate da lui, ma come oracoli divini segretamente rivelati a lui solo» (τὰ γὰρ τοπασθέντα προλέγειν οἴεται δεῖν ὡς οὐκ αὐτὸς εὑρών, ἀλλ᾽ὡς ἀφανῶς αὐτῷ μόνῳ χρησθέντα θεῖα λόγια). Il passo continua così (Spec. 4.51, V, p. 220 Cohn): Un tale individuo è chiamato con il giusto nome di falso profeta, perché adultera la vera profezia e con invenzioni fittizie ottenebra le verità autentiche. Ma dopo pochissimo tempo stratagemmi del genere vengono scoperti, poiché “la natura non sempre ama nascondersi”, ma al momento opportuno svela la propria bellezza con poteri invincibili102 .
Senza menzione di Eraclito, Filone ricorre ancora una volta al detto eracliteo, che corregge adattandolo al suo proposito nell’espressione: τῆς φύσεως οὐκ ἀεὶ κρύπτεσθαι φιλούσης («la natura che non sempre ama nascondersi»), opposta a quella di Mut. 60: «la natura che sempre ama nascondersi». In questo caso, l’Alessandrino polemizza contro coloro che fingono la profezia con la divinazione, perché quest’ultima non è ispirata dal Dio biblico. Platone (Tim. 72 a-b), proponendo la differenza tra divinazione e profezia, affermava che i profeti sono gli interpreti delle divine rivelazioni e apparizioni, vale a dire dei segni che gli dei inviano agli uomini103. Filone ritorna invece al significato letterale di «profeta» (προφήτης) come portavoce ispirato di Dio, contrapponendolo al falso profeta che spiega a modo suo il significato di ciò che non ha visto né udito. La vera profezia, secondo Filone, consiste nel congiungimento dell’anima con Dio e rappresenta l’illuminazione che permette di “vedere” la Verità104. A Writings of Philo Judaeus, «JSJ» 26 (1995), pp. 271-323. Sui diversi tipi di profezia in Filone, cf. D. Winston, Two Types of Mosaic Prophecy according to Philo, in D.J. Lull (ed.), Society of Biblical Literature. Seminar Papers, SBLSPS 27, Atlanta 1988, pp. 442-445; riprodotto in «JSP» 4 (1989), pp. 49-67. 102 τὸν τοιοῦτον εὐθυβόλῳ ὀνόματι ψευδοπροφήτην προσαγορεύει, κιβδηλεύοντα τὴν ἀληθῆ προφητείαν καὶ τὰ γνήσια νόθοις εὑρήμασιν ἐπισκιάζοντα. χρόνῳ δὲ παντάπασιν ὀλίγῳ διακαλύπτεται τὰ τοιαῦτα στρατηγήματα, τῆς φύσεως οὐκ ἀεὶ κρύπτεσθαι φιλούσης, ἀλλ᾽ ὁπόταν καιρὸς ᾖ τὸ ἴδιον κάλλος ἀναφαινούσης ἀηττήτοις δυνάμεσιν. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 8 (a 3), p. 402; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 327, p. 238. 103 Altre occorrenze del termine προφήτης in Platone: Resp. 366 b, 619 d; Charm. 173 c; Phaedr. 262 d. 104 Nell’epoca ellenistica della storia greca si diffonde l’idea di una conoscenza divina per via di visione, tramite un contatto diretto dell’anima umana con Dio, un’unione o fusione totale in cui consiste l’illuminazione. Questa è appunto la rivelazione ermetica. Ma come informa Erodoto (II 137-138), il dio che i Greci chiamano Hermes è l’egiziano Thoth, l’inventore della scrittura e di tutte le scienze e arti ad essa connesse, prima fra tutte la sua interpretazione. Sull’assimilazione di Thoth-Hermes a Mosé, cf. lo
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differenza dei luoghi precedenti, tuttavia, Filone pone l’attenzione sullo svelamento della natura, controparte imprescindibile del suo intrinseco nascondimento: la verità deve prima o poi manifestarsi. Secondo l’Alessandrino, l’uomo e le cose possono celarsi temporaneamente, ma la natura divina è la luce suprema che brilla e illumina tutto, compreso l’uomo. La tematica dello sfuggire, nel duplice senso di non farsi vedere, del soggetto e dell’oggetto della vista, richiama il frammento 16 DK di Eraclito: «Come potrebbe uno in qualche modo sfuggire a ciò che non tramonta mai?» (τὸ μὴ δῦνόν ποτε πῶς ἄν τις λάθοι). La testimonianza di Filone può essere paragonata a quella di Sesto Empirico, secondo cui lo scettico Enesidemo (I sec. a. C.?) avrebbe seguito Eraclito nell’affermare che veri sono i fenomeni che appaiono in comune a tutti gli uomini, come dimostra l’etimologia stessa del termine “vero”: «per questo anche “ciò che non sfugge” al giudizio comune è stato chiamato “vero” [i.e. “nonsfuggente”] per derivazione linguistica» (ὅθεν καὶ ἀληθὲς φερωνύμως εἰρῆσθαι τὸ μὴ λῆθον τὴν κοινὴν γνώμην) (Adv. Math. II 8, 8). Secondo questa prospettiva, dunque, il significato etimologico di “verità” (ἀλήθεια) sarebbe quello di “non-sfuggente”, perché la caratteristica principale della natura è quella di velarsi, ma anche di svelarsi, cioè di rivelarsi105; d’altronde, senza veli nulla si svela106. Legittimo è domandarsi se il neo-pirroniano Enesidemo eserciti una qualche influenza sul quasi contemporaneo Filone, che conosce lo scettico e ne rappresenta la prima fonte storico-letteraria; questo è un punto su cui ritorneremo. storico e apologeta giudeo-alessandrino di II secolo a. C. Artapano, e il coevo scrittore e diplomatico giudeo ellenizzato, Eupolemo (entrambi ap. Eusebio di Cesarea, Praep. Ev. IX 26-27). E se già negli Atti degli Apostoli (14:12) gli abitanti di Listre chiamano Barnaba “Zeus” e Paolo “Hermes”, perché portavoce dell’altro, come nella religione greca Hermes era il messaggero del padre degli dei, in ambito patristico, Clemente Alessandrino (Strom. VI 4, 35, 3- 37, 3) farà risalire tutta la letteratura sacra dell’Egitto a Hermes; Tertulliano (Contr. Val. 15) dirà che Mercurio Trismegisto è maestro di tutti i “naturalisti”, raggruppando sotto questo termine non solo gli Stoici, ma anche Platonici e Pitagorici; l’Eresiologo l’autore della Refutatio omnium haeresium (V 7, 29), refutando la dottrina degli gnostici “Naasseni”, dirà che i Cillenei onoravano Hermes come Logos, ovvero come interprete e demiurgo di ciò che è stato, di ciò che è e di ciò che sarà. Cf. A.-J. Festugière, op. cit., vol. I (1944), pp. 67-88. 105 Cf. M. Heidegger, Eraclito [1979], 1. L’inizio del pensiero occidentale, tr. it. di F. Camera, Milano 1993, p. 34. 106 Come sostiene M. Heidegger, Saggi e discorsi [1957], tr. it. di G. Vattimo, Milano 1976, nella sezione intitolata “Aletheia”, e passim. Ma i pensatori greci arcaici avevano già problematizzato la verità come prerogativa del discorso sulla realtà, secondo M. Detienne, En ouverture. Retour sur la bouche de la vérité, nella ristampa di Id., Les Maîtres de vérité dans la Grèce archaïque, Paris 1994, pp. 5-31. La critica a Heidegger occupa le pp. 20-22.
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Secondo Filone, la natura divina non può rimanere nascosta nella divinazione dei falsi profeti, e la luce della verità risplenderà infine sulle tenebre della menzogna. Rispetto ai passaggi precedenti, quindi, in questo caso Filone applica il detto eracliteo alla rivelazione “naturalistica” che consiste nell’autentica profezia: se la «natura» tende a nascondersi, essa deve necessariamente in qualche modo manifestarsi, perché Dio comunica con l’uomo ispirandolo. La testimonianza filoniana induce a chiedersi se, per Eraclito, «la natura ama nascondersi» perché l’essenza di ogni cosa si copre e si scopre, appare e scompare, nel ciclico alternarsi delle trasformazioni cosmiche, ma anche nell’uso e nell’interpretazione del linguaggio. *
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Tirando le fila di quanto detto finora, Filone ricorre al frammento 123 DK di Eraclito sia nei trattati esegetici del grande “Commentario allegorico” al Pentateuco di Mosé (Mut. 60; Fug. 179; Somn. 1.6), sia in quelli di “Esposizione della Legge” (Spec. 4.41; cf. Cont. 28) e nelle Quaestiones et Solutiones (in Genesim) (QG 4.1). La maggior parte dei contesti filoniani in cui ricorre il testo eracliteo concerne l’interpretazione “naturalistica” della Scrittura: l’esegesi che consiste nel considerare i personaggi, i luoghi e gli oggetti di cui parlano i Libri sacri come simboli di realtà “naturali”: fisiche nel senso di metafisiche. Per Filone, «la natura ama nascondersi» significa che la Verità si vela e si svela nella rivelazione dei Biblia, cioè tende a nascondersi nei termini e nelle espressioni di Mosé, ma non sempre e non ad ogni uomo, perché la divina ispirazione conduce dall’allegoresi alla visione. Utilizzando il detto eracliteo in diversi modi nei suoi commentari biblici, Filone non intende capire e spiegare Eraclito, bensì applicare la formula, di origine eraclitea, al principio su cui riposa la Bibbia in quanto Libro della Rivelazione – l’apparire e lo scomparire di Dio –, e al principio dell’interpretazione allegorica dello stesso testo sacro. Nonostante Filone si appropri delle parole di Eraclito nella sua speculazione, i contesti filoniani presentano tematiche che, mutatis mutandis, non sono estranee al pensiero di Eraclito: la visibilità e invisibilità della natura di ogni cosa, la comprensione umana della realtà, cioè della natura del divino, del mondo e di se stesso, ma soprattutto, la difficoltà di raggiungere il vero sapere, riservato a pochi. Filone induce quindi a interrogarsi di nuovo sulla natura eraclitea che tende a nascondersi, e sul significato originario del detto rispetto a quello acquisito posteriormente.
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2. Le fonti del detto eracliteo Nessun autore di epoca classica ed ellenistica, e neppure nessun filosofo pagano o apologista cristiano dell’inizio della nostra era cita letteralmente il frammento 123 DK di Eraclito107. Nel I secolo a. C. Cicerone (De div. I 35) ammette di non comprendere la ragione di certe cose, «perché essa si nasconde forse a causa dell’oscurità occulta della natura» (latet fortasse obscuritate involuta naturae); il dio, infatti, non ha voluto farci conoscere tali cose, ma ci ha solo dato di servircene. Il motivo dell’oscurità della realtà è ricorrente in Cicerone108, ma il verbo utilizzato in questo caso, lateo, -ere («nascondersi») potrebbe essere un implicito riferimento al κρύπτεσθαι di Eraclito. Altrove (De fin. II 15), Cicerone parla di «Eraclito, che è stato soprannominato l’Oscuro perché ha trattato della natura in modo troppo oscuro» (Heraclitus, cognomento qui σκοτεινός perhibetur, quia de natura nimis obscure memoravit)109. Da un lato, dunque, vi è l’oscurità della natura, cioè il nascondersi di cui parla Eraclito – il frammento 123 DK non è citato, però, da Cicerone –, dall’altro, l’oscurità dello stesso Eraclito che si è espresso in modo oscuro sulla natura, ed è a questa oscurità stilistica che Cicerone fa riferimento110. Una testimonianza utile ai fini della nostra ricerca è quella di Marco Manilio, autore latino di un poema didascalico in cinque libri, ma incompiuto, intitolato Astronomica. Quest’opera si presenta come la versificazione delle speculazioni astrali di I secolo a. C. e il loro inquadramento nel sistema filosofico dello stoicismo, in linea con l’astronomia del medio-stoico platonizzante Posidonio. Nel Libro IV, dopo aver fornito una completa descrizione dell’orbis terrarum, Manilio analizza i segni zodiacali e la loro influenza sui caratteri umani, poi afferma (Astron. IV 866-872): «Ma a che giova scrutare con tanto sottile ingegno lo splendore del mondo, se la mente di ciascuno rilutta e il timore toglie la speranza e proibisce [di varcare] la soglia del cielo? Ecco – dice – “la natura si nasconde” in un immenso recesso e sfugge alla vista dei mortali e alle
107 Il geografo di I secolo a. C.-I secolo d. C. Strabone X 3, 9, sulla scia di Posidonio (fr. 370 Theiler), afferma: ἥ τε κρύψις ἡ μυστικὴ τῶν ἱερῶν σεμνοποιεῖ τὸ θεῖον, μιμουμένη τὴν φύσιν αὐτοῦ φεύγουσαν ἡμῶν τὴν αἴσθησιν («la dissimulazione misterica dei riti sacri magnifica il divino, imitando la sua natura, che fugge i nostri sensi»). 108 Cf. Cicerone, Acad. Pr. = Luc. 147, 6; Acad. Post. I 4, 15; I 5, 19; 1 44, 4; De Orat. I 68. 109 Cf. anche Cicerone, De fin. V 51. 110 Sull’oscurità intenzionale di Eraclito, cf. anche Cicerone, De Fin. II 15, 7; De nat. deor. I 74, 8; III 35, 2; De div. II 133, 2.
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nostre capacità, né può giovare il fatto che tutte le cose sono rette dal Fato, poiché nessuna teoria può rendere manifesto il Fato» (Sed quid tam tenui prodest ratione nitentem scrutari mundum, si mens sua cuique repugnat spemque timor tollit prohibetque a limine caeli? Conditur en inquit vasto natura recessu mortalisque fugit visus et pectora nostra, nec prodesse potest quod fatis cuncta reguntur, cum fatum nulla possit ratione videri.)111. L’implicita reminiscenza del frammento eracliteo 123 DK è: conditur ... natura («la natura ... si nasconde»). Dato il contesto, Manilio utilizza probabilmente la stessa fonte dello stoico Cleomede – che citerà Eraclito nella sua Teoria elementare (111, 26-112) del moto circolare dei corpi celesti –, dunque dipende da quello stoicismo che integra anche l’astrologia orientale nella cosmologia greca, e il cui rappresentante principale è Posidonio. Ispirandosi alla parola eraclitea sul nascondersi della natura, ma anche e soprattutto al luogo comune che ne deriva, Manilio esprime una considerazione sull’infima conoscenza dell’uomo rispetto ai misteri dell’universo. Secondo Manilio, la mente umana indaga minuziosamente il mondo, ma la sua limitatezza gli impedisce di oltrepassare i confini del cielo, cioè di cogliere la natura invisibile che si nasconde dietro la natura visibile: il Fato. Nello stesso periodo, un’ancor più vaga allusione al frammento 123 DK di Eraclito compare in Seneca. Nel trattato enciclopedico in sette libri intitolato Naturales Quaestiones, un insieme di spiegazioni fisiche di fenomeni principalmente meteorologici, ma legate a diverse problematiche morali – e non scevro di considerazioni dal sapore platonico –, Seneca affronta vari temi di filosofia della natura. Il suo intento è liberare l’uomo dalla paura superstiziosa delle forze naturali e farlo ascendere verso il divino tramite la spiegazione razionale dei fenomeni aerei e ignei. Il Libro VII è dedicato alle comete, parlando delle quali Seneca considera anche questa opzione (Quaest. nat. VII 30, 4): «o tanta maestà [scil. degli esseri divini] si è nascosta in un ritiro più sacro [scil. del mondo umano] e regge il suo regno, vale a dire se stessa, senza renderlo accessibile a niente, se non al pensiero. Che cosa sia ciò senza il quale nulla è, non possiamo saperlo, e ci meravigliamo di non conoscere abbastanza le piccole fiamme di fuoco [i.e. le comete], quando “la più grande parte del mondo, Dio, ci è nascosta”» (sive in sanctiore secessu maiestas tanta delituit et regnum suum,
111 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 8 (e), p. 403; Mour., op. cit., III (Recensio) 3 (Fragmenta) B (Libri reliquiae superstites) / i (Textus, uersiones, apparatus I-III) (2006), F 123, p. 309.
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id est se, regit nec ulli dat aditum nisi animo. Quid sit hoc sine quo nihil est scire non possumus, et miramur si quos igniculos parum novimus, cum maxima pars mundi, deus, lateat.)112 . La reminiscenza del frammento 123 DK, senza menzione di Eraclito, data da Seneca è: maxima pars mundi, deus, lateat («la più grande parte del mondo, Dio, ci è nascosta»). Come Manilio, Seneca non è tanto utile alla ricostruzione letterale del testo, ma mostra come la parola di Eraclito sul nascondersi della natura sia compresa e utilizzata dagli Stoici romani di epoca imperiale. Con l’influenza dello stoicismo – per cui la teologia è la parte più importante della fisica che è sempre intimamente legata all’etica –, la natura di Eraclito diventa la realtà divina che soggiace a tutti i fenomeni e processi del cosmo113. Questo tipo di riflessione filosofica appartiene alla religione cosmica e astrale che si sviluppa in epoca ellenistica ed è caratterizzata dall’idea della presenza di Dio in ogni parte dell’universo, ma soprattutto nel cielo e nei corpi celesti114. Si comprende allora come, sotto l’influsso delle scienze naturali, ad Alessandria, ma non solo, questa dottrina dell’immanenza divina nell’alto del cosmo si sia diffusa al tempo di Filone; i suoi contemporanei romani alludono al concetto che deriva dal detto eracliteo per rappresentarsi il dio che si nasconde, attirando lo sguardo dell’uomo, ma sottraendosi alla sua vista. Echi ancora più lontani della parola e del pensiero di Eraclito ricorrono in altri filosofi e poeti romani di I secolo a. C.-I secolo d. C115: oltre a Cicerone, autori come Lucrezio, Ovidio e Plinio fanno riferimento agli arcani segreti della natura, le verità nascoste nella e dalla natura stessa perché non siano visibili all’uomo. In mancanza di citazione letterale e menzione esplicita di Eraclito, tuttavia, il confronto filologico e filosofico tra i testimonia del frammento 123 DK di Eraclito interessa soprattutto Filone e i filosofi neoplatonici.
112
Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 8 (e), p. 403; Mour., op. cit., III 3 B / i (2006), F 123,
p. 309. 113 Cf. P. Hadot, Histoire de la pensée hellénistique et romaine, «Annuaire du Collège de France» 83 (1982-1983), pp. 459-474, p. 466. 114 Cf. A.-J. Festugière, op. cit., vol. II (1949), p. 459. 115 Sui misteri della natura e sull’oscurità delle cose, cf. Lucrezio, De rer. nat. I 321; Ovidio, Metam. XV 63, Plinio, Hist. nat. XVIII, 207, 5.
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2.1. Porfirio: i vestimenti della natura e i veli del mito Nel III secolo d. C., il frammento eracliteo compare nel materiale porfiriano utilizzato nel V secolo dal neoplatonico ateniese Proclo, detto “il Diadoco”. Il suo Commento alla Repubblica di Platone si compone di 17 dissertazioni, la penultima delle quali è dedicata al mito platonico di Er (In Remp. II 96-359 Kroll). Nel racconto di Platone, Er, figlio di Armenio, originario della Panfilia, è un soldato che, dopo essere morto in guerra si ritrova nell’aldilà, per poi tornare in vita e raccontare il destino delle anime dopo la morte. Proclo considera Porfirio il miglior commentatore del mito platonico, e lo segue nel redigere il proprio Commentario (In Remp. II 96, 13-15 Kroll), come mostra già l’introduzione del mito. Qui Proclo (In Remp. II 105, 23 ss. Kroll) affronta questioni generali e preliminari, quali le critiche dell’epicureo Colote, che accusa Platone di aver narrato una favola mitica come un poeta, invece di dimostrare la verità come un filosofo. Alle obiezioni di Colote, Proclo risponde dapprima attraverso le risposte date da Porfirio, poi con la sua. Ed ecco il terzo argomento di Porfirio contro Colote (fr. 182F, p. 208 ss. Smith), ripreso da Proclo (In Remp. II, p. 107, 5-14 Kroll): [Porfirio dice] inoltre che questa finzione è in qualche modo conforme alla natura, perciò anche “la natura ama nascondersi” secondo Eraclito; e come i demoni che presiedono alla natura ci rivelano il loro dono, durante il sonno o in stato di veglia, proprio attraverso certe apparizioni fittizie di questo tipo, comunicando oracoli oscuri, significando alcune cose per altre, facendo apparire copie dotate di forma di cose prive di forma, e altre cose tramite figure che gli corrispondono, procedimenti di cui sono appunto piene anche le cerimonie sacre e i drammi mistici nei rituali di iniziazione, e che agiscono sugli iniziati proprio per ciò stesso che hanno di segreto e inconoscibile116.
La versione del frammento 123 DK di Eraclito data da Porfirio ap. Proclo è: ἡ φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ («la natura ama nascondersi»). Porfirio la inserisce nell’argomento sul legittimo ricorso dei filosofi alla narrazione fittizia, che è la forma letteraria tipica del discorso sull’Anima del mondo e sugli dei tradizio-
116 καὶ ὅτι τὸ πλασματῶδες τοῦτο κατὰ φύσιν πώς ἐστιν, διότι καὶ ἡ φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ καθ᾽ Ἡράκλειτον· καὶ ὡς οἱ δαίμονες οἱ προστάται τῆς φύσεως διὰ δή τινων τοιούτων πλασμάτων ἡμῖν ἐκφαίνουσιν τὴν ἑαυτῶν δόσιν ὄναρ τε καὶ ὕπαρ, λοξὰ φθεγγόμενοι, δι᾽ ἄλλων ἄλλα σημαίνοντες μεμορφωμένα τῶν ἀμορφώτων ἀφομοιώματα καὶ διὰ τῶν ἀνὰ λόγον ἄλλα σχημάτων, ὧν δὴ καὶ τὰ ἱερὰ πεπληρῶσθαι καὶ τὰ δρώμενα ἐν τοῖς τελεστηρίοις, ἃ καὶ δρᾶν αὐτῷ τῷ κρυφίῳ καὶ ἀγνώστῳ παρὰ τοῖς τελουμένοις. Cf. Marc.Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 8 (c), p. 402; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), T 736, p. 622.
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nali della mitologia pagana. Secondo il Neoplatonico, il racconto mitico, ambiguo ed enigmatico, è proprio della “teologia inferiore” o “fisica teologica”, cioè la parte della teologia che tratta degli dei in rapporto con la Natura117. Lo stesso materiale porfiriano è utilizzato all’inizio del V secolo da Macrobio, alto funzionario romano e uno dei maggiori rappresentanti del neoplatonismo di lingua latina. L’In Somnium Scipionis è un commentario filosofico in due libri al Sogno di Scipione, che corrisponde ai paragrafi 9-29 del Libro VI del De re publica di Cicerone. La fabula con cui Cicerone termina la sua opera è il racconto del sogno fatto da Scipione l’Emiliano quando si trovava in Africa (149 a. C.) come tribuno militare per combattere la terza guerra punica. L’Emiliano vide in sogno l’avo Scipione l’Africano e il padre Paolo Emilio che gli mostrarono il cielo e i meccanismi del cosmo, e gli rivelarono che le anime degli uomini politici meritevoli, dopo la morte, si elevano fino alla Via Lattea e godono della beatitudine celeste118. Macrobio (In Somn. Scip. I 1, 2-3) paragona il sogno escatologico di Scipione, che conclude la Repubblica di Cicerone, al mito di Er, che si trova alla fine della Repubblica di Platone119: entrambi i dialoghi sono dedicati alla giustizia e al destino post mortem delle anime; entrambi gli autori sono uomini eccellenti in sapienza e divinamente ispirati. Ora, secondo il comune accordo degli specialisti, la fonte maggiore di Macrobio è Porfirio120. Nonostante sia esplicitamente menzionato solo due volte nel commentario121, Porfirio si rivela in effetti alla base di passaggi quali la confutazione delle obiezioni di Colote contro l’uso del mito in filosofia.
117
Cf. P. Hadot, Le voile d’Isis. Essai sur l’histoire de l’idée de nature, Paris 2004, pp. 68-69. Questo avviene nel preambolo. Il seguito si costituisce di una parte “etica”, che espone le virtù dell’anima descrivendo la sua discesa sulla terra e il suo ritorno al cielo; una parte “fisica”, che consiste di sviluppi più scientifici a tema aritmetico, astronomico, musicale e geografico; e una parte “logica”, che tratta del movimento e dell’immortalità dell’anima. Cf. Macrobe, Commentaire au songe de Scipion, Texte établi, traduit et commenté par M. Armisen-Marchetti, Paris 2003, pp. XLVI ss. 119 Cf. Favonio Eulogio, Disp. de Somn. Scip. I 1. 120 Cf. A.R. Sodano, Porfirio commentatore di Platone, in H. Dörrie, J.H. Waszink, et Al., Entretiens sur l'Antiquité Classique (Fondation Hardt), vol. 12: Porphyre, Vandoeuvres-Genève 1966, pp. 198 ss.; A. Setaioli, L’esegesi omerica nel commento di Macrobio al ‘Somnium Scipionis’, «SIFC» 38 (1966), pp. 154198; S. Gersh, Middle Platonism and Neoplatonism. The Latin Tradition, vol. I, Notre Dame (Indiana) 1986, pp. 502 ss.; Macrobe (2003), op. cit., p. LVIII. 121 Cf. In Somn. Scip. I 3, 17 e II 3, 15. 118
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Seguendo dunque Porfirio, Macrobio reagisce all’attacco dell’epicureo Colote al mito platonico di Er122 , affermando che la filosofia non accoglie né rigetta tutte le finzioni letterarie, ma ammette la pia narratio fabulosa della verità divina123. Porfirio-Macrobio continua precisando che i filosofi non si esprimono sempre attraverso fabulae, bensí le utilizzano per parlare dell’anima e delle divine potenze del cielo (In Somn. Scip. I 2, 17-18, pp. (I) 8-9 ArmisenMarchetti): Ma a proposito degli altri dei e dell’Anima, come ho detto, [i filosofi] non ricorrono ai racconti di finzione senza scopo, né per divertimento, ma perché sanno che “la natura detesta esporsi scoperta e nuda”; come essa ha sottratto ai volgari sensi degli uomini l’intellezione della sua essenza, coprendosi dei vari rivestimenti e involucri delle cose, così ha voluto che i suoi arcani fossero trattati dai saggi velati da racconti di finzione124.
L’espressione di Macrobio inimicam esse naturae apertam nudamque expositionem sui («la natura detesta esporsi scoperta e nuda») è verosimilmente una libera riformulazione del frammento 123 DK di Eraclito φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ («la natura ama nascondersi»), come dimostra il paragone con Proclo, che riporta più fedelmente la fonte comune125. Porfirio ritiene, infatti, che la teologia superiore si occupa dell’Uno-Bene-Dio supremo, dell’Intelletto che contie-
122 Colote aveva criticato l’utilizzo filosofico dei miti nel trattato perduto cui risponde Plutarco nel Contro Colote. 123 L’elenco dei tipi di fabula nell’In Somn. Scip. I 2, 7-11 procede per divisioni successive, a cominciare da quelle che hanno come unico scopo dilettare l’uditorio, e che sono escluse dalla filosofia. Quelle, invece, che hanno come finalità l’insegnamento morale, possono derivare da costruzioni dell’immaginazione, come le favole di Esopo, anch’esse escluse dalla filosofia, o fondarsi su presupposti di verità, come i riti misterici, i racconti esiodei o orfici, e le formule pitagoriche. Queste ultime, a loro volta, possono rivelare il sacro in modo turpe e indegno degli dei, oppure in modo pio e degno: questo solo è il genere ammesso dalla filosofia, la decorosa e decente narratio fabulosa della verità divina. 124 De dis autem, ut dixi, ceteris et de anima non frustra se nec ut oblectent ad fabulosa convertunt, sed quia sciunt inimicam esse naturae apertam nudamque expositionem sui, quae, sicut vulgaribus hominum sensibus intellectum sui vario rerum tegmine operimentoque subtraxit, ita a prudentibus arcana sua voluit per fabulosa tractari. Il passaggio è assente dalla raccolta di frammenti e testimonianze su Eraclito di Marc.Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 8, pp. 401 ss., ed è richiamato in nota da Mour., op. cit., II.A.3 (2002), T 736, p. 622. 125 In virtù della stringente somiglianza tra i passaggi di Macrobio e Proclo, si è avanzata l’ipotesi che la fonte comune sia proprio il Commentario (perduto) di Porfirio alla Repubblica di Platone. Cf. K. Mras, Macrobius’ Kommentar zu Ciceros Somnium. Ein Beitrag zur Geistesgeschichte des 5. Jahrhunderts n. Chr., in Sitzungsberichte der preussischen Akademie der Wissenschaften, Phil.-historische Klasse, 1933, pp. 232288, spec. 235-237.
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ne le Forme del reale e dell’Anima rimasta nel mondo intelligibile, ovvero delle tre ipostasi neoplatoniche che si colgono solo mediante l’espressione analogica, cioè attraverso metafore, paragoni e similitudini126; e che la teologia inferiore, invece, discorre dell’Anima del mondo e della Natura127. Se dunque Filone considerava «la natura (che) ama nascondersi» di Eraclito la realtà spirituale e la verità divina che si cela nel testo della Scrittura biblica, Porfirio, seguito da Macrobio e Proclo, interpreta la natura eraclitea come il livello più basso della realtà, quello che concerne i corpi materiali. Secondo Porfirio, Platone avrebbe mostrato che solo una parte della filosofia si avvale di solo una parte del mito, e precisamente, che la teologia “naturale” o “fisica” è la branca inferiore della teologia e si occupa della categoria inferiore del divino, vale a dire dell’anima che ha commercio con la Natura, attinente alla materia e inseparabile dai corpi128. Per Porfirio, se la divinità superiore si nasconde nella sua intelligibilità, le divinità inferiori si nascondono in un altro senso, perché nel dispiegamento ontologico di tutta la realtà le anime divine discendono dall’Anima ed entrano in corpi costituiti di materia sempre più spessa e visibile, fino al corpo di carne che acquisiscono sulla terra. E come le anime intelligibili si vestono di corpi materiali, così, secondo Porfirio, il discorso divino si avvolge nei veli del mito129. Nell’interpretazione di Porfirio, dunque, il frammento 123 DK di Eraclito significa che la Natura è una potenza incorporea e invisibile che si nasconde in forme corporee e visibili: è la divinità intelligibile nascosta nella realtà sensibile. E se la teologia della Natura è una mitologia, solo l’interpretazione allegorica può rivelare il senso nascosto del mito, cioè svelare la natura della Natura, scoprendo la verità130. La testimonianza di Porfirio, posteriore e differente da quella di Filone, attribuisce tuttavia a Eraclito la concezione secondo cui «la Natura» intelligibile delle cose «ama nascondersi» in corpi materiali, così come la sua verità si nasconde nella parola o nel discorso che la comunica.
126 Cf. Ph. Hoffmann, L’expression de l’indicible dans le néoplatonisme grec de Plotin à Damascius, in C. Lévy et L. Pernot (edd.), Dire l’évidence (Philosophie et rhétorique antique), Cahiers de Philosophie de l’Université de Paris XII-Val de Marne 2, Paris 1997, pp. 335-390. 127 Cf. P. Hadot (2004), op. cit., pp. 68-69. 128 Cf. P. Hadot (2004), op. cit., p. 71. 129 Cf. P. Hadot (2004), op. cit., p. 70. 130 Cf. P. Hadot (2004), op. cit., p. 72.
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2.2. Giuliano e Temistio: i riti e i culti sacri Nel IV secolo della nostra era, il frammento 123 DK di Eraclito è citato da Flavio Claudio Giuliano, chiamato “Giuliano l’Apostata” o “Giuliano il Filosofo” dalle fonti rispettivamente cristiane ed elleniche che testimoniano il suo tentativo di restaurare il culto pagano durante il biennio in cui fu imperatore romano (361-363). Il neoplatonico Giuliano menziona Plotino una volta sola, e riserva la sua venerazione a Giamblico, che uguaglia a Platone e prende a modello, come mostrano gli scritti filosofici131 che rivelano le fonti principali del suo neoplatonismo: Platone, Aristotele e gli Oracoli caldaici132 . L’Orazione VII di Giuliano, pronunciata all’inizio dell’anno 362, è intitolata Contro il cinico Eraclio, su come bisogna condurre la vita cinica e se spetta al cinico comporre miti (Πρὸς Ἡράκλειον κυνικὸν περὶ τοῦ πῶς κυνιστέον καὶ εἰ πρέπει τῷ κυνὶ μύθους πλάττειν). Nel suo ideale di rinnovamento della filosofia degli Antiqui, Giuliano da un lato esprime l’ammirazione per il fondatore del cinismo, Diogene di Sinope (IV sec. a. C.), e dall’altro condanna i cinici del suo tempo che avrebbero traviato e tradito il modello e l’insegnamento originario133. Il Contro Eraclio è dunque la risposta pubblica di Giuliano alla conferenza del suo avversario e detrattore: una contro-invettiva il cui fine è denunciare l’empietà e l’ignoranza di Eraclio, ma anche interrogarsi sulla natura dell’autentico cinismo, riflettendo sul mito e sulle discipline cui spetta l’interpretazione dei miti. Il Discorso procede con la classica suddivisione della filosofia in: fisica, morale e logica, poi Giuliano afferma che solo la teologia delle iniziazioni misteriche e la morale individuale presuppongono l’utilizzo dei miti (Contro Er. 216 B-D, II/1, p. 59 Rochefort):
131 Cf. The Works of the Emperor Julian, with an English Translation by W. Cave Wright, vol. I, London-New York 19302 , pp. VII-XII (Introduction); L’Empereur Julien, Œuvres complètes, Tome I, Partie I, texte établi et traduit par J. Bidez, Paris 1932, pp. XXXII ss. (Introduction). 132 Nel Discorso o Oratio V (162 c-d), infatti, Giuliano afferma: ὅπου γε καὶ τὰς ἀριστοτελικὰς ὑποθέσεις ἐνδεεστέρως ἔχειν ὑπολαμβάνω, εἰ μή τις αὐτὰς ἐς ταὐτὸ τοῖς Πλάτωνος ἄγοι, μᾶλλον δὲ καὶ ταῦτα ταῖς ἐκ θεῶν δεδομέναις προφητείαις («ritengo che anche le ipotesi aristoteliche siano ovunque davvero più inadeguate, se non le si identifica a quelle di Platone, o piuttosto, se non si identificano anche queste alle profezie date dagli dei [scil. gli Oracoli caldaici]»). 133 Cf. J. Bouffartigue, Le cynisme dans le cursus philosophique au IVe siècle: le témoignage de l’empereur Julien, in M.-O. Goulet-Cazé et R. Goulet (edd.), Le cynisme ancien et ses prolongements, Paris 1993, pp. 339-358; K. Döring, Kaiser Julians Plädoyer für den Kynismus, «RhM» 140 (1997), pp. 386-400.
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Di queste parti [scil. della filosofia] appunto, né la logica, né la fisica, né la matematica riguardano la mitografia, ma solo – e ancora! – la morale applicata all’individuo [i.e. l’etica] e la teologia telestica e mistica. “La natura – infatti – ama nascondersi”, e non sopporta che l’aspetto nascosto dell’essenza degli dei sia gettato con termini nudi in orecchie impure. Proprio per questo la natura indicibile e sconosciuta dei caratteri [i.e. dei segni e dei simboli magici] è di aiuto: cura di certo non solo le anime, ma anche i corpi, e procura l’avvento degli dei134.
Senza menzionare Eraclito, Giuliano cita il frammento 123 DK: φιλεῖ γὰρ ἡ φύσις κρύπτεσθαι («La natura – infatti – ama nascondersi»), nella versione di Porfirio ap. Proclo135. Come già Porfirio, Giuliano inserisce la citazione eraclitea in un discorso sull’uso del mito in filosofia, ma, diversamente da lui, rivaluta il mito e lo ricolloca nella parte superiore della teologia, considerando l’esegesi allegorica una delle pratiche della mistagogia136. Il discepolo di Giamblico ritiene che si possa parlare degli dei soltanto in forma mitica, cioè enigmatica e simbolica, e che il mito caratterizzi quella parte della filosofia che comprende i riti e le cerimonie della religione tradizionale e locale, ma anche quelli dei misteri racchiusi nei poemi orfici e negli Oracoli caldaici137. Secondo Giuliano, la «teologia telestica e mistica» è l’insieme delle pratiche ancestrali finalizzate a purificare il rivestimento dell’anima e a far risalire l’anima pura verso gli dei e Dio138. Nel tardo Neoplatonismo, infatti, parte integrante della filosofia teologica è la teurgia, la pratica religiosa pagana che stabilisce il contatto degli uomini sapienti con gli dei attraverso riti liturgici che si avvalgono di «caratteri», cioè segni e simboli magici. La testimonianza di Giuliano esplicita in tal modo elementi disseminati e sottintesi negli altri citatori del frammento eracliteo, a cominciare da Filone. Giuliano ricorre alla parola di Eraclito per mettere in rilievo la polarità tra essere autentico e apparente, vale a dire impercettibile e percettibile, e l’inferiori134 Τούτων δὴ τῶν μερῶν οὔτε τῷ λογικῷ προσήκει τῆς μυθογραφίας οὔτε τῷ φυσικῷ οὔτε τῷ μαθηματικῷ, μόνον δέ, εἴπερ ἄρα, τοῦ πρακτικοῦ τῷ πρὸς ἕνα γινομένῳ καὶ τοῦ θεολογικοῦ τῷ τελεστικῷ καὶ μυστικῷ· "φιλεῖ γὰρ ἡ φύσις κρύπτεσθαι", καὶ τὸ ἀποκεκρυμμένον τῆς τῶν θεῶν οὐσίας οὐκ ἀνέχεται γυμνοῖς εἰς ἀκαθάρτους ἀκοὰς ῥίπτεσθαι ῥήμασιν. Ὅπερ δὲ δὴ τῶν χαρακτήρων ἡ ἀπόρρητος φύσις ὠφελεῖν πέφυκε καὶ ἀγνοουμένη· θεραπεύει γοῦν οὐ ψυχὰς μόνον, ἀλλὰ καὶ σώματα, καὶ θεῶν ποιεῖ παρουσίας. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 8 (d), p. 402; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), T 772, p. 651. 135 Cf. anche lo storico della Chiesa di IV-V secolo d. C. Socrate Scolastico, che fa riferimento alla testimonianza di Giuliano nella sua Historia ecclesiastica III 23, 104. 136 Cf. P. Hadot (2004), op. cit., p. 89. 137 Cf. P. Hadot (2004), op. cit., p. 87. 138 Cf. P. Hadot (2004), op. cit., p. 88.
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tà della percezione rispetto alla visione, che appartiene all’ambito dell’intelletto. Così, per Giuliano l’udito è secondo alla vista e la parola “nuda”, cioè priva del suo corredo rappresentativo, non è sufficiente alla comunicazione della verità assoluta; non solo la rivelazione enigmatica, ma anche la messinscena che l’accompagna è necessaria per comunicare ai più le verità divine nella forma che sono in grado di comprendere. Secondo Giuliano, dunque, «la natura ama nascondersi» di Eraclito significa che la verità si cela nelle formule e nelle pratiche che costituiscono i miti e i riti della religione tardo-neoplatonica. Due anni più tardi, e cioè nel 364, il frammento eracliteo è citato da Temistio, senatore di Costantinopoli, ma anche commentatore neoplatonico di Aristotele, nonché autore di un certo numero di Discorsi. L’Oratio V, intitolata «All’imperatore Gioviano, in occasione del suo consolato» (Ὑπατικὸς εἰς τὸν αὐτοκράτορα Ἰοβιανόν) è un Discorso composto in onore di costui e del figlioletto Varroniano. Il pagano Temistio loda l’imperatore cristiano per la sua difesa della tolleranza religiosa, in nome del Dio unico e inconoscibile che sta alla base della molteplicità dei culti, e che lascia a ciascuno la possibilità di scegliere la propria via verso la pietà. Secondo Temistio, la libertà di culto favorisce lo spirito di competizione ed emulazione che stimola l’uomo ad agire e lo sprona a impegnarsi sul versante religioso, come nel caso degli atleti che percorrono diverse vie per giungere alla comune meta, dove si trova l’unico vero giudice di gara (Or. V, 68 D 7-69 B 7, I, p. 101 Schenkl-Downey): Così tu comprendi che, pur essendo uno solo il grande e vero giudice, la via per giungere fino a lui non è unica, ma c’è la via più impervia e quella più agevole, la via accidentata e quella piana, ciascuna però ugualmente rivolta a quell’unica meta, e la nostra motivazione e competizione non deriva da altro, se non dal fatto che non percorriamo tutti la stessa via. Se tu lasciassi accessibile un solo percorso sbarrando tutti gli altri, bloccheresti il terreno della gara. Questa è l’antica natura degli uomini e il detto “ognuno sacrificava ad uno degli dei” era più antico di Omero (Il. II 400). Forse, infatti, non è gradito a Dio che tra gli uomini vi sia infine un tale accordo. “La natura” secondo Eraclito “ama nascondersi” (22 B 123 DK), e prima della natura [ama nascondersi] l’artefice della natura, che adoriamo e ammiriamo sopra ogni cosa, perché la conoscenza che possiamo avere di lui non è facilmente accessibile, non affiora in superficie, né è gettata dinnanzi a noi: non si riesce ad afferrare senza fatica e “con una mano sola” [cf. Platone, Soph. 226 a]139. 139 οὕτως ἕνα μὲν ὑπολαμβάνεις τὸν μέγαν καὶ ἀληθινὸν ἀγωνοθέτην, ὁδὸν δ᾽ ἐπ᾽ αὐτὸν οὐ μίαν φέρειν, ἀλλὰ τὴν μὲν δυσπορωτέραν, τὴν δὲ εὐθυτέραν, καὶ τὴν μὲν τραχεῖαν, τὴν δὲ ὁμαλήν· συντετάσθαι δὲ ὅμως ἁπάσας πρὸς τὴν μίαν ἐκείνην καταγωγήν, καὶ τὴν ἅμιλλαν ἡμῖν καὶ προθυμίαν οὐκ ἀλλαχόθεν ὑπάρχειν, ἀλλ᾽
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La versione del frammento 123 DK di Eraclito data da Temistio: φύσις ... κρύπτεσθαι φιλεῖ («la natura ama nascondersi») coincide con quelle di Porfirio e Giuliano. Temistio inserisce il detto in un’apologia della libertà religiosa in cui ricorrono terminologia e topoi comuni a cristianesimo e paganesimo, e che si rifà sostanzialmente alla considerazione platonica (Tim. 28 c) dell’estrema difficoltà di conoscere e comunicare l’essenza di Dio, autore dell’universo. Secondo Temistio, infatti, non solo «la natura ama nascondersi», ma anche il suo «artefice»140. La citazione eraclitea serve quindi al citatore per argomentare che sia la natura prodotta sia la Natura produttrice sfuggono all’umana comprensione, perché la Verità è un mistero che trascende le nostre capacità. Secondo Temistio, ciò spiega e giustifica la pluralità religiosa, perché i molteplici culti sono, ciascuno a modo suo, differenti tentativi giungere all’unico Dio141. In questa maniera, Temistio difende esplicitamente la tolleranza religiosa e implicitamente il suo paganesimo neoplatonico: dietro la varietà degli dei particolari e inferiori, vi è il Dio supremo, che coincide con l’Uno e il Bene142 . Sebbene ormai molto lontano dal pensiero presocratico, Temistio cita il frammento di Eraclito e ne offre un’interpretazione tardo-antica che, nella sua peculiare prospettiva, presenta elementi di analogia con le altre testimonianze, e con l’argomento in cui Filone afferma che la natura dell’umana scienza non è superficiale e si trova a prezzo di molte fatiche. E’ del tutto improbabile che Temistio abbia letto Filone, eppure il linguaggio impiegato dai due autori nei rispettivi sviluppi in cui ricorre il detto eracliteo è praticamente lo stesso. E’ ora lecito chiedersi che cosa sia la natura e in che senso ami nascondersi, per Eracli-
ἐκ τοῦ μὴ τὴν αὐτὴν πάντας βαδίζειν. εἰ δὲ μίαν μὲν ἀτραπὸν ἐάσεις, ἀποικοδομήσεις δὲ τὰς λοιπάς, ἐμφράξεις τὴν εὐρυχωρίαν τοῦ ἀγωνίσματος. αὕτη παλαιὰ φύσις ἀνθρώπων καὶ τὸ ἄλλος δ᾽ ἄλλῳ ἔρεζε θεῶν Ὁμήρου παλαιότερον ἦν. μήποτε γὰρ οὐκ ἀρεστὸν τῷ θεῷ ταύτην ἐν ἀνθρώποις γενέσθαι ποτὲ τὴν συμφωνίαν. φύσις δὲ καθ᾽ Ἡράκλειτον κρύπτεσθαι φιλεῖ καὶ πρὸ τῆς φύσεως ὁ τῆς φύσεως δημιουργός, ὃν διὰ τοῦτο μάλιστα σεβόμεθα καὶ τεθήπαμεν, ὅτι μὴ πρόχειρος ἡ γνῶσις αὐτοῦ μηδὲ ἐπιπολῆς καὶ ἐρριμμένη, μηδὲ ἀνιδρωτὶ λαβέσθαι αὐτῆς οἷόν τε καὶ τῇ ἑτέρᾳ. φύσις δὲ καθ᾽ Ἡράκλειτον κρύπτεσθαι φιλεῖ καὶ πρὸ τῆς φύσεως ὁ τῆς φύσεως δημιουργός, ὃν διὰ τοῦτο μάλιστα σεβόμεθα καὶ τεθήπαμεν, ὅτι μὴ πρόχειρος ἡ γνῶσις αὐτοῦ μηδὲ ἐπιπολῆς καὶ ἐρριμμένη, μηδὲ ἀνιδρωτὶ λαβέσθαι αὐτῆς οἷόν τε καὶ τῇ ἑτέρᾳ. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 8 (b), p. 402; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), T 754, pp. 637-638. 140 Cf. P. Hadot (2004), op. cit., p. 85. 141 L’immagine del vero e grande «giudice di gara» (ἀγωνοθέτης) ha un precedente in Filone (Op. 78) e Clemente di Alessandria (Quis div. salv. 3, 6), che paragonano Dio ad un «organizzatore di gare» (ἀθλοθέτης). E nella terminologia degli gnostici Valentiniani, Gesù Cristo è detto ᾿Αγωνιστής, cioè il grande gareggiatore. Cf. Clemente Alessandrino (?), Exc. ex Theod., 58. 142 Cf. P. Hadot (2004), op. cit., p. 86.
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to, al di là dell’interpretazione data dalle fonti, anche se sono le fonti a farci riflettere sulla portata filosofica e religiosa del frammento eracliteo, e sulla sua applicazione ai molteplici aspetti del reale, al divino e all’uomo, alla natura e al linguaggio. 3. «La natura ama nascondersi» (fr. 123 DK) di Eraclito Il frammento 123 DK di Eraclito: «la natura ama nascondersi» ((ἡ) φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ) ci è giunto attraverso la trasmissione indiretta di vari autori, il primo dei quali è Filone di Alessandria, che lo utilizza in cinque luoghi di esegesi allegorica della Bibbia. In QG 4.1, Filone afferma che la quercia di Mambre presso cui Dio appare ad Abramo in Genesi (18:1-2) è «secondo Eraclito la nostra natura che ama nascondersi» (secundum Heraclitum natura nostra, quae se (obducere ac) abscondere amat). Nel contesto dell’Alessandrino, il detto eracliteo assume una portata sia fisica sia metafisica, non solo ontologica, ma anche logica e gnoseologica. Per Filone «la natura» dell’essere umano «ama nascondersi» nel corpo materiale e sensibile in cui abita, ma l’anima pura può essere illuminata dalla luce divina e vedere la Verità velata – e rivelata – nel racconto biblico. Il detto, senza menzione di Eraclito, ricorre anche in altri commentari. In Mut. 60, Filone sostiene che le espressioni del linguaggio sono simboli della «natura che ama ... nascondersi» (φύσεως τῆς ... κρύπτεσθαι φιλούσης), e quando la realtà dell’entità nominata cambia, anche il suo nome subisce una trasformazione. In Fug. 179, «la natura» di ogni cosa «ama nascondersi», perché si cela nei termini enigmatici degli “oracoli” della Scrittura, che solo gli “iniziati” all’allegoresi possono comprendere (Cont. 28). In Somn. 1.6, «la natura» che «ama nascondersi» è quella della conoscenza umana, che per l’Alessandrino è profonda e oscura come il suo oggetto d’indagine; in Spec. 4.51, infine, Filone afferma che «la natura» non «ama nascondersi» per sempre, perché la verità divina si svela necessariamente al momento opportuno. I filosofi romani contemporanei di Filone (I sec. a. C.-I sec. d. C.) forniscono solo qualche eco lontana del frammento, senza menzione di Eraclito, lamentando l’incapacità umana di cogliere il divino che si nasconde nel cosmo e al di là di esso: Manilio e Seneca, oltre a Cicerone, dimostrano che l’oscurità della natura, i suoi arcani e i suoi segreti, sono un topos filosofico dell’epoca. Il neoplatonico Porfirio (III sec.), invece, ricorre al detto di Eraclito «la natura ama nascondersi» (ἡ φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ) a proposito dell’utilizzo filosofi-
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co del mito nella “teologia fisica” o “fisica teologica”: la scienza neoplatonica che si occupa del divino che ha commercio con la Natura ed esprime le verità che lo riguardano attraverso la narrazione mitica. Giuliano e Temistio (IV sec.) ritengono che «la natura ama nascondersi» nei riti e nelle cerimonie liturgiche che accompagnano la rivelazione della verità, dunque nel culto religioso. La complessa testimonianza di Filone, a tutt’oggi mai studiata in modo dettagliato ed esaustivo, manifesta la fortuna del frammento di Eraclito all’inizio della nostra era, e ne rappresenta un singolare esempio di adozione e adattamento in ambito giudeo-alessandrino. L’Alessandrino offre diverse applicazioni della parola eraclitea che, analizzate criticamente rispetto alla stratificazione delle interpretazioni nella storia della filosofia antica, gli permettono di guadagnare un posto e un ruolo preciso nella tradizione come anello della catena di trasmissione della parola e della dottrina eraclitea. Filone non cita Eraclito per far conoscere il suo scritto o far comprendere il suo pensiero, ma impiega una formula – di origine eraclitea – probabilmente divenuta di uso comune nel suo ambiente filosofico e nell’insegnamento scolastico del suo tempo; in questo modo, l’Alessandrino non ci guida direttamente verso il significato originario del detto, ma fornisce qualche elemento per ripensarlo. Il frammento 123 DK di Eraclito si presenta come un’unità densa, densissima, di significato che appartiene a un «discorso» (λόγος), innanzitutto orale e in secondo luogo scritto, caratterizzato dalla laconicità della forma e dall’enigmaticità del contenuto. La scrittura eraclitea, già considerata nella retorica antica un prototipo di oscurità143, è infatti elaborata come un calco o un riflesso della realtà che descrive144: una «guerra» (πόλεμος)145 incessante tra principi ed elementi contrari che si risolve nella «congiunzione» (harmoniê) (ἁρμονίη)146 equilibrata del tutto cosmico. Eraclito scrive in prosa
143 Famoso è il testo di Aristotele (Ret., 1407 b 11= 22 A 4 DK) che denuncia la difficoltà di punteggiare il testo eracliteo, in cui non si capisce se una certa parola vada con quanto precede o con quanto segue. Cf. M. Fuhrmann, Obscuritas. Das Problem der Dunkelheit in der rhetorischen und literarästhetischen Theorie der Antike, in W. Iser (a cura di), Poetik und Hermeneutik, II: Immanente Ästhetik. Ästhetische Reflexion. Lyrik als Paradigma der Moderne, München 1966, p. 70. 144 Cf. M.M. Sassi, Gli inizi della filosofia: in Grecia, Torino 2009, pp. 150-164, ma già Mour., op. cit., III.3.A. (2002), p. 407. 145 22 B 53 DK, in cui è detto che Polemos è padre e sovrano di tutte le cose. 146 Cf. 22 B 8 e 51 DK, ma soprattutto 54 DK, in cui Eraclito considera l’armonia invisibile migliore di quella apparente.
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ritmica147, usa procedimenti sintattici come l’asindeto e figure stilistiche come la paronomasia, gioca con la flessibilità dell’ordine delle parole nella lingua greca, si muove consapevolmente e sapientemente tra polifonie e polisemie, paronimie, omonimie e sinonimie148: di qui l’eccezionale costruzione e la straordinaria efficacia del suo discorso, udito o letto che fosse. E’ anche probabile che l’esposizione di questo discorso si presentasse come una serie di frasi – o di parti di esse – accoppiate due a due, l’una il complemento e il pendant dell’altra149; la rispondenza dei membri antitetici della frase, o l’equilibrio tra espressioni parallele, infatti, riflette la concezione eraclitea dell’unità del reale nella duplicità delle sue manifestazioni. Eraclito avrebbe allora formulato una teoria filosofica e proposto una pratica poetica, perché ciascuno potesse esperire, tramite il suo discorso, la natura della realtà. Se così fosse, Filone e le altre fonti citerebbero solo una parte del frammento, che sarebbe stata preceduta o seguita da un’altra sentenza correlata ad essa, cioè ai termini e ai concetti di natura e nascondersi. Nella lingua e nel pensiero del V secolo a. C., il termine φύσις (legato al verbo φύω, «far nascere/crescere» o «nascere/crescere») significa la «natura» propria ad ogni ente, la forza e il processo di genesi e costituzione, trasformazione e sviluppo – ma anche la causa e l’effetto di tale processo – grazie al quale le cose appaiono150, nascono, laddove κρύπτεσθαι indica l’opposto «nascondersi», cioè lo sparire o svanire. Così, in base alla concezione eraclitea dell’unità dei contrari della realtà151, e l’associazione ricorrente dei contrari “vita” e “morte”152, il fram-
147 Cf. K. Deichgräber, Rhytmische Elemente im Logos des Heraklit, Abhandlungen der Akademie der Wissenschaften und der Literatur – Wiesbaden. Geistes- und Sozialwissenschaftliche Klasse IX (1962), pp. 477-552. 148 Sull’argomento si è specializzato S.N. Mouraviev, Poétique et philosophie chez Héraclite. Introduction à la problématique (thèse), Paris 1996; Mour., op. cit., III.3.A (2002): Le langage de l’Obscur. Introduction à la poétique des fragments, che critica l’uso della metrica quantitativa alle pp. 53 ss. 149 Cf., per esempio, 22 B 10 DK o 62 DK. 150 Cf. G. Naddaf, Le concept de nature chez les Présocratiques [2005], traduit de l’anglais par B. Castelnérac, Paris 2008, pp. 22 ss. 151 Cf. soprattutto 22 B 59-67 DK, in cui Eraclito fornisce numerosi esempi della coincidenza degli opposti. 152 Cf. 22 B 20, 36, 48, 62, 76 DK in cui ricorre l’identificazione degli opposti vita e morte, vivere e morire, vivente e morto. Come la Demetra dei misteri eleusini, infatti, anche l’Artemide di Efeso, cui Eraclito dedicò il libro Sulla natura (cf. Diogene Laerzio, IX 6), rappresenta la dea della fecondità, cioè della fertilità del suolo e del rinnovamento continuo della vita e della generazione, quindi anche dell’immortalità dell’anima (cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., pp. 59-60).
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mento potrebbe significare, come è stato sostenuto153 (in senso attivo): ciò che fa apparire tende a far sparire, ciò che fa nascere tende a far morire; oppure (in senso passivo): ciò che appare tende a sparire, ciò che nasce vuole e deve morire. Secondo questa interpretazione, per Eraclito, l’attività unificatrice della natura – considerando il valore soggettivo e oggettivo del genitivo – sarebbe la stessa forza separatrice, in base alla quale l’essere reale di ogni cosa si mostra e si cela nella sua apparenza sensibile, viene alla luce e si nasconde nell’oscurità, “nasce” e “muore” nel ciclico alternarsi in cui consistono la “vita” e la “morte” del macrocosmo universale e del microcosmo umano. Lo suggeriscono alcuni paralleli presocratici, come il tragico Sofocle (V sec. a. C.)154, secondo cui «il lungo tempo incommensurabile fa venire alla luce tutte le cose non visibili e nasconde quelle visibili» (Ἅπανθ᾽ ὁ μακρὸς κἀναρίθμητος χρόνος φύει τ᾽ ἄδηλα καὶ φανέντα κρύπτεται), ma soprattutto il filosofo Empedocle di Agrigento (V sec. a. C.)155, per il quale (31 B 110 DK) «non vi è nascita di nessuna delle cose mortali, né alcuna fine nella morte definitiva, ma vi è solo mescolanza e separazione di cose mescolate, ed è questo che gli uomini intendono con il termine “nascita”» (φύσις οὐδενὸς ἔστιν ἁπάντων θνητῶν, οὐδέ τις οὐλομένου θανάτοιο τελευτή, ἀλλὰ μόνον μίξις τε διάλλαξίς τε μιγέντων ἔστι, φύσις δ᾽ ἐπὶ τοῖς ὀνομάζεται ἀνθρώποισιν). Secondo Empedocle, dunque, gli esseri non nascono, né muoiono, ma tutte le cose si trasformano unendosi e dividendosi: ed è questo che gli uomini chiamano physis, cioè nascita, perché la “natura” di ogni individuo riposa nel suo sviluppo intrinseco. Ora, i contesti filoniani sull’allegoresi, prima di quelli neoplatonici sul mito e sul rito, inducono a pensare che la dottrina eraclitea riguardasse non solo il cosmo e l’uomo, ma anche il linguaggio e il discorso. Ciò non significa che Eraclito propugnasse o incoraggiasse l’interpretazione allegorica ante litteram dei poemi considerati sacri156 – inni e preghiere, invocazioni o evocazioni –, peraltro in uso nelle prime comunità orfiche, ma solo che abbia manifestato uno spiccato interesse per il senso profondo dei nomi e delle parole; di conse-
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Cf. P. Hadot (2004), op. cit., pp. 25 ss. Cf. Sofocle, Aiace 646 ss. 155 Cf. 31 B 8 DK. 156 Al contrario, in diversi frammenti (22 B 40, 42, 56, 57, 81, 105, 106, 129 DK) Eraclito condanna la πολυμαθίη di sapienti e poeti come Omero, Esiodo e Pitagora, la cui supposta scienza, cioè erudizione, e conseguente fama non corrispondono alla reale comprensione e conoscenza dell’unico principio materiale e divino che domina la realtà. 154
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guenza, l’Oscuro ha anche riflettutto sul senso dei miti e dei riti della sua epoca e della sua città. Nel più antico testo papiraceo greco di cui disponiamo, il Papiro di Derveni (IV sec. a. C.), Eraclito è citato alla quarta colonna: l’ignoto autore orfico si serve delle parole eraclitee per interpretare i versi della poesia attribuita a Orfeo157, cercando nel nostro filosofo elementi di analogia con le concezioni orfiche e perciò utili per il commento del testo orfico. In nessun frammento conservato Eraclito teorizza esplicitamente quell’allegoresi dell’antica mitologia teogonica e cosmogonica158, già familiare a rapsodi come Teagene di Reggio159, utilizzata da Platone e pienamente sviluppata
157 Si tratta di un papiro rinvenuto in Grecia (a Derveni, appunto) nel 1962, all’interno di una tomba, tra i resti di una pira funeraria, e risalente al IV secolo (340-320) a. C. Composto di 200 frammenti disposti in 26 colonne, il Papiro può essere diviso in due parti: le prime sei colonne sono dedicate alla descrizione di credenze e pratiche iniziatorie dell’orfismo, considerato il punto d’intersezione della corrente bacchica, pitagorica ed eleusina; le altre venti, all’interpretazione allegorica della teogonia orfica. Eraclito è citato alla quarta colonna e sembra rappresentare l’anello di congiunzione delle due parti del papiro, poiché la cosmologia presocratica è utilizzata dall’autore per spiegare e commentare i passi della poesia di Orfeo. Eraclito potrebbe infatti esser rimasto affascinato dal pensiero di Orfeo, e aver riutilizzato la sua descrizione del mondo attraverso gli opposti e la loro unità e/o reciproca interrelazione. L’autore di Derveni, a sua volta, potrebbe aver ripreso dallo scritto di Eraclito ciò che gli serviva per commentare i versi degli antichi Orfici, mentre Orfici posteriori potrebbero essersi ispirati a Eraclito per comporre testi che sarebbero stati aggiunti in seguito al canone orfico. Questa è l’ipotesi di D. Sider, Heraclitus in the Derveni Papyrus, in A. Laks and G.W. Most (edd.), Studies on the Derveni Papyrus, Oxford 1997, pp. 129-148. Per approfondimenti, si consultino anche Le Papyrus de Derveni, traduit et présenté par F. Jourdan, Paris 2003; G. Betegh, The Derveni Papyrus: Cosmology, Theology and Interpretation, Cambridge 2004. La più recente edizione del testo è T. Kouremenos, G.M. Parássoglou, K. Tsantsanoglou (edd.), The Derveni Papyrus, Edited with Introduction and Commentary, Firenze 2006. 158 Cf. J. Pépin (1958), op. cit., pp. 94 sgg. 159 Come mostra uno scolio porfiriano stoicizzante (Quaest. Hom. I 240, 14, ap. Sch. B in Il. XX 67), confermato dalle notizie di Taziano (Orat. ad Graec., 31, 3) e della Suda (8 B 3 e 4 DK), Teagene di Reggio (VI sec. a. C.) sarebbe stato non solo un cantore, cioè un esecutore, ma anche un esegeta di poemi omerici (ad esempio, della celebre battaglia degli dei dell’Iliade), il cui significato profondo era affidato a termini allusivi da interpretare allegoricamente; e secondo altre testimonianze (7 B 1-13 DK) il contemporaneo Ferecide di Siro, considerato leggendariamente il maestro di Pitagora, non sarebbe stato estraneo alle allegorie naturalistiche, nelle quali le divinità venivano rappresentate come principi e forze cosmiche. (Cf. F. Wehrli, Zur Geschichte der allegorischen Deutung Homers in Altertum, Borna-Leipzig 1928, pp. 91 ss.; F. Buffière, Les Mythes d’Homère et la pensée grecque, Paris 1956, pp. 10 e passim, J. Pépin (1958) op. cit., pp. 97-98; R. Pfeiffer, Storia della filologia classica dalle origini alla fine dell’età ellenistica, Napoli 1973, pp. 52-55). Secondo altre fonti (Diogene Laerzio, II 11), Anassagora di Clazomene (V sec. a. C.) sarebbe stato il primo a dare un senso etico ai poemi omerici e il suo allievo Metrodoro di Lampsaco (cf. Platone, Ione 530 d ss.) l’avrebbe assecondato nell’interpretazione “fisica” degli stessi, come anche Diogene di Apollonia (64 A 8 DK) o ancora Democrito di Abdera (68 A 33; B 20a DK), che interpretava Omero secondo allegorie fisiche ed etiche.
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dagli Stoici in epoca ellenistica. L’Efesio non sembra legato alla tradizione rapsodica, come invece Senofane di Colofone (VI-V sec. a. C.), ma piuttosto a quella misterica, se si considera il suo discorso come la rivelazione di una verità rivolta a un pubblico ristretto e selezionato, espressa con parole enigmatiche e in tono profetico. Caratteristico di Eraclito è l’atteggiamento da ierofante assunto nei confronti dei suoi uditori160, cui vanno aggiunti il carattere conciso e incisivo di certe sue affermazioni161, che ricorda le massime gnomiche dei Sette sapienti, e il riferimento all’espressione criptica dei responsi oracolari di Apollo delfico162 , che necessitano una corretta interpretazione; di recente, infatti, si è parlato degli “oracoli di Eraclito”163. Lo stesso Filone comincia uno dei suoi commentari maggiori, La creazione del mondo (1), dicendo che Mosé si distingue dai legislatori che hanno prescritto ciò che gli sembrava giusto con parole «senza ornamenti» (ἀκαλλώπιστα)164, termine usato da Eraclito (B 92 DK) a proposito del linguaggio della Sibilla che parla con bocca delirante, e proferisce oracoli divini che attraversano il tempo senza sorrisi o profumi. La comunicazione di verità filosofiche tramite espressioni efficaci e immagini pregnanti è la risposta personale di Eraclito alla poesia epica e alla fisica ionica: una critica correttiva di concezioni anteriori e credenze tradizionali, e un’elaborazione alternativa a quella di altri sapienti contemporanei. Il discorso eracliteo è innovativo nel messaggio e sofisticato nell’esposizione: secondo Eraclito, l’universo si comprende e si spiega in termini affini ad esso, perché il linguaggio riproduce il reale, e il vero è l’«etimo» (ἔτυμον), cioè il significato di una parola secondo la natura della cosa corrispondente; di qui l’arcaica identificazione tra verità e realtà. La filosofia eraclitea della natura, tramite la mediazione platonico-aristotelica, dunque, è solo in parte e solo in certo senso all’origine dell’allegorismo “naturalistico” che contraddistinguerà l’interpreta-
160 Già nel primo frammento (22 B 1 DK) Eraclito considera non-iniziati quanti ci accingono ad ascoltarlo, come nota giustamente M.M. Sassi (2009), op. cit., p. 158, rinviando, tra gli altri, allo studio di B. Schefer, «Nur für Eingewehite!» Heraklit und die Mysterien, «Antike und Abendland», XLVI (2000), pp. 46-75. 161 Cf. 22 B 112 o 116 DK. 162 Cf. 22 B 92 e 93 DK. 163 J. Warren intitola il quarto capitolo della sua originale introduzione alla filosofia presocratica (Presocratics, Stocksfield 2007, pp. 57-76) «The Oracles of Heraclitus». 164 Cf. H. Diels-W. Kranz (1951-52), op. cit., vol. III, p. 619.
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zione stoica della poesia omerica (ed esiodea)165 e confluirà nell’esegesi biblica di Filone, che dipende a sua volta anche dalle tradizioni della sinagoga ellenistica166, quindi dagli esegeti alessandrini contemporanei e anteriori ad Aristobulo. Nella storia evolutiva dello ἱερòς λόγος dei Greci – il discorso sacro sul divino – tra la fase omerica del racconto mitico e quella platonica della speculazione metafisica si colloca la fase eraclitea del discorso fisico167. Ciò non significa che Eraclito sia un precursore dell’allegoresi filoniana; d’altronde, per Filone, «la natura che ama nascondersi» è in generale quella del significato profondo delle cose. La suggestione che si ricava dallo studio dei contesti citatori del frammento 123 DK, a cominciare da quelli di Filone, è l’idea che il naturalismo di Eraclito comporterebbe anche un abbozzo di teoria onomastica e più generalmente linguistica, idea che pare confermata da altri frammenti eraclitei ed è in linea con la speculazione filosofica e religiosa di altri Presocratici. Secondo Eraclito, infatti, l’unico sapiente vuole e non vuole essere chiamato con il «nome di Zeus» (Ζηνὸς ὄνομα)168, perché il dio cambia sempre di aspetto o funzione e quindi di denominazione, come il fuoco che «è chiamato» (ὀνομάζεται) con il nome del profumo che brucia169; e ancora, gli uomini non avrebbero avuto bisogno del «nome di giustizia» (Δίκης ὄνομα) se le cose ingiuste non esistessero170; il «nome dell’arco» (τόξωι ὄνομα) è βιός, cioè «vita» (βίος), mentre il risultato della sua azione è la morte171. Se Senofane è il Presocratico che ha preparato il campo dell’analisi logi172 ca , Eraclito sembra essere il primo filosofo173 ad aver concepito e scritto una 165 Come si diceva, l’allegoresi vetero-stoica del mito teologico, inaugurata da Zenone di Cizio, ha forse derivato dal socratico-cinico Antistene (V-IV sec. a. C.), cioè dal suo studio linguistico-semantico dei nomi divini, l’assunto dell’esistenza di un unico dio che tutto pervade e di cui gli dei della tradizione sono espressioni parziali (SVF I 164, 2). E dopo il vetero-stoico Cleante e il suo allievo Crisippo, furono i discepoli del mediostoico Panezio, Apollodoro di Atene (discepolo anche di Diogene di Babilonia) e Cratete di Mallo (II-I sec. a. C.) a dedicarsi all’interpretazione allegorica, contemporaneamente al giudaicoalessandrino Aristobulo; seguirono lo stoico romano Anneo Cornuto (I sec. d. C.) e lo stoico egiziano Cheremone, contemporanei di Filone (cf. I. Ramelli, G. Lucchetta (2004), op. cit., pp. 72, 403 ss.). 166 Cf. V. Nikiprowetzky (1977), op. cit., pp. 179-180. 167 Cf. W. Burkert (2003), op. cit., p. 68. 168 22 B 32 DK. 169 22 B 67 DK. 170 22 B 23 DK, che Mour. op. cit., III.3.B/1 (2006), p. 69 ricostruisce in altro modo. 171 22 B 48 DK. 172 Cf. Aristotele, El. Soph. 183 b 25 ss. 173 Anche Senofane pare aver manifestato preoccupazioni gnoseologiche – come la differenza tra conoscenza umana e divina, conoscenza sensibile e razionale – estranee ai poeti epici e ai fisici ionici. Ma
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cosmologia che è una teoria ontologica e una pratica linguistica, una fisica che è anche una metafisica della parola. Dopo di lui Democrito di Abdera (V sec. a. C.) ha definito l’ente in termini di atomi, e l’atomo democriteo non deve essere inteso come un corpuscolo materiale, ma piuttosto come un’idea174: «forma» nel senso pre-platonico del termine175, vale a dire il tratto costitutivo e distintivo di ogni cosa, l’aspetto caratteristico di ciascuna realtà; non tanto e non solo l’apparenza visibile, ma il tipo o la specie, cioè la natura che si coglie tramite quella visione non sensoriale che è la comprensione degli elementi e dei principi. E questa forma non è essere, bensì ciò che determina e garantisce la sussistenza dell’essere, e perciò qualcosa che appartiene alla sfera del non-essere176. Per Democrito, infatti, l’essere (gli atomi) non esiste più del non-essere (il vuoto)177, non è una cosa o una qualità più di un’altra178, perché le affezioni relative ai nostri sensi non sono entità reali, pur essendo legate all’essere reale degli atomi (e del vuoto) che le produce, né i nomi che le designano sono entità reali, ma il risultato di una convenzione. E siccome il linguaggio veicola la conoscenza delle cose invisibili, oltre che di quelle visibili, conoscere le forme significherebbe per Democrito poter parlare veramente della realtà, cioè comprendere e comunicare – ovvero nominare – la natura delle cose. Il contemporaneo e concittadino Protagora179 ha anch’egli cercato di delucidare la differenza tra ciò che è e ciò che non è, affermando che l’uomo è misura di tutte le cose e può tenere discorsi duplici, cioè uguali e contrari, su ogni cosa. Per questa ragione, a suo avviso, l’essenza della realtà ci sfugge e ne cogliamo solo l’apparenza, perché non siamo in grado di dire se una certa real-
una riflessione più consapevole e strutturata sul linguaggio sembra essere propria del naturalismo di Eraclito. 174 Democrito è infatti l’autore di un trattato Περὶ ἰδεῶν: «Sulle Forme» (Cf. 68 B 5i et 6 DK), identificato con quello Sui differenti ritmi, come ricorda P.-M. Morel, Démocrite et la recherche des causes, Klincksieck 1996, p. 372. Lo studio stoico sull’atomo-idea di Democrito è quello di E. Alfieri, Atomos Idea. L’origine del concetto dell’atomo nel pensiero greco, Firenze 1953, Galatina 1979. 175 Cf. Senofane (21 B 15 DK), Empedocle (31 B 35 DK) o Anassagora (59 B 4 DK). 176 Cf. H. Wismann, Réalité et matière dans l’atomisme démocritéen, in F. Romano (ed.), Democrito e l’atomismo antico, Catania 1980, pp. 61-74; Id., La logique de l’atome: à propos de la théorie démocritéenne de la connaissance, in J. Petitot (dir.), Logos et théorie des catastrophes (À partir de l’œuvre de René Thom), Genève 1988, pp. 473-486. Lo stesso autore ritorna sulla questione nel suo ultimo libro: Id, Les avatars du vide. Démocrite et les fondements de l’atomisme, Paris 2010. 177 Cf. A. Hourcade, Atomisme et sophistique. La tradition abdéritaine, Bruxelles 2009, pp. 47-52. 178 Cf. 68 B 134 o 156 DK. 179 Cf. 80 A 1 DK e passim.
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tà è, né tantomeno che cos’è. Sembra dunque che sia Democrito sia Protagora abbiano recuperato e sviluppato la filosofia della natura di Eraclito che è anche una filosofia del linguaggio. Democrito in particolare, uno dei più enciclopedici e prolifici autori dell’Antichità, avrebbe prodotto una risposta alla fisiologia di Eraclito, all’ontologia di Parmenide, ma soprattutto alla sofistica di Protagora, contro cui aveva d’altronde scritto un trattato180. Constatando lo scarto tra l’oggetto reale e la nostra concezione personale, e ponendosi il problema dell’adeguazione tra il discorso e l’essere, cioè riflettendo sulla sfera intermediaria del vero, della parola e della comunicazione, sarebbe giunto ad asserzioni come «la verità è nell’abisso» (ἐν βυθῶι ἡ ἀλήθεια), le quali dimostrano che le considerazioni logico-linguistiche sono parte integrante della fisica presocratica. L’associazione dei contrari, che caratterizza la riflessione eraclitea, è invece tipica dell’esperienza misterica, in cui la realtà è concepita tramite concetti contrastanti e la verità è espressa in termini antitetici quali luce-oscurità o giorno-notte. Rilevante è l’affinità tra alcuni frammenti eraclitei e le sequenze verbali iscritte sulle tavolette d’osso orfiche rinvenute a Olbia Pontica, colonia milesia sul Mar Nero, e risalenti al V secolo a. C181. Oltre alla più antica menzione del termine «orfici» (Ὀρφικοί), vi si leggono antitesi quali «vita morte vita» (βίος θάνατος βίος) – il ciclico vivere-morire-rivivere è infatti caratteristico della credenza nell’immortalità dell’anima delle religioni misteriche – , ma anche «verità falsità» (ἀλήθεια ψεύδος)182 . La forma e il contenuto del frammento 123 DK in particolare e dello scritto eracliteo in generale, basato sulla problematica fisica, e caratterizzato da questioni ontologiche e logiche, hanno quindi paralleli significativi tanto nella speculazione filosofica di alcuni pensatori presocratici, quanto nella liturgia di gruppi religiosi identificabili. Lo testimonia anche Platone, che nel Cratilo si preoccupa dell’ermeneutica presocratica basata sull’etimologia, e degli esperimenti onomatologici degli Eraclitei e degli Orfici183.
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Cf. 68 A 114 e B 156 DK. Cf. L. Zhmud, Orphism and Graffiti from Olbia, «Hermes» CXX (1992), pp. 159-168. 182 Cf. A. Bernabé (ed.), Poetae Epici Graeci, Pars II. Orphicorum et Orphicis similium.Testimonia et Fragmenta, Fasc. 1, Munich-Leipzig 2004, 463 T-464 T, pp. 390-391. 183 Sull’argomento, si consulti R. Barney, Names and Nature in Plato’s Cratylus, New York 2001. 181
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I paralleli lasciano pensare che, secondo Eraclito, la natura naturans, cioè il divino unico e primordiale, coincida con la natura naturata, vale a dire l’insieme della realtà in tutti i suoi aspetti, e che questa natura sia caratterizzata dal fatto di apparire e scomparire trasformandosi continuamente da un contrario all’altro, cioè di sussistere come “principio” e risultato, processo e “sostrato”. Il termine physis ricorre anche in un altro frammento (106 DK), in cui Eraclito afferma che «la natura di ogni giorno è una» (φύσιν ἡμέρας ἁπάσης μίαν), non tanto e non solo perché non vi è differenza tra giorni fasti e nefasti184, ma anche e soprattutto perché la luce si accende all’alba di ogni giorno per poi spegnersi al tramonto, quando comincia la notte. Il sole rappresenta la regolarità – cioè la misura equa e giusta – dell’universo, perché il suo movimento giornaliero inizia e finisce sempre in tempi e luoghi precisi e fissi185; e per Eraclito, che critica Esiodo, giorno e notte sono uno, cioè fanno tutt’uno186. L’idea del “nascondersi” appare invece nel detto (16 DK): «Come potrebbe uno in qualche modo sfuggire a ciò che non tramonta mai?» (τὸ μὴ δῦνόν ποτε πῶς ἄν τις λάθοι), che rinvia all’idea della visione completa e continua della realtà: quella del sapiente Eraclito o del principio divino dotato di sapienza. Questo frammento, ad esempio, potrebbe essere candidato a rappresentare la seconda parte del detto eracliteo, di cui Filone e gli altri testimoni citano probabilmente solo la prima parte. E’ dunque lecito pensare che il libro di Eraclito fosse un logos – nel senso di discorso umano – sul logos – nel senso di principio cosmico –, cioè il resoconto del sapiente Sulla natura187, dunque una politogonia e/o una politologia, una serie continua o un insieme coerente di aforismi188 ad argomento tanto cosmogonico quanto antropologico, fisiologico e psicologico, finalizzati a mostrare che la parola umana, con i suoi nomi e lettere, si identifica con la stessa struttura cosmica, con i suoi corpi ed elementi. Eraclito avrebbe intuito che l’unico principio dell’universo si manifesta in una molteplicità di aspetti e può ricevere tanti nomi quante sono le forme che prende, poiché l’identità e la di184 Plutarco (Camill. 19), che è la fonte principale del frammento eracliteo (22 B 106 DK), lo interpreta come una critica alla credenza popolare, rappresentata da Esiodo, Op. 765 ss., secondo cui vi sarebbero giorni buoni e giorni cattivi. Cf. anche l’accusa eraclitea ad Esiodo per aver distinto la Notte dal Giorno e fatto dell’una la madre dell’altro (22 B 57 DK). 185 Cf. 22 B 94 DK. 186 Cf. 22 B 57 DK. 187 Cf. 22 A 1 DK e passim. 188 Cf. J. Warren (2007), op. cit., p. 59.
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versità del divino si riflette nella sua denominazione, anzi nelle sue innumerevoli coppie di denominazioni opposte. Emblematico è il frammento in cui egli afferma che il divino si identifica con tutti i contrari che esistono in natura, paragonando l’unico principio cosmico al fuoco dell’altare sacrificale su cui vengono bruciati vari tipi di incenso: diversi per il profumo e nel nome, ma riducibili a una sola sostanza o essenza189. Per questo, inoltre, l’Efesio polemizza contro la maniera sacrilega, vale a dire “innaturale”, di impiegare certe formule e praticare certi riti ignorandone il senso, cioè senza sapere che sottintendono l’intuizione di una profonda verità, divina e umana: l’identità dei contrari Dioniso – dio della vitalità sessuale e della resurrezione, ma anche del vino e dell’umidità190 – e Ade – dio della morte191. Eraclito avrebbe così inteso spiegare la natura di ogni cosa192 dicendo come essa si realizza dall’inizio alla fine della sua esistenza, come si evolve e si sviluppa cambiando, cioè venendo alla luce per poi sparire alla vista, nel gioco tra il visibile e l’invisibile, nella dinamica della veglia e del sonno (della comprensione e dell’ignoranza), nel passaggio dall’apparenza al senso (dal fenomeno al principio), ma anche facendo capire come il nome, con i suoi suoni e segni, rappresenta naturalmente la cosa, è dato a ogni cosa per natura. Secondo Eraclito, dunque, «la natura ama nascondersi» perché tutto appare come tale e scompare in una cosa diversa, si manifesta e si cela passando da un contrario all’altro e dunque divenendo altro, nella trasformazione di ogni singolo essere e dell’intero cosmo nel suo opposto.
189
Cf. 22 B 67 DK. Cf. W. Otto, Dionysus Myth and Cult, Bloomington-London 1965, 1995, p. 160. 191 Cf. 22 B 15 DK. Sulla condanna eraclitea di molti aspetti della religione popolare, considerata sciocca superstizione o delirio di massa, e non vera sapienza dell’unico o dei pochi saggi, cf. inoltre 22 B 5 e 14 DK, ma anche 68 e 69 DK. 192 Cf. 22 B 1 DK. 190
II. L’UNITÀ DEI CONTRARI
1. Filone sulla dottrina eraclitea dei contrari: la creazione dicotomica Dopo aver determinato il contributo di Filone alla tradizione del frammento 123 DK di Eraclito («la natura ama nascondersi»), la ricerca prosegue ora con l’esame della testimonianza filoniana sulla dottrina eraclitea dei contrari. Questo caso è diverso dal precedente, perché l’Alessandrino menziona Eraclito e fa riferimento al suo pensiero senza citare letteralmente nessun frammento del suo scritto. E precisamente, in due diversi luoghi esegetici, Quaestiones (et Solutiones) in Genesim 3.5 e Quis rerum divinarum heres sit 214 – con lo stesso sotto-testo biblico (Gen. 15:10) – Filone evoca la dottrina dei contrari di Eraclito che considera debitrice dell’insegnamento della Scrittura. Prendiamo le mosse dalla testimonianza più breve, per poi passare al più complesso commentario esegetico in cui Filone ricorre a Eraclito. 1.1. Le bipartizioni della natura L’inizio del terzo libro delle Quaestiones (et Solutiones) in Genesim non è stato preservato nell’originale greco, ma solo in versione armena. QG 3.5, in particolare, è una domanda-risposta sul testo di Genesi 15:9, in cui Dio sancisce la promessa di discendenza fatta ad Abramo ordinandogli di prendere per Suo conto una giovenca, una capra, un ariete, una tortora e un piccione per poi sacrificarli, eccetto gli uccelli. Il passo biblico prosegue con la descrizione dell’azione sacrificale (Gen. 15:10): «[Dio attraverso Abramo] li [scil. gli animali del sacrificio] divise a metà e pose [le parti] l’una di fronte all’altra» (διεῖλεν αὐτὰ μέσα καὶ ἔθηκεν αὐτὰ ἀντιπρόσωπα ἀλλήλοις).
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PARTE PRIMA. LA NATURA
Il rituale della dissezione degli animali, destinato a consolidare una promessa, permette di comprendere l’espressione ebraica «tagliare» un’alleanza (kārat berīt), mentre il traduttore della Settanta rende l’idea di stringere un patto impiegando diversi verbi della lingua greca1. Filone, dal canto suo, utilizza il vocabolario della divisione per esporre la dottrina, che considera biblica, della bipartizione di ogni natura in due metà uguali e contrarie: a questo proposito menziona Eraclito e la sua scienza dei contrari. Ecco Filone, QG 3.52: [Che cosa significa “Li [scil. gli animali del sacrificio] tagliò a metà e pose [le parti] l’una di fronte all’altra”? (Gen. 15:10)] Anche la struttura del corpo nella sua costituzione d’insieme è fatta in questo modo: le parti gemelle sono proprio come divise e poste l’una di fronte all’altra, ma si inclinano, cioè si rivolgono l’una verso l’altra per una naturale cooperazione, poiché il Creatore della vita le ha così divise a scopo utilitario, affinché si fronteggino reciprocamente e si servano mutuamente volgendosi simultaneamente e congiuntamente verso il servizio necessario. [...] Queste divisioni delle nostre componenti nel corpo e nell’anima sono dunque state fatte dal Creatore. Bisogna sapere, tuttavia, che anche le parti del mondo sono state suddivise in due e poste l’una di fronte all’altra. La terra si divide in montagna e pianura; e l’acqua, in “dolce” e “salata”: dolce [i.e. potabile] è quella fornita da fonti e fiumi, salata, invece, quella del mare; così anche l’aria [si divide] in “inverno” ed “estate”, e ancora, in primavera e autunno. Prendendo spunto da ciò Eraclito scrisse libri Sulla natura, attingendo dal nostro Teologo [scil. Mosé] le sue idee sui contrari e aggiungendovi un’infinità di argomenti laboriosi3.
La questione-soluzione di QG 3.5, in cui Filone spiega la dissezione degli animali del sacrificio di Abramo (Gen. 10:15), corrisponde a un commentario più esteso e dettagliato fornito nel trattato allegorico Her. 130 ss.; rispetto a quello, tuttavia, questo passo presenta un più lungo sviluppo sulla simmetria bilaterale del corpo4. Filone comincia la sua interpretazione del taglio degli animali a metà spiegando che anche le parti del nostro corpo sono divise due a due e poste l’una di fronte all’altra: gli occhi, gli orecchi, e le narici per esempio; poi
1 Cf. La Bible d’Alexandrie, vol. I. La Genèse, Traduction du texte grec de la Septante, Introduction et notes par M. Harl, Paris 1986, pp. 55, 164. 2 Cf. Aucher, op. cit., p. 178, in C. Mercier (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 34b (1984), pp. 28-34; R. Marcus (ed.), in PLCL, op. cit., Supplement I (1953), pp. 184-188; C. Mercier (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 34b (1984), pp. 29-35; cf. Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 336, pp. 243-244. 3 (Virgolette nostre). Cf. Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 336, pp. 243-244. 4 Cf. R. Marcus (ed.), in PLCL, op. cit., Supplement I (1953), p. 184, n. i.
II. L’UNITÀ DEI CONTRARI
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continua osservando che, come il corpo, anche l’anima è composta di due parti: razionale e irrazionale, a loro volta suddivise in due, e così via. L’Alessandrino conclude allora che non solo il corpo e l’anima sono stati divisi a metà dal Creatore, ma «anche le parti del mondo sono state suddivise in due e stabilite l’una di fronte all’altra» (etiam partes mundi bipartitae sunt, et contra se invicem constitutae). Lo scopo di Filone è dimostrare che ogni cosa si costituisce di due opposti, cioè che tutti gli elementi del mondo naturale si presentano sotto forme e aspetti uguali e contrari. L’Alessandrino osserva la duplicità delle componenti basilari del cosmo, affermando che la terra si divide in montagna e pianura, l’acqua in dolce e salata, e l’aria in inverno ed estate, primavera e autunno. A questo punto, Eraclito è introdotto come esponente della dottrina filosofica dei contrari: «Prendendo spunto da ciò Eraclito scrisse libri Sulla natura, attingendo dal nostro Teologo [scil. Mosé] le sue idee sui contrari e aggiungendovi un’infinità di argomenti laboriosi» (Hinc Heraclitus libros conscripsit de natura, a Theologo nostro mutuatus sententia de contrariis, additis immensis, iisque laboriosis argumentis). L’allusione filoniana ai «libri Sulla natura» (libros ... de natura) di Eraclito è un probabile riferimento alle differenti sezioni del suo scritto, poiché, secondo le testimonianze in nostro possesso, il libro eracliteo era uno solo, anche se composto di diverse parti o discorsi (logoi), cioè di più unità tematiche5. L’altra informazione filoniana che trova un certo riscontro nella tradizione è che Eraclito avrebbe impiegato «un’infinità di argomenti laboriosi» (immensis, iisque laboriosis argumentis) per spiegare la sua intuizione fondamentale. I frammenti eraclitei sugli opposti che si identificano, particolari illustrazioni di un principio universale6, sembrano in effetti molteplici casi o esempi, sapientemente costruiti, a dimostrazione della stessa dottrina: l’unità dei contrari7. Nel suo argomento sulla bipartizione della natura, tuttavia, Filone elenca le duplici divisioni delle masse cosmiche elementari: terra, acqua e aria, tralasciando il fuoco, che pure ha un ruolo preponderante nel pensiero di Eraclito, come rivelano le fonti dirette e indirette della dottrina eraclitea8. In virtù delle
5 Cf. 22 A 1, 4 o 16 DK. Sul libro di Eraclito, cf. la raccolta di testimonianze antiche commentate da Mour., op. cit., III.1 (2003), pp. 67 ss. (M 32(c)-34(c)) e 187 ss. 6 Cf. almeno 22 B 59-67 DK. 7 Cf. O.A. Gigon, Untersuchungen zu Heraklit, Leipzig 1935, pp. 20 ss. 8 Cf. 22 A 1, 5, 8, 10, etc. DK; B 30, 31, 66, 76, etc. DK.
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PARTE PRIMA. LA NATURA
proprie esigenze argomentative, infatti, l’Alessandrino attraversa l’universo dal basso verso l’alto, partendo dalla superficie della terra e passando per i corsi d’acqua e le correnti d’aria. Come suggerisce lo sviluppo seguente (QG 3.6), per Filone ciascuno dei quattro elementi cosmici è in realtà una mescolanza, tranne la quinta essenza dotata di movimento circolare che costituisce la sostanza del cielo: questa materia è pura, cioè semplice o non mescolata, dunque indivisibile. Il testo filoniano potrebbe alludere vagamente a due detti eraclitei. In primo luogo, la divisione dell’«acqua in dolce e salata: dolce [i.e. potabile] è quella fornita da fonti e fiumi, salata, invece, quella del mare» (Aqua in dulcem et salsam: dulcem puta eam, quam ministrant fontes et amnes, salsam vero marinam) richiama il frammento 61 DK di Eraclito, noto a Filone9: «mare, l’acqua più pura e la più contaminata: per i pesci potabile e salutare, per gli uomini non potabile ed esiziale» (θάλασσα ὕδωρ καθαρώτατον καὶ μιαρώτατον, ἰχθύσι μὲν πότιμον καὶ σωτήριον, ἀνθρώποις δὲ ἄποτον καὶ ὀλέθριον)10. In secondo luogo, l’espressione filoniana «così anche l’aria [si divide] in inverno ed estate» (Sicut et aer in hiemem et aestatem) ricorda l’inizio del frammento 67 DK di Eraclito: «il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, etc.» (ὁ θεὸς ἡμέρη εὐφρόνη, χειμὼν θέρος, πόλεμος εἰρήνη, κόρος λιμός, κτλ.)11. Nello sviluppo finale di QG 3.5, quindi, Filone ricorre a esempi che sono anche eraclitei: l’acqua, che può essere dolce, potabile e fonte di vita, e salata, non potabile e causa di morte; e l’aria, a sua volta distinta in fredda o invernale e calda o estiva. L’intenzione di Filone è mostrare che la dottrina dei contrari di Eraclito è una ripresa dell’insegnamento contenuto negli scritti di Mosé, il «nostro Teologo» (Theologo nostro), che riveste ad un tempo e in sommo grado il ruolo di re, sacerdote, legislatore e profeta, ma anche e soprattutto di autentico filosofo12 . In quanto autore del Pentateuco biblico ispirato da Dio – che comincia
9 Non solo infatti, la coppia di opposti eraclitei acqua dolce (potabile)-salata (non potabile) ricorre nel più lungo catalogo filoniano di contrari di Her. 208, ma anche in Ebr. 12: πότιμον μὲν καὶ σωτήριον οὐδὲν οὐδενὶ νᾶμα ἐκδιδοῦσα τὸ παράπαν, ἁλμυρὸν δὲ νόσου καὶ φθορᾶς τοῖς χρησομένοις αἴτιον) («[la mancanza di educazione] non offre assolutamente a nessuno alcun flusso d’acqua potabile e salutare, ma salata e causa di malattia e morte per coloro che ne berranno»). 10 Cf. Mour., op. cit., II.A.1 (1999), p. 244. 11 Questa reminiscenza filoniana di una delle coppie di contrari del frammento 67 DK non è invece segnalata da Mour., op. cit., II.A.1 (1999), p. 244. Secondo J. Mansfeld, (1983), art. cit., pp. 63-64, una vaga allusione allo stesso frammento 67 DK di Eraclito si troverebbe anche in Somn. 2.253. 12 Cf. Mos. 2.2.
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con la Genesi del mondo13 –, Mosé è per Filone il filosofo della natura per eccellenza, il primo e più grande φυσικός14. La filosofia della natura di Eraclito è così ricondotta a quella mosaica da cui deriverebbe, vale a dire alla Scrittura, che, secondo l’Alessandrino, anticipa e sopravanza ogni fisica filosofica. Ora, la relazione di dipendenza, che Filone istituisce tra la dottrina dei contrari di Eraclito e quella di Mosé15, appartiene a un luogo comune che si ritrova già più di un secolo prima nell’ebreo Aristobulo di Alessandria16 e poco più di un secolo dopo nel cristiano Clemente di Alessandria17: il cosiddetto “plagio dei Greci”18. Secondo questo motivo alessandrino, giudaico poi cristiano, i teologi e i filosofi greci si sarebbero appropriati della Legge ebraica, come dimostrano la somiglianza dei dogmi e l’anteriorità dei Βιβλία rispetto alla filosofia ellenica19. Tuttavia, affermando che la dottrina dei contrari di Eraclito deriva da quella biblica, Filone compie una sorta di petitio principii, poiché stabilisce che la rivelazione mosaica è fonte della filosofia eraclitea, ma utilizza questa per legittimare quella, cioè per estrarne il significato filosofico. La testimonianza filoniana, senza contenere citazioni eraclitee verbatim, fornisce preziose indicazioni sul perduto scritto di Eraclito che non trovano paralleli in altre fonti. Filone attribuisce espressamente a Eraclito scritti, cioè sezioni di scritto contenenti esempi, tanto numerosi quanto elaborati, della dot13
Cf. Mos. 2.37. Cf. V. Nikiprowetzky (1977), op. cit., p. 120. 15 Il motivo del “ladrocinio” dei Greci nei confronti del pensiero giudaico, rappresentato da Mosé, è ricorrente nei trattati filoniani (Prob. 57; Spec. 4.61; QG 2.5, 3.16). Per quanto riguarda la filosofica eraclitea, cf. Leg. 1.108, in cui Filone dice che Eraclito ha seguito la dottrina mosaica (Μουσέως ἀκολουθήσας τῷ δόγματι), e QG 4.152, in cui Eraclito è accusato di furto della Legge e della dottrina mosaica ( furtim a Moyse dempta lege, et sententia). 16 Cf. Aristobulo ap. Eusebio di Cesarea, Praep. Ev. XIV 12. 17 Cf. Clemente Alessandrino, Strom. II 1, 1, 1 e passim. 18 Anche lo storico ebreo Eupolemo (FGrH 723), nel II secolo a. C., considerava Mosé il primo dei sapienti e faceva derivare l’alfabeto greco da quello ebraico. 19 Ciò dimostra la continuità tra apologetica giudaica e cristiana di matrice alessandrina. Cf. M. Alexandre, Apologétique judéo-hellénistique et premières apologies chrétiennes, in B. Pouderon, J. Doré (edd.), Les Apologistes chrétiens et la culture grecque, Paris 1998, pp. 1-40. Va osservato, tuttavia, che ne La vita di Mosé (1.21) Filone si dissocia dall’opinione alessandrina secondo cui i Greci avrebbero appreso tutto dagli Ebrei, narrando che Mosé fu istruito da maestri Egiziani e Greci, inviati in gran numero per occuparsi della sua paideia. L’atteggiamento di Filone nei confronti del popolo egiziano, in particolare, è duplice e contraddittorio, come dimostra il passo di Spec. 1.2 che esprime l’alta stima per gli Egiziani, rispetto alla critica e al disprezzo manifestati altrove. Cf. D. Zeller, Das Verhältnis der alexandrinischen Juden zu Ägypten, in M. Pye and R. Stegerhoff (edd.), Religion in fremder Kultur: Religion als Minderheit in Europa und Asien, Schriften zur internationalen Kultur und Geisteswelt 2, Saarbrücken 1987, pp. 77-85. 14
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trina secondo cui ogni realtà esistente in natura si costituisce di due opposti: due parti o aspetti, modi o specie uguali, ma anche e soprattutto contrari. 1.2. Le divisioni e opposizioni della realtà Veniamo ora all’altro luogo in cui Filone fa riferimento alla dottrina eraclitea dei contrari, prendendo in considerazione un numero ben maggiore di opposti e ribadendo, questa volta con i toni più accesi dell’accusa di plagio, la precedenza cronologica della scoperta di Mosé su quella di Eraclito. Quis rerum divinarum heres sit è un trattato esegetico appartenente al grande “Commentario Allegorico” e dedicato al commento di Gen. 15:1-18, il cui contenuto è indicato dal doppio titolo dato dalla tradizione manoscritta: Qual è l’erede dei beni divini e Sulla divisione in parti uguali e contrarie (περὶ τῆς εἰς τὰ ἴσα καὶ ἐναντία τομῆς)20. La parte centrale dello scritto (Her. 130-229), infatti, consiste in una trattazione più estensiva dello stesso versetto biblico commentato in QG 3.5: il taglio degli animali a metà e la posizione delle sezioni l’una di fronte o contro l’altra. Secondo Filone, il sacrificio di Gen. 15:10 simboleggia l’azione del λόγος τομέυς – la parola efficace di Dio – che, tagliente come una spada, crea ogni singola natura attraverso successive divisioni dell’unica materia sensibile e intelligibile (Her. 130). «[La Scrittura] dice in seguito: “Li tagliò a metà”, senza precisare chi compie l’azione, affinché si concepisca il Dio invisibile che divide di seguito tutte le nature corporee e intelligibili, che sembrano formare un’armonia e un’unità, con il suo Logos divisore di tutte le cose, il quale, affilato per un taglio della massima acutezza, non cessa mai di dividere» (εἶτ᾽ ἐπιλέγει· "διεῖλεν αὐτὰ μέσα", τὸ τίς μὴ προστιθείς, ἵνα τὸν ἄδεικτον ἐννοῇς θεὸν τέμνοντα τὰς τῶν σωμάτων καὶ τὰς τῶν πραγμάτων ἑξῆς ἁπάσας ἡρμόσθαι καὶ ἡνῶσθαι δοκούσας φύσεις τῷ τομεῖ τῶν συμπάντων ἑαυτοῦ λόγῳ, ὃς εἰς τὴν ὀξυτάτην ἀκονηθεὶς ἀκμὴν διαιρῶν οὐδέποτε λήγει). L’interpretazione allegorica di Filone consiste nel racconto di una genesi diairetica, vale a dire la creazione del mondo attraverso una serie di bipartizioni operate da Dio con la sua parola tagliente (Her. 133-140): «Come, infatti, l’Artefice divise a metà la nostra anima e le nostre membra, così fece anche con la sostanza dell’universo al momento di forgiare il mondo. Presala, infatti, comin-
20
Cf. M. Harl (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 15 (1966), p. 18; PR (2005), op. cit., pp. VII e 1231.
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ciò a dividerla in questo modo: dapprima ne faceva due parti, il pesante e il leggero, separando lo spesso dal sottile; in seguito divise di nuovo ciascuno dei due, il sottile in aria e fuoco, mentre lo spesso in acqua e terra, e questi sono gli elementi sensibili che pose alla base del cosmo sensibile, come fondamenta. E di nuovo divideva il pesante e il leggero secondo altre forme» (καθάπερ γὰρ ἡμῶν τὴν ψυχὴν καὶ τὰ μέλη μέσα διεῖλεν ὁ τεχνίτης, οὕτως καὶ τὴν τοῦ παντὸς οὐσίαν, ἡνίκα τὸν κόσμον ἐδημιούργει. λαβὼν γὰρ αὐτὴν ἤρξατο διαιρεῖν ὧδε· δύο τὸ πρῶτον ἐποίει τμήματα, τό τε βαρὺ καὶ κοῦφον, τὸ παχυμερὲς ἀπὸ τοῦ λεπτομεροῦς διακρίνων· εἶθ᾽ ἑκάτερον πάλιν διαιρεῖ, τὸ μὲν λεπτομερὲς εἰς ἀέρα καὶ πῦρ, τὸ δὲ παχυμερὲς εἰς ὕδωρ καὶ γῆν, ἃ καὶ στοιχεῖα αἰσθητὰ αἰσθητοῦ κόσμου, ὡσανεὶ θεμελίους, προκατεβάλετο. πάλιν δὲ τὸ βαρὺ καὶ κοῦφον καθ᾽ ἑτέρας ἔτεμνεν ἰδέας) [...] «E ciascuno di questi elementi subì altre divisioni» (ἕκαστον δὲ τούτων ἄλλας τομὰς ἐδέχετο) [...] «Così Dio, avendo affilato il suo Logos divisore di tutte le cose, divideva la sostanza informe e indeterminata dell’universo, i quattro elementi del cosmo distinti da essa, le piante e gli animali costituiti di questi» (οὕτως ὁ θεὸς ἀκονησάμενος τὸν τομέα τῶν συμπάντων αὑτοῦ λόγον διῄρει τήν τε ἄμορφον καὶ ἄποιον τῶν ὅλων οὐσίαν καὶ τὰ ἐξ αὐτῆς ἀποκριθέντα τέτταρα τοῦ κόσμου στοιχεῖα καὶ τὰ διὰ τούτων παγέντα ζῷά τε αὖ καὶ φυτά). L’argomento filoniano sul Logos tomeus21 si ispira senza dubbio a Genesi 1:3 ss. in cui, cominciando la creazione del cielo e della terra, «Dio disse: “che la luce sia” (εἶπεν ὁ θεός Γενηθήτω φῶς) e fece esistere la luce con la sua parola; poi «separò» (διεχώρισεν) la luce «nel mezzo» (ἀνὰ μέσον) e l’oscurità «nel mezzo» (ἀνὰ μέσον), le acque inferiori e superiori, e così via. Filone può anche
21 La stessa tematica si ritrova anche in due apocrifi intertestamentari, vale a dire Il libro dei Giubilei (2, 1-18) e il Quarto libro di Esdra (6, 38-54), i quali, commentando la Torah ebraica – e non la Bibbia greca dei Settanta come Filone – pongono l’accento rispettivamente sull’azione e sulla parola attraverso cui avviene la creazione divina. (Cf. P. Beauchamp, Création et séparation. Étude exégétique du chapitre premier de la Genèse, Paris 20052 , p. 78). Il Libro dei Giubilei è uno pseudepigrafo di II secolo a. C., di cui sono stati ritrovati frammenti anche nei manoscritti rinvenuti nelle grotte di Qumrân (4Q216-228). Originariamente in ebraico, è conservato solo in ge’ez o etiopico classico, con i titoli di Piccola Genesi o Apocalisse di Mosé: Mashafa Kufālē significa in etiopico significa «libro della divisione». L’assunto fondamentale dello scritto è che tutta la vicenda d’Israele ha un senso perché la razionalità divina, cioè il Logos, si esprime nella “divisibilità” della storia universale in periodi, che ne permette la conoscibilità dalla genesi del mondo fino alla fine dei tempi. Il Quarto libro di Esdra, invece, è uno scritto apocalittico di fine I secolo d. C. che, commentando il primo libro della Genesi, pone l’accento sulla Parola di Dio che crea separando e dividendo.
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avere in mente immagini bibliche di spade o coltelli taglienti22 , e ricorrere al concetto giudeo-alessandrino di linguaggio come strumento dalla lama affilata23, ma lo sviluppo presenta elementi di dialettica platonica, metafisica aristotelica e fisica stoica, rielaborati in ambito medio-stoico e soprattutto medioplatonico24 . Nel Timeo (35 b) di Platone – il dialogo più studiato e più commentato dai filosofi medioplatonici –, il demiurgo comincia a «dividere» (διαιρεῖν) l’anima del mondo in due e in più parti secondo un criterio rigoroso di proporzione matematica; e secondo gli specialisti, la creazione diairetica di Filone si accorda perfettamente al resoconto della creazione del Timeo25. Tuttavia, non è a proposito del Logos di Dio che Filone menziona Eraclito – come farà, invece, il cristiano alessandrino Clemente26 –, ma per presentarlo, nella parte seguente del commentario, come propugnatore della dottrina filosofica secondo cui i contrari sono le due parti differenti di un unico tutto. La tematica della divisione in parti uguali e contrarie rappresenta lo sfondo, il cuore, e il filo conduttore del trattato filoniano27. Se in Her. 133 Filone an22 Si pensi alla spada di fuoco roteante tra i due Cherubini in Gen. 3:24, o al coltello con cui Abramo sacrifica Isacco in Gen. 22:6, ma anche all’arma del giudizio di Dio in Deut. 32:41 o Is. 66:16. Sulle origini bibliche del Logos tomeus filoniano, cf. H.A. Wolfson (1962), op. cit., vol. I, pp. 334-339; M. Harl (ed.) in PAPM, op. cit., vol. 15 (1966), pp. 82 ss. 23 Cf. Giud. 3:19-20; Is. 49:2; Salmi 56:5; 63:4. La metafora filoniana della parola di Dio come un’arma affilata, che ricorre anche nel Nuovo Testamento (Ef. 6:17; Ebr. 4:12; Apoc. 1:16; 19:13-15), si ispira sia alla parola tagliente della Bibbia, sia a quella della letteratura greca (cf. Sofocle, Ajax 646 ss.; Menandro, Mon. 621; Demetrio Falereo ap. Diogene Laerzio V 82; Orph. Hymn. XXVIII 10; Porfirio, Vita Pyth. 42). 24 A proposito delle fonti filosofiche della speculazione filoniana sulla divisione in parti uguali e contrarie (Her. 130 ss.), cf. M. Heinze, Die Lehre vom Logos in der Griechischen Philosophie, Oldenburg 1872, Darmstadt 1984, pp. 11-16 e 226-229; É. Bréhier, Les Idées philosophiques et religieuses de Philon d’Alexandrie, Paris 19252 , p. 87; E.R. Goodenough, A Neo-pythagorean Source in Philo Judaeus, «YCS» 3 (1932), pp. 115-164, part. p. 160; J. Daniélou (1958), op. cit., p. 211; H.A. Wolfson (1962), op. cit., I, pp. 334-339; M. Harl (ed.) in PAPM, op. cit., vol. 15 (1966), pp. 62 ss.; D.M. Hay, Philo’s Treatise on the LogosCutter, «SPh» 2 (1973), pp. 19-20; G.D. Farandos, Kosmos und Logos nach Philon Von Alexandria, Amsterdam 1976, pp. 254, 264; U. Früchtel, Die cosmologischen Vorstellung bei Philo von Alexandrien, Leiden 1968, pp. 48 e passim; R. Radice, Platonismo e creazionismo in Filone di Alessandria, Intr. di G. Reale, Metafisica del Platonismo nel suo sviluppo storico e nella filosofia patristica 7, Milano 1989, pp. 77-79. 25 D.T. Runia, Philo of Alexandria and the Timaeus of Plato, Leiden 1986, p. 393. 26 Cf. ad esempio Clemente di Alessandria, Paed. III 1, 1, 5-2, 1. 27 Come sostiene, tra gli altri, A. Pawlaczyk, Division as the Fundamental Idea in the Treatise of Philo of Alexandria “Quis rerum divinarum heres sit”, «Eos» 84 (1996), pp. 75-85. Non mancano, tuttavia, contributi che negano l’esistenza di una teoria filoniana del Logos tomeus, cioè di una dottrina filosofica della divisione operata da un principio cosmologico di origine non biblica, come lo studio di J. Cazeaux, La trame et la chaîne ou les structures littéraires et l’exégèse dans cinq des traités de Philon d’Alexandrie, Leiden 1983, pp. 260, 262, 274.
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nuncia programmaticamente la duplice trattazione della «dottrina della divisione in parti uguali e delle opposizioni» (λόγον τὸν περὶ τῆς εἰς ἴσα τομῆς καὶ περὶ ἐναντιοτήτων), in Her. 207 passa in effetti dall’una all’altra parte del programma: «Dopo averci dunque istruito sulla divisione in parti uguali, il discorso sacro [i.e. la Scrittura] conduce anche alla scienza dei contrari» (Διδάξας οὖν ἡμᾶς περὶ τῆς εἰς ἴσα τομῆς ὁ ἱερὸς λόγος καὶ πρὸς τὴν τῶν ἐναντίων ἐπιστήμην ἄγει). I due passi mostrano chiaramente i due tempi dell’interpretazione filoniana del sacrificio di Abramo, che comincia con un primo argomento dedicato alla divisione di tutte le cose in parti uguali (Her. 130 ss.) – commento di «li [scil. gli animali del sacrificio] divise a metà» (διεῖλεν αὐτὰ μέσα) (Gen. 15:10) – e procede con un secondo argomento sulla contrapposizione di tutte le realtà esistenti al mondo (Her. 207 ss.) – sulla base di «pose [le parti] l’una di fronte all’altra» (ἔθηκεν αὐτὰ ἀντιπρόσωπα ἀλλήλοις) (Gen. 15:10). Filone slitta abilmente dal termine biblico ἀντιπρόσωπα («l’una di fronte all’altra») al concetto filosofico di ἐναντία («contrari»), e solo in questa seconda parte dell’esegesi, dedicata alla contrapposizione delle due metà degli animali tagliati, Filone evoca la dottrina dei contrari di Eraclito. Tuttavia, il tema della contrarietà di tutte le cose è inscindibile da quello della partizione del mondo che lo precede, e l’intero commentario si imbastisce sulle tematiche di distinzione e separazione, uguaglianza e opposizione. L’argomento della divisione in contrari percorre dunque la seconda metà del trattato e raccorda le principali tematiche affrontate da Filone nel commentare il sacrificio degli animali che sancisce il patto di Dio con Abramo. La digressione sul Logos divisore che spartisce l’universo creandolo (Her. 130) anticipa l’argomentazione sulla divisione-distinzione operata dal nostro intelletto che discerne tutte le cose (Her. 235), ed entrambe sono comprese nella finale divisione-separazione della Sapienza di Dio tramite le sue potenze divisorie (Her. 314), la quale chiude il trattato e dà ragione «delle contrarietà» (ἐναντιοτήτων) (Her. 311) che costituiscono il cosmo nel suo insieme. Esaminiamo ora in dettaglio il passaggio di Her. 207-214: dapprima il lungo catalogo filoniano dei contrari, poi il sunto che Filone fornisce della dottrina eraclitea, al fine di trarre le informazioni fornite da Filone su Eraclito e individuare il materiale eracliteo eventualmente sottinteso.
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1.2.1. Il catalogo dei contrari Nell’intento di provare che tutto ha un contrario – in base alla sua esegesi allegorica di Gen. 15:10 («pose [le parti] l’una di fronte all’altra») –, Filone elenca i contrari che esistono in natura, a cominciare dalle qualità degli elementi basilari del cosmo, per continuare con ciò cui essi danno origine: esseri ed entità del mondo vegetale, animale e umano nei loro aspetti concreti e astratti. Questo è dunque l’inizio della trattazione filoniana delle opposizioni, vale a dire il catalogo dei contrari (Her. 207-212, pp. 47-48 Wendland): In realtà quasi tutte le cose che esistono al mondo sono per natura dei contrari. A cominciare dalle cose prime: “il caldo è contrario al freddo, il secco all’umido”, il leggero al pesante, l’oscurità alla luce, “la notte al giorno”; e nel cielo: la sfera delle stelle fisse è contraria a quella dei pianeti; e per ciò che concerne l’aria: il sereno è contrario al nuvoloso, la bonaccia alla tempesta, “l’inverno all’estate”, l’autunno alla primavera – nell’una, infatti, i prodotti della terra fioriscono, nell’altro avvizziscono –; e ancora, per quanto riguarda l’acqua, quella dolce è contraria a quella salata; e quanto alla terra, quella sterile è contraria a quella feconda. Anche gli altri contrari sono evidenti: enti corporei enti incorporei, esseri animati esseri inanimati, esseri razionali esseri irrazionali, “mortali immortali”, sensibili intelligibili, comprensibili incomprensibili, elementi composti, “principio fine”, generazione corruzione, “vita morte”, “malattia salute”, bianco nero, destra sinistra, “giustizia ingiustizia”, senno demenza, coraggio vigliaccheria, “temperanza” intemperanza, “virtù” vizio, e tutte le specie dell’una opposte a quelle dell’altro. E ancora: istruzione analfabetismo, cultura incultura, educazione volgarità, e in generale, scienza ignoranza; e nei campi della scienza: lettere vocali e consonanti, suoni acuti e gravi, “linee rette e curve”. E tra gli animali e le piante: sterili fecondi, multipari unipari, ovipari vivipari, con la pelle morbida ricoperti di squame, selvaggi addomesticati, solitari gregari. E ancora: povertà ricchezza, fama infamia, miseria nobiltà, penuria abbondanza, “guerra pace”, “legge” illegalità, talento incapacità, ozio “fatica”, “gioventù vecchiaia”, impotenza potenza, debolezza forza28.
28 τῷ γὰρ ὄντι πάνθ᾽ ὅσα ἐν κόσμῳ σχεδὸν ἐναντία εἶναι πέφυκεν, ἀρκτέον δὲ ἀπὸ τῶν πρώτων· θερμὸν ἐναντίον ψυχρῷ καὶ ξηρὸν ὑγρῷ καὶ κοῦφον βαρεῖ καὶ σκότος φωτὶ καὶ νὺξ ἡμέρᾳ, καὶ ἐν οὐρανῷ μὲν ἡ ἀπλανὴς τῇ πεπλανημένῃ φορᾷ, κατὰ δὲ τὸν ἀέρα αἰθρία νεφώσει, νηνεμία πνεύμασι, θέρει χειμών, ἔαρι μετόπωρον— τῷ μὲν γὰρ ἀνθεῖ, τῷ δὲ φθίνει τὰ [δ᾽] ἔγγεια—, πάλιν ὕδατος τὸ γλυκὺ τῷ πικρῷ καὶ γῆς ἡ στεῖρα τῇ γονίμῳ. καὶ τἄλλα δὲ ἐναντία προῦπτα, σώματα ἀσώματα, ἔμψυχα ἄψυχα, λογικὰ ἄλογα, θνητὰ ἀθάνατα, αἰσθητὰ νοητά, καταληπτὰ ἀκατάληπτα, στοιχεῖα ἀποτελέσματα, ἀρχὴ τελευτή, γένεσις φθορά, ζωὴ θάνατος, νόσος ὑγεία, λευκὸν μέλαν, δεξιὰ εὐώνυμα, δικαιοσύνη ἀδικία, φρόνησις ἀφροσύνη, ἀνδρεία δειλία, σωφροσύνη ἀκολασία, ἀρετὴ κακία, καὶ τὰ τῆς ἑτέρας πάντα εἴδη τοῖς τῆς ἑτέρας εἴδεσι πᾶσι· πάλιν γραμματικὴ
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Rispetto a QG 3.5, in cui Filone spiega il significato dello stesso versetto biblico (Gen. 15:10), cioè del taglio degli animali, ma anche e soprattutto della disposizione delle parti l’una di fronte all’altra, questo commentario è più sviluppato e diversamente organizzato. Non solo, infatti, l’esemplificazione dei contrari si estende dalle qualità elementari dell’universo al mondo umano e sociale, ma l’ordine è questa volta dall’alto del cielo al basso della terra a tutto il resto. Secondo Filone, ogni massa elementare presenta qualità opposte, dunque si compone di contrari; e questo vale anche per qualsiasi altro ente di materia o di pensiero. Gli esempi filoniani, infatti, vanno ben oltre il concetto di unità-divisione della sostanza corporea fornito dalla Scrittura e concernono l’identità e la distinzione di ogni realtà, concreta o astratta, nelle due parti che la costituiscono. Ora, un certo numero di contrari elencati da Filone sono ravvisabili nei frammenti eraclitei conservati29. Innanzitutto, l’opposizione filoniana delle qualità elementari dei corpi: «il caldo è contrario al freddo, il secco all’umido» (θερμὸν ἐναντίον ψυχρῷ καὶ ξηρὸν ὑγρῷ) (Her. 208) richiama, oltre alla tradizione medica pitagorizzante30, il frammento 126 DK di Eraclito sui cambiamenti di stato dei corpi: «Le cose fredde si scaldano, le cose calde si raffreddano, le cose umide si asciugano, le cose aride si ammolliscono» (ψυχρὰ θέρεται, θερμὰ ψύχεται, ὑγρὰ αὐαίνεται, καρφαλέα νοτίζεται). Filone presenta le coppie di contrari che caratterizzano gli elementi primi del cosmo, poi prosegue opponendo «l’oscurità alla luce e la notte al giorno» (σκότος φωτὶ καὶ νὺξ ἡμέρᾳ), secondo il dettato della Genesi biblica31, e conformemente alle opposizioni pitagoriche32 , non senza affinità con il pensiero di Parmenide, che opponeva la
ἀγραμματία, μουσικὴ ἀμουσία, παιδεία ἀπαιδευσία, συνόλως τέχνη ἀτεχνία, καὶ τὰ ἐν ταῖς τέχναις, φωνήεντα στοιχεῖα καὶ ἄφωνα, ὀξεῖς καὶ βαρεῖς φθόγγοι, εὐθεῖαι καὶ περιφερεῖς γραμμαί· καὶ ἐν ζῴοις καὶ φυτοῖς ἄγονα γόνιμα, πολυτόκα ὀλιγοτόκα, ᾠοτόκα ζῳοτόκα, μαλάκεια ὀστρακόδερμα, ἄγρια ἥμερα, μονωτικὰ ἀγελαῖα· καὶ πάλιν πενία πλοῦτος, δόξα ἀδοξία, δυσγένεια εὐγένεια, ἔνδεια περιουσία, πόλεμος εἰρήνη, νόμος ἀνομία, εὐφυΐα ἀφυΐα, ἀπονία πόνος, νεότης γῆρας, ἀδυναμία δύναμις, ἀσθένεια ῥώμη. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 35 (d), p. 506; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 337, pp. 244-246, che segnala in corsivo le coppie eraclitee. 29 I contrari eraclitei presenti nel passo filoniano sono quelli tra virgolette (nostre). 30 Cf. Alcmeone, e precisamente 24 B 4 DK. 31 Cf. Gen. 1:3: τὸ φῶς ἡμέραν καὶ τὸ σκότος ἐκάλεσεν νύκτα («[Dio] chiamò la luce giorno e l’oscurità, notte»). 32 Difficile è sapere quale fosse l’originaria dottrina pitagorica dei contrari, distinguendola dalle rielaborazioni e sistemazioni frutto dell’insegnamento nell’Accademia platonica in epoca classica e dalle falsificazioni della speculazione pseudo-pitagorica di epoca ellenistica e romana. Ecco, ad esempio, la “ta-
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Notte e il Giorno, il fuoco luminoso, sottile e caldo della fiamma alla notte oscura, densa e pesante33. Ma l’identità dei contrari giorno-notte è anche e soprattutto eraclitea, come indica il frammento 57 DK: «maestro della maggior parte degli uomini, Esiodo; essi ritengono che sapesse la maggior parte delle cose, lui che non conosceva il giorno dalla notte: sono infatti uno» (διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν); e il 67 DK: «il dio è giorno notte, etc.» (ὁ θεὸς ἡμέρη εὐφρόνη, κτλ.). Filone (Her. 208) comincia quindi il suo catalogo con una serie di coppie che rappresentano gli aspetti opposti della realtà spazio-temporale, in cui include anche un gruppo di contrari risultante dalle successive spartizioni dei quattro elementi della filosofia presocratica, il primo dei quali, tuttavia, non è il fuoco, ma, per metonimia, il cielo della Genesi biblica34. La nuova lista filoniana comprende le masse cosmiche elementari e le loro suddivisioni: «e nel cielo: la sfera delle stelle fisse è contraria a quella dei pianeti; e per ciò che concerne l’aria: il sereno è contrario al nuvoloso, la bonaccia alla tempesta, “l’inverno all’estate”, l’autunno alla primavera – nell’una, infatti, i prodotti della terra fioriscono, nell’altro avvizziscono –; e ancora, per quanto riguarda l’acqua,
vola decadica” dei contrari riportata da Aristotele, Met. 986 a 15-34: ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν τούτων τὰς ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ] ἄπειρον, περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ] πλῆθος, δεξιὸν [καὶ] ἀριστερόν, ἄρρεν [καὶ] θῆλυ, ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον, εὐθὺ [καὶ] καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν [καὶ] κακόν, τετράγωνον [καὶ] ἑτερόμηκες· ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν [...] λέγων τὰς ἐναντιότητας οὐχ ὥσπερ οὗτοι διωρισμένας ἀλλὰ τὰς τυχούσας, οἷον λευκὸν μέλαν, γλυκὺ πικρόν, ἀγαθὸν κακόν, μέγα μικρόν («Altri di costoro [scil. i Pitagorici] dicono che i principi sono dieci, enunciati in una serie di coppie coordinate: limite illimitato, dispari pari, uno molteplice, destra sinistra, maschio femmina, in quiete in movimento, dritto curvo, luce tenebra, buono cattivo, quadrato rettangolo. Sembra che la pensasse in tal modo anche Alcmeone di Crotone [...] enunciando le opposizioni non ben determinate come quelli [scil. i Pitagorici], ma casuali come bianco nero, dolce amaro, buono cattivo, grande piccolo»). Gli immediati successori di Platone, e soprattutto Speusippo, infatti, intrapresero la “platonizzazione” dell’antico pitagorismo, e nulla si sa dell’antica e autentica dottrina dei contrari, che doveva somigliare più a quella che Aristotele attribuisce ad Alcmeone, crotoniate e più giovane di Pitagora, che alla speculazione espressa nella “tavola dei contrari”. Questa potrebbe essere sia anteriore sia posteriore a Parmenide, il principale rappresentante delle opposizioni luce-notte, femmina-maschio, sinistra e destra (C. Diano-G. Serra (edd.), Eraclito, I frammenti e le testimonianze, Milano 19932 , p. 132; Pitagora, Le opere e le testimonianze, Intr. di W. Burkert, a cura di M. Giangiulio, Milano 2000, vol. I, pp. 127-128); G.E.R. Lloyd, The Hot and the Cold, the Dry and the Wet in Greek Philosophy, «JHS» 84 (1964), pp. 92-106. 33 Cf. 28 B 8 e 9 DK. 34 Cf. Gen. 1:1: Ἐν ἀρχῇ ἐποίησεν ὁ θεὸς τὸν οὐρανὸν καὶ τὴν γῆν («In principio Dio fece il cielo e la terra»); Gen. 1:8; 1:9, etc.
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quella dolce è contraria a quella salata; e quanto alla terra, quella sterile è contraria a quella feconda» (ἐν οὐρανῷ μὲν ἡ ἀπλανὴς τῇ πεπλανημένῃ φορᾷ, κατὰ δὲ τὸν ἀέρα αἰθρία νεφώσει, νηνεμία πνεύμασι, θέρει χειμών, ἔαρι μετόπωρον [...], πάλιν ὕδατος τὸ γλυκὺ τῷ πικρῷ καὶ γῆς ἡ στεῖρα τῇ γονίμῳ). Come già rilevato nell’analisi di QG 3.5, la coppia estate-inverno è anche eraclitea, e appartiene al sopraccitato frammento 67 DK: «il dio è giorno notte, inverno estate, etc.» (ὁ θεὸς ἡμέρη εὐφρόνη, χειμὼν θέρος, κτλ.); così, l’acqua dolce e salata richiama vagamente il frammento 61 DK: «mare, l’acqua più pura e la più contaminata: per i pesci potabile e salutare, per gli uomini non potabile ed esiziale» (θάλασσα ὕδωρ καθαρώτατον καὶ μιαρώτατον, ἰχθύσι μὲν πότιμον καὶ σωτήριον, ἀνθρώποις δὲ ἄποτον καὶ ὀλέθριον). Filone (Her. 209) continua, quindi, con un’altra lunga lista di coppie di contrari, alcuni dei quali riecheggiano nei frammenti eraclitei, come «mortali immortali» (θνητὰ ἀθάνατα). L’opposizione immortale-mortale si ritrova, infatti, in alcuni frammenti di Eraclito, noti a Filone35, quali il 62 DK: «Immortali mortali, mortali immortali, vivendo la morte di quelli e morendo la vita di questi» (ἀθάνατοι θνητοί, θνητοὶ ἀθάνατοι, ζῶντες τὸν ἐκείνων θάνατον, τὸν δὲ ἐκείνων βίον τεθνεῶτες), e il 77b DK: «noi viviamo la loro morte e loro vivono la nostra morte» (ζῆν ἡμᾶς τὸν ἐκείνων θάνατον καὶ ζῆν ἐκείνας τὸν ἡμέτερον θάνατον)36. Altre opposizioni di questo gruppo sono «principio fine, generazione corruzione, vita morte» (ἀρχὴ τελευτή, γένεσις φθορά, ζωὴ θάνατος), che Filone intende, in senso biblico37, come i “termini” dell’esistenza umana e cosmica. La prima di esse ha un parallelo nel frammento eracliteo 103 DK: «in comune sono l’inizio e la fine sulla circonferenza del cerchio» (ξυνὸν ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ κύκλου περιφερείας), ma è soprattutto l’unità e la distinzione tra vita e morte che ha un ruolo capitale nella dottrina eraclitea. Lo dimostrano, oltre ai già citati frammenti 62 e 77b DK, anche il 48 DK: «il nome dell’arco è “vita”, mentre la sua opera è morte» (βίος: τῶι οὖν τόξωι ὄνομα βίος, ἔργον δὲ θάνατος); il 21 DK: «morte è quanto vediamo da svegli, e quanto dormienti, sonno»
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Cf. Aet. 108; Leg. 1.108; QG 4.152 A questi si potrebbe aggiungere anche il frammento 22 B 50 DK (οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι), citato dalla Refutatio omnium haeresium (IX 9, 1) con un preambolo che S.N. Mouraviev (Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), F 50, pp. 126-129) associa al testo eracliteo. Le coppie dell’introduzione e il termine dogma rinviano secondo lui a Senofane, laddove logos è una congettura nella parte ricostruita del testo. 37 Cf. almeno Gen. 1:30; 2:7-9; 3:14; 3:17; 27:2. 36
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(θάνατός ἐστιν ὁκόσα ἐγερθέντες ὁρέομεν, ὁκόσα δὲ εὕδοντες ὕπνος); 26 DK: «L’uomo [...] vivo è a contatto con il morto quando dorme, sveglio è a contatto col dormiente» (ἄνθρωπος [...] ζῶν δὲ ἅπτεται τεθνεῶτος εὕδων, [ἀποσβεσθεὶς ὄψεις], ἐγρηγορὼς ἅπτεται εὕδοντος); 88 DK: «la stessa cosa sono dentro vivo e morto, sveglio e dormiente [...]: questi mutando sono quelli e quelli mutando di nuovo sono questi» (ταὐτό τ᾽ ἔνι ζῶν καὶ τεθνηκὸς καὶ [τὸ] ἐγρηγορὸς καὶ καθεῦδον [...]· τάδε γὰρ μεταπεσόντα ἐκεῖνά ἐστι κἀκεῖνα πάλιν μεταπεσόντα ταῦτα)38. La lista filoniana prosegue con l’opposizione «malattia salute» (νόσος ὑγεία), che richiama non solo il castigo e il premio divino della Bibbia39, ma anche il frammento 111 DK di Eraclito: «la malattia rende la salute cosa dolce e buona, etc.» (νοῦσος ὑγιείην ἐποίησεν ἡδὺ καὶ ἀγαθόν κτλ.). Un’altra coppia dello stesso gruppo di contrari è «giustizia ingiustizia» (δικαιοσύνη ἀδικία), presente nel racconto biblico40, ma anche nella parola eraclitea, come testimonia il frammento 102 DK: «Per il dio, tutte le cose sono belle, buone e giuste, laddove gli uomini considerano alcune cose ingiuste, altre giuste» (τῶι μὲν θεῶι καλὰ πάντα καὶ ἀγαθὰ καὶ δίκαια, ἄνθρωποι δὲ ἃ μὲν ἄδικα ὑπειλήφασιν ἃ δὲ δίκαια). Così, gli opposti filoniani «temperanza intemperanza» (σωφροσύνη ἀκολασία) e «virtù vizio» (ἀρετὴ κακία) ricordano i frammenti in cui Eraclito considera la saggezza (prudenza o temperanza) la virtù per eccellenza, vale a dire 112 DK: «Esser saggi è la massima virtù, e sapienza è dire cose vere e agire secondo la natura [scil. delle cose] che si capisce» (σωφρονεῖν ἀρετὴ μεγίστη, καὶ σοφίη ἀληθέα λέγειν καὶ ποιεῖν κατὰ φύσιν ἐπαΐοντας), e 116 DK: «Tutti gli uomini hanno parte al conoscere se stessi e all’essere saggi» (ἀνθρώποισι πᾶσι μέτεστι γινώσκειν ἑωυτοὺς καὶ σωφρονεῖν)41. 38 Per la traduzione del frammento 26 DK, si veda anche Mour., op. cit., III.3.B/1 (2006), F 26, p. 73. Cf. anche i frammenti 22 B 63 DK: ἔνθα δ᾽ ἐόντι ἐπανίστασθαι καὶ φύλακας γίνεσθαι ἐγερτὶ ζώντων καὶ νεκρῶν («si alzano davanti a lui che è lì e diventano svegli guardiani dei vivi e dei morti»); e 20 DK: γενόμενοι ζώειν ἐθέλουσι μόρους τ᾽ ἔχειν καὶ παῖδας καταλείπουσι μόρους γενέσθαι («una volta nati desiderano vivere e avere il loro destino di morte, e lasciano figli che siano nati come destini di morte»). 39 Cf. ad es. Es. 15:26 o Deut. 28:60-61. 40 Cf. Es. 34:6 o Lev. 19:15. 41 Quanto alla precedente coppia «senno demenza» (φρόνησις ἀφροσύνη) di Filone, essa richiama i frammenti eraclitei sul possesso e l’uso del senno, quali il 22 B 17 DK: οὐ φρονέουσι τοιαῦτα πολλοί, ὁκόσοι ἐγκυρεῦσιν κτλ. («i più non pensano queste cose tali che se le trovano davanti, etc.»); il 113 DK: ξυνόν ἐστι πᾶσι τὸ φρονέειν («comune a tutti è pensare»), e il 2 DK: τοῦ λόγου δ᾽ ἐόντος ξυνοῦ ζώουσιν οἱ πολλοὶ ὡς ἰδίαν ἔχοντες φρόνησιν («[...] benché il resoconto (logos) sia comune, i più vivono come se avessero ciascuno il proprio pensiero»).
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Il catalogo filoniano (Her. 210) continua con un altro gruppo di contrari, che caratterizzano i campi del sapere scientifico. Tra questi, la coppia «linee rette e curve» (εὐθεῖαι καὶ περιφερεῖς γραμμαί) rimanda non solo al senso metaforico della retta via, opposta al cammino distorto del peccatore nella morale biblica42 , ma anche al frammento 59 DK, in cui Eraclito identifica gli opposti geometrici retto-curvo: «delle lettere/caratteri [o degli scrittori/disegnatori] la via dritta e curva è una e la stessa» (γραφέων43 ὁδὸς εὐθεῖα καὶ σκολιὴ μία ἐστί καὶ ἡ αὐτή). Anche l’ultimo gruppo del catalogo di Filone (Her. 212) è costituito di opposti che richiamano frammenti eraclitei. I contrari «penuria abbondanza» (ἔνδεια περιουσία) corrispondono concettualmente – non letteralmente – all’«indigenza e sazietà» (χρησμοσύνην καὶ κόρον) del frammento 65 DK di Eraclito, che Filone cita in almeno due luoghi della sua opera44. I termini filoniani «guerra pace» (πόλεμος εἰρήνη), invece, coincidono precisamente con una delle coppie di contrari del già più volte citato frammento 67 DK di Eraclito «il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, etc.» (ὁ θεὸς ἡμέρη εὐφρόνη, χειμὼν θέρος, πόλεμος εἰρήνη, κόρος λιμός κτλ.). Filone sembra sapere45, d’altronde, che πόλεμος – o meglio πόλεμος εἰρήνη – è un termine – o una coppia – chiave della filosofia di Eraclito, poiché rappresenta il principio generatore e la legge regolatrice della realtà, caratterizzata, appunto, dal sussistere delle opposizioni, come dimostrano i frammenti 53 DK: «Guerra è il padre di tutte le cose, di tutte re» (Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς κτλ.), e 80 DK: «bisogna sapere che la guerra è comune, e giustizia è contesa, etc.» (εἰδέναι δὲ χρὴ τὸν πόλεμον ἐόντα ξυνόν, καὶ δίκην ἔριν κτλ.). La coppia filoniana «legge illegalità» (νόμος ἀνομία), invece, fa pensare al frammento 114 DK di Eraclito: «Chi parla con senno, deve farsi forte di ciò che a tutti è comune [i.e. che ha senso per tutti], come fa la città con la legge, e con molta più forza; tutte le leggi umane, infatti, traggono nutrimento da un’unica legge, quella divina, etc.» (ξὺν νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως. τρέφονται γὰρ πάντες οἱ
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Cf. Sir. 39:23 o Is. 42:16. γναφείωι Diels. A difesa del testo trasmesso e sulla sua traduzione con “lettere”, cf. G.S. Kirk, Heraclitus, The Cosmic Fragments, London-New York 1954, pp. 100-104 e Mour., op. cit., III.3.B/1 (2006), F 59. 44 Cf. Leg. 3.7 e Spec. 1.208. 45 Cf. Deo 10. 43
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ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου κτλ.)46. E ancora, l’opposizione «ozio fatica» (ἀπονία πόνος) di Filone riecheggia gli opposti riposo-lavoro del doppio frammento 84ab DK di Eraclito: «mutando riposa» (μεταβάλλον ἀναπαύεται), «fatica è lavorare duro per gli stessi e dagli stessi essere dominati» (κάματός ἐστι τοῖς αὐτοῖς μοχθεῖν καὶ ἄρχεσθαι). Infine, la coppia filoniana «gioventù vecchiaia» (νεότης γῆρας) non può che richiamare il già citato frammento eracliteo 88 DK sugli stati opposti della vita umana: «la stessa cosa sono dentro vivo e morto, sveglio e dormiente, giovane e vecchio, etc.» (ταὐτό τ᾽ ἔνι ζῶν καὶ τεθνηκὸς καὶ [τὸ] ἐγρηγορὸς καὶ καθεῦδον καὶ νέον καὶ γηραιόν κτλ.). Questi sono dunque i frammenti eraclitei conservati che possono essere messi in relazione con il catalogo filoniano dei contrari. Con ogni probabilità, tuttavia, Filone si basa su una tavola di opposti assai ampia e ben organizzata, piuttosto che sulle enigmatiche opposizioni che si trovano in Eraclito, come suggerisce anche il sunto della dottrina eraclitea dei contrari che l’Alessandrino fornisce nel seguito del passo. 1.2.2. Il sunto della dottrina eraclitea Dopo il lungo catalogo dei contrari, Filone nomina Eraclito (Her. 213214): l’unico filosofo greco esplicitamente menzionato in tutto il trattato47. Se in Her. 152, infatti, Filone si riferisce vagamente a «coloro che hanno condotto in modo più esatto le ricerche sui fenomeni della natura» (οἱ ἀκριβέστατα περὶ τῶν τῆς φύσεως ἐζητακότες), solo nella successiva trattazione dei contrari (Her. 207 ss.) l’Alessandrino presenta Eraclito come colui che ha fatto dell’antica scoperta di Mosé il principio fondamentale della sua filosofia. Interrompendo l’infinito catalogo dei contrari, Filone afferma che Mosé, ben prima di Eraclito, ha prodigato il suo insegnamento sui contrari nella Scrittura, dicendo che Abramo taglia gli animali e giustappone, cioè contrappone, le parti (Her. 212-214, pp. 47-48 Wendland):
46 A questo si potrebbe aggiungere il 22 B 23 DK (Δίκης ὄνομα οὐκ ἂν ἤιδεσαν, εἰ ταῦτα μὴ ἦν), che S.N. Mouraviev (Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), F 23, pp. 69-70) edita e traduce diversamente. 47 Filone cita i versi degli antichi poeti Esiodo (Her. 116) e Omero (Her. 189), e allude alle dottrine di sapienti presocratici, filosofi di epoca classica ed ellenistica (Her. 152), anche sottolineando scetticamente il disaccordo delle loro speculazioni sofistiche (Her. 246-248). In nessuno di questi casi, tuttavia, l’Alessandrino menziona gli autori cui fa riferimento.
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Ma bisogna ancora elencare uno per uno tutti i contrari che sono in numero infinito e illimitato? In modo bellissimo, dunque, l’interprete delle realtà della natura [scil. Mosé], avendo compassione della nostra svogliatezza e noncuranza, ogni volta prodiga insegnamenti senza invidia48, come anche ora, a proposito della disposizione di fronte di ciascuna delle realtà che si trovano ad essere non intere, bensì divise: uno, infatti, è l’ente composto dei due contrari, e solo nel momento in cui è diviso, i contrari sono riconoscibili. Non è forse questo che i Greci dicono proclamasse il loro grande e glorioso Eraclito, ponendolo come caposaldo della sua filosofia, quasi avesse scoperto qualcosa di nuovo? In effetti, è un’antica scoperta di Mosé il fatto che i contrari si definiscono da uno stesso intero, di cui rappresentano le parti, come è stato chiaramente mostrato49.
Ecco dunque il cuore dell’interpretazione filoniana del versetto biblico (Gen. 15:10) in cui è detto che Abramo, dopo aver tagliato a metà gli animali, pose le parti «l’una di fronte all’altra» (ἀντιπρόσωπον). L’Alessandrino sostie-
48 Αφθόνως è congettura dell’edizione P. Wendland (cf. Mour., op. cit., II.A.1 (1999), p. 246). La traduzione letterale proposta («senza invidia») richiama significativamente la tradizione greca (cf. Erodoto, Hist. I 32 e passim) dello φθόνος θεῶν («invidia degli dei»): diversamente dagli dei della Grecia arcaica, che non rivelano tutto agli uomini, o almeno non dal principio (cf. Senofane, 21 B 18 DK), per Filone il Dio giudaico, attraverso il divino filosofo della natura (Mosé), prodiga generosamente il suo insegnamento di verità. L’idea che la divinità voglia comunicare il bene agli uomini si trova già in Platone (Tim. 29 e; Phaedr. 247 e; Epin. 988 a), secondo cui il dio demiurgo, che è buono e senza invidia, vuole che il mondo e tutte le cose che ha prodotto siano il più possibile simili a lui (cf. anche Senofonte, Mem. I 2, 60); così Aristotele (Met. 983 a), che critica la concezione poetica della divinità invidiosa. In epoca filoniana, i paralleli più significativi sono forniti dal De mundo pseudo-aristotelico (391 a 17), che presenta l’espressione ἀφθόνως μεταδοῦναι («comunicare senza invidia»), e dal libro biblico alessandrino (I sec. a. C.) della Sapienza (di Salomone) (6:22 e 7:13), in cui la medesima espressione (ἀφθόνως δὲ μεταδίδωμι) è riferita alla Sophia giudaica. Filone (Prob. 13) afferma, infatti: κατὰ τὸν ἱερώτατον Πλάτωνα, φθόνος ἔξω θείου χοροῦ ἵσταται, θειότατον δὲ καὶ κοινωνικώτατον σοφία («come dice il santissimo Platone, l’invidia è bandita dal coro divino, e la sapienza è la cosa più divina e la più generosa»). Cf. anche Opif. 21-22; Post. 138; Congr. 71, 122; Spec. 1.320. Sviluppi sul motivo della generosità di Dio, esente da invidia, si ritroveranno nella seriore tradizione cristiana (cf. Ireneo di Lione, Adv. haer. III 25; IV 38; Atanasio di Alessandria, De incarn. Verbi 3, 3; Basilio di Cesarea, Hom. in hex. I 2; Cirillo di Alessandria, Contra Jul. II 37, etc.) e neo-platonica (cf. la teologia della comunicazione generosa di unità, bontà e conoscenza da parte degli dei-enneadi alle realtà inferiori di Proclo, Inst. theol., Prop. 131 e passim). 49 καὶ τί δεῖ τὰ καθ᾽ ἕκαστον ἀναλέγεσθαι ἀπερίγραφα καὶ ἀπέρατ᾽ ὄντα τῷ πλήθει; παγκάλως οὖν ὁ τῶν τῆς φύσεως ἑρμηνεὺς πραγμάτων, τῆς ἀργίας καὶ ἀμελετησίας ἡμῶν λαμβάνων οἶκτον ἑκάστοτ᾽ ἀφθόνως ἀναδιδάσκει, καθὰ καὶ νῦν, τὴν ἀντιπρόσωπον ἑκάστων θέσιν οὐχ ὁλοκλήρων, ἀλλὰ τμημάτων ὑπαρχόντων· ἓν γὰρ τὸ ἐξ ἀμφοῖν τῶν ἐναντίων, οὗ τμηθέντος γνώριμα τὰ ἐναντία. οὐ τοῦτ᾽ ἐστίν, ὅ φασιν Ἕλληνες τὸν μέγαν καὶ ἀοίδιμον παρ᾽ αὐτοῖς Ἡράκλειτον κεφάλαιον τῆς αὑτοῦ προστησάμενον φιλοσοφίας αὐχεῖν ὡς ἐφ᾽ εὑρέσει καινῇ; παλαιὸν γὰρ εὕρεμα Μωυσέως ἐστὶ τὸ ἐκ τοῦ αὐτοῦ τὰ ἐναντία τμημάτων λόγον ἔχοντα ἀποτελεῖσθαι, καθάπερ ἐναργῶς ἐδείχθη. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 35 (d), p. 506; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 337, pp. 244-246.
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ne che contrari sono in verità una sola e unica realtà, e appaiono in quanto tali solo quando si divide l’intero in due metà: «uno, infatti, è l’ente composto dei due contrari, e solo nel momento in cui è diviso, i contrari sono riconoscibili» (ἓν γὰρ τὸ ἐξ ἀμφοῖν τῶν ἐναντίων, οὗ τμηθέντος γνώριμα τὰ ἐναντία). Secondo Filone, questa è l’antica dottrina di Mosé di cui Eraclito si sarebbe appropriato, vantandosene come di una scoperta personale, vale a dire la provenienza dei due contrari dalla medesima entità per divisione: «i contrari si definiscono da uno stesso intero, di cui rappresentano le parti» (τὸ ἐκ τοῦ αὐτοῦ τὰ ἐναντία τμημάτων λόγον ἔχοντα ἀποτελεῖσθαι). Ora, la concezione che la realtà consta di contrari non è estranea alla Scrittura, come testimonia Sirac. 33:15: «E contempla tutte le opere dell’Altissimo: due per due, l’una opposta all’altra» (καὶ οὕτως ἔμβλεψον εἰς πάντα τὰ ἔργα τοῦ ὑψίστου, δύο δύο, ἓν κατέναντι τοῦ ἑνός), o Sirac. 42:24-25: «Tutte le cose sono duplici, l’una opposta all’altra, e [Dio] non creò niente d’imperfetto» (πάντα δισσά, ἓν κατέναντι τοῦ ἑνός, καὶ οὐκ ἐποίησεν οὐδὲν ἐλλεῖπον). Filone, dal canto suo, presenta liste di opposizioni in trattati filosofici (Aet. 104) o allegorici (Somn. 1.17), in cui afferma l’identità dei contrari (Gig. 41), sostiene che ogni contrario si conosce in relazione al suo contrario (Ebr. 186-187), o asserisce che tutti i contrari si uniscono nel cosmo come i suoni di un’unica armonia, come le parti manchevoli dell’intero perfetto creato da Dio (Cher. 110-112). In questo caso, invece, Filone attribuisce al sacrificio di Abramo un significato filosofico, e precisamente eracliteo50, affermando che, per Eraclito, i contrari percepibili in natura sono in realtà le due metà di un tutto identico. Si tratta ora di capire se questa definizione concorda con quanto sappiamo sulla dottrina eraclitea dei contrari attraverso le altre fonti antiche, e in caso positivo, se Filone apporta qualche complemento o precisazione rispetto ad esse. E dato che il catalogo filoniano (Her. 208 ss.) riecheggia esempi eraclitei di contrari, è possibile che anche il sunto fornito da Filone sulla dottrina di Eraclito si basi, almeno in parte, su materiale eracliteo. *
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Riassumendo e concludendo, la duplice testimonianza di Filone, QG 3.5 e Her. 214, presenta un riferimento alla dottrina dei contrari di Eraclito nel
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Cf. É. Bréhier (19252), op. cit., pp. 86-87.
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commento al sacrificio degli animali che sancisce il patto tra Dio e Abramo in Gen. 15:10. Secondo l’interpretazione filoniana del gesto rituale, Dio divide e unisce tutte le cose tramite il Logos che è il «divisore» (τομεύς) (Her. 130) e ad un tempo il «legame» (δεσμός) dell’universo (Her. 188)51. Per l’Alessandrino, infatti, che sovrappone e intreccia Genesi biblica e filosofia della natura, il Logos è ciò che divide ogni ente corporeo e incorporeo in parti uguali e contrarie, e lo tiene unito in sé e al mondo, creando l’essenza di ogni realtà attraverso la divisione, e garantendone la sussistenza tramite l’unione. L’esplicito riferimento a Eraclito in QG 3.5, ma soprattutto in Her. 214, manifesta l’esigenza filoniana di spiegare il significato della parola biblica attraverso una dottrina filosofica eminente. Filone testimonia così non solo la fortuna del pensiero eracliteo nell’epoca filosofica detta medioplatonica, ma anche la conoscenza di Eraclito e l’interesse per la sua concezione dell’unità dei contrari nell’ambito del giudaismo alessandrino di I secolo. La lista di Her. 208212, che riprende e amplia quella di QG 3.5, comprende un numero maggiore di opposti rispetto a quelli presenti nei frammenti eraclitei conservati. Non è da escludere che Filone attinga a una più completa collezione di dicta eraclitei circolante nell’Alessandria del suo tempo, se non addirittura a una copia del perduto libro Sulla Natura52 , ma è anche verosimile che il catalogo dei contrari di Filone sia il risultato di una sistematizzazione (tardo-)ellenistica dei detti eraclitei sui contrari. Il sunto della dottrina eraclitea che Filone propone in coda al catalogo di Her. 214, inoltre, più preciso di quello di QG 3.5, sottintende una certa inter-
51
Cf. l’anticipazione in Her. 23. E’ difficile stabilire chi fosse in possesso dello scritto integrale di Eraclito e in quale epoca. Secondo G.S. Kirk (in Id.-J.E. Raven, The Presocratic Philosophers. A Critical History with a Selection of Texts, Cambridge 1957, p. 186), neppure una fonte antica come Teofrasto, dal quale dipende almeno in parte la posteriore dossografia, sembra aver avuto accesso allo scritto intero dell’Efesio o a una collezione rappresentativa di apoftegmi, poiché lamenta l’incompletezza o l’inconsistenza delle sentenze di Eraclito. Secondo R. Mondolfo (ora in Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Intr., pp. CXXXIII ss.; CLXI ss. e CXCVII s.), invece, Platone, Aristotele e Teofrasto ebbero conoscenza diretta di Eraclito, perché manifestano chiari indizi di lettura del libro. Secondo S.N. Mouraviev (in Mour. op. cit., III.1 (2003), pp. 201, 207), lo scritto di Eraclito circolò almeno fino al III secolo della nostra era, quando giunse tra le mani dell’autore della Refutatio omnium haeresium. Di recente, D. Sider (The fate of Heraclitus’ Book in Later Antiquity, in E. Hülsz Piccone (ed.) (2009), op. cit., pp. 443-458) ha ipotizzato un processo di trasmissione in tre tappe: 1) riproduzione diretta del syggramma di Eraclito (in prosa continua); 2) citazione a memoria o parafrasi approssimativa (quando il testo diviene più raro); 3) costituzione di una syllogê eraclitea, vale a dire di una compilazione spuria di frammenti letterari (non letterali). 52
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pretazione della teoria eraclitea dei contrari. Filone non cita nessun testo di Eraclito, come invece fa altrove, perché ciò di cui ha bisogno per la sua dimostrazione è solo richiamare il principio generale della filosofia dell’Efesio. Quale che sia la sua fonte, l’Alessandrino è l’unico autore dell’Antichità ad attribuire espressamente a Eraclito una dottrina dell’unità e della divisione di ogni realtà naturale in due parti uguali e contrarie. L’indagine deve allora proseguire con lo studio comparativo delle altre fonti che forniscono testimonianze, non tanto e non solo sugli opposti eraclitei, ma sul principio stesso dell’unità dei contrari di Eraclito. Si potrà allora cogliere la distanza di Filone da Eraclito e la particolarità del contributo filoniano rispetto a quello degli altri testimoni antichi. 2. Paralleli rilevanti Il resoconto di Filone va innanzitutto paragonato a quelli di Platone e Aristotele, che poggiano su una conoscenza diretta del testo di Eraclito, le cui copie dovevano transitare per Atene, la capitale della cultura classica. Platone, nel Simposio (187 a), fa esporre al medico Erissimaco la dottrina secondo cui l’armonia musicale è l’accordo, cioè la conciliazione o la consonanza tra i suoni contrari, acuto e grave, citando parzialmente il frammento 51 DK: «E’ probabilmente ciò che anche Eraclito vuole dire, sebbene la sua espressione non sia molto felice; afferma, infatti, che l’uno “discordando in se stesso con se stesso concorda, come la congiunzione (harmoniê) dell’arco e della lira”» (ὥσπερ ἴσως καὶ Ἡράκλειτος βούλεται λέγειν, ἐπεὶ τοῖς γε ῥήμασιν οὐ καλῶς λέγει. τὸ ἓν γάρ φησι "διαφερόμενον αὐτὸ αὑτῷ συμφέρεσθαι, ὥσπερ ἁρμονίαν τόξου τε καὶ λύρας") (Symp. 187 a 3-6). E ancora, nel Sofista (242 d = 22 A 10 DK), Platone fa allusione a certe Muse ioniche (Eraclito di Efeso) e siciliane (Empedocle di Agrigento), secondo cui l’essere è ad un tempo molteplice e uno: «“discordando, infatti, sempre concorda” dicono le Muse più intransigenti [i.e. Eraclito]» (διαφερόμενον γὰρ ἀεὶ συμφέρεται, φασὶν αἱ συντονώτεραι τῶν Μουσῶν). Secondo Platone, dunque, Eraclito ed Empedocle sono i Presocratici che, diversamente dagli altri, avrebbero conciliato l’ontologia monista con quella dualista e pluralista. Aristotele, dal canto suo, non solo cita il frammento eracliteo 8 DK nell’Etica Nicomachea (1155 b 4): «ciò che contrasta concorda, e da discordanti la più bella congiunzione (harmoniê)» (τὸ ἀντίξουν συμφέρον καὶ ἐκ τῶν διαφερόντων καλλίστην ἁρμονίαν), ma si riferisce a Eraclito anche parlando
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dell’armonia dei contrari nell’Etica Eudemia (1235 a 25-30 = 22 A 22 DK): «secondo altri, i contrari sono amici, ed Eraclito rimprovera al poeta [scil. Omero] di aver detto [...]: non ci sarebbe congiunzione (harmoniê), infatti, se non ci fossero l’acuto e il grave, né esseri viventi senza la femmina e il maschio, che sono contrari» (οἳ δὲ τὰ ἐναντία φίλα, καὶ Ἡράκλειτος ἐπιτιμᾷ τῷ ποιήσαντι [...] οὐ γὰρ ἂν εἶναι ἁρμονίαν μὴ ὄντος ὀξέος καὶ βαρέος, οὐδὲ τὰ ζῷα ἄνευ θήλεως καὶ ἄρρενος ἐναντίων ὄντων). Nei Topici (159 b 30), inoltre, Aristotele riferisce che per Eraclito «buono e cattivo sono lo stesso» (ἀγαθὸν καὶ κακὸν εἶναι ταὐτόν)53, come ribadisce nella Fisica (185 b 20)54, in cui sancisce che quasi tutti i suoi predecessori – ivi inclusi i Pitagorici – hanno posto i contrari come principi delle cose (188 a 19). Nella Metafisica (1062 b 1-2), invece, lo Stagirita critica la logica di Eraclito, secondo cui due proposizioni contraddittorie possono essere entrambe vere, ad un tempo e secondo il medesimo rispetto: «la stessa cosa può essere e non essere in un solo e stesso tempo» (τὸ αὐτὸ καθ᾽ ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν χρόνον εἶναί τε καὶ μὴ εἶναι). Secondo Aristotele (ivi, 1063 b 25 ss.), infatti, la posizione eraclitea infrange il principio di non-contraddizione secondo cui è impossibile predicare attributi contrari di uno stesso soggetto55. In Met. 1009 a 22-25, quindi, senza riferirsi esplicitamente a Eraclito, Aristotele confuta il relativismo di Protagora, assimilandolo alla dottrina dei negatori del principio di contraddizione, e affermando che hanno avuto difficoltà maggiori quanti sono giunti a tale posizione in base all’osservazione dei fenomeni: «hanno creduto innanzitutto che i contrari e i contraddittori possano sussistere ad un tempo, vedendo che i contrari derivano da una stessa cosa» (ἡ μὲν τοῦ ἅμα τὰς ἀντιφάσεις καὶ τἀναντία ὑπάρχειν ὁρῶσιν ἐκ ταὐτοῦ γιγνόμενα τἀναντία). La testimonianza di Aristotele si allinea dunque a quella di Platone nell’attribuire a Eraclito la concezione dell’armonia di elementi dissonanti come accordo di quantità e qualità discordanti, vale a dire l’unità ontologica di due
53 Cf. Mour., op. cit. III.3.B/i (2006), F 5A, p. 25, che fa della testimonianza aristotelica un frammento eracliteo. 54 Cf. anche Alessandro di Afrodisia, In Top., p. 552 Wallies; Simplicio, In Phys., pp. 50 e 82 Diels. 55 Cf. anche Met. 1005 b 23 (= 22 A 7 DK), in cui Aristotele afferma, sempre a proposito del principio di non-contraddizione: ἀδύνατον γὰρ ὁντινοῦν ταὐτὸν ὑπολαμβάνειν εἶναι καὶ μὴ εἶναι, καθάπερ τινὲς οἴονται λέγειν Ἡράκλειτον («è impossibile, infatti, a chiunque pensare che la stessa cosa sia e non sia, come alcuni credono dicesse Eraclito»); Met. 1012 a 24-26, in cui Aristotele conclude: ἔοικε δ᾽ ὁ μὲν Ἡρακλείτου λόγος, λέγων πάντα εἶναι καὶ μὴ εἶναι, ἅπαντα ἀληθῆ ποιεῖν («sembra che la dottrina di Eraclito, dicendo che tutte le cose sono e non sono, faccia esser vere tutte le cose»).
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enti separati o proprietà distinte56. Rispetto a Platone, tuttavia, Aristotele considera la dottrina eraclitea dei contrari anche dal punto di vista logico, attribuendo a Eraclito l’opinione secondo cui due predicati opposti si applicano a un solo soggetto, e attribuendo a certi fisici presocratici un’analoga posizione sulla base dell’esperienza empirica dei contrari che si generano dalla stessa cosa. Criticando i negatori del principio di non-contraddizione, in cui è probabilmente incluso Eraclito, Aristotele fornisce un resoconto su una teoria presocratica che somiglia a quello di Filone sulla dottrina eraclitea dei contrari. È dunque probabile che Filone si basi su materiale almeno in parte aristotelico o di scuola aristotelica, vale a dire di tradizione peripatetica, come suggerirebbe anche il parallelo con il trattato Sul mondo dello pseudo-Aristotele. 2.1. De mundo: l’armonia universale Il De mundo è un opuscolo cosmologico-teologico che ha diviso gli specialisti dell’Antichità classica e tarda tra coloro che lo attribuiscono ad Aristotele57 e quanti, invece, a un ignoto autore di I secolo a. C.-I secolo d. C58. Oltre alla tendenza prevalentemente aristotelica e all’influenza accademica e stoica, i critici hanno in effetti stabilito paralleli con gli Pseudepigrapha pitagorici59 e scoperto affinità con la speculazione giudeo-alessandrina60, in particolare filo-
56 Sull’eco platonico della dottrina eraclitea secondo cui i contrari provengono dai contrari, cf. Phaed. 70 ss. e Resp. 431 b-c; su quello aristotelico, secondo cui ogni cambiamento avviene da un contrario all’altro, cf. De gen. et corr. 332 a 6 ss. e De caelo 280 a. 57 Per una traduzione italiana con testo greco a fronte, cf. Il trattato sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele, a cura di G. Reale e A. P. Bos, Milano 1995, la cui attribuzione ad Aristotele è discutibile, soprattutto a causa del vocabolario e dei concetti stoici presenti nel testo. 58 Cf. A.-J. Festugière, op. cit., vol. II (1949), pp. 477-479. Il fatto che Cicerone non menzioni né utilizzi il De mundo, ad esempio, non autorizza una datazione più alta. 59 Cf. J.P. Maguire, The Sources of Pseudo-Aristotle De Mundo, «YCS» 6 (1939), pp. 110-167, secondo cui i capp. 5-6 del De mundo tradiscono l’influenza della tradizione neo-pitagorica. 60 Cf. R. Radice, La filosofia di Aristobulo e i suoi nessi con il «De mundo» attribuito ad Aristotele, Milano 1994, pp. 29 e passim, che individua nel concetto di δύναμις θεοῦ («potenza divina») del De mundo uno degli elementi più probanti del rapporto fra l’autore del trattato e il filosofo giudeo-alessandrino di II secolo a. C. Aristobulo. Secondo R. Radice, la «potenza divina» del De mundo rappresenta la chiave di lettura filosofica del rapporto tra Dio (Creatore) e cosmo (creatura) espresso nella Scrittura giudaica, dando ragione della presenza e dell’attività dell’Essere supremo nel mondo e, al contempo, salvandone la trascendenza.
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niana61. Il trattato si costituisce di una prima parte protrettica, che consiste in un’esortazione alla filosofia (cap. 1), di una seconda parte teorica (capp. 2, 3, 4, 5) in cui sono esposti concetti e teorie astronomiche, geografiche e meteorologiche, e si conclude con una sezione metafisico-teologica (capp. 6-7). Il riferimento alla dottrina eraclitea dell’armonia degli opposti si trova nel capitolo 5 del De mundo, che rappresenta l’anello di congiunzione tra il «parlare in termini di natura» (φυσικῶς λέγειν) dei primi capitoli e il «parlare del divino» (θεολογεῖν) degli ultimi62 , e che funge da cerniera tra la descrizione generale del cosmo sensibile nelle sue diverse parti e il discorso su Dio come causa suprema che lo governa. In questa sezione l’autore sostiene che, sebbene costituito di elementi contrari, il mondo è un tutto unitario e ordinato. La tesi dello pseudo-Aristotele è che, nonostante l’universo sia composto di principi e qualità opposti tra loro, non si scinde nelle sue diverse componenti dissolvendosi ma, al contrario, è tenuto insieme e conservato nello stesso stato dall’unica potenza o forza divina che lo pervade in ogni sua parte, determinando e garantendo l’accordo dei contrari. Ecco il cuore dello sviluppo di De mundo 5, 396 b (pp. 74-77 Lorimer): E forse la natura ha un’inclinazione per i contrari, e da questi realizza l’accordo, non dai simili, come appunto ha congiunto il maschio alla femmina, e non ciascuno dei due al proprio congenere, e ha costituito la prima concordia tramite i contrari, non i simili. E anche l’arte, imitando la natura, sembra fare lo stesso. La pittura, infatti, mescolando le nature dei colori bianchi e neri, gialli e rossi, realizza immagini fedeli ai modelli; la musica, combinando insieme suoni acuti e gravi, lunghi e brevi, realizza con diverse voci una sola armonia; la grammatica, mettendo insieme lettere vocali e consonanti, compone con esse tutta quanta la sua arte. Ed è proprio questo ciò che significa anche il detto di Eraclito l’Oscuro: “Connessioni interi e non interi, concordante discordante, consonante dissonante, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose” (22 B 10 DK). Così dunque, un’armonia unica ha ordinato anche la costituzione dell’universo, voglio dire del
61 Cf. M. Harl (ed.) in PAPM, op. cit., vol. 15 (1966), pp. 74-77; D.M. Hay (1973), art. cit., pp. 19-20; R. Radice (1989), op. cit., pp. 77-79; P. Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci, vol. II [1984], tomo I. Gli Aristotelici nei secoli I e II d. C., Intr. di G. Reale, tr. it. di S. Tognoli, rev. e ind. di V. Cicero, Milano 2000, pp. 15-87, il quale, sulla base dei molti punti di contatto con la vasta opera di Filone, come la dottrina delle potenze di Dio, non esclude che il De mundo appartenga allo stesso ambiente filosofico dell’Alessandrino. 62 Cfr. De mundo 1, 391 b 3-5; 2, 391 b 9-12; ma soprattutto 6, 397 b 9-13.
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cielo, della terra e di tutto quanto il cosmo, tramite la mescolanza dei principi più contrari63.
La citazione corrisponde al frammento 10 DK di Eraclito: συνάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα («Connessioni interi e non interi, concordante discordante, consonante dissonante, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose»). Il De mundo è l’unica fonte letterale del detto eracliteo64, assieme alla versione latina attribuita al medioplatonico Apuleio (II sec.), che non è una mera riproduzione del trattato pseudo-aristotelico sul cosmo, bensì una parafrasi e un adattamento del modello alla diversa lingua e cultura di un altro pubblico65.
63 Ἴσως δὲ τῶν ἐναντίων ἡ φύσις γλίχεται καὶ ἐκ τούτων ἀποτελεῖ τὸ σύμφωνον, οὐκ ἐκ τῶν ὁμοίων, ὥσπερ ἀμέλει τὸ ἄρρεν συνήγαγε πρὸς τὸ θῆλυ καὶ οὐχ ἑκάτερον πρὸς τὸ ὁμόφυλον, καὶ τὴν πρώτην ὁμόνοιαν διὰ τῶν ἐναντίων σηνῆψεν, οὐ διὰ τῶν ὁμοίων. Ἔοικε δὲ καὶ ἡ τέχνη τὴν φύσιν μιμουμένη τοῦτο ποιεῖν. Ζωγραφία μὲν γὰρ λευκῶν τε καὶ μελάνων, ὠχρῶν τε καὶ ἐρυθρῶν, χρωμάτων ἐγκερασαμένη φύσεις τὰς εἰκόνας τοῖς προηγουμένοις ἀπετέλεσε συμφώνους, μουσικὴ δὲ ὀξεῖς ἅμα καὶ βαρεῖς, μακρούς τε καὶ βραχεῖς, φθόγγους μίξασα ἐν διαφόροις φωναῖς μίαν ἀπετέλεσεν ἁρμονίαν, γραμματικὴ δὲ ἐκ φωνηέντων καὶ ἀφώνων γραμμάτων κρᾶσιν ποιησαμένη τὴν ὅλην τέχνην ἀπ᾽ αὐτῶν συνεστήσατο. Ταὐτὸ δὲ τοῦτο ἦν καὶ τὸ παρὰ τῷ σκοτεινῷ λεγόμενον Ἡρακλείτῳ· "Συλλάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾷδον διᾷδον· ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα." Οὕτως οὖν καὶ τὴν τῶν ὅλων σύστασιν, οὐρανοῦ λέγω καὶ γῆς τοῦ τε σύμπαντος κόσμου, διὰ τῆς τῶν ἐναντιωτάτων κράσεως ἀρχῶν μία διεκόσμησεν ἁρμονία. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 25 (a), pp. 447-448; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 383, pp. 318 ss. 64 Fonti secondarie del frammento sono il Corpus Hippocraticum (De nutrim. 40, 48; De victu I 18); Luciano di Samosata, Vit. auctio 14; Sesto Empirico, Adv. Math. IX 337. 65 Cf. Apuleio, De Mundo 19-21: Et, ut res est, contrariorum per se natura flectitur et ex dissonis fit unus idemque concentus. Sic mare et femineum secus iungitur ac diversus utriusque sexus ex dissimilibus simile animal facit; artesque ipsae naturam imitantes ex imparibus paria faciunt: pictura ex discordibus pigmentorum coloribus, atris atque albis, luteis et puniceis, confusione modica temperatis, imagines iis quae imitatur similes facit; ipsa etiam musica, quae de longis et brevibus, acutis et graviroribus sonis constat, tam diversis et dissonis vocibus harmoniam consonam reddit; grammaticorum artes vide, quaeso, ut ex diversis collectae sint litteris ex quibus aliae sunt insonae, semisonantes aliae, pars sonantes: hae tamen mutuis se auxiliis adiuvantes syllabas pariunt et de syllabis voces. Hoc Heraclitus sententiarum suarum mobilis ad hunc modum est : Συνλάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾷδον διᾷδον· ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα. Sic totius mundi substantiam initiorum inter se imparium conventu pari nec discordante consensu natura veluti musicam temperavit: namque umidis arida et glacialibus flammida, velocibus pigra, directis obliqua confundit "unumque ex omnibus et ex uno omnia" iuxta Heraclitum constituit («E come mostra la realtà, la natura è ripiegata in elementi [o aspetti] in sé contrari e dai dissonanti trae un unico e identico accordo. Così, il maschio e la femmina si congiungono e i sessi contrari dei due generano, dalle loro dissomiglianze, un essere vivente a loro simile; anche le arti stesse, imitando la natura, producono con materiali diversi opere uguali: la pittura, da colori contrastanti, neri e bianchi, gialli e rossi, mescolati in una combinazione equilibrata, produce immagini somiglianti ai modelli che imita; anche la stessa musica, che consta di lunghe e brevi, di acuti e gravi, con voci così diverse e dissonanti, rende un’armonia consonante; considera, ti prego, le arti della grammatica, che sono composte di lettere diverse, alcune consonan-
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Lo pseudo-Aristotele intende rendere conto dell’incorruttibilità del mondo sulla base della conciliazione, cioè dell’accordo armonico ed equilibrato degli elementi contrari che lo compongono. Non solo l’autore menziona e cita Eraclito, ma tutto lo sviluppo mostra una certa affinità con Filone, Her. 207-214 che culmina con la relazione istituita tra la rivelazione mosaica e la dottrina eraclitea. Fin dall’inizio dell’argomento (De mundo 5, 396 a 33 ss.), lo pseudoAristotele evoca coppie di opposti, quali caldo-freddo o secco-umido, ma anche giovani-vecchi, che appartengono a frammenti eraclitei e che si ritrovano nel catalogo filoniano dei contrari (Her. 208 ss.). L’antitesi buoni-cattivi, invece, richiama concettualmente i frammenti 104 e 58 DK di Eraclito66 e la duplice testimonianza aristotelica67 sull’identificazione eraclitea degli opposti che risuona nell’opposizione filoniana virtù-vizio (Her. 209). Le coppie poveri-ricchi e deboli-forti, assenti dai frammenti eraclitei conservati (125 DK?), possono essere associate alle opposizioni filoniane povertà-ricchezza e debolezza-forza (Her. 212). Spiegando che la natura trae l’accordo dagli elementi contrari, e non dai simili, l’autore del De mundo adduce l’esempio del maschio e della femmina, che compare nella testimonianza di Aristotele68 sulla dottrina eraclitea dei due sessi da cui si origina l’essere vivente, e in Filone a proposito della divisionedistinzione dell’animale in due generi (Her. 139). Lo pseudo-Aristotele prosegue quindi dicendo che l’arte, imitando la natura, produce unità e omogeneità da elementi contrari: l’opposizione acuto-grave richiama la testimonianza plati, altre semi-vocali, altre ancora vocali: queste, tuttavia, prestandosi aiuto mutuamente, formano sillabe, e con sillabe, parole. E’ ciò che Eraclito ha espresso nei termini nebulosi delle sue sentenze in questo modo: “Congiungimenti interi e non interi, concordante discordante, consonante dissonante, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose”. Così per la sostanza dell’universo intero, attraverso l’incontro di principi tra loro diversi, attraverso l’intesa consonante e non discordante, la natura l’ha composta come una musica; e, infatti, ha mescolato l’arido all’umido e il focoso al glaciale, il lento al veloce, l’obliquo al diritto e ha costituito “da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose”, come dice Eraclito»). 66 22 B 104 DK: τίς γὰρ αὐτῶν νόος ἢ φρήν; δήμων ἀοιδοῖσι πείθονται καὶ διδασκάλωι χρείωνται ὁμίλωι οὐκ εἰδότες ὅτι "οἱ πολλοὶ κακοί, ὀλίγοι δὲ ἀγαθοί («qual è infatti il loro intelletto o senno? Credono ai cantori di piazza e prendono a maestro il volgo, non sapendo che i più sono cattivi e pochi i buoni»); 58 DK: οἱ γοῦν ἰατροί τέμνοντες, καίοντες, ἐπαιτέονται μηδὲν ἄξιοι μισθὸν λαμβάνειν, ταὐτὰ ἐργαζόμενοι («i medici certo che tagliano e bruciano [i.e. amputano e cauterizzano] in ogni modo si lamentano di non ricevere un degno compenso, procurando benefici che sono allo stesso tempo malattie»). (Mour., op. cit., III.3.B/1 (2006), F 104 e 58 ricostruisce e traduce in altro modo i due testi). Cf. anche il frammento 22 B 102 DK. 67 Cf. Aristotele, Top. 159 b 30; Phys. 185 b 20. 68 Cf. Aristotele, Et. Eud. 1235 a.
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tonico-aristotelica sull’armonia eraclitea di suono acuto e grave69; le altre opposizioni si ritrovano parzialmente nelle cosiddette “tavole pitagoriche” 70 e hanno un parallelo nel catalogo dei contrari di Filone (Her. 209-210)71. A questo punto l’autore cita il frammento 10 DK di Eraclito, secondo cui «connessioni» (συνάψιες) – in senso di legame fisico e nesso relazionale72 – fanno «da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose» (ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα), perché l’unico universo è un tutto composto di diverse parti: «interi e non interi, concordante discordante, consonante dissonante» (ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾶιδον διᾶιδον). In seguito lo pseudo-Aristotele, secondo cui un’unica «armonia» (ἁρμονία) ha organizzato il mondo intero sintetizzando elementi e aspetti contrari73, si chiederà (De mundo 5, 397 a 1114): «Dove si potrebbe trovare un’esattezza come quella che mantengono le nobili stagioni generatrici dell’universo, che riportano regolarmente estati e inverni, giorni e notti, per il compimento del mese e dell’anno?» (τίς δὲ γένοιτ᾽ ἂν ἀψεύδεια τοιάδε, ἥντινα φυλάττουσιν αἱ καλαὶ καὶ γόνιμοι τῶν ὅλων ὧραι, θέρη τε καὶ χειμῶνας ἐπάγουσαι τεταγμένως ἡμέρας τε καὶ νύ κτας εἰς μηνὸς ἀποτέλεσμα καὶ ἐνιαυτοῦ;). Oltre al riferimento alle stagioni74, il passaggio presenta gli opposti giorno-notte e inverno-estate che appartengono al frammento 67 DK di Eraclito e ricorrono nel catalogo filoniano dei contrari. L’armonia di cui parla l’autore del De mundo – termine e concetto originariamente eracliteo75 – è l’unità essenziale che fonda i contrari di cui si fa esperienza nella realtà: un’unità ontologica che regola tutti gli aspetti dell’universo, che si manifesta a tutti i livelli e in tutte le parti della natura, e in ogni arte o scienza umana, dalla musica alla medicina. Rispetto alle antiche conce-
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Cf. Platone, Symp. 187 a; Aristotele, Et. Eud. 1235 a. Si pensi ancora alla tavola decadica delle opposizioni che Aristotele (Met. 986 a 15-34) attribuisce ai Pitagorici. 71 Sul nesso tra musica e politica nel pitagorismo eclettico di IV secolo a. C., cf. A. Visconti, Musica e attività politica in Aristosseno di Taranto, in Tra Orfeo e Pitagora. Origini e incontri di culture nell’antichità. Atti dei seminari napoletani 1966-1998, a cura di M. Tortorelli Ghidini, A. Storchi Marino, A. Visconti, Napoli 2000, pp. 463-485. 72 Cf. B. Snell, Heraklit, Fragment 10, «Hermes» 76 (1941), pp. 84-87. 73 L’opposizione rettilineo-circolare di De mundo 396 b richiama concettualmente quella tra dritto e curvo del frammento eracliteo e del catalogo filoniano. 74 Cf. 22 B 100 DK: ὥρας αἳ πάντα φέρουσι («le stagioni che portano tutte le cose»). 75 Cf. 22 B 8, 51 e 54 DK. 70
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zioni e speculazioni sui contrari76, che si possono ravvisare nella poesia di Esiodo, nella fisica di Anassimandro o negli scritti dei primi Pitagorici77, rielaborate e confluite nella filosofia platonica e soprattutto aristotelica78, e di nuovo in auge in epoca medioplatonica, Eraclito è il Presocratico che ha concepito ogni natura particolare, e la Natura nel suo insieme, sulla base dell’unità e della distinzione dei contrari che la costituiscono, cioè che ha riflettuto sulla relazione degli opposti tra loro e rispetto al mondo. Lo pseudo-Aristotele cita il frammento 10 DK di Eraclito nell’argomento volto a dimostrare l’incorruttibilità del mondo: secondo l’autore, le nascite e le morti individuali e parziali determinano e garantiscono la sopravvivenza del Tutto79 – conformemente alla dottrina aristotelica dell’eternità del cosmo80 –, ma Dio è il garante della conservazione del mondo81 – come nelle filosofie postaristoteliche. L’armonia universale dei contrari è spiegata con i corollari dell’isomoiria (uguaglianza delle parti) e dell’isodynamia (uguaglianza delle potenze), cioè tramite il concetto di uguaglianza cosmica, elaborato attraverso espressioni e concezioni pitagoriche82 , platoniche83 e aristoteliche84, ma anche stoiche85; Eraclito, tuttavia, è la sola autorità antica menzionata. L’autore del De mundo fornisce dunque una testimonianza sulla dottrina eraclitea dei contrari in termini di connessioni o congiunzioni, laddove Filone insiste soprattutto sulla loro divisione, anche se si tratta di divisione in due
76 Sulla diffusione del concetto di contrarietà nell’Antichità, cf. G. Martano, Contrarietà e dialettica nel pensiero antico, Napoli 1972. Sull’idea dei contrari e sulla nozione di armonia in Empedocle, cf. G. Casertano, Orfismo e pitagorismo in Empedocle?, in Tra Orfeo e Pitagora (2000), op. cit., pp. 195-236, spec. pp. 214 ss. 77 Cf. soprattutto i frammenti 44 B 1, 6 e 10 DK, in cui il pitagorico di V secolo a. C. Filolao definisce il cosmo come armonia di principi ed elementi contrari, cioè eterogenei e dissimili. Sulla dottrina dei contrari nei primi Pitagorici, cf. G. Casertano, I Presocratici, Roma 2009, pp. 59-62. 78 G. Reale (ed.) (1995), op. cit., pp. 100-102 e note, indica a questo proposito passaggi come Aristotele, De gen. et corr. 330 b 30 ss. e 331 A 13 ss., ispirati a Platone, Phaed. 70 e ss., e Met. 1004 b 27 ss., e ricorda che lo stesso Aristotele aveva dedicato alla tematica un’opera monografica, perduta, eccetto qualche frammento, e intitolata La distinzione dei contrari (cf. il catalogo di Diogene Laerzio, V 22). 79 Cf. De mundo, 396 a 30-32 e 397 b 3-5. 80 Cf. in particolare Aristotele, De phil., fr. 19a Ross (= 916 Gigon); Meteor. 351 a 20 ss. 81 Cf. De mundo 6, 400 a 3-4. 82 Cf. 58 B 1a DK o 58 B 14 DK. 83 Cf. Platone, Tim. 32 b s. o Gorg. 507 e ss. 84 Cf. Aristotele, Meteor. 340 a 3 ss. o De mot. an. 699 a 33 ss. 85 Cf. Zenone, fr. 162 Arnim; Diogene Laerzio, VII 88.
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dell’unico intero86. Lo studio comparativo suggerisce che le opposizioni prese ad esempio nel trattato sul cosmo e in quello filoniano risalgono a un’interpretazione post-aristotelica di Eraclito, e probabilmente a una fonte comune. Il frammento eracliteo 10 DK, citato nel De mundo pseudo-aristotelico (5, 396 b 20-22), e noto a Filone – che vi allude in Spec. 1.208, su cui ritorneremo – potrebbe dunque essere sottinteso nel resoconto filoniano (Her. 214) della scienza eraclitea dei contrari. 2.2. Refutatio omnium haeresium: Dio Padre e il Figlio Gesù Cristo La dottrina dei contrari di Eraclito è trattata diffusamente nel Κατὰ πασῶν αἱρέσεων ἔλεγχος o Refutatio omnium haeresium, un trattato eresiologico redatto in lingua greca da un ecclesiastico cristiano nella Roma del III secolo d. C.87, originariamente in dieci libri, ma a tutt’oggi privo del II, del III e
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Cf. E.R. Goodenough (1932), art. cit., pp. 117 ss. Il problema della paternità e della datazione dell’opera è ancora aperto. Il nome di Origene compare sia nei manoscritti che ne hanno conservato il libro I, sia in quello che contiene i libri IV-X. Tuttavia, come mostra il contenuto della Refutatio, e in particolare la fine del libro IX e il libro X, l’autore non è Origene, ma un membro del clero romano consumatore della rottura scismatica con la Grande Chiesa in occasione dell’elezione a papa di Callisto nel 217, e identificato con Ippolito di Roma a partire dal 1859. P. Nautin (Hyppolyte et Josipe, Paris 1947; Lettres et écrivains chrétiens des IIe et IIIe siècles, Patristica II, Paris 1961) è stato il primo a dimostrare, invece, che Ippolito, l’autore di un’opera antieretica intitolata Syntagma – descritta da Fozio e conservata in un frammento che ne costituisce gli ultimi due capitoli (contro l’eresia di Noeto) nel Vaticanus gr. 1431 – non poteva essere l’autore della Refutatio. Secondo P. Nautin, questa è un’opera differente e anteriore, che egli attribuisce con certa probabilità a tale Giosippo. Se da un lato J. Daniélou (Bulletin d’histoire des origines chrétiennes, «RecSR» 35 (1948), pp. 593-617) criticava quest’argomentazione, A. Pourkier (L’Hérésiologie chez Épiphane de Salamine, Paris 1992) ha mantenuto la posizione di Nautin, secondo cui il Syntagma di Ippolito conosce e utilizza – oltre all’Adversus haereses di Ireneo – la Refutatio, composta verosimilmente dopo il 235. La tesi di Nautin è seguita anche dagli italiani V. Loi (La problematica storico-letteraria su Ippolito di Roma e l’identità letteraria di Ippolito di Roma, in Ricerche su Ippolito, Studia Ephemeridis “Augustinianum” 13, Roma 1977, pp. 9-16, 67-88) e M. Simonetti (Due note su Ippolito: Ippolito interprete di Genesi 49. Ippolito e Tertulliano, in Ricerche su Ippolito (1977), op. cit., pp. 121-136; Id., Aggiornamento su Ippolito, in Nuove ricerche su Ippolito, Studia Ephemeridis “Augustinianum” 30, Roma 1989, pp. 75-130), i quali sostengono che l’autore della Refutatio non è lo stesso del Contra Noetum e ipotizzano l’esistenza di un Ippolito di origine orientale. La tradizionale attribuzione è invece difesa da M. Marcovich nell’introduzione della sua edizione (Hippolytus: Refutatio Omnium Haeresium, M. Marcovich (ed.), Berlin-New York 1986). Cf. lo status quaestionis di P. Nautin, s.v. « Hippolyte », in A. Di Berardino et F. Vial [pour l’adaptation française] (ed.), Dictionnaire encyclopédique du Christianisme Ancien, Paris 1990 (19831), I, p. 1160-1164; J. Mansfeld, Heresiography in Context. Hippolytus’ Elenchos as a Source for Greek Philosophy, Leiden-New York-Köln 1992, pp. 317 ss.; C. Moreschini e E. Norelli, Storia della letteratura cristiana antica greca e latina, Brescia 1995, I, pp. 33887
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dell’inizio del IV libro88. La Refutazione di tutte le eresie è operata secondo un criterio ben preciso: i libri I-IV (detti Φιλοσοφούμενα) sono dedicati all’esposizione di dottrine greche, non solo filosofiche, ma anche misteriche, magiche e astrologiche; i libri seguenti (V-X), invece, alla descrizione di 33 eresie: l’obiettivo dell’eresiologo cristiano, infatti, è confutare le dottrine “eretiche” sulla base della loro affiliazione ad altrettante speculazioni del paganesimo greco89. La diadochê pitagorica, in particolare, è presentata come la tradizione più importante della filosofia greca: secondo l’autore, essa comprende Eraclito ed Empedocle, così come Platone, Aristotele e gli Stoici, ed è alla base di ogni eresia gnostica90. Il trattato antieretico rappresenta, con la copiosa ed eterogenea testimonianza di Clemente Alessandrino, la fonte maggiore delle citazioni verbatim di Eraclito. Il libro IX della Refutatio è dedicato all’eresia monarchiana (o monarchianista) di Noeto di Smirne, che nega la distinzione cristiana tra Dio, Padre e Creatore del mondo, e suo Figlio, il Logos incarnato nell’uomo nato dalla vergine Maria. Secondo l’autore, tale eresia avrebbe la sua origine nella dottrina eraclitea dell’unità dei contrari: come per Eraclito i contrari si identificano, così per Noeto (Ref. omn. haer. IX 10, 8)91 Dio Padre e suo Figlio Gesù Cristo sono uno e lo stesso. Per dimostrare che Noeto ha derivato la sua eresia, non dal Vangelo, ma dalla filosofia eraclitea, l’eresiologo presenta la dottrina di Eraclito, citando expressis verbis quelli che sono i frammenti 50-67 DK (Ref. omn. haer. IX 9, pp. 241-242 Wendland): 344; D. A. Bertrand, s.v. « Hippolyte de Rome », in R. Goulet (ed.), Dictionnaire des Philosophes Antiques (d’ora in avanti: DPhA), Paris 2000, III, pp. 791-799, spec. pp. 795 ss. La più recente raccolta di studi sulla Refutatio è G. Aragione-E. Norelli (ed.), Des évêques, des écoles et des hérétiques. Actes du Colloque International sur la «Réfutation de toutes les hérésies» (Genève, 13-14 juin 2008), Genève 2011. 88 Il libro I della Refutatio è conservato nei manoscritti seguenti: Laurentianus IX 32, Ottobonianus 194, Barberinus IV 78 et Taurinensis C I 10. I libri IV-X, invece, sono contenuti nel codex greco di XIV secolo rinvenuto sul monte Athos da M. Minoïde nel 1842: il Parisinus Suppl. gr. 464 (cf. H. Omont, Minoïde Mynas et ses missions en Orient (1840-1855), «MAI» 40 (1916), pp. 337-419). L’edizione critica di riferimento è Hippolytus, Refutatio omnium haeresium, P. Wendland (ed.), Leipzig 1916, HildesheimNew York 1977; la più recente è quella di M. Marcovich (1986, op. cit.), che corregge sovente la lezione del testo tràdito. 89 La Refutatio omnium haeresium si differenzia dall’Adversus haereses di Ireneo nella pretesa di esaustività, poiché intende passare in rassegna tutte le eresie e non solo le principali, e nella mancanza di confutazione, poiché si limita al solo ἔλεγχος («esposizione») e non alla loro ἀνατροπή («confutazione»). 90 Cf. J. Mansfeld (1992), op. cit., pp. 50-51 e passim. 91 E per il personale avversario dell’autore: papa Callisto, che si sarebbe affiliato all’eresia di Noeto (Ref. omn. haer. IX 12, 16-17).
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Eraclito dice dunque che il tutto è divisibile indivisibile, generato ingenerato, mortale immortale, logos tempo, Padre Figlio, Dio giustizia: “ascoltando non me, bensì il resoconto (logos), è sapiente convenire che tutte le cose sono uno” (22 B 50 DK), dice Eraclito. E che nessuno lo sappia, né lo riconosca, è ciò di cui si lamenta in questi termini: “non comprendono come discordando con se stesso convenga: congiunzione (harmoniê) retroversa [i.e. che da un contrario ritorna all’altro contrario], come quella dell’arco e della lira” (22 B 51 DK). E che il logos sia sempre, essendo il tutto e penetrando tutto, lo dice così: “Questo resoconto (logos) che è sempre gli uomini non comprendono, né prima di udirlo, né dopo averlo udito per la prima volta; infatti, sebbene tutte le cose accadano secondo questo resoconto (logos), sembrano gente senza alcuna esperienza di esse, pur facendo esperienza sia di parole sia di cose come quelle che io spiego, dividendo ciascuna di esse secondo natura e dicendo com’è. Ma gli altri uomini non si rendono conto di tutto ciò che fanno da svegli, così come non si rendono conto di tutto ciò che fanno quando dormono” (22 B 1 DK). E che il Figlio sia il tutto, e per l’eternità re eterno dell’universo, lo dice così: “il tempo della vita è un fanciullo che gioca, che gioca agli ossicini: la regalità di un fanciullo” (22 B 52 DK). E che il Padre di tutto ciò che è generato sia generato ingenerato, creatura Creatore, glielo sentiamo dire: “Guerra è il padre di tutte le cose, di tutte re, e gli uni designò dei, gli altri uomini, gli uni fece schiavi, gli altri liberi” (22 B 53 DK). E che sia “congiunzione (harmoniê) come quella dell’arco e della lira” [...]92
Il frammento citato dall’autore della Refutatio all’inizio del suo resoconto su Eraclito è il 50 DK: οὐκ ἐμοῦ ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι («ascoltando non me, bensì il resoconto (logos), è sapiente convenire che tutte le cose sono uno»)93. Presentando la dottrina eraclitea come
92 Ἡράκλειτος μὲν οὖν φησιν εἶναι τὸ πᾶν διαιρετὸν ἀδιαίρετον, γενητὸν ἀγένητον, θνητὸν ἀθάνατον, λόγον αἰῶνα, πατέρα υἱόν, θεὸν δίκαιον· "οὐκ ἐμοῦ ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι", ὁ Ἡράκλειτός φησι. καὶ ὅτι τοῦτο οὐκ ἴσασι πάντες οὐδὲ ὁμολογοῦσιν, ἐπιμέμφεται ὧδέ πως· "οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη, ὅκως περ τόξου καὶ λύρης". ὅτι δὲ λόγος ἐστὶν ἀεὶ τὸ πᾶν καὶ διὰ παντὸς ὤν, οὕτως λέγει· "τοῦ δὲ λόγου τοῦδ᾽ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι, καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιουτέων, ὁποῖα ἐγὼ διηγεῦμαι, διαιρέων κατὰ φύσιν καὶ φράζων ὅπως ἔχει". ὅτι δέ ἐστι παῖς τὸ πᾶν καὶ δι᾽ αἰῶνος αἰώνιος βασιλεὺς τῶν ὅλων, οὕτως λέγει· "αἰὼν παῖς ἐστι παίζων, πεττεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη". ὅτι δέ ἐστιν ὁ πατὴρ πάντων τῶν γεγονότων γενητὸς ἀγένητος, κτίσις δημιουργός, ἐκείνου λέγοντος ἀκούομεν "πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς, καὶ τοὺς μὲν θεοὺς ἔδειξε, τοὺς δὲ ἀνθρώπους, τοὺς μὲν δούλους ἐποίησε, τοὺς δὲ ἐλευθέρους". ὅτι δέ ἐστιν "ἁρμονίη, ὅκως περ τόξου καὶ λύρης" [...] Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 26 (a), p. 454 e passim; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 664, pp. 534 ss. 93 Cf. anche la ricostruzione e traduzione del frammento proposta da Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), F 50, pp. 126-129.
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l’origine dell’eresia monarchianista di Noeto di Smirne, l’eresiologo comincia dal detto che esprime in nuce la concezione dell’unità di tutto ciò che esiste in natura, perché l’identificazione eraclitea di ἕν («uno») e πάντα («tutte le cose») è all’origine dell’“eretica” identificazione propugnata da Noeto: quella tra Dio e Cristo, Creatore e creatura. Nell’introdurre la citazione del frammento 50 DK, in cui Eraclito stabilisce l’identità dell’unico principio e della totalità del mondo, l’eresiologo evoca le coppie di contrari «diviso indiviso, generato ingenerato, mortale immortale» (διαιρετὸν ἀδιαίρετον γενητὸν ἀγένητον θνητὸν ἀθάνατον), poi cita molti altri detti (51-67 DK) che esemplificano la concezione eraclitea dell’unità degli opposti. L’intenzione dell’autore è dimostrare che, per Eraclito, e per l’eresia che dipende dalla sua dottrina, padre e figlio, invisibile e visibile, giorno e notte, bene e male, dritto e curvo, alto e basso, puro e impuro, immortale e mortale, sono contrari, e in quanto tali, «uno e lo stesso» (ἓν καὶ τὸ αὐτό) (Ref. omn. haer. IX 10, 2-6). Se dunque il 50 DK, il primo dei testi citati dall’eresiologo, esprime l’unità di tutte le cose, del divino e del mondo, gli altri detti esprimono l’identità di ogni cosa con il suo contrario o l’identità dei contrari che le cose costituiscono94. L’autore ricorre innanzitutto ai frammenti in cui Eraclito concepisce l’unità degli opposti come intrinseca armonia di contrari, conformemente alle testimonianze platonico-aristoteliche95 sull’accordo dei discordanti. Si tratta del frammento 51 DK, in cui è questione di «congiunzione (harmoniê) retroversa [i.e. che da un contrario ritorna all’altro contrario], come quella dell’arco e della lira» (οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης), e del 54 DK: «congiunzione (harmoniê) invisibile più forte di quella visibile» (ἁρμονίη ἀφανὴς φανερῆς κρείττων), con i quali l’eresiologo conferma96 che l’armonia di Eraclito non è solo sintonia e sinfonia musicale, ma più generalmente la coesistenza e la composizione di elementi o qualità differenti in un tutto unico97. La controparte di questa “armonia”, intesa metaforicamente come amicizia, è per Eraclito il conflitto che oppone ogni contrario al suo contrario, come suggerisce il frammento 53 DK citato in seguito: «Guerra è il padre di tutte le cose, di tutte re» (Πόλεμος 94 95 96 97
Cf. C. Diano e G. Serra (edd.) (19932), op. cit., p. 143. Cf. 22 A 10 e 22 DK; B 8 DK. Cf. De mundo 5, 396 a-b. Cf. C. Diano e G. Serra (edd.) (19932), op. cit., pp. 134-135.
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πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς). Nel linguaggio di Eraclito, guerrapace98 è una delle metafore che indicano la realtà di ogni singola cosa e del divino tutto: una contesa99 di opposti belligeranti risolta nella conciliazione che i contendenti trovano nell’accordo; una distinzione-separazione che è anche conversione reciproca di un contrario nell’altro, e perciò un’unità-identità. Nello stesso passaggio della Refutatio si trova inoltre il testo che, sulla base di due fonti antiche100, è considerato l’incipit del perduto libro eracliteo. Si tratta del frammento 1 DK, in cui Eraclito denuncia l’ignoranza degli uomini circa il logos, che rappresenta ad un tempo il principio della natura e il discorso sulla natura: «sebbene tutte le cose accadano secondo questo resoconto (logos), sembrano gente senza alcuna esperienza di esse, pur facendo esperienza sia di parole sia di cose come quelle che io spiego, dividendo ciascuna di esse secondo natura e dicendo com’è» (γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτεων, ὁποία ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων καὶ φράζων ὅπως ἔχει)101. Eraclito cominciava dunque il suo scritto Sulla natura delle cose invitando gli uomini a seguirlo nella dettagliata esposizione della realtà che consiste nel far apparire gli aspetti che la costituiscono come un unico tutto: se ogni cosa si compone di due contrari, per comprenderla è necessario scinderla nelle sue singole componenti, distinguendone le parti o le qualità opposte102 . L’inizio del resoconto su Eraclito in Refutatio IX 9, dunque, fornisce i tratti generali della dottrina eraclitea attraverso citazioni letterali, e può essere messo in relazione con Filone Her. 207-214, che presenta una lunga lista di contrari e definisce la dottrina di Eraclito in termini di unità e divisione di opposti, assimilandola all’insegnamento biblico secondo cui Dio, tramite il suo logos, divide e unifica ogni realtà. Sulla base dello studio comparativo delle fon-
98 Cf. il già più volte citato frammento 22 B 67 DK, che compare alla fine del resoconto della Refutatio su Eraclito: ὁ θεὸς ἡμέρη εὐφρόνη, χειμὼν θέρος, πόλεμος εἰρήνη, κτλ. («il divino è giorno notte, inverno estate, guerra pace, etc.»). 99 Il termine ἔρις (“contesa”) appare nel frammento 22 B 80 DK di Eraclito. 100 Cf. le testimonianze di Aristotele, Ret. 1407 b 16 (= 22 A 4 DK) e Sesto Empirico, Adv. Math. VII 132 (= 22 A 16 DK). 101 La versione del frammento 22 B 1 DK data dalla Refutatio è più letterale di quella di Sesto, ma manca dell’ultima frase, presente invece nella citazione dell’Empirico. Nella sua recente edizione, S.N. Mouraviev (Mour., op. cit. III.3.B/i (2006), F 1a-F 1b, pp. 2-6) ricostruisce il testo del frammento in due parti. 102 Cf. M. Conche (ed.), Héraclite, Fragments, Paris 1986, 1998 4, 2005, p. 39.
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ti, quindi, è lecito pensare che, oltre al frammento 10 DK dato dal De mundo pseudo-aristotelico (5, 396 b 20-22), anche altri testi eraclitei, come il 50 DK citato nella Refutatio omnium haeresium (IX 9 ss.) – cui Filone fa allusione in Leg. 3.7 e Spec. 1.208, di cui ci occuperemo tra breve –, possono essere sottintesi in Her. 214. 3. L’unità dei contrari di Eraclito Filone è l’unico testimone antico a definire la dottrina dei contrari di Eraclito. Prima di lui, Platone fa riferimento all’armonia eraclitea dei contrari, in base alla quale un unico essere risulta identico in sé e diverso da sé, mentre Aristotele critica Eraclito come negatore del principio logico di non-contraddizione. Il De mundo pseudo-aristotelico (I sec. a. C.?), restituendo letteralmente il frammento 10 DK di Eraclito, mostra che, secondo Eraclito, la realtà è un uno e un tutto che si suddivide nelle sue parti e si ricostituisce nel suo intero, perché quelle vengono da questo e questo da quelle; la Refutatio omnium haeresium (III sec. d. C.), in cui sono citati i frammenti eraclitei 50-67 DK, suggerisce che Eraclito, tramite molti esempi differenti, invita a comprendere l’unità di ogni realtà nei due contrari che la costituiscono. Dal canto suo, Filone, QG 3.5 e soprattutto Her. 214, intende provare che Mosé, autore del Pentateuco, ha preceduto e superato la sapienza greca di Eraclito sulla divisione di ogni cosa che esiste in natura in due metà uguali e contrarie. Il sotto-testo biblico commentato allegoricamente da Filone è il passo della Genesi (15:10) in cui Dio sancisce il patto con Abramo attraverso il sacrificio degli animali tagliati a metà. Secondo l’interpretazione filoniana del gesto rituale, Dio separa e unifica tutta la realtà tramite il suo Logos, che è il divisore e ad un tempo il legame dell’universo, perché presiede non solo alla distinzione dei contrari di ogni realtà particolare, ma anche alla sua controparte, vale a dire all’armonia universale o simpatia-sinfonia cosmica103. Parlando di Logos divisore e facendone l’agente divino della creazione dicotomica del mondo, tuttavia, Filone non sfrutta il termine e il concetto eracliteo di logos, che gli autori cristiani identificheranno invece con il Verbo divino, Figlio del Creatore biblico. Il logos di Eraclito, pre-socratico e
103 Cf. Fug. 112; Plant. 8 ss.; Migr. 220, Sacr. 74 s.; Cher. 110 ss.; Deo 10; QE 2.68, 90 e 218, assieme agli altri passaggi segnalati e commentati da M. Harl (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 15 (1966), pp. 67 ss.
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pre-cristiano, ma anche pre-stoico104 , infatti, è la «ragione» e la legge del cosmo, cioè il principio unico della realtà, ma anche la «parola» e il discorso che la esprime, vale a dire il resoconto sapiente sulla realtà, quindi ciò che stabilisce e regola tutte le cose che esistono e che spiega il nesso fondativo – strutturale e relazionale – di ciascuna; questo logos è sia il libro divino della natura sia lo scritto eracliteo Sulla natura105. In entrambi i passi, Filone evoca Eraclito in quanto rappresentante della concezione filosofica dell’unità dei contrari. Senza citare verbatim nessun frammento, l’Alessandrino (QG 3.5) informa che Eraclito ha ripreso la dottrina di Mosé aggiungendovi «un’infinità di argomenti laboriosi» (immensis, iisque laboriosis argumentis). E dopo aver elencato un considerevole numero di coppie di opposizioni, tra cui molti contrari eraclitei, Filone (Her. 208-214) afferma che Eraclito avrebbe fatto sua l’antica dottrina biblica secondo cui: «uno, infatti, è l’ente composto dei due contrari, e solo nel momento in cui è diviso, i contrari sono riconoscibili» (ἓν γὰρ τὸ ἐξ ἀμφοῖν τῶν ἐναντίων, οὗ τμηθέντος γνώριμα τὰ ἐναντία). Nell’intento di provare il “plagio” di Eraclito nei confronti di Mosé, tuttavia, Filone non cita i frammenti più rappresentativi della dottrina eraclitea, come il 10 o il 50 DK106, cui fa vagamente riferimento in altri trattati di Commentario allegorico o Esposizione della Legge107; tali detti esprimono, infatti, una concezione filosofica agli antipodi del creazionismo biblico e della trascendenza del Creatore, vale a dire l’identificazione del divino con il cosmo, da cui tutto deriva e a cui tutto ritorna. Eraclito (30 DK) è il primo pensatore greco a designare l’universo come κόσμος, cioè «ordine» o «ordinamento», quindi «buona disposizione», e ad affermare esplicitamente che questo cosmo, l’unico mondo in cui noi tutti viviamo, «non lo fece alcuno degli dei o degli uomini» (οὔτε τις θεῶν οὔτε 104 Sul termine e concetto di logos, da Omero a Crisippo, ha riflettuto M. Fattal, Logos, Pensée et Vérité dans la philosophie grecque, Paris 2001, pp. 32-35 (sul logos di Eraclito). 105 Filone mette sempre la parola e la dottrina di Eraclito a servizio della sua interpretazione della Scrittura: in Opif. 34-35, ad esempio, affermando che Dio non solo ha separato le tenebre dalla luce, ma anche stabilito in mezzo al loro intervallo «confini» (ὅροι), vale a dire «sera e mattina» (ἑσπέρα τε καὶ πρωΐα), fa implicitamente riferimento ai «limiti di mattino e sera» (ἠοῦς καὶ ἑσπέρας τέρματα), levante e ponente, del frammento eracliteo 120 DK. Cf. H. Diels-W. Kranz (1951-52), op. cit., vol. III, p. 619, che rinviano il testo di Filone al frammento 126a DK di Eraclito. 106 Cf. anche la seconda parte del frammento 22 B 91 DK: σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει ... συνίσταται καὶ ἀπολείπει καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι («si separa e di nuovo si raccoglie ... si compone e si dissolve, si avvicina e si allontana»). 107 Cf. Leg. 3.7 e Spec. 1.208.
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ἀνθρώπων ἐποίησεν), perché è un fuoco che sempre era, è e sarà, che si accende e si spegne in modo misurato e costante. L’Efesio esclude così qualsiasi creazione intelligente del mondo che il pensiero greco conoscerà, d’altronde, solo con il demiurgo platonico. Se dunque Filone ricorre all’autorità di Eraclito – sapiente pre-platonico redivivo in epoca medioplatonica –, la sua fede giudaica gli impedisce di fornire le citazioni che invaliderebbero la dimostrazione che tenta di produrre: l’appropriazione eraclitea della dottrina biblica. Tuttavia, l’Alessandrino sembra conoscere e interpretare i testi attraverso cui il Presocratico espone il principio dell’unità degli opposti. Definendo la dottrina eraclitea in termini di unità e divisione della realtà nei contrari che la costituiscono, Filone suggerisce che Eraclito abbia concepito la genesi – cioè la vita – del cosmo come una serie di divisioni in due dell’unico principio iniziale. Per Eraclito (31a DK), in effetti, il fuoco primitivo si trasforma in mare, e di questo, parte diviene terra e parte – cioè una porzione uguale e contraria –, aria che si incendia e si illumina: «rivolgimenti di fuoco: dapprima mare, e del mare una metà è terra e l’altra metà è temporale [i.e. perturbazione atmosferica caratterizzata da forte vento e scariche elettriche]» (πυρὸς τροπαὶ πρῶτον θάλασσα, θαλάσσης δὲ τὸ μὲν ἥμισυ γῆ, τὸ δὲ ἥμισυ πρηστήρ)108. Prima di Eraclito, il poeta Esiodo (VII sec. a. C.) descriveva il processo di produzione dell’ordinamento cosmico dal Caos iniziale attraverso successive generazioni da coppie di divinità109; questo è quanto si ritrova, mutatis mutandis, anche nei miti cosmogonici del Vicino Oriente – si pensi all’epopea babilonese dell’Enuma elish, cui va aggiunta quella ittita-hurrita di Kumarbi –, dell’Egitto, dell’India, della Cina o dell’Oceania110, vale a dire un atto di distinzione rispetto a uno stato originario di indistinzione: la separazione di Cielo e Terra. Tra i predecessori diretti di Eraclito, Anassimandro di Mileto (VI sec. a. C.) concepiva una differenziazione di principi contrari da un unico stato originario detto illimitato o indefinito111. Secondo la testimonianza del tardo neoplatonico Simplicio112 , Anassimandro avrebbe sostenuto che la generazione si produce «per dissociazione dei contrari» (ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων) sot-
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Cf. anche il contesto citatore di Clemente Alessandrino, Strom. V 104, 3. Cf. Esiodo, Theog. 116 ss. 110 Sui debiti della cultura greca nei confronti dell’Oriente, imprescindibile rimane lo studio di F. Cornford, Principium Sapientiae, The Origins of Greek Philosophical Thought, Cambridge 1952. 111 Cf. 12 B 1 DK. 112 12 A 9 DK. 109
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to l’effetto del movimento eterno; per questo – continua Simplicio – Aristotele l’avrebbe schierato con i rappresentanti della scuola di Anassagora. Nel resoconto di Aristotele, infatti, alcuni Presocratici pensano che «le contrarietà si ottengono per distinzione dall’uno» (ἐκ τοῦ ἑνὸς ἐνούσας τὰς ἐναντιότητας ἐκκρίνεσθαι), come sostengono Anassimandro e tutti quelli (Empedocle o Anassagora) che concepiscono l’esistenza dell’uno e dei molti, facendo derivare questi da quello: tutte le singole cose da un’unica mescolanza originaria. Al tempo di Eraclito, la speculazione degli Orfici presenta genealogie teogonico-cosmogoniche113, e quella dei Pitagorici, coppie di contrari114. Secondo Aristotele115, inoltre, il medico Alcmeone di Crotone (VI sec. a. C.) avrebbe sostenuto, come i Pitagorici, che «la maggior parte delle cose umane sono due [i.e. duali o duplici]» (εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων). Alcmeone si sarebbe tuttavia distinto dai veri e propri Pitagorici – precisa Aristotele – per non aver definito quante e quali coppie di contrari esistono in natura, ma parlando delle contrarietà che si presentano ogni volta e a caso nella nostra esperienza. Nicomaco di Gerasa116, matematico pitagorizzante di epoca ellenistica, riferisce che, per il pitagorico Filolao (V-IV sec. a. C), «l’armonia – infatti – è l’unificazione di cose composte di molti elementi e accordo di cose discordanti a due a due» (ἔστι γὰρ ἁρμονία πολυμιγέων ἕνωσις καὶ δίχα φρονεόντων συμφρόνησις). Inoltre, i contrari logico-ontologici essere e non-essere sono al centro della speculazione di pensatori di V secolo a. C., come Parmenide di Elea, secondo cui la vita degli uomini è regolata dall’alternanza del fuoco luminoso del giorno e dell’oscurità della notte117; la Demone, che dirige tutto, spinge la femmina a unirsi al maschio, e viceversa118: i bambini hanno origine nella parte destra dell’utero, mentre le bambine, nella parte sinistra119. Destra e sinistra, come luce e oscurità, maschio e femmina, ma anche alto e basso, davanti e dietro, sono coppie di opposti il cui valore simbolico influenza profondamente il pensiero arcaico. Dopo Parmenide, la storia arcaica della “negatività” continua con Leu-
113 114 115 116 117 118 119
Cf. 1 B 1, 2, 8-10, etc. DK. Cf. Aristotele, Met. 986 a 15 ss. 24 A 3 DK. 44 B 10 DK. Cf. 28 B 2 DK e passim. Cf. 28 B 12 DK. Cf. 28 B 13 DK.
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cippo, che oppone il vuoto al pieno, e con Empedocle, che accoppia l’Odio e l’Amore120. Ma rispetto agli altri Presocratici, Eraclito sembra il solo ad aver affermato che l’essenza di ogni cosa risiede nell’unione e nell’identità di due contrari, per vedere e comprendere i quali è necessario operarne la separazione e la distinzione. Il verbo della divisione degli animali (διαιρέω) nel versetto della Genesi (15:10) commentato da Filone è proprio quello impiegato da Eraclito nel frammento 1 DK121, in cui il sapiente afferma di descrivere la realtà «dividendo ciascuna cosa secondo natura e dicendo com’è» (κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει). Il detto, che costituisce la più lunga citazione eraclitea conservata, e consiste probabilmente nel testo che seguiva l’incipit del libro perduto, rappresenta il monito di Eraclito a comprendere ogni cosa «dividendola» (διαιρέων) nelle sue parti, cioè discernendone i membri, articolandola nei suoi aspetti contrari. La dottrina eraclitea dell’unità-divisione di ogni essere nei suoi elementi opposti occupa un ruolo fondamentale nella storia della filosofia antica, poiché non solo affonda le radici nella poesia mitologica e nella fisica milesia, ma è anche alla base della diairesi ontologica di Platone, che classifica tutti gli enti esistenti in natura, e della scala dell’essere di Aristotele, che procede dai generi sommi agli individui disparati. Trovandosi a commentare il passo biblico (Gen. 15:10) in cui Dio «divise» (διεῖλεν) a metà gli animali del sacrificio e pose [le parti] l’una di fronte all’altra, Filone fornisce un’interpretazione che si ispira innanzitutto all’inizio della Genesi (1:3-4 ss.) biblica, in cui Dio, nell’atto di creare il mondo, «separò» (διεχώρισεν) la luce e le tenebre «nel mezzo» (ἀνὰ μέσον), tramite la sua parola: «E Dio disse “che la luce sia”; e la luce fu» (καὶ εἶπεν ὁ θεός Γενηθήτω φῶς. καὶ ἐγένετο φῶς). D’altra parte, Filone pensa alla cosmogonia del Timeo (35 b) – che conosceva praticamente a memoria122 – in cui il demiurgo comincia a costituire l’universo con il «dividere» (διαιρεῖν) l’Anima del mondo in modo misurato e proporzionale. Il verbo διαιρέω, che ricorre in Gen. 15:10, nel frammento di Eraclito e nel testo di Platone, indica proprio l’azione di dividere una figura geometrica in parti uguali e secondo un criterio matematico. Per quanto riguarda l’unità dei contrari, Filone potrebbe anche essere influenzato – direttamen120 Interamente dedicato a questo argomento è il saggio di A. Laks, Le vide et la haine. Éléments pour une histoire de la négativité, Paris 2004. 121 Come rilevò M. Heinze (1984 2), op. cit., pp. 11-16; 226-229. 122 Lo studio di riferimento è D.T. Runia (1986), op. cit.
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te o indirettamente – da Aristotele (Met. 1009) che critica l’opinione di certi Presocratici relativisti secondo cui i contrari sussistono insieme perché derivano da una stessa cosa. Così, da un lato Filone presenta un’interpretazione postplatonica della dottrina di Eraclito, secondo cui l’universo intero è unità armonica e sinfonica di contrari; e dall’altro, suggerisce l’origine eraclitea del metodo dicotomico che è alla base del Sofista di Platone, vale a dire il principio di divisione dell’uno in due, dell’unico genere in due specie diverse, quindi della predicazione di attributi diversi di uno stesso soggetto123, ma anche l’ispirazione eraclitea della struttura del Simposio, dialogo che può essere interamente letto in chiave di unità dei contrari, nel senso di tensione dinamica tra apparenti opposizioni124. La testimonianza filoniana non contraddice la parola eraclitea, ma pare confermata da questa, anzi, l’Alessandrino è l’unico testimone a formulare espressamente l’idea centrale del pensiero di Eraclito. Detto altrimenti: il contributo filoniano sulla dottrina fondamentale dello scritto eracliteo, con le riserve dovute al filtro interpretativo, è utile e utilizzabile proprio perché più esplicito degli altri. Rimossa la sovrastruttura platonico-giudaica della sua impostazione, Filone induce a pensare che, per Eraclito, ogni cosa è composta di due contrari, la cui unione rappresenta la totalità della sua realtà essenziale, e la cui divisione, la parzialità della sua apparenza percepibile. Gli esempi eraclitei di contrari – come gli opposti del catalogo filoniano – mostrano che il principio eracliteo dell’unità-distinzione si applica a «parole e cose» (ἐπέων καὶ ἔργων)125: a enti linguistici, oltre che a oggetti e fatti concreti. I frammenti conservati sembrano in effetti confermare che, per Eraclito, ogni corpo o idea, discorso e azione, è un intero identico che si scinde e si ricostituisce nel rapporto tra le sue componenti contrarie. Se per Eraclito la «Guerra» (Πόλεμος)126 è all’origine della nascita di tutti gli esseri, il conflitto e la tensione sono anche costante riequilibrio di forze contrarie e complementari, dunque «congiunzione» (harmoniê) (ἁρμονίη)127 di elementi opposti.
123 Per questo forse Simplicio (28 A 28 DK) attribuisce a Platone l’introduzione della “dualità” in filosofia. 124 Cf. R.B.B. Wardy, The Unity of Opposites in Plato’s Symposium, in «Oxford Studies in Ancient Philosophy» 23 (2002), pp. 1-61. 125 Si tratta ancora del fr. 22 B 1 DK. 126 22 B 53 DK. 127 22 B 51 DK.
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I contrari eraclitei, di ordine temporale come il giorno e la notte128, spaziale come la via verso l’alto e verso il basso129, sociale come la guerra e la pace130, fisiologico come la salute e la malattia131, morale come il giusto e l’ingiusto132 , geometrico come la retta e la curva133, esistenziale come la vita e la morte134, sembrano essere le forme e le caratteristiche diverse dell’unica essenza di ogni singola realtà e di tutto il reale. Ma vasto e complesso è il concetto eracliteo di contrarietà, così denso che pare includere il contrapposto e il contraddittorio, il contrastante e il contrastivo. I contrari di Eraclito sono una cosa sola perché ogni oggetto particolare e ogni aspetto specifico è sempre insieme se stesso e il suo opposto, ed è concepito solo in relazione ad esso135. Ma quest’unità intrinseca, che può essere intesa, ad esempio, come la trasformazione regolare e costante dell’acqua nell’elemento contrario136 o del freddo nella proprietà contraria137, si rivela ora duplicità simultanea, come la via che è ad un tempo salita e discesa138 o il movimento del disegno e della scrittura che è sia dritto sia curvo139; ora alternanza ciclica, come la successione di estate e inverno140 o l’avvicendarsi del sonno e della veglia, della vita e della morte141; ora relatività soggettiva, come l’acqua del mare che è salutare per i pesci ma non per l’uomo142 o la paglia che l’asino preferisce all’oro143.
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Cf. 22 B 67 DK. Cf. 22 B 60 DK. 130 Cf. 22 B 67 DK. 131 Cf. 22 B 111 DK. 132 Cf. 22 B 102 DK. 133 Cf. 22 B 59 DK. 134 Cf. 22 B 21, 26, 48, 62, 77b, 88 DK. 135 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Intr., p. CLXXVI. 136 Cf. 22 B 31 DK. 137 Cf. 22 B 126 DK. 138 Cf. 22 B 60 DK. 139 Cf. 22 B 59 DK. 140 Cf. 22 B 67 DK. 141 Cf. 22 B 21, 26, 62 e 88 DK. 142 Cf. 22 B 61 DK. 143 Cf. 22 B 9 DK. Eraclito contrappone la prospettiva umana a quella degli animali anche quando afferma che le mucche sono felici di mangiare la veccia (B 4 DK) e i maiali godono quando si rotolano nel fango (B 13 DK). Quest’ultimo è un esempio rappresentativo, perché Columella (Rei rust. VIII 4), che cita probabilmente una versione più estesa ed elaborata dello stesso testo eracliteo, aggiunge che i polli si lavano invece nella cenere. In tal modo, la testimonianza latina induce ad attribuire a Eraclito non solo la duplice opposizione suini-uccelli da cortile e melma/polvere-acqua chiara, ma anche l’idea contraddittoria del pulirsi sporcandosi (B 37 DK). 129
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L’analisi approfondita delle due testimonianze di Filone, paragonate con le altre fonti e con i frammenti eraclitei conservati, permette di concludere che il principio fondamentale del pensiero e dello scritto di Eraclito consiste precisamente nell’unità dei contrari. L’Alessandrino induce a riflettere innanzitutto sul metodo espositivo di Eraclito, che avrebbe spiegato la sua unica scoperta scientifica illustrandola tramite «un’infinità di argomenti laboriosi», vale a dire un gran numero di esempi rappresentativi, espressi in forma elaborata, per mostrare i vari sensi e i diversi tipi dell’unità dei contrari. La seconda suggestione filoniana è che, per Eraclito, «i contrari si definiscono da uno stesso intero, di cui rappresentano le parti», perché la filosofia eraclitea contiene in nuce la concezione della genesi del mondo e della comprensione di ogni cosa per via di divisioni di un’unica sostanza o essenza. Eraclito non ha formulato espressamente questo concetto, ma vale la pena chiedersi in che misura Platone abbia utilizzato Eraclito, e perché e come i medioplatonici alessandrini, influenzati dalla rinascita del pitagorismo e dalla tradizione aristotelica del tempo, abbiano recuperato la parola e la dottrina eraclitea. Tutto lascia pensare che, per Eraclito, secondo cui il dio e il mondo è unità di contrari, la conoscenza di ogni cosa sia la distinzione dei suoi contrari. Se così fosse, ogni natura particolare, così come la Natura nel suo insieme, consisterebbe nella congiunzione e disgiunzione degli elementi diversi che la costituiscono come tale, e quest’unità di contrari, che si impone a livello ontologico, si manifesterebbe in ambito logico come la concatenazione e lo scioglimento di enunciati, e corrisponderebbe, in ambito gnoseologico, alla comprensione e al discernimento di concetti. In questo senso, ogni singolo ente sarebbe per Eraclito identità-differenza di quantità o qualità contrarie, e l’intero cosmo, unitàdivisione di tutti i contrari: un Uno e un Tutto in sé identico e da sé differente.
III. IL DIO COSMICO
1. L’«Uno» e il «tutto» secondo Filone: eraclitismo e stoicismo Se il detto eracliteo «la natura ama nascondersi» è utilizzato a più riprese da Filone come principio dell’esegesi allegorica, e se la dottrina dei contrari di Eraclito è chiamata in causa nell’interpretazione filosofica del sacrificio di Abramo, l’Alessandrino si misura anche con la cosmogonia e la cosmologia dell’Efesio. Questo caso è ancora diverso dai precedenti, in cui era questione dell’impiego di un detto in più testi di Filone, senza menzione di Eraclito, e del riferimento alla dottrina eraclitea, senza citazione letterale del suo scritto. In almeno due passaggi, ad un tempo simili e differenti, Filone evoca la parola eraclitea sull’identificazione dell’uno con il tutto, cioè dell’unica realtà principiale e della totalità cosmica. Si tratta di Legum allegoriae 3.7 e De specialibus legibus 1.208; commentando due diversi versetti biblici, Filone allude in entrambi i casi a tre frammenti di Eraclito sulla generazione e corruzione del cosmo: rispettivamente 65, 50, 90 DK e 50, 10, 65 DK. 1.1. Il Creatore e la creazione Il primo passo filoniano in cui ricorrono i detti “cosmo-gono-logici” di Eraclito appartiene a uno dei più ampi trattati del grande Commentario allegorico al Pentateuco di Mosé: il Legum allegoriae, in tre libri dedicati all’esegesi psicologica e antropologica di Genesi 2:1 ss. Il terzo e ultimo libro, che tratta degli effetti del piacere e delle conseguenze del peccato, inizia con il commento di Gen. 3:8: «E Adamo e la sua donna si nascosero alla vista del Signore Dio in mezzo al bosco del giardino [dell’Eden]» („Καὶ ἐκρύβησαν ὅ τε Ἀδὰμ καὶ ἡ γυνὴ αὐτοῦ ἀπὸ προσώπου κυρίου τοῦ θεοῦ ἐν μέσῳ τοῦ ξύλου τοῦ παραδείσου“).
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PARTE PRIMA. LA NATURA
Il versetto biblico è interpretato da Filone con l’allegoria del malvagio senza domicilio, cioè lo stolto in esilio, perché «colui che è esiliato dalla virtù si nasconde immediatamente a Dio» (ὁ δ´ἀρετῆς φυγὰς εὐθὺς ἀποκέκρυπται θεόν) (Leg. 3.1). L’Alessandrino spiega, infatti, che l’uomo ragionevole e virtuoso ha come città e casa la divina sapienza, mentre «lo stolto è senza città e senza casa» (ὁ μὲν φαῦλος ἄπολίς τέ ἐστι καὶ ἄοικος) (Leg. 3.3)1: in esilio, appunto, dal sapere e dal bene. Secondo Filone, il suo nascondersi a Dio deve intendersi in senso allegorico, poiché nulla può nascondersi a Colui che esiste prima di ogni essere e che riempie tutto l’essere: «Dio, infatti, precede ogni creatura e si trova in ogni luogo, perciò è impossibile che qualcuno Gli si nasconda» (πρὸ γὰρ παντὸς γενητοῦ ὁ θεός ἐστι, καὶ εὑρίσκεται πανταχοῦ, ὥστε οὐκ ἂν δύναιτό τις ἀποκρύπτεσθαι) (Leg. 3.4). Filone prosegue affermando che l’uomo stolto non possiede la vera conoscenza di Dio, ma è affetto da quell’ignoranza che è la più grave delle malattie, poi fa allusione ad alcuni detti di Eraclito (Leg. 3.7, I, p. 114 Cohn): Nello stolto l’opinione vera su Dio è ottenebrata e nascosta; egli, infatti, è pieno di oscurità, non godendo dell’illuminazione divina con cui si indagano gli esseri. Un tale uomo è esiliato dal coro divino, come il lebbroso e il gonorroico: l’uno [scil. il lebbroso] riduce alla stessa cosa Dio e la creazione, che pure sono nature contrapposte – poiché due sono i colori –, come fossero entrambi cause, laddove una sola è la causa agente; l’altro, il gonorroico, deduce tutte le cose dal mondo e tutte le riconduce al mondo, ritenendo che nulla sia stato creato da Dio; è partigiano dell’opinione di Eraclito, presentando la sua posizione in termini di “sazietà e indigenza”, “tutto è uno” e “tutte le cose tramite lo scambio”2 .
Le locuzioni κόρον καὶ χρησμοσύνην («sazietà e indigenza»), ἓν τὸ πᾶν («uno il tutto») e πάντα ἀμοιβῇ («tutte le cose tramite lo scambio») sono versioni abbreviate e semplificate dei frammenti eraclitei 65, 50 e 90 DK di Eraclito. Con essi, Filone intende dimostrare che nell’uomo stolto, privo della luce necessaria per lumeggiare la realtà, la vera concezione di Dio «è nascosta» (ἀποκρύπτεται); per Eraclito (123 DK), del resto, «la natura ama nascondersi». 1
Cf. Virt. 190. ἐν τῷ φαύλῳ ἡ ἀληθὴς περὶ θεοῦ δόξα ἐπεσκίασται καὶ ἀποκρύπτεται, σκότους γὰρ πλήρης ἐστὶ μηδὲν ἔχων ἐναύγασμα θεῖον, ᾧ τὰ ὄντα περισκέψεται· ὁ δὲ τοιοῦτος πεφυγάδευται θείου χοροῦ, καθάπερ ὁ λεπρὸς καὶ γονορρυής, ὁ μὲν θεὸν καὶ γένεσιν, ἀντιπάλους φύσεις, δύο χρωμάτων ὄντων, ἀγαγὼν εἰς ταὐτὸ ὡς αἴτια, ἑνὸς ὄντος αἰτίου τοῦ δρῶντος, ὁ δὲ γονορρυὴς ἐκ κόσμου πάντα καὶ εἰς κόσμον ἀνάγων, ὑπὸ θεοῦ δὲ μηδὲν οἰόμενος γεγονέναι, Ἡρακλειτείου δόξης ἑταῖρος, κόρον | καὶ χρησμοσύνην καὶ ἓν τὸ πᾶν καὶ πάντα ἀμοιβῇ εἰσάγων. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Frr. 26 (b), 54 (c2) e 55 (b1), pp. 454, 584 e 587; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 332, pp. 240-241. 2
III. IL DIO COSMICO
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Secondo l’esegesi dell’Alessandrino, l’uomo senza ragione e virtù brancola nel buio dell’ignoranza e si trova esiliato dall’ambito divino come se fosse un malato emarginato. Le due malattie bibliche, di cui si parla in Levitico (13 e 15) e Numeri (5:2-3), sono considerate da Filone la metafora delle dottrine pagane che negano la personalità, la trascendenza e l’immutabilità del Creatore rispetto alla creatura: la prima non è esplicitamente menzionata; la seconda è quella eraclitea. Filone spiega, infatti, che «il lebbroso» (ὁ λεπρός) rappresenta colui che accomuna Dio e il creato, realtà contrapposte – come i due colori della pelle del malato, che è chiazzata e non uniforme come quella del corpo sano o guarito3 –, entrambe cause, ma di cui solo la prima è causa attiva o efficiente. Gli specialisti hanno pensato4 che Filone faccia qui allusione alla dottrina caldaica, perché in passaggi come Her. 97 e Migr. 179 sostiene che i Caldei rappresentano l’opinione secondo cui Dio si identifica con il creato, il primo dio: è il mondo visibile (Migr. 181). Secondo questa ipotesi, l’Alessandrino potrebbe anche aver giocato sulla similitudine etimologico-semantica tra ὁμαλότης, riferito ai Caldei in Her. 97, e ἐξομοιοῦν, che indica l’omogeneità del colore della pelle nella fase finale della lebbra in Spec. 1.118. Ma sembra che si tratti piuttosto di un implicito riferimento alle due cause della dottrina stoica: Dio, principio attivo e produttore, e la materia, principio passivo o sostanza senza qualità5, come confermerebbe Spec. 1.208 in cui la parola di Eraclito è associata a un frammento stoico (SVF II 616), anche in questo caso senza esplicita menzione dei filosofi del Portico6. Il secondo tipo di malato di cui parla Filone nel nostro passo è il «gonorroico» (γονορρυής), metafora di colui che estromette il Dio giudaico o un qualsiasi artefice divino, perché fa venire tutte le cose dal mondo e tutte le riconduce al mondo, secondo il principio del perpetuo trasformarsi dell’uno nel tutto. I traduttori e commentatori del testo filoniano7 concordano nell’ipotizzare la
3
Sull’allegoria della lebbra, cf. anche Deus 127 ss. e Plant. 111. Cf. PR (2005), op. cit., p. 301, n. 3; R. Radice, Allegoria e paradigmi etici in Filone di Alessandria. Commentario al “Legum allegoriae”, prefaz. di C. Kraus Reggiani, Milano 2000, pp. 268-269. 5 Cf. SVF I 88, 98; II 299, 300, 311; Seneca, Lettere 65, 2. 6 In Spec. 3.180, inoltre, Filone afferma: μεῖζον γὰρ οὐκ ἔστιν ἀσέβημα ἢ τῷ παθητῷ τὴν τοῦ δρῶντος ἀνατιθέναι δύναμιν («non c’è, infatti, un’azione empia più grande che attribuire al principio passivo la potenza di quello attivo»). 7 Cf. PLCL, op. cit., vol. 1 (1962), p. 482; PAPM, op. cit., vol. 2 (1962), p. 173; R. Radice (2000), op. cit., pp. 268-269, in cui l’autore fa anche riferimento alle osservazioni di É. Bréhier e G.D. Farandos, i quali notano nel passo una confusione tra terminologia eraclitea e parmenidea. 4
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connessione dell’aggettivo γονορρυής, appartenente al vocabolario medico, con la filosofia di Eraclito, sulla base della derivazione del termine greco dal verbo (della stessa radice) che figura nella massima πάντα ῥεῖ («tutto scorre»), tradizionalmente attribuita a Eraclito. Va rilevato, tuttavia, che Filone non cita in questo luogo i cosiddetti frammenti eraclitei “del fiume”8, né riprende esplicitamente le suggestioni platoniche9 e aristoteliche10 del “fluire” della realtà di Eraclito, la cui lettera non è testimoniata da alcun frammento11, ma il cui significato risale solo in parte e in certo senso alla dottrina eraclitea che influenzò Platone, gli Accademici di epoca ellenistica e i Platonici dell’era cristiana12 . La critica di Filone, Leg 3.7 è diretta alle due “malattie” dell’anima che non conosce o comprende la verità del Dio biblico, Creatore del mondo: la dottrina che riduce Dio e cosmo a due cause della realtà, intimamente legate e inesistenti l’una senza l’altra; e la dottrina eraclitea, che considera il mondo l’unico principio divino. Filone allude dunque a Eraclito come rappresentante della concezione secondo cui tutte le cose si generano e si risolvono nell’unico tutto, quindi dell’identificazione e distinzione tra dio e cosmo. Questa seconda dottrina, inoltre, sembra essere il vero obiettivo polemico del passo filoniano, data la menzione esplicita di Eraclito e il riferimento ai tre frammenti, su cui va ora focalizzata l’analisi. 1.1.1. «Sazietà e indigenza» Non è possibile sapere – almeno non in tutti i casi – se le tre formule eraclitee del passo siano parafrasi e reminiscenze dello stesso Filone, o se egli le abbia trovate nella fonti di cui disponeva: potrebbero essere, semplicemente,
8 Sui frammenti eraclitei 22 B 12; 49 a; 91 DK, cf. L. Tarán, Heraclitus: The River-Fragments and their Implications, «Elenchos» 20/1 (1999), pp. 9-52. 9 Cf. Platone, Crat. 401 b 10 ss.; 402 a; 411 a 7 ss.; 439 b 10 ss.; Phil. 42 e 7 ss.; Theaet. 152 c 8 ss.; 155 e 3 ss.; 156 c 3-8; 157 a 7 ss., ma anche 160 d 5 ss.; 168 b 2-6; 177 c 6 ss.; 179 d 1 ss.; 182 c 2 ss.; Phaed. 90 b 4 ss. 10 Cf. anche Aristotele, Top. 104 b 20-22; De an. 405 a 28; Met. 987 a 32; 1078 b 13; 1010 a 7-15; 1012 b 22; 1063 a 10-b 6; Phys. 253 b 9; 265 a 2; 228 a 6; De caelo 298 b 29-31; Meteor. 357 b 26; Pol. 1276 a 34. 11 Cf., tuttavia, Simplicio (In Phys., p. 887, 1 Diels) che fa riferimento τῷ Ἡρακλείτου λόγῳ τῷ λέγοντι πάντα ῥεῖν («alla parola di Eraclito, secondo cui tutto scorre»). 12 Cf. E. Zeller- R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I. I Presocratici, vol. IV. Eraclito, a cura di R. Mondolfo, Firenze 1968, pp. 36-67, spec. pp. 47-50; e Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Intr., p. CXLVI e passim.
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citazioni a memoria; non sappiamo neppure se l’associazione di tali frammenti risalga al libro eracliteo o appartenga a posteriori sistemazioni dossografiche e interpretazioni scolari della parola di Eraclito13. La prima di queste formule, κόρον καὶ χρησμοσύνην («sazietà e indigenza»), è la coppia di termini che costituisce il frammento 65 DK di Eraclito, citato a termini invertiti nella Refutatio omnium haeresium (IX 10, 7), che gli editori dei frammenti presocratici14 ritengono la fonte principale del detto: χρησμοσύνην καὶ κόρον («indigenza e sazietà»)15. Il sostantivo κόρος («sazietà»), associato a λιμός («fame»), compare anche nelle coppie di contrari che rappresentano la natura dell’unico dio nel frammento 67 DK di Eraclito, dato anch’esso dalla Refutatio (IX 10, 8): «il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, etc.» (ὁ θεὸς ἡμέρη εὐφρόνη, χειμὼν θέρος, πόλεμος εἰρήνη, κόρος λιμός κτλ.), e figura tra gli opposti del frammento 111 DK citato da Stobeo (III 1, 177): «la malattia rende la salute cosa dolce e buona, fame sazietà, fatica riposo» (οῦσος ὑγιείην ἐποίησεν ἡδὺ καὶ ἀγαθόν, λιμὸς κόρον, κάματος ἀνάπαυσιν). L’associazione delle coppie “sazietà-fame” e “guerra-pace” del frammento 67 DK rende anche necessario il confronto con il resoconto di Diogene Laerzio (IX 8 = 22 A 1 DK), in cui l’opposizione guerra-pace di Eraclito è spiegata in termini di incendio periodico del cosmo (ἐκπυροῦσθαι e ἐκπύρωσις). Diogene afferma infatti che, per Eraclito, la guerra conduce alla genesi del mondo e la pace, alla conflagrazione16, e ciò suggerisce che l’antitesi “guerra-pace”, come
13 La lista degli antichi esegeti di Eraclito è fornita da Diogene Laerzio, IX 15 (cf. anche V 88; VII 174). Secondo la notizia di Diogene, Eraclide Pontico, accademico contemporaneo di Aristotele e pensatore indipendente interessato ai Presocratici, fu il primo a scrivere un commentario (ἐξηγήσεις) di Eraclito in quattro libri, prima, cioè, dei Quattro libri di esegesi di Eraclito dello stoico Cleante e dei Cinque libri di conversazioni su Eraclito dello stoico Sfero. Cf. A.A. Long, Heraclitus and Stoicism, in Stoic Studies, Cambridge-New York 1996, pp. 35-57, il quale dichiara che la dipendenza della lettura eraclitea di Cleante (e Stoici) da Teofrasto (e Peripatetici) non può essere dimostrata. Ciò che si può affermare con certezza è che la posteriore dossografia ha incorporato elementi stoici nell’interpretazione teofrastea di Eraclito. 14 Cf. DK, op. cit., tr. it. di G. Giannantoni, I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Roma-Bari 19935, p. 211. 15 Secondo Mour. (ed.), op. cit., III.3.B/i (2006), F 64-65, p. 160, essa farebbe tutt’uno con il frammento 64 DK che la precede nella Refutatio. 16 Cf. A. Finkelberg, On Cosmogony and Ekpyrosis in Heraclitus, «AJPh» 119 (1998), pp. 210-213. Lo stesso autore ribadisce, con nuovi argomenti, la tesi della cosmogonia e conflagrazione di Eraclito in Id., The cosmic cycle, a playing child, and the rules of the game, in E. Hülsz Piccone (ed.) (2009), op. cit., pp. 325-336.
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“sazietà-fame”, sia connessa da Eraclito con le trasformazioni del fuoco nel mondo17. Le testimonianze sul frammento 65 DK, in effetti, lasciano pensare che l’«indigenza» (χρησμοσύνη) e la «sazietà» (κόρος) di Eraclito rappresentino metaforicamente le due fasi di spegnimento e accensione del fuoco divino, che ora si annienta trasformandosi nell’ordine cosmico, ora si espande divorando l’universo intero18. Che Eraclito abbia elaborato una teoria della ricorrente cosmogenesi e cosmophthoresis – come indicano i suoi frammenti19 –, lo sottintende Platone20 e lo testimonia Aristotele21, e che gli Stoici si siano appropriati della dottrina eraclitea 22 , è documentato da Cicerone, Alessandro di Afrodisia, Clemente Alessandrino, Eusebio di Cesarea o Simplicio23, oltre che dalla dossografia degli Aetiana24. Tuttavia, non si può sbrigativamente concludere che Filone, Leg. 3.7 condivida l’interpretatio stoica, secondo cui la «sazietà» (κόρος) eraclitea corrisponde alla conflagrazione in cui il fuoco riduce il cosmo a se stesso, vale a dire all’ἐκπύρωσις stoica, mentre l’«indigenza» (χρησμοσύνη), all’ordinamento delle singole cose che vengono separate e disposte, cioè alla διακόσμησις stoica. Nel passaggio filoniano non vi è alcuna menzione del fuoco, e se anche fosse sottinteso, Filone non assimila, bensì distingue una certa dottrina cosmogonica e cosmologica – che può essere identificata con quella stoica della causa attiva (logos divino) e passiva (pneuma materiale) – dalla dottrina eraclitea. La citazione del frammento eracliteo 65 DK nel contesto filoniano di Leg. 3.7 induce solo a pensare che, per Eraclito, «indigenza e sazietà» (χρησμοσύνην
17
Cf. A. Finkelberg (1998), art. cit., pp. 211-212. Sul ruolo del calore nel processo di digestione (πέψις) e la scelta di Eraclito del fuoco come elemento che tutto fagocita, riducendo l’intero universo a se stesso, cf. M.J. Verdenius, Heraclitus’ Conception of Fire, in J. Mansfeld-L.M. Rijk (edd.), Kephalaion: Studies in Greek Philosophy and its Continuation offered to Professor C.J. De Vogel, Assen 1975, p. 6, n. 23. 19 Cf. 22 B 64 e 66, ma anche 31b o 90 DK. 20 Cf. Platone, Crat. 412 c ss. o Theaet. 153 a. 21 Cf. Aristotele, De cael. 279 b ss.; Phys. 205 a; Met. 1076 a. 22 Sulla periodica conflagrazione degli Stoici e i suoi antecedenti eraclitei, cf. R. Sharples, On Fire in Heraclitus and in Zeno of Citium, «CQ» 34 (1984), 231-233. Si possono inoltre consultare J. Barnes, La doctrine du retour éternel, in J. Brunschwig (ed.), Les Stoïciens et leur logique, Paris 1978, pp. 3-20; J.-B. Gourinat, Éternel retour et temps périodique dans la philosophie stoïcienne, «RPh» 127 (2002), pp. 213-227; M.J. White, Stoic Natural Philosophy (Physics and Cosmology), in B. Inwood (ed.), The Cambridge Companion to the Stoics, Cambridge 2003, pp. 124-152, in partic. pp. 133-138. 23 Cf. SVF I 141 = 519; II 421, 576, 590, 594, 603, 617. 24 Cf. pseudo-Plutarco, Plac. phil. 877 C 12-D 4 = Aezio I 3, 11 (Dox. 283 Diels) (= 22 A 5 DK). 18
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καὶ κόρον) sono i contrari che rappresentano la trasformazione del dio nel mondo e viceversa, cioè le due fasi uguali e contrarie della vita cosmica: il periodo in cui il principio materiale e sapiente fa venire ad essere tutta la realtà, e il momento in cui questo fagocita quella riassorbendola in se stesso. 1.1.2. «Uno il tutto» La seconda formula eraclitea data da Filone: ἓν τὸ πᾶν («uno il tutto»), è una parafrasi dell’ultima parte del frammento 50 DK, di cui ci siamo già occupati a proposito dell’analisi di Her. 213-214. La lezione più prossima al detto originario di Eraclito è quella data dalla Refutatio omnium haeresium (IX 9, 1): οὐκ ἐμοῦ ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι («ascoltando non me, bensì il resoconto (logos), è sapiente convenire che tutte le cose sono uno»). Come si diceva, questo è il primo dei frammenti eraclitei citati nella Refutatio (IX 9), quasi a rappresentare la sintesi della dottrina di Eraclito che, secondo l’eresiologo cristiano, è incentrata sulla teoria dell’unità di tutti gli opposti. Nel contesto della Refutatio, infatti, il frammento eracliteo è introdotto dall’affermazione che, per Eraclito, il tutto, cioè il divino, è «diviso indiviso, generato ingenerato, mortale immortale» (διαιρετὸν ἀδιαίρετον γενητὸν ἀγένητον θνητὸν ἀθάνατον)25. Filone, dal canto suo, riporta solo la sigla della realtà enunciata in coda al frammento: ἓν τὸ πᾶν («uno il tutto») è la versione filoniana di ἓν πάντα («uno tutte le cose») con cui Eraclito riconduce la molteplicità della realtà a un unico principio. I frammenti eraclitei mostrano infatti che, per Eraclito, tutti i contrari sono uno, sia nel senso che ogni singolo ente è la composizione e la tensione dei due aspetti contrari che lo costituiscono in quanto tale, sia nel senso che il divino, cioè il cosmo, è l’unità di tutte le coppie di contrari che esistono in natura 26. Secondo l’interpretazione di Filone, Leg. 3.7, la sentenza eraclitea sull’unità di tutte le cose (ἓν πάντα) significa che l’ordine di tutta la realtà deriva da e ritorna a un unico principio (ἓν τὸ πᾶν), e in questo senso si identifica con esso. La testimonianza filoniana, dunque, attribuisce a Eraclito la dottrina dell’identificazione dell’universo, pluralità e totalità di realtà differenti, con l’unico dio che ne rappresenta l’inizio e la fine, la causa e il risultato.
25 26
Cf. anche la ricostruzione di Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), F 50, p. 126. Cf. C. Diano e G. Serra (edd.) (19932), op. cit., p. 143.
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1.1.3. «Tutte le cose tramite lo scambio» La terza formula eraclitea data da Filone, πάντα ἀμοιβῇ («tutte le cose tramite lo scambio»), è una testimonianza sul frammento eracliteo 90 DK, citato letteralmente da Plutarco ne La E di Delfi (388 E): πυρός τε ἀνταμείβεται πάντα [ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα Diels] καὶ πῦρ ἁπάντων, ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός («tutte le cose si scambiano col fuoco e il fuoco con tutte le cose, come l’oro con i beni e i beni con l’oro»)27. Gli altri testimonia del frammento seguono la tradizione dossografica accolta da Diogene Laerzio (IX 8)28: πυρὸς ἀμοιβὴν τὰ πάντα; così anche Filone, che impiega il termine teofrasteo e peripatetico ἀμοιβή29 invece del più raro e arcaico ἀνταμοιβή. Tuttavia, se le fonti concordano nell’attribuire a Eraclito una teoria della genesi di tutte le cose per «scambio» (ἀμοιβή) di fuoco, l’Alessandrino non fa alcun esplicito riferimento all’elemento igneo, né alle trasformazioni piriche. In funzione dell’argomento di Leg. 3.7, in cui sono criticate le posizioni filosofiche che non ammettono alcuna demiurgia divina, Filone sceglie solo un altro detto eracliteo sulla nascita dell’universo da se stesso, ovvero sulla derivazione di tutte le cose, in modo spontaneo e naturale, da un unico principio. Il frammento 90 DK di Eraclito lascia pensare che lo “scambio” non sia una semplice mutazione, bensì la trasformazione di ogni cosa in qualcosa di diverso ma equivalente, secondo la costante e necessaria uguaglianza dell’universo determinata e garantita dalla legge eterna della natura30. La testimonianza filoniana comproverebbe allora che, per Eraclito, tutto ciò che esiste deriva da uno scambio di materia, cioè tutto nasce e muore sostituendosi a ciò che gli è uguale e contrario nelle trasformazioni misurate e regolari dell’universo. 1.2. L’olocausto Due dei tre frammenti eraclitei citati da Filone in Leg. 3.7 ricorrono, assieme a un terzo, in tutt’altro luogo del corpus filoniano. De Specialibus legibus è un trattato di “Esposizione della Legge” ebraica composto di quattro libri, il 27 L’emendazione ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα proposta da Diels è rifiutata da Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), F 90, pp. 231-232, che rispetta il testo manoscritto ed edita ἀνταμείβεται πάντα. 28 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 54, pp. 583 ss.; Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), F 90, pp. 231-232. 29 Cf. A. Finkelberg (1998), art. cit., p. 198. 30 Sulle «misure» delle trasformazioni eraclitee, cf. soprattutto 22 B 30 e 31ab DK.
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primo dei quali contiene la presentazione e la spiegazione delle leggi bibliche sulla circoncisione, sulla Monarchia, sul Tempio, sui sacerdoti e sui riti cultuali che prevedono il sacrificio di animali. La sezione che comincia a Spec. 1.198 è dedicata alle regole del sacrificio più eminente, l’olocausto. Filone esamina minuziosamente le prescrizioni bibliche relative ad esso, leggendo la lettera della Legge e commentandola allegoricamente, cioè spiegando il significato simbolico della vittima di sesso maschile, dell’imposizione delle mani, dell’aspersione del sangue, del lavaggio delle viscere e delle zampe, quindi del sezionamento dell’animale nelle sue membra, prima che sia bruciarto sull’altare. L’Alessandrino annuncia fin dall’inizio (Spec. 1.199) che «la vittima, già scuoiata, sarà tagliata in pezzi formanti ciascuno un tutto» (τὸ ἱερεῖον ἀποδαρὲν εἰς ὁλόκληρα μέλη31 διανεμέσθω); poi, una volta consegnata tutt’intera al fuoco sacro dell’altare ritornerà all’unità originaria dopo essere passata per la molteplicità della partizione: «e dall’uno il molteplice e dal molteplice l’uno» (καὶ ἐξ ἑνὸς πολλὰ καὶ ἐκ πολλῶν ἕν). In Spec. 1.208 Filone si concentra precisamente sul taglio dell’animale nelle parti che lo costituiscono, facendo implicitamente allusione a tre frammenti eraclitei (Spec. 1.208, V, p. 50 Cohn): La ripartizione dell’animale nelle sue membra indica che “tutte le cose sono uno” o che “tutte provengono dall’uno e all’uno tutte ritornano”, che è proprio ciò che alcuni hanno chiamato “sazietà e indigenza” e altri “conflagrazione e ordinamento”: per “conflagrazione” si intende la supremazia del calore che ha predominato sul resto, per “ordinamento”, invece, l’isonomia dei quattro elementi che si fanno reciproche concessioni32 .
Filone fornisce un’altra versione formulare dei frammenti eraclitei 50 DK: ἓν τὰ πάντα («uno tutte le cose»), 10 DK: ἐξ ἑνός τε καὶ εἰς ἕν («dall’uno e all’uno»), e 65 DK: κόρον καὶ χρησμοσύνην («sazietà e indigenza»). Il passo rappresenta una prima spiegazione filosofica del sacrificio, cui seguirà la spiegazione “più religiosa” di Filone. L’Alessandrino, infatti, comincia la sua interpretazione del sezionamento della vittima dicendo che il taglio delle membra
31
μέρη codd. ἡ δὲ εἰς μέλη τοῦ ζῴου διανομὴ δηλοῖ, ἤτοι ὡς ἓν τὰ πάντα ἢ ὅτι ἐξ ἑνός τε καὶ εἰς ἕν, ὅπερ οἱ μὲν κόρον καὶ χρησμοσύνην ἐκάλεσαν, οἱ δ´ ἐκπύρωσιν καὶ διακόσμησιν, ἐκπύρωσιν μὲν κατὰ τὴν τοῦ θερμοῦ δυναστείαν τῶν ἄλλων ἐπικρατήσαντος, διακόσμησιν δὲ κατὰ τὴν τῶν τεττάρων στοιχείων ἰσονομίαν, ἣν ἀντιδιδόασιν ἀλλήλοις. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Frr. 26 (b) e 55 (b2), pp. 454 e 587, ma il passaggio filoniano non è considerato testimonianza del frammento 25 (10 DK), pp. 69 ss.; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 333, pp. 241-242. 32
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dell’animale rappresenta la divisione dell’unità totalitaria nelle parti che la costituiscono, e sostenendo l’identità dell’uno con il totale dei pezzi e la derivazione di questo da quello. Nel seguito del passaggio, quindi, Filone (Spec. 1.209) dirà che Dio ha molteplici attributi, ciascuno venerabile e lodevole, sia esaminato nella sua peculiarità propria, sia considerato insieme agli altri. E ciò vale non solo per le virtù divine, ma anche per le parti del cosmo e di ogni essere vivente: «Qualora tu voglia, o mio pensiero, rendere grazie a Dio per la creazione del mondo, esprimi la tua riconoscenza sia per l’universo nella sua totalità sia per le sue parti più totalitarie, come se fossero le membra del più perfetto essere vivente» (ὅταν βουληθῇς, ὦ διάνοια, εὐχαριστῆσαι περὶ γενέσεως κόσμου θεῷ, καὶ περὶ τοῦ ὅλου ποιοῦ τὴν εὐχαριστίαν καὶ περὶ τῶν ὁλοσχερεστάτων αὐτοῦ μερῶν ὡς ἂν ζῴου τελειοτάτου μελῶν) (Spec. 1.210). In conclusione, dunque, Filone torna al cosmo, che nel Timeo (32 c-d) – passaggio a lui ben noto33 – è definito il più grande, il più bello e il migliore dei viventi creati da Dio: un vivente perfetto composto di parti perfette. Per l’Alessandrino, infatti, l’essere vivente, l’animale o il mondo, è un’unità e una totalità composta, a sua volta, di altre unità-totalità viventi, e questo spiega il ricorso strumentale alla dottrina eraclitea e stoica dell’uno e del tutto nel commento del sacrificio ebraico. Sebbene in Spec. 1.208 non vi sia alcuna menzione di Eraclito, né degli Stoici, pare innegabile che οἱ μέν si riferisca agli Eraclitei, mentre οἱ δέ ai filosofi del Portico, secondo un uso probabilmente familiare a Filone34 che, in questo caso, non ritiene necessario nominare i filosofi o le scuole di pensiero cui fa allusione. Il principio della dossografia, d’altronde, è la subordinazione delle doxai agli autori che le sostengono, e Filone potrebbe anche utilizzare materiale dossografico. Al fine di comprendere, ora, il rapporto che l’Alessandrino istituisce tra la dottrina eraclitea della «sazietà» e dell’«indigenza» e quella stoica della «conflagrazione» e dell’«ordinamento», e l’utilizzo di entrambe in questo commento dell’olocausto, occorre analizzare in dettaglio i tre riferimenti alla parola di Eraclito.
33 34
Cf. Aet. 25-26. Cf. S. Daniel (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 24 (1975), pp. 132-133.
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1.2.1. «Uno tutte le cose» La prima formula, ἓν τὰ πάντα («uno tutte le cose»), è un’altra parafrasi della conclusione del già citato frammento 50 DK di Eraclito (Ref. omn. haer. IX 9, 1), ma più prossima alla lettera del testo eracliteo di quanto non lo sia ἓν τὸ πᾶν («uno il tutto»), che Filone attribuisce esplicitamente a Eraclito in Leg. 3.7. Come dicevamo, il frammento 50 DK è anche presupposto nel passaggio di Her. 207-214, in cui Filone, commentando il sezionamento degli animali di Gen. 15:10, fornisce un sunto della dottrina eraclitea in termini di unione e divisione di ogni cosa in due contrari. Il contesto di Her. 214, in effetti, è simile a quello di Spec. 1.208: in entrambi i casi è questione di un sacrificio che consiste nel sezionamento di un animale. Tuttavia, se in quel passo Filone attribuisce esplicitamente a Eraclito la dottrina – a suo avviso biblica – dei contrari, senza citare alcun frammento eracliteo, in questo spiega la Legge relativa all’olocausto alludendo a tre frammenti, senza menzionare Eraclito; inoltre, se nel primo caso si tratta di una divisione a metà con contrapposizione delle parti due a due, nel secondo, di una divisione in più parti seguita dall’olocausto dell’intero. Rispetto a Leg. 3.7., in Spec. 1.208 l’Alessandrino utilizza il detto eracliteo, non a proposito del mondo, ma per spiegare la pratica del sezionamento dell’animale, interpretando l’uguaglianza eraclitea di «uno» (ἓν) e «tutte le cose» (τὰ πάντα) nel senso di identità del corpo intero con le sue singole membra. In questo passaggio, dunque, Filone ricorre al frammento eracliteo a rappresentare la dottrina filosofica dell’equivalenza di un essere vivente con l’insieme delle sue componenti, o meglio dell’identità di un unico organismo e della totalità dei suoi organi. 1.2.2. «Dall’uno e all’uno» La seconda formula, ἐξ ἑνός τε καὶ εἰς ἕν («dall’uno e all’uno»), è una vaga reminiscenza dell’ultima parte del frammento 10 DK di Eraclito che – come ormai sappiamo – è dato dal De mundo 396 b 19 ss. pseudo-aristotelico e può essere sottinteso nel passo di Her. 207-214 in cui Filone chiama in causa la dottrina eraclitea dei contrari. Rispetto a Her. 213-214, tuttavia, in Spec. 1.208 Filone non pone l’accento sui contrari, bensì sulla dinamica di derivazione di tutte le cose «dall’uno» (ἐξ ἑνός) e del loro ritorno «all’uno» (εἰς ἕν). In questo passo, dunque, il frammento 10 DK di Eraclito è riferito alla trasformazione reversibile di un tutto unico in tutte le sue parti, cioè alla scomposizione
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dell’unità dell’animale nelle sue molteplici35 e diverse membra – non solo due – e del ritorno all’uno con l’olocausto finale dei singoli pezzi. 1.2.3. «Sazietà e indigenza» La terza formula, infine, rappresenta la chiave di comprensione dell’intero passo, poiché è inserita nella giustapposizione di due diverse coppie di termini indicanti una stessa cosa: «ciò che alcuni hanno chiamato “sazietà e indigenza” e altri “conflagrazione e ordinamento”». Come risulta dalla precedente analisi di Leg. 3.7, κόρον καὶ χρησμοσύνην («sazietà e indigenza») è una variante del frammento 65 DK di Eraclito (Ref. omn. haer. IX 10, 7), mentre ἐκπύρωσιν καὶ διακόσμησιν («conflagrazione e ordinamento») sono i termini stoici (SVF II 616) che indicano il periodico incendio universale e l’identica rigenerazione del cosmo. L’oscurità della parola di Eraclito, in effetti, ha permesso diverse interpretazioni, pro o contra una dottrina della conflagrazione universale. Prima degli Stoici, già Aristotele – se non Platone36 – aveva parlato del fuoco cosmico eracliteo. La critica più recente, inoltre, ha mostrato che una dottrina cosmogonico-conflagrazionista è attribuita a Eraclito da quasi tutte le fonti post-aristoteliche, sia letterali sia dossografiche, e ha dimostrato che è perfettamente in linea con il pensiero eracliteo e la speculazione del suo tempo e ambiente37. E’ inoltre verosimile che all’interpretatio stoica delle periodiche conflagrazioni e dei riordinamenti universali sia seguita un’interpretazione “platonizzante” di Eraclito38, di cui Filone sarebbe un testimone. Anche in Spec. 1.208, l’Alessandrino non identifica, bensì giustappone la dottrina eraclitea dell’uno e del tutto a quella stoica del fuoco e del mondo. L’associazione tra i termini eraclitei «sazietà e indigenza» e quelli stoici di «conflagrazione e ordinamento» è riferita in questo caso alla vittima sacrifi-
35 Cf. Spec. 1.199, in cui Filone anticipa tale spiegazione annunciando il significato del sezionamento della vittima sacrificale in molteplici parti: ἐξ ἑνὸς πολλὰ καὶ ἐκ πολλῶν ἕν («dall’uno il molteplice e dal molteplice l’uno»). 36 Lo facevano notare già K. Reinhardt, Heraklits Lehre vom Feuer, «Hermes» 77 (1942), p. 16; e G.S. Kirk (1954), op. cit., pp. 318 ss. 37 Cf. C.D.C. Reeve, Ekpyrosis and the Priority of Fire in Heraclitus, «Phronesis» 27 (1982), 299-305; A. Finkelberg (1998), art. cit., pp. 195-222; S.N. Mouraviev, Doctrinalia Heraclitea I et II : Âme du monde et embrasement universel (Notes de lecture), «Phronesis» 53 (2008), pp. 315-358, 337-356. 38 Cf. J. Mansfeld (1992), op. cit., pp. 309-310.
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cale: come il cosmo e l’uomo, per Filone l’animale rappresenta un’unità, che riflette l’unità di Dio e della Legge, e ad un tempo un’«isonomia», nei sensi cosmologico-teologico ed etico-politico39, ma anche biologico40, che il termine acquisisce nel corpus philonicum41. Secondo l’Alessandrino, le membra dell’animale sono dapprima tagliate, poi bruciate, perché «tutte le cose» derivano dall’«uno» e ad esso ritornano. In questa prospettiva, il ricorso alla doppia alternativa dottrinale eracliteo-stoica è metodologico e strumentale, perché finalizzato a essere superato dalla spiegazione propriamente filoniana del passaggio dall’uno al tutto e del ritorno del tutto all’uno. Per Filone, l’essere vivente è un’unità e una totalità, composta a sua volta di altre unità-totalità viventi, secondo l’azione del Logos divino della divisione, cui partecipa il logos umano del discernimento. *
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Riassumendo l’analisi di Leg. 3.7, Filone polemizza contro una certa teologia-cosmologia, secondo cui Dio è il principio attivo o agente che non è mai scisso dal principio passivo o materiale, e contro la cosmogonia di Eraclito dell’ «uno» e «tutte le cose» (frr. 65, 50 e 90 DK). Nel secondo passaggio, Spec. 1.208, Filone, senza fare nomi, richiama tre detti eraclitei (50, 10 e 65 DK) e un frammento stoico (SVF II 616), interpretando il sacrificio ebraico dell’olocausto: un animale tagliato a pezzi e bruciato sull’altare. L’Alessandrino allude anche qui alle due alternative della speculazione filosofica che identifica l’uno con il tutto o fa derivare questo da quello, stabilendo l’equazione tra «sazietà» eraclitea e «conflagrazione» stoica: il fuoco che incendia il mondo. Il fatto di prospettare, tra il I secolo a. C. e il I secolo d. C., una doppia dottrina che mette in relazione l’uno e il tutto, indica che nell’ambiente filosofico dell’Alessandria filoniana la parola di Eraclito non era stata completamente assorbita dallo stoicismo, ma aveva voce accanto e indipendentemente da esso.
39 Secondo G. Naddaf (2008), op. cit., pp. 16 ss. (che riprende J.-P. Vernant), già il fisico presocratico Anassimandro concepiva un modello cosmologico conforme alla vita politica della città. 40 Cf. il presocratico Alcmeone di Crotone (24 B 4 DK), medico pitagorizzante vissuto nel VI-V secolo a. C., che concepiva l’“isonomia” degli elementi e dei poteri del corpo come l’equilibrio che determina la salute dell’essere umano. 41 Cf. F. Frazier, Le principe d’égalité chez Philon d’Alexandrie, «Ktema» 31 (2006), pp. 291-308, spec. pp. 304-305.
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Filone critica le speculazioni filosofiche che negano la trascendenza del Dio Creatore identificandolo con il mondo creato: quella stoica dei due principi della realtà, ma anche e soprattutto quella eraclitea, che concepisce l’uno come trasformazione dell’altro42 . Presentando questa duplice alternativa, Filone testimonia l’esistenza di un Eraclito non-stoico, vale a dire post-stoico, utilizzato in prospettiva filosofica e in ambito religioso. 2. Excursus. Dio e il mondo: Accademici contro Stoici Come gli antichi sapienti Presocratici, anche i filosofi di epoca ellenistica e romana riflettono sulla relazione tra l’unico principio della realtà (τὸ ἕν) e tutto ciò che esiste in natura (τὸ πᾶν / τὰ πάντα), saldando la problematica teologica a quella fisica43. Che questo fosse il tema principale delle speculazioni filosofiche del periodo di Filone, vale a dire del I secolo a. C., lo testimonia Cicerone che riproduce il dibattito tra Accademici e Stoici Sulla natura degli dei. Nel libro III del De natura deorum, il personaggio di Cotta, che rappresenta l’autorità politica della religione romana da un lato e la tradizione filosofica d’ispirazione platonica dall’altro, difende le credenze ereditate dagli antenati «sugli dei immortali» (de dis inmortalibus) (De nat. deor. III 5), impugnando
42 Una simile dottrina è attribuita al peripatetico Stratone di Lampsaco (III sec. a. C.), discepolo di Teofrasto e detto “il fisico”, il quale avrebbe rifiutato qualsiasi spiegazione “teologica” della natura. Secondo la testimonianza di Cicerone (De nat. deor. I 35): omnem vim divinam in natura sitam esse censet, quae causas gignendi augendi minuendi habeat, sed careat omni et sensu et figura («[Stratone] ritiene che la potenza divina sia trovi tutta nella natura, che ha le cause della generazione, dell’aumento e della diminuzione, ma che manca di ogni sensibilità e forma»). Cf. anche Cicerone, Acad. Pr. II 121, in cui Stratone è presentato come colui che ha sostituito all’attività divina di produzione del mondo (opera deorum ... ad fabricandum mundum) la potenza effettiva della natura (omnia effecta esse natura). La testimonianza di Plutarco (Adv. Col., 1115 B), quindi, attribuisce a Stratone la concezione del cosmo generatosi κατὰ τύχην («a caso»): ἀρχὴν γὰρ ἐνδιδόναι τὸ αὐτόματον («infatti, ha ammesso come principio l’auto-produzione»). La testimonianza di Lattanzio (De ira dei X 1), infine, aggiunge: ut intelligamus omnia quasi sua sponte esse generata, nullo artifice nec auctore («affinché comprendiamo che tutte le cose sono generate per così dire spontaneamente, senza alcun artefice né autore»). Cf. Straton von Lampsakos, in Die Schule des Aristoteles, Texte und Kommentar, hrsg. von F. Wehrli, Heft V, Basel 1949, pp. 16-17. Sul concetto di autogenerazione, dai Presocratici di V secolo a. C. agli Gnostici di II secolo d. C., cf. J. Whittaker, Self-Generating Principles in Second-Century Gnostic Systems, in B. Layton (ed.), The Rediscovery of Gnosticism. Proceedings of the International Conference on Gnosticism at Yale, 1978, I. The School of Valentinus, Leiden 1980, pp. 176-189. 43 Su questo tema, gli studi di riferimento sono W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci [1964], tr. it. di E. Pocar, Firenze 1982; e A.-J. Festugière, op. cit., vol. II (1949).
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la tesi stoica del dio cosmico. Secondo l’accademico Cotta, «lo stesso padre degli Stoici [i.e. Zenone] non fornisce dunque alcun motivo di pensare che il mondo faccia uso della ragione e neppure che sia un essere vivente. Il mondo non è dunque un dio» (Nihil igitur adfert pater iste Stoicorum quare mundum ratione uti putemus, ne cur animantem quidem esse. Non est igitur mundus deus) (De nat. deor. III 23). La posizione accademico-romana di Cotta è il rifiuto dell’assimilazione di dio alla natura difesa dagli Stoici, sulla scia di teologie proposte da anteriori poeti, sapienti e filosofi, come appunto Eraclito. Nella fattispecie, Cotta confuta la dottrina dei condiscepoli dello stoico Balbo, i quali «hanno l’abitudine di ricondurre tutto alla potenza del fuoco, seguendo – mi sembra – Eraclito, che, d’altronde, non interpretano tutti allo stesso modo» (omnia ... solent ad igneam uim referre, Heraclitum, ut opinor, sequentes, quem ipsum non omnes interpretantur uno modo) (De nat. deor. III 35)44. L’obiezione rivolta da Cotta alla dottrina eracliteo-stoica della periodica trasformazione del mondo in fuoco è che «ciò [che gli Stoici dicono] del caldo vale in verità anche per gli altri elementi» (id quidem commune est de calido) (De nat. deor. III 36). Dalla critica puntuale e serrata di Cotta ai vari argomenti della scuola del Portico si evince l’influenza dell’Accademia su Cicerone, che adotta e adatta ai propri fini sia il metodo dialettico di Platone sia i contenuti della speculazione platonica. Il tema demiurgico del Timeo – il dialogo più commentato dai filosofi medioplatonici e che Cicerone traduce parzialmente – lo conduce all’implicito postulato di una demiurgia provvidenziale che si distingue dalla teologia cosmica degli Stoici. Per Cicerone, come per Cotta, dio e mondo non possono ridursi alla potenza del fuoco, e solo la Provvidenza rende conto della natura e dell’attività del divino sottintesa dai riti e dai culti della religio romana 45. Mutatis mutandis, anche Filone, da un lato testimonia la controversia teologica che oppone le diverse scuole filosofiche del suo tempo e ambiente, e dall’altro offre la propria rielaborazione della demiurgia platonica alla luce del creazionismo giudaico. Sulla base della Bibbia greca dei Settanta, e precisamente dell’affermazione di YHWH: «Io sono colui che è» (᾿Εγώ εἰμι ὁ ὤν) (Es.
44 Cf. M. Tulli Ciceronis, De natura deorum, libri secundus et tertius, ed. by A.S. Pease, Cambridge (Mass.) 1958, p. 1030. Sull’oscurità di Eraclito, cf. anche Cicerone De nat. deor. I 74; De fin. II 15; De div. II 133. 45 Cicéron, La nature des dieux, traduit et commenté par C. Auvray-Assayas, Paris 2004 2 , Intr., p. XXIII.
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3:14)46, l’Alessandrino concepisce Dio come l’Essente supremo. La posizione di Filone su questo punto, tuttavia, è lungi dall’essere chiara e coerente47, e l’oscillazione tra il participio personale maschile «Colui che è» (ὁ ὤν) e il neutro astratto «ciò che è» (τὸ ὄν oppure τὸ ὄντως ὄν)48 – indistinguibili nei casi genitivo e dativo del greco – lo colloca nel vivo del dibattito medioplatonico sulla definizione del divino. Si tratta dell’alternativa, che in Filone diviene un’alternanza, tra il Dio personale biblico (ὁ ὤν) e il principio astratto platonico (τὸ ὄν)49. Il Dio filoniano è dunque l’Essere per eccellenza, ma è anche l’«Uno» (ἕν), e l’unicità di Dio è il punto capitale della Sacra Scrittura. L’espressione εἷς καὶ μόνος («uno e solo»), tuttavia, è una formula neo-pitagorica50 applicata frequentemente alla suprema divinità – a volte nella versione neutra ἓν καὶ μόνον – non solo da Filone51, ma anche da Plutarco52 e dagli autori del Corpus Hermeticum53. Filone, Plutarco, attraverso il maestro e portavoce neopitagorico Ammonio, e gli scritti ermetici egiziani hanno una fonte comune: il neopitagorismo alessandrino54. Inoltre, il fatto che medioplatonici non alessandrini non presentino l’equivalenza tra la divinità suprema e l’Uno, mentre il neopitagorico di I secolo a. C. Eudoro di Alessandria55, autore di un commentario al Timeo platonico56, descrive l’Uno trascendente dei Neopitagorici come ὁ
46 Sulla scia di Filone, nel IV secolo della nostra era Eusebio di Cesarea (Praep. Ev. XI 11), seguito da altri Padri della Chiesa (Cirillo di Alessandria, Adv. Jul. 8; Teodoreto, Graec. aff. cur. II 108), presenterà il passaggio in cui Plutarco (De E ap. Delph. 393 B 4), attraverso il personaggio di Ammonio, interpreta la “E” (epsilon) del tempio di Delfi nel senso di εἶ («Tu sei») commentando passaggi biblici come Es. 3:14: ᾿Εγώ εἰμι ὁ ὤν («Io sono colui che è»). 47 Cf. D.T. Runia (1990), art. cit., p. 11. 48 Cf. H. Dodd, The Fourth Gospel, Cambridge 1953, p. 61. 49 Sul medioplatonico neopitagorico Numenio (II sec.) e il suo utilizzo consapevole dell’epiteto della Settanta (Es. 3 :14) ὁ ὤν per dimostrare che Platone ha derivato da Mosé – ovvero dalla religione non greca e specialmente giudaica – la sua concezione dell’Essere, cf. J. Whittaker, Moses Atticising, «Phoenix» 21 (1967), pp. 196-201; Id., Numenius and Alcinous on the First Principles, «Phoenix» 32 (1978), pp. 145154. 50 Cf. A.-J. Festugière, op. cit., vol. IV. Le Dieu inconnu et la Gnose, Paris 1954, pp. 18 ss. 51 Cf. Agr. 54; Her. 216; Leg. 2.1 ss.; Gig. 64. 52 Cf. Plutarco, De E ap. Delph. 393 B. 53 Cf. Corpus Hermeticum (d’ora in avanti: CH) 4, 1 (1, 49, 4); 5 (1, 51, 6); 8 (1, 52, 11); 5, 1 (1, 60, 17 s.); 10, 14 (1, 119, 16 ss.); 11, 5 (1, 149, 9); 14, 3 (2, 222, 19). 54 Cf. J. Whittaker, Ammonius on the Delphic E, «CQ» 19/1 (1969), p. 188. 55 Cf. M. Bonazzi, Towards Transcendence: Philo and the Renewal of Platonism in the Early Imperial Age, in Philo of Alexandria and Post-Aristotelian Philosophy, F. Alesse (ed.), Leiden 2008, pp. 233-252. 56 Cf. Plutarco, De an. procr. in Tim., 1013 B, 1019 E, 1020 C.
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ὑπεράνω θεός57, induce a pensare che l’identificazione tra il divino e l’«uno» sia un luogo comune non semplicemente medioplatonico, ma precisamente neopitagorico58 e pseudo-pitagorico59. Va rilevato, tuttavia, che nonostante la terminologia filoniana ricalchi quella del platonismo pitagorizzante, e Dio sia spesso definito in termini di «uno» (ὁ εἷς, τὸ ἕν, εἷς) o di «monade» (ἡ μόνας, μόνος), per Filone l’Essente supremo, cioè il Dio della Bibbia, è al di qua e al di là del cosmo e di ciò che i filosofi considerano primo e unico, perché è «migliore del Bene, anteriore alla Monade e più semplice dell’Uno»60. Il riferimento critico allo ἓν τὸ πᾶν di Eraclito in Leg. 3.7, e agli ἓν τὰ πάντα ... ἐξ ἑνός τε καὶ εἰς ἕν in Spec. 1.208, esprime la presa di distanza filoniana dalla posizione filosofica che fa derivare il mondo intero (τὸ πᾶν / τὰ πάντα) da un solo principio (τὸ ἓν), riconducendo l’uno all’altro. Anche per Filone, Dio compenetra e riempie di sé tutto ciò che esiste, mentre niente e nessuno può contenerlo, «perché Egli è uno e tutto» (εἷς καὶ τὸ πᾶν αὐτὸς ὤν) (Leg. 1.44). Ma se il divino eracliteo è ἓν τὸ πᾶν, un uno materiale e cosmico, il Dio biblico di Filone è εἷς καὶ τὸ πάν, l’Uno personale61 che si distingue dal creato in quanto Creatore. Filone sostiene l’indeterminazione o la non-determinatezza di Dio, ma anche e soprattutto la sua trascendenza assoluta, che rende possibile con l’introduzione delle Potenze: Dio e Signore62 . Non si può vedere e conoscere “Colui che è”, ma solo le sue Potenze, che sono manifestazioni, misure, idee e nomi di Dio, ma anche e soprattutto i modi in cui l’uomo si relaziona a Dio63. La duplice testimonianza di Filone sui frammenti e sulla dottrina eraclitea dell’«uno» e del «tutto», considerata nella prospettiva giudeo-alessandrina e nel contesto di trattati esegetici, mostra la differenza fondamentale tra la filosofia eraclitea, la sua appropriazione stoica – il vocabolario pitagorico – e la 57
Cf. Simplicio, In Phys. 181, 17 ss. Diels. Cf. J. Whittaker (1969), art. cit., p. 189 ss. 59 Cf. B. Centrone, The Theory of Principles in the Pseudopythagorica, in K.I. Boudouris (ed.), Pythagorean Philosophy, Athens 1992, pp. 90-97. 60 Cf. Praem. 39-40; Cont. 2; Leg. 2.3-4. 61 Cf. Deo 3, la critica a quanti hanno cercato di divinizzare la sostanza informe. Seguendo una nota distinzione aristotelica (De gen. anim. 738 b 20), Filone precisa che il Creatore è maschile, mentre la materia è femminile: «il femminile (τὸ θῆλυ), in effetti, è la materia passiva (παθητòς ἡ ὕλη), il maschile (τὸ δ’ἄρρεν), il modellatore del mondo (ὁ Κοσμοπλάστης)». Cf. F. Siegert (Paris 1988), op. cit., pp. 23 ss. 62 D. Winston, Philo’s Conception of Divine Nature, in L.E. Goodman (ed.), Neoplatonism and Jewish Thought, Studies in Neoplatonism: Ancient and Modern VII, Albany 1992, pp. 21-42. 63 Cf. F. Calabi (2002), art. cit., p. 36. 58
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posizione filoniana. Parlando di Dio e del mondo, l’Alessandrino non può fare altro che prendere le distanze dalla dottrina eraclitea e dalle sue interpretazioni posteriori: per Eraclito il dio si identifica con l’universo, poiché l’uno è tutto ciò che diviene. 3. Le testimonianze principali 3.1. Teofrasto: lo scambio del fuoco L’unica testimonianza pre-filoniana sulla dottrina eraclitea dell’«uno» e del «tutto» è quella relativa al frammento 90 DK. Filone fa riferimento al detto con la formula πάντα ἀμοιβῇ («tutte le cose tramite lo scambio»), cioè utilizzando i termini della dossografia teofrasteo-peripatetica64. Ecco dunque il fr. 225 di Teofrasto ap. Simplicio, In Phys. I, pp. 23-24 Diels (= Opin. Phys. Epitom. fr. 1, Dox. pp. 475-476 = 22 A 5 DK; I, p. 406 Fortenbaugh et al.): Ippaso di Metaponto ed Eraclito di Efeso hanno fatto anche loro [il tutto] unico, in movimento e delimitato, ma hanno fatto del fuoco il principio e dal fuoco formano gli esseri per via di condensazione e rarefazione e li dissolvono di nuovo nel fuoco, essendo questa l’unica natura della sostanza che funge da sostrato. Eraclito, infatti, dice che “tutte le cose sono scambio di fuoco”; e stabilisce anche un ordine particolare e un tempo determinato per la trasformazione del mondo secondo una necessità fatale65.
Teofrasto testimonia che, secondo Eraclito, πυρὸς ... ἀμοιβὴν εἶναί ... πάντα («tutte le cose sono scambio di fuoco»). Rispetto alla reminiscenza di Filone (πάντα ἀμοιβῇ: «tutte le cose tramite lo scambio»), il Peripatetico, che impiega il sostantivo ἀμοιβή («scambio») in caso diretto, nomina la sostanza di cui tutte le cose si costituiscono: πυρὸς («di fuoco»). Inoltre, Teofrasto associa Eraclito al pitagorico Ippaso Metapontino, come già Aristotele, Met. 984 a 7 (Ἵππασος δὲ πῦρ ὁ Μεταποντῖνος καὶ Ἡράκλειτος ὁ Ἐφέσιος), e come faranno i suoi commentatori neoplatonici. Simplicio, commentando la Fisica aristotelica (In Phys. 23, 33 ss. Diels), accoppierà i due Presocratici, perché entrambi fanno 64
Cf. A. Finkelberg (1998), art. cit., p. 198. Ἵππασος δὲ ὁ Μεταποντῖνος καὶ Ἡράκλειτος ὁ Ἐφέσιος ἓν καὶ οὗτοι καὶ κινούμενον καὶ πεπερασμένον, ἀλλὰ πῦρ ἐποίησαν τὴν ἀρχὴν καὶ ἐκ πυρὸς ποιοῦσι τὰ ὄντα πυκνώσει καὶ μανώσει καὶ διαλύουσι πάλιν εἰς πῦρ, ὡς ταύτης μιᾶς οὔσης φύσεως τῆς ὑποκειμένης· πυρὸς γὰρ ἀμοιβὴν εἶναί φησιν Ἡράκλειτος πάντα. ποιεῖ δὲ καὶ τάξιν τινὰ καὶ χρόνον ὡρισμένον τῆς τοῦ κόσμου μεταβολῆς κατά τινα εἱμαρμένην ἀνάγκην. Cf. Marc.Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 54 (b1), pp. 583-584; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 199, p. 150. 65
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derivare tutto dal fuoco e tutto riconducono ad esso 66; nel commentario al trattato Sul cielo (In De caelo 280 a 11, 307, 15 Heiberg), invece, egli afferma che alcuni Stoici avrebbero seguito l’opinione che Aristotele attribuisce a Eraclito ed Empedocle sulle corruzioni e rinascite cosmiche67. Il passaggio mostra innanzitutto l’interesse teofrasteo per la dottrina dell’ἀρχή dei primi fisici o naturalisti: Eraclito, come Ippaso, avrebbe sostenuto che tutto ciò che esiste in natura si produce dal fuoco e si risolve nel fuoco per trasformazione e trasformazioni, di volta in volta, in ciò che è più denso o più rarefatto. Teofrasto si riferisce ai processi di condensazione e rarefazione, e più precisamente allo «scambio» dell’unica materia, mobile e attiva, con le masse cosmiche elementari e tutto ciò che deriva da esse. Così Teofrasto, iscrivendosi nella tradizione aristotelica, attribuisce a Eraclito la concezione secondo cui il fuoco, unico principio, si trasforma «scambiandosi» con tutte le cose, cioè con il mondo intero, secondo un ordine prestabilito e un tempo prefissato. Il concetto di incendio periodico dell’universo, in effetti, caratterizza l’interpretazione cosmogonica della dottrina di Eraclito, già implicita e più o meno esplicitata dalle testimonianze platonico-aristoteliche, laddove il termine tecnico «conflagrazione» (ἐκπύρωσις) è tipico dell’appropriazione stoica68. L’interpretazione stoicizzante è in seguito confluita nei Placita philosophorum attribuiti al dossografo di I secolo Aezio69 (I 3, 11 = Dox. 283 Diels = 22 A 5 DK), secondo cui «Eraclito e Ippaso fanno del fuoco il principio di tutte quante le cose. Secondo loro, infatti, tutte le cose nascono dal fuoco e nel fuoco tutte finiscono. […] E di nuovo il cosmo e tutti i corpi sono distrutti dal fuoco nella
66 Simplicio, In Phys. 23, 33 ss. Diels = Teofrasto, Phys. opin. fr. 1 (Dox. 475 Diels) = 22 A 5 DK: πῦρ ἐποίησαν τὴν ἀρχὴν καὶ ἐκ πυρὸς ποιοῦσι τὰ ὄντα πυκνώσει καὶ μανώσει καὶ διαλύουσι πάλιν εἰς πῦρ [...] Ἡράκλειτος [...] ποιεῖ δὲ καὶ τάξιν τινὰ καὶ χρόνον ὡρισμένον τῆς τοῦ κόσμου μεταβολῆς κατά τινα εἱμαρμένην ἀνάγκην («hanno fatto come principio il fuoco e a partire dal fuoco fanno gli esseri per condensazione e rarefazione e li dissolvono di nuovo nel fuoco [...] Eraclito [...] stabilisce anche un ordine particolare e un tempo determinato della trasformazione del mondo secondo una necessità fatale»). 67 Simplicio, In De caelo 280 a 11, p. 307, 15 Heiberg (= SVF II 617): μεταβέβηκεν ἐπὶ τοὺς γενητὸν μὲν καὶ αὐτούς, φθειρόμενον δὲ καὶ πάλιν γινόμενον ἐναλλὰξ λέγοντας καὶ τοῦτο διηνεκῶς, ὡς Ἐμπεδοκλῆς καὶ Ἡράκλειτος ἐδόκουν λέγειν καὶ ὔστερον τῶν Στωïκῶν τινες («[Aristotele] è passato a quelli che dicono, anche loro, che [il cosmo] è generato, ma che si corrompe e di nuovo rinasce alternativamente, e ciò continuamente, come sembravano dire Empedocle, Eraclito e più tardi alcuni Stoici»). Cf. Mour., op. cit., II.A.1 (1999), pp. 198-199. 68 Per la precisione, Aristotele (Meteor. 342 b 2) conosce il termine, ma non lo utilizza quando si riferisce alla dottrina di Eraclito. 69 Cf. G.S. Kirk (1954), op. cit., p. 318.
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conflagrazione» (Ηράκλειτος καὶ Ἵππασος ἀρχὴν τῶν ἁπάντων τὸ πῦρ. ἐκ πυρὸς γὰρ τὰ πάντα καὶ εἰς πῦρ πάντα τελευτᾷ. […] πάλιν δὲ τὸν κόσμον καὶ τὰ σώματα πάντα ὑπὸ τοῦ πυρὸς ἀναλοῦσθαι ἐν τῇ ἐκπυρώσει)70. Aezio – come la dossografia che dipende da lui71 – attribuisce a Eraclito la dottrina stoica della «conflagrazione» (ἐκπυρώσει) universale, mentre Teofrasto riferiva che, per Eraclito, tutte le cose sono «scambio» dell’unico principio vivo e mobile della realtà. Quella teofrastea è dunque un’allusione pre-filoniana al frammento 90 DK di Eraclito il cui contesto, non ancora contaminato dallo stoicismo, induce a considerare come genuinamente eraclitea la dottrina del fuoco che muta diventando tutte le cose. Fatta eccezione per il resoconto dossografico di Teofrasto, le testimonianze dirette sullo «scambio» di Eraclito sono posteriori a Filone: di qui l’importanza del contributo filoniano alla storia della trasmissione e della ricezione del detto eracliteo (90 DK) e di quelli ad esso collegati, come il 10 DK citato nel De mundo pseudo-aristotelico (5, 396 b 7 ss.), in cui è detto che il tutto viene dall’uno e l’uno dal tutto. Tra il I e il II secolo della nostra era72 , anche il grammatico stoicizzante Eraclito fa allusione allo «scambio di fuoco» del suo omonimo presocratico nella raccolta di brevi esegesi allegoriche intitolata – come
70 Una simile testimonianza appare nel capitolo dedicato ad Eraclito delle Vite e dottrine dei filosofi illustri IX 8, 1 di Diogene Laerzio (II, pp. 440-441 Long = 22 A 1 DK): «Ed ecco ora in dettaglio quali sono le sue [scil. di Eraclito] opinioni: il fuoco è il principio elementare e “tutte le cose sono scambio di fuoco”, nascendo per rarefazione e condensazione. […] Il tutto è limitato ed esiste un solo cosmo; esso si genera dal fuoco e di nuovo si conflagra in fuoco secondo certi cicli periodici, alternativamente, durante tutta l’eternità; e ciò avviene secondo il fato» (Καὶ τὰ ἐπὶ μέρους δὲ αὐτῷ ὧδε ἔχει τῶν δογμάτων· πῦρ εἶναι στοιχεῖον καὶ πυρὸς ἀμοιβὴν τὰ πάντα, ἀραιώσει καὶ πυκνώσει γινόμενα. […] πεπεράνθαι τε τὸ πᾶν καὶ ἕνα εἶναι κόσμον· γεννᾶσθαί τε αὐτὸν ἐκ πυρὸς καὶ πάλιν ἐκπυροῦσθαι κατά τινας περιόδους ἐναλλὰξ τὸν σύμπαντα αἰῶνα· τοῦτο δὲ γίνεσθαι καθ´ εἱμαρμένην). Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 54 (b2), p. 584; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 204, pp. 153-155 e II.A.2 (2000), T 705, pp. 586 ss. 71 Aezio è ripreso da Eusebio di Cesarea, Praep. Evang., XIV 14, 4, 1-8 (cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 54 (b3), p. 584; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 203, p. 152 e II.A.3 (2002), T 844, pp. 686-687). Un’altra testimonianza cristiana è quella di Arnobio di Sicca (Adv. nat. II 10): vidit enim Heraclitus res ignium conversionibus fieri («Eraclito, infatti, vide le cose divenire attraverso trasformazioni di fuochi»). Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 54 (c5), p. 585; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 684, p. 568. 72 Si tratta di uno scritto influenzato dall’allegorismo dello stoico Apollodoro (Περὶ θεῶν) e una delle ultime produzioni, assieme al Compendio di teologia greca di Cornuto, della tradizione allegorica del Portico. Sulla base degli autori citati nel testo (Apollodoro, Cratete, Erodico di Babilonia, Alessandro di Efeso), e del silenzio sull’opera di Plutarco (quindi sull’esegesi “mistica” di Omero praticata dai Neopitagorici), si è proposto il I secolo d. C. come terminus ante quem per la composizione del testo, mentre studiando il rapporto con l’esegesi anti-stoica di Galeno, è stata di recente avanzata l’ipotesi che lo scritto debba piuttosto collocarsi nel II secolo d. C. Cf. I. Ramelli, G. Lucchetta (2004), op. cit., cap. VIII.
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indicato alla fine del più antico e accreditato dei manoscritti – «Di Eraclito, Problemi omerici relativi a ciò che Omero ha detto allegoricamente sugli dei» (Ἡρακλείτου Ὁμηρικῶν προβλημάτων εἰς ἃ περὶ θεῶν ῞Ομηρος ἠλληγόρησεν)73. I Problemata o Quaestiones sono un’apologesi della poesia omerica fondata sull’interpretazione allegorica del suo contenuto. Di fronte all’accusa di empietà propugnata dai detrattori di Omero74, il grammatico Eraclito intende mostrare qual è il significato fisico, psicologico e morale delle allegorie dell’Iliade e dell’Odissea, ma anche dimostrare che Omero è il primo pensatore da cui tutti i posteriori sapienti hanno tratto le loro dottrine75. Secondo il grammatico, le concezioni fondamentali del pensiero antico sono solo la riproposizione della speculazione omerica, tanto nella forma (allegorica), quanto nel contenuto (filosofico). L’assemblamento dei quattro elementi cosmici alla base della natura, ad esempio, è per il commentatore la prima fondamentale verità scientifica, che Eraclito ha mutuato da Omero ed espresso in un simile linguaggio allusivo (Quaest. Hom. 23). Uno dei principali temi allegorici delle Quaestiones è quello dello scudo di Achille: il racconto omerico «della fabbricazione delle armi» (ὁπλοποιίας) (Iliade XVIII), interpretato come una grandiosa rappresentazione della «genesi dell’universo» (τὴν τῶν ὅλων ... γένεσιν) (Quaest. Hom. 43, 1). Così, nella spiegazione del passaggio in cui Efesto forgia lo scudo di Achille, Eraclito il grammatico cita Eraclito il presocratico (Quaest. Hom. 43, 7, p. 53 Buffière): «[Omero si esprime] secondo un’allegoria fisica: avendo mostrato che allora il
73 Cf. Heracliti Quaestiones Homericae, F. Œlmann (ed.), a cura della società filologica di Bonn, Leipzig 1910 (con index verborum). 74 J. Pépin (1958), op. cit., pp. 74-234, sostiene che l’attitudine filoniana di ricorrere all’allegoria quando il senso letterale del testo biblico pare insensato, contraddittorio o blasfemo, sarebbe la trasposizione di un principio stoico, perfettamente formulato dal grammatico Eraclito: l’allegoria è l’antidoto dell’empietà che squalifica la mitologia omerica. A questo proposito D. Dawson (1992), op. cit., pp. 23 ss. osserva che il grammatico Eraclito, inserendo nel testo omerico la propria conoscenza filosofica, dimostra che essa rappresenta il vero significato dei poemi e che, pertanto, è originariamente “omerica”; così Filone, conferendo a parole ed espressioni del testo sacro un significato allegorico, riempie di filosofia il testo della Scrittura e dimostra che tutto il pensiero antico è essenzialmente “mosaico”. L’utilizzo che entrambi gli autori fanno dell’antica filosofia è dunque puramente strumentale e finalizzato alla forma retorica e apologetica della loro opera, nonché al contenuto teologico, come dimostra il comune atteggiamento di non seguire un solo indirizzo di pensiero, né una sola e coerente esegesi. 75 Sulla stessa linea e nello stesso periodo si collocano Dione di Prusa, De Homero (Or. LIII 3) e l’autore del De vita et poesi Homeri (93), secondo cui i miti omerici conterrebbero già le dottrine sulla natura dei Presocratici.
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momento proprio della materia informe e indistinta era la notte, quando giunse l’ora che tutte le cose si preparassero a ricevere una forma, stabilì come demiurgo Efesto, vale a dire la sostanza calda: secondo il fisico Eraclito, infatti, “tutte le cose” sono “scambio di fuoco”» (Φυσικῶς δὲ τῆς ἀμόρφου ποτὲ καὶ μὴ διακεκριμένης ὕλης τὸν καιρὸν ἀποφηνάμενος εἶναι νύκτα, δημιουργόν, ἡνίκα ἔμελλε πάντα μορφοῦσθαι, τὸν ῞Ηφαιστον ἐπέστησε, τουτέστι τὴν θερμὴν οὐσίαν· "πυρὸς" γὰρ δὴ, κατὰ τὸν φυσικὸν Ἡράκλειτον, "ἀμοιβὴ τὰ πάντα" γίνεται)76. L’allusione al frammento 90 DK di Eraclito è πυρὸς ... ἀμοιβὴ τὰ πάντα («tutte le cose ... scambio di fuoco»), cioè la stessa di Teofrasto e della posteriore dossografia. Il grammatico Eraclito interpreta il passo omerico in senso fisico: Efesto che forgia di notte il rotondo scudo di Achille rappresenta a suo avviso il demiurgo che plasma dal caos la sfera cosmica (Quaest. Hom. 43, 14)77. Secondo il commentatore, la materia di cui è costituito lo scudo – simbolo del mondo –, è l’insieme dei quattro elementi, poiché Omero chiama “oro” l’etere, “argento” l’aria, “bronzo” e “stagno” l’acqua e la terra (Quaest. Hom. 43, 11-12). Il fuoco, invece, è interpretato come il principio formatore stesso, allegoria fisica del personaggio omerico di Efesto, ad un tempo «demiurgo» (δημιουργόν) e «la sostanza calda» (τὴν θερμὴν οὐσίαν). Così, l’allegorista cita il detto di Eraclito: «tutte le cose (sono) scambio di fuoco», considerando quest’ultimo l’elemento primordiale del mondo, insieme artefice divino e sostrato materiale. Come Filone (πάντα ἀμοιβῇ), dunque, anche il grammatico stoico interpreta il frammento in senso cosmogonico, attribuendo implicitamente a Eraclito la concezione di un unico tutto in cui si identificano dio e cosmo; a differenza di Filone e analogamente alle altre testimonianze78, dirette e dossografiche, a cominciare da Teofrasto, invece, il commentatore omerico esplicita che la sostanza dello «scambio» eracliteo è il «fuoco».
76
Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 54 (c1), p. 584; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 356, p. 265. Secondo l’editore F. Buffière (Héraclite, Allégories d’Homère, Paris 19892 , p. 116, n. 3), Eraclito si rifarebbe, direttamente o indirettamente, all’allegoria dello scudo di Agamennone di Cratete di Mallo (II-I sec. a. C.), grammatico della scuola di Pergamo. 78 Sempre nel II secolo, Marco Aurelio (X 7), senza menzionare Eraclito, dirà: ὥστε καὶ ταῦτα ἀναληφθῆναι εἰς τὸν τοῦ ὅλου λόγον, εἴτε κατὰ περίοδον ἐκπυρουμένου εἴτε ἀιδίοις ἀμοιβαῖς ἀνανεουμένου («cosicché anche tutti questi elementi [costitutivi delle cose] siano riassorbiti nella Ragione dell’universo, sia che questo si conflagri periodicamente, sia che si rinnovi con eterni scambi. Senza citare frammenti eraclitei, infatti, Marco Aurelio (III 3) evoca «Eraclito, che ha così tanto indagato la natura a proposito della conflagrazione del cosmo» (Ἡράκλειτος περὶ τῆς τοῦ κόσμου ἐκπυρώσεως τοσαῦτα φυσιολογήσας...). 77
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3.2. Plutarco: la lettera epsilon e il numero cinque Tra il I e il II secolo della nostra era, i frammenti 90 e 65 DK di Eraclito sono citati anche da Plutarco, dapprima accademico ad Atene, poi sacerdote del più alto grado all’oracolo apollineo di Delfi. All’inizio del II secolo d. C., l’anziano Plutarco compone il dialogo pitico La E (epsilon) di Delfi, dedicato al significato dell’offerta religiosa indicata dalla misteriosa lettera greca scolpita nel tempio delfico di Apollo. Due personaggi del dialogo, il giovane Plutarco e il suo condiscepolo dell’Accademia Eustrofo si esprimono sulla mistica pitagorica del numero cinque, il quale, scritto come epsilon, avrebbe un ruolo di primaria importanza in matematica, fisiologia, filosofia e musica. L’ateniese Eustrofo afferma, infatti, che la lettera “E” «deve essere onorata più delle altre, perché è il segno di un numero grande e importante per il mondo: il cinque» (ὡς δὲ μεγάλου πρὸς τὰ ὅλα καὶ κυρίου σημεῖον ἀριθμοῦ προτετιμῆσθαι τῆς πεμπάδος) (De E ap. Delph. 387 E). Il giovane Plutarco prende allora la parola per ricordare che «i Pitagorici» (οἱ Πυθαγόρειοι) solevano chiamare il numero cinque «nunziale» (γάμον) (388 C), perché è il risultato dell’unione del primo numero maschio (e impari) e del primo numero femmina (e pari)79. Il cinque – continua Plutarco – è chiamato anche «natura» (φύσις) (388 C), in virtù del fatto che, moltiplicato per se stesso, dà come risultato alternativamente o un numero che termina per se stesso o un numero che termina per zero. Secondo Plutarco, il cinque ha questi multipli «perché tale numero imita il principio ordinatore dell’universo» (ἀπομιμουμένου τοῦ ἀριθμοῦ τὴν τὰ ὅλα διακοσμοῦσαν ἀρχήν) (388 D 9-10). Ed ecco il seguito del passo (388 D 10-E 5, III, p. 10 Sieveking): come infatti quello [scil. il principio ordinatore dell’universo] fa il mondo a partire da se stesso e di nuovo se stesso a partire dal mondo per sostituzione, “tutte le cose si scambiano col fuoco – dice Eraclito – e il fuoco con tutte le cose, come l’oro con i beni e i beni con l’oro” (22 B 90 DK); allo stesso modo, l’addizione del numero cinque a se stesso non genera per natura nulla di imperfetto o eterogeneo, ma ha trasformazioni definite: genera, infatti, o se stesso o il numero
79 Secondo W. Burkert (Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, Translated by E.L. Minar, Cambridge (Mass.) 1972, p. 29, n. 5, p. 34, n. 31), Plutarco non citerebbe qui una fonte pitagorica, ma, senza nominarlo, il Περὶ τῶν Πυθαγορείων di Aristotele.
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dieci, vale a dire o un numero congenere [i.e. che termina per 5] o un numero perfetto [i.e. che termina per 0]80.
Plutarco cita letteralmente il frammento 90 DK di Eraclito: πυρός τε ἀνταμείβεται πάντα [ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα Diels] καὶ πῦρ ἁπάντων, ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός («tutte le cose si scambiano col fuoco e il fuoco con tutte le cose, come l’oro con i beni e i beni con l’oro»)81, confermando che, per Eraclito, ciò che «si scambia» con tutte le cose – il verbo è ἀνταμείβεται – è il «fuoco» (πῦρ). Secondo la dottrina messa in bocca al giovane Plutarco, infatti, «il principio organizzatore dell’universo», vale a dire il divino, «fa il mondo a partire da se stesso, e di nuovo se stesso a partire dal mondo per sostituzione», cioè si cambia con il cosmo reciprocamente e alternativamente, come il «fuoco» di Eraclito si offre e si riceve in cambio di tutte le cose. Plutarco prosegue diffondendosi sulle divinità delfiche Apollo e Dioniso, entrambi menzionati da Eraclito, che nel frammento 93 DK – citato dallo stesso Plutarco (De Pyth. or. 404 D) – parla del linguaggio allusivo del «Signore, il cui oracolo è a Delfi» (ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς), e nel frammento 15 DK afferma che «lo stesso sono Ade e Dioniso» (ὡυτὸς δὲ Ἀίδης καὶ Διόνυσος), cioè il dio dell’oltretomba e quello della vita dopo la morte82 . Per spiegare quale sia il rapporto tra le due divinità delfiche, Plutarco invita a cogliere il significato allusivo degli inni in poesia e prosa dei «teologi» (θεόλογοι), secondo i quali «il dio è incorruttibile ed eterno per natura» (ἄφθαρτος ὁ θεὸς καὶ ἀίδιος πεφυκώς), ma è suscettibile di molteplici trasformazioni, poiché prende ogni sorta di forme, qualità e proprietà differenti, pertanto ora si presenta come «fuoco» (πῦρ), ora è chiamato «mondo» (κόσμος) (De E ap. Delph. 388 F 1-7).
80 ὡς γὰρ ἐκείνην ὑπαλλάττουσαν ἐκ μὲν ἑαυτῆς τὸν κόσμον ἐκ δὲ τοῦ κόσμου πάλιν ἑαυτὴν ἀποτελεῖν "πυρός τε ἀνταμείβεται πάντα [ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα Diels]" φησὶν ὁ Ἡράκλειτος "καὶ πῦρ ἁπάντων, ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός," οὕτως ἡ τῆς πεμπάδος πρὸς ἑαυτὴν σύνοδος οὐδὲν οὔτ᾽ ἀτελὲς οὔτ᾽ ἀλλότριον γεννᾶν πέφυκεν, ἀλλ᾽ ὡρισμένας ἔχει μεταβολάς· ἢ γὰρ αὑτὴν ἢ τὴν δεκάδα γεννᾷ, τουτέστιν ἢ τὸ οἰκεῖον ἢ τὸ τέλειον. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 54 (a), p. 583; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 500, pp. 384-385. 81 Brillante è la dimostrazione di D. Musti secondo cui i χρήματα di Eraclito non sarebbero banalmente le «merci», come si usa tradurre, bensì le «monete»: l’oro non coniato si cambia in tutti i tipi di monete, e queste in quello. Cf. D. Musti, Eraclito e i chrêmata del fr. 90 DK, in Atti del Symposium Heracliteum (1983), op. cit., pp. 231-240. 82 Anche Plutarco (De Is. Et Os. 362 A) cita parte del frammento dato da Clemente, stabilendo l’equivalenza tra Dioniso e il dio egiziano Osiride.
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Secondo il giovane Plutarco, Apollo e Dioniso si sostituiscono reciprocamente, scambiandosi l’uno con l’altro, perché la divinità ora si unifica nel fuoco universale, ora si differenzia nell’ordine cosmico, come indica l’alternanza del culto apollineo e di quello dionisiaco nel calendario religioso delfico. Questa bipartizione del tempo, tuttavia, non è equa, perché diversi sono i cicli periodici di trasformazione propri di Apollo e Dioniso (De E ap. Delph. 389 B 10-C 8, III, p. 12 Sieveking): E poiché la durata dei periodi nelle trasformazioni non è la stessa, ma quella che chiamano “sazietà” è più lunga dell’altra, mentre quella dell’“indigenza”, più breve [...]; [i sapienti] pensano che proprio questi tre [scil. mesi dell’anno] rispetto ai nove sia la durata dell’ordinamento cosmico rispetto a quella della conflagrazione83.
Plutarco offre così una testimonianza sul frammento 65 DK: κόρον ... χρησμοσύνης («sazietà ... indigenza»), senza esplicito riferimento a Eraclito, ma nello stesso dialogo e nello stesso sviluppo in cui è citato il frammento eracliteo 90 DK. Nel concludere il suo argomento, infatti, Plutarco riassume in questi termini l’insegnamento dei sapienti: «è chiaro dunque che associano ad esso [scil. al dio] il numero cinque, il quale ora produce se stesso, come il fuoco, ora invece da se stesso, il numero dieci, come il fuoco produce il cosmo» (δῆλον δ᾽ ὅτι συνοικειοῦσιν αὐτῷ τὴν πεμπάδα νῦν μὲν αὐτὴν ἑαυτὴν ὡς τὸ πῦρ αὖθις δὲ τὴν δεκάδα ποιοῦσαν ἐξ ἑαυτῆς ὡς τὸν κόσμον) (De E ap. Delph. 389 C-D). Il paragone istituito tra la pentade e la divinità rivela la dimensione teologica delle speculazioni aritmologiche del dialogo plutarcheo. Nel discorso del giovane Plutarco, il numero cinque imita il primo principio dell’universo, poiché si moltiplica producendo all’infinito un numero che termina per cinque, cioè se stesso, o per la decina perfetta. Per questa ragione Plutarco associa alle produzioni alternative del numero cinque il ciclo cosmico, alternanza del fuoco e del mondo, e il ciclo delfico, alternanza del culto di Apollo, nel periodo invernale, e del culto di Dioniso, durante le altre stagioni dell’anno. Secondo gli specialisti, il complesso passaggio plutarcheo si ispirerebbe al culto apollineo di
83 ἐπεὶ δ᾽ οὐκ ἴσος ὁ τῶν περιόδων ἐν ταῖς μεταβολαῖς χρόνος, ἀλλὰ μείζων ὁ τῆς ἑτέρας ἣν "κόρον" καλοῦσιν, ὁ δὲ τῆς "χρησμοσύνης" ἐλάττων [...]· ὅπερ τρία πρὸς ἐννέα, τοῦτο τὴν διακόσμησιν οἰόμενοι χρόνῳ πρὸς τὴν ἐκπύρωσιν εἶναι." Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 55 (c), p. 587; la testimonianza non è contemplata dagli Heraclitea di Mour., op. cit., II.A.2 (2000), pp. 384-385, ma è menzionata come reminiscenza in Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), F 64-65, p. 160.
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Delfi, ai misteri dionisiaci, all’orfismo pitagorico e al mazdeismo iraniano84. Gli unici ad essere nominati esplicitamente da Plutarco, tuttavia, sono solo «i Pitagorici» (οἱ Πυθαγόρειοι) (De E ap. Delph. 388 C 3) ed Eraclito (388 E 1 ss.), assieme a «i teologi» (οἱ θεόλογοι) (388 E 10), cioè gli antichi sapienti – probabilmente orfici – che si sono espressi sulla duplice natura del divino85. Nonostante l’impiego dei termini stoici «conflagrazione» e «ordinamento», il discorso del giovane Plutarco non può essere considerato un pezzo di stoicismo introdotto per poi essere confutato dal discorso “anti-conflagrazionistico” di Ammonio (De E ap. Delph. 393 D-E), portavoce dell’anziano Plutarco, autore del dialogo86. Se così fosse, non si spiegherebbe l’associazione della dottrina filosofica del cinque e del fuoco con il culto delfico di ApolloDioniso, che gioca un ruolo importante nella teologia plutarchea87. Il ciclo di trasformazione della divinità delfica, che cambia natura e nome nell’alternanza di apollineo e bacchico, coincide con il ciclo annuale: nove mesi di puro fuoco e tre mesi di mondo organizzato88. Plutarco, De E ap. Delph. 389 C è la sola fonte che fornisce tale precisione aritmetica sulla durata proporzionale dei periodi cosmici di conflagrazione e ordinamento, ed è evidente che il suo obiettivo è stabilire l’analogia tra le due fasi dell’universo e i due culti rituali del calendario delfico89. Per Plutarco, dunque, la dottrina del fuoco-cosmo non è totalmente in contraddizione con il suo medioplatonismo pitagorizzante, e può accordarsi con la tradizione religiosa delfica90, che rappresenta l’orizzonte religioso della 84
Cf. Plutarque (1974), op. cit., p. 9. Secondo R. Chlup, Plutarch’s Dualism and the Delphic cult, «Phronesis» XLV/2 (2000), pp. 144145, Plutarco chiamerebbe θεόλογοι gli antichi autori di poesia e filosofia, come Ferecide, probabilmente Esiodo, Orfeo (De def. orac. 436 D) e qualche Presocratico (De Is. et Os. 360 D); in questo caso, egli alluderebbe infatti a Empedocle (31 B 17, 26 DK) ed evidentemente a Eraclito (22 B 65 DK). In altri passaggi, Plutarco pare chiamare θεόλογοι i fondatori e promotori di culti religiosi (De def. orac. 417 F; De Iside 369 B). 86 Come sostiene R. Chlup (2000), art. cit., pp. 141 ss., contro D. Babut, Plutarque et le Stoïcisme, Paris 1969, pp. 150, 374. 87 Sull’importanza attribuita da Plutarco ai culti tradizionali, cf. Amat. 756 B 1-11; De Pyth. orac. 402 E; Non posse 1101 C; De def. orac. 435 C-E; De Iside 359 F. 88 Cf. R. Chlup (2000), art. cit., pp. 145 e nn. ad loc. 89 Cf. A.A. Long and D.N. Sedley, Les Philosophes Hellénistiques, II. Les Stoïciens, tr. fr. par J. Brunschwig et P. Pellegrin, Paris 2001, p. 325, n. 1. 90 R. Chlup (2000), art. cit., pp. 147; J. Opsomer, Éléments stoïciens dans le E apud Delphos de Plutarque, in J. Boulogne, M. Broze, L. Couloubaritsis, Les platonismes des premiers siècles de notre ère. Plutarque, E de Delphes, Traduction et commentaire, Bruxelles 2006, p. 162. 85
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speculazione filosofica sull’identità della divinità nei due e molteplici aspetti in cui si manifesta91. Come dimostra il successivo discorso di Ammonio (De E ap. Delph. 393 D-E), tuttavia, la posizione del giovane Plutarco non è adeguata e definitiva, ma deve essere superata anche grazie a una migliore comprensione di Eraclito. Citando i frammenti 91 e 76 DK nella parte finale del dialogo92 , l’anziano Plutarco, cioè il Plutarco scrittore e narratore (De E ap. Delph. 392 B-D), dirà in che senso, per Eraclito, la realtà è un flusso in divenire, in cui tutto si trasforma, nascendo e morendo continuamente. Il testo plutarcheo mostra quindi la traccia di un Eraclito “stoicizzato”, almeno nella terminologia, e di un Eraclito “secondo Platone”, conformemente al platonismo pitagorico dell’età imperiale. Il primo è quello del giovane Plutarco, che associa la coppia eraclitea «sazietà-indigenza», tradotta in termini stoici di «conflagrazione-ordinamento»93, alle due fasi del calendario delfico; il secondo è quello di Ammonio-Plutarco, che ricorre alla dottrina eraclitea della trasformazione della realtà da un contrario all’altro, confluita – via Platone – nell’epistemologia dell’Accademia scettica in epoca ellenistica94. Tramite il personaggio di Ammonio, Plutarco oppone l’unità intelligibile e trascendente del dio alla pluralità del mondo sensibile, caratterizzato dal divenire continuo di ciò che si genera e si corrompe. Non si può dunque affermare che Plutarco sostenga l’interpretazione radicale di Eraclito, secondo cui la realtà è in flusso perpetuo – tutto scorre o tutto si trasforma in tutto: da buon filosofo
91 Per Plutarco, filosofia e credenza delfica non si escludono, ma si completano vicendevolmente: razionalità e tradizione sono entrambe necessarie per giungere alla concezione del divino. Cf. De Iside 352 C 3-5; 355 C 7-D 1; 369 B 6-11; Amat. 763 B-C e passim. 92 22 B 76 DK: πυρὸς θάνατος ἀέρι γένεσις, καὶ ἀέρος θάνατος ὕδατι γένεσις («morte del fuoco, nascita dell’aria, e morte dell’aria, nascita dell’acqua»); 91 DK: ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι («Non è possibile, infatti, scendere due volte nello stesso fiume»). 93 Cf. Plutarco, De def. orac. 415 F: «ἀκούω ταῦτ’» ἔφη «πολλῶν καὶ ὁρῶ τὴν Στωικὴν ἐκπύρωσιν ὥσπερ τὰ Ἡρακλείτου καὶ τὰ Ὀρφέως ἐπινεμομένην ἔπη οὕτω καὶ τὰ Ἡσιόδου καὶ συνεξάπτουσαν («Sento queste cose – diceva [scil. Cleombroto] – dalla bocca di molti e vedo che la conflagrazione stoica, come ha già divorato le parole di Eraclito e Orfeo, consuma ora anche quelle di Esiodo»). 94 Platone stesso, nel Teeteto (181e-182d) condanna le conseguenze estreme della dottrina radicale della fluidità del reale – dottrina che conduce da Protagora a Omero, passando per Eraclito –, ma ciò non impedirà agli avversari del platonismo, Stoici ed Epicurei, di attribuire tale posizione a Platone e ai Platonici. Sul dibattito riguardo al flusso, che coinvolse Accademia scettica, Stoicismo, Scuola epicurea e ambienti medici tra il II e il I secolo a. C., si veda F. Decleva Caizzi, La “materia scorrevole”. Sulle tracce di un dibattito perduto, in J. Barnes-M. Mignucci (edd.), Matter and Metaphysics, Napoli 1988, pp. 425-470.
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platonico e sacerdote delfico, egli rileva e rivela il contrasto tra il carattere identico e perfetto del divino e quello effimero e precario della realtà umana95. La concezione secondo cui il dio è sia uno sia tutte le cose, poiché ora unifica tutto in se stesso e ora si differenzia nell’ordine del mondo, mostra un’analogia stringente con la posizione attribuita esplicitamente e implicitamente a Eraclito da Filone, Leg. 3.7 e Spec. 1.208. La differenza più rilevante è che il personaggio del giovane Plutarco associa ai rituali dell’anno delfico i periodi cosmici detti «sazietà-indigenza» e «conflagrazione-ordinamento» (De E ap. Delph. 389 C 8-9). Nonostante le prospettive e gli scopi diversi, dunque, agli inizi della nostra era, Filone e Plutarco testimoniano entrambi il tentativo di recuperare la cosmogonia eraclitea, armonizzandola con la teologia del platonismo pitagorizzante, e applicandola rispettivamente alla religione giudaica e delfica96 . 3.3. Refutatio omnium haeresium: il giudizio e l’incendio universale I frammenti 50 e 65 DK di Eraclito sono citati letteralmente nella Refutatio omnium haeresium attribuita a Ippolito di Roma97, e precisamente nel libro IX, dedicato alla confutazione del monarchianismo di Noeto di Smirne che – come ormai sappiamo – l’eresiologo fa dipendere dalla dottrina eraclitea dei contrari. Dopo un’introduzione in cui compaiono antitesi d’ispirazione eraclitea considerate in prospettiva cristiano-gnostica98, l’autore comincia il lungo elenco di citazioni con il frammento (50 DK) in cui Eraclito afferma che «tutte le cose sono uno» (ἓν πάντα εἶναι), vale a dire la coincidenza di tutti i contrari del mondo fenomenico con e in un unico principio divino99. Poi l’eresiologo 95 Nel De sera (559 A-C), d’altronde, Plutarco attribuisce la concezione del flusso del reale ai sofisti e ai materialisti, contro cui afferma che l’uomo resta uno e lo stesso dalla nascita alla morte. 96 Sulla reminiscenza del frammento 22 B 90 DK di Eraclito in Luciano (Vita auct. 14): (τὰ πάντα) ... περιχωρέοντα καὶ ἀμειβόμενα («(tutte le cose) ... che circolano e si scambiano»); e Plotino (Enn. IV 8 [6], 1, 11): ἀμοιβάς τε ἀναγκαίας («scambi necessari»), quest’ultima ripresa da Giamblico (De an. ap. Stobeo I 49, 39) ed Enea di Gaza (Theophr. 5 Boissonade), ritorneremo nella Parte II, con lo studio delle fonti del fr. 22 B 60 DK. 97 L’edizione critica di P. Wendland (ed.) (1977), op. cit., deve essere confrontata con M. Marcovich (ed.) (1986), op. cit., ma non sostituita. 98 Cf. M. Marcovich, Hippolytus and Heraclitus, in SP, vol. VII, Part I, ed. by F.L. Cross, Berlin 1966, pp. 257 ss.; J. Mansfeld (1992), op. cit., pp. 232-233. 99 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 26 (a), p. 454; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 664, pp. 534-535.
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cita i frammenti 51-67 DK di Eraclito: il suo scopo, infatti, è mostrare che per Eraclito, e per l’eresia che dipende da lui, la luce e le tenebre – vale a dire il giorno e la notte –, il bene e il male, l’alto e il basso, l’impuro e il puro, l’immortale e il mortale, «sono uno e lo stesso» (ἓν καὶ τὸ αὐτό) (Ref. omn. haer. IX 10 2-6). Ed ecco la conclusione della notizia su Eraclito (Ref. omn. haer. IX 10, 7, 1-8, 1, pp. 243-244 Wendland): [Eraclito] dice anche che vi è un giudizio del mondo e di tutte le cose che esso contiene ad opera del fuoco, esprimendosi in questi termini: “tutte le cose il fulmine governa” (22 B 64 DK), cioè le dirige rettamente, chiamando fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo fuoco è intelligente e causa dell’organizzazione dell’universo. A questo dà il nome di “indigenza e sazietà” (22 B 65 DK): l’indigenza è secondo lui l’ordinamento, mentre la sazietà, la conflagrazione; dice, infatti, “il fuoco sopraggiungendo giudicherà e si impossesserà di tutte le cose” (22 B 66 DK)100.
La versione del frammento 65 DK di Eraclito data dalla Refutatio, χρησμοσύνην καὶ κόρον («indigenza e sazietà»), è la stessa di Filone (κόρον καὶ χρησμοσύνην), ma a termini invertiti. Come Filone e Plutarco, l’eresiologo interpreta la coppia di termini eraclitei in riferimento alla dottrina stoica del fuoco: l’«indigenza» di Eraclito è a suo avviso l’ordinamento (διακόσμησις) degli Stoici, ovvero la fase di distinzione e separazione di tutte le cose nel mondo organizzato, mentre la «sazietà» indica la conflagrazione (ἐκπύρωσις), cioè l’incendio universale in cui il fuoco riassorbe tutto in sé. Per l’autore cristiano, il fuoco eracliteo giudica e condanna la totalità dei corpi e degli esseri alla fine del mondo. Già nella dossografia del Libro I della Refutatio (I 3, 1 ss.), l’autore attribuiva a Eraclito ed Empedocle la dottrina secondo la quale tutte le cose deriva100 λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν αὐτῷ διὰ πυρὸς γίνεσθαι λέγων οὕτως· "τά δε πάντα οἰακίζει κεραυνός", τουτέστι κατευθύνει, κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι τὸ πῦρ καὶ τῆς διοικήσεως τῶν ὅλων αἴτιον· καλεῖ δὲ αὐτὸ "χρησμοσύνην καὶ κόρον"· χρησμοσύνη δέ ἐστιν ἡ διακόσμησις κατ᾽ αὐτόν, ἡ δὲ ἐκπύρωσις κόρος· "πάντα" γάρ, φησί, "τὸ πῦρ ἐπελθὸν κρινεῖ καὶ καταλήψεται". Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 55 (a), p. 587; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 664, pp. 540-541. Nella sua più recente edizione della Ref. omn. haer. (1986), M. Marcovich (pp. 243-244) inverte l’ordine dei frammenti ed edita questo testo: λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν αὐτῷ διὰ πυρὸς γίνεσθαι· "πάντα" γάρ, φησί, "τὸ πῦρ ἐπελθὸν κρινεῖ καὶ καταλήψεται". λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι τὸ πῦρ καὶ τῆς διοικήσεως τῶν ὅλων αἴτιον, λέγων οὕτως· "τάδε πάντα οἰακίζει"— τουτέστι κατευθύνει —"κεραυνός", κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. καλεῖ δὲ αὐτὸ "χρησμοσύνην καὶ κόρον"· χρησμοσύνη δέ ἐστιν ἡ διακόσμησις κατ᾽ αὐτόν, ἡ δὲ ἐκπύρωσις κόρος. Su questo ordine di frammenti, che risale a Fraenkel (cf. DK, op. cit., I, p. 165), si veda anche S.N. Mouraviev, Doctrinalia Heraclitea I et II, art. cit., pp. 352-353.
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no dal fuoco e si risolvono nel fuoco, e affermava che gli Stoici101 hanno adottato quest’idea nell’attesa della conflagrazione102 . Secondo l’impostazione del trattato antieretico (I 3, I 4, IX 27), infatti, Eraclito ed Empedocle appartengono alla più importante αἵρεσις dell’Antichità greca, vale a dire il pitagorismo103, di cui gli Stoici sarebbero i successori104. Inoltre, nello stesso Libro IX (27, 3) dedicato a Eraclito, Pitagora è associato agli Stoici per aver ripreso le proprie concezioni su Dio e sulla conflagrazione dagli Egiziani, e questi a loro volta dagli Esseni. Diversamente dall’ebreo Filone, che contrappone il monoteismo biblico al monismo filosofico, l’eresiologo cristiano propone una trasmissione storica della dottrina del fuoco cosmico secondo la linea (Ebrei-Egiziani-)Pitagora-Eraclito-Stoici105. La spiegazione della coppia eraclitea sazietà-indigenza in termini stoici di conflagrazione-ordinamento data dall’autore della Refutatio deriva quindi dall’interpretatio stoica della dottrina cosmogonica e cosmologica di Eraclito, la quale precede l’interpretatio platonica – cioè medioplatonica, quella del platonismo di età imperiale – e si distingue dall’interpretatio christiana del giudizio universale per opera del fuoco106. Detto questo, è giunto il momento di ritornare alla testimonianza giudeo-ellenistica di Filone e al dio cosmico di Eraclito.
101 Lo stesso trattato (I 21, 4 = SVF II 598) testimonia d’altronde l’esistenza di due diverse posizioni stoiche a proposito della conflagrazione. Cf. Refutatio omnium haeresium I 21, 4 (= SVF II 598): προσδέχονται δὲ ἐκπύρωσιν ἔσεσθαι καὶ κάθαρσιν τοῦ κόσμου τούτου, οἱ μὲν παντός, οἱ δὲ μέρους, καὶ κατὰ μέρος δὲ αὐτὸν καθαίρεσθαι λέγουσιν· καὶ σχεδὸν τὴν φθορὰν καὶ τὴν ἑτέρου ἐξ αὐτῆς γένεσιν κάθαρσιν ὀνομάζουσιν («[gli Stoici] ammettono che ci sarà conflagrazione e purificazione di questo mondo: alcuni [di essi] che sarà una conflagrazione totale, altri parziale, e dicono che questo [scil. il mondo] sarà purificato parte per parte; e probabilmente chiamano “purificazione” la corruzione e la generazione di un altro mondo da questa [scil. la conflagrazione]»). 102 Cf. J. Mansfeld (1992), op. cit., p. 238, 240-241 e note ad loc. Diversamente da Platone, Soph. 242 d-243 a, e conformemente ad Aristotele, De caelo 279 b 13-7, gli Stoici hanno attribuito la propria dottrina del ciclo cosmico a Eraclito, annullando in tal modo l’analogia e la differenza tra la sua dottrina e quella di Empedocle (cf. J. Mansfeld (1992), op. cit., p. 309). 103 Cf. J. Mansfeld (1992), op. cit., p. 49. 104 Un ventennio prima della Refutatio, già l’apologista cristiano Clemente Alessandrino (Strom. V 1, 9, 4) combina le opinioni di Eraclito ed Empedocle con quelle de οἱ ἐλλογιμώτατοι τῶν Στωïκῶν («i più rinomati tra gli Stoici») (Strom. V 14, 103, 6- 105, 1 = SVF II 590), cioè con una parte di essi. 105 Cf. J. Mansfeld (1992), op. cit., pp. 48-49. 106 Cf. J. Mansfeld (1992), op. cit., p. 309.
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4. L’«uno» è il «tutto» (frr. 10, 50, 65 e 90 DK) per Eraclito Nei due diversi contesti allegorici di Leg. 3.7 e Spec. 1.208, Filone allude ai frammenti 10, 50, 65, 90 DK di Eraclito sull’unità e la totalità della natura. Prima di lui Teofrasto (III sec. a. C.), nella raccolta delle opinioni dei fisici antichi, attribuiva a Eraclito la concezione secondo cui il fuoco è il principio elementare, da cui tutte le cose nascono e muoiono tramite processi di rarefazione e condensazione. Secondo il resoconto teofrasteo, per Eraclito «tutte le cose sono scambio di fuoco» (πυρὸς ἀμοιβὴν τὰ πάντα), perché dal fuoco provengono e ad esso ritornano necessariamente e periodicamente. Filone rappresenta dunque la prima fonte non dossografica dei frammenti eraclitei sulla trasformazione dell’unico principio nella totalità del mondo, già testimoniata implicitamente da Platone ed esplicitamente da Aristotele, prima che da Teofrasto, quindi confluita nella dottrina stoica della conflagrazione universale. In Leg. 3.7, commentando un passo biblico sul tentativo umano di nascondersi alla vista di Dio, l’Alessandrino sostiene che l’uomo ignorante è partigiano dell’opinione di Eraclito, che dice «sazietà e indigenza» (κόρον καὶ χρησμοσύνην), «uno il tutto» (ἓν τὸ πᾶν) e «tutte le cose tramite lo scambio» (πάντα ἀμοιβῇ), cioè che il mondo è sia l’unico principio sia il tutto ordinato. In Spec. 1.208, invece, l’Alessandrino afferma che la distribuzione dell’animale del sacrificio nelle sue membra indica che sono «uno tutte le cose» (ἓν τὰ πάντα), o tutte derivano e ritornano «dall’uno e all’uno» (ἐξ ἑνός τε καὶ εἰς ἕν): ciò che alcuni chiamano «sazietà e indigenza» (κόρον καὶ χρησμοσύνην), vale a dire lo stato di unità del tutto e quello di individuazione delle singole parti. Sia in Leg. 3.7 sia in Spec. 1.208 Filone giustappone, ma non identifica, la dottrina eraclitea e quella stoica. Se da Filone si passa alle fonti coeve e posteriori, lo pseudo-Aristotele del De mundo (I sec. a. C.?) sostiene che una sola armonia tiene insieme il mondo, costituito di contrari; come dice Eraclito: «Connessioni interi e non interi, concordante discordante, consonante dissonante, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose» (Συλλάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾷδον διᾷδον· ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα). All’inizio della nostra era (I-II sec.), Plutarco, nel dialogo sulla lettera epsilon di Delfi, spiega il significato pitagorico del numero cinque, ricorrendo anche alla parola di Eraclito: «tutte le cose si scambiano col fuoco e il fuoco con tutte le cose, come l’oro con le monete e le monete con l’oro» (πυρός τε ἀνταμείβεται πάντα [ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα Diels] καὶ πῦρ ἁπάντων, ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός), e sen-
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za menzionare Eraclito definisce i due periodi – apollineo e dionisiaco – del calendario delfico «sazietà» e «indigenza» (κόρον ... χρησμοσύνης). L’autore della Refutatio omnium haeresium (III sec.), invece, nell’intento di mostrare la derivazione dell’eresia monarchianista dalla dottrina di Eraclito, cita una lunga lista di frammenti eraclitei, il primo dei quali è: «ascoltando non me, bensì il resoconto (logos), sapiente è convenire che tutte le cose sono uno» (οὐκ ἐμοῦ ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι), e uno degli ultimi è «indigenza e sazietà» (χρησμοσύνην καὶ κόρον). Filone (Leg. 3.7 e Spec. 1.208) non condivide la posizione di Eraclito, ma si dissocia in questo caso dal Presocratico. Alludendo alla parola eraclitea con formule concise e incisive, criticandola e sfruttandola nella sua interpretazione allegorica della Scrittura, l’Alessandrino attribuisce a Eraclito la concezione di un’unica realtà che esiste nella duplicità delle sue manifestazioni: uno stato di raccoglimento nell’unità essenziale, detto «sazietà», e uno stato di dispiegamento nella totalità del molteplice fenomenico, detto «indigenza». Queste sono le due fasi alternative del ciclo cosmico che gli Stoici hanno in seguito chiamato «conflagrazione» e «ordinamento»: la saturazione del principio che si alimenta assimilando tutte le cose, e l’annientamento del principio che si disperde nel mondo organizzato. Testimoniando l’interpretazione stoica della dottrina eraclitea dell’«uno» che si trasforma nel «tutto» attraverso lo «scambio» di un’unica sostanza, materiale e divina, però, Filone non confonde eraclitismo e stoicismo. Per Eraclito (30 DK), infatti, quest’ordine cosmico «non lo fece alcuno degli dei o degli uomini» (οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν), perché l’unico divino si identifica con la totalità degli aspetti che assume nel mondo, ma quello si distingue anche da questi. Il dio di Eraclito, “creatore e creatura”, è immanente al cosmo, perché il solo e unico sapiente è il timoniere che (41 DK) «ha guidato tutto attraverso tutto» (ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων), ma allo stesso tempo è trascendente e si distingue da ogni altro essere, perché (108 DK) «è separato da tutte le cose» (ἔστι πάντων κεχωρισμένον). L’interpretazione filoniana di Eraclito, posteriore a quella stoica della conflagrazione cosmica e anteriore a quella cristiana del giudizio finale, può essere considerata (medio)platonica, perché non insiste esplicitamente sul fuoco, e giudaica, perché mossa dal confronto con la parola biblica; ma non è inutile per ripensare la dottrina originaria di Eraclito distinguendola dalle posteriori ricezioni. Il confronto delle testimonianze filoniane con i frammenti eraclitei rivela infatti che, per Eraclito, l’unico divino ha una duplice natura: ora unità indistinta del principio puro, ora distinzione totale delle sue molteplici quantità
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e qualità. Il dio cosmico di Eraclito è uno nella sua armoniosa totalità e differenziato nelle sue diverse parti: è l’unica essenza della realtà che si manifesta nell’esistenza del cosmo. Filone fornisce così una testimonianza che ricolloca Eraclito nel cuore della riflessione presocratica sull’origine e la fine dell’universo, quella che comincia con la fisica “genetica” dei Milesii. Per Anassimandro, le cose che sono nascono e muoiono in uno stesso principio illimitato, e la loro esistenza è un atto ingiusto, cioè uno stato di autonomia eccessiva contrario alle leggi ferree dell’uguaglianza, perciò una punizione è inflitta loro «secondo il dovuto: esse infatti pagano mutualmente la pena e il fio dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν)107. Analogamente, la dottrina di Eraclito non è solo una cosmologia, ma una cosmogenesi e una cosmophthoresis, perché concerne la nascita o la “vita” e la dissoluzione o la “morte” del mondo, e non solo le sue trasformazioni108. Una simile concezione dell’uno-tutto o del dio-universo si trova già in Senofane. Il Colofonio critica la rappresentazione antropomorfica degli dei olimpici trasmessa da Omero ed Esiodo, riprovevole dal punto di vista morale eppure tradizionalmente accettata, e contrappone all’opinione popolare la verità del sapiente. Aristotele informa che Senofane, «considerando la totalità del cielo [i.e. dell’universo], dice che l’uno è il divino» (εἰς τὸν ὅλον οὐρανὸν ἀποβλέψας τὸ ἓν εἶναί φησι τὸν θεόν)109. E Simplicio, seguendo Teofrasto, afferma che per Senofane «il principio o l’essere è uno e tutto» (μίαν δὲ τὴν ἀρχὴν ἤτοι ἓν τὸ ὂν καὶ πᾶν) [...]. «Infatti, questo uno e tutto Senofane lo chiamava il divino» (τὸ γὰρ ἓν τοῦτο καὶ πᾶν τὸν θεὸν ἔλεγεν ὁ Ξ.)110.
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12 B 1 DK. A. Finkelberg (1998), art. cit., ha cercato di risolvere l’annosa questione che opponeva i critici “anti-cosmogonisti” (Schleiermacher (1808), Lassalle (1858), Burnet (1892), Reinhardt (1916), Kirk (1954)) a quelli “pro-cosmogonisti” (Zeller (1856), Gigon (1935), Mondolfo (1958), Kahn (1979) e Robinson (1987)), dimostrando che Eraclito ha proprio sostenuto una generazione (cosmogenesi) e una dissoluzione (cosmophthoresis) del mondo nel fuoco secondo determinati periodi di tempo. Cf. anche S.N. Mouraviev, Doctrinalia Heraclitea I et II, art. cit., pp. 337-356 (Note II: L’embrasement universel). 109 21 A 30 DK. Cf. anche lo pseudo-Aristotele (21 A 28 DK), secondo cui, se dio è l’essere sommo, cioè il dominatore di tutte le cose, per Senofane «conviene che esso sia uno» (ἕνα ... αὐτὸν προσήκειν εἶναι) [...] «se poi dio è una cosa sola, allora anche le parti di Dio saranno una cosa sola» (εἰ δὲ ἓν μόνον ἐστὶν ὁ θεός, ἂν εἴη μόνον καὶ τὰ τοῦ θεοῦ μέρη). 110 Cf. anche 21 A 35 DK. 108
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Per Eraclito, l’uno-tutto divino è una sostanza materiale e precisamente ignea. Lo studio comparativo delle testimonianze rivela che il dio di Eraclito è proprio il fuoco che Filone – diversamente da Stoici e Cristiani – non chiama in causa esplicitamente, ma implicitamente in Spec. I 208. Lo confermano i frammenti eraclitei (30-31 DK) secondo cui il cosmo è un «fuoco sempre vivo» (πῦρ ἀείζωον), e le masse cosmiche del mare e della terra sono solo «mutazioni di fuoco» (πυρὸς τροπαί). Questo è per Eraclito l’unico principio che si trasforma in tutte le cose in modo regolare, cioè un fuoco (30 DK) «che si accende con misura e si spegne con misura» (ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα), e che diviene (31 DK) «dapprima mare, e del mare una metà è terra e l’altra metà è temporale» (πρῶτον θάλασσα, θαλάσσης δὲ τὸ μὲν ἥμισυ γῆ, τὸ δὲ ἥμισυ πρηστήρ)111. E ancora, in altri frammenti Eraclito afferma che (64 DK) «tutte le cose il fulmine governa» (τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός), e (66 DK) «il fuoco, infatti, sopraggiungendo, giudicherà e si impossesserà di tutte le cose» (πάντα γάρ τὸ πῦρ ἐπελθὸν κρινεῖ καὶ καταλήψεται). Filone non cita questi testi, che gli autori cristiani – influenzati dallo stoicismo e dal platonismo di età imperiale – mettono a servizio della dottrina biblica del giudizio universale. La personificazione del fuoco eracliteo, che giudica e condanna gli uomini dappoco o tutti gli esseri del mondo, rinvia al ruolo cosmologico ed escatologico che il fuoco assume in antichi miti e misteri, ma anche e soprattutto nel Papiro orfico di Derveni, in cui il fuoco rappresenta la folgore divina e ricorda la pira funeraria112 . Diversamente dagli altri Presocratici, tuttavia, Eraclito concepisce il principio divino come un fuoco che si trasforma nelle altre cose in modo misurato, cioè proporzionato ed equilibrato, secondo le leggi cosmiche della giustizia, perché si sostituisce a tutta la realtà trasformandosi ogni volta in qualcosa di qualitativamente diverso ma quantitativamente uguale, e in questo senso è oro che «si scambia» come moneta universale. Il verbo dei manoscritti ἀνταμείβεται – che Diels corregge con il sostantivo ἀνταμοιβή113 – significa «contraccambiare», cioè dare o ricevere una cosa in cambio di un’altra, laddove la dossografia dipendente da Teofrasto e lo stesso Filone attribuiscono a Eraclito il più comune
111 22 B 31a DK. A sua volta «la terra si fa mare, il mare si spande e nella sua misura conserva il medesimo rapporto che aveva prima di diventare terra» ( θάλασσα διαχέεται, καὶ μετρέεται εἰς τὸν αὐτὸν λόγον, ὁκοῖος πρόσθεν ἦν ἢ γενέσθαι γῆ) (22 B 31b DK). 112 Cf. G. Betegh (2004), op. cit., p. 338. 113 22 B 90 DK.
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ἀμοιβή («scambio»). Il vocabolo eracliteo ricorre in altri frammenti presocratici con un simile significato. Oltre a Ferecide, che mette in scena uno «scambio» (ἀμείβεται) di doni nunziali114, e a Democrito, che invita a «ricambiare» (ἀμοιβάς, ἀμοιβήν) i favori e il bene115, Empedocle affermerà che «di vivi – infatti – faceva morti sostituendone [i.e. commutandone/permutandone] le specie, e di morti, vivi» (ἐκ μὲν γὰρ ζωῶν ἐτίθει νεκρὰ εἴδε᾽ ἀμείβων, )116. Rispetto ad altre concezioni presocratiche della trasformazione di qualcosa in termini di scambio, il fuoco eracliteo muta la sua forma conservando il suo valore, perché si scambia con tutto il resto in modo giusto, cioè reversibile, sostituendosi ogni volta al suo equivalente parziale e al suo equivalente totale nell’incendio cosmico; il valore proprio del fuoco puro, infatti, si ottiene solo a prezzo della totalità, quando riduce e riconduce a se stesso il mondo intero117. Il principio di Eraclito può quindi essere considerato sia sostanza originaria, sia causa di trasformazione costante e processo di mutazione regolare, perché la nascita o l’apparizione di ogni cosa, e di tutto l’universo, avviene attraverso la scomparsa del fuoco secondo misura. Eraclito unifica e identifica dio e cosmo, poiché l’ordine naturale è un fuoco di eterna vita – divino nel senso di immortale –, che trasformandosi incessantemente in tutte le cose non muore mai118, o passando sempre nell’altro, muore continuamente e rinasce eternamente119. Il concetto eracliteo del divino cosmico è prossimo a quello delle religioni misteriche, come indica Plutarco associandolo a quello degli antichi «teologi» (orfici): per Eraclito, l’unico dio “vive” nella “morte” del mondo intero, e questo vive nella morte di quello; nel mito orfico, Dioniso è prima ucciso e fatto a pezzi, poi ritrova l’unità acquisendo una nuova vita nella conflagrazione universale120. Sembra dunque che, secondo Eraclito, la natura del dio-mondo, come quella di ogni altra cosa, si comprende e si spiega come unità di contrari, perché l’unico principio si identifica con le sue due fasi contrarie: la pienezza della 114
7 B 2 DK. 68 B 92 e 96 DK. 116 31 B 125 DK. 117 Cf. J. Bollack-H. Wismann, Héraclite ou la séparation, Paris 1972, 19952 , p. 267. 118 Cf. G.S. Kirk (1954), op. cit., p. 317. 119 Cf. O.A. Gigon (1935), op. cit., pp. 48 ss., 75, 129 ss.; Id., Der Ursprung der griechischen Philosophie, Basel-Stuttgart 19682 , pp. 207-222, 242 ss. 120 Cf. A. Finkelberg (2009), art. cit., p. 331. 115
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concentrazione del fuoco che ha divorato e assorbito tutto il resto, e la carenza della dispersione del fuoco che si è estinto trasformandosi negli aspetti parziali della realtà cosmica. Così, «giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace» (ἡμέρη εὐφρόνη, χειμὼν θέρος, πόλεμος εἰρήνη) e tutte le altre coppie di contrari rappresentano le variazioni del fuoco, che prende tanti nomi quanti sono i diversi incensi profumati che brucia (67 DK). Raccolto in se stesso, il principio eracliteo è luce, calore e pace assoluta, cioè fuoco, mentre dispiegato in tutti i suoi aspetti, è buio, freddo e guerra di contrari, cioè cosmo. Queste sono dunque la «sazietà» e l’«indigenza» di Eraclito: l’accendersi e lo spegnersi misurato e regolare della fiamma primordiale che scandisce la morte e la vita dell’universo.
PARTE SECONDA. L’ANIMA La Parte II della ricerca è dedicata alla concezione eraclitea della psychê, vale a dire l’anima cosmica e le anime umane, la loro natura ed esistenza. Questa seconda sezione è più estesa e articolata della prima, perché i riferimenti di Filone alla psicologia di Eraclito costituiscono la parte più importante e significativa della sua testimonianza. L’Alessandrino cita, parafrasa o allude a più frammenti eraclitei sull’anima in uno stesso contesto, o a uno stesso frammento in diversi contesti, con o senza menzione esplicita di Eraclito, ma utilizza anche la parola e la dottrina eraclitea senza citazione di frammenti. Filone è il primo e in qualche caso l’unico testimone storico-letterario del recupero medioplatonico e dell’utilizzo giudaico della dottrina eraclitea dell’anima, il cui ciclo di vita e morte, che appartiene all’eterno e perpetuo ciclo cosmico, è interpretato come un cambiamento e un movimento tra il mondo sensibile e la sfera dell’intelligibile, del cielo e del divino. Il confronto delle versioni e delle spiegazioni di Filone e degli altri testimoni con i frammenti conservati di Eraclito e degli altri Presocratici permetterà quindi di tornare a riflettere sull’originaria dottrina eraclitea della vita dell’anima e della morte delle anime.
I. IL CICLO DELL’ANIMA
1. Filone sulla «morte delle anime»: Eraclito nel medioplatonismo In diversi luoghi della sua opera, Filone fa riferimento ai detti in cui Eraclito esprime la sua concezione della nascita e morte dell’anima, rispetto agli stati fisici del cosmo e alla vita biologica dell’uomo. Parafrasi prossime o vaghe reminiscenze dei frammenti 60 e 62 DK di Eraclito si trovano in commentari allegorici alla Bibbia come De Somniis 1.156 o Legum allegoriae 1.108, solo per indicarne alcuni. L’unico luogo in cui questi detti, assieme ad altri, sono associati alla citazione del frammento 36 DK, tuttavia, non appartiene agli scritti esegetici di Filone, ma al trattato filosofico De aeternitate mundi 109-111. La nuova parte della ricerca comincia proprio dallo studio dei testi eraclitei presentati e celati in questo contesto filoniano, per poi estendersi agli altri passi del corpus philonicum in cui ricorrono le stesse espressioni e gli stessi concetti, con o senza menzione di Eraclito. 1.1. L’isonomia cosmica Il De aeternitate mundi è un trattato incompleto appartenente ai “saggi filosofici” di Filone e dedicato alla questione dell’incorruttibilità del cosmo. L’attribuzione dello scritto all’Alessandrino, tuttavia, è stata messa in dubbio perché un solo manoscritto, il Vaticanus graecus 381, comporta alla fine del testo: Φίλωνος ἰουδαίου περὶ ἀφθαρσίας κόσμου («Sull’incorruttibilità del mondo di Filone l’Ebreo»), e perché il trattato è assente dalla lista delle opere filoniane fornita da Eusebio di Cesarea (Hist. Eccl. II 18). Siccome, inoltre, la dottrina del mondo increato e incorruttibile è denunciata da Filone in vari luoghi
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del grande “Commentario allegorico”1, e apparentemente difesa in questo saggio, la questione della sua autenticità si ripresenta spesso nelle discussioni e negli studi sulle opere dell’Alessandrino2 . La preoccupazione e lo scopo di Filone è qui dimostrare l’ἀφθαρσία («incorruttibilità») del cosmo3, problematica inscindibile, nella cultura greca, da quella della sua γέ(ν)νησις («generazione»), ma prioritaria, in questo caso, rispetto a quella. Il testo conservato del trattato, infatti, è principalmente dedicato alla confutazione della posizione democrito-epicurea dell’“ateo” atomismo, ma soprattutto della dottrina stoica delle conflagrazioni e rinascite cosmiche. Uno degli argomenti utilizzati per rigettare la teoria stoica della periodica fine del mondo (Aet. 89 ss.) – peraltro già messa in discussione o abbandonata dai medio-stoici Boeto di Sidone, Panezio e Diogene di Babilonia (Aet. 76-77) – è quello dei contrari. A questo proposito, Filone ricorre alla concezione eraclitea della continua e reciproca trasformazione degli elementi materiali nel loro opposto, che pure era 1
Cf. Opif. 7; Somn. 2.283 o Conf. 114. La divergenza dottrinale tra il De aeternitate mundi e gli altri trattati filoniani era già sottolineata da F.H. Colson (PLCL, op. cit., vol. IX (1954), pp. 172-183), che distingueva la prima parte di Aet. (§§ 1-20), nella quale «the author is no doubt speaking himself» (p. 173), dalla successiva serie di opinioni e dottrine (in favore della sola posizione aristotelica) che Filone si propone di valutare punto per punto nella parte seguente, quella mancante. La tesi dell’inautenticità di Aet. riposa sull’autorità dello studio di J. Bernays, contraddetta da F. Cumont e rimessa in questione da I. Leisegang, come spiega il resoconto di R. Arnaldez (PAPM, op. cit., vol. 30 (1969), pp. 11-70) che sottolinea l’importanza del trattato per comprendere la formazione del pensiero filoniano attraverso i differenti insegnamenti filosofici dell’Alessandria di I secolo. Anche se certe parti o aspetti del trattato contrastano apparentemente con la struttura e il contenuto dei 39 libri sopravvissuti del Commentario allegorico al Pentateuco di Mosé, il consenso degli specialisti sulla paternità filoniana del trattato è rappresentato da D.T. Runia (Philo's De aeternitate mundi: the Problem of its Interpretation, «VChr» 35 (1981), p. 139): «the contents of the treatise, if interpreted correctly, are wholly in line with Philo’s thought». Una ventina di anni fa R. Skarsten scrisse una dissertazione in norvegese che contraddiceva il consensus dell’epoca, sottolineando, grazie anche e soprattutto a una ricerca computerizzata, le divergenze linguistiche, stilometriche, culturali e tematiche rispetto a La creazione del mondo. La sua conclusione è che il De aeternitate mundi non sarebbe stato scritto da Filone, bensì da un autore appartenente allo stesso ambiente dello pseudo-Ocello autore del De natura universi e dello pseudo-Aristotele autore del De mundo (cf. R. Skarsten, Forfatterproblemet ved De Aeternitate Mundi i Corpus Philonicum (The problem of authorship of De Aeternitate Mundi in Corpus Philonicum), (Diss.), Bergen 1987; Id., Some Applications of Computers to the Study of Ancient Greek Texts: a Progress Report, «SO» 66 (1991), 203-220). Lo stesso D.T. Runia, nel più recente Philo and the Church Fathers. A Collection of Papers, Leiden-New York-Köln 1995, pp. 225, 261, prende atto della scoperta, ma mantiene la sua posizione in J. Mansfeld-Id., Aëtiana, op. cit., vol. III (2009), pp. 291-297. 3 La questione εἰ ἄφθαρτος ὁ κόσμος occupa la riflessione filosofica e dossografica da Aristotele (Top. 104 b 1-8; De caelo 297 b 3 ss.) ad Aezio (II 4). 2
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stata adattata e adottata dallo stoicismo4. Distinguendo la dottrina di Eraclito dalla posteriore appropriazione dei filosofi del Portico, invece, l’Alessandrino l’utilizza come prova dell’impossibilità logica della teoria del vetero-stoico Crisippo. Dopo aver discusso la dottrina crisippea secondo cui il fuoco riduce allo stato elementare, cioè a se stesso, l’ordinamento del mondo (Aet. 94-103), Filone affronta la tematica della natura degli opposti, affermando che «dei contrari che sono in coppia, è impossibile che l’uno esista e l’altro no» (τῶν ἐν ταῖς συζυγίαις ἐναντίων ἀμήχανον τὸ μὲν εἶναι, τὸ δὲ μή) (Aet. 104), dunque è a torto che certuni parlano di «conflagrazioni e palingenesi» (ἐκπυρώσεις καὶ παλιγγενεσίας) (Aet. 107), risolvendo i quattro elementi in uno solo: il fuoco. Ecco l’inizio dell’argomento filoniano dei contrari, che segue l’esposizione della dottrina di Crisippo (Aet. 94-103) ed è volto alla sua confutazione (Aet. 104): «Dei contrari che sono in coppia, è impossibile che uno dei due membri esista e l’altro no; in effetti, se il bianco esiste, allora è necessario che anche il nero sussista, con il lungo il corto, con il pari il dispari, con il dolce l’amaro, con “il giorno la notte” e così via per tutte le coppie dello stesso tipo. Ma una volta che sarà avvenuta la conflagrazione, allora accadrà qualcosa di impossibile: uno dei membri che sono in coppia infatti, sussisterà, mentre l’altro non esisterà» (τῶν ἐν ταῖς συζυγίαις ἐναντίων ἀμήχανον τὸ μὲν εἶναι, τὸ δὲ μή· λευκοῦ γὰρ ὄντος ἀνάγκη καὶ μέλαν ὑπάρχειν καὶ μεγάλου βραχὺ καὶ περιττοῦ ἄρτιον καὶ γλυκέος πικρὸν καὶ ἡμέρας νύκτα καὶ ὅσα τούτοις ὁμοιότροπα. γενομένης δ´ ἐκπυρώσεως, ἀδύνατόν τι συμβήσεται· τὸ μὲν γὰρ ἕτερον ὑπάρξει τῶν ἐν ταῖς συζυγίαις. τὸ δὲ ἕτερον οὐκ ἔσται). L’incipit dell’argomento dei contrari rivela le sue analogie con il passaggio di Her. 207-214 in cui – come ormai sappiamo – Filone sostiene che la dottrina dell’identità dei contrari di Eraclito ha un’origine biblica, poiché si fonda sul sacrificio degli animali compiuto da Abramo nella Genesi. Per ciò che concerne ora il nostro passaggio, alcune delle coppie di opposti cui Filone fa riferimento, come «bianco nero, dolce amaro» (λευκὸν μέλαν, γλυκὺ πικρóν) sono quelle che Aristotele attribuisce al presocratico Alcmeone di Crotone5 e ai Pitagorici
4
Cf. Diogene Laerzio, V 88; VII 142, 174; IX 15; SVF II 421, 576, 594, 603, 617. 24 A 3 DK (= Aristotele, Met. 986 a 22): φησὶ γὰρ εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων, λέγων τὰς ἐναντιότητας οὐχ ὥσπερ οὗτοι διωρισμένας ἀλλὰ τὰς τυχούσας, οἷον λευκὸν μέλαν, γλυκὺ πικρόν, ἀγαθὸν κακόν, μέγα μικρόν («[scil. Alcmeone] afferma, infatti, che la maggior parte delle cose umane sono due [i.e. duplici], parlando di contrarietà non determinate come questi [scil. i Pitagorici], ma casuali, come bianco nero, dolce amaro, bene male, grande piccolo». 5
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(«pari e dispari»: περιττὸν καὶ ἄρτιον). La coppia «giorno notte» (ἡμέρη εὐφρόνη), invece, ricorre nei frammenti 57 e 67 DK in cui Eraclito esemplifica la dottrina dell’identità e distinzione di contrari. Sebbene Filone non citi ancora Eraclito, sembra dunque che l’inizio dello sviluppo sugli opposti in Aet. 104 ss. introduca e prepari la seguente allusione e citazione dei frammenti eraclitei (Aet. 109 ss). Avvalendosi dell’argomento dei contrari, Filone confuta la dottrina stoica delle conflagrazioni e palingenesi (Aet. 107): «Ci sono, infatti, quattro elementi di cui il mondo è composto: la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco; per quale ragione, avendone scelto arbitrariamente uno tra tutti, il fuoco, sostengono che gli altri si risolveranno in questo soltanto? In effetti, qualcuno potrebbe dire – e perché no? – che necessariamente si risolvono in aria o in acqua o in terra. Anche in questi elementi, infatti, ci sono potenze predominanti» (τεττάρων γὰρ ὄντων στοιχείων, ἐξ ὧν ὁ κόσμος συνέστηκε, γῆς, ὕδατος, ἀέρος, πυρός, τίνος ἕνεκα πάντων ἀποκληρωσάμενοι τὸ πῦρ τὰ ἄλλα φασὶν εἰς τοῦτο μόνον ἀναλυθήσεσθαι; δέον γάρ, εἴποι τις ἄν, — πῶς οὔκ; — εἰς ἀέρα ἢ ὕδωρ ἢ γῆν· ὑπερβάλλουσαι γὰρ καὶ ἐν τούτοις εἰσὶ δυνάμεις). Secondo Filone, nessuno ha mai affermato, a ragione, che il mondo si trasforma completamente in aria, acqua o terra, dunque non è plausibile neppure sostenere che ad un certo punto tutto si trasformi in fuoco, contravvenendo alle leggi dell’equilibrio cosmico (Aet. 108): «Inoltre, dopo aver compreso l’isonomia che esiste nel mondo, bisogna assolutamente temere o vergognarsi di dichiarare la morte di un così grande dio; vi è, infatti, una reciprocità predominante delle quattro potenze che misurano i loro “scambi” secondo le regole dell’uguaglianza e le limitazioni della giustizia» (χρὴ μέντοι καὶ τὴν ἐνυπάρχουσαν ἰσονομίαν τῷ κόσμῳ κατανοήσαντας ἢ δεῖσαι ἢ αἰδεσθῆναι τοσούτου θεοῦ κατηγορεῖν θάνατον· ὑπερβάλλουσα γάρ τις τῶν τεττάρων ἀντέκτισις δυνάμεων ἰσότητος κανόσικαὶ δικαιοσύνης ὅροις σταθμωμένων τὰς ἀμοιβάς). La dimostrazione con cui Filone intende confutare la dottrina della conflagrazione universale si basa sul postulato dell’equilibrio esistente tra le quattro «potenze» (δυνάμεις) degli «elementi» (στοιχεῖα) che costituiscono il cosmo secondo la cosmologia platonica, e già empedoclea: terra, acqua, aria e fuoco6. Nel pensiero presocratico – basti pensare ad Anassimandro7 –, l’universo è retto da
6 7
Cf. Empedocle, 31 B 6 DK e Platone, Tim. 31 b ss. e passim. Cf. 12 B 1 DK.
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un’uguaglianza che è simbolo della giustizia cosmica, e Filone riprende tale metafora impiegando, a proposito del mondo, il termine politico «l’isonomia» (ἰσονομία), che rimanda all’equa costituzione che regola lo stato democratico. Secondo la dossografia di Aezio, il medico pitagorizzante8 Alcmeone (24 B 4 DK) avrebbe sostenuto che l’«isonomia delle potenze» (τὴν ἰσονομίαν τῶν δυνάμεων)9, vale a dire l’uguaglianza di umido e secco, freddo e caldo, amaro e dolce, e di tutte le altre coppie, è ciò che mantiene – nel senso di “tenere insieme” – la salute dell’essere umano, laddove la «monarchia», cioè lo squilibrio dovuto alla supremazia dell’una sull’altra, determina la malattia dell’organismo10. L’Alessandrino dichiara che, in virtù dell’isonomia cosmica, che regola sovrana «gli scambi» (τὰς ἀμοιβάς) tra le quattro potenze degli elementi, nessuno di essi può predominare sull’altro, e per questa ragione il fuoco non può fagocitare gli altri nell’incendio universale. Se dunque in Leg. 3.7, Filone afferma che per Eraclito tutte le cose vengono ad essere «tramite lo scambio» (ἀμοιβῇ), mentre in Spec. 1.208, definisce la conflagrazione stoica come la fase del ciclo cosmico in cui il calore predomina su tutto il resto, e l’ordinamento, come l’ἰσονομία dei quattro elementi che si trasformano facendosi mutue concessioni, in questo passaggio, Filone precisa che i quattro «elementi» (στοιχεῖα) del cosmo hanno «potenze» (δυνάμεις), e che l’isonomia concerne appunto le loro potenze11. 8 Nel riassunto della dottrina pitagorica di Alessandro Polistore, trasmesso da Diogene Laerzio (VIII 26), l’«uguaglianza delle parti» (ἰσόμοιρα), nell’universo, è data da luce e oscurità, caldo e freddo, secco e umido. 9 Sulla concezione della salute dell’uomo come mescolanza temperata delle qualità o proprietà, vale a dire delle δυνάμεις («potenze»), cf. anche il trattato ippocratico De prisca medicina 14 e 16, oltre a Platone, Symp. 186 c-e. L’idea che la «predominanza» (ὑπερβολή) del caldo o del freddo sia causa di malattie, inoltre, è attribuita da fonti antiche al pitagorico Ippone (?) di Crotone. Cf. Menone, Anonymi Londin. 11, 22 [Suppl. Arist. III 1, 17] = 38 A 11 DK. 10 Sul concetto greco di uguaglianza e giustizia nelle cosmogonie arcaiche, si veda G. Vlastos, Isonomia, «AJPh» 74/4 (1953), pp. 337-376. Per le occorrenze di isonomia (cosmica e politica) in Filone, cf. F. Frazier (2006), art. cit., pp. 304-305. L’accezione fisica del termine ἰσονομία come rapporto equilibrato tra i quattro elementi che costituiscono l’unico cosmo è attestata in uno scritto pseudo-pitagorico che ricalca il Timeo platonico: pseudo-Timeo di Locri, De nat. mundi 217. Il grammatico Eraclito, Quaest. Hom. 25, 2-5, parla di ἁρμονία («armonia») tra gli elementi e “tirannide” (τυραννῆσαν) quando uno di essi prevale sugli altri. Sulla fisica come insegnante l’etica e a proposito del concetto di isonomia in epoca neoplatonica, cf. Ph. Hoffmann, La triade chaldaïque érôs, alètheia, pistis de Proclus à Simplicius, in A.Ph. Segonds et C. Steel (edd.), Proclus et la Théologie Platonicienne. Actes du Colloque International de Louvain (13-18 mai 1998) en l’honneur de H.D. Saffrey et L.G. Westerink, Ancient and Medieval Philosophy. De WulfMansion Centre, Series I, XXVI, Leuven-Paris 2000, pp. 459-489. 11 R. Radice (PR (2005), op. cit., p. 449, n. 31) afferma che Filone Alessandrino «si ispira ai principi della medicina ippocratica, in cui sovente sono ravvisabili influenze eraclitee» e riporta due passi tratti dal
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Un parallelo utile e interessante è offerto dal frammento filoniano De Deo: «A proposito della denominazione di Dio: fuoco che consuma per benevolenza, nella visione dei tre uomini apparsi ad Abramo nella pausa di mezzogiorno: Levàti gli occhi, vide (Gen. 18:2)»12 . Uno dei passaggi biblici commentati da Filone nel testo conservato in armeno è la visione di Isaia 6:2, vale a dire il Signore su un alto trono circondato da Serafini con sei ali, di cui «due sono per coprire i piedi, due per coprire il volto e due per volare» (Deo 6, 9). Il commento filoniano del testo profetico rivela il tema principale del frammento e verosimilmente dell’intero trattato, cioè il rapporto tra Dio e le Potenze divine attraverso le quali Egli crea e conserva il mondo13. Filone associa le due Potenze bibliche di Dio, la potenza Creatrice e quella Regale (Deo 4), alle potenze della filosofia presocratica: «Per questa ragione alcuni esperti di filosofia naturale hanno detto che gli elementi erano la terra e l’acqua, l’aria e il fuoco, l’amore e l’odio. Tuttavia il profeta [scil. Isaia] dice anche che le potenze (δυνάμεις?) nascoste dei quattro elementi sono simbolicamente rappresentate da quattro ali – che circondano come un muro il viso e i piedi –, e [le potenze (δυνάμεις?)] dell’odio e dell’amore sono le due ali spiegate verso l’alto che volano verso il Governatore supremo. Tra “la guerra e la pace” (πολέμου ... καὶ εἰρήνης), in altri termini (ἑτέροις ὀνόμασι), “l’amore e l’odio” (φιλίαν καὶ νεῖκος), infatti, lui solo è il mediatore» (Deo 10)14.
Corpus Hippocraticum (De diaeta III e IV) in cui è detto che tutti gli animali – ivi incluso l’uomo – sono costituiti di due principi, fuoco e acqua, le cui qualità sono rispettivamente caldo-asciutto e freddo-umido. (Cf. anche De nat. hom. III, De carn. II, De loc. in hom. XLII). Tra il V e il IV secolo a. C., in effetti, teorici della medicina come Filolao, Polibo e Petrone di Egina avrebbero sostenuto che i primi elementi costitutivi del corpo sono gli opposti caldo-freddo; il medico siciliano Filistione, contemporaneo di Platone, avrebbe invece affermato che ciascuno dei quattro elementi che costituiscono il nostro corpo (fuoco, acqua, aria e terra) possiede la sua propria qualità o potenza (rispettivamente: caldo, umido, freddo e secco). Cf. A.A. Long and D.N. Sedley (2001), op. cit., p. 266, n. 3; G.E.R. Lloyd, Who is attacked in On Ancient medecine? [1963], ora in Methods and Problems in Greek Science, Cambridge 1991, pp. 49-69, p. 62 e note ad loc. 12 Cf. F. Siegert (Tübingen 1988), op. cit., pp. 23 ss.; aggiornamento della retroversione greca e tr. fr. in Id. (Paris 1998), art. cit., pp. 183 ss.; tr. ingl. in Id. (Atlanta 1998), art. cit., pp. 1-33. 13 Sull’argomento, cf. F. Calabi, Serafini, Cherubini, Potenze in Filone Alessandrino. A proposito di Isaia 6, «ASR» 4 (1999), pp. 221-249. 14 Cf. F. Siegert (Paris 1998), art. cit., pp. 190, 215-216. Il passo del De Deo (10) in questione non appare né tra le testimonianze del frammento 67 DK di Eraclito raccolte nella grande edizione Marc.Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 77, pp. 665 ss., né nel capitolo 59 (Philo Judaeus Alexandrinus) di Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 326-343, pp. 237-253.
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Anche in questo passo, dunque, Filone parla di quattro potenze degli elementi, cui aggiunge altre due potenze o forze opposte, e le mette in relazione con le sei ali dei serafini della visione di Isaia. Come ormai sappiamo, πόλεμος εἰρήνη («guerra pace») è una delle emblematiche coppie di opposti che Eraclito utilizza per dimostrare la legge cosmica dell’unità dei contrari: essa figura nel frammento eracliteo 67 DK sui diversi nomi del divino, e ricorre nel catalogo filoniano dei contrari in Her. 208-212. I termini φιλία e νεῖκος («Amore e Odio»)15, invece, si riferiscono alle due forze equipollenti che, secondo Empedocle, dominano a vicenda nel ciclo cosmico, determinando la relazione tra la fisica del mondo e la sfera delle pratiche umane: l’Amore è principio di unione delle quattro «radici» o divinità elementari16 in un’unica sfera beata, mentre l’Odio è il principio di separazione e diversificazione delle singole cose e dell’esistenza dei mortali. Secondo la testimonianza del dossografo Aezio (31 A 33 DK), infatti, Empedocle avrebbe concepito quattro elementi: fuoco, aria, acqua e terra, e due «potenze principali» (ἀρχικὰς δυνάμεις): l’Amicizia e la Contesa. Simplicio (31 A 28 DK) dimostra poi che alcune fonti antiche giustappongono e sovrappongono ai quattro elementi empedoclei i due «principi» per eccellenza, responsabili del movimento di questi elementi, per un totale di sei principi. Se dunque in Deo 10 Filone associa le parole e il pensiero di Eraclito a quello di Empedocle, in linea con la dossografia del suo tempo17, e probabilmente con l’insegnamento filosofico praticato ad Alessandria, in Aet. 107, utilizza termini e concetti eraclitei, rielaborati assieme ad elementi pitagorici e medici, ricorrendo alle «potenze» – qualità e/o forze opposte – degli elementi per confutare la dottrina stoica della conflagrazione universale. L’Alessandrino sembra seguire una tradizione prossima agli Aetiana (I 3, 20, Dox., p. 286 = 31 A 33 DK), secondo cui il mondo di Empedocle è formato da quattro elementi, la cui natura è costituita di contrari: in virtù delle mescolanze e proporzioni di caldo e freddo o secco e umido si produce il Tutto, che è suscettibile di trasformazioni parziali, ma non del disfacimento totale18.
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Cf. 31 B 16, 17, 18, 19, 20, etc. DK. Cf. 31 B 6 DK. 17 Per l’associazione Eraclito-Empedocle, si veda Ref. I 3-4, in cui l’eresiologo attribuisce a Empedocle la concezione eraclitea del dio come «fuoco intelligente» (νοερὸν πῦρ), e a Eraclito, i principi empedoclei del conflitto e dell’amore (στάσιν καὶ φιλίαν). 18 Si tenga anche presente la testimonianza di Teofrasto (De sens. 9 e 11 = 31 A 86): secondo Empedocle, la visione è migliore quando gli opposti oscurità e luce (acqua e fuoco) sono in equa proporzione 16
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1.2. La morte e la rinascita degli elementi Lo sviluppo di Filone prosegue con la descrizione del continuo ed eterno processo di reciproca trasformazione materiale, in base al quale la sparizione o il dissolvimento di un elemento del cosmo, vale a dire la sua “morte”, è in realtà un divenire altro, cioè una nuova “vita” (Aet. 109, IV, p. 106 Cohn): Come infatti le stagioni dell’anno si scambiano ciclicamente, cedendosi il posto l’una all’altra secondo i periodi annuali che non terminano mai, allo stesso modo anche gli elementi del mondo nelle loro trasformazioni reciproche, e – massimo del paradosso – proprio nel momento in cui sembrano “morire”, “divengono immortali” prolungando la loro corsa, poiché “si scambiano” sempre e continuamente secondo “la stessa via verso l’alto e verso il basso”19.
Il passaggio di Filone contiene un implicito riferimento a tre frammenti eraclitei. E precisamente, l’affermazione θνῄσκειν δοκοῦντα ἀθανατίζεται («proprio nel momento in cui sembrano morire, divengono immortali») si riferisce al frammento 62 DK di Eraclito; il participio ἀμείβοντα («poiché si scambiano»), al 90 DK; e l’espressione τὴν αὐτὴν ὁδὸν ἄνω καὶ κάτω («la stessa via verso l’alto e verso il basso»), al 60 DK. Filone non riproduce gli ipsissima verba di Eraclito, ma fornisce la più antica testimonianza non meramente dossografica di tali detti e la prima interpretazione della dottrina eraclitea che essi esprimerebbero congiuntamente: l’identità tra «immortali» e «mortali» è intesa dall’Alessandrino come lo «scambio» degli elementi cosmici che si trasformano l’uno nell’altro secondo la «via verso l’alto», cioè dal più spesso e pesante al più sottile e leggero, e viceversa, secondo il processo e il percorso di trasformazione «verso il basso». Il contesto filoniano, che esprime in termini di “vita” e “morte” la mutazione degli elementi materiali, rinvia ai tre sensi della legge universale della vitamorte di Eraclito e dei Presocratici: cosmologico, antropologico e teologico20.
nell’organismo, e le più esatte percezioni spettano agli individui in cui la mescolanza degli elementi è equilibrata. 19 Καθάπερ γὰρ αἱ ἐτήσιοι ὧραι κύκλον ἀμείβουσιν ἁλλήλας ἀντιπαραδεχόμεναι πρὸς τὰς ἐνιαυτῶν οὐδέποτε ληγόντων περιόδους, [εἰς] τὸν αὐτὸν τρόπον [τίθεσι] καὶ τὰ στοιχεῖα τοῦ κόσμου ταίς εἰς ἄλληλα μεταβολαῖς, τὸ παραδοξότατον, θνῄσκειν δοκοῦντα ἀθανατίζεται δολιχεύοντα ἀεὶ καὶ τὴν αὐτὴν ὁδὸν ἄνω καὶ κάτω συνεχῶς ἀμείβοντα. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit, Fr. 33 (d 2), p. 496 (cf. anche Frr. 47 (d 2) e 66 (b)); Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 331, pp. 239-240. 20 Cf. J. Pépin, “Immortels mortels, mortels immortels”. Le fragment 62 d’Héraclite, in Idées grecques sur l’homme et sur dieu, Paris 1971, p. 39.
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Nel paragone con le stagioni dell’anno21, Filone coglie il senso cosmico della scomparsa di un elemento nell’apparire di un altro22 , e fonde la prospettiva temporale con quella spaziale, l’immagine del cerchio perfetto con quella della retta orientata: le masse cosmiche si mutano e si muovono in circolo secondo duplici fasi, uguali e contrarie, di ascesa e discesa. Questa è per Filone la “morte” e la “rinascita” dei singoli elementi – immortali – che determina e garantisce l’esistenza e la sussistenza dell’intero cosmo23. Eppure, Filone critica la divinizzazione delle sostanze elementari e i culti astrologici delle stelle, del cielo e del mondo24, praticati in epoca ellenistico-imperiale e riconducibili al pensiero presocratico che considera gli elementi non solo come materia del mondo, ma anche come principi divini. Il verbo δολιχεύω di Aet. 109, che ricorre in altri trattati di Filone25 con lo stesso senso di “fare una lunga corsa”, e quindi “prolungare la corsa” (spaziale) o “il corso” (temporale), richiama i frammenti di Empedocle in cui gli «dei» (θεοί) sono definiti δολιχαίωνες: «dalla lunga vita» (31 B 21 e 23 DK)26. Questo è l’epiteto che conferisce loro il primato per rango e onori tra gli esseri generati e “animati” dalle quattro radici elementari che, «correndo le une attraverso le altre, divengono cose diverse: tanto si scambiano per la mescolanza» (δι’ἀλλήλων δὲ θέοντα γίγνεται ἀλλοιωπά· τόσον διὰ κρῆσις ἀμείβει) (31 B 21
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Cf. QE 2.77. Cf. Prov. 2.60-61, 100 e 102; QE 2.81. 23 Cf. A. Finkelberg (1998), art. cit., p. 208, che interpreta la «via verso l’alto e verso il basso» del fr. 60 DK di Eraclito come la metafora delle trasformazioni del fuoco in quanto solstizi: il duplice movimento del sole nel cielo verso l’alto e verso il basso (spaziale e rettilineo) nell’alternanza successiva tra il solstizio d’inverno e quello d’estate (temporale e circolare). 24 Cf. Decal. 53-58. 25 Cf. Opif. 44 e 113; Plant. 9; Mos. 1.118; Decal. 104; Spec. 1.172, etc. 26 L’aggettivo composto è un hapax, sinonimo di μακραίων (cf. 31 B 115 DK), e indica che per Empedocle gli dei non sono immortali, come le divinità omeriche, ma fanno parte degli esseri viventi, cioè mortali; essi godono solo di una vita più lunga di quella degli uomini. L’opposizione messa in atto da Empedocle, infatti, non è tra uomini e dei, bensì tra cose mortali ed elementi immortali, in quanto rispettivamente composti e componenti di tutti gli esseri. Cf. J. Bollack (ed.), Empédocle, I. Introduction à l’ancienne physique, Paris 1965, II-III Les origines (introduction, traduction et commentaire des fragments et témoignages), 3 voll., Paris 1969, il tutto ripreso in Id., Empédocle, Paris 1992, vol. III, pp. 118-119. L’aggettivo dolichaiôn figura anche nella colonna a (ii) 2 del Papiro di Strasburgo contenente i nuovi versi di Empedocle. Cf. L’Empédocle de Strasbourg [P. Strasb. Gr. Inv. 1665-1666], A. Martin-O. Primavesi (edd.), Berlin-New York 1999, p. 133. 22
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DK)27. Il passaggio filoniano richiama anche il contesto introduttivo del frammento 115 DK di Empedocle (Ref. omn. haer. VII 29), in cui il tema dell’incarnazione dei demoni, cioè l’“esilio” o punizione che li obbliga a passare da un corpo all’altro per trentamila stagioni, è connesso con la fisica degli elementi e dei principi. Empedocle li chiama «dei» (θεοὺς), e dice che «quattro sono mortali: fuoco, acqua, terra aria» (τέσσαρας μὲν θνητούς, πῦρ ὕδωρ γῆν ἀέρα), «due, invece, immortali e ingenerati, i quali si combattono tra loro attraverso l’universo: l’Odio e l’Amore» (δύο δὲ ἀθανάτους, ἀγεννήτους, πολεμίους ἑαυτοῖς διὰ παντός, τὸ Νεῖκος καὶ τὴν Φιλίαν)28. Oltre alle reminiscenze empedoclee, il passaggio di Filone allude anche al frammento del «poeta tragico»: «niente muore delle cose che nascono, ma l’una dall’altra differenziandosi, rivelano una forma diversa» (θνῄσκει δ’οὐδὲν τῶν γιγνομένων, διακρινόμενον δ’ἄλλο πρὸς ἄλλο μορφὴν ἑτέραν ἀπέδειξεν) (Euripide, Fr. 839, 8-14 Nauck)29. Il testo di Euripide è citato ben tre volte nel corso del trattato (Aet. 5, 30 e 144) e nell’ultimo caso è impiegato da Filone per dimostrare che, «se ciascuno [scil. degli elementi cosmici] si trasforma separatamente nella natura del vicino, [il mondo intero] acquisisce l’immortalità» (εἰ
27 Il passo filoniano, in effetti, richiama anche il frammento 17 DK di Empedocle: ταῦτα ἀλλάσσοντα διαμπερὲς οὐδαμὰ λήγει («questi [scil. gli elementi] non cessano mai di scambiarsi il loro cammino»), eppure ἀκίνητοι κατὰ κύκλον («sono immobili secondo il ciclo»), perché si incontrano nell’unità dell’Amore e si portano in direzione opposta per il contrasto dell’Odio. Empedocle parla degli elementi πῦρ καὶ ὕδωρ καὶ γαῖα καὶ ἠέρος ἄπλετον ὕψος («fuoco, acqua, terra e l’immensa altezza dell’aria»), e di ciò che li unisce e divide: Νεῖκός τ’οὐλόμενον δίχα τῶν, ἀτάλαντον ἁπάντηι, καὶ Φιλότης ἐν τοῖσιν, ἴση μῆκός τε πλάτος τε («l’Odio funesto separato da essi, è uguale dappertutto e l’Amore che è in essi, eguale in lunghezza e larghezza»). Cf. anche il già citato frammento 31 B 8 DK, in cui Empedocle afferma che non vi è φύσις («nascita») di nessuna delle cose mortali, né alcuna τελευτή («fine») nella morte definitiva, ma c’è soltanto μίξις τε διάλλαξίς τε μιγέντων («mescolanza e distinzione di cose mescolate», ed è questo che gli uomini intendono con il termine φύσις («nascita»); o il frammento 31 B 26 DK, secondo cui gli elementi κρατέουσι περιπλομένοιο κύκλοιο («a vicenda predominano nel ciclo del tempo che compie la sua corsa»), φθίνει εἰς ἄλληλα («si perdono l’uno nell’altro») e αὔξεται («si accrescono») a turno secondo la legge del destino. 28 Cf. anche l’introduzione del frammento 31 B 16 DK di Empedocle nel contesto citatore. L’autore della Refutatio omnium haeresium VII 29 afferma che, per Empedocle, l’Odio è responsabile γενέσεως («della nascita») di tutte le cose, laddove l’Amore ἐξαγωγῆς («della fuoriuscita») degli esseri generati dal mondo, μεταβολῆς («della trasformazione») e ἀποκαταστάσεως («della reintegrazione») in unità. Secondo la notizia dell’eresiologo, Empedocle dice che l’Odio e l’Amore ἀθάνατα δύο καὶ ἀγένητα («sono due cose immortali e ingenerate»): οὐ γὰρ ἤρξαντο γενέσθαι, ἀλλὰ προῆσαν καὶ ἔσονται ἀεί («infatti, non iniziarono ad essere, ma preesistevano già e saranno sempre»). 29 Cf. la più recente edizione dei Tragicorum Veterum Fragmenta, vol. 5, Euripides, R. Kannicht (ed.), Göttingen 2004, pp. 880-881.
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δ´ ἕκαστον ἰδίᾳ πρὸς τὴν τοῦ γείτονος μεταβάλλει φύσιν, ἀθανατίζεται) (Aet. 144). Vediamo ora, in dettaglio, i tre riferimenti ai detti eraclitei contenuti nel passaggio. 1.2.1. «Quando sembrano morire, divengono immortali» La prima delle espressioni implicitamente riferite a Eraclito è θνῄσκειν δοκοῦντα ἀθανατίζεται («quando sembrano morire, divengono immortali»). Si tratta di una reminiscenza della prima parte del frammento 62 DK, la cui forma più estesa e letterale è quella data dalla Refutatio omnium haeresium (IX 10, 6, 2-3): ἀθάνατοι θνητοί, θνητοὶ ἀθάνατοι, ζῶντες τὸν ἐκείνων θάνατον, τὸν δὲ ἐκείνων βίον τεθνεῶτες («Immortali mortali, mortali immortali, vivendo la morte di quelli e morendo la vita di questi»). Che Filone conosca il detto eracliteo, lo si deduce dal fatto che un testo prossimo alla seconda parte del frammento 62 DK è citato, con esplicito referimento a Eraclito, in Leg. 1.107 e in QG 4.152, mentre il duplice ossimoro del “vivere la morte” e del “morire la vita”, di origine eraclitea, gioca un ruolo importante in Det. 48, QG 1.70 e altri luoghi esegetici del corpus philonicum30, su cui ritorneremo. Solo in Aet. 109, tuttavia, Filone accenna al chiasmo «immortali mortali, mortali immortali», affermando che gli elementi «si immortalizzano» (ἀθανατίζεται) proprio nel «morire» (θνῄσκειν) gli uni negli altri, cioè divengono immortali perché muoiono rinascendo sotto altra forma. Secondo l’argo-
30 W. Burkert (Plotin, Plutarch und die platonisierende Interpretation von Heraklit und Empedokles, in J. Mansfeld and L.M. De Rijk (edd.) (1975), op. cit., pp. 137-146), è stato il primo ad avanzare la tesi di un centone medioplatonico alla base dell’interpretazione pitagorico-platonizzante di Eraclito ed Empedocle in autori come Plutarco, Clemente, Plotino e Ierocle. Fondandosi sul suo articolo pionieristico, J. Mansfeld (1985), art. cit., pp. 131-156, situa le origini del centone in ambiente alessandrino e filoniano, postulando come fonte un anonimo autore (o più di uno) rappresentante del primo medioplatonismo. Mansfeld analizza il centone medioplatonico che ricorre in più trattati di Filone – prima di ricomparire, sotto varie forme, in seriori autori pagani e cristiani –, in cui il tema della discesa dell’anima alla vita corporea e la sua risalita al luogo di origine è illustrato attraverso l’interrelazione di immagini e citazioni tratte da Omero, dagli Orfici, da Pitagora, Eraclito, Empedocle, Platone e anche Aristotele. Un ruolo fondamentale è conferito all’ossimoro del “vivere la morte-morire la vita”, che costituisce la seconda parte del frammento 62 DK di Eraclito, di cui Mansfeld studia le occorrenze nei trattati filoniani. Lo studioso individua in Aet. 109-111 l’unica allusione di Filone alla prima parte dello stesso frammento e, precisamente, nella trasformazione degli elementi cosmici che «proprio nel momento in cui sembrano morire, divengono immortali», e che a suo avviso l’Alessandrino utilizza per interpretare (Heraclitus ex Heraclito) il frammento 36 DK, di cui cita verbatim la prima parte. L’articolo è poi riassunto in J. Mansfeld (1992), op. cit., pp. 314-315.
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mento di Filone, dunque, la morte di un elemento cosmico è in realtà solo la vita di un altro, e in questo senso ogni elemento muore e non muore, perché vive rinascendo eternamente: la sua sostanza non scompare, ma riappare con un aspetto differente, cioè cambia diventando altro. 1.2.2. «Scambiandosi» La seconda allusione implicita a Eraclito, ἀμείβοντα («scambiandosi»), è una vaga reminiscenza del frammento 90 DK che – come si diceva – è citato da Plutarco ne La E di Delfi (388 E). Il detto, che compare nella tradizione dossografica di origine teofrastea (πυρὸς ἀμοιβὴν τὰ πάντα), è noto a Filone che allude ad esso in Leg. 3.7, criticando la cosmogonia di Eraclito secondo cui πάντα ἀμοιβῇ («tutte le cose tramite lo scambio»). E se già in Aet. 108 Filone parla di «scambi» (ἀμοιβάς), in Aet. 109 spiega che, come le stagioni dell’anno «si scambiano in ciclo» (κύκλον ἀμείβουσιν), allo stesso modo gli elementi del cosmo divengono immortali proprio morendo, «poiché si scambiano» (ἀμείβοντα) gli uni con gli altri. Filone fa ancora riferimento al concetto eracliteo di «scambio» nel senso di sostituzione: la commutazione o permutazione di una cosa con un’altra, diversa nella forma ma equivalente nella sostanza. Secondo la comprensione e l’adattamento filoniano della dottrina eraclitea, gli elementi del mondo «si scambiano» gli uni con gli altri in circolo, cioè si alternano costantemente e si succedono continuamente nel ciclo cosmico in virtù della legge necessaria che regola la natura. 1.2.3. «La stessa via verso l’alto e verso il basso» Il terzo riferimento implicito a Eraclito, τὴν αὐτὴν ὁδὸν ἄνω καὶ κάτω («la stessa via verso l’alto e verso il basso»), è una parafrasi prossima del frammento 60 DK: ὁδὸς ἄνω κάτω μία καὶ ὡυτή («una e la stessa è la via verso l’alto verso il basso»), citato letteralmente nella Refutatio omnium haeresium (IX 10, 5, 1), ma probabilmente già presente nella fonte dossografica utilizzata da Diogene Laerzio (22 A 1 DK: ὁδὸν ἄνω κάτω). La familiarità di Filone con il frammento 60 DK è attestata dalla sua presenza in Somn. 1.156 e in altri passaggi i cui contesti, senza menzione di Eraclito, contengono altre reminiscenze eraclitee, come vedremo. In Aet. 109, Filone concepisce la «stessa via verso l’alto e verso il basso» come il cammino percorso dagli elementi materiali che muoiono rinascendo gli uni negli altri, perché si scambiano vicendevolmente dal più denso al più rare-
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fatto, e viceversa31. L’Alessandrino fa qui riferimento alla sostituzione di un elemento con l’altro secondo l’ordine ascendente dalla terra all’acqua, all’aria e al fuoco, e viceversa, secondo l’ordine discendente dal fuoco alla terra. Questa è la duplice «via» eraclitea cui pensa Filone: il cammino reversibile degli elementi del mondo che si trasformano gli uni negli altri cedendosi il passo e il posto alternativamente e ciclicamente32 . 1.3. Eraclito e la «morte delle anime» Nel seguito dello sviluppo, Filone si diffonde nell’esplicazione dettagliata della «via verso l’alto e verso il basso», menzionando a questo punto il nome di Eraclito e citando un altro frammento eracliteo (Aet. 110-111, IV, p. 106 Cohn): La via ascendente, dunque, parte dalla terra: liquefacendosi, infatti, la terra si trasforma in acqua, a sua volta l’acqua evaporando si trasforma in aria, e l’aria rarefacendosi si trasforma in fuoco; viceversa, la via discendente parte dalla sommità: il fuoco scomparendo si estingue in aria, mentre l’aria scomparendo si condensa in acqua, e l’acqua solidificandosi si trasforma in terra. Bene anche Eraclito dove dice: “per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua è morte diventare terra”; pensando, infatti, che l’anima è il soffio vitale, allude al fatto che la fine dell’aria è la nascita dell’acqua, quella dell’acqua è a sua volta la nascita della terra, dando il nome di “morte” non alla distruzione in direzione di una cosa qualsiasi, ma alla trasformazione in un altro elemento33.
31 D. Zeller (The Life and Death of The Soul in Philo of Alexandria: The Use and Origin of a Metaphor, «SPhA» 7 (1995), pp. 19-55, spec. 40-46), studiando la metafora della vita e morte dell’anima nell’opera filoniana, mette in discussione l’ipotesi di J. Mansfeld (1985) di un centone scritto, alessandrino e protomedioplatonico di frammenti eraclitei-empedoclei-platonici, perché le analogie tra le testimonianze di Filone, Plutarco, Clemente, Plotino e Ierocle non sono a suo avviso stringenti. A differenza di Mansfeld, Zeller riconosce e segnala, senza tuttavia approfondire, la parafrasi del frammento 60 DK di Eraclito in Aet. 109. 32 Cf. L. Saudelli, La hodos anô kai katô d'Héraclite (Fragment 22 B 60 DK / 33 M) dans le De Aeternitate mundi de Philon d’Alexandrie, «The Studia Philonica Annual» XIX (2007), pp. 29-58. 33 ἡ μὲν οὖν προσάντης ὁδὸς ἀπὸ γῆς ἄρχεται· τηκομένη γὰρ εἰς ὕδωρ [μετα]λαμβάνει τὴν μεταβολήν, τὸ δ’ ὕδωρ ἐξατμιζόμενον εἰς ἀέρα, ὁ δ´ ἀὴρ λεπτυνόμενος εἰς πῦρ· ἡ δὲ κατάντης ἀπὸ κεφαλῆς, συνίζοντος μὲν πυρὸς κατὰ τὴν σβέσιν εἰς ἀέρα, συνίζοντος δ´ ὁπότε συνθλίβοιτο εἰς ὕδωρ ἀέρος, ὕδατος δὲ [τὴν πολλὴν | ἀνάχυσιν] κατὰ τὴν εἰς γῆν πυκνουμένου μεταβολήν. εὖ καὶ ὁ Ἡράκλειτος ἐν οἷς φησι· „ψυχῇσι θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι θάνατος γῆν γενέσθαι“· ψυχὴν γὰρ οἰόμενος εἶναι τὸ πνεῦμα τὴν μὲν ἀέρος τελευτὴν γένεσιν ὕδατος, τὴν δὲ ὕδατος γῆς πάλιν γένεσιν αἰνίττεται, θάνατον οὐ τὴν εἰς ἅπαν ἀναίρεσιν ὀνομάζων, ἀλλὰ τὴν
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La citazione filoniana: ψυχῇσι θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι θάνατος γῆν γενέσθαι («per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua è morte diventare terra») corrisponde alla prima parte del frammento 36 DK di Eraclito, che Clemente Alessandrino citerà per intero negli Stromati (VI 2, 17, 1-2): ψυχῇσιν θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ ψυχή («per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua è morte diventare terra, ma dalla terra nasce l’acqua e dall’acqua, l’anima»), assieme a versi orfici (17, 1-4)34. L’Alessandrino giudaico anticipa dunque quello cristiano nella restituzione testuale, sebbene incompleta, del frammento di Eraclito, che utilizza per spiegare il significato della «via» – anch’essa eraclitea – «verso l’alto e verso il basso»: il trasformarsi di ciascun elemento nell’altro, dal più denso e pesante al più rarefatto e leggero, e viceversa, dal più sottile al più spesso. Filone afferma, infatti, che la «fine» (τελευτή) di un elemento in quanto tale è la «nascita» (γένεσις) dell’altro: non uno qualsiasi degli altri, bensì quello che lo segue nel cammino reversibile35 della via ascendente e discendente. Va subito osservato che, di fatto, con la sua citazione parziale, Filone illustra solo il cammino verso il basso. Nel ciclo di trasformazioni cosmiche, l’Alessandrino inserisce il concetto di «anima» (ψυχή) che collega al termine «morte» (θάνατος), utilizzato a proposito degli elementi materiali. Nei frammenti conservati, Eraclito menziona esplicitamente tre masse elementari: fuoco, mare (cioè acqua) e terra (31 DK), mentre il termine «aria» (ἀήρ) occorre solo nelle diverse versioni del frammento 76 DK, considerato da alcuni specialisti – non da tutti gli editori36 – una rielaborazione stoicizzante di 36 DK 37. Come è stato giustamente rilevato38, tuttavia, l’aria non può essere estromessa dal sistema di Eraclito, in cui è concepita come lo spazio e la sostanza che copre lo spettro dei fenomeni di esalazione39. Ora, l’«anima» (ψυχή) che Filone attribuisce a Eraclito è «soffio» (πνεῦμα). Per gli Stoici, che riprendono le concezioni di Omero e dei fisici pre-
εἰς ἕτερον στοιχεῖον μεταβολήν. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 66 (b), pp. 625-626; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 331, pp. 239-240. 34 Il passo sarà ripreso da Eusebio di Cesarea, Praep. Ev. X 2, 6; XI 11, 7. 35 Cf. Aet. 58. 36 Si vedano i frammenti F 76a, F 76 b e F 76c in Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), pp. 182-187. 37 Cf. G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield (edd.), Les philosophes présocratiques [1983], Fribourg 1995, p. 217, n. 23; Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., p. 630. 38 Cf. C.H. Kahn (1979), op. cit., p. 140. 39 Cf. G. Betegh, On the Physical Aspect of Heraclitus’ Psychology, «Phronesis» 52 (2007), pp. 13 ss.
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socratici come Eraclito40, il «soffio» è ciò che assicura e mantiene l’organizzazione corporale di ogni essere vivente41; gli Scettici, dal canto loro, attribuiscono a Eraclito la concezione dell’anima “pneumatica” diffusa nel corpo42 . Senza utilizzare il termine pneuma, Eraclito sembra in effetti aver concepito una massa materiale e una regione cosmica compresa tra la parte più umida dell’aria atmosferica e il fuoco dei corpi celesti43, e che partecipa agli scambi reciproci e simultanei dell’unica sostanza universale44. Nonostante l’ambiguità filoniana tra un modello di anima semplice e composta45, poi l’identificazione e distinzione dell’anima (ψυχή) e dell’intelletto (νοῦς)46, generalmente per Filone l’anima è composta di aria, di cui si ali-
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Cf. A.A. Long and D.N. Sedley (edd.) (2001), op. cit., pp. 281 ss. Cf. SVF II 716, 879, 885. Rispetto ad Aristotele, che assegnava un’anima (nutritiva) anche alle piante, gli Stoici ammettono tre forme di pneuma: dispositivo (proprio di pietre e ossa), che mantiene la sussistenza e la coerenza del corpo; fisico o naturale (proprio di piante e animali), che assicura la crescita; psichico (proprio degli animali), che procura rappresentazioni e impulsioni (SVF II 716) (cf. J.-B. Gourinat, Les Stoïciens et l’âme, Paris 1996, p. 20). Sulla concezione di Dio come πνεῦμα νοερὸν καὶ πυρῶδες («pneuma intelligente e ardente»), e l’anima come πνεῦμα ἔνθερμον («pneuma caldo»), cf. Posidonius, II. The Commentary, by I.G. Kidd (ed.), Cambridge 1988, pp. 118-121 (sul fr. 13), 408-9 (sul fr. 100), 409-412 (sul fr. 101), 525-7 (sul fr. 139). 42 A proposito della discussione sull’autenticità del frammento 22 B 67a DK di Eraclito (= Hisdosus Scholasticus, ad Chalcid. Plat. Tim (nota al commento di Timeo 34 b ss. di Calcidio, De anima mundi) [Cod. Paris. lat. 8624, sec. XII f. 2], M. Marcovich (ora in Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 115, p. 773) ipotizza che il frammento sia giunto a Hisdosus Scholasticus (1100 c.ca) attraverso gli Scettici come Enesidemo (I sec. a. C.). Questi attribuivano a Eraclito la concezione della diffusione pneumatica dell’anima individuale nel corpo, in modo che le fosse possibile comunicare con l’Anima cosmica attraverso i sensi ed entrare in contatto con la ragione divina universale, diventando omogenea ad essa e dunque intelligente. Sesto Empirico (Adv. Math. X 233) riferisce infatti: τό τε ὂν κατὰ τὸν Ἡράκλειτον ἀήρ ἐστιν, ὡς φησὶν ὁ Αἰνησίδημος («l’essere secondo Eraclito è l’aria, come dice Enesidemo»). 43 Cf. G. Betegh (2007), art. cit., pp. 13 ss. 44 Cf. 22 B 31a DK: «mutazioni del fuoco: dapprima mare, quindi dal mare una metà terra, l’altra metà temporale (πρηστήρ)», sul quale cf. A. Finkelberg (1998), art. cit., pp. 208-209, nn. 30-31 e G. Betegh (2007), art. cit., p. 20. 45 Sulla tripartizione filoniana dell’anima, cf. Leg. 1.70 ss. e 3.114 ss.; Conf. 21; Migr. 66 s.; Spec. 1.146, 1.148 e 4.92 ss.; Virt. 13; QG 2.59 e 4.216; QE 1.12 e 2.100; sulla concezione dell’anima divisa in due (razionale e irrazionale) o in otto parti (la metà irrazionale divisa in sette parti e quella razionale rimanendo indivisa), cf. Opif. 117; Leg. 1.11; Det. 168; Agr. 130; Her. 230; Mut. 110 (= SVF II 833); QG 1.75 (= SVF II 832); QE 2.33. 46 Per l’impiego filoniano di ψυχή nel senso di intelletto, V. Nikiprowetzky (in PAPM, op. cit., vol. 23 (1965), p. 108, n. 3) segnala Opif. 82; Leg. 1.88-90; Deus 46; Her. 88; Somn. 1.30, 33, 35; Plant. 18; QG 2.18 e 4.74. A. Méasson (Du char ailé de Zeus à l’Arche d’Alliance. Images et mythes platoniciens chez Philon d’Alexandrie, Paris 1986, p. 319) ravvisa l’origine delle varie descrizioni dell’anima date da Filone in altrettante immagini tratte dai differenti dialoghi platonici. Cf. anche G. Reydams-Schils, Philo of Alexan41
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menta e in cui vive, laddove l’intelletto, la parte divina ed egemonica dell’anima (Opif. 69), vale a dire l’anima «intellettiva e ragionevole» (Spec. 4.123), di etere purissimo47. Secondo Filone48, infatti, ogni massa cosmica caratterizza una sfera dell’universo e i viventi che essa contiene49 – come già per Empedocle e Platone50 –, ma l’aria, che pure occupa il suo luogo naturale51 e comprende i suoi esseri particolari52 , nutre tutti i viventi, perché anche quelli che si trovano nelle sfere degli altri elementi sono animati dalla respirazione e dalla percezione sensibile53. In questo senso, per l’Alessandrino, l’anima è il «soffio» vitale del corpo vivente, e l’anima razionale o intelletto, proprio del genere umano, la sostanza divina e immortale che lo governa e lo dirige: se l’anima è dunque aria, l’intelletto sarà propriamente etere54, la sostanza più pura e migliore, quella di cui sono fatte le «nature divine» (Deus 46)55. Nel passaggio di Aet. 111, tuttavia, Filone è interessato all’anima nel suo aspetto materiale, e precisamente alla sua natura di «soffio» (πνεῦμα), in virtù della quale essa “muore” trasformandosi in qual-
dria on Stoic and Platonist Psycho-Physiology: The Socratic Higher Ground, «AncPhil» 22 (2002), pp. 125-147, sulle diverse concezioni (platonica, stoica o mista) dell’anima e le rispettive metafore filoniane. 47 L’ambiguità è dunque esemplificata da passaggi come Fug. 134, in cui l’intelletto è definito πνεῦμα («soffio»), o Leg. 3.61, in cui l’anima è αἰθέρος («eterea»). 48 Cf. Aet. 115 e Her. 134. 49 Sull’oscillazione di Filone tra un modello cosmico a quattro e uno a cinque elementi, cf. J. Dillon (19962), op. cit., p. 170. 50 Cf. Empedocle 31 B 115 DK, in cui le quattro masse della cosmografia generale (aria, mare, terra e sole) corrispondono alle quattro radici divine (aria, acqua, terra ed etere). Sul legame tra i generi di esseri viventi, gli elementi materiali e le regioni cosmiche, che ha la sua origine nel Timeo (31 b 5 ss.) platonico e più varianti in epoca medioplatonica, cf. A. Méasson (1986), op. cit., pp. 279-280 e passim; e D.T. Runia, Philo of Alexandria and the Timaeus of Plato, Leiden 1986, p. 497. 51 Cf. Aet. 33; Spec. 1.85; Mos. 2.118; QE 2.117. 52 Cf. Aet. 45; Plant. 12; Gig. 8; Spec. 2.45 et 4.118; Prov. 2.97. 53 Cf. Somn.1.136; Virt. 6; Mos. 2.148; Prov. 2.67 e 73. 54 Per Filone, d’altronde, l’aria si trasforma naturalmente in fuoco (Mos. 2.154). 55 Tuttavia, se in un caso Filone afferma che, alla scomposizione del corpo nei suoi quattro elementi, l’anima intelligente e celeste farà ritorno all’etere più puro come al padre (Her. 283), altrove assegna all’anima uno pneuma immateriale, come rileva J. Dillon (19962), op. cit., p. 175. In Plant. 18, Filone afferma che, contrariamente a tutti i filosofi che hanno cercato di assimilare l’intelletto o l’anima razionale dell’uomo a un elemento (etere), Mosé non l’ha identificato con nulla di creato, in virtù della sua natura divina. L’Alessandrino, infatti, interpreta lo pneuma di Gen. 1:2 come l’aria che sale dalla terra o la scienza riservata al sapiente (Gig. 22), e quello di Gen. 2:7, come il soffio vitale o lo spirito divino che “anima” l’uomo (Opif. 135; Leg. 1.33 ss.; Det. 80 ss.; Spec. 4.123; QG 2.59).
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cos’altro56, come gli altri elementi. Citando la prima parte del frammento 36 DK, Filone spiega dunque che per Eraclito l’anima è una sostanza pneumatica, cioè aerea, che “muore” e “rinasce” nell’elemento seguente, secondo la fase ascendente o discendente del ciclo cosmico. Dopo l’esegesi di Eraclito, Filone concluderà l’argomento dei contrari dicendo che è impossibile che il mondo si corrompa, anzi è necessario, e non solo verisimile, che l’isonomia regni sovrana nell’universo e ne garantisca la preservazione: «il mondo è cosa divina in virtù della sua grandezza e casa degli dei sensibili, dunque, affermare che si corrompe è proprio di coloro che non vedono la concatenazione della natura e la stretta successione delle realtà» (θεῖον δέ τι μέγεθος ὁ κόσμος καὶ οἶκος θεῶν αἰσθητῶν ἀποδέδεικται, τὸ δὴ φάσκειν ὅτι φθείρεται μὴ συνορώντων ἐστὶ φύσεως εἱρμὸν καὶ πραγμάτων συνηρτημένην ἀκολουθίαν) (Aet. 112). Così termina la critica filoniana alla teoria stoica dell’incendio universale, che pure aveva incorporato la cosmologia di Eraclito. Secondo Filone, invece, la dottrina eraclitea dei contrari implica la loro uguaglianza, espressione della giustizia cosmica secondo cui tutto è diviso in parti uguali e contrarie e tutto procede per trasformazioni regolari ed equilibrate. E ciò esclude la prevalenza del fuoco sugli altri elementi, dunque le conflagrazioni e palingenesi del mondo. Nella prospettiva di un’eternità relativa o post creationem del mondo57, Filone rifiuta la dottrina della conflagrazione e difende l’incorruttibilità del cosmo – l’immortalità se lo si considera un vivente58 –, secondo l’analogia tra la vita del mondo e quella dell’anima umana: come sosteneva già Platone (Phaedr. 245 c-246a), infatti, l’anima è incorruttibile. L’Alessandrino ricorre non solo all’autorità di Eraclito – che pure è il più antico rappresentante della teoria del fuoco cosmico –, ma ironizza anche sulla dottrina stoica della catena di cause che costituisce il destino59: affermare la corruzione del mondo, significa non
56 Contro l’immortalità dell’anima platonica, per gli Stoici le anime degli animali periscono con i corpi una volta che si separano da essi, mentre quelle razionali sopravvivono per un certo tempo sotto in forma “ridotta” (SVF II 809), sferica secondo Crisippo (SVF II 815), errando tra gli astri (SVF II 817) o attorno alla luna (SVF II 814) secondo altri Stoici; solo l’anima del saggio sopravvive più a lungo, fino alla conflagrazione universale (SVF II 809, 810, 811) (cf. J.-B. Gourinat (1996), op. cit., p. 35). Per gli Stoici (cf. Diogene Laerzio VII 156), infatti, solo l’Anima dell’universo è ἄφθαρτον («incorruttibile»). 57 Su questo tema, cf. G.E. Sterling, Creatio Temporalis, Aeterna, vel Continua? An Analysis of the Thought of Philo of Alexandria, «SPhA» 4 (1992), pp. 15-41. 58 Cf. Aet. 95 e 144. 59 Cf. SVF I 8; II 336, 340, 341, 349, 356, 351, 913, 917, 921, 939, 944, 945, 997, 1000.
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vedere «la concatenazione della natura e la stretta successione delle realtà» (φύσεως εἱρμὸν καὶ πραγμάτων συνηρτημένην ἀκολουθίαν) (Aet. 112). Tramite l’argomento dei contrari, Filone ritorce quindi la dottrina stoica contro se stessa60, e proprio attraverso Eraclito, che gli Stoici consideravano un loro antico e autorevole precursore. Questa interpretazione di un detto di Eraclito (36 DK) attraverso termini e immagini eraclitee – non senza reminiscenze di altri poeti e sapienti presocratici –, all’interno di uno degli argomenti filoniani contro la dottrina della periodica fine del mondo (Aet. 104-112), rif lette l’interesse dell’Alessandrino per la speculazione cosmologica e psicologica dell’Efesio. La testimonianza del trattato filosofico sull’incorruttibilità del mondo conferma che, secondo Filone, la dottrina eraclitea differisce dalla sua appropriazione stoica, come dimostrano i resoconti platonico-aristotelici e il parallelo con altri sapienti presocratici, di nuovo in auge in epoca medioplatonica. 2. Diverse versioni Il frammento 36 DK di Eraclito non appare in altri passi del corpus philonicum; la testimonianza di Filone, Aet. 111 deve allora essere paragonata con quelle pre- e post-filoniane. Se si eccettuano i passaggi platonici sull’anima immortale, cioè incorruttibile, sempre mobile e simile ai corpi celesti61, Aristotele è la più antica e preziosa fonte della psicologia di Eraclito. Lo Stagirita afferma nel De anima 405 a 25 (= A 15 DK): «Anche Eraclito [scil. come Diogene di Apollonia] dice che l’anima è il principio, se davvero è l’esalazione di cui le altre cose si costituiscono; ed è sia qualcosa di assolutamente incorporeo sia in flusso perpetuo» (καὶ Ἡράκλειτος δὲ τὴν ἀρχὴν εἶναί φησι ψυχήν, εἴπερ τὴν ἀναθυμίασιν, ἐξ ἧς τἆλλα συνίστησιν· καὶ ἀσωματώτατόν τε καὶ ῥέον ἀεί)62 . Secondo il resoconto aristotelico, per Eraclito l’anima è «esalazione» (ἀναθυμίασις), termine che indica il processo fisico in cui una sostanza solida o liquida, sotto l’effetto del fuoco o del calore, si assottiglia e si alleggerisce, salendo verso l’alto come
60 La stessa tecnica retorica di confutare gli Stoici attraverso i loro stessi argomenti, rivolti contro i loro propugnatori, è utilizzata da Plutarco – medioplatonico pitagorico e appena posteriore a Filone – nel trattato intitolato Le contraddizioni degli Stoici. Cf. Plutarque, Les Stoïciens, textes traduits par É. Bréhier, édités sous la direction de P.M. Schuhl, Paris 1962, pp. 87 ss.; 126 ss. 61 Cf. Platone, Phaedr. 245 c-246 a, Phil. 29a-30a, Tim. 34a-39e. 62 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 66 (f1), p. 629; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), p. 141.
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fumo o vapore63. Aristotele aggiunge anche che l’anima, secondo Eraclito, è la cosa più incorporea – ma non immateriale –, e una natura in continuo mutamento e movimento. In epoca ellenistica, gli Stoici hanno poi ripreso la dottrina eraclitea dell’anima, come dimostra la testimonianza con citazione del vetero-stoico Cleante ap. Ario Didimo (fr. 39, Dox. 470 s. Diels) ap. Eusebio di Cesarea, Praep. Ev. XV 20, 2 (= SVF I 141; 519): «A proposito dell’anima, Cleante, dunque, giustapponendo le opinioni di Zenone [di Cizio], per confrontarle, a quelle di altri filosofi della natura, dice che Zenone definisce l’anima un’esalazione percettiva, come Eraclito. In effetti, volendo mostrare che le anime, esalando, diventano continuamente intelligenti, questo [scil. Eraclito] le paragona ai fiumi, esprimendosi in questi termini: “su coloro che entrano negli stessi fiumi affluiscono altre e sempre altre acque”; e “le anime, d’altra parte, esalano dalle sostanze umide” (22 B 12 DK)» (περὶ δὲ ψυχῆς Κλεάνθης μέν, τὰ Ζήνωνος δόγματα παρατιθέμενος πρὸς σύγκρισιν τὴν πρὸς τοὺς ἄλλους φυσικούς, φησὶν ὅτι Ζήνων τὴν ψυχὴν λέγει αἰσθητικὴν ἀναθυμίασιν, καθάπερ Ἡράκλειτος. Βουλόμενος γὰρ ἐμφανίσαι ὅτι αἱ ψυχαὶ ἀναθυμιώμεναι νοεραὶ ἀεὶ γίνονται, εἴκασεν αὐτὰς τοῖς ποταμοῖς λέγων οὕτως· «ποταμοῖσι τοῖσιν αὐτοῖσιν ἐμβαίνουσιν ἕτερα καὶ ἕτερα ὕδατα ἐπιρρεῖ. καὶ ψυχαὶ δὲ ἀπὸ τῶν ὑγρῶν ἀναθυμιῶνται»)64. In questo passo, lo stoico Cleante collega la dottrina del maestro Zenone a quella di Eraclito, secondo cui le anime esalano dall’umido, nell’intento di dimostrare la duplice natura dell’anima: percepibile e percettiva, materiale e intelligente. Citando letteralmente il testo eracliteo “dei fiumi”65, Cleante conferma dunque Aristotele attribuendo a Eraclito una concezione dell’anima come esalazione, e precisa che si tratta di un’evaporazione dall’umido. Nella dossografia dell’inizio della nostra era, ricostruita attraverso gli estratti conservati dallo pseudo-Plutarco, da Teodoreto o Stobeo, e attribuita
63 I commentatori del trattato aristotelico Sull’anima: Temistio (In De an., p. 13, 27-28), Giovanni Filopono (In De an., p. 87, 12) e Simplicio-Prisciano (In De an. 31, 27-28) sono in disaccordo, parlando di «fuoco» (πῦρ) o «esalazione asciutta» (ἀναθυμίασιν ξηρὰν) a proposito dell’anima. 64 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 40 (a), p. 515; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 261, pp. 189-190, e relativo apparato critico del passo. Cf. anche Eusèbe de Césarée, La préparation évangélique, Livres XIV-XV, intr., texte grec, trad. et ann. par É. des Places, SC 338, Paris 1987, pp. 324-327. Un’altra edizione e la relativa traduzione sono proposte da S.N. Mouraviev, Doctrinalia Heraclitea III : Âmes, fleuves et exhalaisons (Notes de lecture), «RPhA» 26/2 (2008), pp. 40-77, pp. 70-71. 65 Cf. L. Tarán (1999), art. cit., pp. 9-52.
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ad Aezio66, Eraclito è il rappresentante della dottrina dell’anima che esala dall’umido, nei corpi degli esseri viventi e nell’universo (pseudo-Plutarco, Plac. phil. IV 3 = 22 A 15 DK): «Eraclito riteneva che l’anima del mondo fosse un’esalazione proveniente dalle sostanze umide che sono in esso [scil. il mondo], e d’altra parte, che quella [scil. l’anima] che si trova negli esseri viventi avesse la stessa origine, e provenisse dell’esalazione esterna che è in essi» (Ἡράκλειτος τὴν μὲν τοῦ κόσμου ψυχὴν ἀναθυμίασιν ἐκ τῶν ἐν αὐτῶι ὑγρῶν, τὴν δ’ ἐν τοῖς ζώιοις ἀπὸ τῆς ἐκτὸς καὶ τῆς ἐν αὐτοῖς ἀναθυμιάσεως ὁμογηνῆ)67. E ancora (Teodoreto, Graec. affect. cur. V 23): «Eraclito, dal canto suo, ha detto che quelle [scil. le anime individuali], sbarazzandosi del corpo ritornano all’anima dell’universo, che è loro omogenea e consustanziale» (ὁ δὲ Ἡράκλειτος τὰς ἀπαλλαττομένας τοῦ σώματος εἰς τὴν τοῦ παντὸς ἀναχωρεῖν ψυχὴν ἔφησεν, οἷα δὴ ὁμογενῆ τε οὖσαν καὶ ὁμοούσιον)68. A queste testimonianze si possono aggiungere quelle post-filoniane, ovvero le tre versioni del frammento 76 DK di Eraclito, date rispettivamente da Plutarco (De E 392 E): «morte dell’aria nascita dell’acqua» (ἀέρος θάνατος ὕδατι γένεσις); Massimo di Tiro (XLI 4): «l’acqua vive la morte dell’aria» (ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον); e Marco Aurelio (IV 46): «morte dell’acqua diventare aria» (ὕδατος θάνατος ἀέρα γενέσθαι)69. In tutte le fonti menzionate, tuttavia, è questione dell’anima che esala dall’umidità, oppure dell’aria che vive quando l’acqua (o il fuoco) muore: nessuna di esse attribuisce esplicitamente a Eraclito la dottrina della morte delle anime nell’acqua, come Filone (Aet. 111) che cita, prima di Clemente e della Refutatio, il frammento 36 DK.
66 La ricostituzione di questa dossografia si basa sul testo conservato e in parte abbreviato dallo pseudo-Plutarco nei Placita philosophorum (I-II sec. d. C.) – utilizzati, tra gli altri, da Eusebio di Cesarea nella Praeparatio evangelica (III-IV sec.) e dallo pseudo-Galeno nell’Historia philosopha (V sec.) –, trasmesso più fedelmente dall’erudito Stobeo nelle Eclogae physicae (V sec.) e usato in polemica anti-ellenica dal vescovo Teodoreto di Antiochia nella Graecorum affectionum curatio (V sec.). Dopo i Doxographi Graeci di H. Diels (1879), la questione degli Aetiana è stata riaperta e studiata da J. Mansfeld and D.T. Runia (1997), op. cit., pp. XVii ss. e passim, il cui contributo scientifico fondamentale è stato negare il ruolo di Teofrasto come fonte primaria di Aezio. 67 Cf. Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 462, pp. 355-356. 68 Cf. Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 464, p. 356. Per la dossografia sull’anima, lo studio di riferimento è J. Mansfeld, Doxography and Dialectic: the Sitz im Leben of the ‘Placita’, «ANRW» II 36/4 (1990), pp. 3056-3229, spec. pp. 3065-3098. 69 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 66 (e1-4), p. 628; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), pp. 272; 386-387; 455-456.
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Il detto eracliteo concerne la liquefazione delle anime, e va dunque messo in relazione non solo con le testimonianze sulle trasformazioni materiali e sull’esalazione, ma anche con i detti in cui Eraclito afferma la superiorità dell’anima asciutta su quella bagnata, come il 118 DK che Filone cita in Prov. 2.109110, di cui ci occuperemo. Come suggerisce l’argomento di Filone, infatti, il frammento 36 DK esprime la dottrina eraclitea del ciclo di “morte” e “rinascita” continua degli elementi e degli esseri del cosmo, in cui si iscrive anche l’anima, intesa come massa aerea, e le anime, intese come parti di essa dalle proprietà cognitive e dalle qualità etiche. 2.1. Numenio, Porfirio e i Neoplatonici: il piacere e l’umido Nella seconda metà del II secolo della nostra era, una testimonianza prossima a quella di Filone sul frammento 36 DK di Eraclito appare nell’estratto (fr. 30 des Places) di un’opera incerta70 del filosofo neopitagorico Numenio di Apamea (Siria)71. Porfirio, che ne è la fonte (De antro nymph. 10), ripropone l’esegesi numeniana di Omero, e precisamente della descrizione omerica dell’antro delle Ninfe nel luogo in cui approda Ulisse a Itaca (Odissea XIII 109-112): «due sono le entrate [scil. della grotta]: l’una, a nord, attraverso cui discendono gli uomini, l’altra, invece, a sud, è più divina; mai alcun uomo accede per essa, che è la via degli immortali» (δύω δέ τέ οἱ θύραι εἰσίν, αἱ μὲν πρὸς βορέαο καταιβαταὶ ἀνθρώποισιν, αἱ δ᾽ αὖ πρὸς νότου εἰσὶ θεώτεραι· οὐδέ τι κείνῃ ἄνδρες ἐσέρχονται, ἀλλ᾽ ἀθανάτων ὁδός ἐστιν). Seguendo l’esegesi pitagorico-platonica del testo omerico, Numenio interpreta la caverna delle ninfe come l’immagine del mondo72 , una raffigurazione simbolica della vita e della morte: i due accessi all’antro rappresentano a suo avviso i segni dei Tropici (Cancro e Capricorno),
70 Secondo J. Dillon (19962), op. cit., pp. 364 e 375, l’esegesi numeniana dell’antro delle ninfe di Omero, preservata da Porfirio, potrebbe derivare dal commentario di Numenio al mito di Er della Repubblica di Platone, come testimonierebbe Proclo, In Remp. II 96, 11 ss. Kroll. 71 Cf. Numénius, Fragments, texte établi et traduit par É. des Places, Paris 1973, p. 116, n. 3. 72 Cf. R.M. van den Berg, God the Creator, God the Creation: Numenius’ Interpretation of Genesis 1:2 (Frg. 30), in G.H. van Kooten (ed.), The Creation of Heaven and Earth: Re-interpretations of Genesis I in the Context of Judaism, Ancient Philosophy, Christianity and Modern Physics, Themes in Biblical Narrative VIII, Leiden 2005, pp. 109-123, spec. pp. 109 e 111.
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le porte cosmiche attraverso le quali l’anima umana scende dal cielo sulla terra e risale dalla terra al cielo73. Porfirio riporta dunque la dottrina pitagorica di Numenio sulla discesa delle anime nella genesi, cioè nel mondo della materia e del divenire, in un passaggio che contiene la citazione del noto incipit della Genesi biblica, il riferimento alle credenze egiziane, l’allusione alla parola omerica e a due frammenti eraclitei (De antro nymph. 10, 8-11, 1, pp. 80-81 des Places): Chiamiamo propriamente ninfe Naiadi le potenze che presiedono alle acque, mentre [i Pitagorici] chiamavano così tutte le anime che, in generale, discendono nella generazione. Ritenevano, infatti, che le anime si posassero sull’acqua, che è ispirata dal divino, come afferma Numenio, aggiungendo che proprio per questo anche il profeta ha detto “il soffio di Dio planava sulle acque” (Gen. 1:2); per questo [dice che] gli Egiziani collocano tutte quante le divinità, non sulla terraferma, ma tutte su una barca, anche il Sole e assolutamente tutte; bisogna sapere che queste sono le anime che, volteggiando sull’acqua, discendono nella generazione. Ne deriva che anche Eraclito dice “per le anime è piacere non morte diventare umide” (22 B 77a DK), cioè è un piacere per loro la caduta nella generazione, e altrove dice “noi viviamo la morte di quelle e quelle vivono la nostra morte” (22 B 77b DK). Perciò [secondo Numenio] anche il poeta [scil. Omero] chiama “bagnati” quelli che sono nella generazione, poiché hanno le anime umide. Le anime umane, infatti, amano il sangue e il seme umido, come quelle delle piante si alimentano di acqua74.
La prima citazione di Eraclito corrisponde al frammento 77a DK dato da Numenio e così edito da des Places: ψυχῇσι ... τέρψιν ἢ θάνατον ὑγρῇσι γενέσθαι («per le anime è piacere o morte diventare umide»). ῍Η θάνατον, tuttavia, è una
73 Cf. R. Lamberton, Homer the Theologian: Neoplatonist Allegorical Reading and the Growth of the Epic Tradition, The Tranformation of the Classical Heritage 9, Berkeley-Los Angeles-London 1986, spec. pp. 54-77 e 318-324 (The History of the Allegory of the Cave of the Nymphs); M.J. Edwards, Numenius, Pherecydes and the Cave of the Nymphs, «CQ» 40 (1990), pp. 258-262. 74 Νύμφας δὲ ναΐδας λέγομεν καὶ τὰς τῶν ὑδάτων προεστώσας δυνάμεις ἰδίως, ἔλεγον δὲ καὶ τὰς εἰς γένεσιν κατιούσας ψυχὰς κοινῶς ἁπάσας. ἡγοῦντο γὰρ προσιζάνειν τῷ ὕδατι τὰς ψυχὰς θεοπνόῳ ὄντι, ὡς φησὶν ὁ Νουμήνιος, διὰ τοῦτο λέγων καὶ τὸν προφήτην εἰρηκέναι ἐμφέρεσθαι ἐπάνω τοῦ ὕδατος θεοῦ πνεῦμα· τούς τε Αἰγυπτίους διὰ τοῦτο τοὺς δαίμονας ἅπαντας οὐχ ἱστάναι ἐπὶ στερεοῦ, ἀλλὰ πάντας ἐπὶ πλοίου, καὶ τὸν ῞Ηλιον καὶ ἁπλῶς πάντας· οὕστινας εἰδέναι χρὴ τὰς ψυχὰς ἐπιποτωμένας τῷ ὑγρῷ τὰς εἰς γένεσιν κατιούσας. ὅθεν καὶ Ἡράκλειτον ψυχῇσι φάναι τέρψιν μὴ [ἢ Diels] θάνατον ὑγρῇσι γενέσθαι, τέρψιν δὲ εἶναι αὐταῖς τὴν εἰς τὴν γένεσιν πτῶσιν, καὶ ἀλλαχοῦ δὲ φάναι ζῆν ἡμᾶς τὸν ἐκείνων θάνατον καὶ ζῆν ἐκείνας τὸν ἡμέτερον θάνατον. παρὸ καὶ διεροὺς τοὺς ἐν γενέσει ὄντας καλεῖν τὸν ποιητὴν τοὺς διύγρους τὰς ψυχὰς ἔχοντας. αἷμά τε γὰρ ταύταις καὶ ὁ δίυγρος γόνος φίλος, ταῖς δὲ τῶν φυτῶν τροφὴ τὸ ὕδωρ. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47 (d4), p. 548; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 382, pp. 316-317.
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correzione di H. Diels (1903) per μὴ θάνατον dei manoscritti: sulla base di tale emendazione, il frammento eracliteo significherebbe che la discesa nella generazione è «piacere» dell’unione carnale «o morte» dell’anima pura, vale a dire ad un tempo l’uno e l’altra75. Mantenendo invece il «non morte» del testo tràdito, il frammento 77a DK di Eraclito dato da Numenio si distingue da tutti gli altri testi eraclitei che conosciamo: ψυχῇσι ... τέρψιν μὴ θάνατον ὑγρῇσι γενέσθαι («per le anime è piacere non morte diventare umide»). Il testo di Numenio si differenzia, infatti, sia dalle fonti aristoteliche e stoiche, che concernono l’esalazione dell’anima76 o la morte e rinascita dell’aria77, sia dal frammento 36 DK78 trasmesso da Filone (Aet. 111) e integralmente da Clemente di Alessandria (Strom. VI 2, 17, 1-4). Rispetto a Filone, Numenio abbrevia ulteriormente la parola di Eraclito, limitando la “via verso il basso” a quella percorsa dalle anime, non dagli altri elementi cosmici; inoltre, se Filone attribuisce a Eraclito la «morte» (θάνατος) delle anime nel «diventare acqua» (ὕδωρ γενέσθαι), cioè nella nascita dell’acqua, Numenio dice invece che per Eraclito il «piacere» (τέρψις) delle anime è «diventare umide» (ὑγρῇσι γενέσθαι)79. Secondo l’esegesi allegorica dell’antro delle ninfe proposta da Numenio, le anime divine discendono dal cielo sulla terra ed entrano nei corpi umani bagnandosi nelle acque della materia. Numenio sostiene, infatti, che la dottrina della discesa delle anime nei corpi, dell’immortale nel mortale, è molto antica80
75 Cf. Numénius (1973), op. cit., p. 118, n. 4. C. Diano (e G. Serra (19932), op. cit., p. 157), dal canto suo, segue P. Schuster (1873) e quanti hanno espunto μὴ θάνατον, considerandolo una glossa del testimone. Tali correzioni della lezione dei codici derivano dall’imbarazzo degli editori ad attribuire a Eraclito l’opinione secondo cui l’umidità non corrisponde alla morte delle anime, poiché nel frammento 36 DK è detto che le anime muoiono diventando acqua. Nella sua recente edizione, J.-F. Pradeau (Héraclite, Fragments [Citations et témoignages], Paris 2002, 2004 2 , p. 285), al contrario, conserva la lezione μὴ θάνατον dei manoscritti, comprendendo il testo di Eraclito come una critica degli uomini che cercano ciecamente il piacere, che corrisponde all’umidità psichica, senza rendersi conto che costa loro l’anima, cioè la vita, perché procura loro la morte. 76 Cf. 22 A 15 e B 12 DK. 77 Cf. 22 B 76 DK. 78 Allo stesso modo, la seconda citazione di Eraclito (77b DK) non corrisponde esattamente al frammento 62 DK, come sosteneva invece M. Marcovich, ora in Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., p. 630. 79 Cf. G. Betegh (2007), art. cit., p. 18. 80 Come formula a più riprese Platone (Tim. 20 d, 22 b; Phil. 16 c; Leg. 715 e), ciò che è più antico è più vero.
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ed è stata rivelata ai Greci dagli Ebrei81 e dagli Egiziani82 , come dimostra il passo in cui la parola di Eraclito e di Omero sulle «anime umide» (Od. VI 201) è associata allo pneuma aleggiante sulle acque di Mosé (Gen. 1:2)83, al Sole e ai demoni sulla barca degli Egizi84. Ciò che accomuna i giudei ellenizzati come Filone, i filosofi come Numenio e i cristiani (anche gnostici) di epoca medioplatonica è proprio l’armonizzazione dell’esegesi allegorica della Bibbia con quella dei “teologi” greci di epoca arcaica. Ma proprio perché l’interpretazione allegorica è pratica comune ad autori giudeo-cristiani e pagani, complessa è la questione della dipendenza diretta di Numenio da Filone: molto poco si sa, infatti, dello studio dell’Alessandrino al di fuori delle comunità ebraiche e cristiane85. Tuttavia, la citazione di Eraclito mostra che Numenio interpreta Gen.
81 La citazione numeniana di Gen. 1:2 è famosa per essere la prima attestazione dell’interpretazione allegorica della Bibbia al di fuori di circoli giudeo-cristiani. Secondo il celebre detto di Numenio (fr. 8, 13 des Places), infatti, Platone sarebbe «un Mosé che parla attico». Cf. R.M. van den Berg (2005), art. cit., pp. 112 ss. 82 Cf. Numénius, Fragments, texte établi et traduit par É. des Places, Paris 1973, fr. 1 a, p. 42; J. Dillon (19962), op. cit., p. 363. Sulla concezione egiziana della barca (o nave) del sole, cf. Plutarco, De Is. 364 C-D; Clemente Alessandrino, Strom. V 7, 41, 2-3; Giamblico, De myst. VII 2; Marziano Capella, De nupt. 2, 183. 83 Come il giudeo-alessandrino Filone (cf. Aet. 109 ss. e Gig. 22.), alcuni gruppi gnostici (cf. Parafrasi di Sem (NHC VII 1) 1, 25b-28, Ireneo, I 30, 1, la Refutatio omnium haeresium (V 19, 2) e gli Oracoli caldaici (cf. fr. 163 des Places), Numenio considera lo pneuma una sorta di principio mediano tra il divino luminoso e la materia acquosa. 84 All’inizio della nostra era, infatti, il redivivo pitagorismo sviluppa una dottrina psicologica che, per medioplatonici come Numenio, Plutarco o Celso (fonti dei frammenti eraclitei sull’anima: 76, 77, 85, 88, 96 (76 (c) M), 98, 118 DK) risale a Pitagora. Secondo questi filosofi, l’antica dottrina è stata insegnata dai pretesi “maestri” di Pitagora – non solo Omero, Orfeo e Ferecide, ma anche i Brahamani, gli Ebrei, i Magi e gli Egiziani –, ed è stata trasmessa ai suoi pretesi “discepoli” – Eraclito, Empedocle e Platone. Lo stesso motivo appare nel giudaismo e nel cristianesimo ellenistico, rappresentati rispettivamente da Filone, Clemente e Origene di Alessandria. Filone celebra la grandezza, l’antichità e la predisposizione alla filosofia della nazione egiziana (Spec. 1.2) che ha istruito lo stesso Mosé (Mos. 1.21), e paragona la filosofia dei Greci a quella più esotica dei Magi persiani, dei Gimnosofisti indiani (Prob. 74), degli Esseni del Mar Morto (Prob. 80) e dei Terapeuti egiziani (Cont. 90). Clemente afferma che la filosofia si è diffusa dapprima tra i barbari e solo più tardi tra i Greci (Strom. I 15, 71, 3), pensando soprattutto a Platone, che ha trovato la dottrina dell’immortalità dell’anima in Pitagora, e quest’ultimo presso gli Egiziani (Strom. VI 2, 27, 1-2), poiché la filosofia barbara e quella greca sono parti della Verità eterna, proveniente non dalla mitologia di Dioniso, ma dalla teologia del «Logos che è sempre» (Strom. I 13, 57, 6), espressione che allude al frammento 1 DK di Eraclito. Origene afferma che l’opinione secondo la quale la sapienza umana è follia davanti alla sapienza divina è molto antica, ma la sua antichità non risale, come crede il pagano Celso, a Eraclito o Platone, bensì ai profeti (Contra Cels. VI 13). 85 Cf. R.M. van den Berg (2005), art. cit., p. 115.
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1:2 in modo simile a Filone86, secondo cui lo pneuma è sia la massa cosmica aerea contigua a quella dell’acqua, sia l’ispirazione divina dell’uomo sapiente. Come testimonia Proclo (in Tim. I, 75, 30-77, 24)87, per Numenio (fr. 37 des Places), le anime nobili e migliori sono allieve di Atena, dea dell’intelligenza, mentre quelle legate alla generazione sono in rapporto con Poseidone, dio del mare, cioè dell’acqua, che nella tradizione platonica simboleggia la materia88. Nei frammenti conservati (frr. 30-35 des Places), Numenio descrive le anime che, radunatesi nella Via Lattea, passano nello Zodiaco e attraversano le sfere planetarie, perché attratte e guidate dalla brama dei piaceri corporei verso il mondo della generazione89. Secondo il Pitagorico (fr. 48 des Places), la discesa nel corpo è una grande sfortuna per l’anima divina e razionale, il cui obiettivo è liberarsi da esso e risalire al luogo ipercosmico di provenienza90. Citando Eraclito, Numenio spiega che «piacere è per loro [scil. le anime] la caduta nella generazione» (τέρψιν δὲ εἶναι αὐταῖς τὴν εἰς τὴν γένεσιν πτῶσιν), perché la discesa nelle acque è un’immersione nel flusso delle passioni dell’esistenza corporea. L’ingresso dell’anima nel corpo provoca dunque un «piacere» sensuale, ma comporta anche la sua degradazione materiale e psichica. Nel citare il detto eracliteo, Numenio sostiene che, scendendo nel corpo umano e terrestre, l’anima cambia di stato, perché si umidifica, si appesantisce e si oscura, e di statuto, perché dà vita a un essere umano91. Il piacere che accompagna questa generazione-degenerazione nel mondo fluido della genesi è l’umidificazione, una morte intellettuale ed etica provocata dalla vita sensuale che l’anima conduce con il corpo. Un’altra testimonianza sul detto eracliteo è data nel III secolo dallo stesso Porfirio, fonte di Numenio e allievo di Plotino, ma anche eminente esegeta filosofico, autore degli In Platonis Timaeum commentaria, di cui rimangono un’ottantina di frammenti. Tra questi, il fr. 13 Sodano di Porfirio, che contiene la citazione di Eraclito, è restituito da Proclo (In Platonis Timaeum commenta-
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Cf. Aet. 109 ss. e Gig. 22. Il frammento porfiriano (In Tim., fr. 10) si trova in Proclo, In Tim. I, 77, 6-24. 88 Cf. M. Zambon, Porphyre et le Moyen-platonisme, Paris 2002, pp. 191 e 203. 89 Cf. J. Dillon (19962), op. cit., pp. 375-376. 90 Cf. J. Dillon (19962), op. cit., pp. 366 e 377. 91 Porfirio, Ad Gaurum 2, 2, 34, 20-35, 2, testimonia l’esegesi allegorica di Pitagora, data da Numenio (fr. 36 des Places), dell’anima che entra nell’embrione, assimilando lo sperma, cioè l’elemento umido, al fiume Amelete di Platone (Resp. 621 a), allo Stige di Esiodo (Theog. 361) e degli Orfici (387 F Bernabé), e al «deflusso» di Ferecide (7 B 7 DK). 87
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ria), che commenta il discorso di Crizia il vecchio sulle catastrofi naturali inflitte al genere umano ad opera del fuoco e dell’acqua92 . All’inizio del Timeo (22 c-d), infatti, Crizia narra il significato del mito di Fetonte secondo la spiegazione data a Solone da un sacerdote egiziano93: la causa dell’eccessiva quantità di fuoco presente sulla superficie della terra sarebbe il fenomeno, ricorrente a lunghi intervalli di tempo, di variazione del percorso degli astri – gli “dei visibili” – nel cielo. L’Egiziano del Timeo (22 d 3-5) afferma: «In questi momenti dunque, muoiono prevalentemente quanti abitano in montagna e in luoghi elevati e asciutti, rispetto a quelli che abitano in prossimità dei fiumi o del mare» (τότε οὖν ὅσοι κατ᾽ ὄρη καὶ ἐν ὑψηλοῖς τόποις καὶ ξηροῖς οἰκοῦσι, μᾶλλον διόλλυνται τῶν ποταμοῖς καὶ θαλάττῃ προσοικούντων). Nel commentare il lemma platonico (Tim. 22 d 3-5), Proclo ricorre in primo luogo alla spiegazione “psicologica” di Porfirio (In Tim. I, p. 116, 25-117, 18 Diehl): Ciò si applica verosimilmente al caso delle corruzioni visibili ad opera del fuoco; coloro che abitano vicino alle acque, infatti, si difendono contro i danni causati dal fuoco. Il filosofo Porfirio, dal canto suo, traspone queste parole dai fenomeni visibili anche alle anime, e dice che senza dubbio anche in esse a volte ribolle l’irascibile, ed è questa conflagrazione la corruzione degli uomini in noi; “I suoi due occhi sembravano fuoco scintillante” disse il poeta Omero a proposito di Agamennone in collera (Il. I 104). A volte invece il concupiscibile si ammollisce bagnato dai flutti del mondo della generazione, e si immerge nelle correnti della materia, e questa è un’altra “morte delle anime intellettive: diventare umide”, dice Eraclito. Se questa interpretazione è corretta, rimangono imperturbati dalle passioni dell’ardore [i.e. dell’irascibile] coloro che hanno l’ardore rilassato e moderato rispetto alla cura delle cose inferiori: questo infatti è il significato dei luoghi concavi e vicini alle acque. Restano imperturbati dalle passioni del desiderio, invece, coloro che hanno il concupiscibile più teso e sveglio dal sonno della materia; questo, appunto, è il senso dei luoghi elevati. Per natura, infatti,
92 I cinque libri che rimangono dell’In Tim. di Proclo concernono solo l’introduzione e la prima parte del Timeo. Precisamente, il libro I costituisce l’introduzione, comprensiva di un prologo generale, una digressione sulla nozione di natura, il riassunto della Repubblica e il mito dell’Atlantide. 93 Secondo la versione greca più nota, Fetonte, figlio del Sole e dell’oceanina Climene, fu allevato dalla madre che non gli rivelò l’identità del padre se non quando fu adolescente. Appresa la sua divina origine, Fetonte si recò da lui e gli chiese di lasciargli condurre il suo carro. Non riuscendo, però, a tenere la rotta del corso del sole nel cielo, Fetonte scese troppo in basso e bruciò la superficie della terra. Zeus, allora, temendo per la sorte dell’universo, fulminò Fetonte e lo scagliò nel fiume Eridano. Cf. Platon, Timée, Critias, prés. et trad. par L. Brisson, Paris 20015, p. 225, n. 57.
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in qualche modo l’irascibile è scattante e attivo, mentre la facoltà del desiderio [i.e. il concupiscibile] è rilassata e rammollita; ed è proprio del buon musico distendere la tensione dell’ardore e tendere invece la corda lenta del desiderio94.
La variante di Porfirio ap. Proclo del frammento eracliteo è ψυχῶν τῶν νοερῶν θάνατος, ὑγρῇσι γενέσθαι («morte delle anime intellettive: diventare umide»). Proclo informa che Porfirio applica alle anime umane ciò che Platone (Tim. 22 d 3-5) dice della morte di coloro che abitano in luoghi asciutti. Secondo Porfirio, infatti, la conflagrazione rappresenta l’incendio della parte o facoltà irascibile che, divampando nelle anime, provoca la distruzione «degli uomini in noi» (φθορά ἐστι τῶν ἐν ἡμῖν ἀνθρώπων)95, perché l’eccesso di ardore consuma la parte più elevata delle anime. Quando invece il concupiscibile si lascia bagnare dai flutti del mondo della generazione – continua Porfirio – le anime sono inondate dalle sensazioni corporee e la loro morte consiste nel «“diventare umide”, dice Eraclito» (ὑγρῇσι γενέσθαι, φησὶν Ἡράκλειτος). Per Porfirio, dunque, la morte della parte divina e superiore dell’anima – in senso platonico –, vale a dire l’anima intellettiva, avviene in due modi, che corrispondono ai disastri naturali provocati dal fuoco e dall’acqua: l’incendio della facoltà irascibile dell’anima (τὸ θυμοειδές) e l’inondazione della sua parte
94 Ἐπὶ μὲν τῶν φαινομένων φθορῶν διὰ τοῦ πυρὸς συμβαίνειτο εἰκός· οἱ γὰρ τοῖς ὕδασι παροικοῦντες ἀμύνονται τὴν ἀπὸ τοῦ πυρὸς βλάβην. ὁ δέ γε φιλόσοφος Πορφύριος καὶ ἐπὶ τὰς ψυχὰς ἀπὸ τῶν φαινομένων μετάγει τοὺς λόγους καί φησιν, ὅτι ἄρα καὶ ἐν ταύταις ποτὲ μὲν ὑπερζεῖ τὸ θυμοειδές, καὶ ἡ ἐκπύρωσις αὕτη φθορά ἐστι τῶν ἐν ἡμῖν ἀνθρώπων· ὄσσε δέ οἱ πυρὶ λαμπετόωντι ἐίκτην ἐπὶ θυμουμένου τοῦ Ἀγαμέμνονος ἐποίησεν Ὅμηρος ὁτὲ δὲ τὸ ἐπιθυμητικὸν ὑπὸ τῆς γενεσιουργοῦ κατακλυζόμενον ὑγρότητος ἐκνευρίζεται καὶ βαπτίζεται τοῖς τῆς ὕλης ῥεύμασι, καὶ ἄλλος οὗτος ψυχῶν τῶν νοερῶν θάνατος, ὑγρῇσι γενέσθαι, φησὶν Ἡράκλειτος. εἰ δὲ ταῦτα ὀρθῶς διατέτακται, τῶν μὲν κατὰ θυμὸν παθῶν ἀπείρατοι μένουσιν ὅσοι ἂν κεχαλασμένον ἔχωσι τὸν θυμὸν καὶ σύμμετρον εἰς τὴν τῶν δευτέρων ἐπιμέλειαν· τοῦτο γὰρ οἱ κοῖλοι τόποι καὶ ὑδάτων γείτονες σημαίνουσι. τῶν δὲ κατ᾽ ἐπιθυμίαν, οἱ συντονώτερον ἔχοντες τὸ ἐπιθυμητικὸν καὶ ἐγηγερμένον ἀπὸ τῆς ὕλης· τοῦτο γὰρ οἱ ὑψηλοὶ τόποι δηλοῦσι. πέφυκε γάρ πως τὸ μὲν θυμικὸν ὀξυκίνητον εἶναι καὶ δραστήριον, τὸ δὲ τῆς ἐπιθυμίας ἔκλυτον καὶ ἀσθενές· μουσικοῦ δ᾽ ἀνδρὸς χαλάσαι μὲν τοῦ θυμοῦ τὸ εὔτονον, ἐπιτεῖναι δὲ τῆς ἐπιθυμίας τὸ ἐκμελές. ὅ γε μὴν φιλόσοφος. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 66 (d5), p. 627; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), T 738, p. 623. 95 L’espressione somiglia a quelle utilizzate da Plotino (cf. Enn. IV 7 [2], 1, 22 ss.: l’anima è «il vero uomo») per indicare l’“io” o l’intelletto dell’uomo, e corrisponde, mutatis mutandis, all’“uomo interiore” delle lettere apostoliche di Paolo (cf. 2Co 4:16; Ef. 3:16). H.Ch. Puech (ACF, 1962-1963, p. 200) afferma inoltre che, per gli gnostici, il nous è l’anima intellettiva o l’uomo intellettivo che partecipa della “conoscenza” (gnosi) vera e salvifica. Nell’antropogonia gnostica della Parafrasi di Sem (NHC VII 1) 27, 34b ss., ad esempio, tra gli uomini «psichici» (che hanno un corpo e un’anima materiale) e quelli «pneumatici» (che hanno un Pensiero tratto dallo Stupore dello Spirito ingenerato) vi sono i «noetici», i quali hanno una parcella d’Intelletto e partecipano della Fede (35, 3 ss.), cioè della luce della conversione.
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concupiscibile (τὸ ἐπιθυμητικὸν). Se infatti l’eccesso di ardore (θυμός) infiamma l’anima, l’eccesso di desiderio (ἐπιθυμία) la rammollisce, poiché al prevalere di una facoltà sulle altre corrisponde la trasformazione dell’essenza psichica. Porfirio interpreta quindi il detto di Eraclito alla luce del testo platonico e in senso “morale” 96, applicandolo alla dottrina neoplatonica della discesa delle anime dall’intelletto nelle acque del mondo materiale della generazione. D’obbligo è il confronto con il testo eracliteo e il contesto di Numenio, secondo cui l’anima prova piacere quando la sua sostanza si umidifica, vale a dire quando si appesantisce e si oscura godendo dei piaceri della vita corporea. La speculazione esegetico-filosofica di Porfirio, infatti, deve molto a Numenio, studiato sia nel periodo di formazione, sia nel soggiorno a Roma presso Plotino97. E che Porfirio conosca l’interpretazione allegorica della Bibbia e acquisisca elementi dell’esegesi di Filone attraverso la mediazione di Numenio98, è un’ipotesi plausibile, anche se non dimostrata99. L’aspetto peculiare dell’interpretazione di Porfirio, invece, è il riferimento alla «morte delle anime intellettive» (ψυχῶν τῶν νοερῶν θάνατος), vale a dire le anime umane che partecipano dell’intelletto. Analogamente a Plotino, ma diversamente dal neoplatonismo posteriore di Giamblico, Porfirio ritiene che l’anima non cessa mai di essere una realtà intelligibile100, e dunque possiede sempre la capacità di esplicare un’attività intellettiva101. Secondo Porfirio, quindi, la
96 E all’interpretazione del lemma platonico data da Porfirio, Proclo (In Tim. I 117, 18-28) farà seguire quella di Giamblico, che definisce “fisica” (φυσικῶς), e non etica. Il riferimento di Giamblico alle ἀπὸ τοῦ ὕδατος ἀναθυμιάσεων («esalazioni dell’acqua»), che non si elevano molto a causa della pesantezza dell’elemento umido, è un altro implicito riferimento alla dottrina della trasformazione ciclica degli elementi verso l’alto e verso il basso, e delle esalazioni, la cui origine è eraclitea. 97 Cf. M. Zambon (2002), op. cit., p. 172. 98 Ma Numenio rimane solo una delle fonti attraverso cui Porfirio conosce la tradizione biblica, con cui si confronta in modo più approfondito, anche e soprattutto in virtù della sua polemica personale Contra Christianos, che ha un antecedente nel Discorso vero del medioplatonico Celso. 99 Cf. J.H. Waszink, Porphyrios und Numenios, in H. Dörrie, Id., et Al., Entretiens sur l'Antiquité Classique (Fondation Hardt), vol. 12: Porphyre, Vandoeuvres-Genève 1966, pp. 53-54, 58-60; J. Dillon (19962), op. cit., pp. 414-415; M. Zambon (2002), op. cit., pp. 182-183 e note. Sulla possibile (ma non provata) influenza di Filone su Plotino via Numenio, cf. D.T. Runia, Witness or Participant? Philo and the Neoplatonist Tradition, in Philo and the Church Fathers. A Collection of Papers, Leiden-New York-Köln 1995, pp. 182-205. 100 Per Porfirio, infatti, «tutto si trova in tutto» (Sent. 10) e la sostanza intellettiva è «omeomera» (Sent. 22). 101 Cf. J. Opsomer, Proclus et le statut ontologique de l’âme plotinienne, in Études platoniciennes, III. L’âme amphibie (2006), op. cit., pp. 200-201.
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morte non è una caduta definitiva dell’anima nel mondo della generazione, bensì, come riprova la sua interpretazione di Eraclito, l’inondazione del desiderio, cioè il prevalere del concupiscibile o irrazionale sulla parte razionale dell’anima. E’ questa inclinazione passionale verso il sensibile, a suo avviso, la morte delle anime che si legano ai corpi, il rammollimento che le rende «umide». Sulla scia di Porfirio, i Neoplatonici Aristide Quintiliano, Giuliano, Proclo e Olimpiodoro (III-VI sec.) ricorrono al detto di Eraclito: «per le anime è morte diventare umide» (ψυχῇσι θάνατον ὑγρῇσι γενέσθαι), applicandolo alla discesa neoplatonica dell’anima dalla sfera dell’Intelletto al mondo della Natura. Aristide Quintiliano (De mus. II 17, 74-89)102 , nel suo trattato di musicologia, assimila la parola eraclitea a quella dell’Odissea, considerando che la vita sapiente e beata dell’anima è quella condotta nelle alte sfere dell’universo, luminose e pure, mentre la “morte” delle anime è la loro discesa nei bassifondi del cosmo, in cui si umidificano. L’imperatore Giuliano (Or. V, 165 c-d)103, interpretando in senso neoplatonico il mito frigio di Cibele e Attis nel suo inno Alla Madre degli Dei, sostiene che l’anima “muore”, cioè giunge al termine della sua esistenza intellettuale e incorporea, unendosi alla causa e al principio della materia, vale a dire l’umidità, come suggerisce il detto eracliteo. Proclo (In Remp. II, p. 270 Kroll)104, commentando il mito di Er della Repubblica platonica, afferma invece che l’anima “muore” nel passare dalla vita divina e intelligente alla vita umana, e precisa: secondo Eraclito, quando la sua sostanza si umidifica, e secondo Platone, quando la sua parte mortale e irrazionale prende il sopravvento. Olimpiodoro (In Gorg. 30, 2)105, commentando il Gorgia platonico, si rifà alla parola eraclitea per spiegare che l’acqua è la parte fluida e bagnata della natura, in cui “nascono” e “muoiono” le vite umane. Così, interpretando il detto eracliteo in relazione alla discesa delle anime nei corpi, i Neoplatonici attribuiscono implicitamente a Eraclito la concezione di una duplice morte dell’anima: da un lato l’umidificazione della sua sostanza, e dall’altro l’illanguidirsi della sua facoltà intellettiva. 102
Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 66 (d 3), p. 627; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 591,
p. 468. 103
Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 66 (d 3), p. 627; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), T 768,
p. 649. 104 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 66 (d4), p. 627; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), T 908, pp. 721-722. 105 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 66 (d6), pp. 627-628; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), T 1003, pp. 781-782.
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L’interpretazione “etica” della parola eraclitea data da Porfirio, tuttavia, non è una mera invenzione neoplatonica, poiché è supportata in certo senso dai frammenti in cui Eraclito ammonisce contro le passioni irrazionali dell’uomo che ne compromettono la vita. Basti pensare ai detti eraclitei sul pericolo degli eccessi di “animosità”, come il 43 DK: «bisogna spegnere la tracotanza più che un incendio» (ὕβριν χρὴ σβεννύναι μᾶλλον ἢ πυρκαιήν)106; o l’85 DK: «è difficile combattere contro il proprio animo [i.e. l’animosità, la passione animosa], quello che vuole, infatti, lo compra a prezzo dell’anima» (θυμῶι μάχεσθαι χαλεπόν· ὃ γὰρ ἂν θέληι, ψυχῆς ὠνεῖται). Secondo Porfirio, dunque, per Eraclito, l’illanguidire dell’anima, cioè l’indebolimento razionale che accompagna l’umidificazione sostanziale, rappresenta la morte intellettuale e morale dell’uomo. I Neoplatonici sembrano confondere, infatti, la morte delle anime che si trasformano in acqua – il testo eracliteo dato, tra gli altri, da Filone – con il piacere che provano le anime quando umide – secondo la testimonianza di Numenio. 2.2. Clemente di Alessandria: il plagio di Orfeo Il frammento 36 DK è citato nella sua forma più letterale e completa dal cristiano Clemente di Alessandria, la fonte principale di Eraclito. Il Libro VI degli Stromati – cioè “tappezzerie” – (di memorie gnostiche secondo la vera filosofia) è caratterizzato dal tema alessandrino, e già filoniano, del “furto” dei Greci a danno della tradizione biblica107. In Strom. VI 2, 15, 1 ss., al fine di denunciare «l’inclinazione dei Greci al plagio nei discorsi come nelle dottrine» (τὸ εὐεπίφορον εἰς κλοπὴν τῶν Ἑλλήνων κατὰ τοὺς λόγους τε καὶ τὰ δόγματα), Clemente cita il sofista Ippia, che confessa di comporre discorsi come centoni, assemblando parola poetica e prosaica, greca e barbara. La citazione di Ippia permette a Clemente di passare dagli esempi di plagio dei poeti a quelli dei prosatori, vale a dire di storici, retori e filosofi (Strom. VI 2, 16, 1 ss.). Dopo aver citato le espressioni e le idee plagiate dallo storico Senofonte e dal retore Trasimaco, Clemente passa dunque all’esempio dei filosofi come Eraclito, colpevole
106 Notizie dossografiche attribuiscono invece a Eraclito la concezione dei periodici incendi e diluvi cosmici (22 A 13 DK). 107 Su questo tema, uno studio importante è quello di D. Ridings, The Attic Moses. The Dependency Theme in Some Early Christian Writers, Göteborg 1995.
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anche lui di un plagio lampante (Strom. VI 2, 17, 1-4, pp. 433-434 StählinFrüchtel-Treu): Avendo Orfeo composto questi versi: “Per l’anima è l’acqua, la morte è uno scambio con le acque, dall’acqua nasce la terra e dalla terra di nuovo l’acqua, dalla quale nasce l’anima che tramuta tutto l’etere”; Eraclito, prendendo in prestito le sue parole da queste [i.e. da quelle di Orfeo], scrive in certo modo questo: “per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua è morte diventare terra, ma dalla terra nasce l’acqua e dall’acqua, l’anima” (22 B 36 DK). In vero, avendo detto Atamanto il Pitagorico: “ecco il principio ingenerato del tutto e le quattro radici che si trovano: fuoco, acqua, aria e terra; da queste, infatti, derivano le generazioni degli esseri generati”; l’Agrigentino Empedocle compose questi versi: “apprendi innanzitutto che ci sono quattro radici di tutte le cose: fuoco, acqua e terra così come l’immensa altezza dell’etere; da esse, infatti, derivano le cose che furono, quelle che saranno e quelle che sono”108.
La versione filologicamente più prossima all’originale del frammento 36 DK di Eraclito è proprio quella data da Clemente: ψυχῇσιν θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ ψυχή («per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua è morte diventare terra, ma dalla terra nasce l’acqua e dall’acqua, l’anima»), di cui Filone restituisce solo la prima parte, come gli gnostici “Perati” (II-III sec.), confutati dall’autore della Refutatio omnium haeresium (V 16). Qui il detto di Eraclito, nella versione di Filone, è inserito in un’interpretazione allegorica dell’Esodo del popolo eletto dall’Egitto attraverso il Mar Rosso: secondo l’esegesi dei Perati, il racconto biblico significa che l’anima esce dal corpo oltrepassando le acque della corruzione109.
108 Ὀρφέως δὲ ποιήσαντος· "ἔστιν ὕδωρ ψυχῇ, θάνατος δ᾽ ὑδάτεσιν ἀμοιβή, ἐκ δὲ ὕδατος γαῖα, τὸ δ᾽ ἐκ γαίας πάλιν ὕδωρ· ἐκ τοῦ δὴ ψυχὴ ὅλον αἰθέρα ἀλλάσσουσα"· Ἡράκλειτος ἐκ τούτων συνιστάμενος τοὺς λόγους ὧδέ πως γράφει· "ψυχῇσιν θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ ψυχή." Ναὶ μὴν Ἀθάμαντος τοῦ Πυθαγορείου εἰπόντος "ὧδε ἀγέννατος παντὸς ἀρχὰ καὶ ῥιζώματα τέσσαρα τυγχάνοντι, πῦρ, ὕδωρ, ἀήρ, γῆ· ἐκ τούτων γὰρ αἱ γενέσεις τῶν γινομένων" ὁ Ἀκραγαντῖνος ἐποίησεν Ἐμπεδοκλῆς· "τέσσαρα τῶν πάντων ῥιζώματα πρῶτον ἄκουε· πῦρ καὶ ὕδωρ καὶ γαῖαν ἰδ᾽ αἰθέρος ἄπλετον ὕψος· ἐκ γὰρ τῶν ὅσα τ᾽ ἦν ὅσα τ᾽ ἔσσεται ὅσσα τ᾽ ἔασιν". Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 66 (a), pp. 624-625; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 643, pp. 516-517. 109 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 66 (c), p. 626; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 673, pp. 559-560.
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Clemente110, dal canto suo, intende provare che Eraclito ha plagiato la dottrina orfica – come ripete anche in seguito111 –, ed Empedocle, quella pitagorica112 . A questo proposito, l’Alessandrino cristiano cita i versi orfici sulla morte e sulla nascita dell’anima dall’acqua, cui fa seguire il frammento 36 DK di Eraclito113, per mostrare, cioè, che per Orfeo «la morte [dell’anima] è uno scambio con le acque» (θάνατος δ᾽ ὑδάτεσιν ἀμοιβή) e «dall’[acqua] nasce l’anima» (ἐκ τοῦ δὴ ψυχὴ), e allo stesso modo, secondo Eraclito: «per le anime è morte diventare acqua ... ma dalla terra nasce l’acqua e dall’acqua, l’anima» (ψυχῇσιν θάνατος ὕδωρ γενέσθαι ... ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ ψυχή). Sia i versi orfici sia l’estratto eracliteo presentano la morte e la nascita dell’anima come una fase del ciclo di trasformazione della materia che si trasforma in acqua, poi di nuovo in anima, e si conclude verosimilmente con il fuoco etereo, lo stato più leggero, rarefatto e puro della materia114. Nella più antica cosmogonia e cosmologia greca, l’acqua, cioè Oceano, figlio di Ouranos e Gaia, compagno di Teti, è considerato l’elemento primordiale dell’universo, padre e generatore degli dei, delle fonti e di tutto il resto, ed è rappresentato da Omero ed Esiodo come un fiume che circonda la terra115, così come nei testi orfici (fr. 287 F Bernabé)116. Nella lamina d’oro orfica di Hipponion (V-IV sec. a. C.), le anime dei morti hanno sete di vita corporea e si vivificano nell’Aldilà presso la fonte dell’oblio, ma solo l’acqua fredda che scorre dal lago di
110
Cf. anche Eusebio di Cesarea, Praep. Ev. X 2, 6; XI 11, 7. Cf. Strom. VI 2, 27, 1: σιωπῶ δὲ Ἡράκλειτον τὸν Ἐφέσιον, ὃς παρ᾽ Ὀρφέως τὰ πλεῖστα εἴληφεν («Passo dunque sotto silenzio Eraclito l’Efesio, il quale ha preso la più parte delle sue dottrine da Orfeo»). 112 Cf. J. Mansfeld (1992), op. cit., pp. 307-312, il quale tuttavia, non include il passaggio in questione (Strom. VI 2, 17, 1-4) nei tre centoni considerati nel capitolo dedicato a Clemente. 113 L’ispirazione orfica della dottrina di Eraclito sostenuta da Clemente è discutibile. I versi orfici (437 F Bernabé) del passo in questione, infatti, appartengono probabilmente alle Rapsodie orfiche, che L. Brisson (Orphée, poèmes magiques et cosmologiques, Paris 1993, p. 169) data del I-II secolo d. C. In questo caso, sarebbe Eraclito ad aver influenzato lo pseudo-Orfeo e non viceversa, come sostiene Clemente introducendo il frammento eracliteo dopo quello orfico e ipotizzando il prestito di Eraclito da Orfeo. Cf. J.-F. Pradeau (2004 2), op. cit., p. 284. 114 Ciò che accomuna, invece, il frammento pitagorico e i versi di Empedocle è la dottrina delle ῥιζώματα τέσσαρα («quattro radici») di tutti gli esseri generati: πῦρ, ὕδωρ, ἀήρ, γῆ / πῦρ καὶ ὕδωρ καὶ γαῖαν ἰδ᾽ αἰθέρος («fuoco, acqua, terra e aria-etere»). 115 Cf. Omero, Il. XIV 201, 246, 302; XXIII 205; Od. XI 13, 639; XIII 1; Esiodo, Theog. 135 ss.; 337 ss. 116 Si vedano anche Platone, Crat. 402 b 1-c 1 (cf. Theaet. 152 e e Aristotele, Met. 983 b 27) e Aristotele, Meteor. 347 a 6-8. 111
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Mnemosyne introdurrà l’iniziato alla vera vita di eroe117. Nell’orfico Papiro di Derveni, il commentatore assimila Oceano all’aria, cioè a Zeus, fonte di vita perché padre di ogni cosa: come sanno gli iniziati all’orfismo – dice l’autore che cita peraltro Eraclito – Oceano non è altro che una metamorfosi di Zeus118. Clemente rivela l’analogia speculativa tra le dottrine presocratiche sulla genesi del mondo e dell’anima e l’orfismo-pitagorico, in cui teorie fisiche e credenze religiose, cosmologia ed escatologia costituiscono un unico sistema di pensiero, ma istruisce anche sulla ricezione della dottrina dell’anima di Eraclito. Dopo Filone, Clemente testimonia che, nell’ambiente filosofico platonizzante dell’Alessandria di II secolo, Eraclito era considerato non solo un fisico, ma anche un teologo, alla stregua degli Orfici. Tuttavia, l’estratto orfico citato appartiene probabilmente a un poema di epoca tardo-ellenistica119, quindi non è Eraclito a plagiare gli Orfici – come sostiene Clemente –, ma verosimilmente il contrario. L’Alessandrino cristiano suggerisce, da un lato che Eraclito si è ispirato almeno in parte all’antico orfismo – o è stato in qualche modo influenzato da esso –, e dall’altro che gli Orfici posteriori si sono ispirati alla dottrina eraclitea. La testimonianza clementina del frammento 36 DK di Eraclito è utile sia per la ricostruzione filologica del testo eracliteo, sia per la sua interpretazione. Clemente prova l’esistenza di una dottrina eraclitea della vita e della morte dell’anima e delle anime nell’acqua apparentata a quella orfica: la duplice e ciclica trasformazione che determina la “nascita” e la “morte” della sostanza psichica del cosmo e dell’uomo. Per cogliere la peculiarità della concezione eraclitea rispetto a quella orfica, è allora necessario tornare a Filone e al confronto con gli altri testi eraclitei e presocratici. 3. «Per le anime è morte diventare acqua» (fr. 36 DK), dice Eraclito Filone, Aet. 111 offre la prima testimonianza storico-letteraria e filologicoletterale della prima parte del frammento 36 DK di Eraclito: «per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua è morte diventare terra» (ψυχῇσι θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι θάνατος γῆν γενέσθαι), di cui Clemente di Alessandria,
117 Cf. G. Pugliese Carratelli, Le lamine d’oro orfiche. Istruzioni per il viaggio oltremondano degli iniziati greci, Milano 2001, tr. fr. par A.Ph. Segonds et C. Luna, Les lamelles d’or orphiques. Instructions pour le voyage d’outre-tombe des initiés grecs, Paris 2003, pp. 51 ss. 118 Cf. Le Papyrus de Derveni (2003), op. cit., pp. 94 ss. 119 Cf. M.L. West (1983), op. cit., p. 69.
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accusando Eraclito di plagiare Orfeo, restituirà anche la seconda parte: «ma dalla terra nasce l’acqua e dall’acqua, l’anima» (ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ ψυχή). Citando le parole di Eraclito, Filone spiega che l’anima è «soffio» (πνεῦμα), e poiché la fine dell’aria è il principio dell’acqua, la “morte” delle anime consiste nella loro liquefazione. Secondo l’interpretazione filoniana, dunque, le anime si iscrivono nel ciclo cosmico in cui ogni elemento materiale “si scambia” con l’altro, “morendo” per “rinascere”, cioè scomparendo per riapparire nell’elemento che lo segue nella “via verso l’alto”, rarefacendosi, e “verso il basso”, condensandosi. Numenio (II sec.), nella sua esegesi pitagorizzante dell’antro delle ninfe dell’Odissea, attribuisce a Eraclito il detto che corrisponde al frammento 77a DK: «per le anime è piacere, non morte, diventare umide» (ψυχῇσι ... τέρψιν μὴ θάνατον ὑγρῇσι γενέσθαι), considerando la discesa dell’anima incorporea nel corpo terrestre l’immersione dell’elemento divino nel flusso della vita sensuale dell’uomo. Una simile interpretazione sarà data da Porfirio e dai Neoplatonici (III-VI sec.) che applicano il detto di Eraclito, nella forma «per le anime è morte diventare umide» (ψυχῇσι θάνατον ὑγρῇσι γενέσθαι), al rapporto tra l’anima divina e il corpo dell’essere umano, ritenendo che il prevalere del desiderio può provocare la morte della parte razionale dell’anima. La coincidenza della citazione di Filone con le altre citazioni verbatim di Eraclito, e la compatibilità della sua interpretazione con gli altri testi eraclitei sull’anima, consente di ritornare di nuovo sulla dottrina originaria del Presocratico. La testimonianza filoniana è preziosa perché – diversamente dai luoghi precedentemente analizzati – in questo caso, l’Alessandrino intende capire e far capire la parola di Eraclito, di cui fornisce un’esegesi. Filone (Aet. 111) afferma che la morte dell’anima è «la trasformazione in un altro elemento» (τὴν εἰς ἕτερον στοιχεῖον μεταβολήν), cioè che l’anima “muore” quando la sua materia diventa più densa e pesante, vale a dire acqua. E come dimostra Clemente completando la citazione, per Eraclito, l’acqua rappresenta non solo la “morte” dell’anima, ma anche la sua vita, perché l’anima “rinasce” quando l’acqua evapora facendosi una sostanza più fine e leggera. Spiegando il detto eracliteo che cita, Filone identifica l’anima con il «soffio» o respiro aereo120, cioè con la massa cosmica dell’aria. Ora,
120 Sull’aria come principio di Eraclito, cf. le testimonianze su Enesidemo di Tertulliano, De an. IX 5 e Sesto Empirico, Adv. math. X 233; cf. anche Cicerone, De nat. deor. III 35. Sull’“eraclitismo di Enesidemo”, cf. Sesto Empirico, Pyrr. hyp. III 230.
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il termine πνεῦμα («soffio») non compare in nessuno dei frammenti eraclitei conservati, ma rappresenta un concetto chiave del giudaismo ellenistico di Filone, che lo associa all’alito di vita della Genesi biblica121. Già Aristotele, prima degli Stoici e della dossografia aeziana, informava che, per Eraclito, l’anima è «l’esalazione (ἀνα-θυμίασις) di cui tutte le altre cose si costituiscono», anche se l’Efesio non identifica esplicitamente l’anima e l’esalazione nei frammenti conservati. Tuttavia, il processo di continua trasformazione delle masse cosmiche, e in particolare quello di trasformazione dell’acqua in aria, non risale agli schemi aristotelici – sebbene lo Stagirita abbia elaborato una sua teoria delle esalazioni122 , fumose e vaporose –, bensì al concetto eracliteo di ἀνα-θυμίασις123: la volatilizzazione della materia solida e liquida che si rarefa e sale verso l’alto124. Lo stesso Aristotele attribuisce a Eraclito una dottrina concernente il vapore, l’inalazione e l’odore, citando il frammento 7 DK sulle «narici» (ῥῖνες) che percepiscono il fumo125, e altrove (Probl. 908 a 30-31) fa riferimento a «certi Eraclitizzanti» (τινὲς τῶν ἡρακλειτιζόντων) secondo i quali ci sarebbe esalazione nei corpi come in tutto l’universo. Il testo eracliteo dato da Filone, confermato e completato da quello di Clemente, permette di distinguere due concetti in Eraclito: l’anima come materia cosmica elementare e forza vitale della natura, e le anime come singoli individui dalle facoltà mentali e linguistiche126. Per Eraclito, l’anima sembra essere la massa psichica che costituisce l’esalazione del mondo, e che si estende tra il fuoco dei corpi celesti e l’umido dei vapori acquei; le anime sarebbero invece singole porzioni della stessa sostanza che si trovano in vari luoghi dell’universo, sia nelle regioni luminose e pure, sia in quelle oscure e impure, tanto nell’atmosfera esterna, quanto in corpi umani127. Eraclito potrebbe allora aver 121 E come si diceva, il termine ἀήρ («aria») non figura nel testo di Eraclito sulle trasformazioni cosmiche assieme alle masse elementari fuoco, acqua e terra (31 DK), ma solo nelle tre varianti del frammento 76 DK, sovente considerate una rielaborazione stoico-platonica della parola eraclitea. 122 Cf. Aristotele, Meteor., 341 b ss. 123 Cf. 22 B 12 DK. 124 Si noti che nel frammento 85 DK Eraclito afferma che θυμῶι μάχεσθαι χαλεπόν· ὃ γὰρ ἂν θέληι, ψυχῆς ὠνεῖται («è difficile combattere contro l’animo: quello che vuole, infatti, lo compra a prezzo dell’anima»). Una delle etimologie possibili di θυμός («animo») è il verbo θύειν che significa «ribollire», «fervere», «fermentare» o «fumare», cioè volatilizzarsi. 125 Plutarco dirà che, secondo Eraclito (98 DK), le anime nell’Ade «hanno il senso dell’olfatto» (ὀσμῶνται). 126 Cf. G. Betegh (2007), art. cit., pp. 17 ss. 127 Secondo fonti indirette, infatti, per Eraclito tutto è pieno di anime e di demoni (22 A 1 DK).
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pensato che, come l’anima universale “muore” trasformandosi in acqua, cioè precipitando sotto forma di vari fenomeni meteorologici, così le anime individuali “muoiono” diventando acqua; ciò che rivive dall’acqua, invece, non sono le singole anime, ma l’unica anima cosmica128, vale a dire l’esalazione dell’universo129. Tuttavia, per Eraclito (12 DK), «le anime d’altra parte esalano dalle sostanze umide» (ψυχαὶ δὲ ἀπὸ τῶν ὑγρῶν ἀναθυμιῶνται), e ciò induce a postulare due stadi differenti e successivi dell’esalazione: dall’acqua al vapore e da questo a una sostanza ancor più fine e nobile, dotata di coscienza: l’anima individuale. I testimoni posteriori a Filone, il pitagorico Numenio e i filosofi neoplatonici, considerano che, secondo Eraclito, l’anima gode e “muore” quando la sua sapienza e virtù rammolliscono. A differenza dei citatori, tuttavia, per Eraclito vi è non solo correlazione, ma identità tra l’ambito fisico e quello psichico130: l’epistemologia e l’etica sono parte integrante del suo naturalismo, in cui psicologia e antropologia sono inscindibili. Per Eraclito, l’anima è ciò che “anima” il macrocosmo e il microcosmo131: più asciutta o più umida secondo che si trovi in una zona più vicina alla volta celeste del sole e degli astri o alla superficie della terra e del mare, migliore o peggiore secondo che si assimili all’intelligenza del fuoco divino o alla materia dei corpi terrosi. In questo senso, dunque, la “morte” dell’anima è la scomparsa di una sua forma nella nascita dell’altra, cioè l’umidificazione e la condensazione dell’esalazione pura e asciutta che la costituisce, ma anche il deterioramento della sua facoltà psichica, razionale e morale. La “morte” delle anime è dunque diventare «acqua», e in certo senso divenire «umide»132 . Così, secondo Eraclito, l’anima può “morire” anche quando è unita al corpo, ovvero durante l’esistenza umana: in questo caso, l’uomo è un individuo che ascolta con orecchi sordi, sveglio eppure dormiente, presente ma in realtà assente133. Lo confermano i frammenti in cui l’Efesio raccomanda la moderazione, ammonendo contro gli eccessi del vino, del cibo e delle passioni134 che 128
Cf. 22 A 15, B 36 e 76 DK. Come nota M. Conche (2005), op. cit., p. 328. 130 Cf. C.H. Kahn (1979), op. cit., p. 248. 131 Cf. 22 A 15 DK. 132 Cf. J. Mansfeld, Heraclitus on the Psychology and Physiology of Sleep and on Rivers, «Mnem» 20 (1967), p. 9. 133 Cf. 22 B 1, 17, 19, 34 o 72 DK. 134 Cf. 22 B 29, 43 e 117 DK. 129
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alterano il soffio vitale dell’uomo, perché provocano la perdita di lucidità, ma anche la perdita dell’anima stessa, cioè la sua estinzione135. Eraclito (117 DK) afferma, infatti, che l’uomo ubriaco barcolla «poiché ha l’anima umida» (ὑγρὴν τὴν ψυχὴν ἔχων): a causa dei vapori del vino, la sua anima si degrada fisicamente e intellettualmente, perché la sua sostanza si ispessisce e la sua sapienza si affievolisce. Questo esempio mostra il carattere semplice della psicologia di Eraclito136: l’anima che si impregna di umidità per eccesso di bevande alcoliche perde sia la forza fisica sia la facoltà razionale, e l’essere umano assume un comportamento infantile, cioè irragionevole e incosciente. La dottrina eraclitea dispiega così le sue analogie e le sue differenze con la filosofia naturalistica e le credenze religiose del suo tempo. Che l’aria sia la sostanza che costituisce l’atmosfera cosmica e l’anima degli esseri viventi è una concezione anticipata da Anassimene di Mileto (VI sec. a. C.)137. Secondo la testimonianza dossografica degli Aetiana (13 B 2 DK), Anassimene avrebbe affermato: «come la nostra anima, che è aria, ci tiene insieme, così soffio e aria avvolgono tutto il mondo» (οἶον ἡ ψυχή, ἡ ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς, καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα καὶ ἀὴρ περιέχει). Inoltre, un altro presocratico non milesio ma colofonio, prima di Eraclito, avrebbe concepito l’anima come pneuma, se fededegno è il resoconto di Diogene Laerzio (21 A 1 DK): «[Senofane] fu il primo a dire che [...] l’anima è soffio» (πρῶτός τε ἀπεφήνατο, ὅτι [...] ἡ ψυχὴ πνεῦμα). La credenza secondo cui l’anima umana, fatta di sostanza eterea e dotata di natura immortale138, vola via nel vento ed entra in corpi umani e animali tramite la respirazione139, è testimoniata, invece, dai frammenti orfici140. Sebbene Eraclito non condivida i racconti mitici delle teogonie orfiche, la sua psicologia presenta qualche analogia con l’orfismo, secondo cui Zeus riunisce in se stesso la terra e il cielo, il soffio e il mare141. Per l’autore orfico del Papiro di Derveni, l’aspetto intellettuale di Zeus è la mente e la funzione pratica
135
Cf. 22 B 85 DK. Cf. G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield (edd.) (1995), op. cit., p. 218. 137 Cf. 13 A 7 e 23; B 1-2 DK. Cf. già Talete, 11 A 22-23 DK. 138 Cf. 423 F ss. Bernabé, ma anche i poeti Pindaro (fr. 131 B Snell-Maehler) e Euripide (Suppl. 533 s.). 139 Cf. Aristotele, De an. 410 b, 26-30. 140 Cf. i frammenti orfici 421 F ss. e i passaggi paralleli indicati nell’apparato critico del frammento 436 F della più recente e completa edizione di Orphica a cura di A. Bernabé (ed.), Poetae Epici Graeci. Pars II, Fasc. 1, Orphicorum fragmenta, Munich-Leipzig 2004. 141 Cf. G. Betegh, Empédocle, Orphée et le Papyrus de Derveni, in Les anciens savants, Les Cahiers Philosophiques de Strasbourg 12, Strasbourg 2001, pp. 47-70, p. 55. 136
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di questa, cioè la sapienza, laddove il suo aspetto fisico è l’aria e la parte attiva di essa, vale a dire il soffio142 . La testimonianza di Filone riapre allora l’annoso dibattito sulla natura dell’anima, dimostrando che per Eraclito non è fuoco143, ma una sostanza aerea che copre lo spettro dei fenomeni atmosferici relativi alla massa cosmica che si estende dal livello del mare (e della terra) al fuoco celeste144, e che comprende sia parti umide, nebulose e impure, sia parti asciutte, luminose e pure145. Tutto lascia pensare, infatti, che Eraclito abbia concepito l’anima umana in relazione al processo fisico dell’esalazione brillante, vale a dire la corrente di materia che si leva dall’acqua, per effetto del calore, e raggiunge il cielo, alimentando gli astri e determinando vari fenomeni meteorologici ed elettrici146. Secondo Eraclito, dunque, le masse materiali del fuoco – principio puro e divino –, dell’acqua – la distesa del mare – e della terra – l’elemento più denso e pesante – “muoiono” e “rinascono” trasformandosi l’una nell’altra (31 DK) secondo il ciclo cosmico di esalazioni e precipitazioni, retto dall’isonomia universale. Allo stesso modo, l’anima, soffio vitale e spirituale, si trasforma secondo giusta misura nell’elemento a lei prossimo: muore e rivive nell’acqua. Nella mentalità greca arcaica, infatti147, l’acqua ha un valore primario e primordiale in virtù del suo doppio carattere: la fluidità e l’omogeneità, ma soprattutto la vivificazione, il potere generativo del seme e dell’elemento liquido che dona la vita148. Per questo Eraclito afferma che la vita, ma anche la sua controparte, cioè la morte dell’anima sono nell’acqua; ma le anime migliori si sostentano e si costituiscono di esalazioni luminose, vale a dire asciutte e bril-
142
Cf. G. Betegh (2004), op. cit., p. 202. L’opinione che l’anima eraclitea fosse una forma di fuoco ha dominato la ricerca fin da E. Zeller (1844-52) e una chiara formulazione di questa interpretazione è quella di G.S. Kirk, Heraclitus and Death in Battle: fr. 24 D, «AJPh» 70/4 (1949), pp. 384-393. Eminenti editori e commentatori di Eraclito come M. Marcovich (1967, 19782), op. cit., pp. 264-265, C. Diano-G. Serra (1980, 19932), op. cit., pp. 57-58, o M. Conche (1986, 1998 4, 2005), op. cit., pp. 340-342, hanno difeso la concezione dell’anima-fuoco, ma C.H. Kahn (1979), op. cit., pp. 245 ss. si è opposto ad essa affermando la natura “aerea” dell’anima di Eraclito. 144 Cf. 22 B 31 DK. 145 Cf. G. Betegh (2007), art. cit., pp. 17 e passim. 146 Cf. S.N. Mouraviev, Doctrinalia Heraclitea III, art. cit., pp. 40-77, pp. 69-70. 147 Basti pensare alla figura omerica di Oceano, in Il. XIV 200 e passim. 148 Cf. Dictionnaires des mythologies et des religions des sociétés traditionnelles et du monde antique, sous la direction d’Y. Bonnefoy, Paris 1999, art. «Cosmogoniques (mythes). La Grèce», p. 496. 143
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lanti149. Il frammento sulle trasformazioni cosmiche (31 DK)150 mostra che, secondo Eraclito, il fuoco si trasforma dapprima in mare, poi diviene per metà «temporale» (πρηστήρ), termine che indica probabilmente l’insieme dei fenomeni atmosferici: aria, vento o gas che, ora si infiamma producendo lampi luminosi, ora si condensa in nuvole di vapore. L’anima di Eraclito sarebbe quindi un soffio e un flusso la cui natura si trasforma, come tutto il resto, divenendo più o meno asciutta, più o meno cosciente151. Eraclito deve allora aver concepito la morte delle anime individuali come parte della vita universale, vale a dire del ciclo cosmico che rappresenta la trasformazione dell’unico principio nella totalità del mondo: le anime muoiono trasformandosi in acqua, cioè riunendosi alla massa che è affine alla loro sostanza e guadagnando il loro luogo naturale, come la pioggia cade nel mare. 4. La scala macrocosmica e microcosmica di Filone Uno degli altri detti eraclitei evocati da Filone in Aet. 109-111, il 60 DK, ricorre, senza alcuna menzione di Eraclito, anche in Somn. 1.156, e risuona in Mos. 1.31 e Ios. 136. I sogni sono mandati da Dio è uno scritto appartenente al grande “Commentario allegorico” al Pentateuco di Mosé e dedicato all’interpretazione dei sogni. Secondo la notizia di Eusebio (Hist. Eccl. II 18), l’originale era composto di cinque libri, due dei quali ci sono pervenuti e un terzo è menzionato dallo stesso Filone (Somn. 1.1 e 2.3). Tanta parte del Libro I – probabilmente il secondo nella redazione originaria – è dedicata all’interpretazione del sogno di Giacobbe: una scala che collega la terra e il cielo, su cui salgono e scendono gli angeli di Dio. Il versetto biblico di riferimento è Genesi 28:12: «[la Scrittura o Mosé] dice: e [Giacobbe] fece un sogno, ed ecco gli apparve una scala piantata nella terra, la cui cima arrivava fino al cielo, e su di essa salivano e scendevano gli angeli di Dio; il Signore stava sopra di essa» („καὶ ἐνυπνιάσθη” φησί „καὶ ἰδοὺ κλῖμαξ ἐστηριγμένη ἐν τῇ γῇ, ἧς ἡ κεφαλὴ ἀφικνεῖτο εἰς τὸν οὐρανόν, καὶ οἱ ἄγγελοι τοῦ θεοῦ ἀνέβαινον καὶ κατέβαινον ἐπ´ αὐτῆς· ὁ δὲ κύριος ἐπεστήρικτο ὁ ἐπ´ αὐτῆς”) (Somn. 1.3).
149
Cf. 22 A 1 DK. Cf. H. Jones, Heraclitus-Fragment 31, «Phronesis» 17 (1972), pp. 193-197, ma anche e soprattutto I.G. Kalogerakos, Seele und Unsterblichkeit. Untersuchungen zur Vorsokratik bis Empedokles, StuttgartLeipzig 1996, pp. 207 ss. e note ad loc. 151 Cf. il frammento 22 B 118 DK. 150
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Filone fornisce diverse interpretazioni della «scala» (κλῖμαξ) vista in sogno da Giacobbe, illustrando il suo significato dapprima nel macrocosmo, poi nel microcosmo umano e sociale: se nell’universo l’aria è una scala tra la terra e il cielo (Somn. 1.134), nell’uomo l’anima è una scala tra la sensazione e l’intelletto (Somn. 1.146), e di conseguenza, la scala è anche la metafora della vita dell’asceta (Somn. 1.150). Il primo significato che Filone attribuisce alla «scala» è quindi cosmologico. L’Alessandrino spiega che «nell’universo dunque l’aria è chiamata simbolicamente “scala”, la cui base è la terra e la cui sommità, il cielo. [...] Questa è la casa delle anime incorporee [...] E se queste non sono percepibili alla sensazione, che cosa significa? Anche l’anima, infatti, è invisibile» (κλῖμαξ τοίνυν ἐν μὲν τῷ κόσμῳ συμβολικῶς λέγεται ὁ ἀήρ, οὗ βάσις μέν ἐστι γῆ, κορυφὴ δ´ οὐρανός· [...] οὗτος δ´ ἐστὶ ψυχῶν ἀσωμάτων οἶκος [...] εἰ δὲ μὴ αἰσθήσει καταληπτά, τί τοῦτο; καὶ ψυχὴ γὰρ ἀόρατον) (Somn. 1.134-135). Filone presenta così la concezione platonica152 secondo cui l’aria non è solo un elemento o una massa materiale, soggetta alle più varie trasformazioni153, bensì, per metonimia, una zona cosmica, situata tra la terra-acqua e il cielo154, popolata da un certo tipo di viventi155, e attraversata dagli esseri in transizione tra la zona inferiore e quella superiore: le anime invisibili. Per l’Alessandrino, infatti, la «scala» biblica rappresenta innanzitutto la sfera cosmica dell’aria, vale a dire la regione aerea che «è popolata come una città avente per cittadini anime incorruttibili e immortali, pari in numero agli astri» (οἷα πόλις εὐανδρεῖ πολίτας ἀφθάρτους καὶ ἀθανάτους ψυχὰς ἔχων ἰσαρίθμους ἄστροις) (Somn. 1.137). Secondo Filone, «di queste anime, alcune, quelle che si trovano più vicino alla terra e che amano i corpi, scendono per legarsi a corpi mortali, altre salgono, distinte nuovamente secondo i numeri e i tempi fissati dalla natura. Di queste ultime, alcune, rimpiangendo le cose familiari e abituali della vita mortale, corrono indietro, mentre altre, biasimando la grande superficialità di tale vita, hanno chiamato il corpo prigione e tomba, fuggendo come da una galera o da un sepolcro, elevandosi in alto con ali leggere verso l’etere, circolano nei cieli per l’eternità» (τούτων τῶν ψυχῶν αἱ μὲν κατίασιν ἐνδεθησόμεναι σώμασι
152 Sulla connessione tra l’elemento materiale, la regione cosmica e il genere di esseri viventi, che ha origine nel Timeo (31 b 5 ss.) platonico e si presenta con diverse varianti in epoca medioplatonica, cf. D.T. Runia (1986), op. cit., p. 497; A. Méasson (1986), op. cit., pp. 279-280. 153 Cf. Somn. 1.20; Congr. 104; Spec. 2.143, 4.235; Mos. 1.212 e 121. 154 Cf. Aet. 33; Spec. 1.85; Mos. 2.118; QE 2.117. 155 Cf. Plant. 12; Gig. 8; Spec. 2.45, 4.118; Aet. 45; Prov. 2.97.
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θνητοῖς, ὅσαι προσγειότατοι καὶ φιλοσώματοι, αἱ δ´ ἀνέρχονται, διακριθεῖσαι πάλιν κατὰ τοὺς ὑπὸ φύσεως ὁρισθέντας ἀριθμοὺς καὶ χρόνους. τούτων αἱ μὲν τὰ σύντροφα καὶ συνήθη τοῦ θνητοῦ βίου ποθοῦσαι παλινδρομοῦσιν αὖθις, αἱ δὲ πολλὴν φλυαρίαν αὐτοῦ καταγνοῦσαι δεσμωτήριον μὲν καὶ τύμβον ἐκάλεσαν τὸ σῶμα, φυγοῦσαι δ´ ὥσπερ ἐξ εἱρκτῆς ἢ μνήματος ἄνω κούφοις πτεροῖς πρὸς αἰθέρα ἐξαρθεῖσαι μετεωροπολοῦσι τὸν αἰῶνα) (Somn. 1.138-139). Il passo illustra la concezione filoniana di una doppia discesa e una doppia salita sulla «scala» dell’aria, cui corrispondono i vari tipi di anime: quelle che discendono per incarnarsi una prima volta e quelle che, liberatesi dopo una prima incarnazione, ridiscendono sulla terra; quelle che salgono dopo i tempi naturali dell’incarnazione verso il luogo da cui provengono e quelle che risalgono fino all’etere in cui rimarranno eternamente156. L’Alessandrino descrive dapprima il movimento verso l’alto e verso il basso delle anime umane: «alcune discendono [...] altre salgono» (αἱ μὲν κατίασιν [...] αἱ δ’ ἀνέρχονται) (Somn. 1.138), e in seguito quello degli “angeli” biblici o i “demoni” filosofici – anime intelligenti e spirituali che non si incorporano157: la Scrittura, dice Filone, «li ha rappresentati che salgono e scendono» (ἀνερχομένους αὐτοὺς καὶ κατιόντας εἰσήγαγεν) (Somn 1.142). Se dunque per Filone le anime umane scendono in un corpo per poi risalire al luogo d’origine, in un momento successivo e secondo i tempi fissati per natura, gli angeli salgono e scendono continuamente sulla scala senza mai toccare terra158. E ancora, se nel versetto biblico del sogno di Giacobbe (Gen. 28:12) ἀναβαίνω e καταβαίνω sono i verbi utilizzati ad indicare la salita e la dicesa degli angeli sulla scala, le anime umane e gli angeli-demoni di Filone (Somn. 1.138 ss.) scendono e salgono, salgono e scendono, secondo il
156 A differenza del mito platonico del Fedro (248 c), per Filone, le anime non si appesantiscono, né perdono le ali, né tantomeno cadono, ma «discendono» (κατίασιν) perché «si trovano più vicino alla terra e amano i corpi» (προσγειότατοι καὶ φιλοσώματοι). Quest’ultimo termine ricorre nel Fedone (68 c) di Platone (cf. Resp. 553 d.), in opposizione a φιλόσοφος, ad indicare l’amante della vita corporea e tutto ciò che fa parte di essa, dalle ricchezze all’ambizione (φιλοχρήματος καὶ φιλότιμος), come nota A. Méasson (1986), op. cit., p. 294. Per Filone il motivo dell’incarnazione delle anime non è una sfortuna accidentale, né una negligenza, bensì la loro condizione naturale di trovarsi in un certa zona del cosmo e di avere una certa passione. Le anime in questione sono anime umane, non angeli: Filone distingue le salite e discese, diverse in lunghezza spaziale e durata temporale, proprie di ciascun tipo di anima. 157 Cf. QE 2.13. 158 Cf. A. Méasson (1986), op. cit. p. 294.
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senso dei verbi καθίημι e ἀνέρχομαι159, cioè la percorrono «verso l’alto e verso il basso» (ἄνω δὲ καὶ κάτω) (Somn. 1.147). Nell’attribuire alla «scala» di Giacobbe un significato cosmologico, Filone fa riferimento alla teoria delle trasformazioni elementari del cosmo: «Con un’immagine molto appropriata ci si rappresenta l’aria attraverso il simbolo della scala fissata sulla terra; accade, infatti, che le esalazioni emananti dalla terra, rarefacendosi, evaporino [i.e. divengano aria], cosicché la terra è la base e la radice dell’aria, mentre il cielo, la sua cima» (παγκάλως δὲ ἐστηριγμένον ἐν τῇ γῇ διὰ συμβόλου κλίμακος φαντασιοῦται τὸν ἀέρα· τὰς γὰρ ἀναδιδομένας ἐκ γῆς ἀναθυμιάσεις λεπτυνομένας ἐξαεροῦσθαι συμβέβηκεν, ὥστε βάσιν μὲν καὶ ῥίζαν ἀέρος εἶναι γῆν, κεφαλὴν δὲ οὐρανόν) (Somn. 1.144). L’allusione alle «esalazioni emananti dalla terra», che «rarefacendosi, evaporano», riecheggia il passo di Aet. 109-111160 in cui Filone cita Eraclito a proposito del ciclo cosmico in cui si iscrive anche l’anima umana161. Come testimoniano le fonti dei frammenti eraclitei sull’anima – da Aristotele a Stobeo162 –, l’anima di Eraclito è simile per natura alle esalazioni di cui si sostenta, ovvero le particelle sottili e rarefatte che si distaccano dalla terra e dall’acqua per elevarsi al cielo. Filone, dal canto suo, considera l’aria una massa e una zona “animata” da anime particolari che salgono e scendono percorrendola come una «via verso l’alto e verso il basso», cioè come una «scala».
159 A differenza del verbo καταβαίνω, utilizzato già da Omero ad indicare una discesa dal cielo (Il. XI, 184), da Pindaro per esprimere l’azione di “discendere” dal Parnaso (Ol. IX, 43) o “approdare a terra” (Nem. VI, 63), e da Filone per descrivere il movimento degli angeli sulla scala di Giacobbe, il verbo καθίημι ha piuttosto il significato di “abbattersi” come il vento di cui parla Aristofane (Equit. 430), o “scorrere via (giù)” come il fiume di cui Platone (Phaed. 112 e): Filone lo impiega a proposito della discesa libera e precipitosa delle anime. 160 Sulle esalazioni, cf. anche Mos. 2.105; Prov. 2.61 ss. e 2.110; QG 3.15. 161 L’anima eraclitea di cui parla Filone in Aet. 111 è anima tout court, poiché non specifica se si tratti di anima individuale o Anima del mondo, espressione ed entità del Timeo platonico assente dall’opera di Filone, come sostiene G. Reydams-Schils (1999), op. cit., pp. 152-154. Riprendendo la dimostrazione di D.T. Runia (1986), la studiosa sottolinea che, in Filone, il Logos divino assume il ruolo di Anima del mondo nell’ambito di una dottrina della trascendenza di Dio, e non della sua immanenza nella natura, come invece nell’interpretazione stoica del divino principio attivo nell’universo. In effetti, l’Alessandrino modifica il concetto platonico di Anima del mondo per meglio adattarlo alla “filosofia mosaica”: in Somn. 2.2, Filone parla della nostra capacità intellettiva, che si muove in armonia con l’anima dell’universo; in Leg. 1.91, precisa che Dio è l’anima dell’universo nei limiti del nostro pensiero; e in Mut. 223, che il ragionamento è un frammento dell’anima dell’universo, o per dirla con Mosé, è l’impronta fedele dell’immagine divina. 162 Cf. almeno le testimonianze e i frammenti eraclitei 22 A 15; B 12, 36, 77ab, 98, 117, 118 DK.
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E dopo aver spiegato il significato cosmologico della «scala» di Giacobbe, Filone passa a quello psicologico, trasponendo la metafora in ambito umano: «Nell’universo, dunque, ciò che è chiamato simbolicamente “scala” è questa [scil. l’aria], mentre negli uomini scopriremo, indagando, che è l’anima, la cui base è la sensazione, come se fosse la sua parte terrestre, e la cui cima, l’intelletto purissimo, quasi che ne fosse la parte celeste» (ἡ μὲν οὖν ἐν κόσμῳ λεγομένη συμβολικῶς κλῖμαξ τοιαύτη ἐστί, τὴν δ´ ἐν ἀνθρώποις σκοποῦντες εὑρήσομεν τὴν ψυχήν, ἧς βάσις μὲν τὸ ὡσανεὶ γεῶδές ἐστιν, αἴσθησις, κεφαλὴ δ´ ὡς ἂν τὸ οὐράνιον, ὁ καθαρώτατος νοῦς) (Somn. 1.146). Secondo Filone, quindi, in senso psicologico l’anima dell’uomo è una scala tra la sensazione e l’intelletto, perché tesa sia verso il corpo materiale sia verso le realtà intelligibili, grazie soprattutto all’aiuto degli angeli di Dio. L’Alessandrino considera gli angeli di Gen. 28:12 anime divine, incorporee e immortali163, mediatori che cercano di far salire l’anima il più possibile: «I logoi di Dio la percorrono [scil. la scala] incessantemente lungo tutta la sua lunghezza, verso l’alto e verso il basso: quando salgono, portandola [scil. l’anima] con sé verso l’alto e distaccandola da ciò che è mortale, e offrendole la contemplazione delle sole cose degne di vista; quando invece scendono, non lasciandola cadere giù – né Dio né il logos divino, infatti, sono causa di danno –, ma accompagnandola nella discesa, nell’intento di offrirle soccorso e aiuto, per amore verso gli uomini e compassione verso il nostro genere, affinché, insufflando il soffio salvifico, vivifichino anche l’anima che è ancora trascinata via nel corpo, come in un fiume» (ἄνω δὲ καὶ κάτω διὰ πάσης αὐτῆς οἱ τοῦ θεοῦ λόγοι χωροῦσιν ἀδιαστάτως, ὁπότε μὲν ἀνέρχοιντο, συνανασπῶντες αὐτὴν καὶ τοῦ θνητοῦ διαζευγνύντες καὶ τὴν θέαν ὧν ἄξιον ὁρᾶν μόνων ἐπιδεικνύμενοι, ὁπότε δὲ κατέρχοιντο, οὐ καταβάλλοντες—οὔτε γὰρ θεὸς οὔτε λόγος θεῖος ζημίας αἴτιος—, ἀλλὰ συγκαταβαίνοντες διὰ φιλανθρωπίαν καὶ ἔλεον τοῦ γένους ἡμῶν, ἐπικουρίας ἕνεκα καὶ συμμαχίας, ἵνα καὶ τὴν ἔτι ὥσπερ ἐν ποταμῷ, τῷ σώματι, φορουμένην ψυχὴν σωτήριον πνέοντες ἀναζωῶσι) (Somn. 1.147). La chiusa del passo, in cui l’anima è trascinata dal flusso del corpo, riecheggia la speculazione platonica ispirata a Eraclito. In un celebre frammento (12 DK)164 – che abbiamo già evocato –, Eraclito dichiara che i fiumi in cui ci si bagna non sono mai gli stessi a causa dello scorrere perpetuo delle loro acque,
163 Sull’argomento, cf. F. Calabi, Ruoli e figure di mediazione in Filone di Alessandria, «Adamantius» 10 (2004), pp. 89-99. 164 Cf. anche 22 B 49 a e 91DK.
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e Platone, che parafrasa la dottrina eraclitea (22 A 6 DK), la applica al divenire incessante del mondo sensibile, non senza criticare la versione radicale della teoria presocratica del mobilismo universale165. In Tim. 43 a-d, Platone utilizza l’immagine del flusso e riflusso per indicare il corpo umano in cui la singola anima discende, e Filone ricorre alla stessa metafora del corpo come fiume in cui l’anima si bagna166, simbolo del fluire perpetuo della sostanza cosmica e della fugacità degli oggetti percepibili167. La connessione che l’Alessandrino intuisce tra la dottrina di Eraclito e quella di Platone – da cui deriva l’immagine dell’anima inondata dai flutti dei sensi e agitata dal torrente delle passioni della vita corporea168 – è corretta, perché fu senza dubbio il fiume eracliteo a ispirare Platone169. Non solo, quindi, l’allegoria cosmologica della «scala» di Giacobbe manifesta tracce della dottrina eraclitea, ma anche quella psicologica, poiché entrambe basate sull’idea di estensione e di movimento «verso l’alto e verso il basso»: dell’aria, tra il cielo e la terra; dell’anima, tra l’intelletto e la sensazione170. L’anima in quanto natura aerea o pneumatica171, costituita tanto di una
165 Cf. Platone, Crat. 401 b 10 ss., 402 a 8-10, 411 a 7 ss., 439 b 10 ss.; Phil. 42 e 7 ss.; Theaet. 152 c 8 ss., 155 e 3 ss., 156 c 3-8, 157 a 7 ss., ma anche 160 d 5 ss., 168 b 2-6, 177 c 6 ss., 179 d 1 ss., 182 c 2 ss.; Phaed. 90 b 4 ss. 166 Cf. D.T. Runia (1986), op. cit., pp. 260-261. 167 Cf. Ios. 140-142; Conf. 105; Somn. 1.192, 2.258; Prov. 1.14 ss.; QG 3.1, 3.55. 168 Cf. Conf. 23, 66, 70; Somn. 2.13, 2.237, 2.278; Spec. 1.27, 1.192, 2.147, 3.5, 4.85; Det. 100; Ebr. 70; Plant. 144; Mut. 107, 214; Fug. 91, 192; Gig. 51; Prob. 63; Praem. 73; Legat. 65; Prov. 2.31; QG 2.9, 2.12, 2.15, 2.18, 2.39; QE 2.55. 169 Oltre a quelli dei dialoghi platonici, cf. i passaggi sul πάντα ῥεῖ eracliteo rintracciabili nei trattati di Aristotele, Top. 104 b 20-22; De an. 405 a 28; Met. 987 a 32, 1010 a 7-15, 1012 b 22, 1063 a 10-b 6, 1078 b 13; Phys. 253 b 9, 265 a 2, 228 a 6; Meteor. 357 b 26; Pol. 1276 a 34. 170 Cf. Leg. 1.1; QG 2.18 e 4.215; QG 4.29, 4.46. 171 In Gig. 22, l’Alessandrino spiega i due significati principali dello pneuma divino, il soffio o lo spirito con cui Dio “anima” il cosmo e l’uomo. Per Filone lo pneuma è in un senso l’aria, in quanto terzo elemento dopo acqua e terra, mentre, in un secondo senso, la sapienza del sapiente: λέγεται δὲ θεοῦ πνεῦμα καθ´ ἕνα μὲν τρόπον ὁ ῥέων ἀὴρ ἀπὸ γῆς, τρίτον στοιχεῖον ἐποχούμενον ὕδατι—παρό φησιν ἐν τῇ κοσμοποιίᾳ· „πνεῦμα θεοῦ ἐπεφέρετο ἐπάνω τοῦ ὕδατος“ (Gen. 1:2), ἐπειδήπερ ἐξαιρόμενος ὁ ἀὴρ κοῦφος ὢν ἄνω φέρεται ὕδατι βάσει χρώμενος—, καθ´ ἕτερον δὲ τρόπον ἡ ἀκήρατος ἐπιστήμη, ἧς πᾶς ὁ σοφὸς εἰκότως μετέχει («Si dice pneuma di Dio, in un senso l’aria che sale dalla terra, il terzo elemento che si porta sull’acqua – perciò nel racconto della creazione del mondo è detto “lo pneuma di Dio aleggiava sull’acqua” (Gen. 1:2), poiché l’aria, che è leggera, rarefacendosi si porta verso l’alto avendo l’acqua come base; in un altro senso, invece, [scil. lo pneuma] è la scienza pura, di cui ogni sapiente giustamente partecipa»). Sebbene Filone non citi né alluda a Eraclito, il passaggio in questione mostra l’appropriazione filoniana della dottrina filosofica del fluire (ῥέων) – cioè dell’esalazione – dell’elemento aria dall’acqua, su cui è poggiata come su una base.
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componente razionale o divina, quanto di una componente irrazionale o umana172 , è per Filone la «via» che unisce, come un ponte, il mondo celeste e quello terrestre173, o meglio – data la sovrapposizione e il dislivello tra cosmos intelligibile e sensibile –, la «scala»174. L’Alessandrino prosegue affermando che la scala può rappresentare anche la vita dell’asceta, caratterizzata dal continuo movimento tra i cieli dell’Olimpo, dimora dei «sapienti» (σοφοί), luogo del bene e di ogni virtù, e gli abissi dell’Ade, in cui risiedono i «malvagi» (κακοί), regno del male e di tutti i vizi (Somn. 1.150-151). «Quanto agli asceti – poiché sono intermedi tra i due estremi [i.e. i sapienti e i malvagi] –, vanno sempre verso l’alto e verso il basso come su una scala, o sollevati verso l’alto dalla sorte migliore, o tirati in senso contrario dalla peggiore, finché Dio, arbitro della rivalità e di questa lotta, non conceda i premi alla schiera migliore, sterminando completamente quella opposta» (οἱ δ´ ἀσκηταὶ—μεθόριοι γὰρ τῶν ἄκρων εἰσὶν—ἄνω καὶ κάτω πολλάκις ὡς ἐπὶ κλίμακος βαδίζουσιν, ἢ ὑπὸ τῆς κρείττονος μοίρας ἀνελκόμενοι ἢ ὑπὸ τῆς χείρονος ἀντισπώμενοι, μέχρις ἂν ὁ τῆς ἁμίλλης καὶ διαμάχης ταύτης βραβευτὴς θεὸς ἀναδῷ τὰ βραβεῖα τάξει τῇ βελτίονι, τὴν ἐναντίαν εἰσάπαν καθελών) (Somn. 1.152)175.
172 Sulla tendenza platonica alla bipartizione dell’anima, cf. Resp. 608 d ss.; Tim. 65 a, 72 d; sulla concezione stoica dell’anima divisa in due (razionale e irrazionale) o in otto parti (la metà irrazionale divisa in sette parti e quella razionale restando indivisa), cf. Opif. 117; Leg. 1.11; Det. 168; Agr. 130; Her. 230; Mut. 110 (= SVF II 833); QG 1.75 (= SVF II 832); QE 2.33. Cf. SVF II 458, 802, 827-831. 173 Cf. D.T. Runia (1990), op. cit., p. 11. 174 L’immagine della scala cosmica e psichica non appartiene solo alla tradizione giudeo-cristiana, ma caratterizza anche la mistica islamica. Cf. C. Saccone, Allah, Il dio del terzo testamento, Milano 2006, pp. 56-57, e 200, che definisce la scala il simbolo del rapporto tra uomo e Dio dei mistici di ogni tempo nella storia dell’Islam. Non solo il Dio coranico fissa tra il cielo e la terra una “scala cosmica” su cui i suoi angeli vanno e vengono, ma, secondo la tradizione, anche lo stesso Maometto sale una scala dorata che lo porta al Paradiso e al colloquio con Dio; la “scala dell’anima” o “scala spirituale”, quindi, è quella che ogni mistico si sente chiamato a salire. Sul tema, si può consultare anche Le Livre de l’Echelle de Mahomet (G. Besson, M. Brossard-Dandré, I. Heullant-Donat (edd.), Paris 1991): un insieme di racconti in arabo, appartenenti alla letteratura del miraj e conservati in una traduzione latina del XIII secolo, che raccontano l’ascensione del profeta fino a Dio durante un viaggio notturno. 175 Secondo Filone, infatti, l’asceta, rappresentato dal personaggio biblico di Giacobbe (Abr. 52), è colui che si trova a mezza strada, cioè αἰσθητῆς καὶ νοητῆς ... μεθόριος φύσεως («l’intermedio tra la natura sensibile e intelligibile») (Migr. 198), altrimenti detto, κόσμου καὶ θεοῦ μεθορίου («l’intermedio tra il mondo e Dio») (Mut. 45), che percorre la via nei due sensi, τρόπον τινὰ ἀνιοῦσα καὶ κατιοῦσα συνεχῶς («in qualche modo salendo e scendendo continuamente») (Somn. 1.115). A proposito della categoria rappresentata da Giacobbe, quella degli asceti che si formano alla sapienza attraverso l’esercizio, Filone afferma: οὗτοί γε οἱ θεσπέσιοι καὶ τῶν ἄλλων διενηνοχότες [...] κάτωθεν ἄνω προῆλθον οἷα διά τινος οὐρανίου κλίμακος, ἀπὸ τῶν ἔργων εἰκότι λογισμῷ στοχασάμενοι τὸν δημιουργόν («questi uomini divini e incomparabili [...]
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Solo dopo aver esposto i significati cosmologico, psicologico e ascetico della «scala» vista in sogno da Giacobbe, Filone conclude che essa può anche essere interpretata come il simbolo della condizione umana. L’Alessandrino spiega, infatti, che le cose umane sono soggette a cambiamenti continui, repentini e inaspettati, secondo le oscillazioni della sorte da un estremo all’altro, dall’alto in basso e viceversa, e a questo punto ricorre a un’espressione di matrice eraclitea (Somn. 1.153-156, III, p. 237 Wendland): Le vicende umane sono naturalmente paragonate a una scala in virtù del loro corso irregolare. Come ha detto qualcuno, infatti, un sol giorno scagliò in basso l’uno dalla vetta, sollevò in alto l’altro, poiché niente di ciò che è umano per sua natura rimane tale e quale, ma si trasforma in tutti i modi. Gli uomini pubblici non vengono sempre dai cittadini privati e i privati dai pubblici, i poveri dai ricchi e, dai poveri i miliardari, i celebri dagli ignoti, i più illustri dagli anonimi, i forti dai deboli, dagli impotenti i potenti, gli intelligenti dagli stolti e i più ragionevoli dai folli? Ecco in certo senso la “via verso l’alto e verso il basso” delle vicende umane, soggetta a circostanze instabili e mutevoli, di cui il tempo, che non mente, ne dimostra l’irregolarità con prove non insicure, bensì evidenti176.
Senza alcuna menzione di Eraclito, Filone impiega l’espressione ὁδός ... ἄνω καὶ κάτω («via ... verso l’alto e verso il basso») del frammento 60 DK di Eraclito. La citazione che Filone utilizza per introdurre l’argomento della mutevolezza della condizione umana, invece, è Euripide, fr. 420 Nauck (pp. 453454 Kannicht)177. Il testo euripideo è dato anche dello storiografo bizantino di VI secolo Giovanni Lido, che lo inserisce in un passo simile a quello filoniano, affermando: «verso l’alto e verso il basso, infatti, si esercitano gli influssi della Fortuna nelle vicende umane» (ἄνω γὰρ καὶ κάτω τὰ τῆς τύχης ἐν τοῖς ἀνθρωπίνοις γυμνάζεται πράγμασι) (De mens. IV 7, 45-47). Il passaggio sugli alti
hanno progredito dal basso verso l’alto, come su una scala celeste, deducendo tramite un ragionamento verosimile il demiurgo dalle sue opere») (Praem. 43). 176 τὰ ἀνθρώπων πράγματα κλίμακι πέφυκεν ἐξομοιοῦσθαι διὰ τὴν ἀνώμαλον αὐτῶν φοράν. ἡ μία γάρ, ὡς ἔφη τις, ἡμέρα τὸν μὲν καθεῖλεν ὑψόθεν, τὸν δὲ ἦρεν ἄνω, μηδενὸς ἐν ὁμοίῳ πεφυκότος μένειν τῶν παρ´ ἡμῖν, ἀλλὰ παντοίας μεταβαλλόντων τροπάς. ἢ οὐκ ἄρχοντες μὲν ἐξ ἰδιωτῶν, ἰδιῶται δ´ ἐξ ἀρχόντων, πένητες δ´ ἐκ πλουσίων καὶ ἐκ πενήτων πολυχρήματοι καὶ ἔνδοξοι μὲν ἐξ ἠμελημένων, ἐπιφανέστατοι δὲ ἐξ ἀδόξων ἀεὶ γίνονται καὶ ἰσχυροὶ μὲν ἐξ ἀσθενῶν, ἐκ δὲ ἀδυνάτων δυνατοὶ καὶ συνετοὶ μὲν ἐξ ἀφραινόντων, εὐλογιστότατοι δὲ ἐκ παραπαιόντων· καὶ ὁδός τις ἥδ´ἐστὶν ἄνω καὶ κάτω τῶν ἀνθρωπείων πραγμάτων, ἀστάτοις καὶ ἀνιδρύτοις χρωμένη συντυχίαις, ὧν τὸ ἀνώμαλον οὐκ ἀδήλοις ἀλλὰ σαφέσι τεκμηρίοις ὁ ἀψευδέστατος ἐλέγχει χρόνος. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33 (e1), p. 498; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 334, p. 242. 177 Il frammento è citato anche da (pseudo-)Plutarco (Consol. ad. Apol. 104 A 12-13) e Stobeo (IV 41, 1, 1 ss.).
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e bassi della sorte umana riecheggia anche l’inizio de Le opere e i giorni (6), in cui Esiodo attribuisce la decisione del destino degli uomini al volere del grande Zeus, che «senza pena sminuisce l’illustre ed esalta l’ignoto» (ῥεῖα δ’ἀρίζηλον μινύθει καὶ ἄδηλον ἀέξει). L’ultimo dei significati attribuiti da Filone alla «scala» vista in sogno da Giacobbe in Gen. 28:12, dunque, è quello di «via» dell’umana vicenda, in continuo rivolgimento «verso l’alto e verso il basso». La citazione di Euripide e l’allusione al frammento eracliteo 60 DK inducono a pensare che Filone segua un certo canovaccio, vale a dire un’interpretazione medioplatonica dell’antica poesia e sapienza pre-platonica sul tema dell’instabilità dell’umana sorte. La lunga esegesi dei vari significati della «scala» biblica in Somn. 1.134 ss., con gli impliciti riferimenti alla parola e alla dottrina eraclitea, suggerisce che l’interpretazione della «via» (ὁδός) di Eraclito in termini di «scala» (κλῖμαξ) fosse già tradizionale all’epoca e nell’ambiente dell’Alessandrino. La sezione del trattato sui sogni è un ottimo esempio del filtro interpretativo messo in opera da Filone, che spiega il significato filosofico della scala biblica e commenta il salire e lo scendere degli angeli su di essa attraverso un’espressione e una concezione che risalgono a Eraclito. Congeniale all’esegesi allegorica del testo sacro, la «via» eraclitea permette a Filone di elaborare tutta una speculazione cosmologica, psicologica e antropologica basata sull’idea di immortalità dell’anima, e di duplice tensione e percorso reversibile da un contrario all’altro, verso l’alto e verso il basso, che per l’Alessandrino significa tra il cielo e la terra, tra l’intelletto e la sensazione, ma anche tra il bene e il male178. In più luoghi del corpus philonicum ritorna il motivo del doppio movimento dell’uomo tra le bassezze (κάτω) del corporeo e del vizio, e le altezze (ἄνω) del divino e della virtù179. Per Eraclito, le anime vivono nel e con il cosmo; per Filone, la vicenda dell’anima umana, eternizzata nel Pentateuco di Mosé, è il suo allontanamento progressivo dal “basso” della vita terrena e il suo ritorno verso l’“alto” dell’esistenza celeste.
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Cf. D.T. Runia (1990), op. cit., pp. 8 e passim. Cf. anche Gig. 13 ss.; Plant. 23 ss.; Her. 237 ss.; Fug. 62 s.
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4.1. Le vicende umane 4.1.1. La Fortuna che gioca Il frammento 60 DK di Eraclito riecheggia vagamente anche ne La vita di Mosé, che appartiene alla serie dei trattati esegetici detti di “Esposizione della Legge”. Filone comincia il Libro I narrando la nascita del profeta divino e raccontando dell’educazione ricevuta, per poi diffondersi nell’elogio della sua saggezza straordinaria. In questa sezione, l’Alessandrino inserisce una riflessione sull’operare della Fortuna nella vita umana che contiene reminiscenze eraclitee (Mos. 1.30-31, IV, p. 127 Cohn): I più, dunque, non appena incontrano solo il breve soffio di una qualche fortuna, si inorgogliscono e si insuperbiscono a dismisura, e disprezzando le persone più sconosciute li chiamano rifiuti, intralci, fardelli della terra, e altre cose di questo genere, come se avessero perfettamente sigillato per sé la permanenza fissa del successo, laddove forse non rimangono nella stessa situazione neppure fino al giorno seguente. Niente, infatti, è più instabile della Fortuna, che “gioca agli ossicini” le vicende umane “verso l’alto e verso il basso”, essa che spesso, in un sol giorno, scaglia in basso chi è sulla vetta, eleva nell’alto del cielo colui che è a terra180.
Si tratta, in questo caso, di un’eco ancor più lontana del frammento 60 DK: ἄνω καὶ κάτω («verso l’alto e verso il basso»). Non solo, infatti, Eraclito non è citato, ma manca il termine fondamentale ὁδός perché ἄνω καὶ κάτω – espressione comunissima nella lingua greca – possa essere considerato un riferimento al detto eracliteo. Tuttavia, Filone parafrasa qui lo stesso testo di Euripide (fr. 420 Nauck) citato in Somn. 1.154 – che commenta il salire e scendere (ἀναβαίνω-καταβαίνω) sulla scala biblica (Gen. 28:12) – e, mutatis mutandis, esplicita il soggetto agente nel cambiamento dell’umana condizione da un contrario all’altro: la Fortuna181. Il passaggio di Mos. 1.31 rivela, inoltre, un implicito ma rilevante richiamo a Eraclito: il gioco della Fortuna, espresso dal participio πεττευούσης, è lo stesso del fanciullo del frammento eracliteo 52 DK, 180 οἱ μὲν οὖν πολλοί, κἂν αὐτὸ μόνον αὔρα βραχεῖά τινος εὐτυχίας προσπέσῃ, φυσῶσι καὶ πνέουσι μεγάλα καὶ καταλαζονευόμενοι τῶν ἀφανεστέρων καθάρματα καὶ παρενοχλήματα καὶ γῆς ἄχθη καὶ ὅσα τοιαῦτα ἀποκαλοῦσιν, ὥσπερ τὸ ἀκλινὲς τῆς εὐπραγίας ἐν βεβαίῳ παρ᾽ ἑαυτοῖς εὖ μάλα σφραγισάμενοι μηδὲ μέχρι τῆς ὑστεραίας ἴσως διαμενοῦντες ἐν ὁμοίῳ. τύχης γὰρ ἀσταθμητότερον οὐδὲν ἄνω καὶ κάτω τὰ ἀνθρώπεια πεττευούσης, ἣ μιᾷ πολλάκις ἡμέρᾳ τὸν μὲν ὑψηλὸν καθαιρεῖ, τὸν δὲ ταπεινὸν μετέωρον ἐξαίρει. Cf. Marc.Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33 (e2), p. 498; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), p. 243. 181 Cf. Mos. 1.41.
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la cui trascrizione più fedele all’originale è quella che compare nella Refutatio omnium haeresium (IX 9, 3-4): αἰὼν παῖς ἐστι παίζων, πεσσεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη («il tempo della vita è un fanciullo che gioca, che gioca agli ossicini: la regalità di un fanciullo»). Il verbo πεσσεύω (att. -ττεύω) significa “giocare agli ossicini”: pietruzze, legnetti o monetine con due facce uguali e opposte, simili ma diversi da quelli dell’altro giocatore. L’antico gioco182 , di cui non si sa molto, sembra essere esistito in due varianti – corrispondenti rispettivamente ai moderni giochi della dama e del backgammon183 –, e consisteva nello spostare su una scacchiera i propri pezzi, bloccando quelli dell’avversario184. Diversamente dagli astragali e dai dadi185, il gioco eracliteo combinava dunque caso e ragione, ed è probabilmente diventato la metafora delle vicissitudini della vita186. Tra i vari i testimonia del frammento 52 DK di Eraclito, Filone è l’unico a precisare in che cosa consiste il giocare (παίζω)187 della Fortuna (πεττευούσης) o del bambino (πεσσεύων)188, cioè il muovere pedine in due opposte direzioni determinando ogni volta un capovolgimento di situazione. Per Filone, la Fortuna è una realtà incostante e instabile, responsabile del cambiamento delle sorti umane189, ma in Deus 176 è identificata con il Logos di Dio. Commentando un versetto biblico sull’abbeverarsi all’acqua di Dio190, l’Alessandrino elabora un argomento interamente basato sulla metafora dei «flussi e riflussi» (Deus 177) che dominano le vicende della vita. Tutto ciò che
182 Cf. Omero, Od. I 107, in cui i fieri pretendenti di Penelope giocano agli ossicini davanti la porta di Ulisse ad Itaca. 183 Cf. L. Kurke, Ancient Greek Board Games and How to Play Them, «CPh» 94 (1999), pp. 247-267. 184 Platone testimonia la popolarità di questo gioco – o di un suo derivato – tra i Greci nell’Atene di epoca classica (cf. Pol. 292 e; Gorg. 450 d; Phaedr. 274 d; Carm. 174 b; Alc. I 110 e; Resp. 333 b, 374 c, 487 c, 604 c; Leggi 739 a, 820 c), e usa il termine in senso metaforico riferendosi alla divina Provvidenza come τῷ πεττευτῇ («al giocatore di ossicini») (Leg. 903 d). 185 Diogene Laerzio IX 3 (= 22 A 1 DK) riferisce che lo stesso Eraclito ἠστραγάλιζε («giocava agli astragali») con i fanciulli di Efeso. Ma il fanciullo del frammento 52 DK di Eraclito non gioca né agli astragali (ἀστράγαλοι), né ai dadi (κύβοι), bensì ai πεσσοί. 186 Cf. R. Dilcher (1995), op. cit., pp. 154-155 e note ad loc. 187 Se il testo ebraico della Bibbia (Prov. 8:30-31) fa riferimento alla divina Sapienza che gioca davanti a Dio, la metafora del gioco è applicata da Filone sia all’uomo sapiente e virtuoso (Plant. 167 ss.) sia a Dio Padre e Creatore (QG 4.188). Cf. A. Dinan, The Mystery of Play: Clement of Alexandria’s appropriation of Philo in the Paedagogus (1.5.21.3-22.1), in «SPhA» 19 (2007), pp. 59-80. 188 Cf. anche Gregorio di Nazanzio (IV sec.), Carm. II, sect. 1, nr. 85, 11 (PG 37, p. 1432 A). 189 Cf. Spec. 4.153, 4.20; Somn. 2.145 ss.; Decal. 67; Ios. 139; QE 2.55 (Prov. 1.65). 190 E in QE 2.119 Filone dice che l’acqua è ciò che rinvia all’idea del fluire (ῥέω).
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appartiene all’ambito del mortale, afferma Filone, è trasportato qua e là e sospeso a opinioni incerte simili a ingannevoli sogni (Deus 172), e altalenanti sono le sorti del singolo uomo e di interi paesi e popoli, il cui destino «non è forse spinto in alto e in basso e scosso come una nave che naviga con venti ora favorevoli ora contrari?» (οὐκ ἄνω καὶ κάτω κλονουμένη καὶ τινασσομένη ὥσπερ ναῦς θαλαττεύουσα τοτὲ μὲν δεξιοῖς τοτὲ δὲ καὶ ἐναντίοις πνεύμασι χρῆται;) (Deus 175). Per Filone, infatti, Dio è caratterizzato dalla stabilità, laddove il mondo sensibile è in mutazione continua; il Logos è quindi la legge dell’universo, la forza attiva che regola il corso delle vicende cosmiche191, e inteso come Fortuna, ciò che equilibra la contraddittorietà del mondo sensibile, capovolgendo le condizioni di vita e ridistribuendo i possessi degli individui, al fine di mantenere una perfetta e immutabile armonia universale (Deus 176). Il Logos divino con cui Filone identifica tale Tychê, dunque, è il principio che regola il flusso perpetuo della realtà da un contrario all’altro, e che l’Alessandrino interpreta come la Provvidenza con cui Dio governa il mondo. Nel passo de La vita di Mosé, Filone considera la Fortuna la personificazione della forza sovrumana che determina il rovesciamento delle vicende umane, menando gli uomini «verso l’alto e verso il basso». Per questo egli ricorre al gioco eracliteo, che interpreta come la metafora del ciclo dell’esistenza umana: un continuo alternarsi di alto e basso, un perpetuo succedersi di alti e bassi. Poco dopo la duplice reminiscenza di Eraclito (Mos. 1.31), Filone farà anche allusione al tema eminentemente eracliteo dell’identità dei contrari come trasformazione dell’uno nell’altro: «tutte le cose di questo mondo, infatti, si trasformano da un contrario all’altro, il nuvoloso in sereno, la tempesta alla bonaccia dell’aria, la burrasca del mare in calma piatta, e ancor di più le vicende umane, nella misura in cui sono anche le più instabili» (πάντα γὰρ μεταβάλλειν τὰ ἐν κόσμῳ πρὸς τἀναντία, νέφωσιν εἰς αἰθρίαν, πνευμάτων βίας εἰς ἀέρα νήνεμον, κλύδωνα θαλάττης εἰς ἡσυχίαν καὶ γαλήνην, τὰ δ᾽ ἀνθρώπεια καὶ μᾶλλον, ὅσῳ καὶ ἀσταθμητότερα) (Mos. 1.41)192 . Il motivo della Fortuna che ribalta continuamente le sorti dell’uomo, ora elevandolo «verso l’alto», ora precipitandolo «verso il basso», ha origini arcaiche193, ma diviene un topos filosofico comune a più scuole di epoca ellenistica e 191 Cf. A. Meyer, Vorsehungsglaube und Schicksalsidee in ihrem Verhältnis bei Philo von Alexandria, (Diss.), Würzburg 1939, pp. 54-56, in PR, op. cit., p. 476, n. 57. 192 Cf. Mos. 2.13; Prob. 18, 24 e 39; Prov. 2.28. 193 Cf. lo storico Erodoto (V sec. a. C.), I 5, 32, 207; VII 10.
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imperiale, come dimostra Seneca (Quaest. nat. III 7-9), esortando ad accettare la continua alternanza della sorte che caratterizza la vita umana, e il fatto che il dio eleva gli uni e abbassa gli altri alternativamente e continuamente194. Se dunque Filone, da un lato rifiuta la concezione secondo cui il Demiurgo, divertendosi con un gioco puerile195, fa e disfa costantemente il mondo – conformemente all’interpretazione accademica e peripatetica dell’argomento di Platone sull’impossibile distruzione dell’universo in quanto creazione divina (Tim. 32 c-33 b)196 –, dall’altro ricorre alla figura della Fortuna che gioca con le vicende umane invertendo la situazione da un contrario all’altro197. Questa figura ricorda quella della divina Provvidenza di Platone (Leggi 903 d), secondo cui ciò che spetta «al giocatore di ossicini» (τῷ πεττευτῇ) è precisamente disporre le anime migliori e peggiori nei luoghi appropriati per ottenere il proprio destino. Le reminiscenze dei frammenti 60 e 52 DK di Eraclito, oltre alla parafrasi di Euripide, in Mos. 1.31, mostrano che l’origine di questo tema medioplatonico ripreso da Filone è pre-platonica, e in parte eraclitea.
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Cf. anche Seneca, Agam. 101-102. La dottrina stoica secondo cui Dio (Zeus, Eone) o il Demiurgo distruggerebbe la sua opera per poi ricrearla identica alla precedente, come un bambino quando gioca, è nota a Filone, il quale, però, la critica in Aet. 42, passaggio attribuito ad Aristotele, De phil. fr. 19 c Ross: εἰ δ´ ὅμοιος, ματαιοπόνος ὁ τεχνίτης, οὐδὲν κομιδῇ νηπίων παίδων διαφέρων, οἳ πολλάκις παρ´ αἰγιαλοῖς ἀθύροντες ψάμμου γεωλόφους ἀνιστᾶσι κἄπειθ´ ὑφαιροῦντες ταῖς χερσὶ πάλιν ἐρείπουσι («Se [questo mondo] è simile [al precedente], l’artigiano ha lavorato invano, in modo per nulla differente dai bambini che giocano, i quali spesso si divertono ad elevare montagne di sabbia sulla spiaggia, e poi scavando con le mani le fanno di nuovo crollare»). L’immagine del bambino che si diverte ad ammassare sabbia, per disperderla in seguito, risale a Omero, Il. XV 362 s. Plutarco (De E ap. Delph. 393 E) la utilizza nel criticare la dottrina “conflagrazionista” della divinità che gioca plasmando il mondo per poi distruggerlo, laddove secondo il personaggio di Ammonio (portavoce dell’autore Plutarco), è proprio la divinità che tiene insieme la sostanza del mondo, impedendo alla materia di corrompersi, come farebbe per tendenza naturale. Filone biasima i giochi di bambino, metafora delle realtà terrestri, in opposizione alla serietà delle cose celesti e divine, in Mos. 1.190 o Praem. 134. 196 Cf. J. Mansfeld, Providence and the Destruction of the Universe, in Id., Studies in Later Greek Philosophy and Gnosticism, London 1989, pp. 141 ss., 160. 197 Filone, Legat. 1 oppone la Fortuna alla Natura, biasimando la concezione che ne hanno gli uomini, νομίζοντες τὸ μὲν ἀσταθμητότατον, τὴν τύχην, ἀκλινέστατον, τὸ δὲ παγιώτατον, τὴν φύσιν, ἀβεβαιότατον; ὑπαλλαττόμεθα γὰρ καθάπερ ἐν ταῖς πεττείαις τὰς πράξεις μετατιθέντες, οἰόμενοι τὰ μὲν τυχηρὰ μονιμώτερα εἶναι τῶν φύσει, τὰ δὲ κατὰ φύσιν ἀβεβαιότερα τῶν τυχηρῶν («i quali credono che la cosa più mobile, la Fortuna, sia la più stabile, e che quella più fissa, la Natura, sia la più incostante. Le scambiamo una con l’altra, infatti, come quando rovesciamo i risultati nei giochi di ossicini, pensando che le cose fortuite siano più salde di quelle che avvengono per natura, mentre quelle che si producono secondo natura, più incostanti di quelle fortuite»). 195
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4.1.2. I giochi della sorte Il frammento 60 DK di Eraclito riecheggia, infine, nel passaggio di un altro scritto filoniano appartenente ai trattati esegetici di “Esposizione della Legge”. Si tratta di De Josepho, dedicato alla biografia di Giuseppe: il patriarca considerato il politico per eccellenza e modello di ogni altro. Filone (Ios. 125) presenta l’uomo politico come un interprete di sogni, ovvero degli avvenimenti della vita terrestre degli uomini, le cui visioni ad occhi aperti, fugaci ed evanescenti, sono solo una copia sbiadita della realtà (Ios. 126). L’Alessandrino afferma quindi l’inconsistenza della conoscenza sensibile, che è soggetta ai cambiamenti di ogni cosa, persona o situazione da un opposto all’altro: «spesso, in un sol giorno, grandi ricchezze si sono liquefatte» (μιᾷ ἡμέρᾳ πλοῦτοι μεγάλοι πολλάκι ἀπερρύησαν) (Ios. 131). Secondo Filone, non solo la storia dei singoli individui, ma anche quella di interi popoli testimonia il rovesciamento delle sorti umane nel corso del tempo, dall’alto in basso, e dal basso in alto (Ios. 135136, IV, p. 89 Cohn): Un tempo l’Egitto aveva l’egemonia su molti popoli, ma oggi è asservito. In una certa epoca i Macedoni si sono espansi a tal punto da procurarsi la dominazione di tutta quanta la terra abitata, ma oggi apportano agli esattori di imposte i tributi annuali stabiliti dai loro dominatori. E dov’è la Casa dei Tolemei, e la stella di ciascuno dei Diadochi che ha scintillato fino ai confini della terra e del mare? Dove sono le libertà dei popoli e delle città autonome? E dove sono, al contrario, le servitù dei vassalli? Forse che i Persiani non dominavano i Parti, mentre oggi sono i Parti che dominano i Persiani, per i capovolgimenti delle vicende umane, “i giochi di ossicini” “verso l’alto e verso il basso” e i loro rovesciamenti?198
L’espressione ἄνω καὶ κάτω («alto e basso») richiama implicitamente il frammento eracliteo 60 DK, e πεττείας («giochi di ossicini») è un sostantivo della stessa radice del verbo πεσσεύων che – come ormai sappiamo – è impiegato da Eraclito nel frammento 52 DK. Lo sviluppo in cui è inserito il passaggio 198 Αἴγυπτός ποτε πολλῶν ἐθνῶν ἡγεμονίαν εἶχεν, ἀλλὰ νῦν ἐστι δούλη. Μακεδόνες οὕτως ἐπὶ καιρῶν ἤκμασαν, ὡς ἁπάσης ἀνάψασθαι τῆς οἰκουμένης τὸ κράτος, ἀλλὰ νῦν τοῖς ἐκλογεῦσι τῶν χρημάτων τοὺς ἐπιταχθέντας ὑπὸ τῶν κυρίων δασμοὺς ἐτησίους εἰσφέρουσι. ποῦ δὲ ἡ τῶν Πτολεμαίων οἰκία καὶ ἡ καθ᾽ ἕκαστον τῶν διαδόχων ἐπιφάνεια μέχρι γῆς καὶ θαλάττης περάτων ἐκλάμψασα; ποῦ δ᾽ αἱ τῶν αὐτονόμων ἐθνῶν καὶ πόλεων ἐλευθερίαι; ποῦ δ᾽ ἔμπαλιν αἱ δουλεῖαι τῶν ὑπηκόων; οὐ Πέρσαι μὲν Παρθυαίων ἐπεκράτουν, νυνὶ δὲ Περσῶν Παρθυαῖοι διὰ τὰς τῶν ἀνθρωπείων πραγμάτων στροφὰς καὶ τὰς ἄνω καὶ κάτω πεττείας καὶ μεταθέσεις αὐτῶν; Il passo in questione è assente sia dall’Editio Maior di Eraclito a cura di Marc.-Mond.Tar. (2007), op. cit., Frr. 33 e 93, pp. 495-499 e 717-718, che dai più recenti Heraclitea di Mour., op. cit., II.A.1 (1999), pp. 237-253.
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(Ios. 125 ss.), del resto, è dominato dall’idea dell’instabilità dell’uomo e della realtà umana ed è caratterizzato dalla concezione del «flusso» (ῥεῦμα) di tutte le cose199, cui si aggiunge il motivo del «sogno» (ὄνειρος) in cui gli uomini vivono, credendo invece di esperire la realtà sensibile che li circonda. Con un invito a esaminare noi stessi200, Filone applica il concetto del flusso innanzitutto alle età della vita dell’uomo, che è neonato-bambino-efeboadolescente-giovane-uomo-anziano, perché ciascuno di questi “muore” dando “vita” all’altro. «Il neonato non è scomparso nel bambino, e il bambino nel ragazzo, l’efebo nell’adolescente, l’adolescente nel giovane, poi nell’uomo il giovane, e l’uomo nell’anziano, e la vecchiaia non è seguita dalla fine?» (οὐκ ἐν μὲν παιδὶ τὸ βρέφος ὑπεξῆλθεν, ὁ δὲ παῖς ἐν παρήβῳ, ὁ δ᾽ ἔφηβος ἐν μειρακίῳ, τὸ δὲ μειράκιον ἐν νεανίᾳ, ἐν ἀνδρὶ δ᾽ ὁ νεανίας, ἀνὴρ δ᾽ ἐν γέροντι, γήρᾳ δ᾽ ἕπεται τελευτή;) (Ios. 128). Per Filone, tutte le “morti” subite dall’uomo, vale a dire quelle delle diverse fasi della sua vita, non differiscono dalla morte “definitiva”; eppure questa è la sola che gli uomini temono (Ios. 129). L’argomento filoniano del ciclo delle età umane richiama quello del ciclo di trasformazione degli elementi cosmici che caratterizza il passaggio “eraclitizzante” di Aet. 109201: nei due casi, infatti, si tratta di trasformazioni in circolo secondo fasi ascendenti e discendenti. In Ios. 126-147, tuttavia, Filone applica il tema del flusso all’uomo: a ciò che possiede, come la bellezza, la salute o la forza (Ios. 130), e a quanto può acquisire, cioè la ricchezza o il potere (131-136). Di conseguenza, per Filone l’essere umano brancola nell’oscurità e nell’incertezza, potendo percepire solo le ombre e i fantasmi della realtà: ingannato dalle sensazioni, crede di cogliere la natura delle cose, ma vive come in un sogno, cioè «nel sonno» (ὕπνῳ)202 . E dopo l’allusione ai frammenti 60 e 52 DK di Eraclito (Ios. 136), la conclusione di Filone rimanda all’esito incerto della fortuna: «Così, dunque, le sorti sono imperscrutabili, nell’uno e nell’altro senso» (οὕτως ἄδηλοι μὲν αἱ τύχαι πρὸς ἑκάτερα) (Ios. 140), e al rovesciamento delle umane vicende: «le vicissitudini degli uomini, infatti, vanno da un contrario all’altro» (πρὸς γὰρ τἀναντία τῶν ἀνθρώπων αἱ τροπαί) (Ios. 144). Secondo Filone, l’uomo politico è proprio colui che interpreta i sogni a occhi aperti dell’uomo comune, cioè il sapiente capace di «distinguere» (διακρίνειν) i contrari (Ios. 143) che caratte199 200 201 202
Cf. Ios. 130, 131 e 141. Cf. 22 B 101 DK: «ho indagato me stesso» (ἐδιζησάμην ἐμεωυτόν). Cf. anche Praem. 110; Flacc. 175; Prov. 2.60-61; QE 2.81. Cf. Ios. 126, 130, 134, 140, 142, 143 e 147.
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rizzano la realtà sensibile e la vita corporea, contrapposte alla stabilità del cielo: «Tanto tra noi uomini gli svegli differiscono dai dormienti, così in tutto il cosmo le realtà celesti differiscono da quelle terrestri» (ὅσῳ τε διαφέρουσιν οἱ παρ᾽ ἡμῖν ἐγρηγορότες τῶν κοιμωμένων, τοσούτῳ καὶ ἐν ἅπαντι τῷ κόσμῳ τὰ οὐράνια τῶν ἐπιγείων) (Ios. 147). La critica della conoscenza derivata dai sensi attraverso l’opposizione sveglio-dormiente o sonno-veglia, metafora di ignoranza-intelligenza, è un tema presocratico203 e tipicamente eracliteo204 che Platone applica alla sfera politica (Resp. 520 c-d), auspicando che la città sia governata da uomini desti, e non da dormienti. L’incapacità di vedere e udire degli uomini cui allude Filone, infatti, è la percezione delle cose senza la vera e profonda comprensione della realtà di cui Eraclito si lamenta in più frammenti, a cominciare da quello che è considerato l’incipit del suo libro205. Sebbene Filone non nomini esplicitamente Eraclito, le reminiscenze dei frammenti eraclitei 60 e 52 DK sono dunque inserite in uno sviluppo (Ios. 125-147) che è caratterizzato dal tema della mutevolezza della realtà umana, in cui l’immagine del flusso perpetuo della realtà si salda al motivo delle opposizioni giovane-vecchio e sveglio-dormiente. Sia l’immagine del fiume sia la dottrina dei contrari appartengono alla filosofia di Eraclito, che non si identifica, però, con l’interpretazione filoniana. *
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Da questa ricerca risulta che la «via verso l’alto e verso il basso» ricorre in diversi luoghi del corpus philonicum, sia nei “Saggi filosofici” (Aet. 109), sia nei trattati del “Commentario allegorico” (Somn. 1.156), e risuona negli scritti di “Esposizione della Legge” (Mos. 1.31 e Ios. 136). In nessuno di questi casi, tuttavia, l’Alessandrino menziona esplicitamente Eraclito: solo in Aet. 109 l’at-
203 L’idea del sonno dei sensi è un antico argomento scettico che risale almeno al V secolo a. C., e si ritrova nel filosofo Parmenide (28 B 6 DK), il quale definisce coloro che sono lontani dalla verità κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε («ugualmente sordi e ciechi»), perché hanno ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν («l’occhio che non osserva e l’udito che rimbomba di suoni»). Il motivo compare già nella tragedia di Eschilo, Prom. 447-448: βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον («vedendo vedevano invano e udendo non ascoltavano») e ha un parallelo biblico nel testo greco di Isaia 6:9: ᾿Ακοῇ ἀκούσετε καὶ οὐ μὴ συνῆτε καὶ βλέποντες βλέψετε καὶ ού μὴ ἴδητε («Con l’udito udirete, ma non comprenderete e guardando guarderete, ma non vedrete»), citato nel Vangelo di Matteo 13:13. 204 Cf. 22 B 73, 88 e 89 DK. 205 Cf. 22 B 1, 17, 19 e 72 DK.
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tribuzione si inferisce implicitamente dalla menzione che accompagna la citazione verbatim della prima parte del frammento 36 DK (Aet. 111). E’ dunque evidente che l’intento di Filone non è la spiegazione di Eraclito. In funzione dei propri scopi esegetici e argomenti filosofici, Filone riorganizza in diversi casi e in vari modi il motivo – originariamente eracliteo – della «via verso l’alto verso il basso», che intende e usa come la metafora della trasformazione continua di ogni aspetto della realtà – dagli elementi del mondo alle situazioni umane – nel suo contrario, contro l’immutabilità del divino. Le applicazioni cosmologiche, psicologiche e antropologiche della «via verso l’alto verso il basso» reperite all’interno del corpus philonicum, si iscrivono nell’orizzonte filosofico medio-platonico, di origine pre-platonica, che Filone attribuisce a Mosé. L’Alessandrino usa il detto non solo come un esempio particolare dell’identità dei contrari, ma anche come la sigla e il simbolo del cammino reversibile di conversione reciproca degli opposti che caratterizza la natura del cosmo e la vita dell’uomo. E questo è un altro adattamento – anzi sono diversi adattamenti – di una citazione dotta, che diviene un’espressione comune, ai bisogni della causa filoniana. 5. Excursus. Il flusso e i contrari: tra scetticismo e pitagorismo. L’ultimo degli echi eraclitei che abbiamo scoperto in Filone è inserito nell’ampia sezione del trattato De Josepho (125 ss.) che gli specialisti hanno da tempo etichettato come “scettica”206. Questo sviluppo filoniano potrebbe dipendere da Enesidemo207, fondatore del neo-pirronismo – contemporaneo di
206 Cf. H. von Arnim, Quellenstudien zu Philo von Alexandria, PhU 11, Berlin 1888, cap. II. Anche nelle sezioni “scettiche” di Ebr. 155-205 e Somn. 1.21-24 e 30-34, il tema dell’instabilità degli oggetti percepibili e delle condizioni del soggetto percipiente conduce Filone alla critica della conoscenza umana. 207 Il tentavivo di ristabilire Filone tra le fonti di Enesidemo è stato intrapreso da K. Janáček (Philo von Alexandreia und die Skeptische Tropen, «Eirene» 19 (1982), pp. 83-97; laddove R. Polito (The Sceptical Road: Aenesidemus' Appropriation of Heraclitus, Leiden-Boston 2004, pp. 7-8), sceglie di utilizzare Filone solo quando si accorda con altre fonti, come nel caso dell’implicito resoconto sui tropi, ma non per quanto concerne la dottrina del flusso, assente dalle testimonianze di Sesto Empirico e Tertulliano sull’eraclitismo di Enesidemo; B. Pérez-Jean (Dogmatisme et scepticisme. L’héraclitisme d’Énésidème, Villeneuve d’Ascq 2005, p. 212) ammette soltanto che l’eraclitismo di Filone, soprattutto nella forma del flusso eracliteo, potrebbe avere qualche rapporto con l’interpretazione di Enesidemo. Un minuzioso studio della versione filoniana dei tropi enesidemei è quello di C. Lévy (Deux problèmes doxographiques chez Philon d’Alexandrie: Posidonius et Énésidème, in A. Brancacci (ed.), Philosophy and Doxography in the Imperial Age, Firenze 2005, pp. 85-102). Filone, Ebr. 169 ss., in effetti, testimonierebbe ben nove dei dieci tropoi
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Filone di Larissa, Antioco di Ascalona e Cicerone – e sistematore dei tropi scettici: i “modi” o motivi per cui lo scettico (nel senso di ricercatore tout court) non può dare il proprio assenso alla conoscenza derivante dalle sensazioni. Gli studiosi continuano a chiedersi, infatti, se Filone sia influenzato da Enesidemo, o piuttosto da un pirroniano anteriore, fonte di entrambi, o ancora, dallo scetticismo neo-accademico208, che ha origine nelle istanze scettiche – di matrice eraclitea o comunque presocratica – presenti nella dottrina platonica, come dimostra anche il Commentario Anonimo al Teeteto209. Il problema, d’altronde, è definire il rapporto di Enesidemo con l’Accademia scettica210. I tropi enesidemei della sospensione del giudizio figurano in Ebr. 169205211, che è considerato il maggiore sviluppo “scettico” di Filone (Ebr. 155205): una lunga digressione, di origine dossografica, sull’inconsistenza della conoscenza sensibile e il conseguente relativismo filosofico. Ma già all’inizio del trattato Sull’ebrietà, cioè ben prima di ricorrere ai tropi di Enesidemo, Filone fa riferimento al tema dei contrari, affermando ad esempio che la mancanza di educazione è il male che provoca gli errori dell’anima: «non offre mai a nessuno alcuna fonte di acqua potabile e salutare, ma [una fonte d’acqua] salata e causa di malattie e di morte per coloro che ne berranno» (πότιμον μὲν καὶ σωτήριον οὐδὲν οὐδενὶ νᾶμα ἐκδιδοῦσα τὸ παράπαν, ἁλμυρὸν δὲ νόσου καὶ φθορᾶς τοῖς χρησομένοις αἴτιον) (Ebr. 12). E nel frammento 61 DK Eraclito afferma:
dell’epochê di Enesidemo riportati da Sesto Empirico e Diogene Laerzio, secondo É. Bréhier (19252), op. cit., pp. 210-213; otto sarebbero invece i tropi filoniani secondo A. Russo (ed.), Scettici antichi, Torino 1978, pp. 565 ss.; otto anche secondo C. Lévy (2005), art. cit, p. 95, il quale ricorda che all’epoca di Filone la tropologia poteva non aver ancora raggiunto il grado di perfezione che manifesta nei resoconti di Sesto e Diogene; e che l’Alessandrino, d’altronde, rielabora personalmente i dati dossografici ed esclude ciò che non si accorda con le sue proprie concezioni filosofico-religiose (ivi, p. 87). 208 Cf. U. Burkhard, Die Angebliche Heraklit-Nachfolge des Skeptikers Aenesidem, Bonn 1973, pp. 182-194; C. Lévy, Le “scepticisme” de Philon d’Alexandrie: une influence de la Nouvelle Académie, in A. Caquot, M. Hadas-Lebel, J. Riaud (edd.), Hellenica et Judaica, Hommage à V. Nikiprowetzky, LeuvenParis 1986, pp. 29-41. Il contributo più recente sui rapporti di Filone con lo scetticismo neo-pirroniano e l’Accademia scettica è C. Lévy, La conversion du scepticisme chez Philon d’Alexandrie, in F. Alesse (ed.) (2008), op. cit., pp. 103-121. 209 Cf. P. Berol. 9782, col. LXI e il commento ad loc. di D. Sedley in Corpus dei Papiri filosofici greci e latini (d’ora in avanti: CPF), Testi e lessico nei Papiri in cultura greca, Parte III. Commentari, Firenze 1995, pp. 545-547. 210 Si è occupata della questione F. Decleva Caizzi, Aenesidemus and the Academy, «CQ» 42 (1992), pp. 176-189, cui ha risposto J. Mansfeld, Aenesidemus and the Academics, in L. Ayres (ed.), The passionate Intellect. Essays for Ian Kidd, New Brunswick-London 1995, pp. 235-248. 211 Cf. H. von Arnim (1888), op. cit., pp. 81-82.
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«mare, l’acqua più pura e la più contaminata: per i pesci potabile e salutare, per gli uomini non potabile ed esiziale» (θάλασσα ὕδωρ καθαρώτατον καὶ μιαρώτατον, ἰχθύσι μὲν πότιμον καὶ σωτήριον, ἀνθρώποις δὲ ἄποτον καὶ ὀλέθριον). Che Filone abbia qui in mente il frammento eracliteo, lo suggerisce il fatto che l’Alessandrino ricorre all’esempio dell’acqua dolce (potabile) e dell’acqua salata (non potabile) in QG 3.5 e Her. 208 – come sappiamo –, in cui commenta il sacrificio di Abramo riferendosi esplicitamente alla dottrina dell’identità dei contrari di Eraclito. Ora, Sesto Empirico (Pyrr. Hyp. I 40 ss.) è la fonte principale dei tropi di Enesidemo, il primo dei quali è l’argomento secondo cui le stesse cose sembrano diverse ad animali – cioè esseri animati – diversi, ad esempio «l’acqua del mare è sgradevole e anche tossica per gli umani che la bevono, mentre per i pesci è gradevole e potabile» (τὸ θαλάττιον ὕδωρ ἀνθρώποις μὲν ἀηδές ἐστι πινόμενον καὶ φαρμακῶδες, ἰχθύσι δὲ ἥδιστον καὶ πότιμον) (Pyrr. Hyp. I 55). Il passaggio è stato giustamente considerato una reminiscenza del frammento 61 DK di Eraclito212 , così come l’esempio fornito in seguito da Sesto (Pyrr. Hyp. I 56): «I porci preferiscono bagnarsi nel fango più lurido che in un’acqua chiara e pura» (σύες τε ἥδιον βορβόρῳ λούονται δυσωδεστάτῳ ἢ ὕδατι διειδεῖ καὶ καθαρῷ) è un’allusione al frammento 13 DK: «i porci godono più nel fango che in acqua pura» (ὕες βορβόρωι ἥδονται μᾶλλον ἢ καθαρῶι ὕδατι)213. Con ogni probabilità, il passaggio in cui Sesto espone i dieci tropi è una libera riscrittura di Enesidemo, e precisamente dell’opera intitolata Hypotypôsis, cioè «Schizzo» (di filosofia pirroniana)214: i due Heraclitea di Sesto proverrebbero dunque da Enesidemo. D’altronde, lo stesso Sesto215 impiega spesso l’espressione «Enesidemo secondo [i.e. seguendo] Eraclito» (Αἰνησίδημος κατὰ Ἡράκλειτον) e informa che Enesidemo considerava lo scetticismo una via che
212 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 35 (b), p. 505; Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), p. 153; J.-F. Pradeau (2004 2), op. cit., p. 204. 213 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., p. 507, e p. 508 per le reminiscenze del detto in Filone, Spec. 1.148 e Agr. 144. L’immagine degli uomini-maiali ha avuto una grande fortuna sia tra gli autori pagani sia tra i cristiani, che hanno di volta in volta considerato il fango di Eraclito come il simbolo (negativo) della sporcizia o del peccato. Cf. C. Viano, Héraclite et le plaisir des animaux : relaivisme ou jugement de valeur ?, in B. Cassin-J.-L. Labarrière (éd.), L’animal dans l’Antiquité, sous la dir. de G. Romeyer Dherbey, Paris 1997, pp. 181-206. 214 Cf. V. Brochard, Les Sceptiques grecs, Paris 1959, 20024, pp. 262-263. 215 Cf. Sextus Empiricus, Adv. math. VII 349 ; IX 337; X 216, 233.
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porta alla filosofia eraclitea216. La presenza del doppio frammento di Eraclito in Enesidemo-Sesto induce allora a chiedersi se ciò che i critici moderni chiamano l’“eraclitismo” di Enesidemo sia una ripresa e una rielaborazione del pensiero eracliteo, vale a dire della dottrina dell’unità dei contrari, o anche l’appropriazione, almeno parziale, dei detti eraclitei Sulla natura. Filone, seguendo Enesidemo o una fonte alessandrina prossima a entrambi, allude dunque al frammento 61 DK di Eraclito in Ebr. 12217. Nel seguito del trattato, e proprio all’interno della sezione dossografica contenente i tropi scettici di Enesidemo, Filone dichiara che «solitamente, infatti, le stesse impressioni non toccano ai sani e ai malati, agli svegli e ai dormienti, agli adolescenti e agli anziani» (οὐ γὰρ τὰ αὐτὰ ὑγιαίνουσι καὶ νοσοῦσι προσπίπτειν φιλεῖ, οὐδὲ ἐγρηγορόσι καὶ κοιμωμένοις, οὐδὲ ἡβῶσι καὶ γεγηρακόσι) (Ebr. 179); e questi sono contrari eraclitei218, prima che platonici (Phaed. 71). L’argomentazione “enesidemea” di Filone, Ebr. 155 ss., infatti, è volta a dimostrare che nessuna cosa è conosciuta in sé e per sé, ma solo in relazione al suo contrario, «ad esempio: il piccolo in rapporto al grande, il secco all’umido, il caldo al freddo, il leggero al pesante, il nero al bianco, il debole al forte, i pochi ai molti» [...] (οἷον τὸ μικρὸν παρὰ τὸ μέγα, τὸ ξηρὸν παρὰ τὸ ὑγρόν, παρὰ τὸ ψυχρὸν τὸ θερμόν, παρὰ τὸ βαρὺ τὸ κοῦφον, τὸ μέλαν παρὰ τὸ λευκόν, τὸ ἀσθενὲς παρὰ τὸ ἰσχυρόν, τὰ ὀλίγα παρὰ τὰ πολλά [...]) (Ebr. 186), alcuni dei quali sono contrari eraclitei219. Nella sezione scettica di Ebr. 155 ss., quindi, Filone fa riferimento al tema eracliteo dei contrari in un argomento sulla fallacia delle rappresentazioni, non sull’instabilità delle cose. Il motivo del flusso del mondo sensibile non compare nelle testimonianze di Sesto Empirico e Tertulliano sull’“eraclitismo di Enesidemo”220, ma caratterizza, come si è detto, lo sviluppo di Filone, Ios. 125 216 Cf. Sextus Empiricus, Hyp. Pyrrh. I 210, 6-9. Un contributo recente sull’epistemologia anti-stoica ma “eraclitizzante” di Enesidemo è quello di M. Schofield, « Aenesidemus : Pyrrhonist and ‘Heraclitean’ », dans A.M. Ioppolo-D. Sedley (éd.), Pyrrhonists, Patricians, Platonizers. Hellenistic philosophy in the period 155-86 B.C., Napoli 2007, pp. 269-338. 217 Questa reminiscenza non figura né in Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Frr. 35, pp. 505-506, né negli Heraclitea di Mour., op. cit., II.A.1 (1999), pp. 237-253. 218 Cf. 22 B 88 DK e 111 DK. 219 Cf. supra, l’analisi del catalogo dei contrari in Her. 208 ss. 220 L’unico testo che potrebbe essere utilizzato per dimostrare le influenze del mobilismo eracliteo e della sua interpretazione platonica in Enesidemo è Sesto Empirico, Adv. math. X 37-42, che attribuisce al Neopirroniano la dottrina del doppio movimento di trasformazione e spostamento. Cf. B. Pérez-Jean (2005), op. cit., pp. 249-250. Il passaggio, tuttavia, non menziona Eraclito, né fa riferimento alla dottrina dei contrari.
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ss. Lo “scetticismo mosaico” – se l’espressione ci è concessa – è il rifiuto del “dogmatismo ateo” secondo cui vero è tutto ciò che si presenta ai sensi, dipende da opinioni soggettive e determina l’assentimento e l’azione. Per l’Alessandrino, la verità dimora in Dio e nella sacra Scrittura, e ciò fa di lui un esegeta di Mosé che utilizza una dossografia ragionata con intento apologetico221. Il motivo filosofico degli alti e bassi della Fortuna e del mobilismo delle cose umane è post-aristotelico222 , e i paralleli più prossimi a Filone sono Plutarco e Seneca, che menzionano e citano Eraclito e che collegano il tema del fluire della realtà sensibile a quello del ciclo delle età dell’uomo223. Secondo Plutarco (De E ap. Delph. 392 A-E), ogni natura mortale che si trova tra la generazione e la corruzione non esiste realmente e non può essere conosciuta propriamente, perché la sua sostanza è in continuo divenire: «“Non è possibile, infatti, scendere due volte nello stesso fiume”, secondo Eraclito (B 91 DK), né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato; ma per l’impeto e la rapidità della trasformazione “si disperde e di nuovo si aduna”, anzi, né di nuovo, né in seguito, ma ad un tempo si fa e si disfa, “si avvicina e si allontana”» ("ποταμῷ γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῷ αὐτῷ" καθ᾽ Ἡράκλειτον οὐδὲ θνητῆς οὐσίας δὶς ἅψασθαι κατὰ ἕξιν· ἀλλ᾽ ὀξύτητι καὶ τάχει μεταβολῆς "σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει", μᾶλλον δ᾽ οὐδὲ πάλιν οὐδ᾽ ὕστερον ἀλλ᾽ ἅμα συνίσταται καὶ ἀπολείπει καὶ "πρόσεισι καὶ ἄπεισιν") (De E ap. Delph. 392 B). Plutarco continua diffondendosi sul ciclo della vita umana, e afferma che il seme umano si trasforma in embrione, in neonato, in bambino, in adolescente, in giovane, in uomo e in anziano, perché ogni età “muore rinascendo” in quella successiva. Secondo Plutarco, dunque, non ha senso temere la morte, perché si muore e si rinasce infinite volte nel corso della vita: «Non solo, infatti, come diceva Eraclito, “morte del fuoco nascita dell’aria e morte dell’aria nascita dell’acqua” (B 76 DK), ma è ancor più evidente in noi stessi: l’uomo nel fiore degli anni muore divenendo anziano, il giovane era morto nell’uomo nel fiore degli anni,
221 Cf. D.T. Runia, Philo and Hellenistic Doxography, in F. Alesse (ed.) (2008), op. cit., pp. 13-54, e in J. Mansfeld and Id., Aëtiana, op. cit., vol. III (2009), chap. 11, pp. 271-312, spec. 285-296. 222 A.-J. Festugière (op. cit., vol. II (1949), p. 522 ss.) datava il motivo dell’instabilità delle cose umane e dell’incostanza della Fortuna di IV-III secolo a. C., e lo faceva risalire al Protrettico (fr. 59 Ross) di Aristotele e al Περὶ τύχης di Demetrio Falereo (fr. 39 Jacoby), laddove E.R. Goodenough (Politics of Philo Judaeus: Practice and Theory, New Haven 1938, p. 76) e H.A. Wolfson (19623, op. cit., vol. II, pp. 420 ss.) accostavano il passaggio filoniano a Polibio (XXIX 21), che conosceva Eraclito e la sua opera era nota a Filone (cf. J. Laporte (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 21 (1964), p. 35). 223 Cf. J. Whittaker (1969), art. cit., p. 190 ss.
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il bambino nel giovane, il neonato nel bambino; l’essere umano di ieri è morto in quello di oggi, e quello di oggi muore in quello di domani; nessuno rimane né è uno, ma siamo molti esseri, poiché la materia circola e scivola attorno a un’immagine unica e a un’impronta comune» (οὐ γὰρ μόνον, ὡς Ἡράκλειτος ἔλεγε, "πυρὸς θάνατος ἀέρι γένεσις, καὶ ἀέρος θάνατος ὕδατι γένεσις,"ἀλλ᾽ ἔτι σαφέστερον ἐπ᾽ αὐτῶν ἡμῶν φθείρεται μὲν ὁ ἀκμάζων γινομένου γέροντος, ἐφθάρη δ᾽ ὁ νέος εἰς τὸν ἀκμάζοντα, καὶ ὁ παῖς εἰς τὸν νέον, εἰς δὲ τὸν παῖδα τὸ νήπιον· ὅ τ᾽ ἐχθὲς εἰς τὸν σήμερον τέθνηκεν, ὁ δὲ σήμερον εἰς τὸν αὔριον ἀποθνήσκει· μένει δ᾽ οὐδεὶς οὐδ᾽ ἔστιν εἷς, ἀλλὰ γιγνόμεθα πολλοί, περὶ ἕν τι φάντασμα καὶ κοινὸν ἐκμαγεῖον ὕλης περιελαυνομένης καὶ ὀλισθανούσης) (De E ap. Delph. 392 C-D) 224. Anche secondo Seneca (Epist. 58, 22 s.), tutto ciò che è oggetto della vista e del tatto, vale a dire la realtà sensibile, fluisce trasformandosi continuamente, come dimostra anche e soprattutto la vita dell’essere umano: «Nessuno di noi nella senilità è identico a colui che fu da giovane; nessuno di noi al mattino è identico a quello di ieri. I nostri corpi sono trasportati dalla corrente come le acque dei fiumi. Tutto ciò che vedi corre con il tempo; niente delle cose che vediamo rimane; io stesso, mentre dico che queste cose cambiano, sono già cambiato. È ciò che dice Eraclito: “scendiamo e non scendiamo due volte nello stesso fiume”. Il nome del fiume, infatti, rimane lo stesso, ma l’acqua è scorsa» (Nemo nostrum idem est in senectute qui fuit iuvenis; nemo nostrum est idem mane qui fuit pridie. Corpora nostra rapiuntur fluminum more. Quidquid vides currit cum tempore; nihil ex iis qui videmus manet; ego ipse, dum loquor mutari ista, mutatus sum. Hoc est quod ait Heraclitus: «in idem flumen bis descendimus et non descendimus». Manet enim idem fluminis nomen, acqua transmissa est.) (Epist. 58, 23). Un’altra testimonianza sul testo e la dottrina di Eraclito è data dal commentatore omerico Eraclito (B 49a DK): «Negli stessi fiumi, entriamo e non entriamo, siamo e non siamo» (ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν, εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν), in cui il soggetto alla prima persona plurale tradisce un’interpretazione platonizzante del detto eracliteo: noi, gli esseri umani, siamo e non siamo allo stesso tempo negli stessi fiumi, siamo e non siamo gli stessi individui nel corso del tempo, perché moriamo e rinasciamo passando da un’età all’altra. Aggiungendo a tali passi altre testimonianze sulla fluidità del
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Cf. anche Plutarco, Quaest. Nat. 912 A e De sera 559 C.
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mondo sensibile225 e sul ciclo delle età della vita226, gli specialisti hanno concluso che il tema del mutamento continuo della realtà terrestre e corporea fosse un complesso di concetti medioplatonico, e precisamente neopitagorico, elaborato probabilmente dal filosofo Eudoro nell’Alessandria di I secolo a. C227. Tuttavia, bisogna rendere a Eraclito, se non tutto ciò che le fonti antiche gli attribuiscono, ciò che gli appartiene verosimilmente. Ora, l’argomento di Filone sulla mobilità delle cose umane contro la stabilità del divino (Ios. 136), e tutti gli altri contesti filoniani che contengono gli impliciti riferimenti alla parola di Eraclito (Aet. 109; Somn. 1.154; Mos. 1.31), testimoniano la rielaborazione giudeo-alessandrina di testi, immagini e temi eraclitei attorno a una sola idea portante: l’alternarsi dei contrari nella vita e morte cosmica in cui si iscrive anche quella di ogni essere umano. Platone (Crat. 402 a) e Aristotele (Met. 1010 a 12) sono i primi a riferire che Eraclito paragonava le cose che sono al fluire delle acque, dicendo che non è possibile scendere due volte nello stesso fiume228; e i filosofi medioplatonici non ignorano la lettura platonica di Eraclito – secondo cui il fiume è la metafora del flusso della realtà sensibile, contrapposta al mondo intelligibile delle Forme, eterne e immutabili –, né il dibattito ellenistico tra nuova Accademia, scuola epicurea e ambienti medici intorno al concetto di materia fluida229. Tuttavia, se da un lato 225 Oltre a Cicerone, Acad. I 30, 4-31, 7, secondo cui gli Accademici ritenevano reali solo gli enti di ragione, le Idee o Forme delle cose, quia continenter laberentur et fluerent omnia («perché tutte le cose scivolavano e fluivano continuamente»); si veda anche Ovidio, Metam. XV, 165 ss.: omnia mutantur, nihil interit («Tutto cambia, nulla permane»); 179-180: ipsa quoque adsiduo labuntur tempora motu, non secus ac flumen («il tempo stesso scivola con un movimento continuo, non diversamente da un fiume»); 199200: Quid? Non in species succedere quattuor annum adspicis, aetatis peragentem imitamina nostrae? («Cosa? Non vedi che l’anno trascorre successivamente in quattro forme [i.e. stagioni], compiendo imitazioni della nostra età [i.e. vita]»). 226 Cf. Massimo di Tiro, Dialexeis X 5 c: πᾶν γὰρ σῶμα ῥεῖ, καὶ φέρεται ὀξέως, Εὐρίπου δίκην, ἄνω καὶ κάτω, νῦν μὲν ἐκ νηπιότητος εἰς ἥβην οἰδαῖνον· νῦν δὲ ἐξ ἥβης εἰς γῆρας ὑπονοστοῦν καὶ ὑποφερόμενον («ogni corpo, infatti, scorre ed è trasportato precipitosamente, come nell’Euripo, verso l’alto e verso il basso, ora crescendo, dall’infanzia alla giovinezza, ora decadendo e declinando dalla giovinezza alla vecchiaia»), con riferimento a Platone, Phaed. 90 c; Phil. 43 a. 227 Cf. W. Theiler, Philo von Alexandria und der Beginn des kaiserzeitlichen Platonismus, in K. Flasch (ed.), Parusia (Festschrift J. Hirschberger), Frankfurt 1965, pp. 199 ss. Un contributo recente su Filone e il medioplatonismo pitagorico è quello di Mauro Bonazzi (2008), art. cit., pp. 233-252. 228 Cf. anche Platone, Crat. 401 d, 411 b, 439 c; Theaet. 156 a, 160 d; Soph. 249 b; Phaed. 90 b; Phileb. 43 a; Aristotele, Met. 987 a 32, 1012 b 26, 1078 b 13; Top. 104 b 21; Phys. 228 a 8, 253 b 9, 265 a 2; De an. 405 a 28; De caelo 298 b 29; e i neoplatonici Simplicio, In phys. 77, 30, 1313, 8 Diels; Olimpiodoro, In cat. 4, 31 Stüve, e Filopono, In cat. 2, 7 Busse; Marsilio Ficino, De immort. an. XI 6. 229 Cf. F. Decleva Caizzi (1988), art. cit., pp. 425-470.
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Platone, gli Accademici scettici e i Platonici pitagorizzanti fanno scorrere tutte le cose sensibili, dall’altro lo stesso Eraclito ha riflettuto sulla trasformazione di ogni cosa nel suo contrario, ma anche sul cambiamento dell’essere umano che mantiene lo stesso nome, cioè la stessa identità personale, divenendo sempre un altro, perché muore e rinasce nel suo opposto: il bambino nell’uomo, il giovane nell’anziano230. Il pensiero eracliteo espresso nei cosiddetti “frammenti del fiume” non sarebbe dunque solo ontologico e logico, ma anche psicologico e antropologico231. Per Eraclito, sia i fiumi sia gli uomini sono sempre unici e sempre diversi. I paralleli di Plutarco, Seneca e l’allegorista omerico, che menzionano e citano Eraclito, permettono di ipotizzare che la dottrina del ciclo della “vita” e della “morte” dell’uomo nelle fasi ascendenti e discendenti della sua esistenza, dottrina già nota ad Aristotele232 , di nuovo in auge agli inizi dell’epoca medioplatonica, e utilizzata da Filone in prospettiva giudaica, risalga almeno in certa misura e in certo senso all’originario pensiero eracliteo. Per poter precisare quanto della dottrina di Eraclito sia contenuto nelle fonti post-platoniche, e che cosa queste abbiano fatto di quella, occorre studiare le altre testimonianze sulla “via verso l’alto verso il basso” di Eraclito. 6. La storia del detto eracliteo 6.1. Diogene Laerzio: le trasformazioni elementari Prima di Filone, l’espressione ὁδὸς ἄνω κάτω, μία («via verso l’alto verso il basso, una sola») ricorre in un trattato medico, di epoca classica o ellenistica, appartenente al Corpus Hippocraticum (De nutr. 45), ed è considerata un’imi-
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Cf. 22 B 74 e 88 DK. Cf. A. Capizzi, Il fiume eracliteo secondo Seneca, «QUCC» 64 (1990), pp. 71-76. 232 Secondo Aristotele, De caelo 279 b 12-17 (= 22 A 10 DK), Eraclito ed Empedocle avrebbero condiviso la dottrina secondo cui il mondo è generato, ma ad un tempo eterno e corruttibile, perché alternativamente ora in uno di questi due stati, ora nell’altro. Per spiegare in che modo il mondo possa essere costituito e dissolto a fasi alterne, Aristotele (De caelo 280 a 11 ss.) ricorre a un paragone significativo: come l’uomo nato dal bambino e il bambino dall’uomo, così ogni stato del mondo si sostituisce a quello contrario: allora non è il mondo a nascere e perire, ma i suoi stati. Secondo Aristotele, per Eraclito ed Empedocle la vita del mondo, così come quella dell’uomo, è il tutto o ciclo eterno composto di parti o fasi corruttibili. Cf. Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 170, pp. 129-130. 231
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tazione di Eraclito (C 2 DK)233. Platone allude agli antichi sapienti – ivi incluso Eraclito234 – che si sono espressi sul movimento del reale in Filebo 43 a: «come dicono i saggi, tutte le cose, infatti, scorrono sempre verso l’alto e verso il basso» (ὡς οἱ σοφοί φασιν· ἀεὶ γὰρ ἅπαντα ἄνω τε καὶ κάτω ῥεῖ)235. Nei dialoghi platonici, ἄνω è spesso associato e opposto a κάτω nella locuzione «in ogni senso / in tutti i sensi», come in Fedone 90 c: «ma tutti gli esseri vanno e vengono verso l’alto e verso il basso proprio come nell’Euripo [i.e. lo stretto in cui sono trascinati dalla corrente dei flussi e riflussi] e non restano mai nello stesso stato» (ἀλλὰ πάντα τὰ ὄντα ἀτεχνῶς ὥσπερ ἐν Εὐρίπῳ ἄνω κάτω στρέφεται καὶ χρόνον οὐδένα ἐν οὐδενὶ μένει). L’espressione ἄνω κάτω indica innanzitutto il movimento delle masse cosmiche verso l’alto e verso il basso, come in Timeo 58 b: «tutte le cose sono trasportate verso l’alto e verso il basso secondo il luogo che gli è proprio» (πάντ’ ἄνω κάτω μεταφέρεται πρὸς τοὺς ἑαυτῶν τόπους)236. Ma questo movimento interessa anche l’anima umana: in Gorgia 493 a, Socrate dice di aver sentito da sapienti che il corpo è per l’uomo una tomba «e che quella parte dell’anima in cui risiedono le passioni si trova ad essere influenza-
233 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit. Fr. 33 (c), sia da Mour., op. cit., F 60. Il Corpus Hippocraticum è una vasta ed eterogenea collezione che conta una sessantina di trattati sull’antica medicina, attribuiti al medico Ippocrate di Cos (V-IV sec. a. C.), ma composti anche da anonimi autori posteriori, medici e filosofi eclettici (V sec. a. C.-I sec. d. C.) che dipendono in qualche modo dalla scuola ippocratica. Sull’alimento (περὶ τροφῆς) è una breve raccolta di aforismi, databile dell’epoca classico-ellenistica (IV-II sec. a. C.?) e caratterizzata dall’influenza dello stile di Eraclito e dall’idea (anche eraclitea) della relatività. Un altro scritto pseudo-ippocratico influenzato dall’eraclitismo è Sulla dieta (περὶ διαίτης), un trattato di epoca classica (400 a. C.?) dedicato allo studio scientifico dell’alimentazione in rapporto alla salute dell’uomo. Il primo libro, in particolare, tratta della dottrina degli elementi (fuoco e acqua) e dei rispettivi attributi (caldo e secco, freddo e umido) dalle cui dinamiche dipende la vita del cosmo e dell’uomo. Cf. De victu I 5: χωρεῖ δὲ πάντα καὶ θεῖα καὶ ἀνθρώπινα ἄνω καὶ κάτω ἀμειβόμενα («tutte le cose sia divine sia umane scorrono, scambiandosi, verso l’alto e verso il basso»). Sull’influenza dello stile enigmatico e antitetico di Eraclito, o della sua dottrina dell’identità dei contrari, in più trattati del Corpus Hippocraticum, cf. Marc.Mond.-Tar. (2007), op. cit., pp. 220 ss., in cui sono segnalate vaghe reminiscenze del frammento eracliteo 60 DK anche in De nutr. 18; De victu I 7, 16, 18; De morbo sacro 7; Epid. V 9. 234 Cf. Platone, Theaet. 152 e; Crat. 402 a-c. 235 Cf. Diogène Laërce, Vies et doctrines des philosophes illustres, trad. française sous la direction de M.-O. Goulet-Cazé, Intr., trad., et notes de J.-F. Balaudé, L. Brisson, J. Brunschwig, T. Dorandi, M.-O. Goulet-Cazé, R. Goulet et M. Narcy, Paris 1999, p. 1053, n. 7. 236 Cf. Lexique de la langue philosophique et religieuse de Platon, par É. des Places, dans Platon, Œuvres complètes, t. XIV, Ière partie (A-Λ), Paris 1970, p. 55.
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PARTE SECONDA. L’ANIMA
ta e a muoversi verso l’alto verso il basso» (τῆς δὲ ψυχῆς τοῦτο ἐν ᾧ ἐπιθυμίαι εἰσὶ τυγχάνει ὂν οἷον ἀναπείθεσθαι καὶ μεταπίπτειν ἄνω κάτω)237. Un passo in cui Platone si riferisce implicitamente alla dottrina – già anassimenea238 – di Eraclito sulla trasformazione degli elementi materiali gli uni negli altri è Timeo 49: «ora, ciò che abbiamo appena chiamato acqua, quando pare solidificarsi, la vediamo divenire pietre e terra, quando invece si dissolve e si disperde, questa stessa cosa diviene soffio e aria; l’aria, infiammata, si trasforma in fuoco e il fuoco viceversa, addensato e spento, riprende di nuovo la forma dell’aria, l’aria, a sua volta, condensandosi e comprimendosi diviene nuvola e nebbia, e quando questi sono ancora più pressati, diviene acqua che cade [i.e. pioggia], poi l’acqua si trasforma di nuovo in terra e pietre: è così che [gli elementi] si danno la nascita gli uni agli altri in circolo, a quanto sembra» (ὃ δὴ νῦν ὕδωρ ὠνομάκαμεν, πηγνύμενον ὡς δοκοῦμεν λίθους καὶ γῆν γιγνόμενον ὁρῶμεν, τηκόμενον δὲ καὶ διακρινόμενον αὖ ταὐτὸν τοῦτο πνεῦμα καὶ ἀέρα, συγκαυθέντα δὲ ἀέρα πῦρ, ἀνάπαλιν δὲ συγκριθὲν καὶ κατασβεσθὲν εἰς ἰδέαν τε ἀπιὸν αὖθις ἀέρος πῦρ, καὶ πάλιν ἀέρα συνιόντα καὶ πυκνούμενον νέφος καὶ ὁμίχλην, ἐκ δὲ τούτων ἔτι μᾶλλον συμπιλουμένων ῥέον ὕδωρ, ἐξ ὕδατος δὲ γῆν καὶ λίθους αὖθις, κύκλον τε οὕτω διαδιδόντα εἰς ἄλληλα, ὡς φαίνεται, τὴν γένεσιν) (Tim. 49 b-c)239. E ancora, in Timeo 57 b leggiamo: «dal fuoco nasce l’aria, dall’aria l’acqua» (γίγνεταί τε ἐκ πυρὸς ἀήρ, ἐξ ἀέρος ὕδωρ)240. Platone sembra alludere discretamente a Eraclito, di cui contesta il metodo empirico basato sull’esperienza sensibile – contro la spiegazione scientifica fondata su conoscenze matematiche –, non la concezione delle trasformazioni degli elementi l’uno nell’altro.
237 La via all’insù e all’ingiù di Eraclito diviene, inoltre, ascensione verso l’alto e discesa verso il basso nel mito platonico della caverna in Repubblica 515 ss. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Intr., p. CLII. 238 Cf. 13 A 5-9 DK. 239 Il passo è assente dalle due maggiori edizioni di testimonianze su Eraclito. Detto questo, M. Marcovich (cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., p. 577) lo segnalava in una lista complementare di paralleli, e S.N. Mouraviev lo includerà – ci auguriamo – in un volume a venire (Heraclitea II. B, R (Philo): Allusions et imitations). Aristotele (Probl. 394 b 33-36), dal canto suo, dirà che per «certi Eraclitizzanti» (τινὲς τῶν ἡρακλειτιζόντων) l’acqua si trasforma in pietre e terra, proprio come nel passaggio platonico, che fa dunque riferimento alla dottrina eraclitea. 240 Cf. A.E. Taylor, A Commentary on Plato’s Timaeus, Oxford 1928, p. 315.
I. IL CICLO DELL’ANIMA
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Tra gli antichi Accademici241, Aristotele, vero e proprio teorico del movimento degli elementi verso i loro luoghi naturali, testimonia un aspetto fondamentale della dottrina eraclitea delle trasformazioni elementari. A proposito dell’odore, Aristotele (De sens. 443 a 21-29) stabilisce la differenza tra vapore (umido) ed esalazione (fumosa), citando Eraclito (7 DK)242 e alludendo implicitamente alla sua teoria delle esalazioni, marine e terrestri, che nutrono il sole e gli astri243. Inoltre – come sappiamo – Aristotele, De anima 405 a 25 (= 22 A 15 DK), informa che Eraclito dice che l’anima è il principio, se davvero è l’«esalazione» (ἀναθυμίασις) di cui le altre cose si costituiscono244, perché permette la trasformazione di terra e acqua in aria e fuoco, e viceversa. Altrove, Aristotele espone la teoria dei cambiamenti di stato dell’unica sostanza materiale245, il fuoco che diviene tutte le cose tramite processi di rarefazione o condensazione, 241 Che nell’antica Accademia fosse in vigore un’interpretazione delle dottrine cosmogoniche e psicogoniche dei Presocratici secondo categorie bipolari come alto e basso, è suggerito dalla testimonianza plutarchea (161 Isnardi) sulla dottrina di Senocrate. Senza menzionare esplicitamente Eraclito, né alcun altro Presocratico, Senocrate (ap. Plutarco, De facie 943 E) presenta un quadro cosmologico in cui compaiono sia i moti verso l’alto e verso il basso degli elementi, sia le loro trasformazioni in ciò che è più rarefatto o più denso. Non è dunque da escludere che già in seno all’Accademia antica fosse in atto una certa interpretazione delle dottrine dei Presocratici prossima a quella della contemporanea dossografia di Aristotele, il vero e proprio iniziatore della collezione e catalogazione sistematica delle opinioni fisiche e psicologiche degli Antichi. Per questa ragione, M. Isnardi Parente (Senocrate-Ermodoro, Frammenti, M. I. P. (ed.), Napoli 1982, p. 378) avanza l’ipotesi che «anche a Senocrate […] possano riferirsi le osservazioni di Aristotele, De caelo 303 b 19 ss., su quanti pongono a base dell’universo il puknoteron e il manoteron». 242 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 78 (a), p. 291; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 191, pp. 144-145. 243 In un passo dei Meteor. (354 b 23-355 a 21) in cui è citato un altro frammento eracliteo, Aristotele, in virtù della sua cosmologia – secondo cui la terra è circondata dalla sfera dell’acqua, che a sua volta è circondata da quella dell’aria e questa dalla sfera detta “del fuoco” –, nonché della sua opinione sulla natura e la sussistenza del sole, dimostra perché sono ridicoli tutti i suoi predecessori secondo cui il sole si nutre dell’umido, poiché, se così fosse, καὶ ὁ ἥλιος οὐ μόνον καθάπερ Ἡράκλειτός φησιν, νέος ἐφ´ ἡμέρῃ ἐστίν, ἀλλ´ ἀεὶ νέος συνεχῶς («anche “il sole” non solo, come dice Eraclito “è nuovo ogni giorno” (22 B 6 DK), ma sarebbe sempre nuovo continuamente»). Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 58 (a), pp. 219-220; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 190, pp. 142-143. Tale polemica sarà ripresa dalla critica di Plotino alla teoria stoica dello scambio di materia tra la terra e il cielo del Trattato 40 [Enn. II 1], 2, 11-12, Sul cielo, in cui si ritrova un’allusione allo stesso frammento 6 DK di Eraclito. 244 Cf. M. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 66 (f1), p. 629; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 189, p. 141. 245 Cf. Aristotele, De caelo 298 b 29-33, in cui lo Stagirita fa riferimento a Eraclito e a quanti dicono che tutto diviene e scorre, che non c’è niente di stabile e che una sola cosa rimane, ἐξ οὗ ταῦτα πάντα μετασχηματίζεσθαι πέφυκεν («a partire dalla quale tutte le cose sono naturalmente generate per metamorfosi»); Phys. 204 b 22- 205 a 9 e Met. 1066 b 34-1067 a 10, in cui Aristotele informa che, per Eraclito, tutto un giorno diviene fuoco e che πᾶν γὰρ μεταβάλλει ἐξ ἐναντίου («tutto si trasforma da un contrario
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PARTE SECONDA. L’ANIMA
e nella sua meteorologia sublunare, a proposito del ciclo dell’acqua, ricorre a un’immagine eraclitea dicendo che l’esalazione vaporosa è «come un fiume che scorre in ciclo verso l’alto e verso il basso» (ὥσπερ ποταμὸν ῥέοντα κύκλῳ ἄνω καὶ κάτω) (Meteor. 347 a 2-3)246. Se Teofrasto sistema il materiale aristotelico nell’Epitome delle opinioni fisiche, attribuendo a Eraclito la teoria delle trasformazioni del fuoco, gli Stoici, dal canto loro, esaminano in dettaglio e valorizzano i passaggi del ciclo cosmico eracliteo, di cui si appropriano, mutatis mutandis. Secondo la dottrina stoica, infatti, Dio è un fuoco artista o artigiano che procede «con metodo» (ὁδῷ), cioè secondo un cammino progressivo e sistematico, alla produzione del mondo (Aezio I 7, 33 = SVF II 1027), e «il cosmo nasce quando la sostanza, a partire dal fuoco, attraverso l’aria muta in umidità, e in seguito la sua parte più densa, una volta condensata, diviene terra, mentre la sua parte fina si rarefa, e questa, divenuta sempre più fina, genera il fuoco» (γίνεσθαι δὲ τὸν κόσμον ὅταν ἐκ πυρὸς ἡ οὐσία τραπῇ δι´ ἀέρος εἰς ὑγρότητα, εἶτα τὸ παχυμερὲς αὐτοῦ συστὰν ἀποτελεσθῇ γῆ, τὸ δὲ λεπτομερὲς ἐξαραιωθῇ, καὶ τοῦτ´ ἐπὶ πλέον λεπτυνθὲν πῦρ ἀπογεννήσῃ)247. Che gli Stoici abbiano anche professato una teoria delle esalazioni come evaporazioni delle acque, lo testimonia Cleante citando il frammento eracliteo B 12 – che abbiamo già evocato –, e lo conferma Cicerone nel trattato De natura deorum (II 26-27), in cui lo stoico Balbo esprime la concezione della nu-
all’altro»), per esempio dal caldo al freddo. Cf. Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 154, T 182, pp. 115-116, 136-137. 246 Il passo non compare nell’edizione delle fonti di Mour., op. cit., II.A.1 (1999), pp. 100 ss., bensì nel volume dedicato alle dottrine attribuite a Eraclito III.2 (2008), D 88, p. 42. 247 Diogene Laerzio (VII 142 = SVF I 102). Cf. anche Diogene Laerzio VII 155: Ἀρέσκει δ´ αὐτοῖς καὶ τὴν διακόσμησιν ὧδε ἔχειν· μέσην τὴν γῆν κέντρου λόγον ἐπέχουσαν, μεθ´ ἣν τὸ ὕδωρ σφαιροειδές, ἔχον τὸ αὐτὸ κέντρον τῇ γῇ, ὥστε τὴν γῆν ἐν ὕδατι εἶναι· μετὰ τὸ ὕδωρ δ´ ἀέρα ἐσφαιρωμένον («Anche l’ordinamento cosmico è secondo loro [scil. gli Stoici] il seguente: in mezzo è la terra, che ha il ruolo di centro, dopo di essa viene l’acqua dalla forma sferica, concentrica rispetto alla terra, cosicché la terra è contenuta nell’acqua; dopo l’acqua viene la sfera dell’aria»); e VII 137: εἶναι δὲ τὸ μὲν πῦρ τὸ θερμόν, τὸ δ´ ὕδωρ τὸ ὑγρόν, τόν τ´ ἀέρα τὸ ψυχρὸν, καὶ τὴν γῆν τὸ ξηρόν [...] ἀνωτάτω μὲν οὖν εἶναι τὸ πῦρ, ὃ δὴ αἰθέρα καλεῖσθαι, ἐν ᾧ πρώτην τὴν τῶν ἀπλανῶν σφαῖραν γεννᾶσθαι, εἶτα τὴν τῶν πλανωμένων· μεθ´ ἣν τὸν ἀέρα, εἶτα τὸ ὕδωρ, ὑποστάθμην δὲ πάντων τὴν γῆν, μέσην ἁπάντων οὖσαν («Il fuoco è il caldo, l’acqua è l’umido, l’aria il freddo e la terra il secco. [...] Nel luogo più in alto si trova dunque il fuoco che è chiamato etere, nel quale si forma dapprima la sfera delle stelle fisse, poi quella dei pianeti; dopodiché viene l’aria, poi l’acqua, e infine la terra, che è sedimento di tutte le cose, essendo al centro di tutte le cose»).
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trizione degli astri dal vapore che si leva dalle distese d’acqua248, che risale in ultima istanza a Eraclito249. Nello stesso trattato, infatti, Cicerone riporta la teoria presocratica di origine ionica, e dunque eraclitea250, delle trasformazioni degli elementi, dal fuoco etereo alla terra e viceversa (De nat. deor. II 84): «E poiché i generi [cioè gli elementi: terra, acqua, aria, fuoco] dei corpi sono quattro, la natura del mondo è continua in virtù della loro alternanza. In effetti, l’acqua nasce dalla terra, l’aria dall’acqua, l’etere dall’aria, poi inversamente di volta in volta dall’etere l’aria, poi l’acqua, dall’acqua la terra che è la più in basso. Così, in virtù delle nature dalle quali ogni cosa si costituisce, che vanno e vengono “verso l’alto e verso il basso”, da una parte e dall’altra, si mantiene la congiunzione delle parti del mondo» (Et cum quattuor genera sint corporum, vicissitudine eorum mundi continuata natura est. Nam ex terra aqua, ex aqua oritur aër, ex aëre aether, deinde retrorsum vicissim ex aethere aër, inde aqua, ex aqua terra infima. Sic naturis iis ex quibus omnia constant sursus deorsus, ultro citro commeantibus mundi partium coniunctio continetur)251. La dottrina delle trasmutazioni reciproche degli elementi, da fuoco ad aria ad acqua a terra e viceversa, tuttavia, non è appannaggio esclusivamente stoico, ma anche epicureo, poiché ricorre nel De rerum natura di Lucrezio252 , che cri-
248 Cf. Cicerone, De nat. deor. II 40 (II 118), esaminato nell’articolo sull’implicita polemica di Lucrezio contro lo stoicismo platonizzante di I secolo a. C. di C. Lévy, Lucrèce et les Stoïciens, in Présence de Lucrèce. Actes du Colloque tenu à Tours (3-5 décembre 1998), textes réunis et présentés par R. Poignault, Centre de Recherches A. Piganiol, Collection Caesarodunum XXXII bis, Tours 1999, p. 92. 249 Cf. pseudo-Plutarco, Plac. phil. 889 D (= SVF II 690): Ἡράκλειτος καὶ οἱ Στωικοὶ τρέφεσθαι τοὺς ἀστέρας ἐκ τῆς ἐπιγείου ἀναθυμιάσεως («Eraclito e gli Stoici condividono l’opinione secondo la quale gli astri si alimentano dell’esalazione terrestre»). Cf. Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 275, p. 199; II.A.2 (2000), p. 344. Sulle esalazioni terrestri come nutrimento degli astri, cf. SVF I 501, 504, II 579, 593, 650, 652, 655-656, 658-659, 661-664, 672, 677, 690, 1145-1146, 1149; Cicerone, De nat. deor. II 43 e 83; Seneca, Quaest. nat. II 5, 1-2; Cornuto, Comp. theol. Gr. 17. Filone fa allusione alla teoria eracliteo-stoica delle esalazioni terrestri e marine in Prov. 2.61 ss. e 2.110; Somn. 1.144; Mos. 2.205 e QG 3.15. 250 Eraclito eredita l’ipotesi ciclica dalla scienza naturale dei suoi predecessori e compatrioti milesii. Cf. J.-F. Pradeau (2004 2), op. cit., pp. 58-59, n. 1, il quale fa anche notare che l’ipotesi secondo la quale gli astri e il sole sono costituiti da evaporazioni si trova già in Senofane di Colofone (VI sec. a. C.), come mostrano le testimonianze 21 A 38-46 DK. In effetti, la teoria della rarefazione e condensazione di un unico elemento materiale, da cui tutte le cose avrebbero origine, è propria anche di Talete, Anassimandro e soprattutto di Anassimene di Mileto (13 A 5-9 DK), oltre che di Ippaso di Metaponto (18 A 7 DK). 251 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33 (d1), p. 496. Un simile passaggio si ritrova in Cicerone, De nat. deor. III 31; cf. anche Plinio, Nat. Hist. II 104. 252 Lucrezio, De rer. nat. I 782 ss.: primum faciunt ignem se vertere in auras aëris, hinc imbrem gigni terramque creari ex imbri retroque a terra cuncta reverti, umorem primum, post aëra, deinde calorem («il fuoco si muta dapprima nelle brezze dell’aria, poi si genera l’acqua e dall’acqua si forma la terra; e a ritroso,
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tica le dottrine fisiche dei Presocratici, tra cui Eraclito, dicendo che Empedocle e gli altri hanno fatto derivare tutto dal cielo e dai suoi fuochi. La stessa dottrina si ritrova nel De universi natura attribuito a Ocello Lucano253, uno scritto pseudo-pitagorico sull’incorruttibilità del mondo, che Filone (Aet. 12) dice di aver letto e che collega alla tradizione aristotelica. E se già gli Stoici antichi sostenevano l’affinità dell’anima con il processo dell’esalazione254 e la natura degli astri celesti255 – opinione che Macrobio fa risalire al “fisico” Eraclito (A 15 DK) – Cicerone esplicita la relazione che esiste tra la materialità e l’immortalità dell’anima. In Tusculanae Disputationes I 42-43, l’Arpinate afferma che, se l’anima è uno dei quattro elementi, allora si costituisce di soffio infiammato256, come ha ipotizzato Panezio. Gli elementi di cui è costituita, infatti – aria e fuoco –, sono attivi e pneumatici, cioè tendono sempre verso l’alto257, e le permettono di attraversare le esalazioni umide e pesanti che si accumulano sulla
dalla terra si riproducono tutti quanti, dapprima il liquido, poi l’aria, infine il calore, e non cessano di trasformarsi in tal modo, di viaggiare dal cielo alla terra e dalla terra agli astri del firmamento»). 253 Pseudo-Ocello, De univ. nat. I 12-13: πῦρ μὲν γὰρ εἰς ἓν συνερχόμενον ἀέρα ἀπογεννᾶ ἀὴρ δὲ ὕδωρ ὕδωρ δὲ γῆν, ἀπὸ δὲ γῆς πάλιν ἡ αὐτὴ περίοδος τῆς μεταβολῆς μέχρι πυρὸς ὅθεν ἤρξατο μεταβάλλειν («il fuoco, infatti, raccogliendosi in uno genera l’aria, l’aria a sua volta l’acqua e l’acqua la terra; e a partire dalla terra di nuovo lo stesso ciclo periodico di trasformazione va fino al fuoco, da dove il processo di trasformazione era cominciato»). Cf. Ocellus Lucanus, hrsg. von R. Harder, NPhU 1, Berlin 1926, vol. I, pp. 11-25. 254 Secondo una testimonianza riportata da Galeno (De Hippocratis et Platonis Placita, II 8, SVF II Diog. B. n. 30), lo stoico Diogene di Babilonia (posteriore di una generazione a Crisippo) avrebbe detto che l’anima (o pneuma psichico), causa dei moti volontari, è «esalazione» dal nutrimento. 255 Cf. Zenone in Stobeo, I 25, 213, 15 Wachsmuth (= SVF I 120), a proposito del quale si veda C. Lévy (1999), art. cit., p. 93. 256 La concezione e definizione di anima come soffio caldo-rovente è già vetero-stoica, cf. Diogene Laerzio, VII 157. Sulla teoria aristotelica secondo cui il movimento naturale del fuoco è verso l’alto e quello della terra, verso il basso, cf. Aristotele, Phys. 230 b 10. Sulla concezione stoica dei due elementi attivi (fuoco e aria), sostanze pneumatiche senza peso che si sostengono e che sostengono gli elementi passivi e materiali (terra e acqua), cf. SVF I 99; II 406, 418, 439, 444, 841. L’origine dei concetti stoici di τόνος («tensione») e τονικὴ κίνησις («movimento tensionale»), d’altronde, è la παλίντονος [o παλίντροπος] ἁρμονίη («congiunzione retroversa», cioè tesa da un estremo all’altro) dell’arco e della lira del frammento 22 B 51 DK di Eraclito. Cf. A.A. Long (1996), art. cit., pp. 52-53. Come afferma M.J. Verdenius, Heraclitus’ Conception of Fire, in J. Mansfeld and L.M. Rijk (edd.) (1975), op. cit., p. 4, per Eraclito la continua tensione tra gli opposti è una forma di vita eterna. 257 Per Filone, il movimento κατὰ φύσιν («secondo natura») (Aet. 30) degli elementi leggeri φύσει («per natura») (Aet. 115), cioè l’aria e il fuoco, è verso l’alto. Cf. il riferimento di Filone, Cont. 3, a coloro che hanno chiamato Ἥραν δὲ τὸν ἀέρα παρὰ τὸ αἴρεσθαι καὶ μετεωρίζεσθαι πρὸς ὕψος («l’aria Era, in virtù dell’azione di sollevarsi ed elevarsi nelle altezze dell’aria»).
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superficie delle terra e di volare verso la parte più pura del cielo258. Il passo mostra come il mediostoicismo, influenzato dal pitagorismo che rinasce a Roma e ad Alessandria nel I secolo a. C., adotta e adatta la fisica presocratica alla sua cosmologia e psicologia259. Questa è in breve la storia dell’antica concezione filosofica secondo cui gli elementi materiali si trasformano gli uni negli altri secondo un percorso ascendente e discendente. Tuttavia, il sintagma «via verso l’alto verso il basso» (60 DK) è attribuito a Eraclito solo nell’estratto bio-dossografico (22 A 1 DK) delle Vite e dottrine dei filosofi illustri di Diogene Laerzio (IX 8-9, II, pp. 440442 Long): Ed ecco ora in dettaglio quali sono le sue [scil. di Eraclito] opinioni: il fuoco è il principio elementare e tutte le cose sono scambio di fuoco, nascendo per rarefazione e condensazione. Ma non espone nulla chiaramente. Tutte le cose nascono secondo la contrarietà e l’universo intero scorre alla maniera di un fiume; il tutto è limitato ed esiste un solo cosmo; esso si genera dal fuoco e di nuovo si conflagra in fuoco secondo certi cicli periodici, alternativamente, durante tutta l’eternità; e ciò avviene secondo il fato. Dei contrari, dunque, quello che conduce alla generazione si chiama guerra e discordia, mentre quello che conduce alla conflagrazione, si chiama concordia e pace, e la trasformazione stessa si chiama “via verso l’alto verso il basso”: e il cosmo è in divenire secondo essa. In effetti, il fuoco condensandosi si umidifica e, così raccolto, diviene acqua; quanto all’acqua, solidificandosi si muta in terra: e questa è la via verso il basso. E in senso inverso, di nuovo la terra si liquefa, da essa nasce l’acqua, e da questa le cose restanti, che [Eraclito] riconduce quasi tutte all’esalazione che evapora dal mare: e questa è la via verso l’alto. Esalazioni si generano sia dalla terra sia dal mare: alcune sono luminose e pure, altre oscure. Il fuoco si alimenta, dunque, di quelle luminose, mentre l’umidità, delle altre. Quanto a ciò che avvolge il mondo, [Eraclito] non
258 Cicerone, Tusc. Disp. I 42-43: Nihil enim habent haec duo genera proni et supera semper petunt («in effetti, questi due elementi [scil. aria e fuoco] non hanno nulla che tende verso il basso e cercano sempre di guadagnare i luoghi in alto») [...]. Qui si permanet incorruptus suique similis, necesse est ita feratur, ut penetret et dividat omne caelum hoc, in quo nubes, imbres ventique coguntur, quod et umidum et caliginosum est propter exhalationes terrae («E se permane incorrotta e inalterata, [l’anima] necessariamente si eleva in modo tale che penetra e taglia tutto questo cielo, in cui si ammassano nubi, piogge, venti, e che è umido e caliginoso a causa delle esalazioni della terra»). 259 Cf. J. Glucker, A Platonic Cento in Cicero, «Phronesis» 44/1 (1999), pp. 30-44, in cui l’autore suggerisce che la fonte del celebre passaggio ciceroniano del De divinatione I 115, sull’eternità e onniscienza dell’anima – attribuito in passato a Posidonio – sia qualche ignoto platonico pitagorizzante, contemponaneo o appena anteriore a Cicerone, cui risalirebbe la composizione di vari elementi pitagorici ravvisabili nei differenti dialoghi di Platone.
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PARTE SECONDA. L’ANIMA
chiarisce quale sia [la sua natura]; tuttavia [dice che] ci sono in esso delle scafe rivolte con la parte concava verso di noi, nelle quali le esalazioni luminose, radunandosi, producono fiamme, che sono gli astri260.
Il resoconto su Eraclito dei Placita Physica, influenzato dallo stoicismo – come dimostra il termine «conflagrazione» (ἐκπύρωσις) – e confluito in quello di Diogene Laerzio, testimonia l’attribuzione a Eraclito di una dottrina fisica delle continue trasformazioni degli elementi cosmici secondo una duplice «via verso l’alto verso il basso» (ὁδὸν ἄνω κάτω): il cammino reversibile secondo cui la stessa sostanza muta da fuoco, attraverso l’umido, in acqua, da questa in terra, e viceversa, da terra in acqua in varie esalazioni. Lo stato aereo della materia, compreso tra l’acqua e il fuoco, non è presente in modo esplicito, come nelle testimonianze stoiche, ma è sottinteso dal verbo «umidificarsi» (ἐξυγραίνεσθαι). Secondo la notizia di Diogene, e della sua fonte, per Eraclito tutte le cose derivano da un’unica materia, il fuoco, che tramite processi di condensazione e rarefazione si trasforma, da un contrario all’altro, negli altri elementi e in tutti i corpi. Il passo di Diogene fornisce dunque una spiegazione della dottrina di Eraclito nei limiti della teoria fisica dei cambiamenti dell’universo: il ciclo cosmico che va dal fuoco alla terra, e viceversa, passando per l’«esalazione» (ἀναθυμίασις)261. A proposito di questa fase intermedia, Filone (Aet. 109) parla di anima, che concepisce come soffio, della sua morte e rinascita.
260 Καὶ τὰ ἐπὶ μέρους δὲ αὐτῷ ὧδε ἔχει τῶν δογμάτων· πῦρ εἶναι στοιχεῖον καὶ πυρὸς ἀμοιβὴν τὰ πάντα, ἀραιώσει καὶ πυκνώσει γινόμενα. σαφῶς δ´ οὐδὲν ἐκτίθεται. γίνεσθαί τε πάντα κατ´ἐναντιότητα καὶ ῥεῖν τὰ ὅλα ποταμοῦ δίκην, πεπεράνθαι τε τὸ πᾶν καὶ ἕνα εἶναι κόσμον· γεννᾶσθαί τε αὐτὸν ἐκ πυρὸς καὶ πάλιν ἐκπυροῦσθαι κατά τινας περιόδους ἐναλλὰξ τὸν σύμπαντα αἰῶνα· τοῦτο δὲ γίνεσθαι καθ´ εἱμαρμένην. τῶν δὲ ἐναντίων τὸ μὲν ἐπὶ τὴν γένεσιν ἄγον καλεῖσθαι πόλεμον καὶ ἔριν, τὸ δ´ ἐπὶ τὴν ἐκπύρωσιν ὁμολογίαν καὶ εἰρήνην, καὶ τὴν μεταβολὴν ὁδὸν ἄνω κάτω, τόν τε κόσμον γίνεσθαι κατ´ αὐτήν. Πυκνούμενον γὰρ τὸ πῦρ ἐξυγραίνεσθαι συνιστάμενόν τε γίνεσθαι ὕδωρ, πηγνύμενον δὲ τὸ ὕδωρ εἰς γῆν τρέπεσθαι· καὶ ταύτην ὁδὸν ἐπὶ τὸ κάτω εἶναι. πάλιν τε αὖ τὴν γῆν χεῖσθαι, ἐξ ἧς τὸ ὕδωρ γίνεσθαι, ἐκ δὲ τούτου τὰ λοιπά, σχεδὸν πάντα ἐπὶ τὴν ἀναθυμίασιν ἀνάγων τὴν ἀπὸ τῆς θαλάττης· αὕτη δέ ἐστιν ἡ ἐπὶ τὸ ἄνω ὁδός. γίνεσθαι δ´ ἀναθυμιάσεις ἀπό τε γῆς καὶ θαλάττης, ἃς μὲν λαμπρὰς καὶ καθαράς, ἃς δὲ σκοτεινάς. αὔξεσθαι δὲ τὸ μὲν πῦρ ὑπὸ τῶν λαμπρῶν, τὸ δὲ ὑγρὸν ὑπὸ τῶν ἑτέρων. τὸ δὲ περιέχον ὁποῖόν ἐστιν οὐ δηλοῖ· εἶναι μέντοι ἐν αὐτῷ σκάφας ἐπεστραμμένας κατὰ κοῖλον πρὸς ἡμᾶς, ἐν αἷς ἀθροιζομένας τὰς λαμπρὰς ἀναθυμιάσεις ἀποτελεῖν φλόγας, ἃς εἶναι τὰ ἄστρα. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33 (d), p. 495; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), pp. 153-155. 261 Cf. J. Mansfeld (1992), op. cit., p. 302, n. 206.
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6.2. Cleomede e Massimo di Tiro: la rigenerazione dell’universo Tra il I e il II secolo della nostra era, lo stoicismo è a Roma la dottrina più diffusa e popolare262 ed Eraclito è costantemente citato e commentato dai filosofi della cosiddetta “Nuova Stoà”, che lo considerano l’antenato filosofico per eccellenza263. Seguendo fedelmente i maestri vetero-stoici (Zenone, Cleante, Crisippo) e i loro discepoli (Archedemo e Antipatro) nella professione della dottrina stoica “ortodossa”264, Epitteto265 (Manuale XV) afferma che Diogene, Eraclito e i loro simili erano giustamente chiamati divini, e Marco Aurelio (A se stesso o Pensieri VIII 3) dichiara che Diogene, Eraclito e Socrate hanno penetrato le realtà, le cause, le materie. Il detto eracliteo (60 DK) riecheggia vagamente in un frammento di Epitteto appartenente a un’edizione delle Diatribe più completa di quella che conosciamo oggi, o alla recensione del Manuale fatta da Simplicio per il suo commentario266. Si tratta di un estratto citato da Giovanni Stobeo nell’Antologia (IV 44, 60) e presentato come commento al maestro Musonio Rufo267, il più grande filosofo stoico dell’epoca, sul tema dell’amicizia (Ῥούφου ἐκ τῶν Ἐπικτήτου περὶ φιλίας). Secondo Musonio (fr. 42 Hense)-Epitteto (fr. 8 Schenkl), la natura del cosmo era, è e sarà sempre la stessa, perché gli animali, gli uomini, gli dei e «gli stessi quattro elementi si tramutano e si trasformano “verso l’alto e verso il basso”: la terra diviene acqua e l’acqua aria, questa di nuovo si trasforma in etere, e lo stesso è il modo di trasformazione dall’alto in
262 Cf. Épictète, Entretiens, Texte ét. et trad. par J. Souilhé, Paris 19752 , livre I, p. V. Per un quadro storico e ideologico generale, si può consultare J.-L. Ferrary, Philhellénisme et impérialisme. Aspects idéologiques de la conquête romaine du monde hellénistique, Bibliothèque des écoles françaises d’Athènes et de Rome 271, Rome 1988. 263 Cf. P. Hadot, La citadelle intérieure. Introduction aux Pensées de Marc Aurèle, Paris 1992, 19972 , 2005, p. 69. 264 Secondo P. Hadot (1992), op. cit., p. 99, Epitteto non sarebbe stato influenzato dal medio-stoicismo platonizzante di Panezio e Posidonio. 265 Dello stoico romano Epitteto la tradizione ha conservato parte delle Diatribe (Διατριβαί), una raccolta in quattro libri di discussioni, che costituivano la seconda parte del corso di filosofia, quella del dialogo filosofico; e il Manuale (᾿Εγχειρίδιον), un riassunto che condensa le parti più significative dell’insegnamento dell’opera principale. La redazione di entrambi è opera del discepolo Arriano di Nicomedia. 266 Cf. Simplicius, Commentaire sur le Manuel d’Épictète, I. Hadot (ed.), intr. et éd. crit. du texte grec, PhilAnt 66, Leiden 1995. 267 Sull’influenza decisiva dell’insegnamento di Musonio Rufo su Epitteto, cf. R. Laurenti, Musonio e Epitteto, «Sophia» 34 (1966), pp. 317-335; Id., Musonio, maestro di Epitteto, «ANRW» II 36/3 (1989), pp. 2105-2146.
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basso» (αὐτὰ τὰ τέτταρα στοιχεῖα ἄνω καὶ κάτω τρέπεται καὶ μεταβάλλει, καὶ γῆ τε ὕδωρ γίνεται καὶ ὕδωρ ἀήρ, οὗτος δὲ πάλιν εἰς αἰθέρα μεταβάλλει, καὶ ὁ αὐτὸς τρόπος τῆς μεταβολῆς ἄνωθεν κάτω)268. La dottrina fisica professata da Epitteto si ispira ai primi Stoici ed è caratterizzata dall’idea che l’universo è un tutto costituito di un’unica sostanza che scorre senza sosta (SVF II 762), in cui le cose si cedono mutualmente il posto, comparendo e scomparendo le une nelle altre, componendosi nei corpi assemblati e scomponendosi negli elementi semplici269. Epitteto esercitò un’influenza capitale sugli Stoici romani di II secolo, e in particolare su Marco Aurelio, attraverso il maestro Rustico270. Così, anche nell’A se stesso ο Pensieri (VI 17; IX 28, 1) di Marco Aurelio si ritrovano almeno due echi del frammento 60 DK di Eraclito: «“verso l’alto verso il basso”, circolarmente si muovono gli elementi [...]; i cicli cosmici sono sempre gli stessi, “verso l’alto verso il basso”, di secolo in secolo» (ἄνω κάτω κύκλῳ φοραὶ τῶν στοιχείων [...]; ταὐτά ἐστι τὰ τοῦ κόσμου ἐγκύκλια, ἄνω κάτω, ἐξ αἰῶνος εἰς αἰῶνα)271. Lo scritto A se stesso – fonte dei frammenti 71-76 DK di Eraclito – è dominato dalla concezione dell’ordine universale inteso come flusso continuo della materia in perenne trasformazione272, e dall’idea che niente è nuovo, ma tutto nasce e muore trasformandosi naturalmente in altro e trasformando continuamente il cosmo273, secondo il movimento degli elementi materiali, che è ascendente-discendente e ciclico ad un tempo. Il frammento 60 DK è citato, con riferimento esplicito a Eraclito, attorno all’anno 200274 dallo stoico Cleomede, autore di uno scritto astronomico il cui
268
Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33 (d 3), p. 496. Cf. Épictète (19752), op. cit., l. I, p. LVII. 270 Cf. Marc Aurèle, Écrits pour lui-même, t. I, intr. gen., l. I, texte établi et traduit par P. Hadot avec la collaboration de C. Luna, Paris 1998, p. LXXXVII. 271 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33 (d7), pp. 497-498. 272 Marco Aurelio invita, infatti, a «ricordarsi sempre delle parole di Eraclito: “morte della terra diventare acqua, morte dell’acqua diventare aria, morte dell’aria diventare fuoco e viceversa”» (22 B 76 DK) (Ἀεὶ τοῦ Ἡρακλειτείου μεμνῆσθαι ὅτι γῆς θάνατος ὕδωρ γενέσθαι καὶ ὕδατος θάνατος ἀέρα γενέσθαι καὶ ἀέρος πῦρ καὶ ἔμπαλιν (22 B 76 DK). 273 Cf. anche Marco Aurelio VI 46: πάντα γὰρ ἄνω κάτω τὰ αὐτὰ καὶ ἐκ τῶν αὐτῶν («tutte le cose, infatti, in alto in basso sono sempre le stesse e costituite a partire dalle stesse cose»); VII 1: ὄλως ἄνω κάτω τὰ αὐτὰ εὑρήσεις, ὧν μεσταὶ αἱ ἱστορίαι αἱ παλαιαί, αἱ μέσαι, αἱ ὑπόγυιοι· ὧν νῦν μεσταὶ αἱ πόλεις καὶ οἰκίαι («Insomma, in alto in basso troverai le stesse cose, di cui sono piene le storie antiche, quelle intermedie e quelle recenti, di cui sono piene oggi le città e le case»). 274 Cf. Cleomedes’ Lectures on Astronomy, a Translation of The Heavens With an Intr. and Comm. by A.C. Bowen and R.B. Todd, Berkeley-Los Angeles-London 2004, p. xi; Cléomède, Théorie élémentaire 269
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titolo tradizionale – dato dai manoscritti più tardi (XIII-XVI sec.) – è Κυκλικὴ θεωρία μετεώρων (De motu circulari corporum caelestium). Si tratta di un trattato scolare a carattere compilatorio, un manuale di introduzione alla cosmologia, radicato nello stoicismo ellenistico e influenzato da Posidonio275, che testimonia come la fisica neo-stoica, relativa a questioni astronomiche276, sia sensibile al platonismo post-accademico277. Ed ecco un passaggio della sezione dedicata alla dimensione e alla posizione della terra (De motu circ. corp. cael. 111, 26-112 Ziegler): Così la terra, che quanto alla sua massa è un puntino rispetto all’universo, ma gode di un’immensa potenza e ha la facoltà naturale di estendersi quasi all’infinito, non è incapace di inviare verso l’alto nutrimento al cielo e ai corpi che esso contiene. Né potrebbe esaurirsi a causa di ciò, perché anche essa a sua volta riceve in cambio qualcosa dall’aria e dal cielo. Infatti, è “la via verso l’alto verso il basso”, dice Eraclito, perché la sostanza intera per natura si tramuta e si trasforma in tutto concedendosi al Demiurgo al fine dell’amministrazione e della permanenza dell’universo278.
Cleomede fornisce una parafrasi prossima del frammento 60 DK di Eraclito: ὁδὸς ... ἄνω κάτω («via ... verso l’alto verso il basso»), considerando che si tratti di una e la stessa via, percorribile in due sensi opposti (ἄνω κάτω), e non
(«De motu circulari corporum caelestium»), texte prés., trad. et comm. par R. Goulet, Histoire des doctrines de l’Antiquité classique 3, Paris 1980, pp. 5-8. 275 Posidonio scrisse, tra gli altri, trattati scientifici Sulle Meteore, Sulla grandezza del sole, Sull’oceano. Tuttavia, se ancora nell’edizione W. Theiler (1982) il passaggio contenente il riferimento a Eraclito era considerato frammento di Posidonio (fr. 289 Theiler), non lo è più nella più recente edizione dei frammenti e delle testimonianze su Posidonio a cura di I.G. Kidd (1988, II, 1, pp. 46-47), poiché Cleomede non cita esplicitamente Posidonio come fonte della parola e della dottrina di Eraclito, anche se alla fine dell’opera dice di aver ripreso molto da Posidonio; la questione dell’attribuzione è dunque complessa e controversa. Il frammento non compare neppure nell’edizione italiana Posidonio, Testimonianze e frammenti, intr., trad., comm. e apparati di E. Vimercati, pres. di R. Radice, Milano 2004. 276 Cf. R.B. Todd, The Stoics and their Cosmology in the first and second Century A. D., «ANRW» II 36/3, pp. 1365-1378. 277 Per Cleomede (De motu circ. corp. cael. 166, 14-15), d’altronde, Eraclito, Pitagora e Socrate sono i maestri di Platone, dunque sapienti di primo rango. 278 ὥστε τῷ μὲν ὄγκῳ ἡ γῆ στιγμιαία ὡς πρὸς τὸν κόσμον οὖσα, ἀφάτῳ δὲ τῇ δυνάμει κεχρημένη καὶ σχεδὸν ἐπ’ἄπειρον χεῖσθαι φυσίν ἔχουσα, οὐκ ἔστιν ἀδύνατος ἀναπέμπειν τροφὴν τῷ οὐρανῷ καὶ τοῖς ἐν αὐτῷ. οὐδ’ ἂν ἐξαναλωθείη τούτου ἕνεκα, ἐν μέρει καὶ αὐτὴ ἀντιλαμβάνουσά τινα ἔκ τε ἀέρος καὶ ἐξ οὐρανοῦ. ὁδὸς γὰρ ἄνω κάτω, φησὶν ὁ Ηράκλειτος, δι’ ὅλης οὐσίας τρέπεσθαι καὶ μεταβάλλειν πεφυκυίας εἰς πᾶν τῷ δημιουργῷ ὑπεικούσης εἰς τὴν ὅλων διοίκησιν καὶ διαμονήν. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33 (d5), p. 497; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), p. 462.
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di una via verso l’alto e di un’opposta via verso il basso (ἄνω καὶ κάτω), come nella parafrasi filoniana. Nell’interpretazione di Cleomede, infatti, la duplice via eraclitea è quella dello scambio di nutrimento tra la terra e il cielo, vale a dire la salita e discesa della sostanza dell’universo attraverso l’universo stesso. Cleomede mostra così che il frammento di Eraclito era utilizzato dagli Stoici imperiali per spiegare la trasformazione incessante dell’unica materia cosmica, dalla terra al cielo e dal cielo alla terra, in tutti gli esseri del cosmo, e della rigenerazione continua dell’universo. Similmente, il retore e filosofo di tendenza platonica Massimo di Tiro, rappresentante della varietà dottrinale tipica dei letterati della cosiddetta “seconda sofistica”, ricorre al frammento eracliteo nell’ultima delle sue 41 Dissertazioni (Διαλέξεις). Le Orazioni di Massimo si inseriscono nel quadro generico dell’insegnamento scolare e delle esercitazioni sofistiche del II secolo, i cui interessi filosofici sono la morale pratica e la filosofia religiosa. L’ultima Dialexis, in particolare, è dedicata alla questione «Se Dio è produttore di beni, da dove vengono i mali» (Τοῦ θεοῦ τὰ ἀγαθὰ ποιοῦντος, πόθεν τὰ κακά), sulla base del postulato omerico (Od. I 33 s.), ma anche platonico (Resp. 617 e 4) per cui dio è buono e fonte di bene, laddove il male è conseguenza della materialità del cosmo e della libertà dell’anima umana. Secondo il Tirio, ciò che noi consideriamo un male, l’artefice divino lo giudica un bene, perché si preoccupa non della parte, bensì del tutto, non del passato, ma del futuro (XLI 4 i-5, pp. 491-492 Koniaris): Vedi dunque le affezioni, che tu chiami corruzione, basandoti sul corso delle cose che se ne vanno, mentre io le chiamo preservazione, basandomi sulla successione delle cose a venire. Vedi la trasformazione dei corpi e della generazione, l’inversione delle “vie verso l’alto e verso il basso”, secondo Eraclito; e di nuovo ancora “vivendo la morte di quelli, e morendo la vita di questi”. “Il fuoco vive la morte della terra, e l’aria vive la morte del fuoco; l’acqua vive la morte dell’aria, la terra quella dell’acqua” (22 B 76 DK). Vedi la successione della vita e la trasformazione dei corpi, rinnovamento dell’universo. Andiamo allora anche fino al principio delle altre cose, quello che si genera spontaneamente, e che la facoltà dell’anima feconda e porta a maturazione, il cui nome è malvagità. A proposito di esso va detto questo: la responsabilità è di chi ha fatto la scelta, dio non è responsabile279.
279 ὁρᾷς οὖν τὰ πάθη, ἃ σὺ μὲν καλεῖς φθοράν, τεκμαιρόμενος τῇ τῶν ἀπιόντων ὁδῷ, ἐγὼ δὲ σωτηρίαν, τεκμαιρόμενος τῂ διαδοχῇ τῶν μελλόντων. μεταβολὴν ὁρᾷς σωμάτων καὶ γενέσεως, ἀλλαγὴν ὁδῶν ἄνω καὶ κάτω, κατὰ τὸν Ἡράκλειτον· καὶ αὖτις αὖ ζῶντας μὲν τὸν ἐκείνων θάνατον, ἀποθνήσκοντας δὲ τὴν ἐκείνων ζωήν. ζῇ πῦρ τὸν γῆς θάνατον, καὶ ἀὴρ ζῇ τὸν πυρὸς θάνατον· ὕδωρ ζῇ τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος. διαδοχὴν ὁρᾷς βίου καὶ μεταβολὴν σωμάτων, καινουργίαν τοῦ ὅλου. ῎Ιθι δὴ καὶ ἐπὶ τὴν τῶν ἄλλων ἀρχήν, τὴν
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Massimo di Tiro fornisce una singolare versione del frammento 60 DK di Eraclito: ὁδῶν ἄνω καὶ κάτω («vie verso l’alto e verso il basso»), con il sostantivo ὁδός («via») al plurale, variante isolata che non trova supporto in altri testi eraclitei, né in altre testimonianze. Seguono la citazione parziale del frammento 62 DK, che riecheggia – come vedremo – in Leg. 1.108 e in altri trattati filoniani, e quella del frammento 76 DK, dato in forma diversa anche da Plutarco e Marco Aurelio. Nell’ultima linea del passaggio, il Tirio ricorre anche al dogma di Platone (Resp. 617 e 4) «la responsabilità è di chi ha fatto la scelta, dio non è responsabile» (αἰτία ἑλομένου, θεὸς ἀναίτιος), ampiamente utilizzato dai dualisti platonici – filosofi o gnostici 280 – dei primi secoli dell’era cristiana per dimostrare che il dio supremo è assolutamente buono, perciò la causa dell’incorporazione terrestre va cercata nell’anima stessa281. Il passo mostra non solo quali autori facevano parte della formazione di Massimo di Tiro282, ma anche quali fossero le tematiche relative alla citazione e all’interpretazione dei frammenti eraclitei alla sua epoca. La parola di Eraclito, infatti, è inserita in un quadro platonizzante in cui rappresenta l’espressione dell’antica sapienza sui rapporti tra la vita e la morte, il fuoco e la terra, l’anima e il corpo. Interpretando l’«inversione delle “vie verso l’alto e verso il basso”, secondo Eraclito» nel senso della trasformazione degli elementi e degli esseri nel rinnovamento perpetuo dell’universo, il Tirio testimonia l’utilizzo del frammento 60 DK nel dibattito medioplatonico attorno al ciclo cosmico universale, cui si collegano le speculazioni sull’esistenza dell’anima e sul problema del male283. αὐτοφυῆ, ἣν ἡ ψυχῆς ἐξουσία κυΐσκει τε καὶ τε καὶ τελεσφορεῖ, ᾗ ὄνομα μοχθηρία. αὐτοῦ τοῦτο· ἑλομένου αἰτία, θεὸς ἀναίτιος. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33 (d4), pp. 496-497; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), pp. 455-456. 280 Cf. A.-J. Festugière, op. cit., vol. III. Les doctrines de l’âme, Paris 1953, p. 82. 281 Nella Dissertazione X, intitolata «Se gli apprendimenti sono reminiscenze» (Εἰ αἱ μαθήσεις ἀναμνήσεις), il Tirio faceva invece riferimento al fenomeno dei flussi e riflussi (le maree), il cui esempio più classico nell’antichità, e in Platone (Phaed. 90 c), è quello della corrente nello stretto di Euripo – sito tra l’isola di Eubea e la Beozia greca – che invertiva la sua direzione più volte al giorno (cf. Strabone, I 3, 12; IX 2, 8 e 5, 8-9 sullo studio delle maree intrapreso da Posidonio; Plinio, II 219. Massimo (X 5 c 1-3) afferma: πᾶν γὰρ σῶμα ῥεῖ, καὶ φέρεται ὀξέως, Εὐρίπου δίκην, ἄνω καὶ κάτω, νῦν μὲν ἐκ νηπιότητος εἰς ἥβην οἰδαῖνον· νῦν δὲ ἐξ ἥβης εἰς γῆρας ὑπονοστοῦν καὶ ὑποφερόμενον («ogni corpo, infatti, scorre ed è trasportato precipitosamente, come nell’Euripo, verso l’alto e verso il basso, ora crescendo, dall’infanzia alla giovinezza, ora decadendo e declinando dalla giovinezza alla vecchiaia»). I contrari menzionati – come già detto – sono eraclitei. 282 Massimo riconosce Platone come suo maestro, assieme ad Omero, Socrate e Diogene. 283 Una diversa testimonianza, che si inserisce nella stessa cornice della “seconda sofistica”, è quella del comico di II secolo Luciano di Samosata, che mette in scena un dialogo tra un compratore di piazza,
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6.3. Plotino: la discesa e la salita dell’anima Una celebre testimonianza sul frammento 60 DK di Eraclito è fornita nel III secolo dal padre del neoplatonismo, Plotino, formatosi ad Alessandria d’Egitto e insegnante a Roma 284. L’incipit di Enn. IV 8 [6], il trattato Sulla discesa dell’anima nei corpi (Περὶ τῆς εἰς τὰ σώματα καθόδου τῆς ψυχῆς), è la descrizione dell’esperienza personale di Plotino, che si eleva attraverso un atto di intuizione intellettuale fino all’intelletto divino e al di sopra dell’intelligibile, per poi ridiscendere nel corpo. Ciò lo induce ad interrogarsi sull’aporia: com’è possibile che l’anima, di natura divina e intelligibile, si trovi all’interno del corpo? Eraclito è il primo dei predecessori di Platone285 ad essere menzionato in Enn. IV 8 [6], 1, 1-17 (II, p. 165 [1977] Henry-Schwyzer): Spesso risvegliandomi a me stesso fuori dal corpo e ritrovandomi all’esterno di ogni altra cosa, ma all’interno di me stesso, vedo una bellezza meravigliosamente grande; e soprattutto allora sono persuaso che appartengo a una sorte superiore, ho realizzato il miglior grado della vita, mi sono unito al divino e stabilitomi in lui, una volta raggiunta questa attività, ho stabilito me stesso al di sopra di ogni altra cosa intelligibile. Ma dopo questa sosta nel divino, essendo ridisceso dall’intelletto al ragionamento, mi domando come discendo anche questa volta, e come la mia anima è venuta infine ad essere all’interno del mio corpo, essendo tale quale mi appariva in se stessa, pur essendo nel corpo. In effetti Eraclito, che ci
Democrito ed Eraclito. Quest’ultimo, alla domanda del compratore sul perché pianga, risponde facendo riferimento a qualche frammento eracliteo, tra cui il 60 DK (Vitarum auctio 14): ταῦτα δὲ ὀδύρομαι καὶ ὅτι ἔμπεδον οὐδέν, ἀλλάκως ἐς κυκεῶνα τὰ πάντα συνειλέονται καί ἐστι τὠυτὸν τέρψις ἀτερψίη, γνώσις ἀγνωσίη, μέγα μικρόν, ἄνω κάτω περιχωρέοντα καὶ ἀμειβόμενα ἐν τῇ τοῦ αἰῶνος παιδιῇ («queste sono le cose che compiango, e anche che nulla è stabile, ma tutte le cose sono mescolate insieme come in un ciceone, e che la stessa cosa sono piacere dispiacere, conoscenza ignoranza, grande piccolo, alto basso che circolano e si scambiano nel gioco dell’eternità»). Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33 (d8), p. 498; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), pp. 451-452). 284 Nel vasto corpo delle Enneadi, Plotino fa allusione a ben ventuno frammenti eraclitei, ne cita integralmente o parzialmente undici, e rappresenta la prima fonte di tre di essi. Cf. E.N. Roussos, ῾Ο ῾Ηράκλειτος στὶς ᾿Εννεάδες τοῦ Πλωτίνου, (Tesi), Atene 1968. Sull’interpretazione plotiniana di Eraclito, cf. W. Burkert (1975), art. cit., pp. 137-146; T. Gelzer, Plotins Interesse an den Vorsokratikern, «MH» 39 (1982), pp. 102-115; F. Romano, Plotino interprete di Eraclito, in Studi e Ricerche sul neoplatonismo, Napoli 1983, pp. 27-34; J. Mansfeld (1992), op. cit., pp. 300 ss. 285 Cf. Plotino, Enn. IV 8 [6], 1, 23-26. Su questo passaggio in particolare, cf. G. Stamatellos, A Philosophical Study of Heraclitus in Plotinus’ Ennead IV 8, (Diss.), Lampeter 2000; Plotino, La discesa dell’anima nei corpi (Enn. IV 8 [6]), Plotiniana Arabica (pseudo-teologia di Aristotele, capitoli 1 e 7; “Detti del sapiente greco”), C. D’Ancona (ed.), Padova 2003; D.J. O’Meara, Plotin ‘ historien’ de la philosophie (Enn. IV 8 et V 1), in A. Brancacci (ed.) (2005), op. cit., pp. 103-112.
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esorta a fare questa ricerca, ponendo “scambi” necessari da un contrario all’altro, e parlando della “via verso l’alto verso il basso” e dicendo “mutando riposa” (22 B 84 a DK) e “fatica è lavorare e obbedire [sempre] agli stessi” (22 B 84 b DK), ha permesso di rappresentarsi le cose per immagini, avendo trascurato di renderci chiara la sua dottrina, come se bisognasse forse cercare in se stessi allo stesso modo che anche lui, avendo cercato, trovò. Ed Empedocle...286
La versione plotiniana del frammento 60 DK è: ὁδόν τε ἄνω κάτω («via verso l’alto verso il basso») è la stessa della dossografia di Diogene e della citazione di Cleomede, cioè quella senza la congiunzione καί («e»). Plotino lo cita parzialmente assieme ad altri detti eraclitei per illustrare in che modo i sapienti pre-platonici si sono espressi sulla salita e sulla discesa dell’anima, anticipando Platone287. Come indica la sintassi del testo, la sola citazione letterale di Eraclito è quella dei frammenti 84a DK, μεταβάλλον ἀναπαύεται: «mutando riposa»288 e 84b DK, κάματός ἐστι τοῖς αὐτοῖς μοχθεῖν καὶ ἄρχεσθαι: «fatica è lavorare duro per gli stessi e dagli stessi essere dominati»289, di cui Plotino rappresenta la testimonianza più antica290, e l’unica se si considera che gli auto286 Πολλάκις ἐγειρόμενος εἰς ἐμαυτὸν ἐκ τοῦ σώματος καὶ γινόμενος τῶν μὲν ἄλλων ἔξω, ἐμαυτοῦ δὲ εἴσω, θαυμαστὸν ἡλίκον ὁρῶν κάλλος, καὶ τῆς κρείττονος μοίρας πιστεύσας τότε μάλιστα εἶναι, ζωήν τε ἀρίστην ἐνεργήσας καὶ τῷ θείῳ εἰς ταὐτὸν γεγενημένος καὶ ἐν αὐτῷ ἱδρυθεὶς εἰς ἐνέργειαν ἐλθὼν ἐκείνην ὑπὲρ πᾶν τὸ ἄλλο νοητὸν ἐμαυτὸν ἱδρύσας, μετὰ ταύτην τὴν ἐν τῷ θείῳ στάσιν εἰς λογισμὸν ἐκ νοῦ καταβὰς ἀπορῶ, πῶς ποτε καὶ νῦν καταβαίνω, καὶ ὅπως ποτέ μοι ἔνδον ἡ ψυχὴ γεγένηται τοῦ σώματος τοῦτο οὖσα, οἷον ἐφάνη καθ´ ἑαυτήν, καίπερ οὖσα ἐν σώματι. Ὁ μὲν γὰρ Ἡράκλειτος, ὃς ἡμῖν παρακελεύεται ζητεῖν τοῦτο, ἀμοιβάς τε ἀναγκαίας τιθέμενος ἐκ τῶν ἐναντίων, ὁδόν τε ἄνω κάτω εἰπὼν καὶ μεταβάλλον ἀναπαύεται καὶ κάματός ἐστι τοῖς αὐτοῖς μοχθεῖν καὶ ἄρχεσθαι εἰκάζειν ἔδωκεν ἀμελήσας σαφῆ ἡμῖν ποιῆσαι τὸν λόγον, ὡς δέον ἴσως παρ´ αὐτῷ ζητεῖν, ὥσπερ καὶ αὐτὸς ζητήσας εὗρεν. Ἐμπεδοκλῆς τε... Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33 (f), p. 498; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), pp. 611-612. 287 Cf. J. Mansfeld (1992), op. cit., p. 300. 288 All’inizio del cap. 5 dello stesso trattato (Enn. IV 8 [6]), Plotino parafrasa così il frammento 84a DK: ἡ ῾Ηρακλείτου ἀνάπαυλα ἐν τῇ φυγῇ («il riposo nell’esilio di Eraclito»). Il termine φυγή, attribuito anche ad Empedocle nello stesso passaggio (ἡ ᾿Εμπεδοκλέους φυγὴ ἀπὸ τοῦ θεοῦ), secondo É. Bréhier (Plotin, Ennéades IV 8, texte établi et traduit par É. Bréhier, Paris 1956, p. 222) e L. Lavaud (Plotin, Traité 1-6, tr. fr. par L. Lavaud sous la direction de L. Brisson et J.-F. Pradeau (edd.), Paris 2002, p. 247), ha il senso drammatico della fuga dell’esiliato. S.N. Mouraviev (Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), F 84 A, p. 218) considera questa citazione di Plotino un altro frammento di Eraclito. 289 Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), F 84ab, p. 216, propone la congettura ἀρκεῖσθαι (“soddisfarsi”) e traduce «Fatigue que de peiner aux mêmes labeurs et d’y trouver contentement». 290 Numerosi interpreti (sulla scia di G.S. Kirk (1954), op. cit., pp. 252; cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 56 a b, pp. 591-592) ritengono che la seconda frase sia legata alla prima in quanto esempio che spiega e illustra come, secondo la dottrina dell’identità dei contrari di Eraclito, il movimento di mutazione e spostamento coincide paradossalmente con il riposo, mentre il non-cambiamento corrisponde alla fatica. Il καί di Plotino suggerisce, piuttosto, che si tratta di due citazioni diverse, ma ciò non esclude che
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ri posteriori dipendono da lui o dalla stessa fonte291. La prima reminiscenza, ἀμοιβάς τε ἀναγκαίας («scambi necessari»), richiama il frammento eracliteo 90 DK sulle trasformazioni del fuoco citato da Plutarco, ma il termine ἀμοιβή appartiene già al resoconto dossografico di Teofrasto292 . Secondo Plotino, la «via verso l’alto verso il basso» di Eraclito è il percorso ascendente e discendente dell’anima che guadagna il suo riposo attraverso la mutazione necessaria da un contrario all’altro, vale a dire la sua salita al dominio intelligibile e la sua discesa nel mondo sensibile293, non solo tra l’una e l’altra delle sue incorporazioni, ma anche, durante la vita, ogni volta che si converte verso la realtà superiore, che è Intelletto294. Nel dibattito tra diverse interpretazioni di Platone, Plotino intende dimostrare sia la symphonia delle dottrine di Eraclito e degli altri Preplatonici tra di loro e con Platone, sia la symphonia di Platone con se stesso, perché la discesa dell’anima nel corpo non è un imprigionamento nella materia inferiore e malvagia, ma il frutto di una necessità naturale e provvidenziale che completa la produzione dell’universo e determina l’ordine del cosmo. L’obiettivo di Plotino è provare che la propria dottrina, secondo cui l’anima non discende completamente nel mondo del divenire, «ma qualcosa di essa dimora sempre nell’intelligibile» (ἀλλ’ ἔστι τι αὐτῆς ἐν τῷ νοητῷ ἀεί) (Enn. IV 8 [6], 8, 3) – che sarà criticata dai Neoplatonici posteriori 295, a partire da Giamblico –, non è
fossero già vicine nell’estratto eracliteo; per questo potrebbero essere state riunite da Plotino (cf. J. BollackH. Wismann (19952), op. cit., pp. 250-251). Secondo S.N. Mouraviev (Mour., op. cit., III.3.B/iii (2006), F 84ab, p. 102), si tratta di due elementi differenti, come dimostra l’enumerazione plotiniana dei temi di Eraclito, rappresentati da diversi tipi di allusioni. 291 Cf. Giamblico, De anima, ap. Stobeo I 49, 39; Enea di Gaza, Théophr., p. 5 et 7 (PG 85, pp. 877 C-880 A, 881 C); Anon. Arab., Dicta sapientis Graeci I 89. 292 Cf. Simplicio, In Phys. p. 23, 33 Diels (= 22 A 5 DK). 293 In Enn. I 6 [1], in effetti, Plotino definisce quest’ultimo πατρὶς δὴ ἡμῖν, ὅθεν παρήλθομεν, καὶ πατὴρ ἐκεῖ («la nostra patria, il luogo da cui siamo venuti, là dove si trova anche il nostro Padre»). Similmente, in Enn. V 9 [5], 1, 20-21 Plotino paragona il soggiorno nell’intelligibile al ritorno τῷ τόπῳ ἀληθινῷ καὶ οἰκείῳ («nel luogo autentico e familiare»), ὥσπερ ἐκ πολλῆς πλάνης εἰς πατρίδα εὔνομον ἀφικόμενος ἄνθρωπος («come un uomo che, dopo aver molto errato, ha fatto ritorno alla sua patria governata da buone leggi»). 294 Il riferimento plotiniano si conclude, infatti, così: «[Eraclito] ha permesso di rappresentarsi le cose per immagini, avendo trascurato di renderci chiara la sua dottrina, come se bisognasse forse cercare in se stessi allo stesso modo che anche lui, avendo cercato, trovò». Questa è un’allusione al frammento 101 DK di Eraclito: ἐδιζήσαμεν ἐμεωυτόν («ho indagato me stesso»), che ricorre in Plotino, Enn. V 9 [5], 5, 31. 295 Cf. C. D’Ancona in Plotino (2003), op. cit., pp. 10, 47-65. Su questo tema cf. anche Studi sull’anima in Plotino, a cura di R. Chiaradonna, «Elenchos» 42 (2005); Études platoniciennes, III. L’âme amphi-
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un’innovazione filosofica, bensì la più corretta interpretazione del pensiero di Platone. In tal modo, Plotino si schiera contro i Platonici anteriori e contemporanei, pagani, ma anche e soprattutto cristiani e gnostici296, cioè contro la dottrina della “caduta” dell’anima divina nel corpo terrestre in cui è “imprigionata”, e del suo ritorno all’origine celeste grazie alla conoscenza portata dal Salvatore. Nella prospettiva di Plotino, Uno, Intelletto e Anima sono presenti in ogni anima individuale297, che è capace di funzioni superiori e inferiori298, poiché si volge (e si porta) verso l’«alto» con la sua parte superiore e verso il «basso» con quella inferiore299. Così, la «via verso l’alto verso il basso» di Eraclito si esprime in termini neoplatonici di conversione dell’anima verso la realtà superiore – il principio intellettivo300 che le permette la contemplazione dell’intelligibile – da cui procede e a cui è sempre legata grazie alla sua parte o aspetto che “non discende” nel mondo della Natura. Plotino riprende e sviluppa dunque in senso neoplatonico l’interpretazione, già medioplatonica e filoniana (Somn.
bie. Études sur l’âme selon Plotin, Paris 2006, specialmente gli articoli di R. Dufour, Le rang de l’Âme du monde au sein des réalités intelligibles et son rôle cosmologique chez Plotin (pp. 89-102), e S. Toulouse, Le véhicule de l’âme chez Plotin: de la réception d’une hypothèse cosmologique à l’usage dialectique de la notion (pp. 103-128). 296 Il frammento 60 DK, senza alcuna menzione di Eraclito, riecheggia ne Le Tre Steli di Seth, un trattato gnostico, scritto originariamente in greco (II-III sec.), la cui versione in copto saidico rappresenta il quinto e ultimo trattato del Codex VII della cosiddetta “Biblioteca gnostica” ritrovata nel 1945 a Nag Hammadi, in Egitto. Le Tre Steli definiscono la «via» o il cammino (hiè = ὁδός) che conduce l’eletto alla conoscenza della verità e alla vera vita (3StSeth, 127, 4-27): «E secondo il modo prescritto, salgono; o dopo il silenzio, scendono dalla terza, benedicono la seconda, dopo questa la prima. “La via verso l’alto è la via verso il basso” (thiē nbōk ehraï pe tihiē nei epesēt). Sappiate dunque, voi viventi, che avete vinto e avete voi stessi appreso le cose che non hanno limite. Meravigliatevi della verità che esse contengono e della rivelazione. Le Tre Steli di Seth» (traduzione inedita di Michel Tardieu). La testimonianza gnostica, assente dalle due maggiori edizioni di Eraclito: Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), è studiata da L. Saudelli, Les dits d’Héraclite et l’influence gnostique chez Plotin, Enn. IV 8 [6], 1, in M. A. Moezzi, J.-D. Dubois, C. et F. Jullien (edd.), Pensée grecque et sagesse d’Orient. Hommage à Michel Tardieu, Bibliothèque de l’École des Hautes Études, Sciences Religieuses, Turnhout 2010, pp. 545-562. 297 Cf. A. Schniewind, Les âmes amphibies et les causes de leur différence. À propos de Plotin, Enn. IV 8 [6], 4.31-5, in Studi sull’anima in Plotino (2005), op. cit., pp. 179 ss. 298 Cf. Plotino (2003), op. cit., pp. 58-59. 299 Cf. R. Dufour (2006), art. cit., p. 92. 300 L. Lavaud (in Plotin (2002) op. cit., p. 252) rimanda a Porfirio (Vita Plot. 23, 11-16), il quale racconta le quattro esperienze mistiche del suo maestro durante i cinque anni passati insieme, vale a dire l’unificazione con l’Uno, descritta in termini a suo avviso molto simili a quelli utilizzati dallo stesso Plotino in Enn. IV 8 [6], 1. Secondo C. D’Ancona (in Plotino (2003), op. cit., p. 53), invece, nel nostro passo sarebbe questione dell’intuizione intellettuale dell’anima analoga a quella dell’Intelletto divino, e non della sua unione mistica con l’Uno stesso.
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1.134 ss.) di Eraclito, secondo cui l’anima si muove scendendo e salendo la «via» che unisce il cosmo intelligibile a quello sensibile. 6.4. Refutatio omnium haeresium: il divino e l’umano, uno e lo stesso Nella stessa epoca, gli autori cristiani forniscono le più preziose testimonianze sul frammento 60 DK di Eraclito. L’eresiologo della Refutatio omnium haeresium comincia il suo resoconto su Eraclito citando – come sappiamo – il frammento «tutte le cose sono uno» (ἓν πάντα εἶναι) (50 DK); il secondo detto citato è quello della «congiunzione (harmoniê) retroversa» (παλίντονος ἁρμονίη) degli opposti (51 DK); seguono i frammenti in cui ricorrono i termini «figlio» (παῖς) (52 DK) e «padre» (πατήρ) (53 DK), e quelli che presentano i concetti di visibile e invisibile (54-56 DK). Il 60 DK compare, quindi, tra gli altri frammenti eraclitei sull’unità dei contrari (Refutatio omnium haeresium IX 10, 2-6, pp. 242-243 Wendland): Ecco perché Eraclito dice che né le tenebre e la luce, né il male e il bene sono cose diverse, ma uno e lo stesso. In ogni caso, egli rimprovera a Esiodo di non conoscere il giorno e la notte; sostiene, infatti, che il giorno e la notte sono uno, dicendo in qualche modo cosí: “maestro della maggior parte degli uomini, Esiodo; essi ritengono che sapesse la maggior parte delle cose, lui che non conosceva il giorno dalla notte: sono infatti uno” (22 B 57 DK). Anche il bene e il male: “i medici certo” dice Eraclito “che tagliano e bruciano [i.e. amputano e cauterizzano] in ogni modo” – cioè torturano i malati in malo modo – “si lamentano di non ricevere un degno compenso” da parte dei malati, “procurando benefici che sono allo stesso tempo malattie” (22 B 58 DK). Anche il dritto e il curvo, dice, sono lo stesso: “dei disegnatori”, dice, “la via dritta e curva” – cioè il movimento dello strumento chiamato conchiglia nello scrittoio è diritto [i.e. una traslazione] e curvo [i.e. una rotazione]; sale, infatti, e gira allo stesso tempo – “è una”, dice, “e la stessa” (22 B 59 DK). Anche l’alto e il basso dice che è uno e lo stesso: “via verso l’alto verso il basso una e la stessa” (22 B 60 DK) […]301.
301 τοιγαροῦν οὐδὲ σκότος οὐδὲ φῶς, οὐδὲ πονηρὸν οὐδὲ ἀγαθὸν ἕτερόν φησιν εἶναι ὁ Ἡράκλειτος, ἀλλὰ ἓν καὶ τὸ αὐτό. ἐπιτιμᾷ γοῦν Ἡσιόδῳ, ὅτι ἡμέραν καὶ νύκτα οἶδεν· ἡμέρα γάρ, φησί, καὶ νύξ ἐστιν ἕν, λέγων ὧδέ πως· «διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν». καὶ ἀγαθὸν καὶ κακὸν· «οἱ γοῦν ἰατροί», φησὶν ὁ Ἡράκλειτος, «τέμνοντες, καίοντες πάντῃ βασανίζοντες κακῶς τοὺς ἀρρωστοῦντας, ἐπαιτέονται μηδὲν ἄξιοι [ἐπαιτιῶνται μηδὲν ἄξιον cod.] μισθὸν λαμβάνειν παρὰ τῶν ἀρρωστούντων, ταὐτὰ ἐργαζόμενοι, τὰ ἀγαθὰ καὶ τὰς νόσους». καὶ εὐθὺ δέ, φησί, καὶ στρεβλὸν τὸ αὐτό ἐστι· « γραφέων [γναφείῳ Diels]», φησίν, «ὁδὸς εὐθεῖα καὶ σκολιή»— ἡ τοῦ ὀργάνου τοῦ καλουμένου κοχλίου ἐν τῷ γραφέιῳ [γναφείῳ Diels] περιστροφὴ εὐθεῖα καὶ σκολιή· ἄνω
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Secondo la communis opinio dei filologi, la trascrizione più precisa ed estesa del frammento 60 DK di Eraclito è proprio questa: ὁδός ἄνω κάτω μία καὶ ὡυτή («via verso l’alto verso il basso una e la stessa»), uno degli esempi attraverso i quali Eraclito illustra la legge cosmica dell’unità dei contrari302 . L’obiettivo dell’eresiologo, invece, è provare che, per Eraclito, la luce e le tenebre (il giorno e la notte), il bene e il male, il dritto e il curvo, l’alto e il basso, il puro e l’impuro, l’immortale e il mortale, vale a dire tutto ciò che è divino e positivo nella prospettiva cristiana, e il suo contrario, l’umano e il negativo, perché corporeo e malvagio, sono uno e lo stesso. Come indica l’introduzione al frammento: «anche l’alto e il basso sono uno e lo stesso», l’intenzione dell’autore è mostrare l’identificazione eraclitea, non tanto della «via», ma dell’«alto» e del «basso» che rappresentano i contrari spaziali corrispondenti alle opposizioni bibliche luce-tenebra e bene-male. E se l’autore della Refutatio applica il detto eracliteo alla problematica cristologica per combattere il monismo di Noeto, Tertulliano (II-III sec.) lo utilizza nella sua polemica teologica contro il dualismo di Marcione. Tacciando di eresia la dottrina delle due divinità avanzata da Marcione del Ponto – il Dio “giusto” dell’Antico Testamento e quello “buono” di gran parte del Vangelo di Luca e delle Lettere paoline –, Tertulliano difende strenuamente la verità cristiana del Dio universale, che è unico in quanto Padre e Cristo ad un tempo (Adv. Marc. II 28, 1, p. 167 Braun): «Se il mio Dio ha ignorato che ce n’era un altro al di sopra di lui, anche il tuo non ha mai saputo che ce n’era un altro al di sotto di lui. Cosa dice, infatti, quell’Oscuro di Eraclito? “La stessa via verso l’alto e verso il basso”» (Si ignorauit deus meus esse alium super se, etiam tuus omnino non sciuit esse alium infra se. Quod enim ait Heraclitus ille tenebrosus? «eadem uia sursum et deorsum»)303.
γὰρ ὁμοῦ καὶ κύκλῳ περιέρχεται—«μία ἐστί», φησί, «καὶ ἡ αὐτή». καὶ τὸ ἄνω καὶ τὸ κάτω ἕν ἐστι καὶ τὸ αὐτό· «ὁδός», «ἄνω κάτω μία καὶ ὡυτή». καὶ τὸ μιαρόν φησιν καὶ τὸ καθαρὸν ἓν καὶ ταὐτὸν εἶναι, καὶ τὸ πότιμον καὶ τὸ ἄποτον ἓν καὶ τὸ αὐτό εἶναι· «θάλασσα», φησίν, «ὕδωρ καθαρώτατον καὶ μιαρώτατον, ἰχθύσι μὲν πότιμον καὶ σωτήριον, ἀνθρώποις δὲ ἄποτον καὶ ὀλέθριον». λέγει δὲ ὁμολογουμένως τὸ ἀθάνατον εἶναι θνητὸν καὶ τὸ θνητὸν ἀθάνατον διὰ τῶν τοιούτων λόγων· «ἀθάνατοι θνητοί, θνητοὶ ἀθάνατοι, ζῶντες τὸν ἐκείνων θάνατον, τὸν δὲ ἐκείνων βίον τεθνεῶτες». Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33 (a), p. 495; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), pp. 538-539. 302 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., pp. 490 ss. 303 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33 (b), p. 495; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), p. 525.
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Infine, il frammento eracliteo riecheggia in un passaggio dell’ottavo e ultimo libro degli Stromati304 di Clemente, che si ispira alla logica aristotelica e stoica305. L’Alessandrino cristiano distingue dapprima i tre elementi del linguaggio: i «nomi» (ὀνόματα), i «concetti» (νοήματα) mentali e i «sostrati» (ὑποκείμενα) degli oggetti, poi riconduce i nomi alle ventiquattro lettere dell’alfabeto, mentre i concetti e i sostrati, alle dieci «categorie» (κατηγορίαι) di Aristotele. Ed ecco il seguito del passo (Strom. VIII 8, 24, 2-4): «delle cose che sono classificate sotto queste dieci categorie, alcune sono sinonimi, come “bue” o “uomo”, in quanto entrambi “animale”; sono, infatti, sinonimi le cose il cui nome è comune ad entrambe, nella fattispecie “animale”, e la nozione, vale a dire la definizione, è la stessa, nella fattispecie “sostanza animata”. D’altra parte, sono eteronimi quelle cose che concernono lo stesso sostrato, ma con nomi differenti, come “salita” e “discesa”; “la via”, infatti, “è la stessa”, che sia “verso l’alto o verso il basso”» (τῶν ὑπὸ ταύτας τὰς δέκα κατηγορίας τὰ μέν ἐστι συνώνυμα, ὡς βοῦς καὶ ἄνθρωπος, καθὸ ζῷον· ἔστι γὰρ συνώνυμα ὧν τό τε ὄνομα ἀμφοῖν κοινόν, τὸ ζῷον, καὶ ὁ λόγος ὁ αὐτός, τουτέστιν ὁ ὅρος, [τουτέστιν] οὐσία ἔμψυχος· ἑτερώνυμα δὲ ὅσα περὶ τὸ αὐτὸ ὑποκείμενον ἐν διαφόροις ἐστὶν ὀνόμασιν, οἷον ἀνάβασις καὶ κατάβασις· ὁδὸς γὰρ ἡ αὐτή, ἤτοι εἰς τὸ ἄνω ἢ εἰς τὸ κάτω)306. Lo sviluppo di Clemente sugli eteronimi – le cose che differiscono per nome e definizione, ma condividono lo stesso sostrato –, concerne la problematica logica e dialettica della differenza in verbis nell’identità in re307, e induce a postulare l’utilizzo dei frammenti eraclitei sull’unità dei contrari all’interno dell’insegnamento di scuola peripatetica e della tradizione dei commentari in Aristotelem degli autori medio- e neo-platonici. Diversamente dagli altri commentatori peripatetici dell’Organon aristotelico308, che delucidano la nozione 304 Il manoscritto Laurentianus V 3 (XI sec.) presenta gli Stromati I-VII in un testo continuo, poi, dopo il titolo Στρωματεὺς ὄγδοος (Strom. VIII) si trovano una serie di parti separate che possono essere raggruppate in tre grandi sezioni. La prima di queste è un testo filosofico che corrisponde all’ottavo degli Stromati, le altre due sono gli Excerpta ex Theodoto e le Eclogae propheticae. Cf. P. Nautin, La fin des Stromates et les Hypotyposes de Clément d’Alexandrie, «VChr» 30 (1976), pp. 268 ss. 305 Cf. J. Pépin, Clément d’Alexandrie, les Catégories d’Aristote et le fragment 60 d’Héraclite, in Concepts et catégories dans la pensée antique, Paris 1980, pp. 271-284, spec. pp. 271-272. 306 Il passaggio non è contemplato dalle più complete raccolte di frammenti e testimonianze su Eraclito (Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33, pp. 495 ss.; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), pp. 477 ss.), ma è l’argomento di un articolo di J. Pépin (1980), art. cit., pp. 271-284. 307 Cf. J. Pépin (1980), art. cit., pp. 283-284. 308 Cf. quello di Alessandro di Afrodisia ai Topici di Aristotele (In Top. V 4, 133 b 15, p. 398 Wallies) e quello di Ammonio alle Categorie (In. Categ. 1, 1 a 1, p. 16 Busse).
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di eteronimo con l’esempio della «salita» (ἀνάβασις) e della «discesa» (κατάβασις) sulla stessa «scala» (κλῖμαξ)309, Clemente, esperto conoscitore di Eraclito, ha probabilmente deciso di ripristinare l’originale «via» verso l’alto verso il basso, laddove Ammonio, che non dipende da Clemente, ma da commentatori peripatetici anteriori310, sarebbe ritornato alla «scala» dei suoi predecessori. Come sappiamo, Filone (Somn. 1.156) considera la «scala» il simbolo della «via» verso l’alto e verso il basso delle vicende umane, secondo l’uso del suo tempo e del suo ambiente alessandrino. Già Aristotele, d’altronde, fornisce due esempi derivati probabilmente dal frammento 60 DK di Eraclito, nel terzo libro della Fisica (202 a 18-20; 202 b 12-14): l’identità tra «la salita e la discesa» (τὸ ἄναντες καὶ τὸ κάταντες) in un caso; e l’unicità de «la via che va da Tebe ad Atene e da Atene a Tebe» (ἡ ὁδὸς ἡ Θήβηθεν Ἀθήναξε καὶ ἡ Ἀθήνηθεν εἰς Θήβας)311. Il passaggio di Clemente mostra quindi che la «via verso l’alto verso il basso» di Eraclito era utilizzata dai commentatori platonici di Aristotele come esempio logico dell’identità dei contrari: uno solo è il sostrato oggettivo, la via, nella differenza dei suoi sensi contrari, verso l’alto (salita) e verso il basso (discesa); una sola è la realtà nominata nella duplicità delle sue diverse denominazioni312 . 7. La «via verso l’alto verso il basso» (fr. 60 DK) di Eraclito Filone è dunque il primo autore ad attribuire implicitamente a Eraclito il frammento 60 DK, citato letteralmente dalla Refutatio omnium haeresium (IX 10, 4): «via verso l’alto verso il basso, una e la stessa» (ὁδός ἄνω κάτω μία καὶ ὡυτή). Platone fa riferimento alla dottrina presocratica del moto di tutti gli esseri del cosmo «verso l’alto verso il basso» e Aristotele descrive il processo delle evaporazioni (e condensazioni) «come un fiume che scorre in ciclo verso
309
Cf. J. Pépin (1980), art. cit., pp. 279-280. Secondo J. Pépin (1980), art. cit., p. 279, tra il I secolo a. C. e il II secolo d. C., molti furono i commentatori delle Categorie di Aristotele: Andronico, Boeto, Aristone, Alessandro, Aspasio, Adraste, Ermino. 311 Cf. P. Cosenza, Due esempi derivati dal fr. 60 di Eraclito nella Fisica di Aristotele?, in Atti del Symposium Heracliteum (1983), op. cit., pp. 57-61. 312 Altre testimonianze cristiane sul frammento 60 DK, senza e con menzione di Eraclito, sono Nemesio di Emesa, De nat. hom. 5, 60-64; e Enea di Gaza, Theophr. sive de anim. immort. et corp. resu 5, 10-18 Boissonade. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33 (d6), p. 497 e Fr. 33 (f 2), p. 499; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), pp. 710-711. 310
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l’alto e verso il basso». La teoria delle trasformazioni ascendenti e discendenti degli elementi, e in particolare quella delle esalazioni, ricompare in contesti stoici – e non solo – di epoca ellenistica, ma la locuzione «via verso l’alto verso il basso» (ὁδὸς ἄνω κάτω) ricorre in un trattato pseudo-ippocratico (IV-II sec. a. C.?) ed è attribuita a Eraclito solo nel resoconto dossografico di Diogene Laerzio313. Filone, Aet. 109-111, difendendo la posizione filosofica dell’incorruttibilità del mondo, sostiene che gli elementi materiali “muoiono” “rinascendo” gli uni negli altri, perché si sostituiscono e si susseguono secondo «la stessa via verso l’alto e verso il basso» (τὴν αὐτὴν ὁδὸν ἄνω καὶ κάτω); l’anima che è pneuma, cioè aria, muore trasformandosi “verso il basso”, cioè in acqua. In Somn. 1.156, interpretando l’immagine biblica della scala vista in sogno da Giacobbe, Filone afferma che il corso delle vicende umane, in continuo rivolgimento da un contrario all’altro, può essere in certo senso considerato una «via verso l’alto e verso il basso» (ὁδός ... ἄνω καὶ κάτω). In Mos. 1.31 e Ios. 136, in cui Filone racconta e commenta le vite dei patriarchi biblici, l’espressione «verso l’alto e verso il basso» (ἄνω καὶ κάτω) riecheggia a proposito della Fortuna, che «gioca agli ossicini» (πεττευούσης) con le vicende umane, rovesciandole da un contrario all’altro, come nel gioco eracliteo (52 DK).
313 Che la dottrina di Eraclito conosca una larga diffusione, e susciti un vasto interesse nei primi secoli della nostra era, è dimostrato anche dalla letteratura apocrifa che comincia a circolare all’inizio dell’epoca cristiana sotto il suo nome. Tracce di frammenti si ritrovano anche nelle Lettere pseudo-eraclitee, un documento di I secolo che riflette la riflessione filosofica di una corrente popolare cinico-stoica, la quale riprende elementi dell’etica eraclitea, fornendo peraltro notizie sulla biografia, sulla speculazione e sull’opera del suo preteso autore. In almeno due lettere indirizzate ad Anfidamante sull’idropisia che conduce Eraclito alla morte, riecheggiano echi del frammento 60 DK. Si tratta di pseudo-Eraclito, Epist. V, p. 323 Tarán: οὐχ ἁλώσεται νόσῳ Ἡράκλειτος, νόσος Ἠρακλείτου ἁλώσεται γνώμῃ. καὶ ἐν τῷ παντὶ ὑγρὰ αὐαίνεται, θερμὰ ψύχεται. οἶδεν ἐμὴ σοφίη ὁδοὺς φύσεως, οἶδε καὶ νόσου παῦλαν («Eraclito non sarà vinto dalla malattia, bensì la malattia di Eraclito sarà vinta dalla sua intelligenza. Anche nell’universo le cose umide si asciugano, quelle calde si raffreddano. La mia sapienza conosce le vie della natura, e conosce anche il rimedio che procura la cessazione dalla malattia»); e di Epist. VI, p. 330 Tarán: τὸ ξηρὸν εἰς ὑγρὸν τήκει καὶ εἰς λύσιν αὐτὸ καθίστησι, καὶ λιβάδας μὲν ἐκθυμιᾷ, παχύνει δὲ χαλασθέντα τὸν ἀέρα, καὶ συνεχῶς τὰ μὲν ἄνωθεν διώκει, τὰ δὲ κάτωθεν ἱδρύει. ταῦτα κάμνοντος κόσμου θεραπεία. τοῦτον ἐγὼ μιμήσομαι ἐν ἐμαυτῳ, τοῖς δ’ ἄλλοις χαίρειν λέγω («[il dio in questo mondo] fonde il secco in umido e lo porta allo scioglimento, fa evaporare i corsi d’acqua da un lato, addensare l’aria rarefatta dall’altro, e scaccia continuamente alcune cose dall’alto [in basso], ne istalla altre dal basso [in alto]. Tale è la terapia per il mondo ammalato. E’ questo che imiterò in me stesso, e agli altri dico addio»). Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 33 (h), p. 499; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), pp. 307 e 309.
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Dopo Filone, l’astronomo stoico Cleomede (II sec d. C.) interpreta la «via ... verso l’alto verso il basso» (ὁδὸς ... ἄνω κάτω) di Eraclito come lo scambio di nutrimento tra la terra e il cielo, e il retore platonico Massimo di Tiro (II sec.) allude all’inversione delle «vie verso l’alto e verso il basso» (ὁδῶν ἄνω καὶ κάτω) nel ciclico trasformarsi delle masse e degli esseri che rigenera continuamente l’universo. E se l’autore della Refutatio omnium haeresium (III sec.) utilizza la «via verso l’alto verso il basso, una e la stessa» (ὁδός ἄνω κάτω μία καὶ ὡυτή) di Eraclito per combattere il monarchianismo eretico di Noeto, Plotino (III sec.), in difesa dell’“autentico” platonismo e in polemica con le coeve speculazioni cristiane e gnostiche, interpreterà la «via verso l’alto verso il basso» (ὁδόν τε ἄνω κάτω) come la conversione dell’anima verso l’Intelletto, la realtà superiore cui è sempre legata. All’inizio della nostra era, dunque, il cammino ascendente e discendente figura in diversi contesti “eraclitizzanti” del corpus philonicum che ne rivelano l’applicazione non solo cosmologica, ma anche psicologica e antropologica. Filone interpreta tale «via» come il ciclo di trasmutazione degli elementi materiali dalla terra al fuoco e viceversa, ma anche come il movimento dell’anima tra i corpi e il cielo, e delle cose umane tra gli alti e i bassi della vita. L’Alessandrino recupera in quest’ultimo caso il motivo eracliteo e presocratico dell’instabilità umana: anche Epicarmo (23 B 2 DK) affermava che gli uomini sono sempre soggetti al cambiamento e non rimangono mai gli stessi. Ma la testimonianza più rilevante è senza dubbio quella di Aet. 109-111, in cui Filone afferma che, per Eraclito, l’anima è soffio, e “muore” per “rinascere” nell’elemento seguente della «via verso il basso». Ora, Diogene Laerzio, che attribuisce esplicitamente a Eraclito una «via verso l’alto verso il basso» (ὁδὸν ἄνω κάτω), interpretandola nel senso fisico del ciclo cosmico, non utilizza i termini di “vita” e “morte” per descrivere la «via» eraclitea. Il passo di Filone richiama invece il frammento 76 DK di Eraclito, e in particolare le versioni di Plutarco e Massimo di Tiro, secondo cui «morte di aria è nascita di acqua» (ἀέρος θάνατος ὕδατι γένεσις), e «acqua vive la morte dell’aria» (ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον), nelle quali, tuttavia, non è questione dell’anima. Prima dei medioplatonici, lo stesso Platone alludeva implicitamente alla dottrina (anassimenea, poi) eraclitea delle trasformazioni elementari, per cui l’acqua si solidifica divenendo pietre e terra, mentre evapora diventando «soffio e aria», e questa sostanza aerea si infiamma trasformandosi in fuoco; il fuoco, viceversa, per condensazione torna ad essere aria, poi acqua, poi terra, perché gli elementi si generano gli uni dagli altri. Filone, quindi, da un lato testimonia
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la fortuna della «via verso l’alto verso il basso» di Eraclito nella cosmologia e psicologia dell’incipiente medioplatonismo, e dall’altro rivela che la concezione del “ciclo” di “vita” degli elementi si trova già in Platone. Il problema è sapere quanto di Eraclito ci sia nel passaggio del Timeo platonico che consiste in un’allusione, implicita e critica, alla dottrina eraclitea della «nascita» degli elementi gli uni negli altri «in circolo». Platone, tuttavia, non menziona la «via verso l’alto verso il basso», e Filone è influenzato anche da Aristotele, dalle costruzioni della dossografia peripatetica e dalle rielaborazioni della fisica stoica nell’interpretare la «via» di Eraclito come la trasformazione degli elementi, e dalle contemporanee speculazioni medioplatoniche nel considerarla una “morte” e una “rinascita”. Tra la fine dell’età ellenistica e l’inizio di quella imperiale, infatti, il redivivo pitagorismo contamina la tradizione stoica e la teoria fisica del ciclo cosmico, cui appartiene quella delle esalazioni, si fonde con la dottrina della sopravvivenza dell’anima. E nell’ambito della rinascita del platonismo pitagorico, ad Alessandria, tra il I secolo a. C. e il I secolo d. C.314, il fiorire della letteratura dedicata alle Successioni dei filosofi (διαδοχαὶ τῶν φιλοσόφων)315 e Sulle scuole di pensiero (περὶ αἱρέσεων)316 prepara e produce la riscoperta dei Presocratici, considerati gli Antiqui depositari della divina sapienza sulla natura, sulla vita del cosmo e dell’uomo317. Tutto lascia pensare che, all’epoca e nell’ambiente di Filone, l’interpretazione corrente della dottrina eraclitea saldasse cosmologia e psicologia sulla base della dottrina delle esalazioni, e la «via verso l’alto verso il basso» rappresentasse la metafora del ciclo cosmico. Ciò che si evince dai frammenti conservati è che, per Eraclito, il cosmo è un fuoco sempre vivo che si trasforma in tutto ciò che esiste in modo giusto e
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Cf. J. Mansfeld (1992), op. cit., pp. 20 ss. Sull’influenza della letteratura delle Successioni sui tardo-Peripatetici, da cui deriverebbe almeno parte della dossografia di Aezio, cf. J. Mansfeld (1992), op. cit., pp. 25-26 e 40-42, n. 54. 316 Cf. J. Glucker, Antiochus and the Late Academy, Göttingen 1978, pp. 174 ss., 343 ss., che studia il significato del termine αἵρεσις nell’accezione di “scuola di pensiero” o “indirizzo filosofico”, attestata già in Panezio e Clitomaco (II sec. a. C.). A suo avviso, la letteratura Sulle scuole di pensiero si sarebbe diffusa probabilmente ad Alessandria nel I secolo a. C., dunque contemporaneamente a quella delle Successioni, ma avrebbe avuto un interesse più dottrinale che biografico. Su questo tema, cf. anche A. Le Boulluec, La notion d’hérésie dans la littérature grecque : IIe-IIIe siècles, Paris 1985; D.T. Runia, Philo of Alexandria and the Greek Hairesis-Model, «VChr» 53/2 (1999), pp. 117-147. 317 Sulla complessa relazione di Filone con il medioplatonismo, cf. la discussione di D.T. Runia, D. Winston, G.E. Sterling e T.H. Tobin in «SPhA» 5 (1993). 315
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necessario318, secondo misura e proporzione. Più precisamente, il fuoco si muta nell’acqua del mare, e questa si divide in due, una metà diviene terra e l’altra metà, soffio che si infiamma319 e va ad alimentare il fuoco del sole e gli astri celesti320: questa è la via all’insù e all’ingiù che si ripete continuamente, una e la stessa321. In questo processo di incessanti trasformazioni cosmiche si inserisce anche l’anima, e le singole anime, che muoiono trasformandosi in acqua322 ed esalano dall’umido323, per poi ritornare a una sorta di Anima universale o cosmica324, e sono tanto migliori quanto più elevate, cioè asciutte e sapienti, peggiori quando divengono umide e perdono la facoltà razionale325. Il termine «via», associato all’anima, ricorre anche nel frammento 45 DK: «per quanto tu possa andare, non troverai mai i confini dell’anima, anche percorrendo ogni via» (ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν)326. Qui Eraclito sembra far riferimento alla sostanza dell’anima, che non ha limiti, cioè capi o estremità, perché si trasforma in acqua cadendo verso il basso e in fuoco esalando verso l’alto, secondo un ciclo di continui cambiamenti di stato. E’ dunque impossibile, secondo Eraclito, trovare i confini dell’anima, anche percorrendo tutte le vie, cioè compiendo ogni tragitto, rettilineo e circolare, spaziale e temporale, perché la sua natura fisica e psichica scorre continuamente e si espande infinitamente, cioè diventa sempre più profonda e sempre più estesa. Il significato metaforico di «via» nel senso di percorso gnoseologico si troverà invece in Parmenide, che oppone la «via che dice molte cose ed è propria della divinità» (πολύφημον ὁδὸν τοῦ δαίμονος) (28 B 1 DK) alla via dell’opinione dei più, che deve essere abbandonata «perché non del vero è la via» (οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός) (28 B 8 DK). L’applicazione cosmologica e psicologica della «via» testimoniata da Filone e dalle altre fonti, dirette e dossografiche, risulta quindi coerente con la parola di Eraclito e compatibile con il pensiero presocratico. Tuttavia, quello di
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Cf. 22 B 30 DK. Cf. 22 B 31 DK. 320 Cf. 22 A 1 DK. 321 Cf. M.L. West, Early Greek Philosophy and the Orient, Oxford 1971, pp. 135-136. 322 Cf. 22 B 36 DK. 323 Cf. 22 B 12 DK. 324 Cf. 22 A 15-17 DK. 325 Cf. 22 B 117-118 DK. 326 Cf. anche 22 B 71 DK, in cui Eraclito – dice Marco Aurelio – invita a ricordarsi di colui che si dimentica «dove conduce la via» (ἧι ἡ ὁδὸς ἄγει). 319
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Filone sembra essere un Heraclitus ex Heraclito, perché l’Alessandrino fornisce un’esegesi del detto eracliteo della «via» sulla base della fisica di Eraclito. La testimonianza filoniana è dunque utile, non tanto per capire il significato del frammento, ma per comprendere la compenetrazione tra la dottrina cosmogonico-cosmologica e psicogonico-psicologica di Eraclito, confermata dai testi eraclitei e in linea con la speculazione ionica di V secolo a. C. Tipico di Eraclito, infatti, è fornire esempi particolari e concreti, tratti dal mondo della natura e dall’esperienza quotidiana dell’uomo327, per illustrare il più generale e astratto principio che fonda e domina il suo pensiero: l’unità dei contrari. Così, il detto eracliteo «via verso l’alto verso il basso: una e la stessa» potrebbe avere un significato letterale, cioè indicare il sentiero che sale dalla città alla collina e scende dalla collina alla città, o la strada che conduce da sud a nord e da nord a sud328, come negli esempi della Fisica di Aristotele. Eraclito ha probabilmente pensato all’unico percorso nella duplicità delle sue direzioni, una via che è ora verso l’alto ora verso il basso, ma anche un ciclico susseguirsi di vie verso l’alto e verso il basso. La via è dunque la stessa perché simultaneamente e successivamente salita e discesa; detto altrimenti: salita e discesa sono la stessa cosa e le componenti di una stessa cosa. Considerando, inoltre, gli interessi linguistici e logici di Eraclito, non si può escludere che il detto faccia anche riferimento alla «via», in quanto nome significante, nella duplicità dei suoi significati: «verso l’alto» (salita) e «verso il basso» (discesa). L’interpretazione letterale del frammento eracliteo non va dunque rifiutata a causa della sua semplicità, ma deve essere difesa anche e soprattutto in virtù del parallelo con il frammento 59 DK, che precede il 60 DK nel contesto citatore della Refutatio omnium haeresium (IX 10): «delle lettere la via dritta e curva è una e la stessa» (γραφέων329 ὁδὸς εὐθεῖα καὶ σκολιὴ … μία ἐστί … καὶ ἡ αὐτή). La via ascendente-discendente e la via rettilinea-circolare, infatti, sembrano gli esempi attraverso cui Eraclito spiega il principio ontologico e logico dell’unità dei contrari: uno è l’oggetto e il nome “via” nei suoi due sensi contrari. Inoltre, sia il frammento 60 DK sia il 59 DK potrebbero riferirsi al continuo
327 Su Eraclito come “veggente”, cioè Greco dallo spirito “visivo”, che va dall’osservazione del mondo della natura e dell’uomo alla sua spiegazione razionale, cf. R. Laurenti, Dalle cose al logo, in Atti del Symposium Heracliteum (1983), op. cit., pp. 83 ss. 328 Cf. G.S. Kirk (1954), op. cit., pp. 111-112 sulla scia di G. Calogero, Eraclito, «GCFI» 17 (1936), 195-224. 329 Come già detto, questa è la lezione del manoscritto, mentre Diels corregge il testo in γναφείωι.
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trasformarsi dell’unica materia, che si muta e si muove verso l’alto e verso il basso, che segue una linea retta e compie un circolo. Perché allora gli autori antichi hanno fatto del solo frammento 60 DK la formula che esprime il ciclo cosmico eracliteo? Per ciò che concerne il significato preciso del nostro detto – e non il più generale contenuto del pensiero di Eraclito – quella di Filone pare una sovrainterpretazione. Seguendo la sua fonte o le sue fonti, ma anche e soprattutto i suoi interessi personali, l’Alessandrino non trascrive né commenta l’ultima parte del testo eracliteo sulla «via verso l’alto verso il basso»: «una e la stessa» (μία καὶ ὡυτή). Eppure, il doppio predicato è tipico del discorso eracliteo, dello stile letterario e del pensiero filosofico dell’Efesio che proclama l’unità di tutte le cose in generale330, l’unità del giorno e della notte in particolare331, e insiste sull’unità e identità della via dritta e curva332 . Proprio la chiusa del frammento 60 DK suggerisce che, con queste parole Eraclito non intenderebbe tanto descrivere la via verso l’alto e la via verso il basso o identificare l’alto e il basso – come invece Filone e tanta parte della tradizione interpretativa –, bensì dichiarare che le due vie, diverse e opposte, sono una sola e la medesima, cioè decretare la loro unità fisica e identità logica. 8. Filone sul «vivere la morte» e «morire la vita»: Eraclito e Mosé 8.1. La morte dell’uomo e la morte dell’anima L’ultimo dei detti eraclitei che riecheggiano in Aet. 109-111 è il frammento 62 DK, di cui Filone cita e interpreta la seconda parte in Legum allegoriae 1.105-108. Il primo dei tre libri di Allegorie delle Leggi è un commentario di Genesi 2:7 sull’uomo «terrestre» o «plasmato» da Dio con il fango della terra333. Secondo il racconto biblico, quest’uomo vive nell’Eden (Gen. 2:8 ss.), ma non è autorizzato a cibarsi dei frutti dell’albero della Conoscenza del bene e del male che si trova al centro del giardino paradisiaco. Il libro I si conclude, quindi, con l’interpretazione del significato della morte intimata da Dio a coloro
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22 B 10 o 50 DK. 22 B 57 DK. 332 22 B 59 DK. 333 In opposizione, evidentemente, all’uomo «celeste» o «creato» a immagine di Dio (Gen. 1:26), di cui Filone parla in Opif. 69 ss. 331
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che non rispetteranno il divieto di mangiare dell’albero. Il sotto-testo biblico di riferimento è la sanzione legale che la Settanta rende in greco con l’espressione «morire di morte» (θανάτῳ ἀποθανεῖν) (Gen. 2:17)334. Interpretando la ridondanza della formula biblica, Filone spiega che esistono due tipi di morte: una è quella dell’uomo e l’altra, quella della sua anima (Leg. 1.105-108, I, p. 88 Cohn): [Mosé o la Scrittura] dice peraltro: “Il giorno in cui doveste mangiarne [scil. del frutto dell’albero della Conoscenza del bene e del male] morirete di morte” (Gen. 2:17). E dopo averne mangiato, non solo non muoiono, ma fanno anche figli e divengono causa di vita per altri. Che dire allora di ciò? Che la morte è duplice, una è propria dell’uomo e l’altra, dell’anima. Quella dell’uomo, dunque, è la separazione dell’anima dal corpo, mentre la morte dell’anima è la corruzione della virtù e l’acquisizione del vizio. E per questo motivo [Mosé o la Scrittura] non dice semplicemente “morire”, ma “morire di morte”, mostrando che non si tratta in questo caso della morte comune, ma di quella vera e per eccellenza, che è la morte dell’anima seppellita da tutte le passioni e da tutti i vizi. E in un certo senso la seconda morte si oppone alla prima: quella, infatti, è una separazione del composto di corpo e anima; questa, al contrario, un’unione di entrambi, in cui l’inferiore, il corpo, domina, e il superiore, l’anima, è dominato. Là dove [Mosé o la Scrittura] dice “morire di morte”, si badi bene che intende la morte subita come punizione e non quella che sopraggiunge naturalmente. E’ dunque naturale la morte in cui l’anima si separa dal corpo, mentre quella per punizione consiste nel fatto che l’anima muore la vita della virtù e vive solo quella del vizio. Bene anche Eraclito, seguendo su questo punto la dottrina di Mosé, dice infatti: “viviamo la morte di quelle, e moriamo la vita di queste”; cioè, ora che noi viviamo, la nostra anima è morta ed è seppellita nel corpo come in un sepolcro; se invece moriamo, l’anima vive la vita che le è propria, ed è liberata dal male e dal cadavere del corpo legato ad essa335.
334 La doppia espressione traduce una costruzione ebraica con l’infinitivus absolutus, tipica delle condanne legali, come ad esempio Es. 21:12-14, citato e similmente sfruttato da Filone in Fug. 53. Tuttavia, quando cita sanzioni bibliche nella cui formulazione originaria ricorre il «morire di morte», Filone rende l’ebraismo solo per servire scopi allegorici, altrimenti omette o parafrasa θανάτῳ. Cf. D. Zeller (1995), art. cit., p. 26 e nota ad loc. 335 λέγει γε μήν· „ᾗ ἂν ἡμέρᾳ φάγητε ἀπ´ αὐτοῦ, θανάτῳ ἀποθανεῖσθε“ (Gen. 2:17). καὶ φαγόντες οὐχ οἷον οὐκ ἀποθνῄσκουσιν, ἀλλὰ καὶ παιδοποιοῦνται καὶ ἑτέροις τοῦ ζῆν αἴτιοι καθίστανται. τί οὖν λεκτέον; ὅτι διττός ἐστι θάνατος, ὁ μὲν ἀνθρώπου, ὁ δὲ ψυχῆς ἴδιος· ὁ μὲν οὖν ἀνθρώπου χωρισμός ἐστι ψυχῆς ἀπὸ σώματος, ὁ δὲ ψυχῆς θάνατος ἀρετῆς μὲν φθορά ἐστι, κακίας δὲ ἀνάληψις. παρὸ καί φησιν οὐκ ἀποθανεῖν αὐτὸ μόνον ἀλλὰ „θανάτῳ ἀποθανεῖν“, δηλῶν οὐ τὸν κοινὸν ἀλλὰ τὸν ἴδιον καὶ κατ´ ἐξοχὴν θάνατον, ὅς ἐστι ψυχῆς ἐντυμβευομένης πάθεσι καὶ κακίαις ἁπάσαις. καὶ σχεδὸν οὗτος ὁ θάνατος μάχεται ἐκείνῳ· ἐκεῖνος μὲν γὰρ διάκρισίς ἐστι τῶν συγκριθέντων σώματός τε καὶ ψυχῆς, οὗτος δὲ τοὐναντίον σύνοδος ἀμφοῖν, κρατοῦντος
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Il testo di Eraclito citato da Filone: Ζῶμεν τὸν ἐκείνων θάνατον, τεθνήκαμεν δὲ τὸν ἐκείνων βίον («viviamo la morte di quelle [scil. delle anime], e moriamo la vita di queste»), non è identico, ma molto simile alla seconda parte del frammento 62 DK dato dalla Refutatio omnium haeresium IX 10, 6: ζῶντες τὸν ἐκείνων θάνατον, τὸν δὲ ἐκείνων βίον τεθνεῶτες («vivendo la morte di quelli e morendo la vita di questi»)336. La versione filoniana comporta la prima persona plurale (Ζῶμεν [...] τεθνήκαμεν) che esplicita il soggetto del detto eracliteo (noi, gli uomini), altrimenti ambiguo con i participi della Refutatio (ζῶντες [...] τεθνεῶτες). Proprio su questa lezione si basa l’interpretazione filoniana del chiasmo eracliteo «vivere la morte» e «morire la vita»: gli uomini («[noi]») vivono la morte e muoiono la vita delle anime («quelle»). L’Alessandrino osserva che Adamo ed Eva, dopo aver mangiato il frutto proibito da Dio, quello dell’albero della Conoscenza, non solo non muoiono, ma nel racconto della Scrittura generano figli e tutta l’umanità. La soluzione dell’apparente paradosso biblico è che esiste un’altra morte oltre a quella cui tutti pensiamo, e dunque un’altra vita, cioè che la morte, come la vita, è duplice: una concerne l’uomo, l’altra, l’anima. Per questo motivo, secondo Filone, l’espressione ridondante «morire di morte» (θανάτῳ ἀποθανεῖν) di Gen. 2:17 non è casuale – «[Mosé o la Scrittura] non impiega mai un termine superfluo» (Fug. 54) –, ma indica appunto la vera morte dell’anima, seppellita nel “cadavere” del corpo, travolta dal male e dal vizio durante la sua esistenza corporea. Di conseguenza, la vera vita dell’anima consiste nella liberazione dal corpo e comincia proprio al momento della morte alla vita terrena. Filone conclude affermando che questa dottrina di Mosé è stata ripresa anche da Eraclito, ed espressa con le parole: «viviamo la morte di quelle, moriamo la vita di queste».
μὲν τοῦ χείρονος σώματος, κρατουμένου δὲ τοῦ κρείττονος ψυχῆς. ὅπου δ´ ἂν λέγῃ „θανάτῳ ἀποθανεῖν“, παρατήρει ὅτι θάνατον τὸν ἐπὶ τιμωρίᾳ παραλαμβάνει, οὐ τὸν φύσει γινόμενον· φύσει μὲν οὖν ἐστι, καθ´ ὃν χωρίζεται ψυχὴ ἀπὸ σώματος, ὁ δὲ ἐπὶ τιμωρίᾳ συνίσταται, ὅταν ἡ ψυχὴ τὸν ἀρετῆς βίον θνῄσκῃ, τὸν δὲ κακίας ζῇ μόνον. εὖ καὶ ὁ Ἡράκλειτος κατὰ τοῦτο Μωυσέως ἀκολουθήσας τῷ δόγματι, φησὶ γάρ· „Ζῶμεν τὸν ἐκείνων θάνατον, τεθνήκαμεν δὲ τὸν ἐκείνων βίον,“ ὡς νῦν μέν, ὅτε ζῶμεν, τεθνηκυίας τῆς ψυχῆς καὶ ὡς ἂν ἐν σήματι τῷ σώματι ἐντετυμβευμένης, εἰ δὲ ἀποθάνοιμεν, τῆς ψυχῆς ζώσης τὸν ἴδιον βίον καὶ ἀπηλλαγμένης κακοῦ καὶ νεκροῦ συνδέτου τοῦ σώματος. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47 (d1), p. 547; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 338, pp. 247-248. 336 Nella recente edizione di S.N. Mouraviev, il testo eracliteo dato da Filone e quello della Ref. omn. haer. sono considerati due diversi detti di Eraclito. Cf. rispettivamente Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), F 80 C, p. 203; F 62, p. 154.
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Il passaggio filoniano è stato considerato dagli specialisti un centone medioplatonico337, composto di elementi presocratici, platonici e aristotelici. Oltre alla “morte vivente” di Eraclito – l’unico autore antico esplicitamente menzionato e citato nel passo –, Filone farebbe riferimento alla tomba pitagorica, alla punizione orfica, alla vita incorporea dell’anima virtuosa di Platone338 e al cadavere di Aristotele339. La definizione filoniana della morte dell’individuo umano: «quella [scil. la morte] dell’uomo è dunque la separazione dell’anima dal corpo» (ὁ μὲν οὖν ἀνθρώπου χωρισμός ἐστι ψυχῆς ἀπὸ σώματος) riecheggia innanzitutto Platone, Fedone 64 c340, vale a dire le dottrine orfico-pitagoriche secondo cui l’anima acquisisce un’identità indipendente dal corpo che le permette di sopravvivere ad esso e di ricongiungersi al divino341. Tuttavia, affrontando la questione dell’immortalità dell’anima, Platone riprende non solo antiche credenze religiose342 , ma anche la concezione eraclitea secondo cui i contrari derivano l’uno dall’altro, dunque la vita si genera dalla morte e viceversa, poiché passare da vivo a morto è morire, e da morto a vivo è rivivere343. Filone, dal canto suo, trovandosi a commentare un’espressione biblica in cui ricorrono il morire e la morte, non cita Platone, gli Orfici o i Pitagorici, ma Eraclito. Nell’esegesi filoniana che segue la citazione, figurano vocaboli orficopitagorici: il termine σῆμα («sepolcro») come metafora del corpo344, e i verbi
337
Cf. J. Mansfeld (1985), art. cit., pp. 140-141. I passi orfico-pitagorici segnalati da J. Mansfeld (1985), art. cit., p. 132 sono Platone, Crat. 400 c; Gorg. 293 a ss.; Phaed. 80 e-81 e; Phaedr. 248 c-d. 339 Cf. Aristotele, Protr., fr. 10 b Ross. 340 Platone, Phaed. 64 c 4-8: ῎Αρα μὴ ἄλλο τι ἢ τὴν τῆς ψυχῆς ἀπὸ τοῦ σώματος ἀπαλλαγήν; καὶ εἶναι τοῦτο τὸ τεθνάναι, χωρὶς μὲν ἀπὸ τῆς ψυχῆς ἀπαλλαγὲν αὐτὸ καθ᾽ αὑτὸ τὸ σῶμα γεγονέναι, χωρὶς δὲ τὴν ψυχὴν [ἀπὸ] τοῦ σώματος ἀπαλλαγεῖσαν αὐτὴν καθ᾽ αὑτὴν εἶναι; («Forse che [scil. la morte] non è altra cosa che la liberazione dell’anima dal corpo? E questo è esser morto: da un lato il corpo, liberato dall’anima, viene ad essere in sé e per sé, dall’altro l’anima, liberata dal corpo, è in sé e per sé?»). 341 Cf. Platon, Phédon, prés. et trad. par M. Dixsaut, Paris 1991, pp. 339-340, n. 113. A proposito dell’ispirazione orfico e/o pitagorica di Platone, cf. W.K.C. Guthrie, Orpheus and Greek Religion, London, 1935, trad. franç. par S. M. Guillemin, Orphée et la religion grecque. Étude sur la pensée orphique, Paris 1956, pp. 184-189; G. Zuntz, Persephone, Three Essays on Religion and Thought in Magna Graecia, Oxford 1971, pp. 320-322; e W. Burkert (1972), op. cit., p. 133 (cf. pp. 120-136). 342 Cf. Erodoto, II 81 e 123. 343 Cf. Phaed. 72 a; Gorg. 493 a. 344 Cf. Filolao, 44 B 14 DK (= Platone, Gorg. 493 a) 338
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ἐντυμβεύεσθαι («essere seppellito»), detto dell’anima rinchiusa nel corpo345, e ἀπαλλάσσεσθαι («liberarsi»), perché l’anima lascia il corpo346 e rinasce alla sua vita propria347. L’ultimo termine-chiave impiegato da Filone è νεκρός, che compare nel frammento eracliteo 63 DK: «si alzano davanti a lui che è lì e diventano svegli guardiani dei vivi e dei morti» (ἔνθα δ’ ἐόντι ἐπανίστασθαι καὶ φύλακας γίνεσθαι ἐγερτὶ ζώντων καὶ νεκρῶν). Oltre all’aggettivo sostantivato νεκρός, che significa “morto” in opposizione a “vivo”, e che in Filone assume il senso metaforico di “morto vivente”, Eraclito impiega anche il sinonimo poetico νέκυς nel senso di “corpo morto” o “cadavere”. Il frammento eracliteo 96 DK, «i cadaveri sono da buttar via più che gli escrementi» (νέκυες κοπρίων ἐκβλητότεροι), è noto a Filone che lo cita (Fug. 61) – come vedremo –, ma con lo stesso termine usato in Leg. 1.108: νεκρός. L’Alessandrino considera così la parola di Eraclito l’espressione filosofica della dottrina mosaica della duplice vita e della duplice morte: quella dell’uomo e quella dell’anima. Eraclito, considerato da Filone uno degli esegeti greci di Mosé348, è dunque l’autorità di riferimento utilizzata per dare un significato razionale alla sanzione legale «morire di morte» (θανάτῳ ἀποθανεῖν) della Settanta. Interpretando la parola eraclitea per spiegare l’insegnamento della Genesi, Filone sostiene che la vera vita dell’anima è la sua esistenza spirituale, mentre la sua morte è la vita con il corpo349. Questa esegesi allegorica riflette la speculazione filosofica che caratterizza la tradizione alessandrina iniziata da Eudoro (I sec. a. C.)350, vale a dire il medioplatonismo pitagorizzante, che comprende l’insegnamento di Platone alla luce delle antiche e divine dottrine dei sapienti pre-platonici come Pitagora, ma anche Eraclito. La testimonianza di Filone è dunque preziosa non solo per ricostruire la ricezione della filosofia eraclitea, ma anche per la storia della filosofia antica. Menzionando, citando e interpretando Eraclito a proposito della vita e della morte del corpo e dell’anima, Filone da un lato mostra la sua interpretazione
345 Cf. Euripide, frr. 638 e 833 Nauck (pp. 627 e 873 Kannicht). Il frammento euripideo 638 N sull’identificazione tra «vivere» e «morire», d’altronde, è citato da Platone, Gorg. 492 e, prima del passaggio d’ispirazione eraclitea. 346 Cf. Platone, Phaed. 64 c, 80-81; Gorg. 477 a ss. e passim. 347 Su questo tema, cf. P. Courcelle, Le corps-tombeau, «REA» 68 (1966), pp. 101-122; Id., Tradition platonicienne et traditions chrétiennes du corps-prison, «REL» 43 (1965), pp. 406-443. 348 Cf. J. Mansfeld (1985), art. cit., pp. 141-142. 349 Come insegna Platone (Phaed. 91 d), infatti, l’anima è immortale. 350 Cf. M. Zambon (2002), op. cit., p. 177; M. Bonazzi (2008), art. cit., pp. 233-252.
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“orfico-pitagorizzante” di Eraclito, dall’altro induce a pensare che la dottrina trasmessa da Platone, genericamente definita “orfico-pitagorica” e generalmente riassunta nella formula σῶμα-σῆμα («corpo-prigione»), abbia anche una componente eraclitea o sia stata parzialmente condivisa anche da Eraclito. 8.2. La morte del corpo e la vita dell’anima Il secondo luogo in cui Filone menziona esplicitamente Eraclito e cita lo stesso frammento è un passo delle Quaestiones (et Solutiones) in Genesim non conservato nell’originale greco. Si tratta di una questione-soluzione che concerne un versetto biblico differente, cioè Gen. 25:8: «e partendo [i.e. spirando] Abramo morì in una bella vecchiaia» (καὶ ἐκλιπὼν ἀπέθανεν Αβρααμ ἐν γήρει καλῷ). Commentando il testo, l’Alessandrino spiega in che senso bisogna comprendere la vita e la morte di Abramo rispetto alla vita e alla morte della sua anima, ed evoca la parola di Eraclito (QG 4.152): [Che significa “partendo, morì”? E perché “in una buona vecchiaia, vecchio, e pieno di giorni”? (Gen. 25:8)] La lettera [scil. della Scrittura] non pone alcun problema; bisogna, tuttavia, formulare la questione in senso più naturale [i.e. fisico e metafisico, quindi filosofico] e rispondersi che la morte del corpo è la vita dell’anima, in quanto l’anima vive una propria vita incorporea per conto suo. A proposito di ciò, Eraclito, avendo sottratto furtivamente a Mosé la legge e la dottrina, disse: “viviamo la loro morte, e moriamo la loro vita”, alludendo al fatto che la vita del corpo è la morte dell’anima; e ciò che è chiamato morte, è la vita felicissima e prima dell’anima351.
La versione della seconda parte del frammento 62 DK di Eraclito data da Filone, «viviamo la loro morte, e moriamo la loro vita» (vivimus eorum morte, et mortui sumus eorum vita), è probabilmente la stessa di Leg. 1.108 (ζῶμεν τὸν ἐκείνων θάνατον, τεθνήκαμεν δὲ τὸν ἐκείνων βίον), in cui il chiasmo eracliteo si avvale della costruzione dei due verbi di stato con il complemento oggetto interno; di qui la nostra traduzione. Il sotto-testo biblico alla base della quaestiosolutio è la morte di Abramo alla veneranda età di 175 anni, che la Settanta
351 Cf. Aucher, in C. Mercier (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 34 b (1984), pp. 374 e 376, 375 e 377; R. Marcus (ed.), in PLCL, op. cit., Supplement I (1953), p. 434. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47 (d 2), p. 548, che cita la sola traduzione inglese di R. Marcus. Cf. Mour., op. cit., II.A.1 (1999), pp. 248-249, che riporta sia il testo armeno, sia la traduzione latina dell’edizione Aucher (1826), quindi la traduzione inglese di R. Marcus (1952) e la traduzione francese di C. Mercier (1984), che modifica leggermente.
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rende con un duplice predicato: secondo Filone, Mosé ha intenzionalmente impiegato l’espressione «partendo, morì» (ἐκλιπών ἀπέθανεν) a significare che la morte di Abramo è in realtà la “partenza” dell’anima, ovvero la sua liberazione dal corpo. Un parallelo biblico è offerto dal Libro della Sapienza (4:16), in cui è detto: «il giusto morendo condanna gli empi che vivono e la gioventù conclusa rapidamente, la lunga vecchiaia dell’ingiusto» (κατακρινεῖ δὲ δίκαιος καμὼν τοὺς ζῶντας ἀσεβεῖς καὶ νεότης τελεσθεῖσα ταχέως πολυετὲς γῆρας ἀδίκου). L’autore giudeo-alessandrino, quasi contemporaneo di Filone, costruisce una struttura a chiasmo i cui elementi sono i contrari biblici – ed eraclitei – vivere e morire, gioventù e vecchiaia, giustizia e ingiustizia: il giusto muore giovane, ma per vivere eternamente. Come in Leg. 1.108, Filone afferma che l’anima lascia la tomba in cui era sepolta, il corpo, per darsi alla sua vera vita, che è incorporea352 , poiché ciò che chiamiamo comunemente “vita”, quella dell’uomo, è in realtà la morte dell’anima seppellita nella tomba del corpo. Anche in questo caso, dunque, Filone associa alla dottrina “mosaica” il nome di Eraclito, citando lo stesso testo nella versione in cui sono gli uomini a vivere la morte delle anime e a morire la loro vita. A differenza di Leg. 1.108, tuttavia, in cui è detto che Eraclito ha seguito l’insegnamento di Mosé (Μουσέως ἀκολουθήσας τῷ δόγματι), in QG 4.152 Filone accusa Eraclito di aver «sottratto furtivamente a Mosé la legge e la dottrina» ( furtim a Moyse dempta lege, et sententia), ricorrendo ancora una volta al motivo giudeo-cristiano, e tipicamente alessandrino, del “furto dei Greci”, ovvero il plagio delle Scritture – cui si è già fatto riferimento. Inoltre, se nel grande Commentario allegorico Filone parla di morte dell’anima – delle anime di Adamo ed Eva –, in termini di punizione divina che condanna al sepolcro del corpo353, in questo passo, invece, è questione della «morte dell’uomo» – di Abramo –, cioè il processo naturale che pone fine alla vita terrena e sancisce l’inizio della vera esistenza dell’anima. Infine, rispetto al luogo già studiato, in cui Filone parla appunto di morte dell’uomo, l’espressione utilizzata in questo caso è precisamente «morte del corpo»: l’opposizione non è più tra la morte dell’uomo e la morte dell’anima, ma tra la morte del corpo e la vita del corpo.
352
Cf. J. Mansfeld (1985), art. cit., pp. 132, 146-148; D. Zeller (1995), art. cit., pp. 32, 41ss. D. Zeller (1995), art. cit., p. 41 osserva, tuttavia, che la seconda parte della citazione di Eraclito in Leg. 1.108 non è riferita alla vera morte, cioè quella concernente la vita virtuosa – come ci si attenderebbe dalla giustificazione filoniana della formula di Gen. 2:17: θανάτῳ ἀποθανεῖν –, bensì alla morte fisica dell’uomo, che significa la vera vita dell’anima. 353
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Detto ciò, in entrambi i casi Eraclito è l’antico sapiente evocato a rappresentare la concezione, che Filone considera biblica, secondo cui gli uomini “vivono la morte” e “muoiono la vita” delle anime. Questo motivo risale alla credenza religiosa dell’immortalità dell’anima, riconducibile all’orfismo pitagorico confluito nell’opera di Platone, ma simili motivi si ritrovano anche in testi biblici tardi, come la Sapienza, sulla morte e la vita del giusto e dell’ingiusto. La renaissance del tema dell’immortalità, che la testimonianza di Filone permette di collocare nel primo medioplatonismo alessandrino, caratterizza la speculazione filosofica dell’inizio dell’era cristiana; l’origine della peculiare dottrina del “vivere la morte” e “morire la vita”, tuttavia, è pre-platonica e precisamente eraclitea, come testimonia lo stesso Filone. 8.3. «Morire la vita» dell’anima e «morire la vita» del corpo Gli specialisti si dissociano a proposito della reminiscenza dell’ossimoro eracliteo del βίον τεθνάναι («morire la vita») in altri passaggi del corpus philonicum, come ad esempio Det. 48 ss. o QG 1.70354. E’ difficile, in effetti, stabilire di volta in volta se i contesti di Filone si ispirino a Eraclito, e in che misura i suoi argomenti rispecchino il senso del detto eracliteo o siano utili per comprenderlo. Conformemente al metodo e allo scopo della presente ricerca, procederemo ora con l’individuare e l’analizzare solo i luoghi in cui ricorre la lettera del testo di Eraclito355, per capire il significato che Filone attribuisce alla duplice formula, di origine eraclitea, del “vivere la morte” e “morire la vita”.
354 J. Mansfeld (1985), art. cit., pp. 135 ss. studia non solo le occorrenze esplicite (Leg. 1.108 e QG 4.152), ma anche i riferimenti impliciti all’ossimoro eracliteo del βίον τεθνάναι in Filone, così come la combinazione filoniana delle citazioni di Eraclito con le allusioni a Omero [Pitagora, gli Orfici] ed Empedocle, e con le interpretazioni di Platone e Aristotele nei commentari filoniani a Gen. 2:17 (θανάτῳ ἀποθανεῖσθε) e ad Es. 21:12 (θανάτῳ θαναθούσθω) di QG 1.16, 1.70-76; Det. 48 s., 150 ss., 177-178; Gig. 8-15; Fug. 53-64; Spec. 1.345; Somn. 1.138-139. Rimettendo in questione l’ipotesi del centone proto-medioplatonico avanzata da Mansfeld, e la sua ricerca attorno al frammento 62 DK di Eraclito nel corpus philonicum, D. Zeller (1995), art. cit., p. 41, n. 64 e p. 45 n. 85 sostiene che Filone ricorre all’ossimoro del βίον τεθνάναι meno frequentemente di quanto segnalato da Mansfeld e in contesti non sempre ispirati ad Eraclito. 355 Per lo studio di tutti i luoghi in cui Filone tratta il tema della vita e della morte dell’uomo e dell’anima, rinviamo all’articolo di D. Zeller (1995), art. cit.
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8.3.1. Morire la vita della virtù Quod deterius, ovvero Il malvagio tende a sopraffare il buono, è un trattato allegorico dedicato all’episodio narrato in Gen. 4:8-15, vale a dire il fratricidio di Abele per mano di Caino. Secondo Filone, i due fratelli del racconto biblico rappresentano rispettivamente la personificazione della bontà e della malvagità di tutto il genere umano e di ogni singolo uomo, e l’atto scellerato di Caino lo induce a una nuova riflessione sulla morte. E precisamente, commentando Gen. 4:8, Filone interpreta l’omicidio di Abele come il suicidio di Caino (Det. 47-49, I, p. 269 Cohn): Perciò anche quanto segue: “Caino si levò contro suo fratello Abele e lo uccise” (Gen. 4:8), suggerisce, di primo acchito, che Abele sia eliminato, ma a un esame più approfondito, che lo stesso Caino si sia eliminato da sé. Pertanto il versetto va letto così: “Caino si levò e uccise se stesso”, e non un altro. Ed è naturale che gli sia accaduto ciò; infatti, l’anima che ha eliminato da sé la nozione dell’amore della virtù e dell’amore di Dio “muore la vita” della virtù; di conseguenza Abele – massimo del paradosso – è eliminato e nello stesso tempo vive; è eliminato dalla mente dell’uomo dissennato, ma vive la vita felice in Dio. E lo testimonierà il responso dell’oracolo biblico, in cui si trova chiaramente che usa la “voce” e “grida” (Gen. 4:10) ciò che ha sofferto per mano del malvagio congiunto; come è possibile che parli, infatti, chi non esiste più? Se dunque il sapiente, che sembra “morire la vita” corruttibile, vive quella incorruttibile, lo stolto, vivendo la vita nel vizio, “muore la vita” felice356.
Le reminiscenze della seconda parte del frammento 62 DK di Eraclito del passaggio filoniano, τὸν ... τέθνηκε βίον («muore la vita ...»)357, τέθνηκε τὸν ...
356 διὸ καὶ τὸ ἐπιφερόμενον „ἀνέστη Κάιν ἐπὶ Ἄβελ τὸν ἀδελφὸν αὐτοῦ καὶ ἀπέκτεινεν αὐτὸν“ (Gen. 4, 8) κατὰ μὲν τὴν πρόχειρον φαντασίαν ὑποβάλλει, ὅτι Ἄβελ ἀνῄρηται, κατὰ δὲ τὴν ἀκριβεστέραν ἐξέτασιν, ὅτι αὐτὸς ὁ Κάιν ὑφ´ ἑαυτοῦ· ὥσθ´ οὕτως ἀναγνωστέον· „ἀνέστη Κάιν καὶ ἀπέκτεινεν ἑαυτόν,“ ἀλλ´ οὐχ ἕτερον. εἰκότως δὲ τοῦτο ἔπαθεν· ἡ γὰρ ἐξ αὑτῆς ἀνελοῦσα ψυχὴ τὸ φιλάρετον καὶ φιλόθεον δόγμα τὸν ἀρετῆς τέθνηκε βίον· ὥσθ´ ὁ Ἄβελ, τὸ παραδοξότατον, ἀνῄρηταί τε καὶ ζῇ· ἀνῄρηται μὲν ἐκ τῆς τοῦ ἄφρονος διανοίας, ζῇ δὲ τὴν ἐν θεῷ ζωὴν εὐδαίμονα. μαρτυρήσει δὲ τὸ χρησθὲν λόγιον, ἐν ᾧ „φωνῇ“ χρώμενος καὶ „βοῶν“ (Gen. 4, 10) ἃ πέπονθεν ὑπὸ κακοῦ συνδέτου τηλαυγῶς εὑρίσκεται· πῶς γὰρ ὁ μηκέτ´ ὢν διαλέγεσθαι δυνατός; Ὁ μὲν δὴ σοφὸς τεθνηκέναι δοκῶν τὸν φθαρτὸν βίον ζῇ τὸν ἄφθαρτον, ὁ δὲ φαῦλος ζῶν τὸν ἐν κακίᾳ τέθνηκε τὸν εὐδαίμονα. Il passo non compare né nella grande edizione di Eraclito a cura di Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47, pp. 545 ss., né nei più recenti e completi Heraclitea di Mour., op. cit., II.A.1 (1999), pp. 237 ss., ma figurerà come reminiscenza nel vol. II. B, R (Philo) [respectus], in preparazione. 357 Traduciamo il perfetto τέθνηκε («è morta») (o τεθνηκέναι: «essere morta», etc.) con il presente «muore» (o «morire», etc.) per poter mantenere in italiano la costruzione con il complemento oggetto (“muore/morire la vita”).
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(«muore quella ... [scil. la vita]»), τεθνηκέναι ... τὸν ... βίον («morire la vita ... »), richiamano il «moriamo la vita di quelle» (τεθνήκαμεν δὲ τὸν ἐκείνων βίον) di Leg. 1.108 (e QG 4.152). Il passo di Det. 48 s. contiene un chiaro esempio della manipolazione operata da Filone sul testo della Settanta (Gen. 4:8): «Caino si levò contro suo fratello Abele e lo (αὐτόν) uccise». La proposta filoniana di correggere αὐτόν («lo» i.e. l’altro) in ἑαυτόν («si» i.e. se stesso) è finalizzata a dimostrare che Caino non ha ucciso il fratello Abele, bensì l’“Abele” che era in lui, vale a dire la parte buona della sua anima, morendo alla vita spirituale. Per spiegare in che senso Caino ha ucciso il lato migliore di sé, dunque il vero se stesso, Filone afferma che l’anima del malvagio, estirpando da sé ogni principio di bontà e carità, «muore la vita della virtù» (τὸν ἀρετῆς τέθνηκε βίον). E ancora, per Filone il miserabile «muore quella [scil. la vita] felice» (τέθνηκε τὸν εὐδαίμονα); il sapiente, al contrario, che sembra «morire la vita corruttibile» (τεθνηκέναι ... τὸν φθαρτὸν βίον), gode di un’esistenza eterna. Nessun riferimento esplicito a Eraclito compare in Det. 48-49, ma morire la vita virtuosa/felice significa per Filone morire la vera vita dell’anima, come appunto nell’interpretazione del frammento eracliteo data in Leg. 1.108. Anche in questo passo, infatti, la morte dell’anima si identifica con la vita corporea dell’uomo, e il «morire la vita corruttibile» (τεθνηκέναι ... τὸν φθαρτὸν βίον) consiste nella morte biologica dell’uomo, vale a dire l’inizio della vera vita dell’anima. In questo caso, tuttavia, Filone omette l’ossimoro del “vivere la morte” e sviluppa il “morire la vita”; inoltre, qui non è questione del “morire la vita” dell’anima e dell’uomo in generale, ma del miserabile, che “muore la vita” dell’anima, e del sapiente, che “muore la vita” del corpo, cioè vive la morte del corpo. Il tema della morte in vita degli uomini malvagi e della vita dopo la morte dei virtuosi non coincide esattamente con quello della vita e morte dell’uomo (o del corpo) e della morte e vita dell’anima, ma è sottinteso nel contesto in cui Filone ricorre esplicitamente a Eraclito (Leg. 1.108). Questa precisazione sul tipo morale di uomo, stolto o saggio, non sembra del tutto estranea alla dottrina di Eraclito, secondo cui «demone è per l’uomo il proprio modo di essere» (ἦθος ἀνθρώπωι δαίμων) (119 DK)358, ma la spiegazione filoniana del versetto biblico somiglia all’esegesi, frequente nella Haggadah rabbinica, in base alla quale il peccatore, anche se vivo, è considerato morto, mentre il giusto continua
358
Cf. anche 22 B 85 DK.
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a vivere anche dopo la morte359. Del resto, è evidente che in questo caso l’intento di Filone non è la citazione e l’interpretazione di Eraclito360: il passaggio mostra l’applicazione del “morire la vita” eracliteo alla morale biblica, secondo cui la diversa condotta umana determina il diverso destino dell’uomo probo e improbo. Un altro passo filoniano, non conservato in greco, in cui ricorre probabilmente l’ossimoro eracliteo è QG 4.240, un commentario di Gen. 27:45: [Che significa: “ti farò venire a richiamare là, in modo che non sia privata di voi due361”? (Gen. 27:45)] [...] dopo il “morire la vita” della virtù del suo [scil. di Giacobbe] compagno di nascita [i.e. Esaù], [Rebecca] temeva giustamente che anche l’altro figlio, accordandosi alle sensazioni più semplici, andasse progressivamente, tramite esse, verso sensazioni ulteriormente superflue; e che, se avesse amato il luogo, non ne sarebbe ritornato, e le avrebbe procurato il male più grave: la privazione dell’insieme dei pensieri virtuosi362 .
L’espressione «morire la vita» della virtù è con tutta probabilità una traduzione dell’ossimoro eracliteo del βίον τεθνάναι. Commentando Gen. 27:45, in cui Rebecca allontana il figlio cadetto Giacobbe dal luogo in cui il primogenito Esaù aveva minacciato di ucciderlo, Filone spiega che la paura della madre
359
Cf. PAPM, vol. 2 (1962), p. 99, n. 3; PAPM, vol. 17 (1970), p. 140, n. 1. Come J. Mansfeld (1985), art. cit., p. 133 e D. Zeller (1995), art. cit., p. 27 hanno rilevato, un simile argomento si ritrova in Det. 70, che commenta Gen. 4:10: ζῇ μὲν γάρ, ὡς καὶ πρότερον ἔφην, ὁ τεθνάναι δοκῶν, εἴ γε καὶ ἱκέτης ὢν θεοῦ καὶ φωνῇ χρώμενος εὑρίσκεται, τέθνηκε δὲ ὁ περιεῖναι νομιζόμενος τὸν ψυχικὸν θάνατον, ἀρετῆς καθ´ ἣν ἄξιον μόνην ἐστὶ ζῆν ἀποσχοινισθείς («Come ho detto prima, infatti, colui che sembrava esser morto vive, se è vero che lo si ritrova anche supplice di Dio e in atto di usare la voce, mentre colui che si riteneva essere sopravvissuto muore la morte psichica, essendo stato tagliato fuori dalla virtù, conformemente alla quale soltanto è degno vivere»). Anche questo passo è assente dalla raccolta di Marc.Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47, pp. 545 ss., e dagli Heraclitea di Mour., op. cit., II.A.1 In questo caso, tuttavia, nonostante la costruzione del verbo di stato “morire” con il complemento oggetto interno, l’espressione τέθνηκε ... τὸν ψυχικὸν θάνατον («muore la morte psichica») non è un’occorrenza dell’ossimoro eracliteo, in cui i due verbi di stato “vivere” e “morire” reggono l’uno il complemento oggetto interno dell’altro, e non il proprio, come in questo caso (“morire la morte”). Quanto a Det. 177-178, già segnalato da J. Mansfeld (1985), art. cit., p. 139, non ravvisiamo nel τὸ ἀποθνῄσκειν πάντα ... τὸν αἰῶνα («morire per tutta l’eternità») una ricorrenza della parola eraclitea. 361 Seguiamo C. Mercier (ed.), op. cit., p. 500, n. 2, che spiega di espungere “in un sol giorno” dal lemma, perché le parole sono assenti dalla versione latina e non vengono commentate da Filone. 362 Cf. Aucher, in C. Mercier (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 34 b (1984), pp. 500-501; R. Marcus (ed.), in PLCL, op. cit., Supplement I (1953), pp. 541-542. Il passo è assente dalle due maggiori edizioni di Eraclito: Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47, pp. 545 ss.; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), pp. 237 ss. 360
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è quella di perdere entrambi i figli, perché il secondo potrebbe seguire lo stesso destino di perdizione del primo. Per questo motivo, Rebecca invia a Harran il più giovane, per evitare che anche lui “muoia” nell’anima come il maggiore. Esaù, che «muore la vita della virtù», rappresenta quindi il malvagio che, secondo Filone, “muore la vita” dell’anima, che è la vera vita, quella sapiente e virtuosa. 8.3.2. Morire la vera vita Prima della citazione eraclitea di QG 4.152, Filone fa dunque riferimento alla dottrina del «morire la vita» in altri luoghi delle Quaestiones (et Solutiones) in Genesim363. Nella sezione QG 1.67-76, l’Alessandrino si interroga e si risponde sull’omicidio di Abele e sulla punizione di Caino di Gen. 4:8-15. Questo sviluppo costituisce una sorta di mini-trattato corrispondente al commentario allegorico del Quod deterius, che interpreta la stessa pericope biblica364. Il passaggio di QG 1.70 su Gen. 4:10 è stato preservato nell’originale greco sia dalle catene esegetiche, sia dall’Epitome di Procopio di Gaza:
363 QG 1.16 è una domanda-risposta di Filone a propostio del θανάτῳ ἀποθανεῖσθε («morirete di morte») di Gen. 2:17, la stessa espressione ridondante commentata in Leg. 1.105-108, in cui, come sappiamo, è citato Eraclito. Il testo non è stato preservato nell’originale greco, ma solo nella versione armena, e non è possibile stabilire con certezza se l’espressione «l’uomo di valore e degno di tale nome, al contrario, non muore di morte, ma al termine di una lunga vita muore rinascendo alla vita eterna» contenga l’ossimoro del βίον τεθνάναι (“morire la vita”) del frammento 62 DK di Eraclito. J.B. Aucher (1826) traduceva il testo armeno: sed ex vivente prolixo finem sortitur aeternum («ma dopo un lungo vivere ottiene in sorte un’esistenza eterna»); e R. Marcus (in PLCL, op. cit., Supplement I (1953), p. 11): «but after living long, passes away to eternity, that is, he is borne to eternal life» («ma dopo aver vissuto a lungo, se ne va (i.e. muore) all’eternità, cioè, è nato alla vita eterna»); C. Mercier (in PAPM, op. cit., vol. 34 a (1979), p. 80), infine: «mais, au sortir d’une longue vie, la mort le met dans l’éternité» («ma, all’uscita di una lunga vita, la morte lo introduce nell’eternità»). La traduzione latina di Aucher utilizza dunque l’espressione «ottenere in sorte un’esistenza eterna» (cf. Fug. 55 e Somn. 1.140, Plant. 14, Her. 241, etc.) che è del tutto assente nella versione inglese di Marcus, il quale ricorre a una parafrasi interpretativa (traducendo come filoniane le parole esplicative di Aucher): «morire all’eternità significa nascere alla vita eterna». Mercier, dal canto suo, impiega la perifrasi «la morte lo introduce nell’eternità». Sembra dunque che l’espressione utilizzata in QG 1.16 non sia quella del frammento eracliteo citato in Leg. 1.108, ma qualcosa come τελευτᾷ αἰῶνας («muore all’eternità»). Cf. C. Mercier (ed.) in PAPM, op. cit., vol. 34 a (1979), pp. 80-81, spec. n. 2. 364 Cf. J. Mansfeld (1985), art. cit., p. 131.
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[Che significa “la voce del sangue di tuo fratello grida verso di me dalla terra”? (Gen. 4:10)] E’ un altissimo precetto: la divinità, infatti, ascolta gli uomini pii, anche se sono morti, poiché sa che essi vivono la vita incorporea, ma volta la faccia alle preghiere dei miserabili, anche se godono di buona salute, poiché stima che essi “muoiono la” vera “vita”, che si trascinano dietro il corpo come una tomba in cui è seppellita la loro anima infelice365.
Il testo greco permette di ritrovare l’ossimoro eracliteo nell’espressione τὸν ... βίον τεθνάναι («muoiono la ... vita»). Anche in questo passo non è questione di vita e morte dell’uomo, ma dei tipi morali di uomo buono e malvagio, e la prospettiva filoniana è la teodicea biblica: la sorte di vita o morte con cui il Dio giudaico premia e punisce gli uni e gli altri. Così, la parola eraclitea citata in Leg. 1.108 è rielaborata dall’Alessandrino in questi termini: «[i miserabili] muoiono la vera vita» (τὸν ἀληθῆ βίον τεθνάναι), cioè la vita propria dell’anima 366. Vi è, inoltre, almeno un altro passaggio delle Quaestiones (et Solutiones) in Genesim, conservato solo in versione armena, in cui è possibile che ricorra l’ossimoro eracliteo del βίον τεθνάναι. Si tratta di QG 4.46, un commento a Gen. 19:17:
365 [Τί ἐστι «φωνὴ αἵματος τοῦ ἀδελφοῦ σου βοᾷ πρὸς μὲ ἐκ τῆς γῆς»; (Gen. 4:10)] Δογματικώτατόν ἐστι· τὸ γὰρ θεῖον ὁσίων μὲν ὑπακούει κἂν τελευτήσωσι, ζῆν αὐτοὺς ὑπολαμβάνον τὴν ἀσώματον ζωήν, εὐχὰς δὲ φαύλων ἀποστρέφεται κἂν εὐεξίᾳ χρῶνται, νομίζον αὐτοὺς τὸν ἀληθῆ βίον τεθνάναι, τὸ σῶμα οἷα τύμβον περιφέροντας, ᾧ τὴν παναθλίαν ψυχὴν ἐγκατώρυξαν. F. Petit (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 33 (1978), pp. 67-68. Il passo non compare né nell’edizione di Eraclito a cura di Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47, pp. 545 ss., e non ancora in quella di Mour., op. cit., II.A.1 (1999), pp. 237 ss. 366 In QG 1.76 su Gen. 4:15, non preservato in greco, Filone conclude la sezione facendo allusione a una morte che è «cambiamento di vita». La traduzione dall’armeno di R. Marcus (ed.), op. cit., p. 45 è: «one kind of death is the change of nature of the living», mentre quella di C. Mercier (ed.), op. cit., pp. 144145, fedele al latino di J.B. Aucher (vivendi commutatio naturae mors una est): «il y a une mort selon la nature [nota ad. loc.: «litt. “ de la nature”»], qui est changement de vie». Filone fa anche riferimento a una vita «senza età e perfettamente immortale che le anime incorporee hanno ottenuto in sorte». Cf. R. Marcus (ed.), op. cit., p. 45: «But there is another life unaging and immortal, which incorporeal souls receive as their lot» e C. Mercier (ed.), op. cit., pp. 144-145: «Mais il y en a une autre qui ne connaît pas de vieillesse, parfaitement immortelle, que les âmes incorporelles ont reçue en partage» sulla base del latino: sed alia datur senio carens, et magis immortalis, quam incorporeae animae sortitae sunt. Per Filone, infatti, «ottenere in sorte un destino immortale» è proprio delle anime incorporee (cf. Fug. 55 e passim) e di quelle degli uomini virtuosi. Il passaggio non presenta l’ossimoro eracliteo del frammento 62 DK, ma richiama quello già esaminato di QG 1.16, in cui era questione della morte dell’uomo di valore come rinascita alla vita eterna, cioè dell’applicazione del “morire la vita” di Eraclito all’uomo sapiente e virtuoso, per il quale la morte del corpo è la rinascita dell’anima.
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[Che significa: “Salvati su questa montagna, per non esser preso tra loro”? (Gen. 19:17)] [...] E’ stato dunque pronunciato questo responso e questo monito divino, cioè che quanti si curano delle cose inferiori, basse e terrene, “muoiono” nell’anima “la” vera “vita”, andando a spasso pur essendo in certo senso morti; ma coloro che aspirano alle cose celesti e che si sono elevati verso l’alto, saranno i soli ad essere salvati, scambiando questa vita mortale con quella immortale367.
Dato il contesto, non è impossibile che il testo greco originario contenesse il βίον τεθνάναι di Eraclito nell’espressione «muoiono ... la ... vita». Le varie traduzioni della versione armena (moriuntur anima a vera vita; shall die in respect of true life – the soul; meurent en leur âme à la vraie vie) non permettono di determinarlo con certezza. Se anche il sotto-testo biblico (Gen. 19:17) è differente dai precedenti, infatti, Filone lo riconduce allo stesso tema della morte in vita del malvagio. Commentando l’esortazione degli angeli divini a Loth di salvarsi salendo sulla montagna, l’Alessandrino afferma che, quanti rimangono nei “bassifondi” terrestri, attaccandosi a tutto ciò che è terreno e corporeo, «muoiono nell’anima la vera vita». Questi uomini sono per Filone quelli che conducono una vita sensuale e passionale, seppellendo la loro anima nel vizio e nel peccato. Conformemente all’insegnamento biblico, gli uomini “muoiono la vita” quando sembrano vivere, ma in realtà sono in preda alla morte, cioè morti viventi. Nell’ultima parte del passaggio filoniano: «scambiando questa vita mortale con quella immortale» (mortalem hanc vitam in vitam immortalitatis commutantes), si ritrovano il termine o il concetto eracliteo (cf. B 90 DK) di «scambio» (ἀνταμοιβή-ἀμοιβή), e il chiasmo della prima parte del frammento 62 DK: «immortali mortali, mortali immortali» (ἀθάνατοι θνητοί, θνητοὶ ἀθάνατοι), come in Aet. 109-111. 8.3.3. Morire la vita corporea Oltre a Det. 48-49 e ai passaggi di QG, Filone ricorre all’ossimoro del frammento 62 DK di Eraclito in un altro trattato del Commentario Allegorico: De Gigantibus. Lo scritto è dedicato all’esegesi di Gen. 6:1-4, in cui si narra 367 Cf. Aucher in C. Mercier (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 34 b (1984), pp. 222 e 224, 223-225; R. Marcus (ed.), in PLCL, op. cit., Supplement I (1953), pp. 321-322. Il passo non figura nell’edizione di Eraclito a cura di Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47, pp. 545 ss.; né per il momento in quella di Mour., op. cit., II.A.1 (1999), pp. 237 ss.
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l’unione tra gli angeli e le figlie degli uomini che genera appunto le gigantesche creature. Prendendo spunto dall’espressione biblica «gli angeli di Dio» (οἱ ἄγγελοι τοῦ θεοῦ) di Gen. 6:2, Filone si diffonde sulla natura delle anime che volano nell’aria, chiamate “demoni” dai filosofi e “angeli” da Mosé. L’Alessandrino spiega allora che esistono due tipi di anime: quelle che rimangono presso Dio, vale a dire gli angeli, e quelle che si incarnano in corpi terrestri. Proprio di queste ultime è questione in Gig. 13-15 (II, p. 44 Wendland): Ma quelle [scil. le anime] che sono scese in un corpo come in un fiume, ora, afferrate dall’ondata di un fortissimo vortice, ne sono state inghiottite, ora, riuscendo a resistere alla corrente, dapprima sono riemerse, poi sono risalite di nuovo in un batter d’ali al luogo da cui avevano spiccato il volo. Queste ultime sono le anime di coloro che hanno fatto filosofia in modo autentico, che dall’inizio alla fine si sono esercitate a “morire la vita” vissuta con il corpo, per partecipare alla vera vita incorporea e incorruttibile presso l’Ingenerato e Incorruttibile; quelle [scil. le anime] che sono precipitate a picco, invece, sono quelle degli altri uomini, quanti hanno disdegnato la sapienza dedicandosi a realtà instabili ed effimere, nessuna delle quali si eleva verso ciò che c’è di migliore in noi, l’anima o l’intelletto, ma si rivolgono tutte al “cadavere” che ci è connaturato, il corpo, o a ciò che è ancor più inanimato di lui, voglio dire fama, ricchezze, potere, onori, e tutte le altre cose che sono scolpite o dipinte nell’inganno di una falsa opinione da coloro che non contemplano le vere bellezze368.
L’espressione filoniana τὸν ... ἀποθνῄσκειν βίον («morire la vita») è un’altra occorrenza dell’ossimoro βίον τεθνάναι della seconda parte del frammento di Eraclito. In questo sviluppo, l’Alessandrino distingue due tipi di anime umane: quelle dei filosofi, che pur essendo scese nel fiume del corpo, fuoriescono da esso risalendo al luogo di origine, e quelle degli altri uomini che si lasciano travolgere dal fiume sensuale della vita corporea. A questi due generi di anime corrispondono implicitamente le due categorie morali di uomini virtuosi e vi-
368 ἐκεῖναι δ´ ὥσπερ εἰς ποταμὸν τὸ σῶμα καταβᾶσαι ποτὲ μὲν ὑπὸ συρμοῦ δίνης βιαιοτάτης ἁρπασθεῖσαι κατεπόθησαν, ποτὲ δὲ πρὸς τὴν φορὰν ἀντισχεῖν δυνηθεῖσαι τὸ μὲν πρῶτον ἀνενήξαντο, εἶτα ὅθεν ὥρμησαν, ἐκεῖσε πάλιν ἀνέπτησαν. αὗται μὲν οὖν εἰσι ψυχαὶ τῶν ἀνόθως φιλοσοφησάντων, ἐξ ἀρχῆς ἄχρι τέλους μελετῶσαι τὸν μετὰ σωμάτων ἀποθνῄσκειν βίον, ἵνα τῆς ἀσωμάτου καὶ ἀφθάρτου παρὰ τῷ ἀγενήτῳ καὶ ἀφθάρτῳ ζωῆς μεταλάχωσιν, αἱ δὲ καταποντωθεῖσαι τῶν ἄλλων ἀνθρώπων ὅσοι σοφίας ἠλόγησαν ἐκδόντες ἀστάτοις καὶ τυχηροῖς πράγμασιν ἑαυτοὺς, ὧν οὐδὲν εἰς τὸ κράτιστον τῶν ἐν ἡμῖν, ψυχὴν ἢ νοῦν, ἀναφέρεται, πάντα δὲ ἐπὶ τὸν συμφυᾶ νεκρὸν ἡμῶν, τὸ σῶμα, ἢ ἐπὶ τὰ ἀψυχότερα τούτου, δόξαν λέγω καὶ χρήματα καὶ ἀρχὰς καὶ τιμὰς καὶ ὅσα ἄλλα ὑπὸ τῶν μὴ τεθεαμένων τὰ πρὸς ἀλήθειαν καλὰ ἀπάτῃ ψευδοῦς δόξης ἀναπλάττεται ἢ ζωγραφεῖται. Il passo non è compreso nelle maggiori edizioni di Eraclito: Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47, pp. 545 ss.; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), pp. 237 ss.
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ziosi, a proposito dei quali l’Alessandrino suole utilizzare l’espressione “morire la vita”. Il contesto, d’altronde, ricorda i frammenti “del fiume” di Eraclito369 e la suggestione platonica (Tim. 43 a-d) dell’anima che entra nel corpo come in un fiume, ma anche e soprattutto Filone, Somn. 1.147. L’allusione al «cadavere che ci è connaturato» (τὸν συμφυᾶ νεκρὸν ἡμῶν), invece, è un riferimento al frammento di Eraclito (96 DK) sui «cadaveri» (νέκυες), che Filone cita in Fug. 61 – di cui ci occuperemo. In questo caso, l’espressione «morire la vita» è applicata non più allo stolto, che muore la vita dell’anima, bensì al sapiente, che muore la vita del corpo, perché la vita terrestre dell’uomo è considerata viziosa e mortale. Ricorrendo alla concezione platonica (Phaed. 67 e; 81 a) della filosofia come esercizio di morte, in quanto separazione dell’anima dal corpo, Filone afferma che le anime di coloro che fanno filosofia in modo autentico si esercitano a «morire la vita vissuta con i corpi» (τὸν μετὰ σωμάτων ἀποθνῄσκειν βίον). Questo è dunque un altro esempio della rielaborazione e dell’applicazione filoniana del motivo eracliteo: secondo Filone, come l’uomo vizioso “muore la vita” virtuosa, così l’uomo virtuoso “muore la vita” viziosa: e questo morire la vita del corpo significa vivere la vita dell’anima370. 8.3.4. I morti viventi Filone impiega l’espressione eraclitea del βίον τεθνάναι anche in un altro trattato allegorico del grande Commentario al Pentateuco di Mosé, vale a dire nel Quis heres, dedicato – come sappiamo – al patto di Dio con Abramo di Gen. 15:1-18. Qui l’Alessandrino fa riferimento anche ad altri versetti biblici, tra cui Gen. 3:20 «Adamo chiamò la sua donna con il nome di Vita, poiché è la madre di tutti i viventi» (᾿Αδὰμ τὸ ὄνομα τῆς γυναικὸς αὐτοῦ Ζωή, ὅτι αὕτη μήτηρ πάντων τῶν ζώντων). Secondo l’interpretazione allegorica di Filone, Adamo rappresenta l’intelletto terrestre che, alla vista della creazione di Eva, simbolo della sensazione, «chiamò “vita” quella che era la sua morte» (τὸν ἑαυτοῦ θάνατον ζωὴν ἐκείνην ὠνόμασεν) (Her. 52). Riflettendo sul nome “Vita” che 369
Cf. 22 B 12, 49a e 91 DK. Un passo paragonabile a Gig. 14 è Cher. 8, in cui è questione di ἐκλιπόντων τὰ γυναικεῖα καὶ ἀποθανόντων τὰ πάθη («coloro che abbandonano le debolezze femminili e muoiono le passioni»). Anche in questo caso, l’espressione utilizzata da Filone è diversa dall’ossimoro βίον τεθνάναι del frammento 62 DK di Eraclito sia nella forma, perché non vi compaiono né βίον né τεθνάναι, sia nel contenuto, perché riferita agli uomini che muoiono la vita del corpo, non quella dell’anima. 370
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Adamo dà a Eva, Filone elabora un altro argomento sulla vita e la morte (Her. 53, III, p. 13 Wendland): [scil. Mosé o la Scrittura] dice, infatti: “Adamo chiamò la sua donna con il nome di Vita, perché lei è la madre di tutti i viventi” (Gen. 3:20); in verità andrebbe detto di quei viventi che “muoiono” in realtà “la vita” dell’anima. Quei viventi, invece, che vivono veramente, hanno per madre la Sapienza, mentre la sensazione è una serva creata dalla natura per servire la scienza 371.
Un’altra occorrenza dell’ossimoro βίον τεθνάναι si ritrova nell’espressione τῶν ... τεθνηκότων ... βίον («di quanti ... muoiono ... la vita»). Se nel testo biblico di Gen. 3:20 Adamo dà alla propria donna il nome di Eva, che significa “vita”, perché madre dei viventi, questa rappresenta, secondo l’Alessandrino, la morte. Filone concepisce, infatti, due categorie di viventi: «quelli che “muoiono” in realtà “la vita” dell’anima» (τῶν πρὸς ἀλήθειαντὸν ψυχῆς τεθνηκότων δήπου βίον), e «quelli, invece, che vivono veramente» (οἱ δὲ ζῶντες ὄντως). A suo avviso, Eva, allegoria della sensazione, è la madre dei viventi la cui vita non è vera vita, perché solo vita del corpo e quindi morte dell’anima. Filone non menziona Eraclito, ma il suo argomento richiama in particolare il frammento eracliteo 48 DK: «il nome dell’arco è “vita”, mentre la sua opera è la morte» (βίος: τῶι οὖν τόξωι ὄνομα βίος, ἔργον δὲ θάνατος) e, in generale, la dottrina eraclitea dell’unità e dell’identità dei contrari vita e morte, vivere e morire. Filone applica a un certo tipo di uomini, cioè a quelli che vivono secondo la sensazione corporea, invece che nella sapienza divina, quanto Eraclito afferma nel frammento citato in Leg. 1.108. Il passaggio presenta quindi un altro caso di adattamento del “morire la vita” di Eraclito all’esplicazione di un certo versetto biblico in cui è questione di vita e di viventi sulla terra: se la vita è sensuale, allora secondo Filone, essa si identifica con la morte dell’anima372 . 371 „ἐκάλεσε“ γάρ φησιν „Ἀδὰμ τὸ ὄνομα τῆς γυναικὸς αὐτοῦ ζωή, ὅτι αὕτη μήτηρ πάντων τῶν ζώντων“ (Gen. 3, 20), τῶν πρὸς ἀλήθειαντὸν ψυχῆς τεθνηκότων δήπου βίον. οἱ δὲ ζῶντες ὄντως μητέρα ἔχουσι σοφίαν, αἴσθησιν δὲ δούλην πρὸς ὑπηρεσίαν ἐπιστήμης ὑπὸ φύσεως δημιουργηθεῖσαν. Anche questo passo è sfuggito agli editori di Eraclito: Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47, pp. 545 ss.; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), pp. 237 ss. 372 Nel medesimo trattato (Her. 292), Filone ritorna sul tema commentando in questo modo la bella vecchiaia (Gen. 15:15) promessa da Dio ad Abramo: μόνον τὸν ἀστεῖον εὐγήρων καὶ μακροβιώτατον, ὀλιγοχρονιώτατον δὲ τὸν φαῦλον, ἀποθνῄσκειν ἀεὶ μανθάνοντα, μᾶλλον δὲ τὴν ἀρετῆς ζωὴν ἤδη τετελευτηκότα («solo l’uomo di valore gode di una bella vecchiaia e della più lunga delle vite, laddove il miserabile ha la vita più breve, imparando sempre a morire, o meglio, avendo già portato a termine la vita della virtù»).
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8.3.5. Morti da vivi e vivi da morti Vi è, infine, un altro luogo esegetico in cui Filone, senza riprodurre il testo eracliteo, fa riferimento al duplice ossimoro in forma di chiasmo del frammento 62 DK. Il passo si trova in un altro scritto del grande Commentario allegorico dedicato all’esegesi di Gen. 16:6-12, vale a dire De fuga et inventione, un trattato dedicato alla fuga della serva egiziana Agar dalla padrona Sara e al suo ritrovamento. Nel commentare la fuga, Filone esamina i vari tipi di peccato grave, a cominciare dalle colpe inespiabili, come l’omicidio volontario e premeditato per i quali la Legge prevede la condanna a morte. In Fug. 53, l’Alessandrino fornisce l’esegesi di un’altra sanzione biblica ridondante, Es. 21:12: θανάτῳ θαναθούσθω («morirà di morte»)373, con cui la Settanta traduce l’ebraico «sarà condannato a morte»374. Su questo nuovo «morire di morte», Filone imposta una nuova speculazione sulla duplice vita e duplice morte: quella dell’uomo e quella dell’anima. La spiegazione della morte dell’omicida, secondo cui si muore nell’anima quando si è ancora biologicamente vivi, contiene un’altra allusione al frammento eracliteo (Fug. 55, III, p. 122 Wendland): Di che cos’altro perisce, infatti, chi muore, se non di morte? Ho fatto dunque ricorso a una donna sapiente, il cui nome è riflessione, che mi ha liberato dai miei dubbi: mi ha insegnato, infatti, che “alcuni anche da vivi sono morti e [altri] anche da morti vivono”. Ha detto che i miserabili, anche se giungono fino all’estrema vecchiaia, sono “cadaveri”, perché privi della vita secondo virtù, mentre gli uomini di valore, anche quando si disgiungono dal legame con il corpo, vivono per sempre, avendo ottenuto in sorte un destino immortale375.
L’espressione filoniana τὴν ἀρετῆς ζωὴν ἤδη τετελευτηκότα («avendo già portato a termine la vita della virtù») richiama indubbiamente l’ossimoro eracliteo del βίον τεθνάναι, ma il verbo impiegato da Filone è in questo caso il perfetto di τελευτάω e non quello del sinonimo θνῄσκω, come appunto nel frammento 62 DK di Eraclito. 373 Cf. J. Mansfeld (1985), art. cit., pp. 140 e passim. 374 Cf. PR (2005), op. cit., p. 932. 375 τίνι γὰρ ἄλλῳ ὁ ἀποθνῄσκων ἢ θανάτῳ τελευτᾷ; φοιτήσας οὖν παρὰ γυναῖκα σοφήν, ᾗ σκέψις ὄνομα, τοῦ ζητεῖν ἀπηλλάγην· ἐδίδαξε γάρ με, ὅτι καὶ ζῶντες ἔνιοι τεθνήκασι καὶ τεθνηκότες ζῶσι. τοὺς μέν γε φαύλους ἄχρι γήρως ὑστάτου παρατείνοντας νεκροὺς ἔλεγεν εἶναι τὸν μετ´ ἀρετῆς βίον ἀφῃρημένους, τοὺς δὲ ἀστείους, κἂν τῆς πρὸς σῶμα κοινωνίας διαζευχθῶσι, ζῆν εἰσαεί, ἀθανάτου μοίρας ἐπιλαχόντας. Il passo è assente dall’Editio Maior di Eraclito, ora in Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47, pp. 545, ma appare nei più recenti Heraclitea a cura di Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 340, p. 249.
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L’espressione καὶ ζῶντες ἔνιοι τεθνήκασι καὶ τεθνηκότες ζῶσι («alcuni anche da vivi sono morti e [altri] anche da morti vivono») riecheggia, anche se non riproduce, la parola eraclitea. La tematica dell’omicidio, oggetto del versetto biblico commentato in questo passo, induce Filone a porre l’accento sulla dimensione etica della morte: la morte dell’anima, sepolta nel corpo e uccisa dal male, è quella dell’uomo malvagio, mentre la vera vita è quella del buono che, avendo ricevuto il dono dell’immortalità, continua a vivere anche dopo la morte corporea. Affermando che i miserabili sono «cadaveri» (νεκροί) ambulanti, Filone allude anche al frammento 96 DK «i cadaveri sono da buttar via più che gli escrementi» (νέκυες κοπρίων ἐκβλητότεροι) – su cui ritorneremo tra breve. Chiamando in causa l’insegnamento della signora Skepsis, personificazione della riflessione filosofica sulla Scrittura, Filone prospetta una duplice equazione tra la virtù, il bene e la vita da una parte, il vizio, il male e la morte dall’altra, tra il virtuoso sempre vivo da un lato, e il malvagio sempre morto dall’altro (Fug. 58)376. Secondo l’Alessandrino, infatti, l’uomo che vive in Dio riceve il premio dell’immortalità, cioè la vita eterna, laddove il malvagio, che è morto nell’anima, è condannato al confino nel regno del mortale, vale a dire alla morte eterna. *
*
*
In conclusione, Filone menziona Eraclito e cita un testo prossimo alla seconda parte del frammento 62 DK, «viviamo la morte di quelle, moriamo la vita di queste» (ζῶμεν τὸν ἐκείνων θάνατον, τεθνήκαμεν δὲ τὸν ἐκείνων βίον) in Leg. 1.108, e verosimilmente in QG 4.152, a proposito di un altro versetto biblico. In entrambi i casi, Eraclito è l’autorità filosofica evocata per spiegare – e implicitamente legittimare – la dottrina che Filone attribuisce a Mosé: la “vita dell’uomo” è la “morte dell’anima” incorporata, e la “morte dell’uomo” è la “vita dell’anima” incorporea. Senza menzione, né citazione di Eraclito, l’ossimoro eracliteo del “morire la vita” (βίον τεθνάναι) e la dottrina del “vivere la morte” ricorrono in luoghi esegetici come Det. 48 s., QG 1.70 e altri, in cui Filone applica l’espressione più che il concetto eracliteo all’uomo stolto-vizioso, che muore nel corpo, e a quello sapiente-virtuoso, che vive secondo lo spirito.
376
Cf. PR, op. cit., pp. 932 e 978, n. 35.
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In tutti questi passi, l’Alessandrino mostra di aver assimilato un certo Eraclito, perché rimaneggia liberamente e diversamente, secondo la morale e la teodicea biblica, il motivo dell’identità tra la vita e la morte o tra il vivere e il morire, ma nella prospettiva dell’opposizione platonica tra anima e corpo, di cui non è questione nel testo eracliteo. Bisogna ora chiedersi qual è il rapporto di Filone con le altre fonti al fine di valutare la sua citazione di Eraclito e apprezzare le sue applicazioni dell’ossimoro eracliteo, quindi attribuire loro un significato e un ruolo nella storia degli Heraclitea. 9. Le parti e le varianti del frammento 9.1. Eraclito e la Refutatio omnium haeresium: dei mortali, uomini immortali Prima di Filone, vaghe reminiscenze della parola e della dottrina eraclitea si trovano in Platone, Fedone 72 a: «i vivi vengono dai morti non meno che i morti dai vivi» (τοὺς ζῶντας ἐκ τῶν τεθνεώτων γεγονέναι οὐδὲν ἧττον ἢ τοὺς τεθνεῶτας ἐκ τῶν ζώντων); o Gorgia 493 a: «Infatti ho anche già sentito dire da sapienti che al momento presente noi siamo morti e che il corpo è per noi una tomba, e che quella parte dell’anima in cui risiedono le passioni si trova ad essere influenzata e a muoversi verso l’alto verso il basso» (ἤδη γάρ του ἔγωγε καὶ ἤκουσα τῶν σοφῶν ὡς νῦν ἡμεῖς τέθναμεν καὶ τὸ μὲν σῶμά ἐστιν ἡμῖν σῆμα, τῆς δὲ ψυχῆς τοῦτο ἐν ᾧ ἐπιθυμίαι εἰσὶ τυγχάνει ὂν οἷον ἀναπείθεσθαι καὶ μεταπίπτειν ἄνω κάτω). Filone, tuttavia, è il primo a menzionare esplicitamente Eraclito e a fornire una certa citazione del frammento 62 DK. Nel II secolo della nostra era, il detto è molto popolare; solo una fonte, tuttavia, lo cita per intero, nelle due parti che lo compongono: il grammatico Eraclito. Nei suoi Problemi omerici sugli dei, l’allegorista omerico intende dimostrare che il Poeta è ricorso all’allegoria prima dei filosofi, e che dunque tutti gli antichi “naturalisti” sono tributari di Omero. Eraclito l’Oscuro, a suo avviso, fa parte di questi fisici (Quaest. Hom. 24, 3-6, pp. 29-30 Buffière): Così Eraclito l’Oscuro parla dei divini segreti della natura in termini non chiari e attraverso immagini simboliche, quando dice: “Dei mortali: uomini immortali, vivendo la morte di quelli, morendo la vita di questi”; e ancora: “Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo” (22 B 49a DK). Tutto
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ciò che dice Sulla natura, lo esprime quindi enigmaticamente attraverso l’allegoria. E che dire di Empedocle di Agrigento377?
La versione del frammento 62 DK di Eraclito data dal suo omonimo è Θεοὶ θνητοί· [τ᾽] ἄνθρωποι ἀθάνατοι, ζῶντες τὸν ἐκείνων θάνατον, θνῄσκοντες τὴν ἐκείνων ζωήν («Dei mortali: uomini immortali, vivendo la morte di quelli, morendo la vita di questi»). Il commentatore omerico cita il detto a memoria o modificandolo deliberatamente per meglio adattarlo al suo argomento sull’oscurità degli antichi poeti e filosofi. Per ciò che concerne la prima parte, il chiasmo ha «dei» (Θεοὶ) in luogo del primo «immortali» e «uomini» (ἄνθρωποι) al posto del secondo «mortali», vale a dire sinonimi che, a svantaggio della specularità formale, esplicitano l’equazione tra i termini dei-immortali e uomini-mortali. Questa prima metà del frammento eracliteo sarà citata, separatamente, anche da Massimo di Tiro (Dial. IV 4 c-5 a, pp. 44-45 Koniaris)378, che invita a interpretare allegoricamente il discorso poetico e filosofico sulla duplice natura degli dei; non solo i racconti mitici di Omero e di Platone, ma anche gli enigmi di Ferecide379 e di Eraclito: «dei mortali, dei immortali» (θεοὶ θνητοί, θεοὶ ἀθάνατοι)380. Il chiasmo eracliteo ritorna, diversamente, in altri autori contemporanei381, come il comico Luciano di Samosata 377 Ὁ γοῦν σκοτεινὸς Ἡράκλειτος ἀσαφῆ καὶ διὰ συμβόλων εἰκάζεσθαι δυνάμενα θεολογεῖ τὰ φυσικὰ δι᾽ ὧν φησί· Θεοὶ θνητοί· [τ᾽] ἄνθρωποι ἀθάνατοι, ζῶντες τὸν ἐκείνων θάνατον, θνῄσκοντες τὴν ἐκείνων ζωήν· καὶ πάλιν· Ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν, εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν· ὅλον τε τὸ περὶ φύσεως αἰνιγματῶδες ἀλληγορεῖ. Τί δ᾽ ὁ Ἀκραγαντῖνος Ἐμπεδοκλῆς; Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47 (b1), pp. 545-546; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 355, pp. 264-265. 378 La seconda parte del frammento invece, si trova, come sappiamo, nell’Orazione XLI (4 i-k, p. 491 Koniaris) in cui Massimo interpreta la parola di Eraclito in relazione alle trasformazioni fisiche della materia, che corrispondono a “morti” parziali della “vita” totale dell’universo in continua generazione. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47 (b2), p. 546; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 573, pp. 455-456. 379 La stessa associazione tra Ferecide ed Eraclito ritorna negli autori cristiano-alessandrini Clemente (Strom. V 8, 50, 2-3) e Origene (Contr. Cels. VI 42), poi in Plotino, Enn. V 1 [10], 8-9, a proposito dell’identificazione delle differenti versioni della dottrina delle “tre nature” – l’Uno, l’intelletto e l’anima – professata sia dai discepoli di Pitagora (Eraclito, Empedocle, Parmenide, Platone) sia dal maestro (Ferecide). Cf. J. Mansfeld (1992), op. cit., pp. 303 ss.; D.J. O’Meara (2005), art. cit., pp. 106 ss. 380 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47 (b2), p. 546; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 572, p. 455. 381 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47 (b 4), p. 546; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), pp. 451-452. J. Pépin (1971), op. cit., pp. 41-42, osserva che Luciano ha agito più liberamente sul testo eracliteo, introducendo una nozione assente dai passi paralleli di Eraclito e Massimo di Tiro: l’affermazione che gli «dei mortali» designano gli uomini e che gli «uomini immortali» designano gli dei. Tale innovazione, di Luciano o della sua fonte, permette a Pépin (ibid.) di concludere che il frammento 62 DK di Eraclito è sullo sfondo di tutti i testi dell’Antichità che definiscono l’uomo come un “dio mortale”: da Euripide
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(Vitarum auctio 14, 17-21) che mette in scena un dialogo satirico tra un compratore di piazza ed Eraclito che risponde, piagnucolando: «Cosa sono gli uomini? Dei mortali. E gli dei? Uomini immortali» {ΑΓΟΡΑΣΤΗΣ} Τί δὲ ἄνθρωποι; {ΗΡΑΚΛΕΙΤΟΣ} Θεοὶ θνητοί. {ΑΓΟΡΑΣΤΗΣ} Τί δὲ θεοί; {ΗΡΑΚΛΕΙΤΟΣ} Ἄνθρωποι ἀθάνατοι) (22 C 5 DK). Per l’apologista Clemente (Paed. III 1, 1,5 -2,1)382 , Eraclito diceva giustamente «”Uomini dei, dei uomini”. Il Logos, infatti, è lo stesso» (Ἄνθρωποι θεοί, θεοὶ ἄνθρωποι. Λόγος γὰρ ωὐτός)383. Secondo il mistero cristiano dell’incarnazione, il Logos è il Verbo di Dio che si è fatto uomo e quindi il mediatore, colui che determina e garantisce che l’umano sia fatto a immagine e somiglianza del divino384. Il chiasmo riecheggia anche nel Corpus Hermeticum (XII 1, 1-10): «e infatti Agatodèmone ha detto “ dei immortali, e gli uomini dei mortali”» (καὶ γὰρ ὁ Ἀγαθὸς Δαίμων τοὺς μὲν θεοὺς εἶπεν ἀθανάτους , τοὺς δὲ ἀνθρώπους θεοὺς θνητούς· ἐν δὲ τοῖς ἀλόγοις ζῴοις ἡ φύσις
(Ecuba 356) ed Aristotele (Protr., Fr. 10c 2 Ross, p. 42 = Cic., De fin. II 13, 40) alla Refutatio omnium haeresium (IX 10, 6). Tra questi, va segnalata anche la testimonianza dello storico romano Dione Cassio (II-III sec.), il quale, in un passaggio delle sue Storie si diffonde su temi platonici (Tim. 90 a-b) quali la postura diritta dell’uomo, la sua parentela con il divino e la definizione di pianta celeste. Poi afferma (Hist. Rom. VII, 30, 3-4): ἄνθρωπος οὐδὲν ἄλλο ἐστὶν ἢ θεὸς σῶμα θνητὸν ἔχων, οὔτε θεὸς ἄλλο τι ἢ ἄνθρωπος ἀσώματος καὶ διὰ τοῦτο καὶ ἀθάνατος («l’uomo non è nient’altro che un dio avente un corpo mortale, e il dio non è nient’altro che un uomo incorporeo e perciò immortale»). Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., fr. 47 (b5), p. 546. 382 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47 (c), p. 547; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 615, p. 484. Cf. anche l’articolo di K. Steiger, Heraclitus, a Forgotten Fragment (Clement, Paed. III, 1,5), «Annales Universitatis Budapestinensis (Philosophica)» 18 (1984), pp. 121-129. 383 Sulla particolarità della citazione (parafrasata e glossata) di Clemente, cf. J. Pépin (1971), op. cit., pp. 49-50. 384 Un’eco ancor più lontana del detto eracliteo si legge in un’omelia dello gnostico alessandrino Valentino (fr. 4 Völker), che afferma: “ἀπ᾽ ἀρχῆς ἀθάνατοί ἐστε καὶ τέκνα ζωῆς ἐστε αἰωνίας καὶ τὸν θάνατον ἠθέλετε μερίσασθαι εἰς ἑαυτούς, ἵνα δαπανήσητε αὐτὸν καὶ ἀναλώσητε, καὶ ἀποθάνῃ ὁ θάνατος ἐν ὑμῖν καὶ δι᾽ ὑμῶν («Dal principio siete immortali e siete figli della vita eterna, e avete voluto spartire la morte tra voi, per spenderla e consumarla, e perché muoia la morte in voi e attraverso di voi»). Secondo Valentino, l’umanità cristiana salvata dalla Gnosi, vale a dire gli uomini “pneumatici” (interiori o spirituali), sono figli della vita eterna e prendono parte al morire, cioè alla vita terrestre che è una morte spirituale, per annientare questo mondo materiale e mortale sopravvivendo ad esso, rinascendo alla vita eterna (cf. C. Markschies, Valentinus Gnosticus? Untersuchungen zur valentinianischen Gnosis mit einem Kommentar zu den Fragmenten Valentins, WUNT I/65, Tübingen 1992, pp. 133 ss.). Il fr. 4 di Valentino (ap. Clemente Alessandrino, Strom. IV 13, 89, 1-4) non figura tra le testimonianze della grande edizione di Eraclito a cura di Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47, pp. 545 ss., né tra quelle più recente raccolta di Heraclitea a cura di Mour., op. cit., II.A.2 (2000), pp. 477 ss.
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ἐστίν), i cui ignoti autori imitano Eraclito (X 25, 1-10)385 per dimostrare che «l’uomo terrestre è un dio mortale, e il dio celeste è un uomo immortale”» (ἄνθρωπον ἐπίγειον εἶναι θεὸν θνητόν, τὸν δὲ οὐράνιον θεὸν ἀθάνατον ἄνθρωπον). Nella prospettiva ermetica, infatti, il nous o intelletto divino è il dio presente nell’uomo, e gli uomini che lo possiedono sono divini, poiché l’intelletto eleva la loro anima al di sopra del corpo e li unisce alla divinità, rendendoli immortali386. Quanto alla seconda parte del frammento, il grammatico Eraclito ne fa una dipendente esplicativa della prima 387: gli dei sono mortali e gli uomini immortali, perché fatti di una stessa realtà che da divina muta in umana e viceversa: gli dei vivono la morte degli uomini e gli uomini muoiono la vita degli dei. L’autore riporta di seguito un altro frammento eracliteo, il 49a DK, la cui versione pare una riproduzione approssimativa del testo cui faceva già allusione Platone (Crat. 402 a)388 affermando che, per Eraclito, non si può entrare due volte nello stesso fiume. A differenza di Platone e dei Platonici che si rifanno al detto eracliteo dei fiumi389, secondo il commentatore omerico, noi uomini dall’anima divina scendiamo e non scendiamo negli stessi fiumi, perché il nostro corpo cambia continuamente nel corso della vita e quindi non siamo mai gli stessi. La trascrizione più letterale del frammento eracliteo 62 DK, tuttavia, è quella della Refutatio omnium haeresium, in cui sono citati verbatim i frammen-
385 I due passi compaiono nell’edizione di Eraclito a cura di Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47 (b 6), pp. 546-547, ma non negli Heraclitea di Mour., op. cit., II.A.2 (2000) e II.A.3 (2002), che prepara tuttavia un volume dedicato ad allusioni e imitazioni (II.B). 386 Cf. Corpus Hermeticum, tome I. Poimandres.-Traités II-XII, texte établi par A.D. Nock et traduit par A.-J. Festugière, Paris 20022 , p. 195; Corpus Hermeticum, edizione e commento di A.D. Nock e A.-J. Festugière, ediz. dei testi ermetici copti e comm. di I. Ramelli, Milano 2005, p. 369. 387 Così anche nel testo (62 DK) dato dalla Refutatio. La sola differenza tra la seconda parte del frammento citata dal grammatico Eraclito e quella riportata dall’eresiologo è il secondo participio, vale a dire il predicato “morire” del soggetto ἄνθρωποι ἀθάνατοι («uomini immortali»): al tempo presente in Eraclito (θνῄσκοντες) e al perfetto nella Refutatio (τεθνεῶτες). 388 Cf. anche Platone, Crat. 401 d, 411 b, 439 c; Theaet. 156 a, 160 d; Soph. 249 b; Phaed. 90 b; Phileb. 43 a; poi Aristotele, Met. 987 a 32, 1012 b 26, 1078 b 13; Top. 104 b 21; Phys. 228 a 8, 253 b 9, 265 a 2; De an. 405 a 28, 298 b 29; De caelo. 389 Sui “fiumi” di Eraclito si vedano, oltre a Plutarco, De E 392 B (= B 91a DK), De sera 559 C e Quaest. nat. 912 A, i neoplatonici Simplicio, In phys. 77, 30, 1313, 8 Diels; Olimpiodoro, In cat. 4, 31 Stüve; Filopono, In cat. 2, 7 Busse; anche Marsilio Ficino, De immort. an. XI 6.
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ti 50-67 DK di Eraclito sull’unità dei contrari luce e tenebre, bene e male, alto e basso, etc. (Refutatio omnium haeresium IX 10, 2-6 (pp. 242-243 Wendland): [Eraclito] Dice anche che l’impuro e il puro sono uno e lo stesso, e che il potabile e il non potabile sono uno e lo stesso: “mare” – dice – “l’acqua più pura e la più impura; per i pesci potabile e salutare, per gli uomini non potabile ed esiziale” (22 B 61 DK). E analogamente dice che l’immortale è mortale e che il mortale è immortale, con tali parole: “immortali mortali, mortali immortali, vivendo la morte di quelli e morendo la vita di questi” (22 B 62 DK)390
Il frammento 62 DK di Eraclito dato dalla Refutatio, ἀθάνατοι θνητοί, θνητοὶ ἀθάνατοι, ζῶντες τὸν ἐκείνων θάνατον, τὸν δὲ ἐκείνων βίον τεθνεῶτες («immortali mortali, mortali immortali, vivendo la morte di quelli e morendo la vita di questi»), è l’ultimo dei detti sapientemente scelti dall’eresiologo tra gli esempi eraclitei dell’identità dei contrari, dell’unità di ogni cosa o di ogni aspetto della realtà con il suo opposto. Come tutti i contrari che esistono in natura, secondo Eraclito, anche gli “immortali” e i “mortali” sono uno e lo stesso, poiché gli uni “vivono la morte” e “muoiono la vita” degli altri. Rispetto alle altre coppie di opposti, inoltre, la coppia “immortali-mortali” si rivela di fondamentale importanza nell’ambito della dottrina eraclitea, incentrata sulla “vita” e la “morte” del cosmo, vale a dire sulla sua trasformazione continua da un contrario all’altro. Per l’eresiologo della Refutatio, i contrari eraclitei “immortale-mortale” sono anche i più utili per raggiungere il suo scopo, cioè provare che, se per Eraclito il divino è l’unità di tutti gli opposti, e soprattutto degli opposti divino e umano, così per Noeto, Dio è ad un tempo il Padre increato e Creatore del mondo e il Figlio generato e morto per la salvezza degli uomini. Nell’introduzione alla lunga serie di frammenti eraclitei citati, infatti, l’autore attribuiva a Eraclito la concezione di Dio come unità di qualificativi opposti: «generato ingenerato, mortale immortale, logos eternità, Padre Figlio» (γενητὸν ἀγένητον, θνητὸν ἀθάνατον, λόγον αἰῶνα, πατέρα υἱόν) (Ref. omn. haer. IX 9, 1). Nel seguito della notizia, quindi, egli dirà che Noeto concepisce Dio come «uno e lo
390 καὶ τὸ μιαρόν φησιν καὶ τὸ καθαρὸν ἓν καὶ ταὐτὸν εἶναι, καὶ τὸ πότιμον καὶ τὸ ἄποτον ἓν καὶ τὸ αὐτό εἶναι· «θάλασσα», φησίν, «ὕδωρ καθαρώτατον καὶ μιαρώτατον, ἰχθύσι μὲν πότιμον καὶ σωτήριον, ἀνθρώποις δὲ ἄποτον καὶ ὀλέθριον». λέγει δὲ ὁμολογουμένως τὸ ἀθάνατον εἶναι θνητὸν καὶ τὸ θνητὸν ἀθάνατον διὰ τῶν τοιούτων λόγων· «ἀθάνατοι θνητοί, θνητοὶ ἀθάνατοι, ζῶντες τὸν ἐκείνων θάνατον, τὸν δὲ ἐκείνων βίον τεθνεῶτες». Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47 (a), p. 546; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 664, pp. 538-539.
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stesso» (ἓν καὶ τὸ αὐτὸ) Essere, «chiamato ora Padre e ora Figlio» (πατέρα καὶ υἱὸν καλούμενον), ad un tempo «ingenerato , immortale e mortale» (ἀγένητος , ἀθάνατος καὶ θνητός) (IX 10, 10), «che è morto e non è morto» (ἀποθανόντα καὶ μὴ ἀποθανόντα) (Ref. omn. haer. IX 10, 11-12)391. Polemica antieretica a parte, il testo della Refutatio fornisce la versione più fedele all’originale del frammento 62 DK e presenta un contesto che induce a riflettere sul suo significato originario. Come Clemente e Plutarco, l’autore della Refutatio sembra aver avuto direttamente accesso a una copia del libro di Eraclito, piuttosto che a un’antologia (stoica) di citazioni392 . La più grande fortuna della speculazione eraclitea sulle opposizioni della realtà e sull’immortalità dell’anima, infatti, risale all’epoca medioplatonica e cristiana, come testimoniano le fonti analizzate a partire da Filone. La Refutatio permette allora di considerare questo frammento un caso particolare, ma anche un esempio rappresentativo, dell’identità degli opposti: secondo Eraclito, esseri divini e umani si identificano, perché gli immortali muoiono nella vita dei mortali, e i mortali rivivono nella vita degli immortali. 9.2. Numenio, Sesto Empirico e Ierocle: noi uomini e le nostre anime Nel II secolo della nostra era, un frammento simile – non certo identico – alla seconda parte del 62 DK di Eraclito393 è citato da Numenio di Apamea, che interpreta l’antro delle Ninfe di Omero (Odissea XIII 109-112) come l’immagine del mondo. Nel testo di Porfirio che abbiamo già esaminato, il Neopitagorico si diffonde sulla discesa delle anime nella generazione ricorrendo al noto incipit della Genesi “mosaica”, alle credenze egiziane, alla parola omerica, ma soprattutto a Eraclito (fr. 30, pp. 80-81 des Places): «[i Pitagorici] ritenevano, infatti, che le anime si posassero sull’acqua, che è ispirata dal divino, come afferma Numenio […] Ne deriva che anche Eraclito dice “per le anime è piacere non morte diventare umide” (22 B 77a DK), cioè è un piacere per loro la caduta nella generazione, e altrove dice “(noi) viviamo la morte di quelle e quelle vivono la nostra morte” (22 B 77b DK)» (ἡγοῦντο γὰρ προσιζάνειν τῷ ὕδατι τὰς 391
Cf. J. Pépin (1971), op. cit., pp. 47-48 e note rispettive. Questa era la tesi di M. Marcovich, (1966), art. cit., pp. 255-256. 393 Nell’edizione Diels-Kranz (1951-526, vol. I, p. 168) dei Presocratici, la seconda parte del frammento 77 DK di Eraclito è considerato un testo diverso dal 62 DK. 392
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ψυχὰς θεοπνόῳ ὄντι, ὡς φησὶν ὁ Νουμήνιος […] ὅθεν καὶ Ἡράκλειτον ψυχῇσι φάναι τέρψιν μὴ θάνατον ὑγρῇσι γενέσθαι, τέρψιν δὲ εἶναι αὐταῖς τὴν εἰς τὴν γένεσιν πτῶσιν, καὶ ἀλλαχοῦ δὲ φάναι ζῆν ἡμᾶς τὸν ἐκείνων θάνατον καὶ ζῆν ἐκείνας τὸν ἡμέτερον θάνατον)394. La seconda citazione è il frammento 77b DK di Eraclito: ζῆν ἡμᾶς τὸν ἐκείνων θάνατον καὶ ζῆν ἐκείνας τὸν ἡμέτερον θάνατον («(noi) viviamo la morte di quelle e quelle vivono la nostra morte»), che rinvia al testo dato da Filone (ζῶμεν τὸν ἐκείνων θάνατον, τεθνήκαμεν δὲ τὸν ἐκείνων βίον). Come Filone, infatti, anche Numenio considera il detto eracliteo l’espressione del rapporto tra gli uomini (ἡμᾶς, «noi») e le anime (ἐκείνας, «quelle»), ma la sua versione – con gli accusativi interni e la simmetria delle antitesi – non presenta il duplice ossimoro del “vivere la morte” e “morire la vita”. Numenio attribuisce a Eraclito un doppio “vivere la morte”: come gli uomini vivono la morte delle anime, queste vivono la morte di quelli. Quanto all’interpretazione del frammento, anche per Numenio l’ingresso dell’anima nel corpo umano consiste nella nascita dell’uomo e ad un tempo nella morte dell’anima; al contrario, la morte dell’uomo coincide con l’inizio della vera vita dell’anima, vale a dire la sua esistenza incorporea, pura e divina. Il testo eracliteo pare riscritto più liberamente da Sesto Empirico (II-III sec. d. C.), autore di opere filosofiche dichiaratamente “pirroniane”, perché professano lo scetticismo delle origini – quello di Pirrone di Elide (IV-III sec. a. C.) – contro lo scetticismo della Nuova Accademia, ritenuto “dogmatico” allo stesso modo dello stoicismo e di buona parte della filosofia tradizionale. La parafrasi di Eraclito appare nel libro III delle Ipotiposi pirroniane (o Schizzi pirroniani), e precisamente nella sezione intitolata «che cos’è la cosiddetta arte di vivere» (τί ἐστιν ἡ λεγομένη τέχνη περὶ βίον), vale a dire l’insieme delle prescrizioni razionali universali che devono guidare la condotta umana (Pyrr. hyp. III 188). In questo argomento, Sesto affronta la questione della morte ricorrendo alla parola degli antichi (Pyrr. hyp. III 229-230, I, p. 194 MutschmannMau): E alcuni ritengono che la morte stessa è terribile e che bisogna fuggirla, altri che non è affatto tale. Così Euripide dice: “chi sa se il vivere non sia in realtà esser morto, e l’esser morto laggiù non sia creduto vivere?” (fr. 638 Nauck). Anche
394
316-317.
Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47 (d4), p. 548; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 382, pp.
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Epicuro dice “la morte non è nulla per noi; infatti, ciò che si è dissolto non è sensibile, e ciò che non è sensibile non è nulla per noi” (Max. cap. 2). [Gli Epicurei] dicono anche che, siccome siamo costituiti di anima e corpo, e la morte è la dissoluzione dell’anima e del corpo, quando ci siamo noi, la morte non c’è – infatti non ci dissolviamo –, mentre quando c’è la morte, non ci siamo noi: con essa, infatti, non c’è più la composizione dell’anima e del corpo, quindi non ci siamo noi. Eraclito, dal canto suo, dice che anche il vivere e il morire sono sia nel nostro vivere sia nel nostro morire: “quando infatti noi viviamo, le nostre anime sono morte e sepolte in noi, mentre quando moriamo, le anime risorgono e vivono”. E certuni ritengono che per noi morire è anche meglio di vivere. Così Euripide dice...395
La parafrasi esplicativa di Sesto Empirico, ὅτε μὲν γὰρ ἡμεῖς ζῶμεν, τὰς ψυχὰς ἡμῶν τεθνάναι καὶ ἐν ἡμῖν τεθάφθαι, ὅτε δὲ ἡμεῖς ἀποθνῄσκομεν, τὰς ψυχὰς ἀναβιοῦν καὶ ζῆν («quando infatti noi viviamo, le nostre anime sono morte e sepolte in noi, mentre quando moriamo, le anime risorgono e vivono»), è un’altra testimonianza che, come già quella di Filone, comporta la variante con la prima persona plurale (noi) in opposizione alle (nostre) anime. Anche il significato che Sesto attribuisce al frammento di Eraclito è la stessa concezione della vita dell’uomo come morte della sua anima, e della vita dell’anima come morte dell’uomo. La differenza rispetto alle testimonianze di Filone e Numenio è che la riformulazione di Sesto non presenta gli ossimori del “vivere la morte” e del “morire la vita” che caratterizzano il detto eracliteo. Sesto ritiene che «l’indirizzo396 scettico differisce dalla filosofia di Eraclito» (διαφέρει ἡ σκεπτικὴ ἀγωγὴ τῆς Ἡρακλειτου φιλοσοφίας) (Pyrr. hyp. I
395 καὶ τὸν θάνατον δὲ αὐτὸν οἱ μὲν δεινὸν καὶ φευκτὸν εἶναι νομίζουσιν, οἱ δὲ οὐ τοιοῦτον. ὁ γοῦν Εὐριπίδης φησὶν τίς δ᾽ οἶδεν εἰ τὸ ζῆν μέν ἐστι κατθανεῖν, τὸ κατθανεῖν δὲ ζῆν κάτω νομίζεται; καὶ ὁ Ἐπίκουρος δέ φησιν "ὁ θάνατος οὐδὲν πρὸς ἡμᾶς· τὸ γὰρ διαλυθὲν ἀναισθητεῖ, τὸ δὲ ἀναισθητοῦν οὐδὲν πρὸς ἡμᾶς." φασὶ δὲ καὶ ὡς εἴπερ συνεστήκαμεν ἐκ ψυχῆς καὶ σώματος, ὁ δὲ θάνατος διάλυσίς ἐστι ψυχῆς καὶ σώματος, ὅτε μὲν ἡμεῖς ἐσμέν, οὐκ ἔστιν ὁ θάνατος (οὐ γὰρ διαλυόμεθα), ὅτε δὲ ὁ θάνατος ἔστιν, οὐκ ἐσμὲν ἡμεῖς· τῷ γὰρ μηκέτι τὴν σύστασιν εἶναι τῆς ψυχῆς καὶ τοῦ σώματος οὐδὲ ἡμεῖς ἐσμεν. ὁ δὲ Ἡράκλειτός φησιν, ὅτι καὶ τὸ ζῆν καὶ τὸ ἀποθανεῖν καὶ ἐν τῷ ζῆν ἡμᾶς ἐστι καὶ ἐν τῷ τεθνάναι· ὅτε μὲν γὰρ ἡμεῖς ζῶμεν, τὰς ψυχὰς ἡμῶν τεθνάναι καὶ ἐν ἡμῖν τεθάφθαι, ὅτε δὲ ἡμεῖς ἀποθνῄσκομεν, τὰς ψυχὰς ἀναβιοῦν καὶ ζῆν. ἔνιοι δὲ καὶ βέλτιον εἶναι τὸ ἀποθανεῖν τοῦ ζῆν ἡμᾶς ὑπολαμβάνουσιν. ὁ γοῦν Εὐριπίδης φησὶν... Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 47 (d3), p. 548; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 702, p. 584. 396 Il termine tecnico utilizzato da Sesto Empirico è ἀγωγή, ad indicare che lo scetticismo non è una dottrina, cioè un dogma, bensì una via e un metodo che conduce e guida il sapere e l’agire umano.
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210)397, che considera un dogmatico398 alla stregua di altri filosofi, non solo stoici, ma anche scettici; tra questi vi è Enesidemo di Cnosso, il fondatore del neopirronismo (I sec. a. C.?), secondo cui «l’indirizzo scettico è una via verso la filosofia di Eraclito» (ὁδὸν εἶναι τὴν σκεπτικὴν ἀγωγὴν ἐπὶ τὴν Ἡρακλείτειον φιλοσοφίαν) (Pyrr. hyp. I 210, 4-6)399. Testimoniando l’“eraclitismo” di Enesidemo400, Sesto rifiuta qualsiasi tentativo di “eraclitizzare” lo scetticismo o “scetticiz397 La questione è annunciata nell’indice iniziale: «se l’indirizzo scettico è una via verso la filosofia di Eraclito» (εἰ ἡ σκεπτικὴ ὁδός ἐστιν ἐπὶ τὴν Ἡρακλείτειον φιλοσοφίαν) (Pyrr. hyp. I 1). 398 Cf. Pyrr. hyp. I 210, 1-3: Ὅτι μὲν οὖν αὕτη διαφέρει τῆς ἡμετέρας ἀγωγῆς, πρόδηλον· ὁ μὲν γὰρ Ἡράκλειτος περὶ πολλῶν ἀδήλων ἀποφαίνεται δογματικῶς, ἡμεῖς δ᾽ οὐχί («Che dunque questa [scil. la filosofia di Eraclito] differisca dal nostro indirizzo è più che evidente; Eraclito, infatti, a proposito di molte cose oscure si pronuncia dogmaticamente, noi, invece, no»). 399 Cf. Sesto Empirico, Pyrr. hyp. I 210 6-9: προηγεῖται τοῦ τἀναντία περὶ τὸ αὐτὸ ὑπάρχειν τὸ τἀναντία περὶ τὸ αὐτὸ φαίνεσθαι, καὶ οἱ μὲν σκεπτικοὶ φαίνεσθαι λέγουσι τὰ ἐναντία περὶ τὸ αὐτό, οἱ δὲ Ἡρακλείτειοι ἀπὸ τούτου καὶ ἐπὶ τὸ ὑπάρχειν αὐτὰ μετέρχονται («la tesi dell’apparenza dei contrari in una stessa cosa guida a quella della sussistenza dei contrari in una stessa cosa, e se da un lato gli Scettici dicono che i contrari appaiono in una stessa cosa, dall’altro gli Eraclitei, partendo da ciò, giungono fino ad affermare che essi vi sussistono realmente»). Cf. anche Adv. Log. II 8, 286; Adv. Phys. I 337, II 216 (232-233); Pyrr. hyp. III 138. Ciò che Sesto obietta a Enesidemo e ai suoi seguaci è che, non solo gli scettici, ma anche gli altri filosofi e tutti gli uomini in generale hanno l’impressione che i contrari si rapportino a una stessa cosa. Secondo Sesto, lo scetticismo nega la reale sussistenza dei contrari nel medesimo oggetto, come del resto rifiuta la dottrina fisica della conflagrazione universale, sostenuta da Eraclito ed eretta a dogma dai dogmatici per eccellenza: gli Stoici. In Pyrr. hyp. I 212, Sesto si prende anche gioco delle espressioni antidogmatiche che accompagnano le affermazioni dogmatiche di Eraclito. 400 Gli specialisti si interrogano da tempo sulla questione. E. Saisset (Aenésidème, Paris 1840, pp. 189 ss.) postulava una prima fase “eraclitea” di Enesidemo, seguita dalla sua adesione allo scetticismo pirroniano; V. Brochard (Les sceptiques grecs, Paris 1887, pp. 272 ss.), al contrario, pensava a una soluzione eraclitea della scepsi metafisica di Enesidemo; P. Natorp (Forschungen zur Geschichte des Erkenntnisproblems im Altertum, Berlin 1884, pp. 63-163) e H. von Arnim (1888, op. cit., pp. 79-85) riconoscevano principi comuni alla base di eraclitismo e scetticismo. H. Diels (1879, op. cit., pp. 209 ss.) ed E. Zeller (Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Leipzig 1903 4, p. III, vol. II, pp. 36 ss.), dal canto loro, hanno messo in dubbio l’affidabilità della notizia di Sesto, Pyrr. Hyp. I 210-212, laddove G. Capone Braga (L’eraclitismo di Enesidemo, «RF» XXII (1931), pp. 33-47), J.M. Rist (The Heracliteanism of Aenesidemus, «Phoenix» 24 (1970), pp. 309-319), V. Dal Pra (Lo scetticismo greco, Roma-Bari 19893, vol. II, pp. 392-411), H. Tarrant (Agreement and the Self-Evident in Philo of Larissa, «Dionysius» 5 (1981), pp. 66-97) e R.J. Hankinson (The Sceptics, London-New York 1995, pp. 129-131) ammettono l’ipotesi di una colorazione o di una fase eraclitea nello scetticismo di Enesidemo. U. Burkhard (1973, op. cit., pp. 66 ss. e passim), quindi, ha negato l’esistenza di un vero e proprio “eraclitismo” di Enesidemo che, a suo avviso, avrebbe inteso sganciare il pensiero di Eraclito dalla contaminazione stoica, utilizzandolo come nuova arma contro la fortezza dogmatica dello stoicismo che considerava Eraclito il suo più antico e autorevole predecessore. Secondo Burkhard, Enesidemo, forse sulla scia di Aristotele, e operando una reductio ad absurdum dell’“eraclitismo” stoico, avrebbe interpretato Eraclito in chiave scettica, basandosi soprattutto sulle affermazioni del Presocratico concernenti il contrasto tra sensazione e intelletto e la contraddittorietà insita nella realtà delle cose. Uno studio dedicato alla questione è R. Polito (2004), op. cit., che esamina le dottrine di
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zare” l’eraclitismo401, ma ricorre a Eraclito per mostrare che anche vivere è morire, cioè che la vita è in certo senso una morte, e la morte una vita, secondo che ci si riferisca all’uomo o alla sua anima. Nella sua argomentazione scettica contro l’esistenza di un’arte di vivere, Sesto invita così alla sospensione del giudizio su ciò che è buono o cattivo in sé: a suo avviso, la morte non appartiene alle cose terribili tout court, né la vita a quelle positive «per natura», cioè in senso assoluto, ma tutto è relativo, ivi incluse la vita e la morte (Pyrr. hyp. III 232). Il motivo eracliteo, assunto da Platone402 e recuperato dagli Accademici e dai Platonici, è quindi adottato e adattato da Sesto Empirico al suo scetticismo. Sesto presenta, infatti, una dossografia di eminenti poeti e filosofi che si sono espressi sulla relazione tra il vivere e il morire, a cominciare da Euripide (fr. 638 Nauck), già citato da Platone (Gorg. 492 e) in un passaggio orfico-pitagorico che contiene anche reminiscenze eraclitee. Sesto, spiegando indirettamente il chiasmo e gli ossimori di Eraclito, prova non solo che lo scetticismo di epoca medioplatonica si avvale della psicologia eraclitea, ma conferma anche e soprattutto l’attribuzione a Eraclito di una dottrina della vita dell’uomo come morte dell’anima, interpretazione di cui Filone è il primo testimone. Un’altra testimonianza pitagorizzante relativa allo stesso testo di Eraclito è fornita dal filosofo neoplatonico Ierocle nella prima metà del V secolo. Discepolo di Plutarco ad Atene e insegnante ad Alessandria, Ierocle è l’autore dell’In Aureum Pythagoreorum Carmen commentarius: il Commentario dei Versi d’oro pitagorici, una serie di aforismi scientifici a carattere gnomico, ovvero regole concise e precise che, secondo un certo ordine e metodo, conducono al compimento della vita morale (In aur. carm. pp. 5, 7 ss. Köhler). Per questo motivo Ierocle fa dei Versi d’oro, e della sua stessa esegesi, un’iniziazione alla filosofia
Enesidemo καθ’Ἡράκλειτον attraverso le testimonianze di Sesto Empirico, Tertulliano e Diogene Laerzio, al fine di comprendere l’apparente contraddizione tra il contenuto stoicizzante di molte dottrine di Enesidemo «secondo Eraclito» e la positiva relazione tra scetticismo ed eraclitismo stabilita dallo stesso Enesidemo ed espressa attraverso la metafora della «via». La tesi di Polito (ivi, p. 173) è che Enesidemo non intende proporre Eraclito come autorità da seguire, bensì mostrare che lo scetticismo fornisce lo strumento per interpretare Eraclito, aprendo una «via» verso la comprensione della filosofia del Presocratico. Secondo B. Pérez-Jean (2005), op. cit., Enesidemo considera Eraclito l’antico antenato dello scetticismo, contro la dogmatizzazione stoica della dottrina eraclitea, recuperando l’interpretazione platonica di Eraclito basata sul mobilismo del flusso e il relativismo dei contrari, vale a dire il platonismo “scettico” di matrice eraclitea (pp. 207 ss.). Né R. Polito, né B. Pérez-Jean, tuttavia, studiano Filone in relazione all’eraclitismo di Enesidemo. 401 Cf. Sesto Empirico (1978), op. cit., pp. 634-635. 402 Cf. D. Zeller (1995), art. cit., pp. 41 ss.
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neoplatonica403, vale a dire l’introduzione alla dottrina pitagorica che nel cursus studiorum della tarda Antichità precedeva la lettura delle opere di Aristotele e Platone. Ierocle condivide la concezione della supposta trasmissione della verità filosofica attraverso la linea Orfeo-Pitagora-Platone, e accetta l’incorporazione della rivelazione degli Oracoli caldaici404, opera del sincretismo neoplatonico iniziato da Porfirio 405 e ultimato da Giamblico406, e che affonda le sue radici nel medioplatonismo neopitagorico407. Nell’In aureum carmen, Ierocle intende mostrare che tutte le verità fondamentali della filosofia di Platone derivano dall’insegnamento di Pitagora408, e “pitagorici” sono anche Presocratici come Empedocle (In aur. carm. p. 98, 10 Köhler), motivo che si ritrova già nella tradizione dossografica (Diogene Laerzio, VIII 54-56) e in Giamblico (De vita Pyth. 23, 104 e passim). Ma prima di citare Empedocle “il Pitagorico”, Ierocle menziona Eraclito (In aur. carm. 24.1.1-24.2.2, p. 97 Köhler): Dopo aver ben compreso la disposizione dei generi incorporei e corporei, segue anche la conoscenza precisa dell’essenza dell’uomo: quale si trovi a essere e di quali affezioni sia passibile, e del fatto che si colloca a mezza strada tra quelli che si radicano nel vizio e quelli che per natura non si elevano alla virtù; e per questo è duplice quanto agli stati in cui si trova: ora vivendo lassù una bella vita intellettiva, ora acquisendo quaggiù l’affezione sensibile, quindi è detto giustamente anche da Eraclito che “(noi) viviamo la morte di quelle, e moriamo la vita di queste”. L’uomo discende, infatti, e cade giù dalla regione beata, come dice Empedocle il Pitagorico...409
403 Cf. I. Hadot, Le problème du néoplatonisme alexandrin: Hiéroclès et Simplicius, Paris 1978, pp. 160-164. 404 Secondo Ierocle, la filosofia di Platone è in accordo con la rivelazione degli Oracoli caldaici (II sec.), considerati le parole degli dei stessi, derivate da un’esperienza collettiva mistica e misterica, metafisica e magica, che costituiscono la “Sacra Scrittura” dei tardi Neoplatonici. Ierocle armonizza anche il platonismo e la pratica ieratica che nell’In aureum carmen coincide con la teurgia, il mezzo di purificazione del «veicolo» dell’anima razionale, cioè il rivestimento incorporeo, costituito di materia sottilissima, che costituisce il “corpo” astrale con cui essa scende sulla terra e risale al cielo. 405 Cf. ad esempio Porfirio, Ad Marc. 24, in cui ad un’implicita allusione à Platone, Resp. 617 e 4 segue un’implicita allusione al fr. 46 des Places degli Oracoli caldaici. 406 Cf. D.J. O’ Meara, Pythagoras revived, Oxford 1989, pp. 114-118. 407 Cf. I. Hadot, Aristote dans l’enseignement philosophique néoplatonicien, «RThPh» 124 (1992), pp. 407-425, spec. 418 ss. 408 Cf. D.J. O’ Meara (1989), op. cit., pp. 155 ss. 409 Τῆς τῶν ἀσωμάτων καὶ σωματικῶν γενῶν καλῶς γνωσθείσης διατάξεως ἕπεται καὶ τὴν ἀνθρώπου οὐσίαν ἀκριβῶς γνωρίζεσθαι, οἵα τε οὖσα τυγχάνει καὶ οἵων δεκτικὴ παθημάτων, καὶ ὅτι ἐν μεθορίῳ ἐστὶ τῶν
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Il passo di Ierocle presenta una variante del frammento 62 DK di Eraclito: ζῶμεν τὸν ἐκείνων θάνατον, τεθνήκαμεν δὲ τὸν ἐκείνων βίον («(noi) viviamo la morte di quelle [i.e. delle anime], e moriamo la vita di queste») che coincide esattamente con la versione di Filone. La citazione di Ierocle è anche assai prossima, nella forma, al frammento dato da Numenio e, nel senso, alla perifrasi esplicativa di Sesto Empirico; essa presenta, inoltre, il duplice ossimoro eracliteo del “vivere la morte” e del “morire la vita” che caratterizza la citazione verbatim della Refutatio omnium haeresium. Il passo di Ierocle dimostra dunque che il testo di Eraclito dato da Filone circolò negli ambienti filosofici alessandrini almeno fino al V secolo della nostra era. Quanto all’interpretazione, Ierocle lo traspone in ambito neoplatonico: il sistema filosofico di Ierocle rappresenta quella filosofia alessandrina che, nelle dottrine concernenti il demiurgo, la materia, la creazione del mondo e le classi di anime, non si dissocia dal neoplatonismo del suo tempo, situandosi perfettamente tra il sistema di Giamblico e quelli di Siriano e Proclo 410. Affermando che «l’essenza dell’uomo» (τὴν ἀνθρώπου οὐσίαν) è duplice, poiché a mezza strada tra l’esistenza intellettiva e sensibile, tra la virtù e il vizio, Ierocle è d’accordo con quanto dice Eraclito: «viviamo la morte di quelle, e moriamo la vita di quelle». Tuttavia, il Neoplatonico non fornisce alcuna esegesi del detto eracliteo e il suo significato sarebbe incomprensibile se non si conoscessero le formulazioni e le interpretazioni degli altri testimoni. Nel passaggio del Commentario, infatti, il termine “anime” manca, dunque la traduzione di ἐκείνων sarebbe problematica, se il contesto non facesse allusione al duplice stato dell’essere umano tra l’intellettivo e il sensibile. Secondo Ierocle, le ultime anime ragionevoli create dal Demiurgo sono quelle umane che si incorporano sulla terra: entrata nel corpo mortale e ancora inanimato, l’anima gli insuffla la vita propria alla materia. In senso neoplatonico, dunque, l’uomo vive quando l’ani-
τε ἀπτώτων εἰς κακίαν καὶ τῶν πρὸς ἀρετὴν οὐ πεφυκότων ἀνάγεσθαι· διὸ καὶ ἐπαμφοτερίζει ταῖς σχέσεσιν, ὁτὲ μὲν ἐκεῖ ζῶν τὴν νοερὰν εὐζωΐαν, ὁτὲ δὲ ἐνταῦθα τὴν αἰσθητικὴν ἐμπάθειαν προσλαμβάνων, ἔνθεν καὶ λέγεται ὀρθῶς ὑπὸ Ἡρακλείτου, ὅτι ζῶμεν τὸν ἐκείνων θάνατον, τεθνήκαμεν δὲ τὸν ἐκείνων βίον. κάτεισι γὰρ καὶ ἀποπίπτει τῆς εὐδαίμονος χώρας ὁ ἄνθρωπος, ὡς Ἐμπεδοκλῆς φησιν ὁ Πυθαγόρειος ... Cf. Marc.-Mond.Tar. (2007), op. cit., Fr. 47 (d5), p. 548; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), T 919, p. 725. 410 Cf. I. Hadot (1978), op. cit.; Ead., Le démiurge comme principe derivé dans le système ontologique d’Hiéroclès. À propos du livre de N. Aujoulat “Le néoplatonisme alexandrin: Hiéroclès d’Alexandrie”, «REG» 103 (1990), pp. 241-262; Ead., À propos de la place ontologique du démiurge dans le système philosophique d’Hiéroclès le néoplatonicien. Dernière réponse à N. Aujoulat, «REG» 106 (1993), pp. 430-459. Cf. anche DPhA, op. cit., vol. III (2000), pp. 690 ss.
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ma muore, perché l’“animale” materiale e mortale è solo l’immagine del vero uomo, immateriale e immortale411. Il fatto di ricorrere al frammento eracliteo a proposito della discesa-caduta dell’anima umana dalla regione superiore, citandolo prima dei frammenti empedoclei, indica l’armonia e/o l’armonizzazione della dottrina di Eraclito con quella Empedocle “il Pitagorico”. Nell’orizzonte di Ierocle, anche Eraclito, interpretato in prospettiva (neo-)platonica, appartiene a quel “pitagorismo” preplatonico cui l’In aureum carmen vuole essere un’introduzione. La testimonianza di Ierocle conferma filologicamente la versione filoniana del frammento di Eraclito, e mostra l’utilizzo del detto eracliteo sul “vivere la morte” e il “morire la vita” proprio dei filosofi della fine dell’Antichità. 10. Gli «immortali mortali, mortali immortali» (fr. 62 DK) di Eraclito Filone è la prima fonte storico-letteraria del testo e della dottrina veicolata dal frammento 62 DK di Eraclito, dato dalla Refutatio omnium haeresium (IX 10, 6): «immortali mortali, mortali immortali, vivendo la morte di quelli e morendo la vita di questi» (ἀθάνατοι θνητοί, θνητοὶ ἀθάνατοι, ζῶντες τὸν ἐκείνων θάνατον, τὸν δὲ ἐκείνων βίον τεθνεῶτες) nel capitolo contro Noeto che identifica Dio e Cristo. Il chiasmo iniziale riecheggia in Aet. 109, passaggio “eraclitizzante” in cui Filone afferma che le masse cosmiche (fuoco, aria, acqua, terra), nelle loro mutue trasformazioni, «proprio nel momento in cui sembrano morire, divengono immortali» (θνῄσκειν δοκοῦντα ἀθανατίζεται), perché la morte dell’una è la vita dell’altra. La seconda parte del testo, invece, è citata diversamente in Leg. 1.108 e QG 4.152, in cui Filone attribuisce esplicitamente a Eraclito il detto: «[noi uomini] viviamo la morte di quelle [i.e. delle anime], e moriamo la vita di quelle» (ζῶμεν τὸν ἐκείνων θάνατον, τεθνήκαμεν δὲ τὸν ἐκείνων βίον). Secondo l’esegesi dell’Alessandrino, Eraclito farebbe così allusione alla vita e morte dell’uomo e dell’anima, perché mentre noi viviamo, le nostre anime sono morte, ma esse rivivono quando moriamo noi. L’utilizzo strategico di Filone è confermato dalla ricorrenza dell’ossimoro eracliteo «morire la vita» (βίον τεθνάναι) in altri trattati in cui non è questione di Eraclito. In Det. 48-49, il sapiente, che sembra “morire la vita” corruttibile, vive quella incorruttibile, mentre lo stolto, che vive la vita del vizio, “muore
411
I. Hadot (1978), op. cit., pp. 95 ss.
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quella” felice; così in Gig. 14, i filosofi si esercitano a “morire la vita” vissuta col corpo, cioè si preparano alla vita incorporea. In Her. 53, quelli che in realtà “muoiono la vera vita” dell’anima si contrappongono a quelli che vivono veramente; e in QG 1.70, i malvagi “muoiono la vera vita” durante l’esistenza terrena, laddove gli uomini pii godono della vita incorporea dopo la morte. In Fug. 55, infine, alcuni uomini anche da “vivi sono morti” e altri, anche da “morti vivono”. In tutti questi passi – cui si possono aggiungere QG 4.46 e 4.240 –, Filone utilizza implicitamente la parola eraclitea nell’elaborazione di argomenti volti a mostrare che il malvagio, non l’uomo in generale, “muore la vita” virtuosa dell’anima e il buono, non semplicemente l’anima, “muore la vita” corruttibile del corpo. L’esplicita menzione, citazione e interpretazione di Eraclito in Leg. 1.108 e QG 4.152, tuttavia, dimostra che le espressioni e la dottrina alla base di queste speculazioni filosofiche è proprio quella eraclitea. Una fonte utile del detto eracliteo, ma non letterale come la Refutatio, è il grammatico Eraclito (I-II sec. d. C.) secondo il quale, come il poeta Omero, anche il filosofo Eraclito ha espresso sotto forma di enigmatiche allegorie le sue concezioni sui divini misteri della natura: «Dei mortali: uomini immortali, vivendo la morte di quelli, morendo la vita di questi» (Θεοὶ θνητοί· [τ᾽] ἄνθρωποι ἀθάνατοι, ζῶντες τὸν ἐκείνων θάνατον, θνῄσκοντες τὴν ἐκείνων ζωήν). Il neopitagorico Numenio (II sec.) sostiene che la discesa delle anime incorporee nel mondo della materia e dei corpi è un’immersione nelle acque della vita e della morte, e perciò anche Eraclito dice «(noi) viviamo la morte di quelle e quelle vivono la nostra morte» (ζῆν ἡμᾶς τὸν ἐκείνων θάνατον καὶ ζῆν ἐκείνας τὸν ἡμέτερον θάνατον). Lo scettico Sesto Empirico (II-III sec.) inserisce Eraclito in una dossografia di antichi poeti e sapienti per mostrare che la vita e la morte non sono mai l’una senza l’altra: «quando infatti noi viviamo, le nostre anime sono morte e sepolte in noi, mentre quando moriamo, le anime risorgono e vivono» (ὅτε μὲν γὰρ ἡμεῖς ζῶμεν, τὰς ψυχὰς ἡμῶν τεθνάναι καὶ ἐν ἡμῖν τεθάφθαι, ὅτε δὲ ἡμεῖς ἀποθνῄσκομεν, τὰς ψυχὰς ἀναβιοῦν καὶ ζῆν). Ierocle (V sec.), neoplatonico alessandrino, nel commentare i Versi d’oro di Pitagora afferma che l’essere umano, composto di un’anima divina e di un corpo mortale, si trova a mezza strada tra l’intelligibile e il sensibile, tra la virtù e il vizio, tra il cielo e la terra; a questo proposito, Ierocle riproduce un testo di Eraclito: «(noi) viviamo la morte di quelle, e moriamo la vita di quelle» (ζῶμεν τὸν ἐκείνων θάνατον, τεθνήκαμεν δὲ τὸν ἐκείνων βίον) che coincide esattamente con quello filoniano. Filone attribuisce così alla parola eraclitea un significato generale e polivalente, poiché dice «immortali» e «mortali» gli elementi cosmici che “muo-
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iono rinascendo” gli uni negli altri (Aet. 109), ma interpreta la seconda parte del detto di Eraclito in riferimento alla vita e alla morte dell’anima e del corpo dell’uomo (Leg. 1.108). Se Platone e Aristotele menzionano la dottrina dell’anima immortale imprigionata nel corpo mortale come punizione per la colpa commessa, attribuendola agli Orfici o ad altri gruppi religiosi dai riti segreti412 , Filone è il primo autore antico a esplicitare che, per Eraclito, le anime muoiono dando vita al corpo che assumono e rivivono la loro vita immortale lasciando morire il corpo che smettono413. L’Alessandrino non si riferisce vagamente ad antichi sapienti, ma attribuisce precisamente a Eraclito la dottrina della vita dell’uomo come morte dell’anima e della morte dell’uomo come vita dell’anima. In questo modo, Filone da un lato rivela la sua interpretazione orfico-pitagorico-platonica – cioè medioplatonica – di Eraclito, ma dall’altro induce a chiedersi se passaggi platonici quali Phaed. 72 a oppure Gorg. 493 a non si ispirino anche alla dottrina eraclitea della vita e della morte. Il passo che contiene l’esplicito riferimento a Eraclito (Leg. 1.108) è senza dubbio il più utile ai fini della nostra ricerca. La citazione del detto eracliteo, filologicamente avvalorata da quella identica di Ierocle, lascerebbe pensare che, in questo caso, Filone non legga direttamente Eraclito, né lo ricordi a memoria, ma si basi su un’antologia di sentenze eraclitee o presocratiche che circolò ad Alessandria fino al V secolo. Quale che sia la fonte di Filone – e di Ierocle, che di certo non dipende da lui –, la sua testimonianza, confrontata con le altre citazioni letterali di Eraclito, conferma che la forma simmetrica e lo stile antitetico del frammento ne riproducono il contenuto semantico. La sapiente scelta lessicale e la poetica costruzione sintattica rivelano, infatti, che il testo di Eraclito riflette il pensiero che comunica: il chiasmo della prima parte della frase («immortali mortali, mortali immortali») e il duplice ossimoro della seconda parte («vivendo la morte» e «morendo la vita») veicolano la dottrina dell’unità dei contrari. Ora, secondo l’interpretazione di Filone, per Eraclito gli immortali sono mortali e i mortali immortali, perché durante la vita degli uomini in carne e ossa le anime divine sono morte nei loro corpi, ma tornano a vivere quando gli uomini muoiono. Eraclito non pone la questione in termini platonici di anima
412 Cf. Platone, Crat. 400 c; Phaed. 62 b; Leg. 854 b; Ax. 365 e; Aristotele, fr. 60, segnalati da M.L. West, The Orphic Poems, Oxford 1983, p. 21, n. 52. 413 Cf. D. Zeller (1995), art. cit., p. 41.
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e corpo, ma in vari frammenti fa allusione ai differenti destini umani, poiché diversa è la natura degli uomini che aspirano alla gloria eterna e di quelli che pensano solo a saziarsi come bestie414; le vittime di guerra ad esempio, che hanno avuto una bella morte, cioè valorosa e virtuosa, avranno una migliore sorte415. Eraclito non si riferisce solo ai guerrieri, bensì agli uomini in generale416 che nel migliore dei casi diventano «demoni» (δαίμονες)417 o «eroi» (ἥρωες)418, cioè spiriti divini, «guardiani che vegliano sui vivi e sui morti» (φύλακας ... ἐγερτὶ ζώντων καὶ νεκρῶν)419. A Filone non è sfuggita la possibile applicazione della dottrina eraclitea della vita e della morte alla teodicea biblica, e per questo utilizza in vario modo gli ossimori di Eraclito, interpretandoli in prospettiva giudeo-ellenistica – paralleli possono essere instaurati con il Libro della Sapienza – per commentare diversi passi della Scrittura. Così, l’Alessandrino considera una “morte” la “vita” dell’uomo stolto e sconsiderato, e prospetta una vera “vita” dopo la “morte” biologica per l’uomo intelligente e saggio. Nella lettura filoniana di Eraclito, dunque, la condotta dell’uomo determina la morte e la vita della sua anima durante la vita e dopo la morte del corpo. Ora, i frammenti conservati non smentiscono tale interpretazione: secondo Eraclito non è bene che gli uomini abbiano tutto ciò che desiderano420, anzi è pericoloso (85 DK): «è difficile combattere contro il proprio animo, perché compra ciò che vuole a prezzo dell’anima» (θυμῶι μάχεσθαι χαλεπόν· ὃ γὰρ ἂν θέληι, ψυχῆς ὠνεῖται), cioè la passione o l’ardore del cuore paga quel che desidera con la stessa vita umana, poiché il suo eccesso provoca la morte. E ancora, Eraclito sostiene che il divino di ogni uomo dipende dalla disposizione naturale e dal comportamento assunto, dicendo (119 DK) «demone è per l’uomo il proprio modo di essere» (ἦθος ἀνθρώπωι δαίμων), vale a dire: il carattere di ogni uomo è la sua divinità. Ciò non significa che Filone restituisca il significato genuino del detto eracliteo, perché potrebbe semplicemente interpretarlo sulla base di altri detti, come sovente accade. L’interpretazione degli «immortali» di Eraclito – o dei demoni di Empedocle – come anime umane, 414
Cf. 22 B 29 DK. Cf. 22 B 24-25. 416 Cf. G.S. Kirk (1954), op. cit., p. 248. 417 22 B 79 DK. 418 22 B 5 DK. 419 22 B 63 DK. Secondo J. Mansfeld (1983), art. cit., p. 63, Filone, Conf. 79-80 sarebbe una vaga reminiscenza del frammento 63 DK di Eraclito. 420 Cf. 22 B 110 DK. 415
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infatti, pare ispirarsi al mito centrale del Fedro platonico (248 b), in cui le anime salgono al di sopra della volta del cielo per contemplare le Forme eterne e perfette. Nella lingua arcaica di Eraclito, ancora molto vicina all’uso omerico ed esiodeo, la coppia ἀθάνατοι-θνητοί indica l’opposizione tra gli dei e gli uomini421. L’identità e la distinzione tra il divino e l’umano, che compare in più frammenti422 , rappresenta il principio eracliteo e la legge universale della realtà423 che è cambiamento da un opposto all’altro in termini di vita e morte424. Se tutto diviene “morendo” in quanto tale e “rinascendo” come altro, così anche e soprattutto gli immortali si scambiano con i mortali, gli dei divengono uomini e gli uomini, dei. Con tali parole, Eraclito supera l’abisso che la mentalità greca arcaica poneva tra divinità olimpiche ed esseri umani425, cioè rompe con la pietà tradizionale e la religione popolare426, rifiutando l’irriducibile opposizione tra immortali e mortali e proclamando l’identità dei contrari: della vita degli uni e della morte degli altri. Se già Esiodo affermava che «dei e uomini mortali sono nati di nascita comune» (ὁμόθεν γεγάασι θεοὶ θνητοί τ᾽ ἄνθρωποι) (Op. 108), e Pindaro (VI-V s. a. C.), che «una sola è la razza degli uomini e degli dei» (῝Εν ἀνδρῶν, ἓν θεῶν γένος) (Nem. VI, str. 1, 1-11)427, Eraclito, dal canto suo, esprime “filosoficamente” la questa concezione: dei e uomini sono una e la medesima cosa, gli immortali hanno parte al morire e i mortali possono e devono vivere, perché gli uni vivono la morte e muoiono la vita degli altri. Tra il VI e il IV secolo a. C., Euripide428 identificava il vivere con il morire, e gli orfico-pitagorici429 credevano nell’entrata e nell’uscita delle anime dai corpi; Empedocle (31 B 115 DK) riteneva l’incarnazione una punizione dei «demoni» (δαίμονες), divinità colpevoli di crimini e spergiuro, condannati a un esilio di molteplici e successive incorporazioni430; Democrito (68 B 171 DK) –
421
Cf. J. Pépin (1971), op. cit., pp. 36 ss. Cf. 22 B 30, 53, 83, 78, 79 DK. Cf. O.A. Gigon (1935), op. cit., pp. 124-125. 423 Cf. 22 B 24, 30, 53, 86, 102, 114 DK. 424 Cf. 22 B 30, 53, 83, 78, 79 DK. 425 Cf. M. Conche (2005), op. cit., pp. 369 ss. 426 Cf. C.H. Kahn (1979), op. cit., pp. 218 s. 427 Cf. H. Fränkel, Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, München 19622 , p. 428 e n. 11. 428 Cf. Euripide, fr. 638 Nauck. 429 Cf. Platone, Crat. 400 c; Gorg. 293 a ss.; Phaed. 64 c, 80 e ss.; Phaedr. 248 c s., etc. 430 Cf. Empedocle, 31 B 115 DK. Sull’identificazione tra immortale e mortale, cf. anche 31 B 35 o 112 DK. 422
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forse già riscrivendo e correggendo Eraclito – definiva l’anima la dimora del «demone» (δαίμων). Come dimostra Filone, tuttavia, Eraclito è l’autentico fautore e l’unico sostenitore della dottrina dell’identità di «immortali» e «mortali» attraverso il reciproco «vivere la morte» e «morire la vita». Empedocle (31 B 125 DK) fa venire i morti dai vivi e i vivi dai morti, ma parla del cambio o dello scambio delle loro forme. Al di là dell’apparente analogia con il linguaggio degli antichi poeti, i concetti dei filosofi presocratici e le credenze orfico-pitagoriche431, dunque, Eraclito rivendica l’originalità del proprio pensiero affermando che gli immortali muoiono e i mortali vivono, poiché la vita degli dei e la morte degli uomini sono una sola cosa e fanno tutt’uno. In Eraclito, gli aggettivi sostantivati «immortali» e «mortali» sono contrari che si identificano e si differenziano nel divenire gli uni gli altri, cioè nel sostituirsi gli uni agli altri. Come giorno e notte432 , inverno ed estate433, asciutto e bagnato434, ma anche sveglio e dormiente o giovane e vecchio435, e ancora, liberi e schiavi436, i contrari immortali-mortali di Eraclito sono uno e lo stesso, perché la loro identità è una successione continua e ciclica, una causalità reversibile e un condizionamento reciproco. Eraclito sembra aver ritenuto che l’errore degli uomini ignoranti e incoscienti è proprio quello di distinguere e separare gli dei dagli uomini senza rendersi conto che i due contrari sono una cosa sola, poiché gli uni costituiscono la ragion d’essere degli altri, e non sono mai senza di loro: se gli immortali vivono della e nella morte dei mortali, i mortali muoiono per la vita degli immortali.
431 Da rifiutare, in ogni caso, è la vecchia interpretazione di V. Macchioro, Eraclito. Nuovi studi sull’orfismo, Bari 1922, pp. 87-94, secondo cui il dio (immortale) sarebbe Dioniso Zagreo e l’uomo (mortale), l’iniziato ai misteri orfici. 432 Cf. 22 B 67 DK. 433 Cf. 22 B 67 DK. 434 Cf. 22 B 126 DK. 435 Cf. 22 B 88 DK. 436 Cf. 22 B 53 DK.
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La ricerca prosegue ora con l’esame della testimonianza filoniana sull’antropologia eraclitea: il corpo inerte, l’anima vivificante e il ciclo di vita e morte dell’uomo. L’Alessandrino ripete il frammento 96 DK sui cadaveri, quasi fosse un adagio, in almeno due commentari allegorici (Fug. 61 e QG 1.81); menzionando e citando Eraclito in un trattato filosofico (Prov. 2.109), invece, Filone fornisce la prima occorrenza letteraria e letterale del frammento 118 DK sull’anima asciutta, che riecheggia anche in QG. 2.12. In una domanda-risposta sulla Genesi (QG 2.5), infine, Filone offre la preziosa testimonianza 19 DK sul ciclo eracliteo della generazione umana. L’analisi dei contesti filoniani, seguita dal confronto con le altre fonti e gli altri frammenti, rivelerà qual è il contributo dell’Alessandrino alla storia della trasmissione e della comprensione del discorso eracliteo sull’essere umano, non solo della sua ricezione. 1. Il «cadavere» di Filone: un corpo senz’anima 1.1. Il male immortale Filone allude al frammento 96 DK di Eraclito nel trattato allegorico De fuga et inventione, dedicato – come sappiamo – al commento di Gen. 16:6-12: la vicenda della serva Agar e della padrona Sara. Nella prima parte del trattato, Filone si concentra sul significato della fuga di Agar e, in Fug. 53, comincia a prendere in esame i tipi di peccato grave, cioè i diversi tipi di omicidio, azione sommamente riprovevole che la Legge punisce con la soluzione estrema della morte. Il sotto-testo biblico di riferimento è la sanzione legale di Es. 21:12: θανάτῳ θαναθούσθω («morirà di morte»), che richiama quella di Gen. 2:17: θανάτῳ ἀποθανεῖσθε («morirete di morte»), commentata da Filone in Leg. 1.105-108 con la citazione eraclitea. La parola di Eraclito riecheggia – come
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dicevamo – anche in Fug. 55, in cui Filone dice che alcuni uomini sono morti anche da vivi e altri vivono anche dopo morti. Lo sviluppo filoniano procede con un altro argomento sulla morte e l’immortalità che rappresentano rispettivamente la condizione dell’uomo malvagio e quella del virtuoso. Secondo Filone, infatti, il bene lascia la terra per risalire alla sua origine celeste, laddove il male rimarrà sempre imprigionato nel mondo mortale; così il fratricida Caino, eretto a simbolo universale della malvagità, non è mai morto. Filone osserva, appunto, che non vi è nella Scrittura alcuna menzione della morte di Caino, e che una spiegazione di questa sua peculiare “immortalità” si trova in Gen. 4:15: «il Signore Dio pose un segno su Caino, affinché chiunque lo trovasse, non lo uccidesse» (ἔθετο κύριος ὁ θεὸς τῷ Κάιν σημεῖον, τοῦ μὴ ἀνελεῖν αὐτὸν πάντα τὸν εὑρίσκοντα). Ed ecco il commento filoniano del versetto biblico (Fug. 60-61, III, p. 123 Wendland): In nessun passaggio della Legge si trova la morte di Caino, il fratricida maledetto, ma c’è anche un oracolo biblico su di lui che recita così: “Il Signore Dio pose un segno su Caino, affinché non lo uccidesse chiunque lo trovasse” (Gen. 4:15). Per quale ragione? Perché, credo, l’empietà è un male senza fine, e una volta divampato, non può estinguersi mai più, tanto che si applica al vizio il verso del poeta: “di certo non è mortale, ma un male immortale” (Od. XII 118); cioè: è immortale in quella che è la nostra vita, laddove, rispetto alla vita in Dio, è inanimato, un cadavere “da buttar via più che gli escrementi”, come ha detto qualcuno1.
Senza menzionare esplicitamente Eraclito, Filone presenta una parziale versione del frammento 96 DK: κοπρίων ... ἐκβλητότερον («da buttar via più che gli escrementi») – già citato letteralmente da Strabone (νέκυες κοπρίων ἐκβλητότεροι: «i cadaveri sono da buttar via più che gli escrementi») –, modificando leggermente il detto per meglio adattarlo alla sintassi del proprio discorso e al suo argomento sull’immortalità del vizio. Commentando il versetto biblico (Gen. 4:15) in cui Dio impedisce l’uccisione di Caino, l’Alessandrino spiega che il male è immortale facendo ricorso a due autorità greche: il «Poeta», 1 Κάιν δ´ ὁ ἐναγὴς καὶ ἀδελφοκτόνος οὐδαμοῦ τῆς νομοθεσίας ἀποθνῄσκων εὑρίσκεται, ἀλλὰ καὶ λόγιόν ἐστιν ἐπ´ αὐτῷ χρησθὲν τοιοῦτον· „ἔθετο κύριος ὁ θεὸς τῷ Κάιν σημεῖον, τοῦ μὴ ἀνελεῖν αὐτὸν πάντα τὸν εὑρίσκοντα“ (Gen. 4:15). διὰ τί; ὅτι, οἶμαι, ἡ ἀσέβεια κακόν ἐστιν ἀτελεύτητον, ἐξαπτόμενον καὶ μηδέποτε σβεσθῆναι δυνάμενον, ὡς τὸ ποιητικὸν ἁρμόττειν ἐπὶ κακίας εἰπεῖν· ἡ δέ τοι οὐ θνητή, ἀλλ´ ἀθάνατον κακόν ἐστιν, ἀθάνατον δ´ ἐν τῷ παρ´ ἡμῖν βίῳ, ἐπεὶ πρός γε τὴν ἐν θεῷ ζωὴν ἄψυχον καὶ νεκρὸν καὶ „κοπρίων“, ὡς ἔφη τις, „ἐκβλητότερον.“ Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 76 (i), p. 662; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T, 341, pp. 249-250.
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cioè Omero, e «qualcuno», vale a dire Eraclito. Dapprima Filone riferisce al vizio quanto nell’Odissea (XII 118) è detto del mostro Scilla: «di certo non è mortale, ma un male immortale» (ἡ δέ τοι οὐ θνητή, ἀλλ᾽ ἀθάνατον κακόν ἐστι)2 , poi precisa che è immortale nella vita terrena dell’uomo, ma rispetto alla vera vita in Dio è «un cadavere, “da buttar via più che gli escrementi”» (νεκρὸν καὶ „κοπρίων ... ἐκβλητότερον“). Diversamente dalle altre fonti3 del frammento 96 DK di Eraclito, che attestano il plurale di νέκυς, Filone presenta il singolare di νεκρός – termine degli esempi aristotelici4 –, utilizzato anche in Leg. 1.108 per interpretare il frammento eracliteo sul “morire la vita” e “vivere la morte”. I paralleli interni ed esterni al corpus philonicum rivelano che il «qualcuno» del nostro passaggio è Eraclito, e che Filone utilizza la parola eraclitea per esprimere il suo pensiero, vale a dire la mancanza di valore di una vita vissuta senza ragione e virtù, propria di un corpo umano senz’anima. Per l’Alessandrino, infatti, l’anima si scinde in due realtà differenti: l’una di natura pneumatica e divina, che rappresenta la parte direttrice dell’uomo, l’altra, biologica e psichica, che ne costituisce il principio fisico. Quest’ultima è inferiore alla prima, ed è quell’ammasso di sangue che senza la divina Provvidenza sarebbe solo un composto materiale destinato a dissolversi5. Così, l’uomo che vive con e per il corpo, non secondo l’anima divina, intellettiva e virtuosa, è considerato da Filone un cadavere. Un simile argomento si ritroverà in Clemente di Alessandria che, prima di citare un frammento eracliteo (118 DK), afferma che il sonno della ragione, dovuto all’ubriachezza, equivale alla morte dell’anima: «Così la Scrittura mostra che il bevitore è anche già un cadavere» (’Eνταῦθα μὲν καὶ νεκρὸν ἤδη τῷ λόγῳ τὸν φιλοπότην ἀποφαίνεται) (Paed. II 2, 27, 5), perché l’oblio della vera vita rappresenta la vera morte dell’uomo. Questo paragone dell’ubriaco con il cadavere, che è un corpo senz’anima perché vive una vita priva della sapienza divina, è un implicito richiamo al frammento 96 DK di Eraclito, già associato a quello sull’anima asciutta (118 DK) da Filone, QG 2.12, come vedremo.
2 Sulla Scilla del mito dell’Odissea, definita “male immortale”, cf. Det. 178 e QG 1.76, in cui Filone commenta lo stesso versetto biblico (Gen. 4:15). 3 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 76, pp. 660-662; Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), F 96, pp. 243-244. 4 Cf. Aristotele, Meteor. 389 b 31, 390 a 22. 5 Cf. Her. 58.
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Il frammento 96 DK è dunque un altro dei detti eraclitei che Filone utilizza per elaborare la sua speculazione sulla vita corporea intesa come morte dell’anima, vale a dire come esistenza inanimata nella materia del corpo. Se per Filone l’anima si distingue dal corpo in senso platonico (Tim. 30 b e passim), ma è immanente ad esso in quanto gli dona la vita in senso aristotelico (De an. 412 a), l’uomo senz’anima è un vivente che non vive veramente, un essente privo della sua essenza. Filone cita il detto eracliteo per dimostrare che il male esiste per sempre nella vita umana, e in questo senso il malvagio è immortale, ma nella vera vita, quella in e con Dio, è solo un morto. Secondo l’interpretazione di Filone, dunque, il frammento 96 DK di Eraclito significa che il cadavere è un vivente senza vita, e in quanto tale, va gettato come immondizia. 1.2. Il malvagio come cadavere Filone fa riferimento al frammento eracliteo 96 DK anche in un luogo delle Quaestiones (et Solutiones) in Genesim in cui si parla ancora della morte di Caino. Nel primo libro delle Domande-Risposte, interrogandosi sulla genealogia di Adamo di Gen. 5:3, Filone ritorna, infatti, sull’abominevole delitto. L’Alessandrino nota che, dopo il racconto del fratricidio, la Scrittura non menziona più Caino, ma lo sostituisce con Seth e la sua discendenza. Ecco l’inizio di QG 1.81, non conservato nell’originale greco, ma solo in versione armena: [Perché nella genealogia di Adamo [la Scrittura] non menziona più Caino, ma [al suo posto] Seth [...] ? (Gen. 5:3)] [La Scrittura] non ha ricondotto né alla categoria della ragione, né a quella del numero l’infame e selvaggio omicida; infatti, è “da buttar via più che gli escrementi”, come ha detto qualcuno, ritenendo che lui [scil. Caino] fosse tale 6.
La versione del frammento eracliteo 96 DK: «da buttar via più che gli escrementi» ( fimi instar rejiciendus est) è verosimilmente la stessa di Fug. 61 (κοπρίων ... ἐκβλητότερον). Anche in QG 1.81 Filone non menziona esplicitamente Eraclito, ma ricorre all’espressione «come ha detto qualcuno» (ut quidam dixit). In questo caso, però, «da buttar via più che gli escrementi» è pre6 Cf. Aucher, op. cit., in C. Mercier (ed), in PAPM, op. cit., vol. 34 a (1979), pp. 152-153; R. Marcus (ed.), in PLCL, op. cit., Supplement I (1953), p. 50. Il passo è assente dalla lista di testimonianze su Eraclito raccolte da Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 76, pp. 660-662 e dal capitolo Philo Alexandrinus dei più recenti Heraclitea di Mour., op. cit., II.A.1 (1999), pp. 237-253, ma apparirà nell’annunciato vol. II.B, R (Philo) [respectus uel citatio].
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cisamente l’omicida Caino, non il vizio: secondo l’interpretazione filoniana, infatti, il personaggio biblico è un cadavere che va gettato come fosse un rifiuto. Filone allude quindi al frammento 96 DK di Eraclito per spiegare che il malvagio Caino è un vivo morto nell’anima, dunque un morto vivente, e siccome i cadaveri sono da buttare, è stato estromesso dalla Scrittura. Secondo l’Alessandrino, la vita che si conforma al male è una morte, poiché gli occhi, gli orecchi e tutti gli altri organi di senso «muoiono» quando percepiscono in modo ingiusto7; detto altrimenti, per Filone gli occhi che non vedono e gli orecchi che non sentono sono quelli dei cadaveri8. Questa concezione ricorda non solo il versetto biblico (Is. 6:9) sull’udire senza comprendere e il guardare senza vedere, ma anche i frammenti in cui Eraclito si lamenta degli uomini che, pur avendo orecchi e ascoltando, sono sordi alla verità9, anche con gli occhi aperti sul mondo, dormono10. Come in Fug. 61, Filone non intende fornire un’esegesi della parola di Eraclito, che utilizza per commentare due diversi versetti biblici sulla “morte” del malvagio, cioè per sostenere che il cadavere è, in senso metaforico, un vivente senza vita, perché morto nell’anima. La duplice testimonianza filoniana induce tuttavia a interrogarsi sulla relazione che il frammento 96 DK intrattiene con gli altri detti che esprimono non solo la dottrina eraclitea della vita e morte dell’anima, ma anche la concezione eraclitea della vita umana, tra la sapienza divina e l’esistenza animale. 2. Dalla citazione di Eraclito al proverbio 2.1. Strabone: i costumi funerari dei Nabatei Tra il I secolo a. C. e il I secolo d. C., poco prima di Filone, il frammento 96 DK è citato letteralmente da Strabone di Amasea, autore di una Geografia in 17 libri che possediamo quasi per intero11, e che è in realtà una “geopolitica” finalizzata a comprendere l’uomo all’interno dell’ambiente in cui vive. Il Libro XVI tratta del Medio Oriente, e il capitolo 4 è dedicato all’Arabia, ovvero alla
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Cf. QG 2.9. Cf. Spec. 4.202. 9 Cf. 22 B 1, 17, 19, 34, 72 DK. 10 Cf. 22 B 73, 75, 88 DK. 11 Solo il Libro VII risulta spurio. 8
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spedizione romana di Elio Gallo che ne rivela le caratteristiche del territorio, la forma di governo delle città, i costumi delle popolazioni. Tra queste vi sono i Nabatei, una tribù semitica di origine nomade che aveva occupato la Siria istaurando un regno con capitale Petra, e che ai tempi di Strabone era alleata con i Romani (XVI 4, 21 ss.). All’interno della digressione sui Nabatei, Strabone menziona e cita Eraclito (Geogr. XVI 4, 26, III, p. 1097 Meineke): [I Nabatei] hanno per i corpi dei morti la stessa considerazione che per gli escrementi; come dice Eraclito: “i cadaveri sono da buttar via più che gli escrementi”. Perciò seppelliscono anche i loro re presso discariche di escrementi. Adorano il sole, e avendo eretto un altare in casa, ogni giorno offrono in esso libagioni e bruciano incenso12 .
Il passo è la prima versione del frammento 96 DK di Eraclito: νέκυες κοπρίων ἐκβλητότεροι («i cadaveri sono da buttar via più che gli escrementi»), quasi coeva a quella di Filone e prossima all’originale eracliteo, come confermano le fonti posteriori, che non dipendono da Strabone13. Nel suo resoconto etnografico degli usi e costumi nabatei, Strabone rileva la mancanza del culto dei morti e riferisce della pratica di gettare i cadaveri assieme agli escrementi: i Nabatei seppelliscono addirittura i loro re presso i letamai. Le sue conoscenze storico-filosofiche, acquisite con lo studio delle opere aristoteliche e la lettura delle Storie di Posidonio14, permettono allora a Strabone di associare gli usi e costumi funerari dei Nabatei alla parola di Eraclito. La testimonianza di Strabone è importante innanzitutto per la ricostruzione filologica del frammento, poiché, menzionando espressamente Eraclito e citando letteralmente il testo, il geografo rivela che il soggetto della frase sono «i cadaveri» (νέκυες). Quanto al significato, Strabone attribuisce implicitamente a Eraclito la considerazione del corpo inanimato come un rifiuto organico, simile a escrementi, ma induce anche a comprendere il detto come l’espressione del dissenso eracliteo rispetto alle usanze tradizionali del suo tempo e ambien-
12 ἴσα κοπρίαις ἡγοῦνται τὰ νεκρὰ σώματα, καθάπερ Ἡράκλειτός φησι νέκυες κοπρίων ἐκβλητότεροι. διὸ καὶ παρὰ τοὺς κοπρῶνας κατορύττουσι καὶ τοὺς βασιλεῖς. ἥλιον τιμῶσιν ἐπὶ τοῦ δώματος ἱδρυσάμενοι βωμόν, σπένδοντες ἐν αὐτῷ καθ᾽ ἡμέραν καὶ λιβανωτίζοντες. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 76 (a), p. 660; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 346, p. 255. 13 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 76, pp. 660-662; Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), F 96, pp. 243-244. 14 Cf. Strabone: contributi allo studio della personalità e dell’opera, vol. 1, a cura di F. Prontera, Perugia 1984, pp. 13, 37, 47, 84.
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te. Secondo Eraclito il corpo del defunto non necessiterebbe di cerimonie e onoranze funebri, non dovrebbe essere cremato o inumato, bensì gettato all’aria aperta insieme al letame. 2.2. Plutarco e Celso: la putrefazione della carne Tra il I e il II secolo della nostra era, il frammento 96 DK di Eraclito è citato da Plutarco nei Moralia («Opere morali»), e precisamente nelle Conversazioni a tavola: 9 libri composti ciascuno di 10 Questioni, presentate dall’autore come discussioni avvenute durante banchetti a casa di amici15. Le ultime tre questioni del libro IV16 hanno per scenario il banchetto dato dall’oratore Callistrato nella sua dimora di Edepso, in Eubea, e la Questione IV del libro IV è dedicata al tema: «Se il mare offre alimenti più gustosi che la terra» (Εἰ ἡ θάλασσα τῆς γῆς εὐοψοτέρα) (Quaest. conv. 667 B 9). Plutarco narra che il padrone di casa invita Policrate a difendere la causa del mare, finché Simmaco prende la parola per ricordare che il mare fornisce innanzitutto il sale, ciò che rende commestibile qualsiasi pietanza (668 E 7-8). Ed ecco il seguito del discorso di Simmaco (Quaest. conv. 668 F 7-669 A 6, IV, p. 140 Hubert): Come infatti i colori hanno bisogno della luce, così i sapori del sale, per stimolare la sensazione; altrimenti li percepiamo pesanti nel gusto e nauseanti. “I cadaveri, infatti, sono da buttar via più che gli escrementi” (22 B 96 DK), secondo Eraclito, e ogni carne è cadavere e parte di cadavere; la virtù del sale, come un’anima che vi sopraggiunge, gli apporta gradevolezza e piacere17.
La versione plutarchea del frammento 96 DK di Eraclito: νέκυες ... κοπρίων ἐκβλητότεροι («i cadaveri ... sono da buttar via più che gli escrementi») è la stessa di Strabone. Plutarco menziona e cita Eraclito all’interno del discorso conviviale di Simmaco, il cui intento è provare che il sale è ciò che rende gustosa ogni carne. La sua dimostrazione si basa sull’analogia tra l’anima e il sale:
15 In realtà, la finzione plutarchea, di discorsi almeno in parte reali, si evince dai riferimenti letterari e soprattutto filosofici di quest’opera della maturità. 16 Si tratta delle Questioni IV-V-VI: le altre sono perdute. 17 ὡς γὰρ τὰ χρώματα τός, οὕτως οἱ χυμοὶ λὸς δέονται πρὸς τὸ σαι τὴν αἴσθησιν· εἰ δὲ μή, βαρεῖς τῇ γεύσει προσπίπτουσι καὶ ναυτιώδεις. "νέκυες γὰρ κοπρίων ἐκβλητότεροι" καθ᾽ Ἡράκλειτον, κρέας δὲ πᾶν νεκρόν ἐστιν καὶ νεκροῦ μέρος· ἡ δὲ τῶν ἁλῶν δύναμις, ὥσπερ ψυχὴ παραγενομένη, χάριν αὐτῷ καὶ ἡδονὴν προστίθησι. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 76 (b), p. 660; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 515, p. 406.
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come l’anima dona vita al corpo, così il sale conferisce sapore alla carne. La citazione della parola di Eraclito serve dunque all’interlocutore per dimostrare che ogni carne è il corpo di un animale morto, e dunque un cadavere; in quanto tale, la carne non ha in sé alcun gusto: è il sale che, aggiunto ad essa, la rende gustosa, e in questo senso la “anima”. Plutarco rielabora così il paragone – già stoico18 – dell’anima con il sale. Nella successiva Questione X del libro V, egli spiegherà il motivo per cui già Omero definisce il sale “divino”: innanzitutto perché rende gli alimenti gradevoli al nostro gusto, ma anche e soprattutto per un’altra qualità, quella di preservare i corpi dalla putrefazione. Il passo presenta una nuova analogia tra l’anima e il sale, e qualche reminiscenza eraclitea: come l’anima impedisce alla massa corporea di sperperarsi, cioè di «correre via» (ῥεῖν), così il sale si attacca ai «cadaveri» (νεκρά) garantendo alle loro parti costitutive un’«armonia» (ἁρμονία) e un accordo reciproci (Quaest. conv. 685 C 1-6)19. Se quindi in un caso il sale procura alla carne il gusto, nell’altro, la conservazione; ma in entrambi i passaggi il ruolo del sale sulla carne è analogo a quello dell’anima nel corpo. Plutarco esprime così la concezione secondo cui i cadaveri sono sgradevoli e ripugnanti, perché prossimi all’ineluttabile putrefazione dopo che l’anima ha abbandonato il corpo; per questo motivo, a suo avviso, ci si dovrebbe sbarazzare dei cadaveri come di ogni altro rifiuto che è destinato a decomporsi e dissolversi. Il frammento 96 DK di Eraclito è anche citato, negli anni 177-180, dal polemista pagano Celso, autore di un Discorso vero (᾿Αληθὴς λόγος) che conosciamo solo attraverso la dettagliata confutazione di Origene: Contro il libro di Celso intitolato Discorso vero (Πρὸς τὸν ἐπιγεγραμμένον Κέλσου Ἀληθῆ λόγον), scritta una settantina di anni dopo20. Il libro V è dedicato all’esame dei passi dell’avversario, che critica le credenze e i culti dei cristiani come il giudizio finale e la resurrezione dei morti. Celso si scaglia contro l’escatologia cristiana in questo brano riprodotto e confutato da Origene (Contr. Cels., V 14, III, p. 48 Borret):
18
Cf. SVF I 516; II 722-723, 1154, segnalati da F. Fuhrmann in Plutarque (1978), op. cit., p. 146,
n. 12. 19 Cf. anche il Proemio del libro VII (Quaest. Conv. 697 D), e si ricordi che anche Platone, Symp. 177 b faceva riferimento all’anonimo autore di un elogio del sale. 20 Della vita e opera di Celso non si hanno notizie, eccetto che fu influenzato dal platonismo dell’epoca (Contr. Cels. IV 83), ma in prospettiva opposta a quella dei cristiani suoi contemporanei.
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[Celso] dice dunque: Un’altra stoltezza di costoro [scil. i Cristiani] è credere che quando Dio, come un cuoco, accenderà il fuoco, ogni altro genere brucerà, mentre loro saranno gli unici a sopravvivere; e non solo i viventi, ma anche quelli che saranno già morti da tempo, risorgendo dalla terra con quella stessa carne di allora: semplicemente la speranza dei vermi! Quale anima di uomo, infatti, rimpiangerebbe un corpo putrefatto? Il fatto che questa dottrina non sia ammessa da alcuni di voi e dei Cristiani, oltre al suo carattere massimamente abominevole, mostra che è ad un tempo ripugnante e impossibile: quale corpo completamente corrotto, infatti, potrebbe ritornare alla sua natura originaria e a quella stessa prima costituzione anteriore alla dissoluzione? Non avendo nessuna risposta, si rifugiano nella più assurda scappatoia: che tutto è possibile a Dio! Ma Dio, in vero, non può fare ciò che è turpe, né vuole ciò che è contro natura; né, se si bramasse qualcosa di riprovevole nella propria perversità, Dio l’esaudirebbe, e non bisogna credere subito che lo farà. Dio, infatti, non è l’artefice dell’appetito peccaminoso, né della licenza fuorviante, ma della natura retta e giusta. E all’anima, può accordare una vita immortale, ma “i cadaveri sono da buttar via più che gli escrementi”, dice Eraclito. Dio quindi non vorrà, né potrà rendere immortale, contro ragione, una carne piena di cose che non è bello dire. Lui stesso, infatti, è la ragione di tutto ciò che esiste, dunque non può operare niente contro la ragione, né contro se stesso21.
La versione del frammento 96 DK di Eraclito data da Celso: Νέκυες ... κοπρίων ἐκβλητότεροι («i cadaveri ... sono da buttar via più che gli escrementi») è la stessa di Strabone e Plutarco. La citazione eraclitea di Celso è inserita in un’invettiva anti-cristiana: oltre a ridicolizzare l’interpretazione della conflagrazione stoica come il giudizio universale di Dio con il fuoco, Celso giudica aberrante e
21 Λέγει οὖν ταῦτα· Ἠλίθιον δ᾽ αὐτῶν καὶ τὸ νομίζειν, ἐπειδὰν ὁ θεὸς ὥσπερ μάγειρος ἐπενέγκῃ τὸ πῦρ, τὸ μὲν ἄλλο πᾶν ἐξοπτήσεσθαι γένος, αὐτοὺς δὲ μόνους διαμενεῖν, οὐ μόνον τοὺς ζῶντας ἀλλὰ καὶ τοὺς πάλαι ποτὲ ἀποθανόντας αὐταῖς σαρξὶν ἐκείναις ἀπὸ τῆς γῆς ἀναδύντας, ἀτεχνῶς σκωλήκων ἡ ἐλπίς. Ποία γὰρ ἀνθρώπου ψυχὴ ποθήσειεν ἔτι σῶμα σεσηπός; Ὁπότε μηδ᾽ ὑμῶν τοῦτο τὸ δόγμα καὶ τῶν Χριστιανῶν ἐνίοις κοινόν ἐστι, καὶ τὸ σφόδρα μιαρὸν αὐτοῦ καὶ ἀπόπτυστον ἅμα καὶ ἀδύνατον ἀποφαίνειν· ποῖον γὰρ σῶμα πάντῃ διαφθαρὲν οἷόν τε ἐπανελθεῖν εἰς τὴν ἐξ ἀρχῆς φύσιν καὶ αὐτὴν ἐκείνην, ἐξ ἧς ἐλύθη, τὴν πρώτην σύστασιν; Οὐδὲν ἔχοντες ἀποκρίνασθαι καταφεύγουσιν εἰς ἀτοπωτάτην ἀναχώρησιν, ὅτι πᾶν δυνατὸν τῷ θεῷ. Ἀλλ᾽ οὔτι γε τὰ αἰσχρὰ ὁ θεὸς δύναται οὐδὲ τὰ παρὰ φύσιν βούλεται· οὐδ᾽ ἂν σύ τι ἐπιθυμήσῃς κατὰ τὴν σαυτοῦ μοχθηρίαν βδελυρόν, ὁ θεὸς τοῦτο δυνήσεται, καὶ χρὴ πιστεύειν εὐθὺς ὅτι ἔσται. Οὐ γὰρ τῆς πλημμελοῦς ὀρέξεως οὐδὲ τῆς πεπλανημένης ἀκοσμίας ἀλλὰ τῆς ὀρθῆς καὶ δικαίας φύσεως ὁ θεός ἐστιν ἀρχηγέτης. Καὶ ψυχῆς μὲν αἰώνιον βιοτὴν δύναιτ᾽ ἂν παρασχεῖν· "Νέκυες δέ", φησὶν Ἡράκλειτος, "κοπρίων ἐκβλητότεροι". Σάρκα δή, μεστὴν ὧν οὐδὲ εἰπεῖν καλόν, αἰώνιον ἀποφῆναι παραλόγως οὔτε βουλήσεται ὁ θεὸς οὔτε δυνήσεται. Αὐτὸς γάρ ἐστιν ὁ πάντων τῶν ὄντων λόγος· οὐδὲν οὖν οἷός τε παράλογον οὐδὲ παρ᾽ ἑαυτὸν ἐργάσασθαι. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 76 (c), p. 661; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 526, p. 416-417.
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assurda la credenza nella resurrezione dei morti con i loro corpi22. Interpretando la parola della Scrittura nel senso di un ritorno in vita della carne, il pagano obietta ai Cristiani che il corpo putrefatto non può recuperare la sua natura originaria, cioè lo stato anteriore alla corruzione, perché privo del principio che lo costituiva come tale: l’anima. Secondo Celso, infatti, solo l’anima è immortale, ed è somma stoltezza e pura empietà attribuire l’immortalità ai corpi. A quest’ultima considerazione di Celso, Origene ribatterà senza difficoltà che «gli escrementi sono da buttar via, ma i cadaveri umani, in virtù dell’anima che li ha abitati, e soprattutto se è stata assai virtuosa, non sono da buttar via» (τὰ μὲν κόπρια ἐκβλητά ἐστιν, οἱ δ᾽ ἐξ ἀνθρώπου νέκυες διὰ τὴν ἐνοικήσασαν ψυχήν, καὶ μάλιστα ἐὰν ᾖ ἀστειοτέρα, οὐκ ἐκβλητοί) (Contr. Cels. V 24, 14-17). L’Alessandrino cristiano non interpreta dunque il detto di Eraclito in senso metaforico, come il giudeo Filone. Per Origene, il corpo del defunto è lungi dall’essere paragonabile ad escrementi, perché l’anima ha dato la vita all’uomo che è stato. Non è un caso, infatti, che nessun cristiano citi il frammento 96 DK di Eraclito e che sia utilizzato dai filosofi pagani in polemica contro la dottrina della resurrezione. Testimoniando l’utilizzo pagano del detto eracliteo in polemica anti-cristiana, Celso sostiene che, a differenza dell’anima immortale, il corpo muore, cioè si corrompe inevitabilmente e irreversibilmente, perciò non deve essere onorato e conservato, ma gettato come la carogna di un animale23. 2.3. Plotino, Giuliano e Simplicio: il disdegno del corpo Nella seconda metà del III secolo della nostra era, il frammento 96 DK è citato da Plotino nel Trattato 10 (Enn. V 1)24 Sulle tre ipostasi principiali (Περὶ
22 I cristiani Clemente Alessandrino (Strom. V 1, 9, 1-4; cf. anche V 14, 105, 1-4) e l’autore della Refutatio omnium haeresium (IX 10, 6), citando altri frammenti eraclitei, attribuiscono ad Eraclito una dottrina della «resurrezione» (ἀνάστασις) della carne. 23 Nel II secolo della nostra era, il frammento 96 DK di Eraclito è dato anche dall’erudito e lessicografo Giulio Polluce, nel suo dizionario enciclopedico in dieci libri di sinonimi, espressioni e frasi in attico (Onom. V 162-163): Ἐπὶ τοῦ μηδενὸς ἀξίου [...] τῶν ἐν ταῖς τριόδοις καθαρμάτων ἐκβλητότερος, κοπρίων ἐκβλητότερος, εἰ δεῖ καθ᾽ Ἡράκλειτον λέγειν, τῶν ὀξυθυμίων ἀτιμότερος («A proposito di chi non vale nulla [...], da buttar via più che l’immondizia agli incroci, “da buttar via più che gli escrementi”, per dirla con Eraclito, il più vile dei rifiuti»). Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 76 (g), p. 661; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 584, p. 463. 24 Cf. J. Mansfeld (1992), op. cit., pp. 300 ss.; D.J. O’Meara (2005), art. cit., pp. 103-112.
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τῶν τριῶν ἀρχικῶν ὑποστάσεων)25, che contiene il secondo esplicito riferimento plotiniano alle dottrine dei Presocratici. Qui Plotino presenta e spiega il nesso essenziale esistente tra i tre principi neoplatonici della realtà: Anima, Intelletto e Uno, vale a dire il rapporto strutturale secondo cui essi derivano e si riconducono l’uno all’altro. La prima parte di Enn. V 1 [10] (1-3) è dedicata all’Anima, alla sua essenza e attività, che è quella di scendere dall’Intelletto e dal rango intelligibile nel mondo della Natura. Plotino si interroga innanzitutto (Enn. V 1 [10], 1) sull’oblio delle anime che, dimenticando la loro origine divina, ammirano e stimano le cose sensibili, perché non sanno di derivare da una grande anima, che corrisponde all’Anima del mondo del Timeo (34 a ss.) platonico (Enn. V 1 [10], 2)26. Secondo Plotino, quest’anima cosmica produce e “anima” tutti gli esseri viventi, perché riempie l’universo penetrandolo in ogni sua parte e apportandogli la vita, cioè il movimento eterno e perfetto del vivente beato. Plotino spiega, infatti, che il cielo ha tratto la sua dignità dall’anima che dimora in lui, poiché prima era solo un «corpo morto» (σῶμα νεκρόν), «terra e acqua, anzi tenebra di materia e non essere» (γῆ καὶ ὕδωρ, μᾶλλον δὲ σκότος ὕλης καὶ μὴ ὂν) (2, 24-27). Lo sviluppo continua poi con il riferimento al detto sui cadaveri (Enn. V 1 [10], 2, 38-42, II, p. 264-265 [1959] Henry-Schwyzer): E pur essendo molteplice e diverso nelle sue parti, il cielo è uno in virtù della potenza di questa [scil. l’anima] e il nostro mondo è un dio grazie ad essa. E anche il sole è un dio, perché animato, e tutti gli altri astri, e noi, se siamo qualcosa di divino, è per lo stesso motivo; “i cadaveri, infatti, sono da buttar via più che gli escrementi”27.
Senza menzionare Eraclito, Plotino fornisce una versione del frammento 96 DK: νέκυες ... κοπρίων ἐκβλητότεροι («i cadaveri ... sono da buttar via più che gli escrementi») identica a quella di Strabone, Plutarco e Celso. L’argomen25 Cf. l’edizione con traduzione italiana Plotino, tr. it. di R. Radice, saggio intr., pref. e note di G. Reale, Milano 2002, pp. 1160 ss.; e la più recente traduzione francese Plotin, Traité 10 (V, 1), Sur les trois hypostases qui ont rang de principes, Prés. et trad. par F. Fronterotta, in Plotin, Traités 7-21, trad. sous la direction de L. Brisson et J.-F. Pradeau, Paris 2003, pp. 133-208. 26 Cf. Plotin, Ennéades, V, Texte établi et traduit par É. Bréhier, Paris 1931, p. 8; Plotin, Traités 7-21 (2002), op. cit., p. 137. 27 Καὶ πολὺς ὢν ὁ οὐρανὸς καὶ ἄλλος ἄλλῃ ἕν ἐστι τῇ ταύτης δυνάμει καὶ θεός ἐστι διὰ ταύτην ὁ κόσμος ὅδε. Ἔστι δὲ καὶ ἥλιος θεός, ὅτι ἔμψυχος, καὶ τὰ ἄλλα ἄστρα, καὶ ἡμεῖς, εἴπερ τι, διὰ τοῦτο· νέκυες γὰρ κοπρίων ἐκβλητότεροι. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 76 (e), p. 661; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), T 727, pp. 613-614.
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to plotiniano è una dimostrazione del fatto che l’anima del mondo rende l’unico cielo – l’intero universo – divino, perché lo “anima”, cioè lo muove e lo nutre, infondendogli la vita. Per Plotino, come il sole e tutti gli astri, anche l’uomo è in certo senso divino, poiché dotato di un’anima che proviene dall’Anima cosmica; il suo corpo, invece, non ha alcun valore28. Citando il frammento eracliteo 96 DK come un proverbio, Plotino aderisce, alla stregua di Plutarco e Celso, alla tradizione platonica secondo cui l’anima, in virtù della sua origine intellettiva e della sua attività intellettuale, è superiore al corpo. Secondo Plotino, l’anima si perde nel sensibile perché, dimenticando la sua origine divina, si crede inferiore ad esso, laddove, conoscendo la sua natura e il suo principio, comprenderà che deve stimarsi più di ogni altra cosa sensibile. Plotino utilizza allora il frammento di Eraclito per affermare che il corpo umano, così come ogni altro corpo, è un ammasso di terra e acqua, materia inerte come quella di un cadavere, se l’anima non gli dà la vita; in quanto cadavere, il corpo va quindi gettato come gli altri rifiuti dello stesso tipo. Il detto di Eraclito è poi citato nel IV secolo da Giuliano nel Contro Eraclio, il trattato – di cui si è già parlato – contro i nuovi cinici che hanno tradito l’autentico cinismo29. Secondo Giuliano, la vita cinica necessita la conversione verso se stessi e verso dio, perciò bisogna vivere in modo frugale e moderato, rinunciando costantemente ai piaceri dei sensi e soprattutto all’amore. E questo è il passo sulla temperanza del vero cinico, che trascende il corpo per rivolgersi alle realtà divine (Contro Er. 226 C, II/1, p. 73 Rochefort): Egli [scil. il vero cinico], infatti, deve uscire completamente da sé, riconoscere che è divino e, da un lato, concentrare l’intelletto infaticabilmente e stabilmente su pensieri divini, immacolati e puri, dall’altro, trascurare totalmente il corpo e considerarlo, secondo Eraclito, “da buttar via più che gli escrementi”, prendersi cura di esso nel modo più semplice, per tutto il tempo che ordini di servirsi del corpo come di uno strumento30.
28
Cf. Plotin, Traités 7-21 (2002), op. cit., p. 178, nn. 41-42. Cf. J. Bouffartigue (1993), art. cit., pp. 339-358; K. Döring (1997), art. cit., pp. 386-400. 30 Δεῖ γὰρ αὐτὸν ἀθρόως ἐκστῆναι ἑαυτοῦ καὶ γνῶναι ὅτι θεῖός ἐστι καὶ τὸν νοῦν μὲν τὸν ἑαυτοῦ ἀτρύτως καὶ ἀμετακινήτως συνέχειν ἐν τοῖς θείοις καὶ ἀχράντοις καὶ καθαροῖς νοήμασιν, ὀλιγωρεῖν δὲ πάντη τοῦ σώματος καὶ νομίζειν αὐτὸ κατὰ τὸν Ἡράκλειτον κοπτερον, ἐκ τοῦ ῥᾴστου δὲ αὐτοῦ τὰς θεραπείας ἀποπληροῦν, ἕως ἂν ὥσπερ ὀργάνῳ τῷ σώματι χρῆσθαι ἐπιτάττῃ. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 76 (h), pp. 661-662; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), T 771, pp. 650-651. 29
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La citazione parziale del frammento 96 DK di Eraclito fornita da Giuliano, κοπτερον («da buttar via più che gli escrementi»), è la stessa di Filone. A differenza di Filone e delle altre fonti, però, Giuliano non fa alcun riferimento al cadavere o ai cadaveri, ma modifica e adatta il detto eracliteo per dimostrare che l’avversario Eraclio non conosce né rispetta il principio fondamentale della vita cinica, che consiste nel distaccarsi dalle vanità, quindi dal corpo, di cui bisogna servirsi come di uno strumento e dedicare ad esso solo la cura strettamente necessaria. La testimonianza di Giuliano, che si iscrive nella tradizione interpretativa platonizzante, conferma anche i frammenti e le testimonianze sulla morale eraclitea di vita semplice, come privazione dei piaceri sensuali e rinuncia al lusso e al fasto31. Il frammento 96 DK di Eraclito è evocato, tra il V e il VI secolo, da Simplicio, filosofo neoplatonico e commentatore delle opere di Aristotele ed Epitteto. Tra i trattati in Aristotelem che Simplicio compose dopo il 532 vi è l’In De caelo32: un commento al metodo e al testo dei quattro libri Sul cielo di Aristotele. La prospettiva adottata da Simplicio è quella del neoplatonismo della tarda Antichità, in cui le questioni cosmologiche sono intimamente legate alla problematica teologica: l’In De caelo è un’opera esegetica concepita in difesa della trascendenza del Cielo secondo la fede ellenica, un inno di preghiera e lode al Demiurgo. La sezione In De caelo, p. 370, 1 ss. Heiberg è il commento di Simplicio al lemma di Aristotele sulla divinità e l’immortalità del cielo (De caelo 284 a 2-14)33. Secondo Simplicio, l’affermazione aristotelica (De caelo 284 a 2 ss.), che le dottrine antiche sugli dei sono vere, vale soprattutto per quelle dei nostri padri e delle nostre patrie sulla maestà divina e il culto degli dei. Tra queste 31
Cf. 22 A 1, 3b; B 4, 29 DK. Cf. Simplicii in Aristotelis De Caelo commentaria, in CAG, vol. VII, Hrsg. von I.E. Heiberg, Berlin 1894, 2001. 33 Διόπερ καλῶς ἔχει συμπείθειν ἑαυτὸν τοὺς ἀρχαίους καὶ μάλιστα πατρίους ἡμῶν ἀληθεῖς εἶναι λόγους, ὡς ἔστιν ἀθάνατόν τι καὶ θεῖον τῶν ἐχόντων μὲν κίνησιν, ἐχόντων δὲ τοιαύτην ὥστε μηθὲν εἶναι πέρας αὐτῆς, ἀλλὰ μᾶλλον ταύτην τῶν ἄλλων πέρας· […] Τὸν δ᾽ οὐρανὸν καὶ τὸν ἄνω τόπον οἱ μὲν ἀρχαῖοι τοῖς θεοῖς ἀπένειμαν ὡς ὄντα μόνον ἀθάνατον· ὁ δὲ νῦν μαρτυρεῖ λόγος ὡς ἄφθαρτος καὶ ἀγένητος, ἔτι δ᾽ ἀπαθὴς πάσης θνητῆς δυσχερείας ἐστίν («Ecco perché è bene convincersi intimamente della verità delle dottrine antiche, e soprattutto di quelle dei nostri padri, secondo le quali vi è qualcosa di immortale e di divino negli esseri dotati di movimento, e di un movimento tale da non avere alcun limite, ma da costituire piuttosto esso stesso il limite degli altri. […] Gli antichi hanno assegnato agli dei il cielo e il luogo che si trova in alto, in quanto lo ritenevano l’unico immortale; il presente trattato attesta che è incorruttibile e ingenerato, che è inoltre impassibile a ogni disagio legato alla condizione mortale»). 32
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credenze, continua Simplicio, vi è quella secondo cui i corpi celesti «sono fisici, animati, divini e dotati di un movimento incessante [...] e, in quanto immortali, appartengono agli dei» (φυσικά τε εἶναι καὶ ἔμψυχα καὶ θεῖα καὶ ἀνέκλειπτον ἔχοντα τὴν κίνησιν [...] καὶ ὡς ἀθάνατα τοῖς θεοῖς προσήκειν) (In De caelo, p. 370, 25-27). Ed ecco il seguito del passo (In De caelo, pp. 370, 29-371, 4 Heiberg): Che sia innato nelle anime degli uomini ritenere divine le realtà celesti, appare soprattutto in coloro che, spinti da pregiudizi atei, le calunniano34. E infatti, anche loro dicono che il cielo è la dimora del divino e il suo trono, e che è il solo atto a rivelare la gloria e la trascendenza di dio a quanti ne sono degni; vi sono forse credenze più venerabili? Eppure, come se le dimenticassero, ritengono che “le cose da buttar via più che gli escrementi” abbiano più valore del cielo e, come se fosse nato per la loro tracotanza, si accaniscono a disonorarlo35.
La versione del frammento 96 DK data da Simplicio, senza menzione di Eraclito, τὰ κοπρίων ἐκβλητότερα («le cose da buttar via più che gli escrementi»), manca del soggetto «cadaveri» che compare nella forma data da Strabone, Plutarco, Celso e Plotino (νέκυες κοπρίων ἐκβλητότεροι), e si differenzia da quella di Filone e Giuliano (κοπρίων ἐκβλητότερον) per il neutro plurale («le cose»). Il passaggio di Simplicio rappresenta un attacco contro i cristiani, che considerano divine le realtà celesti, poiché tale concezione è innata in tutti gli uomini, ma al tempo stesso le calunniano dando più valore ai cadaveri36. Simplicio non esplicita il termine νέκυες, ma il frammento di Eraclito, così popolare in epoca medio- e neo-platonica, e già utilizzato da Celso in polemica anti-cristiana, è la prova che il tardo Neoplatonico sta qui criticando il culto delle reliquie, dei santi, dei martiri e di tutti i morti, tipico della religione cris-
34 Il testo dell’edizione Heiberg (διαβλεπόμενοι) è corretto in διαβεβλημένοι da K. Praechter, Simpl. in Arist. de Caelo p. 370,29 ff. H., «Hermes» 59 (1924), pp. 118-119. 35 Ὅτι δὲ συμφυές ἐστι ταῖς τῶν ἀνθρώπων ψυχαῖς τὰ οὐράνια θεῖα νομίζειν, δηλοῦσι μάλιστα οἱ ὑπὸ προλήψεων ἀθέων πρὸς τὰ οὐράνια διαβλεπόμενοι. καὶ γὰρ καὶ οὗτοι τὸν οὐρανὸν οἰκητήριον εἶναι τοῦ θείου καὶ θρόνον αὐτοῦ λέγουσι καὶ μόνον ἱκανὸν εἶναι τὴν τοῦ θεοῦ δόξαν καὶ ὑπεροχὴν τοῖς ἀξίοις ἀποκαλύπτειν· ὧν τί ἂν εἴη σεμνότερον; καὶ ὅμως, ὥσπερ ἐπιλανθανόμενοι τούτων, τὰ κοπρίων ἐκβλητότερα τοῦ οὐρανοῦ τιμιώτερα νομίζουσι καὶ ὡς πρὸς ὕβριν τὴν ἑαυτῶν γενόμενον οὕτως ἀτιμάζειν φιλονεικοῦσιν. Il passo é assente dalle due maggiori edizioni di Eraclito: Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 76, pp. 660-662; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), pp. 731 ss. (Simplicius) e III.3.B/i (2006), F 96, p. 213. 36 H.D. Saffrey, Allusions antichrétiennes chez Proclus, le diadoque platonicien, «RSPhTh» 59 (1975), pp. 553-563; Ph. Hoffmann, Sur quelques aspects de la polémique de Simplicius contre Jean Philopon: de l' invective à la réaffirmation de la transcendance du Ciel, in I. Hadot (ed.), Simplicius, sa vie, son œuvre, sa survie, Actes du Colloque international “Simplicius” de Paris (Fondation Hugot du Collège de France, 28 sept.-1er oct. 1985), Peripatoi 15, Berlin-New York 1987, pp. 183-221.
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tiana, ma anche le solenni cerimonie funebri, così come le sontuose costruzioni dell’arte funeraria dei cristiani del suo tempo e ambiente37. Secondo Simplicio, divino è il Cielo, e degne di venerazione sono le nature celesti, animate e immortali, non i corpi morti; il corpo etereo, infatti, è ben diverso dal corpo animale, perché la sostanza celeste è lo stato più puro del fuoco, la luce divina e trascendente che è il contrario della materia terrosa e acquosa del cadavere. 3. I «cadaveri» (fr. 96 DK) di Eraclito Filone fornisce una reminiscenza del frammento 96 DK di Eraclito sul cadavere «da buttar via più che gli escrementi» (κοπρίων ... ἐκβλητότερον), citato letteralmente dal geografo e storico Strabone (I sec. a. C.-I sec. d. C.): «i cadaveri sono da buttar via più che gli escrementi» (νέκυες κοπρίων ἐκβλητότεροι). Descrivendo gli usi e costumi della popolazione medio-orientale dei Nabatei, che gettano i morti presso discariche di escrementi, Strabone menziona e cita Eraclito; ciò permette la ricostruzione del frammento eracliteo con il soggetto al plurale (νέκυες), e induce a riflettere sulla posizione di Eraclito rispetto alle pratiche religiose tradizionali della Ionia di V secolo a. C. Il detto compare in almeno due luoghi del corpus philonicum, a cominciare da Fug. 61, in cui Filone allude alla parola eraclitea («come ha detto qualcuno») commentando l’episodio biblico della morte di Abele per mano del fratello Caino. Osservando che in nessun luogo della Scrittura è narrata la morte di Caino, l’Alessandrino spiega che il fratricida non muore mai nella vita terrestre, ma rispetto alla vita in Dio è già un «cadavere» (νεκρός), perché senz’anima. Similmente, in QG 1.81 Filone nota che, dopo l’episodio del fratricidio, il nome di Caino non compare più nella Scrittura, ma è sostituito da Seth, perché è un malvagio che vive mentre la sua anima è morta e sepolta nel corpo, e in quanto cadavere è «da buttar via», cioè va espulso dal racconto biblico. Plutarco (I-II sec. d. C.), in una conversazione a tavola, riporta l’opinione secondo cui il sale è ciò che dà sapore alla carne; come dice Eraclito: «i cadaveri sono da buttar via più che gli escrementi», ma il sale, quale un’anima che
37 Originario della Cilicia (Asia Minore), Simplicio fu discepolo di Ammonio ad Alessandria e di Damascio, e dopo la chiusura della Scuola filosofica di Atene ad opera di Giustiniano (529 d. C.), si recò con altri filosofi pagani dapprima in Persia, alla corte del re Cosroe, poi con ogni probabilità a Harran, città bizantina di lingua greco-aramaica in cui era attiva una scuola neoplatonica. Cf. M. Tardieu, Sābiens coraniques et Sabiens de Harran, in «JA» 274 (1986), pp. 1-44.
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sopraggiunge dando vita al corpo, gli apporta gradevolezza e piacere. La stessa citazione è data dal pagano Celso (II sec.) che, nel suo discorso confutato da Origene, considera aberrante e assurda la credenza dei Cristiani nella resurrezione dei morti con i loro corpi, perché nessun corpo corrotto può ritornare in vita: solo l’anima è immortale. Plotino (III sec.), nel trattato dedicato alle tre ipostasi neoplatoniche della realtà, sostiene che anche l’uomo è in certo senso divino grazie alla propria anima, che deriva dall’Anima del mondo, ma il suo corpo è materia inerte: «i cadaveri sono da buttar via più che gli escrementi». I Neoplatonici Giuliano (IV sec.) e Simplicio (VI sec.) alludono al detto eracliteo – «da buttar via più che gli escrementi» (κοπτερον) e «le cose da buttar via più che gli escrementi» (τὰ κοπρίων ἐκβλητότερα) –, sfruttandolo nelle loro polemiche rispettivamente anti-cinica e anti-cristiana. Filone, dunque, ricorre all’espressione «da buttar via più che gli escrementi», come se citasse a memoria l’apoftegma eracliteo sui cadaveri, senza ricordarsi dell’autore o senza volerlo nominare. E’ del tutto possibile, del resto, che il detto circolasse nell’Alessandria di I secolo come un proverbio, che molti conoscevano senza conoscere, cioè senza saperne precisare la provenienza o la paternità. Tutti i testimoni del frammento – tra i quali non vi è nessun cristiano – adottano e adattano la parola di Eraclito alle tesi che vogliono difendere o combattere, lontane e diverse dalla primitiva dottrina eraclitea. A differenza delle altre fonti, tuttavia, Filone è l’unico autore antico a dire che l’uomo è un cadavere non solo quando l’anima lo abbandona, ma anche durante la vita biologica dell’essere umano, perché l’anima è seppellita nella tomba del corpo. Secondo l’interpretazione filoniana, che associa implicitamente questo frammento ai detti eraclitei sulla morte dell’anima38, l’uomo è un “cadavere” quando la sua anima è morta, ovvero quando “muoiono” la sua sapienza e la sua virtù. Mettendo la parola eraclitea a servizio del commentario allegorico della Scrittura, Filone utilizza il detto di Eraclito per esprimere la concezione metaforica del “cadavere ambulante”: l’uomo morto anche quando in vita, perché privo della vera vita. Secondo i frammenti di Eraclito, in effetti, l’essere umano è a mezza strada tra l’animale e la divinità, e il più sapiente degli uomini pare una scimmia se paragonato a Dio39. Pochissimi sono gli uomini di valore: i più
38 39
Cf. 22 B 36, 60, 62, 77b DK. Cf. 22 B 82-83 DK.
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pensano solo a riempire il ventre40; la maggior parte di essi, pur avendo orecchi per ascoltare, sono sordi alla verità41, anche quando hanno gli occhi aperti, è come se dormissero42 . Eraclito ritiene che la vita di quanti non riconoscono e non comprendono le cose che pure incontrano ogni giorno43 è quella del sonno della ragione ed è assimilata alla morte44, perché vivo e morto, sveglio e dormiente, giovane e vecchio si contrappongono e si identificano45. Ma Filone non sembra essersi chiesto: che cosa vuol dire Eraclito con «i cadaveri sono da buttar via più che gli escrementi»? Secondo l’opinione degli specialisti, con queste parole Eraclito polemizzerebbe contro le credenze sull’aldilà e i riti funerari dei suoi contemporanei, e soprattutto contro lo sfarzo dei funerali dei suoi nobili concittadini, che sfoggiavano così la loro ricchezza46. Le testimonianze dirette e indirette, infatti, mostrano che Eraclito promuove una morale di vita dedicata alla sapienza, cioè alla cura dell’anima, e non alla soddisfazione dei piaceri del corpo47. Per quanto concerne la posizione di Eraclito nei confronti della religione tradizionale, espliciti sono i frammenti in cui l’Efesio biasima e ridicolizza le purificazioni con il sangue, le preghiere a immagini o statue e le iniziazioni misteriche48, perché praticate da uomini che non sanno chi sono veramente gli dei o gli eroi, quidi non comprendono il significato filosofico delle verità religiose. Secondo Eraclito, invece, solo per i pochi uomini che conoscono il senso dei riti che praticano, i misteri sono cure dell’anima che soffre i mali legati alla condizione umana49. Attaccando le falloforie dionisiache50, ad esempio, Eraclito critica il delirio della massa in preda ai vapori del vino, cioè gli uomini che hanno perso il controllo di sé e non sanno che lo stesso Dioniso, dio del vino, della sessualità e della vita si identifica con Ade, dio della morte, cioè dell’umidità dell’anima e dell’estinzione del soffio.
40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50
Cf. 22 B 29, 49, 104, 121 DK. Cf. 22 B 1, 19 e 34 DK. Cf. 22 B 73, 75 e 89 DK. Cf. 22 B 17 DK. Cf. 22 B 21 e 26 DK. Cf. 22 B 88 DK. Cf. 22 B 125a DK, come segnalato in C. Diano-G. Serra (19932), op. cit., p. 182. Cf. 22 A 1, 3b; B 4, 29 DK. Cf. 22 B 5, 14 e 15 DK. Cf. 22 B 68-69 DK. Cf. 22 B 15 DK.
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Ma con queste tre parole Eraclito provocherebbe e insulterebbe il più fondamentale aspetto della religione greca antica – documentato dai poemi omerici51 e celebrato nell’Antigone di Sofocle52 –, vale a dire il culto dei morti, affermando che i cadaveri devono essere gettati come sterco. L’apparente dispregio del corpo morto potrebbe indurre ad assimilare Eraclito all’orfismo-pitagorico, ma la sua posizione sul trattamento dei cadaveri risulta contraria alla pratica di sepoltura testimoniata dal ritrovamento delle lamine d’oro orfiche (V sec. a. C.-II sec. d. C.) in alcune necropoli di Magna Graecia53, Creta e Tessaglia54, e dalla scoperta dell’orfico Papiro di Derveni (IV sec. a. C.) in una tomba, tra le ceneri di una pira funeraria55. Il frammento esprime verosimilmente la critica di Eraclito all’inumazione, alla cremazione e a tutti gli usi e costumi legati ai cadaveri, greci o barbari che siano56. I riti funebri presuppongono la credenza nella sopravvivenza dell’uomo, vale a dire della sua anima, come ombra nel regno delle ombre, cioè nell’Ade, ma l’Efesio non sembra credere nell’immortalità individuale57. Quale che sia la sua dottrina escatologica, essa si distingue dalle credenze comuni, perché Eraclito afferma che gli uomini non si immaginano neppure ciò che li attende dopo la morte58. Nella lingua del tempo di Eraclito, νέκυς designa il cadavere, cioè il corpo del morto59, e κόπρος indica la lettiera del bestiame, un misto di paglia ed escrementi utilizzato come concime per rendere la terra più fertile60. Tra il VI e il V secolo a. C., gli orfici ritenevano che i corpi fossero mortali, mentre le anime immortali, e che trasmigrassero da un corpo all’altro occupando anche corpi
51 Cf. spec. Il. XVIII 343-355; XXIII 3-23; Od., XXIV 43-46. I Greci credevano che i morti nell’Ade respingessero l’anima di colui il cui corpo non fosse stato interrato o bruciato, come spiega il fantasma di Patroclo ad Achille in Il. XXIII 71 ss. 52 Cf. C.H. Kahn (1979), op. cit., p. 212. 53 Cf. C.H. Kahn (1979), op. cit., p. 327, n. 286. 54 Cf. G. Pugliese Carratelli (2001), op. cit., passim. 55 Cf. Studies on the Derveni Papyrus (1997), op. cit., pp. 25 ss.; Le Papyrus de Derveni (2003), op. cit. pp. XI ss.; G. Betegh (2004), op. cit., pp. 56 ss. 56 Cf. M. Conche (2005), op. cit., p. 320. 57 Cf. E. Rohde, Psyche, Tübingen 1893, trad. fr. d’A. Reymond, Paris 1928, p. 387, n. 2. 58 Cf. 22 B 27 DK. 59 Cf. Il. IV 492 s.; VII 418; XVI 526; XVIII 173; Od. X 530; XI 564 ss.; Erodoto I 140; Sofocle, Ant. 26; Aj. 1356; Simonide 114, 5; Anth. Pal. II 96. 60 Cf. Il. XVIII 575; XXII 414; XXIV 640; Od. IX 329; X 411; Erodoto, III 22; Platone, Prot. 334 a; Teofrasto, Hist. plant. II 7, 4; Callimaco, Dian. 178; Menandro, 544, 5.
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animali61. Secondo un’opinione largamente diffusa nel mondo greco arcaico, infatti, l’anima è affine all’etere della patria celeste, mentre il corpo è venuto dalla madre terra e ad essa ritorna. Secondo il poeta Euripide, Suppl. 533 s.: «all’etere lo spirito, e alla terra il corpo» (πνεῦμα μὲν πρὸς αἰθέρα, τὸ σῶμα δ` ἐς γῆν)62; per il filosofo Senofane, «tutto viene infatti dalla terra e tutto ritorna infine alla terra» (ἐκ γαίης γὰρ πάντα καὶ εἰς γῆν πάντα τελευτᾶι)63. Ma il testo più prossimo a quello di Eraclito è un epigramma attribuito a Epicarmo (Schol. a Iliade XXII, v. 414): «Sono cadavere; ora, cadavere è letame, e letame è terra; ma se la terra è dio, allora non sono cadavere, bensì dio» (εἰμὶ νεκρός· νεκρὸς δὲ κόπρος, γῆ δ᾽ ἡ κόπρος ἐστίν· εἰ δ᾽ ἡ γῆ θεός ἐστ᾽, οὐ νεκρός, ἀλλὰ θεός)64. Nella prospettiva dell’autore, che è simile a quella eraclitea, anche la terra è parte del dio cosmico, e in quanto componente del divino tutto è anch’essa divina; di conseguenza il corpo morto, che è letame cioè terra, partecipa in certo senso della divinità. I paralleli con gli altri Heraclitea e con i frammenti presocratici contemporanei lasciano pensare che Eraclito concepisse l’essere umano, alla stregua di ogni altro essere vivente, come un composto di elementi contrari, la cui nascita e morte è in realtà una trasformazione in altro. Tali elementi sarebbero congiunti durante la vita dell’uomo, ma alla sua morte si scinderebbero per riunirsi alla massa cosmica cui sono affini65. E se l’anima del defunto, materiale come ogni altra sostanza, continua la sua esistenza sotto altra forma – le anime muoiono
61 Cf. i frammenti orfici F 423-435 Bernabé, ma anche Platone, Crat. 400 c; Gorg. 293 a ss.; Phaed. 64 c, 80 e ss.; Phaedr. 248 c s., etc. 62 Cf. i testi paralleli che figurano nell’apparato critico del frammento orfico 436 F dell’edizione A. Bernabé (ed.), Poetae Epici Graeci. Pars II, Fasc. 1, Orphicorum testimonia et fragmenta, Munich-Leipzig 2004, p. 368, tra cui, appunto, Euripide, Suppl. 533 s., e il testo della testimonianza 466 T (Stela sepulcralis saec. III a. Ch. Pheris reperta): σῶμα δὲ μητρὸς ἐμῆς μητέρα γῆν κατέχει («il corpo [venuto] da mia madre, occupa [di nuovo] la madre Terra»). 63 21 B 27 DK. 64 23 B 64 DK. 65 Il frammento sui cadaveri potrebbe allora essere messo in relazione anche con il testo eracliteo 22 B 124 DK, considerato nel suo contesto citatore. Teofrasto, Met. 15 (p. 7a 10 Usen.) afferma che dovrebbe sembrare assurdo persino ai fisici materialisti che l’ordine derivi da principi senz’ordine, «ma come la carne, “la più bella disposizione delle cose gettate a caso, il mondo”, dice Eraclito» (ἀλλ᾽ ὥσπερ σάρξ εἰκῆ κεχυμένων ὁ κάλλιστος φησὶν Ἡράκλειτος, [ὁ] κόσμος). La lezione σάρξ («carne») dei manoscritti è preferibile a σάρμα («cumulo di rifiuti») restituito da Diels, e significherebbe la materia eterogenea e differenziata che costituisce l’uomo e gli altri animali (cf. Empedocle, fr. 461 Bollack). Per Eraclito, infatti, ogni essere vivente, così come l’intero cosmo, è un aggregato di elementi diversi e contrari armonizzati in un unico ordine. Su questo frammento, G.W. Most, Heraclitus, D.-K. 22 B 124 in Theophrastus’ Methaphys-
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diventando acqua66 –, il corpo del morto si trasforma entrando in putrefazione. L’affermazione di Eraclito «i cadaveri sono da buttar via» potrebbe forse significare che le salme degli uomini morti devono essere rigettate nell’ambiente esterno per assicurare la continuazione del ciclo ecologico. Come si sparge il letame per fertilizzare i campi, così la carne del corpo senz’anima, materia terrosa ed acquosa, nutre il terreno; e da questo nascono le piante, di cui si nutrono a loro volta gli animali e l’uomo. Il comparativo «più che gli escrementi» suona allora come un paradosso, o un’iperbole: per Eraclito, il cadavere umano è un concime organico come il letame. 4. Filone e il «bagliore» di Eraclito: l’anima con il corpo 4.1. L’anima asciutta Il frammento 118 DK di Eraclito è citato e commentato da Filone in un trattato appartenente ai cosiddetti “scritti filosofici”: il De Providentia. Il testo originale greco è andato perduto e lo scritto è sopravvissuto integralmente solo in traduzione armena, mentre parzialmente nella Praeparatio evangelica di Eusebio di Cesarea e in vari florilegi67. I frammenti dei due libri che lo compongono rivelano la formazione scolare di Filone, ma anche l’ammirazione appassionata per i poeti e i filosofi greci, e suggeriscono che il destinatario del trattato è un vasto pubblico dalla formazione classica e almeno in parte pagano. Filone rifiuta nel primo libro le posizioni degli Aristotelici, degli Epicurei e degli astrologi fatalisti sulla Provvidenza; nel secondo libro, compare il personaggio di Alessandro – identificabile con il nipote di Filone –, che reagisce all’esposizione cosmologica e alla teodicea del maestro – e zio – presentando le sue obiezioni. Nell’intento di dimostrare che Dio si occupa del mondo e si preoccupa delle cose umane, cioè l’esistenza della divina Provvidenza, Filone risponde al suo giovane interlocutore in un animato dialogo in cui si passa dalla creazione del mondo (§ 45) alla costituzione dell’universo, scendendo dal cielo divino (§§ 69-71) alla regione sublunare (§§ 87-89) alla terra abitata (§§
ics, in W.W. Fortenbaugh and R.W. Sharples, Theophrastean Studies, New Brunswick-Oxford 1988, pp. 243-256. 66 Cf. 22 B 36; 76, 77a. 67 Cf. J.R. Royse (1991), op. cit., p. 245; Id. (1993), art. cit., p. 170.
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90-97), luogo di catastrofi naturali, bestie feroci e ogni sorta di difficoltà per l’uomo. Il passo contenente il frammento di Eraclito (Prov. 2.109-110) è stato preservato in greco in un lungo testo filoniano citato da Eusebio, Praep. Ev. VIII 14, 66-68 (I, p. 477 Mras): Non si deve accusare la Grecia di essere povera e sterile; anche in essa, infatti, vi è molta terra feconda. Se d’altra parte è vero che quella barbara eccelle in fertilità, gli è superiore per le risorse nutritive, ma gli è inferiore per gli uomini che ne sono nutriti, a profitto dei quali sono le risorse nutritive. Solo la Grecia, infatti, partorisce veramente uomini, generando la “pianta celeste” e il germoglio divino, il ragionamento esatto familiare alla scienza. Ed eccone la causa: l’intelligenza è naturalmente acuita dalla rarefazione dell’aria. Perciò anche Eraclito non a sproposito dice: “bagliore68, l’anima asciutta, la più sapiente e la migliore”. E si potrebbe trovarne la prova anche nel fatto che quelli che vivono sobriamente e si accontentano di poco sono più intelligenti, mentre quelli che si riempiono in continuazione di bevande e cibi, sono i meno saggi, poiché il loro ragionamento è sommerso dalle sostanze che introducono in corpo69.
La collazione dei manoscritti di Eusebio rivela che la versione del frammento 118 DK di Eraclito data da Filone è αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη («bagliore, l’anima asciutta, la più sapiente e la migliore»)70. In effetti, αὐγὴ ξηρὴ ψυχή («bagliore, l’anima asciutta / bagliore asciutto, l’anima») è la forma attestata dalla più parte dei citatori, laddove la lezione αὔη ψυχή – che sopprime ξηρή (o ξηρά), considerandolo una glossa del più desueto e arcaico αὔη («secca, arida»)71 – è un’emendazione che risale agli eruditi del Rinascimento e una ricostituzione degli editori moderni72 . La lezione del manoscritto filoniano in
68 Traduciamo αὐγή con «bagliore» nel senso di lampo (luce improvvisa e di breve durata, intensa o abbagliante), e non di chiarore (luce diffusa). 69 τῆς Ἑλλάδος οὐ κατηγορητέον, ὡς λυπρᾶς καὶ ἀγόνου· πολὺ γὰρ κἀν ταύτῃ τὸ βαθύγειον. εἰ δ´ ἡ βάρβαρος διαφέρει ταῖς εὐκαρπίαις, πλεονεκτεῖ μὲν τροφαῖς, ἐλαττοῦται δὲ τοῖς τρεφομένοις, ὧν χάριν αἱ τροφαί. μόνη γὰρ ἡ Ἑλλὰς ἀψευδῶς ἀνθρωπογονεῖ, φυτὸν οὐράνιον καὶ βλάστημα θεῖον ἠκριβωμένον λογισμὸν ἀποτίκτουσα οἰκειούμενον ἐπιστήμῃ. τὸ δ´ αἴτιον· λεπτότητι ἀέρος ἡ διάνοια πέφυκεν ἀκονᾶσθαι. διὸ καὶ Ἡράκλειτος οὐκ ἄπο σκοποῦ φησίν,"αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη." τεκμηριώσαιτο δ´ ἄν τις καὶ ἐκ τοῦ τοὺς μὲν νήφοντας καὶ ὀλιγοδεεῖς συνετωτέρους εἶναι, τοὺς δὲ ποτῶν ἀεὶ καὶ σιτίων ἐμπιπλαμένους ἥκιστα φρονίμους, ἅτε βαπτιζομένου τοῖς ἐπιοῦσι τοῦ λογισμοῦ. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 68 (a 3), p. 638; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 342, pp. 250-251. 70 Cf. M. Hadas-Lebel (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 35 (1973), p. 347, n. 2. 71 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 68, pp. 637, 642. 72 Cf. Mour., op. cit., III.3.B/iii (2006), F 118, p. 137.
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armeno, invece, corrisponde al greco αὕτη ξηρὴ ψυχή («quest’anima asciutta»), che J.-B. Aucher (1822)73 traduce in latino («in terra sicca») non letteralmente, ma secondo la congettura (οὗ γῆ ξηρή: «dove la terra è arida») dell’antica edizione di Eusebio di R. Stephanus (1544)74, adottata anche da F.H. Colson (1941)75 nell’edizione inglese del De Providentia («where the land is dry»). Nonostante possa accordarsi al senso del contesto filoniano, la lettura del frammento eracliteo «dove la terra è arida» non ha alcun supporto nel greco o nell’armeno, poiché sia οὗ γῆ sia αὕτη sono corruzioni di αὐγή76. Filone attribuisce dunque a Eraclito il testo trasmesso da molti altri citatori e da Stobeo (III 5, 8), considerato dagli editori Diels-Kranz la fonte più sicura del detto. La citazione filoniana è inserita in un passaggio dedicato all’elogio della Grecia, il cui clima arido facilita lo sviluppo della ragione umana. Secondo Filone, infatti, la Grecia genera e alleva uomini migliori rispetto a qualsiasi altra nazione dal terreno fertile, poiché nutre la loro anima, e non solo il loro corpo. I Greci sono per l’Alessandrino più intelligenti degli altri, perché «l’intelligenza è naturalmente acuita dalla rarefazione dell’aria» (λεπτότητι ἀέρος ἡ διάνοια πέφυκεν ἀκονᾶσθαι), vale a dire dalla sua finezza. Ritenendo che la qualità dell’aria sia direttamente proporzionale alla sua rarefazione77, e che essa influisca sugli uomini che la respirano78, Filone sostiene che la purezza dell’aria determina la purezza dell’anima dell’uomo. Come si evince dagli altri scritti, infatti, secondo Filone tutti gli esseri viventi respirano l’aria che li circonda79, e la buona composizione o la giusta temperatura dell’aria, cioè la sua limpidezza, determina il benessere dell’uomo80, mentre l’inquinamento ne provoca la sterilità e la malattia81. Il significato che Filone attribuisce al frammento di Eraclito concerne sia la costituzione elementare dell’anima umana sia il suo grado di eccellenza, per-
73 Aucher, op. cit., pp. 117-118: Quamobrem et Heraclitus non gratis ac inconsulto dixit: “In terra sicca animus est sapiens ac virtutis amans” («Perciò anche Eraclito né gratuitamente, né sconsideratamente disse: “dove la terra è arida, l’anima è sapiente e amante della virtù”»). 74 Cf. J.R. Royse, Heraclitus B 118 in Philo of Alexandria, «SphA» 9 (1997), pp. 211-216. 75 Cf. F.H. Colson (ed.), in PLCL, op. cit., vol. IX (1941), p. 503. 76 Cf. R. Royse (1997), art. cit., p. 216; Mour., op. cit., III.3.B/iii (2006), F 118, p. 137. 77 Cf. anche Abr. 1 e Cont. 23. 78 Cf. Cicerone, De nat. deor. II 17 e 42; Plutarco, De Is. et Os. 383 B s. 79 Cf. Prov. 2.67 e 73; Somn. 1.136; Mos. 2.148. 80 Cf. Legat. 126. 81 Cf. QG 2.81; Prov 1.18, 2.67 e 2.102.
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ché la quantità dell’anima, nel senso di densità, è inversamente proporzionale alla sua qualità. «La più sapiente e la migliore» è per Eraclito «l’anima asciutta», che è trasparente e luminosa come l’aria più pura. Secondo Filone, lo stato materiale dell’anima corrisponde a un certo livello intellettivo e morale dell’uomo, e precisamente: più l’anima è asciutta, cioè pura, più è intelligente e virtuosa. Ma l’Alessandrino attribuisce a Eraclito anche e soprattutto l’idea, confermata da altre testimonianze indirette82 , che l’anima umana vive respirando ciò che le è più affine, e che costituisce la natura “psichica” – materiale e razionale – del mondo: l’atmosfera-ambiente. Secondo l’interpretazione di Filone, dunque, per Eraclito l’anima umana è il soffio vitale che ne costituisce la sostanza fisica e ne rappresenta la facoltà mentale, ed è tanto migliore quanto più pura è l’aria che respira, vale a dire l’esalazione dell’universo da cui trae sostentamento. 4.2. L’anima asciugata Filone allude allo stesso detto eracliteo anche in un luogo esegetico del corpus philonicum, vale a dire in Quaestiones (et Solutiones) in Genesim 2.12, commento di Gen. 7:2-3, in cui Dio ordina di far entrare nell’arca di Noè il bestiame puro e impuro, maschio e femmina. Dopo una lunga digressione sul significato allegorico dei numeri e dei generi, Filone conclude la domanda-risposta sul testo biblico con un riferimento al cadavere del corpo e all’anima vivificante. Il testo filoniano di QG 2.12 non è stato conservato in greco83, ma solo in versione armena: [Perché [Dio] ordina di introdurre nell’arca sette capi di bestiame puri, maschi e femmine, ma solo due impuri, un maschio e una femmina [...]? (Gen. 7:2-3)] [...] E’ perfettamente morale, infatti, non lasciare il nostro corpo, la cui sostanza è terrestre, completamente privo e vuoto di esseri animati; poiché, se ci diamo all’ubriachezza, ai cibi raffinati, al desiderio sessuale delle donne, cioè a una vita molle e lasciva, trasciniamo il corpo come un “cadavere”. Ma se Dio, mosso da compassione, devia l’inondazione dei vizi e rende “l’anima asciutta”, inizierà a
82
Cf. 22 A 15 e 16 DK. Per la precisione, un frammento greco di questa sezione sopravvive. Tuttavia, il testo filoniano, sensibilmente abbreviato, non permette di riconoscere il frammento eracliteo. Cf. F. Petit (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 33 (1978), pp. 89-90. 83
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vivificare e animare il corpo con un’anima più pura, di cui la sapienza è direttrice84.
Con l’espressione «anima asciutta» (aridam ... animam), Filone allude evidentemente al frammento 118 DK di Eraclito. Ricorrendo ancora una volta all’immagine – eracliteo-platonica (Tim. 43 a) – del fiume in cui l’anima si bagna, l’Alessandrino afferma che, quando ci lasciamo inondare dai flutti dei sensi, e corrompere dai piaceri delle bevande inebrianti, dei cibi elaborati e delle pratiche sessuali, «trasciniamo il corpo come un cadavere» (cadaveris gestatores sumus in corpore), perché la nostra anima è bagnata, cioè rammollita nella sostanza e illanguidita nelle facoltà; perciò è come se non avessimo più un’anima. Secondo Filone, Dio allontana il vizio della vita corporea e «rende l’anima asciutta» (aridam reddat animam), cioè sapiente e virtuosa, vale a dire pura85. Se dunque il «cadavere» (cadaveris) è un implicito richiamo al frammento 96 DK di Eraclito, l’«anima asciutta» (aridam ... animam) si riferisce al 118 DK, che appartiene alla controparte della stessa interpretazione della dottrina eraclitea: il corpo è morto se l’anima non lo vivifica. Filone spiega precisamente che Dio insuffla la vita per asciugare il fiume del corpo, che senza di essa si scioglierebbe e si disperderebbe, come appunto il cadavere che, senz’anima, è destinato alla decomposizione. Altri passi delle Quaestiones mostrano che, secondo Filone, le passioni corporee sommergono l’anima, determinandone l’umidificazione, ma se si asciugano e si essiccano, cioè si indeboliscono e muoiono, l’anima si salva86, perché evaporata l’acqua in eccesso, diviene un terreno fertile e produttivo87. Nonostante la mancanza del testo greco renda lo studio più difficile, questa seconda testimonianza contribuisce a delucidare l’interpretazione filoniana
84 Cf. Aucher, op. cit., in C. Mercier (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 34 a (1979), pp. 210, 214. Cf. anche R. Marcus (ed.), in PLCL, op. cit., Supplement I (1953), p. 88; C. Mercier (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 34 a (1979), pp. 211-215. Il passo, segnalato come reminiscenza eraclitea da R. Royse (1997), art. cit., p. 216, è assente dall’edizioni dei frammenti e delle testimonianze su Eraclito di Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 68, pp. 637 ss.; e per il momento anche da Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 342, pp. 237 ss. 85 Cf. D. Zeller (1995), art. cit., p. 30. 86 Cf. QG 2.37. 87 Cf. QG 2.47, QG 2.49, e anche QG 2.67. Come nota D. Zeller (1995), art. cit., p. 30, tuttavia, la secchezza dell’anima può essere per Filone anche negativa, qualora associata all’idea di aridità e sterilità: secondo l’Alessandrino (QG 2.23; cf. anche QG 2.42), infatti, l’anima non irrigata dalle virtù si secca e muore come una pianta non innaffiata. E ancora, l’ignoranza e la mancanza di istruzione rendono l’anima sterile e la fanno abortire, laddove la conoscenza e la sapienza la rendono feconda e prolifica (QE 2.19).
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della psicologia eraclitea. Riferendosi esplicitamente e implicitamente a Eraclito, Filone recupera la concezione dell’anima asciutta, sottile e leggera, trasparente e luminosa, cioè materialmente e moralmente pura, rispetto a quella degradata a causa degli eccessi della vita corporea. Secondo l’Alessandrino, l’anima è sia ciò che mantiene in vita l’uomo, impedendo la dissoluzione della materia del corpo, sia ciò che determina l’eccellenza intellettiva e morale dell’individuo, impedendone la corruzione. Filone suggerisce così la connessione della psicologia di Eraclito alla fisica e all’etica, vale a dire la dottrina dell’anima umana che si trasforma asciugandosi e umidificandosi, acquisendo ragione o perdendo coscienza. 5. Confronto filologico 5.1. Da Musonio Rufo a Stobeo: il nutrimento dell’anima Nel I secolo della nostra era, il frammento 118 DK di Eraclito è citato da Musonio Rufo, uno dei maggiori rappresentanti dello stoicismo di età imperiale. Del suo insegnamento rimangono estratti delle Diatribe, raccolti da Giovanni Stobeo nel suo Florilegium (V sec.), come quello tratto «dalla [diatriba] di Musonio Sull’alimento» (Μουσωνίου ἐκ τοῦ Περὶ τροφῆς). Questa predicazione filosofica è dedicata al tema, già pitagorico poi cinico88, della vita frugale, del mangiare e bere in modo continente e solo per sopravvivere, non per trarne piacere, che conduce Musonio ad affrontare la questione della carne. Secondo Musonio, l’alimentazione a base di carne è bestiale e si addice a uomini selvaggi (Stobeo, III 17, 42, 20-22); la carne, infatti, è un alimento pesante che ostacola il pensiero e la riflessione89. Nel seguito del frammento (18a, p. 96 Hense, BT), Musonio (ap. Stobeo III 17, 42, 26-34, III, p. 504 Hense) spiega come l’uomo dovrebbe nutrirsi: Bisogna che l’uomo, poiché è il più apparentato agli dei tra gli esseri terrestri, così si nutra nel modo più simile agli dei. A loro bastano dunque i vapori che si elevano dalla terra e dall’acqua, quanto a noi, [Musonio] diceva che dovremmo assu-
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Cf. Diogene Laerzio, VI 104. Stobeo, III 17, 42, 22-26: τὴν γὰρ ἀναθυμίασιν τὴν ἀπ᾽ αὐτῆς θολωδεστέραν οὖσαν ἐπισκοτεῖν τῇ ψυχῇ· παρὸ καὶ βραδυτέρους φαίνεσθαι τὴν διάνοιαν τοὺς πλείονι ταύτῃ χρωμένους («l’esalazione di questa, infatti, essendo più torbida, ottenebra l’anima; perciò coloro che ne assumono maggiormente paiono anche più lenti di mente»). 89
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mere l’alimento più simile a questo, quello più leggero e più puro. In questo modo anche la nostra anima sarebbe pura e asciutta, ed essendo tale, sarebbe la migliore e la più sapiente, come sembra ad Eraclito, che si esprime così: “bagliore, l’anima asciutta, la più sapiente e la migliore”90.
La versione del frammento 118 DK di Eraclito data da Musonio (ap. Stobeo): αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη («bagliore, l’anima asciutta, la più sapiente e la migliore») è identica a quella di Filone. Musonio cita il detto nella diatriba Sull’alimento per dimostrare che l’anima è ciò di cui vive, o si assimila a ciò di cui si sostenta: l’aria o gli alimenti. Se mangiando carne l’anima si appesantisce e si intorbida, assumendo l’alimento «più leggero e più puro» (κουφοτάτην καὶ καθαρωτάτην) diventa «pura e asciutta» (καθαράν τε καὶ ξηράν); e questa, come dice Eraclito, è l’anima migliore. Musonio, come Filone, ricorre alla parola di Eraclito per affermare che la natura – e dunque la qualità – dell’anima dipende dal suo nutrimento: assorbendo esalazioni fine e leggere, l’anima diviene o rimane asciutta come un «bagliore» (αὐγή), sapiente e virtuosa. Una simile interpretazione è data, tra la fine del I e l’inizio del II secolo, da Plutarco nel trattato in due discorsi Sul mangiare carne, appartenente alla sua opera morale e riconducibile alla tradizione vegetariana, che comincia in ambito orfico-pitagorico (De esu carn. 993 A), attraversa l’Accademia, il Peripato e le scuole ellenistiche, passa attraverso la filosofia medioplatonica di età imperiale, per poi giungere al neoplatonico Porfirio. Plutarco si domanda se è lecito mangiare carne, esaminando le ragioni e i modi di tale pratica e riflettendo sul rapporto dell’uomo con l’animale e sulle relazioni tra l’anima e il corpo. Secondo Plutarco, gli animali hanno un’anima come gli uomini, e uccidere un essere vivente per poi mangiarne il cadavere è un atto contro natura (De esu carn. 993 D); inoltre, mangiare la carne degli animali fortifica il corpo, ma indebolisce l’anima umana, che si ottenebra e si appesantisce. In questo sviluppo del primo discorso Sul mangiare carne, Plutarco inserisce, tra le altre, la citazione eraclitea (De esu carn. 995 E 9-996 A 5, VI/1, p. 101 Hubert-Drexler):
90 δεῖν δὲ τὸν ἄνθρωπον, ὥσπερ συγγενέστατον τοῖς θεοῖς τῶν ἐπιγείων ἐστίν, οὕτω καὶ ὁμοιότατα τρέφεσθαι τοῖς θεοῖς. ἐκείνοις μὲν οὖν ἀρκεῖν τοὺς ἀπὸ γῆς καὶ ὕδατος ἀναφερομένους ἀτμούς, ἡμᾶς δ᾽ ὁμοιοτάτην ταύτῃ προσφέρεσθαι τροφὴν ἂν εἶπεν τὴν κουφοτάτην καὶ καθαρωτάτην· οὕτω δ᾽ ἂν καὶ τὴν ψυχὴν ἡμῶν ὑπάρχειν καθαράν τε καὶ ξηράν, ὁποία οὖσα ἀρίστη καὶ σοφωτάτη εἴη ἄν, καθάπερ Ἡρακλείτῳ δοκεῖ λέγοντι οὕτως "αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη". Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 68 (a1), p. 638; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 358, pp. 266-267.
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*** “bagliore, l’anima asciutta, la più sapiente”, secondo Eraclito. Gli orci vuoti rimbombano quando vengono colpiti, ma se sono pieni non rispondono ai colpi; i fini vasi di bronzo propagano i suoni in circolo, finché non li si tappa e li si chiude con la mano, interrompendo la vibrazione circolare provocata dal colpo; l’occhio riempito da eccessiva lubrificazione si acceca e si indebolisce nella propria funzione; il sole, osservandolo attraverso un’aria umida e condensata da una massa di esalazioni opache, non lo vediamo né puro, né luminoso, ma inabissato e nebbioso, e i suoi raggi non sono percepibili. Proprio allo stesso modo, anche attraverso un corpo torbido, saziato e appesantito da alimenti inappropriati alla sua natura, è del tutto inevitabile che la brillantezza e lo splendore dell’anima si affievoliscano al massimo e si intorbidiscano, si lascino traviare e trasportare, poiché essa non ha più la luminosità e l’intensità per illuminare le finezze minuziose e indiscernibili delle realtà91.
La versione del frammento 118 DK di Eraclito che appare nel testo corrotto di Plutarco, αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη («bagliore, l’anima asciutta, la più sapiente»), è solo leggermente abbreviata rispetto a quella di Filone e Musonio Rufo (αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη). Come Musonio, Plutarco inserisce la citazione eraclitea in un argomento sull’alimentazione, in cui indaga le cause e soprattutto gli effetti del mangiare carne sul corpo e sull’anima. Secondo Plutarco, il consumo di carne impedisce all’anima di espletare appieno le sue funzioni naturali, perché alterata dal corpo, sazio di bevande e cibi difficilmente tollerabili dall’organismo, perde «la brillantezza e lo splendore» (τὸ γάνωμα ... καὶ τὸ φέγγος), vale a dire «la luminosità e l’intensità» (αὐγὴν καὶ τόνον) che le sono necessarie per illuminare la realtà92 .
91 *** "αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη" κατὰ τὸν Ἡράκλειτον· οἱ κενοὶ πίθοι κρουσθέντες ἠχοῦσι, γενόμενοι δὲ πλήρεις οὐχ ὑπακούουσι ταῖς πληγαῖς· τῶν χαλκωμάτων τὰ λεπτὰ τοὺς ψόφους ἐν κύκλῳ διαδίδωσιν, ἄχρις οὗ ἐμφράξῃ καὶ τυφλώσῃ τῇ χειρὶ τῆς πληγῆς περιφερομένης ἐπιλαμβανόμενος· ὀφθαλμὸς ὑγροῦ πλεονάσαντος ἀναπλησθεὶς μαραυγεῖ καὶ ἀτονεῖ πρὸς τὸ οἰκεῖον ἔργον· τὸν ἥλιον δι᾽ ἀέρος ὑγροῦ καὶ πλῆθος ἀναθυμιάσεων ἀπέπτων ἀθροίσαντος οὐ καθαρὸν οὐδὲ λαμπρὸν ἀλλὰ βύθιον καὶ ἀχλυώδη καὶ ὀλισθάνοντα ταῖς αὐγαῖς ὁρῶμεν. οὕτω δὴ καὶ διὰ σώματος θολεροῦ καὶ διακόρου καὶ βαρυνομένου τροφαῖς ἀσυμφύλοις πᾶσ᾽ ἀνάγκη τὸ γάνωμα τῆς ψυχῆς καὶ τὸ φέγγος ἀμβλύτητα καὶ σύγχυσιν ἔχειν καὶ πλανᾶσθαι καὶ φέρεσθαι, πρὸς τὰ λεπτὰ καὶ δυσθεώρητα τέλη τῶν πραγμάτων αὐγὴν καὶ τόνον οὐκ ἐχούσης. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 68 (a4), p. 638; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 510, pp. 402-403. 92 Nel dialogo delfico Il tramonto degli oracoli, dedicato al tema della divinazione, il personaggio di Lampria – portavoce di Plutarco – espone la teoria dell’ispirazione profetica ricorrendo alla pneumatologia stoica e alla dottrina aristotelica delle esalazioni (De def. orac. 434 B), che ha come antecedente la fisica eraclitea. Lampria sostiene, infatti, che la facoltà dell’entusiasmo si trova potenzialmente nell’anima umana, ma è attualizzata da τὸ ... μαντικὸν ῥεῦμα καὶ πνεῦμα («un flusso cioè un soffio divinatorio») di origine tellurica, e citando il frammento 118 DK di Eraclito, afferma che questo, per effetto del calore che di-
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Vi è inoltre un testo in cui Plutarco cita lo stesso detto eracliteo a proposito della separazione dell’anima dal corpo. Nelle Vite parallele di personaggi storici greci e latini, e precisamente nella Vita di Romolo, Plutarco critica la credenza che il corpo del re di Roma sarebbe passato al cielo insieme alla sua anima. Le autorità citate da Plutarco sono Pindaro (fr. 131 B Snell-Maehler) ed Eraclito (Rom. 28, 8-10, I/1, p. 74 Ziegler4): «[l’immagine della vita eterna, i.e. l’anima], infatti, viene da lassù e lassù risale, non con il corpo, ma qualora si sia il più possibile liberata e scissa dal corpo, qualora sia divenuta assolutamente pura, disincarnata e santa. Questa, infatti, “l’anima asciutta”, è “la migliore” secondo Eraclito, che esce dal corpo come il lampo dalla nuvola. Quando invece è confusa con il corpo e piena del corpo, come un’esalazione pesante e nebulosa, ha difficoltà a slegarsi e a risalire» (ἥκει γὰρ ἐκεῖθεν, ἐκεῖ δ᾽ ἄνεισιν, οὐ μετὰ σώματος, ἀλλ᾽ ἐὰν ὅτι μάλιστα σώματος ἀπαλλαγῇ καὶ διακριθῇ καὶ γένηται καθαρὸν παντάπασι καὶ ἄσαρκον καὶ ἁγνόν. αὕτη γὰρ ψυχὴ ξηρὴ ἀρίστη καθ᾽ Ἡράκλειτον, ὥσπερ ἀστραπὴ νέφους διαπταμένη τοῦ σώματος. ἡ δὲ σώματι πεφυρμένη καὶ περίπλεως σώματος, οἷον ἀναθυμίασις ἐμβριθὴς καὶ ὁμιχλώδης, δυσέξαπτός ἐστι καὶ δυσανακόμιστος)93. Tale versione del frammento eracliteo, «l’anima asciutta... la migliore» (ψυχὴ ξηρὴ ἀρίστη), non comporta il termine αὐγή. Nella sua digressione sulla morte di Romolo, Plutarco ammonisce a non pensare che siano i corpi degli uomini valorosi che salgono al cielo, ma di credere piuttosto che siano le loro anime a elevarsi da uomini a eroi, da eroi a demoni, da demoni a dei (Rom. 28, 10). Secondo Plutarco l’«anima migliore» è «asciutta», perché non è schia-
lata, apre certi pori atti a produrre immagini del futuro (De def. orac. 432 D 10-433 A 3, III, p. 109 Sieveking): ἅμα δ᾽ ἄν τις οὐκ ἀλόγως καὶ ξηρότητα φαίη μετὰ τῆς θερμότητος ἐγγιγνομένην λεπτύνειν τὸ πνεῦμα καὶ ποιεῖν αἰθερῶδες καὶ καθαρόν· "αὐγή" γάρ "ξηρὴ ψυχὴ " καθ᾽ Ἡράκλειτον. ὑγρότης δ᾽ οὐ μόνον ὄψιν ἀμβλύνει καὶ ἀκοήν, ἀλλὰ καὶ κατόπτρων θιγοῦσα καὶ μιχθεῖσα πρὸς ἀέρας ἀφαιρεῖ τὴν λαμπρότητα καὶ τὸ φέγγος («allo stesso tempo si potrebbe dire, non senza ragione, che anche l’asciuttezza che accompagna il calore assottiglia il soffio e lo rende etereo e puro; “bagliore”, infatti, “l’anima asciutta”, secondo Eraclito, laddove l’umidità non solo affievolisce la vista e l’udito, ma anche a contatto con gli specchi e mescolata all’aria, toglie loro brillantezza e luminosità»). Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 68 (a5), p. 639; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 509, pp. 400-401. Già in De def. orac 432 A, Lampria sosteneva che ἡ ψυχὴ τὴν μαντικὴν οὐκ ἐπικτᾶται δύναμιν ἐκβᾶσα τοῦ σώματος ὥσπερ νέφους, ἀλλ᾽ ἔχουσα καὶ νῦν τυφλοῦται διὰ τὴν πρὸς τὸ θνητὸν ἀνάμιξιν αὐτῆς καὶ σύγχυσιν («l’anima non acquisisce la facoltà divinatoria quando esce dal corpo come da una nuvola, ma la possiede anche ora che è accecata a causa della sua unione e fusione con l’elemento mortale») 93 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 68 (a6), p. 639; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 511, pp. 403-404.
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va della vita molle, lasciva e voluttuosa, e quindi non è imbevuta dei vapori del corpo. Anche nel mito di Tespesio, infatti, Plutarco94 afferma che la condensazione di umidità alimenta la parte irrazionale dell’anima, quella legata al corpo che, sviluppata e rafforzata, attira l’anima verso il mondo acquoso e tenebroso della materia. Il detto di Eraclito è poi citato dal cristiano Clemente di Alessandria (IIIII sec.) che, ne Il Pedagogo, trattato di morale pratica o guida di condotta per la vita quotidiana, educa il buon cristiano anche all’igiene alimentare. Clemente rammenta la pericolosità degli effetti del vino, sostanza inebriante, e ne raccomanda l’astensione ai giovani, la moderazione agli adulti e la tolleranza agli anziani. Per Clemente, se da un lato il vino simboleggia il sangue sacro, dall’altro il divino Pedagogo ne proibisce l’abuso, che comporta il rischio dell’ubriachezza (Paed. II 2, 29, 2-3, I, p. 174 Stählin-Treu): Come infatti bisogna assumere gli alimenti per non aver più fame, così anche la bevanda per non aver più sete, facendo scrupolosamente attenzione a non scivolare; l’inebriamento del vino, infatti, fa vacillare. Così allora anche la nostra anima rimarrà pura, asciutta e luminosa: “bagliore, l’anima asciutta, la più sapiente e la migliore”. In questo modo è anche iniziata alla contemplazione, non è inzuppata dalle esalazioni del vino come una nuvola, né materializzata come un corpo95.
La versione del frammento 118 DK data da Clemente, senza esplicito riferimento a Eraclito, αὐγὴ δὲ ψυχὴ ξηρὰ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη («bagliore, l’anima asciutta, la più sapiente e la migliore»), è quasi identica a quella data da Filone. L’Alessandrino cristiano la inserisce, come già Filone, ma anche Musonio e Plutarco, in uno sviluppo sugli effetti che il cibo e le bevande hanno sulla
94 Cf. De sera 566 A : ὡς ἐκτήκεται καὶ ἀνυγραίνεται τὸ φρονοῦν ὑπὸ τῆς ἡδονῆς, τὸ δ᾽ ἄλογον καὶ σωματοειδὲς ἀρδόμενον καὶ σαρκούμενον ἐμποιεῖ τοῦ σώματος μνήμην, ἐκ δὲ τῆς μνήμης ἵμερον καὶ πόθον ἕλκοντα πρὸς γένεσιν, ἣν οὕτως ὠνομάσθαι, νεῦσιν ἐπὶ γῆν οὖσαν ὑγρότητι βαρυνομένης τῆς ψυχῆς («la parte pensante dell’anima, sotto l’effetto del piacere, si scioglie e si inumidisce, e la sua parte irrazionale e corporea, ben nutrita e sviluppata, produce un ricordo del corpo, e da questo ricordo si genera un desiderio e un’attrazione che trascina verso la generazione, la quale è così chiamata in quanto è inclinazione verso la terra di un’anima appesantita dall’umidità»). 95 Ὡς γὰρ τροφαῖς ἐπὶ τὸ μὴ πεινῆν, οὕτως καὶ ποτῷ ἐπὶ τὸ μὴ διψῆν χρηστέον, παραφυλάττοντας τὸν ὄλισθον ἀκριβῶς· ἀκροσφαλὴς γὰρ ἡ τοῦ οἴνου παρείσδυσις. Οὕτω δ᾽ ἂν καὶ ἡ ψυχὴ ἡμῶν ὑπάρξαι καθαρὰ καὶ ξηρὰ καὶ φωτοειδής, "αὐγὴ δὲ ψυχὴ ξηρὰ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη". Ταύτῃ δὲ καὶ ἐποπτική, οὐδέ ἐστιν κάθυγρος ταῖς ἐκ τοῦ οἴνου ἀναθυμιάσεσιν νεφέλης δίκην σωματοποιουμένη. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 68 (a7), p. 639; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 623, pp. 494-495.
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nostra anima. Clemente invita alla moderazione nel bere, perché le esalazioni del vino inzuppano l’anima, che per sua natura è asciutta e luminosa. Il contesto di citazione richiama il detto eracliteo sull’anima umida dell’ubriaco vacillante (117 DK), che Clemente dimostra di conoscere e che associa alla parola eraclitea sull’anima asciutta, identificandola con quella dell’uomo probo. L’Alessandrino ricorre dunque al frammento 118 DK, all’interno della sua “pedagogia” cristiana, per dimostrare che la corretta abitudine alimentare mantiene l’anima nel suo stato più puro, laddove l’intemperanza nel mangiare e nel bere ne determina il deterioramento, cioè l’asservimento dell’anima al corpo, quindi il “sonno” della ragione e la “morte” spirituale96. Stobeo, nel V secolo della nostra era, citerà quindi il frammento di Eraclito nella sua immensa opera antologica di poesia e prosa greca dedicata al figlio Massimo97. In una sezione costituita di frammenti poetici e filosofici Sulla saggezza (Περὶ σωφροσύνης), Stobeo presenta un elenco di citazioni in cui dopo Euripide, Sofocle e Menandro, e prima di Giamblico, figurano tre frammenti di Eraclito. La loro trascrizione, conformemente alla pratica dell’antologista, è con ogni probabilità letterale (Anthologium III 5 (Περὶ σωφροσύνης), 6-8, III, p. 257 Hense): Di Eraclito. “Tutti gli uomini hanno parte al conoscere se stessi e all’essere saggi” (22 B 116 DK). “L’uomo, quando ubriaco, è condotto da un fanciullo imberbe, barcollante, non sapendo dove mettere il passo, poiché ha l’anima umida” (22 B 117 DK). “Bagliore, l’anima asciutta, la più sapiente e la migliore” (22 B 118 DK)98.
La lezione αὔη ψυχή è attestata in due correzioni di seconda mano di un manoscritto minore (A 2) di Stobeo (XIV sec.) e riappare nell’edizione di Trincavelli (XVI sec.), che è seguito da Stephanus (Henri Estienne) in epoca rina-
96 Cf. il contesto citatore largo, cioè Paed. II 2, 27-34. Secondo Clemente, infatti, la vita con il corpo rappresenta il sonno e la morte dell’anima, come dimostra nei luoghi degli Stromati (III 3, 21; IV 141, 1; V 14, 105) in cui cita tra l’altro i frammenti eraclitei sul sonno e la veglia, la vita e la morte (22 B 21, 26 DK). 97 L’antologia di Stobeo era ancora interamente accessibile a Fozio nel IX secolo. Qualche tempo dopo, la tradizione manoscritta si divise: i primi due libri sono divenuti le cosiddette Eclogae physicae et ethicae (libro I: Fisica; libro II: Etica), mentre gli ultimi due libri sono noti come Florilegium. Cf. J. Mansfeld and D.T. Runia (1997), op. cit., pp. 196 ss. 98 Ἡρακλείτου. Ἀνθρώποισι πᾶσι μέτεστι γινώσκειν ἑωυτοὺς καὶ σωφρονεῖν. Ἀνὴρ ὁκόταν μεθυσθῇ, ἄγεται ὑπὸ παιδὸς ἀνήβου σφαλλόμενος, οὐκ ἐπαΐων ὅκη βαίνει, ὑγρὴν τὴν ψυχὴν ἔχων. Αὔη [αὐγὴ ξηρὴ codd.] ψυχὴ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 68 (b1), p. 641; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), T 818, pp. 676-677.
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scimentale, e da editori moderni come W. Kranz e M. Marcovich99, ma i migliori manoscritti (L Md A1) portano αὐγὴ ξηρὴ ψυχή100 . Il testo del frammento 118 DK di Eraclito dato da Stobeo è quindi lo stesso di Filone: αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη («bagliore, l’anima asciutta, la più sapiente e la migliore»)101. Stobeo inserisce il frammento in una mera lista di estratti di vari autori e avente come comune denominatore il tema della saggezza, ma la sua testimonianza è utile per la scelta e la giustapposizione dei tre frammenti eraclitei. Dopo aver citato l’asserto eracliteo secondo cui (116 DK) «tutti gli uomini hanno parte al conoscere se stessi e all’essere saggi» (Ἀνθρώποισι πᾶσι μέτεστι γινώσκειν ἑωυτοὺς καὶ σωφρονεῖν), Stobeo cita due frammenti che costituiscono l’uno la controparte dell’altro. In un caso (117 DK), infatti, è questione dell’«anima umida» (ὑγρὴν τὴν ψυχήν), mentre nell’altro (118 DK), dell’«anima asciutta» (ξηρὴ ψυχή); nel primo dell’«uomo, quando ubriaco» (ἀνὴρ ὁκόταν μεθυσθῇ), nel secondo dell’anima «più sapiente e migliore» (σοφωτάτη καὶ ἀρίστη). Evidente è la complementarietà dei tre frammenti nel pensiero eracliteo: l’eccesso di vino degrada l’anima rendendola umida e stupida, a causa delle sue dannose esalazioni, laddove il suo stato migliore è quello secco; di conseguenza, tutti gli uomini possono conoscere se stessi e agire conformemente alla loro natura razionale, nei limiti del possibile, se mantengono la loro anima
99 Cf. 22 B 118 DK e fr. 68 (0) M. Il testimone Aristide Quintiliano, De musica, II 17, 74-89 (pp. 88-89 Winnington-Ingram) presenta una versione del frammento che ha permesso di supporre, fin dal XVI secolo, che il testo eracliteo avesse αὔη (non αὐγή) e che ξηρή fosse una glossa introdotta successivamente nel testo: Λέγει δέ πού τοι καὶ ὁ σοφὸς Ἡράκλειτος τοιάδε οὐκ ἀπᾴδων· τὴν γὰρ εὐπαθοῦσαν ἐν αἰθέρι δηλῶν φησι· ψυχὴ αὔη ξηρὴ σοφωτάτη· τὴν δὲ ὑπὸ τῆς ἀερίου ζάλης τε καὶ ἀναθυμιάσεως θολουμένην ἐμφαίνει, λέγων ψυχῇσι θάνατον ὑγρῇσι γενέσθαι («certo anche il sapiente Eraclito dice in qualche modo queste stesse cose, senza dissentire [da Omero]; volendo mostrare, infatti, che l’anima gode nell’etere, dice: “anima secca, asciutta (?), la più sapiente”, mentre fa vedere che è intorbidita dalla precipitazione e dall’esalazione dell’aria, dicendo “per le anime è morte diventare umide”»). Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 68 (b1), p. 641; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 591, p. 468. 100 Cf. Ioannis Stobaei Anthologium, recensuerunt C. Wachsmuth et O. Hense. 3, 4 et 5, Ioannis Stobaei Anthologii libri duo posteriores, recensuit O. Hense, accedit appendix indicem auctorum libri tertii et quarti continens, Berlin 19582 , vol. I., Prolegomena, pp. XXXIII-XXXVII. 101 Si veda anche L. Gemelli Marciano, Die Vorsokratiker, Band. I. Thales, Anaximander, Anaximenes, Pythagoras und die Pythagoreer, Xenophanes, Heraklit, Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterungen, Düsseldorf 2007, p. 320, che edita αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη, ma lega l’aggettivo ξηρὴ al sostantivo che la precede, traducendo «Trockener Strahl: weiseste und beste Seele». Già J.-P. Dumont (Les Présocratiques, Paris 1988, p. 172) traduceva la prima parte del frammento 118 Diels-Kranz «Éclat sec: l’âme très sage et excellente».
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asciutta. Stobeo lascia anche pensare che i tre detti fossero associati nello scritto di Eraclito e appartenessero al suo discorso sull’anima dell’essere umano. 5.2. Galeno: l’intelligenza degli astri Nel II secolo della nostra era, il frammento 118 DK di Eraclito è citato anche dal medico e filosofo Galeno di Pergamo nel trattato degli Scripta Minora intitolato Le facoltà dell’anima seguono i temperamenti del corpo. In questo scritto filosofico, Galeno elabora i risultati teorici delle sue ricerche scientifiche, secondo cui le malattie del corpo determinano, cioè influenzano e accompagnano, le passioni dell’anima. Secondo Galeno, l’anima non è la stessa per tutti, e la «dieta», intesa nel senso primo del termine greco (diaita) come regime di vita – il cibo e le bevande assunte, ma anche le attività praticate ogni giorno – determina la salute della nostra anima (Quod an. mor. IV 768). Nella fattispecie, Galeno sostiene che le facoltà dell’anima sono naturalmente modificate dalla mescolanza particolare di quattro proprietà (o qualità) materiali del corpo: caldo e freddo, asciutto e umido (Quod an. mor. IV 774). Il trattato prosegue con l’esame della dottrina platonica (Quod an. mor. IV 780) dell’anima immortale incatenata a un corpo umano in flusso e riflusso, poi Galeno conclude che l’asciuttezza conduce l’anima all’intelligenza, mentre l’umidità, all’irragionevolezza. Per questo motivo, secondo Galeno, l’anima mortale o la parte mortale dell’anima è il temperamento del corpo, che in termini aristotelico-peripatetici costituisce l’essenza o la sostanza dell’anima. Quanto alla dottrina degli Stoici, secondo cui la qualità dell’anima dipende da una certa mescolanza proporzionata di aria e fuoco, Galeno la discute così (Quod an. mor. IV 786.3-17 Kühn, p. 47 Müller): Quanti pensano che l’anima è forma del corpo, infatti, potranno dire che è la proporzione del temperamento, e non l’asciuttezza, che la rende più intelligente, e su questo punto saranno in disaccordo con quanti ritengono che, quanto più il temperamento è asciutto, tanto più anche l’anima diviene intelligente. Ma non converremo inoltre che l’asciuttezza è la causa dell’intelligenza, i discepoli di Eraclito? E infatti, anche lui ha detto “bagliore, l’anima asciutta, la più sapiente”, ancora una volta ritenendo che l’asciuttezza è causa dell’intelligenza (lo indica, infatti, il termine “bagliore”). E questa deve essere considerata l’opinione migliore, se si pensa che gli astri, che sono luminosi e ad un tempo asciut-
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ti, possiedono un’intelligenza estrema (se infatti qualcuno dicesse che ciò non gli è proprio, parrebbe essere insensibile all’eminenza degli dei)102 .
La versione quasi completa del frammento eracliteo 118 DK data da Galeno è αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη («bagliore l’anima asciutta / bagliore asciutto l’anima più sapiente»). La lettera della citazione e la spiegazione fornita in seguito dimostrano che Galeno attribuisce a Eraclito la concezione secondo cui l’anima è tanto più intelligente quanto più la sua sostanza è asciutta. Ritenendo che la causa dell’intelligenza dell’anima è solo l’asciuttezza, e non il temperamento equilibrato delle quattro qualità del corpo, Galeno sottoscrive la teoria di Eraclito e degli Eraclitei, opponendola implicitamente a quella stoica. Che Eraclito abbia goduto di una certa fortuna in ambito medico, lo indicano già le reminiscenze eraclitee in alcuni trattati del Corpus Hippocraticum di età classica ed ellenistica103; Galeno prova quindi che la dottrina eraclitea circola anche nell’ambiente medicale di epoca medioplatonica. Secondo Galeno, l’opinione di Eraclito è quella giusta: gli astri, infatti, sono massimamente asciutti, perciò luminosi, laddove nessun vivente mortale è assolutamente privo di umidità. E se l’estrema asciuttezza equivale alla somma intelligenza, questa spetta agli dei che risiedono nelle alte sfere del cielo; l’anima dell’uomo, invece, che partecipa dell’umidità a causa del suo legame e contatto con il corpo, è intelligente se e quando asciutta. La testimonianza di Galeno si colloca in un periodo in cui le parole di Eraclito, già assimilate nella religione astrale di epoca ellenistica104, sono associate alle speculazioni platonizzanti – non solo filosofiche, ma anche religiose, vale a dire gnostiche e caldaiche105 –
102 δυνήσονται γὰρ λέγειν οἱ τὴν ψυχὴν εἶδος εἶναι τοῦ σώματος ἡγούμενοι τὴν συμμετρίαν τῆς κράσεως, οὐ τὴν ξηρότητα, συνετωτέραν αὐτὴν ἐργάζεσθαι καὶ ταύτῃ διαφωνήσουσι τοῖς ἡγουμένοις, ὅσῳπερ ἂν ἡ κρᾶσις γίγνηται ξηροτέρα, τοσούτῳ καὶ τὴν ψυχὴν ἀποτελεῖσθαι συνετωτέραν. ἀλλ᾽ οὐ καὶ ξηρότητα συγχωρήσομεν αἰτίαν εἶναι συνέσεως οἵ γ᾽ [μὴν] ἀμφ᾽ Ἡράκλειτον; καὶ γὰρ καὶ οὗτος εἶπεν "αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη" τὴν ξηρότητα πάλιν ἀξιῶν συνέσεως εἶναι αἰτίαν [τὸ γὰρ τῆς αὐγῆς ὄνομα τοῦτ᾽ ἐνδείκνυται]· καὶ βελτίονά γε δόξαν ταύτην νομιστέον ἐννοήσαντας τοὺς ἀστέρας αὐγοειδεῖς θ᾽ ἅμα καὶ ξηροὺς ὄντας ἄκραν σύνεσιν ἔχειν [εἰ γὰρ μή τις αὐτοῖς ὑπάρχειν τοῦτο φαίη, δόξει τῆς τῶν θεῶν ὑπεροχῆς ἀναίσθητος εἶναι]. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 68 (a8), pp. 639-640; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 578, pp. 459-460. 103 Cf. De nutr. 45 o De victu I 5. 104 Cf. A.-J. Festugière, La Révélation, op. cit., vol. III (1953), pp. 27-62. 105 Cf. M. Tardieu, ΨΥΧΑΙΟΣ ΣΠΙΝΘHΡ. Histoire d’une métaphore dans la tradition platonicienne jusqu’à Eckhart, «Revue des Études Augustiniennes» 21 (1975), pp. 225-255.
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sull’anima umana come scintilla di natura stellare106. Rispetto alle altre fonti del detto eracliteo, Galeno precisa che, per Eraclito, l’anima nel suo stato migliore è un «bagliore» della stessa luce dei luminari celesti: dei asciuttissimi e intelligentissimi. La lezione del frammento eracliteo data da Galeno e la sua interpretazione “astrale” ritornano – come vedremo – in altri filosofi platonici della tarda Antichità fino a Marsilio Ficino (Theol. Plat. VI 2), che tradurrà il detto con la formula lux sicca, anima sapientissima107. 5.3. Porfirio: la nuvola e l’ombra Il frammento di Eraclito è citato in almeno due luoghi anche da Porfirio, nel III secolo108. Ne L’Antro delle ninfe 10 – che abbiamo già analizzato –, Porfirio riporta l’interpretazione numeniana dell’Odissea secondo cui le ninfe Naiadi rappresentano le anime che discendono nella genesi. Con l’intento di spiegare perché quanti sono nel mondo della materia in divenire hanno le anime umide, Porfirio fa dapprima riferimento ai sostenitori della teoria delle evaporazioni109 – senza menzionare esplicitamente Eraclito né altri Presocratici110 –, poi passa alla dottrina stoica delle esalazioni marine e terrestri111. A questo punto, Porfirio introduce uno sviluppo sullo pneuma delle anime (De antro nymph. 11, p. 12 Duffy-Sheridan-Westerink-White):
106 Commentando il racconto di Cicerone sul sogno di Scipione l’Africano, il neoplatonico latino Macrobio (V sec.) presenta una dossografia sull’anima che comporta, tra le altre, l’opinione di Eraclito: Heraclitus physicus scintillam stellaris essentiae («Eraclito il fisico [dice che l’anima è] una scintilla di essenza stellare») (In Somn. Scip. I 14, 19 = 22 A 15 DK). 107 Cf. L. Saudelli, Lux sicca. Marsile Ficin exégète d’Héraclite, «Accademia» X (2008), pp. 29-42. 108 All’inizio del III secolo della nostra era, una vaga reminiscenza della parola eraclitea compare anche in Flavio Filostrato, retore autore del romanzo biografico sull’ascetica e “miracolosa” Vita di Apollonio di Tiana (VIII 7, 70), iniziato neo-pitagorico di I secolo. Cf. Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), F 118, p. 299. 109 διαβεβαιοῦνται δέ τινες καὶ τὰ ἐν ἀέρι καὶ οὐρανῷ ἀτμοῖς τρέφεσθαι ἐκ ναμάτων καὶ ποταμῶν καὶ τῶν ἄλλων ἀναθυμιάσεων («alcuni poi affermano che anche gli esseri aerei e celesti si nutrono dei vapori di fonti, fiumi, e di altre esalazioni»). 110 Oltre ai frammenti e alle testimonianze di Eraclito analizzate, cf. Anassimene (13 A 7 DK), Filolao (44 A 18 DK) e Senofane (21 A 32, 33, 40, 41a DK). 111 τοῖς δ᾽ ἀπὸ τῆς στοᾶς ἥλιον μὲν τρέφεσθαι ἐκ τῆς ἀπὸ τῆς θαλάσσης ἀναθυμιάσεως ἐδόκει, σελήνην δ᾽ ἐκ τῶν πηγαίων καὶ ποταμίων ὑδάτων, τὰ δ᾽ ἄστρα ἐκ τῆς ἀπὸ γῆς ἀναθυμιάσεως («i filosofi della Stoà pensavano che il sole si alimentasse dell’esalazione del mare, la luna delle acque di fonti e fiumi, gli astri dell’esalazione della terra»).
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È quindi necessario che anche le anime, sia quelle che sono corporee, sia quelle incorporee, ma che trascinano un corpo [i.e. quelle che si tirano dietro un rivestimento pneumatico], e soprattutto quelle che si legheranno al sangue e a corpi umidi, inclinino verso l’umido e si incorporino diventando umide. Per questo motivo le anime dei morti sono esortate con libagione di bile e sangue, e quelle amanti del corpo, trascinando un soffio umido, lo condensano come una nuvola: l’umidità condensata in aria, infatti, costituisce una nuvola; quando dunque il soffio si è condensato in esse, per eccesso di umidità, [le anime] divengono visibili. E da tali anime provengono le apparizioni di fantasmi che si presentano ad alcuni che hanno contaminato il soffio secondo l’immaginazione; le anime pure, invece, si tengono lontane dalla generazione. Lo stesso Eraclito dice “anima asciutta, la più sapiente”. Perciò anche quaggiù il soffio diviene umido e più bagnato secondo i desideri di unione, poiché l’anima trascina vapore umido per inclinazione verso la generazione112 .
Porfirio, come già Plutarco, cita il frammento eracliteo nella versione ξηρὰ ψυχὴ σοφωτάτη («anima asciutta, la più sapiente»), cioè senza il termine αὐγή. Secondo il Neoplatonico, le anime che scendono nel mondo della generazione per legarsi a corpi mortali attirano ad esse una grande quantità di vapore: il «soffio» sottile che le avvolge si condensa come una nuvola per eccesso di umidità, e così, da diafane, le anime divengono visibili113. Propria al neoplatonismo post-plotiniano a partire da Porfirio114, infatti, è la dottrina dello pneuma o «corpo pneumatico» dell’anima – diverso dal corpo di carne: il rivestimento e «veicolo» (ὄχημα), costituito di finissima sostanza astrale, che l’anima acquista durante il suo passaggio attraverso le sfere planetarie, e che le permette la
112 ἀνάγκη τοίνυν καὶ τὰς ψυχὰς ἤτοι σωματικὰς οὔσας ἢ ἀσωμάτους μέν, ἐφελκομένας δὲ σῶμα, καὶ μάλιστα τὰς μελλούσας καταδεῖσθαι εἴς τε αἷμα καὶ δίυγρα σώματα ῥέπειν πρὸς τὸ ὑγρὸν καὶ σωματοῦσθαι ὑγρανθείσας. διὸ καὶ χολῆς καὶ αἵματος ἐκχύσει προτρέπεσθαι τὰς τῶν τεθνηκότων, καὶ τάς γε φιλοσωμάτους ὑγρὸν τὸ πνεῦμα ἐφελκομένας παχύνειν τοῦτο ὡς νέφος· ὑγρὸν γὰρ ἐν ἀέρι παχυνθὲν νέφος συνίσταται· παχυνθέντος δ᾽ ἐν αὐταῖς τοῦ πνεύματος ὑγροῦ πλεονασμῷ ὁρατὰς γίνεσθαι. καὶ ἐκ τῶν τοιούτων αἳ συναντῶσί τισι κατὰ φαντασίαν χρώζουσαι τὸ πνεῦμα εἰδώλων ἐμφάσεις, αἱ μέντοι καθαραὶ γενέσεως ἀπότροποι. αὐτὸς δέ φησιν Ἡράκλειτος "ξηρὰ ψυχὴ σοφωτάτη". διὸ κἀνταῦθα κατὰ τὰς τῆς μίξεως ἐπιθυμίας δίυγρον καὶ νοτερώτερον γίνεσθαι τὸ πνεῦμα, ἀτμὸν ἐφελκομένης δίυγρον τῆς ψυχῆς ἐκ τῆς πρὸς τὴν γένεσιν νεύσεως. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 68 (b2), p. 641; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), T 734, pp. 620-621. 113 Sull’anima che inclina verso il basso appesantita da uno pneuma impuro, cf. anche Giamblico, De myst. LXXXIV, 14-18. 114 Cf. Porfirio, Ad. Gaur. XI 3 o In Tim. III, fr. 80 Sodano.
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discesa nel mondo della materia e la corrispondente risalita alla sua origine celeste e divina115. Tale dottrina, utilizzata dai Neoplatonici per rendere conto del movimento dell’anima tra il mondo sensibile e la sfera dell’intelligibile, integrando la rivelazione degli Oracoli caldaici e la pratica teurgica al platonismo plotiniano, è stata elaborata in epoca medioplatonica116, poi messa a punto da Porfirio e Giamblico, sulla base di suggestioni risalenti allo stesso Platone117, ma anche di elementi tratti dalla scienza medica di epoca classica (scuola ippocratica) e imperiale (scuola pneumatica), dalla biologia aristotelica118 e dalla fisica stoica119. Porfirio ricorre alla citazione di Eraclito per spiegare che l’anima, attratta dal mondo dell’umido, attrae a sua volta l’umidità; l’anima asciutta, invece, è saggia, perché non ama il corpo e si tiene lontana dai vapori del mondo naturale, quindi il suo soffio non si ispessisce come una nuvola. Il secondo luogo porfiriano in cui, senza menzione di Eraclito, riecheggia il frammento 118 DK, è un passo delle Sentenze, il cui titolo esatto è Punti di partenza verso gli intelligibili (Ἀφορμαὶ πρὸς τὰ νοητά). Nella Sentenza 29, dedicata alla storia dell’anima – dalla sua discesa dall’empireo attraverso le sfere astrali fino alla terra, e dopo la morte biologica dell’essere umano, anche sotto terra – Porfirio afferma che l’anima, lasciato il corpo di carne, se mantiene una certa passione verso di esso, imprime sul soffio che l’avvolge un’impronta della sua immaginazione; in questo modo, essa trascina con sé un fantasma: il riflesso tenebroso del corpo cui era legata120. Secondo Porfirio, quest’anima che si porta dietro un’ombra impura si appesantisce ed è tratta verso il basso: «Come dunque rivestita a mo’ di ostrica di un guscio terroso, è necessariamente attaccata alla terra, così anche trascinando il soffio umido l’anima è necessariamen115 Cf. M. Zambon, Il significato filosofico della dottrina dell’ΟΧΗΜΑ dell’anima, in Studi sull’anima in Plotino (2005), op. cit., pp. 307-335; S. Toulouse (2006), op. cit., pp. 103-128. 116 M. Zambon (2005), art. cit., p. 315 e note relative, segnala attestazioni della dottrina del veicolo pneumatico dell’anima a partire dal II secolo: Oracoli caldaici, frr. 61 e 120 des Places; Basilide ap. Clemente Alessandrino, Strom. II 20, 112, 3; Galeno, De Hipp. et Plat. plac. 474, 22 ss.; Corpus Hermeticum X 13, 17; Poim. 25 s. 117 Cf. Platone, Phaed. 113 d; Phaedr. 247 b; Tim. 41 e, 44 e, 69 c e Leg. 898 e. 118 Cf. Aristotele (De gen. an. 781 a 24; De part. an. 659 b 17; De mot. an. 703 a 9 ss.; De somn. 456 a 12 ss.), che considera lo pneuma come un soffio connaturale, motore degli esseri viventi e legato alle facoltà dell’anima come l’immaginazione. 119 Cf. I. Hadot (1978), op. cit., pp. 184 ss. 120 Sui piaceri del corpo, che contaminano e rammolliscono l’anima che ad esso era legata durante la vita umana, cf. anche Giamblico, De myst. CCI, 1-5.
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te rivestita dal fantasma; e trascina l’umido, quando si adopera continuamente ad aver commercio con la natura, la cui azione è nell’umido e soprattutto sotterranea. Quando invece si adopera ad allontanarsi dalla natura, l’anima diviene “bagliore asciutto”, senza ombra e senza nuvola; l’umidità, infatti, costituisce nell’aria una nuvola, mentre l’asciuttezza produce dal vapore il bagliore asciutto» (ὥσπερ οὖν τὸ γεῶδες ὄστρεον περικειμένῃ ἀνάγκη ἐπὶ γῆς ἐνίσχεσθαι, οὕτω καὶ ὑγρὸν πνεῦμα ἐφελκομένῃ εἴδωλον περικεῖσθαι ἀνάγκη· ὑγρὸν δὲ ἐφέλκεται, ὅταν συνεχῶς μελετήσῃ ὁμιλεῖν τῇ φύσει, ἧς ἐν ὑγρῷ τὸ ἔργον καὶ ὑπόγειον μᾶλλον. ὅταν δὲ μελετήσῃ ἀφίστασθαι φύσεως, αὐγὴ ξηρὰ γίνεται, ἄσκιος καὶ ἀνέφελος· ὑγρότης γὰρ ἐν ἀέρι νέφος συνίστησι, ξηρότης δὲ ἀπὸ τῆς ἀτμίδος αὐγὴν ξηρὰν ὑφίστησιν)121. Che l’αὐγὴ ξηρά («bagliore asciutto») di Porfirio sia un implicito riferimento a Eraclito lo dimostra il parallelo con il trattato Sull’Ade che appartiene ai Philosophica minora di Michele Psello (XI sec.). L’erudito bizantino riprende fedelmente e quasi letteralmente la Sentenza 29 di Porfirio, ma aggiunge un importante complemento proprio sul frammento eracliteo: «quando invece si adopera ad allontanarsi [dalla natura], [l’anima] diviene bagliore asciutto, senza ombra e senza nuvola: “bagliore, l’anima asciutta, la più sapiente”, secondo Eraclito, perché il corpo che l’anima trascina è luminoso non quando è mal disposta, ma quando la sua disposizione è sapiente, cosicché alla sua ignoranza conseguono nuvola, ombra e fantasma derivati dall’inclinazione passionale» (ὅταν δὲ μελετήσῃ ἀφίστασθαι, αὐγὴ ξηρὰ γίνεται καὶ ἄσκιος καὶ ἀνέφελος, "αὐγὴ δὲ ξηρὰ ψυχὴ σοφωτάτη" καθ᾽ Ἡράκλειτον ὡς τοῦ σώματος ὃ ἐφέλκεται αὐγοειδοῦς ὄντος οὐ χαλεπῶς, ἀλλ᾽ ὅταν ᾖ σοφὴ ἡ διάθεσις, ὥσθ᾽ ἕπεται τῇ ἀμαθίᾳ νέφος καὶ σκιὰ καὶ εἴδωλον ἐκ τῆς προσπαθείας) (Opusc. log., phys., alleg., alia 40, 32-37). Dato che, in Porfirio, questa frase chiude la sentenza, è legittimo ipotizzare che il passaggio su Eraclito dato da Psello sia originariamente porfiriano122 .
121 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 68 (a11), p. 640; Mour., op. cit., II.A.3 (2002), T 735, pp. 621-622. 122 La terminologia utilizzata, in effetti, è tipica del vocabolario di Porfirio; inoltre, il frammento 118 DK è citato da Porfirio nel già analizzato passaggio del De antro nymph. 11: αὐτὸς δέ φησιν Ἡράκλειτος "ξηρὰ ψυχὴ σοφωτάτη" («lo stesso Eraclito dice: “anima asciutta, la più sapiente”»). Psello avrebbe quindi avuto accesso a un manoscritto in cui il testo della Sentenza 29 era più completo di quello trasmesso da Stobeo, testimone della tradizione indiretta delle Sentenze. Cf. Porphyre, Sentences. Études d’introduction, texte grec et trad. française, Commentaire, 2 voll., Travaux édités sous la responsabilité de L. Brisson, Histoire des Doctrines de l’Antiquité Classique, Paris 2005, Tome I, pp. 21-24.
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L’ultima parte della Sentenza 29 si riferisce dunque al frammento 118 DK di Eraclito, come indica l’espressione «bagliore asciutto» (αὐγὴ ξηρά), ma anche il riferimento alla nuvola che appare già nel contesto citatorio di Plutarco (Rom. 28) e all’umidità delle anime che si incorporano di De antro nymph. 11. Secondo questa testimonianza porfiriana, l’αὐγή («bagliore») rappresenta lo stato migliore in cui l’anima può trovarsi, sia quando è legata al corpo sia quando si scioglie da esso. Per il neoplatonico Porfirio, evidentemente, il soffio non è l’anima – come invece per il presocratico Eraclito –, bensì il “corpo”, sottile e astrale, che la riveste e la guida prima e dopo la sua vita nel corpo di carne. Secondo l’interpretazione porfiriana, dunque, se lo pneuma diviene pesante e torbido, e prende il sopravvento sull’anima, la trascina verso il basso123, ma quando si mantiene puro l’accompagna nella sua risalita verso l’alto124, verso il divino e l’intelletto, che è pura luce. Porfirio è un testimone chiave della tradizione, perché, se ne L’Antro delle ninfe cita il detto di Eraclito sull’«anima asciutta» (ξηρὰ ψυχή), nelle Sentenze allude al «bagliore asciutto» (αὐγὴ ξηρά). Il passaggio dall’una all’altro si effettua in funzione della dottrina caldaica, poi neoplatonica, del «veicolo» dell’anima, costituito di fine sostanza celeste. Sinesio di Cirene (V sec.) ed Ermia di Alessandria (V sec.) mostrano, infatti, che il detto eracliteo citato dai Neoplatonici post-plotiniani – e già da Galeno – sarà «bagliore asciutto, l’anima (più) sapiente» (αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη/σοφή). Sinesio evoca la parola di Eraclito nel trattato Sui sogni (7, 25, 33, II, p. 156 Terzaghi) in cui sostiene che l’anima umana è capace di divinazione quando il suo «soffio immaginativo» (φανταστικὸν πνεῦμα) – il corpo pneumatico –, che si affina o si ispessisce in funzione della buona o cattiva condotta dell’essere umano, è puro, cioè asciutto, e funge da ricettacolo delle vere impronte della realtà125. Ermia, nel Com123 Sull’anima che dopo la morte dell’individuo è rivestita da uno pneuma torbido e si aggira in basso nel mondo della genesi, cf. anche Giamblico, De myst. CXCVIII, 16-17. 124 Cf. M. Di Pasquale Barbanti, Ochema-pneuma e phantasia nel Neoplatonismo: aspetti psicologici e prospettive religiose, Catania 1998, pp. 117 e passim. 125 Similmente a Porfirio, Sinesio concepisce lo pneuma come il rivestimento dell’anima e l’organo (cioè lo strumento) della facoltà sensoriale dell’immaginazione, il supporto su cui si imprimono le immagini della realtà. Cf. R.C. Kissling, The OΧΗΜΑ-ΠΝΕUΜΑ of the Neoplatonists and the De Insomniis of Synesius of Cyrene, «AJPh» 43 (1922), pp. 318-330. R. Klein (L’imagination comme vêtement de l’âme chez Marsile Ficin et Giordano Bruno, in Id., La forme et l’intelligible, Paris 1970, pp. 65 ss.) mostra che la dottrina dell’immaginazione come corpo dell’anima avrà grande influenza, all’inizio del Rinascimento, su Marsilio Ficino (Theol. plat. XVIII 10) e Giordano Bruno (De vinc. in gen. XXX) proprio attraverso la mediazione de I sogni di Sinesio.
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mentario al Fedro di Platone (15, pp. 27, 20-28, 2 Couvreur), ricorre a Eraclito spiegando che Socrate propone a Fedro di bagnare i piedi nel fiume, in estate e a mezzogiorno, perché il calore e la luce permettono all’anima di acquisire l’asciuttezza necessaria, vale a dire il «veicolo luminoso» (αὐγοειδὲς ὄχημα) – il suo corpo più etereo e meno materiale – che le permetterà di risalire all’origine divina126. 6. L’«anima asciutta» (fr. 118 DK) di Eraclito Il frammento 118 DK di Eraclito: «bagliore, l’anima asciutta / bagliore asciutto l’anima più sapiente e la migliore» (αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη) è citato da numerosi autori dell’Antichità, a cominciare da Filone, seguito da filosofi stoici e platonici, da apologisti cristiani, e da Stobeo che è considerato la fonte più letterale, ma che riproduce lo stesso testo di Filone. La testimonianza filoniana è dunque preziosa per la ricostruzione filologica del frammento eracliteo, ma anche per la storia delle sue interpretazioni filosofiche. In Prov. 2.109, l’Alessandrino sostiene che la Grecia partorisce i migliori uomini, perché nutre il loro spirito: l’intelligenza, infatti, è naturalmente acuita dalla rarefazione dell’aria, perché la purezza delle esalazioni che l’uomo respira determina la purezza dell’anima umana; come diceva giustamente Eraclito: «bagliore, l’anima asciutta, la più sapiente e la migliore» (αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη). In QG. 2.12, invece, l’Alessandrino sostiene che non bisogna vivere in un corpo vuoto come un cadavere; se Dio devia il fiume dei vizi e rende «l’anima asciutta» (aridam ... animam), allora il corpo acquista la vita e l’individuo, la sapienza. Le due testimonianze filoniane, con e senza riferimento a Eraclito, esprimono la dottrina della modificazione dell’anima in funzione dell’aria che l’essere umano respira, dell’alimento che assume e delle sue abitudini di vita, e la concezione dell’anima asciutta come il soffio di vita del corpo. 126 Diversamente da Porfirio e Giamblico, ma conformemente a Siriano e Proclo, Ermia concepisce tre veicoli o rivestimenti che l’anima umana acquisisce nel discendere fino al mondo della Natura, e di cui si libera nel risalire al principio e al luogo superiore e intelligibile. Questi tre “corpi” sono: il corpo terrestre (composto e materiale), il corpo pneumatico (semplice e materiale) e il corpo luminoso (semplice e immateriale), che rappresentano rispettivamente gli strumenti appropriati all’anima vegetativa, all’anima irrazionale e all’anima razionale dell’uomo. Cf. I. Hadot (1978), op. cit., pp. 181 ss.; Hermeias von Alexandrien, Kommentar zu Platons Phaidros, übersetzt und eingeleitet von H. Bernard, PhU 1, Tübingen 1997, pp. 56 ss.
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Lo stoico imperiale Musonio Rufo (I sec. d. C.), il neopitagorico Plutarco (I-II sec.), il cristiano Clemente di Alessandria (II-III sec.) e il compilatore macedone Stobeo (V sec.) ricorrono al frammento di Eraclito «bagliore l’anima asciutta / bagliore asciutto l’anima più sapiente (e la migliore)» (αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ / ψυχὴ ξηρὰ σοφωτάτη (καὶ ἀρίστη)) in sviluppi sull’alimento sottile e leggero che influisce sulla saggezza umana: l’anima migliore è quella che non si lascia corrompere dai vapori del vino o della carne, ma rimane asciutta nella sua purezza, cioè sapiente e virtuosa. Galeno (II sec.), medico platonico, afferma che l’asciuttezza conduce l’anima all’intelligenza, come dice Eraclito: «bagliore, l’anima asciutta, la più sapiente» (αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη); gli astri divini, infatti, luminosi e asciutti, sono estremamente intelligenti. Il neoplatonico Porfirio (III sec.), che sviluppa suggestioni di epoca medioplatonica e sarà seguito dai Neoplatonici posteriori (Sinesio, Ermia, fino a Marsilio Ficino), evoca il detto di Eraclito «anima asciutta, la più sapiente» (ξηρὰ ψυχὴ σοφωτάτη) per mostrare che il “corpo” pneumatico dell’anima diventa umido per inclinazione verso la Natura, ma quando si allontana da essa diviene un «bagliore asciutto» (αὐγὴ ξηρά), senza ombra e senza nuvola. Filone fornisce dunque la prima citazione letterale del frammento eracliteo, che include la formula data dalla maggior parte delle fonti: αὐγὴ ξηρὴ ψυχή, in cui l’aggettivo «asciutta» (ξηρή) è posto tra i due sostantivi (femminili singolari) «bagliore» (αὐγή) e «anima» (ξηρή); questo spiega l’esistenza di più varianti antiche (ψυχὴ ξηρή, αὐγὴ ξηρά, etc.) ed emendazioni moderne (αὔη ψυχή)127. Il termine αὔη, proposto come correzione già dagli eruditi del Rinascimento, è non solo arcaico e ricercato, ma anche e soprattutto eracliteo; un verbo della stessa radice si ritrova nel frammento 126 DK, in cui Eraclito afferma che «le cose fredde si scaldano, ciò che è caldo si raffredda, ciò che è bagnato si asciuga, ciò che è arido si bagna» (τὰ ψυχρὰ θέρεται, θερμὸν ψύχεται, ὑγρὸν αὐαίνεται, καρφαλέον νοτίζεται)128. Inoltre, il sostantivo αὐγή («bagliore») e l’aggettivo ξηρή («secca») si spiegano rispettivamente come lettura e glossa del più raro αὔη. Tuttavia, se l’argomento paleografico e codicologico in favore della lectio difficilior αὔη è ragionevole – ma non convincente, perché l’emendazione non è supportata dalla tradizione manoscritta129 –, quello secondo cui αὐγή 127
Cf. Mour., op. cit., III.3.B/i (2006), F 118, p. 299-300. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., p. 642. 129 Fa eccezione Aristide Quintiliano (De musica, II 17, 74-89), la cui versione del frammento eracliteo comporta due sinonimi: ψυχὴ αὔη ξηρὴ σοφωτάτη. 128
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sarebbe un’interpretazione stoica130 pare piuttosto debole. Il termine specifico αὐγή, in effetti, appartiene al vocabolario tecnico dello stoicismo: per Crisippo, il «bagliore» è la forma più divina del fuoco e lo stato primitivo dell’universo131, ma ciò non dimostra l’ipotesi che gli Stoici abbiano influenzato le fonti del frammento eracliteo, anzi si potrebbe rovesciare l’argomento e sostenere che gli Stoici abbiano ripreso il termine proprio da Eraclito. Infine, non è necessario scegliere una variante antica o accettare una correzione moderna se il testo trasmesso dai testimoni (αὐγὴ ξηρὴ ψυχή) è del tutto sensato132; Eraclito ha probabilmente voluto e ottenuto la sua ambiguità. Filone, restituendo gli ipsissima verba di Eraclito, gli attribuisce la concezione secondo cui l’anima è la sostanza, materiale e mentale, che nel suo stato più puro si identifica con la luce, la cui natura è sia “corpuscolare” sia “spirituale”. Stando alla citazione di Filone, il detto eracliteo sarebbe una duplice predicazione di un unico soggetto: il «bagliore» è l’«anima», che è «asciutta» dal punto di vista fisico, e «più sapiente e migliore» in senso intellettivo ed etico. L’Alessandrino si allinea ad altre fonti nell’affermare che la purezza dell’anima umana è determinata dalla purezza dell’aria che l’uomo respira e dell’alimento che assume, cioè dal regime di vita più sano. Secondo questa interpretazione, il nutrimento modifica lo stato dell’anima: quanto più l’esalazione di cui si sostenta è pura, tanto più la sostanza in cui consiste è migliore. La teoria stoica dell’evaporazione dell’anima dal sangue e dai vari fluidi che circolano nel corpo – compreso il flusso del cibo e delle bevande – è d’altronde uno sviluppo del pensiero eracliteo133. Come sappiamo, per Filone l’anima di cui parla Eraclito è pneuma, il soffio divino della Genesi biblica che l’Alessandrino identifica da un lato con l’aria e dall’altro con la sapienza134; gli autori medio- e neo-platonici posteriori, invece, nell’intento di preservare la natura divina e intelligibile che secondo Platone è propria dell’anima, concepiscono lo pneuma come il rivestimento e il veicolo incorporeo dell’anima. Ma per il presocratico Eraclito, l’anima, come ogni 130 P. Wendland pensava a Panezio e Posidonio, secondo cui la luce asciutta è l’anima più saggia, cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 68, p. 642. 131 A proposito dell’influenza di Eraclito sullo stoicismo, anche riguardo al termine αὐγή, cf. J.-B. Gourinat, The Stoics on Matter and Prime Matter: ‘Corporealism’ and the Imprint of Plato’s Timaeus, in R. Salles (ed.), God and Cosmos in Stoicism, Oxford 2009, pp. 46-70, p. 62. 132 Cf. C.H. Kahn (1979), op. cit., pp. 245-246. 133 Cf. C.H. Kahn (1979), op. cit., p. 260. 134 Cf. Aet. 111 e Gig. 22.
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altra cosa, è materiale, ed è una sostanza che si trasforma divenendo asciutta, lucida, calda e leggera, oppure umida, opaca, fredda e pesante. Se le anime muoiono nell’acqua135, ed esalano dalle sostanze umide136, l’anima migliore è quella pura come la parte più rarefatta dell’atmosfera. Le testimonianze in nostro possesso suggeriscono in effetti che l’anima eraclitea è una natura “aerea” che esiste nel cosmo prima di entrare nell’uomo, attraverso la respirazione137, perché il soffio che si trova all’interno del corpo è ciò che “anima” l’essere umano, donandogli la vita, ma anche il pensiero. L’anima di Eraclito sarebbe dunque un soffio e un flusso che può divenire più umido o più asciutto, vaporoso o luminoso; e a questi stati fisici differenti corrispondono verosimilmente altrettanti livelli di coscienza. Quando la natura dell’anima diventa trasparente e brillante, allora per Eraclito è «la più sapiente» e la «migliore», perché la sua asciuttezza fisica coincide con la sua eccellenza razionale e con la sua perfezione morale. La testimonianza filoniana rivela che la concezione eraclitea dell’anima è influenzata dalla fisica ionica dei suoi predecessori Anassimandro138, e soprattutto Anassimene, che spiega il contrasto tra bagnato e asciutto con processi di rarefazione e condensazione dell’aria, assimilata all’anima139; e non è senza affinità con le credenze orfiche, secondo cui l’anima penetra negli uomini tramite la respirazione140. La dottrina eraclitea influenza a sua volta il pensiero di Diogene di Apollonia (V sec. a. C.), che considera l’anima aria, cioè il principio dotato di intelligenza, e il centro di cognizione dell’essere umano141, che è tanto più intelligente quanto più quest’aria è asciutta142 . Secondo Parmenide, inoltre, i migliori pensieri, cioè i pensieri di vita, sono posti sotto il segno di un
135
Cf. 22 B 36 e 77a DK. Cf. 22 B 12 DK. 137 Cf. 22 A 16 e 17 DK. 138 Cf. 12 A 9, 11, 27 e 30 DK. 139 Cf. 13 A 5, 6, 7, 8, 17, 23; B 2 DK. Cf. anche Aristotele, De part. an. 640 b. 140 Cf. 1 B 11 DK. Cf anche Aristofane, Nuvole 227 ss. 141 Cf. 64 B 4-5 DK. Sul tema, cf. M. Schofield, Heraclitus’ Theory of Soul and its Antecedents, in S. Everson (ed.), Companions to Ancient Thought, 2. Psychology, Cambridge 1991, pp. 13-34; A. Laks, Soul, Sensation, and Thought, in A.A. Long (ed.), The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, Cambridge 1999, pp. 250-270. Cf. anche Diogène d’Apollonie, Édition, trad. et comm. des fragm. et tém. par A. Laks, deux. éd. revue et augm., Sankt Augustin 2008, pp. 31 ss. 142 Cf. 64 A 19, 28; B 5 DK. La teoria diogeniana dell’aria secca e intelligente è messa in bocca a Socrate da Aristofane, Nuvole 225-236. 136
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certo calore143. L’interpretazione di Filone induce anche a pensare che, in epoca ellenistica e imperiale, gli Stoici a partire da Cleante (IV-III sec. a. C.)144, poi gli Scettici come Enesidemo (I sec a. C.?)145 hanno messo l’accento su diversi aspetti della stessa dottrina di Eraclito, secondo cui l’anima è un soffio che appartiene alla sostanza e alla razionalità cosmica, una parte del quale entra nel corpo al momento della nascita dell’essere umano, con il primo respiro, ed esce al momento della morte, quando l’uomo smette di respirare. Il soffio sarebbe dunque per Eraclito la condizione sufficiente per restare in vita, e il soffio asciutto, la condizione necessaria per esercitare la sua intelligenza146. Rispetto alla concezione omerica dell’anima, la ψυχή di Eraclito non è solo l’insieme delle operazioni vitali dell’anima, ma il centro della coscienza, della comprensione e della conoscenza, il soggetto di cui sono predicate facoltà e qualità147. Rispetto invece ai fisici milesii, che si fondavano sull’osservazione empirica e ricorrevano al ragionamento analogico, Eraclito si è posto il problema gnoseologico, interrogandosi sul sapere umano, cioè indagando il rapporto tra le informazioni fornite dai sensi e l’elaborazione operata dalla ragione. L’Efesio è il primo a chiamare psychê il principio unificatore dei processi biologici e cognitivi dell’uomo, e rappresenta dunque l’inizio della speculazione filosofica sull’anima, in cui l’antica concezione del respiro vitale si complica con l’innesto dell’idea di principio mentale, e il soffio aereo diventa l’“io” personale148.
143
Cf. Teofrasto, De sens. 3. Cf. Cleante ap. Ario Didimo (fr. 39, Dox. 470 s. Diels) ap. Eusebio di Cesarea, Praep. Ev. XV 20, 2 (= SVF I 141; 519), in cui lo stoico Cleante testimonia la dottrina eraclitea secondo cui le anime diventano razionali esalando dall’umido, e cita il frammento 22 B 12 DK. 145 Cf. il resoconto sulla dottrina eraclitea della ragione universale “respirata” dall’uomo in Sesto Empirico, Adv. math. VII 126 ss. (= 22 A 16 DK), che testimonia l’integrazione di elementi stoici nell’“eraclitismo” scettico di Enesidemo. Cf. R. Polito (2004), op. cit., pp. 149 ss. Sul passo si veda anche F.E. Cook, A note on the text of Sextus Empiricus, Adv. Math. 7, 131, «Hermes» 119 (1991), pp. 489-491. 146 Grazie all’anima, dunque, l’uomo eracliteo vive e sa di vivere nel senso cartesiano del cogito ergo sum: respira per non morire fisicamente, e pensa per non morire intellettualmente. 147 E ancora, diversamente dall’immagine della morte data da Omero, secondo cui il soffio vitale esce dall’uomo con l’ultimo respiro o dalla ferita letale, per continuare la sua esistenza nel mondo sotterraneo sotto forma di ombra o fantasma, per Eraclito, l’anima esiste sia dentro sia fuori dal corpo, e vi è un ciclo di “morti” e “nascite” dell’anima e delle anime nel perpetuo trasformarsi della sostanza dell’universo. Cf. M.L. West (1971), op. cit., p. 149; M. Nussbaum, Psyche in Heraclitus, «Phronesis» 17 (1972), pp. 1-16 e 153-170. 148 Cf. M.M. Sassi (2009), op. cit., pp. 168 ss., che rinvia alla storica opera di B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo [1947], Torino 1963, pp. 19-47. 144
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Eraclito, infatti, afferma (B 115 DK) che «proprio dell’anima è un logos che accresce se stesso» (ψυχῆς ἐστι λόγος ἑαυτὸν αὔξων), e che non è possibile trovare i confini dell’anima (45 DK), «tanto profondo è il suo logos» (οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει). Con ogni probabilità, il logos dell’anima è per Eraclito sia la ragione che caratterizza la sua essenza sia il discorso che si svolge su di essa, vale a dire il resoconto vero, dettagliato e completo, sulla realtà di ogni cosa e di se stessa149. Significativo a questo riguardo è il frammento (107 DK) in cui l’Efesio ammonisce che gli organi di senso sono testimoni infedeli della realtà se gli uomini hanno «anime barbare» (βαρβάρους ψυχάς), cioè se non sono in grado di ragionare ed esprimersi correttamente. Eraclito deve aver intuito che, rispetto a ogni altro ente, l’anima è il soggetto e l’oggetto del pensiero e del discorso che possono espandersi ed estendersi all’infinito, senza limiti spaziali o temporali: in quanto “io” dell’essere umano, l’anima riflette su di sé e parla di sé, ma può anche riflettere su e parlare di altre cose fino ad abbracciare, con la ragione e la parola, l’universo intero150. Ma Eraclito fa senz’altro riferimento anche al carattere insondabile della nostra psiche, e questo è l’altro senso della sua “profondità”. Per questo l’anima eraclitea, principio non solo della vita ma anche dell’intelligenza e del linguaggio, è un soffio che si estende illimitatamente e si trasforma continuamente. Filone, in parte confermato e spesso completato dalle altre fonti dello stesso frammento, ma soprattutto supportato dagli altri frammenti, attribuisce a Eraclito la concezione secondo cui l’anima, nel suo stato più puro, è non solo luminosa, ma anche illuminante: in sé invisibile, permette di vedere, cioè di capire e conoscere. Ciò induce a pensare che lo stato asciutto dell’anima umana coincida per Eraclito con la sua coscienza e sapienza: l’anima è la luce che “illumina” l’uomo dall’interno e con cui l’uomo “illumina” la realtà esterna, ma questa luce si affievolisce nel sonno e si spegne nella morte151, quando le finestre dei sensi non sono più aperte sul mondo152 . Di qui il biasimo di Eraclito agli uomini che, anche quando svegli, dormono di mente153, e a coloro che pur vi-
149
Cf. G. Betegh (2009), art. cit., spec. pp. 410 ss. Cf. E. Hussey, “Heraclitus”, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy (1999), op. cit., pp. 88-112, spec. pp. 104-105. 151 Cf. 22 B 21 e 26 DK. 152 Cf. 22 A 16 DK. 153 Cf. 22 B 1, 73, 75, 88 e 89 DK. 150
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vendo ancora, sono già morti154. Se dunque, per Eraclito, l’anima muore fisicamente quando la sua sostanza si trasforma in acqua155, la sua degradazione psichica avviene quando le sue facoltà mentali sono rammollite dall’ubriachezza156, dalla sazietà157 o dalla procreazione158: come tutti i contrari eraclitei, che si trasformano l’uno nell’altro, infatti, l’asciutto si inumidisce e l’umido si asciuga159; e ciò vale anche per la sostanza dell’anima. L’esame dei contesti filoniani e il loro confronto con le altre fonti induce a pensare che, per Eraclito, l’anima ha un’esistenza cosmica e umana, cioè sussiste sia nell’atmosfera dell’ambiente esterno, sia all’interno del corpo umano, e si trasforma assimilandosi alla natura pura e luminosa della regione del sole, che è il cielo delle alte sfere, o a quella mista e torbida della regione della luna che sovrasta la terra e il mare160. Secondo Eraclito, allora, sia la natura dell’Anima che circonda la terra e il mare, sia quella dell’anima umana, può essere e diventare più asciutta o più umida. Come risulta dai frammenti conservati, per Eraclito, l’anima dell’essere umano non ha la stessa costituzione durante la vita dell’uomo sapiente o incosciente161, e non ha lo stesso destino dopo la morte dell’uomo nobile o volgare: coloro che hanno avuto una morte più dignitosa, avranno anche una migliore sorte162 . Chiaro è l’influsso della religione greca arcaica, in cui l’antitesi Cielo e Terra ha una particolare importanza, e le proprietà “caldo” e “asciutto” sono naturalmente associate al sole e quindi al Cielo163. Tutto lascia pensare che, secondo Eraclito, se l’anima di molti uomini, già bagnata a causa di una vita insalubre e irrazionale, si dissolve con il corpo, sciogliendosi in acqua, o rimane a circolare nei bassifondi dell’aria atmosferica, soltanto l’anima degli uomini che hanno vissuto con sapienza e sono morti con saggezza diviene demone, eroe o spirito custode164. Ma solo quando si eleva fino
154 155 156 157 158 159 160 161 162 163 164
Cf. 22 B 36, 62, 77a e 88 DK. Cf. 22 B 36 DK. Cf. 22 B 117 DK. Cf. 22 B 29 DK. Cf. 22 B 20 DK. Cf. 22 B 126 DK. Cf. 22 A 1 DK. Cf. 22 B 117 DK. Cf. 22 B 24-25 DK. Come fa notare G.E.R. Lloyd (1964), art. cit., p. 101. Cf. 22 B 5, 79 e 63 DK.
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al dominio di Zeus luminoso165, lo stato più puro del fuoco divino, unendosi alla luce del sole e degli astri, l’anima guadagna la più alta forma di vita166. Per Eraclito, infatti, tutti gli uomini possono conoscere se stessi ed essere sapienti167, cioè conoscere l’unico principio che si identifica con tutte le cose e dirige tutto attraverso tutto168, ma solo pochissimi potranno sublimare la loro vita personale nella vita dell’universo. Così, l’uomo di Eraclito potrà identificarsi fisicamente e mentalmente con ciò che non tramonta mai169, il fulmine che governa ogni cosa170, l’essere sapiente per eccellenza171, perché l’anima più pura è un soffio asciutto e leggero, acuto e penetrante. 7. La «generazione» eraclitea secondo Filone: padre e figlio, nonno e nipote Filone, infine, fornisce un contributo alla conoscenza della terminologia e della filosofia di Eraclito che non comporta una citazione testuale, ma consiste in un resoconto indiretto: la testimonianza 19 DK. Il passaggio filoniano appartiene alle Quaestiones (et Solutiones) in Genesim, e precisamente a una questione-soluzione sul versetto della Scrittura in cui sono date le misure dell’arca, l’imbarcazione grazie alla quale Noè è salvato dal diluvio universale. Nel sotto-testo biblico di riferimento, Gen. 6:15, Dio istruisce Noè sulle dimensioni della costruzione di legno, a forma di parallelepipedo, cha dovrà realizzare: «E così farai la cassa: di trecento cubiti la lunghezza della cassa, di cinquanta cubiti la larghezza, e di trenta cubiti la sua altezza» (καὶ οὕτως ποιήσεις τὴν κιβωτόν· τριακοσίων πήχεων τὸ μῆκος τῆς κιβωτοῦ καὶ πεντήκοντα πήχεων τὸ πλάτος καὶ τριάκοντα πήχεων τὸ ὕψος αὐτῆς). Il commento filoniano è una lunga speculazione aritmologica, la cui parte finale è stata preservata in greco nel manoscritto Vatopedinus 659172 , e dall’erudito bizantino di VI secolo Giovanni Lido (De mens. III 14); frammen-
165 166 167 168 169 170 171 172
Cf. 22 B 120 DK. Cf. C.H. Kahn (1979), op. cit., p. 251. Cf. 22 B 101 e 116 DK. Cf. 22 B 10, 41 e 50 DK. Cf. 22 B 16. Cf. 22 B 64 DK. Cf. 22 B 32 e 41 DK. J. Paramelle (1984), op. cit., pp. 160-162.
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ti della stessa, inoltre, si trovano in alcuni florilegi173. Ecco dunque Filone, QG 2.5, il cui testo è lacunare (p. 160 Paramelle): Perciò il numero trenta è il più naturale: ciò che il tre è rispetto all’unità, infatti, la trentina lo è rispetto alla decina. Inoltre, è anche uguale al ciclo del mese lunare è la somma data dai quattro quadrati successivi a cominciare dall’unità: 1, 4, 9, 16 . Quindi non a sproposito Eraclito chiama il mese [umano] “generazione”. E’ possibile che l’uomo diventi nonno a trent’anni: cioè che raggiunga la pubertà all’età di circa quattordici anni, nella quale emette il seme, e che l’essere concepito, nato in meno di un anno, generi di nuovo un essere simile a se stesso a quindici anni174.
La testimonianza filoniana fa riferimento alla “genealogia” di Eraclito, vale a dire alla dottrina eraclitea dei cicli della vita umana rispetto a quella cosmica. L’Alessandrino evoca il termine eracliteo di «generazione» (γενεά) e, nell’intento di spiegarne il significato filosofico, ne fornisce una definizione. La traduzione armena di Filone, QG 2.5, in cui leggiamo: «Inoltre è anche uguale al ciclo del mese [lunare] »175, induce a pensare che Eraclito abbia identificato il mese con la rotazione-rivoluzione sinodica della luna attorno alla terra in riferimento al sole: un periodo di circa trenta giorni, e per la precisione – data dalla scienza moderna – di ventinove giorni, dodici ore e quarantaquattro minuti176. Secondo Filone, come il mese lunare, anche il mese “umano” è caratterizzato dal numero trenta: se la luna compie la sua orbita celeste in trenta giorni, il ciclo completo della vita umana equivale a un periodo di trent’anni. Questa è, per Filone, la «generazione» (γενεά) di Eraclito, ovvero il tempo necessario perché un uomo generi un figlio che generi a sua volta un figlio. L’Alessandrino spiega, infatti, che un adolescente è in grado di emettere il seme all’età di circa
173
Cf. F. Petit (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 33 (1978), pp. 83-84. Ὅτι ὁ τριάκοντα ἀριθμὸς φυσικώτατός ἐστιν, ὃ γὰρ ἐν μονάσι τριάς, τοῦτο ἐν δεκάσι τριακοντάς. Ἐπεὶ καὶ ὁ τοῦ μηνὸς κύκλος συνέστηκεν ἐκ τεσσάρων τῶν ἀπὸ μονάδος ἑξῆς τετραγώνων α, δ, θ, ις . Ὅθεν οὐκ ἀπὸ σκοποῦ Ἡράκλειτος γενεὰν τὸν μῆνα καλεῖ. Δυνατὸν ἐν τριακονταετίᾳ τὸν ἄνθρωπον πάππον γενέσθαι· ἡβᾶν μὲν περὶ τὴν τεσσαρεσκαιδεκάτην ἡλικίαν ἐν ᾗ σπείρει, τὸ δὲ σπαρέν, ἐντὸς ἐνιαυτοῦ γενόμενος, πάλιν πεντεκαιδεκαετίᾳ τὸ ὅμοιον ἑαυτῷ γεννᾶν. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 108 (a), pp. 757-758; Mour., op. cit., II.A.1 (1999), T 343, pp. 252-253. 175 Cf. J. Paramelle (1984), op. cit., pp. 160-161; C. Mercier (ed.), in PAPM, op. cit., vol. 34 a (1978), pp. 198-199; R. Marcus (ed.), in PLCL, op. cit., Supplement I (1953), p. 77. 176 Cf. J. Sesiano, Interprétation arithmologique de la Question II 5, in J. Paramelle (1984), op. cit., p. 209. 174
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quattordici anni, cioè al secondo settennio di vita, e che tra il concepimento del feto e il parto del neonato corre un po’ meno di un anno (nove mesi); se dunque il tempo di procreazione è la somma di quattordici e uno, cioè quindici anni, la durata della generazione è il doppio. Trent’anni è quindi per Eraclito il periodo di tempo che separa e congiunge il genitore e il figlio del figlio, vale a dire la prima progenitura che non dipende direttamente da lui. Secondo la testimonianza di Filone, quindi, per Eraclito la «generazione» non corrisponderebbe a una vita umana, né alla differenza “generazionale” tra un genitore e suo figlio, ma al tempo necessario per generare un individuo che divenga a sua volta genitore. L’Alessandrino induce così a pensare che Eraclito abbia stabilito un paragone o un parallelo tra il mese del cosmo e il mese “dell’uomo”, e che trenta sia il numero attraverso cui egli abbia quantificato questo periodo di tempo: il ciclo completo della generazione umana che si compie in circa trent’anni. 8. Le altre testimonianze 8.1. Aezio: la pubertà Il passaggio di Filone va innanzitutto paragonato a una testimonianza sull’antropologia eraclitea che si trova nella raccolta di opinioni fisiche degli Antichi attribuita ad Aezio e tramandata in modo frammentario attraverso gli estratti di autori posteriori177. Oggi si ritiene che i Placita di Aezio abbiano come fonti collezioni dossografiche anteriori, risalenti almeno in parte alle Physikai doxai di Teofrasto e ai resoconti dialettici sulle pragmateiai di Aristotele178, ma che il materiale peripatetico sia stato in seguito rielaborato in ambito scetticoaccademico e rifuso con apporti stoici in dossografie di epoca ellenistica e imperiale, come suggerisce anche la testimonianza su Eraclito. Nella sezione dedicata alle opinioni filosofiche sulla pubertà, cioè l’età in cui un uomo è capace di procreare, Aezio riporta, fra le altre, l’opinione di Eraclito e degli Stoici.
177
Cf. Mansfeld and D.T. Runia (1997), op. cit., pp. XVII ss. e passim. Cf. J. Mansfeld and D.T. Runia (1997), op. cit., pp. XIX, 327 ss., contro l’ormai datata ipotesi di H. Diels (1879), che indicava come fonte principale di Aezio la raccolta dossografica dei Vetusta Placita, un’epitomê in sei libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto risalente all’epoca di Posidonio e Asclepiade di Prusa (I sec. a. C.). 178
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Questo è il passaggio dossografico di Aezio, ricostruito sulla base di pseudo-Plutarco, Placita philosophorum 909 C 10-D3 e pseudo-Galeno, Historia philosopha 127, 2-7179, che dipende da lui180 (= 22 A 18 DK; Dox. 434-435; SVF II 764): Eraclito e gli Stoici ritengono che gli uomini entrano nella maturità intorno al compimento della seconda ebdomada [i.e. il secondo settennio = 14 anni], quando il liquido seminale si mette in movimento; gli alberi, infatti, maturano quando iniziano a generare i semi, e non sono maturi quando non hanno né fiore né frutto; l’uomo è dunque maturo a questa età181.
Secondo la testimonianza di Aezio, Eraclito, seguito dagli Stoici, avrebbe ritenuto che l’uomo è «maturo» (τέλειος) quando inizia la fase della pubertà: verso i quattordici anni, infatti, l’essere umano di sesso maschile è in grado di generare un individuo simile a lui. Segue poi il paragone con il mondo vegetale: come l’albero giunge a maturazione quando comincia a dare frutti, così l’uomo è perfettamente sviluppato nel momento in cui comincia a produrre il seme. La questione che ci si pone è se il paragone dell’uomo con l’albero sia eracliteo, stoico o appartenga a un’interpretazione posteriore. Un confronto interessante è allora Filone, QG 4.1 che – lo si ricorderà – commenta la teofania di Mambre citando il frammento 123 DK di Eraclito: «l’albero è, secondo Eraclito, la nostra natura che ama velarsi e nascondersi». Come abbiamo detto, la testimonianza non ha paralleli nella tradizione, ma Aezio potrebbe confermare l’attribuzione a Eraclito di un’analogia tra la natura dell’uomo e quella dell’albero. Aristotele, parlando della pubertà del maschio umano (Hist. An. 581 a = 24 A 15 DK), attribuisce ad Alcmeone di Crotone l’idea secondo cui, all’età di quattordici anni, l’uomo comincia a produrre il liquido seminale per riprodursi, come le piante cominciano a fiorire per poi dare
179 Pseudo-Plutarco, Plac. phil. 909 C 10-D3: Ἡράκλειτος καὶ οἱ Στωικοὶ ἄρχεσθαι τοὺς ἀνθρώπους τῆς τελειότητος περὶ τὴν δευτέραν ἑβδομάδα, περὶ ἣν ὁ σπερματικὸς κινεῖται ὀρρός· τὰ γὰρ δένδρα ἄρχεται τότε τελειότητος, ὅταν ἄρχηται γεννᾶν τὰ σπέρματα, ἀτελῆ δ᾽ ἐστὶ καὶ ἄωρα καὶ ἄκαρπα ὄντα· τέλειος οὖν τότε ἄνθρωπος; pseudo-Galeno, Hist. phil. 127, 2-7: καὶ οἱ ἄρχεσθαι ἡμᾶς τῆς τελειότητος περὶ τὴν δευτέραν ἑβδομάδα, περὶ ἣν ὁ σπερματικὸς κινεῖται πόρος· καὶ γὰρ τὰ δένδρα τελειοῦται, ὅταν ἄρχηται καρπὸν φέρειν. 180 Cf. J. Mansfeld and D.T. Runia (1997), op. cit., p. 328. 181 Ἡράκλειτος καὶ οἱ Στωικοὶ ἄρχεσθαι τοὺς ἀνθρώπους τῆς τελειότητος περὶ τὴν δευτέραν ἑβδομάδα περὶ ἣν ὁ σπερματικὸς κινεῖται ὀρρός· τὰ γὰρ τὰ δένδρα ἄρχεται τότε τελειότητος ὅταν ἄρχηται γεννᾶν τὰ σπέρματα, ἀτελῆ δ᾽ ἐστὶ ἄωρα καὶ ἄκαρπα ὄντα· τέλειος οὖν τότε ἄνθρωπος. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 108 (c), pp. 758-759; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 466-467, pp. 357-358.
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frutto. Questa testimonianza induce a pensare che il parallelo tra la maturità dell’uomo e la maturazione delle piante risalga alla biologia presocratica in cui il numero sette gioca un ruolo importante182 . La dossografia degli Aetiana non concerne precisamente la dottrina eraclitea della generazione, ma si accorda con la testimonianza di Filone nell’attribuire a Eraclito la concezione secondo cui la pubertà dell’uomo comincia con la seconda «ebdomada» (ἑβδομάς), il doppio settennio della vita umana, cioè all’età di quattordici anni. La testimonianza di Aezio indica anche che Eraclito ha riflettuto sulle fasi della vita umana, sulla loro durata e sul loro ciclo, rispetto ai cicli della natura, e che la sua dottrina è stata ripresa dagli Stoici e associata a quella del Portico dalle fonti dossografiche. Aezio conferma dunque Filone e induce a pensare che Eraclito abbia calcolato la durata del ciclo umano a partire dall’età della pubertà, quando l’individuo di sesso maschile può diventare genitore. 8.2. Plutarco e Censorino: il ciclo dell’età Tra la fine del I e l’inizio del II secolo della nostra era, un’altra testimonianza sulla concezione eraclitea della «generazione» è data da Plutarco ne Il tramonto degli oracoli, un dialogo in cui ci si interroga sulle cause della diminuzione degli oracoli, e si propongono differenti risposte. Dopo i primi due interventi sbrigativi di Didimo (il Cinico) e Ammonio (maestro di Plutarco), Cleombroto prende la parola per esporre la sua dottrina demonologica. Secondo lui, Esiodo è stato il primo tra i Greci ad aver suddiviso gli esseri ragionevoli in dei, demoni, eroi e uomini: «come si osserva l’acqua generata dalla terra, l’aria dall’acqua, il fuoco dall’aria, poiché la sostanza si porta verso l’alto, così le anime migliori subiscono la trasformazione da uomini in eroi, da eroi in demoni, ma poche di numero e in molto tempo, da demoni si purificano attraverso la virtù per partecipare completamente della divinità» (ὥσπερ ἐκ γῆς ὕδωρ ἐκ δ᾽ ὕδατος ἀὴρ ἐκ δ᾽ ἀέρος πῦρ γεννώμενον ὁρᾶται τῆς οὐσίας ἄνω φερομένης, οὕτως ἐκ μὲν ἀνθρώπων εἰς ἥρωας ἐκ δ᾽ ἡρώων εἰς δαίμονας αἱ βελτίονες ψυχαὶ τὴν μεταβολὴν λαμβάνουσιν, ἐκ δὲ δαιμόνων ὀλίγαι μὲν ἐν χρόνῳ πολλῷ δι᾽ ἀρετὴν καθαρθεῖσαι παντάπασι θειότητος μετέσχον) (De def. orac. 415 B 6-12).
182 Cf. Aristote, Histoire des animaux, Texte établi et traduit par P. Louis, Tome II, Livres V-VII, Paris 1968, p. 131, n. 3.
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La dottrina in questione è la trasformazione degli elementi cosmici e delle anime umane secondo la “via verso l’alto”, conformemente all’interpretazione della dottrina eraclitea testimoniata da Filone, fonti dossografiche e autori medioplatonici. Plutarco – che cita il frammento eracliteo (76 DK) «morte del fuoco, nascita dell’aria, etc.» (πυρὸς θάνατος ἀέρι γένεσις κτλ.) in De E ap. Delph. 392 C – associa qui la rarefazione progressiva della materia, che si trasforma da terra in acqua, aria e fuoco, alla purificazione progressiva dell’anima che da uomo diviene eroe, poi demone e, nel migliore e più raro dei casi, dio. Che Plutarco faccia implicitamente riferimento alla dottrina eraclitea, lo suggerisce Cleombroto, secondo cui alcune anime, che non padroneggiano se stesse, si abbassano ed entrano di nuovo in corpi mortali «per condurvi una vita spenta e oscura come un’esalazione» (ἀλαμπῆ καὶ ἀμυδρὰν ζωὴν ὥσπερ ἀναθυμίασιν ἴσχειν) (De def. orac. 415 C 1-4). Come ormai sappiamo, secondo l’interpretazione plutarchea della dottrina di Eraclito, l’anima, quando è sottomessa al corpo, diviene una nuvola di vapore umido e pesante183. Un riferimento finalmente esplicito a Eraclito si trova nel prosieguo, in cui Cleombroto riporta un passo di Esiodo (fr. 183 West) sulla durata della vita dei demoni, spiegando che il concetto esiodeo di «generazione» (γενεά) indica il periodo di tempo di un anno (De def. orac. 415 D). Ma un interlocutore di nome Demetrio non si trova d’accordo sul significato del termine (De def. orac. 415 D 9-415 E 4 = 22 A 19 DK, III, p. 70 Sieveking): Mentre [Cleombroto] stava ancora parlando, Demetrio interrompendolo disse: “Come puoi dire, Cleombroto, che l’anno è detto generazione dell’uomo? Né per “colui che è entrato nella pubertà”, né per “colui che ha raggiunto l’anzianità” – come leggono alcuni [scil. il testo di Esiodo] –, infatti, la durata della vita umana è tale. Ma coloro che leggono “entrati nella pubertà”, d’accordo con Eraclito, fanno la generazione di trent’anni, periodo di tempo in cui l’individuo che ha generato presenta come generante quello che è stato generato da lui184.
Plutarco informa che Eraclito considerava la «generazione» (γενεά) un periodo di «trent’anni» (ἔτη τριάκοντα). Contro Cleombroto, Demetrio af-
183
Cf. Plutarco, De def. orac. 432 F, De esu carn. 995 E e Rom. 28. ἔτι δ᾽ αὐτοῦ λέγοντος Δημήτριος ὑπολαβών "πῶς" ἔφη "λέγεις, ὦ Κλεόμβροτε, γενεὰν ἀνδρὸς εἰρῆσθαι τὸν ἐνιαυτόν; οὔτε γάρ "ἡβῶντος" οὔτε "γηρῶντος", ὡς ἀναγιγνώσκουσιν ἔνιοι, χρόνος ἀνθρωπίνου βίου τοσοῦτός ἐστιν. ἀλλ᾽ οἱ μὲν "ἡβώντων" ἀναγιγνώσκοντες ἔτη τριάκοντα ποιοῦσι τὴν γενεὰν καθ᾽ Ἡράκλειτον, ἐν ᾧ χρόνῳ γεννῶντα παρέχει τὸν ἐξ αὑτοῦ γεγεννημένον ὁ γεννήσας. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 108 (b1), p. 758; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 506, pp. 393-398. 184
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ferma che il tempo della vita umana non può essere l’equivalente di un anno, in qualunque modo si legga il testo di Esiodo: per quelli che leggono «entrati nella pubertà» (ἡβῶντες), la generazione consiste in trent’anni, come secondo Eraclito. Attraverso il dialogo dei suoi personaggi, Plutarco si allinea dunque a Filone nell’attribuire a Eraclito la concezione della «generazione» come il periodo genealogico che intercorre tra un genitore e il figlio di quello generato da lui, cioè tra il nonno e il nipote. Nel seguito del passo, Clembroto, ribattendo a Demetrio, dirà: «l’anno che abbraccia in sé in un tutto unico l’inizio e la fine “di tutte le cose che le stagioni portano e la terra fa sbocciare” non è chiamato a sproposito “generazione” degli uomini?» (οὐκ ἐνιαυτὸς ἀρχὴν ἐν αὑτῷ καὶ τελευτὴν ὁμοῦ τι "πάντων ὧν φέρουσιν ὧραι γῆ δὲ φύει" περιεσχηκὼς οὐδ᾽ ἀνθρώπων ἀπὸ τρόπου γενεὰ κέκληται;) (De def. orac. 416 A). L’allusione alle «stagioni che portano tutte le cose» (ὥρας αἳ πάντα φέρουσι) è un implicito riferimento al frammento 100 DK di Eraclito, citato dallo stesso Plutarco in Quaest. plat. 1007 D-E. Dopo Filone, quindi, anche Plutarco attribuisce a Eraclito la concezione secondo cui il ciclo completo della generazione umana è legato a quello della vita cosmica, cioè ai cicli annuali, stagionali e mensili, che dipendono dal moto dei corpi celesti. Un’altra testimonianza sulla dottrina eraclitea della «generazione» si legge nel libricino del grammatico romano di III secolo Censorino, intitolato De die natali e redatto in occasione del genetliaco del suo protettore. Trattandosi di un opuscolo enciclopedico di natura compilativa, Il giorno natalizio non è uno scritto originale, ma una preziosa fonte di numerosi estratti di autori e opere dell’Antichità. Ispirandosi soprattutto a Varrone (I sec. a. C.), alla cosmologia e alla psicologia stoico-eclettica di epoca ellenistica e imperiale, ma anche a speculazioni pitagoriche e teorie medicali, Censorino tratta il tema della nascita dell’uomo e quello della ricorrenza di tale nascita, che rinviano entrambi alla questione della misurazione del tempo. Nella prima parte dello scritto, Censorino utilizza materiale dossografico, come dimostra la sezione che raccoglie le opinioni filosofiche e mediche sulle fasi della vita umana (De die nat. 14, 1 ss.). Poi segue una riflessione sul tempo, che secondo Censorino si distingue in non misurabile (aevum) e misurabile (tempus); quest’ultimo comprende ogni periodo che si può calcolare: secolo, lustro, anno, mese o giorno (De die nat. 16, 2 ss.). Seguendo l’ordine di durata decrescente, Censorino comincia a spiegare il concetto di secolo, a proposito del
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quale chiama in causa la concezione eraclitea (De die nat. 17, 2, p. 32 Sallmann = 22 A 19 DK; SVF I 133): Il secolo è il più lungo spazio temporale della vita umana, delimitato dal parto e dalla morte. Per questo sembra abbiano commesso un grave errore coloro che computarono il secolo di trent’anni. Eraclito, infatti, ha dato a questo periodo di tempo il nome di genea [= «generazione»], perché il ciclo dell’età [umana] è compreso in questo spazio temporale; e lo chiama “ciclo dell’età”, perché la natura torna da una semente umana a un’altra semente185.
Secondo Censorino, Eraclito avrebbe chiamato «generazione» (γενεά) il «ciclo dell’età (umana)» (orbis aetatis), vale a dire il periodo di trent’anni in cui un essere umano, generato dal seme paterno, genera a sua volta un figlio con il proprio seme. Nella lingua latina, il primo significato di saeculum è quello di generazione, che corrisponde all’incirca a trentatré anni e quattro mesi186, ma nell’accezione comune saeculum significa la più lunga durata della vita dell’uomo, vale a dire cent’anni. Censorino precisa allora ch’egli intende, con “secolo” il periodo, di cent’anni al massimo, che intercorre tra la nascita e la morte di un individuo, e con “generazione” il periodo, di trent’anni almeno, in cui un individuo può generare e quello generato da lui, generare a sua volta. E dopo aver illustrato il concetto di secolo, Censorino (De die nat. 18, 1) passerà a quello di «grande anno» (magnus annus), vale a dire il periodo impiegato dal sole, dalla luna e dai cinque astri erranti – i pianeti – per ritrovarsi tutti insieme nella stessa posizione in cui furono un tempo rispetto alle costellazioni fisse – i segni zodiacali. Censorino spiega che l’«inverno» (hiemps) di questo anno è un κατακλυσμός, che i latini chiamano «diluvio» (diluvium), mentre l’«estate» (aestas) corrisponde all’ἐκπύρωσις, vale a dire all’«incendio universale» (mundi incendium), poiché il mondo sembra «ora infuocarsi ora annacquarsi» (tum exignescere tum exacquescere) a fasi alterne. Sulla durata del grande anno, conclude Censorino (De die nat. 18, 11 = 22 A 13 DK), gli antichi si sono espressi in modo diverso: «Eraclito e Lino l’hanno computato di 10800
185 Saeculum est spatium vitae humanae longissimum, partu et morte definitum. Quare qui annos triginta saeculum putarunt multum videntur errasse. Hoc enim tempus genean vocari Heraclitus auctor est, quia orbis aetatis in eo sit spatio; orbem autem vocat aetatis dum natura ab sementi humana ad sementim revertitur. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 108 (b2), p. 758; Mour., op. cit., II.A.2 (2000), T 723, p. 608. 186 Cf. Cicerone, De Re publ. VI 24; Tito Livio, IX 18, 10.
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anni» (Heraclitus et Linus XDCCC)187. E’ dunque lecito pensare che, per Eraclito, questo è il periodo di tempo in cui la sostanza cosmica si trasforma in tutti i corpi e in tutti gli esseri fino a tornare allo stato primordiale di fuoco: un grande anno composto di 360 giorni – un anno solare – aventi ciascuno la durata di trent’anni – una «generazione» eraclitea –, per un totale di 10800 anni188. Più esplicito di Plutarco, Censorino attribuisce a Eraclito una concezione circolare del tempo della vita umana: un «ciclo dell’età» della durata di trent’anni, in cui l’inizio coincide con la fine, il padre con il figlio. Censorino conferma allora che, per Eraclito, l’unità dei contrari è quella della vita del cosmo, che è alternanza incessante di fasi uguali e opposte di mondo e fuoco, ma anche quella dell’uomo, che è un ciclico nascere e morire del generante nel generato. 9. La «generazione» (test. 19 DK) di Eraclito La testimonianza 19 DK non permette di ricostruire il testo eracliteo sulla «generazione» (γενεά), poiché i testimoni del detto forniscono resoconti indiretti contenenti reminiscenze approssimative della parola di Eraclito. La più antica delle fonti, Filone, è la più esplicita e la più dettagliata: in QG 2.5, commentando la misura dell’altezza dell’arca di Noè, l’Alessandrino illustra il significato del numero trenta con il riferimento alla concezione eraclitea della «generazione», un periodo di circa trent’anni. Filone spiega che, secondo Eraclito, la trentina è il ciclo di tempo che intercorre tra la nascita di un individuo e quella della sua discendenza indiretta: il figlio di suo figlio. Aezio (I sec.), nella dossografia che risale all’epoca di Filone, assimila l’antropologia di Eraclito a quella degli Stoici, in cui l’età della produzione del seme, come quella dell’albero, corrisponde al compimento del secondo settennio. Plutarco (I sec.) discute sulla durata della «generazione» (γενεά) di Esiodo, che potrebbe essere, come per Eraclito, il periodo di tempo in cui un individuo nasce, genera e assiste alla generazione di quello generato da lui; il grammatico romano Censorino (III sec.), afferma che Eraclito è stato il primo ad aver chiamato «generazione» (genea) il ciclo dell’età in cui la natura umana va e viene da un seme all’altro.
187 188
Cf. anche Aezio II 32, 3. Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., pp. 128 ss.
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Filone è dunque l’unico autore antico a precisare perché Eraclito ha definito «generazione» (γενεά) il periodo, di almeno trent’anni, in cui si compie il ciclo della vita-morte-rinascita dell’uomo. Se un uomo è considerato maturo quando emette il seme (quattordici anni), e diventa padre dopo circa un anno (quindici anni), la durata del ciclo generazionale equivale al doppio di questo periodo (trent’anni). Le fonti posteriori non contraddicono189, ma sembrano confermare la testimonianza di Filone, secondo cui Eraclito fa cominciare l’età della pubertà alla seconda ebdomada, e definisce «generazione» un ciclo che unisce e separa il nonno e il nipote. Con il supporto delle altre fonti, Filone induce a mettere in relazione la dottrina eraclitea con l’arcaica suddivisione della vita umana in periodi di sette anni o in sette età. Questa tradizione è attestata in Grecia a partire dal VII-VI secolo a. C. con il poeta e politico Solone190, ma ricorre anche negli scritti ippocratici191, come testimonia lo stesso Filone (Op. 104-105), che cita sia la parola soloniana sia il Peri hebdomadôn. Secondo Filone, infatti, il numero sette gode di un rango superiore rispetto agli altri, e il comandamento biblico di santificare il sabato trova spiegazione e giustificazione nella filosofia greca. L’Alessandrino adatta le teorie greche sul numero sette192 alla sua speculazione sull’eb-
189 Sulla differenza tra le testimonianze, invece, cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., Fr. 108, pp. 760 ss. Sul presunto errore di Filone, H. Fränkel, Heraclitus on the Notion of a Generation, «AJPh» 59/1 (1938), pp. 89-91. 190 Cf. Solone, fr. 27, 3 West. 191 Cf. Ippocrate (VIII 62 Littré) citato in Refutatio omnium haeresium V 7, 21. Si veda anche il Peri hebdomadôn dello pseudo-Ippocrate, un trattato quasi interamente perduto nell’originale greco (salvo una decina di capitoli), conservato in latino e arabo, dedicato al parallelismo tra antropologia e cosmologia sulla base del numero sette (fasi lunari, stagioni, venti, parti del corpo, etc.). Se W. Roscher (Die Hebdomadenlehre der griechischen Philosophen und Ärzte. Ein Beitrag zur Geschichte der griechischen Philosophie und Medizin, Leipzig 1906), legava il trattato ai Presocratici ionici (Anassimandro e Anassimene) e lo considerava anteriore al pitagorismo, facendolo risalire al VI-V secolo a. C., J. Mansfeld, The pseudo-Hippocratic Tract ΠΕΡΙ ΕΒΔΟΜΑΔΩΝ ch. 1-11 and Greek Philosophy, Assen 1971, rileva l’influenza dello stoicismo, e in particolare di Posidonio, e lo colloca nel I secolo della nostra era. Uno status quaestionis è fornito da M.L. West, The Cosmology of Hippocrates’ De hebdomadibus, «CQ» 21 (1971), pp. 365-388. 192 Cf. la testimonianza di Aristotele (Hist. an. 581 a 12 ss.) sul presocratico di VI-V secolo a. C. Alcmeone di Crotone (24 A 15 DK), secondo cui il maschio umano raggiunge la maturità al compimento del secondo settennio, vale a dire a 14 anni. Sul 7 come numero critico dei Pitagorici, cf. la dottrina attribuita al matematico pitagorico di V secolo Filolao di Crotone (44 B 20 DK), secondo cui il sette modifica lo stato del cosmo e dell’uomo scandendo le tappe fondamentali della loro vita, cioè determinando ogni volta un nuovo inizio in ambito astronomico, musicale o biologico.
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domada giudaica193, e ricorre alla concezione eraclitea della generazione per spiegare il valore del numero trenta – la misura dell’altezza dell’arca di Noè –, proprio a partire dal doppio di sette (quattordici), per arrivare al doppio di questo periodo di tempo (ventotto) con l’aggiunta dei due tempi di gestazione (trenta). Va comunque sottolineato che il termine e il concetto di ebdomada si trovano nel frammento 126a di Eraclito – facente parte dei testi spuri o dubbi –, relativo alle fasi lunari e alle stelle dell’Orsa maggiore e minore: «secondo il rapporto dei tempi [i.e. le fasi di sette giorni], l’ebdomada è riunita secondo la luna, mentre è divisa secondo le due Orse, costellazioni di memoria immortale» (κατὰ λόγον δὲ ὡρέων συμβάλλεται ἑβδομὰς κατὰ σελήνην, διαιρεῖται δὲ κατὰ τὰς ἄρκτους, ἀθανάτου Μνήμης σημείω). Filone è soprattutto l’unico testimone a stabilire un’analogia tra il ciclo dell’uomo e il ciclo lunare sulla base del numero trenta: come la luna compie la sua orbita celeste in un mese, vale a dire in trenta giorni circa, così l’uomo compie la sua “orbita” generazionale in un “mese” costituito di “giorni” che hanno ciascuno la durata di un anno, cioè in trent’anni; questo è ciò che Eraclito chiama «generazione». E se il ciclo lunare è il tempo necessario perché la luna riguadagni la stessa posizione rispetto alla terra e al sole, l’orbita “umana” è per Eraclito lo spazio temporale in cui un uomo nasce, muore e rinasce in un altro essere umano che continua lo stesso ciclo di vita-morte. Sfruttando la concezione eraclitea della generazione nella sua digressione aritmologica, l’Alessandrino suggerisce che, per Eraclito, i cicli della vita umana sono conformi a quelli della vita naturale, vale a dire al movimento dei corpi celesti nelle loro rotazioni e rivoluzioni spaziali che determinano i periodi temporali. Le fonti posteriori rivelano che Eraclito, fondando la sua cosmologia e la sua escatologia sul dato astronomico, concepisce il «grande anno» (10800 anni) come un anno i cui 360 giorni hanno ciascuno la durata di trent’anni: il periodo di una generazione umana194. È dunque possibile che il ciclo generazionale di Eraclito si conformi al ciclo mensile o lunare e somigli a ogni altro ciclo temporale – giornaliero o annuale –, e più generalmente al divenire cosmico concepito come un movimento e un mutamento di ogni natura da un opposto all’altro, secondo duplici fasi regolari e costanti. Come il giorno e la notte sono tutt’uno195, perché si 193 A proposito della speculazione giudeo-alessandrina sul numero sette, testimoniata già da Aristobulo, cf. R. Radice (1994), op. cit., cap. IV 3-4. 194 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., pp. 129 ss. 195 Cf. 22 B 57 e 106 DK.
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susseguono l’un l’altra, e le stagioni portano tutte le cose196, perché la loro successione si ripete ogni anno, così per Eraclito anche l’uomo si iscriverebbe in questo sistema di cicli naturali ritmati da uniche misure e tempi doppi. Filone mostra così la continuità e la rottura di Eraclito rispetto all’antica fisiologia greca dell’ebdomada, secondo cui l’uomo, come gli altri esseri animali e vegetali, raggiunge la maturità quando inizia a portare il seme ed è dunque in grado di fecondare una donna. Il parallelo più significativo è la testimonianza di Aristotele secondo cui il presocratico Alcmeone di Crotone (24 A 15 DK.) avrebbe sostenuto che «il maschio (umano) comincia in genere a produrre lo sperma per la prima volta a quattordici anni compiuti; allo stesso tempo compaiono anche i peli del pube, come anche le piante che, sul punto di dare semi, dapprima fioriscono» (φέρειν δὲ σπέρμα πρῶτον ἄρχεται τὸ ἄρρεν ὡς ἐπὶ τὸ πολὺ ἐν τοῖς ἔτεσι τοῖς δὶς ἑπτὰ τετελεσμένοις· ἅμα δὲ καὶ τρίχωσις τῆς ἥβης ἄρχεται, καθάπερ καὶ τὰ φυτὰ μέλλοντα σπέρμα φέρειν ἀνθεῖν πρῶτον). Non è chiaro se il paragone tra la maturazione dell’uomo e quella della pianta sia di Aristotele o della posteriore dossografia – dato che riappare nella testimonianza di Aezio su Eraclito e gli Stoici –, ma è del tutto plausibile che risalga al naturalismo presocratico. Sempre Aristotele (De caelo 280 a 11 ss.), dopo aver fatto riferimento a Empedocle ed Eraclito (22 A 10 DK), secondo cui il nostro mondo è ad un tempo incorruttibile e corruttibile, perché si trova ora in uno stato ora in un altro a fasi alterne, afferma che concepire il mondo eterno, ma soggetto a mutamenti di forma è «come se si credesse che l’individuo, che da fanciullo diventa uomo e da uomo fanciullo, ora perisce e ora esiste» (ὥσπερ εἴ τις ἐκ παιδὸς ἄνδρα γινόμενον καὶ ἐξ ἀνδρὸς παῖδα ὁτὲ μὲν φθείρεσθαι ὁτὲ δ᾽ εἶναι οἴοιτο)197. Filone e la tradizione aristotelica lasciano pensare che, per Eraclito, la «generazione» è il ciclo completo dell’età umana, in cui il bambino si fa uomo e procrea, e il bambino da lui procreato si fa uomo e, procreando a sua volta, torna a farsi bambino. Così il nonno rivive nel nipote: secondo un’antica credenza popolare greca, infatti, il nipote continua la vita del nonno, che riprende e ripete198. Sembra dunque che il ciclo cosmico eracliteo, cioè il duplice processo in cui l’unico fuoco si trasforma in tutto il mondo199, corrisponda non solo
196
Cf. 22 B 100 DK. Si vedano anche i contesti citatori dei frammenti 76 e 88 DK di Eraclito in Plutarco, De E ap. Delph. 392 C; Consol. ad Apoll. 106 E; De primo frig. 949 A. 198 Cf. Marc.-Mond.-Tar. (2007), op. cit., pp. 130, 167, 760 e 762. 199 Cf. 22 B 30 o 90 DK. 197
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al ciclo dell’anima che muore e nasce nell’acqua, ma anche al ciclo dell’essere umano che nasce e muore nella vita di un altro individuo. La prima fase va dalla nascita del bambino alla sua maturità: il momento in cui diviene uomo, cioè è capace di procreare grazie al liquido spermatico che comincia a produrre. Ma procreare significa ad un tempo donare la vita a un altro e la morte a se stesso, perché ogni essere umano muore procreando un suo simile e rinasce nella procreazione di questo. E proprio nel momento in cui un uomo procrea un altro uomo inizia la seconda fase, perché la pienezza della sua unità integrale si scinde a causa del generato; quando allora il generato genererà a sua volta, passando da figlio a padre, ecco che i contrari si identificano: la seconda fase finisce nello stesso punto in cui era iniziata la prima. Nei frammenti di Eraclito, infatti, il bambino si contrappone a e si identifica con l’uomo200, il figlio con il padre201, il giovane con l’anziano202 , perché ogni individuo vive nella morte di quello che lo genera e muore nella vita di quello generato da lui203. In questo senso, secondo Eraclito, l’essere umano genera un altro essere umano simile a sé e ad un tempo diverso da sé, quindi “muore” e “rivive” dall’altro e nell’altro: il bambino si fa uomo e torna a farsi bambino, il nonno diventa il nipote, “morendo” e “rinascendo” attraverso una duplice generazione. Se per Eraclito le anime muoiono e vivono quando si trasformano in acqua ed esalano dalle sostanze bagnate204, il liquido spermatico è ciò che produce la vita e determina la morte di un individuo. Eraclito deve aver pensato che, nella procreazione, l’uomo cede parte della sua vita creando una nuova vita205, e si divide in due per ricostituire l’unità originaria, perciò procreare significa sia vivere sia morire206. L’uomo genera un figlio, diventando padre, e quando suo figlio diviene padre generando anch’egli un figlio, il cerchio si chiude: ecco un altro esempio di quell’unità dei contrari su cui riposano la cosmologia, la psicologia e l’antropologia eraclitea. Questa sembra essere l’orbita
200
Cf. 22 B 79 e 117 DK. Cf. 22 B 20 e 74 DK. 202 Cf. 22 B 88 DK. 203 Cf. 22 B 36, 62, 76 e 77 DK. 204 Cf. 22 B 36 e 12 DK. 205 Cf. 22 B 20 DK. 206 Cf. J. Bels, La procréation de Platon à Héraclite. Note sur le refus d’une influence, «RSPhTh» 69 (1985), pp. 400-408; Id., La procréation dans la pensée d’Héraclite, «RPh» 176 (1986), pp. 31-37. 201
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dell’età umana, che Eraclito chiama «generazione»: uno spazio temporale, unico e doppio, ascendente e discendente207, rettilineo e circolare208, in cui principio e fine si uniscono e si identificano209.
207 208 209
Cf. 22 B 60 DK. Cf. 22 B 59 DK. Cf. 22 B 103 DK.
APPENDICE. FILONE E I PRESOCRATICI
Se Eraclito è uno dei Presocratici più citati nel corpus philonicum, l’Alessandrino fa anche riferimento a Senofane, menzionato con i “poeti-teologi” Parmenide ed Empedocle1, cita qualche verso del poeta Epicarmo sull’uomo peccatore2 – oltre a versi di Omero, Esiodo, i tragici, Pindaro, Teognide e Menandro3 –, ma anche il detto dell’eleatico Zenone sull’uomo onesto4, e attribuisce un testo sul numero sette al pitagorico Filolao, fraintendendo peraltro la fonte di cui si serve5. Democrito (di Abdera) è chiamato in causa in diversi luoghi filoniani, ma più per la sua vita leggendaria che per la sua dottrina filosofica. In Cont. 14-15 e in Prov. 2.13, Filone loda Democrito che ha rinunciato al patrimonio di famiglia per dedicarsi alla vita contemplativa, dimostrandosi superiore alle ricchezze materiali e acquisendo la vera ricchezza spirituale, quella dell’uomo retto e giusto6. Che Democrito fosse stato un ricco proprietario terriero convertitosi alla filosofia è un luogo comune dell’insegnamento scolare di I secolo a. C. che si ritrova, ad esempio, in Cicerone7. L’unico riferimento di Filone al
1
Cf. Prov. 2.39 e 42 (= 21 A 26 DK). Cf. QG 4.203 (= 23 B 46 DK). 3 Cf. Index nominum et notarum, PLCL, t. X. 4 Cf. Prob. 14 (= 29 A 18 DK). 5 Cf. Opif. 100 (= 44 B 20 DK). Per un’analisi dettagliata della testimonianza di Filone, rinviamo a C.A. Huffman (ed.), Philolaus of Croton Pythagorean and Presocratic. A Commentary on the Fragments and Testimonia with Interpretative Essays, Cambridge 1993, pp. 335-339. 6 In Cont. 14 (= 68 A 15 DK) Democrito è associato ad Anassagora, che rifiutò i beni di proprietà in nome della filosofia; in Prov. 2.13 (= 68 A 14 DK) è detto che, grazie alla benevolenza di Ippocrate di Cos, Democrito ebbe degna sepoltura. 7 Cf. Cicerone, Tusc. Disp. V 39, 114-115 e De Fin. V 29, 87, ma anche Orazio, Ep. I 12, 12-13, come segnala F. Daumas (ed.) in PAPM, op. cit., vol. 29 (1963), p. 87, n. 4. 2
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pensiero del Presocratico è quello che leggiamo nel De aeternitate mundi (8)8, in cui è detto che Democrito, seguito da Epicuro e da molti Stoici, sostiene che il mondo è soggetto a generazione e corruzione, e come gli Epicurei, postula una pluralità di mondi la cui formazione dipende da interazioni e congiunzioni di atomi, e la cui dissoluzione, da collisioni e repulsioni di esseri formati. Filone non cita dunque nessun testo di Democrito, ma seguendo una prassi alessandrina – e forse giudeo-alessandrina –, riduce le opinioni sull’eternità del mondo a tre posizioni principali, la prima delle quali è rappresentata dai filosofi “materialisti” – di epoca sia arcaico-classica sia ellenistica – che hanno insegnato la corruttibilità del cosmo. Rifiutando anche la posizione pitagorico-aristotelica e schierandosi dalla parte di Mosé, Esiodo e Platone, Filone difende invece la tesi cosmologica e teologica dell’incorruttibilità del mondo creato da Dio. Ma con Eraclito, Empedocle è sicuramente il Presocratico che Filone conosce e utilizza maggiormente. Una citazione, senza menzione di Empedocle, figura all’inizio del proemio dello stesso trattato sull’incorruttibilità del mondo. Filone precisa innanzitutto i diversi significati dei termini “corruzione” e “mondo”, a cominciare da quest’ultimo; poi continua (Aet. 5 = 31 B 12 DK): «Si dice invece corruzione o un cambiamento in peggio, o una distruzione totale dell’essere, e questo è impossibile, bisogna riconoscerlo. Come infatti dal non essere nulla si genera, così nulla si corrompe nel non essere; “perché è impossibile che nasca qualcosa da ciò che non esiste in nessun luogo, e che ciò che esiste perisca, è irrealizzabile e incredibile”» (λέγεται μέντοι καὶ φθορὰ ἥ τε πρὸς τὸ χεῖρον μεταβολὴ [λέγεται δὲ] καὶ ἡ ἐκ τοῦ ὄντος ἀναίρεσις παντελής, ἣν καὶ ἀνύπαρκτον ἀναγκαῖον λέγειν· ὥσπερ γὰρ ἐκ τοῦ μὴ ὄντος οὐδὲν γίνεται, οὐδ᾽ εἰς τὸ μὴ ὂν φθείρεται· "ἔκ τε γὰρ οὐδάμ᾽ ἐόντος ἀμήχανόν ἐστι γενέσθαι [τι] καί τ᾽ ἐὸν ἐξαπολέσθαι ἀνήνυστον καὶ ἄπυστον"). Che si tratti di un frammento di Empedocle, lo dimostra il paragone con lo pseudo-Aristotele, che nel De Melisso, Xenophane et Gorgia 2, 6 (975 b1) cita i due versi dati da Filone, cui aggiunge un terzo: «sempre infatti sarà dove, di volta in volta, si voglia che sia» (αἰεὶ γὰρ τῆι γ᾽ ἔσται, ὅπηι κέ τις αἰὲν). Il confronto delle due fonti conferma una tendenza parzialmente peripatetica del trattato sull’eternità del mondo, la cui attribuzione a Filone – come si diceva – è ancora discussa. Il frammento di Empedocle sull’impossibile generazione o corruzione dal e nel non essere è
8 Il passo filoniano è assente da Diels-Kranz, ma figura nella recente edizione a cura di W. Leszl, I primi atomisti. Raccolta dei testi che riguardano Leucippo e Democrito, Firenze 2009, p. 242.
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stato dunque utilizzato in argomenti cosmologici, di scuola aristotelica, sulla generazione e corruzione del mondo. Il nome di Empedocle ricorre ben tre volte nel trattato filosofico De Providentia, a proposito della genesi delle diverse parti del cosmo per separazione da un unico tutto. In Prov. 2.60 (= 31 A 49 DK) – passaggio non conservato nell’originale greco –, Filone afferma che, secondo Empedocle, dopo la separazione dell’etere (postquam enim secretus est aether), il fuoco e l’aria volarono via (aer et ignis … volaverunt); il fuoco si aggregò nei raggi del sole (ignis … in radios solis coacervatus est), mentre la terra si compattò e si posizionò al centro del mondo (terra vero in unum concurrens … in medio apparens consedit)9. I quattro elementi costitutivi dell’universo sono dunque disposti da Empedocle concentricamente, con la terra al centro, circondata dall’acqua, a sua volta circondata dall’aria e questa dall’etere: la terra diviene allora il punto fisso attorno al quale ruota il cielo, mentre l’etere comprende la sfera dell’aria e del fuoco10. Secondo Alessandro, l’interlocutore di Filone, un tale ordine non ha niente a che fare con la Provvidenza divina, ma deriva da una semplice necessità naturale per cui il leggero viene a «essere sospinto» (pelli) verso l’alto dal pesante11. Se si mettono sabbia e olio in acqua – continua Alessandro –, la sabbia cadrà sul fondo e l’olio salirà in superficie, mentre l’acqua resterà al centro: la stessa cosa avviene per le parti dell’universo, secondo Empedocle. Come è stato notato, la versione latina del passo pare tradire l’armeno secondo cui l’etere, dopo essersi separato, fu sollevato dal vento e dal fuoco, e così diventò il vasto cielo che circonda tutto; in seguito il fuoco, rimasto nella parte inferiore del cielo, crebbe fino a diventare i raggi del sole12 . Il passo è
9 Gli editori Diels-Kranz (cf. tr. it. I Presocratici (2006), op. cit., pp. 604-607) danno il testo latino di Aucher, modificato da Conybeare, i cui suggerimenti e le cui proposte si trovano in P. Wendland, Philos Schrift über die Vorsehung, Berlin 1892, pp. 64-65. 10 Le «molte sfere» (sphaeras multas) di cui parla Filone, lungi dall’essere un’invenzione alessandrina o un’interpretazione ellenistica, esistono davvero nel sistema di Empedocle, e sono precisamente: l’etere (mescolato al fuoco), i due emisferi, diurno (fuoco puro) e notturno (aria mescolata ad acqua e fuoco), la terra, assieme agli altri elementi, con il mare. L’Alessandrino riconduce tuttavia l’aggiustarsi delle varie sfere alla causa teleologica, e non meccanica, vale a dire alla forza dell’Amore, attribuendo anche la forma sferica della terra e il movimento circolare degli emisferi al principio divino. Cf. J. Bollack (ed.), Empédocle (1992), op. cit., vol. III, p. 220-224. 11 Si veda anche la traduzione di M. Hadas-Lebel (ed.), De Providentia (I et II), in PAPM, op. cit., vol. 35 (1973), pp. 288-289. 12 Cf. P. Kingsley, Ancient Philosophy, Mystery, and Magic. Empedocles and Pythagorean Tradition, Oxford 1995, pp. 20-23.
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stato anche considerato una citazione empedoclea data dal traduttore armeno, e non una parafrasi di Filone13. In effetti, Empedocle sembra descrivere una tempesta di elementi che si verifica quando questi si separano durante la formazione del mondo14: le testimonianze in nostro possesso parlano proprio di raffiche di fuoco e vento, che è aria in movimento e mescolata ad altro15. Il resoconto di Filone, dunque, è non solo simile a quello delle altre fonti, ma anche più dettagliato: spiegando la formazione del cielo dall’etere, e la formazione del sole dal fuoco, quindi la distinzione dell’etere dal fuoco, l’Alessandrino si allinea ai Placita attribuiti ad Aezio (II 6, 3 = 31 A 49 DK), secondo cui Empedocle sostiene che l’etere si separa per primo, poi il fuoco, dopodiché la terra da cui sgorga l’acqua da cui esala l’aria. Il contributo personale di Filone è la precisazione che le vampate di fuoco e vento non sono solo il risultato della distinzione iniziale dall’unico caos, ma hanno un ruolo attivo in tale separazione, perché soffiano l’etere purificato al di sopra degli altri elementi16. In Prov. 2.61 (= 31 A 66 DK), Filone continua il suo resoconto sulla dottrina empedoclea dicendo, a proposito del mare, che l’acqua diventa dapprima sabbiosa, poi si disegna il bordo della riva per la concentrazione di terra (concretum est id quod erat in extremitate orae) e si definiscono le altre parti della crosta terrestre; tutte le acque che si trovano in superficie, infatti, vengono spinte nelle cavità della terra dal soffio dei venti (a ventis ... flantibus). Come è stato rilevato17, anche il seguito del passo, ignorato dagli editori, contiene materiale empedocleo, e precisamente la duplice affermazione secondo cui l’umidità che si eleva dalla terra diviene acqua (quae ex terra defluit humiditas, aqua est facta), e similmente il vapore che esala dall’acqua e dalla terra diviene aria (similiter et aer vapor exhalatus ab aqua terraque). L’origine dell’acqua dalla terra e dell’aria dall’acqua sono punti della dottrina di Empedocle, mentre la fonte di Filone aggiunge, interpretando, che ciò avviene perché gli elementi materiali si trasformano necessariamente l’uno nell’altro. Si tratta probabilmente di una fonte dossografica che doveva rendere conto della teoria empedoclea della distinzione delle varie parti del mondo. I paralleli più prossimi, infatti,
13 Cf. B. Inwood (ed.), The Poem of Empedocles: a Text and Translation with an Introduction, Toronto 1953, 2001 (revised edition), pp. 106-107. 14 Cf. D. O’Brien, Empedocles’ cosmic Cycle, Cambridge 1969, pp. 47-50, 268-272. 15 Cf. Tzetzes, Exeg. in Iliad., pp. 41, 14 ss. Hermann; Plutarco, De esu carn. 993 E. 16 Cf. P. Kingsley (1995), op. cit., p. 22. 17 Cf. P. Kingsley (1995), op. cit., pp. 31-33.
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sono Aezio (31 A 66 DK) e/o lo pseudo-Plutarco (31 A 30 DK), che riassumono e schematizzano la dottrina di Empedocle sulla separazione degli elementi, la costituzione dei due emisferi, la nascita del sole e della luna, e la formazione della crosta terrestre18. Filone è tuttavia un testimone importante per comprendere la distinzione empedoclea tra l’etere, vale a dire il cielo che ci sovrasta e il soffio che respiriamo, e l’aria, cioè il vapore e la nebbia che esalano dalla terra e dall’acqua19. In un passo successivo dello stesso trattato (Prov. 2.70 = 31 B 43 DK), il personaggio di Alessandro ritiene assurdo pensare che la luna riceva la luce del sole per effetto della Provvidenza, e si chiede se la luna non rifletta, invece, come uno specchio, la forma che si presenta ad essa. «Come diceva Empedocle: “Il globo grande e ampio della luna, ricevendo la luce, si è subito rivolto indietro per raggiungere il cielo correndo”» (Quemadmodum Empedocles: “ lumen accipiens lunaris globus magnus largusque mox illico reversus est ut currens caelum attingeret”). Tuttavia, sembra che Filone non citi letteralmente Empedocle, come invece Plutarco (31 B 42 DK), accettando la supposizione di Empedocle secondo cui la luce della luna che giunge sulla terra è solo un riflesso del sole. Secondo Plutarco, come l’eco delle voci è un suono più smorzato dell’originale, «così il bagliore colpendo l’ampio cerchio della luna» (ὣς αὐγὴ τύψασα σεληναίης κύκλον εὐρύν) – dice Empedocle – giunge a noi come un riflesso indebolito. L’idea sarà poi condivisa dagli Stoici, come testimonia Diogene Laerzio (VII 145) informando che, per i filosofi del Portico, la luna non brilla di luce propria, ma riceve il suo chiarore dal sole che la illumina 20. La dossografia degli Aetiana (31 A 59-60 DK) testimonia che, secondo Empedocle, il sole si eclissa perché la luna, che è una concrezione di aria, passa sotto di esso ostacolando i 18 Secondo gli editori Diels-Kranz, anche Gig. 7 ss., in cui Filone afferma: τῶν πρώτων καὶ στοιχειωδῶν μερῶν ἑκάστου τὰ οἰκεῖα καὶ πρόσφορα ζῷα περιέχοντος, γῆς μὲν τὰ χερσαῖα, θαλάττης δὲ καὶ ποταμῶν τὰ ἔνυδρα, πυρὸς δὲ τὰ πυρίγονα… («ciascuna delle sue [scil. del mondo] parti prime ed elementari contiene gli esseri viventi propri e adatti ad essa: la terra i viventi terrestri, il mare e i fiumi quelli acquatici, il fuoco quelli generati dal fuoco…»), è una reminiscenza di Empedocle, poiché Aezio V 19, 5 (= 31 A 72 DK) testimonia che τῶν δὲ ζώιων πάντων τὰ γένη διακριθῆναι διὰ τὰς ποιὰς κράσεις· τὰ μὲν οἰκειοτέραν εἰς τὸ ὕδωρ τὴν ὁρμὴν ἔχειν, τὰ δὲ εἰς ἀέρα ἀναπτῆναι, ὅσ᾽ ἂν πυρῶδες ἔχηι τὸ πλέον, τὰ δὲ βαρύτερα ἐπὶ τὴν γῆν,… («di tutti i viventi poi si distinsero i generi secondo le mescolanze qualitative: gli uni avevano più familiare l’impulso verso l’acqua; gli altri, invece, quanti avevano prevalenza di elemento igneo, si alzarono in volo verso l’aria; i più pesanti scendevano verso la terra…»). 19 Cf. P. Kingsley (1995), op. cit., p. 35. 20 Sempre secondo Diogene Laerzio (X 95), Epicuro non sapeva invece se la luna godesse di luce propria o riflessa.
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suoi raggi luminosi e, bloccandoli, oscura la terra. Rispetto a Plutarco, quindi, Filone fa riferimento alla dottrina empedoclea della luce che la luna riceve dal sole, ma anche alla rotazione della luna, cioè ai suoi cicli celesti. E ancora, in un’altra sezione del trattato, conservata in greco da Eusebio di Cesarea (Praep. Ev. VIII 14, 2, 3-42, 4), Filone evoca un verso empedocleo appartenente a un frammento restituito parzialmente e diversamente da Proclo, Sinesio e Ierocle (31 B 121 DK)21. Elogiando Socrate e tutti i saggi che, rifiutando le ricchezze, scelsero una vita di povertà alla ricerca dei veri beni22 , Filone (Prov. 2.24) afferma che il male è una malattia contagiosa. Quando cade la pioggia, infatti, il saggio si bagna, quando il vento soffia, sente freddo, e nel pieno dell’estate, ha caldo, perché i corpi umani subiscono gli effetti dei cambiamenti stagionali; «allo stesso modo, colui che abita quei luoghi “in cui ci sono uccisioni e tribù di altre disgrazie” deve necessariamente pagare il tributo che essi infliggono» (τὸν αὐτὸν τρόπον τὸν ἐν τοῖς τοιούτοις χωρίοις ἐνοικοῦντα, “ἔνθα φόνοι” τελοῦνται23 τε “καὶ ἄλλων ἔθνεα κηρῶν” ἐναλλάττεσθαι τὰς ἀπὸ τῶν τοιούτων τιμὰς ἀναγκαῖον). Le «uccisioni» (φόνοι) e le «tribù di altre disgrazie» (ἄλλων ἔθνεα κηρῶν) di cui parla Filone sono un’evidente ripresa del verso di Empedocle, «dove ci sono uccisione e rancore e tribù di altre disgrazie» (ἔνθα Φόνος τε Κότος τε καὶ ἄλλων ἔθνεα Κηρῶν) – che fa riferimento al paese senza gioia, cioè alla terra, luogo dell’erranza infelice del demone decaduto24 –. Questo verso godrà di grande fortuna tra i filosofi neoplatonici25 che hanno ricorso sia ai Pre-platonici sia ai Medio-platonici, pure confondendo gli uni con gli altri26. Ciò significa
21 La testimonianza di Filone non compare nei Vorsokratiker di Diels-Kranz (1951-526), né nell’Empédocle di J. Bollack (1965-69, 1992). 22 In Prov. 2.12-13, Filone faceva già riferimento al disinteresse di Anassagora e Democrito per i beni; il disinteresse di Socrate ritorna anche in Deus 146 e Plant. 65. 23 Superflua è la correzione di Stephanus, adottata da Marcus (cf. vers. ingl.): φόνοι λιμοί τε. 24 Cf. 31 B 115 DK e la brillante ricostituzione de M. Rashed, Le Proème des Catharmes d'Empédocle, «Elenchos», 29 (2008/1), pp. 7-37, soprattutto pp. 26-27. 25 Cf. anche Giovanni Lido, Mens. IV, 159, 151. 26 Una testimonianza interessante è quella di Proclo (In Crat. CLXXIV 97, 21 ss. Pasquali) che, considerando il mondo della materia come il regno della morte e di tutte le malattie, giustappone il frammento di Empedocle (31 B 121 DK) e i versi degli Oracoli caldaici (fr. 134 des Places) restituiti dal manoscritto Parisinus gr. 1853 (fol. 68 r°). Proclo (In Tim. III 325, 28 ss. et In Remp. II 156, 17-18 ; 157, 24 ss.) ha infatti l’abitudine di associare le parole di Empedocle a quelle dell’oracolo, ma lo studio comparativo delle fonti dimostra che il verso αὐχμηραί τε νόσοι καὶ σήψιες, ἔργα τε ῥευστά («malattie che disseccano, decomposizioni e dissoluzioni») deve essere ritirato a Empedocle e reso agli Oracoli caldaici, artefatto
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che, ben prima di Ierocle, il verso circolava in ambiente alessandrino ed era utilizzato in argomenti filosofici sui mali pestilenziali della vita terrestre e sulle malattie del corpo mortale. Rispetto alle altre fonti, Filone non menziona Empedocle e cita questo solo verso, sicuramente noto nella sua comunità, per mettere in guardia il saggio dal contagio della malvagità, la peggiore delle epidemie, e per raccomandargli implicitamente di non frequentare luoghi e persone maligne. In conclusione, se Eraclito è commentato e messo a profitto in diversi luoghi del corpus philonicum, molti dei quali sono esegetici, Filone ricorre ad altri filosofi presocratici soprattutto negli scritti filosofici, dialettici o disputatori, destinati a un vasto pubblico di lingua greca e cultura classica; tra questi, il Presocratico più citato è Empedocle. L’Alessandrino utilizza la parola e la dottrina empedoclea in trattati sulla Provvidenza divina o sulla generazione e corruzione del mondo, in argomenti sia fisici sia etici, ma anche ontologici, impiegando materiale di diverso tipo e provenienza. Lo studio comparativo delle testimonianze rivela infatti che, ricorrendo alla teoria empedoclea della distinzione e disposizione degli elementi al momento della formazione del mondo, Filone usa probabilmente una fonte dossografica, mentre deve aver avuto in testa o sotto mano il testo di Empedocle – o una collezione di testi – per citarlo a proposito della forma, del movimento e della luce della luna, della generazione e della corruzione in ciò che non esiste, del luogo malvagio in cui abita l’uomo. Tutto ciò induce a concludere che, come Eraclito, anche Empedocle ebbe grande fortuna nell’Alessandria di Filone, in cui circolavano sia scritti originali sia raccolte di Placita, e dove l’insegnamento filosofico – un platonismo tinto di aristotelismo e stoicismo – dava ampio spazio, oltre a Pitagora, ad altri sapienti pre-platonici.
letterario di epoca medioplatonica (II sec.). Cf. H.D. Saffrey, Nouveaux Oracles chaldaïques dans les scholies du Paris. Gr. 1853, «Revue de Philologie» 43 (1969), pp. 59-72, ora in Id, Recherches sur le néoplatonisme après Plotin, Paris 1990, pp. 81-94, spec. pp. 64 ss.
CONCLUSIONI
La testimonianza di Filone su Eraclito si colloca agli inizi dell’epoca filosofica detta “medioplatonismo”, il platonismo posteriore alla scomparsa dell’Accademia platonica (I sec. a. C.), caratterizzato da un recupero del pitagorismo e dall’alleanza con il Peripato e la Stoà – contro le istanze evidentemente scettiche dell’Accademia di età ellenistica –, cioè dalla ripresa della tradizione platonica nel senso più ampio della dottrina e dell’insegnamento di Platone, che include sia i “maestri” come Pitagora sia i “discepoli” come Aristotele e gli Stoici. Le molteplici e differenti manifestazioni di questo periodo filosofico, che rappresenta la prima fase di esegesi “spirituale” nella storia della filosofia antica, sono state solo parzialmente lumeggiate e rimangono ancora avvolte nell’oscurità. Come è stato detto, «we know much less than we like about developments in philosophy in the period from 50 BCE to 100 CE. It is the obscurest period in the entire history of ancient philosophy»1. Sebbene Filone non sia un filosofo stricto sensu, ma un esegeta allegorista dei testi rivelati che si esprime con concetti prevalentemente platonici ma attraverso una terminologia e procedure marcatamente stoiche, lo studio dei contesti filoniani in cui sono citati i testi di Eraclito rivela la notevole influenza esercitata su di lui dal medioplatonismo incipiente. La filologia e la filosofia alessandrina di I secolo a. C.-I secolo d. C., di cui Filone riflette il lavoro critico e le speculazioni teoriche, è la prima manifestazione della riscoperta, dell’interpretazione e dell’armonizzazione della sapienza pre-platonica – poetica e filosofica – che costituisce la base teologica del platonismo della tarda Antichità, dell’apologetica cristiana, dei sistemi gnostici e della letteratura ermetica. La pratica alessandrina di ornare i trattati lette-
1
Cf. J. Mansfeld and D.T. Runia (1997), op. cit., pp. 321-322.
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CONCLUSIONI
rari con citazioni dotte, tratte da celebri autori arcaici, è un retaggio delle scuole ellenistiche di retorica; a questi adagi o aforismi puramente decorativi o efficacemente persuasivi si aggiungono le citazioni che, invece, documentano avvenimenti o descrivono realtà e hanno quindi una funzione pedagogica, e quelle che, infine, servono all’autore per sviluppare il proprio pensiero e fanno parte integrante della sua argomentazione. Tipica del platonismo alessandrino dell’epoca di Filone, appunto, è l’esegesi del “divino” Platone attraverso la parola dei suoi “divini” predecessori – ivi incluso Eraclito –, le cui antiche e sacre dottrine sono considerate implicite o sottintese nei dialoghi platonici. Ben poco sappiamo, tuttavia, della presenza e della conoscenza di Eraclito nell’Alessandria pre-filoniana, e ancora meno del suo studio nei circoli degli Ebrei ellenizzati. Le fonti maggiori dei testi eraclitei, Clemente Alessandrino, la Refutatio omnium haeresium e Plutarco, testimoniano la diffusione e l’utilizzo della parola e della dottrina di Eraclito nell’insegnamento e negli scritti di apologisti e filosofi platonizzanti, in dialogo o in conflitto tra loro e con le scuole di pensiero ellenistiche, e dunque l’interesse per Eraclito e l’eraclitismo negli ambienti tanto cristiani quanto pagani di I-III secolo d. C. Ma testimone dell’Heraclitus redivivus è già Filone all’alba della nostra era, e lo studio della testimonianza filoniana è un apporto scientifico considerevole alla storia della trasmissione e della ricezione degli Heraclitea. Il massimo esponente del giudaismo ellenistico, convinto della conformità e della convergenza della parola di Mosé con il pensiero di Platone – ma anche della superiorità dell’autore del Pentateuco e della rivelazione biblica –, è una fonte antica e nuova di Eraclito: “antica”, perché Filone rappresenta spesso la prima testimonianza storico-letteraria2 di testi e concezioni eraclitee attestate da fonti posteriori, e “nuova”, perché l’Alessandrino fornisce inedite allusioni alla parola e alla dottrina di Eraclito: quelle che sono state scoperte e analizzate nel corso di questa ricerca3. Platone, che è il primo grande testimone di Eraclito, e i Platonici di epoca cristiana, che ne sono i testimoni principali, dimostrano che la filosofia eraclitea è affine sia alla scienza ionica sia alla religione orficopitagorica di V secolo a. C., ma allo stesso tempo è differente da entrambe e indubbiamente originale. Sia Platone sia i Medioplatonici, infatti, colgono la 2
In alcuni casi, come Aet. 111 o Prov. 2.109, Filone cita anche letteralmente Eraclito. Cf. Gig. 14, Her. 53, Jos. 136, Ebr. 12, Deo 10, QG 1.70, QG 4.46, QG 4.240, oltre a passaggi già segnalati da qualche studioso, ma assenti dalle edizioni maggiori di Eraclito, come QG 2.12 o Cont. 28, e testi non commentati dagli specialisti di Eraclito (e mai tradotti in italiano) come QG 1.81. 3
CONCLUSIONI
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portata fisica e metafisica del discorso di Eraclito, così come Filone, che lo mette al servizio della sua interpretazione allegorica della Scrittura. Di qui la costituzione di un inevitabile circolo ermeneutico. Ciò non può e non deve indurre a considerare Eraclito alla stregua di un filosofo proto-platonico o di un teologo post-mosaico. I contesti citatori di Filone contengono elementi utili a compilare una più documentata storia dello scritto e del pensiero di Eraclito, se messi in relazione – come si deve – con le altre testimonianze dirette e indirette, ma anche e soprattutto con gli altri frammenti eraclitei e con gli altri testi presocratici. Dopo Platone e Aristotele, gli Stoici e gli Scettici, ma prima degli autori cristiani e dei filosofi neoplatonici, la testimonianza filoniana permette di uscire dalla dottrina eraclitea per poi entrare nuovamente in essa forti di strumenti di critica filologica, filosofica e storica più efficaci per coglierne la portata scientifico-religiosa. Passando per Filone si può dunque tornare a riflettere su Eraclito. Nella maggior parte dei casi, Filone cita e commenta Eraclito isolatamente, non assieme ad altri Presocratici, e ciò induce a pensare che si serva di un florilegio di testi eraclitei, se non addirittura di una delle molteplici copie dello scritto originale e integrale di Eraclito. D’altronde, se Clemente di Alessandria poteva disporre di una di queste riproduzioni – come suggerisce la quantità e la qualità date dall’apologista cristiano4 –, non si può escludere che Filone, nella stessa Alessandria dello storico museo e dell’immensa biblioteca, ma un secolo e mezzo prima, abbia avuto direttamente accesso al discorso di Eraclito Sulla natura. L’esistenza di una compilazione antologica di autentiche sentenze, infatti, è discutibile: il libro di Eraclito doveva essere relativamente breve – un solo rotolo di papiro o volumen arcaico, l’equivalente di un breve canto omerico5 – e il progetto di abbreviarlo ulteriormente non avrebbe avuto molto senso. Possibile, invece, è l’esistenza di una Syllogê Heraclitea, di epoca ellenistica o tardo-antica, contenente citazioni e parafrasi eraclitee di seconda mano, cioè una collezione di testi letterari circolante ad Alessandria quando l’opera origi-
4 Simplicio (VI sec.), ad esempio, che pure rappresenta la migliore fonte di importanti Presocratici, e che afferma di possedere copie di rari testi filosofici di epoca arcaica, come il trattato di Parmenide (In Phys. 144, 25-29 Diels), dimostra di non leggere lo scritto originale di Eraclito. Cf. D. Sider (2009), art. cit., pp. 443-447. 5 S.N. Mouraviev, in DPhA, vol. III (2000), s.v. Héraclite d’Éphèse, p. 598.
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CONCLUSIONI
nale era ancora accessibile6. Questa ipotesi sarebbe confortata, ad esempio, dalla variante di un testo di Eraclito citata solo da Filone e da Ierocle di Alessandria, che non dipende direttamente da lui. Come che sia, l’Alessandrino fornisce un materiale troppo vario e troppo dettagliato per aver lavorato solo sulla base dei cosiddetti Placita, le raccolte di opinioni dei filosofi antichi, fisiche ed etiche (ma anche logiche), raggruppate per argomento o per scuola. In qualche caso, tuttavia, Filone, senza fare nomi, associa le parole di Eraclito a quelle di altri poeti o sapienti, come Euripide, quasi utilizzasse, invece, materiale dossografico, simile a quello utilizzato da Aezio, ma anteriore7. Ciò si evince anche dall’esame delle testimonianze filoniane su altri Presocratici, come Empedocle, di cui Filone, in un trattato filosofico come il De Providentia, fornisce sia citazioni letterali sia resoconti schematici. Va tenuto presente, infine, che non solo il filosofo neopitagorico Eudoro era alessandrino, ma collezioni dossografiche di matrice peripatetica, rielaborate in ambito accademico-scettico, circolavano ad Alessandria, assieme a manuali sulle scuole di pensiero e sulle successioni dei filosofi. È dunque del tutto plausibile che Filone abbia avuto a disposizione diversi tipi di fonti, dirette e indirette, e che si sia servito di esse in modo diverso, leggendole al momento, citandole a memoria o rielaborando appunti presi in precedenza. Questo studio ha rivelato che i riferimenti filoniani a Eraclito non hanno tutti lo stesso valore, ma si pongono su piani distinti e operano a differenti livelli. Filone menziona esplicitamente Eraclito quando il suo scopo è mostrare l’accordo tra Sacra Scrittura e filosofia greca, cioè quando ha bisogno di appoggiarsi a un’autorità antica e insigne per legittimare le sue interpretazioni allegoriche o sviluppare i propri argomenti filosofici, anche rigettando posizioni scolastiche solide e affermate. E ancora, Filone cita letteralmente il testo eracliteo quando questo si presta perfettamente all’uso che vuole farne, come il frammento sulla morte delle anime che prova l’immortalità del mondo; altrimenti, l’estratto eracliteo è reciso, parafrasato o comunque modificato. Paradossalmente, dunque, il ricorso esplicito a Eraclito indica che Filone lo sta usando in modo soggettivo, come quando intende mostrare che la dottrina eraclitea dei contra-
6 Cf. D. Sider (2009), art. cit., pp. 456-457, che pensa a un tentativo di ricostituzione dell’opera eraclitea, cioè a una compilazione di epoca tarda come i Teognidea o la Syllogê Simonidea, che comprendono anche testi spuri. 7 Questa è la conclusione di D.T. Runia, Philo and Hellenistic Doxography, in J. Mansfeld and Id., Aëtiana, op. cit., vol. III (2009), chap. 11, pp. 271-312, spec. 307-308.
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ri è enunciata nel testo della Genesi. Sovente, invece, l’Alessandrino nutre il suo giudaismo ellenistico di concezioni filosofiche che sono già la rielaborazione e la reinterpretazione di espressioni eraclitee, come l’ossimoro “morire la vita”. Nel primo caso, dunque, Filone nomina Eraclito, di cui si serve per estrarre le idee filosofiche che considera inserite nel testo sacro, ma che sono invero introdotte in esso; nel secondo caso, invece, usa detti ben noti e luoghi filosofici ormai comuni, senza menzionare Eraclito che pure utilizza, considerando che i suoi uditori e lettori siano preparati a comprendere il suo linguaggio allusivo e i suoi riferimenti impliciti. Se dunque a volte Filone ricorre al filosofo di Efeso, fornendo un’esegesi della sua parola – e questi sono ovviamente i luoghi più utili e interessanti per la storia della ricezione di Eraclito, come le citazioni date nel De aeternitate mundi e nel Legum Allegoriae –, altre volte sfrutta soltanto alcuni detti eraclitei, che adotta e adatta a vari argomenti secondo diversi scopi. Nella maggior parte dei casi, inoltre, Filone condivide la dottrina “platonizzante” che attribuisce a Eraclito, ma in altri casi la critica e la supera, associandola, ad esempio, a quella stoica. In conclusione, l’utilizzo filoniano di Eraclito, lungi dall’essere univoco e coerente, è infedele e opportunista, perché dipende sempre da esigenze particolari. Tutto ciò spiega la diversità delle molteplici testimonianze filoniane sui detti e sul pensiero di Eraclito – e la difficoltà di renderne conto. Quali che siano le sue fonti, Filone le rielabora personalmente offrendo elementi utili non solo a ricostituire in modo più preciso la tradizione degli Heraclitea, ma anche a discutere nuovamente problemi relativi a frammenti particolari e alla generale concezione eraclitea dell’universo di cui l’uomo è parte. La testimonianza filoniana riprova che Eraclito non è un puro teologo, come gli antichi poeti, né un mero fisico, come i predecessori milesii, poiché la sua dottrina tocca tutti gli ambiti del sapere umano: dall’ontologia alla logica, dalla cosmologia all’antropologia, ed evidente è la riflessione escatologica. L’Alessandrino conferma le testimonianze platoniche, aristoteliche e stoiche, ed è confermato da quelle cristiane e neoplatoniche, sottolinenado l’intima connessione che Eraclito intuisce e istituisce tra la natura del mondo e la sostanza dell’anima, tra la conoscenza della realtà e la concezione del linguaggio. Utilizzando il detto sulla natura che si nasconde per giustificare e supportare il metodo di interpretazione allegorica della Scrittura che conduce alla visione dell’invisibile Verità, Filone lascia pensare che, per Eraclito, tutto nasce e muore nel continuo venire alla luce e sparire alla vista che caratterizza l’essenza di ogni cosa. L’oscurità della natura, nei suoi arcani segreti, è il topos filosofico di epoca
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ellenistica e imperiale che si interpone tra Eraclito e l’Alessandrino, ma per entrambi il divino si svela e si vela rivelandosi nell’universo, vale a dire nella parola della natura, e in quella dell’uomo e del libro – cioè del discorso – che la descrive. Nella competizione per il sapere di epoca arcaica, Eraclito esprime in forma originale un contributo personale, e il suo discorso si presenta come una rivelazione individuale di carattere religioso che richiede un impegno collettivo di tipo razionale8. A differenza dei poeti come Pindaro – che si considera il profeta degli oracoli della Musa – e dei sapienti come Pitagora – le cui diverse vite in diversi corpi gli hanno permesso di accumulare una sapienza eccezionale –, Eraclito parla in prima persona ed è nunzio di se stesso, anzi taccia di fraudolento il sapere che non sia, come il suo, interpretazione soggettiva degli indizi dati dalla natura. L’Oscuro rivela così la sua scoperta e comunica il suo programma, che sono quelli del filosofo a mezza strada tra il poeta e il veggente, cercando – come Anassimandro o Empedocle – la forma espressiva più adeguata al contenuto che vuole e deve esprimere, e scegliendo la prosa ritmica e uno stile oracolare. Il discorso di Eraclito, caratterizzato da forte coscienza autoriale, terminologia ricercata e sintassi elaborata, perché forgiato dal suo autore sul modello della struttura del cosmo, si fonda esclusivamente sulla propria logica interna e si preoccupa costantemente degli effetti della lezione orale: di qui le espressioni pregnanti e il tono solenne. Tale discorso, letto per una prima performance e scritto per una larga e lunga diffusione in luoghi e tempi secondari, è il resoconto di Eraclito sulla realtà, e corrisponde alla sua verità religiosa che compenetra e completa la sua teoria scientifica, identificandosi con essa. Filone fa dunque implicitamente riferimento al modo di esprimersi di Eraclito, di cui si appropria, ma anche e soprattutto alla dottrina del Presocratico, di cui subisce l’influenza. L’Alessandrino informa infatti che, nel perduto discorso (logos) Sulla natura, Eraclito ha esposto la sua fondamentale intuizione filosofica: l’unità dei contrari. Filone non sfrutta il concetto eracliteo di logos – come faranno invece gli autori cristiani identificandolo con il Verbo di Dio –, ma ricorre a Eraclito per provare che tutto ciò che esiste in natura è unione e divisione di cose diverse e opposte. L’Alessandrino si ispira al racconto di Genesi 1, in cui Dio crea il mondo tramite la sua parola, separando la luce dalle
8 Un’ottima sintesi è offerta da M.M. Sassi (2009) nella sua recente introduzione alla filosofia presocratica, op. cit., pp. 150 ss.
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tenebre, poi le acque e tutto il resto, ma anche al modello produttivo del Timeo platonico. Tuttavia, se il Logos di Filone è la parola di Dio che crea il mondo separando, il logos di Eraclito è la parola del sapiente che comprende il mondo discernendo e articolando, e che concerne sia l’atto di dire sia le cose dette, quindi il loro rapporto9. Il libro eracliteo, che comincia con la presentazione dello stesso logos o trattazione, si compone di una serie continua di aforismi – coppie di sentenze o espressioni duplici – che svelano la peculiarità del modus operandi (scribendi!) di Eraclito, vale a dire l’indistinzione della sfera ontologica e logica. Considerati uno ad uno, i frammenti conservati, quantitativamente numerosi e stilisticamente elaborati, rappresentano esempi dell’unità di ogni ente nella duplicità delle sue componenti (elementi o aspetti) contrarie; presi nella loro totalità, costituiscono un unico intero che, razionalmente e poeticamente costruito, riflette l’accordo armonioso del cosmo nella dissonanza delle sue note. Utilizzando Eraclito nell’intento di far emergere il profondo significato filosofico della Scrittura, tuttavia, Filone, in nome del creazionismo biblico, critica e supera la concezione del dio-cosmo che esclude qualsiasi artefice o demiurgo divino. La sua testimonianza riprova che Eraclito, come i fisici milesii, ha elaborato una dottrina della generazione e della corruzione di tutto ciò che esiste in natura: il mondo, per Eraclito, non è stato creato da nessuno degli dei, né degli uomini, ma è un fuoco che si accende e si spegne secondo determinate misure spaziali e cicli temporali. Così, Filone non solo attribuisce a Eraclito una “cosmo-gono-ftoria”, ma distingue anche la dottrina eraclitea dall’uso aristotelico-peripatetico e dall’interpretazione stoica dell’incendio universale, attestando il recupero di un Eraclito pre-platonico, che è in realtà post-platonico. Le coppie di nomi con cui Eraclito si riferisce al dio (giorno e notte, pace e guerra o sazietà e fame) rappresentano le due fasi contrarie dell’unico principio: l’accensione e lo spegnimento del fuoco primordiale nel mondo organizzato, la vita e la morte del fuoco che sono la morte e la vita del mondo. Il binomio della vita e della morte sembra essere l’esempio chiave dell’unità dei contrari di Eraclito, l’anello di congiunzione tra la fisica e la psicologia eraclitea, ma anche il motivo che ha più influenzato la speculazione di Filone.
9 Cf. J. Bollack, Réflexions sur les interprétations du logos héraclitéen, in J.-F. Mattéi (ed.), La naissance de la raison en Grèce, Paris 1990, pp. 165-185. Il titolo dell’edizione di J. Bollack-H. Wismann (1972), d’altronde, è Héraclite ou la séparation.
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L’Alessandrino spiega che, per Eraclito, l’anima è soffio (pneuma), cioè respiro o alito aereo, e dunque la sua “morte” è in realtà una trasformazione, quindi una nuova “vita”, nell’elemento dell’acqua. Filone induce a distinguere, nel pensiero di Eraclito, l’anima, l’aria atmosferica, e le anime, singole porzioni della stessa materia che penetrano nel corpo umano e ne costituiscono la facoltà coscienziale e conoscitiva, quindi di porre il problema del principio di individuazione delle anime, della loro natura e del loro statuto prima e dopo l’incorporazione. Filone consente anche di comprendre il rapporto tra sostanza fisica ed essenza psichica dell’anima eraclitea grazie al concetto di esalazione, umana e cosmica, nei suoi diversi aspetti di “alimento” materiale e spirituale, nonché di “vettore” universale10. La testimonianza di Filone permette non solo di ravvisare analogie con le teorie presocratiche sull’anima-aria, la dottrina di Anassimene e le credenze degli Orfici, ma anche di capire che Stoici e Scettici hanno valorizzato e sfruttato punti diversi della stessa dottrina di Eraclito, secondo cui l’anima è parte della ragione cosmica che entra nel corpo umano tramite la respirazione. L’anima di Eraclito sarebbe così un soffio in grado di modificarsi, dilatarsi e contrarsi grazie al suo logos profondo – come dice lo stesso Eraclito –, cioè la segreta ragion d’essere della sua natura, dunque il valore che deve possedere e il conto in cui bisogna tenerlo, ma anche il resoconto esatto e vero sulla realtà di cui è capace. Speculando sull’anima e sulla sua esistenza in cielo e in terra, Filone testimonia inoltre la rielaborazione giudaica dell’ossimoro eracliteo del “morire la vita” e “vivere la morte” in termini di duplice vita e duplice morte dell’uomo e dell’anima, quella del malvagio-già morto e del virtuoso-sempre vivo. Ma Eraclito parla di esseri immortali e mortali, vale a dire di divinità (dei e demoni) e di uomini, non di individui buoni e cattivi, anime pie e cadaveri ambulanti. La teodicea biblica si sovrappone e sovraccarica la concezione eraclitea della vita che è anche una morte, dei morti che continuano a vivere: dei contrari che si identificano perché l’uno ha vita nella e dalla morte dell’altro. L’Alessandrino attesta anche e soprattutto che, alla base della rilettura di Eraclito in chiave giudaica, vi è un’interpretazione platonizzante fondata su dualismi come intelligibile-sensibile o spirito-materia, sul tema dell’assimilazione dell’uomo a dio, e sull’identificazione delle anime con gli esseri immortali.
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Ringraziamo Serge Mouraviev per l’osservazione di cui facciamo tesoro.
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Questo studio conferma che ha senso parlare di interpretazione “giudeoalessandrina” e “medioplatonica” – peripatetica, stoica, scettica o neoplatonica – solo se e quando, dopo aver studiato la testimonianza di Filone, si dimostra che la dottrina attribuita a Eraclito è diversa da quella professata dal Presocratico, e che tale dottrina non è un’idea personale dell’autore-fonte, ma è riconducibile, almeno nelle sue linee fondamentali e identificabili, a tutta una corrente di pensiero. È ciò che gli specialisti chiamano tradizione, il filo rosso che intesse o ricuce le parti della storia della filosofia antica. In molti casi, tuttavia, Filone è l’unico testimone della tradizione giudeo-ellenistica di Eraclito. Ciò fa di lui una fonte preziosa, non solo per conoscere e comprendere questa particolare interpretazione di Eraclito, ma anche per ripensare la stessa filosofia eraclitea. Il confronto incrociato tra Filone e gli altri testimoni dapprima, tra Eraclito e gli altri Presocratici poi, infatti, si è rivelato fruttuoso. Lo studio della ricezione filoniana, assieme alle altre tradizioni antiche, ci ha permesso di capire che, secondo Eraclito, l’unità o l’interconnessione dei contrari, gli elementi “ostili”, cioè diversi, delle cose reali di cui facciamo esperienza quotidianamente – e dei nomi con cui diciamo il vero –, caratterizza l’essenza del principio materiale e divino della natura, l’Uno che è anche il Tutto, il fuoco che giudica e condanna il mondo bruciandolo, il timoniere che traccia la rotta dell’universo mentre lo attraversa. Ora possiamo affermare, con cognizione di causa, che la controparte di questa dottrina dell’unità dei contrari è quella della trasformazione incessante della realtà, poiché ogni cosa si cambia necessariamente o si scambia equamente con il suo opposto, cioè diventa continuamente e diversamente altro pur rimanendo sempre e comunque la stessa. Constatiamo, infine, che tale teoria fondamentale, appena definita una e duplice, spiega non solo il ciclo cosmo-biologico, ma anche quello intellettivo e morale dell’anima umana, in tensione tra due estremità: l’umidità dei corpi di terra e acqua e la purezza del cielo luminoso. Di qui le innovazioni antropologiche e le preoccupazioni escatologiche di Eraclito di cui si è trattato.
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424
INDICE Aezio Plac. I 3, 11 I 3, 20 I 7, 33 II 4 II 6, 3 II 32, 3 Agostino De civ. Dei VI 2-9 VII 5-6 Alessandro di Afrodisia In Top. 398 W. 552 W. Ammonio In Categ. 16 B. Anassagora 59 B 21 DK Anassimandro 12 A 9 DK 12 A 11 DK
134, 147 173 232 168 356 346
57 57
248 109
248 46 334 334
425
INDICE
12 A 27 DK 12 A 30 DK 12 B 1 DK Anassimene 13 A 5 DK 13 A 6 DK 13 A 7 DK 13 A 8 DK 13 A 9 DK 13 A 17 DK 13 A 23 DK 13 B 1 DK 13 B 2 DK Antistene test. 16 P. test. 18 P. test. 19 P. test. V A 185 G. Apuleio De Mundo 19-21 Aristide Quintiliano De mus. II 17, 74-89 Aristobulo ap. Eusebio di Cesarea, Praep. Ev. VIII 10, 5 ap. Eusebio di Cesarea, Praep. Ev. XIII 12, 3-8 ap. Eusebio di Cesarea, Praep. Ev. XIV 12 Aristofane Equit. 430
334 334 161, 170 233, 334 334 203, 326, 334 334 233 334 203, 334 203 203, 334 52 52 52 58
112
195, 323, 332 58 49, 56 93
208
426 Nub. 227 Aristotele De an. 405 a 25 405 a 28 410 b 26-30 De caelo 279 b 279 b 12-17 279 b 13-17 280 a 280 a 11 284 a 2 284 a 2-14 297 b 3 298 b 29 298 b 29-31 298 b 29-33 303 b 19 s De gen. an. 781 a 24 De gen. et corr. 332 a 6 De mot. an. 699 a 33 703 a 9 De part. an. 640 b 659 b 17
INDICE
334
184, 231 132, 210, 227, 277 203 134 228 158 110 228, 349 305 305 168 227, 277 132 231 231 328 110 115 328 334 328
427
INDICE
De phil. fr. 19a R. fr. 19c R. De sens. 443 a 21-29 De somn. 456 a 12 El. Soph. 183 b 25 Et. Eud. 1235 a 1235 a 25-30 Et. Nic. 1155 b 4 Hist. an. 581 a 581 a 12 Met. 983 a 983 b 27 984 a 7 986 a 15 986 a 22 986 a 15-34 987 a 32 1005 b 23 1009 a 22-25 1009 1010 a 12
115 217 231 328 84 113 109 108 341 347 105 198 146 124 169 100, 114 132, 210, 227, 277 109 109 126 227
428 1010 a 7-15 1012 a 24-26 1012 b 22 1012 b 26 1062 b 1-2 1063 a 10-b 6 1063 b 25 1066 b 34-1067 a 10 1076 a 1078 b 13 Meteor. 340 a 3 341 b 342 b 2 347 a 6-8 351 a 20 354 b 23-355 a 21 357 b 26 389 b 31 390 a 22 Phys. 185 b 20 188 a 19 202 a 18-20 202 b 12-14 204 b 22-205 a 9 205 a 228 a 6 228 a 8
INDICE
132, 210 109 132 227, 277 109 132, 210 109 231 134 132, 210, 227, 277 115 201 147 198 115 231 132, 210 295 295 109, 113 109 249 249 231 134 132, 210 227, 277
429
INDICE
230 b 10 253 b 9 265 a 2 Pol. 1276 a 34 Probl. 394 b 33-36 Protr. fr. 10b R. fr. 10c R. fr. 59 R. Ret. 1407 b 11 1407 b 16 Top. 104 b 1-8 104 b 20-22 104 b 21 159 b 30 Arnobio Adv. nat. II 10 Basilide ap. Clemente Alessandrino, Strom. II 20, 112, 3 Callimaco Dian. 178 Celso ap. Origene, Contr. Cels. V 14, 3 Censorino
234 132, 210, 227, 277 132, 210, 227, 277 132, 210 230 258 276 225 79 120 168 132, 210 227, 277 109, 113
148 328
310 300
430 De die nat. 14, 1 16, 2 17, 2 18, 1 18, 11 Cicerone Acad. Post.
INDICE
344 344 345 345 345
I 4, 15 I 5, 19 I 44 I 44, 4 Acad. Pr.
67 67 61 67
I 31 II 10, 32 II 121 De div.
227 60 142
I 35 II 11 II 133 II 133, 2 De fin.
67 63 143 67
II 5, 15 II 15, 7 II 15 V 29,87 V 51 De nat. deor.
24 67 67, 143 353 67
I 35
142
431
INDICE
I 74, 8 I 74 II 1 II 1 II 17 II 26-27 II 40 II 42 II 43 II 83 II 118 III 5 III 23 III 24, 63 III 31 III 35, 2 III 35 III 36 De orat.
67 143 57 52 314 232 233 314 233 233 233 142 143 52 233 67 143 143
I 68 De Re publ.
67
VI 24 Luc.
345
32, 6-7 147, 6 Tusc. disp.
61 67
I 42-43 V 39, 114-115 Cleante
234, 235 353
432
INDICE
ap. Ario Didimo (fr. 39, Dox. 470 s. D.) ap. 185, 335 Eusebio di Cesarea, Praep. Ev. XV 20, 2 = SVF I 141; 519 Clemente Exc. ex Theod. 1, 3, 56 58 Paed.
42 77
II 2, 27-34 II 2, 29, 2-3 III 1, 1, 5-2, 1 III 1, 1, 5-2, 1, 3 Quis div. salv.
322 321 96 276
3, 6 Strom.
77
I 13, 57, 6 I 15, 71, 3 II 1, 1, 1 II 20, 112, 3 III 3, 21 IV 141, 1 V 1, 9, 4 V 1, 9, 1-4 V 7, 41, 2-3 V 8, 50, 2-3 V 14, 103, 6-105, 1 V 14, 105, 1-4 V 14, 105 V 104, 3 VI 2, 15, 1
190 190 93 328 322 322 158 302 190 275 158 302 322 123 196
433
INDICE
VI 2, 16, 1 VI 2, 17, 1-2 VI 2, 17, 1-4 VI 2, 27, 1 VI 4, 35, 3-37, 3 VI 13, 89, 2 VIII 8, 24, 2-4 Cleomede De motu circ. corp. cael.
196 180 189, 197 198 65 42 248
111, 26-112 166, 14-15 Crisippo SVF II 815 SVF II 1009 SVF II 1021 SVF II 1062 SVF II 1079 SVF III 777 Democrito 68 A 14 DK 68 A 15 DK 68 A 33 DK 68 A 69 DK 68 A 114 DK 68 B 5 DK 68 B 5i DK 68 B 6 DK 68 B 20a DK 68 B 26 DK 68 B 92 DK
68, 239 239 183 57 51 51 62 62 353 353 82 42 86 42 85 85 82 51 163
434 68 B 96 DK 68 B 112 DK 68 B 117 DK 68 B 134 DK 68 B 156 DK 68 B 171 DK Diogene di Apollonia 64 A 8 DK 64 A 19 DK 64 A 28 DK 64 B 4 DK 64 B 5 DK Diogene Laerzio II 11 II 22 V 82 V 88 VII 88 VII 137 VII 142 VII 147 VII 155 VII 156 VII 157 VII 174 VII 147-148 VIII 54-56 IX 1 IX 3 IX 6
INDICE
163 46 60 85 85, 86 290 82 334 334 334 334, 334 82 23 96 169 115 232 169, 232 51 232 183 234 169 52 284 21 215 22, 24, 80
435
INDICE
IX 7-11 IX 8,1 IX 8 IX 8-9 IX 11 IX 12 IX 15 IX 72 X 95 Empedocle fr. 461 B. 31 A 28 DK 31 A 30 DK 31 A 33 DK 31 A 49 DK 31 A 59 DK 31 A 60 DK 31 A 66 DK 31 A 72 DK 31 A 86 DK 31 B 6 DK 31 B 8 DK 31 B 12 DK 31 B 16 DK 31 B 17 DK 31 B 18 DK 31 B 19 DK 31 B 20 DK 31 B 21 DK 31 B 23 DK
24 148 133, 136 235 23 23 133, 169 61 357 311 173 357 173, 173 355, 356 357 357 356, 357 357 173 170, 173 176 354 173, 176 154, 173, 176 173 173 173 175, 175 175
436
INDICE
31 B 26 DK 31 B 35 DK 31 B 42 DK 31 B 43 DK 31 B 110 DK 31 B 112 DK 31 B 115 DK 31 B 121 DK 31 B 125 DK Enesidemo ap. Sesto Empirico, Adv. math. X 233
154, 176 85, 290 357 357 81 290 175, 182, 290, 358 358, 358 163, 291
ap. Sesto Empirico, Pyrr. hyp. I 210, 4-6
282
ap. Sesto Empirico, Pyrr. hyp. I 40
223
ap. Tertulliano, De an. IX 5 Epicarmo 23 B 2 DK 23 B 46 DK 23 B 64 DK Epicuro Max. cap.
200
200
251 353 311
2 Epitteto Ench.
281
XV fr. 8 S. Eraclito 22 A 1 DK
237 237
22 A 1a DK 22 A 2 DK
21, 22, 24, 25, 61, 87, 91, 133, 148, 178, 201, 205, 215, 235, 253, 305, 309, 337 21, 22, 24 22
INDICE
22 A 3 DK 22 A 3a DK 22 A 3b DK 22 A 4 DK 22 A 5 DK 22 A 6 DK 22 A 7 DK 22 A 8 DK 22 A 10 DK 22 A 13 DK 22 A 15 DK 22 A 16 DK 22 A 17 DK 22 A 18 DK 22 A 19 DK 22 A 22 DK 22 B 1 DK 22 B 2 DK 22 B 4 DK 22 B 5 DK 22 B 6 DK 22 B 7 DK 22 B 8 DK 22 B 9 DK 22 B 10 DK
437 22 21, 22, 24 305, 309 25, 79, 91, 120 91, 134, 146, 147, 244 210 109 91 91, 108, 119, 228, 349 196, 345 184, 186, 189, 202, 208, 231, 234, 253, 315, 326 91, 120, 253, 315, 334, 335, 336 253, 334 341 32, 293, 338, 343, 345, 346 109, 119 61, 83, 88, 118, 120, 125, 126, 190, 202, 220, 297, 309, 336 61, 102 127, 305, 309 88, 289, 309, 337 231 201, 231 79, 108, 114, 119 127 32, 80, 111, 112, 114, 115, 116, 121, 129, 137, 139, 141, 148, 159, 255, 338
438 22 B 12 DK
22 B 13 DK 22 B 14 DK 22 B 15 DK 22 B 16 DK 22 B 17 DK 22 B 19 DK 22 B 20 DK 22 B 21 DK 22 B 22 DK 22 B 23 DK 22 B 24 DK 22 B 25 DK 22 B 26 DK 22 B 27 DK 22 B 29 DK 22 B 30 DK 22 B 31 DK 22 B 31a DK 22 B 31b DK 22 B 32 DK 22 B 34 DK 22 B 36 DK
22 B 37 DK 22 B 40 DK
INDICE
132, 185, 189, 201, 202, 208, 209, 253, 270, 334, 334, 335, 350 127, 223 88, 309 88, 152, 309 65, 87, 338 61, 102, 202, 220, 297, 309 61, 202, 220, 297, 309 80, 102, 337, 350 61, 101, 127, 309, 322, 336 61 51, 84, 104 289, 290, 337 289, 337 61, 102, 127, 309, 322, 336 310 202, 289, 305, 309, 337 122, 136, 160, 162, 253, 290, 349 127, 201, 204, 253 123, 136, 162, 181 134, 136, 162 51, 84, 338 61, 202, 297, 309 32, 80, 167, 177, 180, 183, 184, 186, 187, 189, 196, 197, 198, 199, 202, 208, 221, 253, 308, 312, 334, 337, 350 127 21, 81
INDICE
22 B 41 DK 22 B 42 DK 22 B 43 DK 22 B 45 DK 22 B 48 DK 22 B 49 DK 22 B 49a DK 22 B 50 DK
22 B 51 DK 22 B 52 DK 22 B 53 DK 22 B 54 DK 22 B 55 DK 22 B 56 DK 22 B 57 DK 22 B 58 DK 22 B 59 DK 22 B 60 DK
22 B 61 DK
439 160, 338 81 196, 202 62, 253, 336 51, 80, 84, 101, 127, 271 309 132, 209, 226, 270, 274, 277 22, 32, 101, 117, 118, 119, 121, 122, 129, 130, 135, 137, 139, 141, 156, 159, 246, 255, 278, 338 61, 79, 108, 114, 118, 119, 126, 157, 234, 246 118, 214, 215, 217, 218, 219, 220, 246, 250 79, 103, 118, 119, 126, 246, 290, 291 45, 79, 114, 119, 246 45 46, 81, 246 81, 87, 100, 170, 246, 255, 348 113, 246 51, 80, 91, 103, 127, 246, 254, 255, 351 32, 51, 127, 156, 167, 174, 175, 178, 179, 205, 212, 213, 214, 218, 229, 235, 237, 238, 239, 241, 242, 243, 245, 246, 247, 249, 250, 254, 255, 308, 351 92, 101, 127, 222, 223, 224, 278
440 22 B 62 DK
22 B 63 DK 22 B 64 DK 22 B 65 DK
22 B 66 DK 22 B 67 DK
22 B 67a DK 22 B 68 DK 22 B 69 DK 22 B 71 DK 22 B 72 DK 22 B 73 DK 22 B 74 DK 22 B 75 DK 22 B 76 DK
22 B 77 DK 22 B 77a DK 22 B 77b DK 22 B 78 DK 22 B 79 DK
INDICE
32, 80, 101, 127, 167, 174, 177, 189, 241, 255, 257, 260, 262, 263, 266, 267, 268, 270, 272, 273, 274, 275, 277, 278, 279, 285, 286, 308, 337, 350 102, 259, 289, 337 133, 134, 157, 162, 338 32, 103, 129, 130, 133, 134, 137, 140, 141, 151, 153, 154, 156, 157, 159 134, 157, 162 51, 80, 84, 88, 91, 92, 100, 101, 103, 114, 117, 119, 120, 121, 127, 133, 157, 164, 170, 172, 173, 278, 291 181 88, 309 88, 309 61, 238, 253 61, 202, 220, 297 61, 220, 297, 309, 336 228, 350 61, 297, 309, 336 80, 155, 180, 186, 189, 201, 202, 225, 238, 240, 241, 251, 312, 343, 349, 350 350 188, 189, 200, 208, 279, 312, 334, 337 101, 127, 188, 189, 208, 279, 280, 308 290 289, 290, 337, 350
INDICE
22 B 80 DK 22 B 81 DK 22 B 82 DK 22 B 83 DK 22 B 84a DK 22 B 84b DK 22 B 85 DK 22 B 86 DK 22 B 88 DK
22 B 89 DK 22 B 90 DK
22 B 91 DK 22 B 92 DK 22 B 93 DK 22 B 94 DK 22 B 95 DK 22 B 96 DK
22 B 98 DK 22 B 100 DK 22 B 101 DK 22 B 101a DK 22 B 102 DK 22 B 103 DK
441 120 81 308 290, 308 104, 243 104, 243 196, 201, 203, 264, 289 61, 290 51, 61, 102, 104, 127, 220, 224, 228, 291, 297, 309, 336, 337, 349, 350 61, 220, 309, 336 32, 129, 130, 134, 136, 141, 146, 148, 150, 151, 152, 153, 156, 159, 162, 174, 178, 244, 268, 349 122, 132, 155, 209, 225, 270 83 83 87 61 32, 259, 270, 273, 293, 294, 295, 296, 297, 298, 299, 300, 301, 302, 303, 304, 305, 306, 307, 316 201, 208 114, 344, 349 22, 219, 244, 338 46 102, 113, 127, 290 51, 101, 351
442 22 B 104 DK 22 B 105 DK 22 B 106 DK 22 B 107 DK 22 B 108 DK 22 B 110 DK 22 B 111 DK 22 B 112 DK 22 B 113 DK 22 B 114 DK 22 B 115 DK 22 B 116 DK 22 B 117 DK 22 B 118 DK
22 B 119 DK 22 B 120 DK 22 B 121 DK 22 B 123 DK
22 B 124 DK 22 B 125a DK 22 B 126 DK 22 B 126a DK 22 B 129 DK 22 C 2 DK
INDICE
22, 113, 309 81 81, 87, 348 336 22, 160 289 102, 127, 133, 224 59, 83, 102 22, 102 22, 103, 290 62, 336 83, 102, 322, 323, 338 202, 203, 208, 253, 322, 323, 337, 350 32, 187, 190, 205, 208, 253, 293, 295, 312, 313, 316, 317, 318, 319, 321, 322, 323, 324, 325, 328, 329, 330, 331 264, 289 122, 338 21, 22, 309 31, 37, 40, 47, 54, 59, 63, 66, 67, 68, 69, 70, 72, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 84, 86, 89, 130, 341 311 22, 309 99, 127, 291, 332, 337 122 81 229
443
INDICE
22 C 5 DK Eraclito il grammatico Quaest. Hom.
276
23 24, 3-6 25, 1 25, 2-5 26, 13 36, 1 43, 1 43, 7 43, 11-12 43, 14 46, 1 Ermia In Phaedr.
149 274 54 171 54 54 149 149 150 150 54
27, 20-28, 2 C. Erodoto Hist.
331
I5 I 32 I 140 I 207 II 81 II 123 II 137-138 III 22 VII 10 Eschilo Prom.
216 105, 216 310 216 258 258 64 310 216
444
INDICE
447-448 829-835 Suppl.
220 42
584 Esiodo fr. 183 W. Op.
51
6 108 765 Theog.
213 290 87
26 116 135 361 Eudoro ap. Plutarco, De an. procr. in Tim. 1013 B
51 123 198 191 144
ap. Plutarco, De an. procr. in Tim. 1019 E
144
ap. Plutarco, De an. procr. in Tim. 1020 C Euripide Ecuba
144
356 fr. 420 N. fr. 638 N. fr. 833 N. fr. 839, 8-14 N. Orest.
275 212, 214 259, 280, 283, 290 259 176
1635 Suppl.
51
343
445
INDICE
533 533 s. Eusebio Hist. Eccl.
311 203
II 18 II 18, 1 VI 19, 2 Praep. Ev.
59, 167, 205 26 57
VIII 10, 5 VIII 14, 2, 3-42, 4 VIII 14, 66-68 IX 26-27 X 2, 6 XI 11, 7 XI 11, 7 XI 11 XIII 12, 3-8 XIV 12 XIV 14, 4, 1-8 XV 20, 2 Ferecide 7 A 7 DK 7 A 11 DK 7 B 1-13 DK 7 B 2 DK 7 B 7 DK Filolao 44 A 18 DK 44 B 1 DK 44 B 6 DK
58 358 313 65 180, 198 180 198 144 49, 56 93 148 185, 335 42 42 82 163 191 326 115 115
446
INDICE
44 B 10 DK 44 B 14 DK 44 B 20 DK Filone Abr.
115, 124 258 347, 353
1 52 57 57 58 82 99 119 119 121 150 161 166 200 Aet.
314 211 43 44 44 49 57 44 59 39 46 44 44 56
1 5 12 20 25 26 30 33 42
168 176, 354 234 168 138 138 176, 234 182, 206 217
447
INDICE
45 58 76 77 89 94 95 103 104 104 107 108 109
109 110 111
112 115 144 Agr.
182, 206 180 168 168 168 169 183 169 106, 169, 184 170 170, 173 101, 170, 178 174, 175, 177, 178, 179, 190, 205, 208, 219, 220, 227, 236, 250, 251, 255, 268, 286, 288 170, 191 179 177, 179, 182, 184, 186, 189, 199, 200, 205, 208, 221, 250, 251, 255, 268, 333, 362 183, 184 182, 234 176, 177, 183
54 130 144 Cher.
144 181, 211 223
4 7
49 49
448
INDICE
8 21 27 56 106 110 110 112 Conf.
270 59 63 49 44 106 121 106
21 23 56 57 66 70 72 79 80 92 100 114 137 210 Congr.
181 210 43 46 210 210 43 289 289 43 44 168 53 210
44 51 71 104 122
49 43 105 206 105
449
INDICE
172 Cont.
59
2 3 11 12 14 15 23 28 78 90 Decal.
145 234 44 44 353 353 314 58, 66, 78, 362 59 190
53 58 67 104 Deo
175 175 215 175
1 3 4 6 9 10 Det.
43, 44 145 39, 172 44, 172 172 103, 121, 172, 173, 362
47 48 48 49
263 177, 264, 268, 273, 286 262 263, 264, 268, 286
450
INDICE
70 80 84 85 100 168 177 178 Deus
265 182 42 42 210 181, 211 265 265, 295
37 46 127 146 172 175 176 177 Ebr.
42 181, 182 131 358 216 216 215, 216 215
12 61 70 82 155 169 179 186 187 205 Flacc.
92, 222, 224, 362 42 210 43 221, 222, 224, 224 221, 222 224 106, 224 106 221, 222
451
INDICE
175 Fug.
219
53 54 55 58 60 61
256, 262, 272, 293 45, 257 266, 267, 272, 287, 294 273 294 259, 270, 293, 294, 296, 297, 307 213 262 210 121 182 54 54, 66, 78 56 55 210 43
62 64 91 112 134 177 179 180 182 192 208 Gig. 7 8 13 14 15 22 41 51
357 182, 206, 262 213, 269 270, 287, 362 262, 269 182, 190, 191, 210, 333 106 210
452
INDICE
62 64 Her.
49 144
23 34 52 53 58 68 76 78 87 88 97 116 130 133 134 139 140 152 188 189 203 207
107 42 270 271, 287, 362 295 44 44 43 131 181 131 104 90, 94, 96, 97, 107 94, 96 182 113 94 104, 104 107 104 56 97, 98, 104, 113, 120, 139, 169 92, 99, 100, 106, 107, 113, 122, 173, 223, 224 101, 113, 114 103, 114
208 209 210
INDICE
212 213 214 216 229 230 235 236 237 241 246 248 257 263 264 283 292 311 314 Ios. 125 126 128 129 130 131 134 135 136
453 98, 103, 107, 113, 173 104, 135, 139 97, 104, 106, 107, 113, 116, 120, 121, 122, 135, 139, 169 144 94 181, 211 97 44 213 266 104 63, 104 44 44 63 182 271 97 97 218, 219, 220, 224 218, 219 219 219 219 218, 219 219 218 205, 218, 219, 220, 227, 250
454
INDICE
139 140 141 142 143 144 147 Leg.
215 210, 219 219 210, 219 219 219 219, 220, 220
1.1 1.11 1.33 1.44 1.70 1.88 1.90 1.91 1.105 1.107 1.108
210 181, 211 182 145 181 181 181 208 256, 266, 293 177 93, 101, 241, 256, 259, 260, 261, 262, 264, 266, 267, 271, 273, 286, 287, 288, 293, 295 144 145 145 43 130 130 130
2.1 2.3 2.4 2.34 3.1 3.3 3.4
455
INDICE
3.7
3.61 3.83 3.206 3.212 Legat.
103, 121, 122, 130, 134, 135, 136, 139, 140, 141, 145, 156, 159, 160, 171, 178 182 49 53 56
1 4 65 126 Migr.
217 43 210 314
34 38 54 66 113 125 148 164 166 175 179 181 198 220 Mos.
63 43 43 181 43 42, 43 44 41 41 44 131 131 211 121
1.21 1.30
190 214
456 1.31 1.41 1.57 1.75 1.118 1.121 1.190 1.212 1.284 2.2 2.13 2.37 2.103 2.105 2.118 2.148 2.154 2.193 2.205 Mut. 3 7 11 45 57 58 59 60 62
INDICE
205, 214, 216, 217, 220, 227, 250 214, 216 55 53 175 206 217 206 63 92 216 93 57 208 182, 206 182, 314 182 56 233 47 47 53 211 47 47 47 64, 66, 78 47
457
INDICE
63 66 81 107 110 179 180 203 207 214 223 Opif.
49 49 43 210 181, 211 44 44 63 43 210 208
21 22 34 35 41 44 69 71 82 100 113 117 135 Plant.
105 105 122 122 42 175 44, 182, 255 44, 168 181 353 175 181, 211 182
8 9 12
121 175 182, 206
458
INDICE
14 17 18 21 22 23 59 65 111 144 167 Post.
266 42 181, 182 44 44 213 43 358 131 210 215
2 7 92 138 163 164 Praem.
56 57 43 105 42 42
39 40 43 44 61 73 110 118 126 134
145 145 212 43, 53 59 210 219 44 44 217
459
INDICE
Prob. 2 3 13 14 18 24 39 57 63 74 80 82 Prov.
38 38 105 353 216 216 216 93 210 190 190 58
1.14 1.65 2.12 2.13 2.24 2.28 2.31 2.39 2.41 2.60 2.61 2.67 2.70 2.73 2.97
210 215 358 353, 358 358 216 210 353 62 175, 219 175, 208, 219, 233, 356 182, 314 357 182, 314 182, 206
460
INDICE
2.109 2.110 QE
187, 293, 313, 331, 362 187, 313
1.12 2, fr. 47 2.13 2.19 2.33 2.40 2.51 2.55 2.62 2.68 2.77 2.81 2.90 2.100 2.117 2.119 2.218 QG
181 43 207 316 181, 211 44 44 210, 215 38, 39 38, 121 175 175, 219 121 181 182, 206 215 121
1.11 1.16 1.67 1.70 1.75 1.76 1.81 2.1
44 262, 266, 267 266 177, 262, 266, 273, 287, 362 181, 211 262, 266, 267, 295 293, 296, 307, 362 38
INDICE
2.5 2.7 2.9 2.12 2.15 2.18 2.23 2.34 2.37 2.39 2.42 2.47 2.49 2.51 2.59 2.67 2.81 3.1 3.5 3.6 3.15 3.16 3.55 4.1 4.2 4.9 4.29 4.46
461 293, 339, 346 38 210, 297 210, 293, 295, 315, 331, 362 210 181, 210 316 44 316 210 316 316 316 44, 93 181, 182 316 314 210 89, 90, 92, 94, 99, 101, 106, 107, 121, 122, 223 92 208, 233 93 210 39, 40, 43, 44, 45, 47, 66, 78, 341 39 44 210 210, 267, 287, 362
462 4.74 4.146 4.152 4.188 4.194 4.203 4.215 4.216 4.240 Sacr.
INDICE
181 44 93, 101, 177, 260, 261, 262, 264, 266, 273, 286, 287 215 49 353 210 181 265, 287, 362
25 34 59 74 Sobr.
42 46 44 121
65 Somn.
42
1.1 1.3 1.4 1.5 1.6 1.11 1.17 1.20 1.21 1.24 1.30
205 205 60 60 60, 66, 78 60 106 206 221 221 181, 221
INDICE
1.33 1.34 1.35 1.62 1.67 1.75 1.77 1.115 1.129 1.134 1.135 1.136 1.137 1.138 1.139 1.140 1.144 1.146 1.147 1.150 1.151 1.152 1.153 1.154 1.156 1.164 1.192 1.230 2.2
463 181 221 181 43 53 44 44 211 43 206, 206, 213, 245 206 182, 314 206 207, 262 207, 262 266 208, 233 206, 209 208, 209, 270 206, 211 211 211 212 214, 227 178, 205, 212, 220, 249, 250 44 210 53 208
464
INDICE
2.3 2.13 2.145 2.169 2.173 2.237 2.252 2.253 2.258 2.278 2.283 Spec.
205 210 215 42 42 210 63 92 210 210 168
1.2 1.27 1.32 1.36 1.39 1.85 1.118 1.146 1.148 1.172 1.192 1.198 1.199 1.208
93, 190 210 53 44 44 182, 206 131 181 181, 223 175 210 44, 137 137, 140 103, 116, 121, 122, 131, 137, 138, 139, 140, 141, 145, 156, 159, 160, 162, 171 138 138
1.209 1.210
465
INDICE
1.211 1.315 1.320 1.345 2.30 2.44 2.45 2.143 2.147 3.1 3.5 3.6 3.117 3.180 3.185 3.191 4.41 4.42 4.43 4.48 4.50 4.51 4.61 4.85 4.92 4.118 4.123 4.153 4.192
44 55 105 262 44 44 44, 182, 206 206 57, 210 63 210 63 57 131 44 44 66 63 63 63 64 64, 78 93 210 181 206 182, 182 215 44
466
INDICE
4.202 4.231 4.235 Virt.
297 44 206
6 12 13 164 190 Filostrato Imag.
182 44 181 44 130
II 33, 3 Vita Apoll.
42
VIII 7, 70 Galeno De Hipp. et Plat. plac.
326
474, 22 D.F. II 8 Quod an. mor.
328 234
IV 768 IV 774 IV 780 IV 786, 3-17 Giamblico De an. ap. Stobeo
324 324 324 324
I 49, 39 De myst.
156, 244
VII 2 VII 4-5 VIII 4
190 50 58
467
INDICE
LXXXIV 14-18 CXCVIII 16-17 CCI 1-5 De vita pyth.
327 330 328
23, 104 Giovanni Lido De mens.
284
III 14 IV 151 IV 159 IV 7, 45 IV 7, 47 Giuliano Or.
338 358 358 212 212
V 162 C-D V 165 C-D VII 216 B-D VII 226 C Gregorio di Nazanzio Carm.
74 195 74 304
II 1, 85, 11 215 Hisdosus ad Chalcid. Plat. Tim., Cod. Paris. lat. 8624, f. 2 181 Ierocle In aur. carm. 5, 7 K. 97 K. Ippaso 18 A 7 DK Ippocrate De morbo sacro
283 284 233
468
INDICE
7 De nutr.
229
18 De victu
229
I 16 I 18 I5 I7 Epid.
229 229 229 229
V9 Ippolito? Ref. omn. haer.
229
VII 29 IX 9 IX 9 IX 10, 2 IX 10, 7 IX 10, 7, 1 IX 10, 8 IX 10, 8, 1 IX 10, 11 IX 10, 12 IX 12, 16 Ireneo Adv. haer.
176 117 139, 278 119, 157 140 157 117 157 279 279 117
I 30, 1 III 25 IV 38 Lattanzio De ira Dei
190 105 105
469
INDICE
X1 Inst. Div.
142
III 28, 14 Lucrezio De rer. nat.
61
I 321 I 782 Macrobio In Somn. Scip.
69 233
I 1, 2 I 1, 3 I 2, 17 I 2, 18 Manilio Astron.
71 71 72 72
IV 866 IV 872 Marco Aurelio Med.
67 67
III 3 IV 46 VI 17 VI 46 VII 1 VIII 3 IX 28, 1 X7 Marsilio Ficino De immort. an.
150 186 238 238 238 237 238 150
XI 6
227, 277
470
INDICE
Theol. Plat. VI 2 XVIII 10 Marziano Capella De nupt.
326 330
2, 183 Massimo di Tiro Diss.
190
IV 4 c IV 5 a X5 X5c1 X5c3 XLI 4 XLI 4 i XLI 5 Musonio ap. Stobeo III 17, 42, 26-34
275 275 227 241 241 186 240 240
fr. 42 H. Nemesio De nat. hom.
237
5, 60-64 Numenio ap. Porfirio, De antro. nymph. 10, 8
249
ap. Porfirio, De antro. nymph. 11, 1
188
fr. 13 d.P. fr. 36 d.P. fr. 8 d.P. Olimpiodoro
190 191 190
317
188
471
INDICE
In Cat. 4, 31 S. In Gorg.
227, 277
30, 2 W. Omero Il.
195
I 104 II 400 V 693 XI 184 XIV 201 XIV 246 XIV 302 XV 362 XXIII 205 Od.
192 76 42 208 198 198 198 217 198
I 107 VI 201 XI 13 XI 639 XII 112 XII 118 XIII 109 XIII 112 XIV 327 Orazio Ep.
215 190 198 198 187 295 187, 279 279 42
I 12, 12 I 12, 13 Origene
353 353
472
INDICE
Contr. Cels. I6 V 14 V 24, 14 V 24, 17 VI 42 Hom. Gen.
50 300 302 302 275
IV 5 Ovidio Metam.
40
XV 63 XV 165 XV 179 XV 180 XV 199 XV 200 Parmenide 28 B 1 DK 28 B 2 DK 28 B 6 DK 28 B 8 DK 28 B 9 DK 28 B 13 DK Pindaro fr. 131 B S.-M. Nem.
69 227 227 227 227 227
VI 1, 1 VI 1, 11 VI 63 Ol.
290 290 208
253 124 220 100, 253 100 124 203, 320
473
INDICE
IX 43 Platone Alc. I
208
110 e 132 Ax.
215 43
365 e Charm.
288
173 c 174 b Crat.
64 215
390 e 396 a 400 c 401 b 10 401 d 402 a 402 a 8 402 a 10 402 b 1 402 c 1 407 e 411 a 7 411 b 412 c 439 b 10 439 c Epin.
52 51 49, 258, 288, 290, 311 132, 210 227, 277 53, 132, 227, 229, 277 210 210 198 198 62 132, 210 227, 277 134 132, 210 227, 277
988 a
105
474
INDICE
Epist. 343 a Gorg.
53
293 a 450 d 477 a 492 e 493 a 497 c 507 e Ione
258, 290, 311 215 259 259, 283 229, 258, 274 56 115
530 d Leg.
82
715 e 739 a 820 c 854 b 898 e 903 d Phaed.
189 215 215 288 328 215, 217
62 b 64 c 68 c 72 a 80 80 e 81 81 e 90 b
288 258, 259, 290, 311 207 274 259 258, 290, 311 259 258 227, 277
475
INDICE
90 b 4 90 c 91 d 112 e 113 d Phaedr.
132, 210 227, 229, 241 259 208 328
70 e 146 a 244 a 245 c 246 a 247 b 247 e 248 c 250 c 262 d 274 d Phil.
115 184 63 183, 184 183 328 105 207, 258, 290, 311 43 64 215
16 c 29 a 30 a 42 e 7 43 a Pol.
189 184 184 132, 210 227, 227, 229, 277
292 e Prot.
215
334 a Resp.
310
333 b
215
476
INDICE
366 b 374 c 378 d 476 e 487 c 507 b 519 a 520 c 520 d 533 d 553 d 604 c 617 e 4 619 d 621 a Soph.
64 215 58 53 215 43 43 220 220 43 207 215 241, 284 64 191
226 a 242 d 243 a 249 b 254 a Symp.
76 158 158 227, 277 43
177 b 186 c 187 a 187 a 3 219 a Theaet.
300 171 108, 114 108 43
152 c 8
132, 210
477
INDICE
152 d 152 e 153 a 155 e 3 156 a 156 c 3 157 a 7 160 d 160 d 5 164 a 168 b 2 173 e 177 c 6 179 d 1 181 e 182 c 2 182 d Tim.
53 198, 229 134 132, 210 227, 277 132, 210 132, 210 277 132, 210, 227 43 132, 210 43 132, 210 132, 210 155 132, 210 155
20 d 22 b 22 d 3 22 d 5 29 e 31 b 32 b 32 c 33 b 34 a 35 b
189 189 193 193 105 170 115 217 217 184 96
478
INDICE
39 e 40 c 41 e 43 a 43 d 44 e 45 b 47 a 49 49 b 57 b 58 62 a 69 c 90 a 6 Plinio Hist. nat.
184 43 328 210 210 328 46 43 230 230 230 229 64 328 42
II 104 II 219 XVIII 207, 5 Plotino Enn.
233 241 69
I 6 [1], 8, 25 II 1 [40], 2, 11 IV 7 [2], 1, 22 IV 8 [6], 1 IV 8 [6], 1, 1 IV 8 [6], 1, 11 IV 8 [6], 1, 17 IV 8 [6], 1, 23
44 231 193 245 242 156 242 242
479
INDICE
IV 8 [6], 1, 26 IV 8 [6], 8, 3 V 1 [10] V 1 [10], 2 V 1 [10], 2, 38 V 1 [10], 2, 42 V 1 [10], 8 V 1 [10], 9 V 9 [5], 1, 20 V 9 [5], 5, 31 Plutarco Adv. Col.
242 244 302 303 303 303 275 275 244 244
1115 B Amat.
142
756 B 1 763 B 763 C Camill.
154 155 155
19 De an. procr. In Tim.
87
1013 B 1019 E 1020 C De def. orac.
144 144 144
415 B 6 415 B 12 415 C 1 415 C 4 415 D 9
342 342 343 343 343
480
INDICE
415 E 4 415 F 416 A 417 F 432 F 435 C 436 D De E ap. Delph.
343 155 344 154 343 154 154
387 E 388 C 388 C 3 388 D 9 388 D 10 388 E 388 E 1 388 E 10 388 E 5 388 F 1 388 F 7 389 B 10 389 C 389 C 8 389 C 9 389 D 392 A 392 B 392 C 392 D 392 E
151 151 154 151 151 136, 178 154 154 151 152 152 153 154 153, 156 156 153 225 155, 225, 277 226, 343, 349 155, 226 186, 225
481
INDICE
393 B 393 B 4 393 D 393 E De esu carn.
144 144 154, 155 154, 155, 217
993 A 993 D 993 E 995 E 995 E 9 996 A 5 De facie
318 318 356 343 318 318
943 E De Is. et Os.
231
352 C 3 352 C 5 355 C 7 355 D 1 359 F 360 D 362 A 364 C 364 D 369 B 369 B 6 369 B 11 383 B De primo frig.
155 155 155 155 154 154 152 190 190 154 155 155 314
949 A
349
482
INDICE
De Pyth. or. 402 E 404 D De sera
154 152
559 A 559 C 566 A Non posse
156 156, 226, 277 321
1101 C Quaest. conv.
154
668 F 7 669 A 6 685 C 1 685 C 6 Quaest. nat.
299 299 300 300
912 A Quaest. Plat.
226, 277
1007 D 1007 E Rom.
344 344
28 28, 8 28, 10 Porfirio Ad Gaur.
330, 343 320 320
II 22, 34, 20 XI 3 Ad Marc.
191 327
24
284
483
INDICE
ap. Macrobio, In Somn. Scip. I 2, 17 (I) 8 A.-M. 72 ap. Proclo, In Remp. II 107, 5 K.
70
ap. Proclo, In Tim. I 116, 25 D.
192
De antro nymph. 10 10, 8 10, 11 11 fr. 80 S. Sent.
187, 326 188 188 320, 326 327
29 Vita Plot.
329
23, 11 Vita Pyth.
245
42 Posidonio fr. 289 T. fr. 370 T. Proclo In Crat.
96
CLXXIV 97, 21 P. In Remp.
358
II 96, 11 K. II 96, 13 K. II 105, 23 K. II 107, 5 K. II 156, 17 K. II 157, 24 K. II 270 K.
187 70 70 70 358 358 195
239 67
484
INDICE
In Tim. I 75, 30 D. I 77, 6 D. I 77, 24 D. I 116, 25 D. I 117, 18 D. III 325, 28 D. Inst. theol.
191 191 191 192 192, 194 358
prop. 131 Protagora 80 A 1 DK Seneca Agam.
105 85
101 102 Ep.
217 217
58, 22 58, 23 65, 2 Quaest. nat.
226 226 131
II 5, 1-2 III 7-9 VII 30, 4 Senofane 21 A 1 DK 21 A 28 DK 21 A 30 DK 21 A 32 DK 21 A 33 DK 21 A 35 DK
233 217 68 203 161 161 326 326 161
485
INDICE
21 A 38 DK 21 A 40 DK 21 A 41a DK 21 A 46 DK 21 B 15 DK 21 B 18 DK 21 B 27 DK Senofonte Mem.
233 326 326 233 85 105 311
I2 Symp.
105
III 5-6 Sesto Empirico Adv. Math.
58
II 8, 8 VII 126 VII 132 VII 349 IX 337 X 37 X 42 X 216 X 233 Pyrr. hyp.
65 335 120 223 112, 223, 282 224 224 223, 282 181, 223
I1 I 40 I 55 I 56 I 210 I 210, 4-6
282 223 223 223 281 282
486
INDICE
I 210, 6-9 I 212 III 138 III 188 III 229 III 230 III 232 Simplicio In Categ.
224, 282 282 282 280 280 200, 280 283
8, 5 D. In De caelo
44
307, 15 H. 370, 1 D. 370, 29 D. 371, 4 D. In Phys.
147 305 306 306
23, 33 D. 23-24 D. 50 D. 77, 30 D. 82 D. 181, 17 D. 887, 1 D. 1313, 8 D. Sinesio De insomn.
146, 147, 244 146 109 227, 277 109 145 132 227, 277
7, 35, 33 Sofocle Ag.
330
160
49
487
INDICE
Aj. 646 1356 Ant.
81, 96 310
26 Trach.
310
170 173 Stobeo I 25 I 49, 39 III 1, 177 III 5, 6-8 III 5, 8 III 17, 42, 20-22 III 17, 42, 22-26 III 17, 42, 26-34 IV 41, 1, 1 IV 44, 60 Strabone Geogr.
42 42
I 3, 12 X 3, 9 XVI 4, 21 XVI 4, 26 Talete 11 A 22 DK 11 A 23 DK
241 67 298 298
234 156, 244 133 322 314 317 317 317 212 237
203 203
488
INDICE
Temistio In De an. 13, 27-28 H. Or.
185
V 68 D 7 V 69 B 7 Teofrasto fr. 225 (Phys. op., fr. 1), I 406 F.
74 74 133, 147
De sens. 3 9 11 Hist. plant.
335 173 173
II 7, 4 Met.
310
15 Tertulliano Contr. Val.
311
15 De an.
65
IX 5 Varrone ap. Agostino, De civ. Dei VI 5 VI 2-9 VII 5-6 Zenone di Cizio ap. Stobeo, I 25 fr. 162 A. Zenone di Elea 29 A 18 DK
200 57 57 57 234 115 353