Il melodramma 8878702390, 9788878702394


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Il melodramma
 8878702390, 9788878702394

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STUDI SUL CINEMA Collana diretta da Paolo Amalfitano, Silvia Carandini, Franco Monteleone

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I LIBRI DELL’ASSOCIAZIONE SIGISMONDO MALATESTA

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L'illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 978-88-7870-239-4 © 2007 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

Il Melodramma

INDICE

Introduzione di Elena Dagrada....................................................

p. 11

Nota bibliografica.................................................................. » 19 Thomas Elsaesser

A Mode ofFeeling or a View of the World? Family Melodrama and the Melodramatic Imagination Revisited*............................... » 23 Dominique Nasta

Lhyperbole dans le cinéma européen des années Dix*.............. » 69 Emilio Sala

In che senso El Dorado di Marcel L’Herbier è un mélodrame?.....

» 111

Mariouna Bertini

La tempesta e le orfanelle.- da Dennery a Griffith......................

» 145

Lucilla Albano

Lamore impossibile e l'oggetto perduto...................................

» 163

Mario Tedeschi Turco

Paradigma e anomalia musicali in un mèlo classico: Komgold e Deception di Irving Rapper.................................................. » 181 Christian Viviani

Mèlo, 1945-1955: variantes nationales*................................... 9

» 207

Indice

Sergio Miceli

Vertigo.- un modello di drammaturgia filmico-musicale...........

» 231

Giorgio Biancorosso

Melodrama, Anti-Melodrama and Performance. Rereading Le mépris*...................................................................................

» 263

Giovanni Spagnoletti

Così lontano, così vicino. Un'analisi incrociata di A Time to Love and a Time to Die di Douglas Sirk e Die Ehe der Maria Braun di Rainer Werner Fassbinder.................................................. » 323 Jerome

H.

Delamater

Political Melodrama and the Imperatives of Generic Conventions*.......................................................................

* I saggi in lingua straniera sono seguiti dalla traduzione italiana

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» 339

INTRODUZIONE di

Elena Dagrada

Spesso, quando si parla di melodramma, ci si scopre a dover dissimulare un leggero disagio. Il motivo è presto detto. Per quanto armati delle migliori intenzioni, è impossibile sottrarsi alla consape­ volezza di evocare qualcosa che è stato a lungo circondato da un alo­ ne di sospetto, aggravato per di più da una vaghezza che lo rende re­ frattario a definizioni soddisfacenti. Si tratta di aspetti a ben vedere correlati fra loro. Melodramma e melodrammatico, nell’uso abituale che ne viene fatto, sono termi­ ni ambigui che si riferiscono a molte cose insieme. Nel corso del tempo hanno designato varie forme di spettacolo che spaziano da uno specifico genere teatrale all’opera lirica, ma non solo; hanno evocato sentimenti, comportamenti e stati d’animo assai diffusi ma al tempo stesso percepiti come fuori del comune; hanno attraversa­ to l’universo di tutte le arti, ma anche quello della vita stessa. Quan­ to all’alone di sospetto, accentuato dall’incertezza semantica già ri­ cordata, il fatto è che le molte forme di spettacolo — e di tanto altro - abitate dal melodramma nel corso del tempo sono state sempre e comunque fortemente popolari, perciò fin troppo facili da trascura­ re o addirittura disprezzare, spesso proprio in ragione del loro suc­ cesso considerevole. Se poi si intende affrontare il melodramma cinematografico, il disagio si addensa fino a divenire imbarazzo. Anche perché si impo­ ne in tutta la sua complessità l’annosa questione dei generi; e che il melodramma sia un genere (anche) cinematografico, secondo mol­ ti è tutto da dimostrare. Salvo però sostenere che in quanto tale è comunque il più misconosciuto della storia del cinema, così sfug­ gente e così incerto - rispetto a generi più rigidamente codificati e codificabili quali ad esempio il western o la fantascienza -, così fles­ sibile e naturalmente propenso alle contaminazioni, capace di vive­

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Elena Dagrada

re e sopravvivere sotto mentite spoglie e in variegate sfaccettature, ma anche di sviluppare una robusta vena narrativa in grado di coin­ volgere emotivamente lo spettatore, sia grazie alla scelta di temi uni­ versali fortemente popolari (l’innocenza perseguitata, la malvagità punita, il trionfo della virtù...), sia attraverso l’adozione di uno stile giocato su tinte forti e colpi di scena che invitano alla partecipazio­ ne e ne aumentano l’impatto. E se proprio in conseguenza di tali aspetti non ha mai smesso di ottenere il favore del pubblico, popo­ lare ma anche colto, spesso proprio per questo è da più parti rite­ nuto colpevole di portare sullo schermo storie convenzionali e sci­ roppose, colorate da un eccessivo sentimentalismo. In una parola, appunto, «melodrammatiche», dove l’aggettivo melodrammatico non sempre è usato come categoria estetica bensì piuttosto come sinonimo di spettacolo degradato, per il quale la lingua inglese con­ templa l’espressione poco lusinghiera di womens picture. In realtà - e per fortuna - sin dalla fine degli anni sessanta si re­ gistra un’importante inversione di tendenza, che ha risvegliato l’inte­ resse di critici e studiosi di varia provenienza metodologica e dato vi­ ta a ricerche e pubblicazioni di grande rilievo, nonché a rassegne in contesti autorevoli quali festival e mostre del cinema. Un’inversione di tendenza grazie alla quale fluidità e vaghezza non sono più ritenu­ te un male, né è necessariamente ritenuto un male il fatto di non po­ ter considerare il melodramma un genere cinematografico «forte» al pari di western, musical, horror o fantascienza. Infatti, la polivalenza di espressioni quali melodramma e melodrammatico non è di per sé un fatto negativo. Può, al contrario, rivelarsi un ottimo punto di par­ tenza in quanto, come hanno messo in luce Thomas Elsaesser e Pe­ ter Brooks parlando entrambi di immaginazione melodrammatica - Elsaesser in un saggio del 1972, che in questo volume lo studioso aggiorna in un’avvincente rivisitazione; Peter Brooks in due saggi pu­ re del 1972 (usciti rispettivamente su «Partisan Review» e «New Lite­ rary History»), poi confluiti nel celebre studio The Melodramatic Imagination uscito nel 1976 -, evoca soprattutto una modalità del sentire, un’attitudine percettiva, uno spettro di passioni e pulsioni che non si saprebbe come descrivere altrimenti. È stato soprattutto Brooks a metterne a fuoco i connotati par­ lando di estetica dello stupore, individuando il tratto caratteristico

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Introduzione

che dà coerenza all'universo del melodramma in tutto ciò che si può ricondurre alla messa in scena dell’eccesso. Un tratto ottenuto attra­ verso la ricerca dell’effetto spettacolare, della ridondanza insistita, del simbolismo estremo. Sia nel tipo di vicende rappresentate, sia nei personaggi fuori dell’ordinario che ne sono protagonisti, nella violenza dei sentimenti che veicolano, nelle circostanze eccezionali in cui accadono, nell’ambientazione simbolica che le circonda, nelle brusche rotture di tono del ritmo a cui si svolgono, e non da ultimo nell’estremismo etico e ideologico che le attraversa, fatto di con­ trapposizioni morali schematiche e di conflitti tra valori assoluti co­ me il Bene e il Male. In altre parole, una visione del mondo e un mo­ do di porsi nel mondo. Nasce, è vero, come «genere» specifico — ancorché misto in quanto mescola musica e recitazione, spettacolo ed effetti speciali, pantomima e danza. Il mélodrame, infatti, derivato appunto dall’u­ nione di musica e pantomima dialogata, è anzitutto un genere di spettacolo popolare in voga nella Francia di fine Settecento, che si diffonde in tutta Europa a partire dagli anni della Rivoluzione fran­ cese e si impone per la potenza delle sue rappresentazioni dramma­ tiche, della recitazione ridondante, dell’azione iperbolica, anche gra­ zie a un uso originale ed efficace dell’accompagnamento musicale, volto ad esprimere una carica emotiva particolarmente intensa e a sottolineare il simbolismo delle situazioni, la forza dei gesti, il signi­ ficato degli sguardi. Ma il mélodrame non è mai, nemmeno ai suoi albori, il luogo esclusivo dove risiede il melodrammatico; non è neppure, nel corso del tempo, il più significativo. Anzi: l’immaginazione melodrammati­ ca investe presto anche altri ambiti artistici, compreso il romanzo e le arti figurative. Sconfina al di fuori dei generi di arti e spettacolo fi­ no a raggiungere le sfere della vita stessa, nelle sue zone pubbliche e private. Non a caso, già lo si è ricordato, il termine è presente nel linguaggio comune, anche riferito a sentimenti e comportamenti. Il melodrammatico, insomma, non trova collocazione esclusiva in un solo genere, neppure in ambito teatrale o musicale. Anche per questo, più che di melodramma come genere in senso stretto, risul­ ta assai produttivo parlare appunto di melodrammatico come cate­ goria estetica. Uno slittamento che va di pari passo con la messa a

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Elena Dagrada

fuoco di una specifica modalità del sentire che attraversa i generi di più ambiti artistici, è a ben vedere ancor oggi di grande attualità, e niente affatto in contraddizione con la propria radice etimologica. Prescindendo infatti dal significato del termine melodramma nel senso di «opera» e «operistico» - un uso più antico del genere mélodrame, ma limitato alla sola lingua italiana, come ci ricorda Emi­ lio Sala in queste pagine - il prefìsso melos rimanda comunque alla musica, che nel mélodrame svolge un ruolo attivo. Sia in ambito col­ to (ad esempio in Rousseau, Schumann o Stravinskij), sia in ambito popolare (in Pixerécourt, Ducange, o ancora Bouchardy), viene in­ fatti definito mélodrame quel modo spettacolare in cui la recitazio­ ne di un testo si alterna o viene accompagnata da una musica com­ posta per l’occasione. Senza alcuna vaghezza. Presa alla lettera, una tale definizione invita a considerare la possibilità che tutto il cinema, o comunque una sua gran parte - in quanto racconto recitato con accompagnamento musicale - possa essere ritenuto una sottospecie AeXgetius melodrammatico. Non da ultimo, proprio per il ruolo attivo che vi svolge la musica, analogo a quello che sarà della colonna sonora, massicciamente intrecciato al suo linguaggio comunicativo e alla sua estetica. Anche nel mélodrame l’elemento visivo è preponderante ri­ spetto a quello verbale, proprio per la sua capacità di far parlare di­ rettamente i corpi e portare in superfìcie i conflitti e le realtà più profonde. Attraverso la gestualità degli attori, ma anche attraverso un sapiente utilizzo della musica, che ha il compito di stigmatizzare le scene più emblematiche, accentuare i contrasti, sottolineare moven­ ze e sguardi e conferirvi una carica emotiva più intensa. Una formula ereditata da tutto il cinema muto - indipendentemente dal «genere» - che ne prosegue la tradizione spettacolare affidando al linguaggio dei corpi e al commento musicale, largamente presente fin da subi­ to, il compito di tradurre in superficie visibile le più profonde dina­ miche interiori, spesso codificate in gesti tipici, espressioni e pose im­ mediatamente leggibili dal pubblico. Neppure l’avvento del sonoro sopprime del tutto il patrimonio di questa estetica (né ci riesce la sua trasmigrazione in generi televi­ sivi come la soap opera o, più di recente, il reality show). Anzi, se da un lato il sonoro vede scemare la ridondanza dell’enfasi recitativa,

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Introduzione

dall’altro si arricchisce con dialoghi potenti, elaborati in sintonia con la retorica del melodramma, tesa a significare verità cosmiche con frasi semplici solo in apparenza. E ben presto alterna il marcato sim­ bolismo del chiaroscuro in bianco e nero ad un sapiente uso del co­ lore, in scenografìe altrettanto spettacolari. D’altronde, che il cinema sia l’erede legittimo e storicamente più accreditato del mélodrame è stato ribadito da più parti, anche dallo stesso Brooks - ma pure da Elsaesser, Goimard, Sala e nume­ rosi altri. Così come è stato sostenuto che il cinema tutto, in quanto genere spettacolare, sia da ritenersi melodrammatico, mentre i suoi cosiddetti «generi» si possono considerare come altrettanti «sottoge­ neri». Se il genere cinematografico melodramma è debole, insomma, la sua matrice categoriale è invece forte, fortissima, al punto che co­ lora di sé tutti gli altri generi. Non a caso, in altra sede, Lucilla Alba­ no ha potuto introdurre una filmografia del melodramma nel cine­ ma americano citando un western; e d’altronde, non è forse un esempio di sensibilità melodrammatica l’accompagnamento musica­ le di Stagecoach (Ombre rosse, John Ford, 1939)? Se insomma il genere non esaurisce la categoria, che può tro­ vare privilegiata espressione di sé nel melodramma (al pari del co­ mico nella commedia, o del tragico nella tragedia) ma non vi si esau­ risce né vi si identifica in modo esclusivo - neppure in ambito tea­ trale o musicale, lo si è visto - ciò accade anche in ambito cinema­ tografico, dove il melodrammatico attraversa tutti i cosiddetti gene­ ri, non foss’altro che a partire dall’uso predominante che viene fatto della colonna sonora. Va da sé che tutto ciò spinge a rivisitare il campo del melo­ dramma cinematografico - e del melodrammatico nel cinema - se­ condo nuove prospettive, nuovi criteri storiografici e spunti critici inediti quanto accattivanti. E spinge a chiedersi se il progressivo al­ lontanamento dalla radice etimologica del melodramma ci autorizza davvero a ignorarne il lungo passato musicale (che, ripetiamolo, non va confuso con «operistico»), oppure se fare i conti con le sue origi­ ni e le sue applicazioni anche nella storia della musica europea non può portare a considerazioni produttive pure per una miglior com­ prensione della categoria del melodrammatico. A chiedersi se il fat­ to di ripercorrere alcune pagine di cinema alla luce del melodram-

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Elena Dagrada

matico in musica non possa rinvigorire, arricchire e persino in parte modificare la nostra comprensione del melodramma e del melo­ drammatico nel cinema. E in questa duplice prospettiva che si collocano i contributi qui raccolti. Alcuni di essi, più in particolare, affrontano espressamente la questione da una prospettiva musicologica (Emilio Sala, Mario Te­ deschi Turco, Sergio Miceli, Giorgio Biancorosso). Ma tutti, in ogni caso, affrontano il melodramma anche a partire dalla categoria del melodrammatico, pure quando ne studiano i tratti più specifici (Do­ minique Nasta, Christian Viviani). E se non tutti i film qui analizzati sono melodrammi puri e «forti», sono comunque film attraversati, ciascuno in modo diverso, dal melodrammatico. Sono riuniti in ordine cronologico proprio per dar conto del fat­ to che melodramma e melodrammatico partecipano a tutte le fasi e a tutti gli ambiti del cinema e della sua storia (qui limitata all’area geografica occidentale): dal muto al sonoro, dal bianco e nero al co­ lore, in declinazione popolare o raffinata e colta. A dimostrazione che non solo attraversano con successo l’intero arco della storia del cinema, ma ne rappresentano nel contempo uno degli aspetti più universali e significativi, capace di ripensarsi e ripresentarsi in cia­ scuna nuova epoca e in ogni nuovo contesto. E sono in un certo senso introdotti dal contributo di Elsaesser, che ribadisce l’attualità del melodramma e ne individua le manifesta­ zioni più recenti in luoghi all’apparenza insospettabili e insospettati. Ritrovando, così, le affermazioni di Brooks secondo cui il melodram­ ma è a ben vedere una componente della psiche umana, una costan­ te di primo piano nella storia dell’immaginazione dei tempi moderni. In gioco, infatti, non c’è solo la rilettura di momenti importan­ ti della storia del cinema, da L’Herbier a Hitchcock (nei saggi di Sala e di Miceli), da Griffith a Sirk e Matarazzo (in quelli di Mariolina Ber­ tini e Christian Viviani), da Godard a Fassbinder (nelle riflessioni di Giorgio Biancorosso e di Giovanni Spagnoletti), così come delle con­ venzioni di genere e della sensibilità melodrammatica dagli anni die­ ci fino al volgere del millennio (nei saggi di Dominique Nasta, Lucil­ la Albano, Mario Tedeschi Turco, Jerome Delamater, Thomas Elsaes­ ser e nuovamente Christian Viviani). C’è anche un possibile contri­ buto più generale a una rinnovata topografia del melodrammatico.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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Elena Dagrada

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Nota bibliografica

P Roelens (a cura di), Pour une bistoire du mélodrame au cinéma, numero spe­ ciale di «Les Cahiers de la cinémathèque», n. 28, 1979E. Sala, L'opera senza canto. Il mèlo romantico e l'invenzione della colonna so­ nora, Marsilio, Venezia 1995. E. Sala, The message? It's a tune. Per una drammaturgia del «suono rivelatore» e del «coup de musique» dal mèlo al cinema, in «Musica/Realtà», n. 74, luglio 2004. G. Spagnoletti (a cura di), Lo specchio della vita. Il melodramma nel cinema contemporaneo, Lindau, Torino 1999M. Walker, Melodrama and the American Cinema, in «Movie», n. 29-30, 1982.

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Questa nota bibliografica è da intendersi come essenziale e comunque re­ lativa al solo melodramma cinematografico. Nel redigerla si è tenuto conto unicamente di studi critici di carattere generale sul melodramma (o su al­ cuni dei suoi aspetti), in particolare hollywoodiano e italiano. Si è quindi esclusa deliberatamente l’area asiatica, così come si sono esclusi gli studi sui generi o su determinati registi, qualora non affrontati esclusivamente attra­ verso l’ottica del melodramma. [N. d. C.]

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A MODE OF FEELING OR A VIEW OF THE WORLD? FAMILY MELODRAMA AND THE MELODRAMATIC IMAGINATION REVISITED

di Thomas Elsaesser

Affect and Emotion: Elements of a Debate Western Enlightenment philosophy (and common sense) usu­ ally makes a clear distinction between head and heart, reason and emotion, the rational-logical and the non-rational-associative. This division has often been challenged by the Romantics, by Friedrich Nietzsche, by fin de siècle décadents, by surrealism and psycho­ analysis. More recently, it has come under scrutiny by the cognitive sciences, many of whose practitioners now tend to look at affect and emotion as cognitive factors, governing many of our choices and regulating even our goal-oriented, so-called «rational-agent» behaviour1. Such a position is not exactly alien to the study of cinema, guided by the notion that the moving image is a particularly affect­ ive, psychically charged experience. The most consistent body of theory to have investigated this question in film studies is psycho­ semiotics, inspired by Jacques Lacan. But in fact, psychoanalysis does not deal with emotions, it concerns itself with drives and desire: libido and the death-drive, eros and tbanatos. It has much to say about psychic ambivalence, but relatively little about the emotions that accompany these ambivalences2.

1 R. Allen, M. Smith (eds.),Fz7/n Theory and Philosophy, Clarendon Press, Oxford 1997; G. Currie, Image and Mind: Film, Philosophy and Cognitive Science, Cambridge University Press, New York 1995; T. Grodal, Moving Pictures: A New Theory of Film Genres, Feelings, and Cognition, Clarendon Press, Oxford 1997. 2 M. Klein, Notes on Some Schizoid Mechanisms, in The Writings of Melanie Klein, Volume 111: Envy and Gratitude, Macmillan, New York 1975-

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Thomas Elsaesser

My proposition is to revisit this discussion of the place of affect and emotion, tears, shame, embarrassment, pathos in the film ex­ perience, but to concentrate, in the first half of this essay, on the part that I was personally involved in, namely the debate around Hollywood melodrama. Melodrama, as the word indicates, means in the first instance no more than the combination of music and drama. In film studies it has taken on a relatively wide range of meanings, connotatively as well as in its denotations. Broadly speaking, how­ ever, it has come to stand for a form of drama or narrative that is typ­ ified by a number of features. Often used in a pejorative sense, the adjective «melodramatic», signifies the narrative structure and its regime of verisimilitude. Melodramatic means that the work in question is based on improb­ abilities in its plot elements and story turns, is fake in its dramatic ironies, inauthentic in its pathos, sentimental and nostalgic in its emotional register, calculating and even cynical in its effects, using a deus ex machina, e.g. a chance encounter, a last minute rescue, or the intervention of an external agent, in order to produce a happy ending or at least to bring matters to a satisfying closure. As a noun, melodrama implies a stark (and often exaggerated) contrast between good and evil, virtue and vice, innocence and cor­ ruption. Peter Brooks, for instance, has stressed the extent to which stage melodrama of the 19th century embodied a Manichean world­ view of either/or, black or white: no nuances, no shades of grey, no both/and3. As an indication of a moral stance, or a mode of experience, melodrama suggests that the world is viewed and acted upon through an affective response, which gives rise to a moral emotion, such as righteousness. Melodrama can mean an experience of the self that is re-active and performative, as opposed to being pro-active and goal-directed. Finally, melodrama is a narrative whose aim is to generate moral legibility for the recognition of virtue, i.e. the virtuous need to be tested through trial and tribulation, sometimes even under­ 3 P Brooks, The Melodramatic Imagination: Balzac, Henry James, Melodrama and the Mode of Excess, Yale University Press, New Haven 1976.

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A Mode

of

Feeling or a View

of the

World? Family Melodrama. ..

going abjection or self-abasement. The central characters see them­ selves (and are seen by the spectator) as victims, who generally do not «leam» from their misfortune, even if they could. They are serial sufferers and paragons of rectitude. Given the gender bias in our culture this means they are mostly female. As a consequence, melo­ dramatic narratives are generally told from the point of view of the victim, implying a special kind of pathos that arises from the positive valorisation of helplessness. Besides women, it is children that often feature as chief protagonists, since they, too, naturally provide a per­ spective of innocence and helplessness. Thus, unlike the heroes of tragedy, those of melodrama do not have a flaw (amartia), but like those of tragedy, the moment of recognition (anagnorisis') usually arrives too late. Because of these comparisons, and because the excessive feelings displayed can have an unintentionally comic effect, melodrama is sometimes regarded as failed tragedy.

Tales of Sound and Fury Not all of these points on the semantic map of melodrama were directly touched upon in my 1972 essay Tales of Sound and Fury: Observations on the Family Melodrama 4. As probably the first writer on cinema (in the English-speaking community) to make a case for the idea of film melodrama in its positive connotations, I went back to literary studies and theatre history. I tried to apply to the cinema a term that had been used descriptively to analyse tend­ encies and sub-genres of late 18th century bourgeois tragedy, mid 19th century popularfiction and operatic forms, as well as late 19th century popular stage drama. Drawing on these varied traditions of literature, music and drama I wanted to create a genealogy for 4 T. Elsaesser, Tales ofSound and Fury: Observations on the Family Melodrama, first published in «Monogram», no. 4,1972, subsequently reprinted in B. Nichols (ed.), Movies and Methods, University of California Press, Berkeley 1982; G. Mast, M. Cohen (eds.), Film Theory and Criticism, Oxford University Press, Oxford 1992; B. K. Grant (ed.), Film Genre Reader II, University of Texas Press, Austin 1995; C. Gledhill (ed.), Home Is Where the Heart Is, BFI Publishing, London 1987.

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Thomas Elsaesser

Hollywood cinema, in order to highlight certain films from the late 1940s and 1950s, often known disparagingly as «women’s pictures», «tear-jerkers» or «weepies». The intention was to signal that such a mixed dramatic mode (drama and music) and such a hybrid genre (of high moral seriousness and popular sensationalism) had under specific historical conditions, notably the struggle of the bourgeoisie against the remnants of the aristocracy, been instrumental in articu­

lating a major conflict between private and public spheres. Melodrama, I claimed, showed that the right to privacy, and this included the public right to the emotional unprotectedness of one’s feelings was a political act. This message - drawn from the history of popular entertainment, and especially the cult of «sentimentality» and of «the beautiful soul» during the century that followed the French Revolution - was, of course, directed at my own generation, who after 1968 had declared the private sphere - of subjectivity, expanded consciousness through drugs, open sexuality and gender inequality - to be the main arena of political struggle. Championing melodrama, in other words, could be seen as a gesture of support for what was then known as the counter-cultural revolution. By deploying a rhetoric of excess, as well as exploiting the a-symmetries of pathos and the tropes of dramatic irony, melodrama gave a voice to those who do not have a voice («the language of muteness»), and even contributed to conflict resolution (by exposing a society’s fun­ damental contradictions). It was a proposition that was deliberately provocative and para­ doxical, because how can an excessively emotional discourse help resolve a conflict, when every study of conflict resolution tells us that one first has to take the heat - i.e. the emotion - out of the dispute and then teach both sides to see the point of view of the other.

Melodrama: from Douglas Sirk and Vincente Minnelli to Feminist Film Theory Subsequently, as it became a widely-used critical term in the vocabulary of emerging film studies, «melodrama» was to share a fate similar to that of «film noir». Both were genre-labels «invented» by

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A Mode of Feeling or

a

View of

the

World? Family Melodrama. ..

European critics, applied to films that for the Hollywood studios (which had made them or even the mass audience which had watched them), belonged to other genres. Like film noir, melodrama (invented in the 1970s for films of the 1950s) was sometimes frus­ tratingly vague in its definition. One scholar attacked it as a phantom genre5, but the advantage was that as an indeterminate term, it could address a number of hidden agendas and even have unintended con­ sequences. Some of these agendas and consequences throw some light on the political context of film culture in Britain at the time. An unstated, but strongly implied premise in my essay, for instance, was the conviction that mainstream Hollywood cinema could be «criticai» instead of merely «affirmative» of the American Dream. Subversive potential had previously been associated mostly with the work of bona fide auteurs. My aim, as a critic and partisan cinépbile of Hollywood, at a time when US foreign policy, notably in Vietnam and Latin America, had come under fierce attack, was to adopt a «counter-intuitive» stance, by claiming a contradiction at the heart of its cinema. In other words, I stuck to 1960s French auteurism, when Cabiers du cinéma had all but abandoned it, by arguing that mise-enscène criticism could extend also to films made by less well-known directors and could rescue or redeem a hitherto despised genre or a cycle of films. With the idea genre came the second unstated premise of my argument, namely the notion of social representativeness, because the implicit assumption was that genres carry social messages. As aes­ thetic forms they address the value systems of a given society, expose the limits and boundaries of these values, and if necessary, negotiate a new consensus around their re-articulation and re-positioning. Genres were thus important pointers to the state of the social body, with regards to manners, ideals, lifestyles and moral codes. The third unstated premise was probably the most controversial, certainly in the early 1970s: namely that popular cinema generally, and melodrama in particular, should be regarded as a modernising force, rather than as reactionary However, this modernity or mod­

5 R. Merritt, Melodrama: Postmortem for a Phantom Genre, «Wide Angle» 5 (3): 25-31, 1983-

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ernisation had to be distinguished from what was called «mod­ ernism», i.e. the practices of the avant-garde (and their often elitist philosophy, even where they were politically radical and left-wing) in the arts and literature during the first third of the 20th century. Melodrama, as the term was used in the 1970s for Hollywood films thus came with quite a political charge. It set itself off from the avant-garde as traditionally understood, by its appeal to emotions (as opposed to Brechtian distanciation) and its reliance on narrative (as opposed to «epic», anti-Aristotelian, or «parametric» principles). But melodrama was also opposed to realism - both to Brechtian ideas of realism, because of its unashamed use of illusionism and spectacle (in those days the politically correct strategy was anti-illusionism) and to neo-realism, because of its use of trained actors, indoor stu­ dios, lighting codes, colour schemes, romantic music and manifestly «fake» sets, even for natural surroundings. One of the directors to whom this populist critique of realism seemed to apply most clearly was Douglas Sirk, who had himself been a «Brechtian» of sorts in his early career, directing Brecht/Weill’s The Threepenny Opera when still a theatre director in the late 1920s in Berlin and Dresden. Around 1971, Sirk was «discovered» in Britain, by Laura Mulvey, Jon Halliday and myself6. In quick succession, his films became the subject of a retrospective at the Edinburgh Film Festival, and the director himself the object of several critical essays7. At the centre of the debate around Sirk was, again, the tension between an Eisenhower-postwar conformism on the surface, and a peculiar kind of subversiveness in his style and mise-en-scène, hinting at emotional excess and hidden ironies, especially in the «fake» happy endings.

Tales of Sow id and Fury: Observation on the Family Melodrama had, as far as I was concerned, at least two other unintended con­ 6 See «Screen», vol. XII, no. 2, Summer 1971 (special Sirk issue); L. Mulvey, J. Halliday (eds.), Douglas Sirk, Edinburgh Film Festival, 1972; J. Halliday, Sirk on Sirk, Seeker & Warburg, London 1971 & 1997. 7 Besides the booklet to coincide with the retrospective at Edinburgh, there were also essays by Paul Willemen, Towards an Analysis of the Sirkian System, «Screen», vol. XIII, no. 4 (1972-1973), pp. 128-134; and S. Neale, Douglas Sirk, «Framework», no. 5 (1976-1977), pp. 13-15.

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sequences. One was to promote the discussion of what we meant by classical Hollywood narrative (beyond author and genie) 8 and the other was to influence the emergence of feminist film studies. Laura Mulvey’s essay on Sirk 9 preceded her more famous one on Hitchcock and Sternberg, better known as Visual Pleasure and

Narrative Cinema1011 .

The Family Melodrama: the «Bad Conscience» ofAmerican Affluence? Before, however, following the trail of melodrama, revised and redefined, but also extended into television during the 1980s, it may be useful to briefly list what types of plot situations, conflicts and domestic constellations had become identified with the family melodrama as opposed to, say, the «maternal melodrama» ”, or the «melodrama of the unknown woman» 12. The narratives that I was particularly struck by as belonging to an identifiable group tended to feature: firstly, autocratic fathers and wayward sons, or illegitimate sons ignored by their fathers, and legitimate sons wishing for elect­ ive, idealised fathers (Minnelli’s Home from the Hill, I960; Sirk’s Written on the Wind, 1956). Secondly, mirroring the gender-divide, they often featured daughters that rejected their mothers, because they were ashamed of them, usually on grounds of class or race (Sirk’s Imitation of Life, 1959), while the mothers sacrificed them­ selves for their daughters, so that these can have a more boring, but respectable middle class life (King Vidor’s Stella Dallas, 1937). Thirdly, equally typical were sexually promiscuous fathers and daughters, with unresponsive wives and impotent sons (Minnelli’s 8 B. Klinger, Melodrama arid Meaning: History, Culture, and the Films ofDouglas Sirk, Indiana University Press, Bloomington 1994. 9 L Muivey, Notes on Sirk and Melodrama, «Movie», no. 25 (1977-1978), pp. 53-56. 10 L Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, «Screen», vol. XVI, no. 3, Autumn 197511 E. A Kaplan, The Case of the Missing Mother: Patriarchy and the Maternal in Vidor's Stella Dallas, «Heresies», vol. IX no. 4 (1983), pp. 81-85; L. Williams, Something else besides a Mother.- Stella Dallas and the Maternal Melodrama, «Cinema Journal», no. 24, Fall 1984, pp. 2-27. 12 S. Cavell, Contesting Tears.- The Melodrama of the Unknown Woman, University of Chicago Press, 19%.

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The Cobweb, 1955; Nicholas Ray’s Rebel Without a Cause, 1955). Finally and more generally, a climate of repressed family violence self-destructive behaviour, drug addiction, alcohol - produced these disoriented and unhappy adolescents, as well as the no less disori­ ented parents (Minnelli’s Some Came Running, 1958; Cukor’s The Chapman Report, 1962; Sirk’s Written on the Wind, Nicholas Ray’s Bigger than Life, 1956). In other words, what appeared on screen in these films from the 1950s were highly dysfunctional middle-class families, neurotic and tormented, whose lives, amid all the suburban splendour of green lawns, well-tended homes and chrome-finned automobiles were in ruins, broken. Not because the protagonists had no ambitions, ideals or values, but almost the opposite: because they aimed so high, yearned for so much self-fulfilment, felt so much unrequited love for unworthy or unattainable partners. The paradox was that here was Hollywood - at a time when America had won not just the war, but the peace as well with an unprecedented rise in living standards (and winning universal hegemony with its popular culture) - making big budget films that luxuriated in emotional angst and psychic misery. A struggle seemed to be going on between the official, public discourse of United States self-confidence and leadership in the Western world, and the inner, emotional life of middle-class Americans, especially its women, put in the gilded cage of suburban prosperity and family life. It was as if a lowly cinematic genre had shown the psychic cost of affluence - indicative of a deeper cultural malaise, or even bad conscience — of American society and its values. That such a malaise could find form and expression in what was part of mass-entertainment, produced by the American studio-system, with its strict self-censorship rules seemed the more astonishing. Hollywood, for many obvious reasons, did not set out to be critical or subversive, and yet, these films - whatever their «happy endings» could certainly be read against the grain. The exact nature of the dysfunctionality of the family was often not made explicit in the narrative. The plot situations, as can be gleaned from my sketch, revolved around authority, sexuality, gen­ erational conflict and identity - the core ambivalences and tensions associated with the so-called «Oedipus complex». And there is

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suffering and oppression. Melodrama of the 1950s, discussed in the 1970s, acted retroactively as a modernizing force, seeming to anticipate major changes in family structures and the relation of the sexes during the second half of the 20th century. One consequence of this strong identification with a women’s agenda also meant that melodrama, rather than being a specific genre or cycle of Hollywood films, came to be regarded, and not only by feminist film scholars, as a more fundamental «mode of feeling», a «structure of affect» and a form of identity politics, often centred on victim-hood. But critics also began discussing the «melodramatic imagination», identifying it at first with women’s experience of person-hood and subjectivity (that is, as a highly contradictory and often self-defeating form of experience) under patriarchy, yet also saw it increasingly as the mode appropriate for other minorities, oppressed or marginalised by «the system». In these debates it was sometimes not clear if melodrama was part of the problem, because it grossly distorted the realities of sexuality and sexual preference, as experienced by those who felt themselves thus mzsrepresented in melodramas. Or were the films part of the solution, because they demonstrated — in the absurdities of their plots, the contrivance of their characters’ predicament, the double binds of the moral dilemmas, the vicious circles of the fake happy endings - that the dominant patriarchal, racist or sexist ideology was unable to «nat­ uralise» the contradictions, or to disguise the «constructendness» of its cultural representations?

Representation and Cultural Identity Politics: Melodrama in tbe 1990s Beginning in the mid-1980s and continuing into the 1990s, then, the critical discourse around melodrama was called upon to «address» issues other than those peculiar or unique to women. It was the ques­ tion of «representation» in popular culture more generally, i.e. beyond class and gender, and also across race, ethnicity and similar cultural constructions of identity, minority and otherness. In the extension of melodrama to the study of television, it was daytime­

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serials and in particular soap operas directed at women working in the home 14, but also prime-time high-production values pro­ grammes, that attracted the attention of not only feminist scholars. Dynasty and Dallas were the shows that became paradigmatic for the family melodrama on television, with its continuous reconfiguration of relations of power and gender, of patriarchal and matriarchal modes of affect-management as well as asset-management, but also with its international, culture-specific modes of reception15. Similarly, television began to take up key historical events or catastrophes (slavery, the genocide committed against the Jews in Germany) into melodrama and soap opera. Early examples were Roots (1977) and Holocaust (1979), paralleled by films (in Europe) dealing with the Nazi era, e.g. Gotterdaemmerung (Luchino Visconti, 1969); Il Conformista (Bernardo Bertolucci, 1969); Night Porter (Liliana Cavani, 1974); Lacombe Lucien (Louis Malle, 1974); The Serpent's Egg (Ingmar Bergman, 1977); The Marriage of Maria Braun (Rainer Werner Fassbinder, 1979) and in Hollywood with films such as The Color Purple (Steven Spielberg, 1985) or Schindler's List (Steven Spielberg, 1993). The broadly cultural studies perspective on the melodramatic mode, where its feminist agendas included the analysis of Harlequin romances 16 and women’s magazines 17, favoured an extension of melodrama into the analysis of media events, such as Royal Weddings. At the same time, the reporting of natural catastrophe or human disasters, such as earthquakes, floods, famines, civil wars and genocide took on the forms typical of melodrama - isolating women and children, depicted as victims, and shown in scenes of emotional confrontation.

14 T. Modleski, Loving with a Vengeance, Mass Produced Fantasies for Women, Archon Books, New York 1982. 15 I. Ang, Watching Dallas.- Soap Opera and the Melodramatic Imagination, Methuen, London 1985; J. Gripsrud, The Dynasty Years: Hollywood Television and Critical Media Studies, Routledge, London 199516 J. Radway, Reading the Romance: Women, Patriarchy and Popular Literature, University of North Carolina, Chapel Hill 1984. 17 J. Hermes, Women's Magazines-. An Analysis ofEveryday Media Use, Polity Press, Cambridge 1995-

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As far as certain public events are concerned, the melodramatic mode seemed to have been pre-programmed into the very nature of the event’s occurrence and the sheer improbability of their hap­ pening at all, as if God himself was an aficionado of melodrama. Or as if (the more likely alternative) the very success of psychoanalysis as a cultural discourse in the latter half of the 20th century meant that there was no longer a hidden unconscious. Instead, uncon­ scious desires, oblique motives, neurotic obsessions had come to the surface and into plain view, in what Freud had called the psy­ chopathologies of everyday life. This occurred most notably and spectacularly when Diana Princess of Wales lost her life in a car crash in Paris in 1997. The shock of her death felt not only in Britain but elsewhere too, con­ sidering the extraordinary outpourings of public grief and ostenta­ tious mourning that followed. As a new type of media-phenomenon, it showed the power of press and television to orchestrate mass-outbursts of emotion and affect, which could also have political con­ sequences, in this case, seeming to threaten the very survival of the British monarchy. Almost ten years after her death, her story still makes headlines, with astonishing, sensationalist revelations. Thanks to modern audio-visual technology, Diana now speaks to us from beyond the grave, accusing her husband of treachery and revealing how, knowing that she was pregnant, she had thrown herself down the stairs, in front of Prince Charles, about to leave the house to go horse-riding, probably with his mistress. No Victorian novelist could have invented a more clichéd scene, but here was this modern young woman, addicted to jogging and to pop music by George Michael and Elton John, and herself no stranger to sexual adventure, enacting a melodrama that her husband’s great-grandmother’s maid might have avidly read under those very stairs in Buckingham Palace. Princess Diana has become a sub-genre of the «maternal melodrama», with the added twist that she refused to sacrifice herself, but was then «sacrificed» - by the media that made her famous. As such she was both disco-queen rebel and traditional female victim, she was both manager of her pop-star fame and manipulated by the forces she had helped into being.

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Melodrama at the Turn of the Century-. Cinema, Television and Media Politics Such generically different examples as the feature film Schindler's List, the death and funeral of Diana Princess of Wales (or that of Pym Fortuijn in the Netherlands in 2002), the television reportage of the genocide in Rwanda, and the civil wars in Bosnia and Kosovo indicate how persistent the melodramatic mode of representation and the melodramatic imagination of conflict and struggle have remained in popular culture. Reality-TV or «emotion-television» and the prolifer­ ation of talk shows also indicate that the public presentation of private emotions is destined to remain a fixed feature of our media landscape. Melodrama has become - paradoxically, given the problem I started with (its opposition to realism) - the most dominant mode of media

authenticity. At the same time, melodrama’s emotional logic, dramatic rhet­ oric and narrative strategies have affected our idea of politics and current affairs as well as how we experience the truth and legibility of public events. Melodrama also, thanks to television, now reaches deep into the fabric of how we perceive ourselves in relation to others, not just those close to us (the family) but the distant and antagonistic (the ethnic other as neighbour in our city, region or country). In the course of these transformations, melodrama has also changed in character and significance. One of the most striking instances would be the role of melodrama in the representation of history18. Melodramatic modes have profoundly marked our idea of the past and how we remember it, in the sphere of personal memory as well public commemoration. Monuments are no longer what reminds us of the past: we need a story, we need to identify (with) 18 In line with what I have already indicated about the 1990s, melodrama as a mode is no longer confined to film narrative, or indeed to fictional events or charac­ ters. It has even become a respectable form of representing history, tracing a line of descent from Griffith’s The Birth of a Nation (1915) to David Lean’s Doctor Zhivago (1965), from Roots (1977) and Marvin Chomsky’s Holocaust (1978) to Bernardo Bertolucci’s Novecento (1976) and Edgar Reitz’s Heimat (2004). In the course of these mutations and migrations, from film epic to television series, and from mainstream Hollywood to European art cinema, melodrama has also transformed from a genre into a mode of feeling, and from a mode into a view of life.

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individual protagonists, we need to recognise ourselves in the actors and protagonists of history. I am not only referring to televisual recreations and re-enactments of wars or national disasters. Think of the Vietnam Veteran’s Wall with its thousands of names and the mirror-effects of its polished stone; think of the Holocaust Museum in Washington, where with your ticket, you «buy» an individual’s life and fate that you are able to «live through» on your journey19; think of the guided tours that every major and minor city or major or minor historical site now offers its visitors. History and the individual agent: not only do we need indi­ viduals to understand history, rather, we seem to need to understand history's protagonists as victims. Thus, in this transformation of the past from history into «living memory» another change has occurred. We seem to want to identify not with the heroic individuals who won battles and defeated the enemy (or learn about the social forces such as classes and ideologies, or economic motives such capital accumu­ lation and profit maximisation). Instead, we want to experience vic­ tims and survivors who triumphed either in death through sacrifice or who survived disaster and adversity through extremes of suffering and victimisation. Melodrama has here replaced the epic of the clas­ sical age, and the romance of Marxist historiography (of struggle, test and ultimate victory) to become in their stead, the seemingly natural narrative of conflict and antagonism for our post-Enlightenment age that no longer believes in the grand narrative of progress.

Melodrama, the Culture of Complaint and the «Failure of Feminism»? So far, I have limited myself mainly to some broad generally descriptive remarks about the persistence of melodrama into the new century, suggesting that as a mode of feeling, an imagination of dis­ aster, a rhetoric of stark contrast and excess, and a set of tropes around suffering and victim-hood, it has extended its reach well beyond theatre, cinema and popular culture, which have been melo­ drama’s traditional domains. The question this state of affairs prompts

19 The United States Holocaust Memorial Museum,

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would be: what is the meaning of these changes, what lies behind such a broadening scope? Several answers have been suggested for the combination of melodramatic structures of feeling and the accom­ panying cultures of victim-hood. The New York art critic Robert Hughes, in his widely read book Tbe Culture of Complaint20, put for­ ward the thesis that America had become too used to taking the state and the liberties it guaranteed for granted, so much so that people were unwilling to take responsibility for their lives and decisions. He noted that Americans had become addicted to lawyers and litigation, suing for compensation whenever something crossed their right to the pursuit of happiness. They demanded damages for anything from the consequences of their smoking - and eating - habits, to breaking an ankle when hiking in the woods or getting sunburnt when lying on the beach. Hughes, a conservative thinker, blames this dependency culture on «identity politics» and «political correctness», i.e. the liberal and left-wing plea for tolerance, empathy, respect for the other, and a recognition of cultural diversity, in an increasingly multi-cultural society, made up of different, multi-ethnic communities. Another argument, slightly different from that of Hughes, but still coming mainly from the conservative end of the ideological spectrum, sees the tendencies towards universalising victim-hood, together with an affect-driven, emotionally uninhibited public sphere, not so much as part of dependency and infantile regression, or the general lowering of standards in education or taste, but as fur­ ther indication of the «feminisation» of modernity and cultural life, thanks to women entering the professions and public life in larger numbers and therefore even further expanding their influence, through their increased purchasing power as consumers, on media­ representation. This argument, in one form or another, has itself a long history, first invoked around the turn of the 19th to the 20th century by Viennese intellectuals from Karl Kraus to Otto Weininger, when suffrage was extended to women voters. It has become accept­ able again, in the worry about the crises in contemporary mas­ culinity, as single (female) parent families, and the massive de­ 20 R. Hughes, The Culture ofComplaint: Tbe Fraying ofAmerica. Oxford University Press, Oxford 1993-

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skilling of working-class males in the shift from manufacturing to service-industries and information economies, that has left young males out of work and morally adrift. The demands of women, together with these societal changes, so the argument goes, have undermined men’s traditional sources of identity, without replacing them with credible alternative role models of authority and respon­ sibility. Among the writers who have blamed the failure of the «new man» at least in part on feminism have also been women, most effectively perhaps, such anti-feminist feminists as Camilla Paglia and Susan Faludi21. According to these and similar arguments, then, the back­ ground to the persistence of melodrama in contemporary culture would have to be seen in a number of crises. Besides the «culture of complaint», the «feminisation» of consumption, and the «failure of feminism» with respect to men, just mentioned, there is the crisis of representation in the political sense. There, the so-called «voter apathy» in Western democracies is interpreted as a crisis in citizen­ ship, with large parts of the public unwilling to participate in elec­ tions, in response to disappointment with parliamentary democracy and dissatisfaction with party-political representation. By contrast, melodramatic modes of representation, shading into camp as with Pym Fortuyn, as a way of finding a voice, are intuitively felt to be more effective than casting a vote, in order to be heard in the arena of public life, whose forum is television. Finally, melodramatic modes of self-presentation and self-per­ formance in the media and the public sphere as «victim» could be regarded as a crisis in juridical legitimacy. It could be seen as putting forward versions of personal demands and subjective «rights», in the face of liberal versions of responsibility and citizenship. But it could also be showing bewilderment with multiculturalism, as well as frus­ tration with the often illiberal universalism promoted by religious fundamentalists. Both are in turn indicative of a lack of trust in the administration of civil and human rights, when confronted by the cum­ bersome machinery of national and international political institutions.

21 C. Paglia, Sexual Personae, Yale University Press, New Haven 1990; S. Faludi, Stiffed: The Betrayal of the American Man, Perennial Books, New York 2000.

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Melodrama in tbe New Millennium: Towards A New Universal? How credible are these crisis-versions of the return to melo­ drama in the new millennium? They are not altogether wrong, but neither are they right. They partake, it seems to me, in the malaise they purport to analyse, because they are, to varying degrees, the result or symptom of the loss of faith in Enlightenment univer­ salism (on the conservative side) and of the loss of confidence in multicultural diversity-thinking (on the side of liberals and disaf­ fected feminists). Where they are right, however, is in the implicit assumption that the discourse of victim-hood, of violent affect and public emotion that I have identified with the «melodramatic mode» is neither sentimental nor nostalgic, neither neo-romantic nor irrational, but a militant (and perhaps even post-post-modern) phenomenon. In which case, one could argue that rather than being seen as a symptom of these (or similar) crises, it would be better to regard the «empowerment of the victim» as their pur­ ported answer. In the sense that this melodramatic mode offers itself as a new «universal», but one that requires each time a very local, specific instantiation. This would make melodrama and its universalising tendencies itself a symptom of a wider phenomenon, namely globalisation. Such a possibility suggests itself, if one looks more closely at, for instance, Tbe Oprab Winfrey Show, perhaps the programme that has done more than any other to «globalize» suffering, by mobilizing a certain affectivity of empathy and compassion. Melodrama, I would be arguing, has a hold on the imagination because in its function as placeholder, and thus marks a gap in our meaning-making about the world and our lives within it. The second paradox is that melodrama, and the melodramatic mode as practised by the Oprab Winfrey Show, seems to be about suffering, but not quite in the mode of the victim, certainly not if the victim is immediately identified with powerlessness. Oprah Winfrey’s narratives of victim-hood are empowering, for they are meant to establish the sometimes ostentatious righteousness of the victim in his or her suffering, which in turn enables and empowers her/him. This is why The Oprab Winfrey Show may be about empathy and

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identification (as it most certainly is about «speaking out» and «talking it through»), but the effect is not cathartic. At least neither in the way that tragedy was said to be, nor in the way of classical psy­ choanalysis wanted to be the talking cure. Rather, its post-narrative modus operandi is preferably performative, though performance not in the sense of a «put-on» or a sham (as could be argued about Tbe Jerry Springer Show), and also not as a means to an end, be it to effect a cure or to derive from it legal or juridical claims (as some­ times happens when Dr Phil is on call). Rather, the classic Oprah Winfrey Show stages affect, victim-hood and concern as ends in themselves. In other words, in place of catharsis and closure, it puts repetition and deferral. In place of offering solutions, it gives the chance of «being heard». Why have we resigned ourselves to «being heard»? In the worst case, by proclaiming and displaying our victim-hood, actual or ima­ gined, in the public arena of media spaces, and in the best case, by instituting a new political arena of legal spaces, such as a «Truth and Reconciliation Commission», or an «International Court of Human Rights». It brings one back to the question of melodrama’s affinity with and difference from tragedy, and with issues of ultimate justice. Melodrama, as traditionally understood, confronts its characters with a tragic universe, but it denies them any sense of transcendence, of access to a higher reality where the contradictions they encounter in their life might find a resolution. It is tragedy without the sanction or benevolent gaze of a higher authority: conflicts present them­ selves on a single plane, but are operative and make themselves felt on two levels at once. Except that the second level is no longer vis­ ible either to the characters or the viewer: higher authority has with­ drawn from human life. The absence of transcendence and of higher authority have also given a different scope to what we understand by trauma. No longer the scar that a human being may carry with him or her from an abused childhood or from his/her witnessing a terrible natural or man-made disaster, such as war or persecution, trauma has become the generalised «foundational» moment of any individual’s sense of identity and person-hood, and thus the basis of his/her life’s nar­ rative and source of its ultimate meaning.

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A Mode of Feeling or

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View of the World? Family Melodrama. ..

A case in point are the television discourses of bearing witness, or giving testimony of personal trauma, such as childhood abuse, domestic strife or misfortune and family bereavement. The Oprab Winfrey Show or The Jerry Springer Show invite confessions of the most intimate details, even shameful actions or perverse addictions in a person’s life. Stepping into another kind of breasch, such pro­ grammes supply a need no longer met either within the nuclear family, by the welfare state or by organised religion. Claiming a voice and an image, and speaking resolutely on their own behalf, «ordinary people» full well know (or rather, television programme makers full well know) how to produce through accounts of victimisation and survival, the kinds of universal recognition which guarantees the media-made moral legitimacy If one adds the popularity of court­ room dramas, and of programmes where a guest is suddenly con­ fronted with a long-lost friends or former boy/girlfriend, it becomes evident that television has developed its own genres which work on the basis of the melodramatic imagination or use melodramatic models of conflict and conflict-management, even if they are dis­ paragingly referred to by critics as the new pornography of suffering and the obscenity of intimacy. What is ob-scene, by literally coming «into the scene», albeit in this indirect way, I am suggesting, may be once more the «subversive» side of melodrama. It is the bad conscience, if you like, now not of the American Dream or post-war middle class affluence, but almost its opposite. The psychic and material poverty, the widening gap of education and opportunity, the uneven distribution of wealth, of nat­ ural resources and individual well-being in today’s world finds in the mise en scène of televisual melodrama its own kind of language. It would suggest that melodrama is not failed tragedy, but actu­ ally the only mode of tragedy available to us, because it speaks of a more general failure. Which is to say, it would be the mode that reflects, or symptomatically represents (depending on one’s point of view) some of the so-called crises in our current concepts of politics, as practised in the West and implemented by the global free market economy. Melodrama would be a place-holder and a stand-in, it is the representation of (failed) representation. That is why it remains so contradictory and puzzling, but also so potent and appealing. And

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this is also why, in its universalisation of the victim, and its designa­ tion of the victim as righteous, as claiming rights, before having to prove virtue or virtuousness, it has become part of a political and a moral discourse. Or rather, melodrama itself has become this polit­ ical and moral discourse, but one where the victim figures as what in linguistics is known as a shifter, a mark of discourse providing an empty place, and requiring a body in space and time to «fili» it. Linguistic shifters encompasses words like «I», «you», «here», «now»: all terms that can be used/have to be used by very individual speaker and thus are completely impersonal and unspecific, but whose meaning is always understood because context, voice and speaker provide the specifying co-ordinates22. The victim as «shifter» in the various forms of contemporary melodrama I have been discussing would thus be first of all an «empty» mark of enunciation. But it would be a mark or gap that can be appropriated by anyone participating in discourse, by anyone who by any means - be they verbal and emotional or brutal and vi­ olent - feels entitled to speak or makes themselves heard. This is perhaps the real tragedy: that the eloquent muteness of the waifs of Victorian stage melodrama, of David Wark Griffith’s screen heroines, of the hysterical film bodies of Hollywood in the 1950s, and of the soap operas of the 1980s, has become the arrogant eloquence of the global political melodramas we are witnessing in the new millen­ nium, under the name of the «War on Terror». Melodrama, I said, was the mode of representing conflict and struggle, but without resolution. As a universalising discourse, it pro­ vides the empty chair, inviting anyone to take a place. That is its pos­ itive aspect, its utopia, if you will. But we could also draw the oppos­ ite conclusion: is melodrama not finally the appropriate world-view or metaphysics for an age that has lost faith in solutions? One that has turned its back on all utopias of change? Is it not the mode appropriate for an age that proclaims the «end of history» but cannot claim to put an end to conflict and warfare? Melodrama, in short, marks a gap, but cannot, does not fill it. 22 See E. Benveniste, Problèmesde linguistiquegénérale I, Gallimard, Paris 1966; engl. transl. Problems in General Linguistics, University of Miami Press, Coral Gables, Florida 1971.

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MODALITÀ DEL SENTIRE O VISIONE DEL MONDO?

UNA RIVISITAZIONE DEL MELODRAMMA FAMILIARE E DELL’IMMAGINAZIONE MELODRAMMATICA *

♦ Itaduzione di Carmen Gallo e Mauro Giori.

Affettività ed emozione: elementi di un dibattito La filosofìa illuministica (e il senso comune) distinguono netta­ mente tra testa e cuore, ragione ed emozione, tra processi associati­ vi di tipo logico-razionale e associazioni non-razionali. Tale divisione è stata spesso contestata dai romantici, da Friedrich Nietzsche, dai decadenti fin de siècle, dal surrealismo e dalla psicanalisi. Più recen­ temente, se ne sono occupati anche molti esponenti delle scienze cognitive, i quali ora tendono a considerare affetto ed emozione co­ me fattori cognitivi che governano molte delle nostre scelte, persino il comportamento goal-oriented, detto da «agente razionale»l. Una posizione del genere non è del tutto estranea agli studi sul cinema, guidati dall’idea che l’immagine in movimento costituisca un’esperienza intensamente emotiva e psichicamente dispendiosa. L’indirizzo teorico che più ha indagato questo tema in ambito fìlmi­ co è la semio-psicanalisi, ispirata da Jacques Lacan. Di fatto, però, la psicanalisi non si interessa di emozioni, quanto piuttosto di pulsio­ ni e desideri: libido e pulsione di morte, eros e tbanatbos. Pur aven­ do molto da dire sulle ambivalenze della psiche, essa si occupa rela­ tivamente poco delle emozioni che le accompagnano2. In questo saggio mi propongo di ripensare il dibattito sul ruo­ lo dell’affettività, dell’emozione, delle lacrime, della vergogna, del­ 1 R. Allen, M. Smith (a cura di), Film Theory and Philosophy, Clarendon Press, Oxford 1997; G. Currie, Image and Mind: Film, Philosophy and Cognitive Science, Cambridge University Press, New York 1995; T. Grodal, Moving Pictures: A New Theory of Film Genres, Feelings, and Cognition, Clarendon Press, Oxford 1997. 2 M. Klein, Notes on Some Schizoid Mechanisms, in The Writings of Melanie Klein, Volume III: Envy and Gratitude, Macmillan, New York 1975, PP- 1-24; trad. it. Scritti 1921-1958, Bollati Boringhieri, Torino 1978.

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l’imbarazzo e del pathos nell’esperienza filmica. Nella prima parte mi concentrerò su un argomento che mi ha coinvolto in prima perso­ na: il dibattito sul melodramma nel cinema hollywoodiano. Come in­ dica la parola stessa, «melodramma» nella sua prima accezione non significa altro che la combinazione di dramma e musica. Negli studi sul cinema, però, il termine ha assunto uno spettro relativamente ampio di significati, sia sul piano connotativo sia su quello denotati­ vo. In generale, comunque, esso sta a indicare una forma di dramma o di narrazione che presenta alcune caratteristiche specifiche. Usato spesso in un’accezione negativa, l’aggettivo «melodram­ matico» si riferisce alla struttura narrativa e al suo statuto di verosi­ miglianza. Si definisce melodrammatica un’opera che si basa su una trama dagli elementi poco credibili e su colpi di scena improbabili, un’opera artificiosa nell’uso drammaturgico dell’ironia, inautentica nel pathos, sentimentale e nostalgica nei suoi registri emotivi, calco­ lata e persino cinica negli effetti, e che ricorre a un deus ex machi­ na come ad esempio l’incontro fortuito, il salvataggio «all’ultimo mi­ nuto» o l’intervento di un fattore esterno, per condurre la vicenda a un lieto fine, o almeno a un finale consolatorio. Il sostantivo «melodramma» implica un rigido (e spesso esage­ rato) contrasto tra bene e male, virtù e vizio, innocenza e corruzio­ ne. Peter Brooks, per esempio, ha sottolineato come il melodramma nel teatro ottocentesco metta in scena una visione del mondo ma­ nichea in cui tutto è o bianco o nero, senza sfumature o tonalità di grigio, una visione in cui non è possibile alcuna correlazione fra gli opposti3. Come indicazione di una posizione morale, o di una modalità dell’esperienza, il melodramma suggerisce che il mondo è osservato e agito a partire da una reazione affettiva che genera un'emozione moralizzante, ad esempio un senso di giustizia. Con il termine «melodramma» si farebbe riferimento, quindi, a un’esperienza dell’io che è re-attiva e performativa, in opposizione a una pro-positiva e goal-directed. 3 P Brooks, The Melodramatic imagination: Balzac, Henry James, Melodrama and the Mode of Excess, Yale University Press, New Haven 1976; trad. it. L’immagina­ zione melodrammatica, Pratiche, Parma 1985-

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Infine, il melodramma è una forma di racconto il cui scopo è quello di generare una chiave di lettura morale, vale a dire che la virtù dell’eroe necessita di essere messa alla prova tramite peripe­ zìe e tribolazioni, le quali talvolta comportano degradazioni e umi­ liazioni. I protagonisti si vedono (e sono visti dallo spettatore) co­ me vittime che generalmente non «imparano» dalle proprie sventu­ re, anche se potrebbero. Essi sono sofferenti «seriali» e modelli di virtù e, visto il pregiudizio di genere sessuale che domina la nostra cultura, si tratta per lo più di personaggi femminili. Di conseguen­ za, nel melodramma le storie sono raccontate dal punto di vista del­ la vittima, il che implica un tipo particolare di pathos che scaturisce proprio dalla valorizzazione positiva della vittima come essere indi­ feso. Oltre alle donne, spesso il ruolo di protagonista è affidato a bambini, ai quali sono associate naturalmente le categorie dell’in­ nocenza e dell’impotenza. Diversamente dagli eroi della tragedia, quindi, quelli del melo­ dramma non hanno macchia (amartid), ma per gli uni e gli altri il momento del riconoscimento (anagnorisis) arriva di solito troppo tardi. A causa di queste similitudini, nonché dell’effetto comico in­ volontario che può scaturire dai sentimenti eccessivi dispiegati, il melodramma è spesso considerato una tragedia mancata.

Storie di rumore e furore Non tutti i luoghi della mappa semantica del melodramma qui tracciati sono stati direttamente affrontati nel mio saggio del 1972,

Tales of Sound and Fury: Observation on the Family Melodrama4* . Il 4 T. Elsaesser, Tales ofSound and Fury: Observations on tbe Family Melodrama, in «Monogram», n. 4,1972, successivamente ristampato in B. Nichols (a cura di), Movies and Methods, University of California Press, Berkeley 1982; G. Mast, M. Cohen (a cura di), Film Theory and Criticism, Oxford University Press, Oxford 1992; B. K Grant (a cu­ ra di), Film Genre Reader II, University of Texas Press, Austin 1995; C. Gledhill (a cura di), Home Is Where the Heart Is, BFI Publishing, London 1987; trad. it. Storie di rumo­ re e furore: osservazioni sul melodramma familiare, in «Filmcritica», n. 339-340, 1983, poi in A. Pezzotta (a cura di), Forme del melodramma, Bulzoni, Quaderni di Filmcritica 23, Roma 1992. Il titolo originale di questo saggio si rifa a un celebre verso shakespeariano del Macbeth (atto Y scena 5), già usato da Faulkner per uno dei suoi romanzi più famosi,

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Essendo stato forse il primo, nell’ambito degli studi sul cinema (nel­ la comunità anglofona), a discutere l’idea di melodramma nel cine­ ma nella sua connotazione positiva, sono partito dagli studi lette­ rari e dalla storia del teatro e ho tentato di applicare al cinema un termine che era stato usato per analizzare descrittivamente tenden­ ze e sottogeneri della tragedia borghese della fine del Settecento, della narrativa popolare, delle forme operistiche della metà dell’Ottocento e del teatro popolare tardo ottocentesco. Attingendo a queste diverse tradizioni di letteratura, musica e teatro, mi ripropo­ nevo di creare una genealogia del cinema hollywoodiano che riva­ lutasse alcuni film girati tra la fine degli anni quaranta e gli anni cin­ quanta, film spesso raggruppati sotto la sprezzante etichetta di women’s pictures, o di film «strappalacrime». Volevo mostrare che un tale modo drammatico composito (che univa musica e teatro) e un tale genere ibrido (di massima serietà morale e di sensazionali­ smo popolare) erano stati, in condizioni storiche specifiche - in par­ ticolare nel periodo della lotta della borghesia contro ciò che resta­ va dell’aristocrazia -, funzionali a\Varticolazione del conflitto tra la sfera privata e la sfera pubblica. A mio avviso il melodramma di­ mostrava che il diritto alla privacy, il quale includeva il diritto per tutti di essere emotivamente indifesi di fronte all’erompere dei pro­ pri sentimenti, era un atto politico. Questo messaggio - ricavato dal­ la storia dell’intrattenimento popolare, in particolare dal culto della «sentimentalità» o deH’«anima bella», diffusosi nel secolo che seguì la Rivoluzione francese - era senza dubbio diretto alla mia genera­ zione, la quale dopo il 1968 aveva dichiarato che la sfera privata quella della soggettività, della coscienza dilatata dalle droghe, della sessualità aperta e delle disparità legate al genere sessuale - costi­ tuiva l’arena principale della lotta politica. La difesa del melodram­ ma, in altre parole, poteva essere vista come un modo per appog­ giare ciò che allora era nota come rivoluzione contro-culturale. Uti­ lizzando una retorica dell’eccesso, ma anche sfruttando le asimme­ trie del pathos e le figure dell’ironia, il melodramma dava voce a co­ loro che non ne avevano («il linguaggio del silenzio») e poteva perTbe Sound and the Fury (L'urlo e il furore). Attualmente, nella lingua inglese l’e­ spressione «sound and fury» ha assunto il significato di «senza senso». [N. d. T.]

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sino contribuire alla risoluzione dei conflitti (mostrando le contraddizioni fondamentali di una società). Era un’affermazione deliberatamente provocatoria e parados­ sale. Come potrebbe, infatti, un discorso eccessivamente emotivo contribuire a risolvere un conflitto? Tutti gli studi sulla risoluzione dei conflitti non insegnano forse che bisogna prima aspettare che si stemperi la tensione - ovvero l’emozione - e poi educare le due par­ ti contendenti a comprendere il punto di vista deiraltro?

Il melodramma: da Douglas Sirk e Vincente Minnelli alla Feminist Film Theory

Quando «melodramma» divenne un termine di largo uso nel lessico critico degli emergenti studi sul cinema, conobbe una sorte simile a quella di «film noir». Si trattava di etichette di genere «in­ ventate» dai critici europei e applicate a film che secondo gli studios hollywoodiani (che li avevano realizzati), e persino secondo il pub­ blico di massa che li aveva visti, appartenevano ad altri generi. Come l’espressione film noir, il termine melodramma (attribuito negli anni settanta a film degli anni cinquanta) appariva talvolta di una vaghez­ za frustrante. Tuttavia, anche se fu contestata da uno studioso che considerò il melodramma un genere fantasma5, proprio perché in­ determinata tale definizione aveva il vantaggio di poter essere appli­ cata a una serie di priorità sotterranee e rivelare così conseguenze inaspettate. Alcune di queste priorità e conseguenze fanno un po’ di chiarezza sul contesto politico della cultura cinematografica britan­ nica del tempo. Una premessa non esplicitata, ma chiaramente sottintesa nel mio saggio, era la convinzione che il filone principale del cinema di Hollywood potesse avere un atteggiamento «critico», e non solo «compiacente», nei confronti del sogno americano. Fino ad allora, una certa potenzialità sovversiva era stata associata per lo più a ope­ re di auteurs in buona fede. Ma in un momento in cui la politica 5 R. Merritt, Melodrama: Postmortem for a Phantom Genre, in «Wide Angle», 5 (3), 1983.

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estera degli Stati Uniti, soprattutto in Vietnam e in America latina, ve­ niva ferocemente attaccata, il mio obiettivo di critico - e di cinefilo partigiano di Hollywood - fu di adottare una posizione «contro-in­ tuitiva», affermando la presenza di una contraddizione nel cuore stesso del cinema americano. Mi sono così rivolto all’autorialismo francese degli anni sessanta, quando i Cabiers du cinéma non l’ave­ vano ancora abbandonato, sostenendo che la critica stilistica poteva essere estesa anche a film realizzati da registi meno famosi e poteva salvare o redimere un genere o un insieme di film fino a quel mo­ mento disprezzati. Con l’idea di genere si aggiungeva la seconda premessa sottin­ tesa nella mia disamina, ovvero la nozione della rappresentatività so­ ciale, che muoveva dall’assunto implicito secondo cui i generi por­ tano con sé dei messaggi sociali. In quanto forme estetiche, affron­ tano il sistema di valori di una data società, mostrano i limiti e i con­ fini di tali valori e, se necessario, patteggiano un nuovo consenso sul loro ri-posizionamento. I generi, quindi, erano indicatori importanti delle condizioni della società, in particolare dei costumi, degli idea­ li, del modo di vivere e dei codici morali. La terza premessa implicita, ovvero che il cinema popolare nel suo insieme, e il melodramma in particolare, dovessero essere con­ siderati come una forza modernizzante, anziché reazionaria, era pro­ babilmente la più controversa, soprattutto nei primi anni settanta. Questa modernità o modernizzazione andava comunque distinta da ciò che era stato chiamato «modernismo», ovvero dalle avanguardie (e dalle loro filosofìe elitarie, anche quando erano politicamente ra­ dicali o di sinistra) che si erano sviluppate nelle arti e nella lettera­ tura nei primi trent’anni del Novecento. Quando negli anni settanta il termine melodramma fu attribui­ to a film hollywoodiani, portò quindi con sé un certo significato po­ litico. Il melodramma si differenziava dall’avanguardia, tradizional­ mente intesa, perché faceva appello alle emozioni (in opposizione al­ lo straniamento brechtiano) e perché si affidava alla narratività (in opposizione ai principi epici, anti-aristotelici, o «parametrici»). Il me­ lodramma, però, si opponeva anche al realismo - sia all’idea brech­ tiana di realismo, per l’uso spudorato di illusionismo e di spettaco­ larizzazione (a quei tempi la strategia politicamente corretta era l’an-

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ti-illusionismo), sia al neorealismo, perché si avvaleva di attori pro­ fessionisti, riprese in studio, illuminazione codificata, schemi croma­ tici, musica romantica e scenografie manifestamente finte anche per gli ambienti naturali. Uno dei registi a cui questa critica populista del realismo sem­ brava adattarsi perfettamente era Douglas Sirk, il quale era stato una sorta di «brechtiano» all’inizio della sua carriera, avendo diretto L'O­ pera da tre soldi di Brecht/Weill quando si occupava di regia teatra­ le a Berlino e Dresda alla fine degli anni venti. Intorno al 1971, Sirk fu «scoperto» in Gran Bretagna da Laura Mulvey, Jon Halliday e dal sottoscritto6. Subito dopo, i suoi film divennero argomento di una retrospettiva all’Edinburgh Film Festival e il regista stesso fu oggetto di numerosi studi critici7. Di nuovo, al centro del dibattito su Sirk, c’era la tensione tra l’apparente conformismo eisenhoweriano post­ bellico e un genere particolare di sowersività nel suo stile e nella sua regia che non di rado presentavano eccessi emozionali e ironie na­ scoste, specialmente nei «falsi» happy endings.

Tales ofSound and Fury: Observation on tbe Family Melodrama ebbe, per quanto mi riguarda, almeno altre due conseguenze involon­ tarie. Una fu promuovere la discussione su ciò che s’intendeva per rac­ conto classico hollywoodiano (al di là dell’autore e del genere)8 e l’al­ tra fu influenzare lo sviluppo degli studi femministi sul cinema. Il sag­ gio di Laura Mulvey su Sirk9 precedette quello più famoso su Hitch­ cock e Stembetg, meglio conosciuto come Visual Pleasure and Nar­

rative Cinema10.

6 Cfr. «Screen», vol. XII, n. 2, Summer 1971 (numero speciale dedicato a Douglas Sirk); L Mulvey, J. Haijjday (a cura di), Douglas Sirk, Edinburgh Film Festival, 1972; J. Haluday, Sirk on Sirk, Seeker & Warburg, London 1997 (1971). 7 Oltre alla pubblicazione che coincise con la retrospettiva a Edinburgo, ci furo­ no anche saggi di Paul Wìllemen (Towards Analysis of tbe Sirkian System, in «Screen», vol. XIII, n. 4, 1972-1973) e di Steve Neale (Douglas Sirk, in «Framework», n. 5, 19761977). 8 B. Klinger, Melodrama and Meaning: History, Culture, and the Films ofDou­ glas Sirk, Indiana University Press, Bloomington 1994. 9 L. Muivey, Notes on Sirk and Melodrama, in «Movie», n. 25, 1977-1978. 10 Id., Visual Pleasure and Narrative Cinema, in «Screen», vol. XVI, n. 3, 1975; trad. it. Piacere visivo e cinema narrativo, in «dwf», n. 8, 1978.

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Il melodramma familiare: la «coscienza sporca» del benessere americano? Prima di seguire le sorti del melodramma, ripensato e ridefìnito, ma anche esteso alla televisione degli anni ottanta, sarà utile intro­ durre brevemente i tipi di situazioni, conflitti e universi domestici che sono stati identificati con il melodramma familiare, in opposizione per esempio ai melodrammi incentrati sulla figura materna11 o sulla donna sconosciuta12. Le trame che mi hanno colpito in quanto ricon­ ducibili a un gruppo omogeneo presentavano tendenzialmente que­ ste componenti: prima di tutto, padri autocratici e figli ribelli, o figli il­ legittimi ignorati dai padri, e figli legittimi desiderosi di padri putativi, idealizzati (Homefrom the Hill/A casa dopo Turagano, Vincente Min­ nelli, I960; Written on the Wind/Come lefoglie al vento, Douglas Sirk, 1956); in secondo luogo, rispecchiando la divisione di genere sessua­ le, figure di figlie che rinnegano le madri perché si vergognano della loro classe o razza (Imitation of Life/Lo specchio della vita, Douglas Sirk, 1959) e di madri che si sacrificano perché le figlie abbiano una più noiosa ma rispettabile vita borghese (Stella Dallas/Amore subli­ me, King Vidor, 1937). Un altro elemento tipico era la promiscuità ses­ suale tra padri e figlie, cui assistono mogli indifferenti e figli impoten­ ti (The Cobweb/La tela del ragno, Vincente Minnelli, 1955; Rebel Without a Cause/Gioventù bruciata, Nicholas Ray, 1955). Infine, e più in generale, si riscontrava in queste trame un’atmosfera di violenza fa­ miliare repressa - comportamenti autodistruttivi, dipendenza da dro­ ghe o da alcol - che produceva adolescenti disorientati e infelici, e genitori non meno disorientati (Some Carne Running/Qualcuno verrà, Vincente Minnelli, 1958; The Chapman Report/Sessualità, George Cukor, 1962; Written on the Wind di Douglas Sirk, Bigger than Life/Lo specchio della vita, Nicholas Ray, 1956). In altre parole, ciò che appariva sullo schermo in questi film de­ gli anni cinquanta erano famiglie borghesi altamente disfunzionali, 11 E. A. Kaplan, The Case of the Missing Mother: Patriarchy and the Maternal in Vi­ dor's Stella Dallas, in «Heresies», vol. IY n. 4, 1983; L. Williams, Something Else Besides a Mother: Stella Dallas and the Maternal Melodrama, in «Cinema Journal», n. 24, Fall 1984. 12 S. Cavell, Contesting Tears: The Melodrama of the Unknown Woman, Univer­ sity of Chicago Press, 1996.

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nevrotiche e inquiete, le cui vite - in tutto lo splendore suburbano dei prati all’inglese, delle case ben tenute e delle automobili croma­ te - erano alla deriva, in frantumi. E non perché i protagonisti non avessero ambizioni, ideali o valori bensì, al contrario, perché punta­ vano troppo in alto, desideravano smodatamente realizzarsi, prova­ vano un amore fortissimo ma non corrisposto nei confronti di part­ ner indegni o irraggiungibili. Il paradosso è che qui era Hollywood in un periodo in cui l’America aveva vinto non solo la guerra ma an­ che la pace, con un innalzamento senza precedenti degli standard di vita (e con l’estensione dell’egemonia su scala mondiale della sua cultura popolare) - a produrre film ad alto costo che si crogiolavano nell’angoscia emotiva e nella miseria psichica. Sembrava fosse in corso una sorta di conflitto tra il discorso uf­ ficiale, pubblico degli Stati Uniti, relativamente alla fiducia in sé e al­ la propria leadership nel mondo occidentale, e la vita intima, emoti­ va della classe media americana, in particolare delle donne, costret­ te nella gabbia dorata della prosperità suburbana e della vita familia­ re. Era come se proprio un umile genere cinematografico fosse riu­ scito a mostrare il costo psichico della prosperità, rivelando il più profondo malessere culturale — o persino la coscienza sporca - del­ la società americana e dei suoi valori. Che tale malessere avesse tro­ vato forma ed espressione in ciò che era parte integrante dell’intrat­ tenimento di massa prodotto dal sistema degli studios americani, con le sue severe regole di auto-censura, è in assoluto ciò che appa­ riva più incredibile. Il cinema di Hollywood, per ovvie ragioni, non era intenzionalmente critico o sovversivo, tuttavia questi film - qua­ li che fossero i loro bappy endings - potevano sicuramente essere letti al di là delle loro intenzioni. Spesso, l’esatta natura della disfunzionalità della famiglia non era resa esplicitamente nei film. La situazione dell’intreccio narrativo, co­ me si può intuire dagli elementi cui ho accennato, ruotava intorno ad autorità, sessualità, conflitto generazionale e identità - ovvero tutta quella serie di ambivalenze e tensioni associate al cosiddetto «com­ plesso di Edipo». E c’è ragione di credere che la crescente accetta­ zione della psicanalisi negli Stati Uniti sia in qualche modo legata alla diffusione di questi temi in forme fìnzionali (Tbe Chapman Report, per esempio, era una versione romanzata e popolarizzata del Kinsey

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Report sulla sessualità in America, e Tbe Cobweb racconta di uno psi­ canalista, della sua clinica e dei suoi pazienti). Ad ogni modo, non si spiega il motivo per cui tali conflitti si siano tradotti in una mise-enscène di composizioni barocche, in schemi cromatici basati sui colo­ ri primari, in un uso operistico della musica, e ancora nell’attribuzione di valori simbolici a oggetti quotidiani, spazi interni e arredamen­ ti domestici - a meno di assumere che il film stesso abbia in realtà lo statuto di «sintomo». Per rendersi conto di quanto sia elaborata la messa in scena, ba­ sterà prendere in considerazione un brano tratto da un film come Written on tbe Wind, ad esempio la scena in cui Robert Stack, per fa­ re colpo su Lauren Bacall, ordina di portare nella sua camera d’al­ bergo un’intera collezione di abiti, sotto gli occhi scettici del suo mi­ gliore amico, Rock Hudson. La disposizione delle figure nello spazio e l’accostamento dei colori concorrono non solo a creare un mo­ mento di teatralità, ma soprattutto a rappresentare un mondo inte­ riore - fatto di emozioni contrastanti e sentimenti inespressi, di do­ lorosi scarti nella consapevolezza che i personaggi hanno di ciò che l’altro pensa - di cui scenografia e ambientazione costituiscono una sorta di membrana. È un tipo di scena che trasforma il film non tan­ to in un «testo» che può essere letto, interpretato e decifrato, né tan­ to meno in una psiche soggettiva che può essere sottoposta a tera­ pia. Piuttosto, essa sembra tramutare il film in un «corpo», una su­ perficie ipersensibile, una sorta di pelle lacerata da ferite; un corpo che manifesta il suo dolore attraverso sintomi come i colori accesi e i forti contrasti, che diventano una sorta di linguaggio dell’isteria13. Film del genere vanno oltre il loro valore come casi di studio, ben­ ché conservino ancora un forte interesse per la critica femminista, a quel tempo interessata a scoprire genealogie e a ricostruire storie in grado di dare un passato alla lotta per l’emancipazione della donna, per i suoi diritti e per il riconoscimento del suo punto di vista. È que­ sta l’esigenza a cui i melodrammi sembravano rispondere, per così dire dall’interno, in un momento storico e in condizioni politiche ed economiche in cui l’isteria era l’unico linguaggio attraverso il quale 13 Sul film come «sintomo» nel melodramma, si veda anche G. Nowell Smith, Min­ nelli and Melodrama, in «Screen», vol. XVIII, n. 2, 1977.

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le loro eroine potevano esprimere la sofferenza e le oppressioni che erano costrette a subire. Il melodramma degli anni cinquanta, di­ scusso negli anni settanta, ha agito retroattivamente come forza mo­ dernizzante, a quanto sembra anticipando quei cambiamenti fonda­ mentali nella struttura della famiglia e nella relazione tra i sessi che si sarebbero verificati nella seconda metà del Novecento. Una delle conseguenze di questa forte identificazione con le prio­ rità delle donne è stata anche che il melodramma, più che un genere specifico o un ciclo di film di Hollywood, venisse considerato, e non solo dalle studiose di cinema di orientamento femminista, come una più basilare «modalità del sentire», una «struttura affettiva» e una for­ ma di politica dell’identità spesso incentrata sulla comune condizione di vittima. Ma la critica ha anche cominciato a discutere dell’«immaginazione melodrammatica», identificandola in un primo momento con l’esperienza della donna in quanto individuo consapevole di sé all’in­ terno di un sistema patriarcale (cioè come una forma di esperienza al­ tamente contraddittoria e spesso frustrante), e vedendola sempre di più come una modalità adatta anche per altre minoranze, oppresse ed emarginate dal «sistema». In questi dibattiti, talvolta, non era chiaro se il melodramma fosse parte del problema, perché distorceva grossola­ namente le realtà della sessualità e deH’orientamento sessuale, e come tale era infatti avvertito da coloro che si sentivano mal rappresentati dai melodrammi; o se i film fossero parte della soluzione, perché di­ mostravano - con l’assurdità delle loro trame, le peripezie senza fine dei personaggi, l’ambiguità dei dilemmi morali, il circolo vizioso dei falsi happy endings - che l’ideologia patriarcale, razzista, sessista do­ minante era incapace di «naturalizzare» le contraddizioni, o di occul­ tare «l’artificiosità» delle sue rappresentazioni culturali.

Politiche della rappresentazione e dell’identità culturale: il melo­ dramma negli anni novanta Avviato a metà degli anni ottanta e continuato negli anni novan­ ta, il discorso critico sul melodramma è stato chiamato a occuparsi non solo di argomenti che riguardavano in modo peculiare o esclusi­ vo l’universo femminile, ma a indagare anche il problema della «rap­

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presentazione» nella cultura popolare in modo più generale, cioè al di là della classe e del genere sessuale, e anche al di là della razza, del­ l’etnia di appartenenza e di tutte le costruzioni culturali di identità, minoranza e diversità. Con l’approdo del melodramma agli studi sul­ la televisione, ad attrarre l’interesse delle studiose femministe ma non solo furono i serial destinati alla programmazione diurna, in partico­ lare le soap opera rivolte alle casalinghe14, ma anche produzioni ad al­ to costo destinate alla prima serata. Dynasty e Dallas divennero serie paradigmatiche del melodramma familiare televisivo, con le sue con­ tinue riconfigurazioni delle relazioni di potere e di genere sessuale, così come delle forme matriarcali e patriarcali di gestione degli affetti e della ricchezza, ma anche con la sua capacità di essere recepito15 a livello internazionale secondo uno specifico modello culturale. La televisione ha quindi cominciato a trasporre in melodramma e in soap opera eventi o catastrofi storicamente significativi (come la schiavitù o il genocidio degli ebrei da parte della Germania di Hitler). I primi esempi furono Roots (Radici, 1977) e Holocaust (1979), pa­ rallelamente (in Europa) a film ambientati durante il nazismo come La caduta degli dei (Luchino Visconti, 1969), Il Conformista (Bernardo Bertolucci, 1969), Il portiere di notte (Liliana Cavani, 1974), Lacombe Lucien (Louis Malle, 1974), Tbe Serpent's Egg (L'uovo del serpente, Ingmar Bergman, 1977), Tbe Marriage of Maria Braun (Il matrimo­ nio di Maria Braun, Rainer Werner Fassbinder, 1979), e a Hollywood a film come The Color Purple (Il colore viola, Steven Spielberg, 1985) o Schindler's List (La lista di Schindler, Steven Spielberg, 1993). L’ampia prospettiva dei cultural studies sulla forma melodram­ matica, nella quale la corrente femminista includeva l’analisi dei ro­ manzi Harlequin 16 e delle riviste femminili17, ha fatto sì che sempre più si prendesse in considerazione il melodramma nell’analisi di 14 T Modlesm, Loving with a Vengeance, Mass Produced Fantasies for Women, Archon Books, New York 1982. 15 I. Ang, Watching Dallas- Soap Opera and the Melodramatic imagination, Methuen, London 1985; J. Gripsrud, The Dynasty Years: Hollywood Television and Critical Media Studies, Routledge, London 199516 J. Radway, Reading the Romance: Women, Patriarchy and Popular Literature, University of North Carolina, Chapel Hill 1984. 17 J. Hermes, Women's Magazines: An Analysis ofEveryday Media Use, Polity Press, Cambridge 1995-

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eventi mediatici quali ad esempio i matrimoni reali. E così, anche la cronaca di catastrofi naturali e di disastri umanitari, come terremoti, inondazioni, carestie, guerre civili e genocidi, ha assunto le forme ti­ piche del melodramma - portando in primo piano donne e bambi­ ni presentati come vittime e mostrati attraverso la tecnica della giu­ stapposizione delle immagini con l’intento di suscitare emozione. Per quanto riguarda alcuni eventi pubblici, la modalità melo­ drammatica sembrava esser stata pre-disposta nella dinamica stessa con cui gli eventi si verificavano e nell’assoluta improbabilità del loro stesso accadere, come se anche Dio fosse appassionato di melodram­ mi. Oppure (alternativa più probabile), come se l’essenza del succes­ so della psicanalisi in quanto discorso culturale nella seconda metà del Novecento risiedesse nel fatto che non vi era più un inconscio nasco­ sto. Al contrario, desideri inconsci, motivi obliqui, ossessioni nevroti­ che erano emersi in superfìcie, in bella vista, manifestandosi in ciò che Freud aveva chiamato psicopatologia della vita quotidiana. È quanto si è verificato in modo eclatante e spettacolare quando Diana, principessa del Galles, ha perso la vita in un incidente auto­ mobilistico a Parigi nel 1997. Lo shock per la sua morte non fu av­ vertito solo in Gran Bretagna ma ovunque, se consideriamo la straor­ dinaria profusione di dolore pubblico e l’ostentazione di lacrime che seguirono. Nuovo fenomeno mediatico, quest’evento ha rivelato il po­ tere che stampa e televisione possono avere nell’orchestrare vere e proprie esplosioni di emozione e affetto, che possono avere anche conseguenze politiche, in questo caso dando l’impressione di minac­ ciare la stessa sopravvivenza della monarchia britannica. A quasi dieci anni dalla sua morte, la storia di Diana fa ancora notizia sui giornali, con rivelazioni sorprendenti e sensazionalistiche. Grazie alla moderna tecnologia audiovisiva, Diana ora parla dall’oltretomba, accusa suo ma­ rito di tradimento e rivela come, sapendo di essere incinta, si fosse get­ tata dalle scale di fronte al principe Carlo, prossimo a uscire di casa per andare a cavallo, probabilmente con la sua amante. Nessun romanziere vittoriano avrebbe potuto inventare una scena più banale, ma la differenza in questo caso è che la protagoni­ sta è una donna moderna, fanatica di jogging e della musica di Geor­ ge Michael e di Elton John, a sua volta non estranea ad avventure ses­ suali, la quale mette in scena un melodramma che la cameriera del­

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la bisnonna di suo marito avrebbe avidamente letto nascosta nel sot­ toscala di Buckingham Palace. La storia della principessa Diana è di­ ventata un sottogenere del «melodramma materno», con lo scarto ul­ teriore che ha rifiutato di sacrificarsi ed è stata perciò «sacrificata» dai media che l’hanno resa famosa. Nel contempo regina ribelle della di­ sco-music e tradizionale donna-vittima, Diana era sia manager della propria fama da pop-star, sia vittima della manipolazione di quelle forze che lei stessa aveva contribuito a mettere in moto.

Il melodramma al volgere del secolo: cinema, televisione e la po­ litica dei media Esempi così diversi, come il film Schindler's List, la morte e il funerale di Diana, principessa del Galles (o quello di Pym Fortuijn in Olanda nel 2002), il reportage televisivo sul genocidio in Ruanda e le guerre civili in Bosnia e Kosovo indicano fino a che punto, nella cul­ tura popolare, rimanga persistente la modalità melodrammatica di rappresentazione e Videa melodrammatica di conflitto e scontro. La reality-tv, la «televisione dei sentimenti» e la proliferazione di talk show indicano che l’ostentazione pubblica di emozioni private è de­ stinata a rimanere una caratteristica stabile del nostro panorama mediatico. Il melodramma è diventato - paradossalmente, visto il pro­ blema da cui siamo partiti (l’opposizione al realismo) - la modalità dominante autenticità mediatica. Allo stesso tempo, la logica emozionale, la retorica drammati­ ca e le strategie narrative del melodramma hanno influenzato la no­ stra stessa idea della politica e dell’attualità, così come il modo in cui sperimentiamo la verità e la leggibilità degli eventi pubblici. Il melodramma, inoltre, grazie alla televisione, ora raggiunge il cuore del meccanismo che regola la percezione che abbiamo di noi stes­ si in relazione agli altri, non solo a coloro che ci sono prossimi (la famiglia), ma anche a coloro che sono distanti e antagonisti (l’altro etnico: cioè il nostro vicino di casa, città, regione o stato). Nel cor­ so di queste trasformazioni, il melodramma ha anche cambiato aspetto e significato. Uno degli esempi più evidenti potrebbe esse­ re il ruolo che ha assunto nella rappresentazione di avvenimenti

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storici18. Le forme melodrammatiche hanno profondamente segna­ to la nostra idea di passato e il modo in cui lo ricordiamo, sia nella sfera della memoria individuale sia in quella della pubblica comme­ morazione. Il monumento non è più ciò che ci rammenta il passa­ to: abbiamo bisogno di una storia, abbiamo bisogno di identificare (di identificarci con) i singoli protagonisti, di riconoscerci in loro, negli attori e nei protagonisti della storia. Non mi riferisco solo al­ le ricostruzioni e ai riallestimenti televisivi di guerre o di disastri na­ zionali, ma per esempio al Muro dei veterani del Vietnam con le sue migliaia di firme e l’effetto specchio della sua pietra levigata; o al museo dell’olocausto di Washington, dove con un biglietto si può «comprare» l’identità di un individuo e ripercorrerne la vita nel cor­ so della visita19 ; o ancora alle visite guidate che ormai ogni sito sto­ rico, ogni piccola o grande città organizza per i visitatori. La storia e l’individuo: non solo abbiamo bisogno di individui per capire la storia, ma soprattutto sembriamo aver bisogno di sen­ tire i protagonisti della storia come vittime. È in questa trasforma­ zione del passato da storia in «vivo ricordo» che si è verificato un al­ tro cambiamento: piuttosto che immedesimarci negli individui eroi­ ci che vinsero battaglie e sconfìssero il nemico (o saperne di più su forze sociali come le classi e le ideologie, o su questioni economiche come l’accumulazione del capitale e la massimizzazione del profitto), sembriamo voler esperire la condizione delle vittime e dei soprav­ vissuti che hanno trionfato sulla morte attraverso il sacrifìcio o che sotto sopravvissuti a disastri e avversità attraverso abissi di sofferen­ za e persecuzione. Qui il melodramma ha sostituito l’epica dell’età classica e il romanzo sentimentale della storiografia marxista (di lot-

18 In linea con ciò che si è detto per gli anni novanta, il melodramma come mo­ dalità non è più confinato nella trama dei film, o nei personaggi ed eventi finzionali. Esso è anche diventato una modalità di tutto rispetto per la rappresentazione di even­ ti storici, seguendo una linea che va da The Birth of a Nation (Nascita di una nazio­ ne, 1915) di David Wark Griffith a Doctor Zhivago (Il dottor Zivago, 1965) di David Lean, da Roots (1977) e Holocaust (1978) di Marvin Chomsky a Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci eHeimat (2004) di Edgar Reitz. Nel corso di queste mutazioni e migrazioni, dal film epico alle serie televisive e dalla produzione hollywoodiana domi­ nante al cinema artistico europeo, il melodramma si è anche trasformato da genere a modalità del sentire, e da modalità a visione del mondo. 19 The United States Holocaust Memorial Museum,

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ta, messa alla prova e vittoria finale) per diventare, in loro vece, la modalità apparentemente più naturale per raccontare i conflitti e gli antagonismi della nostra epoca post-illuminista che non crede più nel grande racconto del progresso.

Il melodramma, la cultura del piagnisteo e il «fallimento del femminismo»? Finora mi sono limitato principalmente ad alcune affermazioni di massima che descrivessero a grandi linee la persistenza del melo­ dramma nel nuovo secolo, sottolineando che - in quanto modalità del sentire, immaginazione del disastro, retorica di forti contrasti ed eccessi, e come sistema di tropi incentrati sulla sofferenza e sulla condizione di vittima - esso ha esteso il suo ambito ben oltre il tea­ tro, il cinema e la cultura popolare, che erano stati i domini tradi­ zionali di questo genere. La domanda che sorge da tale stato di co­ se potrebbe essere: qual è il significato di questi cambiamenti, cosa c’è dietro l’ampliamento dell’area di pertinenza del melodramma? Le ipotesi suggerite per spiegare la combinazione delle strutture melo­ drammatiche del sentimento con la cultura della «condizione di vit­ tima» sono diverse. Robert Hughes, critico d’arte newyorkese, nel suo fortunato libro Tbe Culture of Complaint^, esponeva la tesi se­ condo la quale gli americani erano così abituati a dare per scontato lo stato di cose e le libertà che sono loro garantite, da essere ormai riluttanti ad assumersi la responsabilità della propria vita e delle pro­ prie decisioni. Rilevava che gli americani erano diventati totalmente dipendenti da avvocati e processi, per cui intentavano cause di ri­ sarcimento per qualunque cosa ostacolasse il loro diritto al perse­ guimento della felicità. Le conseguenze delle loro abitudini alimen­ tari o di fumatori, la rottura di una caviglia durante escursioni nei bo­ schi o addirittura le scottature rimediate prendendo il sole in spiag­ gia: tutti i motivi erano buoni per chiedere i danni. Da intellettuale 20 R. Hughes, Tbe Culture of Complaint: The Fraying of America, Oxford Uni­ versity Press, New York 1993; trad. it. La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, Adelphi, Milano 1994.

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conservatore, Hughes incolpa di questa cultura della dipendenza le «politiche dell’identità» e la «correttezza politica», cioè l’appello libe­ rale e di sinistra alla tolleranza, all’empatia, al rispetto dell’altro e al riconoscimento della diversità culturale, in una società sempre più multiculturale, costituita da comunità diverse e multietniche. Un altro argomento, leggermente diverso da quello di Hughes, ma anch’esso proveniente per lo più dalla posizione conservatrice più estrema, vede le tendenze all’universalizzazione del vincolo che acco­ muna le vittime, e con essa l’emergere di una sfera pubblica emotiva­ mente disinibita e guidata dall’affettività, non tanto come espressione di dipendenza e di regressione infantile o del generale abbassamento degli standard di gusto e di istruzione, quanto come un ulteriore se­ gnale della «femminilizzazione» della modernità e della vita culturale, un processo che molto deve al fatto che sempre più donne accedono alle professioni e alla vita pubblica e che sempre maggiore è l’in­ fluenza che esse esercitano sulla rappresentazione mediatica in virtù del loro accresciuto potere d’acquisto in quanto consumatrici. Questa tesi, formulata in modi diversi, ha una lunga storia. Fu invocata per la prima volta a cavallo tra Otto e Novecento da intellettuali viennesi co­ me Karl Kraus e Otto Weininger, quando il suffragio venne esteso al­ le donne. E tornata d’attualità nel momento in cui si è diffusa la preoc­ cupazione per l’attuale crisi del maschio, dovuta a famiglie costituite da un solo genitore (di solito donna) e alla massiccia deprofessionalizzazione della classe lavoratrice maschile che si è trovata imprepara­ ta nel passaggio dall’industria manifatturiera a un’economia basata sull’industria di servizi e sull’informazione, un processo che ha lascia­ to molti uomini ancora giovani senza lavoro e moralmente alla deriva. In questa ottica le rivendicazioni delle donne, assieme a questi cam­ biamenti sociali, avrebbero minato le fonti tradizionali di identità ses­ suale senza sostituirle con modelli di autorità e responsabilità alter­ nativi e credibili. Fra coloro che hanno imputato il fallimento del «nuo­ vo uomo» almeno in parte al femminismo ci sono state - ed erano fra le più convincenti - anche donne, ad esempio femministe anti-femministe come Camilla Paglia e Susan Faludi21. 21 C. Paglia, Sexual Personae, Yale University Press, New Haven 1990; S. Faludi, Stiffed: The Betrayal of the American Man, Perennial Books, New York 2000.

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Secondo questa impostazione, il background che ha permesso e alimentato la persistenza del melodramma nella cultura contem­ poranea sarebbe da individuane in una serie di crisi: la «cultura del piagnisteo», la «femminilizzazione» del consumo, il «fallimento del femminismo» nel rapporto con gli uomini e, oltre a queste, la crisi di rappresentazione in senso politico. La cosiddetta «apatia dell’eletto­ re», diffusa nelle democrazie occidentali, è interpretata come crisi della cittadinanza e si manifesta nel rifiuto massiccio di partecipare alle elezioni come risposta alla delusione nei confronti della demo­ crazia parlamentare e all’insoddisfazione verso il sistema di rappre­ sentanza dei partiti politici. Invece, i modi di rappresentazione me­ lodrammatica, che per trovare uno spazio non di rado scadono nel camp - come nel caso di Pym Fortuyn -, sono sentiti intuitivamen­ te come più efficaci del voto politico per farsi ascoltare nell’arena della vita pubblica, il cui «foro» è la televisione. Infine, le modalità melodrammatiche di presentazione e rap­ presentazione dell’io come «vittima», nei media e nella sfera pubbli­ ca, potrebbero essere considerate il sintomo di una crisi della legit­ timità giuridica, in quanto espressione di esigenze personali e di di­ ritti «soggettivi» che si oppongono alle concezioni liberali di respon­ sabilità e cittadinanza. Oppure, potrebbero essere il modo attraver­ so il quale si mostra il disorientamento prodotto dal multiculturali­ smo e la frustrazione nei confronti di quell’universalismo spesso illi­ berale promosso dai fondamentalismi religiosi. In entrambi i casi, si tratta di modalità indicative di quella sfiducia che si nutre verso l’am­ ministrazione dei diritti civili e umani, la quale risulta del tutto inef­ ficace quando è costretta a fare i conti con il meccanismo farragino­ so delle istituzioni politiche nazionali e internazionali.

Il melodramma nel nuovo millennio: verso un nuovo universale? Quanto sono credibili queste ipotesi che individuano in una se­ rie di crisi la ragione del ritorno al melodramma nel nuovo millen­ nio? Non sono completamente sbagliate, ma neppure giuste. A mio avviso partecipano in qualche modo allo stesso malessere che si pro­ pongono di analizzare poiché sono, a vari livelli, il risultato o il sin-

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tomo della perdita di fede nell’universalismo illuministico (da parte dei conservatori) e della perdita di fiducia nella diversità di pensiero multiculturale (da parte dei liberali e delle femministe disilluse). Il punto sul quale hanno ragione è l’assunto implicito che il discorso sulla condizione di vittima, sull’affettività dilagante e sulla pubblica emotività da me identificato con la «modalità melodrammatica» non sia né sentimentale né nostalgico, né neoromantico né irrazionale, ma un fenomeno di militanza (e forse persino post-post-modemo). Da questo punto di vista, sarebbe quindi meglio considerare la «va­ lorizzazione della vittima» come la possibile risposta - piuttosto che come sintomo - di queste o simili crisi. In altre parole, la stessa mo­ dalità melodrammatica si offre come un nuovo «universale», un uni­ versale che richiede però ogni volta un’attualizzazione assai specifi­ ca e circoscritta. Ciò farebbe del melodramma, e delle sue stesse istanze univer­ salistiche, il sintomo di un fenomeno più ampio: la globalizzazione. A ben vedere, un’eventualità del genere sembra suggerita, ad esem­ pio, da The Oprah Winfrey Show, il programma che forse più di tut­ ti ha contribuito a «globalizzare» la sofferenza, mobilitando una no­ tevole quantità di affettività legata all’empatia e alla compassione. Il melodramma farebbe così presa suH’immaginario perché assolve a una funzione sostitutiva, segnalando una lacuna nel nostro tentativo di attribuire senso al mondo e alla nostra vita all’interno di esso. Il secondo paradosso è che il melodramma, e la modalità me­ lodrammatica utilizzata AaWOprah Winfrey Show, sembrano occu­ parsi sì della sofferenza, ma non di quella della «povera vittima», di certo non se la vittima è immediatamente identificabile con l’impo­ tenza. Al contrario, le storie scelte da Oprah Winfrey per il suo show esaltano la forza di chi subisce, affermando in modo talora ostenta­ to il fatto che la vittima ha il diritto di soffrire e che è proprio que­ sta sofferenza a renderla forte. Questo è il motivo per cui The Oprah Winfrey Show ha a che fare con l’empatia e l’identificazione, così co­ me con il «tirare fuori» e lo «sfogarsi» parlando, ma l’effetto non è ca­ tartico, almeno non come nella tragedia, o nel «raccontarsi» della psi­ canalisi classica. Piuttosto, il suo modus operandi post-narrativo è invece preferibilmente performativo: un’azione non intesa nel senso di «messa in scena» o di contraffazione (come si potrebbe dire del

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Jerry Springer Show), e nemmeno di mezzo rivolto a un fine, sia es­ so fornire una terapia o dare consigli legali e giuridici (come qualche volta accade quando il Dr. Phil è al telefono). Nell’OpraZ? Winfrey Show, la messinscena di affetto, vittimismo e partecipazione è fine a se stessa. Alla catarsi e alla risoluzione finale si preferisce la ripeti­ zione e il differimento. Più che offrire soluzioni, VOprab Winfrey Show dà la possibilità di «essere ascoltati». Perché ci siamo rassegnati a «essere ascoltati»? Nel peggiore dei casi, proclamando e ostentando la nostra condizione di vittime — rea­ le o immaginaria che sia - nell’arena pubblica degli spazi mediatici; nel migliore dei casi, istituendo una nuova arena politica che rico­ struisca ambiti certi di legalità come una «Commissione di riconci­ liazione e verità», o un «Tribunale intemazionale per i diritti umani». Si toma dunque alla questione delle affinità e delle differenze tra me­ lodramma e tragedia, e al tema della giustizia definitiva. Il melo­ dramma tradizionalmente inteso mette i personaggi a confronto con un universo tragico, ma nega loro ogni trascendenza o accesso a una realtà più alta dove potrebbero trovare una soluzione alle contraddi­ zioni della loro vita. E una tragedia senza punizione e senza lo sguar­ do benevolo di un’autorità superiore: i conflitti presentano se stessi su un piano singolo, ma in realtà operano a un livello duplice, solo che il secondo non è più visibile né dai personaggi né dallo spetta­ tore: l’autorità superiore si è ritirata dalla vita umana. L’assenza di trascendenza e di un’autorità superiore, inoltre, ha attribuito un’accezione diversa a ciò che noi intendiamo per trauma. Non si tratta più della ferita che un essere umano può portare den­ tro di sé come conseguenza di un’infanzia di abusi o per essere stato testimone di terribili disastri naturali o umani, come ad esempio guerre o persecuzioni. Il trauma è diventato in generale il momento «fondativo» dell’identità e della personalità di ogni individuo, e quin­ di la base della storia della sua vita, la fonte del suo significato ultimo. Un chiaro esempio sono i discorsi televisivi basati su testimo­ nianze dirette o riportate di traumi personali, come gli abusi infanti­ li, la violenza, gli incidenti domestici e i lutti familiari. The Oprah Win­ frey Show o The Jerry Springer Show invitano a confessare i partico­ lari più intimi e privati rintracciabili nella vita di una persona, non ri­ sparmiando le azioni più turpi e le passioni più perverse. A voler tro­

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vare una spiegazione per tale fenomeno, si potrebbe dire che questi programmi rispondono a una necessità non più soddisfatta dalla fa­ miglia, dallo stato sociale o dalle organizzazioni religiose. Dando una voce e un volto alle vittime, e schierandosi risolutamente dalla loro parte, le «persone normali» sanno bene (o meglio lo sanno coloro che realizzano questo tipo di programmi televisivi) come produrre, attra­ verso racconti di vittime e sopravvissuti, i tipi di riconoscimento uni­ versale che garantiscono la legittimazione morale dettata dai media. Se a ciò si aggiunge la popolarità di courtroom dramas ambientati nelle aule dei tribunali, e di programmi dove un ospite è improvvisa­ mente di fronte ad amici o a ex-fìdanzati/e che non vedeva da tempo, diventa evidente che la televisione ha sviluppato dei generi propri, che operano sulla base dell’immaginazione melodrammatica, o che usano modelli melodrammatici di conflitto e di gestione del conflit­ to, sprezzantemente etichettati dalla critica come una nuova forma di pornografìa della sofferenza e di oscenità della vita intima. Ciò che è osceno, entrando letteralmente «in scena», sebbene in maniera indiretta, potrebbe essere ancora una volta il lato «sov­ versivo» del melodramma. La coscienza sporca, se si vuole, non più del sogno americano o della prosperità della classe media nel dopo­ guerra, ma quasi l’opposto. La povertà materiale e spirituale, la ca­ renza crescente di istruzione e di opportunità, l’iniqua ripartizione delle ricchezze, delle risorse naturali e del benessere individuale nel­ l’epoca odierna trovano nella messa in scena del melodramma tele­ visivo il proprio linguaggio. Il melodramma allora non sarebbe una tragedia mancata, ma in realtà l’unica modalità di tragedia oggi possibile, perché parla di un fallimento più generale. Sarebbe quindi la modalità che riflette, o sin­ tomaticamente rappresenta (a seconda del punto di vista), alcune delle cosiddette crisi del concetto attuale di politica, così come vie­ ne praticata in Occidente e attuata dall’economia globale del libero mercato. Nel melodramma potremmo quindi vedere la rappresenta­ zione di una rappresentazione (mancata). Questo è il motivo per cui rimane così contraddittorio e indecifrabile, ma anche così potente e accattivante, ed è anche la ragione per cui, nella sua universalizzazione della condizione di vittima e nella designazione di quest’ultima come persona onesta che rivendica dei diritti, prima ancora di

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dover dimostrare la propria virtù e la propria virtuosità, esso è di­ ventato parte di un discorso politico e morale. O piuttosto, lo stes­ so melodramma è diventato un discorso politico e morale, in cui la vittima si presenta come ciò che in linguistica è conosciuto come deittico (shifter), una marca del discorso che indica uno spazio vuo­ to e richiede un corpo, nello spazio e nel tempo, che lo «occupi». I deittici linguistici comprendono parole come «io», «tu», «qui», «ades­ so»: tutti termini che possono/devono essere usati da ciascun singo­ lo parlante e sono pertanto completamente impersonali e indeter­ minati, per cui il loro significato si deduce grazie al contesto, alla vo­ ce e al parlante che ne specificano le coordinate22. La vittima come «deittico», nelle varie forme del melodramma contemporaneo che ho discusso, sarebbe così anzitutto un segno «vuoto» dell’enunciazione. Un segno o uno spazio vuoto di cui può appropriarsi chiunque partecipi al discorso, chiunque si senta, con qualsiasi mezzo - verbale ed emozionale o brutale e violento -, in di­ ritto di parlare o di farsi ascoltare. Forse è questa la vera tragedia: che il silenzio eloquente degli orfani del melodramma del teatro vitto­ riano, delle eroine dello schermo di David Wark Griffith, dei corpi fìlmici isterici della Hollywood degli anni cinquanta e delle soap ope­ ra degli anni ottanta, sia diventato nel nuovo millennio l’arrogante eloquenza di quei melodrammi della politica globale noti con il no­ me di «Guerra al Terrorismo». Avevo detto che il melodramma era la modalità di rappresenta­ zione di conflitti e contrasti, ma senza soluzione. Come discorso uni­ versalizzante, fornisce una sedia vuota a disposizione di chiunque vo­ glia occuparla. Questo è il suo aspetto positivo, o se vogliamo la sua utopia. Ma si potrebbe anche giungere alla conclusione opposta: in fin dei conti il melodramma non è forse la visione del mondo o la meta­ fìsica propria di un’epoca che non crede più nelle soluzioni? Di un’e­ poca che ha voltato le spalle a tutte le utopie di cambiamento? Non è forse la modalità più adatta a un’epoca che proclama la «fine della sto­ ria», ma non riesce a metter fine a conflitti e guerre? Il melodramma, in breve, indica uno spazio vuoto, ma non lo colma, né può farlo.

22 Vedi E. Benveniste, Problèmes de linguistiquegénérale I, Gallimard, Paris 1966; trad. it. Problemi di Linguistica generale /, Il Saggiatore, Milano 1971.

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L’HYPERBOLE DANS LE CINÉMA EUROPÉEN DES ANNÉES DIX

di Dominique Nasta

Au cours de mes recherches, en vue de l’élaboration d’un inventaire des figures rhétoriques propres au mélodrame cinématographique, j’ai été confrontée d’emblée à un paradoxe typiquement «mélodramatique»x: alors que beaucoup de films recèlent d’aspects propres au mélodrame, aussi bien dans la production muette rendue accessible par l’extraordinaire essor des redécouvertes et des restaurations des quinze dernières années - qu’au sein du parlant, peu sont reconnus comme tels. Une première raison justifiant cette reconnaissance parcimonieuse semblerait provenir du fait que beaucoup de mélodrames étaient qualifìés d’indignes rejetons d’un genre mineur, véritables tear-jerkers, pales copies de leurs ancétres littéraires, musicaux ou encore picturaux. Une deuxième raison est sans doute à mettre sur le compte d’une certame nébuleuse catégorielle au niveau de l’exégèse autour du mélodrame fìlmique. Si des contributions essentielles du domaine anglo-saxon, seminal works tels ceux de Thomas Elsaesser, Robert Lang ou encore Christine Gledhill, ont été salués par des théoriciens du genre littéraire comme Peter Brooks pour leur apport incontoumable consistant à redonner au mélodrame fìlmique ses lettres de noblesse, il subsiste encore dans le domaine européen une certaine appréhension quant à 1 Voir mes contributions précédentes autour de l’usage des tropes dans le mélo­ drame muet à savoir : Figures de l'excès dans les Mélodrames Pathé d'avant 1915, dans La Firme Pathé Frères, n. hors-série de la revue «1895 *. AFRHC, 2004; Mélodrame et oxymoron.- variations filmiques sur la fin paradoxale, avec M. Andrin, dans V In­ nocenti, V Re (éd.), Limina: Film's Thresholds, Forum, Udine 2004; Setting the Pace of a Heartbeat : the Use of Sound Elements in European Melodramas Before 1915, dans R. Altman, R. Abel (éd.), The Sounds of Silents, Indiana University Piress, Bloo­ mington 2001.

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l’établissement de grilles d’ensemble catégorielles2. On opterà plutòt pour des piecemeal analyses, des «études de cas» où ce n’est pas le genie, mais bien l’auteur ou le cinéma national (italien, frangais, allemand, Fècole scandinave, les pré-révolutionnaires russes) qui est privilégié. Les écrits d’Éric de Kuyper, Youri Tsivian ou encore Lea Jacobs et Ben Brewster - pour ne citer qu’eux -, visant Fétablissement de liens syncrétiques communs à plusieurs mélodrames européens et de ce que de Kuyper appelle le cinéma «de la seconde époque», m’ont aidé à mieux cerner les enjeux méthodologiques d’un corpus que j’avais, dans mes contributions antérieures, concentrò sur la période précédente, à savoir celle comprise entre 1908 et 19153. 1. Après avoir tenté une mise à plat des théories que développe Peter Brooks dans Tbe Melodramatic Imagination4 à travers l’appli­ cation des «figures de l’excès» que sont F hyperbole, Fantithèse et l’oxymoron, au sein des contributions citées plus haut, j’ai souhaité me pencher de manière plus détaillée sur les mécanismes thématiques et stylistiques embrayés par l’usage recurrent de l’hyperbole. Les exemples choisis à l’intérieur de la production danoise, russe, frangaise et italienne allant de Tannus mirabilis 1913 à 1919 démontreront, je l’espère, à quel point des instances symboliques issues de plusieurs domaines artistiques se conjuguent comme des entités éminemment cinématographiques, et ce grace aux impératifs d’un genre hautement codifìé. Il est important, avant de s’attaider sur ce que Brooks nomme «hyperbolic instance», de dresser un bref historique terminologique de cette figure rhétorique et de ses extensions artistiques5. Au XVIIF

2 T. Elsaesser, Tales of Sound and Fury: Observations on tbe Family Melo­ drama, dans «Monogram», n. 4, 1972; R. Lang, American Film Melodrama: Griffith, Vidor, Minnelli, Princeton University Press, Princeton 1989; C. Gledhill (édJ,Home Is Where tbe Heart Is: Studies in Melodrama and the Woman's Film, BFI Publishing, London 1987. 3 W>ir à ce sujet 1’article d’Eric de Kuyper paru dans le premier numero de la revue «Cinémathèque», Le cinéma de la seconde époque: le muet des années Dix, 1992. 4 P Brooks, The Melodramatic Imagination: Balzac, Henry James, Melodrama and tbe Mode of Excess, Yale University Press, New Haven 1976. 5 Ivi, p. 126.

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siècle, Fontanier et Du Marsais l’envisagent, à 1’instar des poètes de l’antiquite grecque auxquels on doit bien sùr l’origine du mot «hyperballein» - «hyper» signifiant au-delà et «ballein» jeter -, comme la principale figure de l’exagération, «qui augmente ou diminue les choses avec excès et les présente bien au-dessus ou bien au-dessous de ce qu’elles sont, non dans la vue de tromper, mais d’amener à la vérité mème et de fixer par ce qu’elle dit d’incroyable, ce qu’il faut réellement croire»6. Il s’agit done d’un procédé visant à frapper aussi bien l’imagination visuelle (peinture, cadre, photo, plan/photogramme) que la sen­ sibili té mentale (poème, drame, air d’opéra, insert scriptural, etc.), que fon retrouvera sous d’autres dénominations, dont la variante la plus courante est l’hypotypose7. Dans leur Rhétorique générale, les théoriciens beiges du Groupe p parleront eux de métalogisme, unité de signification fonctionnant par adjonction ou par déformation, tenant compte des representations mentales (encyclopédies) élaborées par chaque société8. Dans le mélodrame fìlmique muet, l’équilibre entre le sens littéral de l’hyperbole et celui figure relèvera surtout de la representa­ tion, plus rarement de la communication : sous l’influence avouée de la littérature et de la peinture symboliste, les cinéastes vont s’efforcer de suggérer visuellement des situations et des états extremes afìn de provoquer des émotions a priori plus fortes que celles issues de la lecture d’un intertitre ou de la simulation imagée d’effets auditifs9. Pour ce qui est du figure, la filiation établie par les analystes tels Edward Lucie-Smith s’est concentrée autour des mécanismes accumulatifs de la Renaissance tardive et du maniérisme italiens, avec ses extensions chez les pré-raphaélites anglais, la peinture symboliste décadente européenne (Munch, Knopff, Moreau) et, à un degré moindre, les peintres romantiques allemands. A un niveau inférieur mais non négligeable dans l’échelle «encyclopédique» des emprunts, 6 C. Du Marsais, R Fontanier, Les Tropes, ré-éd. avec une introduction de G. Genette, Slatkine reprints, Parìs/Genève 1984. 7 Ivi, p. 15. 8 J.-M. Kunkenberg, Le sens rhétorique: Essa is de sémantique littéraire, Ed. Les Epéronniers, Bruxelles 1990, p. 54-599 K. Wales, A Dictionary of Stylistics, Longman, London 1994, p. 222.

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nous trouvons les photos servant de modèles aux tableaux, les details de couvertures et d’affiches art déco, certaines representations théàtrales ou opératiques, et les feuilletons illustrés ayant servi de base pour maintes transpositions filmiques10. L’hyperbole littérale au sens strictement linguistique sera moins présente en tant qu’embrayeur autonome de sens (nous aurions de la peine à retrouver des transcriptions filmiques littérales d’expressions-types telles «mourir de honte» ou «avoir des millions de choses à faire»), alors que celle d’incidence poétique reviendra très souvent dans les intertitres en guise d’adjonction analytique mais aussi sous forme de citation extraite d’un poème ou d’une pièce en rapport avec 1’intrigue11. Par ailleurs, au niveau des moyens mis en place pour susciter l’émotion spectatorielle, il s’agira de procèder à un exercice de décodage proche de celui qu’exige la lecture d’un poète symboliste tei Stéphane Mallarmé, car il y a souvent oscillation entre la révélation d’un fait extraordinaire (suicide, incendie, aveuglement, trahison, vengeance) et l’occultation délibérée de reactions et d’effets qui agiront comme de véritables catalyseurs émotionnels12. Ce bref parcours syncrétique sur le Gesamtkunstwerk que constitue l’hyperbole fìlmique à l’orée des années dix ne pourraìt ótre complet sans quelques précisions sur les liens essentiels tissés avec ce que Brewster et Jacobs appellent, dans leur ouvrage Theatre to Cinema, le «stage pictorialism », à savoir la mise en scène théàtrale ou opératique et ses techniques expressives, où altement le figure et le littéral.13 À l’instar de Peter Brooks qui évoque la «terminal worldlessness in the fixed gestures of tableaux», il s’agira de comprendre la fonction narrative de la gestuelle et des suspensions déclamatoires. Brooks revient d’ailleurs au Traité du mélodrame XlXèmiste, avec ses situations hyperboliques dérivées des techniques d’expression :

10 E. Lucie-Smith Symbolist Art, Thames & Hudson, London 2001. 11 Voir H. Lausberg, Elemente der Uterarischen Rhetorik, Max Hueber Verlag, Munchen 1984. 12 II suffìt de se remémorer le poème Prose de Mallarmé, qui cite explicitement l’hyperbole, dans S. Mallarmé, Poésies, Le livre de Poche, Paris 1977. 13 B. Brewster, L. Jacobs, Theatre to Cinema: Stage Pictorialism and the Early Feature Film , Oxford University Press, Oxford 1997.

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années

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«[...] at the end of each act, one must take care to bring all charac­ ters together in a group and place them in the attitude that corres­ ponds to the situation of his soul : pain will place a hand on its fore­ head, despair will tear out his hair and joy will kick a leg in the air»14. 2. Mais venons-en à la recurrence d’effets hyperboliques connaissant leur apogée au sein des mélodrames de la «seconde époque». C’est l’exagération, voire 1’accumulation embrayée par cette catégorie au demeurant rhétorique, qui est souvent à l’origine de segments d’une dynamique dont seul le cinéma peut s’enorgueillir. L’hyperbole devient fìlmique au gré des emprunts aux autres arts, mais également à travers la volonté des cinéastes de transmettre un «flot » d’idées émotionnelles oscillant sans cesse entre la suspension, le déploiement et la synthèse, le «deep staging» et le «continuity cutting». Pour de Kuyper, le cinéma des années dix synthétise les acquis du XIXe siècle, mettant en place de nouveaux rapports entre l’image et le texte : une syntaxe narrative de type polyphonique, avec des films à longueur variable et des intertitres suggérant un double récit, s’impose au spectateur15. Les récits mélodramatiques que j’ai choisi d’analyser varient les modalités d’utilisation des figures hyperboliques. Les deux premiers exemples issus de l’école danoise sont très signifìcatifs à cet égard. Ainsi, les scenes «d’atmosphère» du spectaculaire mélodrame adapté du roman homonyme de Gerhart Hauptmann, Atlantis d’August Blom (1913), n’ont pas beaucoup en commun avec les effets hyperboliques que véhicule la deuxième sèrie iconographique du Klovnen d’August Sandberg (1916), qui appartient pourtant à la mème école que Blom. Dans le premier exemple (fig. 1) nous sommes à mi-chemin du récit, en plein voyage d’un Titanic à deux pas du naufrage, dans la cabine d’Ingigerd (Ida Orloff), maitresse maléfique ayant entraìné le docteur Van Kammacher à sa perte. Blom exagère par accumulation la décoration de sa cabine afìn de souligner que tout lui est permis (perroquet à l’arrière-plan), qu’elle a un comportement narcissique et infantile (miroir et poupée qu’on apergoit dans ses bras), tout en 14 R Brooks, The Melodramatic Imagination..., cit., p. 61. 15 E. de Kuyper, Le cinéma de la seconde époque..., cit., p. 31.

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se montrant très réaliste et ironique dans la mise en cadre du groupe qui l’observe. Le personnage de Charles Lutham, très connu à Pépoque, joue son propre ròle d’artiste-manchot en pieine representation lors d’un numéro de vaudeville, après Farrivée des rescapés du naufrage à New York. Dans une sèrie de plans rapprochés, il s’essaye à jouer de différents instruments (fig. 2). Il s’agit clairement d’une hyperbole d’adjonction sans grande valeur narrative - on peut suivre Pintrigue sans cette séquence - mais contribuant, dans la plus pure continuité du cinéma des attractions, à créer des situations «d’une efficaci té saisissante» dans Pacception des formalistes russes16. Le docteur et sa maitresse font partie d’un univers excessif d’où personne ne sortirà indemne. Alors que la plupart des scènes du film sont très typiques du style de Page d’or de la Nordisk et manient de fagon remarquable Paltemance entre des scènes de foule très réalistes et des scènes oniriques à valeur allégorique, en tablant principalement sur Pantithèse, les exemples montrés «agissent» très clairement par le biais de Phyperbole1718 . Le cas de Klovnen a déjà fait Pobjet d’analyses, surtout pour ce qui a trait à la grande diversité du jeu des acteurs. C’est Phistoire classique du triangle mélodramatique transposé dans le monde du cirque : le clown trompé, au comble du désespoir après le suicide de sa femme, orchestre et réussit sa vengeance en tuant Pamant coupable, avant de «quitter» définitivement la scène. Lorsque Phistoire commence, les figures 3 et 4 soulignent par une duplication hyperbolique du textuel, et dans une moindre mesure du visuel, Penvergure de la réussite du jeune Joe. A noter Pintertitre qui précise que les exploits musicaux «permirent à Joe de conquérir le monde» et Pexagération visuelle du jeu de guitare1S.

16 Voire notamment le formaliste russe Sergei Balukhatyi, cité par Daniel Gerould dans Russian Formalist Theories of Melodrama, in M. Landy (éd.), Imitations of Life, Wayne State University Press, Detroit 1991, p. 122. 17 Pour plus de détails sur le cinéma danois des années Dix et sur les films ana­ lyses ici, voir R. Mottram, The Danish Cinema Before Dreyer, The Scarecrow Press, Metuchen, N. J. & London 1988, et les articles de M. Engberg dans «Les Cahiers du Muet» édités par La Cinémathèque Royale de Belgique en 1994. 18 Ceci plaide bien sur pour une autre étude, qui pourrait étre focalisée uniquement sur 1’utilisation des hyperboles de type auditif.

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La continuità fìlmique/scénique reprise au sein des figures 5, 6 et 7 - ce que Jacobs et Brewster appellent «the cinematic stage» - nous place devant une hyperbole analytique à haute teneur diégétique construite à partir d’un subtil dosage entre montage et mise en scène 19. Nous voyons d’abord en plan d’ensemble Joe à 1’avant-plan en train de lire la proposition d’un impresario, pendant qu’à l’arrière-plan un rideau se lève lentement à l’intérieur d’un miroir (fìg. 5)19 20. Se retournant, Joe découvre avec stupéfaction le couple adultère après une étreinte en coulisses (fìg. 6). S’ensuit l’hyperbole fìguree: la rage de Joe est telle qu’il brise le miroir (fìg. 7). En termes purement scénaristiques, il s’agit en fait de l’incident déclencheur du drame qui va suivre. Sandberg a, par ailleurs, recours à des instances hyperboliques synthétiques moins spectaculaires et plus proches de la technique du tableau et du jeu hystrionique. Ainsi, lors de la scène des retrouvailles entre Joe et Daisy, on nous dévoile toujours la méme rage du mari délaissé la découvrant en compagnie de celui qui est déjà occupé à en séduire une autre (fig. 8). Ou bien l’hypostase proche du divisine italien où Daisy, la femme adultère rejetée par la famille de Joe, fait une prière symbolique à un dieu absent avant de se jeter à l’eau (fig. 9). Plus intéressante est l’instance hyperbolique provoquée par l’image-apparition issue de l’espace mental du clown vers la fin du film. Le comte/amant apparato en médaillon souriant à coté d’une affiche de spectacle mais surcadré de surcroìt par un rideau qui semble se lever à l’instar de celui de la scène du miroir. De plus Joe réitère un mème geste de révolte qui débouchera cette fois-ci sur le meurtre prémédité. Il s’agit d’une hyperbole itérative, ou mieux encore d’une hypotypose (fìg. 10).

3. Le «style russe», dont Evgenij Bauer est bien évidemment le représentant de marque, nous réserve des cas d’utilisation de l’excès 19 B. Brewster, L Jacobs, Theatre to Cinema..., cit., anatysent à deux reprises des fragments représentatifs de Kloven, p. 103-108 et respectivement la scène du miroir brisé, p. 177-17920 Plusieurs exégèses des quinze dernières années soulignent l’utilité, au sein du cinéma des années Dix, du dispositif «miroir» en tant qu’embrayeur de doubles scenes et d’apartés avec le spectateur.

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hyperbolique fortement contrastés au niveau du type de reaction émotionnelle qu’ils sont amenés à susciter. Dans le dernier opus du réalisateur russe achevé par Kulesov, A la recherche du bonbeur (1917), l’hyperbole joue autant sur le figure que sur le littéral afìn d’amorcer une finale dominée par l’oxymore mélodramatique. Mère, jeune veuve et fìlle aiment le méme homme, situation sans issue car a priori inavouable, surtout quand la fìlle est en train de perdre la vue. Dans la scène précédant 1’aveu (fig. 11), Bauer rend hommage aux artistes de la Renaissance et aux allégories de la peinture symboliste, non seulement par la presence en demi-profil d’un quatrième personnage - le buste - mais aussi à travers la gestion de la triple perspective accumulative du regard féminin : regard de la fìlle qui supplie rhomme terrassé, effet de rime par le buste en miroir, mère qui observe au loin ce trio. S’ensuit la révélation, sous la forme d’intertitres dialogués: «- J’en aime une autre/ - C’est ta mère» et sa conséquence antinomique (fìg. 12) : «Maman, où es-tu, je ne vois plus rien!» avec sa formidable traduction fìgurée, autre forme d’hypotypose, car manifestement l’aveuglement de la fìlle n’est rien à coté du désespoir de la mère. L’émotion pure est au rendez-vous grace au jeu hystrionique des actrices dont le regard se fige tei celui de la statue, et au maquillage exacerbé typique du style «Khandjonkhov» (fìg. 13)21.

4. Ayant consacrò plusieurs contributions aux mélodrames frangais de la première époque (Perret, Feuillade, Denoia), fai été frappée par la concision et l’économie de moyens, par l’absence fre­ quente de pathos gratuit dans le traitement de situations ò combien excessives. La seconde époque est plus «avide» d’hyperboles que la première, grace aux inévitables avancées dans le traitement de la lumière, des prises de vue et des articulations de montage. Le «cas» de Mater Dolorosa (1917), réalisé et scénarisé par Abel Gance dans la veine du théàtre d’Henri Bernstein, est à mon sens littéralement 21 Voir à ce sujet les contributions de Y Tsivian, dans P Cherchi Usai, L Codelu, C. Montanaro, D. Robinson (éd.), Testimoni silenziosi. Film russi 1908-1919, Edizioni Biblioteca dell’immagine, Udine 1989, et Two «Stylists» of the Teens: E Hofer and E. Bauer, dans T. Elsaesser (éd.), A Second Life: German Cinema's First Decades, Amsterdam University Press, Amsterdam 1996, p. 264-275.

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«sauvé» de ses lourdeurs scénaristiques peu crédibles par l’extraordinaire variété des instances hyperboliques22. La lettre que l’héroìne principale, Marthe, écrit à son amant/beau-frère qui figure en incipit du film nous plonge manifestement in medias res par un insert scriptural qui synthétise le nceud de l’intrigue et en offre déjà son lot de mises en garde hyperboliques, relevant du littéral :«[...] serait audessus de mes forces [...] je crie dans ma détresse [...] demain il serait trop tard [...]» (fig. 14). Lors de la sèrie de photos située narrativement après la mort accidentelle de l’amant et la décision de Marthe de donner une deuxième chance à son couple par la mise au monde d’un enfant, Gance rentre de plein-pied dans le domaine du représentationnel à Laide d’une dynamique de montage des plus originales. Il s’agit d’une hyperbole qui agit par comparaison mais aussi par extrapola­ tions poétiques. Nous voyons l’enfant quitter son valet et préférer l’aquarium à la baignoire (fìg. 15). Complices, les parents le contemplent derrière une porte vitrée, éclairée par Burel comme la plupart des scènes en chiaroscuro (fìg. 16). Arrive ensuite l’hyperbole littérale qui sert à catalyser le sens de la scène visualisée, à travers la cita­ tion explicite de Victor Hugo: «L’enfant, c’est un feu dont la chaleur calesse/ C’est de la gaìté sainte/ Et du bonheur sacré » (fig. 17). L’on trouve aussi chez Gance un exemple syncrétique intéressant de tableau vivant appuyant l’isotopie du titre du film. Il pourrait étre classé, à l’instar de nombreuses attitudes mystico-érotiques des divas italiennes, dans la catégorie des emprunts symbolistes ou préraphaélites, mais la suite contredit ce présupposé. On y voit Marthe au comble du désespoir après son refus de dévoiler le secret de sa liaison et la méfìance grandissante du mari qui lui interdit de voir leur fils malarie; ensuite, son modèle en plus «dévètue», qui, contrairement à ce que le titre du cadre l’indique, n’est pas la Mater Dolo­ rosa en question mais bien Marguerite au Sabbat, oeuvre signée Dagnan-Bouveret, un des chefs de file du picturalisme photographique de la fin du XIXe siècle23. Plus de miroir ou d’image-appari22 Voir l’excellente analyse de Mater Dolorosa dans R. Abel, French Cinema: The First Wave, Princeton University Press, Princeton & N. J. 1984, p. 85-94. 23 Cf. R. Icart, Abel Gance, L’Age d’homme, Lausanne 1983, P- 80.

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tion done, ni de rime textuelle mais une hyperbolisation mimétique, où le sujet de la representation et son modèle évoluent aussi bien sur le plan de la succession que sur celui de la simultanéité avec une mème finalità émotionnelle. Le carton suivant confirme «l’effet» de la scène sur le mari, qui finirà par apprendile et pardonner : «Et Gilles comprit que la douleur avait des bomes et que sa souffrance était de bien loin dépassée» (fìgg.17, 18 et 19).

5. Last but not least, un exemple italien dont 1’action se passe en grande partie à Naples... Je n’ai nullement Tintention de m’aventurer dans le domaine richement articulé de l’exégèse italienne autour du cinéma des années Dix, «diviste» par excellence mais aussi «symboliste», «allégorique», à tendance hautement syncrétique, comme Pont bien démontré entre autres les auteurs de Sperduto nel buio: il cinema muto italiano e il suo tempo 24. Hormis la masse d’exemples représentatifs pour Tusage de Thyperbole et de ses extensions catégorielles {Malombra, Rapsodia Satanica, Il Fuoco, Tigre Reale, Carnevalesca), on retrouve chez un réalisateur comme Roberto Roberti, favori de la Bertini, des solutions très intéressantes au niveau du traitement purement cinématographique de la figure qui nous intéresse. Dans le récemment restauré La Contessa Sara (1919), adapté du roman homonyme à succès de Georges Ohnet, Roberto Roberti ajoute aux mécanismes du jeu diviste et excessif de Francesca Bertini une sèrie de scènes réalistes qui complexifìent davantage un scé­ nario mélodramatique faisant la part belle à la prédestination et à la fatalité25. Ainsi, dans la première partie du film, nous assistons au mariage de raison entre Sara/Francesca Bertini et le sensiblement plus àgé Comte de Canhailles, sous l’oeil amusé et complice de la nièce de ce demier accompagnée par une amie, et du lieutenant Severac dont Sara est déjà follement éprise. Les fìlles à l’avant-plan se retournent vers la caméra (ce qui s’avère en fin de compte un regard hors-champ), souriant alors qu’on suit la messe en profondeur de

24 Sous la direction de Renzo Renzi, Cappelli, Bologna 199125 Voir aussi A. Bernardini, V Martinelli, Roberto Roberti: direttore artistico, Le Giornate del Cinema Muto, Pordenone 1985-

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champ (fig. 20). Au plan suivant la réponse ne se fait pas attendre, Pietro se montre sceptique et complice de leur regard (fig. 21). Il y a ici - cas très rare dans le cinéma de l’époque - hyperbole par occul­ tation, voire par suppression, car le manage est très peu montre, mettant ainsi l’accent sur la nature peu credible d’un tel engagement matrimonial. Enfin, lors de la conclusion oxymorique aux accents grands-guignolesques proches de Tigre Reale, on a affaire à une belle synthèse de la plupart des catégories hyperboliques déjà illustrées (fig. 22). On y voit la Bertini en situation «terminale» car elle ne peut supporter le manage proche de Pietro, son ancien amant, confirmation textuelle appuyée par l’intertitre accumulatif: «Soffro molto/Mi sento morire» (fig. 23). À travers un montage altemé de type griffithien agissant cornine une hyperbole de comparaison figurale, Roberti introduit l’annonce des célèbrations à la veille du mariage, ainsi que leur visua­ lisation nocturne à base de feux d’artifice d’une grande beauté (fìgg. 24 et 25). Par la suite intervieni le suicide en pian d’ensemble, qui ne fait que confirmer les appréhensions de Sara, sorte de prière de soulagement exaucée par la mer, qu’on peut associer à une forme d’hypotypose. Le demier intertire métaphorique : «I tentacoli della cieca passione che trascinavano Sara, parevano avere le loro radici, nei profondi abissi del mare» (fìgg. 26 et 27) nous confirme d’ailleurs qu’il s’agit de la duplication littérale d’une hyperbole visualisée d’une fagon pour le moins spectaculaire. Concluons en précisant que les exemples analyses plus haut semblent relever de trois grandes sous-catégories de l’hyperbole cinématographique telle qu’elle fonctionne dans le cinéma européen des années Dix : 1. L’hyperbole synthétique, proche des représentations picturales ou photographiques fin-de-siècle, se manifestant dans la plu­ part des cas à l’intérieur d’un seul pian. 2. L’hyperbole analytique, plus proche des règles du montage typiquement cinématographique car agissant au sein d’une scène ou d’une séquence. 3. L’hyperbole itérative ou l’hypotypose, dont le fonctionnement se situe à mi-chemin entre la representation purement visuelle/figu-

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rative et celle littérale/scripturale empruntée très souvent à la poésie ou à la prose symboliste et/ou romantique. A ces trois sous-catégories s’en ajoutent, pour ce qui est du mode de fonctionnement cinématographique, trois autres, à savoir l’adjonction par accumulation, la suppression par occultation et, bien sùr, la comparaison de type mimétique, qu’elle soit littérale et/ou figurale. Gageons que cette première tentative d’établissement d’une grille taxinomique, portant sur l’usage de Thyperbole, puisse s’étendre à d’autres périodes encore peu balisées de Involution du mélodrame fìlmique européen.

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L’IPERBOLE NEL CINEMA EUROPEO DEGÙ ANNI DIECI *

♦ Traduzione di Tomaso Subini.

Nel corso delle mie ricerche volte all’elaborazione di un inven­ tario delle figure retoriche proprie del melodramma cinematografi­ co, mi sono immediatamente imbattuta in un paradosso tipicamen­ te melodrammaticox: nonostante molti film racchiudano aspetti pro­ pri del melodramma, tanto nella produzione muta - resa accessibile grazie allo straordinario avanzamento degli ultimi quindici anni nel campo delle riscoperte e dei restauri — quanto in quella sonora, po­ chi sono riconosciuti come tali. Una prima ragione che giustifica questo riconoscimento parsi­ monioso sembrerebbe derivare dal fatto che molti melodrammi era­ no considerati indegni discendenti di un genere minore, veri tearjerkers, pallide copie dei loro antenati letterari, musicali o anche pit­ torici. Una seconda ragione è senza dubbio da ascrivere a una certa nebulosa categoriale nell’ambito dell’esegesi relativa al melodramma filmico. Se dei contributi essenziali in ambito anglosassone, seminai works come quelli di Thomas Elsaesser, Robert Lang o ancora Chri­ stine Gledhill, sono stati acclamati dai teorici del genere letterario come Peter Brooks per il loro imprescindibile apporto nel ridare al melodramma filmico i suoi titoli di nobiltà, in ambito europeo sussi­ ste ancora una certa apprensione in merito all’istituzione di griglie 1 Si vedano i miei precedenti contributi dedicati all’uso dei tropi nel melodram­ ma muto, ovvero Figures de l'excès dans les Mélodrames Patbé d'avant 1915, in La Firme Patbé Frères, in «1985», n. fuori serie, AFRHC, 2004; Mélodrame et oxymoron.variationsfìlmiques sur la fin paradoxale, in collaborazione con M. Andrin, in V In­ nocenti, V Re (a cura di), Limina: Film's Thresholds, Forum, Udine 2004; Setting the Pace of a Heartbeat: the Use of Sound Elements in European Melodramas Before 1915, in R. Altman, R. Abel (a cura di), The Sounds of Silente, Indiana University Press, Bloomington 2001.

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categoriali d’insieme2. Si opta piuttosto per delle piecemeal ana­ lyses, degli «studi di caso» in cui non è il genere, ma piuttosto l’au­

tore o il cinema nazionale (italiano, francese, tedesco, la scuola scandinava, i pre-rivoluzionari russi) a essere privilegiato. Gli scritti di Eric de Kuyper, Yuri Tsivian o ancora Lea Jacobs e Ben Brewster - per non citare che costoro -, volti a stabilire legami sincretici comuni a più melodrammi europei e ciò che de Kuyper chiama il cinema «della seconda epoca», mi hanno aiutato a circo­ scrivere meglio la posta in gioco metodologica di un corpus che nei miei precedenti contributi avevo concentrato nel periodo preceden­ te, vale a dire quello compreso tra il 1908 e il 19153. 1. Dopo aver tentato una ricognizione delle teorie che Peter Brooks sviluppa in The Melodramatic Imagination4 attraverso l’ap­ plicazione di «figure dell’eccesso» quali l’iperbole, l’antitesi e l’ossimoro, in seno ai contributi citati prima, ho voluto concentrarmi in modo più dettagliato sui meccanismi tematici e stilistici messi in at­ to dall’uso ricorrente dell’iperbole. Gli esempi scelti all’interno del­ la produzione danese, russa, francese e italiana che vanno dall’annus mirabilis 1913 al 1919 dimostreranno, spero, fino a che punto delle istanze simboliche nate in più ambiti artistici si coniugano co­ me entità eminentemente cinematografiche, e questo grazie agli im­ perativi di un genere altamente codificato. È importante, prima di attardarsi su ciò che Brooks chiama the hyperbolic instance, tracciare una breve cronologia terminologica di questa figura retorica e delle sue estensioni artistiche5. Nel Sette­ cento, alla stregua dei poeti dell’antichità greca ai quali si deve sicu­ ramente l’origine della parola «hyperballein» - dove «hyper» significa 2 T. Elsaesser, Tales of Sound and Fury: Observations on the Family Melodra­ ma, in «Monogram», n. 4, 1972; R. Lang, American Film Melodrama: Griffith, Vidor, Minnelli, Princeton University Press, Princeton 1989; C. Gledhill, Home Is Where the Heart Is: Studies in Melodrama and the Woman’s Film, BFI Publishing, London 1987. 3 In proposito si veda E. DE Kuyper, Le cinema de la seconde époque: le muet des années Dix, in «Cinémathèque», n. 1, 1992. 4 P Brooks, The Melodramatic Imagination: Balzac, Henry James, Melodrama and the Mode of Excess, Yale University Press, New Haven 1976; trad. it. L'immagina­ zione melodrammatica, Pratiche, Parma 19855 Ivi, p. 126.

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L’iperbole nel cinema

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al di là e «ballein» gettare -, Fontanier e Du Marsais la considerano come la principale figura dell’esagerazione, «che aumenta e dimi­ nuisce le cose con eccesso e le presenta ben al di sopra o ben al di sotto di quel che sono, non con l’intento di ingannare, ma di con­ durre alla verità stessa, e di fissare, attraverso quel che dice di incre­ dibile, ciò che bisogna realmente credere» 6. Si tratta quindi di un procedimento che mira a colpire tanto l’immaginazione visiva (pittura, cornice, fotografìa, inquadratura/fotogramma) quanto la sensibilità mentale (poesia, dramma, aria d’o­ pera, inserto scritturale, ecc.), che ritroveremo sotto altre denomi­ nazioni la cui variante più comune è l’ipotiposi7. Nel loro Rbétorique générale, gli stessi teorici belgi del Gruppo p parleranno di metalogismo, unità di significato che funziona per aggiunta o per deforma­ zione, tenendo conto delle rappresentazioni mentali («enciclope­ die») elaborate da ogni società8. Nel melodramma filmico muto, l’equilibrio tra il senso letterale dell’iperbole e quello figurato dipenderà soprattutto dalla rappre­ sentazione, più raramente dalla comunicazione: sotto l’esplicita in­ fluenza della letteratura e della pittura simbolista, i cineasti si sforze­ ranno di suggerire visivamente situazioni e stati estremi al fine di provocare emozioni a priori più forti di quelle generate dalla lettura di una didascalia o dalla simulazione visiva di effetti sonori9. Per quanto riguarda l’iperbole figurata, la derivazione stabilita da analisti quali Edward Lucie-Smith si è concentrata intorno ai mec­ canismi cumulativi del tardo Rinascimento e del manierismo italia­ no, con estensioni presso i pre-raffaelliti inglesi, la pittura simbolista decadente europea (Munch, Knopff, Moreau) e, in minor misura, i pittori romantici tedeschi. Ad un livello inferiore ma non trascurabi­ le nella scala «enciclopedica» dei prestiti, troviamo le foto servite da modelli ai quadri, i dettagli di copertine e manifesti art déco, certe rappresentazioni teatrali o operistiche, nonché i feuilletons illustra­ 6 C. Du Marsais, P Fontanier, Les Tropes, ripubblicato con un’introduzione di G. Genette, Slattane reprints, Paris/Genève 1984. 7 Ivi, p. 151. 8 J.-M. Klinkenberg, Le sens rbétorique: Essais de sémantique littéraire, Ed. Les Epéronniers, Bruxelles 1990, pp. 54-599 K. Wales, A Dictionary of Stylistics, Longman, London 1994, p. 222.

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ti che sono serviti come base di partenza per molte trasposizioni fìl­ miche 1011 . L’iperbole letterale in senso strettamente linguistico sarà meno presente in quanto generatrice autonoma di senso (faremmo fatica a trovare delle trascrizioni fìlmiche letterali di espressioni-tipo come «morire di vergogna» o «avere milioni di cose da fare»), mentre quel­ la di incidenza poetica ritornerà molto spesso nelle didascalie, come aggiunta analitica ma anche sotto forma di citazione, tratta da un poema o da una pièce legata all’intreccio D’altra parte, a livello dei mezzi usati per suscitare l’emozione dello spettatore, si tratterà di procedere a un esercizio di decodifica simile a quello che esige la lettura di un poeta simbolista come Stéphane Mallarmé, poiché c’è spesso oscillazione tra la rivelazione di un fatto straordinario (suicidio, incendio, accecamento, tradimen­ to, vendetta) e l’occultazione deliberata di reazioni e di effetti che agiranno come veri catalizzatori emozionali12. Questo breve percorso sincretico sulla Gesamtkunstwerk che costituisce l’iperbole fìlmica all’inizio degli anni dieci non potrebbe essere completo senza qualche precisazione sui legami essenziali in­ tessuti con ciò che Ben Brewster e Lea Jacobs chiamano, nel loro li­ bro Theatre to Cinema, lo stagepictorialism, ovvero la messa in sce­ na teatrale o operistica e le sue tecniche espressive, dove si alterna­ no il figurato e il letterale13. Alla maniera di Peter Brooks, che evoca la «terminal worldlessness in the fixed gestures of tableaux», si trat­ terà di capire la funzione narrativa della gestualità e delle sospensio­ ni declamatorie. Brooks ritorna d’altra parte all’ottocentesco Traité du mélodrame, con le sue situazioni iperboliche derivate da tecni­ che d’espressione: «[...] alla fine di ciascun atto, occorre radunare insieme tutti i personaggi formando un gruppo, e assegnare a cia­ scuno l’atteggiamento che meglio corrisponda allo stato del suo ani­

10 E. Lucie-Smith, Symbolist Art, Thames & Hudson, London 2001. 11 Si veda H. Lausberg, Elemente der Literarischen Rbetorik, Max Hauber Verlag, Munchen 1984. 12 È sufficiente ricordare il poema Prose di Mallarmé, che cita esplicitamente l’iperbole, in S. Mallarmé, Poésies, Le livre de Poche, Paris 1977. 13 B. Brewster, L Jacobs, Theatre to Cinema: Stage Pictorialism and the Early Feature Film, Oxford University Press, Oxford 1997.

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mo; per esempio: il Dolore si porrà una mano sul capo, la Dispera­ zione si strapperà i capelli, e la Gioia alzerà la gamba come per bal­ zare nell’aria»14.

2. Ma veniamo alla ricorrenza degli effetti iperbolici che cono­ scono il loro apice in seno ai melodrammi della seconda epoca. È l’e­ sagerazione, addirittura l’accumulazione innestata da questa che dopo tutto è una categoria retorica, che spesso è all’origine delle articola­ zioni di una dinamica di cui solo il cinema può inorgoglirsi. L’iperbo­ le diventa fìlmica in base ai prestiti dalle altre arti, ma anche attraver­ so la volontà dei cineasti di trasmettere una «marea» di idee emozio­ nali oscillanti senza sosta tra la sospensione, il dispiegamento e la sin­ tesi, il deep staging e il continuity cutting. Per de Kuyper, il cinema de­ gli anni dieci sintetizza le acquisizioni dell’ottocento mettendo in campo nuovi rapporti tra l’immagine e il testo: lo spettatore si trova di fronte a una sintassi narrativa di tipo polifonico, con film a lunghezza variabile e didascalie che suggeriscono un doppio racconto15. I racconti melodrammatici che ho scelto di analizzare modifica­ no le modalità d’uso delle figure iperboliche. I primi due esempi, tratti dalla scuola danese, sono assai significativi al riguardo. Di fatto, le scene «d’atmosfera» dello spettacolare melodramma adattato dal romanzo omonimo di Gerhart Hauptmann, Atlantis d’August Blom (1913), non hanno molto in comune con gli effetti iperbolici veico­ lati dalla seconda serie iconografica del Kloven d’August Sandberg (1916), che tuttavia appartiene alla stessa scuola di Biom. Nel primo esempio (fìg. 1) siamo a metà del racconto, nel mez­ zo del viaggio di un «Titanic» prossimo al naufragio, nella cabina d’Ingigerd (Ida Orloff), amante malefica che ha trascinato il dottor Van Kammacher sulla china della perdizione. Blom esagera per accumu­ lazione l’arredamento della sua cabina al fine di sottolineare che tut­ to le è permesso (pappagallo sul fondo), che ha un comportamento narcisistico e infantile (specchio e bambola che si intravede fra le sue braccia), pur mostrandosi molto realista e ironico nell’inquadrare il gruppo che l’osserva. 14 P Brooks, L'immaginazione melodrammatica..., cit., pp. 89-90. 15 E. de Kuyper, Le cinéma de la seconde époque..., cit., p. 31-

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Il personaggio di Charles Lutham, all’epoca molto noto, recita il proprio ruolo di artista-monco nel mezzo della rappresentazione di un numero di vaudeville, dopo l’arrivo a New York dei superstiti del naufragio. In una serie di piani ravvicinati, prova a suonare differen­ ti strumenti (fìg. 2). Si tratta chiaramente di un’iperbole aggiuntiva priva di grande valore narrativo - l’intrigo si può seguire anche sen­ za questa sequenza - ma che contribuisce, nella più pura continuità del cinema delle attrazioni, a creare delle situazioni «di un’efficacia coinvolgente»16 nell’accezione dei formalisti russi. Il dottore e la sua amante fanno parte di un universo eccessivo dal quale nessuno uscirà indenne. Mentre per la maggior parte le scene del film sono assai tipiche dello stile degli anni d’oro della Nordisk e ricorrono in modo notevole all’alternanza tra scene di folla molto realistiche e scene oniriche di valore allegorico, facendo assegnamento principal­ mente sull’antitesi, gli esempi mostrati «agiscono» assai chiaramente attraverso le linee dell’iperbole17. Il caso di Klovnen è già stato fatto oggetto d’analisi, soprattutto per ciò che riguarda la grande diversità nella recitazione degli attori. È la classica storia del triangolo melodrammatico trasposta nel mon­ do del circo: il clown ingannato, al colmo della disperazione dopo il suicidio di sua moglie, orchestra e porta a termine la sua vendetta uc­ cidendo l’amante colpevole, prima di «abbandonare» definitivamente la scena. Quando la storia comincia le figure 3 e 4 sottolineano, at­ traverso una duplicazione iperbolica del testuale e, in misura minore, del visuale, la portata del successo del giovane Joe. Da notare la di­ dascalia che precisa che le prodezze musicali «permisero a Joe di conquistare il mondo» e l’esagerazione visiva del suono di chitarra18. La continuità fìlmico/scenica ripresa in seno alle figure 5, 6 e 7 - ciò che Lea Jacobs e Ben Brewster chiamano the cinematic stage

16 Cfr. in particolare il formalista russo Sergei Balukhatyi, citato da Daniel Gerould in Russian Formalist Theories of Melodrama, in M. Landy (a cura di), Imitations of Life, Wayne State University Press, Detroit 199L p. 122. 17 Per maggiori dettagli sul cinema danese degli anni dieci e sui film analizzati qui, si veda R. Mottram, The Danish Cinema Before Dreyer, The Scarecrow Press, Metu­ chen, N. J. & London 1988, e gli articoli di M. Engberg in «Les Cahiers du Muet», pub­ blicati dalla Cinémathèque Royale de Belgique nel 1994. 18 lUtto questo richiede naturalmente un altro studio, che potrebbe focalizzarsi unicamente sull’utilizzo dell’iperbole di tipo uditivo.

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- ci pone di fronte a un’iperbole analitica ad alto tenore diegetico, costruita a partire da un sottile dosaggio tra montaggio e messa in scena19. Vediamo dapprima in campo medio Joe nella parte anterio­ re del campo intento a leggere l’offerta di un impresario, mentre sul fondo un sipario si alza lentamente all’interno di uno specchio (fìg. 5)20. Girandosi, Joe scopre con stupore la coppia adultera dopo un abbraccio dietro le quinte (fìg. 6). Ne deriva un’iperbole figurata: la rabbia di Joe è tale che rompe lo specchio (fìg. 7). In termini pura­ mente drammaturgici, si tratta in realtà dell’incidente che scatena il dramma che sta per seguire. Sandberg, peraltro, è ricorso a delle istanze iperboliche sinteti­ che meno spettacolari e più vicine alla tecnica del dipinto e della re­ citazione istrionica. Così, durante la scena del ricongiungimento tra Joe e Daisy, ci viene mostrata sempre la stessa rabbia del marito ab­ bandonato che scopre la moglie in compagnia di colui che è già in­ tento a sedurne un’altra (fig- 8). Oppure l’ipostasi vicina al divismo italiano in cui Daisy, la moglie adultera ripudiata dalla famiglia di Joe, rivolge una preghiera simbolica a un dio assente prima di gettarsi in acqua (fìg. 9). Più interessante è l’istanza iperbolica provocata dall’immagine-apparizione nata nella mente del clown verso la fine del film. Il conte/amante appare sorridente in un medaglione, vicino al manifesto di uno spettacolo e doppiamente inquadrato, per di più, attraverso un sipario che sembra levarsi alla maniera di quello della scena dello specchio. Inoltre Joe ripete lo stesso gesto di rivolta che questa volta sfocerà nell’omicidio premeditato. Si tratta di un’iper­ bole iterativa, o meglio ancora di un’ipotiposi (fìg. 10).

3. Lo «stile russo», di cui Evgenij Bauer è chiaramente il rap­ presentate di spicco, ci riserva casi di utilizzo dell’eccesso iperboli­ co fortemente contrastati quanto al tipo di reazione emotiva che so­ no portati a suscitare. Nell’ultimo lavoro del regista russo portato a

19 B. Brewster, L. Jacobs, Theatre to Cinema..., cit., analizzano in due riprese dei frammenti rappresentativi diXfore//, pp. 103-108 e rispettivamente la scena dello spec­ chio rotto, pp. 177-17920 Diverse esegesi degli ultimi quindici anni sottolineano l’utilità, in seno al cine­ ma degli anni dieci, del dispositivo dello «specchio» in quanto generatore di doppie scene e di «a parte» con lo spettatore.

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termine da Kulesov, Alla fortuna (1917), l’iperbole gioca tanto sul figurato quanto sul letterale al fine di abbozzare un finale dominato dall’ossimoro melodrammatico. Madre, giovane vedova e figlia ama­ no lo stesso uomo, situazione senza via di uscita poiché a priori in­ confessabile, soprattutto quando la figlia è sul punto di perdere la vista. Nella scena che precede la confessione (fig. 11), Bauer rende omaggio agli artisti del Rinascimento e alle allegorie della pittura simbolista, non solo attraverso la presenza in mezzo profilo di un quarto personaggio - il busto - ma anche attraverso l’organizzazio­ ne della triplice prospettiva accumulativa dello sguardo femminile: sguardo della figlia che supplica l’uomo sconvolto, effetto di rima at­ traverso il busto nello specchio, madre che osserva in lontananza questo trio. Segue la rivelazione, sotto la forma di didascalie dialo­ giche: «- Ne amo un’altra/ - È tua madre», e la sua conseguenza antinomica (fìg. 12): «Mamma, dove sei, non vedo più nulla!», con la sua formidabile traduzione figurata, altra forma d’ipotiposi, poiché in tutta evidenza l’accecamento della figlia non è niente rispetto al­ la disperazione della madre. L’emozione pura è qui convocata grazie alla recitazione istrionica delle attrici il cui sguardo si fissa come quello della statua, e grazie al trucco esacerbato tipico dello stile «Khandjonkhov» (fìg. 13)21.

4. Avendo dedicato diversi studi al melodramma francese del­ la prima epoca (Perret, Feuillade, Denoia), sono stata colpita dalla concisione e dall’economia dei mezzi, dall’assenza frequente di pathos gratuito nel trattamento di situazioni oltremodo eccessive. La seconda epoca è più «avida» di iperboli della prima, grazie agli inevitabili progressi nell’uso della luce, delle riprese e delle artico­ lazioni di montaggio. Il «caso» di Mater dolorosa (1917), realizzato e scritto da Abel Gance nella vena del teatro d’Henri Berstein, è a mio avviso letteralmente «riscattato» delle sue pesantezze dramma­ turgiche poco credibili da una straordinaria varietà delle istanze

21 Si vedano in proposito i contributi di Y Tsman, in R Cherchi Usai, L Codelli, C. Montanaro, D. Robinson (a cura di), Testimoni silenziosi. Film russi 1908-1919, Edi­ zioni Biblioteca dell’immagine, Udine 1989, e Two «Stylists* of the Teens: E Hofer and E. Bauer, in T. Elsaesser (a cura di), A Second Life: German Cinema's First Decades, Amsterdam University Press, Amsterdam 19%, pp. 264-275-

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iperboliche22. La lettera che Marta, l’eroina principale, scrive all’amante/cognato che compare all’inizio del film ci immerge chiara­ mente in medias res attraverso un inserto scritturale, che sintetiz­ za il nodo dell’intrigo e ne esibisce subito il carico di avvertimenti iperbolici, di tipo letterale: «[...] sarebbe al di sopra delle mie for­ ze [...] io grido nella mia angoscia [...] domani sarebbe troppo tardi [...]>> (fìg. 14). Durante la serie di foto situata narrativamente dopo la morte accidentale dell’amante, e la decisione di Marta di dare una secon­ da possibilità al proprio matrimonio mettendo al mondo un bambi­ no, Gance ritorna completamente nella sfera del rappresentabile grazie a una dinamica di montaggio quanto mai originale. Si tratta di un’iperbole che agisce per paragoni ma anche per estrapolazioni poetiche. Vediamo il bambino abbandonare il suo domestico e pre­ ferire l’acquario alla vasca da bagno (fìg. 15). Complici, i genitori lo guardano dietro a una porta a vetri, illuminata da Burel in chiaro­ scuro, come la maggior parte delle scene, (fìg. 16). In seguito è la volta dell’iperbole letterale, che serve a catalizzare il senso della sce­ na visualizzata, attraverso la citazione esplicita di Victor Hugo: «Il bambino è un fuoco il cui calore accarezza/ È gioia santa/ È felicità sacra» (fìg. 17). Anche in Gance si trova un interessante esempio sincretico di tableau vivant, che avvalora l’isotopia del titolo del film. Potrebbe essere classificato, come numerose attitudini mistico-erotiche delle dive italiane, nella categoria dei prestiti simbolisti o pre-raffaeliti, ma il seguito contraddice questo presupposto. Vediamo Marta al colmo della disperazione, dopo il rifiuto di svelare il segreto del suo lega­ me e la diffidenza crescente del marito che le impedisce di vedere il loro figlio malato; in seguito vediamo il suo modello, per di più «sve­ stito» e che, contrariamente a quanto indicato dal titolo del quadro, non è la Mater Dolorosa in questione bensì Marguerite au Sabbat, opera firmata Dagnan-Bouveret, uno dei capofila del pittoricismo fo­ tografico della fine dell’ottocento23. Non specchio o immagine-ap-

22 Si veda l’eccellente analisi di Mater Dolorosa in R. Abel, French Cinema: The First Wave, Princeton University Press, Princeton & N. J. 1984, pp. 85-94. 23 Si veda R. Icart, Abel Gance, L’Àge d’homme, Lausanne 1983, P- 80.

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parizione, dunque, né rima testuale, ma iperbolizzazione mimetica, dove il soggetto della rappresentazione e il suo modello evolvono tanto sul piano della successione quanto su quello della simultaneità con la stessa finalità emotiva. La didascalia seguente conferma «l’ef­ fetto» della scena sul marito, che finirà per capire e perdonare: «E Gilles comprese che il dolore aveva dei limiti e che la sua sofferenza era superata da molto tempo» (fìgg. 17, 18 e 19). 5. Last but not least, un esempio italiano la cui azione si svolge in gran parte a Napoli... Non ho affatto l’intenzione di avventurarmi nel campo riccamente articolato dell’esegesi italiana relativa al cine­ ma degli anni dieci, «divistico» per eccellenza ma anche «simbolista», «allegorico», a tendenza altamente sincretica, come hanno ben di­ mostrato fra gli altri gli autori di Sperduti nel buio: il cinema muto italiano e il suo tempo 24. All’infuori della quantità di esempi rap­ presentativi per l’uso dell’iperbole e delle sue estensioni categoriali

{Malombra, Rapsodia Satanica, Il Fuoco, Tigre Reale, Carnevale­ sca), in un regista come Roberto Roberti, il preferito della Bertini, si trovano delle soluzioni molto interessanti circa il trattamento pura­ mente cinematografico della figura che ci interessa. Ne La Contessa Sara (1919), restaurato di recente e adattato dal­ l’omonimo romanzo di successo di George Ohnet, Roberto Roberti aggiunge ai meccanismi della recitazione divistica ed eccessiva di Fran­ cesca Berlini una serie di scene realistiche, che rendono ancor più complessa una sceneggiatura melodrammatica dove molto spazio è ri­ servato alla predestinazione e alla fatalità25. Così, nella prima parte del film assistiamo al matrimonio d’interessi tra Sara/Francesca Bertini e l’assai più vecchio Conte di Canhailles, sotto l’occhio divertito e com­ plice della nipote di quest’ultimo, accompagnata da un’amica, e del luogotenente Severac di cui Sara è già follemente innamorata. Le ra­ gazze in primo piano si girano verso la macchina da presa (il che pro­ duce in fin dei conti uno sguardo fuori campo), sorridendo, mentre seguiamo la messa in profondità di campo (fìg. 20). Nell’inquadratura

24 A cura di R. Renzi, Cappelli, Bologna 1991. 25 Si veda anche A. Bernardini, V Martinelli, Roberto Roberti: direttore artistico, Le Giornate del Cinema Muto, Pordenone 1985-

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seguente la risposta non si fa attendere, Pietro si mostra scettico e complice del loro sguardo (fìg. 21). Si trova qui - caso molto raro per il cinema dell’epoca - un’iperbole per occultamento, anzi per sop­ pressione, perché il matrimonio è mostrato assai poco, accentuando così la natura poco credibile d’un tale impegno matrimoniale. Infine, durante la conclusione ossimorica dagli accenti grandguignoleschi vicini a Tigre Reale, abbiamo a che fare con una bella sintesi della maggior parte delle categorie iperboliche già illustrate (fìg. 22). Vediamo la Bertini in una situazione «terminale» perché non può sopportare il matrimonio imminente di Pietro, suo vecchio amante, conferma testuale avvalorata dalla didascalia accumulativa: «Soffro molto/Mi sento morire» (fìg. 23). Attraverso un montaggio al­ ternato di tipo griffìthiano, che agisce come un’iperbole di paragone figurale, Roberti introduce l’annuncio delle celebrazioni alla vigilia del matrimonio, così come la loro visualizzazione notturna tramite fuochi d’artifìcio di grande bellezza (figg. 24 e 25). In seguito interviene il suicidio in campo totale, che non fa al­ tro che confermare le apprensioni di Sara, sorta di preghiera di sol­ lievo esaudita dal mare, che possiamo associare a una forma di ipotiposi. L’ultima didascalia metaforica: «I tentacoli della cieca passione che trascinavano Sara, parevano avere le loro radici nei profondi abissi del mare» (figg. 26 e 27) ci conferma d’altronde che si tratta della duplicazione letterale di un’iperbole visualizzata in modo quan­ to meno spettacolare. Concludiamo precisando che gli esempi analizzati sopra sem­ brano appartenere a tre grandi sottocategorie dell’iperbole cinema­ tografica, così come funziona nel cinema europeo degli anni dieci: 1) l’iperbole sintetica, vicina alla rappresentazione pittorica o fo­ tografica di fine secolo, che si manifesta nella maggior parte dei casi all’interno di una singola inquadratura; 2) l’iperbole analitica, più vicina alle regole del montaggio tipica­ mente cinematografico in quanto operante in seno a una scena o a una sequenza; 3) l’iperbole iterativa o l’ipotiposi, il cui funzionamento si colloca a metà strada tra la rappresentazione puramente visuale/fìgurativa e quella letterale/scritturale attinta molto spesso dalla poe­ sia o dalla prosa simbolista e/o romantica.

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A queste sottocategorie se ne aggiungono altre tre, per quel che riguarda il modo di funzionamento cinematografico, vale a dire rag­ giunta per accumulazione, la soppressione per occultamento e, na­ turalmente, la comparazione di tipo mimetico, letterale e/o figurale. Scommettiamo che questo primo tentativo di costituire una gri­ glia sistematica dedicata all’uso dell’iperbole si possa estendere ad al­ tri periodi ancora poco investigati dell’evoluzione del melodramma cinematografico europeo.

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L’iperbole

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Fig. 1

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Sangen, hvormed Joe erobrede hele Verden do coocpérir lo mondo, do werold moo vtfOMtrdo.

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Maman, où es-tu? Je ne vote phis rien ! Mama, waar ben je? Ik zie niets meet!

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Fig. 16

un feu

< Ontani. c *rM

doni la chalcur earetwe. «Cesi de la gaitr saintr cl du honhrur Mirre.»

(Victor Hugo

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Fig. 22

Soffro molto... mi sento morire.

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I festeggiamenti alla vigilia del matrimonio.

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Fig. 26

I tentacoli della cieca passione che

trascinavano Sara, parevano avere le loro radici nei profondi abissi del mare.

Fig. 27

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IN CHE SENSO EL DORADO DI MARCEL L HERBIER È UN MÉLODRAME?

di

Emilio Sala

Il testo del mutismo è quindi elemento centrale del melo­ dramma, e risulta essenziale aifini della rappresentazione. In ogni sua forma il gesto appare un complemento necessa­ rio, un supplemento della parola; il tableau è un artificio ri­ corrente nella messa in scena dei significati, e il ruolo mu­ to è l'epitome virtuosistica delle possibilità di produrre sen­ so in assenza della parola. P Brooks, L'immaginazione Parma 1985, p. 90.

melodrammatica,

Pratiche,

È dunque un errore ritenere che la musica sia subentrata al posto della lingua, per così dire, come una sorta di riempi­ tivo. La musica non può sostituire l'essenza della lingua, il concetto espresso intellettualmente, ma piuttosto film e mu­ sica si accordano per essere efficaci insieme, facendo a me­ no della parola. H. Erdmann, G. Becce e L. Brav, Allgemeines Handbucb der voli., Schlesinger, Berlin 1927, vol. I, p. 55. [T. d. A.]

Film-Musik, 2

Per affrontare la questione che fa da titolo a questo studio bi­ sognerà accettare di procedere in modo indiziario e secondo un per­ corso non troppo rettilineo. Infatti, il termine che L’Herbier utilizzò per definire il suo film - mélodrame, appunto - non appare ambi­ guo e controverso solo ai nostri occhi, ma fu giudicato poco perspi­ cuo e perfino fuorviarne già dai contemporanei del regista. Una ven­ tina d’anni fa Carlo Piccardi sostenne che esso si riferisce da una par­ te «alla drammaturgia volgare allora in voga [...], dall’altra si propo­

li

Emilio Sala

ne come melodramma» nel senso di opera \ Ma va detto che nel 1921 il mèlo teatrale popolar-volgare era tutt’altro che «in voga» e an­ zi quasi completamente estinto; inoltre, colgo l’occasione per affer­ mare subito che l’omonimia mélodrame/melodramma (all’italiana), anche se per certi versi suggestiva, è risultata fonte di continue con­ fusioni e fraintendimenti. I termini non sono affatto sinonimi. Si trat­ ta di verba che fanno riferimento a res, talora convergenti cultural­ mente, ma del tutto distinte tra loro. Anche per questo, a scanso di equivoci, rinuncerò a tradurre mélodrame con l’italiano «melo­ dramma». Ad ogni modo, lo stesso Piccardi, nel suo interessante ar­ ticolo, ammetteva (in nota) che «il senso del termine “mélodrame” chiamato in causa dal cineasta rimane ambiguo»1 2. La questione resta aperta e la matassa ingarbugliata. Cercheremo se non altro di dipa­ narne alcuni fili. Passando dunque ad alcune testimonianze dei contemporanei di L’Herbier, sembra serpeggiare - come si diceva - un certo imba­ razzo: molti critici trovarono infatti quell’indicatore di genere al­ quanto paradossale per un film così programmaticamente speri­ mentale. Ciò che ne uscì furono dichiarazioni contraddittorie del ti­ po: «Marcel L’Herbier non ha avuto paura di chiamare El Dorado un mélodrame. È un mélodrame, in effetti, ma di un’essenza così pura e di una forma così bella che d’un sol colpo questo genere desueto è diventato l’espressione viva e moderna della Bellezza» (Auguste Nardy)3. Oppure: «L’autore ha parlato di mélodrame. Può darsi che abbia ragione. A mio avviso, una simile etichetta sembra una con­ cessione ai gusti abituali del pubblico. Ma mi guarderò bene dal fare le pulci a Marcel L’Herbier su questo punto. Viva El Dorado\ Margot vi ha pianto, profondamente emozionata dal doloroso calvario di Si-

1 C. Piccardi, Vicenda musicale di un film muto. La «cine-partitura» di M.-E Gaillard per «El Dorado», in M. Canosa (a cura di), Marcel L'Herbier, Pratiche, Parma 1985, pp- 133-148 (la citazione è a p. 133). 2 Ivi, p. 147 (nota 21). 3 Cito (e traduco) dal prezioso Recueilfactice d'articles de presse conservato nel Fond Rondel della Bibliothèque de l’Arsenal di Parigi (8° RK, 3725) che riporta a mati­ ta sulle recensioni ritagliate solo la data e non (purtroppo) il titolo del periodico. L’ar­ ticolo di A. Nardy uscì dunque il 9 luglio 1921 (il film fu presentato a Parigi, in ante­ prima, il 7 luglio); a quanto pare, il titolo del giornale in cui fu pubblicato potrebbe es­ sere «Bonsoir» (cfr. M. L’Herbier, La tète qui toume, Belfond, Paris 1979, P- 63).

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In che senso El dorado di Marcel L’Herbier è un mélodrame?

bilia» (Jean-Louis Croze) 4. Lo stesso critico parla anche della com­ ponente simbolista del film, evidente nel trattamento dell’immagine e secondo lui in contraddizione, almeno in linea di principio, con il riferimento al modo diretto e popolare del mélodrame'. «Questa ten­ denza, questa ricerca verso il simbolismo o piuttosto verso la sim­ bolizzazione, la cui pratica è così allettante al cinematografo, rischia­ va di dispiacere alla folla che ama la semplicità diretta, in teatro e sul­ lo schermo». Dobbiamo dunque pensare che il termine mélodrame si riferisca solo al soggetto (il «doloroso calvario» di una sedotta ab­ bandonata) e non alla ricerca formale ed espressiva? Al significante e non al significato? La tentazione è forte anche perché a questa conclusione sem­ bra giungere fattore Jaque Catelain, stretto collaboratore di L’Herbier e interprete di Hedwick, il protagonista maschile del film. Egli afferma che, benché il regista abbia battezzato intenzionalmente El Dorado un mélodrame, in realtà non si tratta di che nell’affabulazione [ossia nella fabula, nell’impianto narra­ tivo] e di tutt’altra cosa nelle immagini. Esse vivono di soggettivismo, di espressionismo e di poetizzazione. [...] Il suo preteso mélodrame è una melodia di immagini, intorno a un dramma5.

mélodrame

A parte il metaforeggiare musicale che gioca con l’etimologia del termine «mélo-drame» (= «une mélodie d’images autour d’un drame»), metaforeggiare praticamente onnipresente negli scritti sul cinema muto 6, va sottolineato che nel nostro caso il rinvio alla mu­ sica assume una ben maggiore evidenza e pregnanza. Sappiamo in­ fatti che L’Herbier volle per El Dorado una musica originale, minu­ ziosamente sincronizzata al discorso fìlmico, che venne commissio­ nata al giovane pianista e compositore Marius-Francjois Gaillard, no-

4 Articolo datato 1° novembre 1921 (la première aperta al pubblico del film av­ venne il 28 ottobre) e conservato nel Recueilfactice..., cit. Anche in questo caso è pos­ sibile identificare il titolo del periodico che dovrebbe essere «Comuedia» (cfr. il book­ let allegato al dvd di El Dorado [vedi nota 8], p. 12). 5J. CxttLMN,Jaque Catelain présente Marcel L'Herbier,yNa\Jtiraìn, Paris 1950, p. 536 Mi piace a questo proposito citare una bella tesi di laurea di cui sono stato cor­ relatore: G. Agresta, Cinema e musica: l'analogia musicale dalla teoria alla prassi, re­ latore prof. Elena Dagrada, Università degli Studi di Milano, anno accademico 2002-2003.

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to per essere stato il primo nel 1920 a presentare in pubblico Tintegraie delle composizioni per pianoforte di Claude Debussy da poco scomparso. Sappiamo anche degli interessi musicali di L’Herbier che aveva studiato composizione ed era anch’egli un fervente debussyano. Quando Carlo Piccardi riferì della musica di El Dorado nell’arti­ colo già citato, l’imponente partitura di Gaillard (452 pagine per grande orchestra) era ancora di proprietà degli eredi; oggi si trova conservata insieme ad altri manoscritti autografi del compositore presso il Département de la Musique della Bibliothèque Nationale de France7. Ora, va da sé: è nella partitura di Gaillard che dobbiamo tro­ vare il bandolo della matassa. Anche questa volta - come sempre non è possibile capire il mélodrame senza prendere in considera­ zione la musica di cui si nutre. D’altra parte, benché al riguardo egli si esprima in modo tutt’altro che univoco, è lo stesso L’Herbier a spingerci in questa direzio­ ne. Certo, anch’egli associa il termine mélodrame alla ricerca di po­ polarità («Avevo l’assoluta certezza che la cinematografìa non potes­ se essere un’arte nuova, se non a patto di essere un’arte popolare, di largo consumo [...]. Ecco perché ho subito detto che [El Dora­ do] sarebbe stato un mélodrame»} 8, ma poi - scivolando significati­ vamente dall’ambito sociologico a quello estetico - L’Herbier sembra motivare l’impiego di tale locuzione in nome della musica. Quando gli fu chiesto in che senso avesse chiamato El Dorado un mélodra­ me, egli rispose: «Nel suo vero senso: semplicemente perché c’era della musica» 9. Naturalmente non solo della musica, ma quella mu­ sica — aggiungiamo noi. E non a caso torniamo a incrociare il nome di Debussy. «Sono sempre stato appassionato di musica — racconta L’Herbier - ed è senza dubbio attraverso Debussy che ho gustato le mie più grandi gioie». Inevitabile a questo punto tirare in ballo la

7 Segnatura: Ms 21866. 8 Sbobino (e traduco) il passo direttamente dallo spezzone di intervista a Mar­ cel L’Herbier (datata 1968) compreso nel DVD della Gaumont, uscito nel 2000, che ha reso disponibile la versione restaurata di El Dorado con la musica di Gaillard (non sempre precisissimamente postsincronizzata alle immagini); l’intervista, rilasciata a Jean-André Fieschi, è anche trascritta nel volumetto monografico della collana «Ciné­ ma d’aujourd’hui, 78» di N. Burch, Marcel L'Herbier, Seghers, Paris 1973, ma il passo da me citato è riportato (a p. 72) con un taglio che lo rende incomprensibile. 9 Intervista rilasciata a J.-A. Fieschi, in N. Burch, Marcel L'Herbier, cit., p. 74.

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El

dorado di

Marcel L’Herbier è un mélodrame?

questione (decisiva) dell’«impressionismo» da intendersi più nel sen­ so musicale, debussyano, che non in quello figurativo. «E nella mi­ sura in cui credo che ci sia una musicalità deH’immagine, se si vuole ricongiungere un po’ questa immagine con l’impressionismo musi­ cale», ci si deve basare su questo principio: «non attribuire al suo contesto figurativo la stessa importanza che va data ai suoi rapporti con una certa reverie e con le sue concatenazioni segrete» 1011 . Insomma: l’immagine, debussyanamente impressionistica, deve essere più evocazione che descrizione, più connotazione che denotazione, più trasfigurazione associativa che aderenza referenziale. D’accordo la ricerca di popolarità, d’accordo la storia ambientata «dans cette Andalusie qui vous brulé si facilement le coeur», ma il sottotitolo mé­ lodrame, se il patron Léon Gaumont l’avesse accettato, avrebbe se­ condo L’Herbier fatto capire subito al pubblico «che non era attra­ verso il soggetto che volevo nobilitare il mio film ma attraverso la composizione delle immagini e la loro orchestrazione» n. Appurato che mélodrame non è solo lafabula ma anche la sua realizzazione visiva e musicale, restiamo comunque perplessi: se il ri­ ferimento a Debussy appare del tutto appropriato per comprendere e analizzare la partitura di Gaillard, che cosa c’entra con gli effetti (o effettacci) del mèlo popolare «où Margot a pleure»?12 Che strano mé­ lodrame è insomma El Dorado? Mi sia concesso a questo punto di aprire un breve excursus sto­ rico-critico. Una trentina d’anni fa è cominciata la ridefinizione e ri­ valutazione del mèlo popolare sia come genere storico sia come più astratto «mode of excess» - per dirla con Peter Brooks il cui famoso libro sull’«immaginazione melodrammatica» venne pubblicato nel 1976 e tradotto in italiano nel 1985 13. Non dimentichiamo però che la nozione di «melodramatic imagination» era già stata messa a pun­ to pure da Thomas Elsaesser in un articolo del 1972 che si propo­ neva fra l’altro di «indicare lo sviluppo di ciò che si potrebbe chia­

10 Ivi, p. 7311 M. L’Herbier, La téle..., cit., p. 56. 12 Per il verso di Musset, vedi infra alla nota 17. 13 P Brooks, The Melodramatic Imagination. Balzac, Henry James and tbe Mode ofExcess, Yale University Press, New Haven 1976 (seconda edizione con una nuova pre­ fazione dell’autore, 1995); trad. it. L'immaginazione melodrammatica, cit.

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mare Pimmaginazione melodrammatica, attraverso forme artistiche ed epoche differenti» 14. Orbene: forse anche perché da allora il di­ battito culturale intorno alla categoria di «immaginazione melodram­ matica» ha riguardato soprattutto gli ambiti letterario e cinematogra­ fico, ne è risultata una sorta di obliterazione (se non di rimozione) dell’elemento musicale, fondamentale per la comprensione del mèlo teatrale, quanto di quello cinematografico. È ciò che ho cercato di di­ mostrare nel mio libro sulla presenza e funzione della musica nella tradizione del mélodrame ottocentesco15. Sia la tecnica del tableau che il «text of muteness» nel senso di Brooks sono di fatto incom­ prensibili senza il ricorso alla musica che va considerata un tratto ca­ ratterizzante di ogni forma di mélodrame in ambito spettacolare. Il passaggio dal melologo tardosettecentesco al mèlo popolare otto­ centesco non comporta affatto, come spesso è stato detto, la spari­ zione o il forte ridimensionamento della componente musicale. I mélodrames dei vari Pixerécourt, Caigniez, Ducange, ecc. erano tutti corredati di una partitura che comprendeva diverse decine (spesso un centinaio) di inserti musicali composti di norma dallo chef d'orchestre di teatri del «Boulevard du Crime» quali l’Ambigu-Comique, la Gaìté, la Porte Saint-Martin, ecc. Quando Victor Hugo, dopo le «battaglie» alla Comédie-Fran^aise, fece rappresentare i suoi famo­ si drammi romantici (Marion Delorme nel 1831, Lucrèce Borgia e Marie Tudor nel 1833) al teatro della Porte Saint-Martin, essi furo­ no accompagnati da una musica che venne composta dallo stesso Alexandre Piccini (o Piccinni) a cui venivano di norma affidate le par­ titure per i mélodrames più acclamati dal pubblico popolare. Gli anni di Victor Hugo alla Porte Saint-Martin segnano proba­ bilmente il culmine delPimportanza e della centralità culturale del mèlo che a partire dalla seconda metà degli anni trenta incominciò a 14 T. Elsaesser, Tales of Sound and Fury. Observations on the Family Melo­ drama, in «Monogram», n. 4, 1972, pp. 2-15; trad. it. Storie di rumore e furore: osser­ vazioni sul melodramma familiare, pubblicata dapprima in «Filmcrìtica» (n. 339-340, 1983) e poi in A. Pezzotta (a cura di), Forme del melodramma, Bulzoni, Quaderni di Filmcrìtica 23, Roma 1992, pp. 65-109 (la citazione è a p. 65). La versione originale in­ glese è stata ristampata (tra l’altro) in B. K. Grant (a cura di), Film Genre Reader II, University of Texas Press, Austin 1995, pp. 350-380. 15 E. Sala, L'opera senza canto. Il mèlo romantico e ['invenzione della colonna sonora, Marsilio, Venezia 1995-

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In che senso El dorado di Marcel L'Herbier è un mélodrame?

subire un processo di marginalizzazione soprattutto sociale. Mentre fino a quella data esso aveva esercitato una fortissima attrazione an­ che presso il pubblico d’élite, nella seconda metà dell’ottocento il mèlo diventa sempre più un prodotto o sottoprodotto puramente popolare. Quando nel 1878 venne ripreso al teatro della Gaìté un vec­ chio mèlo del 1841, La gràce de Dieu di Dennery, si toccò con mano il tramonto di un genere che aveva fatto epoca: «La Gaìté ha ripreso La gràce de Dieu. Una ripresa infelice. Hanno riso, la prima sera, del venerabile mélodrame che ha fatto piangere tanti begli occhi» 16. È nientemeno che Zola a compiacersi, nonostante tutto, di questo tra­ monto. Ma attraverso lo snobistico e definitivo discredito degli spiri­ ti eletti fa capolino talora una sorta di controsnobistica e ironica no­ stalgia di cui, forse, il famoso verso di Musset (scritto nel 1842) è un primo segnale17. Ad ogni modo va detto che, per quanto tenda a per­ dere di importanza rispetto al mèlo delle origini, anche in questa nuo­ va fase l’accompagnamento musicale non cessa di essere un ingre­ diente fondamentale dello spettacolo. Se Margot continuò a piange­ re, lo fece a suon di musica. Naturalmente, si trattava di una musica dagli effetti elementari, ipersincronizzata al discorso scenico di cui en­ fatizzava un po’ tutti i punti salienti. Una musica ipercodifìcata ma non per questo meno efficace nel regolare la temperatura emotiva della rappresentazione. Una musica, infine, per la cui descrizione e ri­ costruzione non posso che rinviare al mio libro già citato. Ora, resta da colmare il divario (non solo cronologico) che sepa­ ra il mèlo ottocentesco dal mélodrame alla L’Herbier (e alla Gaillard). Bisogna insomma tornare all’inquietante interrogativo: cosa c’entra El Dorado con gli effetti (o effettacci) del mèlo «où Margot a pleuré»? Ebbene, in questa prospettiva, è oltremodo interessante incontrare al­ la fine del XIX secolo alcuni tentativi di riabilitazione o di nobilitazio­ ne del vecchio mèlo18. Nel 1872 venne rappresentata Earlésienne di 16 E. Zola, Nos auteurs dramatiques, Fasquelle, Paris 1914, p. 348. 17 II verso di Musset («Vive le mélodrame où Margot a pleuré») è contenuto nel­ la quinta strofa del poemetto Après une lecture, pubblicato per la prima volta nella «Revue des deux mondes» il 15 novembre 1842 (ma in questa prima edizione suonava di­ versamente: «Le mélodrame est bon où Margot a pleuré») e poi in versione definitiva nelle Poésies nouvelles (1850). 18 II termine «nobilitare» (ennoblir) è usato anche da L’Herbier, come abbiamo visto più sopra.

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Alphonse Daudet con le musiche di scena composte da Georges Bi­ zet, un esperimento che non ebbe lì per lì molto successo ma che fu subito salutato come una nuova forma di mèlo a cui recarsi con aspet­ tative artistiche, poiché il nuovo mélodrame non è di quelli che fiorivano un tempo al Boulevard du Crime, in cui l’orchestra si limitava ad accompagnare di quan­ do in quando le entrate e le uscite dei personaggi principali e ad esprime­ re - attraverso un lamento in sordina, un mormorio sinfonico o alcuni ge­ miti del violino - una situazione assai tesa. [...] Il mélodrame, questa vol­ ta, non è lasciato allo chef d’orchestre e ai lamenti dei violini in sordina, co­ me si faceva di solito. Un [vero] musicista, il signor Bizet, ne ha composto tutti i brani19.

Dunque un nuovo mélodrame d’arte e d’autore che si oppone nettamente al vecchio mèlo gastronomico e routinier. Nel 1872 al Théàtre du Vaudeville, come si diceva, L’arlésienne passò abbastan­ za inosservata ma nel 1885, quando fu ripresa all’Odéon, suscitò grandissimi favori e restò nel repertorio del teatro. Forse che il tra­ monto di cui sopra stava lasciando il posto a una timida ma lucci­ cante aurora? Solo due anni dopo, nel 1887, Mallarmé scrisse la sua ben nota e nostalgica rievocazione della più vituperata e snobbata forma di teatro. Per lui, il «vieux mélodrame» - «ce genre génial frangais» - è uno spettacolo popolare, sì, ma esemplare20: unito alla danza e alla musica, esso viene riletto-riformulato come una sorta di Gesamtkunstwerk alla francese in cui, diversamente da Wagner, le componenti drammaturgiche restano autonome: «Allier, mais ne confondre» (come dice altrove lo stesso Mallarmé). L’accompagna­ mento musicale, soprattutto, definito come un enigmatico «fil divi­ nar oire», diventa un vero e proprio «dispensateur du Mystère»21. Nel 1893, egli accosta il mélodrame - era fatale - al Pelléas et Mélisande di Maeterlinck appena andato in scena: «une variation supérieure 19 A. de Montegarde, Le mélodrame au Vaudeville, in «L’art musical», 3 ottobre 1872, pp. 307-30920 S. Mallarmé, Crayottné au théàtre [1887], in CEuvres completes, a cura di H. Mondor e G. Jean-Aubry, Gallimard (Bibliothèque de la Plèiade), Paris 1945, pp. 296-297. 21 Ibidem.

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mélodrame?

sur l’admirable vieux mélodrame» 2223 . Data l’influenza di Mallarmé, non ci stupiamo di ritrovare un’altra voce - fondamentale - a ripro­ porre l’idea di un mélodrame ormai quasi completamente trasfigu­ rato (ma non per questo meno riconoscibile in filigrana). È la voce di Paul Valéry, frequentatore (con Debussy) dei famosi Martedì chez Mallarmé. Valéry ci racconta di aver pensato nel 1894 al problema di un genere di spettacolo fondato sulla colla­ borazione di diverse arti teatrali: azione mimica, danza, musica, canto, de­ clamazione, scenografìa [...]. Concepii così un sistema di spettacolo che chiamai mélodrame e di cui parlai a Debussy senza aver mai l’occasione di passare dalla teoria alla pratica. Grazie a Madame Rubinstein ho potuto ten­ tare di realizzare questo genere ed è così che ho scritto di seguito Ampbion e Sémiramis25.

Credo che - s’è già capito - il sottotitolo di El Dorado abbia qualcosa a che vedere con questo nuovo mélodrame di stampo post-simbolista. Non solo Ampbion (1931) e Sémiramis (1934), rap­ presentati entrambi con musiche di Honegger, ma anche Persépbone (1934) di Gide, sempre con la Rubinstein e musiche di Stravinskij, ricevette il sottotitolo di mélodrame. Né va dimenticato che pri­ ma di collaborate con Valéry, Ida Rubinstein aveva sperimentato que­ sto nuovo connubio di musica, azione mimica e declamazione pro­ prio con Debussy: anche se non venne così battezzato, il Martyre de Saint Sébastien (1911) su testo di Gabriele d’Annunzio può legitti­ mamente essere considerato un mélodrame nel senso di Valéry24. Naturalmente, in questo nuovo quadro, siamo mille miglia lontani dalla musica come elemento di drammatizzazione, regolatore degli effetti, intensifìcatore emotivo, ecc. L’ipersincronismo ingenuo, così tipico del vecchio mèlo ed ereditato dall’accompagnamento musica­ le del cinema più corrivo, è da considerarsi, nell’orizzonte estetico di Valéry e dintorni, come un’insopportabile e volgare tautologia. Nel 22 Id., Planches etfeuillets [1893], in CEuvres..., cit., p. 328. 23 P Valéry, A propos de Sémiramis, in «La nouvelle revue frangaise», n. 248, 1° maggio 1934, ora in Id., (Euvres completes, 2 voli., a cura di J. Hytier, Gallimard (Bibliothèque de la Plèiade), Paris 1957,1, pp. 1709-1710. 24 Si aggiunga anche (almeno) la Pisanelle (1913) che d’Annunzio scrisse sem­ pre per la Rubinstein e che fu inscenata con musiche di Ildebrando Pizzetti.

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nuovo mélodrame, la musica, «dispensatrice del Mistero», eco di un «altrove» che sfugge necessariamente alla rappresentazione, deve aiutare l’emersione di quello che Mallarmé chiamava il «dramma la­ tente» e Adolphe Appia il «dramma interiore». Deve esercitare più una funzione evocativa che una funzione impressiva. Ciò non significa che il vecchio mèlo, quello popolar-volgare, sia del tutto abolito: esso riguarda il contenuto drammatico fondato pur sempre sulle strazianti vicende di una sedotta abbandonata, Sibilla, danzatrice nel baile di Granada chiamato appunto El Dorado e ma­ dre di un bambino tisico (il figlio della colpa) a cui il reo seduttore, Estiria, traitre e padre degenere, rifiuta persino l’elemosina25. Ma il trattamento visivo e l’accompagnamento musicale (perfettamente solidali, come vedremo) rinviano al nuovo mélodrame culto e raffi­ nato - quello di Mallarmé e Valéry (e Ida Rubinstein). Così Sibilla, la vedette dell’El Dorado, dietro la quale sbavano letteralmente i clien­ ti del baile, è interpretata da una Ève Francis un po' fanée (l’attrice era nata il 28 agosto 1886) che dir distante e distaccata è dir poco (ma è forse in questa lontananza il segreto del suo fascino): anche i suoi movimenti di danza sono più in sintonia con le astratte e cere­ brali geometrie del suo abito (disegnato da Alberto Cavalcanti) che non con gli sguardi lubrichi degli astanti. Non c’è che dire: come al­ lumeuse appare alquanto improbabile - eppure irresistibile. La sua caratterizzazione «misteriosa» ci riporta al rifiuto del sincronismo in­ genuo tipico del nuovo mélodrame. E siamo così tornati alla musi­ ca sulla quale dovremo ora concentrare le nostre forze. La partitura di Gaillard si pone infatti agli antipodi dell’enfatizzazione mimetica, doppio musicale, tautologia sonora di ciò che le immagini già ci dicono. In ciò anticipando Cocteau e Maurice Jaubert26. Quest’ultimo si riferisce a tale «concezione primaria» la­ mentandone la presenza in un film come The Informer di John Ford

25 Che il figlio di Sibilla sia tisico lo si capisce abbastanza agevolmente dal modo in cui viene raffigurato, ma è lo stesso L’Herbier ad affermarlo nel libro La tète..., cit., p. 57 (dove si parla del fìglioletto malato di Sibilla «que guette la tubercolose»). 26 «Niente mi sembra più volgare [dichiarava Cocteau nel 1951 ad André Fraigneau] del sincronismo musicale nel film»: J. Cocteau, Entretiens sur la cinemato­ graphic, Belfond, Paris 1973, P- 51, cit. in S. Miceli, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano 2000, p. 249-

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(Il traditore, 1935) le cui musiche (di Max Steiner) giudica addirit­ tura «puerili». In effetti, il gioco - arcinoto - appare prevedibile e ri­ dondante: La scena è tragica? Qualche accento del corno o del trombone accen­ tuerà la cupezza dell’immagine. Scena sentimentale? Ecco un assolo del vio­ lino che - a quanto pare - renderà più persuasiva la dichiarazione d’amore del protagonista. I sostenitori di questa «estetica» si rendono conto che non fanno altro che trasporre al cinema la vecchia tradizione musicale del mé­

lodrame?27 Evidentemente Jaubert usa ancora il mèlo come marchio d’in­ famia (ohibò), ignorando i nuovi tentativi di rivalutazione di Mal­ larmé, L’Herbier e Valéry. Ma, a parte la complessità tutt’altro che scontata deH’ipersincronismo ingenuo o primario che sia (a questo proposito mi permetto di rinviare ancora una volta - l’ultima - al mio libro), va detto che anche quando si vorrebbe incollata alle immagi­ ni o alla scena, a mo’ di mickey-mousing, la musica apre sempre un «altrove» ovvero delle «fissures d’espoir et de jour», per riprendere un altro passo di Mallarmé sul «vieux mélodrame». Apitoyé, le perpétuel suspens d’une larme qui ne peut jamais toute se former ni choir [... ] scintille en mille regards, or, un ambigu sourire dénoue la lèvre par la perception de moqueries aux chanterelles ou dans la flute refusant la complicité à quelque douleur emphatique de la partition et y pergant des fissures d’espoir et de jour28.

Dunque non è poi così necessario opporre radicalmente sin­ cronismo (primario) e asincronismo (evoluto), che forse potrebbe 27 M. Jaubert, La musique dans le film [1944], nel volume antologico curato da M. L’Herbier, Intelligence du cinématographe, Éditions Corrèa, Paris 1946, pp. 368-371 (la citazione è a p. 368). Un interessante studio che mette in relazione The Informer con la tradizione del mélodrame è il seguente: D. Neumeyer, Melodrama as a Com­ positional Resource in Early Hollywood Sound Cinema, in «Current Musicology», n. 5, 1995, pp. 61-94. 28 «Commosso, la perpetua sospensione di una lacrima che non può mai formarsi né cadere [...] scintilla in mille sguardi, ora, un ambiguo sorriso distende il labbro at­ traverso la percezione della scherzosità dei cantini o nella presenza del flauto che ri­ fiuta la sua complicità a qualche dolore enfatico della partitura in cui apre delle fessu­ re di speranza e di giorno» (S. Mallarmé, Crayonné..., cit., p. 296). [T. d. A.]

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ro essere meglio intesi come due poli all’interno di una stessa dia­ lettica. Tanto per fare un esempio: Gabriel Fauré, grande nemico con Debussy - dell’enfasi mimetica e tautologica, mettendo in mu­ sica il famoso Clair de lune di Verlaine, ha fatto scivolare nel modo maggiore il discorso musicale proprio in corrispondenza del famoso verso «Tout en chantant sur le mode mineur»; ma l’andamento resta pur sempre quello di un minuetto «galante», perfettamente in linea con il dettato del testo e utilizzato anche come sottotitolo della mélodie. E d’altra parte: non potrebbe essere questo un caso, più che di distanziazione ironica, di «asincronismo ingenuo» in cui l’offerta testuale viene semplicemente ribaltata dalla musica? Qualcosa del genere - tanto per entrare nel vivo dell’analisi dal­ la porta di servizio - avviene anche nella musica di Gaillard. Uno dei punti apicali del dramma, la morte di Sibilla, si svolge così nel più as­ soluto silenzio. Nel vecchio mèlo popolare sarebbe stata di certo contrassegnata da un plateale coup de tam-tam. Nel luogo corri­ spondente della partitura autografa di Gaillard leggiamo invece, sul­ la battuta vuota con corona, che il silenzio deve prolungarsi per un tempo di ben 10 secondi29. Viene in mente il vuoto orchestrale che «accompagna» la dichiarazione d’amore dei due amanti nel quarto at­ to del Pelléas et Mélisande di Debussy. E il celebre passo di una let­ tera che quest’ultimo scrisse a Ernest Chausson il 2 ottobre 1893 e che si riferisce proprio a quella scena: «mi sono servito, per altro in modo del tutto spontaneo, di un mezzo che mi sembra assai raro, cioè (non ridete) del silenzio». Con questo riferimento a Debussy non voglio naturalmente sottovalutare l’importanza della musica ci­ nematografica di quegli anni che, come ha mostrato molto bene Gil­ lian Anderson, prevedeva silenzi prolungati nel corso del suo svolgi­ mento30. D’altra parte far culminare un crescendo emozionale con un lungo silenzio è anche un esempio assai significativo di ciò che chiamavamo in modo semiserio «asincronismo ingenuo». Comunque sia, la scena della morte di Sibilla è notevolmente commentata, una trentina di anni dopo, dallo stesso Gaillard. Invitato 29 Partitura autografa (cfr. nota 7), p. 441. 30 G. B. Anderson, «Niente musica fino al punto indicato»: la ricostruzione di «Intolerance* con la partitura di Joseph Cari Breil, in «Griffithiana», n. 38-39, ottobre 1990, pp. 141-157.

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da Luigi Chiarini, egli collaborò a un numero di «Bianco e Nero» tutto dedicato alla musica per film scrivendo un articolo che venne tradotto da Fausto Montesanti e pubblicato nel 19503132 . Nel fondo Gaillard già citato si trova anche l’autografo (10 fogli manoscritti) di questo pre­ zioso contributo intitolato Panorama de la musique franqaise de film02. Tengo presente l’originale francese quando la versione italiana di Montesanti non è soddisfacente. Ecco il passo sulla morte di Sibilla: La festa è al suo culmine nel locale [El Dorado]. Joaó, scatenato, si ab­ bandona alle sue pagliacciate in mezzo ai colpi dei piatti, alle risate e alle gri­ da; tutto questo è un tumulto assordante che sembra far parte della vita stes­ sa di Sibilla. Ella vuole fuggire... rifugiarsi nel grande silenzio... e si dà una pu­ gnalata mentre il buffone proietta la sua ombra grottesca sul fondale, ai cui piedi cade Sibilla. [...] Sull’ingresso titubante e spaventato della vecchia - che ha visto tutto - nella sala della danza, la musica esita e infine il silenzio si leva

alto come un muro: si vedono le labbra [della vecchia] mormorare: Sibilla è morta! E quando il vecchio suonatore cieco accorre brancolando a tastoni, il tema della serenata è una punta di amara ironia in questo quadro funebre33.

Ancora oggi, l’effetto di questa scena è rimarchevole; i dieci se­ condi di silenzio sono spettrali e si legge perfettamente la fatidica fra­ se sulle labbra della vecchia. Anche il controcanto beffardo che si fa sentire quando il vecchio cieco brancola fra i tavoli del locale (fìg. 1) è facilmente identificabile a p. 443 dell’autografo di Gaillard: è la cor­ netta a pistoni ad intonarlo (es. 1) ed è vero che dà un tocco di «ama­ ra ironia» alla scena34. Gaillard parla di «tema della serenata» perché deve essere im­ mediatamente identificato e riconosciuto dal pubblico: lo avevamo infatti già sentito a mo’ di musica interna, chiamata in causa dall’a31 M.-F. Gaillard, La musica per film in Francia, in «Bianco e nero», n. 5-6, XI, maggio-giugno 1950, pp- 115-121. Una prima versione di questo articolo, citato da Piccardi, è stato pubblicato col titolo Ciné-Partition nel periodico «Commedia» del 12 no­ vembre 1921. 32 Bibliothèque Nationale de France, Departement de la Musique, Rés. Vma ms 115333 M.-F. Gaiuard, La musica perfilm..., cit., pp. 118-119- A dire il vero, il vecchio suonatore non è lo stesso cieco, affezionato cliente di El Dorado, che ritroveremo tra poco (cfr. fìgg. 1 e 2). 34 Ila scrivo la frase della cornetta in note reali per comodità di lettura.

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zione, nella scena della partenza del fìglioletto di Sibilla con Hedwick e Iliana. La Mater Dolorosa rimane sola col suo tormento ed è an­ cora una volta come un ironico controcanto che interviene la musi­ ca: un suonatore cieco pizzica il suo mandolino mentre Sibilla salu­ ta disperata il figlio che si allontana sulla mula (fìg. 2). Ora, il motivo in Do maggiore eseguito dal mandolino e accompagnato dalla chi­ tarra raddoppiata-rinforzata da un violoncello pizzicato (cfr. l’auto­ grafo, pp. 382 sgg.) viene per così dire verbalizzato da alcune dida­ scalie che sembrano quasi suggerirci le parole della canzone: «Espère, espère, il reviendra»35. L’incipit (es. 2), in particolare, si incolla co­ sì bene alla musica che per noi la «melodia dell’addio» intonata dal mandolino diventa una canzone vera e propria: Espère, espère... Quando il motivo ritorna, deformato ritmicamente dalla cornetta beffarda dopo la morte di Sibilla (vedi ancora l’esempio 1), le paro­ le di speranza che ancora associamo a quella musica assumono ine­ vitabilmente una connotazione sinistra. Un’altra caratteristica della canzone Espère, espère quando vie­ ne eseguita per la prima volta dal mandolinista cieco è la violenta ir­ ruzione in fortissimo di un movimento sincopato degli archi che col suo marcato salto d’ottava discendente esprime l’angoscia di Sibilla mentre il motivo apparentemente spensierato del mandolino conti­ nua il suo corso come se niente fosse. Questa brusca sonorizzazione dello stato interiore di Sibilla è in un certo senso il corrispettivo musicale della deformazione delle im­ magini utilizzata da L’Herbier. Le famose sfocature, sovrimpressioni, ecc. di quest’ultimo, volte a soggettivizzare l’immagine36, devono es35 Una versione più completa di questo testo si trova in R. Payelle, El Dorado, mé­ lodrame cinématograpbique par Marcel L'Herbier, Éditions de la lampe merveilleuse, Paris 1921, pp. 98-103 (in questo opuscolo si racconta El Dorado in modo molto popolare come se fosse una novella commentata dalle immagini tratte dal film - quasi un fotoromanzo, insomma). 36 II 1921 è l’anno in cui il termine «soggettiva» entra a far parte del lessico cine­ matografico: sulla questione, vedi E. Dagrada, Le figure delirio* e la nascita della sog­ gettiva, in L. Albano (a cura di), Modelli non letterari nel cinema, Bulzoni, Roma 1999, pp. 63-80. Per il legame tra soggettiva e musica, vedi anche le altrettanto famose sfo­ cature àeWlnbumaine (1924): L’Herbier vi inserisce diverse immagini deformate per le soggettive dello scienziato Einar Norsen (che sappiamo disperato e deciso a suici­ darsi), ma ciò che risulta per noi più significativo è il fatto che tali sfocature interven­ gano solo quando il personaggio osserva dei musicisti che suonano (com’è noto, la partitura di Milhaud per Einbumaine è andata perduta).

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Fig. 2

[F.s-pè ■ re.es - pe - re]

Es. 2

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sere messe in relazione con la «musica dell’anima», come la chiama Piccardi, che dall’interno di un ambiente in cui si agita un’umanità abbietta e degradata passa all’interiorità più profonda del personaggio posto di fronte alla sua tragedia personale. Qui, allo scopo, non basta più il supporto della danza, anche se il suo ritmo cupamente scandito rimane il riferimento es­ senziale per la lunga sequenza. Un elemento dialettico è introdotto attra­ verso le immagini del figlio malato e sofferente che la musica motiva non già come parentesi staccata ma, attraverso la lamentosa melodia del corno inglese che si estende all’intera scena, integrandolo alla più vasta sezione di presentazione di Sibilla37.

Vale la pena di osservare più da vicino questa significativa se­ quenza della partitura di Gaillard che riporto all’esempio 3a,b,c sele­ zionandone (ma non troppo) la coloratissima veste orchestrale38. Il primo segmento musicale in 3/4 (la danza gitana di Sibilla) corri­ sponde alla figura 3, il secondo in 2/4 (la camera del figlio malato) al­ la figura 4 e il terzo il ritorno alla sala da ballo alla figura 5. Il trapas­ so dal primo al secondo segmento (e poi dal secondo al terzo) coin­ cide con un cambio di dimensione drammaturgico-narrativa. L’osti­ nato ritmico e la melodia spagnoleggianti (imparentati chiaramente con la seguidilla [«Près des ramparts de Seville»] della Carmen) si metamorfosano - a mo’ di dissolvenza musicale - in una specie di habanera acefala, il cui movimento ancora una volta ostinato è rea­ lizzato dal tamburo basco e dalle due arpe. Ad un esame più attento è evidente che questo movimento ritmico-armonico sottintende la scala esatonale utilizzata con un effetto ansiogeno di «sospensione»: il discorso - rarefatto nel timbro, nella dinamica e nell’agogica - gira continuamente su se stesso ed evoca una dimensione interiore - qua­ si allucinata. Su questo sfondo si sovrappone la melodia del corno in­ glese che dipana il suo «lamento» di tre-quattro note, di cui solo due appartengono alla scala esatonale dello sfondo e la cui estraneità ci 37 C. Piccardi, Vicenda musicale di un film muto..., cit., pp. 138-13938 Autografo di Gaillard, cit., pp. 20-27. Ho tralasciato solo un intervento della tromba e alcuni raddoppi del timpano, del triangolo (per le percussioni) e della cor­ netta (per i fiati). Anche in questo caso trascrivo le parti degli strumenti traspositori in note reali. Naturalmente il contrabbasso suona un’ottava sotto.

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conferma trattarsi di una «voce» riconducibile alla sfera interiore di Si­ billa: mentre balla, Sibilla pensa al fìglioletto malato. Il lamento del corno inglese è anche uno dei temi (o Leilmotive, se si vuole) più dif­ fusi nella partitura di Gaillard. Ma un po’ come avviene per i Leitmotive del Pelléas et Mélisande di Debussy non è facile etichettarlo una volta per tutte. Se nell’esempio 3 non possiamo non associarlo al fi­ glio malato (o all’ansia della madre per il figlio malato), esso inter­ viene già alla battuta 12, quando ancora Sibilla deve comparire per la prima volta, come uno degli elementi sonori che caratterizzano il baile El Dorado. D’altra parte, il fatto che Gaillard utilizzi chiaramen­ te i Leitmotive rifiutandosi però di semantizzarli in modo univoco la dice lunga sull’ambivalenza del nuovo mélodrame nei confronti del sincronismo - almeno di quello troppo scoperto. Un censimento e un esame dei temi musicali presenti in El Dorado sarebbe a questo proposito assai rivelatore, ma impossibile da condursi nello spazio che abbiamo a disposizione (e da rinviarsi dunque in altra sede). Tornando alla musica come mezzo di soggettivizzazione e di scavo interiore, vorrei analizzare un’altra sequenza della partitura di Gaillard, cui fa cenno lo stesso compositore nell’articolo già citato: su una processione che si snoda in mezzo a tutta una folla festante, predomina il tema religioso, presto sopraffatto, tuttavia, dal rumore del po­ polo in festa; poi i ceri accesi sfumano in lontananza, e non si ode più che un rumore di passi che va diminuendo39.

Questa descrizione verbale, per quanto suggestiva e calzante, rende conto solo in parte della straordinaria complessità del ruolo drammaturgico che in questa scena è svolto dalla musica. Anche in questo caso l’analisi non può essere svolta senza offrire al lettore il brano di Gaillard a mo’ di esempio musicale (che ho alquanto ridot­ to, data la complessità della partitura, come si può vedere all’esem­ pio 4a,b,c) 40. Dunque, Sibilla si sta recando dal traìtre Estiria, nel 39 M.-F. Gaillard, La musica perfilm..., cit., p. 118. 40 L’esempio corrisponde alle pp. 193-198 dell’autografo di Gaillard, cit. Per la ri­ duzione ho tenuto anche presente lo spartito del piano-guida che compare in fondo ad ogni pagina della partitura. Delle percussioni ho riportato solo il tamburo e la grancassa ma la sezione comprende anche timpani, piatti, tamburo basco, nacchere e triangolo.

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Fig. 5 |Ritorno al ballo -> fig. 5|

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quartiere ricco della città, per chiedergli un aiuto: il loro figlio sta male ed ella non ha i mezzi per curarlo come si deve. Nel tragitto in­ crocia una festa popolare che si inserisce nel film come una paren­ tesi documentaristica dedicata a una processione della settimana santa. Ma vediamo come tutta la scena viene letteralmente riscritta dalla musica. Le prime quattro battute dell’esempio 4 contengono il «tema re­ ligioso» (3/4 in Mi bemolle minore), la cui natura intradiegetica è mu­ sicalmente accresciuta dall’assenza degli archi41: l’effetto è quello di una fanfara di strada con la sua brava grancassa e una sonorità (scu­ rissima) fin troppo chiassosa - perfettamente adatta a illustrare la fe­ sta religiosa di cui riportiamo un’immagine alla figura 6. Ma dopo la cadenza sospesa e il passaggio in 4/4 avviene (musicalmente) qual­ cosa che cambia il senso di tutta la sequenza. Il tema della proces­ sione viene sì ripreso, ma deformato-trasfigurato dai violini come se fosse percepito dall’interno di una coscienza distratta, non partecipe degli eventi che si stanno svolgendo sulla scena: Sibilla. Cessa infat­ ti l’effetto fanfara e l’armonia realizzata dai legni (più chiari, senza gli ottoni) si fa tormentata, piena di accordi diminuiti e slittamenti cro­ matici. Siamo insomma entrati nella sfera interiore di Sibilla che vie­ ne anche fugacemente inquadrata (fìg. 7) ma che è la musica a met­ tere al centro dell’azione. Ad un certo punto (vedi sempre l’esempio 4) rientrano le percussioni precedute da un tamburo in pianissimo. Un nuovo strato sonoro si aggiunge ai precedenti - e con esso una nuova dimensione drammaturgica. La realtà esterna torna infatti a farsi sentire, perfettamente incarnata dal temino in Do maggiore (la più «oggettiva» di tutte le tonalità) affidato a un ottavino chiaramen­ te intradiegetico anche se mai inquadrato dalla macchina da presa. È evidente il passaggio dal sacro al profano: il tema religioso in Mi be­ molle minore lascia il posto alla canzonetta dal sapore popolare e sbarazzino - come un codazzo giocoso che segue la processione or­ mai in fase di allontanamento (fig. 8). Se analizzando l’esempio 3 ab­ biamo parlato di dissolvenza musicale, in questo caso (specialmen­ te a partire dall’intervento del motivetto profano) dovremmo piut­

41 II contrabbasso è un mero raddoppio della tuba (un sostegno per l’intonazio­ ne) e non si avverte come tale.

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tosto parlare di una sorta di sovrimpressione musicale - una so­ vrimpressione i cui strati musicali appaiono inoltre del tutto indi­ pendenti. Indipendenti ma simultanei. Il motivetto «oggettivo» del­ l’ottavino (eseguito anche dai fagotti non compresi nell’esempio 4), accompagnato dalle percussioni e dalle viole-violoncelli-contrabbas­ si (poi anche dai corni), si sovrappone allo strato «soggettivo», co­ stituito dalla scala cromatica discendente dei violini e da quella ascendente del controfagotto. Quando ritorna il tema variato della processione (affidato all’oboe), l’effetto è quello di uno sfumare «in lontananza» - per riprendere le parole di Gaillard. A questo ultimo segmento della sequenza corrisponde sulla partitura autografa (p. 197) un’indicazione importantissima rivolta al proiezionista: «rallentir [s/c] [le] film». Il discorso musicale sfuma mentre le immagini ral­ lentano il loro corso. Alla fine restano solo le percussioni in pianissi­ mo che il compositore associa nel suo resoconto a un «rumore di passi che va diminuendo». È lampante, mi pare, la stretta connessione tra i procedimenti musicali presi in esame e alcuni fondamentali assunti della poetica di L’Herbier. Dopo aver analizzato l’esempio 4 capiamo meglio cosa quest’ultimo volesse dire quando afferma che «la realtà esterna di­ venta per Sibilla assolutamente indefinita, indefinibile, Jloue, perdu­ ta com’ella è nei suoi sogni»42. Se ci siamo concentrati sulla questio­ ne sincronismo/asincronismo è perché ci sembra una questione cru­ ciale nel passaggio dal vecchio al nuovo mélodrame. Ancora: una questione cruciale tanto nella incidental music composta per il tea­ tro quanto in quella composta per il cinema. Il fatto che la musica di Gaillard sia stata realizzata a cose fatte, a partire da un film già mon­ tato, non toglie nulla alla sua capacità di ridefinire-approfondire il senso drammaturgico delle immagini - come risulta chiaro, credo, nell’ultimo esempio analizzato. Anche il fatto che il film venne ripre­ so negli anni successivi con l’accompagnamento di altre musiche compilate per l’occasione43 non sposta di una virgola la questione: 42 Intervista rilasciata aJ.-F. Freschi, in N. Burch, MarcelL’Herbier, cit., pp. 72-7343 Nel Recueilfactice..., cit., c’è il programma (8° RK 3725) di una ripresa di£Z Dorado alla sala Madeleìne-Cinéma (5-11 gennaio 1923) in cui risultano eseguiti dal­ l’orchestra diretta da [Aimé?] Lechaume vari pezzi preesistenti compilati a cura dello stesso direttore (Florent Schmitt, Leoncavallo, Gabriel Pierné, Debussy, ecc.).

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Fig-6

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Fig. 7

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In che senso El dorado di Marcel L’Herbier è

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la partitura è parte integrante del film e contribuisce grandemente alla costruzione del suo senso finale: mélodrame, per L’Herbier, vuol dire anche questo. Il tutto, come abbiamo visto, in una prospettiva assai obliqua e con una sorta di allergia per un’illustrazione sonora troppo referenziale. Così i suggerimenti, le suggestioni musicali, fre­ quenti nel film, non sono sempre raccolte da Gaillard che ama gio­ care in contropiede. Bisogna perciò stare attenti a prendere in con­ siderazione la «musicalità» di L’Herbier (montaggio ritmico, indica­ zioni didascaliche [tipo «Le bruit monte», ecc.], fonti sonore inqua­ drate dalla macchina da presa) senza consultare contemporanea­ mente anche la partitura di Gaillard44. Un ultimo esempio, per quan­ to un po’ paradossale, ci servirà a mettere meglio a fuoco questo aspetto dei rapporti tra musica e immagine. Sibilla è stata appena cacciata e scaraventata giù dalle scale dai servitori di Estiria. Dopo la sua teatralissima dégringolade, afflitta e meditando vendetta, si allontana dalla lussuosa dimora del traitre che a lei, abitante del quartiere gitano dell’Albaicin, è doppiamente negata, per ragioni personali e sociali. Il contrasto tra il suo mondo e quello di Estiria emerge anche musicalmente: mentre nel balle E1 Dorado si sente sempre musica popolare spagnola o spagnolesca (seguidilla, habanera, ecc.), la festa cbez Estiria è caratterizzata da un fox-trot il cui ritmo «americano» rinvia alla contemporaneità occi­ dentale con un sottinteso fortemente negativo. Dunque Sibilla cam­ mina persa nei suoi pensieri, ma l’ora della vendetta si avvicina: im­ provvisamente ricorda che la figlia di Estiria, Iliana, cui il padre-ti­ ranno ha imposto un prestigioso fidanzato, è in realtà amante del pit­ tore straniero (Hedwick) presso il quale lavora come modella. Quel­ la sera hanno un appuntamento segreto all’Alhambra... Ecco che suona l’ora fatidica del rendez-vous... Trascrivo questo breve ma 44 Nel suo per altro interessante studio intitolato Musique, écoute et valorisation du son: de Starewitch à Tim Burton (in Le son en perspective: nouvelles recbercbes, a cura di D. Nasta e D. Huvelle, Peter Lang, Bruxelles 2004, pp. 47-67), Dominique Na­ sta parla degli «effets de musique» di El Dorado (p. 50) mettendoli in relazione con le indicazioni didascaliche presenti nel film, ma senza considerare la musica di Gaillard; a tal fine pubblica anche un fotogramma con due mani che suonano un pianoforte du­ rante il ballo di Sibilla (p. 62). Ma sfortunatamente questo è proprio uno di quei casi in cui Gaillard disattende il suggerimento visivo di L’Herbier e nella musica non tro­ viamo alcun suono di pianoforte.

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pregnante momento45 all’esempio 5 che accompagna musicalmente l’immagine di un campanile con le campane in azione di cui riporto un fotogramma alla figura 9. Ora, nonostante la dissonantissima armonia per quarte e l’as­ senza di campane vere e proprie in partitura, non è certo diffìcile ri­ conoscere il significato dei nove segmenti ripetuti: sono le nove, ap­ punto. D’altra parte, nell’autografo di Gaillard (p. 228), un’annota­ zione manoscritta fuga ogni dubbio: «9 heures: cloches». Ma bisogna pur chiedersi: che razza di campane sono? L’intervallo di terza mi­ nore discendente ripetuto per nove volte non può non essere asso­ ciato al suono del cucù - per quanto deformato e distorto dal trat­ tamento timbrico-armonico. Tenendo anche presente la connotazio­ ne beffarda che il verso del cucù porta spesso con sé, riconosciamo in questo intervento musicale un sottotesto ironico: è come se il nar­ ratore volesse con quel suono «rivelatore»46 suggerire al personaggio la sua vendetta. (Infatti, dopo questa scena, Sibilla si reca sul luogo dell’appuntamento e rinchiude i due amanti per tutta la notte in una stanza dell’Alhambra, suscitando uno scandalo che manda per aria i piani matrimoniali di Estiria). Naturalmente, l’effetto ironico del pas­ so musicale riportato all’esempio 5 è ancora accresciuto dall’imma­ gine cui fa da commento sonoro (vedi ancora la figura 9): cosa c’en­ tra il cucù con il maestoso campanile che vediamo sullo schermo? Ma il gioco in contropiede si fa ancor più singolare se si considera con più attenzione l’immagine: il campanile che vediamo - infatti non è un campanile qualsiasi, bensì la celebre Giralda di Siviglia47. Poiché ci troviamo a Granada, nella strada che dal palazzo di Estiria porta all’Alhambra, è chiaro che quel campanile non possiamo ve­ derlo con gli occhi di Sibilla. Ci troviamo di fronte insomma ad una sorta di «falsa soggettiva» che l’accompagnamento musicale sembra quasi voler smascherare. Al décalage musicale (tra musica e imma­ gine) ne corrisponde uno visivo (tra immagine e contesto narrativo): 45 Autografo di Gaillard (cfr. nota 7), pp. 228-22946 Sulla questione, vedi E. Sala, The message?It's a tune. Per una drammaturgia del «suono rivelatore» e del «coup de musique» dal melo al cinema, in «Musica/Realtà», n. 74, luglio 2004. 47 D’altra parte, lo stesso L’Herbier fa riferimento, nel suo La tète..., cit., pp. % e 58, a delle riprese del film avvenute a Siviglia.

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In che senso El dorado di Marcel L’Herbier è un mélodrame?

tornando alla dialettica sincronismo/asincronismo, non potremmo parlare a proposito di questo caso (limite) di «falso asincronismo»? Non so se gli esempi sin qui analizzati siano stati sufficienti a dar conto della complessità drammaturgica di una partitura di cui abbia­ mo potuto prendere in esame solo alcuni aspetti, ma di certo sono bastati a chiarire meglio il quesito da cui eravamo partiti. Se il dolo­ roso calvario di Sibilla ha fatto piangere ancora una volta Margot, la musica di Gaillard rifiuta ogni funzione lacrimogena e si rivolge piut­ tosto alla struttura formale del film di L’Herbier, ride finendola mira­ bilmente alla luce dei principi estetici del nuovo mélodrame im­ pressionista e simbolista. Il risultato è quell’affascinante ircocervo che abbiamo cercato di ricostruire e che rilancia la musica nel mélo­ drame non solo come elemento pantomimico o intensifìcatore emo­ tivo, ma come evocatore di un senso più profondo rispetto a quello reso visibile dall’azione o come veicolo di «surrealizzazione» del dramma48 - per dirla ancora una volta con L’Herbier.

48 Ivi, p. 66.

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Fig. 8

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In che senso El dorado di Marcel L’Herbier

[Motivetto popolare e allontanamento -> fìg. 8]

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Fig. 9

Es. 5

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LA TEMPESTA E LE ORFANELLE: DA DENNERY A GRIFFITH di Mariouna Bertini

In ricordo di Bianca e di Alfredo

les cinépbiles du lundi Nella primavera del 1921, terminata la realizzazione di Dream Street, Griffith, che sin dai tempi di Pippa Passes (1909) e di Enoch Arden (1911) crede fermamente nella traduzione cinematografica dei più ardui testi poetici e letterari, accarezza l’ambizioso progetto di portare sullo schermo il Faust di Goethe. È un progetto in cui quanti gli stanno vicini fiutano un’incombente catastrofe finanziaria: «Ho fatto qualche ricerca - scrive Lillian Gish nelle sue memorie - e ho scoperto che Faust non è mai stato un successo finanziario negli Stati Uniti» \ È proprio la giovane attrice, se prestiamo credito alla te­ stimonianza tardiva ma vivacissima della sua autobiografia, a dirotta­ re allora l’attenzione di Griffith su un testo teatrale davvero antiteti­ co rispetto al capolavoro goethiano: Le due orfanelle, di Dennery e Cormon, che ha letto recentemente e di cui ha sentito dire che è sta­ to messo in scena con successo in «quaranta lingue». Davanti a un riassunto del dramma oltremodo conciso ed efficace («È la storia di due orfanelle, una delle quali è cieca»), Griffith reagisce in un primo momento negativamente: sospetta che il suggerimento di Lillian sia dettato soltanto dal fatto che Le due orfanelle si presta a meraviglia ad esser interpretato da lei assieme alla sorella Dorothy, con la qua­ le aspira a riformare l’indimenticabile coppia di The Musketeers of 1 L. Gish (with A Pinchot), The Movies, Mr. Griffith and Me, Prentice-Hall Inc., Englewood Cliffs (N.J.) 1969, p. 241. Cfr. anche E. Wagenknecht, The Movies in the Age of Innocence, University of Oklahoma Press, 1962, pp. 78-130; E. Wagenknecht, A. Sude, The Filins ofD.W. Griffith, Crown Publishers Inc., New York 1975, PP- 169-184.

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Mariolina Bertini

Pig Alley (1912), separata dai tempi di Hearts of the World (1918). Lillian però non disarma e riesce a trascinarlo a una rappresentazio­ ne del dramma. È recitato da una compagnia italiana; Griffith non è in grado di comprendere il testo, ma ne intuisce tutte le potenzialità drammatiche. D’altronde il nome dell’autore principale, Dennery, non gli è affatto sconosciuto: ne ha interpretato in teatro, più di vent’anni prima, un altro testo, A Celebrated Cause, incentrato sulla vicenda pre-hitchkockiana di un uomo che tutti gli indizi e tutte le apparenze accusano di uxoricidio, benché sia in realtà innocente2. Il trionfo di Lillian è totale: deciso a portare Le due orfanelle sullo schermo, il regista prende accordi con l’attore Frank Puglia, che im­ persona nel dramma Pierre Frochard, perché interpreti lo stesso ruo­ lo nel film, acquista i diritti dell’opera e mette risolutamente mano alla sceneggiatura, che firmerà con lo pseudonimo di Gaston de Tolignac, già usato per Hearts of the World. Dal suo lavoro di sceneg­ giatore l’opera di Dennery uscirà radicalmente trasformata; riper­ corriamone brevemente l’intreccio e la fortuna prima di entrare nei particolari di questa trasformazione. Les deux orpbelines risaliva al 1874. La sua prima rappresenta­ zione aveva segnato la riapertura, dopo la guerra franco-prussiana, di uno degli bauts-lieux del Boulevard, il teatro della Porte-Saint-Martin, distrutto da un incendio durante la Comune. Il successo era sta­ to tale da restituire un’effimera voga al mélodrame, che negli anni sessanta non era riuscito a contrastare vittoriosamente la concorren­ za delle operette di Offenbach, dei caffè-concerto e dell’Esposizione Universale del 1867. L’autore, Adolphe Dennery3, che si era avvalso della collaborazione di un altro buon artigiano, Eugène Cormon, era un autentico veterano del genere. Ammirato per la sua fecondità ine­ sauribile e il suo senso del teatro da Théophile Gautier e da Francisque Sarcey, era invece odiato dai fratelli Goncourt che, invidiosissimi del suo genio commerciale, nelle pagine del loro Journal insistono perfidamente sulle sue origini ebraiche, sul suo cattivo gusto in fatto 2 Cfr. R. Schike, D. W Griffith. An American Life, Simon and Schuster, New York 1984, pp. 50-51. A Celebrated Cause era la traduzione di Une cause cèlebre, di Den­ nery e Cormon, del 1877. 3 II vero nome di Dennery (o D’Ennery: utilizzò entrambe le forme) era Adolphe Philippe (1812-1899).

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La tempesta

e le orfanelle: da

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Griffith

di arredamento e soprattutto sulla sfrenata immoralità di sua moglie, Fattrice Gisette. Nel 1874 Dennery, più che sessantenne, aveva alle spalle decine e decine di testi teatrali, spesso scritti in collaborazione e a volte costruiti intorno a personaggi mutuati da opere altrui. I suoi più clamorosi trionfi mettevano in scena una figura femminile, di na­ scita popolare, votata a infinite sventure a causa delle passioni o de­ gli intrighi di qualche aristocratico malvagio: era il caso di Marie, la contadina savoiarda protagonista de La gràce de Dieu (1841), come dell’eroina di Marie-Jeairne ou la Femme du peuple (1845), alla qua­ le una nobildonna, sterile e malvagia, rubava, con la complicità di un medico, il figlio neonato. Più complessi del mélodrame classique in auge nei primi anni del secolo, questi mélodrames romantiques non comportavano necessariamente un’eroina vergine; erano popolati di ragazze madri, figli illegittimi e infami seduttori 4. Del mélodrame classique conservavano però i due assi tematici portanti individuati da Jean-Marie Thomasseau: quello della persecuzione e quello delVagnizione. Il primo, ereditato principalmente dal romanzo gotico e da Sade, assicurava il moltiplicarsi delle peripezie lungo l’intreccio; il secondo, già sfruttato da Plauto e da Terenzio, permetteva all’azione di chiudersi all’insegna del patetico, ma anche della fatalità esorciz­ zata e del ritorno all’equilibrio. Questi due temi principali - scrive Thomasseau -, persecuzione e ri­ conoscenza, risultano quindi complementari da un punto di vista funziona­ le: l’uno lineare, orizzontale, si estende su quasi tre atti, mentre l’altro, bru­ tale, verticale, scioglie rapidamente e definitivamente l’intrigo5.

È proprio questa formula a offrire a Dennery lo schema delle Due orfanelle'. il dramma espone al pubblico le lunghe vicissitudini di due adolescenti perseguitate, preparandone gradualmente l’esito felice che sarà dovuto proprio a un'agnizione, al ritorno in seno al­ la famiglia d’origine di una delle due, che era stata abbandonata alla nascita dalla madre aristocratica. 4 Cfr. J.-M. Thomasseau, Le mélodrame, PUF, Paris 1984, pp. 51-110. 5 J.-M. Thomasseau, Le mélodrame sur les scènesparisiennes de Codina (1800) à L’Auberge des adrets (1823), Service de reproduction des thèses, Università de Lille-Ili, Lille 1974, p. 146. [T. d. C.]

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La pièce si apre con l’arrivo a Parigi dalla Normandia delle due fanciulle, che sono state allevate come sorelle dai Girard, una coppia di umili condizioni, morta da poco. Soltanto Henriette però è vera­ mente figlia dei Girard; Louise, che da qualche tempo è diventata cieca, è stata invece raccolta neonata alle soglie di Notre-Dame, nel­ la neve. Siamo nel 1784; la Parigi che accoglie le due graziose pro­ vinciali è una capitale corrotta e pericolosa, pullulante di aristocrati­ ci libertini senza scrupoli e sicuri della più totale impunità. Uno di questi, il marchese di Presle6, fa rapire Henriette; Louise, rimasta so­ la, cade nelle mani di una megera, la Frochard, che la costringe a mendicare. Dei due figli della Frochard solo uno, Pierre, buono e zoppo, la protegge, mentre l’altro, Jacques, la insidia e la tormenta. Henriette, liberata e poi amata dal cavaliere de Vaudrey, un giovane aristocratico generoso, amico degli enciclopedisti, si dedicherà a una frenetica ricerca di Louise, sottoposta nel frattempo a ogni sorta di maltrattamenti. Alle difficoltà della ricerca, si aggiungono le persecuzioni di cui Henriette è oggetto da parte della famiglia dell’amato, che arriverà a farla rinchiudere alla Salpètrière. Proprio quella famiglia, però, si ri­ velerà, con un prevedibile colpo di scena, essere la famiglia d’origi­ ne di Louise, e accoglierà nel pacificante finale Henriette come fi­ danzata del giovane cavaliere e Louise come figlia ritrovata e accet­ tata nonostante la nascita illegittima. La guarigione di Louise, pro­ messa dal buon dottore che si prepara a operarla, completerà la fe­ lice conclusione conforme al canone del genere. Diffìcile immaginare un intreccio più fitto di topoi canonici del mélodrame'. oltre ai due temi già menzionati della persecuzione e dell’agnizione, abbiamo la malattia di una delle eroine (sin dai tem­ pi di Coelina e del Cbien de Montargis, di Pixerécourt, la scena del boulevard pullula di ciechi, muti e sordomuti, per lo più destinati al­ la guarigione), il segreto della nascita di Louise che riemerge dal pas­ sato, un personaggio comico - Picard, servitore del cavaliere di Vau­ drey - che spezza la tensione con le sue balordaggini, e perfino la si­ tuazione, di pura ascendenza gotica, che vede una delle due protagoniste reclusa in un terrificante sotterraneo. In questa sorta di esau­ 6 II cui nome sarà ortografato Praille nella versione cinematografica.

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stiva enciclopedia del melodrammatico, Dennery e Cormon però in­ troducono alcuni elementi di origine non teatrale, ma romanzesca; elementi che contribuiranno a rendere graditissimo il testo al pub­ blico del 1874, che ha ormai una lunga familiarità con il romanzo d’appendice. È così che accanto al marchese che tenta di sedurre Henriette, prototipo squisitamente melodrammatico del grand sei­ gneur méchant bomme, troviamo Jacques Frochard, il bruto allo sta­ to puro deciso a stuprare Louise, di cui cercheremmo invano qual­ che antecedente nel mélodrame classique. Incarnazione dei peg­ giori istinti delle masse popolari, Jacques proviene dai bassifondi del feuilleton-roman, al pari di sua madre, la Frochard, esemplata sulla terribile Chouette e sulla mère Martial dei Mystères de Paris. Fu pro­ babilmente questa combinazione - non inedita, ma particolarmente ben dosata - di sensazionalismo d’appendice e di tradizionali, collaudatissimi meccanismi melodrammatici ad assicurare alla pièce un trionfo tra i più memorabili e duraturi dell’ottocento. Dennery seppe sfruttare da par suo l’immenso successo della vicenda: nel 1887 la trasformò in un prolisso romanzo, che divenne un vero classico della narrativa popolare. Molto diffuso e particola­ reggiato rispetto al testo teatrale (si pensi ad esempio che il rapi­ mento di Henriette, nel dramma condensato in ventisei battute, of­ fre la materia di un capitolo intero, il XIV), il romanzo ne riprende­ va spesso alla lettera il dialogo e ne seguiva fedelmente la trama; se ne discostava soltanto nel finale, che prevedeva, oltre al matrimonio di Henriette con il cavaliere di Vaudrey, anche quello di Louise con Pierre, il figlio buono e storpio della Frochard, divenuto aitante, per­ fettamente sano e perfino istruito grazie alle cure e all’affetto dello stesso medico che restituiva la vista alla fanciulla cieca. Nel dramma Pierre, che uccide il fratello Jacques per difendere Louise e Henriet­ te, restava invece stoicamente in attesa di essere arrestato e con­ dannato per fratricidio. Come Dennery nel romanzo, anche Griffith preferirà salvarlo nella conclusione del suo film, rimuovendo così dal lieto fine la macchia di un destino tragico del tutto dissonante. Al momento della morte di Dennery, nel gennaio del 1899, la versione romanzesca delle Due orfanelle proseguiva la sua onesta carriera di long-seller, ma il successo del dramma pareva appartene­ re ormai al passato. Ripresa in febbraio al Théàtre de la République,

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la pièce lasciava il pubblico piuttosto indifferente, anche se i giorna­ listi, commossi dalla scomparsa recente dell’autore, ne rievocavano la creazione con accenti nostalgici. Nel marzo del 1901, un’ulteriore ripresa all’Ambigu, egualmente fallimentare, destava una spropor­ zionata indignazione in Catulle Mendès: Qui done a pu croire, un seul instant - scriveva il poeta - qu’il y avait un public encore pour s’intéresser à ce niais, pénible, inutilement compliqué, et deplorable, et ennuyeux mélodrame, où l’antique stupidite de l’oeuvre insuite au bel instinct du public populaire?7

Eppure, con buona pace di Mendès, l’indomita vitalità del vec­ chio mélodrame era destinata a rinascere ancora, e non una volta soltanto, dalle proprie ceneri. Al 16 maggio del 1907 Lesdeux orpbelines era stato rappresentato 1750 volte a Parigi, 9262 in provincia e 1841 all’estero, per un totale di 12.853 rappresentazioni. Ma la vera rivincita doveva arrivare il 2 luglio del 1921, al teatro della PorteSaint-Martin: sullo sfondo di scene di singolare eleganza e precisio­ ne storica, Marguerite Moreno offrì un’indimenticabile interpretazio­ ne della Frochard, assicurando al vetusto mèlo un trionfo che i gior­ nali salutarono come un’autentica resurrezione. Un mese prima, il 31 maggio, Griffith aveva firmato con Kate Stevenson (che con lo pseu­ donimo di Kate Klaxton aveva a lungo impersonato Louise sui pal­ coscenici americani) il contratto che gli assicurava i diritti del dram­ ma in vista della realizzazione del suo film8: le due orfanelle stavano per conoscere la loro più suggestiva e prestigiosa reincarnazione. Complicato e fitto di personaggi minori come tutti i mélodra­ mes romantiques, Les deux orpbelines non poteva essere trasposto sullo schermo - soprattutto nel contesto del cinema muto - senza qualche sfrondamento. Griffith cancellò dunque la figura secondaria di Marianne, l’amante di Jacques Frochard, che nel dramma si redi­

7 «Chi ha potuto dunque credere, anche per un istante - scriveva il poeta - che un pubblico potesse ancora interessarsi a questo stolto, penoso, inutilmente compli­ cato, deplorevole e noioso melodramma, nel quale l’antica stupidità dell’opera è un in­ sulto per il bell’istinto del pubblico popolare?» (C. Mendès, in «Le Journal», 14 marzo 1901). [T. d. G] 8 Cfr. R. M. Henderson, D. W Griffith His Life and Work, Oxford University Press, New York 1972, p. 230.

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meva da un passato colpevole e svolgeva un ruolo importante nel ri­ congiungimento di Henriette e Louise. La luce del quadro poteva co­ sì concentrarsi meglio sulla coppia delle orfanelle, radiosa di fragile innocenza ed esposta a un campionario di sevizie sufficientemente variegato da sollecitare tanto le pulsioni sadiche del pubblico quanto la sua intenerita commozione. Restava una certa staticità e insignifi­ canza dello sfondo storico. Certo, nella terza scena del Secondo Ta­ bleau il cavaliere di Vaudrey turbava un’orgia di aristocratici debosciati profetizzando la rivoluzione imminente, ma l’accenno restava isolato, quasi rituale per un autore come Dennery che in altre pièces si era soffermato ben più lungamente sui misfatti deXVancien régime. Per marginale che fosse, però, quell’accenno attirò verosimilmente l’at­ tenzione di Griffith e la orientò verso una possibilità inedita: se la tempesta rivoluzionaria avesse fatto irruzione nel dramma, invece di restare all’orizzonte a titolo d’ipotesi e di facile profezia, tutta la vi­ cenda avrebbe acquistato un respiro storico di ben altra portata e una travolgente, incomparabile drammaticità. Questo dato appariva parti­ colarmente evidente a Griffith perché la sua immagine della rivolu­ zione francese non aveva nulla di astratto o di nozionistico: era, in tut­ ta la sua sinistra e colorita concretezza, quella che emergeva da A Tale of Two Cities del suo amatissimo Dickens, del romanziere che più d’ogni altro aveva influenzato, anche dal punto di vista tecnico, il suo lavoro 9. La lettura griffithiana del dramma di Dennery comportò dunque una sorta di innesto: la separazione forzata delle due orfa­ nelle, spostata dal 1784 al periodo 1789-1793, si trovò ad avere come sfondo la Parigi del terzo libro del romanzo dickensiano, il cui titolo - The Track of a Storm - doveva lasciare una traccia visibile nel tito­ lo stesso del film. All’origine delle traversie delle protagoniste sareb­ bero rimasti, come in Dennery, il cinismo e i pregiudizi dell’aristo­ crazia ancien régime, ma la tempesta rivoluzionaria avrebbe intro­ dotto nelle loro esistenze nuove insidie e nuovi pericoli, tra l’eb­ brezza delle folle in delirio e l’ombra incombente della ghigliottina.

9 Griffith stesso spiegò nell’aprile del 1922 ad A. B. Walkley del «Times» che ave­ va desunto il principio del montaggio alternato dalla tecnica narrativa di Dickens, che spostava la storia da un gruppo di personaggi all’altro. Si veda a questo proposito S. M. EjzenStein, Dickens, Griffith e noi [1944], in La forma cinematografica, Einau­ di, Torino 2003 (1949), pp. 204-266.

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Si aprivano dinnanzi al regista straordinarie possibilità: dal punto di vista spettacolare diventavano necessarie tumultuose scene di massa dominate dalla suspense; da quello dei contenuti si imponeva una ri­ flessione su un momento storico decisivo per le origini della demo­ crazia moderna. Arricchito e trasformato dall’apporto dickensiano, l’ingenuo dramma di Dennery e Cormon diventava l’occasione di ri­ prendere il filo conduttore di Intolerance, di proseguirne l’appas­ sionata denuncia della cieca violenza barbarica in agguato ad ogni tappa della storia umana. In questa direzione Griffith impostò il pro­ prio lavoro, dando vita ad un’opera nella quale elementi teatrali e romanzeschi erano destinati a fondersi per un risultato radicalmen­ te nuovo. Quasi tutti i riassunti di Orphans of the Storm partono da un’af­ fermazione inesatta: quella secondo cui la prima parte del film (sino all’apparizione di Danton e Robespierre) seguirebbe fedelmente il la­ voro teatrale originario. In realtà già nelle scene e nelle didascalie del prologo Griffith altera significativamente i dati della pièce. Ci mostra infatti i nobili parenti di mademoiselle de Vaudrey che fanno irru­ zione nella sua casa, ne assassinano brutalmente il marito borghese e strappano poi alla madre la neonata Louise per abbandonarla sul sagrato di Notre-Dame. Nel dramma non avveniva nulla di così pla­ teale e cruento: la famiglia de Vaudrey si limitava ad ostacolare le nozze tra la giovane aristocratica e un ufficiale povero. Da quell’a­ more contrastato, e non sanzionato dal matrimonio, nasceva Louise. Il padre moriva in guerra prima di averla potuta legittimare e la ma­ dre, spinta dalla famiglia al matrimonio con il ricco conte di Linières, abbandonava la figlia della colpa. Più sintetica e movimentata della versione teatrale, la versione cinematografica di questo antefatto pre­ senta dell’aristocrazia un’immagine particolarmente fosca e violenta: siamo già ben più prossimi agli omicidi e agli stupri commessi in A Tale of Two Cities dal marchese di Saint Evrémonde e da suo fratel­ lo, che non agli intrighi e alle dissolutezze abbastanza anodine attri­ buite ai nobili da Dennery. Tutto il quadro AeWancien régime pre­ sente in questa prima parte del film è segnato a fondo da una serie di prestiti dickensiani, che scandiscono cupamente la narrazione. Di questi prestiti, il più letterale è stato segnalato da tutti gli esegeti: si tratta dell’episodio in cui la carrozza del marchese di Praille travolge

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un bambino del popolo e lo uccide. Preoccupato soltanto della sa­ lute dei propri cavalli, il nobile signore getta una moneta d’oro al pa­ dre del bambino e manifesta la più gelida insensibilità. La scena è tratta dal capitolo 7 del secondo Libro di A Tale of Two Cities, dove il colpevole è il marchese di Saint Evrémonde, che qualche tempo dopo pagherà con la vita la propria disumana crudeltà. Di ascendenza egualmente dickensiana sono le scene in cui vie­ ne in primo piano, con estrema crudezza, la miseria popolare, ap­ pena accennata nel dramma di Dennery. I macilenti popolani che spiano dai cancelli il sontuoso banchetto che si svolge nel parco del marchese di Praille, gli affamati a cui il cavaliere di Vaudrey distribui­ sce pagnotte sotto lo sguardo approvatore di Danton, non vengono dal palcoscenico del Boulevard, ma dall’evocazione, in A Tale of Two Cities, degli abitanti del Faubourg Saint-Antoine, che sembrano ma­ cinati da un crudele mulino: The mill which had worked them down, was the mill that grinds young people old; the children had ancient faces and grave voices; and upon them, and upon the grown faces, and ploughed into every furrow of age and coming up afresh, was the sign, Hunger. It was prevalent everywhere. Hunger was pushed out of the tall houses, in the wretched clothing that hung upon poles and lines; Hunger was patched into them with straw and raf and wood and paper; Hunger was repeated in every fragment of the small modicum of firewood that the man sawed off; Hunger stared down from the smokeless chimneys, and started up from the filthy street that had no offal, among its refuse, of anything to eat. Hunger was the inscription on the baker’s shelves, written in every small loaf of his scanty stock of bad bread; at the sausage-shop, in every dead-dog preparation that was offered for sale10.

10 «Il mulino che così li aveva macinati era quello stesso nelle cui mole i giovani diventano ricchi, e anche i bambini prendono volti antichi e voci gravi, e sulle loro fac­ ce, sulle facce degli adulti, e su quelle dei vecchi, arato in ogni solco degli anni, e sem­ pre rinnovato, non v’era che un segno: la Fame. Era dovunque, la Fame, sbucava fuo­ ri dalle case alte, era appesa ai pali e alle corde fra i miseri panni; era la Fame a tappa­ re buchi e fessure con la paglia, gli stracci, il legno, la carta. La Fame si moltiplicava in ogni più piccolo frammento della poca legna da ardere che quel tale veniva segando; la Fame guardava dall’alto dei camini senza fumo e risaliva la strada lurida in cui, fra tanta immondizia, non c’era traccia di avanzi di cibo. E c’era scritto Fame sulle scansie del panettiere, e su ogni pagnottella di pane, e poche ve n’erano e di qualità pessima, e ancora si mostrava la Fame al negozio delle salsicce, in ogni macinato di carne di ca-

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Il più inquietante dei fantasmi dickensiani che percorrono

Orphans of the Storm è però senza possibilità di dubbio Jacques-forget-not, alla cui ferocia Leslie King conferisce una fissità allucinata prossima alla follia. Si affaccia nel film già alla terza scena 11, a po­ chissimi minuti dall’inizio. Fittavolo del conte di Linières, gli porta una cesta di frutta e gli chiede, con insinuante umiltà, una riduzione deH’affitto. La gelida noncuranza con cui il conte respinge la sua ri­ chiesta sembra trasformarlo completamente: con il volto alterato da un’atroce sofferenza e da un’inestinguibile sete di vendetta, rievoca l’uccisione del padre, condannato a morte qualche anno prima. Sul­ lo schermo compaiono le immagini dell’esecuzione: al condannato viene versato piombo fuso nelle vene. Radicato nella visione inso­ stenibile del supplizio paterno, l’odio di Jacques-forget-not per i de Vaudrey non farà che aumentare, e troverà ulteriore alimento nella collera popolare scatenata dalla rivoluzione. Sarà proprio Jacques, trasformatosi in implacabile giudice del tribunale rivoluzionario, a condannare alla ghigliottina il cavaliere di Vaudrey e Henriette, col­ pevole di avergli dato rifugio. Naturalmente inesistente in Dennery, Jacques-forget-not è una creazione originale di Griffith, nutrita però di spunti dickensiani ed espressiva all’estremo della visione dickensiana della violenza rivoluzionaria come nemesi. È innanzitutto il suo soprannome a derivare da The Tale of Two Cities', nel romanzo i membri dell’associazione segreta che fa capo all’oste Defarges por­ tano tutti il nome di Jacques, in memoria di Jacques Bonhomme. Con tre di loro Defarges discorre del supplizio riservato ai parricidi, e per estensione anche ai regicidi e a quanti attentino alla vita del proprio signore feudale: il supplizio in cui al condannato viene ver­ sato piombo fuso nelle vene, come avvenne al regicida Damiens12. È a questa conversazione che Griffith evidentemente si ispirò per le modalità (altamente simboliche, anche se storicamente improbabili) dell’esecuzione del padre di Jacques-forget-not. Come Defarges, la cui moglie annota in codice, nel proprio lavoro a maglia, tutti i cri­ mini impuniti degli aristocratici, Jacques-forget-not incarna la me­ ne che vi si vendeva» (C. Dickens, A Tale of Two Cities [1859], Oxford University Press, Oxford 1988, p. 35; trad. it. Una storia fra due città, Frassinelli, Milano 2000, p. 40). 11 Senza contare il Prologo. 12 C. Dickens, A Tale of Two Cities, cit., pp. 205-206.

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moria ranco rosa, spietata del popolo offeso: la sua furia è il prodot­ to naturale del mostruoso cumulo d’ingiustizie che ha pesato per se­ coli sulla sua gente. Diversa da quella di Jacques è l’origine delle due figure storiche che Henriette trova sulla propria via e che influiscono sul suo desti­ no in modo determinante: Danton e Robespierre. Danton, soccorso e nascosto da Henriette in un momento difficile, all’inizio dei moti rivoluzionari, le vota un amore cavalleresco, senza speranza, e la sal­ verà in extremis dalla ghigliottina; Robespierre, invece, sadico e me­ schino dietro una facciata d’ineccepibile moralità, si accanirà contro di lei perseguitandola, indispettito e ingelosito dai puri sentimenti di tenerezza che la legano a Danton. È nelle pagine della Storia della rivoluzionefrancese di Carlyle - fonte privilegiata di Dickens, come Griffith ben sapeva 13 - che il regista trovò in nuce la contrapposi­ zione tra un Danton mite e generoso, accusato di debolezza dai ter­ roristi più radicali, e un Robespierre fanatico e puritano, capace di nascondere la propria illimitata crudeltà dietro la facciata impassibi­ le del cant14. Grazie anche a due attori straordinari, l’intuizione di Carlyle si tradusse in due caratterizzazioni particolarmente efficaci: la mimica controllatissima, piena di ironica sécberesse, del Robespierre di Sydney Herbert contrasta magnificamente con quella debordante del Danton di Monte Blue, vera forza della natura al servizio dei più puri valori dell’umanità e della democrazia. È ancora in Carlyle che Griffith trovò, espressa in forma esplici­ ta, una constatazione che serpeggiava nel terzo libro di A Tale of Two

13 «Come per Tbe Birth e Intolerance, D. W si tuffò nella ricerca. La sua fonte principale fu The French Revolution di Thomas Carlyle, ma attinse anche a Hippolyte làine, Francois Guizot e Abbott. Consultò il nostro amico Louis Allard, professore di francese all’università di Harvard, e il marchese di Polignac. [...] AD. W piaceva parla­ re della ricerca che il suo idolo, Charles Dickens, aveva infuso in A Tale of Two Cities. Ci disse che quando Dickens aveva scritto a Thomas Carlyle per dei consigli sugli stu­ di sulla Rivoluzione Francese, lo storico scozzese aveva stipato un calesse con i libri che gli erano serviti per la sua monumentale opera e poi li aveva fatti scaricare nel cortile di Dickens. Forse persino Carlyle sarebbe rimasto impressionato dalla massa di mate­ riale che D. W aveva assorbito per The Two Orphans» (L. Gish, Tbe Movies, Mr. Griffith and Me, cit., pp. 242-243). [T. d. C.] 14 Cfr. T. Carlyle, The French Revolution [1838], 3 vol!., Macmillan, London 1900, vol. II, cap. 2 del Libro sesto, Danton, No Weakness-, trad. it. La rivoluzione francese, 3 voli., Bietti, Milano 1933-

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Cities', senza la categoria della follia, i comportamenti più estremi delle folle rivoluzionarie restavano del tutto indecifrabili. Carlyle ave­ va scritto: What then is this Thing, called La Révolution, which, like an Angel of Death, hangs over France, noyading, fusillading, fighting, gun-boring, tan­ ning human skins? [...] It is the Madness that dwells in the hearts of men. In this man it is, and in that man; as a rage or as a terror, it is in all men. Invisible, impalpable; and yet no black Azrael, with wings spread over half a continent, with sword sweeping from sea to sea, could be a truer Reality15.

Conformemente a queste affermazioni, la visione griffithiana della Carmagnole danzata per le strade di Parigi da una folla frene­ tica, ad un tempo clownesca e sinistra, grottesca e feroce, è impre­ gnata di follia, come quella del delirante corteo che accompagna Henriette alla ghigliottina, incoronandola per scherno e agitando sul­ le picche le teste mozzate di altre vittime. Ma, secondo la lezione di Dickens, che Griffith non dimentica mai, la follia rivoluzionaria non è che l’inevitabile risposta alla follia già presente negli eccessi e nel­ le violenze dell’tf/zcze?? régime. In Orphans of the Storm Henriette è dunque egualmente minacciata dalla follia che serpeggia nell’orgia aristocratica ospitata dal parco del marchese di Praille, come dalla più laida e brutale follia della massa popolare in preda alle convul­ sioni della carmagnole. L’asfìttica cornice del dramma di Dennery è esplosa grazie all’irruzione della Storia; intorno all’innocenza delle orfanelle, la tempesta della rivoluzione mima e replica la violenza in­ sensata già condannata in Intolerance. Di questa violenza, le dida­ scalie tentano di proporre una spiegazione ideologica, parlando di «anarchia» e di «bolscevismo»: ma nelle immagini è la follia a trionfa­ re, secondo lo schema interpretativo proposto da Carlyle e fatto pro­ prio da Dickens.

15 «Che è dunque mai questa Cosa chiamata La Révolution, che, come un Ange­ lo della Morte, si libra sulla Francia, e annega, fucila, combatte, perfora col cannone, concia le pelli umane? [...] È la follia che alberga nei cuori degli uomini. È in que­ st’uomo, è in quell’uomo; come una rabbia o come un terrore, è in ognuno. Invisibi­ le, impalpabile; eppure nessun nero Azrael, con le ali spiegate sulla metà nel conti­ nente, tutto spazzando con la sua spada dall’uno all’altro mare, potrebbe essere una Realtà più vera» (ivi, vol. Ill, cap. 1 del Libro sesto, Gli dei hanno sete, p. 289).

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Alla sua uscita a Boston, il 28 dicembre 1921, Orphans of the Storm fu accolto con grande favore. Pubblico e critica apprezzarono la meravigliosa ricostruzione di Parigi negli studi di Mamaroneck, il fasto dei costumi, il virtuosismo tecnico della narrazione griffìthiana; fu organizzata per il presidente Harding una proiezione alla Casa Bianca, alla quale assistettero le sorelle Gish. Le cose dovevano an­ dare un po’ diversamente in Francia, dove il film arrivò nel settem­ bre del 1922. Si prowedette a un adattamento che limitava le prete­ se storiche dell’opera: vennero operati alcuni tagli, il personaggio di Robespierre fu ribattezzato con l’anodino pseudonimo di Fouré e l’imponente Danton di Monte Blue divenne il meno celebre conventionnel Brissot. Nonostante questo, i giornalisti si scatenarono a caccia di incongruenze, denunciando l’anacronistico ombrello a scat­ to con il quale Henriette muove alla ricerca della sorella e le staffe «da cow boys» dei personaggi a cavallo. Ma le contestazioni più pe­ santi vennero dai camelots du roi, che interruppero le proiezioni con proteste e lancio di volantini, e dalla stampa di destra che li ap­ provò e giudicò inaccettabile la rappresentazione deWancien régime nella prima parte del film. Le concezioni storiche del signor D. W Griffith - scriveva 1’8 settem­ bre l’«Action Frangaise» - provengono direttamente dalla scuola elementa­ re. Crede con tutta l’anima che prima del 1789 l’occupazione principale dei francesi consistesse nel morire di fame, che i nobili rapissero per strada le fanciulle per farsene diletto; che si divertissero a schiacciare i bambini po­ veri sotto le ruote delle loro carrozze e che trascorressero le notti in disso­ lutezze ed orge. In campagna, si divertivano ad aprire le vene dei contadini e a versarvi piombo fuso; nient’altro che questo16.

Alla fine i camelots du roi passarono una notte al commissaria­ to, ma ottennero il taglio dei brani che più li avevano urtati, vale a dire il supplizio del padre di Jacques-forget-not, a cui viene versato piombo fuso nelle vene, e l’episodio del bimbo travolto dalla car­ rozza: ignari della derivazione dickensiana di entrambi gli episodi, ri­ masero convinti di aver ottenuto una brillante vittoria e di aver dife16 «Action Frangaise», 8 settembre 1922, Cbronique cinématograpbique siglata P [T.d. C.]

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so la storia di Francia dalle menzogne di «un étranger bolchevisant» (così r«Action Frangaise» definiva Griffith il 16 settembre). Griffith reagì con una lettera aperta, ribadendo il suo antico amore per la Francia e affermando di essersi ispirato a «Guizot, Taine e Carlyle»: il povero Dickens, nonostante il suo ruolo di fonte principale, era evi­ dentemente destinato a rimanere nell’ombra. Con buona pace dei camelots du rois, non mancarono anche in Francia i giudizi positivi. Edmond Epardaud, su «Cinéa», elogiava gli squarci della vecchia Parigi, il «miracle photographique» della festa aristocratica nel parco e concludeva: «Comme toujours et en tout, Griffith atteint à l’essentiel et ce qu’il nous donne est plus beau que la vie»17. Svecchiata e movimentata da tutte le risorse del montaggio, la vicenda delle due orfanelle recava ormai l’impronta specifica del genio di Griffith in ogni scena, dall’onirica orgia aristocratica, al ra­ pido incalzare d’immagini, ora fastose ora miserabili, impiegate in ra­ pida alternanza per descrivere Vancien régime-, dalla violenza cieca e barbarica della folla, al salvataggio finale ai piedi della ghigliottina, inconfondibile esempio griffìthiano di last minute rescue. Nel quadro di questa tecnica narrativa essenzialmente moder­ na, dobbiamo considerare reciso per sempre il cordone ombelicale che legava il soggetto di Orphans of the Storm al mondo desueto e concitato del mélodrame? La cosa non appare affatto sicura. Se Grif­ fith fa allegramente a pezzi la venerabile macchina scenica messa a punto da Dennery e Cormon, lo fa per immettervi quella stessa vio­ lenza rivoluzionaria in cui Charles Nodier aveva visto proprio la più autentica matrice dell’etica e dell’estetica melodrammatica: Nelle circostanze in cui apparve, il mélodrame era una necessità. L’in­ tera popolazione aveva appena recitato per le strade il più grande dramma della storia. Tutti erano stati attori in questa sanguinosa pièce [...]. A questi solenni spettatori, che odoravano di polvere e di sangue, servivano emo­ zioni analoghe a quelle di cui il ritorno all’ordine li aveva privati. Avevano bisogno di cospirazioni, di galere, di patiboli, di campi di battaglia, di pol­ vere e di sangue18.

17 «Cinéa», 22 settembre 1922, p. 2. 18 C. Nodier, Préface au Théàtre choisi de Pixerécourt, Tresse, Paris 1841-1843, p. Vili. [T. d. C.]

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Rituffando Le due orfanelle nel plus grand drame de l 'bistoire, quello della Rivoluzione francese, Griffith ritrova tutta la violenza del mélodrame classique, una violenza che si esprimeva quasi sempre nel muto linguaggio dei gesti19; ne ritrova la vocazione moraleggian­ te, quasi predicatoria; l’inclinazione all’eccesso, all’iperbole, al di­ spiegarsi non censurato dell’emotività. Al di là del teatro edulcorato e borghese di Dennery, tra orge aristocratiche e sabba popolari, esplosioni di crudeltà e di follia, apparizioni angeliche e salvataggi miracolosi, è l’immaginazione melodrammatica allo stato puro che irrompe sullo schermo in Orphans of the Storm , con dirompente energia; testimonianza della longevità di un genere di cui siamo an­ cora lontani dall’aver visto tutte le reincarnazioni.

19 Cfr. P Brooks, The Melodramatic Imagination. Balzac, Henry James, Melo­ drama and the Mode of Excess, Yale University Press, New Haven 1976; trad. it. Z7mmaginazione melodrammatica, Pratiche, Parma 1985, cap. 3, H testo del mutismo.

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L’AMORE IMPOSSIBILE E L’OGGETTO PERDUTO

di Lucilla Albano

Though nothing can bring back the hour Of splendour in the grass, Of glory in the flower, We will grieve not, rather find Strength in what remains behind. William Wordsworth, Intimations of Immortality

Se niente può far sì eòe si rinnovi! all'erba il suo splendore, e che riviva ilfiore della sortefunesta J non ci dorremo, ma ancor più saldi in petto/ godremo di quel che resta. Questi versi del poeta in­ glese Wordsworth sono citati e ispirano anche il titolo di uno dei più bei melodrammi della storia del cinema, Splendour in the Grass (Splendore nell'erba, 1961) di Elia Kazan, molto vicino al tema cen­ trale del mio discorso. L’immagine iniziale del film è un piano ravvici­ nato dei due giovanissimi protagonisti (Natalie Wood e Warren Beatty) dentro una macchina scoperta, con uno sfondo di tumultuose casca­ te. È notte e i loro baci appassionati sembra non riescano a finire, tra­ smettendo allo spettatore «il rumore e il furore delle pulsioni» \ la sen­ sazione di un desiderio incontenibile e inestinguibile, che appartiene alla giovinezza e alla purezza di una «prima volta» ancora tutta da co­ gliere e da gustare. Ed è proprio l’impossibilità e la proibizione, per i due giovani, di raggiungere la pienezza sessuale e di coronare il loro sogno d’amore a far esplodere l’infelicità e il conseguente melodram­ ma, secondo un’inflessibile Legge Patriarcale che investe anche le mo1J. Lacan, Il seminario. Libro IV. La relazione d'oggetto, 1956-1957, Einaudi, To­ rino 1996, p. 66.

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dalità di auto-censura tipiche del cinema classico (e soprattutto del melodramma), per cui il sesso c’è sempre, è sempre presente, ma non si vede mai, non si deve vedere mai. Splendour in the Grass è un incipit: un omaggio ad un autore, Kazan, tra i miei prediletti, e ad un’opera che, oltre a essere tra i miei Bildungsfilm, tra i miei «film di formazione», lo è più in generale. Sono altri invece i melodrammi di cui parlerò, tre film dei pri­ mi anni quaranta che hanno in comune ciò che è il cuore del gene­ re - e che appartiene anche al film di Kazan - la messa in scena di un «amore impossibile»: Waterloo Bridge (Il ponte di Waterloo, 1940), Random Harvest (Prigionieri del passato, 1942), entrambi di Mervyn Le Roy e The Life and Death of Colonel Blimp (Duello a Ber­ lino, 1943) di Michael Powell ed Emeric Pressburger. Il melodramma infatti, soprattutto il melodramma nel cinema insieme alle caratteristiche così ben espresse da Peter Brooks nel suo Eimmaginazione melodrammatica - è spesso la storia di un amore impossibile o di un amore ostacolato, contrastato, struttura narrativa universale che non attiene solo al melodramma, ma informa altri ge­ neri e altri modelli narrativi. La rappresentazione di questo amore «impossibile» gode di almeno due varianti: l’amore è ostacolato da motivi esterni alla coppia, come accade nei due film di LeRoy, oppu­ re da motivi interni, psicologici (orgoglio, incomprensione, nevrosi) o sociali (classe, censo, famiglia, ambiente). Il prototipo di questa se­ conda variante, di una impossibilità dovuta a motivazioni interne, è Pamela (1740), il fortunato romanzo di Samuel Richardson, a cui si è ispirato un prodotto recente di questo tipo di melodramma, Elisa di Rivombrosa (2003-2004), la fiction televisiva diretta da Cinzia Th. Tor­ rini, che ha astutamente mescolato le due varianti (nelle prime pun­ tate l’ostacolo è tutto interno, nelle ultime diventa soprattutto ester­ no, rappresentando così, a sua volta, una terza variante). Il punto cruciale che vorrei sottolineare è che questa struttu­ ra melodrammatica dell’amore impossibile - implacabile nel pro­ vocare e favorire un meccanismo erotico che cattura lo spettatore (e il lettore) in una rete da cui è difficile liberarsi2 - si basa a sua 2 Ragione dell’incredibile successo che ha avuto e continua ad avere e il cui mo­ dello narrativo, risalente appunto a Pamela, è quello dell’uomo potente e affascinante

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volta su una struttura psicologica universale messa in luce dalla psi­ coanalisi. In Contributi alla psicologia della vita amorosa, Freud scrive che sia la frustrazione del godimento sessuale sia la «libertà sessuale illimitata» non portano comunque a un «godimento soddisfacente [...]. È facile constatare che il valore psichico del bisogno d’amore scema immediatamente appena il soddisfacimento è diventato age­ vole» 3. La cesura, il limite, l’impossibilità del godimento completo, hanno a che fare con qualcosa di intrinseco alla sessualità, al fatto che non vi è mai, non vi può mai essere, una coincidenza tra la pri­ ma scelta oggettuale, il primo «rapporto amoroso»4, il cui prototipo è «il lattante attaccato al petto della madre»5, e le scelte oggettuali successive. «Occorre un ostacolo - scrive Freud - per spingere in al­ to la libido e, là ove le resistenze naturali contro il soddisfacimento erotico non bastano, gli uomini hanno in tutti i tempi introdotto re­ sistenze convenzionali per poter godere dell’amore» 6. E Jacques Lacan, portando alle estreme conseguenze l’assunto freudiano, so­ stiene che «il desiderio non può avere alcun oggetto». Il soggetto de­

che si innamora e desidera possedere la fanciulla bella, povera e innocente, secondo una dialettica e una dualità che si esplica nelle coppie attivo-passivo, forte-debole, su­ periore-inferiore, persecutore-vittima. 3 S. Freud, Contributi alla psicologia della vita amorosa, 1910-1917, in Opere, Boringhieri, Torino 1974, vol. VI, p. 429. 4 Ibidem. In Introduzione alla psicoanalisi così Freud si esprime: «Il succhiare al seno materno diventa il punto di partenza dell’intera vita sessuale, il modello inat­ tingibile di ogni successivo soddisfacimento sessuale, al quale la fantasia fa spesso ri­ torno in periodi di privazione. Esso implica il fare del seno materno il primo oggetto della pulsione sessuale. Non so come darvi un’idea di quanto sia importante questo primo oggetto per ogni successivo rinvenimento di oggetto, dei profondi effetti che produce nelle sue trasformazioni e sostituzioni fin nelle zone più remote della nostra vita psichica». In Opere, cit., 1976, voi. Vili, p. 472. 5 S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, in Opere, cit., 1970, vol. IX p. 527: «Quando inizialmente il soddisfacimento sessuale era ancora collegato all’assunzione di cibo, la pulsione sessuale aveva un oggetto sessuale al di fuori del proprio corpo nel petto della madre. Più tardi lo ha perduto, forse proprio nel momento in cui il bambi­ no poteva formarsi la rappresentazione complessiva della persona alla quale apparte­ neva l’organo che gli forniva il soddisfacimento. Allora la pulsione sessuale diventa di regola autoerotica e, solo dopo che l’epoca di latenza è stata superata, si ristabilisce il rapporto originario. Non senza ragione il lattante attaccato al petto della madre è di­ ventato il modello di ogni rapporto amoroso. Il rinvenimento dell’oggetto è propria­ mente una riscoperta». 6 Ibidem.

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siderante non può avere alcuna «relazione d’oggetto», perché l’og­ getto, lungi dall’essere ciò con cui entra in un rapporto di comple­ mentarità o di armonia, non è che la nostalgia per un oggetto man­ cante, perduto. È «il ritrovamento [...] di una ripetizione impossibi­ le, visto che per l’appunto non è lo stesso oggetto, non potrebbe es­ serlo» 7, e ciò che si cerca non coincide mai con ciò che si trova8. Il pieno appagamento non esiste, l’incontro amoroso è sempre un incontro mancato. «Rinuncia e sofferenza»9 non possono venire evitati dal soggetto perché fanno parte della sua stessa natura e del suo sviluppo, e la creazione, nel corso della storia umana, di leggi, di costrizioni e di impedimenti (ad esempio il tabù della verginità), non fa altro che assecondare la natura della libido «che non è favorevole all’attuazione integrale del soddisfacimento»10. D’altronde, come la narratologia ci ha insegnato, tutti i raccon­ ti, tutte le forme della narrazione partono da un manque-, la specifi­ cità dei melodrammi di cui stiamo parlando e della sua necessità psi­ chica è che questa mancanza e quindi questo ostacolo, che danno l’avvio e il senso al racconto, sono sempre amorosi, sentimentali, ses­ suali. Raccontando qualcosa che sposta sempre in là, all’interno del­ la storia d’amore stessa, il soddisfacimento agognato, si coglie la ca­

7J. Lacan, Il seminario. Libro ZV, cit., p. 9- Come scrive Massimo Recalcati: «[...] il desiderio, più che a una soddisfazione, è legato a una mancanza, giustamente preci­ sata da Lacan non come mancanza contingente di qualcosa ma come mancanza strut­ turale, come “mancanza a essere”», in Introduzione alla psicoanalisi contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 21. 8 Scrivono a questo proposito A Di Ciaccia, M. RECALCAn,/#c#wes Lacan, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 193: «[...] Lacan cerca di recuperare il valore fondamenta­ le che Freud ha assegnato all’oggetto perduto come condizione per la strutturazione stessa della soggettività umana. Basti pensare al ruolo che esso gioca nei Tre saggi sul­ la teoria sessuale dove risulta evidente che proprio attorno alla perdita dell’oggetto (seno, feci, fallo) il bambino ordina la costituzione del corpo pulsionale (dove l’ogget­ to è perduto si definiscono, in effetti, le cosiddette zone erogene: orale, anale, fallica) e la sua stessa esperienza della realtà. Nel Seminario IV Lacan ha mostrato nel detta­ glio il carattere strutturale della perdita dell’oggetto nel senso che tale perdita non de­ ve affatto implicare l’idea di un possesso originario (presignifìcante o prelinguistico) dell’oggetto, quanto piuttosto indicare la condizione del desiderio umano come sot­ tomessa a un’impossibilità fondamentale; quella, appunto, di poter ritrovare nella realtà l’oggetto mitico del primo soddisfacimento, di far coincidere ciò che si cerca l’oggetto perduto - con ciò che si trova». 9 S. Freud, Contributi alla psicologia..., cit., p. 431. 10 Ivi, p. 430.

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ratteristica profonda del desiderio sessuale. Come dice Freud, «oc­ corre un ostacolo per spingere in alto la libido» e il melodramma, questo tipo di melodramma, non è altro che un dispositivo, una «re­ sistenza convenzionale», che esplicita e mette in scena ['ostacolo per «poter godere dell’amore». Il melodramma ha il vantaggio di rappresentare questa condi­ zione strutturante del desiderio umano secondo modalità estremamente popolari e accessibili, lavorando, meglio e di più, sugli effetti emotivi ed erotici piuttosto che sul piacere estetico. In un certo sen­ so se lo può permettere, essendoci una così forte motivazione «in­ conscia» alla sua struttura narrativa e potendo quindi coinvolgere lo spettatore grazie al meccanismo in sé, al di là della scrittura; e al di là — nel caso del cinema - della regia, dello stile, della recitazione. Inoltre il dispositivo del melodramma funziona proprio come quello cinematografico: mette in scena la nostalgia, l’anelito verso qualcosa che non è stato posseduto mai, che è stato perduto da sem­ pre. Nel cinema infatti il soggetto-spettatore si identifica in un ogget­ to - le immagini che passano sullo schermo - impossibile, inafferrabi­ le, in un oggetto che non è reale, ma che dà l’impressione di esserlo. Come c’è sempre qualcuno o qualcosa che mette in pericolo la completezza del bambino (ovvero la sua fusione con la madre), ana­ logamente nel cinema questa «impossibile» sensazione di pienezza e di appagamento è fuggevole, apparente ed effìmera, scorre via insie­ me con lo scorrere della pellicola nel proiettore, restaurando una mancanza che rimetterà in gioco il desiderio. Siamo profondamente dentro il film e nello stesso tempo stiamo sempre per perderlo. Nel film, nella sala oscura c’è qualcosa della nostra totalità perduta. Quan­ do siamo dentro il film siamo fuori dalla castrazione e dal limite u. 11 Così scrive C. Metz, Le signifìant imaginable.- psycbanalyse et cinema, U.G.D.E., Paris 1977; trad. it. Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Mar­ silio, Venezia 2006 (1980), pp. 71-72: «La pulsione sessuale non ha col suo “oggetto" un rapporto altrettanto stabile e forte quanto, per esempio, la fame e la sete [...]. I bi­ sogni di autoconservazione non si possono né rimuovere, né sublimare: le pulsioni sessuali sono più labili e più accomodanti, come ripeteva Freud. Esse rimangono inve­ ce sempre più o meno insoddisfatte, anche se hanno raggiunto il loro oggetto [...]. [Il desiderio] non ha, in fondo, alcun oggetto, e, in tutti i casi, nessun oggetto reale; at­ traverso oggetti reali che sono tutti dei sostituti (tanto più numerosi e interscambiabi­ li), insegue un oggetto immaginario (“oggetto perduto”) che è il suo oggetto più vero,

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Parliamo ora dei tre testi che ho scelto per esemplificare que­ sto discorso, dandone, per prima cosa, la trama essenziale. Waterloo Bridge-. Londra 1914, l’improvvisa partenza per il fron­ te impedisce il matrimonio tra il capitano Roy Cronin (Robert Taylor) e la ballerina Myra Lester (Vivien Leigh), che si sono appena cono­ sciuti ma sono già perdutamente innamorati. Credendolo morto e ri­ masta senza lavoro, Myra si prostituisce. Al ritorno inaspettato di Roy non riesce a confessare la sua colpa, ma non oserà sposarlo e si get­ terà sotto un camion militare proprio sul ponte di Waterloo, dove era avvenuto il loro primo incontro. Random Harvest-. Melbridge County Asylum 1918, un giovane ufficiale (Ronald Colman), che ha completamente perso la memoria in guerra, fugge dall’ospedale e viene aiutato da un’attrice, Paula (Greer Garson). La coppia presto si sposa e avrà un bambino, ma un nuovo incidente fa ritornare a Smithy, così era stato ribattezzato da Paula, la memoria precedente e dimenticare quella recente. Ripreso il suo posto nella società, non riconoscerà nella sua segretaria e poi moglie (ma solo formalmente), la sposa del passato, finché, ritorna­ to a Melbridge, riacquisterà integralmente la memoria e riconoscerà la donna amata. Tbe Life and Death of Colonel Blimp-. Berlino 1902, dopo un duel­ lo che li vede contrapposti a difendere l’onore dei loro rispettivi paesi, Clive Candy (Roger Livesey), ufficiale inglese, e Theo KretschmarSchuldorff (Anton Walbrook), ufficiale tedesco, diventano amici per la vita e si innamoreranno della stessa donna, Edith (Deborah Kerr), chie­ sta in moglie da Theo. La giovane donna, sempre uguale a se stessa, ri­ comparirà nella vita di Candy, sotto le vesti di Barbara, che diventerà sua moglie, alla fine della prima guerra mondiale e poi, rimasto vedo­ vo, in quelle di Angela, sua autista durante la seconda. I primi due film, Waterloo Bridge e Random Harvest, oltre a es­ sere diretti dallo stesso regista, Mervyn Le Roy, condividono altri im­ portanti punti: hanno una struttura simile; sono definibili, oltre che come melodrammi anche come women's film, come melodrammi un oggetto che è sempre stato perduto, ed è sempre stato desiderato come tale». Mi permetto anche, di rimandare al primo capitolo del mio libro, Lo schermo dei sogni. Chiavi psicoanalitiche del cinema, Marsilio, Venezia 2004.

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romantici; provengono da un dramma teatrale e da un romanzo, so­ no quindi degli adattamenti; appartengono alla stesso Studio, la Metro Goldwyn Mayer, fatto che in quegli anni è un dato significati­ vo, poiché ogni Studio porta avanti una precisa bouse esthetic. E in­ fine sono due Hollywood's England, mettono cioè in scena un’In­ ghilterra filtrata attraverso l’ottica hollywoodiana. Il terzo film, The Life and Death of Colonel Blimp, non si di­ scosta cronologicamente dagli altri due, è infatti immediatamente successivo, del 1943, ma si diversifica invece per motivi più impor­ tanti, sostanzialmente estetici, poiché rompe i limiti del genere a cui vogliamo riferirlo, siglando così la sua «autentica modernità»12 e pro­ prio per questo è decisiva qui la sua presenza. È un film inglese, non americano, è a colori e non in bianco e nero, è «scritto, prodotto e diretto» da Michael Powell e da Emeric Pressburger, è quindi un film indipendente e originale. Powell, in particolare, (che è il regista, mentre Pressburger aveva il ruolo di sceneggiatore e produttore), è considerato un autore (anche se non dai critici inglesi del suo tem­ po), sia dal punto di vista di una visionarietà stilistica che da quello più strettamente narrativo; Le Roy invece fa parte di quella schiera di ottimi artigiani che neppure la più blanda politique des auteurs ha mai pensato di collocare in un ruolo autoriale13. Mentre il film di Powell e Pressburger è una scoperta che ho fatto al cinema abbastanza recentemente (a Parigi con una copia re­ staurata) e ho potuto poi rivederlo in DVD 14, i primi due film han­ no fatto parte per molto tempo dei miei piaceri inconfessati (e so­ no arrivata da poco ad ammettere che tali piaceri possono diventa­ re oggetto di studio e di ricerca). Ci sono stati alcuni anni, prima

12 Non obbedire «alla separazione dei generi» è un segno di «autentica modernità» scrive T. Todorov, I generi del discorso, La Nuova Italia, Milano 1993 (1978), p. 43. 13 Esiste però, e non è poco, uno splendido saggio di S. Ejzenstejn, Nekrasov nel­ le trincee di Stalingrado (1946), in cui il regista russo mostra una grande ammirazio­ ne per il collega americano. Formulando l’ipotesi che l’opera d’arte manifesta concre­ tamente e poeticamente quelle regolarità e ripetizioni che esistono nella realtà, ma che nella realtà non sono evidenti, fa l’esempio di un film di Le Roy «molto bello», come lo definisce lui stesso. Si tratta di Madame Curie del 1944, sempre con Greer Garson, questa volta nei panni della scienziata francese (di origine polacca). In S. M. EjzenStejn, Stili di regia, a cura di P Montani e A. Cioni, Marsilio, Venezia 1993, PP- 185-23514 È sconsigliabile la visione della videocassetta italiana, massacrata dai tagli.

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dell’avvento della televisione satellitare, in cui questi due film erano presenti con una certa regolarità nella programmazione televisiva (soprattutto delle televisioni commerciali) e io facevo il possibile per vederli ogni volta. È stata finalmente una retrospettiva svoltasi a Parigi, al Centre Pompidou, nel 2000, che mi ha permesso di vede­ re Waterloo Bridge al cinema, in una copia restaurata e in originale (piacere che invece non sono ancora riuscita ad avere per Random Harvest). Ecco quel pomeriggio, in quella sala buia e avvolgente, davanti a quella copia magnifica e a quella proiezione perfetta - a ri­ sarcimento di tutte quelle emissioni televisive che definire «imper­ fette» sarebbe un eufemismo - avrei potuto rimanere chissà per quanto tempo a rivedere quel film, se solo la programmazione me lo avesse permesso. Cercando di interpretare questo piacere profondo, ineludibile e insieme lancinante, ho capito che esso proveniva, e così era anche per l’altro film di Le Roy - oltre che dal fascino della storia e degli at­ tori e dalla perfetta classicità della regia - proprio dal suo punto do­ loroso, quello che in psicoanalisi viene appunto definito l’«oggetto perduto» e che Jacques Lacan ha rielaborato e ridefinito, al suo mo­ do un po’ ermetico, come un enigmatico oggetto a (piccolo). Se è ve­ ro che l’oggetto si costituisce solo attraverso una perdita, per Lacan «l’oggetto a è, allo stesso tempo, l’effetto di questa perdita (è l’og­ getto perduto), ma anche ciò che la tampona, ciò che la compensa»15. È insomma l’investimento nostalgico verso ciò che «resta» della per­ dita originaria dell’oggetto e che si ritrova sempre in autre cbose. Entrambi i due primi film iniziano con una storia d’amore (lui e lei si incontrano e si innamorano) in cui Vostacolo, l’impedimento, è dovuto principalmente alla guerra (per tutti e due i film si tratta della prima guerra mondiale). In Waterloo la guerra impedirà a Myra Lester e a Roy Cronin di sposarsi subito come entrambi avrebbero desiderato. Anche in Random Harvest la guerra rappresenta un osta­ colo, nel senso che il protagonista ha completamente perso la me­ moria a causa di un trauma subito al fronte. Ciononostante, per tut­ te e due le coppie, l’ostacolo viene momentaneamente e apparente­ mente rimosso e possono, per un breve periodo, amarsi. Solo due

15 A. Di Ciaccia, M. Recalcati, Jacques Lacan, cit., p. 196.

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giorni per Myra e Roy, seguiti, dopo un lungo intervallo di sofferen­ ze, da altri due giorni; due anni, tra il 1918 e il 1920 (il tempo di spo­ sarsi e di avere un bambino) per Paula e Smithy Questo ostacolo però - il fronte di guerra per Roy che viene dato per caduto e una nuova amnesia per Smithy - si ripresenterà e porterà i quattro pro­ tagonisti nella situazione di una vera e propria mancanza. Questa mancanza, questa perdita, nel caso di Waterloo Bridge, verrà momentaneamente colmata grazie al ritorno insperato di Roy dal fronte, sano e salvo. Ma il senso di colpa e la vergogna per la vita di prostituzione a cui era stata costretta, inducono Myra - proprio quando è al colmo della felicità, finalmente accolta nel castello avito, amata e desiderata alla vigilia delle nozze - a rinunciare a tutto «per non macchiare l’onore» della famiglia e del reggimento a cui Roy ap­ partiene; permettendo così, nella tipica dialettica tra desiderio e leg­ ge, il trionfo, mortifero, della Legge Patriarcale. Il finale è tragico: Myra scappa e muore, buttandosi sotto una macchina, mentre Roy, impazzito dal dolore, la cercherà invano. «L’ab­ biamo perduta, ci è sfuggita. La cercherò sempre, ma non la troverò», dice Roy di Myra stringendo in mano un piccolo portafortuna da nien­ te, un piccolo oggetto che il protagonista del film tiene tra due dita e che apparteneva a Myra: l’unica cosa che gli resta del suo amore. Anche in Random Harvest l’ostacolo porta a una vera e propria mancanza. Separandosi per la prima volta, perché chiamato a Liverpool dal giornale su cui scrive, un banale incidente di macchina fa ritornare a Smithy la memoria del passato e dimenticare quella re­ cente. Anche lui, come il protagonista di Waterloo, è nobile e ricco e riprenderà il suo posto nella società con il suo vero nome, lord Charles Rainier, magnate dell’acciaio, mentre Paula non saprà più nulla di lui per alcuni, immaginiamo, tristissimi anni (nei quali perde anche il bambino). E se Myra compie l’estremo sacrifìcio come ulti­ mo atto d’amore, anche Paula dovrà sacrificarsi, nascondendo la sua vera identità (un amico psichiatra, lo stesso che aveva conosciuto e curato Smithy al Melbridge County Asylum, le spiega che ogni sfor­ zo di farsi riconoscere sarebbe vano, se non addirittura pericoloso) e offrendosi prima come segretaria, nel momento in cui scopre su un giornale il nuovo nome e ruolo del marito, e infine come moglie, ma solo formalmente.

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Succede quindi anche a Smithy, come a Roy, di aggrapparsi a un piccolo oggetto: una chiave che, al momento del risveglio dopo l’in­ cidente a Liverpool, troverà appesa alla catena dell’orologio e che porterà sempre con sé, toccandola spesso nel vano tentativo di capi­ re «a quale porta» appartenga16. Come il portafortuna di Myra, questi piccoli oggetti reali e banali non sono altro che la materializzazione o l’«esternalizzazione» 17, sia per Roy sia per Smithy, del loro profondo senso di perdita. Per Smithy, fuggito il giorno dell’armistizio dall’ospedale psi­ chiatrico e vagante per le strade di Melbridge, in condizioni che lo apparentano a un lattante - non sa chi è, non parla e non è in grado di badare a se stesso - l’incontro con Paula, che lo salva, è l’incontro con la madre che nutre e con il padre che protegge, un oggetto d’a­ more totale. Il loro, infatti, come può vedere lo spettatore nel breve lasso di tempo che, nel «discorso» del film, è dedicato a questa par­ te della «storia», è un idillio perfetto, un simbolico paradiso. Per Smithy, quindi, la perdita di Paula è tanto più dolorosa, anche per­ ché, non sapendo chi e che cosa ha perso (avendone persa la me­ moria), il suo sentimento di perdita si apparenta ancora di più al­ l’inconscia nostalgia per l’oggetto originario. La chiave è un oggetto (meglio e più che negli altri due film) che può essere paragonato a una particolare accezione di «oggetto perduto» e che Donald Winnicott ha chiamato «oggetto transizionale». Secondo lo psicoanalista inglese tale espressione sta a designare un oggetto materiale (pensiamo al tipico orsacchiotto di peluche, da cui il bambino rifiuta di separarsi) che ha appunto per il bambino un «valore elettivo» e gli permette di effettuare la transizione necessa­ ria dalla prima relazione orale, quella con il seno materno, a una ef­ fettiva relazione oggettuale. Sebbene tale oggetto «sia “posseduto” dal bambino in quanto sostituto del seno, esso non è riconosciuto come facente parte della realtà esterna» ed è destinato a protegger­ lo dall’angoscia di separazione. In quel diffìcile processo di differen­ ziazione tra ciò che è Io e ciò che non lo è, questo oggetto marca il 16 B. McFarlane, Novel to Film. An Introduction to the Theory of Adaptation, Clarendon Press, Oxford 19%, p. 101. 17 Ivi, p. 100.

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passaggio da uno stato in cui il bambino è unito al corpo della ma­ dre a un altro, successivo, «in cui può riconoscere la madre come dif­ ferente da lui e separarsene» 1S. Nei due film di Le Roy l’oggetto perduto, o meglio il suo sosti­ tuto, è rappresentato nello stesso identico modo: un piccolo ogget­ to da niente che assume però per il personaggio il valore metonimi­ co e metaforico di un intero mondo, del grande amore perduto. In Waterloo Bridge, in particolare, essendo un portafortuna che appar­ teneva a Myra e che Myra dona a Roy, ha un valore «totalmente di­ pendente dal modo in cui l’Altro lo offre al soggetto e dal senso che l’Altro attribuisce a questo stesso oggetto. Nel dono d’amore non conta infatti ciò che si dona ma come lo si dona, ovvero in che mo­ do quello che si dona si presta a farsi segno d’amore»18 19. Quei due oggetti apparentemente insignificanti continuano a rappresentare, per i due personaggi maschili, la fonte attiva della lo­ ro disposizione a desiderare. Ciò che resta, per sempre, nella mani nude di Roy è quel niente che si ama dell’altro e che inspiegabil­ mente si fa causa del desiderio: Myra è morta sebbene la causa del desiderio di Roy non lo sia. Ed è per questo che Waterloo Bridge è un film insieme doloroso e consolatorio. Nel film di Powell, che, come dicevo, è un melodramma20 in modo del tutto autonomo e originale, la rappresentazione dell’og­ getto perduto - con splendida invenzione realizzata mediante puri mezzi cinematografici (in un romanzo non avrebbe potuto avere la stessa valenza) - è l’oggetto stesso, è la persona amata e perduta. E questo avviene grazie all’espediente di far interpretare tre diverse fì-

18 Objet transitionnel, voce da E. Roudinesco, M. Plon, Dictionnaire de la psycbanalyse, Fayard, Paris 1997, p. 741. 19 A. Dì Ciaccia, M. Recalcati, Jacques Lacan, cit., pp. 183-184. 20 Tralascio completamente l’aspetto ideologico-politico-militare di Colonel Blimp, sicuramente caduco oggi, ma il cui travisamento, alla sua uscita nelle sale, nel 1943 - in un momento certo diffìcilissimo della storia dell’Inghilterra, impegnata a combattere contro il nazismo - portò molti (tra cui Churchill in prima persona) a giudicare il film «disfattista», troppo incline a presentare positivamente un ufficiale tedesco e a ridicoliz­ zare la casta militare inglese. All’origine Colonel Blimp era un personaggio inventato da David Low per la striscia di fumetti che appariva sull’«Evening Standard» e voleva sim­ bolizzare e ridicolizzare l’ottusità e l’irascibilità di un certo tipo di Englishman upper class.

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gure di donna alia stessa attrice, Deborah Kerr (tra l’altro in quel mo­ mento molto amata dal regista Michael Powell)21. Anche in Random Harvest Greer Garson «recita», in un certo senso, tre parti, però è sempre la stessa persona: Paula, la giovane at­ trice che protegge e salva il soldato Smithy, privo di memoria e di pa­ rola; Miss Hanson, l’efficiente segretaria di colui che viene definito il «principe degli industriali», lord Charles Rainier; e infine lady Rainier quando Charles, apparentemente per convenienza e opportunità (ma lo spettatore sa quanto il desiderio inconscio sia determinante in que­ sta richiesta ufficiale) - dato che un influente membro del Parlamen­ to non può non essere sposato - le chiede di diventare sua moglie, assicurandole un matrimonio solo formale. E mentre la sposa «in bian­ co» si strugge d’amore e di desiderio, lui continua, anche davanti a lei, a gingillarsi con la misteriosa chiave appesa al collo, segno di un’altra costante del melodramma, per cui il grande amore è quello che sta già davanti ai tuoi occhi, che ti sta già vicino, è la donna, o l’uomo, che abita alla porta accanto, un «familiare», un Heimlich sempre irrag­ giungibile, in una delle infinite varianti della contrapposizione-coinci­ denza tra Heimlich e Unheimlich. Tra l’altro, in un parallelismo narrativo particolarmente efficace, anche Paula tiene con sé un piccolo «oggetto perduto»: quando Lord Rainier regalerà a Lady Rainier uno splendido e prezioso collier lei, ritiratasi nella sua stanza, stringerà tra le dita, disperatamente, una collana di nessun valore che Smithy, ai tempi del loro amore, le ave­ va regalato perché uguale «al colore dei suoi occhi». Ciò che è nello stesso tempo avvincente e straziante, in questo film, è proprio il fatto che entrambi i protagonisti, in modo diverso, vivono in una situazione di perdita e di assenza l’uno dall’altra, pur essendo in praesentia e in «unione» l’uno con l’altra.

21 Al dì là di profonde affinità (soprattutto tra i primi due film) e di altrettante profonde diversità (soprattutto tra i primi due film e il terzo, Colonel Blimp), si può ri­ levare ancora in comune nei tre film il fatto che propongono l’oggetto come perduto già quasi in partenza e non alla fine della storia. Lo spettatore sa già fin quasi dall’inizio del film che non potrà risparmiarsi il prezzo che richiede sempre un grande desiderio: e pro­ prio perché sia vissuto come «grande» lo spettatore lo deve avvertire come «impossibile» fin dal principio del racconto. E nella dimensione della rinuncia infatti, nel godere d'in­ soddisfazione che risiede il piacere «lancinante», come dicevo, dello spettatore.

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In modo speculare e contrario a Random Harvest, in Colonel Blimp l’attrice, Deborah Kerr, è la stessa, ma i tre personaggi che in­

terpreta sono tre donne diverse e appartengono a periodi diversi. Mentre i protagonisti - Clive Candy, un ufficiale inglese la cui formi­ dabile stupidità e ingenuità è pari solo alla sua adorabile grazia e gen­ tilezza, e Theo Kretschmar-Schuldorff, un ufficiale tedesco ironico e intelligente - invecchiano, lei riappare sempre giovane e bella, la sua presenza incide in quanto puro significante, il significante «Deborah Kerr», ovvero il significante del desiderio maschile. Le sue tre incar­ nazioni rappresentano «il rinvio infinito da un significante all’altro»22, la «serie interminabile di oggetti sostitutivi»23, la traccia della Cosa per­ duta, importante quindi più come indice e icona di qualcos’altro a cui rimanda e meno per i personaggi che di volta in volta interpreta. Il primo (la scelta d’oggetto «originaria» si potrebbe dire) è quel­ lo di Edith Hunter, la giovane istitutrice inglese che lavora a Berlino e che è allarmata dalla campagna denigratoria contro il suo Paese. Candy, irruento e poco diplomatico, si precipita nella capitale tedesca a difendere l’onore dell’esercito inglese, conoscerà Edith e dovrà af­ frontare in duello Schuldorff, sorteggiato a caso come rappresentan­ te della casta degli ufficiali prussiani. I due rimarranno entrambi feri­ ti, saranno curati nella stessa clinica e accuditi da Edith. Mentre la lo­ ro amicizia si rafforza, si innamoreranno entrambi della giovane don­ na, ma Theo, consapevole del suo amore, chiederà a Edith di spo­ sarlo, mentre Candy si accorgerà di amarla proprio nel momento in cui l’avrà perduta, perfetta esemplificazione di come il desiderio sia causato da un vuoto, dalla mancanza dell’oggetto, e come Edith, nel momento in cui diventa oggetto, oggetto di scelta, sia già perduta, personificando d’ora in poi «la nostalgia, l’anelito, a qualcosa che mai è stato posseduto e che sempre resterà perduto»24. Sedici anni dopo (nel 1918, nel giorno dell’armistizio, altra ana­ logia con Random Harvest), Candy vedrà in un convento una gio­ 22 A. Di Ciaccia, M. Recalcati, Jacques Lacan, cit., p. 178. 23 S. Freud, Contributi alla psicologia..., cit., p. 430. 24 Come scrive G. Ripa di Meana, Modernità dell'inconscio, Astrolabio, Roma 2001, p. 95- È a Gabriella Ripa di Meana e alle discussioni all’interno del Seminario di Psicanalisi (Roma, novembre 2003-giugno 2004) dell’Associazione Nodi Freudiani, da lei condotto, che devo alcuni suggerimenti preziosi per questo lavoro.

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Lucilla Albano

vane infermiera, Barbara, tale e quale a Edith. La cercherà dopo la guerra e la sposerà. Rimasto vedovo, allo scoppio della seconda guerra mondiale, sceglierà come sua autista, fra centinaia, una gio­ vane ausiliaria, anch’essa «sorprendentemente» somigliante a Edith e a Barbara. Ciò che è più emozionante è che la giovane donna viene rico­ nosciuta (in quanto oggetto perduto, quindi in quanto identica al primo amore) alternativamente da uno dei due personaggi maschi­ li, ma mai da entrambi insieme. Quando Candy farà vedere a Theo il ritratto di Barbara, Theo non la riconosce come uguale a Edith (poiché Edith ormai ha i tratti della donna che è invecchiata accan­ to a lui), così come solo Theo riconosce Edith nella giovane ausi­ liaria, Angela, che fa da autista a Candy25. Ma questo per l’appunto non fa che riprendere il Leitmotiv che segna questa storia d’amore fin dall’inizio. Il significante Deborah Kerr diventa così l’oggetto di una sod­ disfazione allucinatoria. Allucinazione appena suggerita nel film dal fatto che, oltre ad essere una persona reale la giovane donna è an­ che un’apparizione (Barbara addormentata nel refettorio del Con­ vento), una rappresentazione (il ritratto di Barbara) e infine una ri­ velazione (Angela che sta guidando nella notte e improvvisamente si gira verso Theo, illuminata dalla luce di un semaforo), in immagi­ ni che assumono la natura di vere e proprie epifanie. Si compie co­ sì nel film il miracolo di far coincidere la visione dei due protagoni­ sti con una realtà apparentemente impossibile, ma che ha trovato una sua strada nella rappresentazione: la perfetta coincidenza tra ciò che si cerca e ciò che si trova26. Sono i due personaggi maschili ad attribuire lo stesso volto della donna amata alle altre donne, sono Candy e Theo che piegano la realtà «ai bisogni dell’immaginazione e 25 La novità e l’originalità del film di Powell da questo punto di vista è assoluta anche rispetto a film posteriori: non è lo stesso ruolo interpretato da attrici diverse (dall’Oscwro oggetto del desiderio di Bunuel alle soap opera), non è un’unica figura scissa (Lost Highway di David Linch), non è il tema del doppio (da Vertigo di Hitchcock a La doppia tuta di Veronica di Kieslowski), non è il «più donne in una», ma è il sog­ getto (i due protagonisti maschili) a determinare l’unicità e l’identità di tre oggetti (di tre donne) diversi. 26 Mi riferisco in particolare al pensiero di Lacan e a quello che ho cercato di chia­ rire nelle note 7 e 8 di questo testo.

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L’amore

impossibile e l’oggetto perduto

agli inganni del ricordo»27 in irripetibili «momenti di grazia», come scrive Bertrand Tavemier28. Se i due film di Le Roy - con perfetta coerenza rispetto alla loro dimensione di cinema medio, di prodotto da Studio - riportano a un andamento lineare e narratologicamente prevedibile, alternativamen­ te con un finale tragico e con un happy ending, il tema dell’amore impossibile e dell’oggetto perduto, per il film di Powell e Pressburger lo scarto è nell’invenzione estetica, nella sua originale liricità. Con forza innovatrice e visionaria Colonel Blimp concretizza il sentimento della perdita e della nostalgia tramite la riproposizione al­ lucinatoria, che permette all’«oggetto perduto» di essere presente pur essendo in realtà assente, e riuscendo così a raccontare, poeticamen­ te, una condizione soggiacente e perenne della soggettività. È proprio Lacan d’altronde a sottolineare il fatto che il soggetto, votato sempre a «un ritorno impossibile», tende a realizzare il «soddisfacimento del principio di piacere» attraverso una «forma più o meno allucinata»29 o comunque irreale, fantastica o onirica, soddisfacimento sempre «tro­ vato e colto altrove rispetto al punto in cui viene cercato»30. Nel melodramma la captatio dello spettatore e soprattutto del­ la spettatrice (della spettatrice romantica), avviene lasciando sempre aperto lo scarto tra un soggetto desiderante e l’oggetto del deside­ rio. L’arte della narrazione consiste nello scandire e nel dilazionare la ricerca e l’inseguimento di quell’oggetto, il cui raggiungimento è continuamente minacciato, impedito, ritardato fino alla fine del rac­ conto. È solo quando soggetto e oggetto si raggiungono, o si ricon­ giungono («e vissero felici e contenti»), che non c’è più nulla da rac­ contare. E infatti quel «e vissero felici e contenti» non lo ha proprio mai raccontato nessuno.

27 E. Martini, Storia del cinema inglese, Marsilio, Venezia 1991, p. 106. 28 B. Tavernier, Blimp, Powell, Pressburger... et la poésie déguisée, in «Posìtif», n. 241, 1981; ora anche in E. Martini (a cura di), Powell & Pressburger, Bergamo Film Meeting 1986, p. 49. 29 J. Lacan, Il seminario, Libro IV, cit., p. 11. 30 Ivi, p. 9-

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PARADIGMA E ANOMALIA MUSICALI IN UN MÈLO CLASSICO:

KORNGOLD E DECEPTION DI IRVING RAPPER di

Mario Tedeschi Turco

L’obiettivo che ci si propone con questo intervento è quello di dimostrare, attraverso l’analisi di un film paradigmatico, l’essenza del melodramma cinematografico (in questo caso, di un prodotto di ge­ nere della scuola classica hollywoodiana) non solo nell’assunzione di un plot determinato, riferito alla prassi del teatro di prosa o a una nuova tradizione cinematografica, ma nella forma organica cinemusi­ cale, laddove la musica, nel suo impiego a un tempo denotativo e connotativo, assuma valenza di elemento strutturale fondante. Ne consegue l’autorialità del musicista in quest’ambito, che diviene (esemplarmente nel caso di Erich Wolfgang Korngold) primo artefi­ ce della forma fìlmica e dunque creatore, a fianco del regista e dello sceneggiatore, di una particolare drammaturgia musicale, che nel film Deception (Il prezzo dell'inganno, 1946) appare a un tempo rappresentativa e autorappresentativa dello stesso processo creativo musicale (e della poetica del suo compositore). In questo doppio ordine di analisi, procederemo nella prima parte di queste pagine in «montaggio parallelo» (tra la biografia arti­ stica del musicista Korngold e la genesi del film Deception} fino a una stretta finale, che tenterà di mettere a fuoco la pura pregnanza audiovisiva del testo fìlmico compiuto.

Ericb Wolfgang Korngold e il «doppio mestiere»: breve storia di un solenne giuramento Correva l’anno 1938, quando Korngold si stabilì definitivamente a Hollywood in seguito 3.WAnschluss, lui ebreo boemo di nascita,

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Viennese d’adozione da sempre \ Aveva peraltro già iniziato a lavora­ re per la Warner Brothers, in qualità di compositore di musiche d’ac­ compagnamento, sin dal 1934, quando Max Reinhardt lo aveva chia­ mato per lo score del suo A Midsummer Night 's Dream (Sogno di una notte di mezza estate, Max Reinhardt e William Dieterle, 1935). Da quell’anno, forte di un contratto assai vantaggioso dal punto di vi­ sta economico, Komgold alternò il suo impegno tra la musica cine­ matografica e il lavoro per l’ultima sua opera teatrale, Die Kathrin, portata a termine nel 1937- Un contratto con l’Opera di Stato di Vien­ na (cui Die Katbrin fu esplicitamente dedicata) ne aveva previsto la première per la stagione 1937-1938, ma appunto a causa della nefa­ sta campagna contro la entartete Musik, tale rappresentazione venne soppressa. L’opera andò quindi in scena per la prima volta il 7 otto­ bre 1939 all’Opera Reale di Stoccolma, senza che il suo autore potes­ se assistervi. Furono quattro anni incandescenti per il compositore: da una parte, il crescente incubo per la propria stessa sopravvivenza; dal­ l’altra, una nuova prospettiva di lavoro artistico, impensata fino a po­ chissimo tempo prima, poteva permettergli non solo la prosperità economica, ma anche, ciò che più risulta significativo in sede di sto­ riografìa musicale e cinematografica, la concezione di una nuova drammaturgia musicale da esperire e sviluppare. Quando, nel 1938 appunto, dopo una fortunosa fuga in Svizzera, Korngold e la sua fa­ miglia potranno definitivamente salpare per gli Stati Uniti, si apre una nuova fase della sua attività creativa, come un’epoca d’oro per la storia del commento musicale cinematografico. Captain Blood (Capitan Blood, Michael Curtiz, 1935), Anthony Adverse (Avorio nero, Mervyn Le Roy, 1936), The Adventures of Robin Hood (La leggenda di Robin Hood, Michael Curtiz e William Keighley, 1938), gli ultimi due premiati anche con l’Academy Award, segnano altrettante tappe fondamentali nella storia della musica ci­ nematografica, della sua estetica generale, nonché della sua caratte­ rizzazione strutturale (tematica, armonica, d’orchestrazione). Assie1 Riguardo alla biografìa di Komgold, il testo di riferimento è B. Carroll, The Last Prodigy. A Biography of Erich Wolfgang Komgold, Amadeus Press, Portland 1997. In lingua italiana, M. Tedeschi Turco, Erich Wolfgang Komgold, Cierre, Verona 1997.

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Paradigma e anomalia musicali

in un mèlo classico. ..

me a Max Steiner, Komgold fu il pioniere dello stile sinfonico carat­ teristico della maggior parte dei film (di tutti i generi) prodotti a Hol­ lywood dagli anni trenta fino, grosso modo, agli anni sessanta (con un significativo revival a partire dalla fine degli anni settanta, sino ai giorni nostri). L’armonia tardoromantica, di stampo straussiano-mahleriano, veniva impiegata per sottolineare l’azione del film in maniera continua, martellante: i Leitmotive della tradizione wagneriana erano utilizzati quale schema di riferimento per il tessuto sinfonico, che po­ teva variarli, riesporli, scomporli e ricomporli a seconda dell’intreccio narrativo e drammatico. Ma fu Komgold, molto più di Steiner, ad ar­ rivare con il suo stile compositivo alla piena maturità di un genere musicale e drammaturgico deliberatamente modellato (e pur rivissu­ to e adattato alla nuova forma) sull’esempio del mèlo romantico. Né, d’altro canto, poteva essere diversamente per un musicista forte del­ l’esperienza non solo di quattro portentosi drammi musicali ma - e il dettaglio deve apparire fondamentale - arrangiatore e direttore mu­ sicale di numerosissime operette classiche del repertorio viennese, nonché compositore di un balletto-pantomima (Der Schneemann, 1908) e di musiche di scena per Molto rumore per nulla (op. 11, 1918) shakespeariano. Da quest’ultimo punto di vista, abbiamo di fronte un compositore che intende trattare la partitura cinematogra­ fica esattamente nello stesso modo di una partitura per il teatro, lad­ dove la prassi di una tradizione, si può dire, succhiata con il latte ma­ terno, è immediatamente declinata, e quindi riconoscibile. Ancora la data fatidica, dunque: 1938. Da quell’anno, Korngold giura di non dedicarsi più alla musica sinfonica, né teatrale o cameri­ stica, sino a che Hitler e il nazismo non saranno cancellati dalla faccia della terra. Solo musica cinematografica, allora: necessaria per la ma­ teriale sopravvivenza, quale lavoro «artigianale», certo, ma anche qua­ le applicazione creativa di una possanza artistica ancora integra, che cerca e trova nella nuova possibilità «scenica» le forme di una com­ posizione musicale colta: l’evoluzione di una tradizione, appunto, vo­ luta e autoconsapevole, l’ultima caratterizzazione di una musica di scena secolare. Il distacco dalla musica classica rappresenta infine un’urgenza di rottura drastica con il passato, con l’Europa tradita, de­ caduta, disumana (e dunque con la sua «voce» musicale ugualmente corrotta), verso un futuro, anche artistico, finalmente rinnovato e fe­

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lice. Un passaggio verso la palingenesi dell’arte musicale, attraverso una forma nuova, che rinnova Videa antica ed eterna della musica. La carriera cinemusicale di Korngold può essere facilmente di­ visa in due fasi: la prima, dal 1934 al 1941, lo vede impegnato quasi esclusivamente in film d’avventura e in costume; la seconda, dal 1942 al 1946, in melodrammi. È naturalmente a questa seconda fase che appartiene il lavoro del Nostro che qui ci preme analizzare.

Il mèlo, Hollywood e il film «musicale» Il melodramma, quale genere cinematografico hollywoodiano, conosce già dai tempi del muto diffusione e successo. Non è compi­ to di queste pagine, ovviamente, ripercorrerne le vicende. Ci basterà ricordare, perché strettamente attinenti con il tema del nostro di­ scorso, la singolare fioritura di mèlo a base biografico-musicale (o semplicemente di «ambiente» musicale) prodotti negli anni ’45-’47: Rhapsody in Blue (Rapsodia in blu, Irving Rapper, 1945), biopic di George Gershwin; A Song to Remember (L'eterna armonia, Charles Vidor, 1945), altro biopic, questa volta dedicato a Chopin; Hinnoresque (Id., Jean Negulesco, 1946), un fiammeggiante mèlo il cui prota­ gonista, John Garfield, è un violinista; The Jolson Story (Al Jolson, Al­ fred E. Green e Joseph H. Lewis, 1946), biopic dedicato ad Al Jolson; Song of Love (Canto d'amore, Clarence Brown, 1947), sulla vita di Schumann, cui si potrebbe aggiungere anche l’inglese The Magic Bow (Un grande amore di Paganini, Bernard Knowles, 1946), che racconta la vita di Paganini, interpretato da Stewart Granger. La mac­ china produttiva degli studios ha individuato un filone efficace, di buon successo popolare: appassionatissime storie d’amore, cui si ag­ giunge la forza espressiva della musica, rappresentata come centrale nel plot, furori romantici, patina storica, un po’ di divulgazione. Vei­ coli ideali per divi e dive. Così accadde anche per Deception. Il regista chiamato a dirigere la produzione Warner, Irving Rapper, possedeva eccellenti credenziali per un film del genere: già direttore dei dialoghi presso la medesima casa di produzione, aveva colto un grande successo proprio come regista di un mèlo con Now, Voyager (Perdutamente tua, 1942), che allinea nel cast, quali prota­

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gonisti, Bette Davis e Paul Henreid, chiamati come star anche in De­ ception. Nel 1945 aveva diretto il già citato Rhapsody in Blue, nel quale aveva mostrato un singolare virtuosismo visivo nelle riprese dei concerti. Aveva inoltre collaborato con Korngold, quale dialogue director, in The Adventures of Robin Hood e Juarez (Il conquista­ tore del Messico, William Dieterle, 1939). L’uomo giusto, quindi, per un altro mèlo-, l’uomo giusto, ancora, per un film «musicale», nel qua­ le liberare la fantasiaflamboyante di ripresa sia per il triangolo amo­ roso, sia per le numerose scene di concerto. Deception è il remake di un film del 1929, Jealousy (Jean de Limur), con Jeanne Eagles e Fredric March, a sua volta tratto dalla piè­ ce teatrale di Louis Vemeuil Monsieur Lamberthier la quale, intitolata appunto Jealousy, era stata ripresa con ottimo successo a Broadway nell’interpretazione di Basil Rathbone e Eugenie Leontovitch. La nuo­ va sceneggiatura viene affidata a John Collier e Joseph Than, i quali decidono di espandere la drammaturgia, creando ex novo un terzo personaggio, che nell’opera di Verneuil non compariva mai sulla sce­ na: nasce così il carattere di Hollenius, il compositore-villain, che verrà interpretato in modo magistrale da Claude Rains. In sede di sce­ neggiatura viene interpellato anche Korngold, il quale partecipa alla stesura del trattamento, dando suggerimenti non solo per la parte specificamente musicale, ma anche per la costruzione del racconto e dei dialoghi. È questo un caso da segnalare come assolutamente sin­ golare, e che naturalmente segna già da subito la qualità musicale del film, che tratta di musicisti, che «racconta» la musica anche grazie al­ l’intervento organico in tutte le fasi della realizzazione da parte di un compositore. Deception, il racconto

Il racconto fìlmico dì Deception si inscrive a pieno titolo nel «co­ dice» melodrammatico dell’amore infelice e ostacolato, degli intrecci amorosi, dei «triangoli», degli amici divisi dall’amore per la stessa donna, della colpa e del peccato, che ricade quasi sempre sulla donna, con le conseguenze tragiche, anche fì-

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no alla morte, della separazione e dell’abbandono, situazione determinante per il funzionamento del melodramma2.

Due amanti divisi dalla guerra, due musicisti, si ritrovano negli Stati Uniti, a guerra conclusa. Christine Radcliffe, pianista (interpre­ tata da Bette Davis), ritrova Karel Novak, violoncellista (interpretato da Paul Henreid), il suo grande amore, che credeva morto in un cam­ po di con centramento. Ma negli anni trascorsi lontano, Christine si è legata a un famoso compositore, Alexander Hollenius (Claude Rains), e non trova il modo per confessare la sua colpa. Nonostante Karel intuisca la verità, Christine gli mente, e i due si sposano. Hol­ lenius si insinua pur tuttavia ancora tra i due, riluttante a lasciare la sua ex amante. Provoca di continuo Karel, gli promette la prima ese­ cuzione del suo nuovo Concerto per violoncello, ma poi lo caccia dalle prove e lo sostituisce con un celtista di fila. Un sottile, sadico gioco di tormento psicologico prosegue lungo il corso della narra­ zione: Karel ammira profondamente il compositore, ma detesta l’uomo; il Concerto viene «restituito» per l’esecuzione pubblica a Ka­ rel, ma Hollenius ricatta moralmente Christine, la quale, al colmo della disperazione, uccide Hollenius immediatamente prima del con­ certo che deve dirigere, e nel quale deve essere eseguito il Concer­ to per violoncello. Christine cancella le tracce dell’omicidio, per far credere che si tratti di suicidio, poi corre al teatro, dove Karel sta ese­ guendo l’ultimo brano di Hollenius. In camerino, al termine dell’e­ secuzione, Christine confessa finalmente la sua colpa, ma riceve il perdono del marito. Il plot, fortemente caratterizzato in senso melodrammatico, ri­ ceve la sua cifra visiva grazie alla fotografia contrastata di Ernest Hal­ ler, in tipico stile post espressionista: ombre incombenti, tagli di lu­ ce obliqui, riflessi sui volti e sui corpi dei personaggi (la pioggia che pare colare sulla schiena di Karel, come fosse sangue, quando prova per la prima volta il Concerto di Hollenius). Oggettualità simboliche (il bicchiere spezzato, la scala, gli specchi, le candele), inquadrature 2 L Albano, Appunti per una filmografia del melodramma nel cinema ameri­ cano, in «Filmcritica», n. 339-340, novembre-dicembre 1983, p. 512. Alcuni spunti so­ no ripresi e rielaborati in L. Albano, La caverna dei giganti. Scritti suirevoluzione del dispositivo cinematografico, Pratiche, Parma 1992, pp. 55-64.

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oblique, montaggio analogico, oppure parcellizzato in un ritmo vor­ ticoso (la sequenza del concerto finale), ogni particolare delle ripre­ se appare deliberatamente sovraccarico, semantizzato fino alla visua­ lizzazione totale. La decisa enfasi visiva rimanda alla tradizione del melodramma-noir (si pensi a Mildred Pierce/Il romanzo di Mildred, Michael Curtiz, 1945, giusto per restare in casa Warner), né d’altron­ de l’inquietudine americana del secondo dopoguerra poteva rima­ nere assente anche dal film di genere. È questa infatti l’epoca in cui il melodramma inizia a utilizzare diffusamente [... ] alcuni portati della cultura psicanalitica. E lo fa a due livelli: un primo livello, più superficiale, at­ tiene strettamente all’evidenza della fabula e dei dialoghi, dove riscontria­ mo una disinvolta, a volte grossolana eccedenza di «senso» psicoanalitico, esibito là dove l’occasione tematica lo permette. Il secondo livello di inci­ denza riguarda la struttura profonda del melodramma: Hollywood crea un sistema di convenzioni cinematografiche che, attraverso una sorta di tradu­ zione simultanea, mette in scena i meccanismi dell’inconscio. Ma questo si­ stema di convenzioni è fittizio e artificiale, non pretende credibilità scientifi­ ca quanto invece impone un’adesione alla macchina cinema, alle sue figure e alle sue autonome leggi. E così la scena si annulla nella scenografia, la fa­ vola assorbe la storia, il trasparente cancella i paesaggi dal vero3.

Deception appare come un film tipico, in questo senso; di alta scuola, con un surplus di finezza nei dialoghi a sfondo musicale, ma comunque facilmente inscrivibile nel filone melodrammatico carat­ teristico dell’epoca. Se non fosse per la musica di Korngold.

Un film di Ericb Wolfgang Korngold: la musica preesistente in funzione diegetica Riannodiamo le fila del discorso: Deception è l’ultimo film di Korngold, girato e musicato dopo la fine della seconda guerra mon­ diale e dopo la sconfitta del nazismo4. Il giuramento, dunque, è sta3 Ivi, pp. 57-58. 4 Deception fu musicato da Korngold dal maggio all’agosto del 1946, anno in cui venne presentato al pubblico anche Of Human Bondage (Schiavo d'amore), di Edmund Goulding, pure musicato da Korngold, ma il cui score era già stato terminato

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to rispettato e ora il compositore può riprendere la propria attività per le sale da concerto. Komgold si mette al lavoro conscio che il film rappresenterà il suo testamento nel genere, e che una nuova fa­ se della sua vita creativa sta per iniziare. Una carica emozionale e poetica straordinaria innerva dunque lo score di Deception', è il film del congedo, per il suo musicista; il film che dice del futuro (la com­ posizione cinemusicale) che è già diventato passato, e del passato (quello della «grande forma») che ritorna (per questo film Korngold scriverà un Concerto per violoncello e orchestra che entrerà nel suo catalogo come op. 37)5. Il plot del film può servire magnificamente all’intenzionalità poetica di Korngold: il passato, impersonato da Ka­ rel, ritorna nel presente di Christine, presa adesso dal futuro (il com­ positore Hollenius). Il dramma di Christine nasce per la scelta ne­ cessaria di un passato, che è ancora carico di un immenso amore, di una immensa nostalgia e di altrettanto dolore. Ma per esplicitare questo tema non sono sufficienti i dialoghi e l’azione, poiché troppo ardua ne sarebbe la caratterizzazione lirica, né d’altronde il testo di partenza appare connotato in modo così profondo: la narrazione de­ ve mantenere il suo passo spedito, la sua atmosfera «nera», la sua spettacolarità. Il tema del passato e della nostalgia è declinato, nel film, esclusivamente dalla musica di commento, ma su questo pun­ to ritorneremo più avanti. Deception è un film a parte, rispetto ai filoni di genere, sia me­ lodrammatico sia latamente «musicale». È un film più colto, più con­ centrato, più sobrio, privo di concessioni volgari, nel parlare di mu­ sica, rispetto alla media dei film, non solo hollywoodiani. La presen­ za sul set e, in generale, nella lavorazione, di un musicista della sta­ ne! 1945- Lo stesso dicasi per Escape Me Never (Non mi sfuggirai), di Peter Godfrey, edito nel 1947 ma musicato da Komgold due anni prima. Nel 1954, Komgold musicò ancora un film, Magic Fire (Fuoco magico), un biopic wagneriano di William Dieterle uscito nel 1956, ma si limitò a selezionare e arrangiare musiche di Wagner, senza scri­ vere nessuna musica originale. 5 Già la composizione di un brano da concerto per un film è certamente cosa anomala, nell’ambito della musica per il cinema. Non mancano ovviamente casi prece­ denti a Deception. In letteratura il caso più citato è l’aria d’opera creata ex novo da Bernard Herrmann per Citizen Kane (Quartopotere, Orson Welles, 1941). Ma occor­ rerà ricordare che lo stesso Korngold, in maniera ben più audace, già nel 1936 aveva composto addirittura un’opera in miniatura (di circa 4 minuti), Romeo and Juliet, per il film Give Us This Night di Alexander Hall.

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tura di Korngold ha certamente impedito quelle brusche virate nel ridicolo involontario che caratterizzano tanti film altrimenti anche si­ gnificativi come A Song to Remember o Humoresque, non solo per la sua diretta partecipazione, ma anche per Paltò valore che egli at­ tribuiva al lavoro del musicista cinematografico: Non è vero che il cinema rimpicciolisca l’espressione musicale. La for­ ma può cambiare, lo stile di scrittura può subire modifiche, ma il composito­ re non deve fare concessioni di alcun genere per ciò che concerne la sua este­ tica musicale. Delle buone partiture sinfoniche possono senz’altro aiutare la ricezione, da parte della massa del pubblico, di musica di buon livello, perché il cinema è una strada maestra verso le orecchie e il cuore del grande pub­ blico, e noi dobbiamo vederla come un’opportunità per l’arte musicale. Anche gli attori... anche loro possono costituire una fonte di ispira­ zione. E stato il caso di Deception, e la mia più grande ispirazione è stata la voce espressiva e le movenze della sua star, Bette Davis6.

Da sempre, in effetti, la musica per il cinema aveva costituito per Komgold una delle applicazioni della sua arte senza etichetta al­ cuna: non un ripiego, non una necessità «alimentare», ma l’estremo confine della Figuralmusik, come della drammaturgia musicale. A maggior ragione, l’ultimo film da lui musicato costituì una sorta di summa della sua arte nell’ambito specifico. Komgold, con il suo score, svolge dunque il tema del rapporto con il passato. Lo fa attraverso una rete di citazioni e autocitazioni palesi o riposte il cui senso, aH’intemo della prassi mélodramatique, cercheremo di esplicitare. Veniamo ai rilievi oggettivi. Il film possiede, quale commento musicale, 32 minuti di musica 7. Di questi, 22 sono musica originale, 6 Citato in B. Carroll, The Last Prodigy, cit., p. 325 (nostra traduzione). Sulla con­ siderazione massima che Korngold riservò alla sua produzione per il cinema, può va­ lere come ulteriore prova il fatto che fu probabilmente il primo compositore a pre­ sentare in concerto (nel giugno del 1938, a Oakland e a San Francisco), accanto a suoi lavori «tradizionali», anche una suite da concerto in quattro movimenti tratta dallo score di un film, precisamente dal Robin Hood di Curtiz (cfr. B. Carroll, The Last Pro­ digy, cit., p. 277). 7 Per lo standard hollywoodiano nel genere melo, e più in generale per Kom­ gold, 32 minuti di musica sono nettamente al di sotto della media. A titolo di esempio, si pensi ai più di 90 minuti di musica per Anthony Adverse, oppure ai più di 70 minu-

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scritta appositamente per il film, e 10 invece appartengono al reper­ torio classico (compreso un brevissimo passaggio affidato a un ar­ rangiamento per violoncello e pianoforte, messo a punto da Korn­ gold stesso, AcWImpromptu in La bemolle minore di Franz Schu­ bert) s. La massiccia presenza di musica preesistente appare ovvia, vi­ sto il contesto narrativo del film, e pur tuttavia la scelta e la sincro­ nizzazione con il narrato meritano una più attenta analisi. È soprattutto a partire dai musicisti della prima generazione ro­ mantica che la citazione, quale prestito melodico esplicito, assume una decisa determinazione concettuale: [...] alla citazione è affidato il compito di veicolare un concetto, trat­ to da un ambito culturale, filosofico o estetico, inteso come serbatoio di contenuti da far rivivere nel presente. Le citazioni dotate di questa funzio­ ne aiutano a percepire l’ideale poetico che sta dietro l’intera composizione in cui sono inserite9.

Nel nostro caso, consideriamo «l’intera composizione» lo score di Korngold, e cerchiamo di interpretare le ragioni delle scelte di ci­ tazione. Gli autori citati sono solo tre: Haydn, Beethoven e Schubert (tralasciamo la breve sequenza in cui viene eseguito il coro nuziale del Lohengrin wagneriano, in curioso arrangiamento jazzistico, in ti per The Adventures ofRobin Hood o The Sea Hawk (Lo sparviero del mare, Michael Curtiz, 1940). Anche per The Constant Nymph (Il fiore che non colsi, Edmund Goul­ ding, 1943) o Between Two Worlds (Tra due mondi, Edward A. Blatt, 1944), entrambi melodrammi, lo score di Korngold va dai 45 minuti del primo agli oltre 60 del secon­ do. Similmente si dica per i mèlo musicati da un Max Steiner (ad esempio il già citato Now, Voyager, che va ben oltre i 60 minuti di musica di accompagnamento). Ma ri­ guardo alla sostanziale economia di commento musicale esterno, si tornerà più oltre. 8 I tempi, cronometrati sull’edizione in VHS (Warner), vanno intesi owiamenti come leggermente approssimati. Il film, nell’edizione menzionata, dura complessiva­ mente 107 minuti. I brani di repertorio utilizzati sono, nell’ordine: Haydn, Concerto n° 2per violoncello e orchestra, in Re maggiore, Hob. Vllb: 2 (terzo movimento: Rondò. Allegro); Schubert, Sinfonia n° 8 ‘Incompiuta’ in Si minore, D. 759 (primo movimen­ to, Allegro Moderato); Beethoven, Sonata n° 23 in Fa minore, op. 57 ‘Appassionata’ (primo movimento, Allegro assai); Schubert, Impromptu n° 4, op. 90 D. 899, Allegret­ to in La bemolle minore (arrangiamento per violoncello e pianoforte di Erich Wolfgang Korngold); Beethoven, Sinfonia n° 7 in La maggiore, op. 92 (secondo movimento, Al­ legretto); Beethoven, Egmont. Ouverture in Fa minore, op. 84. 9 A. Malvano, Voci da lontano. Robert Schumann e l’arte della citazione, EDT De Sono, Torino 2003, p. 11.

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quanto si tratta evidentemente non di una citazione, ma di musica divenuta d’uso). Tre classici, ovviamente, fortemente connotati dal­ l’appartenenza all’Austrìa, a Vienna in particolare (la città di Kom­ gold). Haydn e Beethoven rappresentano l’inizio e la fine della gran­ de Scuola classica; Schubert l’araldo della nuova scuola sinfonica viennese, nata in silenzio parallelamente ai romantici mediotedeschi (Mendelssohn, Schumann, Brahms) e alla scuola dei musicisti «a pro­ gramma» (capeggiati da Liszt). Già Paul Bekker aveva segnalato l’in­ tima diversità della linea sinfonica austriaca rispetto alla tedesca: in Schubert, e poi in Bruckner e Mahler, si fa strada quella Secessione Austriaca, che proprio agli albori del Novecento avrebbe reclamato con forza la propria alterità rispetto alla Germania10. Un movimento ampio e articolato, quello della Secessione, una temperie culturale cui lo stesso giovanissimo Korngold aveva partecipato, forse senza nemmeno rendersene conto11. Giunto a una svolta cruciale della sua attività artistica, Komgold dunque fa i conti con il passato, con il suo passato. La scelta dei mu­ sicisti da utilizzare nella sua musica di commento cinematografica è dunque decisa e connotata: Haydn, il padre della classicità viennese; Beethoven, il titano del rinnovamento musicale, il terzo pilastro del­ la Triade viennese; Schubert, il primo cantore de\VHeimatstiatur au­ striaca, padre fondatore dell’identità musicale romantica della patria di Korngold. La scelta di questi musicisti, fra le decine di altri che si sarebbero potuti utilizzare all’interno di quella trama narrativa, è già decisamente orientata all’autobiografia korngoldiana: citazione co­ me mezzo attraverso il quale poter esprimere con chiarezza i propri ideali estetici e musicali; citazione come nostalgia della patria; cita­ zione come ritorno del passato. La scelta del motivo citato è strettamente connessa al significato che esso riveste nel contesto originale e alla finalità che dovrà assumere all’in­ terno del nuovo. L’operazione porta a una stratificazione di due significati 10 Si fa ovviamente riferimento al classico R Bekker, Die Sinfonie von Beethoven bis Mahler, Schuster, Berlin 1922. Ma cfr. anche Q. Principe, Mahler, Rusconi, Milano 1983 (ora Bompiani, Milano 2003), pp. 25-27. 11 Tratto più diffusamente il tema della Secessione Austriaca in relazione alla mu­ sica nel mio£ricZ> Wolfgang Komgold, cit., pp. 23-26.

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diversi, quello della composizione di partenza e di quella nuova, sui quali il compositore può giocare, assegnando al prestito finalità differenti a secon­ da delle sue esigenze. [...] In una composizione che fa uso di motivi pree­ sistenti, il passato viene arricchito dal presente, venendo sostanzialmente modificato nel suo carattere. [...] La citazione rimanda al contesto da cui proviene, instaurando un confronto da cui sorgono immediatamente sen­ sazioni diverse12.

Il singolare grado di autobiografia artistica presente nella musi­ ca citata da Korngold per Deception è la prima, vistosa anomalia, ri­ spetto alla prassi standard della musica di commento hollywoodiana dell’epoca.

Musica preesistente diegetica in Nel nostro caso, trattandosi di una drammaturgia cinemusicale, «la stratificazione di significati diversi» sarà poi da riferire non solo al­ l’opera musicale del passato più l’opera musicale del presente, ma anche alla narrazione filmica in generale, agli snodi drammatici, alle situazioni psicologiche. La prima citazione musicale appare all’inizio del film, poco do­ po i titoli di testa. È notte, Christine entra in teatro per incontrare Karel, impegnato in un concerto. Ascoltiamo alcune battute del Con­ certo in Re maggiore di Haydn. Uno spettatore, in prima fila, sta se­ guendo il concerto con la partitura. Improvvisamente, assume un’e­ spressione di sorpresa, chiude la partitura e fissa meravigliato il vio­ loncellista, che si è frattanto lanciato in una cadenza modernista de­ cisamente fuori stile, aspra, fortemente sincopata, dissonante. Il con­ certo ha poi termine. Korngold espone già da subito la sua intenzionalità espressiva: dal corpo del Concerto di Haydn estrae una cadenza scritta ex novo, nel suo caratteristico stile cromatico, violentemente ritmato, di straordinario virtuosismo. L’effetto sull’ascoltatore nella fiction è lo 12 A. Maivano, Voci da lontano..., cit., pp. 7-8, ma l’autore sintetizza le conside­ razioni riguardo al borrowing contenute in L. Meyer, Music, the Arts, and Ideas, Uni­ versity of Chicago Press, Chicago 1967, pp. 199 sgg.

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stesso che ha sull’ascoltatore reale: un innesto brusco, una dialetti­ ca di contrasto deliberata; all’interno dello stesso brano musicale si fa strada una drammaticità tutta interiore, una rabbia, diresti, pur trattenuta e composta. Due stili diversi, a confronto: il Classico e il Moderno. Il particolare - sarà chiaro solo al termine del film - che lo stile di scrittura di questa cadenza sia in tutto e per tutto lo stes­ so del Concerto di Hollenius dona alla sequenza un apporto di sen­ so che la narrazione non possiede a un tale di livello di profondità: Karel Novak è come se avessegtò dentro di sé Hollenius, che entrerà in scena solo successivamente. I due personaggi si esprimono, mu­ sicalmente, nello stesso modo, hanno qualcosa che li lega a un livel­ lo profondo. Subito dopo il concerto, del resto, Karel Novak, interpellato da un critico musicale, si esprime così riguardo alle sue preferenze mu­ sicali nell’ambito contemporaneo: «Stravinsky when I think of the present, Richard Strauss when I think of the past. And of course Hol­ lenius, who combines the rhythm of today with the melody of yesterday» 13. Il presente e il passato, in questa significativa battuta, certamente da attribuirsi al contributo korngoldiano allo script, data la evidente connotazione autobiografica (Strauss e Stravinsky erano effettivamente i punti di riferimento imprescindibili per lo stile di Korngold, e Hollenius, come compositore, è con ogni evidenza Komgold stesso), vengono esplicitamente chiamati nel testo, quale orien­ tamento essenziale alla ricezione della drammaturgia musicale dell’o­ pera. Siamo all’inizio della vicenda, alla presentazione di uno dei pro­ tagonisti «fisici» (Karel), e della protagonista «occulta»: la musica. Una seconda sequenza con imprestito esplicitato è quella della festa a casa di Christine. Anche Hollenius interviene, ospite inatteso e «problematico». Christine si mette al pianoforte per suonare: «Cho­ pin!», chiede Hollenius, ma Christine inizia a suonare VAppassionata di Beethoven14. Di nuovo, una sequenza orchestrata sul brano musi­ cale preesistente, i volti di Christine e Hollenius raddoppiati dal rifles-

13 «Richard Strauss quando penso al passato, Stravinsky quando penso al presente. E ovviamente Hollenius, che compone insieme il ritmo di oggi con la melodia di ieri». 14 A titolo di curiosità, il pianista che «doppia» Bette Davis è il grande Shura Cherkassky.

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so sul pianoforte, il montaggio rapido a scrutare volti ed espressioni eloquenti. Il timbro oscuro dell’attacco delTQp. 57, con la sua cellula ritmica di quattro note ripetuta nei due temi d’apertura, connota la Stimmung altamente drammatica della sequenza. Una tempesta che sta per scatenarsi, evocata dalla musica (ma non ancora dalla narra­ zione!), voluta da Christine contro l’invito di Hollenius ad uno Chopin certo più «da salon». E il tema «del Destino» figurato dal basso ritmi­ co, unitamente all’amalgama tra il registro grave e medio del pia­ noforte, sbalza in un modo che diresti plastico la drammaticità inter­ na della sequenza, fino al climax del bicchiere infranto da Hollenius. In entrambe le sequenze citate, lo sfruttamento delle funzioni espressive della musica preesistente, utilizzata quale «musique d’écran»15, rende il racconto fìlmico come raddoppiato nella sua valen­ za drammaturgica. Il Beethoven deWAppassionata, come lo Haydn rivisitato in senso modernista, funzionano nel senso di una fecaliz­ zazione interna sul narrato; la scelta perentoria di Christine è fun­ zionale ad una propria segreta o riposta volontà di «confessione», co­ sì che la musica possa esplicitare ciò che le parole non hanno anco­ ra potuto palesare16.

Musica preesistente diegetica off Anche in questo caso, due sequenze altamente significative pos­ sono illustrare l’esemplarità mélodramatique delle funzioni espressi­ ve della citazione musicale, applicata alla nuova drammaturgia fìlmica. Il primo incontro tra i due amanti ritrovati, Karel e Christine, avviene nel camerino del teatro, dove si è appena tenuta l’esecu­ 15 «Chiameremo musica da schermo [musique d'écran\ [...] quella [musica] che proviene da una sorgente [sonora] situata direttamente o indirettamente nel luogo e nel tempo dell’azione» (M. Chion, L'audio-vision, Nathan, Paris 1990; trad. it. L'audiovisione, Lindau, Torino 2001, p. 73). 16 Si potrebbe dunque parlare, sulla scorta delle riflessioni teoriche di Sergio Mi­ celi, di «livello mediato», vale a dire di un livello di commento musicale intermedio tra l’esterno e l’interno (cfr. S. Miceli, Analizzare la musica per il film. Una riproposta della teoria dei livelli, in «Rivista Italiana di Musicologia», n. 2, 1994, pp. 517-544, poi rivisto e ampliato nel suo volume Musica e cinema nella cultura del Novecento, San­ soni, Firenze 2000, pp. 329-384).

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zione del Concerto di Haydn. La scena propone il dialogo tra i due personaggi, chiusi nella stanza, ma nel frattempo il concerto del­ l’orchestra sta proseguendo. L’accompagnamento diegetico off, in questo caso, propone le battute iniziali della Sinfonia Incompiuta di Schubert. Mentre il dialogo romantico si sviluppa nella sorpresa e nella gioia del ritrovarsi, la voce orchestrale declina le volute av­ volgenti del primo tema della Sinfonia schubertiana, la musica for­ se più tragica della prima generazione romantica. Il senso stesso della scena ne viene quasi capovolto, come in una sorta di straniamento, laddove il dialogo felice e appassionato viene contraddetto dalla pulsazione profonda del brano musicale, del resto in linea con l’elemento simbolico dello specchio, che raddoppia i volti dei per­ sonaggi, contribuendo all’ulteriore intensificazione dell’ambiguità della situazione drammatica. Una fecalizzazione zero, si direbbe, grazie alla quale la voce dell’autore (la musica off) commenterebbe lo svolgersi della scena, così come avviene normalmente nel mèlo teatrale (e nel cinema in generale), attraverso la «musique de fos­ se» 17. Ma il tratto audacemente caratteristico della scelta di Korn­ gold e Rapper è esattamente nell’ambivalenza della caratterizzazio­ ne drammaturgico-musicale: l’Incompiuta funziona come musique de fosse, ma in realtà è musique d’écran. Come nella sequenza delVAppassionata, siamo in presenza di una utilizzazione sottilmente poetica della musica di commento, la quale si incarica di indirizza­ re la nostra percezione al di là della narrazione, verso un senso ul­ teriore, riposto, verso una maggiore pregnanza significante. Quan­ do Christine e Karel escono dal teatro, in esterno notte, una banda suona una marcia tronfia, volgare, martellante: il contrasto tra lo Schubert dell’interno e la musica corriva dell’esterno è poi un’an­ ticipazione di una costante drammaturgica di tutto il film, dove gli esterni sono costantemente bui, piovosi, «pericolosi»: la realtà del­ l’America urbana si oppone agli interni «europei», peraltro ugual­ mente drammatici. 17 «Chiameremo musica da buca \musique deybsse] quella che accompagna l’im­ magine da una posizione off, al di fuori del tempo e del luogo dell’azione. Questo ter­ mine fa riferimento alla buca dell’orchestra dell’opera classica» (M. Chion, L'audio-vision, cit., p. 73).

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Lo stesso indirizzo espressivo notato con Schubert (ma con si­ gnificato diverso, di intensificazione espressiva, e non di contrappun­ to perturbante) è presente nella scena di dialogo tra Hollenius e Christine quando, dopo il litigio tra il compositore e Karel durante le prove del Concerto per violoncello, i due parlano nei corridoi del tea­ tro, mentre l’orchestra sta provando 1’Allegretto della Settima Sinfonia di Beethoven. La musica dalla Stimmung più insondabile dell’Occidente quale tappeto sonoro per un dialogo, ancora una volta, segnato dall’inespresso, dal non-detto, dalla tensione, anche erotica, occultata. In questo caso, Beethoven serve, verrebbe da dire con qualche libertà, come «correlativo oggettivo»: ciò che unisce Hollenius e Christine è oscuro e ineffabile esattamente come VAllegretto beethoveniano. In modo simile, ma questa volta utilizzando la musica anche per il suo carattere referenziale extra musicale, in quanto riferita a un precedente testo drammatico, al termine del trionfale concerto, Karel e Christine si riabbracciano, mentre dalla sala cominciamo a sentire le battute introduttive AeWEgmont di Beethoven. Il trionfo dell’interprete è sancito, Hollenius è morto; i due sposi si possono dunque ricongiungere definitivamente, mentre proprio il «livello me­ diato» della musica può far risuonare le battute iniziali Ouvertu­ re, con gli altri accordi in Fa minore degli archi, icona della forza bru­ ta della tirannide, poi sconfitta dall’eroe, in modo che la percezione estetica possa suggerire, amplificandolo, il senso della libertà dal­ l’oppressione che la grande opera beethoveniana esalta. Libertà dal­ l’oppressione, appunto, ciò che nel finale del film Karel e Christine possono ottenere, pagando, come l’eroe di Goethe, il prezzo della loro scelta. L’abbraccio appassionato dei due, abbinato al commento musicale invece oscuro, terreo, tragico di Beethoven, appare una so­ luzione drammaturgico-musicale, ancora una volta, decisamente au­ dace, e sottilmente poetica.

Musica origliale diegetica in Il livello interno dello score originale, come già accennato, è oc­ cupato da un Concerto per violoncello e orchestra scritto apposita­ mente per il film e successivamente ampliato e rivisto per le sale da

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concerto. Il rapporto tra Novak e Hollenius è sintetizzato, narrativamente, nelle vicende della composizione e poi dell’esecuzione del Concerto, tanto che il brano stesso in questione assume una tale va­ lenza strutturale, da poter essere definito esso stesso dramatis per­ sona, nel senso che nella drammaturgia, nella narrazione e nella fi­ gurazione stessa «la musica entra fisicamente [...] come personag­ gio divenendo componente poliespressiva e quindi polisemantica»18. Nel narrato, Hollenius si serve della sua composizione per un gioco sadico nei confronti del rivale: chiede a Novak di interpretarlo assie­ me a lui in concerto, gliene dona la partitura, ma durante le prove non perde l’occasione per criticarne l’esecuzione, arrivando perfino a sostituire il solista con un violoncellista di fila. Il rapporto di odioamore tra i due è teso fino allo spasimo nelle varie scene, in cui la gelosia di Novak si scontra con il raggelante distacco di Hollenius. La prima volta che nello score sentiamo il Concerto per violon­ cello è Hollenius che ne prova il tema principale al pianoforte, all’i­ nizio della sequenza nella casa del compositore, durante la quale vie­ ne ufficialmente sancito il sodalizio artistico tra l’artefice e l’interpre­ te. Al termine della stessa sequenza, Hollenius percuote quasi, rab­ biosamente, il pianoforte, nell’esecuzione del tema: segue una dis­ solvenza in chiusura. La sequenza successiva si apre con Novak, solo a casa, nel suo studio, che prova la parte solistica del Concerto, le no­ te iniziali vengono eseguite off, mentre Christine, con aria inquieta, sale le scale, turbata da ciò che sente. Il coup de musique rivelatore19, il «livello mediato» attraverso il quale la musica diegetica si fa rivela­ trice del senso, dell’emozione, del sentimento, è qui utilizzato con si­ gnificativa pregnanza: il dramma di Christine ne viene enfatizzato, nel­ l’istante esatto in cui ella si rende conto della «sovrapposizione» tra la 18 S. Miceli,Musica e cinema..., cit., p. 409, a proposito della musica di Nino Ro­ ta nel cinema di Federico Fellini. 19 L’espressione coup de musique designa «la realizzazione con mezzi musicali del­ la peripeteia (rovesciamento)» aristotelica. Dunque, un intervento musicale drammatur­ gicamente attivo che «provoca un vero e proprio colpo di scena, un brusco mutamento nel corso dell’azione». «Questa inedita pregnanza drammaturgica della “musica di scena” [ossia diegetica], segnerà profondamente il nuovo corso dell’opera ottocentesca, ma verrà in particolare elaborata ed enfatizzata nel [...] mélodrame». Così E. Sala, The mes­ sage? It's a tune. Per una drammaturgia del «suono rivelatore» e del «coup de musi­ que» dal mé\oal cinema, in «Musica/Realtà», n. 74, luglio 2004, pp. 36-37.

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musica composta dall’amante e suonata dal marito. Il dissidio è ora insanabile, il groviglio emozionale inestricabile, nell’unione inscindi­ bile tra il passato e il presente. Il dialogo immediatamente successivo non può che confermare il climax drammaturgico conseguito. Del re­ sto, pochi minuti dopo, coglieremo Christine assorta, sola in casa, presa dai suoi pensieri, mentre l’accompagnamento musicale (extradiegetico, questa volta) fa ancora risuonare il primo tema del Con­ certo: il fatto poi che l’esposizione sia affidata non solo al violoncello (Novak), ma anche al pianoforte (Hollenius), non fa che aumentare la forte ambiguità della scena. Durante una prova particolarmente agitata, Hollenius si diverte a far eseguire ripetutamente al flautista dell’orchestra il suo inter­ vento solistico, fino a far infuriare Novak, che viene dunque cacciato dal teatro20. La cacofonia prodotta dal tema del flauto fuori tempo, con il violoncello in contrappunto alla coda del suo intervento, espli­ cita, ancora una volta, e in maniera sin troppo palese, la tensione in­ teriore, spasmodica, della situazione narrativa21. Finalmente, l’esecuzione del Concerto, fino a quel momento annunciata, provata, elusa, ripresa, ha luogo22. La sequenza dura in tutto 4 minuti e 6 secondi; è composta da 66 inquadrature in mon­ taggio alternato; gli angoli di ripresa utilizzati sono 32. L’estremo fra­ zionamento della sequenza, la rapidità dell’incalzare ritmico del montaggio cercano e trovano la stessa irruenza, lo stesso furore che appartiene alla scansione agogica del brano eseguito. La dialettica in­ terna del brano, in un solo movimento, si propone immediatamen­ te come una sintesi folgorante del racconto fìlmico: più che l’evi­ dente struttura tripartita (Allegro moderato, ma con fuoco - Canta­ 20 «Il dialogo durante la prova e il momento in cui il flautista non riesce a tenere il tempo staccato dalla bacchetta di Hollenius è stato interamente scritto da Korngold, e gli errori ripetuti dal flauto solo sono scritti nella partitura dello score» (B. Carroll, The Last Prodigy, cit., pp. 324-325; nostra traduzione). 21 Questo passaggio del Concerto non viene poi ripreso nell’esecuzione del film, ma appare solo nella versione definitiva, alle battute 113-116. 22 L’organico richiesto per il Concerto è cospicuo, del resto in linea con lo stile del suo autore: 2 flauti (più un flauto piccolo), 2 oboi (più corno inglese), 2 clarinetti in Si bemolle, 1 clarinetto basso in Si bemolle, 2 fagotti (più un controfagotto), 2 cor­ ni in Fa, 2 trombe in Si bemolle, 2 tromboni, 1 tuba, timpani, percussioni (per 2 ese­ cutori: grancassa, cembalo, gong, vibrafono, xilofono, campane, marimba), arpa, cele­ sta, pianoforte, archi.

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bile - Grandioso, ciò che replica schematicamente il «triangolo» drammaturgico, con ripetizione del primo tema, fugato, cadenza e fi­ nale vorticoso concitatissimo e risolutore)23, preme sottolineare (do­ po l’apertura accordale che passa da Do minore a La bemolle mag­ giore, a Fa maggiore, a La maggiore, e infine alla tonalità d’impianto, Do maggiore: come una progressiva «ricerca» di definizione, secon­ do uno stilema tipico di Korngold 24, con l’arco melodico conse­ guente nella risoluzione di Do minore alla relativa maggiore25, nella stessa polarità che caratterizzerà il primo tema) la qualità espressiva e «narrativa» della dialettica motivica. L’ambiguità del primo tema, in­ fatti (es. 1), che oscilla tra Do maggiore e Do minore appunto, pare suggerire una sorta di icona sonora di Novak (le inquadrature relati­ ve sono quasi sempre sul suo volto, d’altra parte), che lascia il posto al secondo tema, bipartito, Cantabile (battute 30-48) e Tranquillo (battute 49-54) (es. 2), invece limpidamente diatonico, che modula alla dominante di Sol maggiore. L’acceso pathos del motivo, natural­ mente, è sincronizzato con l’entrata di Christine nel teatro, off, e si sviluppa poi nel montaggio alternato del suo volto con quello di No­ vak, sottolineando l’identità del Cantabile con l’amore tra i due. Nel­ la cadenza del solista, ultra virtuosistica, tesa allo spasimo, come im­ pazzita nelle sue terzine sulle doppie corde, nel precipitando, nei numerosi sforzato, nella cascata cromatica, sempre stringendo fino al trillo finale sul Re diesis, non sarà quindi diffìcile scorgere la gelo­ sia sadica e irrazionale di Hollenius (es. 3), visti anche gli eloquenti primi piani di Christine corrispondenti nel montaggio. Il «Grandio23 Rispetto all’edizione a stampa definitiva del Concerto per violoncello, op. 37, la versione eseguita nel film viene accorciata drasticamente. Facendo riferimento allo spartito per violoncello e pianoforte (Schott, Mainz 1950), che consta di 220 battute, l’esecuzione del film equivale, grosso modo, alle battute 1-88, [89-184], 185-220, con espunzioni interne varie. Il risultato è la riduzione a poco più di metà, rispetto all’Qp. 37, che presenta peraltro lo stesso arco espressivo, nella scansione dei movimenti: Al­ legro moderato, ma con fuoco - Lento - Grandioso. Nel film, dunque, non è presente il Lento, una parte del quale (per complessivi 2 minuti circa) è peraltro possibile ascol­ tare nella sequenza della prova (da battuta 98 a battuta 116). 24 Si veda, al proposito, il tema accordale che apre il capolavoro teatrale di Korn­ gold, Das Wunder der Heliane, che passa attraverso Fa diesis maggiore, La maggiore con Re minore, Si maggiore, La maggiore con Re minore, Fa diesis maggiore, Re mi­ nore, Mi bemolle maggiore con La bemolle maggiore, Fa minore che risolve in Mi be­ molle maggiore. 25 Nella versione eseguita nel film è stata espunta la prima battuta.

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so» finale suggella il Concerto, con la ricapitolazione dei due temi principali, e la risoluzione finale sull’accordo perfetto di Do maggio­ re. Nei poco più di 4 minuti di esecuzione, Korngold condensa tut­ ta l’azione, nei suoi «movimenti interiori» fondamentali, nella sua ca­ ratterizzazione psicologica ed emozionale.

Musica originale extradiegetica: rautocitazione La composizione del Concerto per violoncello costituisce il nu­ cleo fondante di tutto lo score komgoldiano. Il resto della musica originale presente nel film si riduce a un lungo tema d’amore, più volte proposto nel corso della narrazione, e ad alcuni interventi pu­ ramente funzionali, costituiti dai molti topoi musical-drammatici ca­ ratteristici del genere (effetti timbrici di barmonie, tremoli, pedali

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insistiti, formule iterative). Da questo punto di vista, è da segnalare in particolare il «tappeto» sonoro oscuro, affidato a celli e contrab­ bassi, con raggiunta della celesta e degli armonici dei violini e del­ le viole, nella sequenza dell’omicidio di Hollenius. I tremoli iterati e il lunghissimo pedale conclusivo, cui si aggiungono, dopo la morte di Hollenius, l’effetto di mickey mousing che accompagna le esita­ zioni di Christine, la quale dispone gli oggetti dell’arredamento per nascondere le sue tracce e simulare un suicidio, appartengono di diritto alla più paradigmatica connotazione della musica per il mè­ lo. Ma è altresì da notare (come del resto è già testimoniato dai tem­ pi riportati più sopra) la sobrietà di intervento musicale: i dialoghi restano quasi sempre privi di commento, e la drammaturgia com­ plessiva ne viene raffreddata, fino alla composizione di intere scene di Kammerspiel, più che di melodramma, in una narrazione com­ plessivamente assai più rigorosa della media della produzione di ge­ nere contemporanea. Il melos acceso del motivo d’amore, utilizzato en bloc secondo l’evidenza degli accadimenti, appartiene allo stile più tipico non solo della musica del suo autore, ma più in generale della tradizione mélodramatique, come tale ripresa da tutta la scuola hollywoodiana, ed è quindi assolutamente paradigmatico. Ma anche in questo caso sarà opportuno notare come la coda del tema sia costituita da un’autocitazione: si tratta della sezione finale del tema del richiamo dei filibu­ stieri del Captain Blood (es. 4a), un inciso «ondulatorio», basato qui sugli intervalli melodici di sesta e settima maggiore ascendenti, risolti dalla terza maggiore ascendente (es. 4b). L’esposizione di questa se­ zione tematica è quella che conclude il film, costituendo dunque il suggello definitivo di Deception, come dell’intera carriera musicale-cinematografica di Komgold. In un commento musicale così connota­ to dall’imprestito colto, dalla citazione esplicitata, questa autocitazio­ ne nel commento extradiegetico appare come l’ultima, poetica, ano­ malia del tessuto musicale. Una firma autografa, si direbbe, e, ancora di più, un tentativo di affermare la dignità assoluta della musica cine­ matografica, al fianco dei classici: in Deception vengono utilizzate le musiche preesistenti di Haydn, Beethoven, Schubert, e di Komgold stesso, ultimo rappresentante di un passato musicale consegnato alla Storia, di una Tradizione cui il musicista reclama d’appartenere, dopo

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l’orrore della guerra, del nazismo e della persecuzione. Un Passato cui può ora ricongiungersi, e che può ora proseguire nel Presente. Per questo, attraverso Fautoritazione dal Captain Blood, Korn­ gold intende terminare la sua carriera di musicista per il cinema con la stessa musica che l’aveva inaugurata26. Un caso realmente singo­ lare, anomalo ancora, di autoconsapevolezza autoriale da parte di un compositore, chiamato a lavorare da una Major nell’ambito dei ge­ neri «popolari» del cinema: la musica di Korngold per Deception, di­ versamente da quanto accade di norma nel mèlo, si fa ascoltare co­ me musica, di più, innerva la narrazione filmica, pervadendola a un livello di profondità espressiva superiore, fino a un grado di signifi­ cazione drammaturgica tra le più raffinate e complesse del cinema americano classico.

26 Come già ricordato, il primo incarico cinematografico per Korngold fu A Mid­ summer Nigbfs Dream (1934) di Reinhardt e Dieterle, ma per quel film il composito­ re si limitò ad arrangiare musiche preesistenti (di Mendelssohn). Similmente, nel 1954 Korngold lavorò ancora per il cinema, per il biopic wagneriano Magic Fire di William Dieterie, ma anche in questo caso non compose alcuna musica originale, limitandosi a selezionare e arrangiare la musica di Wagner.

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Je tratterai ici de ce qui m’est familier, c’est à dire des cinématographies occidentales et plus particulièrement de l’américaine, de la britannique et de l’italienne. D’autres cinématographies, asiatiques et orientales, dont le mélodrame est la moelle thématique, comme l’indienne, l’égyptienne, la coréenne ou la japonaise, représentent des cas trop complexes pour ètre pris en considération dans l’espace limité de la présente communication autrement que de manière périphérique. La période 1945-1955 doit ètre considérée à bien des égards comme une manière d’àge d’or du mélodrame pour le cinéma occi­ dental. Les exemples que fai choisis appartiennent à trois des plus riches filons expressifs et thématiques que le mèlo ait connu. Le mélodrame britannique en costume, constitué autour des succès de la compagnie Gainsborough \ le mélodrame féminin hollywoodien qui va culminer à la fin de la période avec les chefs-d’oeuvre de Dou­ glas Sirk; le mélodrame populaire italien dont les films de Raffaello Matarazzo foumirent le modèle.

Pour canaliser la douleur Comme si la plaie encore béante du conflit mondial avait créé chez le spectateur occidental un besoin de revenir sur la souffrance que chacun, à des degrés divers, venait de vivie, le cinéma de l’immédiat après-guerre est marqué par une inspiration douloureuse, 1 Voir à ce sujet, entre autres, S. Harper, Historical Pleasures: Gainsborough Cos­ tume Melodrama, dans C. Gledhill (éd.), Home Is Where the Heart Is. Studies in Melo­ drama and the Woman's Film, BFI Publishing, London 1987.

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doloriste meme, ou franchement masochiste dont, par exemple, le néo-réalisme en Italie, le film noir à Hollywood ou les nouvelles formes de réalisme qui s’épanouissent en Angleterre, avec certains films de David Lean (Brief Encounter, 1945), de Carol Reed (The Fallen Idol, 1948, ou Odd Man Out, 1947) ou de Robert Hamer (It Always Rains on Sunday, 1947), et en France, avec Yves Allégret (Dédée d'Anvers, 1948; Une si jolie petite plage, 1949) et surtout Henri-Georges Clouzot (Quai des Orfèvres, 1947; Manon, 1948), sont les signes tangibles. Le cinema, expression populaire, est intimement associò à ce processus de cicatrisation. Une fois de plus, le role catalyseur du plus spontané des genres, le mèlo, permet, entre autres, de faire changer de registre à la douleur: du physique, elle passe au moral; du vécu, elle passe au contemplé. Il permet également de transferer la douleur vécue dans des directions fictionnelles qui permettent de la surmonter. Pour 1’essentiel, la douleur engendrée par la guerre toume autour de la perte et du deuil. Le néo-réalisme, transfert cinématographique direct, presque brut, de cette douleur, en est sans doute l’exemple le plus frappane Si symptomatique quìi créa des «néo-réalismes» à son imitation, un peu partout, au Japon comme en Angle­ terre, aux États-Unis comme en France. Mais, si révélateurs qu’ils soient, ces néo-réalismes ne touchèrent pour l’essentiel qu’une frange intellectuelle et engagée du public. Les spectateurs dans leur ensemble ne les acceptèrent que ré-agencés à l’intérieur de formes familières, romanesques et spectaculaires. Il va appartenir, consciemment ou inconsciemment, au mèlo cinématographique de réinterpréter cet état d’esprit et cette esthétique. L’Italie, à travers, à des niveaux différents, des cinéastes comme Giuseppe De Santis et Raf­ faello Matarazzo, va forger une forme de mélodrame dont l’aména­ gement des données néo-réalistes est l’une des caractéristiques. Mais chaque cinématographie aura sa reaction propre. Le mèlo britannique ignorerà ce nouveau réalisme et va, quant à lui, adopter une attitude regressive. Est-ce un reflet de sa position insulaire? Il va replonger aux sources littéraires romantiques et post-romantiques en proposant une étourdissante sèrie de variations sur les canevas empruntés à Charlotte et Emily Brente, à Charles Dickens ou à Wilkie Collins. Meme quand David Lean abordera le mèlo de front, fut-ce

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dans un decor contemporain, avec Tbe Passionate Friends (1949), il adoptera une forme lyrique et maniériste assez proche de celle des mélodrames en costumes de la Gainsborough 2. Hollywood va atteindre l’expression stylistique la plus raffinée, proche de l’abstraction, en méme temps qu’elle va aborder un fond de plus en plus cri­ tique, voire nettement polémique : alors que l’esthétique néo-réaliste ronge des films criminels comme The Naked City (1948) de Jules Dassin ou Cry of the City (1948) de Robert Siodmak, des réalisateurs comme Douglas Sirk, Vincente Minnelli ou Nicholas Ray mettront un terme à cet àge d’or du mèlo en un bouquet éclatant et baroque. On constate cependant que, dans tous les cas, la douleur, telle que le mèlo cinématographique la reinterprete, va déboucher sur un retour à la norme. Plus que jamais, l’un des schémas dramatiques favoris du mèlo est mis à contribution : ordre/chaos/retour à l’ordre.

Eordre des apparences C’est un schèma tout autre que simpliste car, on le sait, ce qui fait la richesse du mèlo en tant que veine d’inspiration, c’est la multiplicité des variations qu’il permet3. Ainsi, la trilogie mélodramatique/néoréaliste de De Santis (Caccia tragica, 1947; Riso amaro, 1949; Non c’è pace fra gli ulivi 1950) joue de la simplification: elle renvoie l’ordre initial hors diégèse, à un «avant-guerre» que le film ne montre pas, et se concentre sur la pein­ ture binaire du chaos et du retour à l’ordre. Matarazzo, quant à lui, qui emprunte aux procédés dramaturgiques de la «sceneggiata» napolitaine, préfère la surcharge : l’ordre initial n’est qu’apparent; il est bàti sur un chaos primitif, caché, lui aussi hors diégèse, dont le chaos dont nous serons les témoins n’est que la conséquence ou la répétition

2 Lean réalisera en 1950 le raffinò Madeleine où la parente avec le mèlo à la Gainsborough est affirmée très directement. 3 «L’arte populista è caratterizzata (come tutta la cultura di massa) dalla serialità con cui produce sempre gli stessi temi, gli stessi materiali, gli stessi significati e dalle variazioni che riesce a introdurre (le più elaborate e le più folli) all’interno del proprio ristretto territorio»; A. Martini, M. Metani, «De Santis», dans L. Micciché (éd.), Il neo­ realismo cinematografico italiano, Marsilio, Venezia 1975, P- 307.

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(Catene, 1949, Tormento, 1950). La veine britannique inclut, elle, le comportement chaotique de certains personnages dans l’ordre appa­ rent: ils sont volontiers arrogants, insatisfaits, parfois méme au com­ portement schizophrène (la lady/bandit de The Wicked Lady, de Leslie Arliss, 1945; ou la lady/bohémienne de Madonna of tbe Seven Moons, d’Arthur Crabtree, 1944), dynamitent l’ordre apparent en méme temps qu’ils y trònent ou qu’ils tentent de s’y intégrer. La veine hollywoodienne ironise par contre sur la notion d’ordre : l’ordre rétabli après le déchaìnement du chaos ne sera pas le méme que l’ordre initial. Par exemple, le diptyque Mildred Pierce, \9^5/Flamingo Road, 1949, qui réunit l’actrice Joan Crawford et le réalisateur Michael Curtiz, s’ouvre sur un «calme» social apparent: il apparaìt vite que l’héroì'ne est insatisfaite de son rang. La conclusion crée un «calme» social tout aussi fallacieux car basé sur les fausses valeurs: Mildred quitte le palais de justice à l’aube, au bras de son premier mari qu’elle avait quitté au début parce qu’il ne la satisfaisait pas; un mari socialement bien placé et épousé par calcul promet à Lane de l’attendre à sa sortie de prison. Entre ces deux images d’une quiétude réduite aux apparences, le chaos aura brouillé les pistes jusqu’à l’absurde : les fìlles profìtent des mères, leur chipent leurs maris, tuent leurs amants; les politiciens sont corrompus; les amants sont de vulgaires gigolos; les maris sont des faibles. Et la réussite sociale n’arrange rien. Notons également une originalité caractéristiques de ce dernier àge d’or mélodramatique : Mildred Pierce et Flamingo Road sont des mélodrames sans l’amour impos­ sible et l’objet perdu si justement isolés par Lucilla Albano4; et il en sera de méme pour bien des melos de la période ’45-’55. S'intégrer ou s'affranchir Le mélodrame hollywoodien traduit bien un sentiment sourd de perte de repères dont le cinéma américain des années cinquante, parfois à son corps défendant, se fait le reflet. L’effort d’intégration à une communauté microcosmique est au centre de la problématique 4 Voire l'essai de Lucilla Albano dans ce méme volume.

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des films de Curtiz que nous venons d’évoquer, mais également d’ceuvres aussi diverses que 71 Place in the Sun (George Stevens, 1951), Rebel Without a Cause (Nicholas Ray, 1955), All That Heaven Allows (Douglas Sirk, 1955), Tea and Sympathy (Vincente Minnelli, 1956) ou Same Came Running (Vincente Minnelli, 1959). Plus orientée vers un souci ancestral, la veine britannique reprend à Dickens, au soeurs Bronte ou à Collins l’obsession du déclassement et de la bàtardise. Ailleurs cette thématique paraìtrait obsolète. Mais elle trouve sa pertinence en regard du conservatisme rigoriste de l’ère churchillienne et dans le retour obstiné du motif dans des oeuvres plus récentes, à la périphérie du mèlo (par exemple Firelight, William Nicholson, 1998). Joseph Losey fera du déclassement un des thèmes récurrents de sa période anglaise, dans des films comme, entre autres, The Servant (1963) et The Go-Between (1971), sans oublier le vrai mèlo de style Gainsborough qu’est The Gypsy and the Gentleman (1958). En Italie, dans les mélos de Matarazzo et dans leurs dérivés signés Duilio Coletti, Mario Costa, Riccardo Freda ou Vittorio Cottafavi, le conflit entre F ancien et le nouveau est au coeur du déchirement. Il est au diapason des fluctuations d’une société qui paraìt indécise entre conservatisme et progrès : ce sera tantòt le nouveau, tantót Fancien, qui l’emportera. Le mèlo italien va souvent donner à voir la tentative d’expulser Félément perturbatene le schèma reste le méme, seul le point de vue se déplace. Par exemple, la comparaison entre deux films du début des années cinquante est très éloquente : Tormento de Matarazzo et Nel gorgo del peccato (1954) de Cottafavi. Dans le premier l’héroìne est une jeune femme, que son infernale belle-mère tente de mettre au ban de la société. Dans le second F heroine est la mère, qui finirà par tuer l’in­ truse qui menace l’intégrité familiale. Mais dans les deux cas, il s’agit pratiquement de la méme histoire : c’est seulement le point de vue qui change. Plus précis encore est le parallèle entre Roma ore undici (Giuseppe De Santis, 1952) et Tre storie proibite (Augusto Genina, 1953), deux développements mélodramatiques à partir du méme fait-divers dont la critique franchise remarqua à l’époque que le premier donnait une version «de gauche» et le second une ver­ sion «de droite».

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Victimesfautives et victimes innocentes Dans les cinématographies occidentals, la norme est que l’état de victime, nécessaire pour qu’il y ait «mèlo », découle d’une faute ou, au mieux, d’une transgression. Mais un regard rapide à la cinématographie japonaise, très riche en mélodrames, nous fait constater que souvent l’héroì'ne est victime sans avoir commis de faute; beaucoup de personnages de Mizoguchi Kenji (O Haru dans La Vie d’O Haru, 1952; la mère dzns EIntendant Sansbo, 1954 ; les prostituées dans/zz Rue de la bonte, 1956) ou de Naruse Mikio (la mère dans Okasan, 1952; la jeune épouse dans Le Grondement de la montagne', la jeune veuve dans Une femme qui monte l'escalier, I960), pour ne rien dire de toute la sphère familiale chère à Ozu Yasujiro, ne sont pas dans une position de victime pour expier quelque faute, mais simplement du fait de l’injustice du monde (Mizoguchi, Naruse) ou de leur soumission à l’ordre des choses (Ozu). Aux États-Unis, où le Production Code intervient souvent dans l’agencement dramaturgique, cette question de la culpabilité est liée intimement à la règie du «compensating moral value». Nous en avons un exemple limpide dans Mildred Pierce où Joan Crawford, qui vient de succomber à l’adultère dans les bras de Zachary Scott, rentre à son foyer pour apprendre qu’en son absence, sa fìlle cadette est tombée gravement malade: elle mourra quelques minutes plus tard... Flamingo Road offrirà trois ans après un point de vue déjà moins manichéen, annonciateur des mélodrames sans faute et sans méchants qui sont l’originalité de Douglas Sirk. Joan Crawford se lie avec le veule Zachary Scott avant son mariage, elle est arrétée pour racolage sur la voie publique (mais c’est une machination ourdie par le sheriff Titus) et enfìn épouse, vraisemblablement par intérét, un politicien qu’elle a rencontré dans la promiscuité trouble d’une taveme-bordel. À l’image du mariage d’intérét qui devient mariage d’amour, la culpabilité de Lane se résorbe à mesure que le film avance. Le cas italien est plus absurde: Théroine des films de Matarazzo se comporte souvent en coupable pour un crime inexistant. Dans Catene, qui fagonne un modèle très solide, Yvonne Sanson essaie de cacher aux yeux de son mari et de sa famille une faute qui n’en est pas une: elle a aimé avant son mariage un mauvais gargon qui

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resurgit dans son prèsene et essale de la faire chanter en menagant de dévoiler leur relation depuis longtemps terminée. En fait Sanson se comporte en coupable, alors qu’elle est innocente, seulement parce que son aveu, solution logique et pratique, porterai! atteinte à la fìerté virile de son mari. Tormento va dans le méme sens puisque Sanson est obligée par sa belle-mère à s’in temer dans une maison pour filles repenties alors qu’elle est mariée et qu’elle a eu son enfant dans un cadre on ne peut plus légal et conventionnel. Enfìn, le cas britannique est celui où pése le plus l’oppression d’une société de castes. La faute n’est pas celle de l’héroine mais celle de ceux qui Pont précédée; elle ne fait qu’en porter le poids. Ainsi, le début remarquable de Fanny by Gaslight (Anthony Asquith, 1944) nous révèle cette «faute» sociale par étapes, grace à un décor métaphorique. À l’étage, un appartement bourgeois où vivent Fanny et sa famille; au rez-de-chaussée, un pub respectable, le commerce dont semblent vivre les parents; au sous-sol un bordel, veritable source de la prospérité des bourgeois du premier étage. La révélation des différentes strates de ce décor aux yeux de Fanny n’est que le début d’une sèrie de révélations : elle va découvrir qu’elle n’est pas la fìlle de son pére mais celle d’un aristocrate, bienfaiteur apparent de la famille. Le périple mélodramatique de Fanny, animée par un esprit de revanche dont les héroì’nes italiennes et hollywoodiennes, fondamentalement «bonnes filles», sont dépourvues, va la mener dans la sphère aristocratique dont elle a été exclue. Par rapport à cette faute réelle ou supposée, les trois cinématographies se distinguent également par la résolution qu’elles privilégient. Le cinéma américain recherche la solution démocratique de l’intégration du personnage marginai à l’ordre social; variante intéressante, Douglas Sirk, notamment dans All That Heaven Allows, suggèrera l’existence d’un ordre social supérieur, règi par la morale (panthéiste, à la Thoreau ou à la Emerson), au-dessus d’un ordre social règi par les codes et les apparences. Le cinéma italien ne résout le conflit que dans le pardon octroyé par le mari à la femme, pour une faute putative. Le mèlo britannique enfìn rétablit un ordre social qu’il estime juste, après avoir éliminé les éléments corrupteurs et les mauvais penchants de la jeune femme (que ses revendications parfois vindicatives ne lèsent pas de son statut d’héroine...). À noter

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que dans la cinematographic japonaise évoquée plus haut, il n’y a pas de resolution mais acceptation du sort, fut-il injuste.

Variantes formelles Je terminerai cette vue, en fait très sommaire, des variantes culturelles du mélodrame cinématographique en proposant, à travers trois exemples, quelques observations sur la forme. Michael Curtiz, cinéaste d’origine hongroise dont on a souvent remarqué l’esthétique «germanique», met en lumière une approche stylisée qui, de Frank Borzage à Douglas Sirk (voire Todd Haynes dans le recent Far from Heaven, 2002), se retrouve souvent dans le mélo­ drame hollywoodien. Les tendances baroques de Curtiz (jeu de caches, ombres portées, miroirs et reflets, angles aigus, predilection pour la diagonale, plafonds pesants) et son montage volontiers morcelé sont en accord avec l’approche hollywoodienne du mèlo qui fait grand usage de la figure de l’hyperbole justement notée par Domi­ nique Nasta5. Le mèlo est révélateur, ce qui en fait un genre subversif; c’est ainsi qu’il a été utilisé récemment par Rainer Werner Fassbinder en Allemagne, par Pedro Almodovar en Espagne ou par Francois Ozon en France. Cet aspect est bien pris en compte par la forme hollywoo­ dienne qui, cependant, dans son ambition consensuelle et universalisante, dissimule par l’exubérance esthétique ce que le fond pourrait avoir de polémique. Chez Sirk, ce sera le motif floral, traditionnellement désuet mais devenu, par sa proliferation méme, presque mor­ bide, qui fera passer la rage sourde que ses films dégagent. Tormento par contre montre bien comment le mèlo italien exa­ cerbe le contenu par le contenant: après le filmage assez banal du face à face entre l’héroìne et la religieuse, le ton s’intensifie à la manière d’un opéra dès la porte ouverte sur la tempéte, et l’image se ritualise dans la tradition picturale du sublime. Pourquoi? Aucune explication logique ne nous en est donnée. Le choix du registre mélodramatique se suffìt à lui-méme. Ainsi, les éléments se déchaìnent dès la sortie de la jeune femme de l’institution, Yvonne Sanson

5 Voire l’essai de Dominique Nasta dans ce méme volume.

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titube et chancelle comme une malade (alors qu’elle ne Test pas), transformant ce court épisode en une véritable et nécessaire via crucis. Enfin, en tombant dans le caniveau, sous la pluie, le visage cernè par les plis d’un chàle, elle évoque les representations traditionnelles de la Madonne, anticipant ainsi sur le final qui va la statufier en mète étemelle. Un des points extremes de cette intensifica­ tion du con tenant qui «crée» le contenu, on la trouvera dans l’extraordinaire Anna de Lattuada (1952) où, si Fon y réfléchit, l’intrigue en soi n’a rien de mélodramatique : c’est le ton et l’esthétique qui en font un indubitable mélodrame. Enfin la séquence du duel de Fanny by Gaslight, derrière la mise en scène sage d’Anthony Asquith, est, par une sèrie de transferts, très révélatrice de la complexité du mèlo britannique : pour des raisons que nous serions tentés d’attribuer à la simple bienséance, l’héroìne de la fiction s’évanouit à point et c’est son amoureux qui vient affronter à sa place le méchant. De plus, la mise en scène du duel est telle que c’est la figure du méchant qui est valorisée : ce sont ses préparatifs et ses réactions que la caméra choisit de suivre au moment où les deux antagonistes se séparent. C’est à lui qu’échoient les détails les plus romanesque (l’ceillet à la boutonnière). C’est là qu’apparait clairement la fascination pour la perversion de l’aristocrate qui est au coeur d’un rituel mélodramatique obsédé par le motif du déclassement social. On noterà enfin la difference des registres musicaux qui accompagnent ces images: une intensité néo-romantique, très germanique, pour le film hollywoodien; un sublime opératique, néo-verdien, pour le film italien et de fines nuances dédramatisées, à la Ravel ou Debussy, pour le film britannique qui est certainement des trois celui qui joue le plus du refus du trop. Le mélodrame, comme beaucoup de genres pérennes, trouve sa matière dans les variantes. Il est frappant que, derrière ces variantes, les lignes de forces, d’un cinéma à l’autre, d’une culture à l’autre, demeurent pour l’essentiel les mèmes. Dans des oeuvres aussi differentes que Stella Dallas (King Vidor, 1937), La Vie d'O Haru, Figli di nessuno (Raffaello Matarazzo, 1951) ou Imitation of Life (Douglas Sirk, 1959), on retrouve par exemple la mème scène: la mère qui doit

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taire son amour matemel, face à son enfant. On aurait bien entendu tort de croire que les variantes ne sont qu’omements extérieurs, superficiels. En fait c’est là que l’on peut lire le mieux en quoi le mèlo reflète une culture. Ces signes extemes infléchissent de manière décisive le contenu des films et suggèrent que 1’essentiel n’est pas tant dans le theme lui-meme que dans 1’expression qu’il trouve.

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♦ Traduzione di Tomaso Subini.

In questa sede mi occuperò di ciò che mi è familiare, vale a di­ re delle cinematografie occidentali e, più precisamente, di quelle americana, inglese e italiana. Le cinematografie asiatiche e orientali, di cui il melodramma è il midollo tematico - come l’indiana, l’egi­ ziana, la coreana o la giapponese -, rappresentano casi troppo com­ plessi per essere presi in considerazione nello spazio limitato di que­ sto intervento, se non in modo periferico. Per il cinema occidentale, il periodo che va dal 1945 al 1955 de­ ve essere considerato sotto molti aspetti come una sorta di età del­ l’oro del melodramma. Gli esempi che ho scelto appartengono a tre dei più ricchi filoni espressivi e tematici che il melodramma abbia conosciuto: il melodramma inglese in costume, nato sulla scia dei successi della compagnia Gainsborough il melodramma femminile hollywoodiano che culmina, alla fine del periodo, nei capolavori di Douglas Sirk; il melodramma popolare italiano, del quale i film di Raffaello Matarazzo sono stati il modello.

Per incanalare il dolore Come se la piaga ancora aperta del conflitto mondiale avesse creato presso lo spettatore occidentale un bisogno di ritornare sulla sofferenza che ciascuno, a diversi livelli, aveva appena vissuto, il ci­ nema deH’immediato dopoguerra è segnato da un’ispirazione dolo­ rosa, finanche «dolorista» o francamente masochista, della quale, per 1 Su questo argomento si veda, fra gli altri, S. Harper, Historical Pleasures: Gainsborough Costume Melodrama, in C. Gledhill (a cura di), Home Is Where the Heart Is. Studies in Melodrama and the Woman's Film, BFI Publishing, London 1987.

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esempio, sono segni tangibili il neorealismo in Italia, il film noir a Hollywood o le nuove forme di realismo che fioriscono in Inghilter­ ra, con alcuni film di David Lean (Brief Encounter/Breve incontro, 1945), di Carol Reed (The Fallen Idol/ldolo infranto, 1948, o Odd Man Out/Ilfuggiasco, 1947) o di Robert Hamer (It Always Rains on Sunday, 1947), e in Francia, con Yves Allégret (Dédée d Anvers/Id., 1948; Une si jolie petite plage/La via del rimorso, 1949) e soprat­ tutto Henri-Georges Clouzot (Quai des Orfèvres/Legittima difesa, 1947; Manon/Id., 1948). Il cinema, espressione popolare, è intima­ mente associato a questo processo di cicatrizzazione del dolore. Una volta di più, il ruolo catalizzatore del più spontaneo dei generi, il me­ lodramma, permette, fra l’altro, di far cambiare registro al dolore: da fìsico esso diventa morale, da vissuto diviene contemplato. Consen­ te altresì di trasferire il dolore vissuto nelle direzioni della finzione che permettono di sublimarlo. Essenzialmente, il dolore prodotto dalla guerra ruota intorno alla perdita e al lutto. Il neorealismo, transfert cinematografico di­ retto, quasi grezzo, di questo dolore, ne è senza dubbio l’esempio più sorprendente. Così sintomatico da creare dei «neorealismi» a sua imitazione, un po’ ovunque, in Giappone come in Inghilterra, negli Stati Uniti come in Francia. Ma per quanto rivelatori essi fossero, questi neorealismi raggiunsero in sostanza solo una frangia intellet­ tuale e impegnata del pubblico. L’insieme degli spettatori non li ac­ cettò se non ridistribuiti entro forme familiari, romanzesche e spet­ tacolari. È proprio del melodramma cinematografico, consciamente o inconsciamente, di reinterpretare questo stato d’animo e questa estetica. L’Italia, a livelli differenti, attraverso cineasti come Giuseppe De Santis e Raffaello Matarazzo elabora una forma di melodramma di cui una caratteristica è la sistemazione dei dati neorealisti. Ma ogni cinematografìa reagirà a modo suo. Il melodramma in­ glese ignorerà questo nuovo realismo e, per parte sua, adotterà un at­ teggiamento regressivo. Un riflesso della sua posizione insulare? Farà ritorno alle fonti letterarie romantiche e post-romantiche proponendo una sbalorditiva serie di varianti su canovacci improntati a Charlotte ed Emily Brontè, a Charles Dickens e a Wilkie Collins. Anche quando Da­ vid Lean affronterà direttamente il melodramma, sebbene in uno sce­ nario contemporaneo, con The Passionate Friends (Sogno d'amanti,

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1949), adotterà una forma lirica e manierista assai vicina a quella dei melodrammi in costume della compagnia Gainsborough2. Hollywood raggiunge l’espressione stilistica più raffinata, vicina all’astrazione, nel momento in cui affronta contenuti sempre più cri­ tici, anzi nettamente polemici: mentre l’estetica neorelista contami­ na film con tematiche criminali come Tbe Naked City (La città nu­ da, 1948) di Jules Dassin o Cry of tbe City (L'urlo della città, 1948) di Robert Siodmak, registi come Douglas Sirk, Vincente Minnelli o Nicholas Ray porranno un termine a questa età dell’oro del melo­ dramma con un finale eclatante e barocco. Si noti, tuttavia, che in ogni caso il dolore, così come il melodramma cinematografico lo reinterpreta, sfocia in un ritorno alla norma. Più che mai, è messo a profitto uno degli schemi drammatici preferiti del melodramma: ordine/caos/ritorno all’ordine.

Lordine delle apparenze È uno schema tutt’altro che semplicistico poiché, si sa, ciò che rende ricca la vena d’ispirazione del melodramma è la moltiplicazio­ ne delle varianti che esso permette3. Così, la trilogia melodrammatica/neorealista di De Santis (Cac­ cia tragica, 1947; Riso amaro, 1949; Non c'è pace tra gli ulivi, 1950) gioca sulla semplificazione: rinvia l’ordine iniziale fuori diegesi a un «anteguerra» che il film non mostra, e si concentra sulla rappresenta­ zione binaria del caos e del ritorno all’ordine. Matarazzo, che prende in prestito i procedimenti drammaturgici della sceneggiata napoleta­ na, per parte sua preferisce l’eccesso: l’ordine iniziale non è che ap­ parente; è costruito su un caos primitivo, nascosto, anch’esso fuori diegesi, del quale il caos di cui saremo testimoni non è che la conse-

2 Lean realizzerà nel 1950 il raffinato Madeleine (L'amore segreto di Madeleine) do­ ve la parentela con il melodramma alla Gainsborough è affermata in modo assai diretto. 3 «L’arte populista è caratterizzata (come tutta la cultura di massa) dalla serialità con cui produce sempre gli stessi temi, gli stessi materiali, gli stessi significati e dalle variazioni che riesce a introdurre (le più elaborate e le più folli) all’interno del proprio ristretto territorio»; A. Martini, M. Melani, De Santis, in L. Micciché (a cura di), // neo­ realismo cinematografico italiano, Marsilio, Venezia 1975, p. 307.

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guenza o la ripetizione (Catene, 1949; Tormento, 1950). La vena in­ glese include il comportamento caotico di alcuni personaggi in un or­ dine apparente: sono volentieri arroganti, insoddisfatti, a volte persi­ no dal comportamento schizofrenico (la lady/bandito di Tbe Wicked Lady/La bella avventuriera, di Leslie Arliss, 1945; o la lady/bohémienne di Madonna of the Seven Moons/La madonna delle sette lu­ ne, di Arthur Crabtree, 1944), mandano all’aria l’ordine apparente nello stesso momento in cui vi troneggiano o tentano di integrarvisi. La vena hollywoodiana, al contrario, ironizza sulla nozione di or­ dine: l’ordine ristabilito dopo lo scatenamento del caos non sarà lo stesso ordine iniziale. Per esempio, il dittico composto da Mildred Pierce (Il romanzo di Mildred, 1945) e da Flamingo Road (Viale Flamingo, 1949), che riunisce l’attrice Joan Crawford e il regista Mi­ chael Curtiz, si apre su una «calma» sociale apparente: si comprende presto che l’eroina è insoddisfatta del suo rango. La conclusione crea una «calma» sociale altrettanto fallace poiché basata su falsi valori: Mildred lascia il palazzo di giustizia all’alba, sotto braccio al suo pri­ mo marito, che all’inizio aveva lasciato perché non la soddisfaceva; un marito socialmente bien placé e sposato per calcolo promette a Lane di aspettarla all’uscita di prigione. Tra queste due immagini di una quiete ridotta alle apparenze, il caos avrà ingarbugliato le piste fino all’assurdo: le figlie approfittano delle madri, rubano loro i ma­ riti, uccidono i loro amanti; i politici sono corrotti; gli amanti sono volgari gigolo; i mariti sono deboli. E il successo sociale non risolve niente. Notiamo altresì un’originalità caratteristica di quest’ultima età dell’oro del melodramma: Mildred Pierce e Flamingo Road so­ no melodrammi senza l’amore impossibile e l’oggetto perduto, mes­ si a fuoco così chiaramente da Lucilla Albano4; e lo stesso sarà per buona parte dei melodrammi del periodo dal 1945 al 1955.

Integrarsi o liberarsi Il melodramma hollywoodiano traduce bene un sentimento sordo di perdita di riferimento di cui il cinema americano degli anni 4 Si veda il contributo di Lucilla Albano in questo stesso volume.

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cinquanta, a volte suo malgrado, si fa riflesso. Lo sforzo di integra­ zione in una comunità microscopica è al centro della problematica dei film di Curtiz che abbiamo appena evocato, ma anche di opere altrettanto diverse come A Place in the Sun (Un posto al sole, George Stevens, 1951), Rebel Without a Cause (Gioventù bruciata, Nicholas Ray, 1955), All That Heaven Allows (Secondo amore, Douglas Sirk, 1955), Tea and Sympathy (Tè e simpatia, Vincente Minnelli, 1956) o Some Came Running (Qualcuno verrà, Vincente Minnelli, 1959). Più orientata verso una preoccupazione di tipo ancestrale, la vena in­ glese riprende da Dickens, dalle sorelle Bronté o da Collins l’osses­ sione del declassamento e della bastardaggine. Altrove questa tema­ tica parrebbe obsoleta. Ma trova la sua pertinenza rispetto al conser­ vatorismo rigorista dell’era churchilliana e nel ritorno ostinato del motivo in opere più recenti, alla periferia del melodramma (per esempio Firelight, William Nicholson, 1998). Joseph Losey farà del declassamento uno dei temi ricorrenti del suo periodo inglese, fra gli altri in film come The Servant (Il seno, 1963) e The Go-Between (Messaggero d'amore, 1971), senza dimenticare quel vero melo­ dramma in stile Gainsborough che è The Gypsy and tbe Gentleman (La zingara rossa, 1957). In Italia, nei melodrammi di Matarazzo e nei loro derivati firmati Duilio Coletti, Mario Costa, Riccardo Freda o Vittorio Cottafavi, il conflitto tra il vecchio e il nuovo è al centro del dissidio. È al diapa­ son delle fluttuazioni di una società che sembra indecisa tra conser­ vatorismo e progresso: sarà ora il nuovo, ora il vecchio a spuntarla. Il melodramma italiano mostra spesso il tentativo di espellere l’ele­ mento perturbante; lo schema resta lo stesso, solo il punto di vista cambia. Per esempio, il paragone tra due film dell’inizio degli anni cinquanta è molto eloquente: Tormento di Matarazzo e Nel gorgo del peccato (1954) di Cottafavi. Nel primo l’eroina è una giovane donna che un’infernale matrigna tenta di mettere al bando dalla società. Nel secondo l’eroina è la madre, che finirà per uccidere l’intrusa che mi­ naccia l’integrità familiare. Ma nei due casi si tratta praticamente della stessa storia: è solamente il punto di vista che cambia. Più pre­ ciso ancora è il parallelo tra Roma ore undici (Giuseppe De Santis, 1952) e Tre storie proibite (Augusto Genina, 1952), due sviluppi me­ lodrammatici ispirati allo stesso fatto di cronaca, del quale la critica

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francese all’epoca notò che il primo dava una versione «di sinistra» e il secondo una versione «di destra».

Vittime colpevoli e vittime innocenti Nelle cinematografie occidentali, la norma è che la condizione di vittima, necessaria perché si dia melodramma, derivi da una colpa, o meglio, da una trasgressione. Ma uno sguardo rapido alla cinemato­ grafìa giapponese, molto ricca di melodrammi, ci fa notare che spesso l’eroina è vittima senza aver commesso colpa; molti personaggi di Mi­ zoguchi Kenji (O'Haru in Vita di O'Haru donna galante, 1952; la ma­ dre ne L'intendente Sansbo, 1954; le prostitute in La strada della ver­ gogna, 1956) o di Naruse Mikio (la madre in Okasan, 1952; la giova­ ne sposa in Yama no oto; la giovane vedova in Onna ga kaidan o agaru toki, I960), per non parlare di tutta la sfera familiare cara a Ozu Yasujiro, non sono in una posizione di vittima per espiare qualche col­ pa, ma semplicemente per effetto dell’ingiustizia del mondo (Mizogu­ chi, Naruse) o della loro sottomissione all’ordine delle cose (Ozu). Negli Stati Uniti, dove il Production Code interviene spesso nel congegno drammaturgico, questa questione della colpevolezza è le­ gata intimamente alla regola del compensating moral value. Ne ab­ biamo un esempio limpido in Mildred Pierce dove Joan Crawford, che ha appena ceduto all’adulterio tra le braccia di Zachary Scott, rientra al focolare per apprendere che in sua assenza la figlia minore si è gra­ vemente ammalata: morirà qualche minuto più tardi... Flamingo Road offrirà tre anni dopo un punto di vista meno manicheo, antici­ patore dei melodrammi senza colpa e senza cattivi che fanno l’origi­ nalità di Douglas Sirk. Joan Crawford si lega con l’ignavo Zachary Scott prima del suo matrimonio, è arrestata per adescamento sulla pubblica via (ma è una macchinazione ordita dallo sceriffo Titus) e infine spo­ sa, verosimilmente per interesse, un politico che ha incontrato nella promiscuità torbida di una taverna-bordello. Di fronte all’immagine del matrimonio d’interesse, che diviene matrimonio d’amore, la col­ pevolezza di Lane si riassorbe man mano che il film avanza. Il caso italiano è più assurdo: l’eroina dei film di Matarazzo si comporta spesso come colpevole di un crimine inesistente. In Cate­

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ne, che dà forma a un modello molto solido, Yvonne Sanson cerca di nascondere agli occhi del marito e della sua famiglia una colpa che non esiste: prima del matrimonio ha amato un balordo che ritorna nel presente e cerca di ricattarla, minacciando di rivelare la loro rela­ zione terminata da molto tempo. In effetti Yvonne Sanson si com­ porta da colpevole, benché sia innocente, solo perché la sua confes­ sione, soluzione logica e pratica, attenterebbe all’orgoglio virile del marito. Tormento va nella stessa direzione poiché Yvonne Sanson è obbligata dalla matrigna a internarsi in una casa di ragazze madri, sebbene sia sposata e abbia avuto il suo bambino in una situazione che non potrebbe essere più legale e convenzionale. Infine, il caso inglese è quello dove più pesa l’oppressione di una società divisa in caste. La colpa non è quella dell’eroina ma quel­ la di coloro che l’hanno preceduta; ella non fa che portarne il peso. Così, il mirabile inizio di Fanny by Gaslight (Il mio amore vivrà, Anthony Asquith, 1944) ci rivela questa «colpa» sociale per tappe, grazie a una scenografia metaforica. Al primo piano un appartamen­ to borghese dove vivono Fanny e la sua famiglia; al pianterreno un pub rispettabile, del cui commercio sembrano vivere i genitori; in cantina un bordello, vera fonte della prosperità dei borghesi del pri­ mo piano. La rivelazione dei diversi strati di questa scenografia agli occhi di Fanny non è che la prima di una serie di rivelazioni: ella sco­ pre che non è la figlia di suo padre ma di un aristocratico, benefat­ tore apparente della famiglia. Il periplo melodrammatico di Fanny, animata da uno spirito di rivincita di cui le eroine italiane e hollywoodiane, fondamentalmente «brave ragazze», sono prive, la ri­ conduce in quell’ambiente aristocratico dal quale era stata esclusa. Rispetto a questa colpa reale o presunta, le tre cinematografìe si distinguono per la conclusione che privilegiano. Il cinema ameri­ cano ricerca la soluzione democratica dell’integrazione del perso­ naggio marginale nell’ordine sociale; variante interessante, Douglas Sirk, in particolare in All That Heaven Allows, suggerirà l’esistenza di un ordine sociale superiore retto dalla morale (panteista, alla Tho­ reau o alla Emerson), al di sopra di un ordine sociale retto da codi­ ci e apparenze. Il cinema italiano risolve il conflitto unicamente nel perdono concesso dal marito alla moglie, per una colpa putativa. Il melodramma inglese ristabilisce infine un ordine sociale che reputa

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giusto, dopo aver eliminato gli elementi corruttori e le inclinazioni malvagie della giovane donna (le cui rivendicazioni, talvolta vendica­ tive, non ledono il suo statuto di eroina.Da notare che il cinema giapponese evocato sopra non presenta alcuna risoluzione, bensì ac­ cettazione della sorte, fosse anche ingiusta.

Varianti formali Terminerò questo quadro, per la verità molto sommario, delle varianti culturali del melodramma cinematografico proponendo qualche osservazione sulla forma attraverso tre esempi. Michael Curtiz, cineasta d’origine ungherese di cui si è spesso sottolineata l’estetica «tedesca», mette in luce un approccio stilizza­ to che, da Frank Borzage a Douglas Sirk (si veda Todd Haynes nel recente Far from Heaven/Lontano dal paradiso, 2002), si ritrova spesso nel melodramma hollywoodiano. Le tendenze barocche di Curtiz (giochi di occultamento, ombre allungate, specchi e riflessi, angoli acuti, predilezione per la diagonale, soffitti pesanti) e il suo montaggio volutamente spezzato sono in accordo con l’approccio hollywoodiano a un melodramma che fa grande uso della figura del­ l’iperbole giustamente notata da Dominique Nasta5. Il melodramma è rivelatore, il che ne fa un genere sovversivo; è così che è stato uti­ lizzato recentemente da Rainer Werner Fassbinder in Germania, da Pedro Almodovar in Spagna o da Francois Ozon in Francia. Questo aspetto è fatto proprio dalla forma hollywoodiana che, tuttavia, nel­ la sua ambizione di raccogliere consensi e di essere universale, dis­ simula attraverso l’esuberanza estetica ciò che il contenuto potreb­ be avere di polemico. In Sirk sarà il motivo floreale, tradizionalmen­ te desueto ma divenuto quasi morboso attraverso la sua stessa pro­ liferazione, che farà passare la rabbia sorda sprigionata dai suoi film. Tormento al contrario mostra bene come il melodramma italia­ no esasperi il contenuto attraverso il contenitore: dopo la ripresa as­ sai banale del faccia a faccia tra l’eroina e la religiosa, il tono si inten­ sifica secondo i modi dell’opera lirica, fin dalla scena della porta aper­ 5 Si veda il contributo di Dominique Nasta in questo stesso volume.

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ta sulla tempesta, e l’immagine si ritualizza secondo la tradizione pit­ torica del sublime. Perché? Non ci viene data alcuna spiegazione lo­ gica. La scelta del registro melodrammatico basta a se stessa. Così, gli elementi si scatenano fin dalla partenza della giovane donna dall’isti­ tuto; Yvonne Sanson esita e vacilla come una malata (sebbene non lo sia), trasformando questo breve episodio in una vera e propria via crucis. Infine, cadendo in una pozzanghera, sotto la pioggia, il viso incorniciato nelle pieghe di uno scialle, evoca le rappresentazioni tra­ dizionali della Madonna, anticipando così il finale che la trasformerà in una statua della madre eterna. Uno dei punti estremi di questa in­ tensificazione del contenitore che «crea» il contenuto si troverà nello straordinario Anna di Lattuada (1952) dove, a ben vedere, l’intreccio in sé non ha niente di melodrammatico: sono il tono e l’estetica che ne fanno un melodramma senza ombra di dubbio. Infine la sequenza del duello di Fanny by Gaslight, dietro la so­ bria regia di Anthony Asquith, è molto rivelatrice, per una serie di transfers, della complessità del melodramma inglese: per ragioni che saremmo tentati di attribuire alla semplice buona creanza, l’e­ roina della finzione sviene al momento giusto ed è il suo fidanzato che affronta al suo posto il cattivo. Di più, la regia del duello è tale che è la figura del cattivo a essere valorizzata: sono i suoi preparati­ vi e le sue reazioni che la cinepresa sceglie di seguire nel momento in cui i due antagonisti si separano. È a lui che toccano in sorte i det­ tagli più romanzeschi (il garofano all’occhiello). È là che appare chia­ ramente il fascino per la perversione dell’aristocratico che è al cen­ tro di un rituale melodrammatico ossessionato dal motivo del de­ classamento sociale. Si noterà infine la differenza dei registri musicali che accompa­ gnano queste immagini: un’intensità neo-romantica, molto tedesca, per il film hollywoodiano; un sublime operistico, neo-verdiano, per il film italiano; e delle sottili sfumature dedrammatizzate, alla Ravel o alla Debussy, per il film inglese, che è certamente dei tre quello che gioca maggiormente sul rifiuto dell’eccesso.

Il melodramma, come molti generi perenni, trova la sua mate­ ria nelle varianti. E sorprendente che dietro queste varianti le linee di forza - da un cinema all’altro, da una cultura all’altra - restino es-

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senzialmente le stesse. In opere così differenti fra loro quanto Stella Dallas (Amore sublime, King Vìdor, 1937), Vita di O'Haru donna galante, Figli di nessuno (Matarazzo, 1951) o Imitation of Life (Lo specchio della vita, Douglas Sirk, 1959), ritroviamo ad esempio la stessa scena: la madre che deve tacere il suo amore materno, davanti al proprio figlio. Beninteso, sbaglieremmo se credessimo che le va­ rianti sono solo ornamenti esteriori, superficiali. Infatti è qui che si può leggere meglio in che cosa il melodramma riflette una cultura. Questi segni esteriori modificano in modo decisivo il contenuto dei film e suggeriscono che Tessenziale non è tanto nel tema in sé, quan­ to nell’espressione che trova.

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di Sergio Miceli

Alcuni dati oggettivi A differenza della maggior parte degli specialisti della stessa ge­ nerazione, Bernard Herrmann esercitò un’attività direttoriale che andò molto al di là della ben nota apparizione in Tbe Man Who Knew Too Much (L'uomo cbe sapeva troppo, 1956), avendo interpretato, ad esempio, musiche per film di William Walton, Miklós Rózsa e Dmitrij Sostakovic \ Fra le registrazioni reperibili c’è una suite dalle musiche composte nel 1958 per Vertigo (La donna cbe visse due volte}123e il documento, datato 1969, assume oggi un valore partico­ lare se si considera che le musiche registrate nel film non furono di­ rette da Herrmann bensì da Muir Mathieson, nume tutelare delle at­ tività musicali nella cinematografìa britannica ma, probabilmente, non il migliore interprete dello score5. Nella esecuzione dell’autore a capo della London Philarmonic Orchestra la suite da Vertigo spic­ ca sulle altre - ricordando anche quella più recente di Esa Pekka Sa­ lonen con la Los Angeles Philarmonic - per l’elevata tensione dram­ matica, specie nella secca condotta degli archi, e l’ascoltatore si tro­ va al cospetto di un piccolo oggetto di culto della durata di soli 10

1 Si tratta di Music from Great Shakespearean Films, LP Decca PFS 4315, 1975L’attività di Herrmann come direttore d’orchestra è documentata, tra le molte altre no­ tizie e aneddoti, in S. C. Smith, A Heart at Fire’s Center. The Life and Music of Bernard Herrmann, University of California Press, Berkeley 1991. 2 Music from the Great Hitchcock Movie Thrillers, CD London 433 895-2, 19% (1969 in LP). 3 Stando a S. C. Smith, A Heart at Fire's Center..., cit., p. 222, un lungo sciope­ ro del sindacato musicisti avrebbe costretto la produzione a spostare i turni di regi­ strazione a Vienna. Le testimonianze indirette sul giudizio di Herrmann circa la dire­ zione di Mathieson sono contraddittorie.

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minuti, all’interno del quale sono distinguibili tre episodi: Preludio,

The Nightmare, Scène d’amour Nel film, su 124 minuti di proiezione, gli episodi (sequenze, sce­ ne) nei quali la musica è del tutto assente si riducono a circa 24 mi­ nuti 4, pertanto le presenze musicali, indipendentemente dal loro li­ vello di appartenenza sul quale torneremo, coprono ben 100 minu­ ti. Paragonato alla tendenza generale nella produzione hollywoodia­ na degli anni cinquanta il dato non sarebbe di per sé particolarmen­ te significativo e - richiamando in causa la suite alla luce dell’enor­ me sproporzione di 1:10 - si potrebbe supporre una ripetizione più o meno sistematica degli stessi materiali messa in atto da Herrmann all’interno del film. Si tratta invece del contrario, o per meglio dire di tutt’altra cosa.

Caratteri musicali di fondo Gli elementi comuni a tutta la partitura possono essere così riassunti: Politonalità, ovvero dualismo, dissociazione, ambiguità, e con­ seguente innesco di dissonanze, che da Monteverdi ai tardo ro­ mantici materializzano uno stato conflittuale nel modo più effi­ cace, sia come astrazione simbolica, sia come riflesso psico-per­ cettivo. Uso ricorrente di intervalli di 7a, che ritroveremo in North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959), in Psycho (Psyco, I960) e in Mamie (Id., 1964). Anche in questo caso il portato simbolico è evidente e si riallaccia a una tradizione che da Pergolesi attraverso Mozart giunge a Verdi e a Puccini. Qui basterà ricordare che fra gli intervalli cosiddetti «grandi» (6a, 7a, 8a) quello di T è avvertito nella scala diatonica come il più pro­ blematico, non avendo la stabilità della 6a né la compiutezza ri­ solutiva dell’8a. In senso armonico è l’intervallo che più d’ogni altro genera tensione, fa desiderare qualcosa che manca - la ri­ 4 Non essendo il frutto di un cronometraggio «al fotogramma», il valore è ap­ prossimativo ma sufficiente per le finalità.

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soluzione, appunto - e nel suo rivolto, la 2a, è considerato la dissonanza per eccellenza. Ostinati (ritmici, melodici, armonici, timbrici). Si tratta di uno stilema di spicco nella scrittura herrmanniana, che in Vertigo non mostra però l’incidenza e la ricorrenza presenti in North by Northwest e, in misura minore, in Psycho. Il carattere ossessivo, parossistico, ipnotico che è tipico degli ostinati - nel cinema co­ me nella sala di concerto - gioca in Vertigo un ruolo non se­ condario ma neppure predominante, a causa di una condizione che esaminerò nel penultimo paragrafo. Si tratta comunque, nella maggior parte dei casi, di ostinati come figure di sostegno sottoposte ad altri materiali piuttosto che di entità autonome. Tìmbrica. Altra caratteristica tra le più personali e risolutive. A partire dalla insolita tavolozza di Citizen Kane (Quarto potere, 1941), che fece scuola negli Stati Uniti e altrove, Herrmann ap­ pare estraneo alla prassi produttiva hollywoodiana secondo la quale, com’è noto, il compositore si limita a fornire degli sketch a uno o più orchestratori5. Per varietà e qualità di soluzioni i ca­ ratteri timbrici delle musiche per Vertigo possono essere consi­ derati tra i risultati più alti di Herrmann (e non solo), poiché, ben lungi da un’aggiunta posticcia, da un rivestimento di fac­ ciata, investono il principio stesso di variazione, inteso come tecnica e come prassi compositiva fondamentale nella musica occidentale, dai centri monastici del Medioevo a tutto il Nove­ cento6.

5 R. S. Brown: «Sembra che lei abbia sempre una concezione strumentale di ogni film che fa». B. Herrmann: «Sempre. Il colore è molto importante. E questo schifo di orchestrazione è totalmente sbagliata. Sa, trasformano tutto in merda. Glielo dico sem­ pre: “Sentite, ragazzi, lasciamo perdere queste stronzate. Vi do mille dollari. Vi do la prima pagina del preludio del Lohengrin, con tutti gli strumenti messi in evidenza. Trascrivetela voi. Scommetto che non otterrete nemmeno il 50 per cento di Wagner”. Or­ chestrare è come un’impronta digitale. Le persone hanno uno stile. Non lo capisco, far orchestrare qualcun altro. Sarebbe come se qualcun altro mettesse i colori sui tuoi dipinti» (R. S. Brown, Overtones and Undertones. Reading Film Music, University of California Press, Berkeley 1994, p. 292; intervista rilasciata nel 1975, pochi mesi prima della scomparsa del compositore). [T. d. C.] 6 Si pensi al peso sostanziale, portante, della variazione timbrica in Schonberg, Berg e, ancor più radicalmente, in Webem.

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I brani In questo avvicinamento graduale alla sostanza filmico-musicale il passo successivo riguarda l’identificazione e la descrizione dei brani principali, dove l’aggettivo, solitamente lecito, mostra qui tutta la sua inadeguatezza. In Vertigo, infatti, non è possibile appli­ care una distinzione gerarchica basata sulla ricorrenza o sulla fun­ zionalità, poiché la natura e la collocazione di ciascun brano deri­ vano strettamente dalla sostanza narrativa, una sostanza espressa prevalentemente attraverso un piano esteriore (luoghi, azioni, eventi, gesti) e - al tempo stesso - un piano interiore (pensieri, ri­ cordi, emozioni). I pochi episodi privi di musica sono quelli in cui occorre svolgere l’intreccio, permettendo alla storia di progredire 7, e quelli, spesso coincidenti con i primi, in cui i personaggi non «meritano», per così dire, il ricorso alla forma globale di rappre­ sentazione, trattandosi di figure secondarie oppure non in sintonia col protagonista: Midge, Gavin Elster, Pop Liebl della Libreria Argo­ sy, la proprietaria dell’Hotel McKittrick e la direttrice della Casa di moda Ransohoffs. Preludio. A differenza di quanto accadrà in North by Northwest e in Marnie, la musica dei titoli di testa non torna negli episodi-chia­ ve, tranne una eccezione che vedremo più avanti. Ciononostante, e come è già stato argomentato da Graham Bruce nella sua minuziosa analisi dell’opera di Herrmann 7 8, il Preludio può essere inteso come il materiale che genera buona parte dei brani - ma preferisco defi­ nirle soluzioni musicali - presenti in tutto il film. L’assenza di ricor­ renze manifeste all’orecchio del comune spettatore lo rende un epi­ sodio a sé e suggerisce l’opportunità di svolgere subito una breve de­ scrizione dei titoli di testa. Si tratta di un film nel film - sia pure inteso come microme­ traggio - che sarebbe piaciuto a Fernand Léger, il quale nel Ballet

7 Mirabile è però il modo in cui Hitchcock fa rientrare la funzione didascalica (un necessario quanto artificioso servizio allo spettatore) nel tessuto drammaturgico, sen­ za cadute di tensione. 8 G. Bruce, Bernard Herrmann. Film Music and Narrative, UMI Research Press, Ann Arbor, Michigan 1985-

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mécanique del 1924 aveva teorizzato un cinema basato essenzial­ mente sul gros pian, chiedendo all’operatore Dudley Murphy di fo­ tografare il volto di Kiki de Montparnasse, la modella prediletta di Man Ray, come fosse un paesaggio. Ma se in quella pietra miliare del cinema d’avanguardia l’e­ splorazione di un volto femminile rifiuta ogni ricerca di significato a favore della pura forma plastica soggetta al trattamento temporale del montaggio, in Vertigo le tre componenti - fotografia, titoli ani­ mati di Saul Bass, musica - si spartiscono equamente il compito di concentrare in 3’30” e di esprimere in forma simbolico-analogica tutti i valori del film: l’ossessione erotico-sentimentale del protago­ nista, la bivalenza del personaggio femminile, l’acrofobia come ma­ nifestazione d’impedimento e contemporaneamente di pulsione mortale. Dalla prima inquadratura già di per sé enigmatica di un volto femminile, rivelato per il solo quarto inferiore sinistro entro la metà del fotogramma, la macchina da presa opera un doppio movimento - in avanti e sulle labbra - e in sincrono appare la sovraimpressione «James Stewart». Subito dopo sale verso gli occhi e (ignoro se sia sta­ to sottolineato prima d’ora) lo sguardo della donna si rivolge molto significativamente verso sinistra, poi verso destra, con l’inserimento fra i due movimenti oculari della sovraimpressione «Kim Novak». Il campo successivo della macchina da presa passa dal dettaglio alla macrofotografia, in una prima fase verso l’occhio destro con la so­ vraimpressione «In Alfred Hitchcock’s», nella seconda fase con una dominante rossa, la dilatazione dell’occhio e la materializzazione, na­ scente dal centro dell’iride, della sovraimpressione «Vertigo», la qua­ le cede il campo al ben noto gioco ipnotico di spirali variamente co­ lorate. Anche in questo caso un riferimento d’obbligo è Anemie Cinema di Marcel Duchamp del 19269. Il Preludio presenta tutti i caratteri musicali di fondo, essendo basato su un doppio arpeggio di 7e per moto contrario - «pesante», data la suddivisione in due terzine di semiminime della battuta in 4/4 - in forma di ostinato, nella bitonalità Re maggiore-Mi bemolle mi9 L’interesse del regista per dadaismo e surrealismo si era materializzato, fra gli altri, in Spellbound (Io ti salverò, 1945) con la collaborazione di Salvador Dall.

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nore. Ripetizione ossessiva, dissonanze sistematiche e squilibrio si fondono così in un’unica entità, alla quale si deve aggiungere l’in­ tervento, anch’esso reiterato, di scansioni accordali affidate a legni e ottoni (in realtà suoni tratti dagli arpeggi, stavolta verticalizzati), le quali contengono, sia pure in forma embrionale come già osservava Bruce1011 , la successione melodica che definirò più avanti Semi-tema

d'amore n.

Poiché le frasi musicali e gli ingressi accordali coincidono sem­ pre con le sovraimpressioni e con i moti delle spirali, le molteplici analogie fra struttura figurativa, struttura sonora e relative allusioni incrociate - ai valori narrativi del film, producono una triplice sine­ stesia, degno esordio di quanto seguirà, seppure in altra forma. 10 G. Bruce, Bernard Herrmann..., cit., p. 119 e passim. Ritengo opportuno pre­ cisare che da questo punto in poi la chiave analitico-interpretativa si discosta per mol­ ti versi da quella proposta con indubbia originalità ed efficacia da Bruce, che in questo caso paria di «Descending Figure» e di relativo «Love motiv», ivi, p. 148 e passim. 11 L’esempio musicale giustappone per comodità del lettore l’incipit degli arpeg­ gi e l’episodio accordale contenente la cellula del Semi-tema d'amore. Per agevolarne l’individuazione quest’ultima è stata scorporata dall’unità accordale e posta nel penta­ gramma superiore.

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Come già anticipato, l’unico ritorno esplicito del Preludio av­ viene nell’episodio 3912 in cui Judy si sottopone a visagiste, mani­ cure e coiffeuse per assumere i connotati di Madeleine. Si tratta di quattro inquadrature in dettaglio - occhi, labbra, capelli, mani - del­ la durata complessiva di soli 10”, che il voyeurismo al quale Hitch­ cock induce lo spettatore vorrebbe estendere, ma bastano per stabi­ lire un richiamo molto significativo al Preludio. Passiamo agli altri brani, definiti fino ad ora in modo neutro e fin troppo generico per non affrontare prematuramente uno dei ca­ ratteri più importanti di questa partitura. Sebbene nell’ambito della teoria musicale e dell’analisi non esista un metodo classificatorio uni­ voco, con la definizione di tema intendo riferirmi a una composizio­ ne dotata di caratteri autonomi, aperta o chiusa, simmetrica o asim­ metrica, d’impianto modale, tonale, politonale, seriale, ma in ogni caso passibile di fertili elaborazioni che a seconda dello stile, del con­ testo e delle finalità potranno consistere sostanzialmente in sviluppi o variazioni; tutto ciò sia in forma integrale, sia per frammenti auto­ nomi più o meno caratterizzati. Detta altrimenti, e semplificando per necessità una materia piuttosto complessa e controversa, affinché un brano possa aspirare legittimamente alla definizione di tema occor­ re ricavare al suo interno la presenza di frasi, semi-frasi, cellule, fi­ gure, serie e, di riflesso, l’esistenza almeno potenziale di una retori­ ca musicale fatta di domande, risposte, allusioni, elusioni, afferma­ zioni, interruzioni, divagazioni, riepilogazioni e via dicendo.

Tema Madeleine

Vertigo ha un solo tema propriamente inteso, l’ambiguo Tema [di] Madeleine13 presente in una sola esposizione lineare - ma deli12 Questa numerazione nasce da valutazioni personali dedotte dal montaggio e ba­ sate sull'unità spazio-temporale di sequenze e scene. Di conseguenza non concorda con la suddivisione in capitoli della edizione DVD alla quale mi sono riferito (DU 54520, Col­ lector’s Edition - versione restaurata), poiché non rispetta - come purtroppo accade spesso nello Home Video - la struttura narratologica. Per comodità del lettore, qui (cap. 30) e in seguito indicherò comunque la concordanza. Nelle note successive contenenti due numerazioni la seconda, fra parentesi o dopo una barra, è riferita al capitolo nel DVD. 13 Pur rischiando di apparire una distinzione eccessiva, preferisco omettere l’at­ tribuzione di rito, per ragioni che si chiariranno nel corso del testo.

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beratamente «incompiuta» - nell’episodio in cui Scottie vede per la prima volta la donna all’Ernie’s Restaurant14. Torneremo nel quinto pa­ ragrafo su alcune relazioni musica-immagine fra le più rappresentati­ ve, mentre occorre ora chiarire meglio le ragioni dell’ambiguità. Come osservato poco sopra, nella versione di riferimento, e tanto meno nel­ le varianti, il Tema Madeleine non ha una conclusione canonica poi­ ché la coda rimane armonicamente irrisolta, ma questo potrebbe rien­ trare in una necessità tipica della scrittura per film, in cui un brano non può rinunciare alla opportunità di ponti e relazioni con altri brani, per non dire che il contesto narrativo richiede espressamente un discorso lasciato in sospeso. Molto più singolare, invece, è la testa della melo­ dia, che condiziona tutto l’andamento successivo producendo un sen­ so di travaglio sottile, di aspirazione frustrata. L’attacco in levare de­ termina infatti una collocazione della cellula di quattro note sempre a cavallo di battuta, dove le legature di valore (Si, Fa diesis, Mib, ecc.) fungono da anticipazione dell’accordo sottostante (limitandomi al re­ gistro acuto: i bicordi Do-Mi, Sol-Si, ecc.), con la conseguente ricor­ renza di sincopi, le quali rimandano così allo schema del Blues15.

14 Episodio 5, idem nel DVD. 15 A maggior ragione considerando che l’esposizione integrale del Tema (com’è riprodotta dalla partitura originale in G. Bruce, Bernard Herrman..., cit., p. 144) ha una gittata di 12 battute, senza contare la mezza battuta introduttiva in levare e l’ulti­ ma coronata.

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Riassunti radicalmente i caratteri tecnico-espressivi, resta da di­ re che dal Tema Madeleine il compositore trae frammenti autonomi oppure elementi minimi16 elaborandoli nel modo più disparato - se­ condo quanto già osservato a proposito del concetto di variazione per oltre 30 ricorrenze, delle quali sono ben poche quelle che per­ dono i caratteri di incertezza e di sospensione, mentre in qualche ca­ so il tema genera delle varianti strutturate senza ambiguità ritmica e armonica, una delle quali si presenta come valzer, vortice passiona­ le - anche nei corrispondenti movimenti della macchina da presa e accelerazione lirica del Semi-tema d'amore.

Semi-tema d'amore Si tratta dell’alter ego del Tema Madeleine, col quale entra tal­ volta in collegamento diretto. Di quest’ultimo non possiede né l’ar­ ticolazione, né la gittata, né l’ambiguità armonica, essendo ridotto a una successione di 4 suoni - della cui origine nel Preludio si è già visto - preparati da una figura ascendente di tre, talvolta con un sem­ plice gruppetto di ottavi in funzione enfatica, nella ripetizione della cellula.

16 Per frammento si intende una cellula sottoposta a variazioni e sviluppi di na­ tura melodica, armonica, ritmica, timbrica, ma pur sempre dotata di riconoscibilità ri­ spetto al modello. Per elemento si intende una cellula anche minima (2 suoni) sotto­ posta a trattamenti tecnicamente analoghi a quelli del frammento, ma più radicali, con perdita della riconoscibilità immediata.

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La definizione di «semi-tema» non è dovuta tanto all’esiguità dei suoi caratteri melodici, quanto all’assenza di un incipit autorevole, o per meglio dire di un incipit tout court. Se escludiamo infatti il tram­ polino funzionale Fa diesis-Sol-Si della prima battuta, la cellula mo­ stra vistosamente la mancanza di autonomia discorsiva, una debo­ lezza amplificata dall’assenza di articolazioni successive, visto che il Semi-tema d'amore si limiterà a giocare soprattutto sui colori, su estenuanti progressioni cromatiche ascendenti come dilatazioni del trampolino iniziale, segnatamente nella Scène damour, e sulla ri­ presa caparbia della cellula. In breve, questa è l’incarnazione sonora dell’idea fìssa di Scottie, un desiderio morboso, venato di feticismo, perennemente orfano di una presenza, Madeleine, che troverà in Judy ['oggetto del proprio sfogo.

Motivo di Carlotta17 Si tratta dell’elemento musicale con più scoperte funzioni evo­ cative - il ritmo di habanera, giustificato dalle origini spagnole e dai trascorsi di ballerina del personaggio - e leitmotiviche, ovvero di as­ sociazione univoca a una presenza, concretamente rappresentata o chiamata indirettamente in causa. Una presenza anch’essa ossessiva, ma si noti il meccanismo di proiezione suggerito da Hitchcock e ma­ gistralmente realizzato da Herrmann. Carlotta Valdes fa parte del dia­ bolico inganno ordito da Gavin e Judy ai danni del protagonista, non è un’ossessione autentica per Madeleine, mentre diviene tale per Scottie. Insomma, il motivo non richiede caratteri di complessità in­ tesi come equivalenti di una elaborazione psicologica, poiché Car­ lotta non appartiene al vissuto di coloro che la evocano. Resta di lei un ritratto, una tomba, il triste racconto del libraio Pop Liebl e i va­ neggiamenti inscenati da Madeleine. Siamo perciò al cospetto di un ostinato ritmico, ['habanera, appunto, sul quale può innestarsi o meno una semplice successione orizzontale di bicordi, tutti per 3e, derivata anch’essa dal Tema Madeleine, un enigma inespressivo, 17 La distinzione fra tema e motivo consiste nelle scarse possibilità di sviluppo potenziali o messe in atto - del secondo rispetto al primo.

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VERTIGO'. UN MODELLO DI DRAMMATURGIA FILMICO-MUSICALE

chiuso in sé, senza possibilità di trasfigurazione sostanziale, che en­ trerà nel complesso tessuto musicale del film per alternanze o so­ vrapposizioni, sempre con raffinate mutevolezze timbriche, tranne il momento di esplicitazione parossistica nell’incubo notturno di Scot­ tie, che Hitchcock mette in scena con il ricorso a mezzi diversi1S.

In sintesi, la relazione simbolica e formale fra i quattro elemen­ ti musicali appare ora più delineata e rimanda alle spirali dei titoli di testa: se il Preludio è l’acrofobia unitamente alla minaccia di Carlot­ ta, queste passano attraverso Madeleinejudy, dove Scottie trova non solo una duplice figura femminile, bensì una duplice vertigine, psi­ chica ed erotica, ovvero il dualismo Eros/Thanatos 18 19, con il conse­ guente ritorno al punto di partenza.

Punti di vista e livelli Le considerazioni appena concluse permettono di accennare, sia pure senza l’approfondimento che la complessità del tema richiede­ rebbe, a uno dei problemi-chiave del film e delle sue musiche: la fo-

18 Nella suite Nightmare si presenta in forma ABA, dove B è il Motivo di Carlot­ ta, mentre A consiste in una figura cromatica segmentata un feroce intervento orche­ strale con gli archi in risalto, udibile negli episodi 2 (2), 22 (20), 25 (22), che G. Bruce, Bernard Herrmann..., cit, definisce, a mio avviso impropriamente, «moto perpetuo», ma non è chiaro se l’attribuzione è frutto di interpretazione personale oppure se è trat­ ta dallo score. 19 La Scèned’amour della suite è basata soprattutto sul Semi-tema d'amore e in misura minore sul Tema Madeleine nelle varianti più distese e liriche.

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Sergio Miceli

calizzazione del racconto. L’unica scena in cui Scottie non è presente è quella in cui Judy, dopo il primo incontro nella camera dell’Hotel Empire, gli scrive una lettera di confessione che poi strapperà (episo­ dio 32) “ ma al di là di questo dato oggettivo, di per sé già singolare, occorre ricordare altri due sintomi indirettamente legati fra loro. Ver­ tigo è un film nel quale le presenze musicali di livello interno20 21 - un mezzo di «contrabbando» generalmente molto usato da quei registi che non amano l’artifìcio manifesto - sono ridotte a soli quattro casi22. Nel primo si tratta di un frammento strumentale di Johann Christian Bach che Midge sta ascoltando nel suo studio mentre conversa con Scottie (episodio 3)23; il secondo è un organo che accompagna Scottie nell’attraversamento della chiesa della Missione Dolores, durante il pe­ dinamento di Madeleine24; il terzo è un brano strumentale di Mozart, che Midge fa ascoltare a Scottie nella camera di una casa di cura, do­ po la «morte» di Madeleine (episodio 28)25; mentre l’ultimo è un bre­ vissimo spezzone di Victor Young che Scottie e Judy ballano in un lo­ cale26. Se escludiamo Porgano e il ballabile, prodotti verosimilmente da un contesto «insindacabile», negli altri due casi il comportamento di Scottie richiede una riflessione per la sua singolarità. Nello studio di Midge, infatti, egli si dirà infastidito da quella musica, mentre nel se­ condo l’iniziativa, suggerita all’amica da una musico-terapeuta, lo lascerà completamente indifferente, tanto che Midge, congedandosi dal medico al quale ha chiesto subito dopo un colloquio, dirà prima di ab­ bandonarsi alle lacrime: «Non credo che Mozart gli sia di alcun aiuto». Richiamando un’osservazione proposta all’inizio, secondo la quale la musica di Herrmannn è assente soltanto nelle scene in cui Scottie dialoga con personaggi che non gli sono affini, il duplice ri­ fiuto - esercitato oltre tutto nei confronti di due musiche che rap­ presentano l’equilibrio, il pieno controllo formale - non può appari­ 20 Cap. 26 nel DVD. 21 Detto anche livello diegetico. Rimando per questa classificazione a S. Miceli, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni RCS, Milano 2000, pp. 329 sgg. 22 II vertice del ricorso al livello interno e la sua trasfigurazione è rappresentato da The Man Who Knew Too Much {L'uomo che sapeva troppo, 1956). 23 Idem nel DVD. 24 Episodio 7 (6). 25 Cap. 23 nel DVD. 26 Episodio 34 (28).

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VERTIGO'. UN MODELLO DI DRAMMATURGIA FILMICO-MUSICALE

re casuale, spingendo così a una precisa ipotesi interpretativa: il pro­ tagonista «non gradirebbe» altra musica al di fuori di quella creata per la propria storia. Scottie ne è ovviamente inconsapevole, poiché tutta la musica di Herrmann appartiene a un livello inequivocabil­ mente esterno2728 , ma egli recita quella insofferenza/indifferenza così come James Stewart interpreta il personaggio secondo le direttive del regista. Con buona pace di Adorno e Eisler, secondo i quali il ci­ nema «si prefìgge esatte illustrazioni della realtà» siamo al cospet­ to di un caso tra i più interessanti di metalinguaggio, dotato di un potenziale tanto empatico quanto straniarne, dove gli autori sanno condurre lo spettatore nelle pieghe più intime dell’animo del per­ sonaggio ma al tempo stesso esibiscono gli artifici della mise en scè­ ne (e in tal senso credo potrebbero spiegarsi anche le fugaci appari­ zioni di Hitchcock nei suoi film); un impianto, insomma, che grazie a questo dualismo costante e contraddittorio, in cui Scottie agisce ed è agito, può mostrare certe analogie con il complesso rapporto au­ tori-realizzatori-interpreti-pubblico del teatro musicale e del mèlo ro­ mantico, in cui i diversi artifìci retorici messi in atto fanno parte del­ lo spettacolo ma non indeboliscono la credibilità della storia. Tutto ciò riporta al problema di fondo. In Vertigo c’è una iden­ tificazione pressoché totale tra sceneggiatura, musica e punto di vi­ sta del protagonista (interiore - esteriorizzato soprattutto nelle ben note soggettive vertiginose). Proprio per questo il Tema Madeleine non è tanto il tema di Madeleine, bensì la formalizzazione in termi­ ni musicali del travaglio e dell’immaginario che Scottie ha della don­ na, e di una donna che in fin dei conti non esiste; similmente si po­ trebbe dire del Motivo di Carlotta, meno articolato in senso dram­ maturgico e di conseguenza musicale, basato ancor più del prece­ dente su un’idea, una figura mentale, mentre il Semi-tema d’amore condivide con i precedenti una natura tendenzialmente egocentrica 27 Altrimenti detto extradiegetico. 28 T W Adorno, H. Eisler, Komposition far den Film, Rogner & Bernhard, Mun­ chen 1%9; trad. it. La musica per film, Newton Compton, Roma 1975, P- 23- La re­ sponsabilità di un’affermazione così platealmente falsa e riduttiva non può essere attri­ buita al traduttore, visto che l’edizione di riferimento (pubblicata per la prima volta in inglese nel 1947 dalla Oxford University Press, firmata dal solo Hanns Eisler) recita: «[...] the motion picture, which seeks to depict reality».

247

Sergio Miceli

e, pur essendo il frutto di un desiderio condisceso e fugacemente appagato, nasce dall'equivoco e dall’inganno, con uno smaschera­ mento finale che avviene proprio attraverso il possesso della donna. A causa di un grado così elevato di soggettività potremmo es­ sere indotti a considerare le musiche di Vertigo come appartenenti al livello mediato29, ma lo impediscono due fattori: l'epifania degli ar­ tefici, regista e compositore, e, come conseguenza della stessa ma­ nifestazione, l'assenza di momenti in cui il personaggio abbia potu­ to udire a livello interno quei brani, appropriandosene. A Scottie è dunque negata una sorta di «autonomia» emotiva che ne derivereb­ be e la gestione assoluta quanto «invadente» del regista30, il «gioco di prestigio tra il narrante e il narrato», per dirla con Percheron31, è pre­ dominante e si spinge fino all’azzardo linguistico. Lo troviamo ad esempio nel livello interno dell’oq *ano nella chiesa della Missione Dolores - una progressione discendente con tanto di cadenzina in sincrono perfetto, quasi fossimo in un musical, con l’uscita di Scottie — e soprattutto nell’episodio, anch’esso già ricordato, in cui Judy ri­ vela allo spettatore, non al protagonista, il reale svolgimento dei fat­ ti e la propria identità. Ma lo fa guardando verso la macchina da pre­ sa, ovvero con un gesto che infrange le regole della grammatica fìl­ mica32. In base a tutte le considerazioni raccolte fin qui e ad altre che la sintesi impone di tralasciare, pare più che legittimo considerare 29 Livello grazie al quale lo spettatore accede alle sensazioni musicali del perso­ naggio, come avviene ad esempio in Trois coulerus: Bleu (Tre colori - Film Blu, Krzysztof Kieslowski, 1993) e in molti altri casi. Cfr. S. Miceli, Musica e cinema..., cit., e E. Morricone, S. Miceli, Comporre per il cinema. Teoria e prassi della musica nel film, a cura di L. Gallenga, Biblioteca di Bianco & Nero, SNC, Roma 2001, pp. 77-128. 30 La tentazione di definirla «onnisciente» è forte, ma occorre considerare la spe­ cificità del linguaggio cinematografico e prim’ancora di quello letterario, secondo il quale il punto di vista onnisciente si inscrive in una serie di categorie (prospettiva, di­ stanza, voce, istanza narrativa, narratore nascosto e narratore palese) utilizzabili esclu­ sivamente nel contesto letterario. Si veda in proposito A. Marchese, L'officina del rac­ conto. Semiotica della narratività, Mondadori, Milano 198331 D. Percheron, Diégèse, in Aa. Vv., Lectures du film, Albatros, Paris 1974; trad, it. Diegesi, in A. Costa (a cura di), Attraverso il cinema. Semiologia, lessico, lettura del film, Longanesi, Milano 1978, p. 67. 32 Lo sottolineava André Bazin per Chaplin e per il finale di Le notti di Cabiria di Federico Fellini. Cfr. A. Bazin, «Cabiria» ou le voyage au bout du néo-réalisme, in «Cahiers du cinéma», n. 76, 1957; ora in A. Bazin, Qu'est-ce que le cinéma? IV Une esthétique de la Réalité: le néo-réalisme, Cerf, Paris 1962 ; trad. it. Che cosa è il cine­ ma?, Garzanti, Milano 1973, P- 333-

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VERTIGO'. UN MODELLO DI DRAMMATURGIA FILMICO-MUSICALE

Vertigo un insieme drammaturgico-musicale che, pur utilizzando tut­ ti i codici sedimentati dalla tradizione, li supera e li trascende.

L’unità melodrammatica Definendo la posizione degli autori come epifanica sono consa­ pevole di essermi posto al limite, se non al di fuori, della tradizionale prassi analitica in ambito cinematografico, la quale - apparizione di Hitchcock a parte33 -, portata com’è a sottovalutare la componente so­ nora, probabilmente definirebbe Vertigo un classico esempio di diege­ si non marcata, ovvero senza ostentazione dellìstanza narrante, senza esibizione dell’artifìcio. Sebbene Hitchcock non sia Godard34, credo si possa e si debba affermare il contrario, non tanto appellandosi, ad esempio, a molti fondali visibilmente fasulli e a certe scenografìe iper­ boliche che costellano i suoi film - la distorsione prospettica del cam­ panile dopo la morte della presunta Madeleine35, le mega sculture del Monte Rushmore in North by Northwest -, oppure alla frammentazio­ ne dello spazio esterno come tentativo di narrazione simultanea di sto­ rie diverse (Rear Window/La finestra sul cortile, 1954), e ancora all’u­ so di «effetti speciali» anch’essi sopra le righe (l’incubo di Scottie, nel quale coesistono mezzi grafici astratti, animazioni e fotografìa)36. No, la manifestazione dell’artifìcio risiede prima di tutto nell’insieme au­ dio-visivo e nella sua inscindibilità, dove il livello spudoratamente esterno delle musiche e la loro costante articolazione narrativa in sog­ gettiva esaltano l’operato del regista, la sua presenza demiurgica. Nel secondo paragrafo osservavo il ruolo tutt’altro che predo­ minante giocato in Vertigo dagli ostinati ed è possibile giustificare ora l’affermazione, ribadendo così la caratteristica fondamentale del film. Assistiamo prima di tutto a un fenomeno di corrispondenza ca­ pillare, in senso quanto meno leitmotivico, grazie al quale la musica 33 All’inizio dell’episodio 4 (4). Ricordo solo di passaggio che questa costante in Hitchcock è interpretata da alcuni critici semplicemente come un vezzo narcisistico. 34 Un assioma apparentemente inattaccabile, perché c’è modo e modo di osten­ tare l’istanza narrativa. 35 Episodio 22 (20). 36 Episodio 25 (22).

249

Sergio Miceli

non commenta (e tanto meno accompagna)37 le sequenze, tranne pochi casi di stacchi funzionali38. La musica - occorre ripeterlo - è la storia stessa, poiché assume su di sé tutti i valori narrativi, simbolici, psicologici della sceneggiatura. Ciò spiega le oltre 30 presenze del Tema Madeleine, dissimili e spesso lontane dal modello, ed è chia­ ro che in una concezione del genere gli ostinati non possono che ap­ parire relegati negli episodi di un travaglio senza sbocco: il Motivo di Carlotta, si è già detto, e l’incubo notturno di Scottie, nel quale la donna del ritratto è la figura centrale. Tornando invece al Tema Madeleine e alla sua straordinaria mu­ tevolezza, non mancano alcuni episodi nei quali è necessaria una af­ fermazione musicale più esplicita. Si pensi al secondo pedinamento, in auto sulla Fort Point Road verso il Golden Gate, in cui la melodia in 6/8 abbandona il pieesistente squilibrio di sincopi appoggiandosi, flui­ da e con arpeggi di spinta, sulla stabilità di un 4/439. Di carattere ugual­ mente esplicito, seppure con diverso trattamento timbrico, agogico e dinamico, è la sua presenza nell’episodio della gita verso il bosco di se­ quoie40, in cui si collega alla prima, breve apparizione del Semi-tema d'amore, mentre uno dei momenti di maggiore esplicitazione lirico­ patetica è nel primo abbraccio fra i due, in riva alla baia41. Qui, e più avanti nella scena d’amore come nel finale, si registrano gli unici casi di tutto il film in cui le cadenze - ovvero i processi armonici che chiu­ dono un pezzo - appaiono risolte. Questo potrebbe essere interpre­ tato a prima vista come l’accettazione di uno stereotipo non solo hol­ lywoodiano bensì comune a tutto il cinema, muto e sonoro, che ha co­ me imperativo la semplicità, l’immediatezza comunicativa. Però, e ri­ ferendomi per brevità soltanto al primo dei tre casi ricordati, se il Do maggiore è considerato comunemente l’ambito tonale più logoro ed elementare, su un piano analitico - in virtù della relazione anteceden­ 37 Per una opportuna distinzione tra accompagnamento e commento, general­ mente usati come sinonimi, rimando a S. Miceu, Musica e cinema..., cit. 38 La già ricordata figura cromatica segmentata (episodio 2/2, inseguimento sui tetti; episodio 23/20, Madeleine entra nella chiesa inseguita da Scottie; episodio 26/22, incubo di Scottie). Allorché Scottie trae in salvo Madeleine dalle acque della baia (epi­ sodio 14/12), si fa ricorso a una figura musicale specifica. 39 Episodio 14 (11). 40 Episodio 17 (14). 41 Episodio 18 (16).

250

Vertigo:

un modello di drammaturgia filmico-musicale

te/conseguente4243 - non può sfuggire il fatto che Vertigo si propone molto al di sopra degli standard produttivi, attraverso strutture musi­ cali complesse in senso melodico, ritmico e timbrico-armonico tra labirinti del cromatismo e cadenze sospese. Perciò un episodio straor­ dinario sul piano narrativo che raggiunga il climax risolvendosi in Do maggiore risuona inaudito, è una risoluzione al quadrato. Infine, alcune concise osservazioni sul Semi-tema d'amore. La sua presenza, già segnalata a partire dall’episodio 18, riflette puntual­ mente la nascita e la crescita in Scottie della passione per la donna, ma, viste le implicazioni narrative, il Tema Madeleine e il Semi-tema d’amore si alternano a distanza, oppure si collegano strettamente e perfino si «disturbano», secondo la prevalenza dei sentimenti e dei pensieri dell’uomo, ora orientati allo scioglimento dell’enigma-Madeleine, ora al possesso di Judy in proporzione all’arrendevolezza di quest’ultima nell’assumere i connotati della scomparsa44. Questo duali­ smo - plausibile soltanto per Scottie, non per lo spettatore, quindi ci­ nico e beffardo - conferma quanto già osservato nel quarto paragrafo trattando dei punti di vista e dei livelli e dà luogo a uno degli intrecci fìlmico-musicali più avvincenti, grazie alla dialettica che si instaura fra Semi-tema d’amore, Tema Madeleine e suoi frammenti, non senza un episodio chiaro e liberatorio, seppure risolutivo solo in apparenza. La scena in cui Judy/Madeleine esce dal chiarore verdastro come un fan­ tasma che prende corpo, ma anche come una bambola-automa, e in­ cede verso Scottie con un’ombra di sorriso arcaico sulle labbra45, cre­ do si possa definire - unitamente allo sguardo e all’espressione del­ l’uomo — uno degli episodi più inquietanti e o-sceni46 della storia del 42 Relazione ineludibile se ci si occupa di una forma espressiva svolta nel tempo. 43 L’unione dei due termini serve a ricordare che, a partire dal Romanticismo e per tutto il Novecento, gli esiti di una determinata concezione armonica sono inscin­ dibili dagli impasti timbrici. Ciò vale anche nel caso di Herrmann, che come si è già sottolineato era (e resta) fra i pochi a orchestrare le composizioni per film. 44 Pertinente appare in proposito l’osservazione di G. Bruce, Bernard Herr­ mann..., cit., pp. 162 sgg., secondo il quale la freddezza di Scottie mostrata nella sce­ na della passeggiata nel parco e nella successiva del Dancing (episodi 35-36/28) espri­ merebbe l’insofferenza per la volgarità e l’inadeguatezza di Judy rispetto al modello ideale di Madeleine. 45 Episodio 38 (30). 46 «Il corpo oggettivato e artificialmente prodotto per la seduzione non dispiega una scena intorno a sé, in cui anche le cose dicono le sue intenzioni, ma è “messo in see-

251

Sergio Miceli

cinema. Ma si tratta altresì di uno degli esempi più rappresentativi di uno spessore drammaturgico globale, reso «tangibile», ovvero fìsicamente percepibile, grazie alle vibrazioni sonore - tremolo d’archi, seg­ menti melodici interrotti, progressioni ascendenti verso il climax più volte procrastinato - intese come impatto acustico oltre che emotivo. Sono quelle vibrazioni che, più d’ogni altra componente, raccolgono e liberano tutta la tensione accumulata nelle sequenze precedenti47.

Conclusione Nell’analisi delle musiche di Herrmann per Citizen Kane Hansjórg Pauli intitolava il paragrafo finale con un interrogativo: «Ein Gesamtkunstwerk?»48. Chiamare in causa Wagner anche nel nostro ca­ so sarebbe quanto meno legittimo, a partire dall’interesse manife­ stato per il Tristan und Isolde49, ma il problema non riguarda evi­ dentemente la sola tecnica compositiva, né lo stesso Pauli si era ri­ ferito a quella ragionando del capolavoro di Orson Welles. Potrem­ mo dire piuttosto, e senza alcuna implicazione riduttiva rispetto al concetto di opera d’arte totale, che con la sua presenza co-protagonistica la musica fa di Vertigo uno dei casi più rilevanti di concezio­ ne integralmente e originalmente melodrammatica.

na” e perciò è “osceno”, perché è offerto secondo quel gioco e quelle regole del gioco che lo fanno più nudo di quel che sia, nudo della nudità perversa del cerimoniale eroti­ co che lo rende inespressivo, perché ogni espressione è demandata alle vesti, agli ac­ cessori, ai gesti, alla musica, alle luci secondo le tonalità che la tecnica sapientemente di­ stribuisce per creare il desiderio al solo scopo di arrestarlo davanti alla messa-in-scena, dove non si celebra la sessualità del corpo, ma la sua castrazione. In questo senso [...] la perversione gioca con la morte, e quindi, per sadica che sia, è sempre e irrimediabil­ mente masochista» (U. Galimberti, La parodia dell'immaginario, in W Pasini, C. Crébmilt, U. Galimberti, L'immaginario sessuale, Raffaello Cortina, Milano 1988, p. 140). 47 «When [Judy] emerges and we go into the love scene we should let all traffic noises fade, because Mr. Herrmann may have something to say here». Così Hitchcock in Vertigo Notes, Hitchcock collection, Academy of Motion Picture Arts and Sciences, riportato in S. C. Smith, A Heart at Fire's Center..., cit., p. 220. 48 «Un’opera d’arte totale?»; H. Pauu, Bernard Herrmanns Musik zu «Citizen Kane» (1941), in S. Miceli (a cura di), Atti del Convegno Intemazionale di Studi Mu­ sica & Cinema - Siena, 19-22 agosto 1990, «Chigiana», Rassegna Annuale di Studi Mu­ sicologici, vol. XLII (1990), Nuova Serie n. 22, Olschki, Firenze 1992, pp. 321-33549 Argomento ampiamente trattato da G. Bruce, Bernard Herrmann..., cit., p. 126 e passim.

252

Vertigo, Un modello

di drammaturgia filmico-musicale

continuità musica

n. episodio

VERTIGO

MUSICA

EPISODIO

Introduzione

1

2

Titoli di testa VistaVision Motion Picture High-Fidelity Volto femminile: labbra = James Stewart occhi (sguardo a sinistra e a destra - bivalenza) = Kim Novak dettaglio occhio sinistro = in Alfred Kitchcock’s zoom 4- dominante rossa = Vertigo la spirale ecc.

Preludio Arpeggi incrociati 7C Bitonalità: triadi Mib min-Re magg. dissonanze Sincroni «ipnotici» Sinestesia triplice Sincroni successivi secondo le semifrasi e gli ingressi accordali

Figura cromatica segmentata

Esterno notte - tetti Inseguimento malvivente 1“ manifestazione acrofobia di Scottie Mone del poliziotto

Progressioni interrotte Molteplicità ritmica Accordi dissonanti (simile a n. 1 + altre combinazioni armoniche)

Pane 1 3

4

Scottie nello studio di Midge Colloquio

LI (grammofono):}. Ch. Bach Scottie ne è infastidito

Prova sgabello 2a manifestazione acrofobia

Accordi dissonanti - sincroni (simile a n. 2)

Scottie incontra Gavin Elster

253

Sergio Miceli

5

6

7

Tema Madeleine

Ernie’s Restaurant Scottie vede Madeleine

in forma lineare ed estesa Sincrono sul profilo della donna Accentuazione plastica e dominante cromatica (2a inquadratura)

1° Pedinamento Abitazione di Madeleine Auto Negozio di fiori - bouquet

Ostinato Tema Madeleine - Frammenti

... segue pedinamento Auto Chiesa-Cimitero Missione Dolores esterno/interno

simile a n. 6

sincrono

LI - organo progressione stilisticamente plausibile nel contesto ma discendente e «sincronizzata» con l’uscita di Scottie (cadenzina)

Cimitero Tomba di Carlotta Valdes

Tema Madeleine • Frammenti Accordo dissonante 4- campane (LI) sincrono

8

9

... segue pedinamento Auto Palace of the Legion of Honor Pinacoteca Ritratto di Carlotta Valdes

Motivo Carlotta

... segue pedinamento Auto McKittrick's Hotel (ex abitazione Carlotta) Auto - Abitazione Madeleine

simile a n. 8

10

Studio Midge suggerimento: Argosy Book Shop di Pop Liebl

11

Al Book Shop con Midge

12

Scottie accompagna Midge a casa Midge esce dall'auto Scottie osserva il ritratto di

(ritmo habanera + frammento melodico derivato da Tema Madeleine)

sincroni

Tema Madeleine - Frammento

Tema Madeleine Motivo Carlotta

254

Vertigo. Un modello

di drammaturgia filmico-musicale

Carlotta nel catalogo della Pinacoteca Soggettiva profilo Madeleine (Ernie’s Restaurant) 13

Scottie incontra Gavin nel suo Club

14

2° Pedinamento - Auto Pinacoteca Madeleine osserva ritratto

Frammenti

Motivo Carlotta

Auto Fort Point Road - Golden Gate Bridge

Madeleine si getta nella baia Scottie salva Madeleine PP di Scottie e Madeleine

Arpeggio ostinato + Tema Madeleine Elaborazione di un frammento in forma autonoma (da 6/8 squilibrato a 4/4 stabile)

Tema Madeleine - Elementi funzione descrittiva - sincroni

Tema Madeleine - Frammento sincroni

15

Appartamento di Scottie

Tema Madeleine - Elementi - sospensione musica: squillo telefono: Gavin Elster

Madeleine appare sulla porta Siede vicino al caminetto

Dialogo: conoscenza e «indagine»

- sospensione musica: dialogo squillo telefono: Gavin Elster

Madeleine esce. Scottie la cerca

Sincroni su stanze vuote

Esterno: Madeleine entra nell’auto Sopraggiunge Midge, osserva e commenta amaramente Scottie appare all’ingresso

16

Tema Madeleine - Frammento esteso ed elaborato (cfr. n. 5)

3° Pedinamento Auto Madeleine di fronte all’aDDartamento di Scottie

Tema Madeleine - Frammento simile al precedente

Ostinato Tema Madeleine - Frammento

255

Sergio Miceli

Incontro - Dialogo Falso congedo Proposta passeggiata

17

- sospensione m.

Tema Madeleine - Frammento

Tema Madeleine - Frammento

Panoramica strada in montagna

collegato a:

Seìni-teììia d'amore la apparizione incipit - breve

Interno auto

Tema Madeleine - Elementi Motivo Carlotta (melodia)

Bosco sequoie Ossessioni Madeleine

18

sostanziale elaborazione armonica e timbrica di entrambi - fusione

Riva della baia segue ossessioni Sogno di Madeleine: Riferimento a campanile stile spagnolo Corsa verso la riva Abbraccio

Tema Madeleine • Elementi Motivo Carlotta

Tema Madeleine Frammenti progressivamente ripetuti e organizzati fino alla risoluzione in Do magg.

19

Scottie da Midge Screzio sul dipinto

20

Esterno notte - Piazza Scottie passeggia

Semi-tema d'amore

Appartamento di Scottie Madeleine suona alla porta e lo sveglia Racconto di un sogno Identificazione della antica Missione di San Juan Battista

Sincrono

Tema Madeleine • Elementi Motivo Carlotta - esteso Tema Madeleine - c.s.

Auto - verso la Missione

Tema Madeleine

21

22

brevissima esposizione

Elaborazione di un frammento in forma autonoma - cfr. n. 14 Missione di San Juan Battista Locale dei cimeli Abbraccio «Too late»: Madeline fugge

Motivo di Carlotta ripetuto

Semi-tema d'amore Tema di Madeleine Frammento in forma di valzer incalzante

256

Vertigo. Un modello

di drammaturgia filmico-musicale

Promessa e congedo

Semi-tema d’amore

Campanile

sincrono dissonante

Madeleine entra nella chiesa

Figura cromatica segmentata e fasce accordali in crescendo (cfr. n. 2) sincroni

3a manifestazione acrofobia soggettiva Urlo e caduta Esterno - distorsioni prospettiche

coda collegata a:

Parte 2 23

coda

Esterno aula tribunale Interno aula dibattito - sentenza Congedo di Gavin Elster

24

Scottie alla tomba di Madeleine

Semi-tema d’amore

25

Esterno notte sulla città Camera di Scottie Incubo dominanti cromatiche animazioni bouquet collier - tomba vuota precipizio (moto apparente) corpo di Scottie in caduta risveglio

coda

26

Casa di cura - Camera di Scottie (seduto - assente) Midge commenta i benefìci della musicoterapia, poi ironizza. Spegne prima di uscire. Colloquio con un medico: «Non credo che Mozart gli sia di alcun aiuto» Esce piangendo

257

Figura cromatica segmentata Motivo Carlotta sincroni

coda collegata a:

LI (grammofono): W A. Mozart

Frase ascend./disc. violoncelli collegata a:

Sergio Miceli

27

Panoramica baia esterno giorno episodio (sviluppo) archi e arpa (presumibilmente 6/12 mesi collegato a: dopo) Ex abitazione di Madeleine Semi-tema d'amore - Frammento corni (imperativo) tremolo archi - sincrono Nuova proprietaria auto Madeleine - reazione Scottie Semi-tema d'amore - Frammento

28

Ernie's Restaurant Scottie osserva una signora che inizialmente sembra Madeleine

segue

29

Pinacoteca abbaglio equivalente

Motivo Carlotta - Frammento

30

Negozio fiori - bouquet

Tema Madeleine - Elementi

Scottie vede Judy - la segue Empire Hotel - Judy si affaccia alla finestra - Scottie entra Scottie bussa Reazioni volgari - Dialogo Invito - Appuntamento

Semi-tema d'amore - Frammento Tema Madeleine - Frammento Semi-tema d'amore - Frammento

tremolo d'archi al ponticello Sincrono

Judy, sola, si volge verso la m.d.p. - dominante rossa Soggettiva - Flashback Missione

- interruzione

simile a n. 23

Tema Madeleine - Frammento Judy si appresta a partire

Abiti di Madeleine Lettera confessione - voce off Judy strappa la lettera nasconde gli abiti di Madeleine

variato in forma ternaria simile a n. 23 sincrono

Tema Madeleine - Elementi Ritorno forma ternaria - più esplicita, mossa e ostinata:

Valzer 31

Cena da Ernie Scottie osserva una signora che gli ricorda Madeleine Judy lo nota

32

Ritorno all’Hotel Empire Profilo di Judy in controluce Screzio - Accordo

258

Tema Madeleine - Frammenti Semi-tema d'amore - sincrono Tema Madeleine - Frammenti

Vertigo. Un

modello di drammaturgia filmico-musicale

Passeggiata nel parco Scottie impassibile Judy osserva tristemente una coppia allacciata

Semi-tema d'amore - Frammento

34

Dancing Scottie e Judy ballano Scottie impassibile

LI (V Young)

35

Strada - fioraio Ransohoffs - Boutique scelta abiti Discussione scelta scarpe

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Camera di Judy Discussione - sconforto di Judy «Me li metterò quei maledetti vestiti [...]. Se soltanto potessi amarmi»

33

37

ipoteticamente trasformato in un 6/8 - carattere «neutro»

Semi-tema d'amore Tema Madeleine - Framm. Valzer Semi-tema d'amore

Salone di bellezza Scottie chiede conferma alle proprie richieste

Dettagli occhi e dita Judy sotto Preludio il trucco Arpeggi - cfr. n. 1

38

Scottie nella camera d'albergo attende ansioso Delusione di Scottie per l’acconciatura Judy protesta poi cede ed entra nel bagno Scottie attende

Semi-tema d'amore Tema Madeleine - frammenti Semi-tema d'amore

Tema Madeleine - frammenti tremolo d’archi - segmenti melodici interrotti - progressione ascendente verso il climax

Judy/Madeleine appare in un alone di luce verde, come un fantasma che si materializza poco a poco. Si avvicina. Emozione di Scottie Abbraccio e moto circolare m.d.p. Trasformazione ambientale (Missione)

Semi-tema d'amore esteso

sbocco nel Valzer Contrazione

Tema MadeleineSemi-tema d'amore cadenza conclusa e coda su:

259

Sergio Miceli

39

40

Preparativi e progetti Serenità e facezie Scottie aggancia la collana: è quella di Carlotta Dipinto in Pinacoteca Smarrito ma determinato, Scottie propone una corsa in auto mentre Judy lo abbraccia

Motivo Carlotta

Semi-terna d'amore Figure e reminiscenze diverse

Esterno notte - auto Tensione crescente Missione San Juan Battista

sincrono

Semi-tema d'amore - Frammento incapace di progredire

Scottie evoca gli ultimi istanti con Madeleine

Tema di Madeleine * Frammento in forma di valzer lento cfr. n. 23 archi in registro grave - segmenti interrotti - tremolo

Scottie conduce Judy a forza

Semi-tema d'amore Frammento

verso il campanile Ascesa

come moto ascendente Teìna Madeleine - frammento Valzer in crescendo sincroni - sospensione musica -

Scottie: soggettiva vertigine Penultimo livello campanile: Ricostruzione di Scottie tentativo di fuga di Judy domande incalzanti Confessione disperata di Judy

Gabbia campanaria Scottie torna ad incalzare Judy e ricostruisce il delitto. Poi:

Elaborazione molto frammentaria dei materiali utilizzati in n. 23

Scottie:«Ti amavo follemente»

Semi-tema d'amore Frammento

Judy: «Tienimi con te» lo abbraccia Scottie: «Toppo lardi. Ormai nulla può più ridarmi Madeleine» Si baciano Apparizione monaca - sospensione musica Judy precipita

260

Vertigo. Un

modello di drammaturgia filmico-musicale

Semi-tema d'amore Frammento

Monaca suona campana Scottie si sporge e osserva cartello: A Paramount Release

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Pieno orchestrale in Do magg.

MELODRAMA, ANTI-MELODRAMA AND PERFORMANCE Rereading Le Mépris

di

Giorgio Biancorosso

This essay is a critical reading of Jean-Luc Godard’s Le mépris (1963) under the rubric of «melodrama» understood as semantic field, a constellation of meanings: a hyperbolic, hyper-codified style of presentation, otherwise referred to as «mode of excess», the effect of which is to minimize the ambiguity of what is being represented, to achieve maximum readability (whether in perceptual, ideological, or ethical terms) \ a film genre in which characters are divested of the ability to express their voice, itself a figure of their inability to control their destiny; and, finally, a dramaturgical technique through which a spoken text, pantomimed action, and music are combined, whether simultaneously or in alternation (Melodram in German, mélodrame in French, melologo in Italian)12. I use these different meanings of the term as a conceptual grid through which to revisit a film that is as overdetermined as it is open to multivalent interpretations. In doing this, I also implicitly pose the question of whether there is a relationship between the meanings the word «melodrama» has come to assume across more than two centuries of history For if one cannot fail to be impressed by the term’s extraordinary longevity, one is also bound to be puzzled by its somewhat erratic semantic behavior. What will emerge is a rewriting of the film along a trajectory that goes from the readable to the 1 See P Brooks, The Melodramatic Imagination. Balzac, Henry James, Melo­ drama, and the Mode of Excess, Yale University Press, New Haven and London 1976. 2 The defining moment in the history of melodrama in this sense of the word is Rousseau’s Pygmalion (probably written in 1762 but first performed in 1770 with music composed almost entirely by Horace Coignet). Rousseau referred to Pygmalion as «scène lyrique» and not mélodrame. On the almost instantaneous adoption of the term «mélodrame» for the subsequent instances of this genre see E. Sala, Eopera senza canto, Marsilio, Venezia 1995, pp- 23-24.

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Giorgio Biancorosso

unreadable and from text to performance. Key to this trajectory, as I will attempt to illustrate, is Godard’s «scandalous» treatment of the score written for the film by Georges Delerue. Le rnépris is based on Alberto Moravia’s 1954 novel 11 disprezzo0. The film tells the story of the unraveling marriage between aspiring author Paul (Michel Piccoli) and Camille, a former typist (played by Brigitte Bardot). Following his literary source, Godard places the story of the marriage between Paul and Camille in the context of a film production of a Romanized version of the Odyssey, directed by Fritz Lang (played in the film by Lang himself). The producer of the film, Prokosch (Jack Palance), increasingly at odds with Lang, has hired Paul to doctor the script in the hope of steering the project back toward what he had originally envisioned (that is, a money­ making blockbuster). Scattered throughout the film are a number of scenes showing the production of the film within the film: the screening of the rushes in the projection room; the rushes them­ selves; casting; the shooting of some sequences in the southern Italian island of Capri. By casting Fritz Lang in the role of the director of the Odyssey, Godard suggests Lang’s candidacy as the «Homer» of cinema, invites us to consider the relationship between the cinema and epic poetry, and puts forward a cyclical view of the history of dra­ matic genres. In Le rnépris, far from being the «art form of the future», cinema, despite being at the time of filming only 70 years old, has already reached old age and is on the verge of disap­ pearing3 4. The numerous references to, and quotations from, other films thus serve a very specific purpose: to tell the history of film, to trace cinema’s rich, and burdensome, legacy. Moreover, explicit references to Homer can be heard in a number of conver­ sations, particularly those between Paul and Fritz Lang. Paul him­ self suggests an interpretation of the Odyssey that reflects his own crisis with Camille, adducing that Penelope stopped loving Ulysses 3 A. Moravia, Il disprezzo, Bompiani, Milano 1954. 4 The cinema whose loss Godard laments is that of Griffith and Chaplin, Hawks and Hitchcock and, of course, Lang himself. On the idea of cinema as «lost object» in the films of the «Nouvelle Vague» directors, see T. Kiyoshi, Arcbéologie du discours sur l'auioréflexivité au cinéma, Thèse de doctorat, EHESS, Université Paris III, 1986.

266

Melodrama, Anti-Melodrama

and

Performance. Rereading Le mépris

before he left Troy because of his excessive clemency toward Pe­ nelope’s suitors, despite their openly making advances toward her5. Ulysses, according to this view, would have exhibited that same willingness to reach a compromise that in the film character­ izes Paul’s behavior toward the producer Prokosch. The film also features a number of references to itself and its own production history. Its self-reflexivity is most memorably flaunted in the credits, spoken over a shot of cinematographer Raoul Coutard shooting a scene of what can only be Le mépris itself. More subtly, it also manifests itself in the choice and use of actors and sets, the perceivable traces of the production process left in the distrib­ uted version of the film, and the apt dramatization of the relation­ ship between the producer, director, writers, and actors of Lang’s Odyssey, meant to reflect that between those involved in the making of Godard’s own Le mépris. Le mépris, then, is a love story, discourse on film and epic poetry, reflection on cinema’s production apparatus and, last but not least, discourse on its own status as a commodity that aspires to be an artwork - all at once. For a director too eclectic, indecis­ ive or perhaps merely undisciplined has refused to choose not only between different styles and genres but also among different degrees of completion of the material at hand. To sit through Le mépris is to watch the screen tests for a number of film projects assembled for the sake of the producers and distributors and barely held together by a series of ravishingly beautiful images and a plot line that comes across at best as tangential. As a result, instead of emerging, gradually and a posteriori, from a literal reading of the film - as is the case, to make two examples, with traditional alleg­ orical works or fairy tales - all the film’s meanings break through the surface of the text in no apparent order, under no hierarchy, and in such quick succession as to seem simultaneous. For unlike allegorical or self-reflexive works proper, there is no literal sense to speak of and therefore no firm background against which the trans­ 5 In the novel this interpretation is instead attributed to the director Rheingold. On the changes made by Godard in the adaptation, see M. Marie, Le mépris: Jean-Luc Godard, Nathan, Paris 1990, pp. 26-30.

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Giorgio Biancorosso

ference from the sense apparent to sense «other», from one text or genre to the one being referred to, from the literal to the allegor­ ical or, for that matter, from the film to the film within the film, could take place. Godard’s propensity for the ambiguity between different styles of presentation and the jolting juxtaposition of gestures borrowed from incompatible genres has long been recognized as one of the guiding forces in the creation of the highly personal, idiosyncratic style of his pre-1968 films. The results of his unorthodox procedures have traditionally been interpreted in terms borrowed from art his­ tory (cubism, collage, pop art), literary theory (palimpsest), and even music (polyphony). These metaphors, which pepper the crit­ ical literature on Godard, are very suggestive. Only rarely, however, has a sustained interrogation of the effects produced by this style been attempted6. In a striking reversal of good critical practice, pre­ sented with a Godard film critics have time and again buried that which waits to be unearthed, limiting themselves to take inventory of the films’ contradictions or, worse still, reading the sounds and images of his films as transparent means of access to readily access­ ible meanings. This is particularly true of Le mépris. Due to the film’s large budget, the involvement of an American producer (Joe Levine), and the casting of Europe’s then biggest star (Brigitte Bardot) Godard kept his instincts in check and reserved his most experimental ideas for his use of Delerue’s music. The film has thus the visual appear­ ance of a linear and narratively coherent work and has, predictably, been treated as such. The impossibility to pin down a primary sense, which this essay takes as the single most important source of the film’s meaning, has been conveniently sidestepped7. 6 For a welcome attempt to tackle the phenomenology of Godard’s early style, see D. Bordwell, Godard arid Narration, in Narration in the Fiction Film, University of Wisconsin Press, Madison 1985, pp. 311-334. 7 Jonathan Rosenbaum is, to my knowledge, the only critic to acknowledge that Le mépris is «shot through with contradictions» and to make that knowledge the basis of his reading of the film. See his Critical Distance, in Chicago Reader Online (http://wwwchireader.com/movies/archivesA)997/09057.html), accessed on June 12,2004. Critical studies on Le Mépris consulted in preparation of this chapter include M. Cerisuelo, de mépris» et la question du cinéma, in Jean-Luc Godard, Lherminier: Editions des

268

Melodrama, Anti-Melodrama

and

Performance. Rereading Ip mépris

Closer attention to the soundtrack would have suggested oth­ erwise. Remarkably - and unfortunately for Godard - co-producer Carlo Ponti did notice the subversive use of the music and distrib­ uted the film in Italy with a new score commissioned to jazz musi­ cian Piero Piccioni (and the dialogue entirely dubbed in Italian). No one else, however, seems to have paid attention. Delerue’s music has been described as «stark, plangent» (Philippe Lopate), con­ tributing «to elaborate a lyrical dimension of the film», (Michel Marie), or a «signifier» of an alleged Homeric style of narration (Jonathan Rosenbaum). However persuasive, these formulas are poor shorthand for the specific contribution of the music to Le mépris. Take for instance, the notorious prologue of the film in which Piccoli and Bardot are shown talking in bed, the latter famously naked (figs. 1-3). The scene is a re-shoot, as the original version of the film moved directly from the credits to the sequence, set in Cinecittà, in which Paul meets Prokosch for the first time. It is both a concession to producer Levine, who desperately wanted Bardot naked for box office purposes and a complex, and bitter joke in which Bardot’s body parts are mentioned one by one - lit­ erally itemized - without being actually shown (except for her le­ gendary posterior and her legs) 8. Bathed in red and blue, the scene is also a send-up of the so-called «blue movies» and as such also a not so subtle way of telling Levine that he ought to be a producer of pornographic films. Besides referring to soft-core pornography, the use of a red and then a blue filter tempers the impact of the sight of Bardot’s naked body by making the image seem more abstract, less trans­ parent. The appearance of the music, a few seconds into the scene, plays a similar function (see ex. 1). The beginning of the musical accompaniment is timed to the beginning of Camille’s litany of questions regarding her body and makes the preceding bit of conQuatre-Vents, Paris 1989; M. Marie, Le mépris..., cit.; P Lobate, Totally, Tenderly, Tra­ gically, Doubleday, New York 1998, pp. 50-63; K- Shyerman, H. Farocki, Speaking about Godard, New York University Press, New York 1998; L. Bersani, U. Durorr, Forming Couples, in Forms of Being, BFI Publishing, London 2004, pp. 19-738 Lopate aptly says that the scene «takes inventory of that sumptuous figure through color filters». See P Lobate, Totally, Tenderly, Tragically, cit., p. 51.

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Giorgio Biancorosso

versation sound in retrospect, different content aside, rather pro­ saic. Equally striking is the brief moment at which Paul and Camille’s voices are heard again unsupported by the music, just after the end of the cue. The acoustic quality of Paul’s voice, no longer enveloped in the music, seems to be issuing from a very different kind of space, a more familiar but less poetic world. At this juncture, Godard stops using the red filter and the camera begins a tracking movement along an ideal line traced by the back of Bardot’s body and her legs (fig. 2). As Camille’s questions turn to her face - her eyes, mouth, nose, etc. - another piece is cued in (see ex. 2). Immediately thereafter, Godard switches to a blue filter till the con­ versation, and with it the whole scene, comes to an end at the sound Paul’s fateful words, «I love you totally, tenderly, tragically», to which Camille replies, «Me too, Paul». Pairing the two music cues with a red and a blue filter, respect­ ively, Godard highlights their different affective character: Camille (ex. 1), which moves at a stately pace with a highly regular harmonic rhythm and a consistent texture throughout, is the more serene of the two. Its most memorable feature is its slow-moving, solemn melody in the tenor in simple counterpoint against the bass line, capped by an accompaniment figure in smaller values in the high register. Générique (ex. 2) is instead a doleful pavane in a minor that suddenly casts a dark light onto Paul and Camille’s intimate conver­ sation, marking a swift progression in the course of the conversation from serenity and abandonment to despair9.

9 Godard often treats Camille as a modular structure, made up of smaller mov­ able units (a use that Delerue must have surely foreseen). Générique is used a dozen times in the course of the film: occasionally in its entirety; sometimes, only the first ten measures (which also exist in a D minor version); still other times - as in the spoken credits - only from m. 11 onward. The titles are found in the recording of the score supervised by Delerue (Universal 013477-2). The recording also features what Michel Marie hears as two variants of Camille, called Rupture cbez Prokosch and Capri, respectively (M. Marie, Ze rnépris..., cit., p. 112). Camille, the better known of the two pieces, was used by Scorsese in the second half of his 1991 film Casino. As of today, I have not been able to locate a score, whether printed or manuscript, nor have I been able to locate the recording. The transcriptions are mine and they have been made directly from the soundtrack as heard in the DVD version of the film recently released in 2002 in The Criterion Collection (CONI 10 ISBN 0-78002-617-9). Raoul Coutard supervised the transfer for the Criterion DVD.

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Melodrama, Anti-Melodrama

and

Performance. Rereading Le mépris

ìèt for all the clarity with which Godard brings out their differ­ ence, the relationship of the two music cues to their respective por­ tions of dialogue remains ambiguous. A rich field of semantic and syntactical relationships is opened up without the music and the words ever settling into one and only one type of relationship. In the first part of the sequence, for instance, as the dialogue takes invent­ ory of Bardot’s body, some will hear Delerue’s score as making the exchange between Paul and Camille more poignant, the more knowing spectator will perhaps hear it as increasing its irony, making it more strident, yet others will savor the occasional - and accidental - synchronization between this question and that musical phrase, this word and that sonority; some will hear all of these things - and perhaps more - in the music, but only intermittently. But any attempt to find a firm intention, a coherent set of premises behind the timing and quality of the match between music and the image is bound to fail. Godard’s frank and somewhat didactic juxtaposition of Delerue’s two pieces as well as their somewhat schematic associ­ ation to two different colors point to their status as raw editing mate­ rial, as «sound shots» whose relationship to their visual counterparts remains somewhat unresolved10. We need not think of this state of affairs as a flaw. Godard may have consciously decided to keep in the final version of the film what was initially nothing more than a temporary sound track meant to be changed later in the editing process. Or else, he may have wanted to invoke a phase of film history in which the practice of matching music to the events on-screen was more improvisatory and less fastidious than it eventually became later or, more tantalizingly still, a phase of his - and any filmmaker’s - apprenticeship: playing the amateur film­ maker who experiences for the first time the anticipation and pleasure of pasting a beloved piece of music on to some images. If on the one hand this procedure contradicts the practice, common in melodrama, of tailoring each bar of music to a specific 10 Ackbar Abbas reminded me of the significance of the notion of «sound shot», first put forward by Michel Chion, during an oral presentation of this essay in the Comparative Literature Department at the University of Hong Kong. See M. Chion, L'audio-vision. Son et image au cinema, Nathan, Paris 1990; Engl, transl. Audio-Vision, Columbia University Press, New York 1994, pp. 42-43.

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gesture, word, or moment in the action, on the other it also makes us experience in unusually vivid form what it is like to hear the meter, rhythms, and phrasing of the music transform our perception of the spoken word: the very effect, in other words, the pursuit of which brought the technique of melodrama into existence in the first place11. Each moment in which the match seems no more than tentative, the synchronization arbitrary, and the effect less than spe­ cific, provides us with the opportunity to start afresh, try and rethink what form the relationship between music and the spoken word may or may not have taken. Godard’s treatment of the score seems like a demonstration of the testing approach which Walter Benjamin viewed as characterizing the direction of actors in film. Of his treat­ ment of the actors, Benjamin wrote «[t]he camera director in the studio occupies a place identical with that of the examiner during aptitude tests» 12. But instead of choosing among a number of the actors’ «segmental performances», with the goal of creating a seam­ less finished product, Godard involves the spectator in the testing process, for the distributed film presents us with no more than a tentative solution to each music/image problem at hand. The distributed film, in other words, consists of material appar­ ently still susceptible of changes and this, in turn, creates the illusion that it is being processed as we watch it. A clear instance of this is the end of the prologue itself. The transition to the following sequence features neither a dissolve nor a cross-fade, nor, finally, a sound overlap - none of those devices, in other words, that in more conventionally packaged films distract the spectator from perceiving the cut as other than a cut. Not only is the straight cut unadorned but the music and the image are not in perfect synchrony: the music continues briefly, «bleeds» over the shot of the meeting between Paul and Francesca without, however, functioning as a bridge. Sounding 11 See the long essay by Emilio Sala in J .-J Rousseau, H. Coignet, Pygmalion-, S. A Sografi, G. B. Cimador, Pimmalione (facsimile), ed. with a preface by E. Sala, Ricordi, Milano 19%. 12 W Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, in Schriften, Suhrkamp, Frankfurt 1955; Engl, transl. Tbe Work of Art in tbe Age of Mechanical Reproduction, in W Benjamin, Illuminations, ed. with an introduction by H. Arendt, Schochen Books, New York 1%9, pp. 228, 229 and 246.

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and

Performance. Rereading Le mépris

more like an oversight than an intended effect, the slight asynchrony heightens the impression that the cut is the temporary result of a preliminary stage of the editing process. Crucial to this impression is also the fact that the music is far from having finished its course. Générique, as can be seen from the transcription of its first twelve measures, is made up of small units that can be used as moveable components of a modular structure (see ex. 2). The piece offers many convenient points at which to start or stop the flow of the music without having to resort to such effacing procedures as a cross-fading or sound advance. Though Godard occasionally takes advantage of this, in this case he silences the music in mid-phrase, as if interrupting it. The design and movement inherent in a musical phrase, its having a beginning, a middle, and an end, is treated by Godard intuitively as a paradigm of a goal-oriented process the inter­ ruption of which points, indexically, to the film production process. It does so, I would argue, much more drastically and conclusively than the sight of the camera in the oft-quoted credits sequence, for there the camera showing cinematographer Raoul Coutard at work remains hidden from our view; that is to say, the act that shows the cinematic apparatus is not itself shown13. Alongside moments in which music plays a crucial role in frus­ trating the tendency to build syntagmatic relationships across suc­ cessive sequences, Le mépris also features transitions in which the music plays the opposite role by sealing a link - temporal, causal, and semantic - between different shots, sequences, and even dis­ cursive levels. It is as if music were collecting the many disparate, heterogeneous forces and tendencies that animate the film, concen­ trating them into a single, highly expressive gesture. One excellent case in point is the episode that kindles Camille’s contempt for her husband. The setting is the studios of Cinecittà in Rome. Having signed his first cheque to Paul and on his way to his villa by car, the producer Prokosch has invited Camille for a ride in a blunt and openly flirtatious manner. Despite Camille’s visible embarrassment 13 For a similar reading of the beginning credits of Godard’s Tout va bien (1972) see E. Branigan, Point of View in tbe Cinema, Mouton, Berlin, New York, Amsterdam 1984, p. 3.

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at Prokosch’s offer, Paul encourages her to go ahead with the pro­ ducer, insisting that he reach them by taxi (fig. 4). Whether for dis­ playing weakness in front of a more powerful male figure or using his wife to ingratiate himself to the signer of the cheque, a cheque he has not, after all, yet cashed, Paul thus initiates an irreversible process that will result in the loss of Camille’s love. As the car moves, Camille first turns right, and then cries «Paul!» just as she is about to be seen exiting the frame through its lower right-hand corner. This is followed instantly by a cut to a long shot of Paul who replies in turn by calling her name aloud (figs. 5-6). The way the episode is staged and the brilliant timing of the cut create the impression that Camille is not merely leaving but that she is being taken away. The music cue Générique begins immediately after Paul’s reply further dramatizing the episode by directing, retroactively, our perception of the couple’s cries just as we are about to process them. The resulting pathos is quite palpable. The sight of the car speeding away with its precious cargo cements the impression that Paul and Camille have in a single stroke lost control over their lives (fig. 7). Recall that the scene takes place in the film studios of Cinecittà. Prokosch’s red Alfa Romeo flashes past a worker intent on repainting not the wall of an actual building but a set, itself part of a larger set reproducing a square (a set pre­ sumably built for a film that bears no relation to the Odyssey). The drama of the young couple’s marriage plays out in a set that the characters have temporarily made their own and thus treat as they would any other portion of space - a dizzying reminder that each and every scene of Le mépris is in fact taking place in a built set. As the music continues, we see another shot in which Paul and Francesca, the latter riding past on a bicycle, greet each other. The disconnect between the gravity of the music and the casual tone of their exchange is also quite palpable. This segment of the narrative climaxes with a shot of a statue of Neptune, a reference to Roberto Rossellini’s film, Viaggio in Italia, of which Le mépris can be said to be a new version (fig. 8). Made par­ ticularly solemn and grave by its association to the statue, the music, in turn, calls attention to the statue’s austere, hieratical character, further abstracting it from a specific point in time and space. In fact,

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Performance. Rereading Le mépris

the image points back to a sequence set in the projection room during the screening of some of Lang’s rushes for his version of the Odyssey. Though the same statue was seen there in a different type of shot, the image may be safely said to belong to the «film within the film» still in progress. Stylistically reminiscent of Ejzenstejn’s montage of attractions, the juxtaposition is jolting. It takes the viewer by surprise. But grad­ ually the shot begins to both gain sense from, and impart new meaning to, what precedes it: first, a spatial relationship obtains whereby Neptune appears to be looking from above at what is taking place below; figuratively, Neptune places Paul and Camille’s all too human story in the broader context of the relationship between humans and their Gods. Michel Marie has observed that the images of the Gods inscribe the story of Paul and Camille in the story of Homer’s Odyssey by way of a Fritz Lang’s cinematic version of it14. But the scene calls, I think, for a much stronger characterization. The relationship between the story of Le mépris, Lang’s Odyssey and its poetic model is made so tangible as to suggest a genuine homology, identity even. The music, in particular, does not merely link the dif­ ferent shots syntactically but, I would argue, collapses the several dis­ cursive levels hinted at here - dramatic, allegorical, self-reflexive. Genres, styles, mediums, traditions converge in a rare and brief moment of absolute coincidence. The story of Paul and Camille, the story of the production of Godard’s Le mépris, Lang’s romanized Odyssey, Homer’s Odyssey — all tell the same story, all bear witness to a shared destiny at the sound of the same music. In the story of the marriage between Paul and Camille, the latter’s pain soon turns into hostility toward her husband, hostility strength­ ened by a number of misunderstandings and petty fights (and possibly also fueled, though neither the novel nor the film make this explicit, by Paul’s choice to sell his talents to the film industry). This irre­ versible process brings Camille on the verge of a bitter, unmitigated contempt, seemingly unjustified in the light of the episode that has allegedly caused it and yet real enough for her to accept Prokosch’s

14 M. Marie, Le mépris..., cit., p. 43.

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offer to drive her back to Rome, leaving Paul behind in Capri, where the film crew is still engaged in the shooting of Lang’s film. Paul and Camille’s marriage ends not only with their separation but also with Camille’s absurd and gruesome death by a car accident (figs. 9-11). The visual rhyme between this episode and the one exam­ ined above is unmistakable. The camera set up is the same as are the tracking movement to the right and the composition of the image. Most memorably, it is the same red car, driven by Prokosch, that after a teasingly tentative start flies past exiting the frame to the right. The coincidence stresses the significance of the earlier episode and is a subtle hint, soon to be confirmed, that the story has come full circle. The crash is heard off-screen while the camera tracks laterally over a letter written by Camille to Paul. There follows a cut to a tracking shot of the highway, the camera gradually approaching the site of the accident. At this point Godard cues in Camille. By the time it appears here, this piece has been heard as many as eighteen times already (albeit in five slightly different versions). The slowmoving melody in the tenor is made even more solemn by the majestic tracking movement. The epic character of the music stands in clear relief, its serenity and steadiness being in stark contrast to a scene of devastation and dismemberment. Indeed, after so many peregrinations, Delerue’s music would seem to have found in this scene, at long last, its preferred role: exalting the fate of ordinary people like Camille, extolling their humility and courage in the face of constant adversity and immortalizing their actions, thereby lifting the literal into the realm of the allegorical. Only, the gap between the literal and the allegorical, the gap between Le mépris and Lang’s Odyssey or, for that matter, Homer’s, is not quite closed. Like the writing that appears on-screen just before the crash, the images of the aftermath of the accident comes across more as signs - or, more accurately, writing on-screen - than as a transparent path of access to the represented content of the scene. The continuity in the direction of the camera movement, moving from left to right both in the shot of the letter and in that of the accident site, emphasizes the bi-dimensionality of that repres­ entation. The sumptuous camera movement, the disorienting still­ ness of what the camera goes on to reveal, the impression that the

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actors are posing as dead bodies, all draw our attention to the stagedness of the scene, which looks like a recreated hyperrealist painting or the staging of a Warhol photograph. Inevitably, the role of the music too is called into question. Is this the soundtrack to the accident that kills Camille, the death of a Homeric heroine or the filming of an accident in the shooting of Godard’s Le mépris? The accident is not the plot’s final turn and the film, shifting once again gear, goes on to end on an entirely different note. Yet the specter of a fatal occurrence and with it the promise of a tragic denouement were very clearly hinted at the beginning of the film, before the spoken credits. As the title of the film appears on-screen, a menacing tritone with the lower note resolving to a fifth (B flat-E), also construable as a hollow A minor chord (A-E), is emphatically struck twice in the soundtrack by an ensemble of woodwinds, strings, timpani and a cymbal. The sound, which would befit the beginning of a noir, animates the title and stresses its significance, its premonitory role. For the ending title, Delerue provided Godard with a minor sixth, A-F, inflected chromatically by a B flat and once again very emphatically played by a similarly composed ensemble. Though hardly conclusive in strictly tonal terms, the sonority points back to the beginning title, which it resembles very closely in terms of style and scoring. Music in film is employed as a means to dramatize or confer higher legibility as a matter of fact. As Peter Brooks and Thomas Elsaesser have observed, this usage is a legacy of the stage melo­ drama 15. The «pressing out» of meaning may occur over time, as when the music heard in the credits prepares the spectator to view the following events from a certain perspective or in the light of cer­ tain generic conventions. Delerue’s simple musical frame serves in Le mépris precisely this function. The opening fifth at the beginning gives away that the fate of the protagonists is doomed instantly and, one is tempted to say, shamelessly. Prefiguring the final result, the

15 P Brooks, The Melodramatic Imagination..., cit., pp. 48-49. T. Elsaesser, Tales of Sound and Fury: Observations on the Family Melodrama, «Monogram*, no. 4, 1972; reprinted in C. Gledhill (ed.), Home Is Where the Heart Is. Studies in Melodrama and the Woman's Film, BFI Publishing, London 1987, p. 50.

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music puts the spectator in the position of understanding what fol­ lows, from the most apparent plot turn to the most insignificant verbal exchange, as a symptom of a crumbling order, a step toward the fulfillment of a dark prophecy. The ending title purports to convey a sense of closure in a similarly unambiguous fashion. It does so far less convincingly, however, given that by then we know the film not to be a genre film but rather a restless «survey» of many different genres. Indeed, by the film’s end, one can only interpret Delerue’s two «bookends», so hyperbolic and thoroughly conventional, as no more than ironic «winks» to an established scoring practice16. Parody extends to cases in which the music dramatizes a seg­ ment of narrative being shown simultaneously. One complex instance in Le mépris occurs at the end of the apartment sequence. After the fight between Paul and Camille, which concludes the long sequence, the cue Générique erupts in the soundtrack used as a «stinger» of sorts17. The music precipitates the impression that this is a momentous turn in the story, insinuating that, following the somewhat tentative hostility of their previous confrontations, the stakes may in this case be very high indeed. Brooks has rightly observed that «we have become so accustomed to music used toward the dramatization of life that it is difficult for us to recapture its radical effect, to measure its determination of the representations before us» 18. The difficulty is also due to the peculiar confusion between perceiving subject and perceived representation. The music fuses together not only with the melodramatic body - to para­ phrase a striking image by Emilio Sala - but with the body of the spectator him/herself. Like a prosthesis of the mute spectator’s own nervous system, music, within the ritualized space of the movie the­ 161 am paraphrasing here Caryl Flinn’s illuminating characterization of Fassbinder’s capricious use of a nondiegetic tune in Angst essen Seele auf (Fear Eats the Soul, 1973)See C. Funn, Music and the Melodramatic Past of New German Cinema, in J. Bratton, J. Cook, C. Gledhill (eds.), Melodrama: Stage, Picture, Screen, BFI Publishing, London 1994, p. 112. It may be added that in this instance, as well many others, Fassbinder was probably influenced by Godard’s early style. 17 In the jargon of Hollywood studio composers, a stinger is a single, sustained musical gesture consisting of an individual note, a chord or a brief motif. It is normally used to punctuate the dramatic action, give closure to a sequence - hence the term or call attention to a particular piece of information. 18 P Brooks, The Melodramatic Imagination..., cit., p. 48.

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ater, voices on our behalf a range of responses - fear for the reper­ cussions, empathy, desire for moral retribution, and so forth - that could not be expressed otherwise. The music cue continues as Camille rushes out of the apart­ ment declaring her contempt for Paul. We then see Paul in his studio pick up a gun sitting, hidden behind his books, on a shelf. In the soundtrack, Camille’s off-screen words continue uninterruptedly from the previous shot, thus implying temporal continuity. Yet the new shot implies elided time, a temporal ellipsis, for it must have taken Paul some time to move from the living room, when we last saw him, to his studio. Whether we perceive Camille’s words as anchoring the film in the present tense, thus making the shot of Paul seem like a flash-forward, or vice versa, an ironic asynchrony obtains between what we hear and what we see. It’s as if the storytelling were proceeding at two different speeds at the same time. The feeling of a confrontation happening «here and now» is suddenly compromised. The asynchrony points to a whimsical reworking of sound and images that lessens considerably the visceral impact of the episode by re-framing it within a discursive context heavily marked by the perceivable presence of a mediating agent. Moreover, for all the intensity of the couples’ argument and the persuasiveness with which the actors enact it, it is difficult to believe that because of it Paul has turned into a villain capable of shooting his wife or the producer, Prokosch, with a gun. This is no setting for a crime of passion. Within this context, the music dramatizes without persuading. Its heightening effect is bracketed. By the end of the episode, its acoustics too have come to mark it as a discrete, no longer embodied, element of the representation: amplified but devoid of reverberation, as is the norm for nondiegetic music, the sound of Delerue’s music stands in stark contrast to that of Camille’s words, recorded on location. Whether he is collapsing discursive levels and narrative strat­ egies, laying bare their status as discrete, incompatible processes in the production of meaning, Godard destroys the very conditions of existence of a grammar and therefore also jeopardizes effective communication with his audience. However, from the ashes of the defunct languages invoked throughout the film, from the detritus left

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behind by all the films Le mépris might have been but did not turn out to be, there emerges a style - if not a language proper - that suggests a profound link between Le mépris and nothing less than the homeric poem itself by recreating a crucial dimension of the poetic model. Key to this recreation is repetition, the obsessive use of the same music. Godard had already adopted the strategy of repeating the same music ad nauseam two years earlier in Vivre sa vie (1961). But in Le mépris this strategy takes on a deeper meaning and has more wide ranging implications. It gives rise to a sustained reflection on the nature of the relationships between music and images in film that poignantly duplicates the search for a primordial, untainted language at work in the film within the film, namely Fritz Lang’s Odyssey. One of the rushes for Lang’s Odyssey will help me illustrate the point. I refer to the sequence that shows Ulysses, back to Ithaca, slaughtering Penelope’s suitors during the contest of the bow (figs. 1214). The costumes and the heavy make-up are both a parody the Hercules’ movies and other such schlock of the late 1950s and a puzz­ ling hint that Lang is working on a very low budget, like an amateur filmmaker. Meanwhile, in the soundtrack, Fritz Lang recites a German translation of verses 112-117 from the canto XXVI, the so-called «Ulysses» canto, of the Inferito19. Once again, Godard lays reference upon reference, style upon style. But what interests me most here is the rugged simplicity of the sequence, the hesitant, didactic pace of the editing, which I interpret as a means to convey the impression that the spatial and causal relationships produced by the three shots in sequence are discovered at the same time as they are being realized. A very early stage of film history is being invoked here, defined in terms of its experimental, performative style. This style is endorsed by Godard - via Lang - as the most appropriate for a filmed version of the Odyssey. What Godard is saying through this extraordinary pas­ sage is that to film the Odyssey one must adopt a language that is still in the process of inventing itself, a language still defining its most basic modes of operation and signification, and that the poetic force of the 19 «“O frati”, dissi, “che per cento milia/ perigli siete giunti a l’occidente,/ a questa tanto picciola vigilia/d’i nostri sensi eh e del rimanente/ non vogliate negar l’esperienza/ di retro al sol, del mondo sanza gente”».

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Odyssey is due to its letting that very process of invention and defin­ ition emerge through the surface of the text, its being written as it is being performed. Odysseus’ travels are, after all, a pretext not so much for storytelling as plotting but rather for storytelling as performance. The film that both contains and duplicates Lang’s Odyssey, namely Godard’s Le mépris, achieves the same goal, except that instead of working with different shots in succession, as in montage traditionally conceived, Godard is interested in combining images and music - hence the significance of the repetitions, interpretable as «aural tests», prolegomena to a language still in the making. A sequence set in Malaparte’s villa in Capri summarizes Godard’s approach. Having spotted Camille and Prokosch exchange a kiss, Paul storms into the house, gun in his pocket, at the sound of the cue Générique. He first walks toward the large window overlooking the expanse of blue sea surrounding the northeastern corner of the island, then makes his way toward the dining table. As Prokosch and Camille are seen entering the room through a door, the music sud­ denly and noticeably stops. The alternation between music-inflected and music-less shots is best interpreted as attempts to represent two different perceptions - Paul’s and the producer’s - of their respect­ ive position in life; their different consciousness of what is an other­ wise shared space and time. By unceremoniously switching off the music, Godard conveys this difference very crudely but also very effectively: their perspectives are, after all, incompatible. The example vividly indicates that the film’s soundtrack is experimental in the literal sense of being the result of a search still in progress rather than reflecting a crystallized set of procedures. Of course, a language of matching music to the moving image was well in place by the time Le mépris was made. In fact, the peculiar quality of its soundtrack results from the fact that it systematically skirts con­ ventions Godard and his audience knew all too well. In the present scene, for instance, Godard violates an unspoken rule that suggests that a music cue begin and end in such a way as to prevent what Alfred Newman once called the «pitfail of intrusion»20. In the absence 20 Interview with Earl Hagen, in The Psychology of Creating Music for Films, in E. Hagen, Scoringfor Films, Alfred Publishing Co. Inc., Los Angeles 1991, p. 157.

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of a significant event, piece of information, arresting shot or particu­ lar sound effect that may mask it, the cut is painfully exposed (it is perceived as an overt interruption). The fact that Godard, once again, silences the music in mid-phrase further enables the spectator to imagine the presence of someone twiddling a dial. The crudeness of the handling of the music, entirely at variance with convention, becomes acceptable if viewed as the extemporaneous gesture of a performer trying his hand at a new solution. Spotting and editing questions aside, because it is sufficiently versatile to enter in a number of relationships with the photographed action, the music initially conveys Paul’s own perception of his own ordeal somewhat effectively. The fact that it has been heard a number of times prior to this scene, however, decreases the specificity of its impact. It is difficult to distill from it a primary affect or signification arising from the dramatic action at hand. Far from accruing meaning and inscribing in its own trajectory the development of the plot and the characters’ psychology, in the manner of a leitmotif, the music calls attention to itself instead as a floating signifier, the conditions of combination, integration, and signification that underpin its range of possible effects being constantly in the mind of the spectator. Moreover, slightly thereafter, as a conversation between Paul and Prokosch ensues, music and the absence thereof play the opposite role: Delerue’s piece, picked up where it had been cut off, is now associated to Prokosch, while Paul’s grave mood is underlined by silence. Rarely has the arbitrariness of the musical signifier been demonstrated with such defiance. As the relationship between music and the image is not given but must be constructed from ground up, the impact of the music on the dramatic action and the dialogue is caught as nascent. The music is perceived now as enhancing the dra­ matic, affective, or kinetic values of the scene, now as being merely simultaneous to it. On the one hand, action, word, and music are reconstituted in our mind as a single gestalt; on the other, they emerge as discrete entities, reflecting not only different stages of the filmmaking process but also different stages in the creation of a lan­ guage. The effect produces distance but is also brazenly lyrical. By proceeding in this way, Godard manages to redeem even the most abused procedures, as when Delerue’s music is heard accompanying

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postcard-like images of the island of Capri and its surrounding waters (thus evoking, incidentally, the sirens). Time and again, he rejuven­ ates film music clicbés the way Lang, in his Odyssey, recreates the magic of a simple close-up or the relational power of montage through the most rudimentary succession of shots21. It is by exposing the process of testing and selecting that Benjamin held responsible for the loss of «aura» that Godard, ironically, manages to recreate a sense of presence in the domain of film. The subtle yet systematic subversion of all conventions regulating the «correct» use of music in film and, consequently, the inability on the part of the spectator to anticipate when the music will appear, what it will be doing, and how, animates the film from within, creating the illusion that it is not merely projected but that it is performed. Now to turn to music as a main variable in a series of «tests» is, wittingly or not, to refer back not so much to early cinema, which inherited musical practices already in place in a many other artistic genres and forms of public address, but rather to such early experi­ ments in the matching of music, language, and dramatic action as Rousseau’s melodrama Pygmalion and such critical reflections as one finds in Lessing’s Hamburg Dramaturgy. Indeed, an important chapter of the history and theory of montage may be said to begin with those 18th century attempts to theorize the relationship between music and stage action. But by eliciting a myriad different and sometimes mutually exclusive modes of perception Le mépris also restores a primordial sense of how music affects the spoken word and dramatic action beyond cinema, beyond musical theatre. Nostalgia for an older era of movie making, evidence of which fills the film from beginning to end, thus gives way to nostalgia for ancient, irretrievable forms of melo-poetic delivery.

21 Marie recognizes the «primal» quality of the images of the Odyssey without, however, linking this quality to what I see as Godard’s attempt to endow them with a sense of performativity See M. Marie, Le mépris..., cit., p. 59.

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MELODRAMMA, ANTI-MELODRAMMA E MELOLOGO Lettura de II disprezzo*

Traduzione di Giorgio Biancorosso.

In questo saggio vorrei rivisitare Le mépris (Il disprezzo, 1963) di Jean-Luc Godard alla luce del concetto di «melodramma» inteso come campo semantico, costellazione di significati: una forma di rap­ presentazione iperbolica e ipercodifìcata, altrimenti nota, per dirla con Peter Brooks, come «mode of excess», il cui effetto è di mini­ mizzare l’ambiguità del rappresentato, realizzare la massima leggibi­ lità (in termini percettivi, ideologici, e perfino etici) un genere ci­ nematografico i cui personaggi, perennemente in balia del destino, non sanno, o non possono, esprimersi con una propria voce; e, in ultima istanza, una tecnica drammaturgica che combina un testo par­ lato, un’azione pantomimica e della musica, ora in sequenza, ora si­ multaneamente (melodrama in inglese, Melodram in tedesco, mé­ lodrame in francese, melologo in italiano)12. Utilizzerò il termine melodramma in questi diversi significati co­ me una griglia concettuale attraverso la quale rileggere un film che si presta a molteplici approcci interpretativi. Nel fare ciò, chiederò implicitamente al lettore di interrogarsi sui molteplici usi a cui il ter­ mine «melodramma» si è prestato nel corso di più di due secoli di storia. Ne emergerà una lettura del film lungo un percorso che ne ri­ duce la trasparenza e leggibilità, costringendo l’interprete a muove­ re dal film come testo al film come atto performativo. Principale por1 Cfr. P Brooks, The Melodramatic Imagination. Balzac, Henry James, Melo­ drama and the Mode of Excess, Yale University Press, New Haven 1976; trad. it. L'immaginazione melodrammatica, Pratiche, Parma 19852 II momento cruciale nella storia del melologo è la gestazione del Pygmalion di J.-J. Rousseau (scritto attorno al 1762 ma eseguito solo nel 1770 con musiche di Hora­ ce Coignet e Rousseau). Rousseau si riferiva a questo suo lavoro con il termine «scène tyrique», non mélodrame. Sull’adozione quasi immediata del termine mélodrame, ve­ di E. Sala, L'opera senza canto, Marsilio, Venezia 1995, PP- 23-24.

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to d’entrata a questo percorso, come mi sforzerò di illustrare, è l’u­ so «scandaloso», da parte di Godard, della musica a un tempo soave e perturbante di Georges Delerue. Il disprezzo, com’è noto, si basa sull’omonimo romanzo di Al­ berto Moravia e, come la fonte letteraria, racconta la storia del dis­ solversi del matrimonio tra Paul (Michel Piccoli), aspirante scrittore, e Camille (Brigitte Bardot), ex-dattilografa3. Questo plot-line è a sua volta calato nel contesto di una produzione cinematografica de L'O­ dissea, diretta da Fritz Lang (interpretato nel film da Fritz Lang stes­ so). Il produttore Prokosh (Jack Palance), in rottura con Lang, ha scritturato Paul per riscrivere la sceneggiatura nella speranza di ri­ portare il progetto «in rotta», ovvero affermarne il carattere di pro­ dotto commerciale. Il film di Godard mostra diverse fasi di quello di Lang: la proiezione dei giornalieri; alcuni estratti dai giornalieri stes­ si; i provini; le riprese di diverse sequenze a Capri, e così via. Avendo scelto Lang per il ruolo del regista, Godard lo dipinge come una sorta di Omero del cinema mondiale, invitandoci a consi­ derare il rapporto tra cinema e poesia epica e proponendo niente­ meno che una visione ciclica dei generi drammatici. Ne 11 disprezzo, lungi dall’essere l’arte del futuro, il cinema, nonostante abbia solo settant’anni (siamo nel 1963), sembra aver già raggiunto la terza età, essere sulla soglia di una irreversibile, definitiva scomparsa4. I nu­ merosi riferimenti e citazioni da altri film svolgono una funzione ben precisa: raccontare la storia del cinema, tracciarne la ricca, e pesan­ te, eredità. I dialoghi presentano anche riferimenti espliciti a Ome­ ro, in particolare le conversazioni tra Lang e Paul. È Paul stesso a sug­ gerire una lettura del poema omerico che rispecchia la sua crisi con Camille, adducendo che Penelope smise di amare Ulisse prima che egli lasciasse Troia, a causa della sua eccessiva clemenza nei confronti dei Proci, che pure gli insidiavano apertamente la moglie5. Ulisse, se3 A. Moravia, Il disprezzo, Bompiani, Milano 1954. 4 II cinema di cui Godard canta la perdita è quello di Griffith e Chaplin, di Hawks e Hitchcock e, naturalmente, di Fritz Lang. Sull’idea del cinema come «oggetto perdu­ to» nei film dei registi della Nouvelle Vague, si veda T. Kiyoshi, Arcbéologie du discours sur Pautoréflexivité au cinema, Thèse de doctorat, EHESS, Università Paris III, 1986. 5 Nel romanzo questa interpretazione viene invece attribuita al direttore Rheingold. Sulle trasformazioni subite dal romanzo in fase di sceneggiatura e durante le ri­ prese, si veda M. Marie, Le mépris.- Jean-Luc Godard, Nathan, Paris 1990, pp. 26-30.

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condo questa lettura, avrebbe cioè mostrato la stessa tendenza al compromesso che caratterizzerebbe il comportamento di Paul nei confronti di Prokosch agli occhi di Camille. Il film presenta un’altra serie di riferimenti, di cifra alquanto di­ versa, a se stesso e alle vicende della sua stessa produzione. L’autoriflessività de // disprezzo è evidente sin dai celebrati titoli di testa, detti a voce, e non mostrati in sovraimpressione, durante una lunga inquadratura di Raoul Coutard piazzato su un dolly mentre riprende una scena da ascriversi proprio a 11 disprezzo. Il film pullula di altre sottili, ma altrettanto efficaci, suggestioni autoriflessive: la scelta de­ gli attori e delle scenografìe; le visibili - e udibili - tracce del pro­ cesso di produzione e post-produzione; la drammatizzazione, al li­ vello della fabula, del rapporto tra produttore, regista, scrittore e at­ tori de L'Odissea di Lang, drammatizzazione che rimanda ai rappor­ ti e alle tensioni personali vissute sul set de II disprezzo. Il disprezzo è, dunque, a un tempo storia d’amore, riflessione sul cinema e la poesia epica, gesto di protesta lirico e violento contro i rapporti di potere all’interno dell’industria nonché contro il proprio ruolo di prodotto commerciale che aspira allo statuto di «opera d’ar­ te». C’è di più. Un regista troppo eclettico, indeciso o forse semplicemente poco disciplinato ha non solo rifiutato di scegliere tra diversi stili, generi e approcci tematici, ma anche tra diversi gradi di comple­ tezza del materiale girato. Assistere a una proiezione de II disprezzo è come vedere i provini di una serie di possibili film, mai realizzati, pro­ vini messi insieme con una certa qual sufficienza per soddisfare pro­ duttori e distributori, e tenuti insieme da una serie più o meno coe­ rente di immagini straordinarie e da una trama elaborata solo nelle sue linee più generali. Invece di emergere gradualmente, e a posteriori, al­ la luce di una lettura del racconto - come accade, per esempio, con un racconto allegorico o una fiaba - tutti i riferimenti di cui sopra ir­ rompono infrangendo la superfìcie del film, senza ordine o criterio al­ cuno, e in successione così rapida da sembrare simultanei. Diversamente da un’opera propriamente allegorica o auto-riflessiva, ne II di­ sprezzo è impossibile ravvisare un livello di lettura «letterale». Viene così a mancare il fondamento stesso del transfer da un senso appa­ rente a un senso altro, da un genere, o registro stilistico, all’altro, e dal film contenitore (Il disprezzo) a quello contenuto (L'Odissea di Lang).

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L’ambiguità tra diversi registri, stili e strategie narrative, le giu­ stapposizioni, a volte violente, tra gesti e stilemi appartenenti a ge­ neri non associabili, se non addirittura incompatibili, furono subito riconosciute come caratteri distintivi di uno stile idiosincratico e al­ tamente personale (e ciò vale per tutti i film di Godard fino al 1968). I risultati sono stati interpretati con termini presi a prestito dalla cri­ tica d’arte (cubismo, collage, pop art), la teoria letteraria (palinse­ sto), e perfino la musica (polifonia). Si tratta di metafore indubbia­ mente suggestive. Ma raro è imbattersi in una lettura rigorosa ed esaustiva degli effetti prodotti da uno stile che per quanto riconosci­ bile e celebrato viene regolarmente «normalizzato» 6. Invece di rive­ lare ciò che aspetta di essere portato alla luce e discusso, i critici han­ no preferito, e continuano a preferire, tenerlo nel buio: curiosa in­ versione di ciò che passa per critica nel senso migliore del termine. Ci si limita invece a stilare elenchi di violazioni tecniche e sintattiche, a notare le apparenti contraddizioni, paradossi e vicoli ciechi ai qua­ li lo spettatore viene sottoposto oppure, cosa ancora più discutibile, a leggere i suoni e le immagini di un film di Godard come se fosse­ ro punti di accesso trasparenti a significati e prese di posizione este­ tiche e ideologiche che tali non possono essere, viste la volatilità e la consapevole incoerenza del loro portatore (Godard stesso). Questo vale soprattutto per II disprezzo. Con un budget di tut­ to rispetto, il coinvolgimento di un produttore americano (Joe Levi­ ne) e la scrittura di quella che era la più grossa star del cinema eu­ ropeo di allora (Brigitte Bardot), Godard pose un freno alle speri­ mentazioni limitandosi ad un uso radicale della sola colonna sonora. Il film ha di conseguenza l’aspetto di un racconto coerente e lineare ed è stato - non c’è da sorprendersene, visto quanto sopra - tratta­ to in quanto tale. L’impossibilità di stabilire un livello di lettura pri­ mario, letterale, che in questo saggio rappresenta invece l’elemento generatore di significati, è stata convenientemente ignorata7. 6 Per un lodevole tentativo di gettare le basi di una fenomenologia dello stile del primo Godard, si veda D. Bordwell, Godard and Narration, in Narration in the Fic­ tion Film, University of Wisconsin Press, Madison 1985, pp. 311-334. 7 Jonathan Rosenbaum è, a mio modo di vedere, l’unico critico che abbia non so­ lo riconosciuto le contraddizioni e incocrenze strutturali del film ma che ne abbia impo­ stato una lettura critica su tali basi. Vedi il suo Critical Distance, in Chicago Reader On-

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Una maggiore attenzione verso l’utilizzo della musica avrebbe suggerito ben altro approccio. Anche se fu doloroso per Godard, è si­ gnificativo che Carlo Ponti abbia notato l’uso a dir poco inusuale del­ la musica fatto dal regista, finendo per distribuire il film in Italia con una colonna sonora completamente diversa di Piero Piccioni, dal sa­ pore accattivante e vacanziero (insieme, come è noto, al dialogo in­ teramente, e sciaguratamente, doppiato in italiano). Nessun altro, pa­ re, sembra aver prestato altrettanta attenzione. «Severa e malinconi­ ca» ha detto della musica di Delerue Philippe topate; secondo Michel Marie essa «contribuisce ad elaborare la dimensione lirica del film»; a detta di Jonathan Rosenbaum, invece, essa è «segno» della cifra stili­ stica omerica a cui il film aspira. Formule accattivanti, certo, ma in­ sufficienti a rendere appieno il senso dell’impatto della musica. Si consideri, ad esempio, il noto «prologo» del film, in cui la Bardot dialoga con Piccoli sdraiata nuda, su un letto bagnato dalla sola luce del crepuscolo. Si tratta di una scena aggiunta, girata dopo le ri­ prese vere e proprie (il film doveva inizialmente aprirsi con la se­ quenza ambientata a Cinecittà in cui Paul incontra Prokosch). È una concessione bella e buona fatta da Godard al produttore Levine, il quale voleva assolutamente esporre la Bardot nuda in modo da at­ trarre più pubblico pagante. Ma si tratta anche di una amara presa in giro. Del corpo della Bardot vengono mostrate solo le gambe e il leg­ gendario posteriore. Al corpo si fa più che altro riferimento a paro­ le: le parti del corpo della Bardot - bocca, naso, fronte, seni, ecc. sono elencati uno per uno senza che li si possa vedere da vicino8. Girato con un filtro prima rosso e poi blu, il prologo parodizza la por­ nografìa dell’epoca, e in quanto tale può leggersi come una insinua­ zione fatta a Levine stesso, un suggerimento indiretto che forse avrebbe dovuto dedicarsi a quel genere cinematografico (figg. 1-3). line (http://www.chireader.com/movies/archivesA)997/09057.html), consultato il 12 giu­ gno, 2004. Altri studi critici consultati per la stesura finale di questo saggio includono: M. Cerisuelo, *Ze mépris» et la question du cinema, in Jean-Luc Godard, Lherminier: Edi­ tions des Quatre-Vents, Paris 1989; M. Marie, Le mépris..., cit.; R Lobate, Totally, Tenderly, Tragically, Doubleday, New York 1998, pp. 50-63; K. Silverman, H. Farocki, Speakingabout Godard, New York University Press, New York 1998; L Bersani, U. Dutoit, Forming Cou­ ples, in Forms of Being, BFI Publishing, London 2004, pp. 19-738 A questo proposito, Lopate scrive che la scena «fa l’inventario di quella figura sun­ tuosa attraverso filtri colorati». Vedi P Lobate, Totally, Tenderly, Tragically, cit., p. 51-

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Oltre a rimandare alla pornografìa, i filtri hanno l’effetto di sti­ lizzare il corpo della Bardot, rendendo l’immagine meno trasparente, meno concreta, più astratta. La musica per archi e fiati di Delerue, in­ trodotta pochi secondi dopo l’inizio della conversazione, gioca un ruolo simile (si veda la trascrizione del brano Camille nell’esempio 1). L’inizio del commento musicale coincide con quello della litania di domande poste da Camille a Paul riguardo al proprio corpo. La mu­ sica liricizza lo scambio facendo sembrare la porzione di dialogo che lo precede, al confronto, alquanto prosaica. Col finire del brano, le vo­ ci degli attori, non più avvolte dal manto sonoro della musica, cam­ biano di nuovo aspetto. La voce di Paul, acusticamente trasformata, sembra provenire da uno spazio diverso, più domestico e familiare, ma meno poetico. Il filtro rosso scompare e la cinepresa comincia un lento carrello laterale da destra a sinistra, come dettato dalle linee si­ nuose della schiena della Bardot (fìg. 2). Camille comincia una nuo­ va serie di domande sul proprio viso - gli occhi, la bocca, il naso - e un secondo brano (es. 2) comincia. Con esso Godard introduce an­ che un filtro blu. Musica e filtro accompagnano la sequenza fino alla fine della conversazione, e con essa della sequenza, al suono delle se­ guenti parole di Paul: «TÌ amo totalmente, teneramente, tragicamen­ te», parole alle quali Camille risponde: «Anch’io, Paul». Combinando il primo brano con il colore rosso e il secondo con quello blu, Godard sembra volerne portare alla luce il diverso carat­ tere affettivo. Il primo brano, Camille (es. 1), caratterizzato da un rit­ mo armonico regolare e una spaziatura costante delle voci, si muove con fare lento ma perentorio ed è dei due il più sereno. Il suo ele­ mento più riconoscibile è la lenta melodia nel registro del tenore, in contrappunto semplice con il basso e incorniciata da una semplice fi­ gura di accompagnamento nel registro più alto. Il secondo brano, Génériqne (es. 2), è invece una lamentosa pavana in La minore che getta una luce sconsolata sull’intima conversazione tra Paul e Camille, segnando il repentino affacciarsi di un sentimento di disperazione do­ po la serenità e l’abbandono sensuale della prima parte della scena9. 9 Godard spesso utilizza Camille come una struttura modulare, composta di unità più piccole (un utilizzo che Delerue dever aver senz’altro previsto in fase di com­ posizione). Générique viene usata una decina di volte lungo il corso del film: talvolta nella sua interezza; altre volte, ne vengono usate solo le prime dieci, dodici battute

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Nonostante la differenza tra i due brani emerga con inusuale forza e chiarezza, il loro rapporto con le rispettive porzioni di dialo­ go rimane indeterminato. La musica apre un ricco campo di relazio­ ni sintattiche e semantiche senza però che un tipo specifico di rap­ porto tra musica, parola e immagine si imponga sugli altri. Nella pri­ ma parte della sequenza, per esempio, mentre si fa «l’inventario» del­ le parti del corpo della Bardot, alcuni sentiranno nella musica una eco pregnante dei sentimenti espressi dai personaggi; i più smalizia­ ti vi sentiranno forse una vena di ironia; altri ancora saggeranno l’oc­ casionale - e accidentale - effetto di precisa sincronizzazione tra ta­ le parola o gesto e quella nota, frase o sonorità; altri ancora, infine, vi sentiranno forse tutte queste cose simultaneamente. Di certo, ogni tentativo di ravvisare una intenzione precisa, una serie di pre­ messe frutto di una strategia coerente, è destinato a fallire. La giu­ stapposizione tra questo colore e questa musica, così esplicita e a suo modo un po’ didattica, rinvia in ultima analisi al segmento mu­ sicale in quanto materiale da montaggio grezzo, «ripresa sonora» il cui rapporto con le immagini rimane irrisolto10. Godard può aver coscientemente lasciato nella versione finale ciò che inizialmente non era che una soluzione provvisoria, suscetti­ bile di cambiamenti in una seconda fase della post-produzione. Può anche aver voluto evocare una fase della storia del cinema in cui la sincronizzazione tra immagine ed accompagnamento musicale era meno precisa, più fluttuante e imprevedibile, oppure, possibilità an­ fana versione troncata che esiste anche in Re minore); altre volte ancora - come ad esempio durante i titoli di testa - solo dalla undicesima battuta in poi. I titoli sono gli stessi di quelli del disco della musica supervisionata dallo stesso Delerue (Universal 013477-2). Lo stesso disco contiene anche due brani che Marie considera varianti di Camille, dai titoli Rupture chezProkosch e Capri (M. Marie, Le mépris..., cit., p. 112). Si ricordi che Camille, il brano più noto, fu utilizzato da Scorsese in Casino (Id., 1991). A tutt’oggi, non sono riuscito a localizzare né la partitura della musica né il disco di cui sopra. Le trascrizioni sono di mia penna e sono state effettuate ascoltando la musica come la si sente durante il film nella versione DVD della Criterion Collection (CONI 10 ISBN 0-78002-617-9). Questa versione digitale del film è stata effettuata con la supervi­ sione di Raoul Coutard. 10 È stato Ackbar Abbas a ricordarmi il concetto di «ripresa sonora» (coniato da Michel Chion), durante la discussione di una versione orale di questo saggio nel di­ partimento di Letterature Comparate dell’università di Hong Kong. Vedi M. Chion, L'audio-vision. Son et image au cinéma, Nathan, Paris 1990; trad. it. L'audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 2001.

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cor più allettante, una fase del proprio apprendistato, e l’apprendi­ stato di chiunque si avvicini alla regia: far fìnta di essere un cinea­ matore che prova l’ebbrezza di montare una musica amata alle im­ magini appena girate. Se da un lato tale procedura contraddice la prassi, comune al mélodrame ottocentesco e alle sue varie reincar­ nazioni novecentesche, di combinare musica, gesto, parola o imma­ gine con grande precisione, dall’altro essa rivela con inusuale imme­ diatezza il processo di trasformazione che la parola - parlata, non cantata - subisce non appena toccata dalle armonie, il ritmo, le frasi di un inciso musicale: quella stessa trasformazione che teorizzata e perseguita portò alla nascita del progenitore del melodramma, vale a dire il melologo settecentesco11. Ogni istante in cui la musica sem­ bra adattarsi in maniera arbitraria, poco specifica, accidentale alle movenze e parole della scena girata apre come uno squarcio ina­ spettato su questo processo di trasformazione, permettendoci di sondare le possibili forme che il loro rapporto avrebbe potuto assu­ mere. Si tratta di un uso della musica che sembra voler esemplifica­ re le idee di Benjamin sul rapporto tra regista e attori al cinema. Di questo rapporto Benjamin sottolineò il fatto che le riprese sono co­ me tanti «test» con il regista ad occupare «esattamente la stessa po­ sizione che nelle prove di selezione professionali è occupata dal di­ rettore deH’esperimento»12. Ma invece di selezionare uno dei «test» per il prodotto finale al fine di cesellare un prodotto finito, Godard lascia che lo spettatore stesso sia coinvolto nel processo, dato che il film distribuito nelle sale non presenta che una versione provvisoria - nonché improvvisata - dell’incontro tra musica e immagine. Il film visto in sala, detto altrimenti, consiste di un assemblaggio di materiali ancora in stato di definizione e affinamento e ciò crea l’il­ lusione che venga plasmato nel momento stesso in cui lo vediamo. La fine della stessa scena ne offre un chiaro esempio. La transizione tra questa e la prima sequenza a Cinecittà non ricorre a nessuna del­ 11 Si veda il lungo saggio di Emilio Sala in J.-J. Rousseau, H. Coignei, Pygmalion; S. A. Sografi, G. B. Cimador, Pimmalione (facsimile), edizione con una prefazione di Emilio Sala, Ricordi, Milano 1996. 12 W Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner techniscben Reproduzierbarkeit, in Schrijnen, Suhrkamp, Frankfurt 1955; trad. it. L'opera d'arte nell'epoca della sua ri­ producibilità tecnica: arte e società di massa, Einaudi, Torino 1991, nota 17, p. 52.

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le tecniche normalmente in uso per dissimulare lo stacco sonoro tra un ambiente, o momento della storia, e l’altro (dissolvenza incrocia­ ta, ponte sonoro, ecc.). Lo stacco è non solo netto e percepibile ma è reso ancor più evidente dal fatto che musica e immagine non sono in perfetta sincronia: la musica continua brevemente, a mo’ di «sba­ vatura», dopo l’esordio della prima inquadratura della sequenza suc­ cessiva. Tale asincronia sembra il risultato di una certa fretta e non­ curanza per il dettaglio piuttosto che un effetto voluto, come a indi­ care che lo stacco riflette una fase preliminare del montaggio. Questa impressione è anche creata dal fatto che la musica non ha, nel momento in cui viene interrotta, finito il proprio corso. Il brano in questione (Générique), come si può vedere dalla trascri­ zione delle prime dodici battute (es. 2), è composto da unità mol­ to brevi utilizzabili come elementi di una struttura modulare. Il bra­ no, in altre parole, offre molti momenti in cui sarebbe conveniente, nonché discreto, interrompere il flusso sonoro della musica senza che ciò attragga in alcun modo l’attenzione (e senza peraltro dover utilizzare tecniche di montaggio o missaggio del suono). Godard sfrutta questo aspetto del brano di Delerue in altri frangenti ma in questo caso mette a tacere la musica a metà frase, come a volerla in­ terrompere. L’andamento e il movimento propri di una frase musi­ cale, il fatto che abbia un inizio, un centro e una conclusione, ven­ gono intuitivamente compresi dal regista come stadi di un proces­ so teleologico la cui interruzione rimanda al processo di produzio­ ne del film, rompendo l’illusione diegetica. E lo fa, aggiungerei, in maniera più drastica ed esplicita che non l’immagine della cinepre­ sa di Coutard nella tanto celebrata sequenza dei titoli di testa, poi­ ché in quel contesto la cinepresa che ci mostra Coutard rimane in ultima istanza nascosta allo spettatore: l’atto che ci mostra l’appara­ to rimane esso stesso occultato13. Accanto a frangenti in cui il montaggio della musica gioca un ruolo cruciale nello spezzare relazioni sintagmatiche a cavallo tra due sequenze, // disprezzo presenta anche transizioni in cui la musica 13 Branigan fa un’osservazione simile a proposito dei titoli di testa di Toni va bien (Crepa padrone, tutto va bene, 1972). Vedi E. Branigan, Point of View in the Cinema, Mouton, Berlin, New York, Amsterdam 1984, p. 3-

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gioca un ruolo opposto, sigillando un legame temporale, logico o se­ mantico tra due inquadrature, scene o sequenze, siglando perfino la coincidenza tra diversi livelli discorsivi. La musica, in questi frangen­ ti, sembra raccogliere le disparate forze e strategie che animano il film, concentrandole in un unico, potente gesto espressivo. Un otti­ mo esempio di ciò lo fornisce la scena in cui vediamo innescarsi il processo di odio di Camille verso il marito. La scena si svolge a Ci­ necittà. Dopo aver firmato il primo assegno a Paul e già in procinto di tornare alla villa con la sua Alfa Romeo rossa, Prokosch invita Ca­ mille a salire in macchina con fare esibizionista e sfacciato. Nono­ stante Camille sia visibilmente imbarazzata dalPofferta, Paul la inco­ raggia a soddisfare la richiesta del produttore, insistendo nel rag­ giungerli dopo in taxi (fìg. 4). Vuoi per aver mostrato una certa de­ bolezza nei confronti della personalità più forte del produttore, vuoi per essersi voluto ingraziare attraverso la moglie il firmatario di un assegno che, dopo tutto, non ha ancora incassato, Paul scatena un processo che culminerà nella perdita della moglie. Al partire della vettura, Camille si gira ed esclama «Paul!», una frazione di secondo prima di scomparire dalPimmagine. Segue im­ mediatamente uno stacco su un campo lungo di Paul che, correndo, risponde chiamando a sua volta il nome di Camille (figg. 5-6). La co­ reografia dei movimenti e la scansione degli eventi crea l’impressione che Camille non stia semplicemente lasciando la scena ma che venga portata via a forza. Il brano Générique viene inserito subito dopo il grido di Paul, reindirizzando la nostra percezione delle voci dei due protagonisti proprio mentre ci accingiamo ad archiviarle, e caricando così l’episodio di ulteriore pathos. L’immagine della macchina che lascia Cinecittà con il suo pre­ zioso cargo conferma l’impressione che in un solo istante Paul e Ca­ mille abbiano perso il controllo della loro vita (fìg. 7). Si rammenti, inoltre, che la scena si svolge a Cinecittà. L’Alfa Romeo di Prokosch sfreccia di fronte non a un vero edificio ma a un set, a sua volta par­ te di una piazza altrettanto artificiale (e in tutta probabilità ricostrui­ ta per un film che con L’Odissea di Lang non ha nulla a che fare). Il dramma della giovane coppia si svolge, in altre parole, in uno spazio fittizio che i personaggi hanno però temporaneamente fatto proprio e trattano così alla stregua di qualsiasi altra porzione di spazio: me­

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mento vertiginoso che ogni scena ne II disprezzo, com’è peraltro ov­ vio, si svolge in un set costruito o scelto per l’occasione. Questo segmento narrativo giunge al proprio apice espressivo con un’inquadratura di una statua di Nettuno, un rimando a Viaggio in Italia di Rossellini, di cui II disprezzo potrebbe a ragione dirsi un remake (fig. 8). Resa solenne e grave dalla comparsa dell’immagine della statua, la musica, a sua volta, esalta il carattere austero, ieratico della figura di Nettuno, rendendone più astratta la collocazione spa­ zio-temporale. In verità, l’inquadratura rimanda alla sequenza dei provini ambientata a Cinecittà. Anche se vista in un diverso tipo di inquadratura, l’immagine di Nettuno è dunque già apparsa nel film in progress di cui II disprezzo rappresenta la cornice, vale a dire LOdissea di Lang. Stilisticamente riconducibile al montaggio metaforico alla Ejzenstejn, la successione tra le due immagini è stridente. Il primo piano largo della statua coglie lo spettatore impreparato. Ma lenta­ mente l’inquadratura acquista un senso in relazione a quanto la pre­ cede: innanzitutto, applicando una logica spaziale elementare, Nettu­ no sembrerebbe guardare dall’alto la stessa scena vista dallo spetta­ tore sullo schermo un solo istante prima; figurativamente, la presen­ za di Nettuno colloca le vicende di Paul e Camille nel contesto più am­ pio dell’agone tra uomini e dei. Michel Marie ha osservato come le immagini degli dei inscrivano una storia - quella della coppia - nel­ l’altra - quella deWOdissea di Omero, attraverso la presenza media­ trice di Lang14. Ma la sequenza invita a una formulazione più radica­ le, più completa del rapporto fra il film e il lontano modello poetico, il quale è reso così tangibile, concreto da suggerire una omologia, una vera e propria coincidenza di forme e intenti. La musica, lungi dal­ l’essere mero tessuto connettore tra i diversi spazi discorsivi - dram­ matico, allegorico, autoriflessivo - li confonde e, in ultima analisi, li fonde. Generi, stili, medium, tradizioni convergono in un punto di as­ soluta coincidenza. La storia di Paul e Camille, quella della produzio­ ne de II disprezzo di Godard, L'Odissea romanizzata di Lang, quella di Omero, raccontano tutte la stessa vicenda, sono testimoni di un destino, da tutti condiviso, al suono della stessa musica. 14 M. Marie, Le mépris..., cit., p. 43.

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Quanto al matrimonio tra Paul e Camille, il dolore e la sorpresa di quest’ultima si tramutano in aperta ostilità, ostilità che si cemen­ ta grazie a una serie di fraintendimenti e scontri (e forse anche, ma né il romanzo né il film si esprimono esplicitamente a proposito, al fatto che Paul si sia «venduto» all’industria cinematografica). Questo processo, irreversibile, porta Camille a un sentimento di aperto, amaro disprezzo, in apparenza ingiustificato alla luce dell’episodio che pare averlo provocato, eppure così profondo da portarla a tor­ nare a Roma con Prokosch e lasciare Paul da solo a Capri, dove nel frattempo la troupe di Lang si è trasferita per girare un altro episo­ dio della saga omerica. La separazione tra i due coniugi non è il termine ultimo della vicenda, bensì la premessa del tragico, assurdo e sanguinoso inci­ dente in cui Camille perde la vita, accanto a Prokosch, schiantando­ si contro un autotreno (figg. 9-11). La rima visiva tra questo episodio e quello esaminato in precedenza è lampante: stessa inquadratura, carrello laterale da sinistra a destra, simile composizione pittorica. Fatto ancor più riconoscibile, è la stessa automobile rossa, guidata da Prokosch, a sfrecciare da sinistra a destra dopo una falsa partenza. Il rimare due scene lontane tra loro è un modo per confermare, a po­ steriori, il significato profetico della prima e al contempo avvertirci che siamo ormai giunti in procinto della fine. Lo scontro tra i due autoveicoli avviene fuori campo. Al suono lancinante delle lamiere che si accartocciano l’un l’altra, la cinepresa inquadra, con un carrello laterale, il testo di una lettera per Paul fir­ mata da Camille. Segue un campo lungo della porzione di autostra­ da dove è avvenuto l’incidente e un carrello con cui ci avviciniamo alla macchina in frantumi e ai due corpi esangui. Qui Godard inseri­ sce il brano Camille. Anche se sentito in precedenza in cinque ver­ sioni leggermente diverse tra loro, il brano è riconoscibilissimo in quanto appare qui per la diciottesima volta (!). Il carattere solenne della lenta, perentoria melodia nel registro del tenore viene esaltato dal costante, sontuoso movimento di macchina. La musica acquista qui anche un carattere epico che aveva eluso in precedenza. Il suo scandire il tempo in maniera così chiara e serena è in forte contra­ sto con una scena di distruzione e sangue. Sembra davvero che do­ po tante peregrinazioni la musica di Delerue abbia trovato qui il suo

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ruolo più adatto: cantare il destino di persone ordinarie, come la ex­ dattilografa Camille, esaltarne il coraggio e l’umiltà nell’accettare le circostanze di una vita tutto sommato assurda, immortalarne le azio­ ni e le scelte, facendo lievitare, in ultima analisi, il letterale nella sfe­ ra deH’allegorico. Eppure ci sbaglieremmo nel credere che il letterale e l’allegorico, che II disprezzo di Godard e L'Odissea di Lang - o quella di Ome­ ro - vengano qui a coincidere. Un varco - ben visibile - rimane aper­ to. Come la firma di Camille vista in dettaglio prima del fatale scon­ tro in autostrada, l’immagine dell’incidente è palesemente segno scrittura per immagini - piuttosto che finestra trasparente sul suo presunto contenuto. Sia nell’inquadratura della lettera sia in quella dell’incidente la cinepresa si muove verso destra, quasi ad occultare lo stacco e come a collegare le due immagini, sottolinearne la bidimensionalità, l’assenza di profondità (palese, peraltro, nel caso della lettera anche senza alcun movimento di macchina). La sontuosa car­ rellata, la sconcertante immobilità di ciò che la cinepresa va gradual­ mente a svelare, l’impressione che i due attori stiano posando come cadaveri indicano una certa qual ostentata artificiosità della mise-enscène. Verrebbe quasi da dire che Godard stia tentando di ricreare su celluloide un dipinto iperrealista o una delle celebri fotografie di Andy Warhol. È inevitabile che anche il ruolo della musica venga ri­ messo in gioco, sempre cangiante, a seconda che ci immaginiamo di essere di fronte all’incidente in cui muore Camille, alla morte di un personaggio omerico, a un riferimento intertestuale all’arte contem­ poranea, oppure alle riprese di un incidente durante la produzione de // disprezzo di Godard. L’incidente non è, di fatto, l’ultimo episodio del film, il quale cambia anzi repentinamente tono e luoghi, ritornando a Capri sul set del film di Lang. Ma il sentore di una fine violenta, e con esso la promessa di una fine tragica, era già emerso all’inizio del film, pri­ ma della sequenza dei titoli di testa. In concomitanza con il titolo del film, si sente un minaccioso tritono (Si bemolle-Mi) con la nota più bassa che si risolve in una quinta (La-Mi), ovvero un accordo in La minore a quinta vuota. Lo strumentale comprende fiati, archi e percussioni. Questa sonorità, che sarebbe di casa in un noir, anima il titolo, sottolineandone la funzione di premonizione. Per il titolo

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finale, Delerue ha fornito a Godard una sesta minore, La-Fa, con una inflessione cromatica (Si bemolle), il tutto affidato ancora una volta a un simile gruppo di strumenti. Per quanto non conclusiva in termini squisitamente armonici, tale sonorità rimanda al titolo ini­ ziale, che ricorda per timbrica e stile, e in quanto tale suggerisce di per sé il sopraggiungere della fine del film (fine confermata, com’è ovvio, dal cartello finale). Anche se non lo ha notato mai nessuno, il tono «noir» di questo cartello finale è completamente «sfasato» ri­ spetto a quello sereno e contemplativo del noto campo lunghissi­ mo del mar Mediterraneo con cui molti vorrebbero che il film si di­ cesse concluso. La musica da film viene di norma utilizzata per drammatizzare o conferire maggiore leggibilità agli eventi o alle situazioni filmate. Come hanno osservato tempo fa sia Peter Brooks sia Thomas Elsaesser, seppure in sedi diverse, tale utilizzo è stato ereditato dal melodramma teatrale ottocentesco 15. Tale «pressione a significare» esercitata su quanto filmato può avvenire gradualmente lungo l’asse temporale. È il caso della musica per i titoli di testa, la quale prepa­ ra - «istruisce» - lo spettatore a vedere ciò che segue da un certo punto di vista e alla luce di certe convenzioni di genere. Ciò vale na­ turalmente per la musica di Delerue per il titolo del film (così come quella dei titoli di testa recitati a voce). La quinta aperta La-Mi lascia intendere istantaneamente, si è tentati di dire svergognatamente, che il destino dei protagonisti è segnato. Prefigurando l’esito finale, la musica mette lo spettatore nella posizione di saggiare ogni aspet­ to del film - sonoro, verbale, plastico o drammaturgico - come sin­ tomo di un mondo corrotto, un passo in direzione dell’awerarsi di una tragedia annunciata. Il titolo finale dovrebbe in teoria comunicare in termini altret­ tanto certi un senso di chiusura, di compimento, ma lo fa con mi­ nore convinzione o, a seconda dei punti di vista, maggiore ironia, 15 P Brooks, The Melodramatic Imagination, cit., pp. 48-49. T. Elsaesser, Tales of Sound and Fury: Observations on the Family Melodrama, in «Monogram», n. 4, 1972; ora anche in C. Gledhill (a cura di), Home Is Where the Heart Is, BFI Publishing, Lon­ don 1987; trad. it. Storie di rumore e furore.- osservazioni sul melodramma familia­ re, in «Filmcritica», n. 339-340, 1983, poi in A. Pezzotta (a cura di), Forme del melo­ dramma, Bulzoni, Quaderni di Filmcritica 23, Roma 1992.

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poiché a quel punto siamo ben consapevoli che il film è una «rasse­ gna» di generi e stili e non un esempio di questo o quel genere. Ar­ rivati a tale consapevolezza, non ci resta che ripensare ai due titoli e alla loro musica, così iperbolici e convenzionali, come due divertite cornici sonore che fanno, per così dire, l’occhiolino a pratiche ge­ nerico-stilistiche assodate e qui parodiate16. Questo spirito di parodia pervade anche in momenti in cui la musica agisce non in prospettiva temporale ma su quanto visto si­ multaneamente. La conclusione della sequenza nell’appartamento fornisce di ciò un esempio complesso e di non facile lettura. Sul fi­ nire della agitata discussione che della sequenza è il punto culmi­ nante, il brano Générique irrompe nella colonna sonora, usato alla maniera di uno «stinger» 17. È la musica a consolidare l’impressione che questo sia un momento cruciale della storia, come a insinuare che, dopo le precedenti e transitorie scaramucce, la posta in gioco sia in questo caso molto alta. Brooks ha giustamente osservato co­ me «siamo talmente abituati alla musica usata in funzione drammati­ ca che ci risulta difficile catturarne il radicale impatto, misurare il mo­ do in cui determina le forme del rappresentato»18. Tale difficoltà la si deve anche alla peculiare confusione tra soggetto percepente e ciò che viene rappresentato. La musica si fonde non solo al corpo del melodramma, per riprendere una metafora del musicologo Emilio Sala; essa si fonde al corpo stesso, inteso questa volta in senso lette­ rale, dello spettatore. Calata in uno spazio ritualizzato e regolato da norme di comportamento - il cinema o un teatro -, come una pro­ tesi del sistema nervoso dello spettatore muto, la musica esprime tutta una serie di risposte emotivo-cognitive a quanto visto che non potrebbero altrimenti trovar sfogo. 16 Si vedano anche, in proposito, le osservazioni di Caryl Flinn su Angst esseri Seele auf (La paura mangia Tanima, Rainer Werner Fassbinder, 1973); C. Flinn, Music and the Melodramatic Pasto/New German Cinema, in J. Bratton,}. Cook, C. Gledhill (a cura di), Melodrama: Stage, Picture, Screen, BFI Publishing, London 1994, p. 112. Da notare che l’influenza di Godard su Fassbinder fu profonda. 17 Nel gergo hollywoodiano uno «stinger» è un breve gesto musicale - una pro­ gressione armonica, un motivo melodico o ritmico, una sonorità - la cui funzione è di punteggiare o chiudere un’unità drammatica oppure richiamare l’attenzione verso un aspetto particolare della scena o dell’azione. 18 P Brooks, The Melodramatic Imagination..., cit., p. 48.

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Il brano di Delerue continua sulle immagini di Camille che esce furiosa dall’appartamento sputando il proprio disprezzo per Paul. Ve­ diamo poi Paul, nel suo studio, prendere una pistola nascosta dietro dei libri. Le urla di Camille continuano dopo lo stacco, suggerendo continuità temporale tra l’inquadratura di Camille sulle scale e quel­ la di Paul nello studio. Eppure quest’ultima copre un segmento nar­ rativo posteriore, poiché Paul non può essersi spostato dal salone al­ lo studio in un solo istante. C’è una leggera, ma ben percepibile, asincronia tra il suono della voce di Camille e la nuova inquadratura: il «presente» della narrazione appartiene o a uno o all’altra, ma non a entrambe. Ovvero, è come se la narrazione procedesse a due ve­ locità diverse. Il senso di un dramma in atto hic et nunc viene così irrimediabilmente compromesso. L’asincronia tra suono e immagine rimanda ad una elaborazione alquanto capricciosa del materiale gi­ rato, elaborazione che attutisce di molto la presa emotiva dell’episo­ dio ricomponendolo in un contesto discorsivo dove si fa sentire - ec­ come! - la mediazione di un autore (o comunque di un agente, una coscienza costitutiva). Per quanto intenso lo scontro verbale tra i due possa apparire, peraltro, si fa fatica a credere che Paul voglia davvero farla finita - uc­ cidere o uccidersi - con una revolverata. Nulla ci ha preparato a un crimine passionale di tale portata. Ed è per questo che la musica, co­ sì drammatica, agisce ma senza persuadere. Il suo impatto è come messo tra virgolette. Sul finire della sequenza, la sua stessa acustica si fa «sospetta»: il suono amplificato, pulito, come di norma per la musica non diegetica, sta in aperta opposizione al suono della voce di Camille, registrato in presa diretta, sancendone lo statuto di ele­ mento discreto, disancorato, estraneo alla scena. Nel contaminare stili, registri e strategie narrative, riducendoli a mere operazioni di costruzione del significato, Godard distrugge an­ che le condizioni di esistenza di una grammatica e con ciò una nor­ male ed efficace comunicazione con il proprio pubblico. L’irritazio­ ne che i suoi film dei primi anni sessanta riescono ancora a genera­ re ne è lampante prova. Ma dalle ceneri, le «rovine» degli stili e lin­ guaggi evocati e poi rinnegati lungo il corso del film, dagli spezzoni di tutti i film che II disprezzo avrebbe potuto essere ma non è stato, emerge uno stile - se non un linguaggio vero e proprio - che salda

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un legame profondo tra il film e nientemeno che il poema omerico stesso, legame siglato dalla ricreazione di un aspetto cruciale del lin­ guaggio poetico de L'Odissea, ricreazione alla cui base sta la ripeti­ zione, l’uso ossessivo della stessa musica. Godard aveva già adottato la strategia di ripetere la stessa mu­ sica ad nauseam due anni prima in Vivre sa vie (Questa è la mia vi­ ta, 1961). Ma ne 11 disprezzo tale strategia assume un significato ben diverso, con ramificazioni più profonde, in quanto fornisce l’occa­ sione per una riflessione sulla natura del rapporto tra musica e im­ magine che rispecchia la ricerca di un linguaggio cinematografico ar­ caico ed elementare in atto nel fìlm-dentro-il-fìlm, vale a dire L'Odis­ sea di Lang. Prendiamo in considerazione uno dei «provini» del film di Lang, quello della sequenza in cui Ulisse, tornato a Itaca, massacra i Proci nel ben noto episodio della gara di tiro con l’arco (fìgg. 12-14). I co­ stumi e il pesante trucco degli attori sono sia una presa in giro dei cosiddetti «film di Ercole», sia un indizio tutto sommato enigmatico - visto il ruolo di Prokosch in quanto garante finanziario - che Lang sta lavorando con un budget molto basso, come un cineamatore. Mentre vediamo il provino, la voce di Lang, fuori campo, recita una terzina dal Canto XXVI, il cosiddetto «canto d’Ulisse», daWInferno di Dante, in traduzione tedesca19. Come di norma, Godard contamina questo riferimento culturale con quella citazione, questo stile con quel periodo storico. Ma l’aspetto a mio modo di vedere cruciale del­ la sequenza è la semplicità estrema, verrebbe da dire «rustica», il pas­ so esitante, e in qualche modo maldestro, del montaggio, quasi a vo­ ler dire che le relazioni spaziali e causali fra le tre inquadrature sia­ no state «inventate», scoperte nel momento stesso del montaggio, e non premeditate (si considerino, peraltro, i tre colori diversi del fon­ dale, rosso, giallo, e infine blu: chiara indicazione che l’impressione di continuità spaziale fra le tre porzioni di spazio sia frutto, appunto, del montaggio). Si tratta di una rievocazione di una fase «antica» del­ lo sviluppo del cinema, sperimentale e dal sapore dimostrativo, di19 «“O frati”, dissi, “che per cento milia/ perigli siete giunti a l’occidente/ a que­ sta tanto picciola vigilia/ d’i nostri sensi eh’è del rimanente/ non vogliate negar l’esperienza,/ di retro al sol, del mondo sanza gente”».

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dattico. È questo, sembra dirci Godard attraverso il tramite di Lang, lo stile più appropriato a una versione cinematografica de L’Odissea. Una Odissea cinematografica, detto altrimenti, deve adottare un lin­ guaggio ancora in fase di definizione, poiché la forza poetica della fonte letteraria sta proprio nel suo fare emergere sulla superfìcie del testo il suo essere formulata nel momento stesso in cui viene ese­ guita. Le traversie di Ulisse, dopo tutto, sono un pretesto non tanto per il racconto in quanto storia bensì in quanto azione verbale, ese­ cuzione, performance (da parte, naturalmente, del cantore-bardo). Il film che contiene e al contempo raddoppia L’Odissea di Lang, vale a dire II disprezzo di Godard, realizza un simile obbiettivo gio­ cando non con il montaggio di immagini in successione ma con quello tra musica e immagine: di qui fimportanza delle ripetizioni della stessa, interpretabili come «test», veri e propri prolegòmeni a un linguaggio audio-visivo ancora in fase di elaborazione. La se­ quenza alfintemo della Villa Malaparte illustra sinteticamente e in maniera efficace il «metodo» di Godard. Dopo aver visto Prokosch e Camille scambiarsi un bacio, Paul si precipita nel salone della casa, con la pistola in tasca, e al suono della familiare musica di Delerue (il brano Générique). Prima si avvicina alla grande finestra che si apre sul mare in direzione nord-orientale, poi si dirige verso il grande ta­ volo da pranzo. Non appena Prokosch e Camille entrano nel salone, la musica viene palesemente interrotta. L’alternare segmenti con mu­ sica e segmenti senza musica riflette forse due prospettive psicolo­ giche - quella di Paul e quella del produttore - diametralmente op­ poste, la loro diversa percezione di uno spazio e un tempo altrimenti condivisibile. Azzittendo la musica senza complimenti, Godard co­ munica tale divario in maniera rozza ma efficace; le posizioni dei due personaggi sono, dopo tutto, incompatibili. La sequenza offre un esempio lampante di come la colonna so­ nora sia da considerarsi sperimentale nel senso tecnico di una ricer­ ca in corso, un esperimento. Com’è ovvio, quando II disprezzo fu gi­ rato, nel 1963, il rapporto tra musica e immagine era regolato da tut­ ta una serie di convenzioni e procedure che ne faceva una sorta di para-linguaggio. La colonna sonora de II disprezzo deve anzi il suo carattere specifico proprio alla sistematica violazione di queste con­ venzioni, con le quali il pubblico aveva, più o meno consapevol­

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mente, una certa familiarità. Nell’esempio appena discusso, Godard si fa beffe di una regola basilare secondo la quale la musica deve aver inizio e interrompersi in modo tale da non rendere percepibile lo stacco (quello che il compositore hollywoodiano Alfred Newman chiamava «the pitfail of intrusion»)20. Nella totale assenza di un even­ to significativo, un’informazione saliente, un’immagine o suono che ci distragga, l’interruzione della musica ci appare per quello che è; viene percepita, per l’appunto, in quanto interruzione. Inoltre, il fat­ to che Godard interrompa la musica a metà frase rende ancor più fa­ cile immaginare la presenza di un qualcuno che, seduto alla movio­ la, ne controlli i pulsanti e gli interruttori. La rozzezza della soluzio­ ne diviene accettabile e anzi «rispettabile» esteticamente solo se vi­ sta come il gesto estemporaneo di un regista-esecutore. Ora, tralasciando altre questioni pertinenti alla scelta dei tempi e il montaggio degli inserti musicali, dato che è sufficientemente versatile da entrare in rapporto - non in collisione - con il girato, la musica esprimerebbe tutto sommato bene la stridente percezione che Paul ha della propria condizione esistenziale. Ma il fatto che la si è sentita numerose volte in precedenza ne diminuisce la specifi­ cità e dunque l’impatto. È diffìcile coglierne un affetto o significato primario in relazione al contenuto drammatico della scena. Invece di accumulare significati e funzioni narrativo-sintattiche, come un Leitmotiv, la musica si fa man mano un significante fluttuante, sem­ pre pronta a giocare un ruolo diverso. Subito dopo l’interruzione di cui sopra, Paul e Prokosch iniziano a parlare; a questo punto, la mu­ sica e la sua assenza - la matrice binaria stabilita solo qualche istan­ te prima - si scambiano di ruolo: il brano di Delerue, ripreso esat­ tamente dove era stato interrotto prima, è ora associato a Prokosch, mentre il cupo umore di Paul è sottolineato dalla sua assenza. L’ar­ bitrarietà del significante musicale è stata raramente dimostrata con tale fredda efficacia. Visto che il rapporto musica-immagine non è dato ma va co­ struito volta per volta, il fondersi della musica al contenuto dell’im­ magine e il suo assumere questa o quella funzione vengono colti sul 20 Intervista di Newman con Earl Hagen, in The Psychology of Creating Music for Films, in E. Hagen, Scoringfor Films, Alfred Publishing Co. Inc., Los Angeles 199L P- 157.

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loro nascere. La si sente ora enfatizzare la scena nei suoi risvolti emo­ tivi, drammatici e plastici, ora risuonare inerte, mero canale sonoro attivato in parallelo, non in convergenza, alle immagini e al dialogo. Da un lato, musica, parola e azione vengono ricostituite dalla mente dello spettatore come unica, integrata Gestalt., dall’altro, esse sono nulla più che tanti elementi discreti di una rappresentazione incom­ piuta, riflesso non solo dei diversi stadi di produzione del film ma an­ che di quelli della creazione di un linguaggio. L’effetto è alienante ma al contempo anche straordinariamente lirico. L’uso ostentato ma al contempo coraggioso della musica di Delerue redime a volte perfi­ no le più abusate immagini, come quelle di un mare blu cobalto da cartolina (rievocazione non tanto sottile, peraltro, delle sirene). Più volte, Godard dà nuova vita a cliché musicali allo stesso modo in cui Lang, nella sua Odissea, ricrea la magia di un semplice primo piano o del montaggio tra due inquadrature21. Nel mettere in luce il pro­ cesso di test e selezione del materiale, processo che secondo Benja­ min starebbe alla base della recitazione cinematografica, e che se­ condo lo stesso è co-responsabile della perdita della famosa «aura», Godard riesce, ironicamente, a ricostituire il senso, per quanto labi­ le, di una presenza. La sistematica sovversione delle procedure che regolano l’uso della musica da film e, di conseguenza, l’impossibilità per lo spettatore di dire quando e come la musica verrà usata, crea l’illusione che venga eseguito e non semplicemente proiettato. Ora, affidarsi alla musica come la variante principale in una serie di test equivale, che lo si voglia o meno, a rivisitare non solo il cosid­ detto cinema delle origini, il quale a sua volta eredita diverse forme di prassi musicali da altri generi artistici, riti e funzioni pubbliche; signifi­ ca anche chiedersi se il cinema debba qualcosa agli esperimenti sette­ centeschi sul rapporto tra musica, parola e gestualità di cui sono te­ stimoni il melologo alla Rousseau o le riflessioni di un Lessing. Un’im­ portante pagina della storia del montaggio cinematografico la si po­ trebbe, in verità, far risalire proprio a questi tentativi di teorizzare il rapporto tra musica e azione scenica. Ma nel restaurare il senso della 21 Marie riconosce una qualità «antica» nelle immagini del film di Lang, ma di­ versamente da me non lega tale qualità al senso di performatività espresso dal film. Ve­ di M. Marie, Le mépris..., cit., p. 59-

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precarietà del rapporto tra musica, parola e azione, Godard sembra guardare al di là perfino del teatro. La nostalgia per un cinema che sembra irrimediabilmente perduto, nostalgia che pervade il film dall’i­ nizio alla fine, lascia ne II disprezzo il passo a quella per antiche, e an­ cor più irrecuperabili, forme di espressione melopoetica.

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COSÌ LONTANO, COSÌ VICINO Un’analisi di

incrociata di A Time to Love and a Time to Die Douglas Sirk e Die Ehe der Maria Braun di Rainer Werner Fassbinder

di

Giovanni Spagnoletti

Premessa In generale quando si affronta il problema del legame tra Douglas Sirk e Rainer Werner Fassbinder - non soltanto come auto­ ri ma anche nel loro rapporto di filiazione testuale e progettuale - si sceglie di parlare di Angst essen Seele auf (La paura mangia /’ani­ ma, 1973), come ha fatto per esempio chi qui scrive \ La ragione di tale scelta è abbastanza evidente, basti ricordare il celeberrimo dato di fatto che il film di Rainer Werner Fassbinder costituisce il diretto remake di All That Heaven Allows (Secondo amore, 1955) di Dou­ glas Sirk. Il paragone ravvicinato tra queste opere illustra, quindi, in modo quasi paradigmatico due differenti epoche o stadi del melo­ dramma nello storico passaggio tra il cinema classico e quello mo­ derno. Senza dimenticare poi che il film di Fassbinder può servire a studiare e verificare le influenze che un regista ha esercitato sul più giovane allievo. Il tentativo di analisi che seguirà, invece, si pone nel­ l’ottica di rileggere due film che appartengono alla tarda e più ma­ tura produzione di entrambi i filmmaker, con l’inconfessato obbiet­ tivo di verificare gli esiti stilistici (e contenutistici) di quegli stessi due autori in un contesto non più di diretta dipendenza testuale (o di fa­ scinazione diretta). Per verificare inoltre la capacità di un certo me­ lodramma «sociale» tedesco (ma anche hollywoodiano) di riuscire, 1 Cfr. Rainer Werner Fassbinder e il melodramma in G. Spagnoletti (a cura di), Lo specchio della vita, Lindau, Torino 1999- Tra l’altro Fassbinder, com’è noto, aveva indi­ rizzato al maestro una appassionata «lettera d’amore» sotto forma d’analisi di sei film sirkiani nel celebre saggio Imitation ofLife. Uber Douglas Sirk, in «Femsehen und Film», n. 2, 1971; trad. it. Imitation of Life. Sul cinema di Douglas Sirk, in R. W Fassbinder, I film liberano la testa, a cura di G. Spagnoletti, Ubulibri, Milano 1988, pp. 9-20.

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pur nella «distanza» storica e in due modi di produzione differenti, a raccontare e analizzare la disfatta della seconda guerra mondiale e la fine di un’epoca.

1. Da un certo punto di vista Die Ebe der Maria Braun (Il ma­ trimonio di Maria Braun, 1979) e A Time to Love and a Time to Die (Tempo di vivere, 1958) sono film quasi antitetici pur nella loro co­ mune volontà di affrontare, attraverso la narrazione a vaste campate del melodramma, il tema della realtà sociale del mondo tedesco tra la fine del secondo conflitto mondiale e l’inizio travagliato della ri­ costruzione postbellica. Entrambe le pellicole, infatti, ruotano intorno al desiderio di riu­ scire a cogliere, mediante gli archetipi di una narrazione che si vuole comunque popolare (più per il pubblico assai vasto cui vuole rivol­ gersi che per gli stilemi di una forma in ogni caso colta e talvolta di non facile decifrazione)2, quelle che sono state le contraddizioni che hanno portato al delirio di onnipotenza della Germania nazista. E, a pensarci su, nessun genere cinematografico sarebbe stato in grado di esemplificare un discorso così ambizioso meglio del mè­ lo se è vero, come dice Peter Brooks, che tipico della retorica del me­ lodramma è

2 Ed è proprio questa vocazione verso un pubblico quanto più possibile indiffe­ renziato e vasto a costituire uno degli aspetti che più accomunano due autori per cer­ ti aspetti invece molto diversi. A entrambi i film che ci accingiamo ad analizzare si po­ trebbero ben adattare le parole che Peter Brooks dedica alla descrizione del melo­ dramma: «Come l’oratoria rivoluzionaria, il melodramma si preoccupa fin dai suoi ini­ zi di individuare, esprimere ed imporre verità etiche e psichiche fondamentali: le ri­ pete continuamente con la massima chiarezza, ne inscena i conflitti e gli scontri, pre­ sentando e ripresentando la minaccia del male e la glorificazione finale della moralità. Le sue implicazioni sociali possono essere, a seconda dei casi, rivoluzionarie o conser­ vatrici, ma il linguaggio è sempre radicalmente democratico e si sforza di rendere le sue immagini chiare e comprensibili a chiunque», cfr. P Brooks, The Melodramatic Imagination: Balzac, Henry James, Melodrama and the Mode of Excess, Yale Univer­ sity Press, New Haven 1976; trad. it. L'immaginazione melodrammatica, Pratiche, Par­ ma 1985, pp. 32-33- Resta pur vero che il mondo cui fa riferimento Brooks è quello de­ gli albori del melodramma (e del periodo rivoluzionario in Francia), ma la spinta a un linguaggio democratico è comune a entrambi gli autori e identica è la volontà di voler comunicare (anche sfiorando il didascalismo) un preciso ritratto etico e morale della Germania del secondo conflitto mondiale.

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l’enfasi sulle verità e i rapporti più semplici, il senso cosmico e mora­ le conferito ai gesti più banali [...] il tentativo di rendere avvincenti ele­ menti della realtà, del quotidiano, della «vita privata», attraverso l’uso di espressioni drammatiche particolarmente intense e di gesti tali da rivelare la posta in gioco che si cela dietro le superfìci più innocenti3.

Ma al di là del comune genere di appartenenza e al di là della vocazione allo spaccato sociale (che si sostanzia, in entrambi i casi, del felice paradosso di utilizzare una storia di sentimenti universale per rendere più comprensibile e chiaro lo sfondo storico che la ospi­ ta) i motivi di somiglianza sembrerebbero, a un primo sguardo, es­ sere conclusi. In realtà, è proprio affondando lo sguardo nelle diffe­ renze palesi che intercorrono comunque tra i due film che si fa via via più chiaro quanto profondo sia invece il legame che li accomuna. Nati sotto l’egida di due periodi storici diversi, entrambi sono, e non potrebbe essere diversamente, figli del periodo che li vide na­ scere. Adattato dal romanzo coevo di Erich Maria Remarque, Tem­ po di vivere si mantiene, infatti, perfettamente calato nel solco del più classico dei melodrammi antimilitaristi e pacifisti che hanno fat­ to la gloria di tutto il cinema pre e postbellico hollywoodiano. Ciò che semmai distingue il film di Douglas Sirk da tante contempora­ nee e stereotipate opere sul tema sono da una parte la mancanza di una facile retorica giustificazionista (gli orrori della guerra sono stati un male necessario per ristabilire la giustizia e la pace), dall’al­ tra una voglia sincera di realismo, l’esigenza di costruire uno sfon­ do plausibile (anche da un punto di vista politico-sociale) su cui in­ nestare gli archetipi di una storia come infinite altre. Attraverso un fraseggio ampio e disteso, il filmmaker tedesco-hollywoodiano di­ spiega un indiscutibile magistero stilistico nella precisa volontà di rendere, attraverso le immagini potenti che l’industria gli consente di realizzare, il clima di fondo di un’epoca contraddittoria. In que­ sto modo il cinema riesce a confrontarsi con la storia senza cadere nelle facili esemplificazioni, anche se alcuni elementi come l’ecces­ sivo pudore neH’affrontare il tema dei campi di concentramento (tema questo sin troppo rimosso dall’industria hollywoodiana fino 3 Ivi, pp. 30-31.

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a tempi molto recenti) possono oggi far sorridere per una certa in­ genuità. Dal canto suo II matrimonio di Maria Braun è figlio diletto sia delle logiche metacinematografiche del Nuovo Cinema Tedesco - per cui il cineasta non si limita più a utilizzare il cinema come pri­ vilegiato strumento d’indagine del reale, ma si interroga sulla sua stessa funzione storica proprio nel momento in cui la esercita - sia di una società neocapitalista che, superato il periodo della difficile ricostruzione, deve cominciare a fare i conti con gli spettri del pro­ prio passato e con i complessi di colpa derivanti dalle conseguenze delle proprie azioni. Fassbinder, insomma, porta avanti una sorta di doppia indagine: la prima rivolta alle contraddizioni del Nuovo Uo­ mo tedesco, la seconda rivolta al film stesso, alla sua dinamica, al suo funzionamento, alla sua reale capacità di veicolare un senso profondo. Sirk, invece, non si poneva il problema teorico del fun­ zionamento degli archetipi melodrammatici che metteva in atto nel­ le sue fiammeggianti pellicole, ma limitava l’azione a un terreno sti­ listico che riteneva indubitabile e certo. Il suo più giovane «allievo», dal canto suo, riscoprendo le convenzioni e i piaceri narrativi di un genere «basso», teoricamente impraticabile per qualsiasi autore che aspirasse alla patente di dignità, metteva costantemente in discus­ sione quegli stessi archetipi, giocava a destrutturarli con risultati ed echi squisitamente brechtiani (d’altronde siamo negli anni settan­ ta!). Se quello di Douglas Sirk è un melodramma per così dire al pri­ mo stadio, quello di Fassbinder è un melodramma raddoppiato che blocca, con l’arma dell’intelligenza cinefila, l’eccesso di sentimento che il genere aveva richiesto, in generale, come ingrediente assolu­ tamente necessario. Si è parlato spesso e a ragione, analizzando l’o­ pera del filmmaker bavarese, di «melodramma raffreddato» e forse non c’è termine migliore per descrivere l’attitudine mostrata dal re­ gista di raggelare il sentimento dell’immagine mediante la lucidità analitica del pensiero. Fassbinder è un Sirk che si filma mentre sta girando un film, un Sirk duplicato. D’altronde non ci potrebbe es­ sere il secondo senza il primo perché quest’ultimo è una condizio­ ne necessaria all’esistenza dell’altro e del resto - lo abbiamo già ri­ cordato - l’autore di II matrimonio di Maria Braun ha sempre di­ chiarato apertamente il suo amore incondizionato per il collega più

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anziano, esule in terra hollywoodiana, da cui ha attinto non poche suggestioni e non pochi temi4.

2. Ciò che c’è, quindi, di comune tra i due film (da un punto di vista stilistico, ma anche tematico) non tarda a mostrare un approc­ cio al genere radicalmente diverso eppure tanto simile. Entrambe le opere, tanto per fare un esempio, ospitano al loro interno alcune sequenze di bombardamenti aerei. In Fassbinder tale sequenza apre il film a mo’ di prologo ed è caratterizzata da una sua lunare astrazione (un palazzo in primo pia­ no, i suoni delle esplosioni, il crollo di alcuni calcinacci e le finestre che esplodono) che trasforma la relativa povertà di mezzi (econo­ mici) del regista in un serbatoio di ricchezza espressiva. In Douglas Sirk l’analoga situazione oltre ad essere più volte ri­ petuta come il refrain della guerra è resa, invece, con tutta la ric­ chezza di mezzi che la Universal poteva mettergli a disposizione, con rapide carrellate su macerie fumanti mentre le bombe centrano il bersaglio sotto lo sguardo impassibile della macchina da presa. Al di là della palese disparità riscontrabile tra queste sequenze non si può non notare, comunque, quanto l’immagine del bombar­ damento serva a sancire l’amore delle due coppie di protagonisti, in perfetto accordo con le leggi tradizionali del melodramma. In Rainer Werner Fassbinder il fragore delle bombe irrompe proprio nel mo­ mento cruciale del matrimonio (senza riuscire, fra l’altro, a interrom­ perlo o a invalidarlo); in Sirk i bombardamenti accompagnano ogni tappa della storia comune dei due sposi. Un primo bombardamento fornisce un’occasione di incontro tra i due innamorati (nella casa di lei, dove lui cercava notizia dei suoi genitori scampati a un altro bom­ bardamento); un secondo sopraggiunge al momento culminante del 4 Nel citato saggio su Sirk, Fassbinder nota qualcosa che ci aiuta a capire da do­ ve deriva l’impostazione di dramma privato-storico de II Matrimonio di Maria Braun-. «Non si possono fare film sulla guerra in quanto tale; sarebbe importante descrivere come nascono le guerre, cosa provocano o cosa lasciano dietro di sé nella gente. Tem­ po di vivere non è neanche un’opera pacifista perché non ci fa mai dire: senza questa orribile guerra tutto andrebbe bene o qualcosa di simile. II romanzo di Remarque, Zeit zu leben und Zeit zu sterben, è un’opera pacifista. Remarque dice che senza la guerra ci sarebbe un amore eterno, Sirk afferma, invece, che senza la guerra non ci sarebbe amore» (R. W Fassbinder, Imitation of Life. Uber Douglas Sirk, cit., p. 17).

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loro corteggiamento; un terzo (dopo il momento di panico derivan­ te dalla notizia che la fabbrica in cui lavorava la ragazza era stata col­ pita) permette di scoprire quella casa che sarà l’unico vero nido d’a­ more della coppia. È tipico del melodramma (e i due autori lo sanno bene) cercare nell’orrore i germi luminosi della felicità, come appare nell’immagine simbolica dell’albero che in Tempo di vivere fiorisce in pieno inverno, perché una bomba con le sue fiammate ne ha risve­ gliato il senso della primavera, pur bruciandone una parte. Anche il modo in cui i due registi hanno reso le scene dei ri­ spettivi matrimoni si apre a possibili considerazioni che vanno nella stessa direzione. In entrambi i casi, infatti, secondo un modello già abbondante­ mente sperimentato in campo melodrammatico, a essere messo in scena è un matrimonio impossibile, una celebrazione paradossale in cui la letizia dell’unione dei due coniugi viene messa in urto palese con le contingenze entro cui quella stessa unione viene sancita. In ambedue i casi lo spettro che assilla i coniugi è la partenza dell’uomo per rientrare in guerra, ma mentre in Fassbinder tale spet­ tro è il motore generatore di tutto l’intreccio, in Sirk non si ha a che fare con una vera e propria partenza al fronte, bensì con un ritorno dopo una breve licenza. In altre parole quello che ne II matrimonio di Maria Braun è il preludio e la condizione di tutto (non a caso è il titolo stesso a dichiarare apertamente l’intenzione narrativa del re­ gista), in Tempo di vivere resta solo una parentesi relativamente fe­ lice all’interno della dura cornice dell’evento bellico. Proprio per questi motivi i due eventi finiscono per avere all’in­ terno della scacchiera narrativa messa in atto delle valenze per certi versi opposte. Cuore pulsante del film in Sirk, che lo pone significa­ tivamente al centro della sua opera, in Fassbinder il matrimonio as­ solve la funzione di vero e proprio motore dell’azione che non può essere «mostrato», pena il rischio di fargli perdere quell’aura mitica che fungerà poi da giustificazione di tutti i successivi elementi pre­ sentati dall’intreccio. Insomma, per dirla in breve, la funzione che l’e­ vento mantiene all’interno del testo fassbinderiano consente all’auto­ re di utilizzare una messa in scena volutamente ellittica e quasi astrat­ ta (il matrimonio ha luogo fuori scena, in un palazzo che noi possia­ mo vedere solo da fuori mentre è soggetto ai bombardamenti) ed è

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proprio la sua allusività che ci permette melodrammaticamente di simpatizzare con l’ossessione di queìVamourfou che la protagonista nutre poi nel corso di tutto il racconto. Viceversa, la precisa funzione narrativa isolata da Sirk obbliga la narrazione a incanalarsi in un qua­ dro più ampio, che permette digressioni drammaturgiche diversifica­ te. Ecco, allora, che a tentare di impedire il matrimonio secondo un modello già tipico di molte opere liriche interviene una serie di fat­ tori storicamente attendibili come, su tutti, il fatto che la protagoni­ sta sia figlia di un dissidente politico rinchiuso nei campi di concen­ tramento (in una debole allusione alla questione dello sterminio de­ gli ebrei che, come abbiamo già avuto modo di accennare in prece­ denza, assume la dimensione di un vero e proprio rimosso della cat­ tiva coscienza collettiva, sia americana, sia tedesca). Ciò che in Fassbinder diviene, insomma, ellittico e astratto, in Sirk era articolato e narrativamente mosso. Ne consegue una sequenza piuttosto complessa con la futura sposa che resta fuori mentre lo spo­ so si accerta della possibilità effettiva del matrimonio e che poi, mal in­ terpretando un gesto deH’uomo, fugge via per dare luogo al più clas­ sico degli inseguimenti lungo le scale del municipio. Il principale impedimento all’unione della coppia resta, comun­ que, in entrambi i casi la Guerra, con il suo carico di morte e di do­ lore. In questo senso, al di là delle differenze narrative riscontrabili nei due film (e del resto Fassbinder gira il suo capolavoro venti anni dopo il melodramma sirkiano con la conseguente possibilità di spo­ stare il suo occhio indagatore al dopoguerra) si può dire che la diffe­ renza principale tra le due opere sia prima di tutto una differenza di sguardo. Pur focalizzando, infatti, il proprio raggio di indagine sulla società tedesca del periodo a cavallo del conflitto mondiale, i registi centrano il discorso narrativo su due aspetti complementari, ma di­ versi, del significato stesso di essere in guerra. Mentre, infatti, Sirk in­ segue una storia tutta al maschile concentrando la sua attenzione su quei soldati costretti a partire per il fronte, Fassbinder, dal canto suo, si concentra sul mondo femminile di chi deve restare ad aspettare. Ma il risultato finale sembrerebbe dover essere sempre lo stes­ so e non ha nessuna importanza che si resti a casa o si parta per il fronte, e, proprio in questa comunanza di destini, pur nella diversità degli approcci registici - degli sguardi, degli stili, dei personaggi e

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delle storie - risiede anche il motivo di un'affinità poetica incredibil­ mente coerente. Tanto per Fassbinder quanto per Sirk, infatti, il film è solo un pretesto per approntare, attraverso la filigrana di una storia esempli­ ficativa, al ritratto della coscienza tedesca del periodo con tutte le sue contraddizioni e i suoi problemi. L'idea sarebbe quella, non tanto e non solo di capire le motivazioni che hanno spinto la Germania a im­ barcarsi nell'impresa folle della seconda guerra mondiale (con tutti i crimini contro l’umanità che ne sono derivati), quanto quella di com­ prendere, soprattutto, a quali conseguenze nefaste questa scelta pos­ sa portare. In questa prospettiva le due opere rivelano un approccio so­ ciologico più che politico (anche se non mancano, specie in certe se­ quenze fassbinderiane, più che precisi riferimenti alla politica inter­ na dell’Era Adenauer) perché ambiscono a rappresentare non tanto le dinamiche che hanno portato a certe scelte politiche, ma piutto­ sto a investigare le ripercussioni che esse hanno prodotto sul tede­ sco medio. Se Fassbinder, comunque, ha uno sguardo più lucido e diretto mentre Sirk è, probabilmente, ottenebrato anche dal senso di di­ stanza che la sua condizione di esule gli imponeva (e/o dal semplici­ stico testo di Remarque che metteva in scena), non da meno è da di­ re che gli esiti delle due indagini sembrano dover necessariamente approdare allo stesso identico e sofferto sentimento di una catastro­ fe immane, quello stesso che un altro esule illustre, Thomas Mann, aveva illustrato nell’epocale Doctor Faustus. 3. In questo modo i finali dei due film, identici per molti aspet­ ti, assumono un valore simbolico che allarga la dimensione indivi­ duale della storia narrata alle dimensioni di un discorso che riguar­ da il destino di tutta la nazione tedesca. È sintomatico che entrambi siano virati sui toni cupi di un asso­ luto fallimento esistenziale le cui proporzioni sono di difficile decifrazione e il cui significato sembra essere fin troppo dichiarato. Nella morte di Maria Braun e in quella di Ernst, il giovane protagonista di Tempo di vivere, si percepisce non tanto il lutto dell’individuo quan­ to, piuttosto, quello dell’intera nazione che, con le sue scelte dissen­

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nate, si era precipitata scientemente negli abissi di un baratro oscuro e inconoscibile. Finterà politica criminale della Germania hitleriana (i cui lasciti irrisolti si prolungano in Fassbinder anche ben oltre la Wiederaufbau, nelle contraddizioni di una nazione sofferente e divi­ sa, crucciata e rabbiosa) in effetti sembra essere più che il frutto di una scelta consapevole, un vero e proprio cupio dissolvi fiammeg­ giante come un atto d’opera wagneriano e sostanziato da una profon­ da volontà autodistruttiva. È per questo motivo, allora, che entrambi i finali aprono il proprio discorso sul terreno franco dell’ambiguità: sono incidenti, certo, eppure sono il frutto di una colpevole dimen­ ticanza, di un errore umano di cui non si riesce a capire fino in fon­ do il grado di reale inconsapevolezza. Ed è proprio in questa comu­ nanza inaspettata che le due pellicole, peraltro così diverse nei temi e nella forma, ritrovano un principio di coerenza profondo. Vediamo, allora, più in dettaglio questi due bellissimi epiloghi. Tempo di vivere si chiude nella desolazione del rientro in guer­ ra, del ritorno a quel fronte lontano che pure non sembrava essere tanto diverso dall’orrore dei bombardamenti aerei in patria. Il clima d’inutilità della presenza delle truppe tedesche sul fronte orientale era già stato reso potente dalle primissime sequenze del film, che avevano mostrato allo spettatore il triste spettacolo dei soldati in pie­ na ritirata dai freddi rigori dell’inverno russo. Erano bastati, allo sco­ po, solo alcuni dettagli narrativi come la scoperta del cadavere del tenente tedesco sotto le coltri nevose in disgelo, secondo il princi­ pio d’opposizione melodrammatico di cui la pellicola abbonda (il ri­ sveglio della natura porta alla macabra scoperta dei cadaveri dei compagni scomparsi: un dettaglio tristemente realistico oltre che funzionale alla logica dell’immaginazione melodrammatica). Le se­ quenze finali, quindi, riportando Ernst nello stesso punto da cui era partito all’inizio del film, avevano Io scopo di chiudere in un cerchio ossessivo e senza sbocchi l’intero arco narrativo del film. Eppure, dal punto di vista poetico Tempo di vivere è un’opera che, pur sostan­ ziandosi di tutte le regole del più classico dei melodrammi, rivela an­ che l’ambizione di un Bildungsroman in cui abbiamo la possibilità di assistere al miracoloso formarsi, nella coscienza del protagonista, di una sia pur vaga consapevolezza della sua posizione storica. Se c’è una differenza tra le primissime inquadrature del film e le ultime,

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questa è, quindi, tutta nel modo nuovo in cui il protagonista vive la sua disavventura bellica. Obbligato all’inizio del film a prendere par­ te all’esecuzione sommaria di un gruppo di potenziali nemici (don­ ne e anziani), il giovane sembra, alla fine, avere trovato le basi per opporsi attivamente all’orrore che lo circonda. Di fronte all’ordine di sparare a un gruppo di russi, forse dei partigiani, il protagonista ri­ sponde con un atto di insubordinazione cui consegue una collutta­ zione con il superiore che muore quasi accidentalmente. Nel breve volgere di poche inquadrature Sirk riesce, così, a rendere in modo felice il clima di disperazione e di interna divisione delle truppe ger­ maniche ormai allo sbando e divise in uno sparuto gruppo di solda­ ti resi folli dalle atrocità cui hanno assistito e una stragrande mag­ gioranza di persone costrette a combattere per seguire gli ordini su­ periori, anche laddove combattere assomiglia di più a una vana mar­ cia verso il nulla. Ucciso il compagno, però, Ernst sembra aver scel­ to la strada della diserzione, certamente ha maturato la consapevo­ lezza dell’assurdità di un suo ritorno a una guerra che non capisce più. Lasciando i prigionieri al proprio destino, non solo non si preoc­ cupa di chiuderli nella stalla-prigione, ma lascia anche il compagno morto a terra che ancora stringe tra le mani il fucile inutilizzato. Sarà proprio uno dei prigionieri ormai liberi, alla fine, a recuperare il fu­ cile e ad utilizzarlo contro il giovane che non chiedeva altro che di allontanarsi dalla scena e dalla guerra tutta. Non è difficile rendersi conto di quanto sia ambiguo questo fi­ nale. Quanto la catena di azioni che portano alla morte del protago­ nista è veramente casuale? Se si deve parlare di dimenticanze, quan­ to queste sono, in effetti, «colpevoli»? Una cosa è certa: se non si può parlare propriamente di un suicidio, la morte di Ernst appare, co­ munque, dettata da qualcosa di più di una semplice serie di fatalità. È lui che permette al nemico di riarmarsi, è lui che gli volge sciente­ mente le spalle. E quando, alla fine, protende le sue mani verso l’ac­ qua ormai disgelata di un piccolo ruscello apportatore di vita (l’acqua come madre, come desiderio di un ritorno alle gioie di un’infanzia in­ nocente perduta nell’orrore del conflitto mondiale), c’è un senso di ineluttabile rassegnazione che pervade l’immagine e c’è il pensiero che anche la Germania di Goethe o di Beethoven in qualche modo muoia con quel soldato proprio lì, allo sbocciare della primavera.

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Se è l’acqua a chiudere Tempo di vivere, è invece il fuoco a di­ struggere i destini di Maria Braun e del marito. E a pensarci bene non potrebbe essere diversamente, stante la sostanziale differenza tra Maria Braun ed Ernst. Abbiamo già accen­ nato alla possibile natura di «romanzo di formazione» del film sirkiano, ebbene // matrimonio di Maria Braun sembrerebbe, da questo punto di vista, essere l’esatta negazione di questo modello. Se la co­ scienza del protagonista di Tempo di vivere subisce una sostanziale maturazione che coincide con il mutare della stagione del racconto (dall’inverno alla primavera) nel corso della narrazione, la coscienza di Maria Braun sembra restare pervicacemente ancorata alle convin­ zioni iniziali. La donna non cresce, non matura, resta sempre uguale a se stessa in un mondo che, per converso, cambia radicalmente sot­ to i suoi occhi. Presa da una smania di autoaffermazione, l’eroina fassbinderiana è simbolo potente dell’altra anima della cultura tede­ sca: quella tenace, ma anche quella incapace di imparare dai propri stessi errori. Di fronte a una situazione così profondamente chiusa non poteva esserci allora nessun altro epilogo se non quello di un’e­ splosione catartica e liberatoria. Con un finale straordinario, che viene significativamente a coin­ cidere con la vittoria della Germania (nella finale contro l’Ungheria) ai campionati del mondo di calcio del 1954, assistiamo, quindi, a un’al­ tra tragica dimenticanza. Maria, ormai ricongiunta con il marito (even­ to questo procrastinato per tutta la durata del film), proprio a con­ clusione della lettura di un testamento che l’ha resa milionaria, di­ mentica, infatti, di aver lasciato aperto il gas in cucina. Proprio al fati­ dico goal della partita finale di cui ascoltiamo la radiocronaca, il gas accumulato si accende in un’esplosione così simile a quella delle bom­ be che avevano devastato il municipio all’inizio del film, serrando la narrazione all’interno di un altro cerchio così simile e così diverso da quello che aveva chiuso il film di Sirk. Ciò che poteva sembrare la fi­ ne dell’incubo tedesco diventa, quindi, lo sfondo ambiguo (è stato il caso o la volontà a portare i protagonisti alla tragica esplosione?) per la fine del sogno della donna, perfetta allegoria psicanalitica di una na­ zione incerta tra voglia di riscatto e spirito di autodistruzione. Si potrebbe a questo punto sollevare la questione se questa di­ mensione psicologica che abbiamo appena rinvenuto nelle sequen-

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ze finali dei due film non sia in palese contrasto con l’idea melo­ drammatica che entrambi gli autori perseguono pervicacemente e che sembrerebbe fondarsi sulla semplice contrapposizione di ele­ menti inconciliabili (il classico dissidio Bene/Male) di cui uno solo deve trionfare. In realtà è già Peter Brooks nel suo illuminante sag­ gio a metterci in guardia rispetto a troppo facili generalizzazioni: il fatto che queste strutture siano state via via sempre più «psicologizzate» [...] non compromette affatto il contesto melodrammatico: non vuo­ le dire che quest’ultimo si sia interiorizzato e raffinato fino virtualmente a sparire, sì che, al contrario, la psicologia si è esteriorizzata, rendendosi sem­ pre più facilmente accessibile grazie a uno sfruttamento più intenso delle sue intrinseche possibilità melodrammatiche5.

Sicché il discorso che le due opere portano avanti, pur nella di­ versità degli approcci registici, è tutto da ricercarsi in una psicologia che si ribalta nel mito. Anche se il realismo è presente e voluto e si sostanzia spesso di dettagli assolutamente minimali (in Fassbinder, ovviamente, ancor più che in Sirk), esso non implica necessaria­ mente l’abbandono delle logiche del mèlo perché questi elementi spesso opposti entrano di diritto nel novero delle dicotomie che so­ stanziano il film. Il fatto è che, mentre nel melodramma più classico tali dicotomie si concretizzavano in una serie di figure riconoscibili e tutta la logica melodrammatica si risolveva nella loro contrapposi­ zione diretta, in questi film tendono ad essere parti integranti e ne­ cessarie degli stessi personaggi che ospitano al loro interno tanto il Bene quanto il Male. A cambiare è, quindi, prima di tutto la scac­ chiera che ospita la contrapposizione melodrammatica di principi opposti. Nel periodo del melodramma classico tale scacchiera è la narrazione stessa e il pubblico può riconoscere con estrema imme­ diatezza i vari elementi e la posta in gioco; nei film in questione (co­ me in tutti i melodrammi psicologizzati) la scacchiera diventa la co­ scienza stessa del personaggio principale e le implicazioni dello scontro tra le varie forze diventa di più difficile decifrazione. Da ciò l’ambiguità che ammanta necessariamente entrambi i finali, di qui la 5 P Brooks, L'immaginazione melodrammatica, cit, p. 267.

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compresenza di elementi opposti nelle immagini, ben esemplificata in quella sirkiana del ramo fiorito dell’albero bombardato, che ritor­ na trasfigurata in Fassbinder nel matrimonio iniziale di Maria sotto le bombe nemiche. Diffìcile a questo punto anche decifrare il significa­ to stesso del finale. Il suicidio della coscienza tedesca di fronte alla guerra ha connotazioni positive o negative? Segna il trionfo del be­ ne (la sconfìtta tedesca segna la fine della barbarie nazista) o del ma­ le (è, comunque, l’irrazionale del cupio dissolvi e dell’autoannullamento a trionfare anche laddove, nel mondo, tutto invita alla rina­ scita)? In entrambi i casi, di fronte allo spettacolo del ritorno alla vi­ ta, pare quasi che la coscienza degli autori sembri ammonire l’uomo tedesco. Quasi a voler dire che lo spettacolo della ricostruzione, lo sbocciare di una nuova speranza sia uno spettacolo a cui tutti i te­ deschi non sono stati invitati. Ed è proprio in questo comune sentire che i due film, tra loro così diversi e lontani, rivelano probabilmente i tratti di un’insospettata affinità elettiva.

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POLITICAL MELODRAMA AND THE IMPERATIVES OF GENERIC CONVENTIONS di Jerome H. Delamater

Writing about the films of Ken Loach, John Hill has asserted that «for all Loach's reputation as a political filmmaker, his films tend to be played out on the melodramatic terrain of domestic and family relations» \ Although interrogations of class, social position, and even radical politics have a long history as part of melodrama, the overt politics of Ken Loach’s films seem at first glance to be the antithesis of melodrama, hence Hill’s implied surprise at their innate inclusion of the «dramatic machinery of melodrama»1 2. Hill’s asser­ tion raises important questions about the nature of the relationship between melodrama and political cinema, not least of which is the fundamental one: does political melodrama exist? Melodrama in gen­ eral is hard to define, and its fluidity seems to be discussed in almost all writings about the genre. Christine Gledhill’s comments, for example, are worth noting: she calls it «at best a fragmented generic category» and cites how «melodramatic rhetoric informs westerns, gangster and horror films, psychological thrillers and family melo­ dramas alike [...]» 3. Given that fluidity and fragmentation, one can possibly find aspects of melodrama in almost every genre. Nevertheless, at the risk of broadening the definitions so that melo­ drama has virtually no meaning, I would like to suggest that political melodrama is as viable and important a sub-genre as the family melo­ drama. Indeed, political melodrama is at heart a return to key ele­ ments that informed the genre’s theatrical and literary antecedents. 1J. Hill, Every Fuckin ’ Choice Stinks, «Sight and Sound», November 1998, p. 21. 2 Ivi, p. 20. 3 C. Gledhill, The Melodramatic Field: An Investigation, in C. Gledhill (ed.), Home Is Where the Heart Is, BFI, London 1987, pp. 6 and 13-

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The generally accepted semantic elements of melodrama have been enumerated in many different contexts4. Naomi Greene’s syn­ optic version, though, encapsulizes them in a way that is particularly relevant to these texts and that emphasizes their roots in «stage melo­ drama at its inception around the time of the French Revolution»: [...] heightened theatricality, characters greater than life, powerful emo­ tions and extreme actions, startling scenic effects and elaborate mise-enscène, as well as a penchant for great contrasts on both the moral level [...] as well as the scenic one (contrasts in lights, costumes, and so on). Lastly, they attribute a pivotal role to music [...] which was originally the defining element of melodrama5.

Possible syntactic elements have also been widely enumerated, but there is no clearly established and consensually acknowledged set of them. Indeed, much of the discussion about melodrama seems implicitly to be attempting to establish «a relatively stable generic syntax», to use Rick Altman’s words6. Nevertheless, certain particular elements prevail in political melodrama: the ideological contradictions of radical politics within mainstream media; conflicts between individuals and social forces largely out of their control; the tensions between the pervasive influence of family on characters’ actions and the political drive of the films; the rupturing of classical narrative’s cause-and-effect chain by deviant narrative structures that may reflect deviant politics; and - especially true for the films under principal scrutiny here - the irrelevance of traditional narrative tra­ jectories given that the stories’ conclusions are historical events. Understanding how the interactions of the semantic and syntactic elements then influence, dominate, and perhaps ultimately com­ 4 See especially the various essays in C. Gledhill, Home Is Where the Heart Is, cit.; R. Lang, American Film Melodrama: Griffith, Vidor, Minnelli, Princeton University Press, Princeton, N. J. 1989; and S. Hayward, Melodrama and Women's Films, in Key Concepts in Cinema Studies, Routledge, London 19%, pp. 199-2155 N. Greene, Coppola, Cimino: The Operatics ofHistory, «Film Quarterly», Winter 1984-1985, p. 28. 6 R. Altman, A Semantic/Syntactic Approach to Genre, in B. K. Grant (ed.), Film Genre Reader, University of Texas Press, Austin 1986, p. 36.

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promise the films’ historical and political importance is essential to claiming the existence of the sub-genre. Naomi Greene has noted that «early melodrama often turned to real events and characters»7, and, in order to provide validity for my assertion of the ongoing importance of political melodrama, I limit my concern to films that confront situations based on or at least derived from historical people and events. Many films raise issues central to this investigation and could have been the subjects of scrutiny. Ken Loach’s Land and Freedom (1995), for example, although using a fictional protagonist, places him amidst the debates within the left-wing contingents fighting for the republican govern­ ment during the Spanish civil war, and does so using a narrative structure that presents his story (fabula) through the plot (sjuzet) of his granddaughter’s reading of his letters and diaries after his death, many years later. Another possible example, Spike Lee’s Malcolm X (1992), follows the life of an important political figure of 20th century American culture, one whose life is made spectacle through multiple forms of melodrama as a way of documenting problems of race and class in a society that attempts to suppress those issues. Two films that center on real individuals who were vic­ tims of national hysteria, a corrupt judiciary, and oppressive govern­ mental policies seem especially relevant to this analysis, however. The coincidence of anniversaries of the real events, noted below, highlights the significance that those events have as parallels to recurrent crises throughout the 20th century and into the twentyfirst, parallels, moreover, central to the two films’ very reason for existence. Giuliano Montaldo’s Sacco and Vanzetti (UMC Pictures, 1971) and Sidney Lumet’s Daniel (Paramount Pictures Corp., 1983) confront notorious situations in American history (both occurring during different periods characterized by «red scares») in which the victims were tried and ultimately executed as much for their radical politics as for their alleged crimes. Perhaps even more basic to the struggles implicit in the narratives of these two films (and in other political melodramas) are issues of class, for in political melodrama the manichean struggles implicit in the genre as a whole are mani­ 7 N. Greene, Coppola, Cimino: The Operatics of History, cit., p. 28.

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fested in characters functioning in polarized situations of opposed «wealth [and] education» and with protagonists who are resistant to «the drives of capitalism»8. For these films government becomes the principal villain because it embodies patriarchy and depends on a capitalist structure to support its power. The anarchism of Sacco and Vanzetti and the communism of the Isaacsons (Daniel's fictionalized versions of Julius and Ethel Rosenberg) are presented as alternatives to racist, sexist and exploitative systems of control that prevent the working class from achieving a «unifying identity»9. The forces of government as villainous are established at the beginning of both Sacco and Vanzetti and Daniel. In the former, establishing the film’s loyalties at the outset, the credits are super­ imposed over scenes of the Palmer Raids of 1920 (shot in black and white to make them look like stock footage), babies crying in the background, with rounded-up victims being marched away, helpless to defend themselves. The first scene after the title card in Daniel takes place during an anti-Vietnam war rally in Washington, D. C., during which soldiers essentially attack the demonstrators. Similarly, several scenes later, in the earliest of the film’s alternating time periods, the Isaacsons first meet at a pro-labor demonstration in the thirties during which the New York City police, wielding clubs, ride in on horseback, allowing the horses to trample several of the protestors. Both films continue to exploit the strategy with other scenes that contrast governmental force and peaceful demonstration: in Sacco and Vanzetti the police charge a Defense Committee crowd calling for «freedom for Nick and Bart», and, in Daniel, in a fictionalized depiction of one of the most notorious examples of government-motivated vigilantism in American history, a crowd of «common» citizens attack busloads of people (including the Isaacsons) as they leave a concert by the singer Paul Robeson. The faceless brutality of the government forces in these scenes, emphas­ ized by recurrently showing them in extreme long shot from a high 8 C. Gledhill, Tbe Melodramatic Field: An Investigation, cit., pp. 20-21. 9 K. Butler, Between History and Melodrama: René Clair's Quartorze Juillet, «Quarterly Review of Film and Video», 2000, p. 118.

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angle, only reinforces the implicit corruption shown in the trials of both sets of victims elsewhere in the films. The government cannot allow challenges to its power to go unpunished. With the plot centered on the trial and the subsequent appeals, which the film presents as a form of spectacle, Sacco and Vanzetti uses melodrama to display a miscarriage of justice. The semantic and syntactic elements come together to show «the quasi-totalitarian violence perpetrated by (agents of) the “system” [...]»10. The court­ room provides the forum for each of the characters (not just the eponymous ones) to become larger than life; for emotional, dra­ matic outbursts; and for scenic effects and contrasts. The principal oppositions of the moral forces are embodied in the judge and the prosecuting attorney, on the one hand, and the defense attorneys, on the other. Judge Webster Thayer (Geoffrey Keen), only once seen other than positioned on the bench, photographed generally by a low-angle camera, is in constant battle with Fred Moore (Milo O’Shea), the principal defense attorney, wearing sandals and dressed as if to challenge the formality of the New England courtroom and the illusory appearance of American justice. Moore’s angry attempts to probe the witnesses’ veracity and his outrage at the tactics of Frederick Katzmann (Cyril Cusack), the prosecutor, are censured by Thayer as «terrorist methods» of interrogation. Yet Thayer generally allows Katzmann to conduct the prosecution as he sees fit, and, later, when investigations prove that the witnesses were lying, Thayer disallows the new testimony as grounds for an appeal of Sacco and Vanzetti’s convictions. Thayer’s arrogance of power increases throughout the film even as Moore, having lost the trial, is reduced in stature and resigns from the case. Sacco’s verbal attack on Moore («This sentence is the result of you and your politics») further reduces him and will allow William Thompson (William Prince), the second of their defense attorneys, one who shares Thayer’s class and background, to say nothing of demeanor and appearance, to spar with Thayer on his own level. 10 T. Elsaesser, Tales ofSound and Fury: Observations on the Family Melodrama, «Monogram», no. 4, 1972, reprinted in C. Gledhill (ed.), Home is Where the Heart Is, cit., p. 45-

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Nicola Sacco (Riccardo Cucciolla) and Bartolomeo Vanzetti (Gian Maria Volonté) are sanctified heroes throughout the film. Their anarchism, functioning as the measure of democratic ideals, puts them above all other characters, and this moral superiority becomes part of the court record when they are allowed the opportunity to present their views. In each instance, the men condemn themselves in the eyes of the court but thereby set themselves on the road to political martyrdom. Vanzetti’s admission: «I do not love the govern­ ment of the United States», is followed by his discourse on the nature of anarchism: «Anarchism is freedom, no mote society divided into classes. It is respectful of the people. For me it is brotherhood, good­ ness, liberty.» Sacco, in turn, proclaims: «I want all to have the means to live» and praises the imprisoned socialist Eugene Debs as a great American while condemning}. P Morgan and John D. Rockefeller as exploiters of the working classes. Their testimony in the actual trial transcripts is, of course, considerably protracted, but by concen­ trating their speeches into mythic summaries, the film elevates Sacco and Vanzetti into allegorical figures of humility and tolerance. Subsequently, as the verdict is read, the leading participants ate pre­ sented in a series of close-ups that further accentuate the oppositions of class and power. Sacco’s awareness of their pending roles becomes evident when he yells: «I don’t want to be political martyr. I wish to live». Vanzetti, too, shows that he understands his role with the reply: «I too wish to live but in a better world». At their sentencing (and later), Vanzetti fully assumes the mantle of political martyrdom. Sacco refuses to speak, but Vanzetti, though admitting to being an anarchist, proclaims the film’s own position: «Our crime was to make a better world». Moreover, he casts the mantle over Sacco as well with his speech that «the name of Nicola Sacco will still live in people’s hearts» long after the prosecutors’ bones will have turned to dust. «You have given a real meaning to our lives». In the strategies of any narrative derived from history, a consol­ idation of characters and events becomes dramatic necessity. Not exclusive to melodrama, such strategies are, nevertheless, inherently melodramatic. These become especially effective in Sacco and Vanzetti as a way of asserting the film’s political stance. Two particu­ lar examples of the film’s use of melodrama for political advantage

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can serve to represent the whole. Moore and Thompson, though actual attorneys who did represent Sacco and Vanzetti, were only two of no fewer than five attorneys who assumed responsibility for the case between their arrest in 1920 and their execution in 1927, yet by contrasting Moore’s and Thompson’s styles and attitudes (and social positions), the film emphasizes the breadth of support that the two men acquired. Moreover, when Thompson withdraws from the case in the film, he does so in an attack on Judge Thayer that has special meaning coming from the one character who has most evid­ ently gone through a process of change. Having originally challenged those who think Sacco and Vanzetti could not get a fair trial, Thompson offers to assist the Defense Committee after spending time observing in court, takes an active role in the defense after the conviction and Moore’s departure (and after having been clubbed by the police during a demonstration), and then becomes disillusioned with the very system that had previously given his life meaning: I must thank you, Mr. Webster Thayer; you have helped me to lose the last illusions I had concerning justice and the magistracy of the Commonwealth. I will never set foot in a court room again. I intend to leave a profession which forces me to come into contact with persons like you, for whom one can feel only the most profound contempt.

Thompson actually turned the case over to his successor in a considerably less confrontational manner (although his eloquence at other times during oral arguments to Thayer has been noted11). The other example concerns Vanzetti’s interactions with Governor Alvan Fuller of Massachusetts, to whom Vanzetti appealed for clemency. Fuller apparently did meet with Vanzetti in prison 12, and the film brings them together in the warden’s office for a hypothetical discussion on the nature of power and justice, during which Fuller asks Vanzetti for his advice: «What would you do in my place?». The implication is that Fuller might grant clemency were Vanzetti to answer correctly. Refusing to give in to such mental extortion, 11 G. L. Joughin, E. M. Morgan, The Legacy ofSacco and Vanzetti, Harcourt, Brace, New York 1948, p. 376. 12 Ivi, p. 300.

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though, Vanzetti replies: «I comprehend what you want me to say, that even I, an anarchist, can still trust in bourgeois power». He then presents an explicit statement of his and the film’s world view: «Then you are saying that we have been condemned for being anarchists and not for robbery and assassination». The film’s manipulations of trial transcripts and of Sacco and Vanzetti’s own extensive writings allow melodrama to turn their execution into a universal condem­ nation of political injustice. If Sacco and Vanzetti uses the devices of melodrama to pro­ mote an uncompromising defense of the title characters’ radical goals, then Daniel relies on those devices to convert its subjects’ radicalism into a discourse on the nature of family survival. Daniel's director, Sidney Lumet, has repeatedly argued that the film is less about the Rosenbergs (or even the Isaacsons) than it is about the effects that parents’ «passions and commitments» have on their chil­ dren 13. Indeed, throughout Making Movies, his detailed analysis of his working methods, film practices, stylistic choices, and profes­ sional relationships, Lumet emphasizes the role of melodrama in accomplishing any film’s thematic goals. The title explicitly centers the film on the Isaacsons’ son Daniel (Timothy Hutton) and the process of his maturation into responsible adulthood. The story (fabula) is presented principally through Daniel’s investigation of the activities that resulted in his parents’ execution, thereby making Daniel the protagonist, the one who must develop and change, as the plot (sjuzef) alternates generally among three different time periods (the thirties and early forties, centering on the Isaacsons’ developing political radicalism; the late forties and early fifties, depicting their arrest, trial, and execution and the children’s bewil­ derment at the events; and the sixties as Daniel and his sister Susan [Amanda Plummer] attempt to integrate their past into their present lives amidst the political turmoil of the Vietnam War). The film’s use of color to differentiate among the periods as well as to underscore Daniel’s acceptance of his parents’ (and sister’s) deaths is among the film’s most obvious uses of melodrama’s heightened mise en scène. 13 S. Lumet, Making Movies, Knopf, New York 1995, P- 57. Lumet has repeated the idea in interviews and discussions in a variety of sources.

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The orange hues of the thirties and forties contrast with the blue hues of the sixties, but as Daniel’s investigation begins to make clear that he will never completely understand what happened (and as he accepts that; the film avoids taking a stand on the Isaacsons’ guilt or innocence), the color gradually becomes normal. In essence, Daniel is about the destruction and ultimate recon­ struction of family - albeit a very different one - as the protagonist disentangles himself from his past. The Isaacsons’ home, presented in imagery that combines their small flat and Paul Isaacson’s shop below, is the site of several pleasant - always politically tinged family interactions and is the model of home and family in the film. Perhaps typified by the scene of his father’s lesson about capitalist exploitation (Paul [Mandy Patinkin] lectures the young Daniel about the capitalist implications of Joe DiMaggio’s image on a box of the breakfast cereal Wheaties), the scene shows a warmth and love that contrasts with every other home shown in the film. Daniel and Susan’s foster parents, Robert and Lisa Lewin (John Rubinstein and Maria Tucci), have a beautifully appointed, upper-middle-class home, an almost Sirkian venue of family action, and the exposition makes clear that the Lewins raised Daniel and Susan with advantages they never would have had from their real parents. Nevertheless, in the early scene during Thanksgiving dinner in the Lewins’ home, Daniel and Susan verbally but brutally attack each other; not until the end of the film, when Daniel has started to deal constructively with his internal demons, does he have any interactions with the Lewins that carry resonances of the positive family images of his youth. The home Daniel shares with his wife (Ellen Barkin) and infant son con­ trasts physically with the Isaacsons’ and with the Lewins’; it is a small, cluttered student apartment, shown in only one scene, where Daniel hurls one of his cruel, verbal assaults at her («How can anyone with such a big ass have such a tiny brain?»). Again, not until the end of the film does Daniel’s relationship with his wife and son begin to dis­ play the love and caring shown by the Isaacsons toward each other. The destruction of the family is equated with the actual destruction of the Isaacsons home when the government agents come to arrest Paul Isaacson and, while searching for incriminating evidence, vir­ tually destroy the apartment, slitting mattresses and tearing up the

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flooring. The subsequent scenes, first, with their aunt who reluct­ antly provides them at best with shelter and, second, in the chil­ dren’s center from which they escape and return to their abandoned and boarded-up home, reinforce the images of their search to regain the sense of family that will characterize their lives into adulthood. Daniel’s difficulties in coping with the past are overcome by his investigation into his parents’ lives, but Susan’s problems are insur­ mountable. Her descent into catatonia motivates Daniel to pursue his investigation and to assume her causes, and the resolution sug­ gests that for this protagonist family unity and political commitment are a necessary combination. As Stephen Farber has said, «Daniel’s determination to rebuild the family that had been destroyed leads to his rediscovery of the political activism that represents the best part of his parents’ bequest to him»14. In many respects, then, Susan, fol­ lowing in a long line of women in melodrama, is principally the cata­ lyst for Daniel’s redemption. From the Thanksgiving Day scene where she is shown in close-up cowering in a corner formed by two white walls to her final scene in the mental hospital where she lies, curled fetally, in a bed positioned in a corner also formed by two white walls, Susan never overcomes her demons. Daniel accusingly recites a litany of Susan’s tortured past; she tried sex, drugs, religion, and is now pursuing revolution (using their trust money, she wants to start a foundation for revolutionary studies in honor of their par­ ents). Daniel rejects Susan’s idea (at first), and her subsequent mental collapse prevents her from pursuing it, but as he gets closer to realizing that he will probably never know the truth, Daniel cas­ ually mentions that he is using the trust fund for exactly the purpose Susan desired. In the hospital, the last time he sees her, Daniel, recreating his youthful role as her protector, picks Susan up, and in a verbalization of his situation, the Paul Robeson song on the sound­ track claims that «some day from tears I shall be free, for some day I shall understand». In the subsequent scene, Daniel returns to the Lewins where he and Robert peruse court transcripts, and the film for the first time presents its relatively brief scenes of the trial. Daniel is finally able to confront the specifics of the trial (paralleling Sacco 14 S. Farber, Daniel, «Film Quarterly», Spring 1984, p. 35-

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at id Vanzetti, the film shows the trial’s basic unfairness), his mem­ ories of the final visit to their parents in prison, and the execution itself. Susan, however, dies in order for Daniel to become whole again. As emphasized by the crosscutting between the two funerals, his parents’ and Susan’s, Daniel must bury his sister and the painful memories of his past in order to rebuild his own family. In the film’s last scene, he phones his wife to join him at an anti-Vietnam war rally. The transformation is given universality as Daniel, his wife, and son (Daniel, carrying his son on his shoulders, finally displays paternal feeling akin to his own father’s), truly together for the first time, become just another set of figures among the thousands gathered to call the government to account. The differing emphases of Sacco and Vanzetti and Daniel, cam­ ouflaging their many similarities, are particularly important in con­ necting Montaldo’s film to the crises in Italy at the time of its produc­ tion. Sacco and Vanzetti does raise issues of family, mainly through the presence of Sacco’s wife and young son in the courtroom, but its reliance on melodrama broadens the film’s indictments of America’s judicial system to include that of Italy during the anni di piombo. It is patently clear to those who have knowledge of the political situ­ ation in Italy during the sixties and seventies that Montaldo uses the 19201927 trial and execution of Sacco and Vanzetti to raise questions relevant to contemporary Italian events. Italian viewers observing the scene of Salsedo falling to his death from a window in Sacco and Vanzetti can quickly estab­ lish a relationship to the death of Giuseppe Pinelli who was arrested by the Italian police for the 1969 bombing of Milan’s Piazza della Fontana. He mys­ teriously killed himself by falling from a window while in police custody 15.

The image of Andrea Salsedo falling to his death from a building in Manhattan is repeated identically (a zoom in to extreme close-up of each man’s eyes, followed by the long shot of Salsedo falling, shown initially in connection with the Palmer raids) as indications that, when first arrested, Sacco and Vanzetti lied for fear that being 15 M. Aste, Sacco and Vanzetti: Italian Filmic Images, in M. Aste et al. (eds.), Industry, Technology, Labor and the Italian American Communities, American Italian Historical Association, Staten Island N. Y 1997, p. 217.

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identified as anarchists would result also in their demise. Pinelli’s death, like that of Salsedo, was claimed to be suicide, but supporters assumed it to be an example of police murder. Similarly, the Italian maxi-trials were characterized by behavior parallel to that presented in the film’s melodramatic trial. «Relevant to the issue of justice is the need to follow proper procedure and Montaldo shows his concern for the lack of it; again and again [...] he makes the viewers realize that correct procedures were not followed in the trials on both sides of the Atlantic»16. Daniel, made several years after the end of the Vietnam war, makes less of a claim to be addressing an immediately contemporary situation 17, although Stephen Farber suggests a relationship to the Reagan administration’s «intensive [...] campaign to revive the anti­ communist paranoia that took hold in the fifties» 18. Nevertheless, despite its displacement of politics onto family melodrama, Daniel quite explicitly takes a stand on the progressive side of an ongoing politically charged debate: the death penalty. Four times in the course of the film Timothy Hutton, shown in extreme close-up, recites facts about the history of execution. Indeed, the film’s first sound is Hutton’s voice-over of the history of electricity and the first image an ECU of his eyes as he continues the recitation, linking it with informa­ tion about New York state’s first use of the electric chair. A brief long shot of a door closing on what at the end will be shown to be the death chamber precedes the stark title card: DANIEL. Like the first, the other three instances of Hutton’s recitation are unconnected to any of the film’s alternating diegetic times and spaces, hence the assertion here that it is the actor, though seeming to be Daniel, not the character, who is speaking. The use of close-up precludes know­ ledge of when or where he is speaking, and, looking directly at the camera, Hutton seems in fact to be addressing the audience of the

16 Ivi, p. 223. 17 The novel on which Lumet’s film is based, E. L. Doctorow’s The Book of Daniel, published in 1971 (paperback edition, New American Library, New York 1972) and obviously written during the height of Vietnam war protests, implies connections between the Rosenberg case and governmental suppression of dissent of the sixties and seventies; it also contains some caustic indictments of corporate America. 18 S. Farber, Daniel, cit., p. 32.

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film. These monologues’ (and the Rosenberg/Isaacson executions’) connections to larger issues of the innate injustice of the death penalty are particularly forceful with the second discourse on drawing and quartering, in words taken directly from Doctorow’s novel. The grim - nay gory - details of the process «favored by the English monarchic government against all except the aristocratic inner circle which was allowed the dignity of simple beheading» conclude with information that «treason was the usual crime for this punishment [drawing and quartering], its definition being determined by the King’s courts for the King’s convenience» 19. The final recitation - a return to the language and images of the first - immediately precedes the depiction of the Isaacsons’ executions, which, in contrast to the oblique presentation of the electrocutions of Sacco and Vanzetti (Sacco’s is indicated by dimming lights, and the film concludes with three shots - jump cuts from MS to MLS to LS - of Vanzetti slumped in the chair), are shown with details of their writhing, smoking bodies. One aspect of melodrama that Sacco and Vanzetti and Daniel share informs their structure and meaning. The music that predom­ inates throughout each film uses songs performed by a recognizable figure associated with the film’s implicit politics. Joan Baez, one of the troubadours of the anti-Vietnam war movement in the United States, provides background music at key points in Sacco and Vanzetti. Immediately recognizable for an audience in 1971, Baez connects the film to its diegetic past and to the present of the film’s production by singing songs (music composed by Ennio Morricone) with lyrics arranged from several principal sources. Emma Lazarus’s poem «The New Colossus», known famously for its lines carved into the base of the Statue of Liberty («Give me you tired, your poor, your huddled masses yearning to breathe free [...]») begins the song that plays under the film’s credits, as, ironically, the Palmer raids are car­ ried out - principally against immigrants. A version of Sacco’s letters to his son Dante forms the words to one part of the «Ballad of Sacco and Vanzetti» as, preparing for execution, he writes to Dante: «My son, instead of crying, be strong [...]. Forgive me, son, for this injust­ ice which takes your father from your side». Notable, too, is the film’s 19 E. L. Doctorow, The Book of Daniel, cit., p. 86.

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end-credit theme, which modifies a well-known line written by Vanzetti into the film’s plea that they be remembered as martyrs: «Here’s to you, Nicola and Bart, rest forever here in our hearts. [...] That agony is your triumph». Using an equally well-known figure, Daniel exploits the association the singer-actor Paul Robeson, a rel­ ative contemporary of the Rosenbergs, had with left-wing causes in general and communist sympathies in particular. (Indeed, at the time of their execution, Robeson had his passport revoked because of his visits to the Soviet Union). As with the music in Sacco and Vanzetti, Robeson’s songs in Daniel provide commentary and com­ plement the action. Two examples are especially important because they underscore Daniel’s trajectory of investigation and resolution. At the beginning of the film, a Robeson song with the lyric: «Now who will be a witness?» raises the film’s implied question about Daniel’s attempt to find out everything he can about his parents’ past. Much later, when Daniel goes to California in an attempt to interview Selig Mindish, the one character who might possibly make everything clear, Robeson’s song, with all its Biblical connotations, essentially answers the question: «Daniel was a witness». The music, an element so essential to melodrama as a whole, broadens the films’ diegetic time periods to include metaphoric associations that suggest how political melodrama can be relevant in contexts well beyond their immediate subject. August 23, 2002, was the seventy-fifth anniversary of the execu­ tions of Nicola Sacco and Bartolomeo Vanzetti. June 19, 2003, was the fiftieth anniversary of the executions of Julius and Ethel Rosenberg. In the United States both anniversaries, coming so soon after the events of September 11, 2001, became occasions for inter­ rogations of the ways that the Bush administration has dealt with radical dissent. The extensive literature about the Sacco and Vanzetti20 and Rosenber21 cases uniformly condemns «the shocking 20 See, for examples, P Avrich, Sacco arid Vanzetti: The Anarchist Background, Princeton University Press, Princeton N. J. 1991; F. Russell, Sacco and Vanzetti: The Case Resolved, Harper and Row, New York 1986; G. L Joughin, E. M. Morgan, The Legacy of Sacco and Vanzetti, cit. 21 See, for examples, R. Meeropol, An Execution in the Family: One Son's Journey, St. Martin’s, New York 2003; S. Roberts, The Brother: The Untold Story of

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misconduct in the government’s handling»22 of the trials, irrespect­ ive of any individual reservations about the innocence of one or more of the accused 23. The government in the twenties and the fifties, exploiting national hysteria, linked anarchism and commun­ ism with immigrants and left-wing dissidents in general, and adopted policies that disregarded civil liberties and human rights. Concerns that the government of the early twenty-first century has been similarly disregarding constitutionally protected rights made the anniversary commemorations especially pointed. The two films, therefore, reconsidered in light of those anni­ versaries, continue to carry resonances. Each film contains implicit contradictions between politics and melodrama, yet each also resolves those contradictions in ways that fulfill Lévi-Strauss’s argu­ ment that the «purpose of myth is to provide a logical model capable of overcoming a contradiction»24. Through melodrama Sacco and Vanzetti asserts the absolute innocence of its subjects in order to promote its political position, that is «a perfect society [is one in which] the [... weak are] not to be oppressed by the strong and people should live in peace with their neighbors»25. Although Daniel chooses not to take a stand on the innocence or guilt of the Isaacsons (and certainly by extension the Rosenbergs), it offers a hopeful resolution. The progressive politics at the heart of political melodrama promote investigations of the assumptions that the modern, democratic, industrial society is a classless one, and the films often offer contradictory conclusions: the political conclusion is that class distinctions are difficult to overcome, whereas the melo­ dramatic one offers hope that class differences and oppression are only temporary conditions. Reiterating those contradictions, Daniel Atomic Spy David Greenglass and How He Sent His Sister, Ethel Rosenberg to the Electric Chair, Random House, New York 2001; R. Radosh, The Rosenberg File, Yale University Press, New Haven 1997. 22 S. Farber, Daniel, cit., p. 3323 F. Russell has maintained Sacco’s guilt (but not Vanzetti’s); R. Radosh’s book has been a controversial assertion that the Rosenbergs were indeed Soviet spies; S. Roberts and others conclude that Julius Rosenberg, but not Ethel, passed atomic secrets to the U.R.S.S. 24 C. Lévi-Strauss, The Structural Study of Myth, in T. A. Sebeok (ed.), Myth. A Symposium, Indiana University Press, Bloomington IN 1958, p. 105. 25 M. Aste, Sacco and Vanzetti. Italian Filmic images, cit., p. 221.

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offers the innately political symptomatic meaning25 26 that justice may not be possible in a capitalist society while simultaneously offering the explicit meaning that, for all its tortured characteristics, a restored traditional family is the hope for the future. By contrast, Sacco and Vanzetti, nevertheless using certain devices of melo­ drama, foregrounds its political commitment through the same conclusion about justice but offers its hope through a radically expanded, anarchists’ definition of family: «Men united as brothers by a conscious and desired solidarity, all cooperating voluntarily for the well-being of all [...]»27.

25 D. Bordwell, K. Thompson, Film Art: An Introduction, McGraw-Hill, Boston 2004. Bordwell and Thompson’s use of the terms referential, explicit, implicit, and symptomatic meaning (pp. 55-58) are fundamental to my analysis of these films. 27 E. Malatesta, An Anarchist Programme and Anarchist Propaganda, extracted from V Richards (ed.), Errico Malatesta.- His Life and Ideas, Freedom Press, London 1965, p. 22.

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IL MELODRAMMA POLITICO E GLI IMPERATIVI DELLE CONVENZIONI DI GENERE *

* Traduzione di Carmen Gallo.

A proposito del cinema di Ken Loach, John Hill ha affermato che per quanto «Loach abbia fama di regista politico, i suoi film tendono a svilupparsi nell’ambito melodrammatico dei rapporti domestici e fa­ miliari» \ Tuttavia, anche se temi legati alla classe, alla posizione so­ ciale, e persino alle politiche radicali hanno una lunga storia come parte del «melodramma» in quanto genere, il cinema dichiaratamen­ te politico di Ken Loach sembra a prima vista esserne l’antitesi, di qui il senso di sorpresa implicito nella constatazione di Hill che in quei film operi il «meccanismo drammatico del melodramma»12. Diverse e importanti sono le questioni che la tesi di Hill solleva sulla natura del­ la relazione tra melodramma e cinema politico, non ultima la più im­ portante: esiste il melodramma politico? Cosa s’intenda in generale per melodramma è difficile a dirsi, e infatti della vaghezza della sua definizione si discute in quasi tutti gli scritti sul genere. L’opinione di Christine Gledhill, ad esempio, è degna di nota: sostiene che il me­ lodramma sia «nel migliore dei casi una categoria di genere fram­ mentata», segnalando come «la retorica melodrammatica informi tan­ to film western, di gangster e dell’orrore, quanto thriller psicologici e melodrammi familiari [,..]»3. E in effetti, a causa di questa fluidità e frammentazione, si possono individuare aspetti del melodramma quasi in ogni genere. Tuttavia, anche a rischio di estendere la defini­ zione di melodramma fino a farle perdere senso, la mia tesi è che il melodramma politico sia un sottogenere indipendente e importante quanto il melodramma familiare, e che rappresenti, in fondo, un ri­ 1J. Hill, Every Fuckin' Choice Stinks, in «Sight and Sound», November 1998, p. 21. 2 Ivi, p. 20. 3 C. Gledhill, The Melodramatic Field: An Investigation, in C. Gledhill (a cura di), Home Is Where tbe Heart Is, BFI Publishing, London 1987, pp. 6 e 13-

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torno ad alcuni dei motivi chiave che caratterizzarono gli anteceden­ ti teatrali e letterari del genere melodrammatico. I tratti semantici generalmente considerati tipici del melodram­ ma sono stati più volte elencati in contesti diversi4. La sintesi che ne propone Naomi Greene, comunque, li riassume in un modo che ri­ sulta particolarmente rilevante per queste opere e ne sottolinea le radici nel «melodramma teatrale al suo esordio, ovvero all’epoca del­ la rivoluzione francese»: [...] spiccata teatralità, personaggi fuori dell’ordinario, forti emozioni e imprese mirabolanti, effetti scenici sorprendenti e un’elaborata messa in scena, nonché la tendenza ai grandi contrasti sia sul piano morale [...] sia su quello scenico (contrasti di luci, costumi, ecc.). Infine, essi attribuiscono un ruolo cruciale alla musica [...] che era in origine l’elemento per defini­ zione del melodramma5.

Per quanto riguarda le possibili peculiarità sintattiche, esse so­ no state ampiamente elencate, ma non ancora codificate in un in­ sieme definito e unanimemente condiviso. Sembra, in effetti, che gran parte della discussione sul melodramma tenti, implicitamente, di fissare «una sintassi relativamente stabile del genere», per usare le parole di Rick Altman 6. Ad ogni modo, è possibile individuare alcu­ ni elementi che caratterizzano in modo particolare il melodramma politico: le contraddizioni ideologiche della politica radicale come si manifestano all’intemo dei principali media; i conflitti tra individui e forze sociali, ampiamente al di là delle loro possibilità di controllo; le tensioni tra l’influenza pervasiva della famiglia sulle azioni dei per­ sonaggi e l’orientamento politico dei film; la rottura della catena cau­ sa-effetto dell’intreccio tradizionale attraverso strutture narrative de­ viami che rifletterebbero politiche devianti; infine - e ciò è vero so­ 4 Si vedano in particolar modo i vari saggi raccolti in C. Gledhill, Home Is Where the Heart Is, cit.; R. Lang, American Film Melodrama: Griffith, Vidor, Minnelli, Prin­ ceton University Press, Princeton, N. J. 1989; e S. Hayward, Melodrama and Women's Films, in Key Concept in Cinema Studies, Routledge, London 1996, pp. 199-2155 N. Greene, Coppola, Cimino: The Operatics ofHistory, in «Film Quarterly», Win­ ter 1984-1985, p. 28. 6 R. Altman, A Semantic/Syntactic Approach to Genre, in B. K. Grant (a cura di), Film Genre Reader, University of Texas Press, Austin 1986, p. 36.

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prattutto per i film qui oggetto d’indagine - l’irrilevanza delle traiet­ torie narrative tradizionali visto che i finali delle storie sono già noti, trattandosi di eventi storici. Capire come le interazioni fra elementi semantici e sintattici influenzino, dominino e forse in ultima istanza compromettano l’importanza storica e politica dei film è essenziale per affermare l’esistenza del sottogenere. Naomi Greene ha osservato che «spesso il melodramma degli ini­ zi ruotava intorno a eventi e personaggi reali»7, e, per dare credibilità alla mia affermazione sull’esistenza e la rilevanza del melodramma po­ litico, mi limiterò a prendere in considerazione solo i film che affron­ tano situazioni derivate, o almeno basate su eventi e personaggi sto­ rici. Diversi sono i film che, per le questioni che sollevano, potrebbe­ ro essere oggetto di analisi. Land and Freedom (Terra e libertà, Ken Loach, 1995), per esempio, pur presentando un personaggio finzionale, lo inserisce al centro dei dibattiti interni alle forze di sinistra che combattevano in difesa del governo repubblicano durante la guerra civile spagnola, adottando una struttura narrativa che ripercorre la storia (fabula) del personaggio attraverso il racconto (sjuzet) della let­ tura delle sue lettere e dei diari da parte della nipote molti anni dopo la sua morte. Un altro possibile esempio, Malcolm X (Id., Spike Lee, 1992) segue la vita di un’importante figura politica della cultura ame­ ricana del XX secolo, la cui biografia viene messa in scena ricorrendo a forme diverse di melodramma per documentare problemi legati al­ la razza e alla classe in una società che tenta invece di mettere a tace­ re queste istanze. Sono due, ad ogni modo, i film che ponendo al cen­ tro personaggi reali vittime dell’isteria nazionale, di una magistratura corrotta e di politiche governative oppressive, risultano particolar­ mente interessanti ai fini di questa disamina. La concomitanza degli anniversari dei due eventi reali narrati in questi film sottolinea il si­ gnificato che tali storie hanno come paradigma delle crisi ricorrenti re­ gistrate nel corso del XX e XXI secolo. Si potrebbe anzi dire che pro­ prio nel loro essere «metafora» del presente i due film hanno la loro vera ragion d’essere. Ci riferiamo a Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo (UMC Pictures, 1971) e Daniel di Sidney Lumet (Id., Paramount Pictures Corp., 1983), che si confrontano con vicende ben note della 7 N. Greene, Coppola, Cintino: The Operatics ofHistory, cit., p. 28.

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storia americana (verificatesi in periodi diversi, ma entrambe caratte­ rizzate dalla paura del «pericolo rosso»), nelle quali le vittime furono processate e infine giustiziate più che per i loro presunti crimini, so­ prattutto per le loro idee politiche radicali. Forse persino più centrali per le lotte implicite nelle trame di questi film (e di altri melodrammi politici) sono i temi legati alla classe, poiché nel melodramma politi­ co i contrasti manichei, caratteristici del genere nel suo insieme, so­ no rappresentati attraverso protagonisti che resistono alle «spinte del capitalismo» e personaggi che operano in situazioni polarizzate in cui si confrontano condizioni «economiche e d’istruzione» 8 opposte. In questi film, è il governo a diventare l’antagonista principale, perché in­ carna il patriarcato e perché dipende da una struttura capitalistica che sola gli consente di mantenere il potere. L’anarchia di Sacco e Vanzetti e il comuniSmo degli Isaacson (la versione romanzata di Julius e Ethel Rosenberg in Daniel) sono presentati come alternative ai sistemi di controllo razzisti, sessisti e schiavisti che impediscono ai lavoratori di raggiungere un’«identità di classe»9. Il ruolo antagonistico delle forze di governo è stabilito sin dal­ l’inizio sia in Sacco e Vanzetti sia in Daniel. Nel primo la posizione politica del film appare evidente già dai titoli di testa, che scorrono sovraimpressi a scene dei cosiddetti «Palmer raids» del 192010 - gira­ te in bianco e nero affinché sembrino materiali di repertorio - dove si vedono sul fondo bambini che piangono e vittime accerchiate, tra­ scinate via con la forza, incapaci di difendersi. In Daniel, invece, la prima scena si svolge a Washington D. C. durante un raduno di protesta contro la guerra in Vietnam, nel cor­ so del quale gli agenti caricano i manifestanti. Allo stesso modo, do­ po molte scene che alternano periodi di tempo diversi, gli Isaacson s’incontrano a una manifestazione pro-labour degli anni trenta du­ rante la quale la polizia della città di New York, brandendo manga­ nelli, irrompe a cavallo travolgendo molti dei manifestanti. 8 C. Gledhill, The Melodramatic Field: an Investigation, cit., pp. 20-21. 9 K Butler, Between History and Melodrama: René Clair's Quatorze Juillet, in «Quarterly Review of Film and Video», 2000, p. 118. 10 I «Palmer raids» sono le incursioni e le incarcerazioni preventive disposte dal­ la politica del General Attorney A Mithchell Palmer nei confronti di individui sospet­ tati di essere anarchici o comunisti. [N. d. T.]

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Entrambi i film continuano a sfruttare questa strategia anche in altre scene che contrappongono forze dell’ordine e partecipanti alle manifestazioni pacifiche: in Sacco e Vanzetti, per esempio, la polizia carica i componenti di un comitato di difesa che rivendica la «libertà per Nick e Bart», mentre in Daniel, in una rappresentazione roman­ zata di uno dei più famosi esempi di vigilantismo istigato dal gover­ no americano, una folla di «comuni» cittadini attacca i bus pieni di persone (tra cui gli Isaacson) che lasciano il concerto del cantante Paul Robeson. Qui, la brutalità senza volto delle forze dell’ordine, en­ fatizzata dalle ricorrenti inquadrature in campo lunghissimo e con ri­ prese dall’alto, rafforza l’idea di implicita corruzione che traspare dai processi di entrambe le coppie di vittime in altri punti del film. Il go­ verno non può certo permettere che le sfide lanciate al suo potere restino impunite. Costruendo la trama sul processo e sui susseguenti appelli, pre­ sentati nel film come se si trattasse di uno spettacolo, Sacco e Van­ zetti si serve del melodramma per documentare un tragico errore giudiziario. Gli elementi semantici e sintattici concorrono a mostra­ re «la violenza da stato totalitario perpetrata dal (o dagli agenti del) “sistema” [...]» n. L’aula di tribunale è il luogo deputato dove i per­ sonaggi (non solo gli eponimi) diventano figure quasi mitiche, ed è anche il luogo delle reazioni emotive e drammatiche, dei contrasti e degli effetti scenici. L’opposizione principale tra le forze morali si so­ stanzia nel contrasto tra il giudice e l’avvocato dell’accusa da una par­ te, e gli avvocati della difesa dall’altro. Il giudice Webster Thayer (Geoffrey Keen), inquadrato di solito dal basso mentre siede dietro al banco, si scontra costantemente con l’avvocato principale della di­ fesa, Fred Moore (Milo O’Shea), che indossa sandali ed è vestito co­ me se volesse sfidare la formalità delle aule del tribunale del New England e l’illusoria apparenza della giustizia americana. I tentativi rabbiosi con cui Moore cerca di provare l’inattendibilità dei testimo­ ni e il suo sdegno contro le tattiche del pubblico ministero Frederick 11 T. Elsaesser, Tales of Sound and Fury: Observations on the Family Melo­ drama, in «Monogram», n. 4, 1972; ora anche in C. Gledhill (a cura di),Home is Whe­ re the Heart Is, cit.; trad. it. Storie di rumore e furore: osservazioni sul melodramma familiare, in «Fdmcritica», n. 339-340, 1983, poi in A. Pezzotta (a cura di), Forme del melodramma, Bulzoni, Quaderni di Filmcritica 23, Roma 1992.

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Katzmann (Cyril Cusack) sono criticati da Thayer come «metodi ter­ roristici» di interrogatorio. Thayer, però, generalmente permette a Katzmann di portare avanti l’accusa finché vuole e dopo, quando vie­ ne dimostrato che i testimoni stavano mentendo, respinge la nuova testimonianza come motivo di appello contro le accuse a Sacco e Vanzetti. L’arroganza di Thayer cresce per tutto il film, persino quan­ do Moore, persa la causa, si sente ridimensionato nel proprio ruolo e si dimette dal caso. L’invettiva che Sacco scaglia contro Moore («Questa sentenza è merito tuo e della tua politica») lo avvilisce ul­ teriormente e permetterà al secondo avvocato difensore, William Thompson (William Prince), che condivide la classe d’appartenenza e il background del giudice ed è ineccepibile per aspetto e compor­ tamento, di fronteggiare Thayer sullo stesso piano. La consacrazione dell’eroismo di Nicola Sacco (Riccardo Cucciolla) e Bartolomeo Vanzetti (Gian Maria Volontà) attraversa tutto il film: lo spirito anarchico che li anima e che funziona da metro degli ideali democratici conferisce loro una certa superiorità rispetto agli altri personaggi, una superiorità morale registrata e messa a verbale quando ai due è concessa l’opportunità di esprimere il proprio pun­ to di vista. Frase dopo frase, da una parte condannano se stessi agli occhi della corte, dall’altra s’incamminano lungo la strada del marti­ rio politico. Dopo l’ammissione, «io non amo il governo degli Stati Uniti», Vanzetti prosegue con un discorso sulla natura dell’anarchia: «l’anarchia è libertà, una società non più divisa in classi. È rispetto per la gente. Anarchia, per me, è fratellanza, solidarietà e libertà». Sacco, a sua volta, dichiara: «Io voglio che tutti abbiano i mezzi per vivere», ed elogia il socialista imprigionato Eugene Debs come un grande americano, mentre condanna}. R Morgan e John D. Rocke­ feller come sfruttatori delle classi lavoratrici. Nel verbale del vero processo, la testimonianza di Sacco e Vanzetti è ovviamente molto più lunga, ma il film, concentrando i loro discorsi in concise affer­ mazioni dal tono mitico, eleva Sacco e Vanzetti a figure allegoriche di umiltà e tolleranza. Quando viene letto il verdetto della condan­ na, i personaggi principali sono presentati in una serie di primi pia­ ni che accentuano ulteriormente le opposizioni di classe e potere. La consapevolezza che le loro vite sono appese a un filo diventa evi­ dente quando Sacco urla: «Io non voglio essere un martire politico.

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Voglio vivere». La replica di Vanzetti mostra che anche lui ha com­ preso la situazione: «Anch’io voglio vivere, ma in un mondo miglio­ re». Al momento della sentenza, e anche dopo, Vanzetti si cala com­ pletamente nella parte del martire politico. Sacco rifiuta di parlare, mentre Vanzetti, pur ammettendo di essere anarchico, proclama la sua posizione che è la stessa del film: «Il nostro crimine è stato vo­ ler creare un mondo migliore». E coinvolgendo lo stesso Sacco, ag­ giunge: «Il nome di Nicola Sacco continuerà a vivere nei cuori della gente», anche dopo che le ossa degli accusatori saranno polvere: «Avete dato significato alle nostre vite». Nelle strategie di ogni racconto tratto da fatti storici, la caratte­ rizzazione di personaggi ed eventi diviene una necessità dramma­ turgica. Tali strategie, anche se non sono specifiche del melodram­ ma, sono di certo intrinsecamente melodrammatiche e diventano tanto più importanti in Sacco e Vanzetti per affermare la posizione politica del film. Due esempi, fra gli altri, possono dare un’idea del­ l’uso che nel film viene fatto del melodramma a scopi politici. Il pri­ mo è che Moore e Thompson, benché abbiano realmente rappre­ sentato Sacco e Vanzetti, sono solo due degli almeno cinque avvocati che di fatto assunsero la responsabilità del caso tra l’arresto nel 1920 e l’esecuzione della condanna a morte nel 1927. Tuttavia, opponen­ do fra loro lo stile e gli atteggiamenti (e la posizione sociale) di Moore e Thompson, il film enfatizza quanto ampio e trasversale fos­ se il consenso che i due italiani si erano conquistati. Nel film, infatti, il ritiro dal caso di Thompson si risolve in un attacco contro il giudi­ ce Thayer, un attacco che ha un significato speciale perché è porta­ to dal personaggio che in maniera più evidente ha subito un pro­ cesso di cambiamento. Sfidando in un primo tempo chi credeva che Sacco e Vanzetti non avrebbero avuto un giusto processo, Thom­ pson si offre di assistere il comitato di difesa, dopo aver trascorso un po’ di tempo in aula a osservare l’andamento della causa. Poi, dopo la sentenza e l’abbandono di Moore (e dopo essere stato pestato dal­ la polizia durante una manifestazione), decide di prendere parte at­ tiva nella difesa del caso, ma alla fine viene deluso dallo stesso siste­ ma che aveva fino a quel momento dato senso alla sua vita: Devo ringraziarla, Mr. Webster Thayer, perché mi ha aiutato a perdere l’ultima illusione che avevo riguardo alla giustizia e alla magistratura del

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Commonwealth. Mai più metterò piede in un’aula di tribunale. Intendo la­ sciare una professione che mi costringe a venire in contatto con persone come lei, per le quali si può nutrire solo il più profondo disprezzo.

Nella realtà, Thompson passò il caso al suo successore in modo molto meno polemico (sebbene si fosse già distinto per eloquenza nei contraddittori con Thayer in altre circostanze12). L’altro esempio, invece, riguarda il rapporto tra Vanzetti e Alvan Fuller, il governatore del Massachusetts al quale il condannato si era appellato per la con­ cessione della grazia. L’incontro tra Fuller e Vanzetti avvenne a quan­ to pare in prigione 13. Il film li riprende mentre sono nell’ufficio del direttore della prigione, impegnati in un’ipotetica discussione sulla natura del potere e della giustizia. In questa occasione, è Fuller a chiedere consiglio a Vanzetti: «Cosa faresti tu al posto mio?». Sembra implicito che Fuller potrebbe concedere la grazia se Vanzetti rispon­ desse correttamente alla domanda, ma questi, rifiutando di piegarsi a un tale ricatto psicologico, replica: «Capisco cosa vuole dirmi, che persino io, un anarchico, posso ancora avere fiducia nel potere del­ la borghesia», e dichiara esplicitamente la sua visione del mondo che è la stessa del film: «Così sta dicendo che siamo stati condannati per­ ché anarchici e non perché siamo ladri o assassini». Le manipolazio­ ni, presenti nel film, dei verbali del processo e dei lunghi scritti di Sacco e Vanzetti permettono al melodramma di trasformare la loro esecuzione in una condanna di tutte le ingiustizie politiche. Se Sacco e Vanzetti ricorre agli espedienti del melodramma per promuovere un’intransigente difesa degli ideali radicali dei due pro­ tagonisti, Daniel si affida a quegli espedienti per convertire l’argo­ mento politico-radicale in un discorso sulla sopravvivenza della fami­ glia. Sidney Lumet, regista di Daniel, ha più volte ribadito che il film non è tanto sui Rosenberg (o sugli Isaacson), ma sugli effetti che «le passioni e le scelte» dei genitori hanno sui figli14. Infatti, più volte in Making Movies - il libro in cui il regista analizza ed espone dettaglia­ 12 G. L. Joughin, E. M. Morgan, The Legacy of Sacco and Vanzetti, Hartcourt, Brace, New York 1948, p. 376. 13 Ivi, p. 300. 14 S. Lumet, Making Movies, Knopf, New York 1995, P- 57. Lumet ha ribadito que­ sto concetto in molti dibattiti e interviste.

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tamente i propri metodi di lavoro, i procedimenti cinematografici, le scelte stilistiche e le relazioni professionali -, Lumet esalta la capacità del melodramma di adattarsi alle finalità di qualsiasi film. Come è evi­ dente dal titolo, il film è incentrato sul figlio degli Isaacson, Daniel (Timothy Hutton), e sul processo di maturazione che lo porterà a di­ venire un adulto responsabile. La fabula si sviluppa proprio attraver­ so le ricerche del protagonista sulle circostanze che condussero alla condanna a morte e all’esecuzione dei suoi genitori. Daniel, così, non è solo il protagonista, ma anche colui che deve maturare e cambiare attraverso i tre diversi periodi di tempo che l’intreccio (sjuzet) alter­ na (gli anni trenta e i primi anni quaranta, che vedono lo sviluppo del radicalismo politico degli Isaacson; la fine degli anni quaranta e i pri­ mi anni cinquanta, che raccontano il loro arresto, il processo, l’ese­ cuzione e lo smarrimento dei figli che assistono a tali eventi; gli anni sessanta in cui Daniel e sua sorella Susan [Amanda Plummer] tenta­ no d’integrare il loro passato e il loro presente nel clima di agitazio­ ne politica generato dalla guerra in Vietnam). L’uso del colore per dif­ ferenziare i periodi o per sottolineare l’accettazione da parte di Da­ niel della morte dei genitori (e della sorella) è tra i più evidenti del­ l’accentuazione della messinscena tipica del melodramma. Le tinte arancio usate per gli anni trenta e quaranta contrastano con le tinte blu degli anni sessanta, ma quando le indagini di Daniel iniziano a mettere in luce che non potrà mai comprendere pienamente ciò che è accaduto (e quando egli lo accetta; il film evita di prendere posi­ zione sull’innocenza o colpevolezza degli Isaacson) il colore delle im­ magini ridiventa gradualmente normale. Daniel affronta essenzialmente il tema della distruzione e della ricostruzione finale di una famiglia - anche se di tipo molto diverso -, ricostruzione che sarà possibile solo quando il protagonista si libera del proprio passato. Il piccolo appartamento degli Isaacson, che nel­ la rappresentazione fìlmica fa tutt’uno con il negozio sottostante di Paul Isaacson, è il luogo di numerose, piacevoli interazioni familiari sempre a sfondo politico - e costituisce il vero modello di casa e di famiglia proposto dal film. La scena della lezione del padre di Daniel sullo sfruttamento capitalistico (Paul [Mandy Patinkin] spiega al gio­ vane Daniel quali siano le implicazioni capitalistiche dell’immagine di Joe DiMaggio sulla scatola dei Wheaties, i cereali per la colazione),

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mostra un calore e un amore che contrastano con tutte le altre case o famiglie rappresentate nel film. I genitori adottivi di Daniel e Susan, Robert e Lisa Lewin (John Rubinstein e Maria Tucci) abitano in un ap­ partamento splendidamente arredato dellT/pper middle-class, che ri­ corda gli ambienti domestici dei film di Sirk. Dal modo in cui sono presentati, si deduce che i Lewin hanno allevato Daniel e Susan of­ frendo loro opportunità che non avrebbero avuto con i loro veri ge­ nitori. Eppure, nella scena iniziale della cena del Ringraziamento in casa dei Lewin, vediamo Daniel e Susan attaccarsi l’un l’altro in modo brutale, benché unicamente a parole. Soltanto alla fine del film, quan­ do Daniel inizierà a relazionarsi costruttivamente con i propri demo­ ni interiori, nei rapporti con i Lewin cominceranno a riflettersi le im­ magini positive della famiglia della sua giovinezza. La casa che Daniel divide con la moglie (Ellen Barkin) e il figlio neonato contrasta anche strutturalmente con quelle degli Isaacson e dei Lewin: è un piccolo e disordinato appartamento per studenti, visto solo nella scena in cui Daniel si scaglia contro la moglie con la solita crudeltà verbale («Co­ me può una con un culo così grosso avere un cervello così piccolo?»). Anche in questo caso, è solo alla fine del film che Daniel comincerà a manifestare, nei confronti della moglie e del figlio, l’amore e la cura che gli Isaacson mostravano l’uno verso l’altro. La distruzione della fa­ miglia degli Isaacson coincide con l’effettiva distruzione della loro ca­ sa da parte degli agenti del governo i quali, venuti ad arrestare Paul Isaacson, fanno a pezzi l’appartamento, squartano materassi e solle­ vano il pavimento per cercare prove incriminanti. Le scene successi­ ve, sia quelle nelle quali la zia, anche se riluttante, procura a Daniel e Susan un rifugio di fortuna, sia quelle nel centro per bambini dal qua­ le i due scappano per tornare alla loro casa abbandonata e sotto se­ questro, rafforzano il valore del tentativo - che li accompagnerà fino all’età adulta - di riconquistare il senso della famiglia. Se le difficoltà che ha Daniel nell’affrontare il passato sono su­ perate grazie alle ricerche che intraprende sulla vita dei genitori, i problemi di Susan sembrano invece insormontabili. Il suo sprofon­ dare nella catatonia motiva Daniel a proseguire nel tentativo di sco­ prire la verità e a sostenere le cause per cui si batte sua sorella, se­ gno che per il protagonista l’unità familiare e l’impegno politico so­ no una combinazione inscindibile. Come ha detto Stephen Farber,

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«la determinazione a ricostruire la famiglia che era stata distrutta por­ ta Daniel a riscoprire in se stesso quell’attivismo politico che rap­ presenta la parte migliore del lascito dei suoi genitori»15. Sotto mol­ ti aspetti, quindi, seguendo una lunga tradizione di personaggi fem­ minili del melodramma, Susan è principalmente il catalizzatore della redenzione di Daniel. Dalla scena del giorno del Ringraziamento, in cui è ripresa in primo piano mentre si rannicchia in un angolo for­ mato da due mura bianche, fino alla scena finale nell’ospedale psi­ chiatrico dove la troviamo raggomitolata in posizione fetale su un let­ to anch’esso posto in un angolo formato da due mura bianche, Su­ san non riesce mai ad avere la meglio sui propri demoni interiori. Daniel, con tono accusatorio, elenca come in una litania tutte le tap­ pe del tormentato passato di Susan: ha provato il sesso, le droghe, la religione, e adesso sta inseguendo la rivoluzione (usando il loro fondo fiduciario, Susan vuole creare una fondazione per gli studi sul­ la rivoluzione in onore dei genitori). In un primo momento Daniel rifiuta l’idea di Susan, la quale, colta da collasso nervoso, non riuscirà più a portarla avanti. Tuttavia, nel momento in cui capisce che non scoprirà mai la verità, casualmente fa riferimento al fatto che sta usando il fondo fiduciario proprio per lo scopo che Susan desidera­ va. In occasione del loro ultimo incontro avvenuto in ospedale, Da­ niel, assumendo nuovamente il ruolo protettivo avuto da ragazzo, prende Susan fra le braccia, mentre la canzone di Paul Robeson tra­ duce in parole la situazione: «un giorno sarò libero dalle lacrime, per­ ché un giorno capirò». Nella scena seguente, Daniel toma dai Lewin, dove insieme a Robert legge i verbali del tribunale. Per la prima vol­ ta, il film presenta alcune scene, relativamente brevi, del dibatti­ mento. Daniel può finalmente mettere a confronto i dettagli della causa (parallelamente a Sacco e Vanzetti, il film mostra l’ingiustizia di base del processo), i ricordi dell’ultima visita ai genitori in prigio­ ne e la loro stessa esecuzione. Susan, comunque, deve morire per­ ché Daniel possa ritrovare la propria identità. Come sottolinea il montaggio - che alterna le scene dei due funerali, dei genitori e di Susan - Daniel deve seppellire sua sorella e i ricordi dolorosi del pas­ sato per poter ricostruire la propria famiglia. Nella scena finale del 15 S. Farber, Daniel, in «Film Quarterly», Spring 1984, p. 35-

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film, telefona alla moglie per invitarla a unirsi a lui in una manifesta­ zione contro la guerra in Vietnam. La trasformazione assume un va­ lore universale quando Daniel, la moglie e il figlio (portando il bam­ bino sulle spalle, Daniel mostra di nutrire un sentimento paterno si­ mile a quello di suo padre), davvero insieme per la prima volta, di­ ventano persone fra le migliaia di altre persone che chiedono al go­ verno di dar conto delle sue decisioni. L’enfatizzazione di alcuni elementi rispetto ad altri, se da un la­ to tende a differenziare Sacco e Vanzetti da Daniel, oscurando le molte somiglianze, dall’altro è particolarmente importante per lega­ re il film di Montaldo alla crisi che l’Italia stava attraversando quan­ do il film è stato prodotto. Anche in Sacco e Vanzetti ritroviamo il te­ ma della famiglia, emblematizzato dalla presenza della moglie e del giovane figlio di Sacco nell’aula del tribunale, ma qui l’uso del melo­ dramma va oltre le accuse al sistema giudiziario americano, e inclu­ de anche quelle all’Italia degli anni di piombo. E più che evidente, per coloro che conoscono la situazione politica ita­ liana degli anni sessanta e settanta, che Montaldo usa il processo e l’esecu­ zione di Sacco e Vanzetti, avvenuti tra il 1920 e il 1927, al fine di sollevare questioni rilevanti per l’Italia contemporanea. Osservando la scena di Salsedo che muore cadendo dalla finestra in Sacco e Vanzetti, gli spettatori ita­ liani possono stabilire rapidamente una relazione con la morte di Giuseppe Pinelli, arrestato dalla polizia italiana per l’attentato di Piazza Fontana a Mi­ lano nel 1969, e suicidatosi misteriosamente gettandosi da una finestra mentre era sotto la custodia della polizia16.

L’immagine di Andrea Salsedo che muore precipitando da un edi­ fìcio di Manhattan è ripetuta in maniera identica (uno zoom sul parti­ colare degli occhi di ciascuno dei passanti, seguito da un campo lun­ go - inizialmente associato a immagini dei «Palmer raids» - di Salsedo che precipita) per spiegare il motivo che spinse Sacco e Vanzetti a mentire quando furono arrestati: la paura di essere identificati come anarchici avrebbe messo a rischio la loro vita. La morte di Pinelli, co­

16 M. Aste, Sacco and Vanzetti: Italian Filmic Images, in M. Aste et al. (a cura di), Industry, Technology, Labor and the Italian American Communities, American Italian Historical Association, Staten Island N.Y 1997, p. 217.

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me quella di Salsedo, fu dichiarata un suicidio, ma da alcuni è stata considerata un esempio di omicidio perpetrato dalla polizia. Anche i maxi-processi italiani furono caratterizzati da un comportamento si­ mile a quello del processo melodrammatico rappresentato nel film. «Perché vi sia giustizia, è fondamentale quanto necessario che ci si at­ tenga alla procedura corretta, ed è proprio sul venir meno di questa condizione che si concentra la preoccupazione di Montaldo nel film; egli mostra continuamente agli spettatori che in entrambi i processi, che pure si svolsero sulle rive opposte dell’Atlantico, non erano state seguite procedure corrette»17. Daniel, girato diversi anni dopo la fine della guerra in Vietnam, non può essere considerato una requisitoria contro una specifica situazione contemporanea18, anche se Stephen Farber suggerisce una relazione con «la massiccia campagna portata avanti dall’amministrazione Reagan per riaccendere la paranoia anti­ comunista che aveva già attraversato gli anni cinquanta»19. Nonostan­ te l’ambientazione da melodramma familiare, \n Daniel la tematica po­ litica ha un grande peso e, in particolare, è piuttosto esplicita la con­ divisione di un punto di vista apertamente progressista su una que­ stione da sempre al centro del dibattito politico: la pena di morte. Per ben quattro volte nel corso del film, Timothy Hutton, inquadrato in primissimo piano, racconta episodi legati alla storia dell’esecuzione ca­ pitale. Il film, infatti, si apre con la voce narrante di Hutton che parla dell’invenzione e dei primi usi dell’elettricità, e con l’immagine di un particolare dei suoi occhi mentre continua a raccontare la prima ese­ cuzione mediante sedia elettrica eseguita nello stato di New York. Un veloce campo lungo della porta che si chiude su ciò che alla fine si ri­ velerà la camera della morte, precede il titolo: DANIEL. Come questo, anche gli altri tre momenti del racconto di Hutton non sono connes­ si a nessuno dei tempi e degli spazi diegetici che si alternano nel film. Si può quindi dire che qui è l’attore a parlare, anche se assomiglia a

17 Ivi, p. 22318 II romanzo su cui si basa il film di Lumet, The Book ofDaniel di E. L. Doctorow, pubblicato nel 1971 (edizione paperback, New American Library, New York 1972) e scrit­ to durante il culmine delle proteste contro la guerra in Vietnam, implica legami tra il ca­ so Rosenberg e la repressione, da parte del governo, del dissenso tra gli anni sessanta e settanta; contiene, inoltre, alcune caustiche accuse contro l’America corporativa. 19 S. Farber, Daniel, cit., p. 32.

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Daniel, e non il personaggio. L’uso di primi piani impedisce di sapere quando o dove egli stia parlando; guardando direttamente in macchi­ na, Hutton sembra di fatto rivolgersi agli spettatori del film. Le con­ nessioni di questi monologhi (e delle esecuzioni capitali dei Rosen­ berg e degli Isaacson) alla più ampia questione dell’assoluta ingiusti­ zia della pena di morte, sono particolarmente forti nel secondo di­ scorso, che ricorre a parole tratte direttamente dal romanzo di Doctorow, sul drawing and quartering™. I raccapriccianti e cruenti dettagli di questa forma di esecuzione «che la monarchia inglese non infliggeva all’élite aristocratica, cui si concedeva la dignità della sem­ plice decapitazione», si concludono con l’informazione che «era il tra­ dimento il crimine previsto per tale pena comminata dalle corti reali per volontà del sovrano20 21». L’ultimo discorso - che riprende il lin­ guaggio e le immagini del primo - precede immediatamente la rap­ presentazione dell’esecuzione degli Isaacson, la quale ci viene mo­ strata con dettagli dei loro corpi fumanti che si contorcono; una scel­ ta dunque assai diversa dalla presentazione indiretta delle elettroese­ cuzioni di Sacco e Vanzetti (quella di Sacco è indicata da luci che si ab­ bassano, mentre Vanzetti, nelle tre inquadrature che concludono il film - si stacca da un campo medio a un mezzo-campo lungo a un campo lungo - appare già accasciato sulla sedia elettrica). L’altro elemento tipicamente melodrammatico che pervade la struttura e il significato sia di Sacco e Vanzetti sia di Daniel è la mu­ sica. Entrambi i film utilizzano come colonna sonora e commento canzoni interpretate da figure riconoscibili, legate in qualche modo alle posizioni politiche implicitamente sostenute dai due registi. Le canzoni di Joan Baez, una delle voci del movimento contro la guer­ ra del Vietnam, costituiscono il sottofondo musicale dei momenti cruciali di Sacco e Vanzetti. Immediatamente riconoscibile dal pub­ blico del 1971, Baez lega il film al suo passato diegetico e al presen­ te della produzione, interpretando canzoni (la musica è stata scritta da Ennio Morricone) con testi arrangiati a partire da fonti diverse. Tbe New Colossum, la poesia di Emma Lazarus celebre perché i suoi 20 Si tratta di un’esecuzione che prevedeva un’impiccagione seguita dallo squar­ tamento del corpo del condannato tramite l’uso di funi tirate da cavalli. [N. d. T] 21 E. L. Doctorow, The Book of Daniel, cit., p. 86.

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versi sono incisi alla base della Statua della Libertà («Give me you tired, your poor, your huddled masses yearning to breathe free [...]»), apre la canzone che accompagna i titoli di testa del film, men­ tre ironicamente scorrono immagini dei «Palmer raids» effettuati so­ prattutto a danno di immigrati. Un riadattamento delle lettere scrit­ te da Sacco a suo figlio Dante diventa il testo di una parte della Bal­ lata di Sacco e Vanzetti, in particolare le parole scritte al figlio poco prima dell’esecuzione: «Figlio mio, non piangere, sii forte [...]. Per­ donami, figlio, per quest’ingiustizia che ti porta via tuo padre». An­ che i titoli di coda del film hanno come sottofondo un tema musi­ cale che modifica una celebre frase in cui Vanzetti esprime la spe­ ranza che lui e Sacco siano ricordati come martiri: «Questa canzone è per voi, Nicola e Bartolomeo, riposerete per sempre nei nostri cuo­ ri. [...] Quell’agonia è il vostro trionfo». Usando una figura anch’essa molto nota, Daniel sfrutta la simpatia che il cantante-attore Paul Robeson, contemporaneo dei Rosenberg, aveva per le cause della si­ nistra in generale e per quelle comuniste in particolare. (Al tempo della loro esecuzione, Robeson aveva subito la revoca del passapor­ to a causa di un suo viaggio in Unione Sovietica). Come per Sacco e Vanzetti, in Daniel le canzoni di Robeson costituiscono una sorta di commento e sono quindi complementari all’azione. Due esempi in particolare sottolineano il cammino di ricerca della verità intrapreso da Daniel. All’inizio del film, una canzone di Robeson che recita: «Adesso chi sarà testimone?» illumina uno dei motivi impliciti del film: il tentativo di Daniel di scoprire tutto il possibile sul passato dei suoi genitori. Molto tempo dopo, quando Daniel va in California per intervistare Selig Mindish, l’unico personaggio che potrebbe chiarire tutto, è la canzone di Robeson, con tutte le sue connotazioni bibli­ che, a rispondere alla domanda: «Daniel era un testimone». La musi­ ca, elemento così essenziale per il genere melodrammatico, espan­ de la temporalità diegetica dei film fino a includere associazioni me­ taforiche che suggeriscono quanto il melodramma politico può es­ sere presente in maniera rilevante in determinati contesti, ben oltre lo specifico tema trattato. Il 23 agosto del 2002 si è celebrato il settantacinquesimo anni­ versario delle esecuzioni di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Il 19 giugno 2003, il cinquantesimo di quelle di Julius e Ethel Rosenberg.

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Negli Stati Uniti entrambi gli anniversari, così vicini agli eventi dell’ll settembre 2001, sono diventati occasione per interrogarsi sul modo in cui l’amministrazione Bush aveva trattato il dissenso dei radicali. L’ampia letteratura sui casi di Sacco e Vanzetti22 e dei Rosenberg23 unanimemente condanna «la sconvolgente iniquità nel modo in cui il governo ha condotto»24 i processi, e ciò indipendentemente dal convincimento personale sull’innocenza o meno degli imputati25. Il governo, negli anni venti e negli anni cinquanta, sfruttando l’isteria nazionale associò l’anarchia e il comuniSmo agli immigrati e ai dissi­ denti di sinistra in generale, e adottò politiche che violavano le li­ bertà civili e i diritti umani. La preoccupazione che il governo degli inizi del XXI secolo abbia in maniera simile ignorato diritti garantiti dalla costituzione ha reso le commemorazioni degli anniversari più che mai significative. I due film, riconsiderati alla luce di questi anniversari, continua­ no a essere estremamente attuali. Anche se entrambi contengono con­ traddizioni implicite tra politica e melodramma, le risolvono in modi che soddisfano la tesi di Lévi-Strauss secondo la quale lo «scopo del mito è fornire un modello logico capace di superare una contraddi­ zione» 26. Attraverso il melodramma, Sacco e Vanzetti afferma l’assolu­ ta innocenza dei protagonisti per promuovere la sua posizione politi­ ca secondo cui «una società perfetta [è quella in cui] i [...deboli] non sono oppressi dai forti e la gente vive in pace con i propri vicini» 27. Pur 22 Si veda, per esempio, P Avrich, Sacco and Vanzetti: The Anarchist Background, Princeton University Press, Princeton N. J. 1991; F. Russell, Sacco and Vanzetti: The Ca­ se Resolved, Harper and Row, New York 1986; G. L Joughin, E. M. Morgan, The Legacy of Sacco and Vanzetti, cit. 23 Si veda, per esempio, R. Meeropol, An Execution in the Family: One Son's Journey, St. Martin’s, New York 2003; S. Roberts, The Brother: The Untold Story of Atomic Spy David Greenglass andHow He Sent His Sister, Ethel Rosenberg, to the Elec­ tric Chair, Random House, New York 2001; R. Radosh, The Rosenberg File, Yale Uni­ versity Press, New Haven 1997. 24 S. Farber, Daniel, cit., p. 3325 F. Russell ha sostenuto la colpa di Sacco (ma non quella di Pinzetti); nel libro di R. Radosh era contenuta la controversa ipotesi che i Rosenberg fossero in realtà spie sovietiche; S. Roberts e altri giungono alla conclusione che Julius Rosenberg, ma non Ethel, passava segreti sulla bomba atomica all’U.R.S.S. 26 C. Lévi-Strauss, Anthropologic structurale, Plon, Paris 1958; trad. it. Antropo­ logia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1966. 27 M. Aste, Sacco and Vanzetti..., cit., p. 221.

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scegliendo di non prendere posizione sull’innocenza o colpevolezza degli Isaacson (e quindi dei Rosenberg), Daniel opta per un finale di speranza. La politica progressista al centro del melodramma politico promuove riflessioni sull’assunto che una società moderna, democra­ tica, industriale dovrebbe essere senza classi. I film, invece, offrono conclusioni contraddittorie sostenendo da un lato che le distinzioni di classe sono diffìcili da superare, dall’altro, sul piano del melodramma è lasciata aperta la possibilità che le differenze di classe e l’oppressio­ ne siano condizioni solo temporanee. Reiterando tali contraddizioni, Daniel si fa portavoce sia dell’idea politica «sintomatica»28 secondo la quale non può esserci giustizia in una società capitalistica, sia di quel­ la «esplicita» che vede nella ricostruzione di una famiglia tradizionale - anche se fra innumerevoli difficoltà - una speranza per il futuro. Sac­ co e Vanzetti, invece, avvalendosi di espedienti melodrammatici, for­ mula un atto di accusa politica facendolo passare attraverso un giudi­ zio sull’amministrazione della giustizia. Qui, se una speranza c’è, si an­ cora a una definizione anarchica e più estesa di ciò che la politica ra­ dicale intende per famiglia: «Uomini uniti come fratelli da una solida­ rietà consapevole e condivisa, che cooperano insieme e liberamente per il bene di tutti [...]»29

28 D. Bordwell, K Thompson, Film Art: An Introduction, McGraw-Hill, Boston 2001; trad. it. Cinema come arte. Teoria e prassi delfilm, Il Castoro, Milano 2003. L’u­ so da parte di Bordwell e Thompson di termini quali significato «referenziale», «espli­ cito», «implicito» e «sintomatico», e la definizione che ne danno, sono fondamentali per la mia analisi di questi film. 29 E. Malatesta, An Anarchist Programme and Anarchist Propaganda, estratto da V Richards (a cura di), Errico Malatesta: His Life and Ideas, Freedom Press, London 1965, p. 22; trad. it. Errico Malatesta: vita e idee, Edizione Collane Porro, Pistoia 1968.

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I libri deICAssociazione

Sigismondo Malatesta

Studi di letterature comparate e teatro Collana diretta da Paolo Amalfitano, Silvia Carandini, Francesco Fiorentino

1. Il romanzo tra i due secoli (1880-1918) a cura di Paolo Amalfitano (1993) Saggi di: M. Bongiovanni Bertini, R. Ceserani, E Erspamer, G. Farese, E Marenco, M. Modenesi, S. Perosa, P Pugliatti

2. Realismo ed effetti di realtà nel romanzo deU'Ottocento a cura di Francesco Fiorentino (1993) Saggi di: A. M. Carpi, A. Castoldi, M. Colummi Camerino, E Fiorentino, G. lotti, E Marucci, G. Merlino, E Moretti, E Orlando, S. Sabbadini 3. Il valore del falso. Errori, ingann i, equ ivoci sulle scene

europee in epoca barocca 2. cura di Silvia Carandini (1994) Saggi di: E Angelini, A. D’Agostino, D. Dalla Valle, S. Ferrane, N. Fusini, A. Lombardo, E Marenco, E Orlando, M. G. Profeti, A. Serpieri, E Vazzoler 4. La tradizione delEumorismo nero di Stefano Brugnolo (1994)

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5. Scene, itinerari, dimore. Lo spazio nella narrativa del 700 a cura di Loretta Innocenti (1995) Saggi di: P Amalfitano, A. Castoldi, A. Chiarloni, P Colaiacomo, G. Fink, G. Mazzacurati, E Moretti, A. Pizzorusso, A. Principato, S. Romagnoli

6. Proust e la letteratura anglosassone di Carlo Lauro (1995) 7. Sui primi poeti del Novecento: la generazione degli anni

ottanta a cura di Giuseppe Merlino (1995) Saggi di: M. Bacigalupo, A. Berardinelli, C. G. De Michelis, R V Mengaldo, I. Porena, M. Richter, S. Sabbadini, G. Sacerdoti

8. Meraviglie e orrori delPaldilà. Intrecci mitologici e favole

cristiane nel teatro barocco a cura di Silvia Carandini (1995) Saggi di: E. Cancelliere, S. Carandini, P Fabbri, G. Fasano, D. Gambelli, V Gentili, P Petrobelli, G. Sacerdoti, E Taviani

9. Raccontare e descrivere. Lo spazio nel romanzo delPOttocento a cura di Francesco Fiorentino (1997) Saggi di: R. Ceserani, E Marenco, E Moretti, C. Pagetti, A. Serpieri, P Tortonese, L. Villa, E. Villari, L. Zagari 10. Chiarezza e verosimiglianza. La fine del dramma barocco a cura di Silvia Carandini (1997) Saggi di: R. Ciancarelli, C. De Seta, M. Fagiolo dell’Arco, E Fiorentino, R. Giomini, L. Innocenti, A. Lombardo, V Papetti, J. Rousset, G. Violato, N. von Prellwitz

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11. Le configurazioni dello spazio nel romanzo del 900 a cura di Paolo Amalfitano (1998) Saggi di: P Amalfitano, V Amoruso, M. Bertini, V Coletti, A. Gargano, A. Lavagetto, M. Lavagetto, E Malcovati, G. Mochi, S. Sabbadini, S. Teroni 12. Il personaggio romanzesco. Teoria e storia di una categoria

letteraria a cura di Francesco Fiorentino e Luciano Carcereri (1998) Saggi di: R. Ascarelli, M. Botto, F. Brioschi, M. Domeniche Ili, F. Fiorentino, G. Grilli, P Hamon, R. Luperini, A. Varvaro 13.14.15. Teatri barocchi. Tragedie, commedie, pastorali, nella

drammaturgia europea fra ’500 e ’600 a cura di Silvia Carandini (2000) Saggi di: P Amalfitano, F. Angelini, G. Aquilecchia, S. Arata, E. Bonfatti, R. Camerlingo, C. Corti, D. Dalla Valle, G. Forestier, M. Fusillo, A. Garelli, H. Gatti, G. Grilli, M. Lombardi, S. Mamone, F. Marenco, Ch. Mazouer, B. Papasogli, M. Plaisance, P C. Rivoltella, S. Rufini, G. Sacerdoti, A. Serpieri, E. Tamburini, R. Tessati, S. Zatti 16. Il giudizio di valore e il canone letterario a cura di Loretta Innocenti (2000) Saggi di: H. Bloom, L. Bolzoni, A. Castoldi, C. Corti, L. Dàllenbach, E. Franco, F. Marenco, F. Moretti 17. La letterarietà dei discorsi scientifici. Aspetti figurali

e narrativi della prosa di Hegel, Tocqueville, Darwin, Marx, Freud di Stefano Brugnolo (2001)

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18. La poesìa dell'età romantica. Lirismo e narratività a cura di Andreina Lavagetto (2002) Saggi di: M. R. Alfani, G. Cacciavillani, P Colaiacomo, S. Corrado, P Gibellini, A. Guyaux, G. lotti, F. Rognoni, L. Rossi 19- Il ritratto dell'artista nel romanzo tra 700 e '900 a cura di Enrica Villari e Paolo Pepe (2002) Saggi di: G. Baioni, P Boitani, A. Boschetti, S. Calabrese, M. d’Amico, M. Palumbo, S. Perosa, G. P Piretto, G. Rubino, P Tortonese

20. La trama nel romanzo del '900 a cura di Luca Pietromarchi (2003) Saggi di: A. Boscaro, A. Cagidemetrio, A. Compagnon, C. Corti, C. Gorlier, S. Perosa, L. Pietromarchi, E. Pittarello, G. Roscioni 21. Il tragico nel romanzo moderno a cura di Piero Toffano (2003) Saggi di: P Amalfitano, A. Asor Rosa, A. M. Carpi, B. Clément, I. Duncan, F. Fiorentino, F. Maienco, G. Paduano, C. Segre, V Strada, P Toffano 22. Le emozioni nel romanzo. Dal comico al patetico a cura di Paolo Amalfitano (2003) Saggi di: P Amalfitano, C. Benedetti, A. Chiarloni, M. Domenichelli, M. T. Giaveri, H. Godard, A. Guyaux, A. Portelli, A. Redondo, P Tortonese, E. Villari, S. Zatti 23.24. La scena ritrovata. Mitologie teatrali del Novecento a cura di Delia Gambelli e Fausto Malcovati (2004)

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Saggi di: F. Angelini, S. Arata, U. Artioli, C. Corti, C. G. De Michelis, M. Fazio, M. Fusillo, L. Innocenti, A. Landolfì, F. Malcovati, E Marotti, D. Millet-Gérard, G. Paduano, P Puppa, D. Rizzi, S. Said, F. Taviani, A. lìnterri

25. Il bene e il male. Letica nel romanzo moderno a cura di Paolo Tortonese (2007) Saggi di: E D’Intino, T. Eagleton, P Glaudes, E Gregori, PJourde, G. Mazzoni,}. M. Pozuelo Yvancos, D. Rebecchini, J. Wertheimer

26. A. Hamilton, M. G. Lewis

I Quattro Facardin a cura di Chetro De Carolis (di prossima pubblicazione)

27. La Storia nel romanzo (1800-2000) a cura di Marinella Colummi Camerino (di prossima pubblicazione) Saggi di: C. Barbanente, A. Beretta Anguissola, P Berthier, D. Del Como, G. Mariani, M. Meriggi, J. Molino, D. Rizzi, J. Urrutia, E. Villari, F. Zambon

28. La biografia a cura di Chetro De Carolis (di prossima pubblicazione) Saggi di: A. M. Andreoli, M. Bertini, J. Canavaggio, A. Compagnon, L. Corti, C. Frugoni, F. Orlando, V Papetti, P Pugliatti, A. Varvaro 29. Le passioni in scena. Corpi eloquenti e segni delFanima nel

teatro del XVII e XXVIII secolo a cura di Silvia Carandini (di prossima pubblicazione) Saggi di: M. I. Aliverti, S. Argentieri, M. Bayard, C. Bologna, S. Castelvecchi, B. Craveri, P Frantz, G. Giordano,}. Lichtenstein, F. Marenco, F. Pedraza }iménez, R. Raffaelli, E. Sala di Felice

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30. L’eroe e l’ostacolo. Forme dell’avventura nella narrativa

occidentale a cura di Sergio Zatti (di prossima pubblicazione) Saggi di: S. Brugnolo, M. A. Doody, M. Fusillo, A. Gargano, G. Merlino, G. Paduano, S. Perosa, R. Trachsler, S. Zatti

Studi sul cinema

Collana diretta da Paolo Amalfitano, Silvia Carandini, Franco Monteleone

1. Il racconto tra letteratura e cinema a cura di Lucilla Albano (1997) Saggi e interventi di: L. Albano, G. Amelio, G. Bertolucci, I. Bignardi, G. Fink, C. Garboli, M. Grande, R. La Capria, M. Martone, G. Merlino, P Ortoleva, M. Rafele, L. Ravera, E Scarpelli, G. Tinazzi

2. Modelli non letterari nel cinema a cura di Lucilla Albano (1999) Saggi e interventi di: A. Abruzzese, A. Aprà, S. Bernardi, B. Bertolucci, E. Dagrada, G. De Vincenti, G. Frezza, M. M. Gazzano, P Montani, M. Rafele, P Temi 3-4. Il cinema che ba fatto sognare il mondo. La commedia

brillante e il musical a cura di Franco La Polla e Franco Monteleone (2002) Saggi e interventi di: J.-L. Bourget, R. Campari, V Caprara, E. Comuzio, R. Durgnat, J. W Finler, L. Gandini, G. Gosetti, E. Guzzo Vaccarino, F. La Polla, F. Malcovati, A. Masson, I. Moscati, G. Muscio, P Ortoleva, A. Sapori, V Zagarrio

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5. Science Fiction a cura di Franco Monteleone e Cecilia Martino (2003) Saggi e interventi di: G. Canova, G. Cremonini, M. Fadda, V Fortunati, F. La Polla, C. Pagetti, P Rouyer, R. Runcini, V Sobchack, M. Spanu, M. Walter Bruno 6. Il Melodramma a cura di Elena Dagrada (2007) Saggi di: L. Albano, M. Bertini, G. Biancorosso, J. H. Delamater, T. Elsaesser, S. Miceli, D. Nasta, E. Sala, G. Spagnoletti, M. Tedeschi Turco, C. Viviani

Studi inter artes Collana diretta da Paolo Amalfitano, Silvia Carandini, Loretta Innocenti

1. L’Oriente. Storia di una figura nelle arti occidentali (1700-2000) a cura di Paolo Amalfitano e Loretta Innocenti (2007)

/. Dal Settecento al Novecento Saggi di: P Amalfitano, M. Baridon, M. Bernardini, T Betzwieser, L. Catemia, M. Delon, G. Ducrey, E Fido, E Fiorentino, M. Girardi, A. Gonzàles-Palacios, A. Grosrichard, A. Guarnirei Corazzo!, J. Harris, L. Innocenti, G. lotti, B. Jobert, K. A. Jurgensen, G. Lacambre, N. Leask, R. Leydi, J. MacKenzie, J. Maehder, F. Marenco, B. Moore-Gilbert, C. Mossetti, L Omacini, A. Ottani Cavina, G. Paduano, C. Peltre, S. Perosa, L Pietromarchi, A. Pinelli, M. Pogacnik,J. Ridley, F. Rubellin, D. Saglia, J. Sasportes, N. Savarese, G. Scarcia, P Tortonese, G. Wood, L Zagari

IL 11 Novecento Saggi di: G. Banu, S. Carandini, A. M. Carpi, A. Castoldi, J. Chen, M. De Marinis, V Di Bernardi, L. Galliano, H. Godard, G. Grilli,

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A. Guetta, E. Guzzo Vaccarino, E La Polla, Kii-Ming Lo, J. Maehder, J. Majeed, J.-H. Martin, D. Millet-Gerard, N. Misler, P A. Morton, A. Narain Lambah, J.-P Naugrette, M. R. Novielli, H. U. Obrist, B. Picon-Vallin, L. C. Pronko, P Roger, M. Rowell, I. Sagiyama, E. Sanchez Garcia, M. Sebregondi, M. Speidel, I. Spinelli, I. Stoianova, A. Tatlow, E Taviani, D. Tomasi, M. Treib, R. Vescovi, A. Vettese, P Williams, L. Zecchi

Studi di scienze economiche, storiche e sociali

Collana diretta da Marina Colonna e Enzo Mingione

1. L’età di Papa Clemente XIV: religione, politica, cultura a cura di Mario Rosa (di prossima pubblicazione) Saggi di: L. Bartolini Salimbeni, C. Canonici, E. Debenedetti, F. Di Marco, D. Gallo, N. Guasti, G. Imbruglia, A. Nacinovich, S. Nanni, M. Rosa, Cardinale A. Silvestrini, Padre P Stella

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