Teatri. L'Italia del melodramma nell'età del Risorgimento 8815081038


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Teatri. L'Italia del melodramma nell'età del Risorgimento
 8815081038

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CARLOTTA SORBA

TEATRI L’ITALIA DEL MELODRAMMA NELL’ETÀ DEL RISORGIMENTO

IL MULINO RICERCA

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https://archive.org/details/teatrilitaliadel0000sorb

— RICERCA

;

a mia madre, cuor di leone

CARLOTLRA-SORBA

TEATRI L’Italia del melodramma nell’età del Risorgimento

IL MULINO

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: http://www.mulino.it

ISBN

88-15-08103-8

Copyright © 2001 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

INDICE

Introduzione Costruir teatri

der

1. La posa della prima pietra. - 2. Una mappa geografica dei teatri ottocenteschi. - 3. Orientamenti di governo. - 4. La diffusione della sala all’italiana. - 5. Le città e i teatri.-monumento. - 6. Tipologie proprietarie. - 7. Il melodramma e la scena italiana.

II.

Andare all’opera

93

1. Pubblici d’inizio secolo. - 2. L’acquisto di un palco. - 3. Chi paga e chi no. - 4. Platee e loggioni. - 5. La struttura dei prezzi. - 6. Diritti e doveri del palchista. - 7. Dinamiche di mutamento. - 8. Comportamenti e regolamenti.

III. Sulla scena

135

1. Inaugurazioni. - 2. «In un cantuccio d’Italia». 3. Intrecci melodrammatici. - 4. Una rappresentazione: la patria nei libretti verdiani. - 5. Le stagioni risorgimentali.

IV. L’opera lirica e l’Italia nuova

ZI

1. I grandi teatri e il passaggio al nuovo stato. - 2. In Parlamento. - 3. La crisi dei teatri di città. - 4. L’icona verdiana.

Appendice

267

Indice dei nomi

299

Questo libro nasce da un azzardo tutto personale e da un’incursione abbastanza solitaria in un campo frequentato generalmente solo dai musicologi. Ciò non toglie che deve molto ad alcune persone che in modi diversi hanno contribuito alla sua realizzazione, senza peraltro essere in nulla responsabili dei suoi esiti. Un grazie sincero va dunque a Mariuccia Salvati che ne ha fatto scoccare la scintilla iniziale;

a Lorenzo Bianconi che con-

sentendomi una consultazione agevolata della Biblioteca del Dipartimento di musica e spettacolo dell’università di Bologna mi ha messo di fronte — letteralmente parlando — a quella vastissima bibliografia sui singoli teatri che ha finito per orientare il percorso stesso del mio lavoro; a Marisa Casati e a Lina Re dell'Istituto di studi verdiani, luogo delle delizie per ogni studioso dell’opera lirica; a Laura Cerasi, Enrico Francia e Simona

Urso per i loro suggerimenti e il loro sostegno; e infine, ma in modo particolare, a Silvio Lanaro che ha letto e discusso animatamente con me il manoscritto.

A Pietro e a Matteo vorrei dedicare un ringraziamento speciale, per aver saputo affrontare con ironia e con amore la gelosia nei confronti di questo libro. Parma, gennaio 2001

INTRODUZIONE

Può succedere che nella definizione iniziale di un oggetto di ricerca anche il caso giochi la sua parte. Provate a immaginare, non dovrebbe essere difficile, una situazione come questa: la sala di studio dell’archivio comunale di una città di provincia, poco frequentata e male illuminata; sull’unico tavolo un cumulo di faldoni con il carteggio amministrativo di inizio secolo, che vuol dire discussioni e pratiche burocratiche sui molti temi del governo della città, dall'imposta di famiglia all’igiene, dall’annona al tramvai; una ricercatrice che affonda tra quelle carte chiedendosi quando sarebbe riuscita a venirne a capo e a ricostruire almeno un tassello di quel rapporto tra località e stato che nello sviluppo della storia nazionale ha la consistenza propria di uno snodo cruciale e delicato. Ogni giorno alzando gli occhi le capita di osservare di fronte a sé un’intera parete di scatoloni

color cenere,

intonsi da nuova

inventariazione,

ordinati e apparentemente dimenticati. Sulla costa il titolo del fondo, Archivio storico del Teatro regio, e le indicazioni

delle sottosezioni (rapporti serali, abbonati ai palchetti, avvisi teatrali, ecc.), indizi chiari sulla natura del materiale in questione — un carteggio amministrativo, ancora, di un’istituzione cittadina di altro tipo — ma anche spiragli accattivanti,

capaci di far correre l'immaginazione di uno studioso appassionato sia dell’Ottocento italiano che del melodramma. Se poi, molto prima che i pensieri sciolti diventino propositi, le capita tra le mani — o meglio qualcuno più esperto e più accorto di lei le mette tra le mani — un bel libro di William Weber intitolato Music and the middle class. The social structure of concert life in London, Paris and Vienna

che mostra quanto efficace possa essere una lettura della

società ottocentesca attraverso la lente dell’ascolto musicale!, allora la prospettiva di entrare dentro quelle carte comincia ad acquistare uno spessore diverso e il gioco delle coincidenze finisce presto di giocare la sua parte. Da quelle prime sollecitazioni la ricerca che sta alla base di questo libro si è in realtà discostata parecchio. Innanzitutto scartando l’idea dell’affondo archivistico su un caso locale in favore di uno sguardo di insieme sull’Italia dei teatri, che

procedendo nello studio si è circoscritta in modo sempre più preciso fino a corrispondere ad un periodo storico ben definito, la prima metà del XIX secolo. Ne vedremo meglio le ragioni. Oltre a questo, il lavoro ha finito anche per percorrere una pista di ricerca diversa dall'idea iniziale, influenzato in parte da una formazione personale singolarmente in bilico tra la storia urbana e la storia delle istituzioni, e dunque sensibile alle interazioni tra spazi e norme, ma anche dalla convinzione che una ricerca sul pubblico fout court, come riflesso effettivamente significativo dello strutturarsi ottocentesco dello spazio sociale, in questo caso non potesse condurre molto lontano?. Inoltrandomi nel lavoro mi sono accorta infatti che ciò che richiedeva ancora una messa a ! London, Croom Helm, 1975. Il volume faceva parte di un ricco filone di studi sul /ezsure che si era sviluppato nel mondo anglosassone nel corso degli anni ’70, mettendo in rapporto la crescita di nuove forme di attività culturali, le trasformazioni ottocentesche della stratificazione sociale e l'evoluzione storico-sociale del gusto, e che in Italia ha avuto al momento ricadute abbastanza fugaci e leggere. 2 Il pubblico come entità collettiva e come insieme di individui raccolti intorno a un atto culturale rischia effettivamente di assumere per lo storico la consistenza vaga di un miraggio, come ha scritto molto bene Pierre Sorlin, che anche le più sofisticate analisi quantitative, dove possibili, non riescono a raggiungere molto più di ricerche indiziarie condotte su fonti soggettive; cfr. P. Sorlin, Le wzirage du public, in «Revue d’histoirè

moderne et contemporaine», XXXIX, gennaio-marzo

1992, pp. 86-102.

Questa considerazione risulta ancora più vera, come vedremo, per il pubblico del melodramma nell’Italia primottocentesca. D'altra parte l’efficacia del testo citato di Weber, incentrato proprio sul pubblico, consisteva innanzitutto nel taglio comparato assunto dall'autore, che attraverso l’analisi delle modificazioni dell'audience permetteva di cogliere nelle tre capiai ua modalità e tempistiche diverse di integrazione borghesianobiltà.

10

fuoco strettamente storica era piuttosto il rapporto stesso

tra la società italiana ottocentesca e il melodramma in musica, che non aveva ricevuto negli studi che un’attenzione molto fugace dopo le pagine illuminanti in cui Gramsci aveva definito l’opera come l’unico genere nazional-popolare dell’Ottocento italiano. La mancata storicizzazione di quel rapporto ha finito per consolidare invece, non soltanto nella mentalità comune ma anche nelle riflessioni sull’identità nazionale, delle immagini stereotipate e senza tempo dei nessi tra l'italianità e il melodramma, che oggi, giustamente,

nel montante e quasi ossessivo interesse per le rappresentazioni che percorre la storiografia, cominciano ad essere invece analizzate come frutto di mitografie ben costruite. Prima fra tutte quella di Verdi vate del Risorgimento, così strettamente collegata al risorgimentalismo di fine secolo e al suo sforzo di legittimazione storico-culturale del nuovo stato*; e così efficacemente ripresa e adeguata a tutt'altro clima culturale negli anni ’20, come mostra con la sua indubbia forza letteraria quello scritto inquietante che è I/ paese del melodramma di Bruno Barilli, cantore attraverso l’opera verdiana di un’idea nostalgica di italianità eroica e popolare che avrebbe preceduto l’unità e il suffragio universale?. Eppure anche gli sforzi decostruttivi, importanti per comprendere le rappresentazioni successive del problema, lasciano intatta la questione in sé, cioè l’interrogativo sulla natura dell’andare all’opera come pratica culturale che nell’Italia primottocentesca ha una diffusione e un’importanza 3 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1950, pp. 69-70.

4 A ricostruire il mito verdiano in modo sistematico e molto documentato si è adoperato in particolare il volume di B. Pauls, Giuseppe Verdi und das Risorgimento. Ein politischer Mythos in Prozess der Nationenbildung, Berlin, Akademie Verlag, 1996; sul risorgimentalismo di fine Ottocento cfr. il bel volume di B. Tobia, Una patria per gli italiani, Roma-Bari, Laterza, 1991.

3 In questo caso Verdi, il contadino eroe, si ergeva contro l’Italietta giolittiana degli ingegneri e dei massoni, proprio quella che aveva iniziato a celebrarne fastosamente il mito; cfr. B. Barilli, Il paese del melodramma, a cura di L. Viola e L. Avellini, Torino, Einaudi, 1985.

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indubbiamente maggiore che negli altri paesi europei, e comunque modalità proprie che vanno analizzate e spiegate. Né chiariscono i nessi effettuali che legano quest’esperienza sociale e culturale alle vicende risorgimentali e serviranno da sfondo alla mitizzazione successiva. La reazione iconoclastica di buona parte della musicologia recente nei confronti del luogo comune opera-risorgimento, negato per lo più di qualsiasi reale consistenza‘, è comprensibile infatti solo se si considera che quegli studi hanno indagato in modo privilegiato su ciò che è stato de-

finito «il sistema produttivo» dell’opera stessa, smontando e ricostruendo una trama alla cui elaborazione contribuiscono, come è ormai assodato, non solo il compositore e il librettista, ma l’impresario, l’editore, il censore, e infine il

pubblico, secondo le migliori indicazioni provenienti dalla semiologia”. Voglio dire che da letture molto più attente del passato alle implicazioni storico-sociali e storico-economiche del fenomeno operistico è persino ovvio che la plausibi-

lità dell'immagine dei compositori ottocenteschi come ferventi patrioti risulti seriamente compromessa8. Ciò non toglie però che la prospettiva si faccia molto diversa quando il punto di vista si sposta da quel percorso complesso e a più voci che va dall’ideazione fino all’interpretazione di un

testo melodrammatico, per arrestarsi su un altro versante, quello della ricezione 0, come la storiografia preferisce oggi © E un atteggiamento che attraversa gli studi musicologici almeno dagli anni "70 in avanti, ma di recente ritroviamo sforzi più organici in questa direzione, come nel volume di R. Parker sui cori verdiani, «Arpa d’or dei fatidici vati», Parma, ISV, 1997, che attribuisce la canonizzazione patriot-

tica del Va’ pensiero alla fase postunitaria. Il successo dello slancio nostalgico di quel coro può anzi essere letto, secondo Parker, come riflesso della disillusione postunitaria, e riferirsi più al tempo che non alla patria perduta. ? Cfr. U. Eco, Lector în fabula, Milano, Bompiani, 1979. 8 L'avvio di una nuova stagione di ricerca, che prendesse le distanze da una storia dell’opera piattamente morfologica e stilistica, era ben descritto oltre che sollecitata da L. Bianconi in un saggio del 1974 su Sforza dell’opera e storia d’Italia, in «Rivista italiana di musicologia», IX, pp. 3-17. Per

un quadro degli studi nella loro fase iniziale vedi anche R. Verti, Dieci anni di studi sulle fonti per la storia materiale dell’opera italiana dell’800, in «Rivista italiana di musicologia», XX, 1985, n. 1, pp. 124-163.

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dire con

un termine

altrettanto

infelice, del «consumo»

musicale, entrando in quei luoghi fondamentali per l’educazione emozionale degli italiani che erano i teatri. L’ipotesi che mi si presentava dunque di fronte, una volta superato il timore di affrontare un campo in cui la bibliografia settoriale è sterminata e quella storica in senso stretto pressoché inesistente’, era quella di provare a cogliere le coordinate di un’importante crescita del ruolo del teatro nella vita civile degli italiani, in un periodo ben determinato della loro storia, e di farlo tenendo presente e mettendo in relazione tra loro i tre piani che insieme danno vita ad un’esperienza di consumo culturale, ossia, lo dico un po’ grossolanamente, la produzione, la circolazione e la fruizione dei testi!°. Se si parte da un approccio di questo tipo diventa difficile negare l’esistenza di intrecci tra l’opera e le vicende risorgimentali, si tratta piuttosto di capire come questi funzionino. Ed è quanto cercherò di fare nel terzo capitolo. Il titolo del volume mostra dunque quale sia lo snodo cruciale e per molti versi obbligato a partire dal quale ho scelto di articolare la ricerca, i teatri appunto, nella convinzione che nel sistema operistico dell’Italia ottocentesca le relazioni e l’influenza reciproca tra spazi fisici, mentali e sociali debbano essere considerate non soltanto consistenti ma in un certo modo caratterizzanti. «La nostra musica — scriveva Verdi all'amico Giuseppe Piroli — a differenza della

? Si veda il saggio di W. Weber, Toward a dialogue between historians and musicologists, che apre le pubblicazioni di «Musica e storia», 1, 1993, lanciando una sorta di agenda comune di lavoro per storici e musicologi,

che per l’età contemporanea appare tanto densa quanto tutta da costruire. 10 A proposito di approccio «relazionale» e a tutto campo alla produzione di cultura si vedano gli scritti di P. Bourdieu sulle pratiche artistico-culturali, in particolare il volume The field of cultural production. Essays on art and literature, a cura di R. Johnson, Cambridge, Polity Press, 1993; sul versante storiografico, gli studi di J. Brewer sui consumi culturali

forniscono invece un’esemplificazione importante su come fare una storia sociale delle pratiche culturali intese come pratiche di comunicazione (cfr. il volume curato con A. Bermingham, The consumption of culture 1600-1800, London, Routledge, 1995, ma anche il più recente I piaceri dell’immaginazione. La cultura inglese nel Settecento, Roma, Carocci, 1999).

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tedesca, che può vivere nelle sale con le sinfonie, negli appartamenti coi Quartetti, la nostra, dico, ha il suo seggio principale nel teatro»!!, E questa sua teatralità strutturale e di fondo, che secondo il maestro costituiva la principale delle molte differenze rispetto ad una tradizione musicale straniera che non valeva certo la pena di imitare, significava anche, aggiungo io forzando consapevolmente il suo discorso, che alla diffusione, alla vitalità e al ruolo degli spazi teatrali era legata anche la particolare fortuna di questo genere musicale nell'Italia ottocentesca. In questa prospettiva va letta allora a mio parere la nota indicazione gramsciana, che pare funzionare perfettamente soprattutto se riferita alle strutture materiali di diffusione e circolazione del melodramma e alle sue potenzialità comunicative ben più che ad un suo carattere intrinsecamente nazionale e popolare.

La crucialità dei luoghi-teatro nelle singole comunità locali ha fatto sì che il sistema melodramma mantenesse per altri versi uno stretto legame con il quadro cittadino e i suoi notabili, di cui lo spazio teatrale ha rappresentato a lungo il principale momento di incontro e di rappresentanza. Se si pensa che nel frattempo l’opera aveva sviluppato, come è ben noto, un precoce profilo di cultura nazionale, dotata già all’inizio del XIX secolo di propri consolidati circuiti di circolazione tra gli stati preunitari, si percepisce abbastanza

chiaramente come in questa Italia dei teatri, che precede l'unificazione politica, la dimensione locale e quella nazionale si compongano e si sovrappongano tra loro, mostrando ancora una volta le molte e inaspettate possibilità di combinazione loro affidate nella storia italiana. Per di più entrambe si coniugano con il cosmopolitismo tipico della cultura operistica, la più autoctona nelle origini e nella codificazione interna e insieme la più esportata e adeguabile ad altre tradizioni musicali. E solo il primo dei molti intrecci almeno apparentemente contraddittori che percorrono il quadro che cercherò di ricostruire e paiono configurarne una sorta di ambiguità di fondo, propria di un sistema che si forma e si !! Lettera del 2 febbraio 1883, riportata in Carteggi verdiani, a cura di

A. Luzio, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1947, vol. III, p. 162.

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consolida nel Settecento ma trova nei decenni della Restaurazione una propria nuova vitalità, che ne attualizza sostan-

zialmente i principali ingranaggi. Primo fra tutti il meccanismo stesso di finanziamento e di gestione pubblico-privata delle sale teatrali che accomuna i teatri della penisola e rende plausibile questo mio sguardo allargato!?. Succede così che nel boom dell’edilizia teatrale (me ne occuperò nel primo capitolo) come nella strutturazione dell’audierce (che

affronterò nel secondo) pratiche di antico regime si combinino senza particolari frizioni con meccanismi di mercato e quella che ormai spesso i contemporanei definiscono l’«industria» del melodramma conviva con il mondo delle corti, di cui anzi soffrirà notevolmente la caduta, come mostrerà il quarto e ultimo capitolo. Quello che segue è dunque un percorso che attraversa a grandi passi l’Italia della Restaurazione e del Risorgimento

partendo dagli edifici che con la loro facciata neoclassica e una presenza monumentale ben rimarcata all’interno del tessuto urbano offrivano ai cittadini e ai viaggiatori dell’Italia primottocentesca un luogo di svago e di decoroso

intrattenimento dopo le turbolenze degli anni francesi. Continua entrando nella sala, in mezzo al pubblico, e cogliendone alcune istantanee in momenti diversi del secolo. Prosegue salendo sulla scena e mostrando se e come vi si rifletta il nazionalismo culturale degli anni risorgimentali. Infine si chiude fuori dai teatri, nell'aula parlamentare del nuovo regno unificato dove si discute della sorte dei grandi teatri, ancora oggi, sembrerebbe impossibile, così controversa. 2 Un approccio di sintesi è stato possibile grazie al fatto che sulla storia dei singoli teatri è stata prodotta, a partire dalla fine del secolo scorso, una bibliografia ampissima, seppure molto disuguale, che ha riguardato le sale dei grandi come dei piccoli centri, riproducendo spesso statuti, regolamenti, liste dei palchisti e materiale documentario di vario tipo (cfr. G. Busticò, Bibliografia delle storie e cronistorie dei teatri italiani, Milano,

Bollettino

bibliografico

musicale,

1929, e A. Giovine,

Bibliografia dei teatri musicali italiani, Roma-Bari, Laterza, 1982). A questa letteratura ho potuto affiancare, oltre al lavoro di scavo in singoli archivi di teatri (Parma, Modena, Padova) e nei fondi su teatri e spettacolo di alcuni archivi di stato (Milano, Bologna, Napoli), la documentazione

ministeriale raccolta dopo l’unità sull’armatura teatrale del nuovo stato e conservata presso l'Archivio centrale dello Stato.

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Abbreviazioni

ACS ASBo ASCMo ASCPr

Archivio centrale dello Stato

Archivio di stato di Bologna Archivio storico comunale di Modena Archivio storico comunale di Parma

Archivio di stato di Napoli Archivio di stato di Milano Archivio di stato di Padova Archivio di stato di Parma Istituto di studi verdiani

Ministero Agricoltura Industria Commercio

CAPITOLO

PRIMO

COSTRUIR TEATRI

I teatri sogliono al dì d’oggi formare presso tutte le colte nazioni l’intertenimento più gradevole e istruttivo di ogni condizione di persone, e non si ha per conseguenza città alcuna per picciola che sia la quale non ami possedere un teatro. G. Ferrario, Storia e descrizione de’ principali teatri antichi e moderni, Milano, 1830.

1. La posa della prima pietra

C'erano stati anni di discussioni e di polemiche tra i cittadini più in vista della città ma finalmente, era il settembre del 1842, anche Cesena avrebbe avuto un teatro che nulla doveva invidiare a quelli dei centri vicini. Non che la città mancasse del tutto di uno spazio teatrale stabile. Una società di sedici nobili locali ne aveva aperto uno già nel 1798 contrattando un affitto ventennale con il marchese Spada per un salone del suo palazzo e adattandolo a teatro con una struttura di legno a palchetti. Ma si trattava pur sempre di una soluzione provvisoria, piccola e insicura, adatta ad un uditorio molto ristretto, tanto che la questione si era presto riproposta in consiglio comunale innescando una polemica annosa tra i sostenitori dell’acquisto di quel teatro e chi invece propendeva per l’idea di una nuova costruzione.

Nel suo discorso al consiglio comunale il nuovo gonfaloniere della città, il conte Saladino Saladini Pilastri, aveva passato in rassegna le molte obiezioni che il progetto di cui si discuteva quel giorno aveva suscitato tra la cittadinanza, per smontarne una ad una le ragioni e dare l’avvio ai 47

lavori con un discorso che traboccava di entusiasmo

e di

patriottismo municipale: Voi sapete che in questo momento gli animi di tutti i cittadini sono rivolti a questo luogo [...] essi incerti aspettano di intendere se debbono riempirsi di allegrezza o di sconforto. E sconforto gravissimo sarebbe dopo tanta aspettazione veder mancata la fiducia di possedere un nuovo teatro, e non rimanere a ricreamento della città altro che quel lurido e sdruscito coviglio che oggi chiamiamo teatro!.

Inutile nascondersi, continuava, che le opinioni erano

state fino a quel momento molto divise: sulla qualità del progetto, sul costo ingente dell’operazione, sull’ampiezza e sulla monumentalità dell’edificio che molti giudicavano eccessiva, non del tutto a torto. Ma il conte si diceva tranquillo sulla bontà delle scelte compiute. Ci si era affidati ad un artista «di bellissima fama» come Vincenzo Ghinelli, non

prima di aver visitato gli altri teatri da lui disegnati nelle città vicine?. E questo, oltre al fatto che nello stesso modo si erano comportate le deputazioni di Terni, di Ascoli, di Spoleto, per non citare che città poste nel medesimo raggio

territoriale, rendeva ingiustificate le accuse di chi aveva ritenuto «poco prudente il non sottoporre il disegno al giudizio di un’Accademia», come si era fatto invece a Viterbo,

dove si era preferito indire un concorso dal quale la locale accademia aveva proposto alla deputazione teatrale una scelta tra tre progetti.

Poi si era dovuto pensare a quali richieste manifestare al progettista: una sala con quattro ordini di palchi e un loggione al centro della quarta fila? O non piuttosto cinque ordini di palchi con l’ultimo dedicato per intero al loggio! L'intera vicenda, con le citazioni dal discorso del gonfaloniere, è

ricostruita nel volume di A. e L. Raggi, I/ Teatro comunale di Cesena. Memorie cronologiche, Cesena, Vignuzzi & C., 1906, pp. 65-81.

? Più di altre specializzazioni tecniche quella dell’architetto teatrale ha in Italia una tradizione di tipo familiare, dai Bibiena in avanti. Così Vincenzo è nipote e scolaro di Pietro, che aveva costruito La Fenice di

Senigallia. L'esperienza di Cesena gli aprirà poi la strada per la costruzione degli edifici teatrali di Fabriano (1845-47), di Camerino (1846-56), di Matelica (1849-52) e infine di Pesaro nel 1854; cfr. AA.VV., Il Teatro comunale Bonci e la musica a Cesena, Cesena, Sila, 1992.

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ne? I casi vicinissimi di Ravenna e di Rimini con i loro teatri monumentali, che d’altronde erano per il momento solo un progetto, facevano propendere molti concittadini per la soluzione più grandiosa, anche se era risaputo e l’esperienza

lo confermava, che un teatro fosse sufficientemente ampio per qualunque eventualità quando «suscettibile di contenere il decimo della popolazione». Per Cesena, che a quella data raggiungeva sì e no gli ottomila abitanti, che pure divenivano diecimila coi sobborghi, sarebbe ampiamente bastata una sala da mille posti. D'altro canto era di nuovo l’esempio delle città vicine a suggerire circospezione circa la vendibilità dei palchi di terza e quarta fila se «posti a contatto con la plebaglia». Una maggiore distanza tra palchi e loggione avrebbe certamente facilitato la raccolta delle sottoscrizioni per l’acquisto dei palchetti. Era stato lo stesso progettista a dirimere la questione presentando un progetto che ragionava in grande: una sala da 1.200 posti, che potevano diventare 1.500 per i veglioni,

e un edificio che rispondeva ai canoni della più affermata monumentalità teatrale del periodo. La facciata dal consueto sapore neoclassico rimandava all'immagine ben nota del teatro-tempio e prevedeva due loggiati sovrapposti, al di sopra dei quali stava un timpano triangolare in cui campeggiava lo stemma comunale e due maestosi vecchi seduti: erano i fiumi Savio e Rubicone che da sempre facevano la ricchezza del territorio circostante. Da qui si accedeva al teatro attraverso un atrio quadrato che preludeva alla platea e al percorso separato per i palchi, disposti su quattro ordini e conclusi da un loggione da quattrocento posti. Sopra all’atrio erano previsti quegli spazi di ritrovo e di conversazione senza i quali un teatro dell’epoca non poteva dirsi tale, il cosiddetto Casino del Teatro, ossia una grande sala centrale e sei minori ai lati. Forse si poteva costruirlo «di più modica spesa» — avevano obiettato in molti — ma proprio a questi il conte Saladini

riservava la sua più efficace veemenza retorica: Volgete il guardo tutto intorno a questa vaghissima Italia e maraviglierete come in pochi anni, quasi per incantesimo, siano sorti splendidissimi teatri; persino nelle più piccole castella. Per-

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ché nella nobile gara resteremo noi indietro? Non sicuramente per mancanza di mezzi, ma perché non ci basta l’animo di spendere i dieci o quindicimila scudi al di là del puro necessario, quasi i presenti e i futuri non giudicassero la grandezza degli animi nostri dalla grandezza delle opere pubbliche.

Insomma appariva del tutto chiaro che un pubblico monumento «sarà meglio pecchi di grandezza che d’angustia» e se questo non fosse bastato agli scettici il conte aggiungeva: «Ha la città di Fermo un elegante e vasto teatro del Bibiena, maggiore dell’anconitano, maggiore del sinigagliese?». Che era come dire: si può davvero sostenere che ad una città modesta solo nelle dimensioni doveva necessariamente corrispondere

un teatro modesto?

Di fronte alla prospettiva di rimanere l’unico centro dei dintorni a non possedere un teatro monumentale si arrivò dunque quel giorno all’approvazione del progetto e si stabilì che l’inizio dei lavori dopo la lunga gestazione dell’iniziativa meritasse un momento di pubblico festeggiamento. L’occasione più propizia non poteva che essere la grande fiera d’agosto, quando la città si animava di venditori e compratori provenienti dal circondario e da ben oltre. Il 15 di agosto del 1843 la città si raccoglieva dunque intorno al conte Eduardo Fabbri, poeta e drammaturgo locale, che come cerimoniere della giornata avrebbe depositato nelle fondamenta del nuovo edificio la pergamena stilata per l’occasione dal consiglio comunale. Il suo discorso ripercorreva tutti gli stilemi che la retorica municipale riservava alle opere pubbliche e che si ritrovano applicati a quegli interventi urbani che di volta in volta più avrebbero rappresentato le fasi dello sviluppo ottocentesco della città (e cioè, nell’ordine, l'abbattimento delle mura, i macelli, le

strutture annonarie, fino all’acquedotto e alle attrezzature tipiche dell’igienismo di fine secolo), mettendo a fuoco del teatro l’immagine di un edificio-monumento, l’«ornamento»

più acconcio ai tempi di «incivilimento» che si stavano vivendo e ai quali non si poteva mancare di mostrarsi adeguati. Nel momento in cui, precisava meglio l’illustre cittadino, alle Accademie dei Filomati o degli Arcadi si sostituivano le Casse di risparmio e le Società filodrammatiche, e si discu20

teva di asili d’infanzia, di associazioni di commercio, di cat-

tedre agrarie, il teatro rappresentava un modo di ritornare alla poesia in un mondo dominato dalla prosa dell'utile e del vantaggioso. Ma singolarmente, e qui stava la sua particolarità, si trattava di una poesia anche «comoda, utile, decorosa» per i cittadini. Tutto insomma contribuiva a confermare che era il momento del teatro e bastava guardare per un istante al di fuori dalle mura urbane per capire che a questa ovvietà non ci si poteva sottrarre.

Se abbandoniamo la provincia romagnola e ci muoviamo lungo la penisola scopriamo che in effetti di cerimonie di questo tipo se ne stavano facendo tante, e tutte molto simili. L’anno successivo si sarebbe svolto un rito analogo a Viterbo, con relativo conio di una medaglia in 125 esemplari; e le parole scelte per l'occasione dal conte Tommaso Fani Ciotti erano pressoché identiche: la nuova costruzione rispondeva all’esigenza sentita da tutti i cittadini di sostituire «un teatro soverchiamente angusto e disdicente troppo in una città cresciuta molto di popolazione ed incivilimento» e dalla volontà di aumentare con la nuova opera «il lustro, le comodità e l’ornato» della città stessa?. Qualche anno prima a Genova l’inizio dei lavori per la costruzione del grande teatro che sarebbe stato intitolato a Carlo Felice, suo maggiore promotore, era stato festeggiato con anche maggiore solennità per mano del barone Righini. Gli esempi potrebbero continuare, anche tornando un poco indietro, verso quel periodo francese che in molte zone aveva dato l’avvio al massiccio processo di costruzioni teatrali. Nella cerimonia di Piacenza, ad esempio, a condurre la quale nel 1803 era giunto da Parma il governatore Moreau de Saint Mery, il discorso aveva un taglio analogo anche se aggiungeva qualcosa di più, sui cui sviluppi torneremo meglio. Non solo infatti presentava il nuovo edificio come un «abbellimento» importante del decoro urbano e un motivo 3 Il verbale della cerimonia per la posa della prima pietra è riportato in questo caso in A. Brannetti, Teatri di Viterbo, Viterbo, Quatrini, 1981, pp. 82 ss. 4 Cfr. G.B. Vallebona, I/ Teatro Carlo Felice. Cronistoria di un secolo 1828-1928, Genova, Tip. Fascista Poligrafici, 1928, p. 9.

ZI

di rafforzamento dei «legami socievoli» tra i piacentini, ma presentava anche il teatro come una scuola di patria virtù: e qual mezzo può essere più possente per ispirare l’amore della Patria di questa primaria civica virtù sì feconda in celebri azioni, sì sacra nei suoi principji, sì piacevole nei suoi affetti? È nel teatro che si può rettamente giudicare li caratteri di un popolo [...], è nel teatro che la lingua di una nazione deve parlarsi con tutta la sua purezza e la lingua influisce più di quello che non si crede sopra li costumi, e sopra il carattere nazionale’.

2.

Una mappa geografica dei teatri ottocenteschi Nei primi anni postunitari, quando una rete particolar-

mente fitta di comunicazioni collegava i ministeri del nuovo Regno alle singole prefetture, anche le strutture teatrali furono oggetto di una di quelle indagini conoscitive che dovevano accompagnare e almeno nelle intenzioni sorreggere l'operato dei nuovi legislatori. Nella primavera del 1866 i prefetti del regno ricevettero una prima circolare ministeriale che riguardava le sale teatrali, in cui li si pregava di inviare un quadro dei teatri esistenti nella rispettiva provincia, indicando la loro importanza®. La richiesta non faceva parte, come si potrebbe pensare, del tentativo di comporre un catalogo generale di quell’insieme enorme e sconosciuto che era il «patrimonio» nazionale. Non aveva dunque scopi sto-

rico-artistici, come quelli dell'operazione di inventariazione partita già nel 1860 con la costituzione delle prime commissioni per le belle arti”. Quella relativa ai teatri aveva piutto? La citazione è riportata in E. Papi, I/ teatro municipale di Piacenza: cento anni di storia, Piacenza, Bosi, s.d. ma 1912, p. 18. ° Circolare esecutiva del 31 marzo 1866 sui Diritti d'autore, in ACS, MAIC, Divisione III, Diritti d’autore e teatri, b. 1. ? Il nuovo stato aveva mostrato una certa sollecitudine nei confronti di una prima ricognizione sulla consistenza e le tipologie delle strutture culturali presenti sul suo territorio. Proprio il catalogo, l’inventariazione selettiva dell’insieme, è l'operazione su cui si concentrano gli sforzi maggiori nell'immediato dopo unità. Abbiamo così la prima raccolta di dati sulle biblioteche, veri depositi di tesori locali, promossa dal ministro

Mamiani nel febbraio del 1861; le prime ispezioni negli archivi, come

22

sto finalità di ordine fiscale, quantomeno in senso lato; do-

veva servire cioè a censire tutti quei luoghi di pubbliche rappresentazioni che ricadevano nell’ambito del diritto d’autore, sul quale era stata faticosamente emanata una prima normativa. Questo significa che la richiesta ministeriale doveva essere intesa nella sua accezione più allargata e le risposte ricomprendere un insieme di strutture che andava dalle storiche sale barocche dei Bibiena fino alle arene per il Giuoco del pallone, che talvolta «servivano a rappresentazioni drammatiche e di musica»?. Questo primo interessamento ministeriale avrebbe avuto un seguito più puntuale subito dopo l’emanazione del regolamento che accompagnava la nuova legge, in cui si stabiliva una sorta di tutela municipale su quel diritto. Allora il ministero reiterava la richiesta con più forza, insistendo sulla necessità di dati più dettagliati e allegando uno specchietto che servisse ad uniformare le risposte. I quesiti posti ai prefetti riguardavano i punti seguenti: 1) la localizzazione del teatro e la sua capacità; 2) la denominazione e l’anno di fondazione; 3) a quali spettacoli fosse destinato; 4) se fosse diurno o serale; 5) chi ne avesse la gestione; 6) chi la pro-

prietà e quale il reddito lordo annuale; 7) la tipologia della sala; 8) se avesse dote annua, ossia una somma in contanti

da assegnare all’impresario appaltante, e donde venisse; e quella di Bonaini del 1860 in Emilia, concepite come una sorta di preludio alla elaborazione di una normativa unitaria. Ma le iniziative più importanti riguardano le belle arti, per le quali si veda il percorso proposto da A. Emiliani, Giovanni Battista Cavalcaselle politico. La conoscenza, la tutela e la politica dell’arte negli anni dell’unificazione italiana, in G.B. Cavalcaselle conoscitore e conservatore, a cura di C. Tommasi, Venezia, Marsilio, 1998, pp. 323-369. 8 La disciplina relativa al diritto d’autore è uno dei primi atti della politica culturale del nuovo stato, che interviene in materia con la legge 25 giugno 1865. Per le opere adatte al pubblico spettacolo questa stabiliva che potessero essere rappresentate anche senza speciale consentimento

dell'autore purché ad esso venisse pagato un premio corrispondente ad una quota parte del prodotto lordo dello spettacolo: generalmente il 10% ma fino al 15% nei teatri primari (di qui la richiesta di una classificazione dei teatri stessi). Le indicazioni sulle modalità di tutela di quel diritto sono demandate a successivo regolamento. ? Così risponde il prefetto di Bologna, in ACS, MAIC, Divisione III, Diritti d’autore e teatri, b. 1.

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infine 9) notizie varie sull'importanza e le condizioni della

sala!®.

I dati raccolti e inviati dai singoli prefetti al ministero dell’Agricoltura, industria e commercio tra il 1868 e il 1869, non furono poi elaborati in forma statistica e pubblicati, come era successo invece per l’indagine sulle biblioteche. Questo sembra confermare un interesse abbastanza marginale per un tema che già mostrava la particolarità di collocarsi in uno spazio molto ambiguo compreso tra il commercio e la cultura, ma sostanzialmente più vicino al primo di questi termini. La documentazione

che ne è rimasta — in

forma grezza di risposte prefettizie anche linguisticamente disomogenee — è oggi l’unica che consenta di scattare una sorta di fotografia sulla situazione delle strutture teatrali pochi anni dopo l'Unità, cogliendone una immagine di insieme altrimenti introvabile!!. Fatte salve le necessarie cautele sulla voce del «reddito presunto dell'impresa teatrale», sul quale le informazioni appaiono più frutto di supposizioni prefettizie che di notizie reali, il resoconto risulta abbastanza attendibile nel censire le strutture fisse destinate agli spettacoli, comprendendo anche sale fisicamente esistenti ma non più in attività. Rimane escluso il mondo più volatile del teatro effimero e di strada, almeno in parte quello dei teatri privati nelle dimore signorili, che comunque costituivano ormai un residuo settecentesco poco utilizzato, e talvolta i contenitori adibiti specificamente al ballo, questi invece ancora poco numerosi. Riusciamo così a farci una prima idea dell'imponente processo di costruzione avvenuto nei cinquant'anni prece-

denti, quando la penisola si era coperta di edifici per il teatro, strutture già ben note e presenti nell'Italia settecentesca, ma che in quel torno di tempo si erano diffusi in modo puntuale sul territorio come nuovo tempio laico dello svago e del pubblico intrattenimento di cui ogni centro che !° L'elenco dei teatri censiti in quell'occasione con la specificazione dei dati principali è allegato in appendice, pp. 267 ss. | !! La documentazione arrivata dalle prefetture è conservata, in fascicoletti divisi per provincia, in ACS, MAIC, Divisione III, Diritti d’autore e teatri, b. 1.

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solo si immaginasse urbano, indipendentemente dalla sua consistenza demografica ed edilizia, voleva dotarsi. È proprio la capillarità del fenomeno a risultare sorprendente e a caratterizzare gli sviluppi ottocenteschi del sistema teatrale, i cui elementi portanti — dalle modalità di finanziamento fino all’assetto gerarchico del pubblico — ripercorrono peraltro in modo stretto le coordinate sperimentate nel corso del secolo precedente. Non possediamo una mappatura d’insieme delle strutture teatrali che sia aggiornata alla fine del XVIII secolo e ci consenta di quantificare in modo preciso il divario tra le due situazioni!?. Per quanto riguarda il solo teatro d’opera, l'«Indice de’ teatrali spettacoli», che era pubblicato a Venezia ma aveva già uno sguardo nazionale oltre che massicci sconfinamenti europei”, registrava nel 1799 l’attività di poco più di un centinaio di sale compartecipi del circuito impresariale e disseminate lungo la penisola. Queste mostravano una distribuzione geografica indicativa degli sviluppi futuri, e cioè una maggiore concentrazione numerica nell’area lom-

bardo-veneta, in quella romagnolo-marchigiana e in Toscana, tutte zone ad altissima densità urbana; nonché una preci-

sa definizione di quelli che sarebbero rimasti, magari con fortuna alterna, i principali centri musicali del paese, cioè Venezia — a cui va attribuita la paternità seicentesca dei primi teatri per un pubblico pagante — Milano, Torino, Firenze e Napoli, città dove erano precocemente attivi più teatri e che vantavano un'offerta spettacolare diversificata. 12 Si stanno invece ormai infittendo le ricerche che propongono ricostruzioni dettagliate di singoli tasselli regionali (ne esistono per la Puglia, la Toscana, l'Emilia-Romagna), soprattutto nella forma di censimento delle strutture storiche; cfr. ad esempio l’opera in numerosi volumi su Teatri storici della Toscana. Censimento documentario e architettonico, a

cura di E. Garbero Zorzi e L. Zangheri, Firenze, Giunta regionale Toscana, 1990-95.

3 La pubblicazione stessa di questo periodico, che era concepito come organo di informazione per gli operatori del settore e raccoglieva le proprie informazioni attraverso circolari inviate ad impresari, agenti e cantanti, ci dice quanto strutturato fosse già a fine Settecento il mercato dell’opera in musica; cfr. R. Verti, The Indice de’ teatrali spettacoli, Milan, Venice, Rome 1764-1823, Preliminary research on a source for the history of Italian Opera, in «Periodica musica», III, 1985, pp. 1-7.

200)

Se dunque il luogo teatrale appare già ben presente nella forma urbana settecentesca la fotografia che se ne può scat-

tare alla data del 1868 ce ne presenta un’immagine molto più densa e articolata sul territorio. Riportando di ognuno la data di inaugurazione ci consente per di più di individuarne per grandi linee le dinamiche cronologiche. «Oggi si citano quasi con meraviglia — scriveva nel 1823 Giovanni Valle, autore del più noto manuale di economia

delle aziende teatrali del periodo — quelle città che non hanno riedificato o ampliato o rimodernato il loro teatro»!4. E con ciò segnalava con precisione il processo in atto, cioè uno sviluppo generale dell'armatura teatrale, con l'apertura in ogni parte della penisola di cantieri teatrali che potevano essere costruzioni ex zovo, ma anche riedificazioni o ristrut-

turazioni delle sale antiche ormai ritenute inadeguate ai tempi. Si era prodotto così nei primi due decenni del secolo una sorta di rilancio e di moltiplicazione di un modello organizzativo della pubblica sociabilità, il cosiddetto «teatro di città», i cui meccanismi di regolazione affondavano le proprie ragioni nell’Ancien Régime ma ritrovavano ora, nell’Italia della Restaurazione, nuovi motivi di attualità. Delle 942 sale censite, distribuite in circa 650 comuni,

224 risultano costruite prima del 1815, e di altre 105 si dichiara ignota la data di edificazione. Tutte le altre, cioè

613 sale, si vogliono edificate tra il 1815 e il 1868. Si tratta come è ovvio di realtà quantomai diversificate per capacità e importanza, per frequenza e per tipo di attività: dalle grandi sale che come il Ducale di Parma ripropongono in versione Restaurazione il modello del teatro di corte, fino ai piccoli e anche piccolissimi teatri disseminati nei comunelli della Toscana, dell'Umbria, della Puglia, magari aperti saltuaria-

mente per le rappresentazioni delle società filodrammatiche locali, o ancora sale ritagliate più o meno provvisoriamente nei palazzi comunali o in vecchi magazzini”. Ma rispetto a 14 G. Valle, Cenni teorico-pratici sulle Aziende teatrali, Milano, Socie-

tà Tipografica dei classici italiani, 1823, p. 173. D Parecchi casi di questo tipo sono ricompresi nel censimento: ad Alfonsine ad esempio ci si serve di una sala accessoria al caffè per alcune

26

Fic. 1.1. Numero dei teatri per provincia secondo il censimento del 1868 (elaborazione grafica di Stefania Benedetti e Teresa Bertolini).

situazioni precarie di questo tipo, molto più frequenti nel secolo precedente, prevale ormai, anche in realtà urbane di piccola dimensione, la tipologia dell’edificio isolato, ben episodiche rappresentazioni o a Diano Marina un magazzino per la vendita del vino viene talvolta utilizzato come spazio teatrale.

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riconoscibile nel prospetto e nelle allusioni decorative della facciata come luogo dell’intrattenimento teatrale. Accanto ai «teatri di città», pubblici o semi-pubblici, si moltiplicano infine i teatri commerciali di proprietà privata, notturni o diurni, di piccole dimensioni o adatti agli spettacoli equestri.

Il processo costruttivo che si intravede dietro a queste cifre ha tempistiche in parte diverse in ognuno dei vari stati preunitari, dove conosce fasi di intensificazione e di declino collegate sia ai diversi orientamenti governativi che alle congiunture proprie della vita locale. Nel Lombardo-Veneto, ad esempio, la «smania del costruir teatri» ha un vero e proprio decollo in periodo francese, in una fase di generale espansione della sfera pubblica e delle sue articolazioni che aveva moltiplicato le occasioni di aggregazione collettiva, e che fa leva soprattutto sull’occasione propizia del riutilizzo dei terreni ex religiosi. In altri stati, come nel regno sabaudo,

il decollo dell’edilizia teatrale è più tardivo e comincia ad evidenziarsi a partire dagli anni ’20. In area toscana e nelle Legazioni pontificie l’impegno delle comunità o di singoli cittadini nella costruzione di sale teatrali sembra piuttosto proseguire senza soluzione di continuità e intensamente dalla seconda metà del Settecento in avanti, arrestandosi solo negli anni più caldi della conquista francese. Al sud, dove la diffusione settecentesca dei luoghi teatrali aveva riguardato esclusivamente i grandi centri, si apre invece con la Restaurazione una fase costruttiva tanto intensa quanto discontinua nei suoi ritmi.

AI di là di non rilevantissime discronie si individuano però nella progressione materiale del fenomeno anche molti tratti che accomunano il quadro nazionale proposto dal censimento postunitario. La dominazione francese ad esempio costituisce ovunque una sollecitazione importante al costruir teatri, sia sul fronte pubblico, per il nuovo valore civile attribuito al luogo, sia su quello privato, dove sembrano moltiplicarsi le possibili opportunità commerciali legate alla dimensione spettacolare. Non è un caso che molti dei grandi teatri privati aprano in questa fase: il Carcano a Milano (1803), il Teatro del Corso (1805), l'Arena del Sole (1810) 28

i Fic. 1.2. Teatri inaugurati tra il 1815 e il 1840.

e il Contavalli (1814) a Bologna. Le trasformazioni che l’organizzazione amministrativa napoleonica produce sulla trama urbana complessiva crea inoltre nuove ambizioni in centri che si vedono parificati, in qualità di sedi di prefettura, alle città maggiori e che come queste anelano ad un proprio spazio teatrale. 29

Fic. 1.3. Teatri inaugurati tra il 1841 e il 1860.

Una comune accelerazione del fenomeno si verifica a partire dal 1815 e procede in rapida progressione, rispecchiando un orientamento complessivamente favorevole, quando non direttamente promozionale, di tutti i governi preunitari, a cui le varie normative demandavano il compito di approvare l’apertura di ogni nuovo spazio da adibire a 30

Fic. 1.4. Teatri inaugurati tra il 1861 e il 1868.

pubblici spettacoli. Così nei venticinque anni compresi tra il 1815 e il 1840 si aprono i cantieri di 195 nuovi teatri; nei vent’anni che seguono fino all’unificazione se ne aggiungono altrettanti; dal 1861 al 1868, fino al censimento, vengono infine costruite altre 198 sale. Nella cifra finale dei teatri esistenti nel 1868, che pur 31

BS Un teatro ogni 6-15.000 abitanti E

Un teatro ogni 15—30.000 abitanti

Un teatro ogni 30-60.000 abitanti Un teatro ogni 60-100.000 abitanti

Un teatro ogni 100-250.000 abitanti

Fig. 1.5. Densità dei teatri in rapporto alla popolazione.

32

rispecchia una realtà estremamente eterogenea, si può allora scorgere anche una fisionomia d’insieme, costituita dalla nuova rappresentatività del luogo teatro nella vita cittadina e dal suo ruolo centrale negli spazi della sociabilità ottocentesca. Più o meno compatto che sia, questo fenomeno del costruir teatri pare presupporre l’esistenza di condizioni favorevoli: una domanda sociale forte? Atteggiamenti governativi consenzienti o comunque non ostili? Particolari disponibilità finanziarie? Tutti questi fattori sembrano giocare un loro ruolo ma si tratta di capire come funzionano e come si combinano tra loro. In ogni caso la decisione di costruire un teatro e tutto il processo che da quella si mette in moto — la ricerca del luogo e del progettista, l’individuazione delle modalità di finanziamento, il rito dell’inaugurazione e la gestione successiva — sono vicende che si sviluppano in centinaia di rivoli diversi, riflettendo consuetudini sociali, orientamenti normativi e situazioni economiche pro-

prie delle singole località e che spesso hanno radici nella realtà settecentesca. Da questa peraltro l’Ottocento eredita un notevole divario nella distribuzione geografica delle sale, che il nuovo ritmo costruttivo attenua leggermente ma certo non colma del tutto. Dei teatri censiti quasi 400 risultano collocati nel nord del paese (Regno di Sardegna, Lombardo-Veneto, ducati padani), 357 al centro (Toscana e Stato

pontificio escluso il Lazio) e solo 169 al sud (Regno delle due Sicilie).

3.

Orientamenti di governo

L’idea di un’utilità pubblica dei teatri percorre in lungo e in largo la pubblicistica del settore, che nei primi anni della Restaurazione si fa più consistente e articolata, soprattutto ad opera di veri e propri addetti ai lavori, direttori e amministratori di teatri che intorno a quest'idea costruiscono l'ipotesi del pubblico sovvenzionamento. Il teatro continuamente aperto — scriveva nel 1825 il reggiano Carlo Ritorni, osservatore molto lucido di cose teatrali — interessa in

certo modo la politica del Governo. Si raccoglie popolo nel teatro

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in una ben ordinata pubblica adunanza, sotto gli occhi delle Autorità e questa unione giova a formar legami di Società, promuove

educato conversare; coltiva gli spiriti co’ morali e ameni soggetti che dalla scena si offrono ad altrui istruzione e diletto; allontana la plebe dalle bettole, la gioventù dai vizi, molti dall’ozio; e i forestieri,

i militari, le altre persone isolate ci trovano intrattenimento. Perciò gli spettacoli devono essere promossi e comandati dal Governo!‘.

Si esprime in un modo molto simile anche Giovanni Valle, lo abbiamo già citato, secondo il quale il teatro andava considerato come un «oggetto necessario al decoro delle città, all’onesto trattenimento dei cittadini, influente sulla civilizzazione, sul commercio, sui costumi e sull’andamento

d’altri diversivi, fatali purtroppo all'economia domestica, alla moralità ed al buon costume»!. E ancora Angelo Petracchi, direttore della Scala e poi del King's Theatre londinese, nella sua opera molto nota sulla gestione teatrale, partiva dalla constatazione che «allo stato attuale della civiltà» i teatri dovevano considerarsi un fatto necessario come «modesta ricreazione e divagamento», «innocente sollievo delle popolazioni», ma soprattutto come «scuola e ammaestramento» di queste ultime!$. Questi trattati compaiono

tutti, non

casualmente,

nei

primi anni ’20, quando molti riflettori sono puntati sui teatri, e sembrano in sostanza riproporre in una nuova declinazione l’immagine giacobina del teatro come educatore e fautore di pubbliche virtù che tanto si era diffusa anche in Italia alla fine del secolo precedente. Invece di perdersi del tutto con i venti della Restaurazione quell’idea, che aveva !6 C. Ritorni, Consigli sull’arte di dirigere gli spettacoli, opera dedicata al signore Giulio Parigi, ciambellano di S.A.R. il Duca di Modena, Bologna, co’ tipi dei Nobili, 1825 (il corsivo è mio). !7 G. Valle, Cenni teorico-pratici, cit., p. 179.

!8 A. Petracchi, Sul reggimento dei pubblici Teatri, idee economiche applicate praticamente agli II. e RR. Teatri alla Scala ed alla Canobbiana in Milano, Milano, nella tipografia del dott. Giulio Ferrario, 1821, pp. 9 ss. Tutte queste opere ebbero una notevole diffusione e notorietà come primi scritti di pubblica economia applicata ai teatri. Il volume di Petracchi fu tra l’altro recensito da Ugo Foscolo che ben conosceva la diversa situazione inglese e italiana relativamente all’organizzazione teatrale. Cfr. U. Foscolo, Dell'impresa di un teatro per musica, in Opere edite e postume, vol. IV, Firenze, Le Monnier, pp. 378-412.

34

percorso i testi del dibattito settecentesco sulla riforma teatrale prima di trovare realizzazioni concrete nel periodo francese, era trapassata gradualmente verso sponde più moderate e pragmatiche: acquisita l’idea che il teatro andava considerato come un luogo importante di formazione dello «spirito pubblico», ora questo era da intendersi in direzione di un «incivilimento» dei costumi, di una educazione ai rapporti sociali e alla pubblica socievolezza improntata al decoro, alla compostezza, alla deferenza. Spazi di pubblica riunione consentiti e legittimati dalle autorità come erano i teatri offrivano in sostanza occasioni importanti all’apprendimento dell’educato conversare e della moderata compitezza nella comunicazione pubblica, e per di più ciò avveniva in situazioni di grande sollecitazione emozionale come erano le rappresentazioni teatrali, per questo tanto temute da Rousseau come dalla cultura puritana anglosassone. Un osservatore imbevuto di quella cultura come era Samuel Morse, pittore e inventore in viaggio in Italia tra il 1830 e il 1831, riportava non a caso nel suo diario di aver avuto la netta sensazione che i teatri fossero qui invece dei luoghi d’ordine, incoraggiati dal governo, «e difesi dagli abusi della folla con un gran dispiego di forze dell’ordine»!?. Era più o meno questo anche il senso di un Avviso emanato dal Teatro di Modena nel 1820 il cui estensore, portavoce di un governo non certo comprensivo

nei confronti

della passionalità collettiva, sosteneva che: «la necessità che ebbero sempre gli uomini di essere commossi diede ai popoli i teatri»; ma «l’indole dei Governi, la politica, i costumi ne introdussero i differenti generi, ne prescrissero le forme, ne stabilirono le leggi e vollero che nel tempo stesso in cui la nazione si adunava per dilettarsi ricevesse dalle stesse rappresentazioni semi ora di coraggio, ora di compassione,

e sentimenti di grandezza e generosità, sicché in mezzo al piacere s’instillasse né cuori dei spettatori la più utile, la più sana morale»?0. 19 S.F.B. Morse, His letters and journals, 2 voll., New York-Boston, 1914, cit. in B. Sanguanini, I/ pubblico all'italiana, Milano, Angeli, 1989,

p. 125.

20 In ASMI, Spettacoli pubblici, b. 98.

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Come contenitore ben sorvegliato dell’agire festivo in pubblico il teatro mostrava in sostanza agli occhi dei governi della Restaurazione buone potenzialità pedagogiche e presentava quasi i caratteri di un campo sperimentale per la regolazione e il controllo della società. Doveva intendere qualcosa di simile il solito Carlo Ritorni quando scriveva nel 1831 che «il teatro è come un simbolo e un apologo, dirò così, del mondo. Chi sa insegnar come si possa dirigere il piccolo mondo di un teatro, oso dire che sarebbe forse atto a regolar qualche provincia del grande teatro del mondo». Quest’idea di utilità sociale e morale dei teatri fa dunque da sfondo alle politiche impostate fin dal 1816 dai vari governi restaurati, intrecciandosi con precise considerazio-

ni di ordine pubblico. Se lo «spirito di associazione» doveva considerarsi un lascito ormai difficilmente reprimibile degli anni francesi, la possibilità di convogliarlo verso una forma di sociabilità molto controllabile come quella teatrale è vista con favore dalle pubbliche autorità, in LombardoVeneto come nel Regno borbonico, seppure con esiti diversi nei vari casi. Questo produce una parziale liberalizzazione delle iniziative rispetto alla precedente legislazione francese che ovunque, in tempi diversi, decade: chiunque lo voglia e ne abbia i mezzi, privato o pubblico, singolarmente o in società, può nell’Italia della Restaurazione costruire un teatro e aprirlo al pubblico, purché ne richieda ovviamente l'autorizzazione governativa, consenta sempre il libero e gratuito ingresso della forza pubblica per la sorveglianza dello spettacolo e sottoponga ogni opera da rappresentare al vaglio della censura. Visti tali presupposti parrebbe strano parlare di liberalizzazione ma in realtà la direzione era proprio quella, almeno se rapportata alla normativa napoleonica che limitava il numero dei teatri in proporzione a quello degli abitanti. Così in Toscana nel 1818 decadono le prerogative imposte dalla Prefettura del Dipartimento dell'Arno nel 1810, che avevano ridotto a due i teatri legalmente autorizzati, attribuendo loro una precisa specializza2! C. Ritorni, Annali del teatro di Reggio Emilia, a. 1831, Reggio Emilia,

1832, p. 1. 36

zione: al Teatro degli Immobili l’opera in musica, seria o buffa che fosse, e al Teatro degli Infuocati l’opera di parola??. E subito si infittiscono le iniziative per l'apertura di

nuove sale o la riapertura delle precedenti. Insieme alle limitazioni circa il numero dei teatri, che in alcuni luoghi dalla teatralità diffusa come Venezia aveva considerevolmente diminuito il numero delle sale in attività, cadeva anche la classificazione dei teatri in maggiori e minori che era propria del sistema francese, e così le prerogative dei primi sui secondi, che in quel sistema costituivano un’importante fonte di sostegno delle stagioni primarie e della produzione di più alto profilo?!. D'altro canto la politica condotta dai vari stati, avendo in comune un’attenzione esclusiva sul tema del controllo, non prevedeva obiettivi di ordine culturale né tanto meno di promozione del fatto artistico. Solo nel Regno di Sardegna rimane in vigore fino

alla metà del secolo, nonostante le reiterate proteste degli interessati, il versamento del decimo dei propri introiti a sostegno del teatro maggiore??. Ma anche in questo caso non pare che sia in gioco un’intenzione di sostegno alla produzione teatrale alta, quanto il proposito di sgravare in 22 Cfr. U. Morini, La Regia Accademia degli Immobili e il suo teatro «La Pergola» 1649-1925, Pisa, Tip. F. Simoncini, 1926. 3. Sotto i colpi del decreto napoleonico del 1807, che limitava a quattro le sale aperte in città, avevano chiuso i teatri di San Luca e di San Samuele, che riaprirono rispettivamente nel ’15 e nel ’19; per un quadro della situazione veneta cfr. A.L. Bellina e B. Brizzi, I/ melodramma e la musica strumentale, in Storia della cultura veneta. Dall'età napoleonica alla I guerra mondiale, Venezia, Neri Pozza, 1986, p. 437.

24 Si veda la ricostruzione che ne fa V. Rivalta, Storia e sisterza del diritto dei teatri, Bologna, Zanichelli, 1886. In Francia il sistema teatrale

era regolato da un decreto del 1806 che stabiliva il numero dei teatri, attribuiva ad ognuno una caratterizzazione spettacolare e li classificava per importanza. Dal 1811 i teatri minori erano tenuti a versare ai teatri

primari un canone proporzionato agli introiti nell’intento di finanziare la produzione artistica alta. Nei suoi principi di fondo tale normativa rimane in vigore fino al 1864 quando Napoleone III emana un decreto di liberalizzazione del sistema. 25 Cfr. A. Basso, I/ teatro della città 1788-1936, Torino, Cassa di ri-

sparmio, 1976, vol. II della Storia del Teatro Regio di Torino, p. 661. La polemica dei teatri minori contro l’«odiosa tassa» è ricostruita alle pp. VI)

si

parte l’erario dall'impegno finanziario per il grande teatro di corte. Negli stati preunitari, dove sostanzialmente non era contemplata una legislazione teatrale che non fosse quella commerciale, non erano infine previsti dei privilegi di esclusività sulle rappresentazioni, che sarebbero stati in conflitto con la logica di liberalizzazione del settore che si intendeva imporre?. Nel contempo simili prerogative ricomparivano però spesso nelle clausole di appalto per le stagioni, dove gli impresari chiedevano, per lo più ottenendola, una deroga al libero regime di mercato quando era in corso la stagione d’opera nel teatro maggiore??. Poteva succedere allora che La Fenice ottenesse nel 1818 il privilegio di rappresentare in esclusiva drammi seri, semiseri e balli eroici per la stagione di carnevale, acquisendo sempre più il ruolo di unico teatro d’opera cittadino?8. È solo una delle molte deviazioni dal sistema di mercato virtualmente prevalente, resa possibile dalla mancanza di un quadro normativo specifico che finiva per affidare l’intera regolazione del sistema alla contrattazione tra impresari e autorità locali. Il luogo dove l’accostamento tra teatro e controllo dell’ordine pubblico è fatto proprio in modo più esplicito dalle autorità

è il Lombardo-Veneto,

dove il boom

edilizio

ottocentesco riguarda simultaneamente le città maggiori, la rete dei centri di media dimensione e i piccoli comuni, per un totale di 116 teatri costruiti ex zovo o ricostruiti tra il 1815 e il 1868. Con la Restaurazione austriaca non solo La 26 È nota la querelle che a Firenze nel 1818 oppone l’impresario della Pergola al direttore del Teatro Nuovo per la programmazione in contemporanea del Don Giovanni mozartiano. Il Tribunale di commercio non riconoscerà il diritto di esclusività sostenuto dal secondo. La vicenda è riportata in A. Azzaroni, Del teatro e dintorni. Una storia della legislazione e delle strutture teatrali in Italia nell'800, Roma, Bulzoni, 1981, p. 24.

2? Nel carteggio che intercorre nel gennaio 1823 tra l’impresario Bandini e il ciambellano

parmense

(in ASCPr, Teatro, Carteggio,

1823, f. III)

quest’ultimo scrive ad esempio: «ho garantito nel contratto che durante l'apertura del Regio Teatro non vi saranno altri teatri aperti senza la qual condizione nessuna compagnia acconsentirebbe a portarsi alla piazza vista la ristrettezza della popolazione». 28 Cfr. A.L. Bellina e B. Brizzi, I/ melodramma e la musica strumentale, t., p. 439.

38

Scala ottiene larghe sovvenzioni governative ma lo slancio costruttivo nelle periferie trova un appoggio importante nelle autorità centrali, che impartiscono ai Delegati provinciali

precise direttive circa la promozione di iniziative teatrali come «mezzi conducenti ai progressi della civilizzazione, alla gentilezza dei costumi e al più facile sviluppamento dello spirito sociale»??. Dalle città arrivavano generalmente risposte positive a quelle sollecitazioni. Così da Sondrio, ad esempio, il delegato informa i superiori di aver provveduto, secondo le istruzioni ricevute, «ad eccitare i più zelanti tra i proprietari» perché tra i vari abbellimenti cittadini pensassero anche al teatro. E conferma che la risposta locale era stata pronta ed efficace, visto che si era subito affidato al noto architetto Canonica, progettista del Carcano milanese

e del Concordia di Cremona, l’incarico di redigere il progetto per un teatro con due ordini di palchi più il loggione. Nei primi due decenni della Restaurazione si assiste così, sotto la stretta supervisione dei delegati provinciali e dei commissari

distrettuali, all'edificazione di numerosi teatri

sociali da 7-800 posti in quei centri urbani di media dimensione così diffusi nel territorio lombardo e veneto. Così a Belluno (1834), Soresina (1840), Feltre (1829), Este (1834), Vittorio Veneto (1825), Codogno (1835), mentre sale più piccole vengono aperte a Sondrio (1824), Schio (1833), Marostica (1825), Palmanuova

(1840), Mestre (1840), Gemona

(1838). Che le indicazioni delle autorità avessero un preciso obiettivo di ordine pubblico risulta molto chiaro quando si entra tra le pieghe delle singole vicende. Così a Cremona, subito dopo il secondo incendio del Teatro Concordia nel 1824, l’Imperial Regio Delegato si era affrettato a riunire i palchettisti perché la città non rimanesse a lungo priva di una stagione teatrale, con tutti i rischi che questo comportava per la pubblica tranquillità?°. A Pavia le ragioni di po29 Le Istruzioni dell’Augusto Sovrano ai Delegati provinciali (16 agosto 1817) sono riportate dal delegato provinciale di Sondrio nella sua relazione del 28 giugno 1820, in ASMIi, Spettacoli pubblici, parte moderna, b. 53. 30 E, Santoro, I Teatri di Cremona, Cremona, Turris, 1995, pp. 99 ss.

59

lizia che guidano la vicenda del teatro sono esplicitate in modo ancora più chiaro. La città possedeva un teatro condominiale settecentesco che nel 1822 si trovava in grave crisi finanziaria. I condomini proprietari avevano allora proposto al comune l’acquisto dell’edificio, ricevendo però da questo un netto e reiterato rifiuto, motivato da ragioni finanziarie. Di fronte all’eventualità della chiusura del teatro le autorità centrali erano allora intervenute con fermezza,

dapprima consigliando al comune l’acquisto, perché ritenuto «utile e necessario specialmente nella vista della pubblica tranquillità ed anche nei rapporti economici», e poi, vista la persistente resistenza di quest’ultimo che possiamo presumere collegata a faide interne nell’élite locale, proponendo ai proprietari un sussidio governativo che consentisse la gestione della normale stagione. Questa avrebbe dovuto pesare, significativamente, proprio sui residui fondi di polizia, perché una città dove stanziava una guarnigione militare numerosa e una scolaresca di più di mille giovani universitari non poteva rimanere sguarnita di una decente stagio-

ne teatrale, che stornasse l’afflusso di questi gruppi verso altri luoghi non sorvegliati?!. E d’altronde anche il conte Strassoldo, governatore di Milano, per spiegare il generoso atteggiamento governativo

nei confronti del gran teatro milanese lasciava chiaramente intendere nel 1825 che i motivi del controllo di polizia dovevano essere considerati primari nel valutare la questione,

dato che «l’opera alla Scala trae a sé in un luogo osservabile nelle ore notturne una gran parte della civile popolazioness:

Il panorama teatrale lombardo e veneto continua così ad arricchirsi negli anni ‘40, quando anche Lecco (1844),

Lodi (1845), Castiglione delle Stiviere (1843), Voghera }! La lunga documentazione sulla vicenda è in ASMI, Spettacoli pubblici, p.m., b. 51, fasc. Pavia. Infine il caso si chiude in modo diverso vista la difficoltà di mobilitare i fondi polizia in favore di privati e sarà il Comune a piegarsi alla concessione di un modesto sussidio annuo di 4.000 lire.

32 Cit. in J. Rosselli, Sull'ali dorate. Il mondo musicale italiano dell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 71.

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Teatri attivi nel territorio dell'ex Lombardo-Veneto secondo il cen-

simento del 1868.

(1844), Stradella (1846), Cividale (1845), Chioggia (1842),

Monselice (1844) si dotano di un proprio teatro sociale e teatrini piccolissimi aprono in molti centri del bresciano, del pavese, e in area veneta. Nel frattempo sono sempre più numerosi i privati, sin-

goli o in società, che intraprendono l’impresa di costruzione di una seconda o di una terza sala, optando magari per ambienti polivalenti adatti a spettacoli vari, talvolta «anche equestri», che sembrano indicare spazi più simili ai tendoni di un circo che non ad un teatro vero e proprio: i più importanti per giro d’affari e capacità di attrazione sono il Teatro Guillaume di Brescia, alcuni teatri diurni prettamente estivi come il Ricci di Cremona, il Galter di Padova, il Lavizza di Rovigo, il Ristori di Verona. A Milano negli anni ’50 si inaugurano quattro nuove sale di iniziativa privata di cui due specializzate, la prima per le opere buffe (il Santa Radegonda), la seconda per le commedie (il Fossati), e due più tradizionalmente polivalenti. Una prevalenza di questa stessa tipologia più commercial-popolare, in rapida crescita in Europa ma ancora poco diffusa in Italia, si registra in questa zona anche negli anni postunitari, quando nuove sale di questo tipo aprono a Chioggia, a Udine, a Pavia. Lo scarto tra il centro-nord e la parte meridionale del paese in quanto a densità teatrale è già profondo a inizio secolo e rimane costante nel corso dell’Ottocento. La prati41

ca dei teatri stabili si afferma infatti tardivamente nel Regno borbonico e la dimensione spettacolare ancora per tutto il Settecento si concentra qui in altri spazi: nelle chiese, nelle

piazze, o nella sfera privata dei palazzi signorili e delle accademie. Fa eccezione Napoli, dove l'intensa vita teatrale ruota intorno alla corte e ne è una diretta emanazione”. La febbre costruttiva che sale al nord a partire dagli anni francesi si riflette però anche nel Regno delle due Sicilie, pur con ritmi più contenuti e proporzionati alla diversa consi-

stenza del reticolo urbano, cosicché nel 1868 tutti i capo-

luoghi un tempo sedi di intendenze e quasi tutte le ex sottointendenze si trovano dotati di almeno una sala teatrale funzionante. Nei due decenni successivi alla Restaurazione risultano infatti in costruzione ventisei nuove sale e altre trentuno sono inaugurate nei vent'anni compresi tra il 1840 e il 1860”. Sono cifre diverse da quelle più consistenti che si riscontrano al nord ma che ci consentono di considerare come condiviso quel medesimo fervore costruttivo. Le iniziative si trovano però qui a fare i conti con un

atteggiamento più altalenante e ambiguo del governo borbonico nei confronti del divertimento teatrale. Il Decennio francese aveva dato il via ad una prima politica di incentivo alla costruzione di sale stabili, dopo decenni di esplicita ostilità del governo borbonico e della chiesa locale alla costruzione di teatri nelle province, considerati fomentatori

inevitabili di disordini materiali e morali tra la popolazione. Teatro di provincia uguale disordine, questa l'equazione che secondo Croce prevaleva nell’ottica governativa di metà Settecento, giacché i teatri facevano lampeggiare nelle piccole città «qualche sembiante del lusso, della gaiezza e della voluttà della capitale», e come se non bastasse favorivano la passione per il gioco d’azzardo e la compromissione dei notabili del luogo con le donne di teatro”. Il Decennio fran-

% Cfr. il quadro proposto da Croce che si arresta però alla fine del Settecento, I teatri di Napoli, Napoli, Pierro, 1891 (Adelphi, 1992). 3 Quando peraltro, teniamolo presente, al nord sono aperti i cantieri

di almeno 120 nuove sale di cui 50 di grandi dimensioni. » B. Croce, I teatri di Napoli, cit., pp. 282 ss.

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cese costituisce dunque più che altrove una svolta considerevole: la nuova attenzione pedagogica per la dimensione teatrale si muove infatti sull’onda della vendita di molti terreni di proprietà religiosa e della progressiva caduta di una serie di precetti che limitavano la liceità delle rappresentazioni. È di questi anni dunque la delibera dei progetti per i teatri comunali di Chieti, di Avellino, di Reggio Calabria, di

Catanzaro e di Catania”. Come in Lombardo-Veneto anche qui la spinta al costruir teatri procede senza soluzione di continuità nella prima fase del rientro borbonico, insieme ad alcune figure di Intendenti di formazione murattiana che tra il ‘19 e il ’21 attuano a livello locale una precisa opera di sollecitazione dei notabili sulla questione teatro. Questi interventi si fanno però molto più cauti e contenuti dopo gli avvenimenti del °21. Lo si percepisce bene in area pugliese, dove tra il 1817 e il 1820 sono avviate, grazie alla mediazione dei rappresentanti centrali, le costruzioni dei teatri di Foggia, di Lucera e di Sansevero che però verranno inaugurati alcuni anni più tardi, dopo numerose difficoltà di percorso”. Nei due decenni seguenti gli interventi di edilizia teatrale si infittiscono anche in aree fino ad allora intoccate dal fenomeno come la provincia di Terra di Bari, dove Bitonto (1838), Monopoli

(1840), Molfetta (1822) e Altamura (1825) inaugurano una

propria sala all'italiana, mentre in un territorio meno estraneo ai teatri come il catanese si inaugurano nell’arco di dieci anni le sale di Adernò (1834), Biancavilla (1822), Giarre (1828) e Caltagirone (1823).

La diffusione delle sale da spettacolo diventa così uno dei tasselli più significativi di quella nuova immagine di civilizzazione in corso che la Restaurazione nel meridione cercava di dare di sé, almeno in questa prima fase, e che effettivamente attraversava l'immaginario di molti osserva36 Molti di questi teatri avranno poi una gestazione lunga e controversa, cfr. D. Danzuso

e G. Idonea, Musica,

musicisti e teatri a Catania,

Palermo, Publisicula, 1990). # L. Zingarelli, I/ sistema teatrale in Puglia tra storia e sviluppo, in Puglia. L'organizzazione musicale, a cura di P. Moliterni, Roma, Cidim,

1986, pp. 218-283.

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tori contemporanei”. Nonostante si declinasse in vario modo, quella rappresentazione sembra trovare un denominatore comune e riconosciuto proprio nello sviluppo dei «legami socievoli» e delle forme di pubblica adunanza, tanto che un osservatore come Ceva Grimaldi non ha dubbi sul fatto che il gran numero di teatri è un indicatore certo di civiltà e molte voci, pubbliche e non, si levano in questi anni a sostenere la necessità di non lasciar cadere le richieste dei decurionati che reclamavano l’edificazione di questi luoghi di pubblico ritrovo e di trattenimento??. Rimane forte però, e diversamente dal Lombardo-Veneto non risolta in modo coerente, la preoccupazione relativa al controllo delle sale e degli spettacoli. La supervisione generale è affidata, come in età murattiana, direttamente agli Intendenti, ma viene di fatto condivisa da organismi diversi, suscitando spesso una ridondante sovrapposizione di sguardi tutori sulle sale stesse: quello della polizia, quello dei funzionari di ispezione nominati dalle deputazioni locali, quello delle autorità religiose che non perdono di vista un fenomeno potenzialmente così pericoloso‘0. Fino agli anni ‘40 la concessione delle autorizzazioni costruttive in materia di teatri diviene comunque nel sud un’occasione importante per rimarcare il legame nevolenza sovrana e le singole località. Nei suoi viaggi in provincia, dove prende contatto diretto domini, Ferdinando II si trova spesso a varare

tra la benumerosi

con i suoi iniziative

38 Sull’idea dell’incivilimento nel Regno ottocentesco si sofferma ad esempio A. Spagnoletti, Storia del Regno delle due Sicilie, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 223-226. Si veda inoltre il quadro della vita culturale meridionale proposto nel primo capitolo di M. Petrusewicz, Comze il Meridione divenne una questione. Rappresentazione del Sud prima e dopo il Quarantotto, Catanzaro, Rubbettino, 1998. 3? G. Ceva Grimaldi, Considerazione sulle opere pubbliche della Sicilia di qua dal Faro dai Normanni sino ai nostri tempi, Napoli, Flautina, 1839,

cit. in A. Spagnoletti, Storia del Regno delle due Sicilie, cit., p. 225. 40 Solo un esempio: quando un vescovo abruzzese scrive al ministero di Alta polizia chiedendo il vaglio della diocesi sugli spettacoli che gli risultano spesso di tono scandaloso, la risposta da Napoli è immediatamente positiva, cosicché il controllo censorio viene condiviso da diverse autorità. La documentazione in proposito è in ASN, ministero Interni II, b. 4364.

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teatrali, magari da tempo pendenti, con un gesto di magnanime attenzione per le sorti della città che verrà poi ricordato nella costruzione successiva. Così a Messina nel 1838,

passato il colera, il re suggella il proprio rinnovato legame con le élite cittadine concedendo l’autorizzazione a costruire sia il teatro, «ad accrescere il decoro e il lustro di sì bella città» e a favorirne «l’incivilimento», che la nuova universi-

tà'!. Tutto ciò comporta poi la frequente presenza del sovrano e della sua famiglia negli edifici teatrali meridionali, o in forma di titolazione del teatro stesso‘, o nelle decorazio-

ni delle facciate, o nei vestiboli, dove palchisti e municipalità fanno installare busti marmorei dei sovrani per i quali stanziano fondi ad hoc. E la piccola dimensione che sembra però caratterizzare prima di ogni altra cosa questa diffusione preunitaria dei teatri nella provincia meridionale, che andrà perciò incontro a ravvicinate e complesse esigenze di ampliamento dopo l'Unità. La maggior parte dei teatri di provincia citati sono costruiti per contenere da 2 a 400 persone e solo in casi eccezionali raggiungono la capacità di 600 posti (come a

Catania, a Foggia, a Bari, a Trapani). Non è solo un indotto delle difficoltà dei municipi nel raccogliere le risorse ingenti necessarie ad un’operazione di quel tipo, ma la conseguenza

di una normativa specifica che fissava un tetto molto basso alla capacità dei teatri di provincia, i quali, per non competere in alcun modo con il gran teatro di corte, non potevano contenere più del 3% della popolazione del comune. E un segnale di atteggiamenti governativi che continuavano ad apparire divisi tra il favore e il timore nei confronti dei

luoghi teatrali, tra spinte alla secolarizzazione del rito e della festa e il permanere di condizionamenti religiosi sulla sfera pubblica. Alla svolta degli anni ’40 il consistente impulso 41 Cito dall’atto di concessione di Ferdinando II del 2 ottobre 1838, riportato in G. Donato, I/ Teatro Vittorio Emanuele di Messina. Storia e

vita musicale, Messina, LaGrafica, 1979, pp. 16-17. 4 Chieti nel 1818 dedica il suo teatro a Ferdinando; Trani nel 1839 dedica il proprio a S. Ferdinando; Lucera alla consorte del re Maria

Teresa Isabella; Messina alla madre del re, e gli esempi potrebbero continuare.

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costruttivo di questi anni inizia ad incontrare infatti ostacoli cospicui, che riflettono sia un peso politico e culturale crescente delle autorità ecclesiastiche, che una politica restrittiva imposta dal governo sulla gestione dei bilanci comunali. Mentre dunque la domanda comunale di teatri risulta in continua crescita, le politiche centrali subiscono una parziale inversione di tendenza. Nel 1837 un decreto regio risponde infatti positivamente alle mai cessate pressioni ecclesiastiche contro i luoghi teatrali e sancisce l'obbligo di restituire al culto le chiese che nei decenni precedenti fossero state trasformate in spazi di spettacolo. E se a Chieti, dove la chiesa di S. Ignazio sconsacrata alla partenza dei gesuiti era servita alla costruzione di una sala teatrale, le autorità

centrali mostrano di appoggiare le tattiche dilazionatrici e le suppliche al papa del Decurionato locale‘, a Cosenza invece il teatro sarà raso al suolo nel 1854 e lo stesso rischio correranno a lungo quelli di Potenza e di Avellino. La sostituzione, iniziata nel periodo francese, del tempio religioso con quello laico dello spettacolo conosce così al sud una significativa battuta d’arresto, per le resistenze periodicamente riemergenti di fronte ad un luogo dallo statuto ambiguo, «in precario equilibrio tra vocazione pedagogica e fomite di nuove idee, democratizzazione dei costumi e sfoggio sociale, elevazione del gusto e dissolutezza»*'. Nonostante il boom costruttivo trovi di fronte a sé alcune difficoltà normative proprio in quella che a livello nazionale è la fase clou della febbre edilizia, cioè il periodo compreso tra 1840 e 1860, il processo non si arresta del tutto e trentuno sale sono inaugurate proprio in questi due decen4 Questa,

in breve, la vicenda:

nel 1851

l'arcivescovo

rivendica

la

proprietà dell’ex chiesa di S. Ignazio e l’Intendente ordina al sindaco di consegnare i locali del teatro che era stato costruito sulle spoglie di quella chiesa. Il Decurionato presenta allora prima una supplica al re, che viene appoggiata da una delegazione di nobili di origini chietine residenti a Napoli e infine al papa che concede una sanatoria per la continuazione delle rappresentazioni al S. Ferdinando; cfr. M. Zuccarini, Il Teatro di Chieti dalle origini ai giorni nostri, Chieti, 1976, pp. 26 ss. 4 Così sostiene efficacemente L. Zingarelli, Teatri nuovi e nuova domanda, in Il Mezzogiorno preunitario. Economia, società, istituzioni, a cura di A. Massafra, Bari, Dedalo, 1988, p. 959.

46

Fic. 1.7. Teatri attivi nel territorio dell’ex Regno borbonico secondo il censimento del 1868.

ni. Tuttavia molti progetti restano sulla carta e si concretizzeranno solo dopo l’unificazione, in un ultimo slancio edilizio che vede le costruzioni allargarsi a zone che ne erano state fino ad allora del tutto escluse, come il Molise o il 4 La maggior parte delle realizzazioni si concentra in Sicilia (tre teatri in provincia di Trapani e altrettanti nel palermitano e nel messinese, quattro nell’area di Caltanissetta, uno a Girgenti e uno nei dintorni di Siracusa), nel barese e in Terra d’Otranto.

41

beneventano, o vede nascere strutture importanti per la loro presenza

monumentale

anche

in centri marginali come

Teramo e Aci Reale. Una densità eccezionale e precoce di sale caratterizza invece lo Stato pontificio, o per meglio dire il territorio romagnolo, marchigiano e umbro, dove l’ostilità tradiziona-

le della chiesa nei confronti della dimensione della rappresentazione teatrale era da tempo venuta a patti con l’idea della funzione civica di quello spazio ricreativo. Le ragioni di questa massiccia presenza teatrale risalgono qui ad un periodo precedente a quello che stiamo affrontando e riflettono probabilmente una progressiva ed efficace compenetrazione tra rito religioso e festa laica. Studi incentrati su queste zone hanno mostrato ad esempio come nei teatri settecenteschi già presenti in piccoli centri come Castel San Pietro o Budrio si rappresentassero prevalentemente dram-

mi religiosi o spettacoli edificanti, allestiti per lo più da dilettanti locali, mentre ogni richiesta di autorizzazione da parte di compagnie forestiere — portatrici di rappresentazioni di natura più ambigua e pericolosa — veniva sistematicamente respinta dalle autorità locali. Evitando a lungo ogni compromissione con i circuiti del teatro professionistico di tipo commerciale la dimensione teatrale era riuscita ad attenuare il suo potenziale di immoralità e la sala teatrale aveva acquisito in modo diffuso il ruolo di un'istituzione civica stabile, a cui era chiesto di rappresentare, anche attraverso la propria presenza monumentale, l’immagine stessa della comunità locale e del suo ordine sociale'. Come altrove peraltro le costruzioni si sarebbero poi moltiplicate negli anni francesi‘, per procedere infine a ritmo serrato negli anni che più ci interessano, quando l’intervento dei legati 46 Questa è l’interpretazione che emerge negli studi sul Settecento emiliano contenuti in Civiltà teatrale e Settecento emiliano, a cura di S.

Davoli, Bologna, Il Mulino, 1986 (in particolare nel saggio di S. Borzacchini e D. Seragnoli, su Luoghi teatrali in Romagna: uso, gestione, organizzazione, pp. 149-174.

4? Sulla moltiplicazione delle occasioni musicali in periodo francese si veda anche Orchestre in Emilia Romagna nell'Ottocento e Novecento, a cuta di M. Conati e M. Pavarani, Parma, Orchestra sinfonica dell’Emilia-

Romagna «Arturo Toscanini», 1982.

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pontifici avrebbe comunque riguardato più la disciplina degli spettacoli che non gli aspetti costruttivi e organizzativi della vita teatrale. Non mancano peraltro segnali di favore nei confronti delle nuove iniziative: ad Ancona nel 1822 le autorità centrali mettono a disposizione per la costruzione del Teatro delle Muse alcuni terreni demaniali ritenuti adatti

all’occasione, e a Senigallia le autorità pontificie non esitano a concedere il benestare a forme di tassazione 44 hoc funzionali alla costruzione del teatro. Nei primi decenni della Restaurazione le costruzioni si infittiscono dunque particolarmente nell’anconitano, nei dintorni di Macerata e di Ravenna. Sette edifici teatrali si inaugurano in Umbria, tra cui l’Apollo di Foligno (1840) e il più capiente Comunale di Terni (1840), mentre il fenomeno appare più modesto in zona laziale, dove risale a quel periodo solo il teatro Traiano di Civitavecchia (1840).

Nel ventennio successivo risultano in costruzione altre 35 sale che si addensano in provincia di Ferrara e di Forlì”; a Ravenna città aprono in pochi anni cinque sale diverse e in Umbria inaugura il Teatro Nuovo di Spoleto (1853). Nei primi anni ’60 le nuove costruzioni ammontano a 24, le più

rilevanti delle quali, per capacità e impegno finanziario, sono il teatro della Fortuna di Fano (1863) e i Municipali di Cento (1861) e di Orvieto (1866).

Un caso a sé, che sembra rimanere estraneo agli sviluppi ottocenteschi del settore, è rappresentato da Roma, che peraltro ancora non troviamo nei dati del 1868. Qui i maggiori teatri in attività, l’Apollo, l'Argentina e il Valle, erano quelli di origine settecentesca eventualmente ristrutturati a inizio secolo che continuavano a rimanere, in controtendenza

rispetto alle dinamiche nazionali, di proprietà di alcune fa48 L’elenco comprende i comuni di Treja (1822), Recanati (1823), Sarnano (1832), Magliano (1839) e Morrovalle (1823); nei dintorni di Ravenna, Alfonsine (1838), Brisighella (1828), Casola (1825), Bagnacavallo

(1840) e Cotignola (1840). 4° In area ferrarese aprono i teatri municipali di Copparo Argenta

(1838), Cortemaggiore

(1843), Pieve di Cento

(1842),

(1854); in area

forlivese inaugura nel 1857 dopo molti anni di incubazione il monumentale teatro di Rimini, ma anche le sale molto più piccole di Montescudo (1856), Morciano (1860), Saludecio (1840), San Giovanni (1856).

49

Fic. 1.8. Teatri attivi nel territorio dell’ex Stato pontificio secondo il censimento del 1868 (rimane esclusa la zona che ancora a quella data cade sotto la giurisdizione dello Stato della Chiesa).

miglie aristocratiche come gli Sforza Cesarini, i Capranica, i Torlonia, che ne affidavano la gestione a singoli impreSane Negli altri stati preunitari sia l’atteggiamento dei governi che l’intensità delle costruzioni non si discostano molto dal quadro proposto fin qui. Molti cantieri teatrali aprono nei due ducati padani, non solo nelle loro capitali e nelle speculari e antagoniste città seconde (Piacenza e Reggio Emilia) ma nei centri minori che già non possedessero una

propria sala per gli spettacoli”. Diverso è però nei due casi 90 Cfr. G. Radiciotti, Teatro e musica in Roma nel secondo quarto del secolo XIX (1825-1850), in Atti del Congresso internazionale di scienze storiche, Roma, aprile 1903, vol. VIII, Roma, Tip. della R. Accademia dei

Lincei, 1905, pp. 157-318. ?! Così a Borgotaro (1819), Castelnuovo Monti (1820), Montecchio (1821), Reggiolo (1838), Correggio (1849), Cortemaggiore (1827), Carpi (1861), San Secondo (1853). Solo dopo l'unificazione aprono le sale di Fontanellato e Busseto.

50

l'orientamento dei sovrani rispetto alla politica teatrale. Mentre a Parma la nuova corte luigina pone il teatro di corte e la sua promozione tra i primi punti all’ordine del giorno della propria agenda politica, a Modena già nel 1816 il duca cede alla città il teatro, delegandone così il finanziamento e optando per un atteggiamento di rigida sorveglianza esterna”, Della politica sabauda nei confronti dei teatri abbiamo già accennato. Pur con un leggero scivolamento cronologico in avanti rispetto al Lombardo-Veneto ritroviamo anche qui un atteggiamento genericamente favorevole alle iniziative di

costruzione. Prima del 1821 pesa però sulla vita teatrale un clima di pesante irregimentazione sociale che ad esempio porta nel 1817 ad un’ordinanza di divieto dei balli pubblici, handicap pesante per la vita di sale che all’epoca erano ampiamente adibite a quell’uso. La situazione sembra cambiare con l’unico sovrano sabaudo che mostra qualche interesse nei confronti della cultura teatrale, cioè Carlo Felice,

al quale si deve l’intervento svolto a Genova nel 1825 per l’apertura del grande teatro che porterà il suo nome. Si avvia così anche qui la stagione costruttiva che porta alla diffusione puntuale sul territorio piemontese, ligure e sardo, dei teatri civici, per la quale molti comuni chiedono e ottengono le regolari Regie patenti, o dei teatri sociali. Sono gli anni in cui si registrano ad esempio le pressioni sempre più forti delle autorità centrali a che il municipio di Cagliari, invero riluttante, rilevi dal barone Zapata la proprietà del teatro che questi aveva fatto costruire alla fine del secolo precedente e che ora si trovava in grave crisi finanziaria. In

questa e in altre simili occasioni, come ad Asti nel 1827”, da Torino si invitano le pubbliche autorità locali a rilevare la proprietà dei teatri che fossero in mano a singoli nobili o a 52 In questo caso avviene un duplice passaggio di proprietà: i palchisti gli cedono la proprietà dell'insieme, non dei palchi, e questi a sua volta lo cede alla Comunità che si assume il carico di tre spettacoli annui senza canone per i palchisti, cfr. A. Gandini, Cronistoria dei Teatri di Modena, Modena, Tip. Sociale, 1873 (Bologna, Forni, 1969), pp. 238-239. 5 La vicenda cagliaritana è analizzata da F. Ruggieri, Storia del Teatro civico di Cagliari, Cagliari, Ed. della Torre, 1993, pp. 69 ss. Cfr. A. Giovine, Il Teatro Alfieri di Asti, Bari, Centro studi baresi, 1989, p. 5.

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Fic. 1.9. Teatri attivi nel territorio dell'ex Regno di Sardegna secondo il censimento del 1868.

società di nobili non più in grado di mantenerli. Si ribadisce però chiaramente e a scanso di equivoci che nessun supporto finanziario centrale sarebbe venuto in aiuto dei municipi. Nuovi teatri municipali aprono in centri di media dimensione come La Spezia (1838), Ventimiglia (1828) e Sassari (1830), o in comuni più piccoli, come avviene in provincia di Cuneo a Fossano (1834), Mondovì (1833), Carrù (1838), Ormea (1838), Saluzzo (1827), Savigliano (1835), Racconigi (1828) o in territorio torinese a Ivrea (1834), Caluso (1822),

Carmagnola (1830), Pinerolo (1838) e Vigone (1827). Il vero e proprio boom costruttivo si registra però negli anni ‘40 e DZ

‘50 quando si inaugurano almeno 11 nuove sale che superano la capienza dei 1.000 spettatori”. Dopo l'Unità, mentre continuano le costruzioni nei comuni ancora sprovvisti di

una sala, si moltiplicano invece le iniziative private per la costruzione di teatri diurni o di varietà, come avviene non solo a Genova, ma anche a La Spezia e a Porto Maurizio.

Una situazione del tutto particolare si verifica in Toscana, un’area ricca di tradizioni teatrali dilettantesche?”, dove

non solo continua senza soluzione di continuità dal Settecento in avanti la moltiplicazione delle sale, ma si ripropone per tutto l’Ottocento a tutte le scale urbane lo sperimentato modello del teatro accademico. Il ritorno del granduca dà una spinta nuova a quel fervore costruttivo sia a Firenze, che al suo passaggio all’inizio del secolo Stendhal aveva definito «una cittadina francese di terz’ordine quanto a teatri», sia nelle province. Ai primi anni dell'Ottocento risale la costruzione del teatro dei Floridi di Livorno, del Teatro dei Gelosi di Empoli, o del Persio Flacco di Volterra di proprietà dell’Accademia dei riuniti, mentre sale accademiche più piccole sono costruite a Pieve di Arezzo, Marradi, Arcidosso, Portoferraio, Montecatini, Chianciano, Chiusi o Sarteano. E via via nei decenni seguenti aprono il Teatro dei Veloci di Massa (1830),

dei Ravvivati di Pitigliano (1822) e di Poggibonsi (1829) o il grande Metastasio di Prato (1831). Se si eccettua Firenze i

centri dove la vita teatrale appare più brillante e più varia sono Livorno, che a detta dei contemporanei abbonda di teatri diurni e notturni”, e Pisa, dove le iniziative teatrali 54 Tra questi ci sono i teatri Civici o Sociali di Asti, Novara, Savona e Alba e il nuovo diurno di Cagliari. Sale di minori dimensioni iniziano inoltre a funzionare in molti piccoli centri delle province di Alessandria, Novara e Cuneo. 5 Sul fenomeno del teatro dei dilettanti come tassello importante per la diffusione del luogo teatro e la trasformazione dei luoghi scenici d’accademia in teatri cittadini cfr. G. Guccini, Per una storia del teatro dei

dilettanti: la rinascita tragica italiana nel XVIII secolo, in Il teatro italiano nel Settecento, a cura di G. Guccini, Bologna, Il Mulino, 1988. 56 Cit. in P. Roselli et al, I teatri di Firenze, Firenze, Bonechi, 1978.

57. A Livorno negli anni ’40 le due sale settecentesche vengono affiancate dal Regio Rossini, elegante e ben frequentato, dal Regio Goldoni, un

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Grosseto

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Fic. 1.10. Teatri attivi nel territorio dell’ex Granducato di Toscana secondo il censimento del 1868.

conoscono un’impennata importante negli anni postunitari

quando vengono costruiti ad opera di due società anonime sia il Teatro Nuovo, che si vuole tra le più eleganti sale italiane, che il grande Politeama pisano’. Meno varia rimane l’offerta spettacolare ad Arezzo dove però, a fronte di una popolazione oscillante tra gli 8 e i 10.000 abitanti, inaugura nel 1832, in concomitanza con il raggiunto ruolo di capoluogo di compartimento, un teatro da 2.000 posti e notevoli ambizioni”, È difficile peraltro trovare un centro urbano del territorio toscano dove in questa fase non risulti aperta almeno una sala per gli spettacoli e non ci dilungheremo nell’elenco: sono sale di dimensioni importanti come il Signorelli di Cortona, o più modeste come quelle di Certaldo, di San Marcello, di Montevarchi, fino a realtà minuscole (Monti-

ciano, Radicondoli, Signa) ma anch’esse promosse da una accademia locale che si attiva per la costruzione del teatro. diurno presso il quale era dove si davano spettacoli 28 Sull’intensa politica veda A. Polsi, Possidenti

attiva anche una Sala Filarmonica, e dall’Alfieri drammatici. di lavori pubblici avviata a Pisa dopo l'Unità si e nuovi ceti urbani: l’élite politica di Pisa nel

ventennio postunitario, in «Quaderni storici», XIX, n. 56, agosto 1984,

pp. 494-515.

? Cfr. A. Grandini, Cronache musicali del Teatro Petrarca di Arezzo (1833-1882), Firenze, Olschki, 1995 (con prefazione di L. Bianconi).

54

Il risultato d’insieme di questo fervore edilizio così mirato è dunque la presenza lungo la penisola di almeno una sala, ma nel centro-nord anche molte di più, in ogni centro urbano che si presuma tale, il che significa che a Casale Monferrato o a Castelfranco Veneto sono segnalati tre spazi teatrali in attività, a Volterra quattro, in centri capoluogo come Livorno e Pisa rispettivamente otto e sette, sei a Ravenna. Quali zone rimangono scoperte da questa proliferazione

dei luoghi teatrali? La risposta più ovvia sarebbe le campagne, ma alcuni casi di comuni rurali che avanzano la richiesta di autorizzazione per l’apertura di una piccola sala fanno pensare che l'aspirazione a possedere un teatro potesse anche tracimare fuori dalle mura urbane. Nel giugno del 1824 ad esempio la Direzione provinciale di Polizia di Milano trasmetteva alla Direzione pubblici spettacoli la richiesta di alcuni abitanti del paese di Gazzoldo in provincia di Mantova per l’autorizzazione alla costituzione di una Società filodrammatica locale che aspirava ad aprire un proprio spazio per le rappresentazioni. L’autorità di polizia presentava il progetto avanzando nel contempo serie perplessità in proposito, che erano le seguenti: «Vuole una prudente precauzione che i luoghi di pubblico spettacolo siano assistiti dalla forza armata pel mantenimento dell’ordine, della decenza e della quiete. Ma il comune manca di guarnigione militare e non è luogo di residenza della gendarmeria». Sarebbe stato forse possibile, continua in forma dubitativa il testo, attribuire il compito alle guardie campestri o ad altri uomini del comune. Ma non avendo questi alcun carattere di vera autorità i loro interventi avrebbero rischiato di essere di fomento invece che di dissuasione per i facinorosi. Inoltre rimaneva da risolvere l’altro aspetto del controllo, cioè l'approvazione preventiva sui pezzi da rappresentare.

Con un po’ di sorpresa si constata, procedendo nella lettura di questo piccolo fascicolo d’archivio, che nonostante tutti i dubbi di polizia l'autorità centrale finirà per assecondare anche questa volta la richiesta locale, trovando una 60 In ASMIi, Spettacoli pubblici, p.m., b. 31.

>»,

soluzione di compromesso al problema cruciale del control. lo. Sarebbe stato il socio Rossinelli, che secondo l’Intenden-

za di Mantova ne aveva tutte le qualità, a sostenere le funzioni di Delegato politico del teatro e quindi ad assumersi il compito della sorveglianza, mentre il Commissario distrettuale del vicino paese di Marcara si sarebbe occupato della revisione delle opere. Risolta la questione del controllo quotidiano sugli spettacoli niente pareva ostare a che anche gli abitanti di Gazzoldo, nel bel mezzo della campagna mantovana, avessero le loro occasioni teatrali.

4. La diffusione della sala all'italiana

Quando i notabili di Voghera parlano del proprio teatro come «somigliantissimo a quello della Scala» peccano certo di quel patriottismo municipale che tanto irritava Stendhal quando si muoveva tra i salotti del bel paese, ma la cosa curiosa è che non si allontanano molto dal vero. Il processo costruttivo di cui ho cercato di ricostruire innanzi-

tutto numeri e geografia procede infatti ad una sorta di imponente clonazione che riproduce, a scale di grandezza e monumentalità molto diverse, quel modello della sala a palchetti che si era affermato con il teatro barocco, e che costi-

tuiva forse il contributo più originale che ad esso aveva offerto la scena italiana”. La struttura ad alveare tipica dei primi teatri pubblici veneziani — quella che secondo il Dizionario di Quatremère de Quincy avrebbe dato ai teatri il «ridicolo aspetto di un muro forato da innumerevoli finestre» — si era imposta gradualmente come modello costruttivo standardizzato tra la metà del XVII e la fine del XVIII secolo, insieme all’idea

stessa del teatro per un pubblico pagante, e nonostante la

sua più che evidente artificiosità ne era divenuta la naturale © cento, © Paris,

56

Cfr. C. Meldolesi e F. Taviani, Teatro e spettacolo nel primo OttoRoma-Bari, Laterza, 1991, p. 107. A.C. Quatremère de Quincy, Dictionnaire historique d'architecture, 1832 (Mantova, 1842), alla voce teatro.

prospezione spaziale. L’affermarsi di una tipologia che rimane nel tempo perfettamente identica a se stessa, se si

escludono le discussioni più o meno accademiche sulla forma della platea (ovoidale, a ferro di cavallo o ellittica), ave-

va coinciso infatti con quella di una particolare forma di organizzazione della vita teatrale che trovava proprio nell'assetto spaziale il suo elemento qualificante. Era questo

che consentiva sia un intreccio molto particolare tra spazi pubblici e privati (da un lato l’edificio, dall’altro i palchi), sia la strutturazione gerarchica dell’audience (secondo il principio della differente dignità topografica interna), sia infine una sorta di partecipazione allargata alla scena, una spettacolarizzazione del pubblico che era parte integrante della sala a palchetti. Dalle cornici dorate dei palchi gli spettatori dovevano infatti apparire in primo piano quanto

gli attori sulla scena e risultare «in vista come i libri negli scaffali di una biblioteca, come le gemme nei castoni del gioiello». Così aveva sostenuto l’Algarotti, prolifico teorico delle scene settecentesche. Si tratta dunque di uno di quei casi non molto frequenti in cui una straordinaria invenzione architettonica diventa lo snodo di un intero sistema economico e gestionale, oltre che di un preciso modello di sociabilità. La sua struttura è nota: una platea con scranni mobili che consentissero di adibirla facilmente alle danze, lo spazio antistante il proscenio riservato agli orchestrali, e vari ordini sovrapposti di palchi o logge al centro dei quali stava il palco reale. Quello che è forse meno noto è che il diffondersi a macchia 6 F. Algarotti, Saggio sopra l’opera in musica, Livorno, 1763, cit. in A. Pinelli, I teatri. Lo spazio dello spettacolo dal teatro umanistico al teatro dell’opera, Firenze, Sansoni, 1973, p. 59. Secondo ]J. Rosselli quello della sala all'italiana era il sistema che consentiva il massimo di privatizzazione degli spazi e di intimità insieme al massimo di esibizione. 6 Questo costituiva secondo Giulio Ferrario una sostanziale differenza rispetto ai teatri francesi: «il teatro in Francia non serve che per le rappresentazioni e non altro, poiché per le feste da ballo vi sono grandi sale separate; ma in Italia serve e per l’uno e per l’altro uso sicché gli spettatori sono obbligati a sedere in un piano di pochissima inclinazione», G. Ferrario, Storia e descrizione dei principali teatri antichi e moderHE CItEpad5DI

DT

d’olio nel primo teatrale, ovunque t'altro che ovvio. tutto tondo che

Ottocento di quest’unico modello di sala conosciuto come sala all’italiana, era tutSi pensi da un lato all’attacco mirato e a su quella aveva lanciato la trattatistica di

metà Settecento, e dall’altro a quanto quel modello riflettesse articolazioni sociali di antico regime. Agli occhi di un’intera generazione di frequentatori dei circoli illuministi era sembrato evidente che per riformare il teatro italiano si dovesse partire proprio dalla tipologia architettonica dei «teatri moderni», che ne sintetizzava i difetti peggiori incoraggiandone la frivolezza e la scarsa riflessività e facendone degli «alveari dove non si va per vedere né per udire drammi ma per farvi un pispiglorio di cellula in cellula», come scriveva il più noto di quei detrattori”. Si rifletteva in quelle critiche l’eco di nuove sensibilità tecniche relativamente alla funzionalità acustica e visiva delle sale, ma soprattutto il segno di quelle sensibilità politiche e culturali che troveranno un pur fugace sviluppo anche in Italia con l’esperienza del teatro giacobino: in particolare l’idea del teatro come luogo di iniziazione democratica dove gli spettatori-cittadini potessero «vedere e sentire tutti ugualmente». Se dunque il dibattito culturale di fine Settecento aveva auspicato il ritorno alla forma antica della cavea a gradoni di vitruviana memoria, l’Ottocento conosce invece una rinnovata passio-

ne per la sala a palchetti, che è riprodotta centinaia di volte in ogni angolo della provincia italiana a delinearne le nuove gerarchie sociali e a sottolinearne l’importanza. D'altronde già tra i teorici settecenteschi c’era chi aveva

notato, più realisticamente di altri, i molti vantaggi che i palchetti consentivano agli spettatori italiani. Non vi sarà Scrittore così ardito che s'immagini di persuadere gli Italiani a rinunziare agli infiniti comodi che ritraggano dalle Logge separate, e chiuse — scriveva Francesco Riccati — conciossiaché ogni palco è come la casa di ciascun proprietario, in cui può star © Il testo esemplificatore di queste posizioni critiche è certamente quello di F. Milizia, Del teatro, Roma, 1771, cit. in A. Pinelli, I teatri, cit.,

pp. 60-64. 60 Ibidem, p. 62.

58

solo, se vuole, può procurarsi piccola o numerosa società di amici, può mangiare, può giocare o che so io”,

E anche Paolo Landriani, scenografo di fama oltre che studioso delle scene, aveva notato polemicamente che sì i forestieri tendevano a decantare viaggiando per l’Italia «le loggie aperte dei loro teatri, ma quando si trovano ne’ nostri palchetti, da nessuno si desidera levarne il tramezzo di separazione, anzi trovandosi allora più liberi che in casa propria da qualunque soggezione dei vicini, sono ben contenti di essere in un agiato e signorile gabinetto», Insomma di trovarsi in uno spazio privato a tutti gli effetti in un contenitore pubblico. Fin dagli anni della dominazione napoleonica i concorsi indetti per due teatri importanti come il Grande di Brescia (1806) e il Nuovo di Trieste (1801) avevano evidenziato una

chiara volontà di non mettere in discussione la dimensione tipicamente privatistica del sistema dei palchi. I progetti presentati in quelle occasioni non solo la confermano, ma prevedono come nella migliore tradizione Ancien Régime i retropalchi, cioè gli stanzini annessi ai palchi e utilizzati generalmente per la cena. Questi diventano parte integrante delle costruzioni teatrali successive, anche quelle di piccola dimensione, insieme ad un’altra innovazione di epoca napoleonica che continuiamo a ritrovare puntualmente in seguito, cioè l’enfatizzazione del palco reale, ottenuta con lo sfondamento di due ordini di palchi e con una particolare ricchezza di decori e di arredi interni. Il consenso verso la sala all’italiana aveva trovato insomma motivi non solo di conferma ma di amplificazione nell'evoluzione ottocentesca del sistema teatrale, coniugando un efficace ingranaggio economico come la privativa dei 6 F. Riccati, Della costruzione dei teatri secondo il costume d'Italia vale a dire divisi in piccole logge, Venezia, 1790, cit. in A. Pinelli, I teatri,

cit., p. 67. 68 P. Landriani, Confronto tra Teatri antichi e moderni, Milano, 1830. 5 Cfr. sul concorso bresciano AA.VV., I/ Teatro Grande di Brescia. Spazio urbano, forme, istituzioni nella storia di un'istituzione culturale,

Brescia, Teatro Grande, 1985, pp. 113 ss., e su Trieste V. Levi, G. Botteri e I. Bremini, Il Teatro comunale di Trieste, Trieste, s.d., p. 76.

DO

palchi con precise esigenze di rappresentazione sociale, e cioè offrendo un'eccellente riproduzione topografica delle

gerarchie sociali, dal profilo netto ma mai definitivamente cristallizzato, facilmente adeguabile nel tempo. Più che una semplice tipologia architettonica la sala a palchetti diventa così la quintessenza di un’organizzazione della vita teatrale che invece di apparire superata doveva diventare l’immagine tipo del teatro ottocentesco italiano”. Se dunque ritorniamo al censimento da cui siamo partiti possiamo verificare che più del 60% dei teatri descritti risulta avere una struttura a palchetti, variamente disposti tra due e cinque ordini di logge. Ciò dimostra tra l’altro la sua notevole flessibilità, la sua capacità di piegarsi a esigenze di capienza molto diverse: dai 2.800 posti della Scala ai 200 posti del Teatro Comunale di Penne, nei dintorni di Teramo, i cui 20 palchetti sono classicamente distribuiti su tre file. Fanno eccezione al modello solo i teatri con una capacità inferiore ai 200 posti, che sono peraltro poco più di un centinaio, molti dei teatri diurni, strutture di legno scoperte che generalmente si sviluppano in gradinate degradanti verso il palcoscenico, e infine, più tardi, i politeama, teatri più capienti e popolari che tendono piuttosto ad imitare la struttura a galleria diffusa negli altri paesi europei. Le cifre del 1868 dicono inoltre che il numero delle sale medio-grandi è indubbiamente alto nell'economia dell’insieme, probabilmente in ragione della stessa monumentalità che si richiedeva al luogo. Nonostante la situazione particolare del sud abbassi notevolmente la media, sono 94 le sale

capaci di contenere tra i 1.000 e i 2.000 posti, e altre 41 superano quella capacità. Non ritroviamo invece nel quadro 70 Si potrebbe dire che si tratta della prima architettura pubblica diffusa ad una scala nazionale e ovunque ben riconoscibile (come sarebbe poi stata la stazione ferroviaria, molto meno il municipio per il quale non riesce a cristallizzarsi un modulo costruttivo standardizzato). Ma un elemento contribuisce a complicare il quadro e cioè la sua precoce diffusione europea. Nonostante il riferimento nominale alle sue origini italiane non si perda nel corso del secolo la sala a palchetti diviene infatti per i grandi teatri d’opera un modello dell'Ottocento europeo più che italiano, ripetuto a San Pietroburgo come a Barcellona. Cfr. G. Banu, I/ rosso e oro. Una poetica della sala all'italiana, Milano, Rizzoli, 1990.

60

i grandi auditorium che da metà secolo vengono costruiti in alcune città europee: le sale municipali vittoriane, che come a Leeds e a Manchester vengono utilizzate per gli spettacoli musicali ma anche per usi civici di vario tipo; o quelle strutture leggere come il Crystal Palace di Londra, che declinano per un zarget borghese il profilo dei pleasure gardens settecenteschi”!, La formula che in Italia prevale nettamente è quella del teatro di città, capace di contenere mediamente tra 600 e 1.200 posti nella propria tradizionale struttura a palchetti.

5.

Le città e i teatri-monumento

Se dall’interno spostiamo lo sguardo verso l’esterno dei nuovi edifici, qui si percepisce invece tutto il peso delle riflessioni settecentesche sulla forma teatro. Proprio per il suo spiccato ruolo civico la sala per gli spettacoli doveva risultare ben riconoscibile nella trama edilizia urbana, di-

versamente da quegli edifici primosettecenteschi dove secondo il Milizia «se non si scrive al di fuori Questo è un teatro nemmeno Edipo ne indovinerebbe l’uso». Per i progettisti e i committenti di inizio secolo diventa allora decisivo lo studio del prospetto di facciata e del suo rapporto con la città, in funzione di costruzioni che sono generalmente isolate, dalla presenza monumentale rimarcata e quando possibile prospettivamente felice. Si moltiplicano così le facciate dalle linee neoclassiche che richiamano l’idea del tempio, dove gli elementi costanti, timpano e colonne, si affidano per lo più ad un eclettismo che spazia disinvoltamente dalla classicità greca al rinascimento, ma sempre «portando in fronte», come si disse per la ristrutturazione del San Carlo, il carattere dell'uso cui era destinato. E poi in-

71 Sulla novità tipologica e l'audience dell’edificio londinese si veda Michael Musgrave, The musical life of the Crystal Palace, Cambridge University Press, 1995. Per il caso delle sale municipali vittoriane, come la Leeds Town Hall del 1858 e la Manchester Town Hall del 1868 si veda M. Forsith, Edifici per la musica, Bologna, Zanichelli, 1987.

61

gressi maestosi, almeno nelle intenzioni e in proporzione al rango cittadino, ornati di colonne e riccamente

decorati,

che introducono gli spettatori ad una sala dove dipinti e decorazioni sia delle volte che dei sipari sono spesso dedicati a celebrare la storia e i fasti del passato locale”. L'aspetto costruttivo del processo di cui abbiamo parlato sembra mantenere in realtà pochi rapporti con gli sviluppi culturali che nel frattempo attraversa la vita teatrale del periodo. La diffusione capillare dell’edificio teatro nella prima metà dell'Ottocento ha in sostanza ragioni proprie, che prima di riguardare la domanda di consumo teatrale proveniente dalle singole città, ha a che fare con lo stato della facies urbana, con le ambizioni rappresentative della comunità e con la sua attitudine ad attrarre il territorio circostante, e naturalmente con le strategie economiche e sociali della sua classe dirigente. E chiaro infatti che se le costruzioni trovano spesso l’incoraggiamento, talvolta il supporto, in ogni caso generalmente non V’ostilità, delle autorità centrali di governo, è dalle località che le iniziative crescono, prendono forma e si concretizzano, o meno. Va allora specificato che il boom dell’edilizia teatrale

che ho fin qui considerato come un fenomeno unitario, con un qualche azzardo ma allo scopo di darne un primo profilo quantitativo, ha in sé molti risvolti diversi, almeno due dei

quali vanno nettamente distinti: e cioè da un lato la diffusione capillare sul territorio dei teatri pubblici come teatri monumento in cui è chiamata a riconoscersi l’intera collettività (quelli che ho chiamato appunto «teatri di città»); dall’altro lo sviluppo di un mondo più vario e mutevole di teatri ad iniziativa privata e a funzione più propriamente

commerciale che incroceremo d’ora in poi solo in modo occasionale’. ? Intorno alla realizzazione dei sipari nei nuovi teatri, che meritereb-

be una trattazione specifica, si animano spesso i dibattiti cittadini, divisi nella valutazione dell'immagine più rappresentativa dell'eccellenza locale. Ne riporta un esempio A. Brannetti, Teatri di Viterbo, cit., pp. 88-90.

# Questo significa escludere dal quadro considerato almeno trecento teatri che nel censimento sono segnalati di proprietà di singoli privati o di piccole società non palchettistiche.

62

Nelle vicende costruttive che ho cercato di seguire, la costruzione del teatro rappresenta un evento del tutto peculiare di modernizzazione della città, e nella retorica che

l’accompagna diventa l’anello principale di un processo di incivilimento a cui si vuole partecipare con tutte le consuete aspirazioni di eccellenza rispetto alle città vicine. Lo abbiamo visto a Cesena o a Viterbo, quando si pone la prima pietra dell’edificio, ma potrei descrivere situazioni analoghe in molti altri centri, quasi che la presenza di un teatro dotato di tutti i crismi del tempo — monumentalità, sala a palchetti, strutture collaterali di ritrovo — dovesse essere consi-

derato una sorta di obbligo civile al quale nessuna città poteva rinunciare in quanto rappresentativo dello «spirito dei tempi». Se allora costruire il teatro si deve, così dicono

i notabili che celebrano l'avvenimento, succede spesso che l'iniziativa diventi occasione per un intervento più ampio sulla forma urbana, a partire da quella straordinaria opportunità che si era aperta a inizio secolo con il riutilizzo dei terreni di proprietà religiosa, ex conventi, chiese, sedi di confraternite, che a cavallo tra Settecento e Ottocento passano di mano in gran numero. Gli interventi teatrali diventano così elementi particolarmente significativi di un processo di laicizzazione dello spazio urbano e dei suoi eventi festivi. Sia che si tratti di un’operazione governativa — come a Parma - sia che si inserisca in una logica di intervento privato, spesso accade che la costruzione del teatro sia l’occasione per costituire un nuovo

elemento

di gravitazione e

insieme di raccordo della vita urbana, in una fase in cui, dopo le iniziative di modernizzazione infrastrutturale di epoca napoleonica, l’edilizia pubblica era invece in fase di ristagno. Intorno alla progettazione del teatro si affollano quindi molte aspettative e spinte diverse, che riguardano la

valorizzazione del prestigio cittadino nel quadro regionale o provinciale, la volontà di rinnovamento del tessuto edilizio nelle sue parti centrali o nei borghi di espansione, e soprattutto l’esigenza di autoaffermazione di una élite dirigente, nuova, vecchia o mista che fosse.

Solo qualche esempio: una serie di cavalcavia coperti 63

collegano tra loro gli edifici della nuova area ducale parmense, di cui il teatro è lo snodo principale, ad individuare una sorta di inedito polo direzionale della città primotto-

centesca?”'; analogamente a Genova la soluzione progettuale adottata dalla Direzione dei teatri si snoda intorno ad un porticato continuo che parte dai fianchi del teatro facendone una sorta di cerniera tra la città antica e i nuovi sviluppi urbani verso levante”. A Firenze è un impresario privato a concepire l’idea di un’intera porzione di città dedicata allo svago. Immediatamente dopo il ritorno dei Lorena Luigi Gargani inizia infatti i lavori di un complesso teatrale polivalente che va ad occupare una zona strategica lungo l’Arno

e comprende un teatro notturno, uno er plein air e una sala da ballo, tutti racchiusi nel quadro pittoresco di una passeggiata-giardino per la buona società fiorentina (e non mancava anche qui come a Parma il passaggio diretto per l’accesso del duca al teatro)”. Ma se questi sono i maggiori, i casi in cui il teatro diventa l’elemento qualificante di un vero e

proprio ridisegno del tessuto urbano preesistente sono molti di più: si pensi a Foggia, che nel 1817 mette in cantiere insieme al Dauno un piano di opere pubbliche di vaste proporzioni; o a Bari, dove il Piccinni disegnato da Niccolini

nel 1836 va a collocarsi di fronte al nuovo Palazzo del governo, attribuendo nuova dignità al viale che divideva la città vecchia dai quartieri di espansione; o ancora al S. Elisabetta di Messina che diventa lo snodo di un sistema di piazze ottenuto dalla demolizione di una porzione consistente della città antica; ci sono infine casi come quello di

Carrara dove l’edificazione fuori porta del teatro degli Animosi nel 1840 va a segnare la direzione di uno sviluppo urbano di lungo respiro”. 74 M. Pincherle Ara, Parma capitale 1814-1859, in Le città capitali degli stati preunitari, Istituto per la storia del risorgimento italiano, 1988, o

VIZI

P_ Cfr. G.B. Vallebona, Il Teatro Carlo Felice, cit., pp. 11-12, e anche Il Teatro Carlo Felice di Genova. Storia e progetti, a cura di I.M. Botto, catalogo della mostra, Genova, Sagep, 1989. 76 Cfr. P. Roselli et al., I teatri di Firenze; cit. " Cfr. Teatri storici della Toscana, cit., vol. V: Massa Carrara e Lucca, PISO!

64

In molte di queste situazioni si mobilitano intorno all’operazione teatro interessi consistenti

e non possono sor-

prendere le grandi attese che la questione porta con sé, infuocando i dibattiti e la stampa locale e irrompendo nelle sedute dei consigli comunali, dove occasiona controversie estenuanti e talvolta indistricabili tra gruppi e fazioni diverse. Succede a Siracusa, dove la discussione sul nuovo teatro

dura decenni e si conclude solo a fine secolo. Tra le logiche che guidano questa disseminazione così puntuale del luogo teatro l'emulazione tra località gioca un ruolo importante, articolando una catena imitativa che dirama idee, progetti e talvolta progettisti sul territorio circostante. Già nell’ultimo decennio del Settecento i notabili di Casalmaggiore, di Cremona e di Soresina avevano iniziato le pratiche per la costruzione dei rispettivi teatri e naturalmente le tre vicende procedono guardandosi a vista, e tenendo presente quanto si stava facendo nel frattempo a Como’. Negli anni ’40 Ascoli Piceno, Spoleto e San Severino deliberano la costruzione di un teatro civico, che è affidato al medesimo progettista, l'architetto Ireneo Aleandri. Così Rimini, Fano,

Cesena iniziano quasi contemporaneamente le pratiche per l'edificazione. Il quadro di riferimento di questa sequenza emulativa ha nella maggior parte dei casi un campo regionale, se si escludono i modelli alti di confronto che rimangono, per tutti, La Scala e La Fenice. Ma si verificano anche curiosi richiami a luoghi lontanissimi, che sembrano alludere ad una circolazione dei progetti e dei progettisti più vasta di quanto non si immagini, come succede a Trani dove la sala edificata a inizio secolo segue il progetto del teatro di

Codogno in Lombardia”? E d’altronde per il teatro di Catania, che si vuole perfettamente al passo coi tempi, si assumono a modello i due maggiori teatri costruiti negli anni °20, cioè il Carlo Felice per le strutture e il Ducale di Parma per le decorazioni e gli ornati?°. Quali che siano i termini di 78 Cfr. Il Teatro di Casalmaggiore, storia e restauri, Cremona, Turris, 1990.

79 G. Protomastro, Cronistoria del Teatro di Trani, Trani, Vecchi, 1899, 35:

80 Cfr. A. Mazzamuto, Teatri di Sicilia, Palermo, Flaccovio, 1989, p. 53.

65

paragone succede spesso che nel momento in cui si decide di costruire vengano previsti viaggi di aggiornamento dei

progettisti verso teatri considerati di riferimento. Così l’architetto Sortino, incaricato del Teatro di Noto nel 1853, viene subito spedito a Napoli e a Messina per trarvi spunti e idee progettuali8!. Ci sono poi casi di particolari ambizioni europee come quelle di Carlo III di Borbone, che per il restauro e l'aggiornamento tecnologico del teatro di Parma invia nel ’54 una commissione apposita a Berlino, a Vienna e a Dresda. Ma ritorniamo alla questione iniziale. La decisione di costruire un teatro-monumento, cosa che comporta un’operazione finanziaria di non lieve entità, può seguire percorsi strategici molto diversi. Può collegarsi ad una fase di crescita della città, come una «promozione» amministrativa che rilanci il suo ruolo sul territorio (così avviene ad Arezzo, a

Bari o a Casalmaggiore), oppure proporsi come un modo di incentivarne un’economia in fase di ristagno, come avviene

a Bergamo con l’acquisto da parte comunale e il rilancio del teatro Riccardi*. La quantità di aspettative riposte sull’apertura del teatro rimangono comunque molte, non solo come principale luogo di pubblica sociabilità, ma come vetrina di presentazione della città all’esterno, come spazio dove accogliere i forestieri arrivati in occasione della fiera annuale, dove celebrare adeguatamente i sovrani di passaggio e i loro intendenti, dove festeggiare i genetliaci o le nozze reali, ma anche eventi speciali più moderni, come l’inaugurazione di

81 Ibidem, p. 28.

# La documentazione del viaggio è in ASPr, Carteggio, anno 1853, scat. 31-32. E lo stesso sovrano a redigere l’itinerario e a precisare in tutti i suoi particolari l'agenda del viaggio, che porta il soprintendente e il direttore-scenografo a visitare alcuni dei maggiori teatri europei a Londra, Parigi, Bruxelles, Dresda, Vienna e Berlino. Lo scopo è la ricerca

delle della 8 zione quale dello nale;

66

migliori soluzioni per l’installazione della nuova illuminazione a gas sala nonché per l’assetto della platea e dei palchi. La Delegazione provinciale di Bergamo scrive nel 1821 che l’abolidegli antichi privilegi aveva causato gravi danni alla fiera locale, la richiedeva sostegno con tutti i mezzi’ possibili, compreso quello spettacolo. Per questo si concede l'autorizzazione alla dote comuASMI, Spettacoli pubblici, p.m., b. 23.

una nuova rotabile o di un tronco ferroviario8!. Tutto ciò non poteva che prevedere un edificio architettonicamente rappresentativo e per questo anche costoso”. Lo abbiamo visto a Cesena, dove le posizioni di chi consigliava economie erano state subito accantonate. Chi dunque nella prima metà dell'Ottocento si adopera alla costosa costruzione di un teatro? La domanda è più complessa di quanto sia parso finora, dato che all’impressionante uniformazione delle tipologie costruttive fa riscontro una opposta ma altrettanto forte diversificazione delle tipologie proprietarie e gestionali. Questa tende ad attenuarsi procedendo nel secolo, quando lascia il posto ad una più netta distinzione tra i teatri pubblici, che sono ormai in gran parte municipali, e i teatri privati. Ma è solo il punto di arrivo di una vicenda che ha invece percorsi più tortuosi. Costruire un teatro-monumento è un’operazione talmente

consistente dal punto di vista finanziario — in un contesto economico povero di capitali com’è quello dell’Italia ottocentesca — da richiedere sempre il coinvolgimento di più soggetti, e talvolta un passaggio di competenze tra loro per far fronte a costi immancabilmente crescenti. Le relazioni tra istituzioni, individui e gruppi che si adoperano in questo senso ripropongono però in ogni caso una medesima

cointeressenza tra pubblico e privato che risale alle origini del sistema teatrale italiano e rimanda all’unità base del sistema stesso, cioè al palchetto8. Questo infatti non era solo uno spazio di ascolto e di conversazione, ma rappresentava il principale ingranaggio del sistema finanziario che aveva

consentito la costruzione di quell’insieme così cospicuo di edifici teatrali che abbiamo appena descritto. 84 Si veda l’inaugurazione nel 1854 della Genova-Torino, che viene festeggiata con una serata speciale a teatro, cfr. A. Basso, I/ teatro della città, cit., p. 280.

8 Nel Regno borbonico la rappresentatività dell’edificio è richiesta dalle stesse autorità e vagliata dalla Direzione ponti e strade, nonostante la normativa preveda solo teatri di piccola dimensione. Cfr. L. Zingarelli, Teatri nuovi e nuova domanda, cit., p. 960.

86 C. Meldolesi e F. Taviani, Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, CIEPRPLlIS.

67

La decisione di erigere un teatro, qualunque fosse il soggetto dell'iniziativa (la corte, il municipio, una società di notabili), era accompagnata infatti da una campagna di

prevendita delle singole logge e dei retropalchi presso la classe dirigente locale. La somma raccolta serviva a coprire in tutto o in parte i costi di costruzione dell’edificio e talvolta contribuiva a formare una prima tranche di risorse per la futura gestione, alla quale i proprietari dei palchi avrebbero poi contribuito con il pagamento di un canone annuo pat-

tuito tra le parti. Era il sistema della «privativa dei palchi», che suscitava tanta curiosità nei viaggiatori stranieri e sollecitava interesse negli addetti ai lavori, che come il grande impresario parigino Louis Veron si domandavano con un misto di invidia e di riprovazione se e come potesse funzionare un’organizzazione della vita teatrale basata sul fatto che «l’on est propriétaire d’une loge à La Scala comme on est propriétaire d’une maison». La chiave di volta del sistema consisteva nella dissociazione tra la proprietà dell’edificio teatro nel suo insieme e quella dei singoli palchetti, che permetteva un’ingegnosa condivisione di costi a lungo termine tra l’istituzione

promotrice e i singoli fruitori, anche se apriva intorno ai rapporti tra i due diritti di proprietà un margine di contesa sulla quale la giurisprudenza ottocentesca si misurerà ampiamente e con snervante frequenza. Al centro del quadro stava la figura, giuridica oltre che sociale, del palchista o palchettista, proprietario di uno spazio privato all’interno di un contenitore pubblico. In molte province d’Italia — così spiegava Rosmini il concetto di condominio teatrale nel suo compendio legislativo del 1873 — vi hanno ancora diverse case delle quali il piano terreno spetta ad un proprietario, il primo piano ad un altro, il secondo ad un terzo, e così via [...] così è della proprietà dei palchi i quali sono iscritti nelle tavole fondiarie, soggetti all'imposta dei fabbricati, suscettibili di ipoteca come ogni altra proprietà immobiliare88. #7 Cit. in B. Sanguanini, I/ pubblico all'italiana, cit., p. 134.

$ E. Rosmini, La legislazione e giurisprudenza dei teatri, Milano, Hoepli,

18933, p. 233. 68

6.

Tipologie proprietarie

Con il nuovo secolo il modello tradizionale del teatro di corte non sembra affatto aver esaurito le sue potenzialità, tanto che non solo vivono con rinnovato sfarzo quelli di origine settecentesca, il San Carlo a Napoli o il Regio a Torino, ma ne nascono di nuovi, come il Ducale di Parma o

il Carlo Felice a Genova, che in realtà viene promosso dal sovrano ma è poi ceduto subito al comune, in linea con una

predilezione sabauda di gestione municipale delle sale che arriverà ad includere anche il Regio®. Si riflette, anzi, nelle vicende ottocentesche di questi edifici la volontà delle diverse dinastie restaurate di rimarcare l’inizio di una nuova fase storica. E allora si ristrutturano teatri già esistenti, come il San Carlo che dopo l’incendio devastante del 1816 riapre con grande dispiego di risorse, con più di cento rappresentazioni l’anno, un organico orchestrale superiore a quello della Scala e la consuetudine della compagnia doppia di cantanti”. O si procede a rivederne i meccanismi di accesso, come succede al Regio di Torino, o se ne costruiscono di

nuovi, che come i due citati si vogliono adatti ad accogliere principi e re.

I teatri ci restituiscono insomma molto più di altre strutture l’immagine di una nuova centralità delle corti nell’Italia della Restaurazione, e in essi si rispecchia, con l'evidenza topografica tipica della sala all’italiana, uno sforzo di riorganizzazione delle gerarchie sociali che abbia il suo perno nelle rinnovate strutture cortigiane”. Nei teatri di corte infatti l'attribuzione di una «dignità» alle diverse parti della sala segue regole più rigide e codificate ed è soggetta ad un controllo più stretto che non negli altri teatri. 89 Tutto il processo di abdicazione in favore della municipalità è descritto in A. Basso, I/ teatro della città, cit., pp. 263-336.

9% Sul San Carlo cfr. J. Rosselli, Mazerzali per la storia socio-economica del San Carlo nell’ottocento, in Musica e cultura a Napoli, Firenze, Olschki, 1983; e anche AA.VV, I/ teatro di San Carlo, Napoli, Guida, 1987, 2 voll. 21 Sul ruolo rinnovato del re e della sua corte negli stati preunitari e

in particolare nel Regno borbonico si veda G. Montroni, Gl worzini del re. La nobiltà napoletana nell'Ottocento, Catanzaro, Meridiana libri, 1996.

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L'influenza delle corti fa sentire però il suo peso anche sulla vita dei teatri che non sono direttamente soggetti al loro controllo. Facendosi promotori della loro costruzione presso i municipi o le élite cittadine, come spesso avviene

nel Regno delle Due Sicilie o in Toscana, i sovrani acquisiscono il ruolo di sostenitori indiretti delle varie sale, ne le-

gittimano e ne impreziosiscono la vita comparendo periodicamente in quegli spazi loro appositamente riservati che sono i palchi reali e la cosa sembra spesso fungere da reciproca legittimazione, per i sovrani e per le élite del luogo. Ciò non deve indurre a pensare che questi abbiano una parte diretta, di supporto finanziario, nell’edificazione e nella gestione del sistema teatrale, se si escludono i pochi casi citati inizialmente. A ben vedere anzi i teatri di corte sono in Italia ben pochi rispetto alla situazione tedesca, e non soltanto per una minor quantità di corti ma per una più modesta propensione di queste ultime, in pieno Ottocento, al mecenatismo

culturale. Basti pensare che già dal 1845 a Torino si discute il progetto di cessione alla municipalità del Teatro Regio che avverrà poi nel 1856?, Quella che in Italia prevale è piuttosto l’immagine civica del teatro, quel legame con la località a cui ci si richiamerà ampiamente dopo l’unificazione nella discussione sulla sorte dei grandi teatri. L’unico caso ottocentesco in cui sia l’edificazione che la gestione della vita teatrale sono saldamente in mano alla duchessa e al suo ciambellano è quello di Parma, che presenta però tratti di evidente eccezionalità. La sua costruzio-

ne, per la quale verrà utilizzato a piene mani l’aggettivo «grandioso»”, va considerata infatti un tassello tutt'altro che marginale del progetto luigino di sviluppo del piccolo ducato, per la realizzazione del quale proprio la dimensione culturale pareva offrire un’ottima opportunità, quella di ritagliarsi un spazio padano di «petite capitale». Non è un 22 In Germania risultano attivi nel primo Ottocento almeno ventitré teatri di corte, lo ricorda T. Nipperdey, Corze la borghesia ha inventato il moderno, Roma, Donzelli, 1988, p. 13. Sul sistema tedesco cfr. C. Somi-

gli, Del teatro reale d'opera in Monaco di Baviera e del suo repertorio, in «Rivista musicale italiana», a. V, f. 1, Torino, 1898, pp. 721-753.

% Cfr. G. Ferrario, Storia e descrizione dei principali teatri, cit., pp. 143-150.

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caso che tra i primi provvedimenti presi al suo arrivo la duchessa promuova la riapertura dell’Accademia di Belle Arti e la ricostituzione dell’università, e che assuma subito

su di sé le competenze relative al teatro, fino ad allora comunali, con la nomina di un direttore degli spettacoli e la presentazione di un piano di riorganizzazione dell’orchestra”. Da subito si fa chiaro però che il teatro esistente non era né all’altezza di un tale compito” né adeguato a contenere le pretese di rappresentanza del vecchio e del nuovo notabilato cittadino, e dunque la sovrana decide di stanziare una cifra consistente per la sua riedificazione. Questa può contare così su un cospicuo stanziamento ducale, che viene giustificato anche nei termini di una «munificenza» sovrana, ossia come occasione di occupare la manodopera cittadina. D'altronde il teatro darà al piccolo ducato un cospicuo ritorno di immagine, costituendo per molti decenni una vetrina di rappresentanza di tutto rispetto, i cui modelli di riferimento si vuole che continuino ad essere europei e non solo nazionali. Nella gestione ducale del principale teatro cittadino giocano peraltro, oltre a questi motivi di prestigio esterno, anche ragioni forti di politica interna; in particolare lo sforzo di consolidare il proprio rapporto con l'élite locale e, contemporaneamente, di controllarne da vicino la vita sociale, entrambi obiettivi importanti in una situazione di sovranità imposta dall’esterno. % Con il Decreto sovrano 18 marzo 1816 «il governo assume la proprietà e l’amministrazione del Teatro di Parma che cessa di appartenere al comune», a cui era stato attribuito in epoca napoleonica. L'esperienza luigina si innesta in realtà su precisi precedenti settecenteschi. Qui a metà Settecento il ministro Du Tillot aveva assunto direttamente la Direzione generale dei teatri per fare del teatro grande una vera «casa del principe» controllata da vicino dal volere sovrano. Cfr. G. Ferrari, P. Mecarelli e P. Melloni, in Civiltà teatrale e Settecento emiliano, a cara di S. Davoli, cit., pp. 357-380.

Anche una viaggiatrice così incuriosita e ammirata dai teatri italiani come lady Morgan ne aveva sottolineato le condizioni miserevoli quando, sostandovi una sera del 1819, aveva trovato una sala «extremely small, mean, filthy, ill-lighted, and shaped like a double square, long and narrow», dove l’ex imperatrice di Francia — sottolineava con stupore — occupava un palco ducale povero e decorato volgarmente, cfr. Lady Morgan, Italy, London, Henri Colbourn and C., 1824, vol. I, p. 475.

pal

Come teatro di corte solo potenziale il caso di Genova mostra chiaramente quale fosse invece il percorso in quel momento più consueto, cioè la volontà dei sovrani di delegare quanto prima le competenze teatrali, fonte di spese considerevoli e crescenti, cedendole

alle autorità locali.

Appena salito al trono Carlo Felice aveva espresso la precisa volontà di dotare anche la «seconda capitale» di un teatro adeguato e aveva nominato una Direzione dei teatri com-

posta dalle maggiori autorità cittadine e da ventiquattro membri «nobili per probità e per censo». Ma una volta edificata e inaugurata la nuova sala con il nome del re e con lo sfarzo di un’occasione reale, questa viene immediatamente ceduta per la gestione al Corpo decurionale cittadino, sul quale cade l'obbligo di pagare la dote annua”. Accollarsi i costi di un teatro di città dove non risiede la corte, quando già appariva difficile la situazione finanziaria del teatro primario, sembrava del tutto impensabile e inopportuno ad Ottocento ormai inoltrato”. Se le autorità statali rimangono un soggetto attivo di iniziativa relativamente ai teatri, è però molto più frequente che queste esercitino condizionamenti esterni su vicende che mantengono una forte impronta notabilare e uno spessore di tipo locale. La situazione più consueta è che l’iniziativa di costruire una sala teatrale parta direttamente dai palchettisti, da un consesso ristretto di nobili e di notabili,

che decidono di realizzare il progetto costituendosi in so9% Sulle vicende del Carlo Felice cfr. G.B. Vallebona, I/ Teatro Carlo Felice, cit.; Il Teatro Carlo Felice di Genova, storia e progetti, cit.

” D'altronde un passaggio analogo di proprietà e di competenze era avvenuto anche a Piacenza, dove la duchessa di Parma già nel 1816 aveva effettuato l'operazione esattamente inversa a quella compiuta nella capitale, e cioè aveva ceduto al comune la proprietà della sala teatrale che era fino a quel momento di competenza demaniale. In questo caso si era instaurata però una inedita gestione congiunta governativa e comunale

che confermava l’interesse della corte luigina per una politica di sostegno diretto ai teatri: alla sala piacentina era garantita cioè una dote concessa in ugual misura da governo e comune, e pari a sua volta al canone pagato dai palchisti, mentre l’amministrazione era affidata ad una deputazione eletta all’interno dell’Anzianato cittadino le cuî deliberazioni richiedevano però il parere ministeriale e la sovrana approvazione; cfr. E. Papi, I/ Teatro Municipale di Piacenza, cit., pp. 48 ss.

Ta

cietà, ed edificano un cosiddetto teatro sociale, oppure lo propongono all’attenzione delle autorità municipali (nei cui seggi — intendiamoci — siedono spesso i medesimi personaggi) perché ne assumano il carico costruendo un teatro civico. Sulla diversa piega che la vicenda assume si riflettono tradizioni pregresse e consuetudini associative locali, ma un ruolo importante è giocato anche dall’atteggiamento e dalle pratiche imposte, o più morbidamente incoraggiate, dalle autorità centrali. La diversità delle direttive impresse da questo punto di vista nei vari stati fa sì che la diffusione delle diverse tipologie mostri in effetti una spiccata fisionomia territoriale. Il modello più diffuso al centro-nord rimane quello che viene definito, a seconda delle zone, «sociale» o «condominiale», il cui più illustre precedente era La Fenice veneziana, ma che era stato sperimentato già nel corso del Settecento in molte varianti locali. La formula societaria, e la condivisione

allargata dei rischi che questa consentiva, ottiene però un successo crescente una volta varcata la soglia del XIX secolo, andando definitivamente a sostituire l’iniziativa del sin-

golo nobile o della singola famiglia patrizia che era stata invece consueta nella prima tranche diffusiva dell'impresa teatrale. Le alterne fortune dei patrimoni nobiliari fa sì anzi che nel corso del periodo che stiamo affrontando si verifichino piuttosto molte operazioni di cessione (o quantomeno tentativi reiterati di cessione) da parte di famiglie nobiliari che sostengono di non essere più in grado di assolvere al compito sempre più costoso di gestire le sale. La baronessa ossequiosamente l’espone — così scrive la vedova del barone Candido all’Intendente provinciale di Terra di Bari — che il defunto marito non solo fece a società di altri due soli individui costruire il Teatro di Trani, ma quasi solo a sue spese lo fece per la seconda volta ricostruire nel 1806. Le circostanze della fami98 All’iniziativa di alcune famiglie nobili veneziane, come quella dei Grimaldi e dei Vendramin, si deve la nascita e la prima diffusione del modello impresariale che crea il genere stesso dell’opera in musica, «in quella venezianissima operazione di compromesso estetico-musicale che consisteva nel produrre “una pompa” simile a quella dei principi ma fatta per “negozio”» (L. Bianconi, Storsa dell’opera e storia d'Italia, cit., p. 10).

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glia Candido cambiarono di assai dopo il 1806 ed ora disgraziatamente sono piuttosto in disordine.

Per questo chiede l’intervento del pubblico erario che rilevasse l’edificio, bisognoso tra l’altro di un cospicuo restauro”. Declinanti ed anzi in difficoltà crescenti le iniziative nobiliari, al nord è piuttosto la società tra palchisti a diventare la modalità di gran lunga più praticata per realizzare le costruzioni, costituendo tra l’altro una delle declina-

zioni societarie più diffuse, a tutte le scale della gerarchia urbana, nei primi decenni della Restaurazione. Stupisce anzi che l'ondata di studi sull’associazionismo d’élite che ha attraversato di recente anche la storiografia italiana abbia ignorato questo aspetto particolare del fenomeno che è stato

invece precoce e diffuso, oltre che specificamente italiano!%, Nella sua forma sociale, il teatro finisce così per rappresentare entrambe le anime di quello spirito di associazione che forgiava l’epoca che si stava vivendo e su cui appunto la storiografia si è cimentata, cioè quella della sociabilità informale, tipica di uno spazio ricreativo in cui si entra pagan-

do un biglietto d’ingresso, e quella del consesso societario formalizzato, alle riunioni del quale era riservata una delle molte stanze di servizio presenti negli edifici teatrali ottocenteschi. Non è un caso che in questi ultimi, in un profluvio crescente di specchi, tendaggi e decorazioni, crescano rispetto al passato gli spazi di rappresentanza e di ritrovo, a confermarne il ruolo di contenitore principale della vita sociomondana cittadina: da Messina a Reggio Emilia i nuovi teatri comprendono spazi per il caffè, per la cena, per la conversazione, per il gioco (che è invece espressamente vietato, non sappiamo con quanto successo, all’interno dei palchi!%),

proponendosi come luoghi autosufficienti per il /oistr. ” G. Protomastro, Cronistoria del teatro di Trani, cit., pp. 52 ss.

1° Per un quadro bibliografico e tematico su questo filone di studi rimando a D.L. Caglioti, Associazionismo e sociabilità d'élite a Napoli nel XIX secolo, Napoli, Liguori, 1996; e a L. Cerasi, Identità sociali e spazi delle associazioni. Gli studi sull'Italia liberale, in «Memoria e ricerca»,

dicembre 1997, n. 10, pp. 123-145. !0! A. Ghislanzoni ricorda in uno dei suoi quadri autobiografici che in

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Nel corso del Settecento molti teatri erano stati il frutto di un investimento promosso da Società di Nobili o di Cavalieri, più o meno ristrette nei vari casi, costituite per rac-

cogliere tra i soci i capitali necessari alla costruzione!®, Così era successo a Pavia (1770), a Senigallia (1752), a Cremona (1785), ma anche in centri minori come Casalmaggiore, quando il centro lombardo era stato promosso ad un nuovo rango amministrativo dalle riforme teresiane!”, Si trattava però di forme societarie in parte diverse da quelle che si sviluppano nel secolo successivo, in particolare perché rimaneva netta la distinzione tra la proprietà del teatro (nobi-

le e ristretta a pochi soci) e gli acquirenti dei palchi, che appartenevano ad un notabilato più allargato a cui ci si rivolgeva per la vendita una volta presa la decisione di costruire o magari dopo la costruzione. Ne rimangono esempi funzionanti

ancora

in pieno Ottocento,

come

il Teatro

Rangone di Modena o il condominiale di Pavia, ma la gran parte di essi hanno ormai modificato, come

a Padova, la

propria ragione sociale!®, Nel censimento da cui sono partita i teatri la cui proprietà viene definita «sociale» o «condominiale» sono 170, a cui se ne aggiungono una ventina a proprietà mista, che

significa sociale e municipale insieme. Almeno l'80% di essi non appartiene a quella prima fase e denuncia un’origine teatro si giuocava non solo nel ridotto ma negli stessi palchi durante la rappresentazione (Storta di Milano 1836-1848, in Capricci letterari, Bergamo, 1886-89, vol. II).

102 Cfr. F. Piperno, Impresariato collettivo e strategie teatrali. Sul sistema produttivo dello spettacolo operistico settecentesco, in Civiltà teatrale e Settecento emiliano, cit., pp. 345-356. 19 A Cremona una Società del teatro composta da 12 cavalieri aveva rilevato la proprietà dell’antico teatro dal marchese Nazari (cfr. E. Santoro, Il Teatro di Cremona 1801-1850, cit., pp. 62 ss.); a Senigallia cinque nobili

del luogo avevano progettato di unire al grande evento annuale della Fiera una stagione teatrale e nel 1752 avevano inaugurato il teatro (cfr. A. Albani, M. Bonvini Mazzanti e G. Moroni, I/ Teatro a Senigallia, Milano, Electa, 1996, pp. 30 ss.); a Casalmaggiore dodici cittadini consociati avevano chiesto la regia autorizzazione a costruire dopo che il centro era stato dichiarato «città» con preminenza sul circondario (cfr. Il Teatro di Casalmaggiore, cit.).

104 B. Brunelli, I teatri di Padova dalle origini alla fine del secolo XIX, Padova, Libreria A. Draghi, 1921, pp. 107 ss.

dI

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|

Fic. 1.11. Una mappa dei teatri sociali.

ottocentesca. Si tratta di teatri che spesso riportano la sola denominazione di «Sociale», priva di una titolazione più connotativa, che non fa che rimarcare proprio la loro fisionomia di patto collettivo tra i maggiorenti della comunità. Balza agli occhi una loro concentrazione territoriale molto netta che si dipana lungo due fasce geografiche: al nord, 76

nella maggior parte delle province piemontesi, lombarde e venete; al centro, dove viene utilizzata più di frequente la denominazione di «condominiale», si addensano invece, ma

in minor misura, nelle Marche e in Umbria. Più episodica la loro presenza in Emilia Romagna, mentre mancano del tutto al sud, dove la proprietà dei teatri che non siano di corte si polarizza nettamente tra municipi e privati e non prevede articolazioni intermedie, e infine in Toscana, dove se ne

diffonde una variante specifica, quella del teatro accademico, che merita uno sguardo a sé. In che consistono allora queste forme societarie teatrali? Sono consessi che ricordano più da vicino le società per azioni, nel senso che si costituiscono tra concittadini-azioni-

sti allo scopo di costruire un edificio teatrale del quale ogni socio acquista un’azione, ossia un palco. Talvolta anche due palchi, ma spesso non più di due, secondo una condizione statutaria che sembra voler prevenire controlli azionari più consistenti sul teatro da parte delle famiglie più influenti!, Le società non prevedono in genere esclusioni di sesso: le donne sono ammesse alla proprietà dei palchi, e dunque a far parte della società, ma non partecipano alle adunanze, dove sono rappresentate per procura, come succede in altri consessi societari di profilo aristocratico! La vita della società si organizza interamente intorno all'operazione costruttiva, di cui segue e indirizza le diverse fasi (la scelta del luogo e del progettista, l'appalto dei lavori e la conduzione di questi ultimi, fino all’organizzazione dell’inaugurazione), e in seguito intorno alla gestione annuale della programmazione, che viene affidata ad un impresario. Se i primi passi dell’iniziativa si devono, come succedeva in precedenza, ad un gruppo più ristretto di notabilipromotori che comincia ad elaborare un progetto di statuto societario e traccia le prime linee dell’intervento, il secondo passaggio prevede invece la chiamata a raccolta di tutti i 105 Ho trovato questa condizione limitativa negli statuti di Treviso. Cfr. Regolamento del teatro di società in Treviso, approvato dalla società e dal governo con decreto 4 aprile 1846, Treviso, 1846. 106 M, Meriggi, Milano borghese, cit., p. 199.

VY.

cittadini interessati all’iniziativa, con l'apertura delle sottoscrizioni per l'acquisto dei palchi!”. Lo statuto della società di Treviso, che viene approvato nel 1846!%, ci mette subito

di fronte a qualcosa di diverso da una ristretta società di cavalieri, anche se non ad una società per azioni in senso stretto, dal momento che alcune clausole condizionano, in modo inconsueto, la libertà degli azionisti. La società è costituita tra tutti i 65 possessori dei palchi delle prime tre file, di modo che ogni palchista è anche socio. Ogni palco, inoltre, rappresenta una sola ragione societaria, cosicché più

proprietari di un medesimo palco non esercitano che un voto. Spesso si raccomanda anzi la costituzione, in caso di

condivisione di un palco, di una società tra i comproprietari che nomini il proprio responsabile incaricato di partecipare alle riunioni deliberative. Ho trovato una sola eccezione a questa norma, ad Ottocento avanzato, espressa nello statuto del teatro di Recanati, dove in onore al principio gerarchico che informava la struttura del teatro all’italiana si rimarcava una precisa distinzione di status tra gli azionisti: la Congregazione dei condomini comprendeva infatti tutti i proprietari dei palchi ma nelle occasioni deliberanti i condomini degli ordini nobili avevano diritto ad una voce e gli altri solo a mezza voce. Come si può immaginare si tratta di uno

dei teatri dalla fisionomia più tradizionalmente aristocratica, voluto da Monaldo Leopardi che si vuole abbia personalmente redatto lo statuto!®, Alla società, continuo a leggere dalla carta di Treviso,

appartiene il dominio sull’intero fabbricato e ai singoli palchisti il possesso e il godimento dei palchi e dei camerini annessi. Per questi spazi si raccomanda

però una precisa

107 A Viterbo è il conte Tommaso Fani Ciotti a raccogliere nel 1844 le. prime settanta adesioni alla società di costruzione, cfr. A. Brannetti, Tea-

tri di Viterbo, cit., p. 77. A Voghera il primo progetto viene particolar mente seguito da un grosso negoziante locale in ascesa; cfr. A. Maragliano, I teatri di Voghera. Cronistoria, Casteggio, Tip. Cerri, 1901.

!08 Regolamento del teatro di società in Trewiso, cit. 109 G. Radiciotti, Teatro musica e musicisti in Recanati, Recanati, Tip.

R. Simboli, 1905; cfr. in proposito anche M. De Angelis, Leopardi e la musica, Milano, Ricordi-Unicopli, 1987.

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uniformità di materiali, di colori, di accessori d’arredo. Re-

sta inteso inoltre che la vendita o l’affitto di un palco viene sottoposto all'approvazione della società, che si riserva in sostanza l’ultima parola sull’ammissione dei nuovi soci. I soci vengono convocati annualmente per deliberare sugli indirizzi generali dell’operato societario e ogni tre anni votano per l’elezione di un organo di presidenza, generalmente composto di tre persone, che rappresenta e amministra la società, e cioè in buona sostanza riscuote i canoni annuali

dei palchi, cura la manutenzione della sala, stipula i contratti e tiene i rapporti con gli impresari e con le compagnie

teatrali. Sono le deputazioni dei teatri, soggetti principali, insieme agli impresari, dell’organizzazione del circuito teatrale, la cui nomina doveva essere sottoposta all’attenzione delle autorità centrali per la necessaria approvazione, come ogni altro organo direttivo di un consesso associativo. Le consuetudini austriache erano piuttosto attente da questo punto di vista: il controllo scattava a partire dall’approvazione dello statuto ma continuava poi durante la vita della società, come provano numerose sollecitazioni o vere e pro-

prie contese tra deputazioni e autorità centrali che emergono dalle carte d’archivio. La convocazione delle adunanze plenarie non poteva d’altronde essere ritenuta legale se non alla presenza del Delegato o rappresentante politico prescelto dal Commissario distrettuale, una figura che era comparsa nell’associazionismo di età napoleonica e non era mai più uscita di campo, a rappresentare la presenza costante dell’occhio dell’autorità!!°. Che l’incoraggiamento al costruir teatri fosse collegato strettamente alle buone potenzialità di sorveglianza che questi consentivano non doveva peraltro essere un mistero.

Ci troviamo dunque di fronte ad un patto a base locale tra i maggiorenti della città, mutuato nelle sue modalità dalle pratiche nobiliari settecentesche, il cui intento era quello di crearsi un proprio spazio ricreativo che però, a differenza dei casini nobiliari o delle società tra notabili, aveva una ricaduta sull’intera comunità, ospitata almeno virtualmente 110 Cfr. M. Meriggi, Milano borghese, cit., pp. 33 ss.

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negli spazi di platea, in loggione, o nell'ultima fila delle logge, generalmente non di proprietà. Dalle carte d’archivio provo allora ad estrarre una sorta di percorso-tipo relativo alla costituzione di una società per il teatro, che pur riferendosi al comune cremonese di Soresina può essere indicativa dell'andamento di molte altre vicende analoghe. Qui diversi possidenti del comune, così scrive

nella sua relazione del marzo 1839 il delegato provinciale, si erano proposti di costruire un teatro sociale e avevano sti-

pulato tra loro una convenzione!!!. La borgata comprendeva una popolazione di oltre 7.400 abitanti, tra cui si contavano molte agiate famiglie di possidenti e commercianti che «non sanno come distrarsi dalle giornaliere occupazioni» e dunque vedono nel teatro un’occasione ricreativa importante. Essendo presente in loco un commissariato distrettuale con distaccamento di gendarmeria, il delegato scrive di non vedere ostacoli al mantenimento costante del buon ordine,

a proposito del quale peraltro giungevano notizie positive anche dall’autorità di polizia. Nulla di particolare emergeva infatti sulle qualità personali degli azionisti, che risultavano «tutti forniti di comodi mezzi», e dunque in grado di provvedere agli obblighi societari. All’atto di approvazione si sottolineava però con fermezza la necessità di una costante sorveglianza da parte del commissario distrettuale che avrebbe nominato una commissione per valutare solidità e decenza della costruzione, anche sotto il profilo decorativo e pittorico; che avrebbe partecipato ad ogni adunanza societaria; che avrebbe infine provveduto alla corretta revisione censoria, per la quale i funzionari addetti avevano l'obbligo

di intervenire ad ogni spettacolo. In questo quadro di vigilanza stretta l'approccio societario non è soltanto tollerato dalle autorità austriache ma viene quando possibile incoraggiato e promosso tra i notabilati locali, contrariamente all'impegno finanziario diretto del municipio nei confronti del teatro che veniva generalmente considerato rischioso. Forme di autorganizzazione notabilare sono sollecitate persino quando non si tratta di costruire un !!! Il fascicolo è in ASMI, Spettacoli pubblici, punsib. 53.

80

nuovo

teatro ma

soltanto, come

a Bergamo,

di costituire

una società che funga da rappresentanza formalizzata dei palchisti affittuari di fronte al privato proprietario!!. In materia teatrale, come

nelle molte declinazioni societarie

ricostruite da Meriggi nella Lombardia austriaca, la presen-

za di corpi intermedi che organizzassero la società civile, purché rispettosi della norma che per ogni adunanza voleva la presenza di un rappresentante centrale, sono percepiti dalle autorità austriache come un elemento potenzialmente positivo, che consentiva l’esercizio di un controllo quotidiano sugli umori dell'opinione pubblica!!, Più cauto, se non ostile, rimaneva invece l’atteggiamen-

to nei confronti della richiesta di dote municipale, che a partire dagli anni ’30 si fa insistente da parte di quasi tutti i teatri in attività. La concessione di sussidi pubblici ai teatri è una pratica che si afferma diffusamente nel corso del secolo, a coprire costi di allestimento crescenti, alte ambizioni nella programmazione e anche, come vedremo, introiti serali scarsi. Mentre i teatri di corte o i grandi sociali come La Scala basano la propria attività su una crescita progressiva e consistente della dote governativa, i teatri sociali e accademici di piccola e media dimensione puntano sul contributo municipale, che spesso peraltro ottengono. In LombardoVeneto quelle richieste vengono inizialmente respinte dalle autorità centrali e concesse solo dopo veri e propri bracci di ferro con le rappresentanze locali, le quali come a Verona possono assumere il sussidio al teatro come punto qualificante della propria campagna elettorale!!4. Della dote comunale godono invece immancabilmente i teatri che nascono municipali, cioè per iniziativa di consigli e decurionati con il coinvolgimento successivo della cittadinanza per l’acquisto dei palchi. Questo secondo modello proprietario è particolarmente diffuso nelle Legazioni pon-

112 ASMi, Spettacoli pubblici, p.m., b. 23. 13M. Meriggi, Milano borghese, cit. 114 Cfr. E. Tonetti, Governo austriaco e notabili sudditi. Congreagzioni e municipi nel Veneto della Restaurazione (1816-1848), Venezia, Istituto

di Scienze, Lettere e arti, 1997, pp. 276 ss.

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tificie, sulla scia del maggiore e uno dei più antichi tra questi cioè il Comunale di Bologna, e risulta pressoché l’unica tipologia proprietaria esistente nel Regno borbonico, se si escludono

i non numerosi

teatri privati. Giocano

qui in

contemporanea la diffidenza borbonica nei confronti dello spirito di associazione e le difficoltà incontrate dalle iniziative provenienti dalla società civile nell’assumere una sufficiente forza propositiva autonoma!!. Al sud i teatri sono dunque in grande maggioranza di proprietà e di gestione municipale, con i limiti che questo comportava. Le iniziative dei Decurionati cittadini potevano risentire infatti, molto più delle società espressamente nate intorno al progetto teatrale, sia della rissosità dei consessi municipali, che rendeva

in molti casi lunghe e controverse le vicende costruttive, sia delle loro scarse capacità finanziarie, che rendeva difficile provvedere il teatro di una dote costante. Se allora la smania edificatoria si diffonde negli anni considerati anche al sud, qui la vita dei teatri appena costruiti appare generalmente più fragile, instabile e solo raramente inserita nei maggiori circuiti impresariali. Mi pare significativo il caso del teatro di Foggia la cui costruzione era stata imposta nel 1817 dall’intendente provinciale ad un Decurionato assai riluttante. Dopo un’apertura in grande stile, che si era voluta dimostrativa del nuovo corso della politica borbonica nei confronti dell’intera regione, la sala viene definita solo pochi anni dopo «in drammatico stato di abbandono», a segnalare un impegno scarso e discontinuo delle autorità locali nei suoi confronti!!, Molto diverso il caso dell’altra zona in cui prevalgono le strutture municipali, cioè l’Emilia Romagna e le Marche. Qui le autorità locali sembrano investire con maggiore convinzione e a fronte di una più lunga esperienza sui teatri di città, rispetto ai quali non è raro che si richieda un coinvolgimento allargato della cittadinanza in termini di tributi ad hoc. A Senigallia a partire dal 1816 concorrono a formare la dote per il teatro sia i proprietari delle logge che il corpo dei 115 Cfr. D.L. Caglioti, Associazionismo e sociabilità d'élite, cit.

!!© L. Zingarelli, I/ sistema teatrale in Puglia, cit., pp. 251 ss.

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Negozianti, «in proporzione approssimativa della ricchezza dei rispettivi negozi»!!”. A Reggio Emilia il piano finanziario elaborato da Carlo Ritorni per la costruzione del gran teatro prevedeva un aumento dei tributi che pesavano sia sui proprietari terrieri, coinvolgendo la tassa di irrigazione e quella sul bestiame, sia sui negozianti, prevedendo di toccare l’imposta sulle botteghe in tempo di fiera e le tasse su osterie e caffè. Ad Ancona invece iniziativa sociale e municipale procedono parallelamente e l’atto notarile che a costruzione ultimata suggella il reciproco accordo prevede che «l’uso del teatro sarà dell’intera popolazione di Ancona dimodoché alla Società non sarà mai permesso di convertirlo ad altro oggetto, né venderlo, demolirlo, depauperarlo...»!!8. Del tutto a sé stante in quanto a tipologie proprietarie è

il caso toscano, attraverso il quale si mostrano tutte le potenzialità di trasformazione e di adeguamento di un modello associativo tradizionalmente consolidato come quello accademico!!. Anche se la vocazione teatrale era presente nei geni stessi dell'esperienza accademica e nelle sue funzioni culturali e socio-mondane, i suoi sviluppi ottocenteschi mostravano di essere per gran parte sganciati da quelle origini. La diffusione dei teatri accademici nella prima metà del secolo va vista infatti come una declinazione particolare, una sorta di versione toscana, dello sviluppo dei teatri sociali, dei quali ripropone il meccanismo azionario di fondo, sovrapponendo però ad esso quello più localmente radicato della forma accademica. Non si tratta soltanto di una sorta di consuetudine associativa delle élite che si rinnova nel 117 G. Radiciotti, Teatro, musica e musicisti in Sinigaglia, Bologna,

Forni, 1893, p. 27.

118. A. Fazi, I teatri di Ancona, Ancona, ed. Sagraf, s.d., p. 22.

119 Sulla forma accademica e la sua evoluzione ottocentesca cfr. A. Quondam, L'Accademia, in Letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1982,

vol. I, pp. 823-898; R. Romanelli, I casino, l'accademia e il circolo. Forme e tendenze dell'associazionismo d'élite nella Firenze dell'Ottocento, in Fra storia e storiografia, Scritti in onore di Pasquale Villani, a cura di P. Macty e A. Massafra,

Bologna, Il Mulino,

1994, pp. 809-851; L. Cerasi, Tra

accademia e professione. Esperienze di associazionismo culturale nella Firenze del secondo Ottocento, in «Rassegna storica toscana», XLIII, n. 2, luglio-dicembre 1997, pp. 337-380.

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tempo applicandosi a campi diversi, ma della conseguenza di una precisa politica granducale, tanto è vero che non ritroviamo casi del genere nemmeno nel Veneto, dove erano nati in passato alcuni dei maggiori teatri accademici italiani, come il Nuovo di Padova o l’Eretenio di Vicenza. Mentre in area veneta si apriva infatti la stagione dei teatri sociali, nella Toscana della Restaurazione si avviava una seconda fase, quantitativamente molto più consistente, di teatri accademici, edificati sia da accademie di antica tradizione, come erano i Rozzi di Siena, che da altre costituite 44

boc, tanto che le formazioni accademiche diventano il principale soggetto collettivo organizzatore della vita teatrale nei centri toscani. Ottantotto dei teatri censiti risultano di proprietà e (per

lo più) di gestione accademica, e di questi solo 16, tutti settecenteschi, sono localizzati fuori dalla Toscana!?°, Si tratta

di aggregazioni che conservano ben poco, al di là dei nomi bizzarri e ricercati, del «raduno dei virtuosi» o del cenacolo

patrizio di antica memoria, e che tuttavia richiedono il formale riconoscimento come accademie e si dotano di uno statuto acconcio allo scopo, passaggio obbligato per consentire l’apertura e la gestione della sala visto che garantiva il problema delicato del controllo giornaliero delle sale. L'ordinamento

amministrativo toscano non prevedeva in-

fatti una Direzione generale per gli spettacoli come esisteva nella maggior parte degli altri stati e demandava alla strutture accademiche stesse, che garantivano per statuto il controllo e l’ispezione serale, la mediazione tra le autorità governative e i teatri. In molti casi la costituzione in accademia segue dunque la costruzione stessa del teatro da parte di private società. La vicenda del Petrarca di Arezzo è molto chiara a questo proposito: nel 1830 si costituisce una società tra cinque promotori che stilano il progetto e vendono i palchi. Nell’atto di vendita si specifica che tra tutti i proprietari dei palchetti verrà formata un’accademia. Ai soci

costruttori sarebbe spettato il compito di stilare il regola120 Almeno una ventina di questi sono definiti ormai come «raramente aperti» e suggeriscono un'immagine di avanzato declino.

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mento interno che doveva essere approvato dagli accademici e infine ottenere il necessario place? sovrano. È il riconoscimento granducale, insieme ad una particolare soluzione del problema del controllo sulle nuove strutture teatrali, che fa in sostanza della costituzione in accademia una condizione indispensabile per l'apertura di una sala in territorio toscano e spiega il perdurare di questa forma organizzativa lungo tutto il corso del secolo. Il quadro delineato pecca di qualche rigidità rispetto all'esperienza reale che è a dire il vero più mossa e diversificata, e cioè prevede ad esempio casi frequenti di proprietà mista, municipale e sociale insieme, come ad Ancona, e so-

prattutto nel corso del secolo numerosi passaggi di proprietà in direzione di una progressiva acquisizione da parte dei municipi dei teatri di società. L'operazione costruttiva ri-

chiedeva infatti uno sforzo notevole, che si amplificava quando, ad edificazione avvenuta, si trattava di garantirsi sufficienti entrate annue per la gestione e potevano sorgere tra i

soci le prime difficoltà. Se cioè come società di costruzione le nuove formazioni societarie riuscivano nella maggior par-

te dei casi a raggiungere il loro obiettivo!?!, non altrettanto poteva dirsi della loro vita successiva. Un dato che accomuna pressoché tutte queste vicende è infatti l’esaurirsi più 2! In realtà non mancano i casi in cui invece l’operazione non riesce, perché non sempre l’élite cittadina si dimostra interessata e disposta all'investimento. A Rovigo nel 1819 si era costituita una Società per la costruzione del teatro che aveva ottenuto la necessaria autorizzazione del governo austriaco e contava sulla proprietà di un’area appartenuta ad un piccolo convento soppresso a fine Settecento. A statuto approvato l’esito della vendita dei palchi era risultato però insufficiente rispetto al preventivo di spesa, tanto che erano state costrette ad intervenire sia la Congregazione municipale che la Cassa di risparmio locale. Lo stesso presidente della società Antonio Gobbati, futuro colonnello della guardia nazionale, aveva in seguito più volte integrato le finanze disastrate del teatro, come illustrano L. Traniello e L. Stocco, I/ Teatro Sociale, gli altri teatri e

l’attività musicale a Rovigo, Rovigo, Minelliana, 1970. A Voghera l’Intendente si era impegnato in prima persona nel 1820 per la costituzione di una società di azionisti raccogliendo 84 adesioni, però il progetto era abortito di fronte alla modesta disponibilità finanziaria e alle difficoltà di acquisizione del terreno adatto. In questo caso bisognerà attendere fino al 1845 perché le condizioni locali risultino favorevoli, cfr. A. Maragliano, I Teatri di Voghera, cit.

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rapido del previsto dei fondi stanziati inizialmente per coprire l’intero processo costruttivo. Le cifre preventivate si rivelavano quasi sempre inadeguate a coprire interventi che si volevano ricchi e monumentali. Ciò finiva spesso per ri-

chiedere qualche forma di intervento straordinario, prolungava talvolta di anni la realizzazione, e ricadeva infine negativamente sul consolidarsi della gestione. Non è raro cioè che dopo i primi anni di attività, e magari stagioni inaugurali di qualità non disprezzabile, palchisti e condomini di sale sociali presentassero al comune una richiesta di acquisto del teatro (così a Carpi, a Rovigo, a Viterbo). Quella dei teatri di città ottocenteschi non era infatti una vita facile,

stretta tra ambizioni di grandezza, costi crescenti degli allestimenti, stanziamenti scarsi e spesso non continuativi

da parte delle autorità locali.

7.

Il melodramma e la scena italiana

Negli statuti sociali o accademici i riferimenti a ciò che nel teatro dovrà rappresentarsi sono sorprendentemente scarsi. A Buti, nel pisano, l'Accademia dei Riuniti che si costituisce nel 1843 ha come primo scopo statutario quello di «erigere un teatro ove saranno date rappresentazioni sia

in musica che in prosa». Sono riferimenti generici di questo tipo gli unici accenni che generalmente alludono all’attività futura. In quei documenti, sui quali ho basato la ricostruzione precedente, l’attenzione è tutta sull’edificio teatro come futuro contenitore del divertimento cittadino a cui demandare, almeno in parte, anche la dimensione della festa: il ballo di carnevale, la tombola, o la celebrazione di eventi particolarmente importanti per la comunità. D'altronde il teatro di città era per sua natura un luogo non specializzato,

adatto ad ospitare ogni forma di spettacolo e di intrattenimento. Il processo di specializzazione dell’offerta spettacolare, che altrove in Europa o sul mercato americano era già ampiamente avviato, accompagnato, soprattutto nel-

le realtà metropolitane, da una differenziazione delle varie

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forme di audience, in Italia trovava qualche primo riflesso solo nelle capitali della musica, Milano e Venezia, dove chi

voleva ascoltare l’opera, chi la commedia, chi il vaudeville aveva a disposizione sale diverse. Il teatro di città era uno spazio diverso, che ospitava da un lato un panorama spettacolare quasi pre-moderno, dominato da curiosità esotiche e spettacoli di arte varia, e dall’altro un unico genere serio veramente codificato, cioè il melodramma in musica.

Il lettore può farsene un’idea scorrendo la ricostruzione

di un’attività teatrale di provincia come quella che è stata fatta per Reggio Emilia nel 1843. Qui si succedevano in teatro nella stagione della fiera: accademie

musicali, intermezzi

vocali, un’accademia

di calcolo

mentale estemporaneo, l'esposizione di un congegno meccanico raffigurante la battaglia di Lipsia, e quella di un uomo denominato Samson con un’immensa capigliatura [...]. Poi ancora nel corso di quell’anno: spettacoli pirotecnici, esposizione di belve feroci, esercizi di palombari, acrobati e ginnasti, una mostra di statue di cera, marionette, macchine ottiche, ecc...!?.

E spaziando in altre annate «si possono ancora ricordare l'accademia di magia egizia nel ’36, intitolata La fata Morgana»; lo spettacolo ottico di cosmorama e neorama offerto da Francesco Boccacci nel 1835; il «gabinetto pittorico-meccanico» esposto a teatro nel ’41 con vedute meccaniche «inframmezzate da automi fra i quali agirà l’Affricano». Insomma forme che diremmo pre-artistiche, di esibizione più che di rappresentazione, affollavano il teatro tra una stagione e l’altra disegnando il profilo di una dimensione teatrale ancora arretrata, più vicina a quella di un circo che ad un palcoscenico moderno. La «stagione» significava invece, invariabilmente, l’opera in musica, la cui importanza 122 Sull’ingresso dell’opera nel mercato culturale americano in via di costruzione cfr. K. Ahlquist, Derzocracy at the Opera. Music, Theater and Culture in New York City, 1815-60, Urbana, University of Illinois Press, 1997, che ricostruisce efficacemente il consolidamento di un genere di importazione ma singolarmente capace di una rapida «naturalizzazione». 13. Cito da D. Seragnoli, Lo spettacolo a Reggio nell'Ottocento, cit., pp. 122-123.

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era eventualmente accresciuta dai balli d’entracte, grandi affreschi pantomimici che inframmezzavano gli atti degli allestimenti operistici. Se restiamo a Reggio Emilia la stagione principale corrispondeva al tempo della fiera, tra aprile e giugno, e offriva da due a quattro opere e almeno un ballo, per un totale di trenta-trentacinque serate. À questa si affiancava la stagione di carnevale, tra dicembre e febbraio, generalmente più breve e di minor richiamo. In autunno poi, quando possibile, si dava un corso di commedie, necessarie secondo Carlo Ri-

torni perché il teatro rimanesse sempre aperto costituendo per i cittadini il luogo naturale del proprio ritrovo serale. Il teatro di prosa — ancora privo di circuiti allargati di diffusione delle compagnie e dei repertori — era poco più di un riempitivo, «mentre si preparava lo spettacolo serio d’opera e ballo»!?. Ciò non toglie, sosteneva ancora Ritorni, che la

programmazione da parte delle deputazioni doveva badare anche al buon livello delle compagnie drammatiche, per mantenere alta la disponibilità dei cittadini alla frequentazione teatrale, invece che alle società particolari, alle ristret-

te accademie, ai caffè e ai biliardi, luoghi appunto meno civilmente utili. Proprio in questa prospettiva si facevano comunque ormai sempre più frequenti anche le stagioni d’opera autunnali, soprattutto nel Lombardo-Veneto dove fungevano da sostegno delle fiere e dei mercati annuali. In quanto alla musica strumentale, questa aveva conosciuto in Italia dalla metà del Settecento in avanti una prolungata agonia e le poche manifestazioni di questo tipo che si rintracciano nei primi decenni del secolo rimangono fatti episodici e isolati, legati all’azione di un personaggio d’eccezione, come Niccolò Paganini, o di singole orchestre come quella parmense. Arrivato in Italia a metà degli anni ’30 con l'appoggio di Ricordi, Franz Liszt si era trovato a dare concerti virtuosistici i cui programmi sono da lui stesso definiti

«senza senso», composti da improvvisazioni su temi d’opera 124 Annali del Teatro di Reggio Emilia, anno 1826, con un’epistola del sig. cav. Angelo Petracchi all'Autore; Ritorni aveva posto al Petracchi un quesito circa «l'opportunità di un corso di commedie nei nostri teatri».

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o addirittura su soggetti stravaganti (il Duomo di Milano, la recente ferrovia) che pare fossero i soli ad essere richiesti da un’audience ancora intoccata da quel fenomeno sinfonico che stava invece imponendosi con forza nelle sale europee!”, Nel primo Ottocento la forza di attrazione del melodramma era dunque non solo incontrastata ma crescente, avendo fatto terra bruciata intorno a sé e consolidato ormai un proprio sistema produttivo e distributivo dal profilo nazionale che s’imperniava sulla scansione delle stagioni!”. Nel censimento da cui sono partita i dati relativi alle attività di ciascun teatro sono molto generici e non consentono di calcolare in modo preciso la quantità di sale che organizzano stagioni d’opera. Per 347 teatri si parla di spettacoli di musica e prosa, mentre 490 sale, in gran maggioranza

di

piccole o piccolissime dimensioni, risultano destinate a drammi, a commedie, o a entrambi!”, Anche se tra queste sono

solo un centinaio o poco più ad essere esplicitamente censite come teatri «per dilettanti», è proprio a quell’area magmatica e poco afferrabile costituita dai circoli e dalle società filodrammatiche che questa seconda fetta di sale va ascritta, a confermare la diffusione consistente nell’Italia ottocentesca del fenomeno dilettantistico e la sua persistente capacità di azione e di organizzazione culturale!?. 125 Si spiega così la forte ostilità dei compositori stranieri per l’ambiente musicale italiano considerato arretrato e inavvicinabile. Il solito caustico Berlioz commentava in questo modo la situazione: «Chi può andare a cercare oggi un musicista in Italia? Vuol darsi allo studio della musica strumentale? Allora bisogna passare il Reno, non le Alpi...», cit. in S. Martinotti, Ottocento musicale italiano, Bologna, Forni, 1972, p. 48. 126 Ciò che cambia almeno parzialmente a inizio secolo è piuttosto la classificazione dei generi, con la tendenziale sparizione della divisione tradizionale tra l’opera seria e l’opera buffa, e la presenza sempre più rara di quest'ultima nelle programmazioni. Si veda a questo proposito la comparazione tra diverse stagioni della Scala a dieci anni di distanza l’una dall’altra riportati da Z. Helmann, Le romzantisme et l'opéra italienne de la première moitié du XIX° siècle, in «Quadrivium», XVII, 2, pp. 127-137.

127 Per 39 sale si parla di «spettacoli vari anche equestri»; 17 ospitano solo spettacoli di marionette; e solo 7 risultano specificamente riservate

ad accademie musicali. 128 Un primo importante approccio al fenomeno, nella sua versione musicale e non drammatica, è in Accademie e società filarmoniche. Organizzazione, cultura e attività dei filarmonici nell'Italia dell'Ottocento, Atti

89

Marcello Conati ha calcolato qualche anno fa, sulla base dello spoglio integrato dei periodici musicali del periodo e delle cronistorie dei singoli teatri, una progressione del numero delle stagioni d’opera che nel periodo compreso tra il 1825 e il 1846 sarebbero passate da 128 a 270 annue, per un totale di opere in aumento da 388 a 798 allestimenti per anno! I risultati del censimento e le note prefettizie che accompagnano gli elenchi provinciali fanno pensare tuttavia che quel numero comunque consistente debba aumentare nel momento in cui si considerino gli allestimenti operistici più episodici e occasionali che si producevano spesso anche nei piccoli teatri e difficilmente comparivano sulla stampa di settore. Se dunque l’opera era il momento alto e atteso della vita di ogni teatro di città è anche vero che questi conservavano in sé, in quanto contenitori non specializzati dello svago cittadino, molte dimensioni festive e spettacolari e sembravano rispondere a tutte, proponendo di volta in volta qualcosa che ricordava la festa dei principi d’Ancien Régime, lo spettacolo aristocratico e poi borghese della distinzione, ma anche, con il loro pot-pourri spettacolare, un ricordo della festa popolare di piazza, di cui la platea e il loggione riflettevano i caratteri di indistinzione sociale!?°. Su questo però ci fermeremo più diffusamente. Ritorniamo invece ora a guardare verso quelle città che tra inizio e metà secolo avevano festeggiato la posa della prima pietra per un nuovo teatro-monumento e ricordiamo

il tono dei discorsi pronunciati per l’occasione, tutti rivolti a magnificare l’eccellenza cittadina, lo spirito del luogo, le tradizioni su cui questo poggiava e insieme la capacità di innovazione di cui dava prova investendo in un luogo teadel convegno di studi nel bicentenario di fondazione della Società Filarmonica di Trento, a cura di A. Carlini, Trento, 1998. E anche M. Capra, Istituti e società filarmoniche nell'area medio-padana del XIX secolo, in

«Bollettino del Museo del Risorgimento», 1987-88, pp. 199-224. Sul teatro di parola cfr. invece G. Guccini, Per una storia del teatro dei dilettanti: la rinascita tragica italiana nel XVIII secolo, cit.

129 Cfr. M. Conati, Periodici teatrali e musicali italiani a metà ’800, in

«Periodica musica», VII, 1989, pp. 13-21. 3° B. Sanguanini, I/ pubblico all'italiana, cit., pp. 135 ss.

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trale. La tappa celebrativa successiva, cioè l’inaugurazione

della sala, era invece tutta all’insegna della musica e dello spettacolo e generalmente non prevedeva discorsi, tutt'al più la declamazione di sonetti scritti da poeti locali in ricordo dello storico avvenimento. A Cesena, nell’agosto del 1846 l’impresario romano Jacovacci, già appaltatore della stagione a Senigallia, aveva concordato col municipio, per occuparsi degli spettacoli inaugurali, una dote di 39.000 lire che doveva servire ad allestire due opere e due balli con artisti di vaglia. Sul palcoscenico erano così risuonate con ottimo esito le note di Marza di Roban, parole di Salvatore Cammarano e musica del maestro Donizetti, e subito dopo i Lombardi alla prima crociata, parole di Temistocle Solera e musica del maestro Verdi, prodotti recenti e di grande successo della cultura operistica nazionale. Il teatro di Voghera, che aveva inaugurato l’anno precedente, aveva fatto la medesima scelta, aprendo con la stessa nota opera verdiana,

cioè con una delle opere più nuove del compositore più in voga del momento. Non diversamente a Viterbo, dieci anni dopo, la nuova sala aprirà col Viscardello, versione rinominata per motivi censori del Rigoletto, che faceva parte della produzione più attuale del compositore padano. Sovrapponendo tra loro le due immagini — la posa della prima pietra e l'inaugurazione — si fa evidente allora come

l'apertura dei teatri, con tutti i suoi caratteri di iniziativa locale che procede nel solco di una catena emulativa tra singole città, si trova invece a disseminare sul territorio una cultura musicale che ha acquisito un chiaro profilo nazionale e contribuisce ad uniformare notevolmente il gusto. La vita dell’istituzione teatro come struttura dal profilo locale, che dalla località acquista storicamente i propri tratti caratterizzanti, s’intreccia insomma subito, anche nelle località più piccole, con un circuito impresariale e artistico che già alla fine del Settecento presenta tratti marcatamente nazionali, cosicché la rete di sale che si sviluppa in questa fase va a costituire una sorta di sottofondo infrastrutturale che sostiene e favorisce la circolazione delle medesime opere in musica lungo la penisola e sta alla base del grande successo del melodramma nell’Italia dei decenni centrali dell'Ottocento. I

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CAPITOLO

SECONDO

ANDARE ALL’OPERA

1.

Pubblici d'inizio secolo

I molti osservatori stranieri che si trovano a percorrere l’Italia d’inizio Ottocento sono sostanzialmente d’accordo nel riferire che «tutti» gli italiani vanno all’opera e ci vanno tutte le sere. Nella sua sommarietà un po’ stereotipata e da

questi declinata in modi più o meno benevoli, questa immagine esprime una sensazione comprensibile, cioè che andare all’opera nell’Italia della Restaurazione fosse qualcosa di diverso da una scelta personale e sempre ricusabile. Che corrispondesse piuttosto ad una consuetudine sociale pressoché quotidiana che identificava e accomunava i notabilati cittadini, divenendo una delle principali manifestazioni del far parte della città e del suo universo sociale. Si poteva intravedere in sostanza nella frequentazione delle sale teatrali di inizio secolo qualcosa che risaliva alle origini stesse del teatro per musica, un ricordo di quell’obbligo di etichetta tipico della frequentazione dei teatri di corte!. A quel ricordo di sottofondo si era poi sovrapposta la dimensione attuale della sociabilità ottocentesca e le sue regole specifiche. Andare all’opera era in definitiva un esercizio di identità che la disposizione della sala all’italiana rendeva di lettura particolarmente semplice e immediata?. ! «Il melodramma — ha scritto Massimo Mila — nasce sotto la categoria sociale della festa di corte: spettacolo di intrattenimento offerto da un grande ai suoi invitati»; cfr. I costumi della Traviata, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1984, p. 135.

2 In un certo senso la frequentazione dell’opera lo è più di altre forme di consumo culturale, visto che racchiude in sé la dimensione aggiuntiva della sociabilità formale; cfr. l'introduzione di A. Bermingham al volume

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Nel resoconto del suo lungo viaggio italiano Lady Morgan, che difficilmente riusciva a sottrarsi alla comparazione anglocentrica, sosteneva che gli italiani vanno all’opera come gli inglesi al circolo. L'osservazione è meno peregrina di quanto possa sembrare se si pensa che il teatro, lo abbiamo visto, era spesso il prodotto tangibile di una società tra notabili, della quale rimaneva la sede, e che racchiudeva in sé tutta una serie di altre strutture di ritrovo. Tra le sue pareti e nelle sue molte sale la distinzione netta tra una sociabilità formale istituzionalizzata e una informale ed episodica lasciava il posto ad un'immagine più fluida, in cui la partecipazione dei singoli era nello stesso tempo codificata ed estemporanea?. È uno dei motivi che rende il pubblico del teatro d’opera in Italia un’entità così poco afferrabile, al di là delle evidenti difficoltà documentarie, meno impalpabile di quello dei lettori e tuttavia così indistinto nei suoi contorni*. Se a ciò si aggiunge la stretta identificazione che in Italia si impone tra teatri di città e opera in musica ci si rende conto di quanto arduo sia individuare per il melodramma il processo di costruzione di un proprio pubblico specifico, come è stato fatto per il boom delle stagioni dei concerti nelle me-

tropoli europee o per la precoce affermazione dell’opera italiana sulle scene americane?. L'unico dato incontrovertibile a nostra disposizione è che nel corso dell'Ottocento il pubblico dell’opera si moltiplica insieme agli edifici per il teatro. Ma di quest’estensione si possono individuare i tempi e le dinamiche mantenendo uno sguardo di insieme, vista la combinazione tutta particolare che nei teatri intreccia connotati locali ed elementi comuni ad un livello nazionale? collettaneo The consumption of culture 1600-1800: Image, object, text, London-New York, Routledge, 1995, pp. 1-10.

3 Sull’approccio della storiografia alle due dimensioni della sociabilità e dell’associazionismo si veda M. Meriggi, Associazionismo borghese tra "700 e ‘800. Sonderweg tedesco e caso francese, in «Quaderni storici»,

1989, n. 71, pp. 589-627.

4 Per B. Sanguanini, I/ pubblico all'italiana, cit., p. 103, «lo spazio del pubblico è un territorio realisticamente tanto invisibile quanto fisicamente misurabile». ? Cfr. W. Weber, Music and the middle class, cit.; K. Ahlquist, Democracy at the Opera, cit.

94

Tra questi ultimi sta prima di tutto la conformazione della sala all’italiana, dalla quale dipendono le coordinate di fondo del sistema del pubblico, e cioè da un lato il principio gerarchico che lo informa e dall’altro la costante presenza di più pubblici distinti. È quindi sui suoi ingranaggi che occorre innanzitutto impostare l’analisi, rinunciando a cogliere dinamiche sociali specifiche che solo un approfondimento sulle situazioni locali sarebbe in grado di cogliere. Va detto allora prima di tutto che chi siede nei palchi, chi sta in platea, chi guarda dall’alto del loggione è nell’economia del sistema teatrale primottocentesco parte di mondi diversi che si toccano senza intrecciarsi. E che per contro vive in una promiscuità difficilmente riscontrabile altrove. L’elemento più anomalo e peculiare della situazione italiana è da questo punto di vista la presenza dei palchisti, che costituiscono una vera e propria società nella società, separata dal parterre e per lo più anche celata alla sua vista, se si eccettuano le dame i cui profili impreziosiscono le balconate dei palchi. E che soprattutto non è solo e semplicemente un pubblico, nel senso commerciale della parola, visto che contribuisce ogni anno a finanziare il teatro e attraverso propri rappresentanti partecipa alla sua gestione, assommando in sé lo status in qualche modo ambiguo di produttore e consumatore delle rappresentazioni. È la parte del pubblico più nascosta nella realtà e invece più visibile dal punto di vista documentario, poiché per entrare a farne parte è necessario nella maggioranza dei teatri italiani il vero e proprio acquisto di un palco, che come si può immaginare lascia abbondanti tracce di sé. Sotto, in piena vista ma quasi del tutto invisibile invece nelle carte d’archivio, c’è il pubblico più vario e movimentato della platea, e infine in alto, quello del loggione, nascosto in entrambi i sensi, dal quale tutt'al più arrivano, o si leggono nelle carte di polizia, i fischi e i battimani, gli sputi e i lanci di oggetti in platea. Proverò allora, per iniziare un’analisi che si presenta difficile, a cogliere delle istantanee su alcune grandi sale, quelle che funzionavano da riferimento per quel reticolo di sale di media dimensione che andava nel frattempo costi99

tuendosi, assumendo come scansione cronologica una medesima annata, il 1817, significativa dell’avvio del nuovo corso

restaurato.

Entrando alla Scala nel maggio del 1817 per la prima dell’attesissima Gazza ladra*, e guardandosi intorno con l’imbarazzo e la curiosità che spesso assale in queste occasioni

chi viene da fuori, il forestiero sarebbe stato colpito già nel foyer dalla sensazione che diventava poi netta nella sala: quella di essere in uno dei maggiori teatri europei, dove lo sfoggio di magnificenza e di ricchezza passava dai drappeggi dei palchi a quelli più impalpabili delle toilette delle signore, dagli stucchi dorati delle balconate alle grandi scene progettate per l'occasione

da Alessandro

Sanquirico.

Un

«luogo dove si fabbricano visioni» scriveva in quegli anni Lady Morgan colpita appunto dall’atmosfera scintillante che vi si respirava”. La novità rossiniana aveva per di più elet-

trizzato particolarmente il pubblico milanese che per le prime tre sere aveva chiamato il compositore sulla scena con

veri scrosci di applausi?. Le prime due file di palchi erano occupate come di consueto dalle grandi casate patrizie della città, i Litta Visconti Arese, i Barbò di Soresina, i Busca Arconati, i marchesi Villani, i Serbelloni,

i D'Adda, i Bigli, i Visconti di

Modrone, coloro che a suo tempo avevano promosso la costruzione del teatro e da allora possedevano più palchi nelle file nobili e almeno uno in quarta fila per i domestici che li accompagnavano. In realtà, rispetto all’assetto settecentesco originario, già qualcosa doveva essere cambiato se quasi una quarantina di palchi, dei centoquarantaquattro © È la prima alla quale Stendhal dice di aver partecipato, ma sappiamo che non è così, nel suo Vita di Rossini (cfr. l'edizione a cura di M. Bongiovanni Bertini, Torino, EDT, 1992, p. 163) e sulla quale si affollavano molte aspettative dopo il pesante insuccesso del Turco ir Italia. ? Lady Morgan, Italy, nuova edizione in 3 voll., London, 1824, vol. I,

pp. 16 ss. (le citazioni sono tratte da questa edizione). Il solito Stendhal, notoriamente innamorato della Scala, scrive che «il primo colpo d’occhio fa venire le vertigini», in Roma, Napoli, Firenze. Viaggio in Italia da Milano a Catanzaro, Roma-Bari, Laterza, 1990 (pref. di Carlo Levi), p. 6. * Cfr. il resoconto comparso su «Il Corriere delle dame» del 7 giugno 1817.

96

totali, risultavano a quella data passati di proprietà. Pochi per la verità, solo sei, in prima fila; molti di più, tredici, in

quarta fila, quella che sarebbe stata sempre più soggetta a rapide cessioni. Rispetto al periodo che aveva preceduto l’arrivo dei francesi l’alta società milanese che si ritrovava ogni sera alla Scala aveva evidentemente perduto qualche pezzo più debole (i marchesi Cusani avevano venduto tutti e due i loro palchi in prima fila) e aveva acquistato qualche elemento nuovo, appartenente ad una nobiltà di più recente ascesa come la contessa Cassera, gli Ala Ponzone, il conte Cicogna, il conte Sangiuliani. Tra i nuovi palchisti delle prime file comparivano anche i nomi di tre non titolati, a scalfire lievemente un’esclusività nobiliare peraltro ben salda?. La loro presenza ci dice che la norma che riservava ai nobili le prime file di palchi poteva in qualche caso essere elusa ma che si trattava di vere e fugaci eccezioni. Bisognava

alzare lo sguardo almeno fino alla terza fila per individuare, tra una maggioranza ancora composta di titolati, i visi alcuni rappresentanti della nuova borghesia finanziaria produttiva, quella più rampante e desiderosa di entrare far parte dell’alta società milanese, dai fratelli Taccioli

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Domenico Berra a Luigi Legnani!°.

Il corpo dei palchisti continuava insomma a mostrare una densità aristocratica elevatissima, che diminuiva solo

dalla quarta fila in su. La platea pullulava invece di uniformi austriache, di giovani aristocratici, ma anche di un pubblico di abbonati di provenienza borghese, quei «giovinotti del mezzo ceto» di cui parlava Stendhal!!, che sarebbe andato crescendo nei decenni successivi: impiegati pubblici, rentiers, professionisti, negozianti, e mescolata tra i crocchi

di gente in piedi qualche donna di malaffare. In alto, in ? Isidoro Cambiasi, possidente, divideva in realtà un palco in società con il marchese Ala Ponzone, e gli altri due nomi compaiono e scompaiono come rapide meteore nel corpo dei palchisti. Sono quelli dell’ingegner Castelli, la cui fortuna è legata all'appalto del sale (cfr. S. Levati, La nobiltà del lavoro, Milano, Angeli, 1997, p. 156) e dell’architetto Taglioretti, che risultano intestatari di palchi in prima fila. !0 Ibidem, pp. 216 ss. 1! Stendhal, Passeggiate romane, Milano, Facchi, s.d., pp. 229-230.

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loggione, ce lo dicono le poesie di Carlo Porta, domestici, studenti, artigiani e piccoli negozianti". Altrettanto sfavillante nei decori ma certamente più cupa nell'atmosfera che vi si respirava doveva essere la sala del teatro Regio di Torino, che aveva riaperto nella stagione di carnevale del 1814-15 con un’opera rossiniana già nota, il Tancredi. L’analogia tra la situazione del momento e l’intreccio melodrammatico era stata più che evidente: il ritorno del principe normanno sul trono siciliano dopo la dura sconfitta dei saraceni era una chiara allusione alla situazione

del giorno e doveva contribuire a celebrare il ritorno dei Savoia. La rigidità di comportamento e la mancanza di fantasia che tanto dell’alta società torinese avevano colpito Adèle d’Osmond, M.me De Boigne, la figlia dell’ambasciatore francese, erano ai suoi occhi tanto più evidenti proprio quando si partecipava alla stagione teatrale e si entrava nel complicato meccanismo dell’attribuzione dei posti a teatro”. La fissità inflessibile del cerimoniale doveva essere già chiara

ancor prima di entrare nella sala, in quel corteo di carrozze puntigliosamente organizzato dalle autorità che conduceva all’ingresso del teatro. L’ordine emanato dal marchese Thaon di Revel era infatti che le vetture procedessero lentamente lungo un percorso picchettato dalle vedette di cavalleria!'. Entrando nella sala un primo colpo d’occhio sul pubblico poteva far credere che questo non fosse così diverso da quello della Scala, e che il modo di occupare gli spazi della 1? Cfr. C. Porta, Poesie edite e inedite, ed. integrale riveduta e accre-

sciuta, a cura di A. Ottolino, Milano, Hoepli, 1967 (ma 1946). 13 Si tratta di Adèle d’Osmond, figlia dell’ambasciatore di Francia presso la corte torinese, che soggiorna in quella città per circa dieci mesi tra il 1814 e il 1815 dedicandole molte pagine, estremamente

dure, nei

suoi Mémoires; cfr. Mémotres de la Comtesse de Boigne née d’Osmond. Récits d'une tante, a cura di J.C. Berchet, Mercure de France, Paris, 1971,

vol. I, pp. 285-330. 14 Cfr. A. Basso, I/ teatro della città 1788-1936, cit., pp. 148 ss. Non si tratta peraltro di misure imputabili solo alla meticolosità e al timore di ogni assembramento disordinato tipico dell'ambiente sabaudo; la necessità di prevenire inconvenienti e irregolarità dovute ad un afflusso disordinato delle carrozze ai teatri è preoccupazione diffusa, che ritroviamo nel regolamento del teatro di Modena del 1815, o in un avviso emanato a Padova nel 1844 (in ASPa, Teatro Verdi, b. 80).

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sala fosse il medesimo. In realtà la diversità era consistente

e si collegava al ruolo centrale che qui giocava la corte. Al primo, terzo e quarto ordine — riferisce Olimpia Savio ricordando i tempi della sua adolescenza — l’aristocrazia semplicemente; al secondo, i ministri, ambasciatori, la regina Maria Cristina, col suo enorme turbante di velo bianco, e il re Carlo Felice, che faceva

in palco e allo scoperto il suo petit souper composto specialmente di grissini impastati con polpa di trote; al quinto, la borghesia, le mogli dei magistrati, dei generali, ecc. che non erano titolate!?,

Quell’assetto complessivo, e di questo pare che i forestieri fossero subito edotti come di una sorta di «curiosità» locale, non era il frutto di una forma di autorganizzazione nobiliare — come a Milano — ma l’esito di una dettagliata decisione sovrana, che aveva preso la forma di una lista che disegnava precisamente il quadro dell’attribuzione dei palchi. Sulla sua composizione non era chiaro se avesse pesato di più il parere del confessore del re o i consigli della regina. Quel che era certo è che intorno alla sua preparazione si erano scatenati molti intrighi e molte pressioni!. Il forestiero che fosse entrato nel teatro di Parma in una qualsiasi serata della stagione di autunno del 1817 senza > R. Ricci, Mezzorie della Baronessa Olimpia Savio, vol. I, Milano, Treves, 1911, pp. 7-8. E Stendhal notava, a conferma del saldo monopolio aristocratico sul teatro, che: «al teatro di Torino un plebeo non può affittare un palco in nome proprio, occorre che uno dei suoi amici patrizii glielo presti», in Passeggiate romane, cit., p. 196. Sulla sociabilità d’élite in ambiente torinese si vedano le riflessioni di I. Porciani, I luoghi della sociabilità e dell’associazionismo aristocratico e borghese, in U. Levra (a cura di), Il Piemonte alle soglie del 1848, Torino, Comitato di Torino

dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1999, pp. 501 ss. !6 Sono illuminanti in proposito i racconti pieni di stupore che ne fanno sia M.me de Boigne che Lady Morgan. La prima insiste sugli intrighi che si agitavano intorno alla compilazione della lista ma anche sul «fureur et la colère des personnes qui, depuis vingt ans, vivaient sur le pied d’égalité avec la noblesse et qui, tout d’un coup, se voyaient repoussés dans une classe exclue des seuls plaisirs du pays» (Mémorres, cit., p. 291). La seconda sottolinea il ruolo della regina «presiding over the distribution and prices of the boxes. Her list decides the number of quarterings requisite to occupy the aristocratic rows of the first and second circles, and determines the point of rupture, which banishes to the higher tiers the piccoli nobili» (Ita/y, vol. I, cit., p. 81).

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avere relazioni consolidate con qualche famiglia nobile locale, si sarebbe seduto presumibilmente nel palco di terza fila che l’albergatore Castellari teneva per i propri clienti. Aveva di fronte a sé una sala molto più modesta delle precedenti, stretta e male illuminata, che non a caso la nuova

sovrana avrebbe provveduto a sostituire di lì a poco con un nuovo edificio monumentale progettato dal Bettoli, l’architetto ducale. Anche in questo caso aveva però davanti a sé una corte, quella luigina, e le sue varie appendici, e proprio questa visuale diretta sul palco reale sembrava essere la più richiesta dagli stranieri, in special modo dagli inglesi, così numerosi nell’Italia della Restaurazione e tanto affascinati dal contatto stretto che qui rilevavano tra i sovrani e la società civile!”. Sulla scena, l’impresario Osea Francia aveva organizzato un programma che anche qui era tutto all’insegna di Rossini, in linea con gli altri grandi teatri. La nobiltà locale era seduta nella prima e nella seconda fila dei palchi mentre quelli di pianterreno, che nel vecchio teatro parmense erano allo stesso livello della platea e per ciò ben poco ambiti, e quelli del terz’ordine, ospitavano un pubblico per lo più non titolato. Erano gli ordini cosiddetti «mercantili», dove in effetti la lista dei palchisti registrava la presenza di due soli personaggi che si definivano «mercanti» e invece una schiera molto più folta di professionisti — medici e avvocati —, di impiegati — dall’ispettore del patrimonio dello stato al conservatore della Guardia Mobile —, e tre albergatori, a segnalare la persistente vocazione turistica di quel teatro. Forse in qualche retropalco il solito straniero avrebbe colto alcuni dei malumori che avevano accompagnato la riapertura del teatro sotto il nuovo regime. Si mormorava infatti che quello della nuova età luigina sarebbe stato un «teatro di impiegati», perché le indicazioni date dalla duchessa relativamente all’attribuzione dei palchi ave!? Così sosteneva proprio il suddetto albergatore presentando la propria richiesta di palco con una lettera del 24 settembre 1818, in ASCPr, Teatro, 1818, f. XII. E lo conferma Lady Morgan nel suo resoconto della tappa fiorentina dove scrive che il granduca con la famiglia e la corte al completo presenziava quasi ogni sera allo spettacolo della Pergola dove con grande familiarità scambiava visite nei palchi della nobiltà maggiore (Italy, cit., vol. II, p. 271).

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vano esplicitamente privilegiato coloro tra i nobili locali cui erano attribuiti incarichi a corte (cfr. più avanti, par. 3)!8. Proseguendo verso sud secondo i canoni consueti del viaggio italiano, prima di approdare a Napoli in quello che già Carlo di Borbone aveva voluto fosse il più grande teatro di corte della penisola, il nostro forestiero avrebbe probabilmente passato una serata anche in un teatro di provincia — ad Ancona,

a Chieti, o a Senigallia, tutti centri che a

quella data già disponevano di ampi edifici teatrali. Anche qui avrebbe avuto modo di notare che i pochi nobili si allineavano nei loro palchetti in seconda fila, esattamente come alla Scala, magari insieme al maggior notaio locale, a qualche importante avvocato, a qualche medico particolarmente in vista della città o dei dintorni. E guardavano dall’alto una platea più variegata socialmente e ben più modesta negli arredi, dove chi non stava in piedi si sedeva su scranni mobili o su panche di legno non numerate. Che il codice gerarchico della sala all’italiana si ripetesse invariato anche nelle medie e nelle piccole realtà urbane è molto evidente scorrendo le liste dei palchisti di quei teatri, dove queste sono rimaste!?,

Da questi elenchi si può rilevare in certi casi come alcuni palchi fossero di proprietà di famiglie aristocratiche provenienti dalla città maggiore più vicina, che passando l’estate in villa non rinunciavano alla serata nel piccolo teatro di provincia. Di forestieri in genere i teatri ne ospitavano mol-

ti, essendo l’unico luogo decoroso di pubblico svago aperto nelle città di inizio secolo («e gran noja è a’ forestieri non incontrar in paesi stranieri pubblici passatempi!» scriveva Carlo Ritorni indispettito per aver trovato chiuso il teatro in una città in cui era di passaggio)”. Questi rapidi quadri, in parte ricavati dai molti resoconti degli osservatori stranieri che parlando dell’Italia si soffermano sulla vita teatrale, ci restituiscono una serie di

immagini che possiamo così schematizzare: 18 Cfr. il Decreto sovrano 22 agosto 1817. 19 Cfr. A. Maragliano, I teatri di Voghera, cit.; E. Papi, Il Teatro Municipale di Piacenza, cit.; A. Brannetti, Teatri di Viterbo, cit., pp. 78-79. 20 In Annali del Teatro della città di Reggio, anno 1830, p. 192.

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1. Il teatro è il principale divertimento disponibile per lo svago d’élite del primo Ottocento, costituendo uno spazio di ritrovo che in Italia affianca ma più spesso sostituisce il salotto. Madame De Boigne sostiene che a Torino non si facevano né si ricevevano visite fintanto che durava la stagione d’opera?!. Ed è molto nota l’affermazione critica di Madame de Staél secondo la quale la vita di società si risolveva in Italia tutta nei teatri, nell’ascoltare per cinque ore consecutive le «cosiddette parole» del melodramma”. 2. È un luogo dove con una visibilità tutta particolare si predisponevano e facevano mostra di sé le strutture cortigiane della Restaurazione o che, nei luoghi lontani dalle corti, risultava comunque predisposto ad accoglierle negli spazi riccamente arredati dei palchi reali. 3. Al suo interno vigeva il codice gerarchico tipico della sala all’italiana, la cui particolarità stava nel consentire un’efficace declinazione spaziale del gioco della distinzione, nella quale era non solo prevista ma necessariamente richiesta la presenza di ranghi diversi. Vi si trovava dunque un pubblico socialmente variegato la cui composizione rifletteva le diverse articolazioni delle società locali. Come sosteneva Stendhal nei Ricordi d’egotismo in Italia ogni città ha il suo teatro e il suo pubblico, che è creato ma anche crea società??. Infine 4. Si trattava di una sala rumorosa e movimenta-

ta, dove l’ascolto musicale era ancora lontano da quell’esperienza emozionale individualizzata che sarebbe divenuta in seguito. Su questo punto insistono in particolare alcuni musicisti come Hector Berlioz o Otto Nicolaj, che durante il

loro soggiorno si dimostrano particolarmente critici nei confronti delle abitudini musicali italiane”. 2! Mémoires,

cit., p. 291. Sulla nuova

presenza della dimensione

di

salotto nell'Italia primottocentesca si veda ora il libro di M.T. Mori, Salotti. La soctabilità delle élites nell'Italia dell'800, Roma, Carocci, 2000. 22 A.L. Staél-Holstein, Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni, in «Bi-

blioteca italiana», gennaio 1816, in Manifesti romantici e altri scritti della polemica classico-romantica, a cura di C. Calcaterra, Torino, 1975, pp. 83SHE:

È

% Stendhal, Ricordi d'egotismo, Milano, Facchi, s.d., pp. 229-230. 24 H. Berlioz, Memorie comprendenti i suoi viaggi in Italia, in Germania, in Russia e in Inghilterra (1803-1865), a cura di M. Giordano, Roma,

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2.

L'acquisto di un palco

Chiunque aspirasse all’acquisto di un palco nel nuovo Teatro che si sta costruendo a Parma è ammesso a farne domanda per iscritto alla Presidenza delle Finanze.

Leggo dall’avviso pubblicato nell’aprile del 1822 dal consigliere di stato conte Bondani, in esecuzione dei voleri della duchessa. Anche in questo caso, dove il teatro è in tutto e per tutto progetto ducale, scatta il consueto meccanismo di coinvolgimento finanziario della società locale che ritroviamo in ogni iniziativa di questo tipo. La prevendita dei palchi iniziava generalmente molto presto, appena presa la decisione di costruire, e prendeva la forma di un pubblico avviso che con stili diversi, che potevano essere più vicino ad una gentile concessione sovrana o invece — nei teatri

di società — ad una chiamata a raccolta tra pari grado, esprimeva una richiesta del tutto identica: invitava i concittadini a sottoscrivere formalmente l’acquisto di un palchetto nel teatro che si aveva in animo di costruire, nonché del came-

rino che generalmente a quello si accompagnava. In questa fase di transizione politica non è raro che tale chiamata avvenga anche in caso di semplici ristrutturazioni di teatri già esistenti, che diventano occasione per una riorganizzazione della topografia interna che segue le esigenze specifiche della prima Restaurazione. Così avviene a Napoli, dopo l'incendio che nel 1816 aveva distrutto buona parte della sala: gli antichi proprietari dei palchi sono invitati a fare domanda scritta per concorrere alle nuove concessioni, considerandosi ormai estinte le precedenti. Rispetto a quelle si prevedeva un consistente aumento del canone annuale per far fronte ad una riapertura in tono grandioso, che conferma quanto importanti siano i teatri per le dinastie restaurate, nel rappresentare il loro riacquisito prestigio ma anche

nel dimostrare la loro apertura ad una nuova fase di «incivilimento»?. Palombi, 1945, pp. 98-137; O. Nicolaj, Tagebicher, Leipzig, 1892, cit. in J. Rosselli, L'impresario d'opera, cit., p. 8. 25. Alcuni dei nuovi contratti sono in ASN, Teatri, b. 32. Nel 1815 si

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Un palco poteva costare in modo molto diverso nei vari casi, in relazione al costo di costruzione dell’edificio, alla

sua importanza ed imponenza, ma anche al contributo «altro» che alla costruzione veniva offerto dalle pubbliche autorità, quali che esse fossero. Questo significa che a Parma, dove gran parte del costo di costruzione dell’edificio viene coperto dalla duchessa, i palchi hanno un costo particolarmente ridotto. Mentre

a Genova, dove almeno nelle inten-

zioni iniziali l’esborso dei palchisti doveva servire in parte a pagare la costruzione e in parte a creare un fondo per la gestione, i prezzi sono quattro volte più alti. In un tipico teatro accademico di metà Ottocento come il Petrarca di Arezzo il prezzo di un palco era ancora più alto, se rapportato alla dimensione più modesta della costruzione, esattamente come a Viterbo, dove si è costretti ad aumentare in

corso d’opera il prezzo fissato inizialmente per far fronte alle spese eccedenti. Il fatto è che qui, diversamente che nei casi precedenti, non erano previsti supporti finanziari pubblici e la costruzione pesava interamente sulle spalle dei palchisti accademici che ne erano promotori, così come succede in quasi tutti i teatri sociali’. I prezzi dei palchi variavano poi, e in modo significativo, a seconda dell’ordine

in cui il palco era collocato, cosa che ne determinava il valore. Talvolta la variazione seguiva una prospettiva non solo verticale ma orizzontale: i prezzi aumentavano quanto

più ci si avvicinava al centro del ferro di cavallo, che non significava soltanto un miglioramento della visuale sul palcoscenico ma una posizione di maggiore prestigio, resa tale

dalla maggiore vicinanza al palco reale. Può accadere che, come nella maggior parte dei teatri europei, il palco non sia oggetto di acquisto ma di un’affitera parlato di un piano dei palchi che ricalcasse esattamente quello del 1806 poi invece si opta per una nuova attribuzione, ASN, Ministero P.I., b. 470. 26 Qualche cifra reale e percentuale: a Parma il costo di ogni palco è pari mediamente allo 0,025% della spesa complessiva. Ad Arezzo il costo medio corrisponde allo 0,1% della spesa totale. Bisogna considerare il fatto che spesso il terreno veniva messo a disposizione dalle autorità centrali o locali che anche in questo modo partecipavano all'operazione.

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tanza a breve o a lungo termine. In Italia questo succede però solo nei casi abbastanza rari in cui il costo di edificazione venga coperto totalmente o dalla pubblica autorità, come succede nel settecentesco Comunale di Bologna o nel più tardo Municipale di Cesena, oppure quando il teatro è dall'origine di privata proprietà, come il Riccardi di Bergamo. Fatte queste eccezioni, la vendita dei palchi rimane la principale fonte di finanziamento per la costruzione degli edifici teatrali e proprio per questo tende a rivolgersi ad un pubblico generico e il più ampio possibile, non pre-selezionato socialmente. Anche gli avvisi che partono con l’avallo diretto di un sovrano, come è appunto quello di Parma, si rivolgono a «chiunque aspirasse» all'acquisto, senza limitazioni di sorta se non quella di essere in grado di pagare il prezzo pattuito e il canone futuro. Ciò significa che tutti coloro che ne hanno i mezzi possono partecipare all'operazione, purché rispettino le delimitazioni topografiche tipiche della sala all'italiana, che corrispondono peraltro a consistenti variazioni nei costi. Le barriere della distinzione non riguardano infatti l’accesso, come accade nei casini e nelle società nobiliari, quanto la localizzazione interna. E anzi molto evidente che proprio l’esistenza di questi steccati interni consentiva

il mantenimento di condizioni di accesso abbastanza elastiche. Se il possesso di un palco poteva dirsi tipico di uno stile di vita nobiliare nel secolo precedente ora la diffusione a pioggia dei teatri sociali e la necessità di trovare i capitali necessari avevano gonfiato la categoria dei palchisti ben oltre le barriere nobiliari, rendendo ancora più importante il mantenimento delle consuete gerarchie topografiche della sala all’italiana. Accade così che le rare volte in cui nei regolamenti dei teatri compaiono accenni ad una delimitazione di ordine sociale dell’accesso, le sue maglie tendano ad essere molto larghe. Nella regolamentazione del teatro di Cesena leggo ad esempio che all’affitto dei palchi dei primi tre ordini (siamo qui in un caso di affittanza) avrebbero potuto concorrere soltanto «i possidenti, uomini di lettere, negozianti,

impiegati ed esercenti le arti non vili e non sordide», un elenco effettivamente molto aperto, che sembra escludere 105

dal novero degli ammessi ben poche categorie sociali. Quello che conta di più è tutelarsi dal punto di vista economico, e allora si specifica che «quelli che nei sopraddetti ceti non fossero possidenti dovranno avere una solidale fidejussione di un possidente del comune»?. In questo modo la maglia degli acquirenti si allarga a comprendere anche chi possidente non è, purché appunto provvisto di solide garanzie. La prospettiva si fa diversa nel momento in cui si tratta di attribuire al singolo, o meglio alla singola famiglia, il palco acquisito. I mezzi economici necessari per entrare nel

corpo dei palchisti non sembrano essere del tutto sufficienti nel momento in cui si tratta di vedersi attribuita una localizzazione nella ben articolata topografia della sala all'italiana, se non accompagnati da una posizione sociale riconosciuta

dal consesso. Il codice gerarchico è noto e ampiamente interiorizzato, come parte integrante della sala all’italiana, e

non viene messo in discussione: il second’ordine è l’ordine «nobile», il più costoso e prestigioso, quello da cui si accede anche al palco reale. Nel primo Ottocento di frequente anche il prim’ordine o preppiano è dichiarato «nobile», per far fronte ad un’esuberanza di richieste provenienti da una nobiltà in espansione e dalla crescente commistione con un notabilato delle cariche pubbliche. Ma se anche nobilitato dalle circostanze il preppiano non acquisisce mai la medesima «dignità topografica» del second’ordine, tanto che l’esser relegati a quel livello suscita talvolta contese veementi nella nobiltà locale che ci mostrano quanto chiaro e riconosciuto dovesse essere questo segno di distinzione?8. Non ho trovato invece tracce di reclamo sulla legittimità stessa del codice, ormai solidamente strutturato nelle sue valenze sim-

boliche, se non uno che per la sua collocazione e la sua tempistica — Sicilia 1796 — sembra rientrare in un quadro del tutto inusuale di polemica anti-nobiliare. Si tratta di due suppliche contrapposte che giungono alla soprintendenza 2? Regolamento intorno alla concessione e distribuzione dei palchi nel Teatro Comunale di Cesena, approvato dal Generale consiglio nella seduta 7 settembre 1843 e sanzionato dall’Emin. e Rev. Principe Card. Legato della Provincia, in A. e L. Raggi, I/ teatro comunale di Cesena, cit., pp. 319 ss. 28 Vedi par. 4.

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napoletana da Siracusa, dove alcuni esponenti del ceto nobile stavano definendo il progetto per l'edificazione di un teatro e vantavano una precedenza cetuale nella disposizione dei posti, riservandosi le prime file dei palchi e della platea. I «legali e gli altri individui del secondo ceto», che si definiscono anche «cittadini e avvocati», contrastano

con

forza quella pretesa e reclamano una partecipazione al progetto. La soluzione compromissoria

proposta

dal centro

suona all’incirca così: nobiltà e militari avrebbero avuto l'esclusiva del primo e secondo ordine di palchi solo se avessero sborsato l’intera cifra necessaria; in caso contrario

gli ultimi palchi della seconda e tutta la terza fila sarebbero stati attribuiti ai cittadini, ai quali peraltro sarebbe andata, caso raro di spartizione anche della platea, la parte sinistra del parterre?. Anche in questo come in molti altri casi di costruzioni teatrali, ragioni finanziarie e logiche simbolicorappresentative tendono a venire a patti tra loro.

Come avviene allora l’attribuzione dei palchi? Nei teatri di corte il meccanismo è piuttosto chiaro: sia al San Carlo che al Regio di Torino è il sovrano stesso ad attribuire le sedute organizzando in modo preciso le gerarchie’. A Parma si opta per una soluzione intermedia: la duchessa avreb-

be attribuito i palchi destinati alle strutture di corte che occupavano quasi interamente il second’ordine, mentre le famiglie nobili già proprietarie di un palco ma prive di incarichi avrebbero sorteggiato tra loro i palchi restanti nel primo e nel terzo ordine all’uopo nobilitato. Nei teatri sociali e in quelli municipali accadeva generalmente che nel dichiarare la propria intenzione di acquisto il singolo acquirente specificasse l’ordine del palco richiesto (che corrispondeva ad un prezzo più o meno cospicuo), poi la Direzione del teatro avrebbe provveduto a confermare la richiesta e ad attribuire il numero, cosa per la quale gli statuti prevedevano modalità diverse che potevano consistere nel sorteggio, 29 Dispaccio da Siracusa 14 settembre 1796, in ASN, Teatri, b. 2.

30 Il regolamento torinese, valido ancora nel 1845, prevede l'articolo seguente: «la destinazione dei palchi è riservata a S.M.», con la sola eccezione di una decina di palchi concessi al libero uso dell’impresa (e peraltro collocati in quarta e quinta fila, cioè in posizione del tutto marginale).

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nel pubblico incanto dei palchi contesi, o più semplicemente nella distribuzione secondo l’anteriorità delle domande. La consuetudine settecentesca del sorteggio di fronte al notaio è ancora molto frequente per tutto il secolo successivo in Lombardo-veneto e nel Regno sabaudo ed ha la

particolarità di ridistribuire ogni anno le collocazioni delle varie famiglie all’interno del teatro?!. Si trattava di una pratica egualitaria tra pari che avveniva comunque per ordini

(ossia separatamente per le file nobiliari e per quelle mercantili), e che talvolta poteva originare delle vere e proprie guerre dei palchi. Se ad esempio, come avviene a Cagliari alla fine del Settecento, la nobiltà locale vede ingrossare ie sue fila ma non i posti a teatro, il sorteggio per ordini rischiava di privare del palco alcuni nobili. In quell'occasione il viceré aveva proposto, suscitando

reazioni sdegnate, di

assegnare il medesimo palco a due famiglie o di allargare al terz’ordine i ranghi riservati alla nobiltà, promuovendo a quest’ultimo le famiglie di nobiltà più recente. E questa la soluzione che diverrà più frequente nel corso dell’Ottocento quando la crescente commistione tra nobiltà e alta borghesia farà lievitare le richieste. Piuttosto diffusa, soprattutto nei teatri municipali, è la pratica dell’incanto, che prevede che il palco eventualmente conteso venga messo all’asta. Lo statuto di Cesena parla di una gara ad accensione di candela dove chi riesce infine ad offrire la cifra più alta si aggiudica il palchetto, arricchendo per di più le casse del teatro??. Quanto detto fin qui riguarda una situazione precisa: l'apertura di un teatro nuovo o la ristrutturazione di uno già esistente. In tutti gli altri casi l’accesso alla proprietà di un palco passa attraverso la sua cessione, con relativo passaggio di proprietà, dal precedente proprietario, cosa che pre3! Così succede nei teatri di Viterbo (A. Brannetti, Teatri di Viterbo,

cit., p. 78) e di Voghera (A. Maragliano, I teatri di Voghera, cit., p. 46). ?2_ Nel corso dell'Ottocento il sorteggio indiscriminato verrà paventato a Cagliari come misura estrema per intimorire una nobiltà locale che manifesta scarso interesse all’acquisto. Cfr. F. Ruggieri, Il teatro civico di Cagliari, Cagliari, Edizioni della Torre, 1993, pp. 44-45. 3A. e L. Raggi, I/ teatro comunale di Cesena, cit., badi:

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vedeva sempre l'approvazione della società, o del municipio, o del sovrano. Questo fa sì che il pubblico dei palchisti possa funzionare piuttosto bene come indicatore del turn over delle classi dirigenti locali, segnalando, con un gesto preciso, chi entrava tra le fila di un notabilato e chi invece,

per qualsiasi motivo, le lasciava?4. Nel caso dei teatri di corte, inoltre, la gestione dei posti a teatro finiva per riflettere quelli che erano i rapporti di forza tra sovrani ed élite locali, rendendo il luogo teatro, più di altri spazi, un punto di vista particolarmente efficace sui quadri sociali e sui codici di comportamento dell’Italia della Restaurazione.

3. Chi paga e chi no Il gioco della dignità topografica, quello del chi si siede dove, è ancor più complicato nei teatri ottocenteschi italiani dalla presenza di un pubblico talvolta molto cospicuo costituito dagli «esentati». Niente a che vedere con la claque, una pratica francese dal sapore più commerciale? e molto a che fare invece con il valore simbolico del posto a teatro. Prima di procedere all’attribuzione dei palchi a chi ne aveva fatto richiesta le Direzioni dei teatri dovevano compiere un’operazione preliminare alquanto delicata che consisteva nell’identificare coloro che in forza del loro ruolo avevano diritto ad usufruire gratuitamente di un palco, op‘ pure di sedie in platea o in lubbione, e nell’individuazione

di quei palchi che sarebbero rimasti a disposizione degli esenti e perciò esclusi da vendite, affittanze o attribuzione alle imprese. Ciò comportava tutta una serie di problemi e

34 Per assumere le società dei palchisti come punto di vista sull’identità e sugli stili di vita delle élite locali primottocentesche si possono utilizzare due tipi di documentazione: gli elenchi dei proprietari dei palchi stilati periodicamente dalle deputazioni e le volture dei palchi, entrambe generalmente conservate nei carteggi amministrativi dei teatri. 35. In Francia la pratica della clague era molto diffusa, anche in provincia, e godeva di un tariffario preciso, da 5 a 50 franchi a seconda del

calore degli applausi; cfr. W. Cohen, Urban government and the rise of the French city, Basingstoke, Macmillan, 1998, p. 140.

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in particolare 1) metteva in gioco questioni di ordine sociale e rappresentativo, cioè il riconoscimento e la codificazione gerarchica dei ruoli stessi, 2) comportava risvolti di ordine economico, visto che poneva fuori mercato una porzione cospicua di posti e 3) finiva per toccare il problema politico della presenza delle autorità nei teatri. Nei teatri di corte, dove le regole del mercato avevano ben poco spazio, l'individuazione dei posti d’obbligo diventava parte di una più ampia strategia di rimodellamento del

proprio cerimoniale, che in modo abbastanza simile nelle diverse corti preunitarie reagisce al gusto rituale degli anni francesi sottolineando una propria rinnovata ritualità. E quale occasione migliore della sala all’italiana per disporre in modo ben ordinato, anche meglio che nella navata della cattedrale, tutto l’entourage cortigiano della Restaurazione??° A Napoli il nuovo Piano dei palchi stilato nel luglio del 1815, poco dopo il ritorno di Ferdinando sul trono, prende spunto dalla scomparsa della corte della regina per rimescolare i posti ed evitare che dei «particolari», tutti rigorosamente nobili ma che non facevano parte del suo seguito, si trovassero a fianco del re. La disposizione era la medesima che nelle funzioni religiose importanti, con Maggiordomo maggiore e Somigliere a destra del re, Cavallerizzo e Capitano delle guardie alla sua sinistra, e a seguire i palchi del generale borbonico e di quello austriaco, per un totale di dodici palchi d’obbligo tra la prima e la seconda fila?. Se il palco gratuito era concesso alle più alte cariche di corte, ai maggiori gradi militari e ai dignitari stranieri in visita, non lo era invece alle cariche governative, ad esempio ai titolari dei ministeri, se si eccettua quello degli Affari esteri che in virtù del suo ruolo rappresentativo ne aveva sempre uno a disposizione. Nelle risposte alle molte suppliche rivolte al sovra3 In occasioni particolari ai palchisti poteva anche essere richiesto di affluire verso l’uscita in un ordine preciso allo scopo di formare un corteo reale ben ordinato (cfr. Avvertenze per gli invitati al R. Teatro, Torino, 1842, cit. in A. Basso, I/ Teatro della città, cit, p. 678).

?? Cfr. G. Montroni, Gt uorzini del re. La nobiltà napoletana nell’Ottocento, cit., pp. 16 ss., e A. Spagnoletti, Storza del Regno delle Due Sicilie, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 102 ss.

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no da chi riteneva di avere tutte le carte in regola per ottenere l'esenzione si legge chiaramente l'intenzione di quest'ultimo di mantenere una piena discrezionalità nell’attribuire come nel modificare la localizzazione dei posti di favore?. Con la medesima perentorietà molte comunicazioni

della Casa Reale si rivolgono così a tacitare da un lato le pretese dei dignitari e dall’altro le lagnanze degli impresari, che dalla lievitazione dei posti d'obbligo traggono uno svantaggio economico consistente. Non può stupire il fatto che ogni tentativo attuato da questi ultimi per avere una lista precisa e di volta in volta aggiornata degli esentati cadesse immancabilmente nel vuoto. Dei 12 palchi d’obbligo del San Carlo almeno 4 erano riservati direttamente a Sua Maestà, ma vista la mutevolezza delle concessioni sovrane questi non erano mai sufficienti??, D'altronde tutto ciò faceva parte dell’ambiguità di un sito che era insieme reale e commerciale, oltre che «particolare», vista la privata proprietà delle singole logge‘. 38. Molte di queste suppliche si rintracciano nelle carte d’archivio. Nel 1841 il ministro della Guerra fa notare ad esempio al sovrano che una volta abolita la carica di generale di terra egli si trovava a rappresentare anche il ruolo di capo militare e in quanto tale avrebbe avuto diritto al palco al San Carlo. Ma la risposta del sovrano è all’incirca di questo tono: nessun diritto spetta al titolare di quel ministero, perché il solo fatto di accordarglielo creerebbe un precedente pericoloso per gli altri ministeri, in particolare per quello dell'Interno che appunto non è computato tra gli esenti. Ciò non toglie che il pregiato ministro della Guerra si vedrà eventualmente accordato il palco per graziosa benevolenza sovrana (cfr. II Ministero dell'interno a Sua Altezza Reale, 3 febbraio 1821, in ASN, Ministero Interni II, b. 4355). La facoltà del sovrano

di modificare la

posizione dei palchi e delle sedie d’obbligo in platea è prevista negli stessi contratti d'appalto, alcuni dei quali sono in ASN, Teatri, b. 32.

39 La questione diveniva ancora più delicata quando si estendeva ai teatri privati, i cui proprietari mal tolleravano le pretese di alcuni capi militari ad entrare gratuitamente in forza della loro carica, e per questo inoltravano reclami alla Direzione dei teatri. Una contesa aperta scoppia nel 1810 tra i proprietari del Teatro dei Fiorentini e la Direzione dei Regi teatri circa l’uso ingiustificato di un palco in seconda fila da parte di due alti militari e si protrae fino agli anni ’30, in ASN, Teatri, b. 32; anche il proprietario del San Carlino reclama periodicamente sull’utilizzo di un proprio palco da parte del capitano delle guardie del corpo di Sua Maestà, in ASN, Teatri, b. 33.

4° Proprio al «seme dell’ingiustizia» che covava in un luogo dove la privata proprietà mal si conciliava con la natura reale del sito si richiama-

111

Contese di vario tipo, soprattutto internobiliari, si colle-

gano al problemi degli esenti. Lo vediamo con anche maggiore chiarezza nello spazio miniaturizzato del ducato parmense dove il gioco delle inclusioni e delle esclusioni si fa particolarmente serrato al momento di compilare il nuovo piano dei palchi nel 1816. Qui il libero ingresso a teatro è concesso

a un vero stuolo di persone che in vario modo

gravitano intorno alla corte, tanto che nel primo appalto per il nuovo

teatro questa si era riservata addirittura

12

palchi di second’ordine, 2 del preppiano e 3 del quart’ordine. Le prime difficoltà erano venute già dalla disposizione interna dei dignitari, sulla quale molto inchiostro era stato versato: i consiglieri intimi dovevano venire prima o dopo i

presidenti dell’interno e delle finanze? E ancora: i rappresentanti della Ducale Ferma mista che da anni godevano di un palco in seconda fila potevano continuare a mantenerlo? Quale palco poteva essere ritenuto conveniente per il comandante dei dragoni, che per le sue incombenze e il suo grado doveva essere preferito a qualunque particolare? Infine non mancavano i membri di antiche famiglie cittadine come il marchese Dalla Rosa Prati e il marchese Pallavicino,

entrambi ciambellani, che avendo ceduto i propri palchi consueti alle maggiori cariche del ducato, reclamavano però il diritto di avere i primi palchi successivi ai massimi dignitari di corte?! Le controversie più pesanti erano sorte però con la no-

biltà non insignita di incarichi particolari. La duchessa aveva cercato di tacitare sul nascere ogni corsa al posto migliore, scrivendo che tutti i palchi nobili, anche quelli di recente «nobilitati» nelle file un tempo ritenute mercantili, dovevano essere considerati uguali e sarebbero stati esposti alla va ad esempio una lettera inviata dal marchese Cedronio alla Direzione, del teatro per rinunciare alla proprietà del proprio palco, che diceva essere ormai «un peso insopportabile» per le sue non felici finanze. Lettera del 15 settembre 1815, in ASN, Teatri, b. 32.

4! Un corposo fascicolo sul nuovo Piano dei palchi sta in ASCPr, Teatro, 1817, f. XII La litigiosità di dignitari e ambasciatori fa sì che in un teatro come il Valle di Roma, che non aveva palchi in proprietà, il governo decida di attribuire direttamente gli abbonamenti agli ordini nobili (cit. in J. Rosselli, L'impresario d'opera, Torino, Edt, 1985, p. 40).

LIZ

sorte. Ciò non era bastato però a placare gli animi dei molti ricorrenti, a conferma di quanto fosse difficile, come diceva

il gran ciambellano, «levare e cambiar palco all’uno o all’altro». Ad esempio il marchese Tarasconi, titolare da cinquant’anni del palco numero 7 in prima fila, è uno di quelli che scrive alla duchessa chiedendo misure più decorose per una nobiltà che si trova costretta a veder seduta davanti a sé una turba di impiegati, alcuni dei quali nemmeno erano stati presentati alla sovrana. Per protestare contro la posizione acquisita dagli «impiegati civili e militari» scrive anche la contessa Marchetti, che si dice certa non fosse intenzione di sua maestà quella di «disgustare tante famiglie che da molti anni erano in possesso di palchi» ma esprime tutto

il proprio rammarico per il fatto di trovarsi in questo modo «priva di palco e per conseguenza dell’unico divertimento che offre la città»'. Entrambi, così come il marchese Casta-

gnola al quale era stato attribuito un palco di proscenio al piano terreno che ritiene del tutto sconveniente per la giovane moglie, rifiutano di accettare il cambiamento di ordine che viene loro proposto e rinunciano sdegnosamente a partecipare all'estrazione dei palchi. Neipperg aveva commentato il «bruit public» causato dalla questione cercando di calmare gli animi e sostenendo che mai la duchessa avrebbe inteso distinguere e contrapporre la nobiltà e i titolari di pubbliche cariche. Oltre tutto molti di questi ultimi erano nobili ben noti, come il conte Rugarli, il conte Sanviti o il conte Marca, magari già proprietari di un palco nel prim'ordine prima del 1817, ma che ora si trovano ad esibire prima delle loro patenti di nobiltà il ruolo di «impiegati» di corte del ducato. Nel corso della controversia si erano in ogni caso venuti a creare due per-

corsi paralleli di accesso al posto a teatro: da un lato quello per i particolari, in cui veniva confermata la regola consueta che riservava ai nobili le prime due file dei palchi e non vi accettava la presenza borghese. Dall’altro, quello destinato 4 Lettera della vedova Marchetti ASCPr, Teatro, 1817, £. XII.

a Sua Maestà, 25 agosto 1817, in

4. Ne abbiamo una conferma indiretta nella vicenda dei signori Luigi

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a chi acquisiva la dignità necessaria non da un titolo ma da

una carica, che veniva per lo più accompagnata e rafforzata da una croce cavalleresca, in questo caso quella del ricostituito Ordine Costantiniano di S. Giorgio. Ciò vale per quasi tutti gli «impiegati» non titolati che accedono al palco in seconda fila e che rappresentano appunto quell’entourage amministrativo che costituiva anche il nucleo più importante dei nuovi «cavalieri» della duchessa*. Agli eredi di questi ultimi non era infrequente peraltro che venisse riconosciuta la continuazione del diritto ad un palco, a sancire definitivamente la presenza negli ordini nobili di chi nobile in effetti non era.

La seconda questione posta dagli esentati era di ordine economico, visto che non pagavano il biglietto e riducevano la possibilità di ingresso per il pubblico estemporaneo. Si consideri che in taluni casi il loro numero poteva essere davvero cospicuo. Nei teatri collegati più strettamente alle corti le esenzioni includevano infatti una gran quantità di personale di servizio (dal dottore di Sua Maestà fino alle guardarobiere e alla conciatesta), a cui si aggiungevano tutti gli addetti al teatro, per un totale che a Parma raggiungeva le duecento persone. In occasione dell’apertura del nuovo teatro, quando l’impresario incaricato dello spettacolo di apertura aveva chiesto espressamente uno stato nominativo degli esenti, la sovrana

aveva

riconosciuto

che il numero

delle

esenzioni era eccessivo e andava ridotto, ma aveva sottolinea-

to anche che «privare molti di un privilegio che è divenuto costante consuetudine» sarebbe stato troppo difficoltoso”. Ferrari e Bernini, già titolari di un palco in second’ordine, che inizialmente vengono esclusi dal ballottaggio perché ritenuti non nobili e che vengono riammessi solo alla presentazione di regolari, seppur recentissimi, diplomi di nobiltà; cfr. ibidem.

44 Tra questi ad esempio il cavalier Bertani, rappresentante del governo presso la Ferma mista, il cavalier Fainardi, Presidente del tribunale di Cassazione, il cavalier Dodici, commissario di guerra, o il commendator

Lucio Bolla, consigliere di stato, che dopo aver ottenuto dalla duchessa nel 1816 la croce di cavaliere e subito dopo quella di commendatore, otterrà insieme alla gran croce dell’ordine anche il titolo di barone; cfr. C. Sorba, I cavalieri della duchessa, paper presentato al convegno Le Italie dei notabili: il punto della situazione, Pescara, 5-8 marzo 1998. 4 ASCPr, Teatro, 1828, fasc. Commissione amministrativa. È palese

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Una tendenza alla crescita consistente degli esentati si rileva anche a Modena, dove i 19 esenti elencati dalla sovrin-

tendenza ai teatri in un nota del 1781 sono diventati molti di più nel Regolamento del 1823, che istituisce un complesso sistema di ingressi di favore! Come a Parma si tratta di un gran numero di cameriste, cuoche, addetti al giardino, alle

scuderie, al guardaroba, alle cantine. Rimane comunque in-

tesa, si legge alla fine del documento a sottolinearne il carattere aperto, la «piena facoltà della Real Corte di dichiarare esenti quelli ai quali vorrà accordare tale favore». I posti d'obbligo lievitano in questi anni anche nei teatri maggiori dello Stato pontificio, quasi tutti di proprietà municipale. Per rispondere ai continui richiami degli impresari e degli organizzatori circa abusi e introduzioni clandestine nei teatri il conte Filippo Bentivoglio, responsabile della Direzione dei teatri di Bologna, si trova non a caso a

constatare nel 1818 che il numero degli esenti è talmente aumentato da raggiungere la cifra considerevole di 78 persone tra addetti al cardinale legato, e al suo vice, al cardina-

le arcivescovo, e alle strutture militari, situazione sulla quale peraltro non pare intenzionato a intervenire con misure

specifiche”. Non a caso l’eccesso di ingressi gratuiti è descritto dagli osservatori dell’epoca come un’abitudine tanto nefasta quanche in un teatro sovrano come quello di Torino un grande spazio è attribuito alle persone del seguito e di servizio alla famiglia reale: nel Capitolato Schiffi del 1821 8 palchi sono loro riservati in seconda fila, mentre il palco di mezzo del quart’ordine è per i Paggi. A ciò si aggiunga l'ingresso libero al consueto quanto discrezionalissimo stuolo di addetti. 46 Per la situazione settecentesca, cfr. Nota di quelli che avranno l'Esenzione nel Teatro Rangone, Modena 20 dicembre 1781, in ASCMO, Atti

della Direzione agli spettacoli, b. 1. Dopo il 1823, oltre al libero accesso per tutte le cariche di corte, dal Maggiordomo maggiore fino ai cavalieri del seguito, il cui numero rimane imprecisato, si prevede che alcuni personaggi al servigio reale avranno un abbonamento ridotto a carico della Real Casa (così il medico di corte, il maestro di scuderie, l’economo e il cassiere). Infine un’ulteriore lista di 87 individui avranno

accesso

me-

diante la presentazione di biglietti, 24 dei quali a carico dell’impresa, gli altri pagati dalla corte. I regolamenti in proposito sono in ASCMO, Atti della Direzione agli spettacoli, b. 3. 4? Cfr. ASBo, Archivio storico comunale, Deputazione pubblici spettacoli, 1818.

IN)

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to consolidata e difficilmente risolvibile del sistema italiano. «Se il teatro è della Comune — scriveva Carlo Ritorni nel 1825 — non ne viene di conseguenza che gli impiegati comunali debbano avere libero ingresso mentre in tal caso bisognerebbe ricavarne una più legittima sebbene più pericolosa conseguenza, che tutti i possidenti nella Comune come i veri padroni e sovventori avessero l’entrata gratuita». Era

chiaro — sosteneva — che bisognava seguire l'esempio della Scala, dove gli esenti erano pochissimi, solo quelli «necessarissimi a svolgere l’autorità attiva nel teatro»*5.

Il quadro era in effetti alquanto diverso nei teatri sociali del Lombardo-veneto, nel tempio scaligero come nei teatri di provincia, dove il privilegio del palco fuori mercato o dello stesso libero ingresso risultano molto più parcamente centellinati dalle società proprietarie. Certo anche qui gli esenti crescono lievemente negli anni della Restaurazione rispetto a quanto succedeva nel secolo precedente, ma il loro numero risulta molto contenuto. Nel 1816 alla Scala i palchi indicati come governativi sono cinque, distribuiti nelle prime tre file. Negli altri teatri lombardi e veneti è sempre un solo palco, nell’ordine nobile e in posizione centrale, ad

essere di norma riservato alle autorità, e pochi altri al personale del teatro‘?. Abbastanza vicine all'esempio lombardo dovevano essere le abitudini dei teatri toscani. In una delle sere inaugurali del Teatro Petrarca di Arezzo, il 28 aprile del 1833, vengono registrate tra le presenze serali quindici persone esenti dal pagamento del biglietto, ivi compresi i rappresentanti della polizia?°, Dove il teatro era di proprietà sociale o accademica i biglietti gratuiti dovevano essere in sostanza un’ec4 C. Ritorni, Consigli sull'arte di dirigere gli spettacoli, cit., p. 7. 4 In un teatro importante come il Nuovo di Padova, uno dei palchi d'obbligo è attribuito per concordata reciprocità al direttore dell’altro teatro sociale cittadino, il Teatro dei Concordi, uno di quarta fila alla Direzione del teatro, uno al medico, uno agli addetti all’ordine pubblico.

Le uniche altre esenzioni dal pagamento del biglietto di ingresso riguardano alcuni rappresentanti del personale di servizio: lo stampatore, il cancelliere, l'avvocato, i professori dell'orchestra; le liste dei palchisti e degli esentati sono in ASPa, Teatro Verdi, buste 36 e 81. °0 A. Grandini, Cronache musicali del Teatro Petrarca, cit., p. 33.

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cezione, gestita con parsimonia e concordata con gli impresari, visto il precario equilibrio finanziario in cui generalmente queste sale versavano. Poteva accadere anzi che la concessione del palco centrale alle autorità o agli alti gradi militari, se non legittimata da un vero e proprio acquisto del

palco da parte dei pubblici poteri, suscitasse resistenze tenaci nella deputazione teatrale. Ne ritroviamo in numerosi teatri lombardi a cavallo tra gli anni ’20 e gli anni ’30, a segnalare una sorta di insofferenza per la diretta presenza delle autorità, per giunta gratuita, in uno spazio autorga-

nizzato. Sia a Cremona che a Casalmaggiore i palchisti si rifiutano di cedere all’Imperial Regio Delegato le chiavi del palco reale, adducendo il motivo che la proprietà del palco era indiscutibilmente sociale e la società poteva concederne l’utilizzo solo all'imperatore in persona. In taluni casi la questione assume i contorni di un vero dissidio giudiziale che alla fine viene risolto con l'intervento d’autorità del governo. A Sondrio, forse proprio per evitare controversie

di questo tipo, lo stesso I.R. Delegato propone al governo di acquistare il palco centrale dalla società sostenendo che in un centro dove non si avevano patrimoni consistenti la spesa necessaria a decorare e arredare convenientemente un palco reale sarebbe stata eccessiva per i palchisti?!. Analoghe resistenze societarie alla concessione dei propri spazi si verificano nei confronti della consuetudine, risalente all’epoca francese e già allora contestata, di riservare un palco e talvolta anche la prima fila di platea allo stato maggiore della guarnigione di stanza in città. Alle autorità centrali giungono in proposito proteste da Novara, da Verona e da Brescia, ma un vero e proprio ricorso all’autorità si ritrova a Como, dove il documento prodotto dai palchisti parla di grave li-

mitazione

del proprio legittimo diritto di proprietà”.

51 Analogamente a Como l’LR.D. aveva scritto al conte Strassoldo (19 ottobre 1820) che il palchettone centrale si trovava in uno stato indecente e non adeguato ad accogliere il viceré che nella stagione d'autunno spesso onorava della sua presenza il teatro e aveva richiesto un piccolo contributo finanziario per arredarlo in modo conveniente, in ASMi, Spettacoli pubblici, p.m., b. 28. 32 Il colonnello di guarnigione era intervenuto personalmente in favo-

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L’autorganizzazione che le stesse autorità austriache aveva-

no inizialmente promosso anche sul fronte teatrale poteva d’altronde produrre questi frutti e dopo il ’48, lo vedremo, colorarsi di tinte patriottiche. 4. Platee e loggioni Il pubblico vero e proprio, quello che entrava pagando il biglietto d’ingresso serale o l'abbonamento per la stagione, sedeva invece in platea o in loggione, luoghi diversi e distanti dai palchi. Mentre lo spazio chiuso del palco richiamava nella letteratura come nelle stampe ottocentesche l’immagine del salotto — alla quale poteva fare eventualmente da contrappunto d’insieme quella dell’alveare —, lo spazio aperto della platea si avvicinava piuttosto all'immagine della piazza. Di quest’ultima mostrava sia il movimento e l’andirivieni, che la promiscuità e l’indistinzione sociale, sulle quali tanto avevano insistito le descrizioni delle platee settecentesche, che le mostravano come luoghi di sputi, di spintoni, di gente malinarnese”. Tra i due spazi così come tra le due immagini passava anche una netta divisione di genere: la piazza-platea era luogo esclusivamente maschile, mentre il salotto-palchetto — le descrizioni stendhaliane sono illuminanti in proposito — è dominato dalle dame. «Noi ne’

palchi non consideriamo che le signore — scrive il redattore del Diario del Teatro Ducale di Parma nel 1841 — perché le signore solamente si vedono. Gli uomini che stanno dietro non vogliamo sapere né quello che fanno, né quello che dicono»?. Nel Teatro Verdi di Trieste il regolamento per l'assegnazione dei palchi prevedeva addirittura un’esplicita preferenza per gli ammogliati, essendo la platea un luogo re di quella richiesta portando ad esempio tutte le città di provincia soggette all’augusto impero di Casa d'Austria, dove la cosa era consuetudine accettata. Questo dichiarava anzi di sospettare che la contesa fosse il segno del malanimo della città nei confronti della guarnigione militare; ASMI, Spettacoli pubblici, p.m., b. 28, fasc. Como. % E di botte, strepiti, zozzure, scrive R. Giazotto, La guerra dei palchi, in «Rivista Musicale Italiana», a. I, n. 2, luglio-agosto 1967. 24 A. Stocchi, Diario del Teatro Ducale, Parma, 1841, p. 85.

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adatto agli scapoli e del tutto inadeguato per le signore che non avessero una dubbia reputazione. Durante la Restaurazione la platea acquisisce gradualmente una maggiore dignità attraverso un processo di «addomesticamento» a cui concorrono, quasi accavallandosi, parecchi elementi. Rispetto all’inclusione progressiva di elementi borghesi che è evidente tra i palchisti, qui si verifica piuttosto una sorta di mz/se en ordre che passa in primo luogo attraverso alcune forme di esclusione. Da un lato si impone, con tutta la gradualità del caso, un riassetto degli spazi e delle sedute che incide sulle modalità di ascolto favorendo una maggiore immobilità dello spettatore, dall’altro viene in parte rivista la struttura dei prezzi di ingresso, cosa che ricade sulla fisionomia stessa dell'audience ren-

dendola più decorosa e rispettabile. Entrambe queste modificazioni, che si intrecciano tra loro, conoscono tempi diversi nei vari teatri, ma il loro orientamento sembra co-

mune, così come l’estrema gradualità e la circospezione con cui trasformazioni di questo tipo sono affrontate. In primo luogo gli spazi: i sedili mobili, che vuol dire panche nelle prime file ed eventualmente — più indietro — seggiole pieghevoli da ritirarsi alla cassa insieme al biglietto, vengono parzialmente numerati e riservati. Nei teatri più

piccoli tra quelli che abbiamo considerato, prendiamo quello di Carpi o quello di Voghera, che pure avevano pretese di eleganza nel decoro di insieme e nell’assetto dei palchi, la platea era rimasta a lungo sistemata con panche di legno semplice, strutture molto leggere e spostabili come, appun-

to, in una piazza. Il rischio dell’imbottitura dei sedili era quello di dover essere rifatta di frequente perché inzaccherata dal fango degli stivali ed era quindi spesso ritenuta superflua”. Persino alla Scala Antonio Ghislanzoni ricorda che negli anni ‘40 le panche erano ricoperte di una grossa tela giallastra, non certo del velluto dei palchi?°. E solo con i frequenti restauri di metà secolo che alle panche più rudimentali cominciano ad essere sostituite delle poltroncine 5 E. Santoro, I Teatri di Cremona, cit., p. 78. 56 A. Ghislanzoni, Storia di Milano, cit., p. 95.

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con i braccioli, che erano più comode e adatte ad un’audience borghese di abitués. Alla sua riapertura dopo il restauro nel 1854 la platea del teatro parmense disponeva di «cento sedili a tre scompartimenti ciascuno di poltroncine, con bracciuoli di legno di noce tirato a lucido, imbottite anche nello schienale»”. Solo dopo il volgere del secolo, quando i teatri smetteranno di essere utilizzati come saloni da ballo,

le file dei sedili diventeranno fisse e inamovibili?*. Come si può immaginare non è facile individuare una scansione cronologica precisa per questi passaggi, la cui tempistica varia di teatro in teatro. Se ne può però tentare

almeno un ritratto di massima, a partire dalla documentazione amministrativa dei diversi teatri. La numerazione dei sedili ad esempio comincia a diffondersi tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo, se dobbiamo dar retta all’impresario Vergani che nel 1819 presenta alla Direzione del teatro di Parma una richiesta formale in questo senso: nella gran parte degli altri teatri italiani, leggiamo nella sua domanda, si stava procedendo ormai da qualche tempo a numerare le prime file di posti presso l’orchestra e talvolta si predisponeva anche un ingresso separato per i primi posti in platea??. Anche a Parma ciò poteva consentire a molte rispettabili persone di sedere in platea e di entrare in qualsiasi momento dello spettacolo senza bisogno di attraversare tutto il parterre. Dal punto di vista delle pratiche commerciali questo si rifletteva nell’aggiunta al biglietto d’ingresso di un sovrappiù relativo appunto al privilegio del posto riservato. ° P.E. Ferrari, Spettacoli drammatico-musicali e coreografici in Parma, Parma,

1884, p. 123.

98. Cfr. F. Cruciani, Lo spazio del teatro, Roma-Bari, Laterza, 1992.

?? In realtà sappiamo che solo a Napoli e a Roma la pratica si era. affermata ma se ne discuteva un po’ ovunque. Così scriveva in proposito Carlo Ritorni (Consigli sull'arte di dirigere gli spettacoli, p. 18): «Lodo il costume di quei teatri nei quali i posti delle prime file sono riservati e parzialmente pagati. Questo è sorgente di guadagno per l'impresa e un comodo per que’ cittadini che pagan volentieri la sicurezza di un sedile e la platea nella parte anteriore è più ordinata e tranquilla». 6 La lettera di Vergani è in ASCPr, Teatri, 1819; il secondo ingresso per la platea sarà infine costruito con la ristrutturazione del 1854.

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In un luogo così fortemente consuetudinario come era il teatro, un cambiamento di questo tipo richiedeva però di essere pazientemente assimilato nella pratica quotidiana, e prima di esserlo poteva dar luogo a veri e propri disordini. Qualunque mutamento nelle «inveterate consuetudini del nostro teatro, non importa se equo e utile», dirà tempo dopo un direttore, non può che incontrare opposizioni an-

che tenaci in un pubblico abituato alla frequentazione quotidiana della sala. A Napoli, il teatro che per primo aveva inaugurato la novità della numerazione, sono più volte segnalate tensioni da parte del pubblico estemporaneo che si rifiutava di accettarla e continuava ad occupare le sedie numerate e già appaltate. A poco sembrano valere le ripetute sollecitazioni provenienti dalla direzione di polizia a che le sedie vengano tenute chiuse prima dell’arrivo dei legittimi abbonati. Una voce dissonante nei confronti dei posti

numerati arrivava poi da un forestiero appassionato come Stendhal a cui la regola di riservare le undici prime file ai

militari e agli abbonati, del tutto consueta peraltro in Francia, appariva invece barbara se trasportata in Italia, dal momento che costringeva lo straniero ad accontentarsi di una fila di fondo. In effetti la questione mostrava ancora una volta i risvolti della consueta ambiguità di fondo tra il prevalere di meccanismi di mercato e la persistenza dei condizionamenti del sito reale, un intreccio che proprio al San Carlo trovava la sua più curiosa combinazione. Da un lato si trattava di rendere accessibile e più comoda la platea ad un pubblico «de-

coroso» da trovare sul mercato, dall’altro invece si optava per accrescere quel pubblico collegato alla corte e da questa sollecitato a intervenire, come erano i corpi militari e civili. Sia le direzioni dei teatri che gli stessi impresari erano tutt’altro che chiari su questo punto. Basti pensare che l’impresario Barbaja nel 1817 aveva richiesto l'intervento diretto e coercitivo del re su quel pubblico potenzialmente cospicuo costituito dall’alta burocrazia statale, dagli ufficiali e dagli impiegati di secondo piano. 61 Nota del Commissario generale di Polizia, luglio 1807, in ASN, Teatri, b. 130.

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Sul lungo periodo è però la prospettiva commerciale ad avere la meglio. Nel corso degli anni ‘50 anche a Napoli la situazione sembra essersi rovesciata rispetto all’epoca delle richieste di Barbaja. Ripetute comunicazioni ministeriali richiamavano la sovrintendenza perché limitasse il rilascio dei biglietti ridotti ai corpi militari e agli impiegati, soprattutto nelle serate di maggiore aspettativa di pubblico quando erano previsti cantanti di cartello. In caso contrario i forestieri e il pubblico non abbonato avrebbero avuto ben poche possibilità di trovare posto in teatro”. Negli stessi anni la graduale modificazione della prospettiva — e cioè la necessità di incentivare il libero afflusso del pubblico estemporaneo rispetto al pubblico d'obbligo — diveniva ancora più chiara a Parma, dove il sovrintendente Michele Lopez, di ritorno da un lungo tour di aggiornamento nei teatri europei, era stato sollecitato dallo stesso duca a proporre eventuali modifiche al sistema dei biglietti di ingresso. Se non avessi veduto per la munificienza del mio principe la maggior parte dei teatri d'Europa proporrei le vecchie consuetudini — scrive in una nota datata 20 novembre 1853 — ma siccome mi

sono convinto che almeno alcune di queste si scostano da quanto si pratica quasi dappertutto mi trovo in obbligo di proporre qualche modificazione®?.63

Nelle città visitate, continua, il teatro era innanzitutto un luogo «in cui si vende e si compera», e dunque sottoposto a precise logiche di mercato, anche se il difficile equilibrio tra domanda e offerta poteva anche qui essere raggiunto solo «con il saggio concorso del governo». In questa direzione andava rivisto dunque il sistema degli ingressi, che peccava di poca equità e di scarso decoro, visto che permetteva che in platea tutti pagassero ugualmente, e che. solo chi arrivava prima o spintonava di più potesse trovare posto a sedere. Se pure non si poteva pretendere che tutti © Il Ministero della Pubblica istruzione alla Sovrintendenza, dicembre 1856, in ASN, Ministero P.I., b. 729 II.

9 Lettera del Soprintendente del Reale Teatro di Parma a S.E. il Ministro di stato, 20 novembre 1853, in ASCPr, Teatro, Carteggio, 1854.

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stessero seduti (cfr. par. successivo), si poteva ugualmente dividere la platea in due spazi distinti, separati magari da un'elegante barriera: la parte più cospicua sarebbe stata occupata come nei teatri europei da stalli numerati, mentre il semicerchio restante sarebbe rimasto vuoto. Ciò doveva poi corrispondere a due classi di biglietti, di cui una pari al prezzo di ingresso ai palchetti e l’altra maggiorata per i posti numerati, ma non tanto da dissuaderne l’acquisto ad un pubblico medio, suggeriva Lopez, come succedeva invece nelle tre panche attualmente riservate che per il costo eccessivo spesso risultavano vuote. Molti vantaggi potevano derivare a suo dire da quella sistemazione; da un lato «a sì fatti sedili potranno concorrere anche persone distinte», addirittura «ben ornate signore», come aveva visto con stupore nelle platee d'oltralpe; dall’altro si sarebbe fatto maggiore ordine in quel «formicolìo» di persone che godevano del libero ingresso, le quali avrebbero continuato ad averlo ma solo relativamente al semicerchio. Nulla avrebbe vietato loro di sedersi pagando la modica cifra di 50 centesimi, non essendo così la loro presenza del tutto a carico del teatro. Se degli esentati non c’era proprio modo di liberarsi si poteva forse sperare in un loro piccolo contributo. La platea acquistava in questo modo, lentamente, una nuova dignità borghese, come lo spazio più commerciale del teatro. Il processo non era del tutto lineare e coerente, tanto che tollerava ad esempio che quest’ultima rimanesse almeno in parte, come fu a lungo, un luogo di gente in piedi. La cosa per i contemporanei era talmente ovvia che certamente li avrebbe stupiti il contrario. Nel 1813 il prefetto di polizia di Napoli comunicava ad esempio al sovrintendente che riteneva inutile e pericoloso sospendere «l’inveterata costumanza» di entrare nel parterre senza biglietto, guardarsi intorno e solo allora decidere se restare o meno pagando l’ingresso. E d’altronde in teatro si poteva entrare anche semplicemente per accedere al ridotto, alle sale di conversazione o al caffè, visto che si trattava di un contenitore a più funzioni. Questi tasselli fuggevoli ci restituiscono chiara, insieme alle stampe del periodo, l’immagine di un frequente andiri123

vieni e di crocchi di persone in piedi come in una pubblica passeggiata o in un caffè. Nel 1843 è abolita al San Carlo l’entrata in platea senza sedia, cosa che avviene ovviamente

attraverso il debito patteggiamento con l’impresario e un congruo aumento delle sedie disponibili. Sembra essere peraltro l’unico teatro a farlo, mentre l'opportunità di tenere un ampio spazio vuoto nel retro della platea per i molti che volessero rimanere in piedi continua ad essere segnalata anche dagli addetti ai lavori. La ristrutturazione della platea non significava peraltro che cessasse di affluirvi un pubblico molto vario. Rispetto ai palchi questa rimane un luogo più variopinto, dove piccoli aristocratici si confondevano con le divise dei militari, con

gli abiti civili degli impiegati e con gli acquacedrai che vendevano melarance, dolci, acque calde, fresche, portogalli,

sorbetti e birra. Una vera e propria esclusione, istituzionalizzata nei regolamenti, si registra solo per i domestici, che nel secolo precedente erano soliti accompagnare a teatro le famiglie aristocratiche occupando i palchi di quarta fila o il fondo della platea. A partire dalla fine del Settecento in molti teatri questi perdono il libero ingresso e sono invitati

ad affluire nella galleria. Naturalmente ci sono luoghi dove la presenza dei servitori in livrea continua più a lungo, a fronte di abitudini aristocratiche più persistenti, come

il

Carolino di Palermo, o i Municipali di Bologna e di Piacenza, dove ancora a metà secolo è previsto per loro uno specifico biglietto ridotto. La scansione dei passaggi è molto chiara invece nei regolamenti padovani dove si passa dalla prescrizione limitativa del 1798 («in platea non può entrare alcun servo in livrea se non pagando lo scanno») a quella ostativa

del 1818 («è vietato l’ingresso in platea di domestici in livrea quand’anche avessero pagato il biglietto»). Ad esempio da Carlo Ritorni mento degli scanni nella platea del della città di Reggio Istoria critica, 1835. VIII. © Leggo nella descrizione che

quando parla di un eventuale rifaciteatro di Reggio in Annali del Teatro anno 1834, Bologna, Tip. dei Nobili,

ne dà G. Savonarola, I/ galateo dei

teatri, Milano, Truffi, 1836, p. 32. 6 ASPa, Teatro Verdi, b. 80; ma il divieto dei servitori in platea è

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Numerosi tentativi, a quanto pare dagli esiti modesti, sono registrati inoltre nelle carte di polizia per impedire la presenza in sala di ruffiani e meretrici, seguito consueto di un folto pubblico di militari. Ma sull’efficacia di quegli interventi le carte di polizia riportano molti dubbi, insieme ad una continua richiesta di lumi circa le strategie utilizzabili”. Il filtro più importante rimane il richiamo ripetuto al «decoro», attraverso apposite raccomandazioni ai bigliettai a che impedissero l’entrata a tutte le persone malinarnese e le sollecitassero piuttosto a recarsi nel lubbione®. Talvolta tali preoccupazioni filtrano all’interno degli stessi regolamenti dove può accadere di leggere che è vietato l’ingresso a persone vestite in modo contrario alla decenza e al decoro e che emanino cattivo odore.

Le modificazioni di cui si è detto favorivano il progressivo trasferimento nei loggioni delle couches più popolari che un tempo affollavano il parterre, a cominciare dai domestici fino agli studenti, che in città universitarie come Pavia o Padova costituivano una fetta importante e talvolta tumultuosa di pubblico. Se la platea stava diventando molto gradualmente un luogo ordinato di individui seduti, l'afflusso del «popolaccio», come viene definito nei richiami di polizia, non è precluso nei teatri del decoro borghese ma piuttosto relegato in una zona celata alla vista e dotato di un proprio ingresso separato come

il loggione. La sua frequen-

presente anche nel regolamento di Cesena del 1819; a Pesaro è concesso solo pagando l’ingresso. 6 A Napoli la polizia rileva un vero andirivieni tra la platea e un piccolo camerino vicino al palcoscenico che un tempo, si dice, serviva a cuocere la colla, ed ora funziona da postribolo, cosa del tutto inconve-

niente in un sito reale (Commissario generale di polizia alla Soprintendenza ai RR Teatri, 7 febbraio 1824, in ASN, Teatri, 1824). Nel corso

della Restaurazione il controllo della prostituzione nei vari stati italiani si era fatto gradualmente più attento, collegandosi innanzitutto ad esigenze di tipo sanitario, ma è spesso segnalato come inefficace; cfr. J.A. Davis, Legge e ordine. Autorità e conflitti nell'Italia dell'800, Milano, Angeli,

1988, p. 130.

68 A Parma la Direzione dell’ordine pubblico, in una comunicazione del 14 settembre 1850, ordina «a bullettinai a non dar biglietti di platea alle guardie comunitative né a persone in mal arnese, le quali dovranno andare in loggione», in ASCPr, Teatro, 1850, £. VII.

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tazione doveva essere non particolarmente agevole, per le

esalazioni della sala e i riverberi dei grandi lampadari a olio o a gas, ma talvolta non mancava di servizi propri, come il

caffè o la trattoria, così come di un proprio apposito controllo di polizia, che in situazioni eccezionali, alla vigilia del

°48 per esempio, fu in alcuni teatri adeguatamente potenziato. Solo i teatri le cui origini risalivano più indietro nel tempo, come la Pergola, non possedevano un vero lubbione e mantenevano anche la quinta fila allestita a palchetti separati. Proprio il teatro fiorentino sarà uno degli ultimi a dotarsi di questo spazio più popolare a galleria, rifiutando di farlo persino nel 1856, di fronte ad un preciso progetto di rilancio della sala proposto dall’impresario Luigi Ronzi, progetto che comprendeva l'installazione ormai molto diffusa dell’illuminazione a gas®. Ma si trattava ben più di un’eccezione che della regola, visto che il riordinamento della platea aveva imposto in tutti i teatri ottocenteschi la presenza di uno spazio apposito — in alto e poco visibile — per le classi inferiori. D'altronde queste erano da sempre presenti nei teatri di città, come parte integrante di quell'immagine organicistico-cetuale della società locale che gli spazi teatrali, più a lungo di altri, tendevano a conservare in sé.

5. La struttura dei prezzi Era un’immagine che si rifletteva anche nell’articolazione dei prezzi, l’altro aspetto che subisce in questo periodo una gradualissima ma piuttosto coerente trasformazione. Per entrare in teatro, lo abbiamo detto, si pagava o un biglietto serale di ingresso o un abbonamento per la stagione. Anche i palchisti per lo più lo facevano, tranne che nei teatri dove la loro posizione di comproprietari prevedeva il libero ingresso, cioè nella maggior parte delle sale accademiche. La pratica più moderna dell'abbonamento, in Italia ormai ge9 Bisogna attendere le euforie di Firenze capitale perché la commissione amministrativa si pieghi a misure che preludevano alla frequentazione più allargata; cfr. U. Morini, La Regia Accademia degli Immobili, cit., p. 207.

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neralizzata, prevedeva comunque il risparmio di almeno un terzo sul prezzo del biglietto. Quest'ultimo variava parecchio a seconda dei generi rappresentati e dunque se il corso delle rappresentazioni fosse di opere in musica (e tra queste valeva diversamente l’opera seria, semiseria o buffa) o di commedie; e variava notevolmente a seconda dell’importan-

za delle stagioni. In ogni caso il costo dell’ingresso a teatro era in tutti gli stati italiani particolarmente basso, calmierato dalle corti”°, dai municipi o dalle stesse società dei palchisti. Non era l’incasso serale a costituire la voce principale delle entrate di bilancio quanto la dote annuale pagata dai palchisti e quella concessa sempre più spesso dalle autorità come forma di sovvenzione alle attività teatrali. Nelle stagioni maggiori, quelle di carnevale o in corrispondenza delle fiere, entrare a teatro per un’opera seria con ballo costava mediamente da 1 lira (a Parma, a Modena, ad Arezzo) a 1 lira e 50, fino al caso più eccezionale

delle 2,50 lire della Scala. L’ingresso al loggione si attestava invece intorno ai 40-50 centesimi, per raggiungere gli 80

centesimi alla Scala. Si tratta di cifre che si mantengono invariate per tutto il periodo considerato fino all’unificazione, quando i prezzi avrebbero subito un primo rialzo anche consistente. D'altronde gli stessi autori dei trattati teatrali del periodo suggerivano ai conduttori l'opportunità di non modificare i prezzi una volta stabiliti, prefigurando in caso contrario disordini certi, come ritroviamo ad esempio a Parma alla riapertura del teatro nel 1854, quando al seguito del grande restauro era stato incautamente previsto un aumento di venti centesimi, peraltro subito rientrato”!. 70° A Napoli il ministero dell’Interno comunicava seccamente alla Sovrintendenza nel 1820 che qualsiasi alterazione ai prezzi dei palchi e delle sedie di tutti i teatri doveva considerarsi al di fuori delle sue competenze e attribuita invece al Consiglio di stato con la sanzione del re (Ministero dell’Interno alla Sovrintendenza ai regi teatri,

9 dicembre 1820, in ASN,

Teatri, b. 20). Un’analisi puntuale delle dinamiche dei prezzi in alcuni grandi teatri è stata fatta da J. Rosselli, L’impresario d'opera, cit., pp. 67-71. 7 La modificazione dei modi e dei costi dello stare a teatro doveva ancora a quella data essere percepita come un vero e proprio attacco alla sfera dei diritti e delle pratiche sociali acquisite. In questa prospettiva sono stati letti in uno studio recente i moti scoppiati a Londra nel 1809

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La particolarità del sistema degli ingressi nell’Italia ottocentesca era un’altra e cioè era data dal fatto che biglietti e abbonamenti consentivano la sola entrata, senza alcuna specifica collocazione all’interno della sala, e variavano non a seconda dei posti ma delle categorie di spettatori. Diciamo meglio: nella maggior parte dei teatri esisteva, prima della graduale introduzione del posto riservato con relativo sovrappiù, soltanto un prezzo pieno di base per i «civili» e biglietti ridotti per alcuni corpi specifici che godevano di un ribasso più o meno sensibile. Il primo e più sistematicamente agevolato nei tariffari era quello dei militari, di corte e di governo come si soleva dire, ossia nella accezione più allargata del termine”. Nel Lombardo-veneto, nei ducati padani e nello Stato pontificio questi godevano di una tariffa notevolmente ridotta: a Parma e a Modena la riduzione per i militari è della metà dell'abbonamento civile, ed è un privilegio che perderanno, non senza recriminazioni, solo con l'unificazione. A Bologna il biglietto dimezzato era prerogativa di tutti i militari anche non graduati e gli impresari lamentano l’abitudine di introdurre gratuitamente anche mogli e compagne, magari con accordi sottobanco con i custodi dei teatri?. A Napoli non era prevista una tariffa speciale ma una gran quantità di ufficiali godeva del libero ingresso e tutte le panche delle prime file erano di regola riservate ai militari, ogni corpo una fila specifica. In verità nel 1817, al momento di ripensare il quadro organizzativo dei teatri, la Sovrintendenza aveva esplicitamente richiesto al ministero se negli abbonamenti avrebbero dovuto essere agevolati i corpi militari e le società dei nobili, ma la risposta era stata negativa”. A chiarire quanto questa come durati 66 giorni proprio intorno ad un tentativo di riassetto gestionale del Covent Garden; cfr. M. Baer, Theatre and disorder in late Georgian

London, New York, Oxford University Press, 1992. ? Che voleva dire ricomprendervi le Guardie d’onore, i militi volontari, gli ufficiali in ritiro, e a Modena anche gli impiegati degli uffici militari. AI conte Filippo Bentivoglio da P. Costa appaltatore, s.d., in ASBo, Deputazione pubblici spettacoli, 1818. : 4 Ministero dell’interno alla Sovrintendenza ai teatri, 17 febbraio 1817, in ASN, Teatri, b. 113.

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binazione teatro-militari fosse consolidata nel sistema italiano basti l’accenno fatto da Michele Lopez nel progetto di revisione degli ingressi che ho appena descritto, dove il sovrintendente parmense scriveva che non gli pareva proprio il caso di arrischiarsi a proporre modificazioni relativamente ai signori ufficiali, nonostante non gli risultasse che nei teatri europei da lui visitati godessero di un analogo trattamento di favore. Si diceva certo infatti che ogni accenno in proposito avrebbe provocato reazioni eccessive e scomposvel:

Come categoria di singoli strutturalmente predisposta alla frequentazione quotidiana del teatro, quella dei militari era generalmente inseguita da vicino dagli impresari e dalle direzioni dei teatri, nonostante fosse anche spesso segnalata come fonte di abusi e di piccoli o meno piccoli turbamenti dell’ordine. Se tra le carte di polizia sono frequenti i richiami al fatto che si trattava comunque di un pubblico potenzialmente turbolento e indisciplinato — nel senso che si spacciava per esentato senza esserlo, che estendeva le proprie prerogative alle accompagnatrici, che fumava dove non si poteva” — nel contempo era un’audience ben controllabile e che a sua volta poteva fungere da controllore nel caso tanto esecrato di tumulti e disordini. Quando Barbaja a Napoli sollecitava il re ad imporre ai militari l'abbonamento, a Parma la duchessa sanciva l'obbligatorietà ad abbonarsi per tutti gli ufficiali del Reggimento Maria Luigia e del Comando della Piazza, nessuno escluso, in ogni stagione e per qualunque spettacolo”. Una voce che invece tende a scomparire nei tariffari ottocenteschi è quella dei «forestieri», che spesso in precedenza costituivano una categoria a parte, chiamata a pagare ? Carteggio del Soprintendente del Regio Teatro di Parma a S.E. il ministro di Stato, in ASCPr, Teatro, 1853.

76 Le lamentele degli impresari circa le pretese e gli abusi dei militari infittiscono le carte degli archivi teatrali. A Bologna ad esempio i militari cui è riservata la prima panca presso l'orchestra, si ostinano ad estendere quel privilegio alle loro mogli (ASBo, Archivio storico comunale, Deputazione pubblici spettacoli, 1818). © ASCPr, Teatro, scatola 2, 1817 (convenzione verbale tra il marche-

se Sanvitale, il maggiore del reggimento e l’impresario 23 ottobre 1917).

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più dei cittadini, virtuali proprietari dei teatri di città. E un’usanza che tende a perdersi con la costruzione dei nuovi

teatri, quando gli spettacoli fungevano sempre più anche da richiamo per i viaggiatori’8. Chi godeva di facilitazioni specifiche e consistenti per il luogo teatro continuava piuttosto ad essere la categoria degli impiegati, i cui quadri superiori abbiamo visto sedere numerosi nei palchi d'obbligo con le loro famiglie. In quasi tutti i teatri, soprattutto quelli che godevano di una pubblica sovvenzione, veniva loro accordata una tariffa ridotta, anche se lievemente più alta di quella per i militari, sulla quale peraltro le imprese vigilavano temendo abusi. L’impresario Bandini, appaltatore della stagione di carnevale a Parma nel 1823 aveva denunciato ad esempio chi, per godere di un biglietto ridotto di un terzo rispetto al biglietto civile, si spacciava per impiegato pur avendo soltanto incarichi onorari, e in quella occasione aveva precisato che si dovevano intendere compresi nella riduzione solo coloro che godevano di uno stipendio mensile dal governo, dalla funzione di segretario in giù. Per evitare malintesi di questo tipo a Modena si era imposta addirittura l'abitudine di richiedere un certificato comprovante l’impiego, che doveva servire ad eliminare sul nascere le controversie. In alcuni teatri accademici toscani la strutturazione per

corpi del tariffario era estesa fino a coprire tutta l’articolazione sociale e il costo del biglietto risultava così precisamente commisurato al ceto di appartenenza, in una declinazione radicale di quella logica di ceto che disegnava gli spazi della sala. Al Petrarca di Arezzo la tabella dei prezzi distingueva tre classi di biglietti: la più alta era per «nobili e forestieri», una mediana riguardava «cittadini, medici, le-

gali, e mercanti» e una terza particolarmente bassa era per #8 I prezzi maggiorati per i forestieri, dello stato e non, sono soppressi alla Scala nel 1797, a Modena nel 1820, a Parma nel 1830, a Cesena nel

1831; cfr. J. Rosselli, L'impresario d'opera, cit., p. 43. Ritorni invece la riteneva molto giustificata. Nella sua concezione privatistico-proprietaria dei teatri era abbastanza logico che gli abitanti del comune che sborsava somme annue per il teatro risultassero favoriti rispetto a chi del comune non era.

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«operanti e braccianti»? All’Alfieri di Firenze era prevista addirittura una singolare categoria «banchieri», equidistante

tra nobili e cittadini, di cui però non abbiamo altre specificazioni. Quella toscana era in sostanza l’espressione più compiuta di un’idea del teatro come istituzione cittadina che rifletteva e perpetuava i legami organici interni alle società locali, un’immagine che in realtà si riproponeva lungo tutta la penisola, in modo più o meno marcato nei vari luoghi. E nel cui quadro di ineguale solidarietà rientrava anche il costo estremamente contenuto dei biglietti di loggione, che li rendeva facilmente accessibili — se non certo a contadini e manovali — ad un più stabile tessuto di lavoratori urbani; quello, a cui appartengono molti dei loggionisti che affiorano nei fascicoli delle carte di polizia; come il gestore di un caffè fuori porta S. Stefano a Bologna, o il figlio di un sarto residente in un borgo molto popolare di Parma, entrambi segnalati dalle rispettive autorità come contravventori delle regole di comportamento nelle piccionaie dei loro teatri8!. In questo quadro dalle tinte ancora così marcatamente corporative, fatto di palchisti, di esentati, di militari più o meno precettati, di impiegati pubblici facilitati, come individuare piuttosto la formazione di un pubblico «specializzato» di babitués, di appassionati al genere operistico magari abbonati ai sempre più numerosi periodici musicali del periodo? L’abbonato teatrale — leggiamo sull’«Italia musicale» del 1854 — è un uomo come tutti gli altri con una grande passione che riguarda tutti gli elementi del teatro tranne l’impresario, considerato come il Nerone dell’arte e degli artisti. Parla con trasporto e eloquenza delle cose di teatro, entra in teatro con un sussiego proprio, fa un sorriso protettore agli impiegati, guarda di traverso il pubblico minuto,

eventuale, quello illetterato della domenica

[...]. Per tutto il primo anno trova bella ogni cosa e applaude tutto e tutti, fa conoscenza con coriste e figuranti e offre loro il braccio 79 A. Grandini, Cronache musicali del Teatro Petrarca, cit., p. 34.

80 J. Rosselli, L’impresario d'opera, cit., p. 188. 81 ASBo, Archivio storico comunale, Deputazione pubblici spettacoli, 1850; ASCPr, Teatro, 1822-24, £. VII.

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o qualche scartoccio di confetti. Poi comincia a far conoscenza in platea [...] applaude e fischia come gli viene indicato. Si aggira nei caffè dove bazzicano gli artisti. Passati i trent'anni è meno ardente nei fischi e negli applausi, gioca di gomito per entrare tra i primi e prendere un buon posto. Quando ha varcato i dieci lustri e ha acquistato un po’ di ventre è normalmente impiegato pubblico o renditario, affettuosamente cortese come è il borghese di Milano®?.

Ma l’articolista si affrettava anche a specificare che si trattava di un abbonato tipo rintracciabile solo in un’atmosfera metropolitana,

cioè in Italia solo a Milano, la vera

«Parigi dell’Italia». 6. Diritti e doveri del palchista

Nel marzo del una conversazione nuovo teatro e un ironizzava proprio notabilato di metà deformazioni della

1844 il giornale «Il Pirata» pubblicava in forma di sonetto tra il deputato di un aspirante all’acquisto di un palco, che sulla natura di quell’atto, ben noto al Ottocento ma anche così esposto alle satira.

DepPUuT. Se un palco nel teatro acquistar vuoi Duecentocinquanta scudi pagherai Sovra tal somma ciascun anno poi

Per ogni cento il dieci sborserai Per la cortina che faremo noi Tutte uniformi scudi sei darai Tenda, tappeti, divani, che vuoi,

Sono miserie e tu ci penserai I tre muri d’intorno, e il parapetto, Il soffitto, la porta, ed il piancito,

Comunale saranno proprietà Pel resto sarà tuo tutto il palchetto E pagando l’ingresso, senza invito, Lo spettacol godrai che a noi parrà.

Concorr. Tutto ciò bene andrà Ma, perdonate, a me par di vedere Ch’io paghi, e nulla compri, or vo’ sapere Mio magnifico Sere, 82 L'abbonato teatrale. Tipologia, in «L'Italia musicale», 1° luglio 1854.

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Che mi vendete pel denaro versato? «L'Aria» rispose allora il deputato”

Nell’opinione comune

l'acquisto di un palco doveva

cominciare a mostrare a metà secolo tutti i limiti di un atto

impegnativo e ben poco vantaggioso ad un calcolo strettamente economico. I vari trattati teorici sulla conduzione delle «aziende» teatrali che vengono pubblicati tra gli anni °20 e gli anni ‘40 dedicano al problema un’attenzione ancora un po’ frettolosa, tutti incentrati come sono sul tema della conduzione pubblica o meno dei teatri e sulla questione dell’unione o della separazione tra la direzione amministrativa e quella artistica. Vi si ricordava soltanto che la tradizione del «palchettismo» aveva origini antiche e rappresentava la chiave di volta dell’intero sistema, suggerendo tra le righe che metterla in crisi poteva voler dire il crollo di quest’ultimo. In apertura del suo trattato Gino Valle presentava un quadro delle diverse tipologie proprietarie dei teatri italiani, sostenendo che la più frequente era appunto la «proprietà mista», vale a dire un sistema in cui la libera proprietà dell’edificio — regia, comunale, sociale o particolare che fosse — era affiancata dal dominio dei palchisti sulle rispettive logge e sui camerini

annessi. E spiegava come

quelle scatoline di velluto e di taffetà talvolta tanto contese, andassero considerate come vere e proprie porzioni immo-

biliari, di cui il palchista teneva le chiavi, segno inequivocabile di possesso. In questo come negli altri trattati citati, che pure dichiaravano l’intenzione di considerare i teatri come moderne aziende e si articolavano intorno a questo proposito, nessun dubbio circonda il sistema dei palchi in pro-

prietà, che la moltiplicazione dei teatri confermava come perfettamente valido e funzionante. Seguendo la vita amministrativa di alcune sale ci si accorge però, procedendo lungo il secolo, che quella particolare modalità di finanziamento cominciava a mostrare qualche segno di fragilità. Ad esempio sulle clausole relative ai diritti-doveri dei palchisti che un tale sistema da sempre 8 Da «Il Pirata», 26 marzo 1844.

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postulava si aprivano controversie sempre più frequenti tra

i soggetti interessati, che parevano mettere in discussione la combinazione tra il ruolo pubblico del teatro e la sua parziale privatizzazione. L'impressione che il sonetto esprimeva con i suoi versi taglienti era che i diritti dei palchisti fossero sempre più magri mentre i doveri sempre più gravo-

si. In realtà ciò che progressivamente diminuiva era la possibilità di una gestione del tutto privata del palco. Se ad esempio consuetudine voleva che il palchista potesse «orna-

re il palco a piacer suo», come fosse il suo salotto in pubblico, i contratti d’acquisto e i regolamenti dei teatri tendevano a porre limiti sempre più stretti alle pratiche di privatizzazione degli spazi dei palchi, in nome dell’unità e dell'uniformità dell’insieme. Con maggiore o minore puntiglio a seconda delle località si sottolineava che tendaggi, tappezzerie e cuscinerie interne non potevano discostarsi

dalle scelte coloristiche dell'insieme. E che la stessa cosa valeva per arredi e suppellettili. Ciò riguardava non soltanto il momento della costruzione ma anche i restyling periodici a cui le sale erano sottoposte, che comportavano spese considerevoli per i proprietari. Molti di questi lavori avvengono a metà secolo, quando parecchie sale modificano tinte e decori

e aggiornano

i propri

impianti.

Le atmosfere

coloristiche delle sale cominciavano infatti a prendere le distanze dalle consuetudini settecentesche e i palchisti erano chiamati ad uniformarsi rapidamente: il velluto celeste chiarissimo dei parapetti a Cesena, o il color cenere della tappezzeria di Piacenza o di Cremona cedevano il posto ad un più ottocentesco

rosso granata e oro8. A Piacenza

il

capitolato arrivava ad indicare ai possessori dei palchi dove trovare i cordoncini e il taffetà necessari al riarredo, specificando che la distinzione di importanza tra gli ordini doveva passare anche attraverso le stoffe, obbligatoriamente in seta nei primi ordini e in cotone nel quarto”. A Parma,

dove al cambio di regime nel 1853 corrisponde subito il 84 Ma il restauro della Scala del 1830 ad opera di Francesco Hayez e Gaetano Vaccani gioca ancora sul verde e sul celeste. % E. Papi, I/ Teatro Municipale di Piacenza, cit.

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restauro della sala, il ministro di Stato comunica ai palchisti che per sovrano volere i mobili dei palchetti avrebbero dovuto essere tutti di una medesima forma e ugualmente coperti di un velluto di lana color rosso8. Qualche anno più tardi a Brescia il teatro maggiore, costruito all’inizio del secolo, viene opportunamente ritappezzato e i palchisti sono

invitati ad uniformare tutte le suppellettili, dalla tenda per la porta agli specchi, dai portamantelli ai portacannocchiali®. In questa medesima direzione vanno i divieti a modificare l'architettura dei palchi aprendo volte e passaggi nelle pareti interne, ma soprattutto la definitiva scomparsa, che talvolta passa per via normativa e più spesso per via consue-

tudinaria, di quella forma estrema di privatizzazione delle logge di cui si trovava traccia ancora a inizio secolo nei teatri di origini settecentesche, cioè l’uso di chiudere i palchi durante le rappresentazioni con tendaggi o vere e proprie «persiane». Nel teatro vecchio di Arezzo un decreto del 1823 disponeva chiaramente che le persiane fossero aperte almeno mezz'ora prima dello spettacolo88, mentre a Parma nel 1816 la regolamentazione delle serate imponeva che lo spettatore tenesse le cortine del suo palco legate alla colonne durante tutto lo spettacolo «per non impedire la vista al palco vicino e per non togliere allo spettatore il bello della simmetria». Simili forme di chiusura generalmente scompaiono nei teatri costruiti dopo la svolta del secolo, complici insieme motivi di decoro e di controllo, ma risultano ancora esistenti alla Scala, ed anzi sono incluse nei lavori di restau-

ro del 1830. Ma la limitazione principale posta al diritto di proprietà dei palchisti riguardava l'impossibilità di gestire liberamente il bene acquisito poiché il vincolo sociale ne limitava ipso facto il dominio. Per subaffittare, vendere o anche cedere il diritto d’uso era sempre richiesta la preventiva autorizzazio-

86 Cfr. la circolare 3 ottobre 1853 inviata ai palchettisti in cui si informa che presso l’amministrazione del teatro si trovavano gli opportuni campioni nonché il velluto suddetto, in ASCPr, Teatro, 1853, f. XII. 87 AA.VV,., Il Teatro Grande di Brescia, cit., p. 106. 88. A. Grandini, Cronache musicali del Teatro Petrarca, cit., p. 99.

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ne di chi possedeva il teatro: della società nei teatri sociali*, della Magistratura locale in quelli municipali, del sovrano in quelli di corte. Che si trattasse di un diritto di proprietà del tutto sui gezeris diveniva ancor più evidente in questi ultimi

dove il controllo del sovrano sui palchisti giungeva fino ad invitarli sollecitamente ad affluire numerosi in teatro in occasioni importanti o a indirizzare loro puntuali indicazioni sul comportamento da tenere. A questo genere di condizionamenti andavano poi aggiunti, a spiegare i primi segni di una crisi del palchettismo, i costi considerevoli della gestione. Come co-responsabili della vita del teatro era infatti richiesto ai palchisti di pagare ratealmente un canone annuo fissato già al momento della vendita ma suscettibile di variazioni. Il canone dei palchisti era una delle principali voci di entrata dei teatri e nella loro contabilità andava a far parte della dote annua e non degli introiti serali, a sancire il carattere di una entrata fissa di

gestione, non soggetta a variazioni di umori culturali e di climi politici. Il suo ammontare era fissato nello statuto sociale o accademico e doveva essere approvato dalla società e concordato con le imprese? Monetizzando la diversità dei vari palchi, questo rappresentava in un certo senso uno specchio della filosofia che guidava in ogni teatro l’assetto del pubblico. È evidente cioè che in un teatro accademico molto elitario come La Pergola fiorentina, rimasto quasi impermeabile ai mutamenti ottocenteschi, i canoni della prima e della seconda fila, le sole dove siedono gli accademici proprietari, risultano equiparati. In un teatro molto

più sensibile al clima restaurato e ai suoi slanci di gerarchizzazione come La Fenice il canone dei palchi arrivava a prevedere, dopo la ristrutturazione del 1815, ben otto diCosì si legge ad esempio nell'articolo 5 del Regolamento della Società proprietaria del gran Teatro La Fenice in Venezia (Venezia, 1848): «Nel caso di mutazione di proprietà per titolo contrattuale, dovrà essere riconosciuta sotto i rapporti morali e sociali l'idoneità del successore a formar parte della Società ed a sostenerne la rappresentanza...». _° A Cesena, dove non si paga l'acquisto del palchetto, il canone di affittanza ammonta al 15% del valore del palco; in un teatro sociale come quello di Ceneda è solo il 4,5%.

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verse tariffe per ogni ordine, in una versione estrema della distinzione topografica”. Nella maggior parte dei casi il canone annuo non significava che i palchisti fossero esentati dal pagare l’abbonamento per la stagione o il biglietto di ingresso. Sommando il prezzo d’acquisto, il canone e l'abbonamento, l’esborso

complessivo per il mantenimento di un palco era dunque ragguardevole. I palchisti garantivano cioè ai teatri sia un’entrata fissa di gestione che un pubblico sicuro, soprattutto dove, come al Sociale di Treviso o a quello di Ceneda, si parlava nello statuto di «obbligo di abbonamento» nelle stagioni ordinarie e l’unica alternativa loro concessa era quella di trovare un abbonamento sostitutivo”. Il «passo libero» a teatro, che spesso è concesso agli accademici nei teatri toscani, è più un’eccezione che la regola nel quadro complessivo. In alcuni casi il libero ingresso tende a riguardare gli spettacoli minori ma ad escludere comunque i momenti alti delle stagioni, cioè quelli operistici?. Non può stupire dunque l’alta frequenza delle morosità registrata nei carteggi amministrativi dei teatri, mentre le modifiche continue cui vanno incontro le relative contro-misure, lo vediamo bene a

Padova, fanno pensare che il problema fosse di difficile soluzione”. E d’altronde ogni proposta di fur over dei palchetti, che poteva prevedere ad esempio la loro cessione all’impresa nei periodi morti della stagione, generalmente cadeva di fronte all’opposizione dei palchisti, che come a Reggio Emilia si dicono timorosi che il loro piccolo salotto potesse «essere 9 Una situazione analoga, che estremizza una diversificazione dei prezzi già settecentesca, la ritroviamo nel tariffario dell’Eretenio vicentino e a Trieste. % Regolamento del Teatro di società in Treviso, 1846. 9A Bologna i palchisti hanno accesso gratuito «tranne che per le opere Eroiche o Regie». 9% Normalmente i soci morosi, trascorso un lasso di tempo variabile,

vedono decadere i propri diritti sul palco, avocare a favore della società i prodotti serali degli spettacoli e infine mettere all’asta il proprio palco. Nel regolamento padovano del 1856 si specifica che ove per due volte consecutive un socio non pagasse in scadenza il proprio canone ciò sarà

interpretato come una tacita rinuncia al palco a favore della società; cfr. ASPa, Teatro Verdi, b. 25, Regolamenti e norme.

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profanato da persona triviale»”, In realtà l’idea doveva essere abbastanza attuale se viene inserita in un progetto di riorganizzazione amministrativa del San Carlo che era stato presentato e discusso nel 1831, senza peraltro ottenere successo. Vi si accennava alla possibilità di modificare le modalità di acquisto dei palchi, prevedendo un diritto di proprietà non perpetuo ma rinnovabile ogni dieci anni «a seconda delle variazioni alle quali van soggette le Fortune de’ particolari», oltre ad una parziale attribuzione a quella «Classe dei commercianti nella quale si trova la maggior parte de’ capitalisti e quelli che ritraggono profitto dai RR. Teatri». Queste nuove modalità, che modificavano piuttosto radicalmente l’idea della privativa dei palchi, avrebbero forse potenziato e reso più agevole la vita del teatro stesso, così si legge nel progetto, che non avrebbe però trovato appoggi sufficienti alla sua realizzazione”. Nei decenni centrali dell'Ottocento, quando i teatri sociali e municipali si erano ormai moltiplicati, il capitolo diritti-doveri dei palchisti, che dal punto di vista giuridico non era privo di ambiguità, doveva diventare sempre più controverso. Un vero filone di studi di giurisprudenza teatrale si svilupperà non a caso dopo l’unificazione, nel momento in cui i teatri si troveranno ad attraversare la loro più pesante crisi finanziaria”. La questione si risolveva nella seguente domanda: una volta acquistato un palco si aveva su quello «il vero e assoluto possesso», oppure solo una forma particolare di diritto d’uso, come sosteneva chi tendeva a far prevalere le ragioni della proprietà del teatro nel suo complesso? E evidente che l’interrogativo in questione richiamava ad una revisione di quel congegno di condivisione proprietaria grazie al quale i notabilati cittadini avevano costruito i loro teatri e che quanto più il sistema andava aumentando nei budget, diffondendosi sul territorio e ? C. Ritorni, Anmali del teatro della città di Reggio, 1829, cit., p. 100. % Progetto di riorganizzazione dei Reali Teatri, 16 settembre 1831, in ASN, Teatri, f. 20.

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" Cfr. ad esempio, A. Franchetti, Del diritto di palco nei teatri, in «Archivio giuridico», 1871, vol. VII; V. Rivalta, Storia e sistenza del diritto det teatri, Bologna, Zanichelli, 1886.

138

commercializzandosi, tanto più sollecitava contenziosi legali complessi, che mettevano l’uno contro l’altro i palchisti, sempre meno disposti ad accollarsi il peso finanziario di quella istituzione cittadina, la proprietà dell’edificio e V’impresa appaltatrice, costantemente alle prese con la cronica debolezza finanziaria che pareva propria di quest'attività. 7.

Dinamiche di mutamento

La Restaurazione si era aperta, lo abbiamo visto, con una grande attenzione dei sovrani per gli spazi teatrali e con il rinnovato rilievo dato al possesso del palco come elemento di distinzione e di esibizione del proprio status da parte del notabilato locale. Avanzando di qualche decennio lungo il secolo quel pubblico-comproprietario costituito dai palchisti si era fatto ovunque più articolato, non tanto perché venissero messe in atto consapevoli politiche di allargamento della audience, che pure sarebbero state necessarie alla sopravvivenza di strutture in perenni difficoltà finanziarie, ma al seguito della diffusa immissione nei notabilati cittadini di nuovi elementi che rappresentavano la classe

dirigente affermatasi proprio negli anni della Restaurazione. «Quasi dappertutto — ha scritto Marco Meriggi a propo-

sito degli anni ’50 — si rese palpabile, in verità, un accenno di diversificazione. Un notabilato non necessariamente fondiario e non necessariamente aristocratico vi si inserì infatti in misura assai più pronunciata rispetto ai decenni

anteriori al °48»?. Che nei vari luoghi le società del teatro si definissero società di «cittadini», di «azionisti», di «condomini» o di «accademici» le coordinate della loro graduale diversificazione interna riflettevano le articolazioni specifiche delle società locali: precoci innesti borghesi si verificavano in città a maggiore vocazione mercantile, grandi porti come Li®8 M. Meriggi, Società, istituzioni e ceti dirigenti, in Storia d’Italia. 1.

Le premesse dell'Unità, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 158.

k3:9

vorno 0 Genova, o snodi del commercio internazionale come

Trieste; mentre più lenta e graduale risultava la commistione tra nobili e borghesi nel maggiore teatro modenese, vetrina di una società più tradizionalmente aristocratica che rappresentava quasi una parodia di Ancien Régime; a Reggio

Emilia si registrava una presenza numericamente forte tra i palchisti — che corrispondeva ad un peso sociale di tutto rispetto — della comunità ebraica locale, membri della quale possedevano almeno una quindicina di palchi tra il terzo e il quarto ordine”. Un analogo processo di ampliamento, anche se più cauto e controllato, si riscontrava nei teatri di corte, nei quali un 477 over non disprezzabile nell’utilizzo se non nella proprietà dei palchi sembrava delineare i contorni di un quadro meno bloccato di quanto si potesse immaginare. L’alto costo dei canoni annui rendeva ad esempio talvolta consigliabile il subaffitto a breve o a lungo termine del palco stesso e nonostante le autorità governative e gli impresari contrastassero esplicitamente questa pratica, che

limitava il loro controllo sui palchi, a Parma se ne registrano molte, talora non dichiarate e scoperte casualmente, altre volte invece oggetto di espressa domanda ai sovrani. Si diceva ad esempio che il conte Cantelli da anni subaffittasse indisturbato il palco e condividesse quello del marchese Tirelli; altri invece, come il conte Massimiliano Marca, ave-

vano chiesto formalmente alla duchessa di cedere temporaneamente il proprio palco per una o più stagioni; più scandaloso era il caso del palco di proscenio attribuito al conte Costerbosa, sul quale nel 1824 si era aperta una piccola inchiesta di polizia poiché il palco risultava da anni subaffittato a persone sempre diverse che lo utilizzavano per il gioco d’azzardo, suscitando i reclami di virtuosi e capocomici disturbati dagli schiamazzi durante lo spettacolo!°. Più si avanza a varcare la metà del secolo più di fre? Cfr. F. Cruciani e D. Seragnoli, I luoghi teatrali a Reggio nell’800, in Teatro a Reggio Emilia, a cura di S. Romagnoli e E. Garbero, Milano, Sansoni,

1980.

°

!00 La vicenda si chiude infine con l’attribuzione di quel palco di proscenio, così ben disposto per vigilare sulla platea, al corpo di polizia, in ASCPr, Teatro, 1822-24, f. VII.

140

quente si trovano anche palchi in comproprietà, a smentire almeno in parte il carattere così strettamente familiare che fin dalle sue origini aveva il possesso di un palco!”; a Parma il marchese Tassoni-Villa aveva ceduto il proprio palco ad una società di quattro borghesi cittadini e la pratica doveva essersi diffusa se nel 1854 almeno una decina di palchi risultavano

condivisi da più persone,

a sancire una maggiore

individualizzazione anche dei posti nelle logge!®. I passaggi di proprietà dei palchi sembravano seguire le alterne fortune delle diverse famiglie. Così la contessa Ventura, appena rientrata nel novero delle dame di palazzo nel 1826, aveva chiesto di poter rientrare in possesso di un palco a cui la famiglia da alcuni anni era stata costretta a rinunciare!®. O Giuseppe Poldi Pezzoli, nello stesso anno in cui viene insignito della croce di cavaliere dell'Ordine costantiniano in favore del quale aveva aperto una commenda, si era affrettato a richiedere al Neipperg anche l’assegnazione di uno dei primi palchi della terza fila, già posseduto dalla contessa Gallani che voleva cederne la proprietàl04.

Se lo stesso forestiero che abbiamo seguito nel 1817 fosse tornato alla Scala trent'anni dopo avrebbe trovato anche qui una situazione abbastanza in movimento. Nell’intero periodo considerato, dalla prima Restaurazione all’Unità, solo 38 palchi rimangono intestati al medesimo proprietario. Negli elenchi dei palchisti per il 1830 e il 1847 sono complessivamente registrati 82 passaggi di proprietà, di cui

101 Dal ’41 al ’47 le liste dei palchisti sono riportate nel Diario Teatrale di A. Stocchi; nel 1854 viene approntato un registro che riporta tutte le volture dei palchetti, anche precedenti a quella data; cfr. ASCPr, Reale Teatro di Parma, Registro de’ proprietari ed usufruttuari de’ palchetti, Parma,

1° marzo

1854.

102 La cosa può essere però malvista dalle autorità o quantomeno soggetta ad un preciso controllo. L’I.R. Delegato per la provincia di Padova comunica ad esempio alla Presidenza del teatro Nuovo di ritenere desiderabile che senza l'approvazione dell’autorità politica non siano formati palchi in società, Avviso 23 marzo 1832, in ASPa, Teatro Verdi, b. 80. 10 In ASCPr, Teatro, 1826, f. XII.

104 Sulla vicenda di questo palco vedi ASCPr, Teatro, Carteggio, 182526, 45.

141

solo 14 riguardano il medesimo palco!®. La maggior parte

dei nuovi palchisti erano rappresentanti di quelle famiglie di negozianti-banchieri che in quegli anni stavano crescendo, in città, di fortuna e di ruolo sociale, o meglio ancora di

coloro che tra questi si dimostravano più attenti e più sensibili all’emulazione di uno stile di vita nobiliare e che si erano dati da fare per trovare l’occasione di acquisto di un palchetto. Un’occhiata agli ordini nobili ci dice ad esempio che il già citato Giuseppe Poldi Pezzoli nel 1830 riesce ad acquistare un palco di seconda fila anche alla Scala, e che vicino a lui siede Bartolomeo Ponti il quale aveva acquistato il palco cinque di seconda fila, giusto in mezzo tra la famiglia Busca Serbelloni e la contessa Castelbarco Litta Visconti Arese. Due palchi più in là, dopo la marchesa Della Somaglia e donna Monticelli Strada Raimondi sedeva anche Baldassarre Galbiati, che come il primo era un importante negoziante di sete oltre che banchiere, mentre in un palco di prima fila stava l’ingegner Bellotti che lo aveva acquistato dalla famiglia Stampa di Soncino. Se si eccettuano questi casi la maggior parte dei nomi nuovi si concentra però an-

cora in terza fila, dove era anche più facile trovare un palco da acquistare. Qui troviamo appunto il gotha della borghesia milanese degli affari, da Guglielmo Ulrich, al cavalier Sebastiano Mondolfo, da Giuseppe Maggi a Paolo Staurengo a Gian Battista Gavazzi!°., A Parma, dove questo tessuto sociale di nuovi imprenditori mancava del tutto!”, i borghesi che accedevano ai

palchi delle prime file facevano leva sul consueto passe-partout delle cariche, civili o militari, e la relativa graziosa conces-

sione sovrana; nonostante la duchessa avesse ribadito più volte il principio che cessata la carica decadeva il diritto al palco era successo in più occasioni che ai propri più fidati !

L'elenco dei proprietari di palco secondo il censimento originario

è in P. Cambiasi, La Scala 1778-1906, Note storiche e statistiche, V ed., Milano, Ricordi, 1906. 106 S. Levati, La nobiltà del lavoro, cit., p. 127.

!© Si segnala solo il caso di Angelo Moracchi, negoziante in chincaglierie che nel 1853 rileva il palco di prima fila del barone Soldati, ex ministro di Stato.

142

funzionari la sovrana avesse consentito l’acquisto, magari a rate, del palchetto occupato fino ad allora! In ogni caso anche qui era la terza fila ad ospitare il maggior numero di palchisti alto-borghesi, che sono in questo caso giudici o procuratori, consiglieri ducali, il presidente della Camera di commercio, il direttore del ducale museo, e magari tenenti della guardia. A Modena il percorso inclusivo era passato attraverso l'inaugurazione del nuovo teatro. I palchisti del Teatro Rangoni erano in origine un gruppo molto ristretto di nobili che nel 1806 aveva acquistato il teatro dal conte Rangoni stesso!®. Visto il numero contenuto dei palchi in proprietà, tutti gli altri, cioè una quarantina, erano affidati in dote agli impresari che li affittavano ad ogni corso di rappresentazioni. Al termine di questo le chiavi del palchetto dovevano essere restituite e l’affittanza successiva nuovamente approvata dalla Delegazione ai teatri. Nel 1839 una vera barriera sociale ancora passava tra i proprietari, che anche in terza fila erano salvo pochissime eccezioni nobili, e gli affittuari, che erano invece per gran parte borghesi. L’occasione del cambiamento è rappresentata dall’apertura nel 1841 del nuovo teatro comunale, per coprire la costruzione del quale il municipio aveva venduto tutti i palchi delle prime tre file che già non fossero attribuiti, tenendo per sé solo la quarta fila, da dare in dote all’impresa del momento. Quando si era trattato di dotare la città di un nuovo teatro più capiente e al passo coi tempi la mobilitazione finanziaria aveva riguardato in sostanza un notabilato più ampio che ovviamente comprendeva parecchi dei precedenti affittuari!!°, In questa estensione sociale dell'accesso al corpo dei palchisti il codice gerarchico non sembra comunque perde108 Alcuni casi sono in ASCPr, Teatro, 1831, f. XII.

109 Qui sono continuativamente proprietari di palchi i marchesi Coccapani, il marchese Campori (con due palchi), il conte Bellentani, il conte Abbati, il conte Molza, il conte Bentivoglio, i marchesi Fontanelli,

Tacoli, Rangoni. 110 L'elenco dei palchisti, degli affittuari e degli abbonati per la stagione 1839-40 è conservato in ASCMo, Atti della Deputazione agli spettacoli, filza 6; la pianta dimostrativa i Proprietari dei Palchi del 1863 sta in ASCMo, Atti DS, filza 15.

143

re di significato, anzi, mantiene una piena vitalità, semplicemente slegandosi da una visione della distinzione basata sulla nascita. Può persino succedere che, come a Venezia nel 1844, questo acquisisca una colorazione scientifica inaspettata. In vista di una nuova ripartizione dei canoni fra i vari ordini che si voleva il più possibile «oggettiva», il prestigioso teatro veneziano aveva incaricato infatti una com-

missione di esperti composta dall’ingegnere capo del teatro, da un professore di fisica, uno di prospettiva e da un pittore scenico, di esplicitare i criteri di valore dei palchi, cosa effettivamente non facile poiché, si premette, «ad elementi costanti si associano elementi variabili di convenzione, di circostanza, di gusto»!!!. Le conclusioni a cui giunge la singolare commissione confermano naturalmente le convenzioni consuete, ma lo fanno precisandone gli elementi nei termini di «comodi e incomodi» dello stare nel palco. E cioè il second’ordine era da considerare favorito, leggo nella relazione conclusiva, non solo perché così era nel giudizio del pubblico, e nemmeno soltanto in ragione delle sue condizioni acustiche e prospettiche effettivamente più favorevoli, ma soprattutto per l'atmosfera che vi si poteva respirare. Lì, ben più che negli altri ordini, lo spettatore «sta come al centro della scena della vita [...] in tale elevatezza e distanza dall'occhio ardito e volgare [della platea] da non doversi stare sulla difesa, per lo che si abbandona in

domestico crocchio a quella giocondità della vita che gli ispira la voluttà dello spettacolo senza essere distratto dai naturali disturbi che arreca anche la più civile platea», e respira pienamente «lo spirito di quella innocente voluttà che reca la vista di tanti spettatori per vario modo compresi da speranze, da timori, e da piaceri diversi». Difficile trovare una descrizione altrettanto chiara del particolare piacere dello stare a teatro in una posizione di rango nella sala all'italiana. !!! Cfr. Teatro La Fenice, Relazione dei lavori della Commissione inca-

ricata dalla parte sociale del 1° settembre 1844 dell'esame se convenga di regolare la cifra estimale dei Palchi e relative proposte, in ASPa, Teatro Verdi, b. 25.

144

Il preppiano, continuava la relazione, poteva forse considerarsi migliore in relazione alla prospettiva che da lì si apriva sulla scena, ma non lo era certo in rapporto alla platea, al suo bisbiglìo e alla sua ardita curiosità, per cui «la Signora è sotto l’occhio scrutatore, e talvolta petulante» di chi sedeva a pochi passi sotto di lei. Allo stesso modo la terza fila, che pure non presentava questi inconvenienti di promiscuità, iniziava però a risentire degli incomodi che poi diventavano quasi insopportabili salendo agli ordini più alti, e cioè i riflessi del grande lampadario, le difficoltà acustiche, il caldo e le esalazioni della sala. Non c’era da stupirsi in sostanza se gli ordini nobili continuavano per lo più ad essere definiti tali anche se si riempivano di borghesi, ben decorati con le croci di cavaliere e di commendatore dei nuovi ordini cavallereschi.

8.

Comportamenti e regolamenti

Nel teatro è certamente necessario mantenere il silenzio ma non vuolsi imperarlo con certa severità [...]. E da corregger maggiormente altro abuso, quello d’impedir altrui il vedere, primieramente con un cartello d’ambe le parti della platea che vieti starsi in 112 piedi fralle panche!!?.

Questa come altre prescrizioni sul modo di stare a teache risalgono alla prima metà dell’Ottocento insistono sulla necessità di evitare disturbi alla libera visuale che sul silenzio. Eppure proprio il rumore è uno dei tratti più colpiscono gli stranieri che entrano in un teatro

tro più non che italiano. Il compositore tedesco Nicolaj parlava di chiasso, di chiacchiericcio come canarini che strillano più forte quanto più forte è la musica!#. Hector Berlioz, che pare «gridare maledizione a ogni passo che fa in Italia»!!4, sosteneva che 112 C. Ritorni, Annali del Teatro di Reggio, cit., anno 1834, p. VIII. 113 Cfr. J. Rosselli, L'impresario d'opera, cit., p. 8. 114 Così almeno dice di lui l’editore Guillaume Cottrau in Lettres d'un mélomane pour servir de document è l’histoire de Naples de 1829 à 1847, Napoli, Morano, 1885, p. IV.

145

nei teatri italiani si disputava come alla Borsa, mentre i bastoni facevano un accompagnamento sul pavimento forte quasi come una grancassa!. Ma se il teatro di città è nell’Italia del primo Ottocento più di ogni altra cosa un luogo di incontro e di sociabilità, un momento di incivilimento e di educazione ai rapporti sociali, e in questa prospettiva viene favorito e appoggiato dai governi, come si può pensare che la conversazione, il commento ad alta voce, le chiac-

chiere diffuse cedano il posto all’ascolto silenzioso? Il chiacchiericcio di fondo non è soltanto tollerato ma di buon grado legittimato dai galatei della frequentazione teatrale del periodo. Nel più noto tra questi l’autore mostra pochi dubbi in proposito: Non a tutti è lecito, mi dirà alcuno, l’entrare in discorso co’ vicini [...] cui io rispondo: e perché non debbe esser lecito? Non è il Teatro un luogo di pubblico convegno, e quindi una certa qual adunanza di pubblico convegno? Anche il forastiero, anche il più ritenuto parlatore che trovasi a teatro, possono entrare in discorso con chi lor siede appresso!!°.

E a ribadire l’ovvietà di quella idea il Savonarola sostiene ancora che se deve essere considerato «atto inurbano fissare con soverchia intensione le signore [...] non è però

mio desiderio che il giovane damerino entri imbacuccato nel teatro, si ponga in un cantuccio, per raccogliersi tutto in

se stesso per assistere allo spettacolo come farebbe ad una lezione di calcolo sublime [...]. Erri pure di loggia in loggia, dalla platea ne’ palchetti adocchi in generale» purché naturalmente, e questo è l’importante, «rispetti le convenienze» e dunque eviti tutto ciò che non è generalmente consentito nelle «civili conversazioni: lo stirarsi, sbadigliare, assettarsi

di continuo, lisciarsi i baffi», nonché «sconvenevole

l’uso quantomai

(di) parlare di affari politici, o di persone

d’alto grado, poiché non tutti possono interessarsi a tali discorsi i quali possono indurre alcuni in ambigue espres!5

H. Berlioz, Mezzorie, cit., p. 126. !!6 G. Savonarola, I/ galateo del teatro, Milano, Truffi, 1836, p. 17. Le citazioni seguenti sono alle pp. 12-13.

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sioni o dare origine a discussioni pericolose». E ancora purché rispetti un preciso codice di deferenza secondo il quale «il salutare con egual formulario il consigliere e lo spazzino, l’ufficiale e il mozzo di stalla è mancare a dovere di civiltà. Sarà lesione all’altrui amor proprio trovandosi in teatro vicino a personaggio distinto per dottrina e egregie

imprese e mostrarglisi indifferente». La conversazione, se moderata, civile, deferente e aliena

da implicazioni politiche, doveva insomma esser considerata parte della vita del teatro e sembrava poco sensato condannarla oltre misura senza condannare anche quella funzione di incivilimento che tanti attribuivano al teatro. Persino un addetto ai lavori, un tenore di buona fama come

Antonio Ghislanzoni che quando può non manca di stigmatizzare i modi triviali e chiassosi nei teatri, sosteneva che l’assoluto silenzio di fronte alle rappresentazioni potesse produrre solo noia e sonnolenza!!”. Non si trova dunque ancora traccia di quella trasformazione dell’ascolto musicale che stava invece avvenendo in altri contesti nazionali, al seguito della diffusione della musica sinfonica e della sensibilità romantica. E abbastanza sorprendente notare come un manuale di bor ton francese, altrettanto noto di quello italiano appena citato e apparso dieci anni prima di quello, dia ai frequentatori dei teatri indicazioni precisamente opposte, sostenendo che niente è più sgradevole per i vicini di spettacolo che essere disturbati nell’ascolto da ridicoli criticismi e ribadendo che il commento ad alta voce doveva essere considerato altamente sconveniente!!5, Il processo di graduale azzittimento della audience, quando l’esperienza musicale acquisisce il senso di un’esperienza privata, sempre più interiorizzata, non si era qui ancora messo in atto e

la cosa non doveva essere una prerogativa italiana. Nella provincia francese, in modo particolare in quella meridionale, molti osservatori parlano ancora a metà secolo di un 117 In «L'Italia musicale», 22 settembre 1858. 118 Manuel de l'homme de bon ton, Paris, 1822, che sollecita una nuo-

va politesse borghese come elemento di distinzione delle élite postnapoleoniche, cit. in J.H. Johnson, Listening in Paris. A cultural history, Berkeley, University of California Press, 1995, p. 232.

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pubblico rumoroso e disattento, particolarmente esigente con gli artisti e pronto ad esaltarli o a distruggerli ad ogni batter di fronda!!”. E dove in ogni caso il teatro rimane prima di tutto luogo di pubblica socievolezza nel quale «gli abbonati — così descrive Flaubert la serata operistica di Emma Bovary — venivano a cercare nell’arte un riposo dalle inquietudini del commercio ma non dimenticando affatto gli affari, conversavano ancora di cotone, di tre-sei, e di indaco...»!20,

Il modo di stare a teatro era condizionato inoltre da una variabile visiva di prima importanza come l’illuminazione della sala. Nel primo resoconto del suo ingresso alla Scala, nell’autunno del 1816, Stendhal aveva annotato curiosamente,

insieme alle vertigini e al piacere conturbante di un luogo che gli era apparso quasi esotico, che la sala non era affatto illuminata e il chiarore che l’attraversava era solo riflesso dalle scene. Si era affrettato peraltro a precisare che la mancanza di luce non gli aveva impedito di distinguere perfettamente le persone che entravano in platea, né di notare come ci si salutasse da un capo all’altro del teatro e da un palco all’altro!?!. In effetti solo nel 1821 la direzione del teatro avrebbe dato il via ai lavori di installazione al centro della volta, sulla scia di quanto era già stato fatto a Napoli, di un grande lampadario ad olio disegnato da Luigi Canonica! che avrebbe diffuso sugli affreschi e sull’intera sala tutt'altra lucentezza.

A partire da questi anni la lumiera centrale o astrolampo diventa un elemento insieme funzionale e decorativo che va ad arricchire la volta di ogni teatro che si rispetti, nonostante si fosse lontani dal risolvere la controversia tecnica circa la sua superiorità sull’altra soluzione possibile, cioè la distri!!9 Cfr. W. Cohen, Urban government and the rise of the French city, cit., pp. 135 ss.; ma anche Stendhal quando parla del teatro di Marsiglia, usa le stesse immagini riservate ai teatri italiani descrivendolo come «una forma più elegante di caffè o più gioviale di una borsa valori, dove si fanno affari...». 120 Cito dalla trad. di N. Ginzburg, Torino, Einaudi, 1983, p. 272. 121 Stendhal, Roma, Napoli, Firenze, cit., pp. 6-7.

122 Sul problema dell’illuminazione della Scala negli anni ’20 cfr. R. Giazotto, Le carte della Scala. Storie di impresari e appaltatori teatrali (1778-1860), Pisa, Akademos,

148

1990, pp. 83 ss.

buzione dei lumi lungo i parapetti dei palchi per una diffusione più uniforme del chiarore!#, Nei nuovi teatri la lumiera centrale è prevista già nel progetto iniziale, gli altri per lo più si affrettano ad istruire i lavori necessari: così a Padova nel 1822 o a Brescia nel 1828, dove si chiede e si ottiene uno

stanziamento 44 boc dall’autorità comunale. Con la grande lumiera la luce cresce ovviamente in gran parte dei teatri italiani, anziché calare come succederà nell'ascolto moderno, in un percorso che da questo punto di vista è a lungo lineare e inizia a trovare qualche episodica inversione di tendenza solo intorno agli anni ’80, in concomitanza con l’altro passaggio tecnologico importante costituito dall’introduzione nei teatri dell’elettricità. Ognuno preferirà — scrive Giulio Ferrario nel 1830 — di vedere il teatro illuminato, perché in tal maniera ci rallegra sempre, e ci diminuisce la noja, quando lo spettacolo non incontra, o viene ripetuto sino allo sbadiglio. Cerchisi adunque il mezzo di illuminare il teatro, o in un modo o nell’altro, [...] purché tutti gli spettatori abbiano sempre a trovarsi in piena luce nella platea!”,

La ratio di fondo rimane fino a quella data, ma anche oltre, quella di una illuminazione sempre più diffusa e abbagliante, che desse quanto più risalto possibile alle decorazioni della sala, ai suoi stucchi dorati, ai velluti e ai damaschi,

e restituisse nitida l’immagine del ritrovo mondano ma anche della festa civica!. Di fronte all’incontestabile magnificienza di una «illuminazione a giorno» delle sale teatrali si piegano e diventano poca cosa anche le lamentele suscitate dagli inconvenienti pratici del sistema astrolampo, che non erano pochi: lo sgocciolamento dall’alto sugli spet123 Nel teatro di Trani ad esempio centrale viene sostituito perché spesso platea. Al suo posto viene introdotto un tima fila di palchi tra un palco e l’altro;

nel 1846 il grande lampadario gocciolava liquido oleoso sulla giro di candelabri posti nell’ulcfr. G. Protomastro, Cronistoria

del Teatro di Trani, cit., p. 71.

124 G. Ferrario, Storia e descrizione dei principali teatri, cit., p. 275. 125 Sull’importanza scenografica dell’illuminazione nella festa civica ottocentesca si sofferma L. Zingarelli, Modelli Ancien Régime e sociabilità borghese, in Storia di Bari nell'Ottocento, a cura di F. Tateo, Roma-Bari, Laterza, 1996.

149

tatori, il fumo, il surriscaldamento, il cattivo odore sono segnalati in questo periodo in quasi tutti i teatri e provocano reclami che tuttavia, è facile notarlo, non riguardano mai le esigenze sceniche. Un indizio per tutti di quanto consueto e

naturale doveva sembrare la piena luce a spettacolo in corso, anche a chi si preoccupava in primo luogo della scena e dell’attenzione su di essa, è lo stupore critico che ancora nel 1876 traspare in Verdi quando scrive ad un corrispondente che il pubblico viennese veniva tenuto del tutto all’oscuro durante lo spettacolo. Non c’è da stupirsi, commentava il maestro, se quello dorme e si annoia! Nelle sale italiane invece, l'illuminazione è considerata

un elemento di eccellenza, che spesso risulta addirittura proporzionato all'importanza dello spettacolo. Quanto più importante è l’occasione tanto più forte la luce sulla sala e sulla scena. In una tabella per l’illuminazione del teatro di Piacenza che risale al 1845 scopriamo ad esempio che esisteva una vera e propria gradazione di luci a seconda del genere che veniva rappresentato. Così se per le commedie dovevano bastare 40 lucerne alla ribalta e 20 fiammelle accese nell’astrolampo, per l’opera senza ballo le luci dovevano aumentare almeno di un terzo, mentre l’opera con ballo, cioè il momento clov della stagione, richiedeva non meno di

60 fiammelle alla ribalta e 36 lucerne nell’astrolampo!”. Il problema, però, era l’alto costo dell’illuminazione, che in

una situazione di fragilità finanziaria come era sempre quella dei teatri, pesava non poco. La voce illuminazione veniva perciò quasi sempre inserita nei contratti d’appalto tra le incombenze dell’appaltatore e finiva per entrare nell'ampio canestro delle proteste contro di loro, accusati di risparmiare anche sulle luci. Il teatro, poi, doveva essere luminoso per ragioni di controllo, motivo centrale degli interventi autoritativi sui teatri 126 Cit. in M. Capra, L'illuminazione sulla scena verdiana ovvero l'arco voltaico non acceca la luna?, in P. Petrobelli e F. Della Seta (a cura di), La realizzazione scenica dello spettacolo verdiano, Parma, Istituto di studi

verdiani, 1996, pp. 230-263. 127 Nota sull’illuminazione della sala del 23 maggio 1845, cit. in E. Papi, Il Teatro Municipale di Piacenza, cit.

150

del periodo. Le sollecitazioni delle autorità austriache sono ad esempio molto chiare nel raccomandare la piena illuminazione delle sale teatrali. A Padova la decisione di installare il lampadario è proprio frutto di un intervento diretto dell’Imperial Regio Delegato, che sollecita la deputazione teatrale a deliberarne i lavori sostenendo che la lumiera pendente dal soffitto avrebbe permesso un controllo più efficace, pronto a «discernere quelli che si permettessero di turbare con rumori indecenti od in qualunque altro modo il pubblico divertimento»!. Parole analoghe usava anche il delegato bresciano qualche anno dopo, dicendosi sicuro che il grande lampadario avrebbe dato una speciale evidenza alle bellezze del Teatro Grande e reso più grato l’afflusso degli spettatori!?. Ma la preoccupazione doveva essere comune alle autorità degli altri stati. Un'immagine per tutte ci viene da un allestimento del Macbeth verdiano per il quale Alessandro Sanquirico aveva proposto a Verdi un’inusuale idea scenografica, quella di giocare con le luci creando una fantasmagoria, cioè un effetto ottico capace di creare un’atmosfera adatta alla danza delle ombre e dei fantasmi. La realizzazione di quel gioco curioso di effetti speciali era stata però impossibile da realizzare in taluni luoghi come a Firenze, dove le tenebre assolute in un primario teatro — ancorché per pochi minuti — erano vietate dalle autorità perché ritenute quantomeno indecenti!°, Il controllo sui teatri era una preoccupazione primaria e costante delle autorità, una di quelle che riempie di sé i carteggi amministrativi dei teatri. La sorveglianza era affidata a consistenti drappelli di polizia distribuiti nelle varie

parti della sala ed eventualmente incrementati alla bisogna. Ma si basava anche su una produzione cospicua e aggiorna-

ta di regolamenti disciplinari sulla condotta del pubblico che vietavano in particolare ogni eccesso: applausi, fischi, chiamate alla ribalta, rumori eccessivi che potevano prefigurare intemperanze e persino disordini!!, Le cronache della 128 Cfr. B. Brunelli, I teatri di Padova, cit., p. 394. 129 Cfr. AA.VV., Il Teatro Grande di Brescia, cit., p. 130.

130. Cfr. M. Capra, L'illuminazione sulla scena verdiana, cit., p. 251. 3! Cfr. J. Rosselli, L’impresario d'opera, cit., pp. 92-93.

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vita teatrale ci dicono in realtà che tali divieti erano elusi di frequente da un pubblico che difficilmente riusciva a contenere critiche ed entusiasmi e spesso ricadeva sotto le sanzioni di polizia. Più che una legge imperativa la produzione regolamentare di cui si è detto era in sostanza un corpus di norme comportamentali che le autorità si adoperavano periodicamente a ribadire nel tentativo di governare attraverso gli spazi teatrali i processi di comunicazione in pubblico. Ma anche su questo terreno la realtà si stava modificando. Lo vediamo ritornando alle luci. Su una situazione di luminosità e controllo crescenti si inserisce intorno a metà secolo la conversione tecnologica verso il gas, che ancora una volta fa del teatro un luogo sul quale sperimentare la capacità di innovazione delle varie comunità. Dopo il primo esperimento a Venezia nel 1833, che seguiva le esperienze parigine, anche Trieste introduce nel 1846 il nuovo sistema illuminante; a Genova l'introduzione del gas è l'occasione per sostituire il piccolo lampadario da 74 fiammelle con uno più grande, di bronzo dorato da 144 fiamme!?. A Parma il viaggio europeo di aggiornamento tecnologico di cui abbiamo già parlato era finalizzato in prima battuta proprio all'introduzione del nuovo sistema illuminante e si conclude con l'installazione del grandioso lampadario uscito dall’officina Lacarrière di Parigi che diviene subito motivo di vanto cittadino!. A Reggio Emilia l'appalto affidato alla ditta Bouffier di Milano diventa invece l’occasione per introdurre la nuova tecnologia in tutta la città. Trent'anni dopo una situazione analoga si riproporrà con l’introduzione dell’illuminazione elettrica, che alla Sca-

la entra nel 1883, a Trieste nel 1889, a Genova nel ’92 per le Colombiadi. Questo nuovo passaggio non provocherà soltanto il superamento di molti degli inconvenienti precedenti. Creerà anche una sorpresa inaspettata e quasi diso-.

rientante per i frequentatori dei teatri, quella di una luce diversa, fissa e immobile, non più mutevole, identica nelle 132 G. Vallebona, I/ Teatro di Carlo Felice, cit., p. 21.

155 P.E. Ferrari, Spettacoli drammatico-musicali e coreografici, cit., p. 124.

152

varie parti della sala. È solo in questo tardo Ottocento che ritroviamo una delle prime indicazioni che va nella direzione opposta a quella che era stata fino ad allora linearmente seguita, cioè la progressiva crescita e sofisticazione delle luci. Nella disposizione scenica di Otello Verdi dà infatti le seguenti indicazioni, che solo un decennio prima sarebbero apparse probabilmente del tutto fuori luogo: prima che cominci l’orchestra si abbasserà moltissimo l’illuminazione della sala... Su questo affievolirsi delle luci, che prelude a nuovi sviluppi nelle modalità di ascolto, e quindi nella frequentazione delle sale, ma anche nella gestione dell’ordine pubblico, si chiude anche il capitolo.

153

CAPITOLO

TERZO

SULLA=SCENA

Chi non ha vissuto in Italia prima del 1848 non può farsi capace di ciò che fosse allora il teatro. Era l’unico campo aperto alle manifestazioni della vita pubblica, e tutti ci prendevano parte. La riuscita di una nuova

opera era un avvenimento capitale che commoveva profondamente quella città fortunata dove il fatto avveniva e il grido ne correva per tutta l’Italia. M. Lessona, Volere è potere, Firenze, 1869.

1. Inaugurazioni

In occasione dell’apertura del nuovo Teatro Ducale, che nella primavera del 1829 avrebbe dovuto trasformare per un istante la piccola corte padana in una capitale europea in miniatura, la duchessa di Parma aveva pensato ovviamente a Rossini, il compositore che da almeno un decennio monopolizzava le scene dell’intero continente. Da Parigi dove si era stabilito era appena giunta la notizia che doveva essere imminente il debutto dell’opera che da anni il maestro stava componendo per le scene d’oltralpe e che sarebbe stata il Guillaume Tell. Portare quell’opera tanto attesa a Parma in prima italiana avrebbe avuto una notevole risonanza, ben oltre le mura cittadine, pari appunto alle ambizioni del nuovo teatro.

! John Ebers, direttore del King's Theatre dal 1821 al 1830 scrive che dalla prima apparizione inglese di Rossini nel 1818 il compositore italiano dominava incontrastato le scene londinesi, tanto che sue erano almeno

la metà delle opere rappresentate in tutto il periodo, cfr. R.O.J. Van Nuffel, Cultura italiana e cultura europea durante la Restaurazione, in La Restaurazione in Italia. Strutture e ideologie, Atti del XLVII Congresso di storia del Risorgimento italiano, Roma, Ist. per la storia del Risorgimento italiano, 1976, p. 377.

D55

Ma le difficoltà erano apparse subito insormontabili. Il maestro aveva risposto al conte di Neipperg che sarebbe stato onorato dell’opportunità ma che la composizione era ancora «a pezzi e bocconi», tutt’altro che certo il suo successo, e molto particolare il cast che la sua esecuzione richiedeva?. Anche la seconda soluzione che Neipperg teneva in serbo, cioè «il Mosè con le nuove aggiunte fattevi a Parigi e con quelle altre ch’egli giudicherà dovervi fare onde ottenere il doppio scopo della novità e del grandioso»?, risulterà poco praticabile vista l'impossibilità per Rossini di lasciare Parigi per seguire di persona il nuovo allestimento. L’attenzione degli organizzatori parmensi si era concentrata allora sull’autore che già era stato scelto per la seconda opera del cartellone, il più giovane e ancora solo promettente Bellini. La scelta poteva essere giudicata azzardata, e lo era secondo l’impresario Bandini che aveva l’appalto della stagione inaugurale, il quale aveva cercato ripetutamente di convincere il gran ciambellano Stefano Sanvitale ad optare «per maestri di maggiore reputazione come Mercadante o

Morlacchi», che garantivano una maggior «regolarità nello stile». Ma il tentativo aveva avuto poco successo poiché la sovrana insisteva nel suo proposito*: se il grande Rossini doveva considerarsi fuori gioco allora bisognava puntare sul compositore giovane e più alla moda del momento, l’astro nascente che già aveva inaugurato l’anno precedente con grande successo il nuovo teatro di Genova con un apposito riadattamento del suo Bianca e Ferdinando. Anche lì come 2 Copia d’una lettera scritta dal Signor Maestro Rossini a S.E. il Signor T.te Maresciallo Conte di Neipperg in data del 7 agosto 1828 (Parigi), in ASCPr, Teatro, Carteggio, 1828, scat. 7, Fasc. Comm.

Ammini-

strativa.

? Copia d’una lettera scritta da S.E. il Signor T.te M.lo Conte di Neipperg a S.E. il Signor Conte Bondani Presidente delle Finanze in data 25 agosto 1828 (Weinperl), in ‘bride. 4 Pare che anche Donizetti e Pacini si fossero dati da fare per aggiudicarsi quel contratto ma che in favore di Bellini fosse stato decisivo l'intervento della contessa Melzi, cit. in P.E. Ferrari, Spettacoli drammatico-musicali e coreografici, cit., pp. 156 ss.

? Così aveva descritto la serata lo stesso Bellini scrivendo all'amico Florimo: «eccomi uscito di palpiti. L’opera ha fatto l’effetto desiderato. La prima sera in mezzo a un teatro illuminato a giorno con tutta la corte

156

a Parma, e come forse spesso accadeva quando si trattava di inaugurare nuovi edifici di quell’importanza, i tempi della costruzione si erano protratti oltre le previsioni senza che si riuscisse a fissare convenientemente la data dell’inaugurazione, cosicché il tempo per la composizione era stato infine strettissimo, e si era puntato sul rimaneggiamento di un’opera nota invece che su una nuova opera. Nella scelta parmense giocava forse un altro fattore che doveva però rivelarsi errato: si pensava che sarebbe stato più facile imporre ad una giovane promessa la composizione di un’opera alla quale contribuisse anche una mano locale, quella dell'avvocato Luigi Torrigiani, revisore degli spettacoli nonché scrittore dilettante cittadino, che aveva appunto composto un libretto per l'occasione. Non fu così, poiché il maestro rifiutò seccamente il suo Cesare in Egitto che gli parve «vecchio come Noè» e «privo di convenienze teatrali», appellandosi alla clausola di contratto che voleva il compositore pienamente soddisfatto del libretto da musicare”. Da quel rifiuto nasce infine Zazra, il cui testo è composto invece dal librettista più è la page del momento, Felice Romani, che collaborava ormai stabilmente con Bellini. Questi aveva tratto il soggetto da un testo di Voltaire, scrittore già piuttosto sfruttato dai librettisti del periodo (si pensi soltanto all’intreccio babilonese della Semiramide rossiniana) e considerato quasi un borderline tra classici e

romantici”. Proprio per adeguarlo al gusto romantico ormai nel gran palchetto, circondata da altre persone del sangue nei quattro palchi laterali, con tutte le bellezze genovesi e forestiere in gran sfoggio», lettera del 10 aprile 1828 in Bellini. Memorie e lettere, a cura di F. Florimo, Firenze, Barbera, 1882, p. 322.

6 Lettera a Florimo del 10 dicembre 1828, in :biderz, p. 384. La valutazione sarà peraltro confermata da Luigi Ricci che, interpellato, aveva risposto di non poter musicare un dramma che non presentava situazioni teatrali né quelle passioni che si confanno al gusto moderno, cit. in P.E. Ferrari, Spettacoli drammatico-musicali e coreografici, cit., p. 160. ? Cfr. G. Tomlinson, Italian Romanticism and Italian Opera: an essay in their affinities, in «19 Century Music», X, n. 1, estate 1986, pp. 43-

60. Sul romanticismo di Bellini si veda la lettera di Torrigiani in cui descrive così l’incontro milanese col maestro: «Non mi sono ingannato intorno al gusto di questo maestro ch'è per il romantico e l’esagerato. Mi ha dichiarato che il genere classico è freddo e noioso. Mi ha condotto al

DEgA

prevalente Romani scrive infatti di aver modellato la sua Zaira più sul «linguaggio delle passioni» che sull’ostentazione filosofica tipica del gusto settecentesco. L’opera avrà un’accoglienza molto tiepida, complice la fretta della composizione, forse qualche risentimento locale, certamente una forte consuetudine del pubblico parmense alle ben diverse sonorità rossiniane. Ma ciò non doveva togliere molto alla grandiosità delle serate di apertura, su cui tanto si era insistito nella preparazione dell’evento e alla quale avevano contribuito molti elementi: una perfetta esecuzione da parte di cantanti di primo rango, la presenza di un coro e di un’orchestra di grandi dimensioni, i due balli che inframmezzavano a turno la serata d’opera reputati magnifici per vestiari, attrezzi e decorazioni*, l'illuminazione a

giorno che faceva risaltare i decori della sala e il sipario del Borghesi, un grande afflusso di pubblico anche forestiero, la presenza per alcune sere nel palco grande di corte di autorità ducali: il duca di Modena con la consorte e i ciambellani, e il duca di Lucca Carlo Lodovico con Maria Teresa

di Sardegna. Visto lo scarso successo le repliche di Zazra erano state solo otto, ma la stagione inaugurale era splendidamente continuata

con più consueti testi rossiniani, che avevano

ottenuto un vero trionfo di pubblico (dodici serate per Mosè negozio Vallardi per farmi vedere alcuni quadri incisi in litografia ed ammirabili per lui, uno segnatamente in cui un padre fa trucidare sotto i suoi occhi i propri figli, additandomelo per modello al più sublime effetto teatrale...» (cit. in P.E. Ferrari, Spettacoli drammatico-musicali e coreografici, cit., pp. 159 ss.). 8 La presenza di un ballo eroico dopo il primo atto ed eventualmente, nelle serate di gala, di un secondo ballo leggero alla fine dello spettacolo allungava notevolmente le serate all'opera; per l’entusiasta Stendhal, che riteneva Viganò una delle punte più alte della cultura italiana del periodo, insieme a Rossini e Canova, si trattava di uno stacco vivificante dopo

ciascun atto che in Italia era sentita quasi come una necessità psicologica; di tutt'altra opinione il compositore tedesco Nicolaj che nel ballo d’entr'acte vedeva invece confermata la sua pessima opinione circa le abitudini di ascolto del pubblico italiano: «l’opera, scrive nel 1834 nel resoconto del suo viaggio, è sempre composta di due atti e tra questi viene rappresentato un ballo, che non ha niente a che fare corì l’opera, e che dura due ore, di modo che dopo il ballo si è ormai dimenticato il primo atto...», cit.

in ]. Rosselli, L'impresario d'opera, cit., p. 8.

158

e dodici per Serziranzide), a cui erano seguite infine come piacevole digressione alle lagrimevoli scene d’orrore di Zaîra e del ballo Oreste le note lievi del Barbiere di Siviglia. Mi sono soffermata su questo episodio parmense perché sono convinta che le stagioni inaugurali dei molti nuovi teatri che aprono in questi decenni, nonostante il loro carattere eccezionale, siano un buon punto di partenza per guardare alla programmazione teatrale del periodo, e dunque alla circolazione della produzione operistica nella fase in cui rapi-

damente, insieme al moltiplicarsi dei luoghi teatrali, si consolidava il sistema dell’opera di repertorio?. Se la posa della prima pietra che abbiamo visto nel capitolo precedente segnava con una congrua cerimonia l’avvio della vita del teatro

come monumento cittadino allo svago, l'inaugurazione delle stagioni doveva dare il via al suo ruolo di contenitore del rito dello spettacolo. Perché di questo si trattava, ovviamente, non solo di un monumento della città a se stessa. In queste occasioni e nei contratti che le accompagnano si rintracciano con più chiarezza propositiva che non nelle stagioni consuete le intenzioni delle Direzioni e delle Deputazioni dei teatri, cosa queste vogliano offrire al proprio pubblico, ma anche a quello forestiero che accorre per lo più numeroso all’occasione, e a quali elementi viene data importanza perché l’evento abbia tutto l’effetto che si merita. Se si vuole che l’apertura del nuovo teatro di città, che spesso avviene dopo una gestazione complessa e lavori altrettanto lunghi, rimanga un momento di fasto cittadino da lasciare a memoria futura l'occasione deve prevedere, anche nei teatri di piccola dimensione, uno straordinario dispiego di mezzi, con cui emulare in tutto e per tutto le stagioni dei grandi teatri di tradizione: nel programma, nel cast, nell’illuminazione della sala. E chiaro allora come proprio la moltiplicazione dei luoghi teatrali, insieme al ruolo crescen? Solo in questi anni, e proprio al seguito del grande successo rossiniano, si afferma anche nell’opera in musica quello che si potrebbe pensare debba essere un prerequisito per l'affermazione di un genere, cioè appunto il repertorio. Prima di questa data, invece, la produzione operistica in Italia è intensissima e soggetta ad una vita molto breve. Cfr. L. Bianconi, Il teatro d'opera in Italia, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 22 ss.

159

te dell'editoria musicale, favorisca l’affermarsi dell’opera di repertorio e faccia sì che centinaia di Barbieri di Siviglia attraversino la penisola. La struttura del cartellone nella stagione principale è a questa data ormai sostanzialmente standardizzata: da due a tre opere di richiamo, seguite eventualmente da una minore, e almeno due balli ad inframmezzare gli atti dei melodrammi, come voleva una consuetudine italiana che tanto

colpiva i forestieri!°. In totale un complesso di trentatrentacinque recite, a cui andavano aggiunte le serate a beneficio dei cantanti. Un grande rilievo è attribuito — come in ogni festa civile che si rispetti — alla sfarzosa illuminazione della sala. A Viterbo i giornali locali parlano in proposito di un «effetto sorprendente», tale da «sembrar giorno», e l’epigrafe dedicata dai soci al costruttore magnificava l’opera architettonica proprio presentandola illuminata e sfavillante di tutti i suoi pregi!!. E ancora i cittadini di Cremona si dicono abbagliati dalla luce che inondava la nuova sala, mettendo così ben in risalto le nuove pitture sulla volta e gli stucchi sui cornicioni dei palchi". Tutto ciò comportava naturalmente spese ingenti che, se nel caso di Parma

erano a carico della sovrana, nella

maggioranza dei casi richiedevano uno stanziamento ad hoc della municipalità o dei condomini o di entrambi. Ma l'evento sembrava valere un supplemento di sforzo finanziario, tanto che talvolta arrivava a coinvolgere direttamente la cittadinanza. Mi riferisco ad esempio al caso di Ancona, dove per l'inaugurazione del teatro condominiale ci si era rivolti al!0 Il ballo d’entr'acte diventa parte integrante, e non semplice corollario, delle serate d'opera a partire dalla metà del Settecento e vive la sua stagione più importante nei primi vent'anni dell'Ottocento con i grandi coreogrammi di Viganò e Gioia, in cui danza e pantomima si intrecciava-

no in quadri storico-eroici che pochissimo condividevano con il balletto romantico che si stava invece affermando sulle scene europee. Per un quadro preciso dei suoi sviluppi ottocenteschi fino all’integrazione della danza all’interno delle opere stesse cfr. K.K. Hansell, I ballo teatrale e l'opera italiana, in Storia dell’opera italiana, vol. V, Torino, EDT, 1988, pp. 258 ss. } !l A. Brannetti, Teatri di Viterbo, cit., p. 94. 2 E. Santoro, I Teatri di Cremona, cit.

160

l’impresario Lanari che in quanto concittadino aveva promesso grandi cose, cioè opere di successo e cantanti di gri-

do, ma aveva richiesto una dote pari a diecimila scudi. Al suo ammontare si era deciso allora di provvedere con una raccolta allargata di contributi: la gran parte della cifra è avanzata dai palchettisti comproprietari, ma il rimanente è frutto di uno stanziamento comunale e di una pubblica sottoscrizione cittadina a cui rispondono «medici e speziali, avvocati e notai, impiegati governativi e comunali, possi-

denti, commercianti, capitani e padroni di mare, sartori, calzolai, locandieri, caffettieri, osti e macellai», tutto quel medio tessuto urbano che avrebbe poi frequentato le rappresentazioni. Certo nelle città di secondo rango risultava spesso difficile allestire i balli «chiamati eroici, tragici, mitologici, spettacolosi» e si doveva ripiegare, talvolta per l'ampiezza stessa del palcoscenico, sui balli di mezzo carattere, che non necessariamente prevedevano «gran combattimenti, gran trionfi, grandi diroccate montuose, grandi incendi e grandi dirupi, con tutte le deità possibili», come i primi!4.

L’organizzazione dell'evento partiva generalmente con grande anticipo, anche se spesso acquisiva negli ultimi mesi ritmi frenetici. Tramite contatti informali o sempre più spesso con un avviso pubblicato sui maggiori periodici musicali nazionali le Deputazioni davano notizia dell’appalto relativo alle serate di inaugurazione e attendevano le proposte degli impresari, non esclusi quelli di grosso calibro che avevano tutto l’interesse ad allargare il proprio circuito anche a teatri medio-piccoli dove far circolare le opere già allestite nei grandi teatri. Da qui iniziavano le trattative, in cui le Deputazioni cercavano di far valere i propri desiderata e gli impresari le proprie richieste circa la dote. Le istanze locali battevano in primo luogo sul cast, che per un’inaugurazione doveva essere di rango, quindi comprendere cantanti noti e di richiamo, o quantomeno, dove ciò risultava impossibile 13 A. Fazi, I Teatri di Ancona, Falconara, Sagraf, 1979, p. 24. 14 Cito dalla descrizione che ne fa G. Valle, Cenni teorico-pratici sulle aziende teatrali, cit., pp. 182-183.

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perché le risorse limitate o le compagnie non disponibili, quantitativamente cospicuo, per rendere grandioso l’allestimento. A Voghera, per l'inaugurazione del Teatro Sociale, si insiste proprio sull’ampiezza dell'apparato, che include 14 cantanti solisti, un coro di 18 uomini e 6 donne, un’or-

chestra di 32 strumentisti, tutti chiamati ad eseguire, per un totale di trenta recite, tre opere e due balli d’entr’acte, che a loro volta vedevano all'opera decine di ballerini”. Altre volte si fanno le cose in grande con l'orchestra. Come a Cesena dove nella stagione inaugurale (estate 1846) viene chiamato a dirigere l'orchestra non il primo violino, come generalmente accadeva, ma un «Capo e direttore d’orchestra» nella persona di Nicola De Giovanni «Accademico filarmonico di varie città»!, e si tratta di una delle prime esperienze nell’utilizzo moderno della figura del direttore. Altre volte ancora con le scene, per le quali a Rovigo nel 1819 viene assoldato uno scenografo che aveva a lungo lavorato alla Fenice!”. Ad Arezzo, dopo lunghe trattative con gli impresari sull’ammontare della dote messa a disposizione dagli accademici, la deputazione nel 1833 aveva affidato l’incarico dell’allestimento all’impresario romano Feroci che

proponeva per l’inaugurazione due opere a suo dire recenti e di sicuro successo e due balli, specificando che questi avrebbero visto all’opera dei primi ballerini che avevano ottenuto un ottimo successo nella precedente stagione del teatro di Perugia. Ma rispetto a quella, si affrettava a precisare, sarebbero stati ulteriormente decorati e arricchiti di

comparse, «con decenza e lusso non minore di quello praticato nel primo ballo a Perugia»!5. Non è difficile immaginare che la pietra di paragone era sempre rappresentata in questi casi dalle città vicine, rispetto alle quali, inutile dirlo, si trattava di fare di più. Non solo, ci sono casi in cui si impongono agli impresari condizioni di vera e propria esclu-

siva territoriale. A Senigallia, dall'apertura del rinnovato > A. Maragliano, I Teatri di Voghera, cit.

!6 A. !? L. musicale !8 A.

162

e L. Raggi, I/ Teatro Comunale di Cesena, cit., p. 87. Traniello e L. Stocco, Il Teatro sociale, gli altri teatri e l’attività a Rovigo, Rovigo, Minelliana, 1970, p. 16. Grandini, Cronache musicali del Teatro Petrarca, cit., p. 31.

teatro municipale (1830) in poi, i capitolati prevedevano che la compagnia di canto ingaggiata dall’impresario non comparisse in un’altra piazza dello Stato pontificio nello stesso anno!. Qui la situazione era particolare perché si trattava di un teatro a spiccata vocazione turistica, che anche al di fuori della stagione inaugurale sarebbe stato molto frequentato dai forestieri che affluivano in città in occasione della grande fiera mercato che faceva la ricchezza del luogo. Ma in molti altri casi si sottolineava che l’eccezionalità dell'evento insisteva su un’area territoriale allargata e che a questa bisognava pensare nell’organizzare programmi e cast. Insieme al cast si trattava poi di scegliere gli spartiti, che venivano proposti dall’impresario come parte integrante delle trattative. Anche in questo caso i desiderata locali tendevano a seguire criteri a ben vedere univoci e molto netti, affidando le proprie preferenze all’autore che si riteneva più in voga del momento e ad una delle sue opere più nuove. Se cioè da un lato valeva la regola espressa dal ciambellano parmense quando scriveva che «nell’occasione d’un’apertura il soggetto dell'Opera dovrebbe essere grandioso e d’effetto teatrale, e non scarso di colpi di scena»?, dall’altro

quello che più sembrava contare era la tempestività dell’allestimento, l'offerta al proprio pubblico di un’opera il più possibile nuova. In un sistema che quasi per forza di cose e molto tardivamente aveva imboccato la strada del repertorio la rapidità di allestimento di un’opera rimaneva comunque un fattore primario, ancor più nei teatri lontani

dai grandi centri ma vogliosi di mostrare la propria adeguatezza ai tempi e al mercato. Quali siano questi autori e quali i tempi della loro affermazione è di immediata evidenza guardando le cronistorie

dei singoli teatri. Nel corso degli anni ’20, quando le grandi sale erano attestate sulla consuetudine dell’opera nuova, sia 19 A. Albani, M. Bonvini Mazzanti e G. Moroni, I/ teatro a Senigallia, CIENPP187a55:

20 Risposte ai quesiti Bandini sullo spettacolo d’apertura, Parma, 18

luglio 1828, in ASCPr, Teatro, Carteggio, 1828, Fasc. Commissione amministrativa.

163

l'apertura delle Muse di Ancona che quella del secondo Concordia di Cremona, sia quella del teatro «provvisorio» di Catania che l’apertura del Piagno di Schio, sono all’insegna di Rossini, l’autore intorno al quale si costruisce il sistema stesso del repertorio. Ma nel decennio successivo, rapidamente e inarrestabilmente, si affermano e tengono il campo spodestando quasi tutti gli altri autori le opere di Bellini, prima, e di Donizetti, poi, che mantengono

una primazia

indiscussa fino al profilarsi nel corso del decennio successivo dei testi verdiani. Bellini, lo abbiamo visto, dopo aver inaugurato con un testo semi-rimaneggiato il teatro di Genova (1828) e con uno nuovo quello di Parma (1829), domina la riapertura del teatro di Senigallia (1830) con I Capuleti e i Montecchi, che era stato presentato per la prima volta pochi mesi prima alla Fenice, e con La straniera che aveva debuttato l’anno precedente a Milano. E così pure la stagione inaugurale del Sociale di Belluno (1835) con Norzza e I Capuleti e i Montecchi, per le quali si riesce a coinvolgere la grande soprano Giuditta Grisi. Per l'apertura di Arezzo nel 1833 i due compositori, la cui fama è a quella data ormai ampiamente consolidata, si dividono la stagione con due opere già di grande successo come Anna Bolena e La straniera, mentre Lucera nel 1838

inaugura con Lucia di Lammermoor. Si distacca dal quadro il teatro di Prato, le cui scelte inaugurali (1830) appaiono più caute e rivolte ad autori ampiamente noti e consolidati, Rossini e Vaccaj.

Negli anni ’40, altrettanto o forse ancor più rapidamente, il successo verdiano si propaga in provincia: sia a Voghera che a Cesena i nuovi teatri aprono con i Lombardi alla prima crociata, l’opera che il maestro aveva composto nel ’43 sulla scia del grande successo di Nabucco; a Verona nel 1846 il Nuovo apre con Attila e con un ballo eroico di Rota. Una eccezione significativa che ci consente di chiarire meglio i meccanismi di questo circuito culturale così omo-

geneo è rappresentata dall'apertura nel 1841 del Comunale di Modena, che non viene. affidata ad un sario ma è gestita direttamente da una Delegazione mica del comune, che si serve di un agente teatrale 164

teatro impreeconoper la

messa a punto delle scritture. Qui, su precisa indicazione del duca, l'inaugurazione non si inserisce nel rapido circuito delle novità operistiche nazionali (che è appunto collegato a doppio filo al sistema impresariale) ma vuole essere un momento di glorificazione dell’arte patria e si affida perciò interamente ad artisti locali: come per la costruzione si erano mobilitati progettisti, pittori e decoratori modenesi, ora per lo spettacolo si interpellano il poeta e il musicista di corte, i quali lavorano intorno ad un episodio di storia patria, Adelaide di Borgogna al castello di Canossa, a cui farà seguito un secondo testo di un giovane autore locale protetto dal duca, il Carattaco di Angelo Catelani, di cui come del precedente non rimarrà traccia?! Ma si tratta appunto di un’eccezione, che oltre tutto viene ricordata come un insuc-

cesso, soprattutto per la scarsa affluenza di pubblico, del tutto inusuale per le serate di apertura. In ogni caso non ritroviamo altrove casi analoghi di risalto per la produzione melodrammatica locale, che ormai ha perso definitivamente di rilievo nel sistema produttivo ottocentesco. Quando l’evento è gestito da impresari questo rientra insomma automaticamente in circuiti extralocali: Messina apre nel 1852 con

un’opera di Donizetti

e una di Mercadante; Viterbo nel

1855 col Viscardello e Maria di Rohan; Rimini nel 1857 con

Aroldo. Il contributo artistico locale viene piuttosto dal coro e dall’orchestra, che gli impresari devono rigorosamente ingaggiare in loco, come viene loro imposto da contratto. Con l’apertura del teatro di Reggio Emilia (1857), quindi ancora una volta nell’ambito del Ducato di Modena, l’inau-

gurazione torna ad essere all’insegna di un autore locale, il concittadino Achille Peri, a lungo maestro di cappella del Duomo di Reggio. Qui la volontà di appoggiare e promuovere la produzione musicale locale si combina però con una pretesa da teatro grande, cioè quella di rappresentare un’ope21 A. Gandini, Cronistoria del Teatro di Modena, cit., p. 253. Il boom

rossiniano aveva definitivamente marginalizzato le scuole operistiche locali che ancora funzionavano alla fine del Settecento, anche nelle regioni più produttive come il Veneto; per un quadro a scala regionale del melodramma ottocentesco si veda A.L. Bellina e B. Brizzi, Il melodramma e la musica strumentale, cit.

165

ra nuova, evento ormai riservato, a quella data, solo a pochi

grandi teatri: le trentasei recite previste, si legge nell’apposito capitolato, si sarebbero divise tra due, eventualmente tre, spartiti, di cui uno scritto appositamente per l’occasio-

ne (ed è appunto il Vittor Pisani di Peri) e gli altri «fra i più recenti e applauditi» del circuito nazionale (e saranno Norma e Anna Bolena). Per l'occasione sarebbero stati scritturati «artisti tutti di cartello e uno di essi che non abbia cantato né a Parma né a Modena» e la cui capacità di attrazione fosse perciò assicurata”.

2.

«In un cantuccio d'Italia»

Quanto si è detto fin qui su questo orizzonte inaugurale così sorprendentemente unificato ci ha introdotto nei cir-

cuiti distributivi del melodramma in musica del primo Ottocento, che rispetto ad altre forme di mercato culturale, quello editoriale in modo particolare, presenta tratti del tutto eccezionali. La cosa non colpisce soltanto chi come noi osserva da lontano, ma doveva sembrare degna di nota anche ai contemporanei. Ce ne rendiamo conto leggendo una lettera del primo Rigoletto, al secolo il tenore Varesi, che nell'ottobre del 1852 scriveva a Brenna, amico personale oltre che segretario della Fenice, mentre si trovava ad Ascoli Piceno per la rappresentazione dell’opera che aveva debuttato pochi mesi prima a Venezia. Eccoci qui — scrive — in un cantuccio d’Italia i cui abitanti vollero pure procurarsi il piacere di gioire delle melodie del Rigoletto e che le sanno apprezzare quanto qualunque altro pubblico di città Capitale. Vedete da ciò se il gusto per le arti è innestato nella nostra razza Italia. Chi lo direbbe che in questo paese isolato quasi per mancanza di strade e molto lungi da qualunque primaria città 22 Capitolato per l'appalto degli spettacoli in circostanza dell'apertura solenne del Nuovo Teatro del Comune di Reggio, marzo 1856, cit. in D. Seragnoli, Lo spettacolo a Reggio nell'Ottocento, cit., p. 76. Rispetto alle ipotesi del capitolato la stagione inaugurale si sarebbe poi conclusa con Simon Boccanegra, fresco di debutto alla Fenice, con un allestimento curato per Reggio dal maestro stesso.

166

qui si gustarono con fanatismo tutte le bellezze e le innovazioni di cui Verdi ha ricolmo questo suo nuovo lavoro fin dalla prima sera che l’udirono, e qui non furono meno severi per le povere... [illeggibile] di quello che lo furono alla Fenice. Lo spettacolo andò alle stelle e si voleva la replica di quasi tutti i pezzi miei e di Graziani. Il teatro è vasto e magnifico e l’orchestra un vero bijou diretta dall’Impareggiabile Ferrarini??.

Il quadro che si presenta di fronte ai nostri occhi conferma quanto detto, e cioè che ogni «cantuccio» d’Italia si era dotato in pochi decenni di teatri che poco avevano da invidiare a quelli delle città maggiori e dove si rappresentavano i medesimi melodrammi. La cartina seguente, che ricostruisce al 1841 la rete delle strade maggiori, quelle di posta, cioè attrezzate per il cambio dei cavalli e per il passaggio delle vetture, mostra con chiarezza la situazione di isolamento di Ascoli Piceno, che data l’impervia posizione di confine tra Stato pontificio e Regno borbonico non doveva essere facilmente raggiungibile. Certo la situazione della viabilità aveva conosciuto anche in Italia un miglioramento notevole a partire dalla seconda metà del Settecento, quando si era diffusa quella crescente «febbre stradale» che Cattaneo aveva cercato di spiegare, in modo non troppo convincente al di fuori dell’ambi-

to lombardo, con la crescente circolazione lungo la penisola delle merci inglesi e francesi?4. Ma la svolta settecentesca aveva riguardato in particolare il nord del paese, e solo in modo marginale il centro e soprattutto il sud, dove ancora in piena Restaurazione

vigeva un’ottica

infrastrutturale

d’Ancien Régime che faceva gravitare il miglioramento viario intorno alla capitale, in funzione degli spostamenti del re e della sua corte. In altre aree, in particolare in Lombardia, in

Piemonte, in Toscana e in alcune parti dello Stato pontificio, gli interventi ottocenteschi avevano portato ad una diffusione più capillare delle strade carrabili modernamente 23 Lettera di Varesi a Brenna, 28 ottobre 1852, in ISV, Carteggio verdiano. 24 C. Cattaneo, Su la densità della popolazione in Lombardia e la sua relazione alle opere pubbliche, in Scritti economici, a cuta di A. Bertolino, Firenze, 1956, vol. II, p. 193.

167

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Fic. 3.1. La rete delle strade di posta nel 1841. Fonte: L. Bortolotti, Viabilità e sistemi infrastrutturali, in Annali 8, Insediamenti e territorio, Torino, Einaudi, 1985, p. 293.

inghiaiate che si erano ramificate sul territorio, favorendo anche in Italia quel fenomeno epocale che era l'aumento della mobilità. Tuttavia la prosecuzione dei progetti infrastrutturali continuava a scontrarsi nell’Italia della Re168

staurazione con la rigida pesantezza delle frontiere statuali, mentre l’intensificarsi della circolazione doveva fare i conti con le limitazioni doganal-poliziesche che ad esempio nello Stato della Chiesa, il più oppressivo da questo punto di vista, imponevano per uscire anche solo dal proprio comune di residenza il permesso della Segreteria di Stato, il passaporto e il biglietto della Soprintendenza alle poste??. Non ci resta che constatare che rete viaria e circuiti del mercato melodrammatico dovevano aver poco a che fare tra loro, o quantomeno che le difficoltà di comunicazione non dovevano costituire un vero freno alla circolazione delle opere. In ogni caso la particolarità del mercato operistico balza agli occhi se lo confrontiamo con quanto accadeva nella circolazione libraria, dove i dazi imposti sui libri nei vari stati, la cui punta più alta era stata toccata nel sud dopo i moti del ’21, avevano indotto una marcata regionalizzazione del mercato, in favore della quale convergevano le preoccupazioni censorie dei governi e le richieste protezionistiche delle corporazioni degli stampatori?. Nel caso delle opere in musica la chiave di volta del sistema, quantomeno nei primi decenni del secolo, era rappresentata dall’impresario, che John Rosselli, quanto opportunamente ce ne rendiamo conto solo ora, suggerisce di immaginare in cammino. Se vogliamo farci un’idea del personaggio-chiave della stagione di carnevale (come di altre stagioni), vale a dire dell’impresario, dobbiamo dunque immaginarlo in viaggio» — scrive nelle prime pagine del suo volume più noto — e immaginarlo mentre si incammina verso Parma o Padova o Firenze o Lucca o faticando in vettura attraverso l'Appennino o prendendo il traghetto per passare il

Po. Portava magari con sé uno o due cantanti o ballerini principali ai quali capitava di fare la stessa strada; ma altri in altre vetture o traghetti si avvicinavano alla piazza da direzioni diverse?

3 Cfr. L. Bortolotti, Viabilità e sistemi infrastrutturali, cit., p. 309. 26 Sulla quale vedi M.L Palazzolo, Geografia e dinamica degli insediamenti editoriali, in Storia dell’ editoria nell'Italia contemporanea, a cura di G. Turi, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 15 ss. 27 J. Rosselli, L’impresario d'opera, cit., p. 3.

169

Insieme agli artisti circolavano in rapido movimento le opere, la cui programmazione era il prodotto dell'interazione di più attori diversi o meglio di una sorta di contrattazione che vedeva in primo piano l’impresario ma coinvolgeva anche gli agenti teatrali e i compositori, le deputazioni dei teatri, i sovrani e il loro entourage nei teatri di corte. Si trattava

in buona sostanza di una sorta di co-produzione, in cui il peso relativo dei vari elementi tende a variare non solo di teatro in teatro ma di occasione in occasione, rendendo inu-

tile ogni tentativo di decifrarne più analiticamente i meccanismi. Non è dunque su questo aspetto che vorrei soffermarmi quanto proprio sui contenuti dell’offerta, sugli autori e sulle opere che vengono presentati al pubblico, un pubblico che nell'Italia della Restaurazione ha una fisionomia certamente meno elitaria e ristretta di quello dei lettori?8. Le tabelle seguenti mostrano l'andamento della programmazione in alcuni teatri dei quali sono disponibili cronistorie attendibili e che rappresentano un campione di sale piuttosto vario dal punto di vista territoriale, della tipologia proprietaria, e dell'importanza. I dati numerici corrispondono al numero delle opere rappresentate raccolte per decenni, generalmente a partire dall’inaugurazione o dalla riapertura del teatro, e suddivisi per autore. Vengono considerati singolarmente i maggiori autori del periodo, mentre nella voce

«altri» sono compresi autori minori, talvolta dalla rilevanza locale o regionale. Va tenuto presente infine che il numero totale delle rappresentazioni annuali varia in modo rilevante a seconda dell’importanza e delle risorse dei teatri ed è molto mutevole all’interno della vita di ogni struttura. I dati raccolti ci dicono in primo luogo che la frequenza di rappresentazione dei singoli compositori in relazione all’insieme delle opere rappresentate è nei vari teatri molto simile. Sebbene si individuino delle preferenze locali per uno o l’altro dei compositori del periodo il quadro mantiene una fisionomia complessivamente omogenea, che fa sì che il compositore «di moda» lo sia indiscutibilmente a li28 Cfr. L. Mascilli Migliorini, Lettori e luoghi della lettura, in Storia dell’editoria,

170

a cura di G. Turi, cit., pp. 77-112.

TAB. 3.1. Teatro delle Muse di Ancona: programmazione dal 1827, anno dell'inaugurazione, al 1877 1827-37 Rossini

1838-47

1848-57

1858-67

1868-77

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Nota: Il teatro organizza generalmente due stagioni; a carnevale e a primavera. La principale è quest’ultima e comprende 2-3 opere e un ballo grande; più episodicamente si ritrova una breve stagione estiva.

TaB. 3.2. Teatro Petrarca di Arezzo: programmazione dal 1833, anno dell’inaugurazione, al 1870 1833-40

1841-50

1851-60

1861-70 1 0 1 3

Rossini Mercadante Pacini Ricci

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Op. francesi

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Altri

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1

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Nota: Il teatro organizza due stagioni, a carnevale e in autunno, più episodicamente una terza stagione estiva.

vello nazionale e venga eseguito con impressionante ripetitività in ogni parte del paese. L'andamento delle rappresentazioni rispecchia inoltre con una certa fedeltà quelle che sono le fasi di maggiore produttività dei singoli compositori, confermando la rapidità di circolazione delle novità

operistiche. E allora entrando nel merito troviamo che negli anni ’30 alla rossinimania del decennio precedente si sostituisce piutN

TaB. 3.3. Teatro Carlo Felice di Genova: programmazione dal 1828, anno dell'inaugurazione, al 1871 1828-38

Rossini

Mercadante Pacini Ricci Bellini Donizetti

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Op. francesi Altri

1839-49

1850-60

1861-71

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TnB. 3.4. Teatro S. Elisabetta di Messina: programmazione dal 1852, anno dell’inaugurazione, al 1871 1852-60

1861-71

Donizetti

3

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Op. francesi

1

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Altri

3

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Nota: Il teatro organizza una stagione a carnevale con una sola opera; e più raramente una stagione primaverile.

tosto celermente una presenza sempre più incontrastata di Bellini (11 opere a Parma, 7 ad Ancona, 8 a Senigallia, 21 a Genova, 8 a Prato) e di Donizetti (11 opere a Parma, 13 a

Reggio Emilia, 25 a Genova, 8 a Senigallia, 7 ad Ancona), a cui continuano ad affiancarsi pochissimi altri, forse solo Mercadante e Luigi Ricci (che tengono la scena rispettivamente con 3 e 5 produzioni a Parma; 2 e 2 ad Ancona; 4 e

5 a Reggio Emilia). | Una grande frequenza di Donizetti, che corrisponde anche alla sua intensa produttività di quegli anni?”, domina Ricordiamo che nel 1827 il maestro aveva firmato con l’impresario Barbaja un contratto per 12 opere nuove in tre anni; cfr. W. Ashbrook, Donizetti, la vita, Torino, EDT,

172

1986, p. 36.

TAB. 3.5. Teatro Ducale di Parma: programmazione dal 1829 al 1879 1829-39

1840-49

1850-59

1860-69

1870-79

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14

Nota: Il teatro organizza sempre una stagione a carnevale, la maggiore, e una a primavera, più raramente in autunno.

TaB. 3.6. Teatro Metastasio di Prato: programmazione dal 1830 al 1869 1830-39

1840-49

1850-59

1860-69

Rossini

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Nota:

7

Il teatro organizza una sola stagione con 2-3 opere.

i palcoscenici negli anni ’40: 20 allestimenti sono dati a Parma, 25 ad Ancona come a Genova, 16 a Reggio Emilia.

Uscendo per un attimo dalle tabelle annotiamo, a confermare la diffusione della sua produzione, che nel teatro di Trani, fino al 1854 l’unico in Terra di Bari e perciò molto frequentato da tutta la provincia, nel corso del 1846 sono rappresentate in sequenza 5 opere del maestro bergamasco”. Dopo il successo di Nabucco nel ’42 anche Verdi comincia ad affermarsi massicciamente sulle scene delle capitali e 30 Cfr. G. Protomastro, Crozsstoria del Teatro di Trani, cit.

173

TaB. 3.7. Teatro Municipale di Reggio Emilia: programmazione dal 1830 al 1869

1830-39

1840-49

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1850-59

1860-69

Rossini Mercadante Ricci

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Nota: La stagione principale è quella della Fiera, da aprile a giugno; a questa si aggiunge una stagione minore

a carnevale e più raramente

una

autunnale. TaB: 3.8. Teatro di Senigallia: programmazione dal 1830 (nuovo municipale) al 1879

1830-39

1840-49

1850-59

1860-69

1870-79

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Nota: Il teatro organizza una sola stagione durante la Fiera nella quale si danno 2-3 opere e un ballo grande. Fonti: A. Fazi, I teatri di Ancona, cit., pp. 51-59; A. Grandini, Cronache musicali del Teatro Petrarca, cit., pp. 323-347; G. Vallebona, I/ Teatro Carlo Felice, cit., pp. 66-104; G. Donato, I/ Teatro Vittorio Emanuele di Messina, cit., pp. 141-143; P.E. Ferrari, Spettacoli drammatico-musicali e coreografici, cit.,

pp. 130-153; R. Fioravanti, La musica a Prato dal Duecento al Novecento, Prato, 1973, pp. 201-207; A. Albani et al., Il teatro a Senigallia, cit., pp. 158-161.

delle province, rio, dei grandi assente l’opera grandi successi

mentre si consolida la presenza, di repertotesti rossiniani. E invece ancora pressoché francese, che stava mietendo in quel periodo oltralpe ma che solo nel decennio successivo

investirà anche la programmazione italiana, come è ben visi-

bile nelle tabelle precedenti.

174

Scomparso Donizetti nel 1848, gli anni ’50 vedono esplodere in tutto il suo potenziale il boom verdiano: 37 opere sono approntate a Genova, 21 a Parma, 26 ad Ancona, 11 a Senigallia, 16 a Reggio Emilia; la sua presenza è forse meno forte ad Arezzo, rispetto alla costante supremazia donizettiana, mentre lo ritroviamo con 4 produzioni a Messina e a Prato. Continuano intanto a tenere le scene Luigi Ricci e Bellini, le opere di maggiore successo dei quali (Chiara di Rosemberg e Chi dura vince di Ricci?!; Norma e La sonnambula di Bellini)?, ritornano nei cartelloni con diffusa fre-

quenza. Negli anni ’60 il quadro pare avviarsi verso un mutamento di fondo che riguarderà i meccanismi stessi del sistema di produzione e di circolazione delle opere e su cui tornerò nell’ultimo capitolo. Nei dati postunitari leggiamo in ogni caso una forte crescita della voce «opere francesi» e della voce «altri» che non corrisponde ancora alla nuova generazione dei Boito e dei Ponchielli (che arriverà sulle scene nel decennio seguente) ma si riferisce piuttosto ad autori locali o di genere buffo, entrambi sempre più richiesti. Pochi compositori si alternano dunque sui palcoscenici italiani nei quattro decenni considerati, tenendo una scena dal profilo nazionale, dove novità, successi e fiaschi aveva-

no ripercussioni vaste e rapide, a cui contribuiva lo sviluppo intenso, proprio in quegli anni, della stampa specializzata. I dati che ho proposto appaiono per di più incrementati nelle loro proporzioni se si considerano non tanto le singole produzioni, come nelle tabelle precedenti, ma il numero delle repliche per ogni opera, operazione che ci è consentito di fare solo in pochi casi, e in particolare per Ancona, Parma e Genova, le cui cronologie informano anche sulla

quantità delle recite”. Era consuetudine consolidata che il 3! Marcello Conati ha calcolato che queste due opere abbiano avuto nel periodo 1830-49 rispettivamente 285 e 207 allestimenti in Italia; cfr. Presenze delle opere di Donizetti nei teatri italiani nella prima metà dell’Ottocento, in «Studi donizettiani», 1986, p. 435.

32 Le due opere più rappresentate di Bellini ebbero invece tra il 1839 e il 1849 rispettivamente 407 e 361 allestimenti italiani, ibidem, p. 436. 3 Il numero delle repliche è un dato molto variabile. Per Arezzo la

175

numero

delle repliche per ogni opera non venisse fissato

anticipatamente e non rientrasse dunque tra le clausole dei contratti (che prevedevano piuttosto un numero minimo di recite totali) ma dipendesse dall’esito iniziale dell’opera stessa. Ciò significava che se un’opera non aveva successo, e la qualità dell'esecuzione giocava un ruolo talvolta anche più importante dei meriti del testo, poteva essere tolta dalle scene dopo poche sere, mentre un’opera di grande successo poteva continuare a richiamare pubblico fino a 30 o più serate consecutive. Se allora prendiamo il caso di Ancona osserviamo subito che a cavallo tra gli anni ’30 e ’40 i 25 allestimenti di opere di Donizetti, che costituiscono quasi la metà di tutte le opere allestite dal teatro, corrispondono ad un numero altissimo di repliche, per un totale di 210 serate in cui il pubblico locale si trova ad ascoltare le arie donizettiane e ad ammirare i loro intrecci storico-amorosi.

Ancor più alta è nel decennio seguente la frequenza delle recite di opere verdiane, per un totale di 320 serate all'insegna del maestro bussetano. Per avere un’idea precisa di quanto Verdi venga presentato al pubblico locale, andrebbero poi aggiunti a queste serate anche i brani verdiani inseriti nelle serate a beneficio dei singoli cantanti, cosa che ovviamente è ben difficile fare. In ogni caso mi pare chiaro che le occasioni di trovarsi di fronte ad uno degli eroi verdiani fossero davvero molte per il pubblico anconitano. Tra le opere qui più replicate troviamo per Donizetti il Belisario, che nel maggio del ’37 tiene 26 sere consecutive e la Beatrice di Tenda (20 sere nel 1839), e nel repertorio verdiano i Lombardi (24 sere consecutive nel ’48) e il Rigoletto (18 sere nel ’54). A Genova le opere più rappresentate nel periodo considerato sono, oltre al collaudatissimo Barbiere di Siviglia (che risulta probabilmente l’opera più rappresentata nell’Ottocento italiano”), Norzza (168 recite in 16 allestimenti), pur ottima cronologia ricostruita da Grandini riporta quasi sempre il numero delle serate aggregato per stagione, senza distinguere tra le opere; per Reggio Emilia il dato relativo alle repliche è riportato solo nella cronologia del nuovo teatro (1857); le altre cronologie riportano in modo episodico i dati sul numero delle serate. 34 Lo è certamente nel decennio 1830-39, pur seguito a breve distanza

176

L’Elisir d'amore (143 recite per 12 allestimenti) e in fine Ernani (che con 154 recite per 10 allestimenti ottiene il rapporto più alto tra produzioni e recite). A Parma si segnalano per successo e alto numero di repliche l’Anna Bolera (24 recite nel carnevale del ’33), la Lucrezia Borgia (23 serate nel °40), Ernari (23 nel ’45), Attila (21 nel ’52), e infine Rigoletto, che nel carnevale del ’53 viene replicato per 34

volte??. Le opere circolano parecchio dunque, lo fanno in tempi relativamente rapidi, e se di successo vengono massicciamente replicate. Un dato decisivo per valutare il grado di importanza e di attesa di un evento operistico rimane la tempestività dell’allestimento rispetto al suo debutto, che ormai avviene in quei pochissimi teatri che hanno un rapporto diretto coi compositori: la Scala ma anche il Carcano a Milano, La Fenice veneziana, l’Apollo o l'Argentina a Roma, il San

Carlo. Dopo la prima rappresentazione in uno di questi teatri l’opera entra nel circuito impresariale portando con sé il proprio fardello iniziale di applausi, di fischi o di silenzi, e il Rigoletto può essere ascoltato ad Ascoli Piceno pochi mesi dopo la prima veneziana, o il Trovatore tiene per venti serate consecutive le scene del teatro di Messina nel novembre del 1853, l’anno stesso della prima all’Apollo di Roma. Per comprendere appieno lo spessore di questo circuito è necessario ormai guardare anche al di fuori del luogo teatro in senso stretto, a quel mondo editoriale che dagli anni ‘30 conosceva un boom intenso e concentrato in massima parte a Milano. Le prime testate teatrali, nate tra il da Norma, secondo i dati raccolti da M. Conati, I periodici teatrali e musicali italiani a metà Ottocento, cit., p. 21.

35. Alla voce «altri» sono compresi nelle tabelle appena analizzate alcuni compositori minori, oppure il cui raggio di azione rimane territorialmente più limitato, come Achille Peri a Reggio Emilia, Nini e Chiaramonte a Genova; tra i primi troviamo i rappresentanti di quella scuola napoletana che si rappresentava più al sud ma che nei suoi maggiori rappresentanti, i fratelli Ricci e Petrella in primo luogo, trova ampio spazio anche nei palcoscenici del nord; si pensi al notevole successo ottenuto dal Birrazo di Preston di Ricci. I dati relativi al numero delle repliche sembrano in ogni caso diminuire percentualmente la loro presenza nel quadro d’insieme, a parte qualche rara eccezione.

177

1827 e il’28, erano appunto milanesi, come «I Teatri», giornale drammatico musicale coreografico, e «L'Eco», giornale

di scienze lettere arti mode e teatri, importante come luogo di divulgazione del dibattito culturale straniero?9. Ma è nel 1842 che Ricordi fonda quello che diventerà il maggior periodico musicale italiano, la «Gazzetta musicale di Milano», cui seguirà poco dopo «L'Italia musicale», la rivista dell'editore Lucca, sul cui frontespizio campeggiava un’immagine femminile con la cetra ai cui piedi stavano in ordine

sparso elementi di immediato riferimento alle città italiane: il Vesuvio, il Duomo di Milano, un busto di Dante, la cupo-

la di S. Croce. Nel 1844 esce il nuovo catalogo pubblicitario della Ricordi in cui definitivamente si afferma come dominante negli interessi della casa editrice il genere melodrammatico e in cui appare una nuova collezione dedicata alle riduzioni di testi operistici per canto e pianoforte; la collezione si apre non casualmente con Nabucco e i Lombardi, prodotto del nuovo astro emergente della casa editrice e già considerati best-seller. Proviamo allora, per concludere questo quadro sui circuiti operistici nazionali, a seguire la circolazione a metà secolo di alcune singole opere di un certo successo, prendendo tre delle prime e delle più politiche opere verdiane. Nabuccodonosor debutta alla Scala il 9 marzo 1842 e segna

il primo vero trionfo del nuovo compositore. Entro la fine dell’anno sarà replicata nel medesimo teatro settantacinque volte. Nel dicembre, come maggior successo dell’anno, apre la stagione di carnevale a Venezia. A partire dal gennaio 1843 fino alla fine di quell’anno l’opera viene allestita in diciannove diversi teatri, tra cui le grandi sale di Parma, di Genova, di Bologna, o l’Apollo romano, ma anche i teatri sociali di Como, Treviso, Crema e Mantova. Il suo terzo

anno di vita è il più intenso: nel 1844 ne ritroviamo venti- . cinque allestimenti (tutti al centro-nord o in Sardegna) mentre l’anno seguente raggiunge centri come Saluzzo, Finale di Modena, Feltre, Castiglione delle Stiviere, Cividale, Casale Monferrato. La diffusione del primo Verdi al sud è 36 Cfr. M. Conati, I periodici musicali, cit., p. 16.

178

invece tardiva, complice una censura particolarmente diffidente: Nabucco compare a Napoli solo nel ’48, e infine nel °49 raggiunge Messina e Catania. A distanza di meno di un anno dal precedente debutto e nel medesimo teatro Verdi ripeteva il successo precedente con I Lombardi alla prima crociata. L’immissione dell’opera nel circuito commerciale è questa volta più rapida, visto che il compositore è ormai noto. Dalla Scala approda quindi subito a Senigallia, a Lucca e a Firenze, poi a Trieste, a Venezia e a Torino. Ai nove allestimenti del secondo anno seguono i ventuno del 1845, quando arriva a Voghera, a Lugo, a Rovigo, e anche a Palermo. Infine con Ernani (La Fenice, marzo 1844) il potenziale di diffusione di un’opera di successo alla metà degli anni °40 si esprime appieno: nel solo 1846 l’opera raggiunge una sessantina di centri italiani, con una media altissima di repliche per allestimento.

3.

Intrecci melodrammatici A comporre un melodramma basta rubare onestamente un argomento a qualche Romanziere indigeno o transalpino; incastrarvi dei gallici colpi di scena; raggranellare o raffazzonare qualche nebuloso concettino tratto dal museo del romanticismo; e quindi stemperare il tutto in un po’ di prosa ritmata, come Dio vuole (1856)??.

Dovrebbe a questo punto risultare più chiaro quanto massiccio e singolarmente istantaneo fosse il flusso di narrazione di cui il circuito melodrammatico si faceva tramite

nell’Italia della Restaurazione”. E come le immagini e le 3 Dalla Prefazione al libretto d'opera Maria d'’Agamonte, di S. Cefonini e D. Maestrini, 1856, cit. in U. Rolandi, Il libretto per musica attraverso i

tempi, Roma, Edizioni dell’ Ateneo, 1951, p. 137.

38 L'importanza di quel circuito come una sorta di preparazione alla successiva fortuna del romanzesco è sottolineata nel saggio di G. Ragone, La letteratura e il consumo: un profilo dei generi e dei modelli nell'editoria

o

note delle opere in musica giungessero ad un pubblico che non aveva paragoni, per ampiezza numerica ed estensione

socio-culturale, rispetto a quello dei lettori. Il ruolo giocato dal teatro, ossia dal melodramma, nelle esperienze sociali e

nella formazione culturale degli italiani cresce e si amplifica proprio nei decenni centrali dell'Ottocento, ben oltre quanto avviene nei maggiori paesi europei dove i circuiti cultu-

rali sono più variegati e articolati. Quanto ciò sia da attribuire al boom dell’edilizia teatrale che diffonde il modello del teatro di città, e quanto alla grande stagione produttiva che si era aperta con Rossini e continuava sotto il segno di Bel-

lini, Donizetti e Verdi, è ovviamente indistinguibile. Il dato più rilevante è la concomitanza dei due fenomeni, che essendo orientati nella medesima direzione enfatizzano i contorni del quadro che ho cercato di tracciare. Vale la pena allora entrare almeno per un attimo tra le pieghe delle narrazioni testuali-musicali del melodramma romantico, nei cui confini comprenderò pur con qualche semplificazione i tre compositori citati, per capire in che cosa consista la forte specificità formale di un medium così popolare e diffuso e individuarne gli elementi che più influiscono sulla sua ricezione. Che questa non possa essere assimilata all’esperienza della lettura, nemmeno dal punto di

vista puramente sensoriale, è di evidenza immediata. Nella sua multimedialità, in cui parole, musica e rappresentazione

si combinano in un prodotto del tutto originale, l’opera in musica mette in gioco una gamma

più ampia di strumenti

percettivi. Inoltre proprio la molteplicità degli apporti costitutivi la rendeva un genere particolarmente esuberante e ricettivo verso l’esterno??: verso la letteratura da un lato,

da cui traeva i propri soggetti, e verso il pubblico, dall’altro, italiana (1845-1925), in Letteratura italiana, vol. II, Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, p. 694.

3? Sull’esuberanza e la «molteplicità» come tratto peculiare del linguaggio operistico insiste il bel libro di H. Lindenberger, L’opera lirica. Musa bizzarra e altera, Bologna, Il Mulino, 1987, che cita in proposito (p. 79) una frase di Beaumarchais secondo cui «l’opera non è una tragedia, né una commedia ma ha qualcosa di entrambe e racchiude in sé tutti i generi».

180

del quale assimilava con sorprendente rapidità mode e gusti dominanti. Ma se si vuole avvicinarne i meccanismi è bene fare un passo indietro per illustrare rapidamente come nascono gli intrecci melodrammatici*°, a cominciare dalla scelta del soggetto, la prima delle molte operazioni che conducono alla genesi dell’opera e spesso anche una delle più sofferte, o quantomeno delle più visibili nel susseguirsi di ripensamenti e di perplessità che riempiono le pagine della corrispondenza tra compositori e librettisti. La scelta del libretto, scriveva Bellini da Parigi mentre era in procinto di mettere in cantiere I Puritani, è «cosa più difficile dello stesso crear musica». E anche se non dobbiamo credergli sulla parola certo è che i nuovi compositori dedicano alla questione un'attenzione maggiore del passato. È noto quante piste diverse intraprenda Verdi prima di sposarne definitivamente una: oltre al librettista, anche gli impresari, le Direzioni dei teatri, lo stesso editore sono coinvolti nel gioco del proporre idee che per concretizzarsi avevano bisogno non solo della definitiva convinzione del compositore ma anche dell'avallo censorio. Proprio su questo si incaglierà ad esempio senza possibilità di appello il progetto del Crorzwello 0 quello dell’Ettore Fieramosca, di cui riparleremo. Questo sforzo collettivo alla ricerca del soggetto melodrammatizzabile era rivolto all’individuazione di testi che si prestassero bene alla riduzione operistica, cioè che fossero storie giuste per essere ricostruite secondo scansioni dram-

matiche, una struttura dei personaggi e un linguaggio, tali da essere facilmente offerti alla composizione musicale, che a sua volta ne avrebbe fatto qualcosa di diverso e di nuovo rispetto alla versione di partenza. Poteva succedere che le 40 Il quesito definito indistricabile su «chi» produce l’opera lirica ha suscitato di recente un interesse maggiore del passato nella musicologia più avvertita, che ne ha analizzato i diversi attori e i vari passaggi. Il contributo più completo sulla figura del librettista è quello di F. Della Seta, I/ librettista, in Storia dell’opera italiana, Torino, EDT, 1987, vol.

24

4! Lettera da Parigi del 14 febbraio 1834, cit. in Bellini. Memorie e lettere, a cura di F. Florimo, cit., p. 407.

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storie individuate risultassero talmente adatte allo scopo da essere riprese più volte da diversi compositori‘, in una serialità tipicamente melodrammatica che si fermava soltanto di fronte a soggetti di tale successo da non essere più ripetibili. È evidente però che nel tempo i criteri della scelta potevano variare moltissimo. Quando Bellini si era trovato di fronte al Cesare in Egitto, composto da un poeta parmense per l’apertura del gran teatro cittadino, non aveva esitato, lo abbiamo visto, a rispondere che gli sembrava un

testo vecchio, inadatto al pubblico degli anni ’30 dell’Ottocento. Sia Bellini che più tardi Verdi, con accentuazioni e propensioni proprie, chiedono non a caso ai propri librettisti di proporre loro dei testi in cui si riconoscessero invece

tutti i luoghi classici della narrazione romantica: fuoco, passionalità irrefrenabile, conflitti laceranti e finali indiscutibilmente tragici, che la musica si incaricava di rendere ancora più intensamente vibranti, toccando il cuore degli spettatori molto più di altre corde. E quanto probabilmente intendeva dire Bellini quando scriveva a Pepoli, in procinto di comporre per lui i Puritani, che «il dramma per musica deve far piangere, inorridire, morire cantando»"4.

Ciò che infine giunge nelle varie province insieme ai grandi spettacoli dei melodrammi ottocenteschi è nella maggior parte dei casi l'adattamento di un precedente testo letterario, che l’opera aveva preso in prestito nel più recente 42 Un solo esempio: The Bride of Lammermoor di Scott ispira poco prima di Donizetti altri quattro compositori: Michele Carafa, la cui opera è del 1829, Luigi Riesk (1831), I.F. Bredal (1832), e Alberto Mazzuccato (1834); cfr. Dizionario dell’opera, a cura di Pietro Gelli, Milano, Baldini e Castoldi, 1996, ad vocem.

4 Non si tratta di una consuetudine ottocentesca ma di una pratica presente fin dalle origini nella tradizione operistica. Secondo Lorenzo Bianconi il repertorio dell’opera italiana si forma inizialmente proprio come «collezione ideale di soggetti drammatici esemplari» e solo più tardi come insieme codificato di classici dell’opera. Si pensi soltanto ai drammi del Metastasio che erano passati per le mani di decine di compositori dando origine fino ad Ottocento inoltrato a numerosi testi in musica e diventando appunto una sorta di repertorio classico di riferimento; cfr. Il teatro d’opera, cit., p. 26. 44 V. Bellini, Epzstolario, a cura di L. Cambi, Milano, Mondadori, 1943, p. 400.

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patrimonio letterario straniero: dal grande dramma tedesco (Schiller per Guglielmo Tell, Maria Stuarda, Don Carlos e Giovanna d'Arco) o francese (Victor Hugo per Ernani, Lucrezia Borgia, Rigoletto), dai poemi di Byron (I/ Corsaro, Parisina,

I due Foscari) o dal romanzo

storico di Walter

Scott (così I Puritani, la Donna del Lago o Lucia di Lammermoor). E non va dimenticato il teatro shakespeariano, la cui fortuna romantica è ulteriormente accentuata dalle numerose versioni melodrammatiche che sono tratte dai suoi drammi

(vedi I Capuleti e i Montecchi, Macbeth,

Otello,

Falstaff). La consuetudine di adattare per la composizione in musica un testo in prosa spesso di uscita recente e quasi

sempre straniero”, si era imposta nella prassi operistica a partire dalla fine del Settecento, dalle fortunatissime riduzioni di Da Ponte per le opere mozartiane, che avevano attinto ad esempio da un drammaturgo di gran successo come Beaumarchais*°. Sulla scena italiana tale consuetudine era presto diventata norma, intrecciandosi a inizio secolo con la tendenza alla scambievole mescolanza tra i generi che era propria dell’estetica e del gusto romantico. Una situazione frequente ancorché singolare era ad esempio il passaggio intermedio dei soggetti drammatici attraverso la forma danzata e pantomimica del coreodramma, che nel primo Ottocento era divenuto un’appendice consueta delle mag-

giori stagioni d’opera. Poteva succedere cioè che Elisabetta o il castello di Kenilword di Scott diventasse prima ballo eroico con Gaetano Gioia nel ’23 poi opera con Donizetti nel ’29. Maria Stuarda di Schiller, messa in scena come ballo da Galzerani alla Scala nel ’26 debutta come opera nel ’35

musicata dallo stesso Donizetti. E quella di pescare soggetti

45 La riproposizione in forma operistica poteva essere anche molto

tempestiva, sulla scia di un «effetto best-seller», come succede per Norzza di Alexandre Soumet, rappresentata al Théatre de l’Odéon nell’aprile del 1831 che nella versione belliniana debutta alla Scala nel dicembre dello stesso anno. 46 Sulla prassi degli adattamenti nell'opera italiana si veda R.N. Coe, Méli-mélo-drame ou Dramaturges francais et librettiste italiens, in Litterature et opéra, testi raccolti da Ph. Berthier e K. Ringger, Grenoble, Pug, 1985, pp. 55-68.

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passati da un primo vaglio del pubblico nel repertorio del ballo non era un’abitudine propria del compositore bergamasco, visto che sia i Masnadieri verdiani che la Beatrice di Tenda di Bellini conoscono precedenti versioni in forma di ballo eroico. Un’altra situazione di singolare adattamento in più tempi è quella della Darzes aux camzèlias, che da romanzo diviene vaudeville e da vaudeville rapidamente opera lirica, in una continua fluttuazione dei soggetti da una forma all’altra, da una riduzione all’altra””. Per costruire le sue situazioni narrative l’opera attingeva

dunque ad un serbatoio di vicende e di personaggi che risultava comune a più forme letterarie e che in questa fase si identificava sempre più con la fiction romantica o con la rilettura romantica di Shakespeare". Si tratterebbe, come ha scritto Fabrizio Della Seta, di «un ipersistema espressivo» molto diffuso nel primo Ottocento, «un sistema di linguaggi artistici distinti nei mezzi, nei livelli qualitativi, ma convergenti nelle finalità» del quale l’opera entra con prepotenza a far parte, come di «un tessuto continuo che travalica le tradizionali classificazioni delle arti e dei generi»*?. È piuttosto evidente, anzi, che in Italia l’opera lirica è l'anello principale di quell’ipersistema e il suo principale collegamento con il quadro europeo, il veicolo attraverso la cui mediazione e deformazione i personaggi e le vicende dei maggiori testi romantici allora in commercio

arrivavano a

diffondersi anche nelle province italiane’. Proprio l’opera 4? Cfr. K.K. Hansell, Il ballo teatrale, cit., p. 277. Le prime recite

parigine del dramma che Alexandre Dumas zo autobiografico di qualche anno prima debutto veneziano di Traviata è nel marzo 4 G. Taylor, Reinventing Shakespeare.

figlio trae dal proprio romanrisalgono al febbraio 1852; il dell’anno successivo. A cultural history from the Restoration to the Present, London, Vintage, 1987, pp. 167-168. 4? Cfr. F. Della Seta, Italia e Francia nell'Ottocento, vol. IX della Storia della musica, a cura della Società Italiana di Musicologia, Torino,

EDT,:1993; psi.

20 Il trattato di G.B. Ranuccini, Sulla musica e la poesia melodrammatica italiana del XIX secolo (1843) critica la propensione dei compositori del momento per «libidini nefande e delitti di raccapriccio». Così recita il libretto satirico «I Romanticisti» che nel 1819 ironizza appunto sull’esterofilia dei musicisti alla moda: «O genio romantico che tutto scompigli /tu accendi i tuoi figli di nordico ardor / Se è forastier sarà

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va così a costituire in questo caso quella produzione culturale votata al rapido consumo che in altri paesi dove il pubblico dei lettori si stava espandendo con tutt'altra rapidità è rappresentata invece dai fewz/lettons e dai romanzi d’appenchic: Donizetti è forse il compositore che meglio rappresenta l’espressione nel melodramma musicale di questo gusto romantico — inteso più come moda e accentuazione di sensibilità che non come movimento intellettuale — che negli anni °20 si era diffuso quasi istantaneamente a livello europeo proponendo ad un pubblico di lettori in buona parte nuovo degli intrecci di ambientazione storica, dal forte colore locale e spesso di una tragica luttuosità?. Di questa forma di romanticismo popolare le opere donizettiane proponevano tra l’altro anche le suggestioni più estreme, macabre e cimiteriali, dalle quali la letteratura italiana del periodo rimane più lontana, e che più susciteranno le reazioni della censura”. Tutto questo — almeno così sostengono in continuazio-

ne gli interessati — è ciò che vuole e si attende il pubblico del periodo, al quale i vari soggetti coinvolti nella genesi dell’opera, dall’impresario fino al censore, rivolgono un’atuom di gran merto /i nazionali sol sono ignoranti / e sprezzarli dobbiamo» (cit. in U. Rolandi, I/ libretto per musica, cit., p. 124).

7! Mi riferisco a quel romanticismo popolare descritto così bene per la Francia da James Smith Allen, Il romanticismo popolare. Autori, lettori e libri in Francia nel XIX secolo, Bologna, Il Mulino,

1990. Va detto

peraltro che anche in Italia, al seguito delle molte traduzioni di Scott che piuttosto rapidamente invadono la penisola, il genere del romanzo storico aveva avuto un grosso successo di pubblico. Mancano però i dati sulle tirature, quelli su cui si basa appunto la ricerca di Allen. Cfr. M.I. Palazzolo, Il romanzo storico in Italia, in I tre occhi dell'editore. Saggi di storia dell'editoria, Napoli, Archivio Guido Izzo, 1989.

5 Su Donizetti come maggiore autore italiano di fewillettons storici fatti per un consumo rapido e popolare, diversamente dai romanzi di D'Azeglio, Guerrazzi, Grossi che si rivolgevano ad un pubblico colto, cfr. L. Baldacci, Donizetti e la storia, in Atti del I convegno internazionale di studi donizettiani, settembre 1979, Bergamo, Azienda autonoma di turismo, 1983.

53 Su opere quali Maria Stuarda, Lucrezia Borgia, Marino Faliero si scatenetà la censura napoletana in quanto rappresentazioni di misfatti atrocemente meditati; cfr. J. Commons, Donizetti e la censura napoletana, in ‘bidem, pp. 1-52.

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tenzione costante. Questa interazione col pubblico, coi suoi gusti e le sue aspettative, che accompagna e guida le varie fasi della costruzione di un’opera è forse l’elemento più caratterizzante sul versante della ricezione. La natura rappresentativa del melodramma in musica fa sì infatti che librettisti e compositori si pongano molto più del letterato tradizionale in una posizione di colloquio stretto con il proprio pubblico: da un lato ne assimilano i gusti, con una rapidità che deve essere proporzionata al veloce dipanarsi delle stagioni operistiche, dall'altro lo riforniscono di immagini e di personaggi che altrettanto rapidamente si diffondono da un capo all’altro della penisola”. Gli epistolari tra compositori e librettisti costituiscono una fonte straordinaria per farsi un’idea del processo di composizione di un’opera, dei suoi condizionamenti e del suo percorso, consentendo di entrare direttamente all’interno di un ritmo produttivo molto rapido, ma che ugualmente prevedeva numerosi passaggi”. Avvenuta la scelta del soggetto il librettista stendeva un primo progetto drammatico, che andava sottoposto ad un vaglio preliminare della censura, a seguire il quale si poteva procedere alla composizione; solo da questo momento si metteva in moto la ste-

sura vera e propria, che pezzo per pezzo il poeta proponeva al compositore e che spesso veniva modificata più volte prima di trovare un assetto definitivo. Quest'ultimo veniva infine

inviato al musicista che procedeva a musicarlo. Solo dopo un ulteriore controllo della censura si poteva passare alla messinscena, durante e anche dopo la quale si potevano verificare aggiustamenti e ritocchi. 94 Secondo F. Della Seta, Italia e Francia, cit., p. 12, «il romanticismo nell’opera italiana e francese si manifesta innanzitutto come appropriazione ed elaborazione di temi e situazioni mutuate da un gusto letterario che si è ormai fatto costume sociale».

? Si veda il lavoro di edizione critica svolto dall'Istituto di studi verdiani che ha finora riguardato, tra i molti librettisti verdiani, Boito, Piave e

Cammarano. Cfr. M. Medici e M. Conati, Carteggio Verdi-Boito, Parma, ISV, 1978, 2 voll.; E. Baker, Lettere di G. Verdi e F.M. Piave (1843-65), in «Studi verdiani», 1986-87; e infine Carteggio Verdi-Cammarano (18431852), a cura di C.M. Mossa, Parma, ISV (in corso di stampa). Ringrazio

i responsabili per avermi concesso la consultazione del manoscritto.

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Tutto il processo si configurava in sostanza come una

costruzione artigianale a più voci, rivolta a produrre testi che, diversamente da quelli letterari, rimanevano docilmen-

te disponibili a continue varianti in corso d’opera, provenienti dalla censura, dagli interpreti, dal compositore, talvolta dal pubblico stesso. Di quest’ultimo peraltro si scorge

la presenza nell’intero percorso, come «supremo giudice» dei nostri risultati, scriveva Bellini, il solo interlocutore alla cui sentenza doveva misurarsi l’artista, magari con la speranza di poter presentare appello anche dopo un fiasco «so-

lenne», come quello della prima di Norzz4, che sarebbe poi diventata una delle opere più amate del periodo”. Per diventare libretto e poi opera in musica i soggetti di

partenza venivano dunque sottoposti ad una serie di modifiche che dovevano tener conto delle esigenze particolari connesse alla loro musicabilità e rappresentazione, cosicché finivano per diventare qualcosa di molto diverso dal testo di partenza e potevano suscitare le proteste di quegli autori che come Victor Hugo consideravano i propri testi deturpati e sviliti dalla messa in musica”. Anche se le sensibilità in proposito erano diverse, l'adeguamento dei testi al codice melodrammatico consisteva in una serie di operazioni generalmente condivise da librettisti e compositori. E cioè il testo andava accorciato, poiché la parte musicale tendeva inevitabilmente ad espanderne i tempi, e ne andava semplificato l’intreccio, oltre al numero e alla caratterizzazione dei

personaggi. E ancora era preferibile sottolineare in modo netto e senza inutili chiaroscuri sia il profilo che l'intensità delle passioni in gioco, perché fossero ben contrastate e poco sfumate, oltre che raccolte intorno alla figura centrale dell’eroe-vittima. Una simile semplificazione doveva riguardare il soggetto nel suo complesso, e dunque sia la sua strut56 Lettera a Florimo del 26 dicembre 1831, in Bellini. Memorie e lettere, a cura di F. Florimo, cit., p. 397.

57 Ci penserà la penna tagliente di George Bernard Shaw a rimettere le cose a posto scrivendo che «il principale merito di Victor Hugo come drammaturgo fu di aver fornito libretti a Verdi», in Shaw's Music: the complete musical criticism in three volumes, a cura di D.H. Laurence, New York, Dodd-Mead,

1981, vol. II, pp. 724-725.

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tura complessiva che il profilo psicologico dei protagonisti. Pensiamo a Norzza, tanto per restare su un’opera molto

diffusa. Di tutto il tormento del proconsole Pollione che nella pièce di Alexandre Soumet vive da anni con una donna in perenne crisi di coscienza, morale e religiosa, e infine si innamora di un’altra, nella Norrza belliniana rimane solo

il fatto, molto più banale, che il suddetto incontra una donna di dieci anni più giovane di Norma e si innamora del suo candore e della sua innocenza”. E ancora un’altra donna famosa, Lucia, la sposa di Lammermoor di Walter Scott, nella versione operistica perde non a caso dei risvolti psicologici importanti: l’eroina donizettiana cede infatti di fronte alla potenza delle passioni e cade nel baratro della follia senza che il testo del libretto ne lasci intendere alcuna spiegazione razionale, come avviene invece nel testo letterario, dove la protagonista viene inserita in una tradizione di personaggi rovinati, come Don Chisciotte, dalla lettura e dal cedimento eccessivo all’imma-

ginazione??, Ciò che rimane nella trasposizione musicale è la passione in sé, enfatizzata nei suoi slanci e nei suoi contrasti,

che il linguaggio musicale rendeva credibile senza bisogno che particolari spiegazioni la rendessero plausibile. 298 La comparazione tra i due testi è affrontata da R.N. Coe, Mélt-2élodrame, cit., p. 59. Un’altra operazione importante per la riduzione al codice melodrammatico riguardava il linguaggio, che ovviamente richiedeva

sonorità particolari. Secondo Giovanni tutta la sua bizzarria, sostiene a lungo nazionale grazie anche ad un’assonanza no con le litanie della liturgia religiosa;

Morelli la lingua dei libretti, con il ruolo di lingua di unificazione molto familiare al pubblico italiacfr. G. Morelli, L’opera nella cul-

tura nazionale italiana, in Storia dell'opera italiana, EDT,

pp. 393-454.

1988, vol. VI,

” Traggo la comparazione da H. Lindenberger, L’opera lirica. Musa bizzarra e altera, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 146 ss., secondo il quale «la più immacolata virtù e la più perfida malvagità s'incarnano con maggior convinzione in contesti operistici» poiché l’opera in musica, in un

certo senso per la sua marcata innaturalità, innalza l’azione in «una sfera di accresciuta, se si vuole istericamente accresciuta, intensità».

6 Anche i romantici italiani, ben poco attenti alla realtà del melo-

dramma in musica, riconoscevano alla musica una capacità molto particolare di tradurre in modo efficace le ragioni della passione e del sentimento; cfr. M. Padoan, Pensiero romantico e melodramma italiano, in «Quadrivium», XVII, 2, pp. 41-67.

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Ne sembrano ben coscienti i compositori del periodo, che appunto si propongono di offrire al pubblico un vero concentrato di passionalità, di fronte a cui anche la più compassata delle audience, quella parigina in guanti bianchi che nel febbraio del 1835 si trovava ad ascoltare per la prima volta I Puritani, si sciogliesse per la commozione®!. Se l’interattività tra i due piani (la produzione e la ricezione)

sembra dunque far parte della natura teatrale di questa forma artistica, è altrettanto chiaro che sembra funzionare in

modo particolarmente efficace proprio in questa fase, complice il clima romantico e anche la crescente commercializzazione del melodramma, il suo progressivo strutturarsi come «industria» intorno all’attivismo crescente di alcuni editori, a cui certamente non è estranea la particolare atten-

zione verdiana per l’effetto scenico e per l’efficacia comunicativa del suo prodotto. Se si pensa a quanto scarsa sia nel dibattito letterario italiano di quel periodo, tutto concentrato su se medesimo, la presenza del proprio destinatario, di un lettore anche ipotetico che gli autori tutt’al più identificavano con se stessi, si può cogliere meglio la particolarità del genere melodramma, così proteso verso il proprio pubblico e peraltro guardato con estrema diffidenza e sospetto dalla cultura alta, per la quale il libretto d’opera continuava a rimanere «una delle miserie della patria letteratura»®. Va detto infatti che il melodramma in musica, nonostante la sua diffusa popolarità, non trova alcuno spazio all’interno dei dibattiti intellettuali del primo Ottocento, con la sola

eccezione del noto intervento di Mazzini, il quale pubblicando nel 1836 il suo pamphlet dedicato alla Filosofia della musica mostra una chiara percezione delle potenzialità comunicative di quel mezzo e sembra protendersi, quasi 6! Si veda il resoconto entusiasta che Bellini ne fa a Ricordi: «Vedere un teatro francese, ordinariamente freddissimo, ridursi a tale fracasso da sembrarmi essere alla Scala nella prima sera dell’apparizione della Straniera, è un gran dire», in Bellini, Memorie e lettere, a cura di F. Florimo, cit., p. 495. 6 Così la definiva G. Boccardo alla voce «libretto d’opera» nella

Enciclopedia del 1842; e per G. Brofferio il librettista è un «rigattiere di polimetri», cit. in U. Rolandi, I/ libretto per musica, cit., p. 138.

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wagnerianamente, alla ricerca del «dramma musicale dell'avvenire», quello che secondo lui avrebbe valorizzato, molto più di quanto la critica allora non gradisse, l’uso del coro come espressione dell’«individuale collettivo».

Abbiamo visto, anche in termini numerici, quante volte il pubblico italiano della prima metà dell’Ottocento, dalle grandi città alle province più riposte, si trovasse di fronte, sui palcoscenici, alle vicende di Carlo V e del bandito Ernani, vero manifesto del romanticismo europeo, o alla tragedia amorosa e politica di Norma, o alla follia di Lucia in un castello scozzese che tanto avrebbe colpito e affascinato in tutt'altra provincia anche Emma Bovary. Non è certo azzardato presumere che le loro storie, con quel sovrappiù di emozionale che portavano con sé, entrassero rapidamente

nell’immaginario dei contemporanei e fossero note e riconosciute dai più, come al domestico della Chartreuse stendhaliana che lavorando canticchiava un’aria di Mercadante. Ciò che è importante sottolineare è allora il fatto che il destinatario così spesso evocato, quel pubblico eterogeneo, non necessariamente colto, in cerca di svago, che riem-

piva i palchi, le platee e i loggioni dei teatri di città, può essere identificato, come sostiene Giovanni Morelli, nell’ita-

liano medio, entità che a quella data difficilmente possiamo individuare, e non soltanto immaginare o supporre, al di fuori di quegli spazi.

4.

Una rappresentazione: la patria nei libretti verdiani

Con quali immagini l’opera lirica alimenta dunque l’im-

maginario dell’italiano medio nell’Italia preunitaria? Gli scenari sono i medesimi dei romanzi storici del periodo: vedute medievali o rinascimentali, accampamenti di truppe barbare o crociate; molti morti in scena, anche se mai nella © Cfr. G. Mazzini, Filosofia della musica, a cura di M. De Angelis, Firenze, Guaraldi, 1977 (ma in «L’Italiano», Parigi, 1836, pp. 65-66).

% Cfr. G. Morelli, L'opera nella cultura nazionale italiana, cit., pp. 426 ss.

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quantità e con la truculenza censura imponeva una certa tazione di lutti e atrocità. In dendo verso inevitabili finali

dei testi di partenza giacché la moderazione nella rappresentali scenari si muovono, procetragici, eroi ed eroine che sono

invariabilmente nobili, cavalieri, principi o re, rispetto ai quali i censori richiedevano un costante atteggiamento di ossequio che comunque non sembra essere particolarmente a rischio nei testi del periodo. Considerata, almeno per grandi linee, la natura particolare del 726477 di cui stiamo parlando, possiamo allora provare ad affrontarne i testi, assumendo come oggetto di indagine una di quelle immagini che dai palcoscenici più sollecitavano la sensibilità del periodo, soprattutto nel corso degli anni ’40.

In effetti gli slanci patriottici avevano cominciato ad attraversare il mondo musicale italiano molto prima, nei decenni a cavallo tra Sette e Ottocento, in tutt'altro clima culturale. Un esempio rossiniano molto noto ce ne restitui-

sce efficacemente la presenza proprio nel burrascoso inizio di secolo. Nel maggio del 1813, assistendo alla prima dell’Italiana in Algeri, il pubblico della Fenice si era trovato ad ascoltare un coro che inneggiava alla patria e all’italianità: Coro: Pronti abbiamo e ferri e mani per fuggir con voi di qua... Quanto vaglian gl’Italiani al cimento si vedrà!

Erano le parole degli schiavi italiani che si preparavano, sullo sfondo, alla fuga dal servaggio, mentre in primo piano la protagonista dell’opera, Isabella, rivolgeva all’amato Lindoro una raccomandazione che voleva essere anche una dichiarazione di fiducia nell’ardimento italiano: 6 Sui libretti si è sviluppata a partire dagli anni 70 un’ampia letteratura dai contorni più tradizionalmente filologici o piuttosto di natura narratologica; si vedano D. Goldin, La vera Fenice. Librettisti e libretti fra Sette e Ottocento, Torino, Einaudi, 1992; L. Baldacci, Libretti d'opera,

Firenze, Vallecchi, 1974; e soprattutto il volume di M. Lavagetto, Quei più modesti romanzi. Il libretto nel melodramma di Verdi, Milano, Garzanti, 19/79:

191

ISABELLA: Pensa alla patria, e intrepido il tuo dover adempi: vedi per tutta Italia rinascere gli esempi d’ardire e di valor (II, 11)

Ci si poteva aspettare che uno slancio patriottico di questo tipo fosse accompagnato da un sottofondo musicale di ugual tinta e invece il fervore del testo era poco sottolineato musicalmente e la melodia corale risultava quasi sottotono“; dall’orchestra veniva piuttosto una pur velata caratterizzazione del brano, con il primo violino che intonava un breve stacco della Marsigliese introducendo un tocco di ironia tipicamente rossiniana nell’intero pezzo. Le intenzioni ironiche del musicista, ammesso che ci siano, sono tutte allusivamente racchiuse in quello stacco e non ne troviamo altre conferme. Rimane il fatto che le letture patriottiche che di quell’opera saranno tentate dopo l’unità (e a cui lo stesso Rossini avrebbe dato qualche credito nel tentativo di recuperare un’immagine pre-risorgimentale invece pesantemente compromessa)” non otterranno particolare

successo e l’opera non entrerà stabilmente nella mitologia del nazionalismo operistico, nonostante l’indubbia efficacia del'éesto** Verrebbe da dire però che si tratta dell’ultima occasione in cui il tema della patria è affrontato in questo modo scherzoso, poiché l’opera italiana ottocentesca gli dedicherà un’attenzione crescente ma in un crescendo di passionalità ed

epicità del tutto privo di ironia. Data l’attualità politica del 6 Sull’utilizzo ancora marginale del coro nell’Italiana in Algeri si sofferma

P. Gosset, Becoming

a citizen: the chorus in «Risorgimento»

operas, in «Cambridge Opera Journal», 1990, 2, pp. 41-64, che insiste invece sulla valenza politica del coro nell'opera verdiana così lucidamente prefigurata da Mazzini. Cfr. F. D'Amico, Il teatro di Rossini, Bologna, Il Mulino, 1992.

6 Sono esclusi episodi eccezionali come alcune serate del 1846 a Cesena quando il coro degli schiavi italiani viene soppresso perché «imprudente e pericoloso, date le attuali circostanze politiche esporre in scena siffatta vanagloriosa espressione in quanto avrebbe potuto di troppo esaltare le menti attaccate dalla moderna vertigine» (cit. in A. e L. Raggi, Il Teatro comunale di Cesena, cit., p. 92).

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tema la cosa non può sorprendere. Non è casuale che proprio negli anni ’40 le immagini patriottiche tornino ad attraversare in buon numero il mondo dell’arte in generale, e quello dell’opera in modo particolare. Mi riferisco soprattutto alle opere giovanili di Verdi, che sono quelle che prenderò in considerazione, anche se i riferimenti patriottici compaiono anche in alcune opere precedenti di Bellini, Donizetti e Mercadante, e queste sì, a differenza di Rossini,

entreranno nel catalogo della musica del Risorgimento. Si pensi a Donna Caritea, a Norma, ai Puritani, a Marino Faliero,

che rimangono nell’epopea risorgimentale come esempi di canti di battaglia contro l’oppressore?. Ma la storia della ricezione di queste opere mostra abbastanza chiaramente come quella fama venga guadagnata successivamente alla loro prima apparizione, nelle vicinanze del 1848 e più ampiamente nel 1859, quando appunto le sollecitazioni a prendere le armi, caricate dalla forza del grido musicale, sembravano inevitabilmente parlare dell’attualità. Quando il celebre coro dei Druidi nella Norzza cantava «Guerra, guerra!» poco importava a quel punto che dall’altra parte ci fossero i romani, perché il riconoscimento di un imperativo attuale risultava più immediato dell’analogia di stirpe. Questo ci riporta all’interattività tra l’opera e il suo pubblico di cui abbiamo parlato e ne mostra uno degli aspetti più importanti, cioè la sua variazione nel tempo. Gli studi di Jane Fulcher sul Grand Opéra francese ci forniscono un esempio piuttosto chiaro di quello che l’autrice definisce come una sorta di «scivolamento semantico» dalle intenzionalità dei compositori alle reazioni dell'audience. Le opere di Meyerbeer, di Auber o di Halévy, che vivono il proprio exploit nel corso del regime orleanista proprio grazie alla precisa volontà del nuovo governo di utilizzare l’opera come 5 Per uno sguardo d’insieme sulla produzione verdiana cfr. l’opera di J. Budden, Le opere di Verdi, 3 voll., Torino, EDT, 1985, 1986 e 1987 (in

questo caso il primo volume Da Oberto a Rigoletto); e anche M. Mila, La giovinezza di Verdi, Torino, Eri, 1974.

70 Lo studio più classico sui rapporti tra opera e Risorgimento rimane quello di R. Monterosso, La musica nel Risorgimento, Milano, Vallardi, 1948.

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strumento di comunicazione e di consenso intorno alla propria politica, assumono infatti nei teatri parigini intorno al 1848 una valenza opposta, caricandosi di un efficace potenziale mobilitante di opposizione antigovernativa”. In Italia non si registra un tale condizionamento governativo sulla produzione operistica, che non viene diretta e

orientata dal potere pubblico ma semmai sorvegliata dalla polizia e dalla censura. Tuttavia processi di scivolamento semantico verso esiti politici inaspettati sono altrettanto diffusi. Succede nel caso già ampiamente citato di Norzza, un’opera allestita senza problemi censori centinaia di volte nei teatri di tutta la provincia italiana, che scopre nel 1848 e consolida nel 1859 una forte potenzialità di ricezione patriottica che può indurre le autorità a bloccarne le rappresentazioni”?. La parola «patria» e la locuzione che nell’opera le era molto spesso collegata, cioè «morire per la patria», acquisiscono infatti gradualmente nel corso di quel decennio una più forte carica di attualità e cominciano a creare nel pubblico entusiasmi politici non consentiti. Lo vedremo più da vicino parlando appunto delle stagioni operistiche negli anni risorgimentali più caldi. Le letture patriottiche dei libretti possono essere dunque del tutto indipendenti dalle intenzionalità dei composi-

tori, che peraltro generalmente non smettono in questi anni di omaggiare quando possono i sovrani austriaci allora regnanti, dedicando loro le nuove composizioni. Due opere «politiche» come Nabucco e I Lombardi alla prima crociata vengono dedicate da Verdi rispettivamente alla figlia del viceré austriaco e a Maria Luigia, duchessa di Parma, e la " J. Fulcher, The Nation's Image. French Grand Opéra as politics and politicized art, Cambridge, Cambridge University Press, 1987. 7? Così avviene a Cremona dove nel 1838 un allestimento dell’opera belliniana con la Strepponi era stato scelto come momento centrale dei festeggiamenti in onore dell’imperatore di passaggio in città. Dieci anni dopo, nell’inverno del 1848, a stretto ridosso delle giornate milanesi,

Norma viene tolta dal cartellone del medesimo teatro dopo le manifestazioni e le ovazioni patriottiche scoppiate nel corso della prima rappresentazione, durante l’interpretazione di alcuni brani particolarmente delicati, tra cui probabilmente il coro dei Druidi; cfr. J. Rosselli, L'impresario d'opera, cit., p. 165.

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cosa non fa che riflettere l'ambiguità tipica del sistema operistico, diviso tra l'affermarsi precoce delle leggi di mercato e la dipendenza dalle sovvenzioni o più semplicemente dai favori delle corti. E d’altronde nel 1855, su incarico di Napoleone III, il maestro allestirà I vespri siciliani non certo

per sollecitare una qualche spedizione dei Mille ma per inaugurare solennemente l’Esposizione internazionale di Parigi. Va detto tuttavia che i temi patriottici diventano in que-

sta fase un motivo ricorrente della produzione verdiana. «Con Verdi — ha scritto Massimo Mila — la sfera pubblica trova nell’opera in musica la stessa eco di risonanza interiore, lo stesso invito all’immedesimazione, che già la sfera privata aveva trovato nelle opere di Donizetti e di Bellini»”?. Tra i molti elementi che spingono il compositore in quella direzione e ne sollecitano la sensibilità vanno menzionate certamente le richieste del pubblico, che si riflettono nel grande entusiasmo per i primi cori di questa natura presenti

nel Nabucco. Ma è probabile che gli giungano delle sollecitazioni in questo senso anche dal mondo commerciale che si articola intorno all’opera. Gli anni ’40 costituiscono in effetti un momento chiave nel processo di commercializzazione del settore, quello in cui si avvia definitivamente la crisi del sistema impresariale e acquisiscono più spazio e un ruolo più significativo gli editori musicali, promotori dello sviluppo della stampa specializzata. L’Attila è la prima opera che Verdi nel 1846 scrive per un editore e non per un singolo teatro come era sperimentata consuetudine, e si tratta di un

cambiamento di non poco conto. La seconda sarà, non casualmente, La battaglia di Legnano, cioè l’opera più risorgimentale di Verdi, che il maestro scrive su commissione dell’editore Ricordi, il quale si incarica poi di piazzarla nei vari teatri. Tra il 1846 e il 1848 gli editori musicali ben più degli impresari sembrano percepire chiaramente che i temi patriottici avevano sviluppato buone potenzialità di successo di pubblico. Tanto più dovevano intuirloi librettisti, ricettori sensibili delle mode culturali del momento. È dunque in questo clima che Verdi compone una serie di opere in cui, 3. M. Mila, I costumi della Traviata, cit., pp. 144-145.

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a partire dal Nabucco fino alla Battaglia di Legnano, almeno un pezzo, più spesso appunto un coro, contiene allusioni e riferimenti al riscatto della patria e alla volontà di rivolta contro l’oppressore-conquistatore.

La politicità di questa

produzione è rimarcata dagli stessi scenari storici in cui le vicende si sviluppano, che generalmente conducono lo spettatore nel quadro dell’Europa moderna, nella fase di costruzione degli stati, e dalla presenza cospicua di uomini di potere. Ma in Verdi si profila anche l’inedita volontà di rendere musicalmente i temi politici, sia al livello orchestrale, che a quello vocale, attraverso una voce come

quella

baritonale che diventa la voce politica per eccellenza. Sarebbe peraltro inutile — e del tutto irragionevole visto il ruolo che in questa fase gioca l'intervento censorio — cercare nei libretti che qui considereremo una valenza patriottica d’insieme, una perorazione della causa italiana che costituisse una sorta di sottofondo comune a queste opere. Si tratta piuttosto di frammenti, di brani che, come nell’Italzana in Algeri anche se con tutt’altro registro, sono inseriti in scenari in cui prevalgono altri soggetti e i possibili riferimenti alla situazione italiana risultano flebilissimi. I set in cui si svolge il dramma e l’identità dei suoi protagonisti non potrebbero essere più disparati e lontani dall’attualità italiana. Era questa d’altronde una tradizione consolidata nell’opera, che si voleva remota nel tempo e nello spazio. Cosicché a cantare di una patria bella e perduta sono gli schiavi ebrei nel Nabucco, i congiurati spagnoli contro Carlo V in Ernani, i francesi contro gli invasori inglesi in Gzovanna D'Arco, o Malcolm e Macduff che impugnano le armi contro il Macbeth dell’opera omonima per salvare «la patria tradita», mentre i profughi scozzesi cantano «il dolce nome» della «patria oppressa». Per di più i soggetti stessi, tratti com'erano da testi stranieri, favorivano il crearsi di una curiosa «sovraimpressione»

di storie nazionali, una sorta di facile interscambiabilità degli scenari spazio-temporali che appare quantomeno singolare in un’epoca come questa attraversata da grandi passioni nazionalistiche. D'altronde l'allontanamento dei drammi dai loro scenari originali era una soluzione a cui le stesse com196

missioni censorie dei teatri spingevano gli autori nei casi di testi particolarmente delicati. E che autori e librettisti praticavano senza grossi problemi come espediente anticensorio. «Caso mai le censure nol permettessero — scrive Verdi a

Cammarano già prevedendo la vita difficile cui doveva andare incontro La battaglia di Legnano a ’48 declinante — credete voi che si potrà cambiando titolo, località, etc... ritenere tutta o quasi la verseggiatura?»”4.

In questo mutevole quadro transnazionale poteva succedere che Giovanna D'Arco, soggetto canonico del patrimonio patriottico francese, venisse definito con disinvoltura dal librettista Solera «rigorosamente un dramma affatto originale italiano»”, o la scelta di comporre un’opera a sfondo civile-patriottico in occasione delle vicende del ’48 cadesse su un soggetto francese, La battaglia di Tolosa, che il librettista Cammarano rapidamente trasporterà nell’Italia delle lotte comunali contro il Barbarossa. Un ennesimo capovolgimento di scenari porterà lo stesso imperatore a divenire il duca d’Alba nella versione «decontestualizzata» della medesima opera negli anni ’50, quando per superare lo scoglio della censura fattasi a quel punto ben più rigida La battaglia di Legnano diventerà L'assedio di Arlem. Assodata la rapsodicità in queste opere dei riferimenti patriottici, rimane il fatto che, diversamente dall’esempio

rossiniano

citato all’inizio, qui i toni patriottici, pur

frammentari che siano, acquistano una vera rilevanza, che è

musicale e drammaturgica oltre che librettistica. Il ritmo, la melodia, la struttura drammatica contribuiscono a sottoli-

neare alcuni di questi cori come «canti di battaglia». La patria entra di prepotenza in drammi intessuti di grandi passioni, e diventa occasione di eroismi e di abnegazioni senza pari da parte dei protagonisti. Tutto ciò avviene, però, senza che l’immagine in questione perda quella sua consistenza ideale e indefinita, quella sorta di indeterminatezza effettuale che la rende utilizzabile senza contraddizioni nei 74 Lettera di Verdi a Cammarano, Parigi, 24 settembre 1848, in Carteggio Verdi-Cammarano, a cura di C.M. Mossa, cit. 5. Cit. in J. Budden, Le opere di Verdi, cit., vol. I, p. 219.

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molti contesti citati e nel contempo sempre facilmente riconoscibile. A caratterizzare questa indeterminata entità pa-

tria, che risulta ben poco delineata nel suo profilo «nazionale», troviamo piuttosto alcuni elementi comuni sui quali mi pare si imperni tutto il discorso patriottico dell’opera verdiana degli anni ’40 e cioè a) il suo riferirsi ad un soggetto plurale che ritrova coesione e unità di fronte al nemico; b) la sollecitazione forte al combattimento, all’azione, alla rivolta, come passo ineludibile per riconquistarla o per difenderla, e infine c) l'essere anche quest’ultima un’esperienza collettiva, vissuta in modo corale’°. Queste immagini sono spesso collegate tra loro in un medesimo quadro — la concordia dei patrioti e la loro disponibilità a combattere fino all’estremo sacrificio — e percorrono tutti i libretti citati, trovando infine una esplicitazione piena, libera dai condizionamenti censori, nella Battaglia di Legnano, l’opera composta dopo gli avvenimenti del ’48 e allestita a Roma subito prima della proclamazione della Repubblica romana. Ad inaugurare l’assunzione di questa speciale passionalità politica tra le molte che animano i testi verdiani è, come ben noto, Nabucco. Questa è l’opera che segna il vero e proprio lancio del nuovo compositore e trova subito sbocchi commerciali anche oltre confine. Nello stesso anno della

sua uscita viene portata a Vienna, mentre da aprile a fine anno sono allestite 75 repliche solo alla Scala. E molto probabile, come è stato di recente rilevato da un musicologo inglese, che la vera e propria «canonizzazione» patriottica del «Va pensiero» avvenga molto più tardi, sotto la guida registica dello stesso Verdi e del suo editore, che la consolidano definitivamente, insieme alla sua immagine di vate del Risorgimento italiano, negli anni ’90 dell'Ottocento”. 76 Sulla diversa presenza del popolo nelle rappresentazioni della nazione in Italia e in Germania cfr. S. von Falkenhausen, L'immagine del popolo: dal centralismo al totalitarismo in Italia

e Germania, in Centralismo e

federalismo tra Otto e Novecento. Italia e Germania a confronto, a cura di O. Janz, P. Schiera e H. Siegriest, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 185-218. "_ R. Parker, «Arpa d'or deifatidici vati». The Verdian patriotic chorus in the 1840s, Parma, ISV, 1997.

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Se il successo di pubblico ottenuto dall’opera non è dunque da collegarsi in modo diretto al famoso coro, visto che le repliche imperiosamente richieste durante la prima della Scala riguardavano un altro brano, l’«Immenso Jeova», ri-

mane il fatto che il tema patriottico, nella sua particolare dimensione corale, doveva apparire da lì in poi sia a Verdi che ai suoi librettisti come un terreno suscettibile di buoni sviluppi drammatici. Che fosse un terreno fruttuoso doveva esser da subito chiaro al compositore se nell'opera seguente, ILombardi alla prima crociata, questi pensa di riproporre un coro quasi identico nel percorso emotivo e nella struttura metrica, seppure molto meno riuscito del «Va pensiero». È il brano «O Signore dal tetto natio, ci chiamasti con santa promessa» che presenta nuovamente il tema di una collettività che rinserra le sue fila di fronte al nemico comune («liberi non sarem se non siam uni»).

Certamente più importante per le sue allusioni politiche e per il richiamo che eserciterà sul pubblico sarà però Errani, allestita la prima volta alla Fenice nel 1844. La politicità del dramma si riflette nelle sue vicissitudini censorie, che in molti allestimenti lo vedranno rappresentato con il titolo L'onore castigliano, che era il sottotitolo meno conosciuto della nota opera di Hugo, temutissima dai censori di tutta Europa. È con questa opera che Verdi ottiene un successo clamoroso anche all’estero, con una specifica traduzione per il mondo anglosassone, e consolida definitivamente quella struttura vocale tripartita che lo renderà famoso: il tenore, il basso e il baritono come caratteri individuali moralmente connotati che si confrontano e si scontrano tra loro nel corso del dramma. In Ernani l’incitamento epico all’azione e la concordia che intorno all’azione si produce tra i protagonisti vengono espressi in modo anche più forte e marcato delle opere precedenti, sia nei gesti che nella musica. I congiurati raccolti nei sepolcri di Aquisgrana per stringere il proprio patto segreto contro l’imperatore «si abbracciano e nella massima

esaltazione traggono le spade» (così leggiamo nelle indicazioni di scena). È in questa postura da battaglia che intonano il notissimo coro; n99

Coro: Si ridesti il Leon di Castiglia E d’Iberia ogni monte, ogni lito Eco formi al tremendo ruggito, Come un dì contro i Mori oppressor. Siamo tutti una sola famiglia, pugnerem colle braccia, co’ petti; Schiavi inulti più a lungo negletti Non sarem finché vita abbia il cor. Sia che morte ne aspetti, o vittoria,

Pugneremo, ed il sangue de’ spenti Nuovo ardir ai figliuoli viventi, Forze nuove al pugnare darà (III, 4)

L’immagine non potrebbe essere più forte e più chiara: rivoltarsi contro il servaggio è una sorta di ineluttabile necessità che dà nuova forza e coesione ai congiurati. Ciò che

può stupire piuttosto chi non abbia pratica con il carattere magmatico dell’intreccio librettistico è il fatto che la figura dell’oppressore non rappresenti necessariamente una figura negativa. In questo caso, anzi, Carlo V manifesta — e su questo punto si gioca principalmente la mediazione del librettista con la censura — tutta la clemenza e la misericordia che si addice ad un vero imperatore, al quale infine, come a Carlo Magno, si deve grande rispetto e considerazione: CarLo:

O sommo

Carlo,

più del tuo nome le tue virtudi aver vogl’io Sarò, lo giuro ate eta'Diò

Delle tue geste l’emulator (III, 4)

Che un soggetto come Errani dovesse necessariamente cadere nelle maglie della censura era una considerazione ben presente fin dall’inizio a tutti gli interessati (librettista, compositore, impresario). Ce ne rendiamo conto leggendo la lettera che il segretario della Fenice e amico di Verdi, Giuseppe Brenna, scrive al maestro nel settembre del ’43, tentando di farlo desistere dal proposito di musicare il testo di Hugo, che avrebbe immediatamente attirato su di sé l’osti-

lità dei censori. Il precedente del Cromwello era recentissi200

mo e in quel caso Verdi era passato rapidamente dall’entusiasmo alla delusione visto che il soggetto era stato ritenuto troppo delicato politicamente: «Ora — scrive Brenna — se si temeva per una congiura in Inghilterra contro un repubblicano, un po’ aristocratico, se vogliamo, ma repubblicano, come si può sperare l'approvazione per Erzani che ha una congiura contro l’imperatore di Germania e nella quale vi trovano parte gli elettori?»?8. La temerarietà della scelta doveva apparire più che evidente, anche a chi fosse meno prudente di Piave, ma ciò non induce Verdi ad abbandonare il proposito. Dai molti accenni di questo tipo che si ritrovano nella corrispondenza tra il maestro e i suoi librettisti si intuisce in sostanza che tra i vari attori coinvolti nella produzione dell’opera doveva esistere una percezione abbastanza lucida del gioco in atto e quasi un deliberato tentativo di forzare al massimo grado il limite della censura, in un rapporto di complicità e quasi di ammiccamento verso il pubblico che avrà modo di esplicitarsi proprio intorno al ‘4872, Due libretti di Solera, uno per la Scala, Giovanna d'Arco, del 1845, e quello di Attila, scritta nel 1846 per l’editore

Lucca, ripropongono alla metà del decennio momenti patriottici forti, seppure ancora del tutto decontestualizzati dalla situazione italiana. La vicenda di Giovanna D'Arco,

tratta dal dramma di Schiller, presenta allusioni politiche evidenti fin dal prologo, che si apre con gli ufficiali francesi che cantano «Orda immensa di barbari ladri, questa misera terra distrugge» e si chiude con il proposito guerriero di Giovanna: «Or sia patria il mio solo pensiero. Vieni o Carlo a pugnare con me!».

Su ambientazioni sceniche italiane si sviluppano invece i 78 Lettera di Brenna a Verdi, in Ernani. Regesto cronologico, a cura di S. Dalla Libera, doc. 53. 79 Secondo Philip Gosset una sorta di autocensura, di revisione preventiva da parte del compositore e del librettista creava incongruenze che dovevano in qualche caso essere note al pubblico cfr. Cersorship and selfcensorship: problems in editing the operas of Giuseppe Verdi, in Essays in musicology. A tribute to Alvin Jonhson, a cura di L. Lockwood ed E. Roesner, Philadelphia, American Musicology Society, 1990, pp. 247-257.

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plot di Attila e della Battaglia di Legnano, i cui soggetti sono però in entrambi i casi non italiani. Attila è tratto nuovamente da una tragedia tedesca, questa volta non troppo nota, di cui il maestro aveva letto con molto interesse nel «De l’Allemagne» di Madame de Staél. Lo scenario è in questo caso di gusto tipicamente romantico-germanico: l’azione si

svolge nel campo dei barbari vincitori presso Aquileia dove Odabella, figlia del re sconfitto, canta tutto il suo amore per la patria («con energia», dice il libretto) insieme ad un gruppo di donne guerriere prigioniere. E un amore descritto come

«santo» e «indefinito», che ancora una volta dopo Giovarna D'Arco coinvolge nella lotta delle figure femminili. ODABELLA:

Santo di patria indefinito amor!

Allor che i forti corrono come leoni al brando stan le tue donne, o barbaro,

sui carri lagrimando. Ma noi noi donne italiche Cinte di ferro il seno Sul fumido terreno sempre vedrai pugnar (Prologo, 3)

Se si fa eccezione per La battaglia di Legnano, direttamente occasionata dagli eventi del ‘48, questa è l’opera in cui il tema patriottico si fa più corposo nell’intreccio complessivo e dove se ne profilano tutti i motivi più classici: una patria già madre di «possenti magnanimi figli» e in cui invece ora regna «silenzio e squallore», ma destinata a rivivere presto più bella; infine il tema classico dell’eroe che cadendo da forte scolpirà per sempre il suo nome nella storia «dell’amata terra». Insomma ancora una volta una patria vaga, indistinta, priva di qualsiasi connotato reale e qualificante. Nel 1848 Verdi si trova a Parigi ma ritorna rapidamente in Italia e spiega così a Piave il suo stato d’animo: Figurati — scrive in una lettera che è stata ampiamente utilizzata da tutti i suoi biografi a suggellarne l’immagine risorgimentalese volevo restare a Parigi sentendo una rivoluzione a Milano. Sono di là partito immediatamente sentita la notizia, ma io non ho potu-

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to vedere che queste stupende barricate. Onore a quei prodi! Onore a tutta Italia che in questo momento è veramente grande. L’ora è

suonata, siine persuaso, della sua liberazione. È il popolo che la vuole: e quando il popolo vuole non avvi potere assoluto che le possa resistere [...]®®.

In realtà il suo è un soggiorno molto breve nell’Italia del °48. Giusto il tempo di acquistare la villa di S. Agata a Busseto che gli era stata appena proposta e il maestro ritorna a Parigi, accogliendo però l’idea di un progetto patriottico che gli è proposto da Cammarano, il librettista del San Carlo, e che risulta ben accetta a Ricordi con cui Verdi aveva firmato un contratto l’anno precedente per la composizione di un’opera che non aveva ancora preso forma. Così nasce La battaglia di Legnano, che viene allestita a Roma nel gennaio del 1849 ottenendo uno straordinario successo di pubblico. Più volte viene richiesta la replica integrale del quarto atto intitolato proprio, a conferma di un’immagine più che sperimentata, «Morire per la patria». In realtà, come spesso succedeva, sul soggetto si era andati davvero per tentativi. Vale anzi la pena di seguirne da vicino i passaggi attraverso la corrispondenza tra i due autori, che mostra la costruzione a tavolino di questo unico testo operistico in-

tenzionalmente risorgimentale. Dopo che Cammarano nel ’47 aveva lanciato l’idea di musicare il Niccolò de’ Lapi di D’Azeglio, senza peraltro trovare in Verdi un grande entusiasmo, la scelta era sembrata cadere su un romanzo inglese di Bulwer Lytton, il Cola di Rienzi, pubblicato nel 1835 e già tradotto in Italia. A questo si era detto favorevole lo stesso Ricordi, che sarebbe stato

committente dell’opera in questione dopo che gli impegni presi con il Teatro San Carlo erano slittati a tempi migliori. Su quel testo era invece Cammarano ad essere perplesso, e così ne scriveva al maestro. Vuolsi certamente trattare questo argomento per destare le simpatie liberali. Un’occhiata rapidissima al fatto. Rienzi fa insor80 Lettera di Verdi a Piave, 21 aprile 1848, cit. in J. Budden, Le opere di Verdi, cit., p. 421.

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gere la plebe — torna a Roma [...]. Insomma re un tratto di

Rienzi è fulminato dal pontificio anatema — Rienzi dopo sette anni — Rienzi è massacrato dal popolo il melodramma ha limiti circoscritti, deve percorrestoria troppo lungo, con troppi personaggi*'.

Se allora il dramma anglo-italiano con le sue vicende di ribellione popolare sembrava adatto ai tempi, non altrettan-

to adatto era il suo intreccio, troppo ambiguo e complesso per una riduzione al codice melodrammatico. Il motivo principale delle resistenze di Cammarano era però anche un altro, secondo Verdi, e cioè la mancanza nelle sue pagine di quella variabile amorosa che il librettista riteneva ingrediente indispensabile al successo di un’opera. Qui la reazione del maestro è quasi stizzita: Ma mio Dio! Possibile che mai mai non si possa né si voglia scostare nel trattare i soggetti dalla maniera ristretta e meschina con cui sono stati trattati finora? Perché sempre l’amore come perno di tutti i drammi? [...] pure ho fatto vedere in due o tre spartiti che si può fare senza l’amore®?.

Il riferimento è certamente a Nabucco e a Macbeth e mostra quanto convinto fosse Verdi in quel momento circa l'efficacia e la musicabilità del tema politico. In ogni caso la controproposta che Cammarano aveva avanzato in quel frangente, cioè il dramma di Méry La battaglia di Tolosa, doveva nonostante tutto apparirgli convincente, perché «bello di calde passioni e di scenici momenti» e soprattutto facilmente rimontabile nell’«epoca più gloriosa della storia italiana [...] quella della Lega lombarda». Udite. — scrive il napoletano — Cercherò di lampeggiarvi il mio progetto. Prologo. I rappresentanti delle città lombarde si adunano nel monastero di S. Giacomo in Pontida, ove giurano infrangere il giogo tedesco. Convengono tra gli altri due giovani lombardi, teneri amici, uno de’ quali fu creduto estinto fra le rovine di Mila-

no. Dramma. Il redivivo è condotto dall'amico nel castello di Legnano, affidato alla guardia del secondo; ma è colpito come da

8! Lettera di Cammarano a Verdi, Napoli, 20 aprile 1848, in Carteggio Verdi-Cammarano, cit. 8 Lettera di Verdi a Ricordi, Parigi, 9 marzo 1848, ibidem.

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un fulmine in vedere nella Castellana la donna ch’egli ama [...]. Eccolo combattuto tra i diversi affetti di sdegno, gelosia e di amicizia; mentre colei sente ravvivarsi le prime fiamme, che pur con-

danna santo dovere maritale. Intanto un alemanno, tenuto prigioniero nel castello, sorprende il fatale segreto, e lo rivela al marito,

sotto le forme più calunniose [...]. Il mio eroe però non muore lanciandosi dal verone ma riuscendo ad arrivare in battaglia. Nell’ultima scena, fra le grida esultanti degli Italiani vincitori, egli ritorna ferito a morte [...] e spira contento di aver sparso il sangue

per la patria. Per Dio, che sì fatto argomento dovrà scuotere ogn’uomo che ha nel petto anima italiana! Questo argomento ci conviene”.

In queste prime righe di brogliaccio l’intreccio dell’opera è già chiaro e non subirà modifiche sostanziali nel progetto più disteso che Cammarano invia a Verdi alla fine di giugno. Verdi interverrà piuttosto chiedendo l’accentuazione di alcuni punti che dovevano acquisire un particolare rilievo drammatico, come il finale del secondo atto quando Arrigo e Rolando rispondono insieme e all’unisono al Barbarossa promettendogli una sicura sconfitta. Durante l’estate però, mentre la guerra procede e molti teatri sono costretti a chiudere, il progetto langue e solo Verdi, che essendo di nuovo a Parigi aveva evidentemente una percezione lontana degli avvenimenti, insiste perché sia portato rapidamente a termi-

ne. Tra settembre e ottobre, pressato dal compositore, Cammarano termina la stesura e spedisce anche l’ultimo atto del nuovo testo, quello della vittoria finale e della «irrompente, universale esultanza»: Mi raccomando perché dal primo grido di vittoria, sino all'esplosione di gioja popolare, tutto sia caldo velocissimo, che quel grido si ripeta e si avvicini

(lo diranno i coristi del Salmo)

che

veramente odansi gli squilli delle campane e delle trombe; e la banda non dovrebbe piantarsi sul palco, ma traversare la scena alla testa delle soldatesche!.

Insomma l’effetto, per il pubblico romano del gennaio 1849, doveva essere notevole: un intenso attimo di coesione

8 Lettera di Cammarano a Verdi, Napoli, 20 aprile 1848, ibidem. 84 Lettera di Cammarano a Verdi, Napoli, 29 ottobre 1848, ibidem.

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e di eccitazione patriottica che nel messaggio lirico sembra bandire ogni possibile dubbio circa la reale consistenza nazionale del paese. Lo scambio epistolare tra Verdi e Cammarano mostra i due personaggi in una situazione inedita: la possibilità di rappresentare e celebrare con tutta l’epicità del caso la grandezza non di una patria generica ma di quella italica, impegnata nella prima lotta in campo aperto contro gli alemanni. Le scelte fatte sono significative della volontà di riproporne un’immagine a tinte forti ma dai contorni del tutto indefiniti. Lo scenario individuato a tavolino come momento evocativo della grandezza della storia nazionale non nasconde nemmeno le proprie ambiguità, non solo perché ne sono protagonisti soltanto i lombardi (nella retorica quarantottesca lombardo significa italico), ma perché la presunta unanime coalizione contro il nemico comune che qui si evoca non dissimula i conflitti interni, e cioè le defezioni dei comuni

filobarbarossa. Rimane il fatto che qui per la prima volta la sacralità della patria può collegarsi senza infingimenti alla situazione italiana, e lo fa in apertura con un coro maestoso e coinvolgente: Coro: Viva Italia! Sacro un patto tutti stringe i figli suoi: Esso alfin di tanti ha fatto un sol popolo di eroi! [...] Viva Italia forte ed una colla spada e col pensier! Questo suol che a noi fu cuna tomba sia per lo stranier (I, 1)

E nuovamente sono le donne a rafforzare questa immagine guerriera rivolgendosi così alla protagonista Lida: DONNE: Pur della patria senti l'affetto, T'arde nel petto — italo cor!

La quale, di rimbalzo e struggentemente, intona:

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LipA: Voi lo diceste, amiche, Amo la patria, immensamente io l'amo!

Ciò che infine conclude e suggella come abbiamo già sentito dalle parole martirio di Arrigo, luogo frequente del centesco”, che qui non è rappresentato

tutta la vicenda è, di Cammarano, il melodramma ottodalla figura femmi-

nile, ma dal tenore, il quale sublima le sue pene amorose e

si riscatta nel sacrificio di sé santificato dalla difesa della patria: ArrIGO:

In tua difesa, o patria,

Cadrò squarciato il seno Fia benedetto almeno Il sangue mio da te!

L’Italia, ma potremmo dire parafrasando Wagner lo «spirito» italiano, sono in questi versi delle entità dotate di una evidenza propria e riconosciuta, talmente riconosciuta

da non richiedere di essere definita e aggettivata. La costruzione del discorso della patria come terra occupata e oppressa dallo straniero continua in sostanza a non accompagnarsi ad alcun tentativo di riferimento alla nazione come prodotto di un patrimonio storico, culturale, emozionale comune e a proporre invece l’immagine di un’armonizzazione

spontanea, naturale, biologica delle parti. Le lotte comunali in epoca medievale rimangono l’unico riferimento, flebile e contraddittorio, ad una comune italianità, tanto vaga quanto auto-evidente, si potrebbe dire un’italianità a tutti i costi, slegata da ogni realtà effettuale, che il linguaggio operistico rende particolarmente credibile, oltre che coinvolgente, in quella precisa congiuntura storica e politica. Se dunque questo, come altri linguaggi artistici ma con le potenzialità

particolari che gli abbiamo riconosciuto, contribuisce con forza alla costruzione e alla diffusione del discorso patriot85 «Grazie alla sua forza passionale il dramma lirico — sostiene Herbert Lindenberger — è idealmente adatto a riunire il pubblico in un vincolo di partecipazione alla condizione del martire»; cfr. H. Lindenberger, L'opera lirica Musa bizzarra e altera, cit., p. 266.

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tico lo fa soprattutto grazie alle sue straordinarie potenzialità comunicative e accentuandone il profilo retorico, sublime, lontano da qualsiasi riferimento al reale. In definitiva, come e più che nella letteratura del cosid-

detto «canone risorgimentale», nel melodramma le idee di identità e di appartenenza nazionale rinviano ad archetipi fondamentalmente «altri»: sangue, parentela, onore, fedeltà, per dirla con Alberto Banti8°. La patria non è mai un

primum antropologico della convivenza, e le immagini o i costumi che la connotano — come in Lindoro — talvolta servono solo a disegnare qualche maschera del «tipo» italiano. Per citare un caso, le bellicose accensioni dei Druidi, in

Norma, non dipendono dalle condizioni intrinseche di un popolo oppresso, ma dalla scansione tutta privata dei rancori, degli odi, delle gelosie di una sacerdotessa ferita negli affetti dal tradimento dell'amante romano. A ciò si aggiunga che anche la struttura linguistica — non solo il soggetto, per così dire, la sceneggiatura — spesso finisce per spogliare l’opera di ogni aura nazionale. Se la musica è di per sé cosmopolita, in altri termini, dall'epoca di Mozart e Da Ponte anche l’italiano dei libretti diventa una specie di gergo internazionale della lirica: basta pensare alla tormentata vicenda di Aida, con Verdi che interviene personalmente sull'intreccio predisposto dall’egittologo Mariette, rielabora il testo in prosa redatto da Du Locle e commissiona a Ghislanzoni la traduzione italiana. Successivamente del resto, fra Otto e Novecento, gli spunti ideologici di segno «nazionale» finiranno per sparire del tutto dai palchi delle rappresentazioni: i veristi proporranno i loro canovacci vernacolari, e l’indiscusso dominatore

della scena italiana — Giacomo Puccini — si lascerà sugge#86 La sorprendente efficacia del discorso nazionale in Italia nonostante il suo carattere astratto, così lontano da una realtà fatta di divisioni e

disomogeneità, è stata collegata di recente da Alberto Banti alla sua capacità di «calco», di assunzione e riproposizione di elementi retorici tratti da morfologie discorsive già profondamente radicate nella società italiana come quella religiosa e quella cetuale-corporativa; cfr. A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia untta, Torino, Einaudi, 2000.

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stionare dall’esotismo ma senza soggiacere in modo alcuno alle fantasie sub-imperialiste che invece animeranno un romanziere come Salgari. Solo negli anni ’30 del Novecento — per iniziativa di un grande manager culturale del fascismo, il direttore generale della cinematografia Luigi Freddi — si crederà di scoprire il carattere addirittura anti-unitario di certa produzione verdiana. Freddi infatti, che ha accolto con entusiasmo un

film come Ettore Fieramosca di Alessandro Blasetti perché l'impasto di etnocentrismo e di opulenza figurativa vi con-

sente la celebrazione delle grandi virtù panitaliane, sottopone invece a puntuale veto censorio il Rigoletto progettato da Vittorio Mussolini, dove si sarebbe narrata la «efferata sto-

ria di un tirannello provinciale» che «usa e abusa dei sudditi» in una «Italietta divisa e primitiva»®”.

5.

Le stagioni risorgimentali

Dopo il biennio rivoluzionario il tema politico esce almeno temporaneamente dalla produzione verdiana, che dalle opere a sfondo civile passa ad una fase creativa diversa con la trilogia Rigoletto-Trovatore-Traviata.

Ritornerà episodi-

camente, ad esempio nella prima opera postunitaria, La forza del destino (1862), in cui si celebra l’ormai avvenuto riscatto nazionale: «Già fuggono i tedeschi! ... I nostri han

vinto! Viva l’Italia! ... E nostra la vittoria», per arrivare infine ad Aida (1871) e al Simon Boccanegra (1857-1881), che ripropongono il tema politico come fondante nella poetica verdiana. Ma a quella data la patria è ormai un tema che sembra aver perso al confronto con la realtà gran parte della sua epicità originaria. La morte, il sacrificio di sé nella battaglia continuano ad essere le immagini ad essa retoricamente associate, insieme all’eroismo, all’abnegazione, al coraggio, ma evenienze meno eroiche, come la costruzione 87 Cfr. G. Bernagozzi, La propaganda del regime, in Vincere, vinceremo. La guerra fascista 1940-43, Roma, Ist. Luce-Arch. naz. cinematografico della Resistenza, 1975, pp. 20-21.

209

del nuovo stato, o addirittura perdenti, come Lissa e Custoza, ne avevano delineato anche rappresentazioni segnate piut-

tosto dalla delusione e dal disinganno. Sulla svolta artistica degli anni ’50 pesa in ogni caso il clima poliziesco che segue il ’48 e che in quasi tutti gli stati preunitari aveva prodotto un irrigidimento della censura, in alcuni accompagnata da mutamenti nei suoi meccanismi normativi, in altri semplicemente da una più marcata torsio-

ne sui temi politici. Sono note le vicende cui andranno incontro in quegli anni per motivi censori opere come Rigoletto

e Un ballo in maschera, entrambi scenari di un regicidio che rimaneva irrappresentabile, se non attraverso complicate strategie di occultamento*8. Il mutamento di atmosfera è ben percepibile nel tentativo della sperimentata coppia Verdi-Cammarano di mettere in scena un soggetto tratto per una volta dalla letteratura italiana. Appena terminato il libretto della Battaglia e prima ancora del suo allestimento, nel rapido continuur del ritmo produttivo che è tipico di questi anni, Cammarano

aveva

proposto al maestro di far fronte all'impegno rimandato con il San Carlo riducendo a melodramma un testo già molto noto al pubblico italiano come l’Eftore Fieramosca di Massimo D'Azeglio. Sull’efficacia di quel testo Verdi si dichiarava però dubbioso, sia perché il soggetto aveva già conosciuto quattro versioni per l’opera («e io amo poco i sogget-

ti già fatti»)8°, sia soprattutto per le sue debolezze drammaturgiche: «credete voi — scrive al solito Cammarano — vi siano i caratteri ben decisi, passione, movimento,

molto

patetico e soprattutto vi sia il grandioso e lo spettacoloso senza cui io non credo possibile un successo in un gran teatro?»?°, Si esprimeva così la diffidenza del maestro circa 88 Sul Rigoletto cfr. il lavoro esemplare di M. Lavagetto, Un caso di censura. Il Rigoletto, Milano, Edizioni Il Formichiere, 1979.

#9 Il romanzo era apparso nel 1833 e lo stesso D'Azeglio ne aveva tratto un libretto per un'opera musicata da Laudamo e rappresentata a Messina nel 1839; altre tre versioni librettistiche erano comparse tra 1839 e 1845 ad opera di compositori minori. i ? Lettera di Verdi a Cammarano, Parigi, 23 novembre 1848, in Carteggio Verdi-Cammarano, cit.

210

le effettive capacità comunicative dei testi italiani. In compenso, il compositore sosteneva di aver riletto per la terza o quarta volta il romanzo di Guerrazzi L'assedio di Firenze che al confronto del primo gli pareva essere un «gigante, un colosso di grandezza e d’amor patrio». Si poteva pensare di svilupparne l’idea di fondo con una riduzione molto ardita, che rimettesse ampiamente le mani nell’intreccio e ne facesse «un dramma caldo, di passioni forti e patetiche». È una prospettiva sulla quale Cammarano rimane prudente, intravedendo possibili noie censorie («una predica! Un frate! Una chiesa!») e chiedendosi se non fosse meglio rinunziarvi subito «piuttosto che fatta l’opera vedersela poi sbranare»?. Ed in effetti la primavera seguente l’autorità censoria napoletana avrebbe provveduto a fugare ogni dubbio in proposito, inviando un parere negativo sul progetto della Maria di Ricci (questo il titolo anti-censura che era stato infine individuato) ritenuto non rappresentabile «per l’inopportunità del soggetto nelle attuali circostanze d’Italia, e massime di Firenze»”. Che nel 1849 i soggetti politici dovessero essere considerati ormai fuori gioco lo scrive molto chiaramente il revisore dei teatri napoletani duca di Ventignano respingendo anche la proposta di un soggetto in prosa egualmente tratto da Guerrazzi: «I tempi escludono oramai dal teatro argo-

menti di simil fatta — scriveva al Sovrintendente — La prego di far sentire all’Impresa dei Fiorentini che io per massima ricuserò da oggi innanzi ogni nuova produzione che direttamente o indirettamente si riferisca ad affari politici de’ quali sarà meglio tacere per sempre nel teatro». E un orientamento di massima che diverrà norma nel Regno delle due Sicilie con il nuovo regolamento ministeriale del 10 dicembre 1849. Ma cosa era successo nei teatri nel lungo ’48 italiano

perché intorno ad essi si scatenasse una controffensiva così 9% Lettera di Cammarano a Verdi, Napoli, 14 febbraio 1849, ibidem. 9 Così riferisce, virgolettando la frase, il buon Cammarano in una lettera al maestro del 14 aprile 1849, ibiderz. 8. Cit. in «The Donizetti Society Journal», 1984, 5, p. 148.

ALII

largamente condivisa dai vari governi? Come principale luogo di associazione e di ritrovo serale della società locale nelle sue diverse componenti, i teatri avevano finito per funzionare da termometro non più solo del gusto culturale medio ma del grado di effervescenza politica, e ogni allusione all’idea di patria si scorgesse nei testi operistici, vista la loro capacità di trascinamento emotivo, era diventata occasione

di dimostrazione politica. Le prime avvisaglie di questo coinvolgimento diretto dell’opera lirica nelle emergenze dell’attualità si erano avute in Romagna, dopo l'elezione al

soglio pontificio di Pio IX e la concessione nel luglio del ’46 dell’amnistia, che avevano avuto nei teatri ripercussioni immediate. In quel frangente la recente Ermani verdiana, che pure era stata oggetto di una riduzione molto controllata perché in odore di divieto censorio, aveva dato luogo ad un’allusione precisa agli eventi recenti dello Stato pontificio ed era diventata così il veicolo di un messaggio politico in favore delle iniziative liberali del nuovo papa. Si era diffusa infatti, probabilmente a partire da un allestimento dell’opera a Bologna all’inizio di agosto del ’46, una variante filopapale del testo originario di Piave che tra agosto e settembre era poi ampiamente circolata insieme all’opera stessa, assumendo via via la fama di un inno operistico a Pio IX. Le strofe in oggetto riguardavano il passaggio del terz’atto quando Carlo V, appena acclamato imperatore, guardando fisso la tomba di Carlo Magno lancia a quest’ultimo una preghiera («O sommo Carlo, più del tuo nome le tue virtudi aver vogl’io. Sarò lo giuro a te e a Dio delle tue gesta l’emulator»), nel tentativo di emulare la sua clemenza ac-

cordandola anche a chi aveva cospirato contro di lui. Davanti al pubblico bolognese presumibilmente preparato all’evento il baritono che impersonava don Carlo aveva modificato il destinatario dell’invocazione stessa che era diventato «O sommo

Pio», suscitando le reazioni immediate del

pubblico: clamori, evviva, richieste di bis che avevano toccato l’apice di fronte alle parole subito seguenti, cioè a quel «Perdono a tutti», che alludeva in modo molto chiaro alla

recente amnistia. Tra l’estate e l'autunno del 1846 questa variante di Errani si era diffusa nel territorio delle Legazio2I2

ni. Così a Cesena il 25 di agosto, nel teatro appena inaugurato, la serata a beneficio del soprano De Giuli-Borsi si era trasformata in un’occasione di plauso collettivo al pontefice. Il programma comprendeva, come di consueto per le beneficiate, pezzi o atti singoli di opere note; in questo caso il pot-pourri prevedeva gli atti conclusivi e la fine tragica di due classiche eroine cammarano-donizettiane come Maria di Rohan e Lucia di Lammermoor e gli ultimi due atti di Ernani (dal giuramento dei cospiratori alla morte dell'eroe). E qui che si ripropone lo scambio dei nomi tra Carlo e Pio che d’ora in poi verrà spesso definito nei resoconti sulla stampa come l’inno a Pio IX. E le cronache locali riportano, con un’enfasi proporzionata alla retorica patriottica del momento, le reazioni entusiastiche e ripetute del pubblico, tra il quale — si sottolinea — sedeva un buon numero di forestieri, venuti dalle città vicine per la stagione inaugurale

del teatro. Si parla di fazzoletti con l'effigie di Pio IX stesi sulle balaustre dei palchi e di bandiere pontificie bianche e gialle sul palcoscenico, mentre una delegazione di cittadini si presentava di fronte al delegato ai pubblici spettacoli chiedendo il permesso di sostituire l’intera strofa finale perché diventasse un più articolato canto al pontefice e alle sue iniziative”.

Mi pare inutile seguire passo per passo la circolazione

in questi primi mesi ricchi di sussulti politici della nuova versione del testo di Piave, ma il fatto di ritrovarla in ottobre nel teatrino di San Giovanni in Persiceto, come inter-

mezzo all’allestimento di un’opera più neutra politicamente come Roberto Devereux, sembra confermare che la catena

di diffusione simultanea delle novità in campo operistico doveva aver anche questa volta ampiamente funzionato. Si possono così toccare con mano i particolari meccanismi di

comunicazione politica che in questa fase collegano l’opera all’attualità, e coglierne anche la loro grossolanità e imme9 Questo il testo proposto: «O sommo Pio — al tuo gran nome/ Unito a tutti — mi prostro anch'io / Grazie sien rese — al nostro Iddio / Che ti fè salvo — dai traditor / Diede il perdono — nequizie ha dome /

Siamo fratelli — amiamci ancor». Cfr. R. Monterosso, La musica nel Risorgimento, cit., p. 322.

FA)

diatezza. È evidente cioè in queste vicende legate a Ernani che le allusioni e i collegamenti politici si instaurano tra eventi di stretta attualità (in questo caso la concessione dell’amnistia) e frasi precise del testo, del tutto estrapolate dal loro contesto. La semplificazione estrema tipica del codice melodrammatico si riflette in sostanza anche sulle modalità della sua ricezione e l’attenzione sulla singola parola (in questo caso il «Perdono a tutti») ben più che sul significato patriottico di fondo, finisce così per accomunare, in un gio-

co di reciprocità in cui è difficile cogliere dove stia la causa

e dove l’effetto, l'atteggiamento del pubblico e quello delle autorità censorie, le quali maniacalmente perseguono pro-

prio le singole formulazioni lessicali, costruendo un piccolo vocabolario di parole proibite (patria innanzitutto, ma anche libertà, gloria, Italia...). Questo fa sì che di volta in volta

la ricezione politica di un’opera — così collegata alla stretta attualità — può riferirsi a pezzi diversi del medesimo testo, quelli che risultano più in linea con gli eventi correnti. Pochi mesi dopo, e ancor più nel 1859, il pubblico politicamente orientato sottolineerà di Errani non più il passo della clemenza di Carlo, che come quella di Pio IX aveva fatto il suo tempo, ma il coro dei congiurati contro Carlo stesso,

che abbracciandosi ed estraendo le spade dai foderi intonano il notissimo «Si ridesti il Leondi Castiglia», cioè il grido di battaglia contro l’oppressore. E il passo che in quel momento ha una maggiore potenzialità di allusione politica, dapprima, a Venezia, trasformandosi ovviamente nel «Leon di San Marco», e poi, nel pieno della guerra, diventando

una sorta di richiamo al combattimento («Pugnerem colle braccia, co’ petti / Schiavi inulti più a lungo e negletti / Non sarem finché vita abbia il cor») e all'unione patriottica («Siamo tutti una sola famiglia»). Ma ritorniamo agli avvenimenti. Dopo il preludio romagnolo del ’46 anche le stagioni dell’anno seguente mostrano alcuni segnali di alterazione della normale pro-

grammazione. A Torino un editto del Governatore dei Palazzi del 24 dicembre 1847 richiamava il pubblico significativamente all'ordine in questo modo: «interessando che nel Regio Teatro siano mantenuti la calma, l’ordine e la dignità 214

si previene il Pubblico che resta assolutamente proibita qualsiasi clamorosa dimostrazione, come pure di cantare inni, introdurvi bandiere, fischiare, prolungare gli applausi da interrompere il corso delle rappresentazioni»”. Sarà però la stagione di carnevale del 1848, quella compresa tra il dicembre del ’47 e il febbraio dell’anno successivo, a venire

rivoluzionata in moltissimi teatri dagli accadimenti politici. In alcune città lombarde già nel gennaio gli spettacoli previsti subiscono variazioni o annullamenti per cause di ordine pubblico. A Pavia le autorità provinciali avvertono il pubblico di ritirarsi in casa evitando «attruppamenti» pericolosi che potevano indurre «mal calcolate reazioni». In ogni caso il clima è tale che la popolazione sembra evitare di affluire in teatro e gli incassi serali di questi ultimi sono più esigui che mai. A Parma tra gennaio e febbraio si registra una media di ingressi di poche decine di biglietti per sera e il teatro si riempie soltanto il 12 di febbraio, quando anche qui, non in modo esplicito per la presenza del duca, ma con un sotterfugio cospirativo, cioè recandosi a teatro

vestiti dei colori sabaudi, panciotti bianchi e cravatte azzurre, si festeggia la concessione dello statuto in Piemonte”. Come non vedere anche in queste forme così diffuse di spettacolarizzazione delle dimostrazioni politiche che riempiono gli anni risorgimentali un’influenza delle atmosfere e delle scene operistiche? È un tema sul quale varrebbe la pena di indagare più da vicino. Ai primi di febbraio le stagioni già programmate sono inframmezzate da eventi non previsti, come appunto serate speciali di festeggiamento per le nuove costituzioni, dove si comincia a sperimentare quell’armamentario simbolico patriottico-rivoluzionario che nei mesi successivi riempirà i teatri della penisola. A Cesena il 2 di febbraio in un teatro illuminato sfarzosamente e con la banda sulla scena si festeggia l’accordata costituzione dal re di Napoli al suo re9% Cit. in A. Basso, I/ teatro della città, cit., p. 259.

% Avviso dell'Imperiale Regia Delegazione di Pavia, 10 gennaio 1848, in ASMI, Presidenza di governo, 1848, b. 258.

Y Cit. in P.E. Ferrari, Spettacoli drammatico-musicali, cit., pp. 224DOSI

215

gno. Sul proscenio sventola la bandiera pontificia e al suo fianco il vessillo tricolore, mentre fazzoletti, sciarpe e scialli sono annodati in una lunga striscia che attraversa tutti gli ordini dei palchi come simbolo dell’unione tra gli italiani”. A Genova pochi giorni dopo, appena ricevuta la notizia della concessione dello statuto, l'avvenimento viene festeggiato nel gran teatro con grande partecipazione del cast e del pubblico. Un rapporto confidenziale sulla situazione cittadina inviato alle autorità francesi insiste proprio su quanto succede in teatro. «Hier matin on a publié ici le statuto. Au theatre il a eu bien des scenes fort étranges. Des

transparents [poco leggibile] se trouverent sur les scènes, on a changé les mots et on a substitué à Pio IX, Carlo Alberto et Leopoldo II Unione e gloria: gloria ai martiri di Lombardia e Sicilia. Les acteurs changeaient les mots aussi, en substituant à d’autres ceux de Pio, Carlo, la scure ai

retrogradi!»?. Ad Arezzo il 20 febbraio il teatro illuminato a festa celebra la costituzione toscana con Nabucco e Attila, scelti a

suo tempo dall’impresario appaltante con gran senso dell'opportunità. Anche il sud è coinvolto nei festeggiamenti costituzionali: a Cosenza il 28 di febbraio la rappresentazione di Erzani (a suo tempo mutata nella titolazione victorhughiana e trasformata in I/ proscritto di Venezia) dà origine ad una manifestazione in cui «giovani ardenti e leggiadrissime donzelle adorne di nastri tricolore» fanno a brani e lanciano in aria una recente ordinanza di polizia che vietava in teatro gli applausi, i fischi e le richieste di replichel? A partire dalla primavera, cioè a guerra ormai iniziata, le dimostrazioni si moltiplicano nelle sale teatrali e il circuito capillare dei teatri diventa il veicolo principale di diffusione delle celebrazioni patriottiche. Le serate generalmente comprendono canti e inni composti ad boc, da poeti loca% A. e L. Raggi, I/ Teatro Comunale di Cesena, cit., p. 101.

? Copia di un rapporto inviato da M. de Martignoni a M.le Comte de Buol, s.d. in ASMI, Presidenza di governo, 1848, b. 258.

100 Da «Il calabrese rigenerato», IV, 29 febbraio 1848.

216

li che vivono nell’occasione un momento di vera e propria mobilitazione culturale e politica, e anche pezzi estrapolati dalle opere verdiane più leggibili politicamente come Ernani, Attila o Nabucco, opere recenti, molto note al grande pubblico, dalla forte dimensione corale, e tutte dotate di almeno un passo che consentisse di muovere nell’uditorio le corde emozionali della ricezione patriottica!. Ritroviamo nei programmi di quei giorni anche passi di opere meno note al grande pubblico italiano ma che richiamavano altri eventi rivoluzionari precedenti, come la Muta di Portici di Auber o il Guglielmo Tell rossiniano!°, che nonostante la sua valenza potenzialmente più rivoluzionaria e patriottica, non foss’altro per il fatto che il tema patria ne costituisce l’asse portante e non un episodio isolato, era rimasta fino ad allora ai margini dei circuiti!. Va detto che ora non è soltanto la musica a dominare i palcoscenici ma anche la prosa, attraverso drammi patriottici dai titoli significativi (da I raggiri di Radeski, a L’eroina della libertà, a La lega lombarda) di cui però non ci è rimasta molta altra memoria!. Le serate teatrali di questi mesi risultano infatti ancor più variopinte di quanto già non lo fosse la normale programmazione e cioè prevedono declamazioni di inni, canti, prosa, pezzi di opere, cori, il tutto inframmezzato magari dalla lettura dei bollettini di guerra. Talvolta erano dedicate a scopi benefici, e cioè alla raccolta di fondi in favore dei volontari, in particolare per le 101 Dai giornali musicali che escono in quei mesi convulsi apprendiamo che I Lombardi suscitano ovazioni e repliche a Cremona, Città di Castello, Piacenza, Ancona, Pesaro, Cuneo, Bologna e Asti; per Errani

sono segnalate ripetute richieste di repliche a Oneglia, Cingoli, Pisa, Mantova, Zara, Genova e Voghera. 102 In Francia proprio il Guillaume Tell si diceva avesse occasionato una delle prime dimostrazioni contro il governo di Carlo X nel luglio del 1830, mentre la rappresentazione della Muta di Portici al teatro d’opera di Bruxelles il 25 agosto 1830 si voleva avesse provocato lo scoppio della rivolta per l'indipendenza di quel paese. 103 Sulla scarsa diffusione italiana di Guglielmo Tell, ritenuto troppo difficile per il pubblico italiano, cfr. A. Cametti, Il Guglielmo Tell e le sue prime rappresentazioni in Italia, in «Rivista musicale italiana», VI, 1899, Nb:

104 Cfr. Risorgimento e teatro a Bologna 1800-1849, a cura di M. Gavelli

e F. Tarozzi, Bologna, Patron, 1998.

2

famiglie dei caduti a Curtatone e Montanara, e continuavano così in versione di emergenza bellica l’uso benefico che da sempre era svolto dagli spazi teatrali. Il set degli oggetti e dei simboli patriottici utilizzati per quelle occasioni è articolato e rapidamente consolidato: sciarpe, coccarde, fazzoletti uniti a mo’ di catena di unità nazionale (così viene definita a Verona), mazzi di fiori con nastri tricolore, abbigliamento

in bianco, rosso e verde che accentuano la spiccata teatralità

del clima di quei giorni. Alcuni teatri cambiano nome:

La Scala riapre come

Nazionale, così il Ducale di Parma, mentre il Concordia di Cremona diviene Teatro Patriottico. A questo punto i mes-

saggi politici non passano solo attraverso le musiche e i drammi, con tutta la carica emozionale loro propria, ma diventano diretti, come succede con il giro di propaganda compiuto da Gioberti nel maggio, che ovviamente trova negli spazi teatrali il proprio principale riferimento logistico. In questo quadro comunicativo tanto effervescente non va dimenticata la presenza tutt'altro che marginale dei simboli municipali, bandiere e stemmi cittadini che appaiono al centro delle manifestazioni stesse, confermando

la dimen-

sione localistica e cittadina che in Italia assume l’evento ’48!%, Sentiamolo dalle parole di un personaggio attento agli avvenimenti ancorché preoccupato da questi ultimi. Si tratta dell’osservatore inviato a Genova dal governatore della Lombardia conte di Spaur, il quale il 9 febbraio 1848 così riporta gli accadimenti cittadini in una lettera a quest’ultimo: Questa mattina, ricevuta la notizia che il Re ha accordata la costituzione si sono fatte chiudere le botteghe e tutto il popolaccio è in moto. Si passeggiano per le strade bandiere tricolori ed il rumore è eccessivo.

Teri sera nel Teatro Grande vi fu una scena tutta nuova. Il tenore Ferretti si mostrò sulla scena con una bandiera genovese del 1726 [...] si succedevano l’un l’altro, cantanti e ballerini, non ec-

1 Possiamo ascrivere a questa dimensione, oltre al seguente esempio genovese, quello del teatro di Cagliari dove viene rappresentata l’opera di colore locale Mariano d'Arborea, con le truppe arborensi vittoriose sugli Aragonesi nel 1368; cfr. F. Ruggieri, Storia del Teatro civico di Cagliari,

cit., p, 115; 218

cettuato l’impresario comparvero ad abbracciare la venerata bandiera e spettatori persino dalla platea montarono sulla scena. Uno d’essi impugnata la bandiera gridò: Fortunato colui che primo la pianterà sul suolo lombardo. La nobiltà che vorrebbe arrogarsi il privilegio di portare quella bandiera le parve fosse profanata sulla scena. Doria e i suoi si fecero in platea per impedire quella profanazione, lo tacciarono di aristocratico e dovettero ritirarsi!

Ora avremo dei giorni terribili. Tutti i buoni desideravano la costituzione come il minor male, per avere un poco di tranquillità, mi pare che le loro speranze saranno deluse!®.

Durante l’estate, la controffensiva austriaca induce molti teatri a chiudere, sia in Lombardo-Veneto che altrove, oppure a convertirsi ad un uso funzionale alla congiuntura

bellica: il Grande di Brescia diventa caserma della guardia nazionale e il Riccardi di Bergamo è adibito a ospedale militare!”; altre sale sono costrette a chiudere sia per la mancanza di pubblico che per le difficoltà di spostamento delle compagnie che rendono ormai impossibile il normale svolgimento della programmazione, anche nelle zone non direttamente interessate dagli eventi bellici. Tutto il sistema teatrale risulta insomma alterato nei suoi ritmi e nelle sue scansioni!®8, È in questo frangente di sospensione dell’attività che, come forse si ricorderà, Ricordi aveva scritto a Verdi, rien106 A S.E. il conte di Spaur governatore della Lombardia, Genova, 9 febbraio 1848, in ASMI, Presidenza di governo, 1848, b. 258.

107 In questo caso è l’amministrazione provvisoria a chiudere il teatro in segno di appoggio alle battaglie in corso, suscitando le ire dell’impresario appaltante che si chiede se con ciò si voglia sostenere che «non è buon italiano chi va al teatro...», cit. in «Il Pirata, giornale di letteratura, belle arti e teatri», 25 marzo 1848.

108 Questa situazione può aver facilitato lo spostamento di alcune troupes, peraltro già frequente, all’estero. Proprio dal marzo 1848 comincia ad esempio la penetrazione dell’opera italiana nelle province del nord della Francia, che fino ad allora era stata molto modesta, al seguito dell’impresario Montelli che con enorme successo di pubblico introduce a Lille, Douai, Arras, Cambrais, Dunkerque e tutte le cittadine del Dipartimento del Nord e del Pas de Calais il più recente repertorio di Bellini e Donizetti e anche il nuovo compositore del momento, Giuseppe Verdi. Su questo caso di penetrazione nella provincia francese dell’opera italiana si veda G. Gosselin, Les Italiens en province au milieu du XIX° siècle, in D'un Opéra è l'autre. Hommage è Jean Mongrédien, Paris, Presses de l’Université de Paris-Sorbonne, 1996, pp. 371-378.

219

trato a Parigi e già scalpitante di ansia produttiva, di pazientare nella composizione della nuova opera (che sarebbe stata poi La battaglia di Legnano): Da queste circostanze — scrive l’editore dopo avergli comunicato le tristi notizie che giungevano dai campi di battaglia — tu puoi rilevare che la Guerra va ad essere protratta chi sa fin quando e che ben lungi dal pensare alla riapertura dei teatri, il solo pensiero di tutti ora è quello delle armi e del battersi. Bisognerebbe dunque che tu pure da bravo italiano ti conformassi a questo stato di cose tenendo l’opera per me fino all’epoca della pace in cui si riapriranno i teatri, ed una nuova opera di Verdi sarà prima di ogni altra desiderata!°.

In sostanza — il senso è chiaro — non era davvero il caso di sprecare l'evento di una prima verdiana, per di più all’insegna della patria redenta, nel caos di quei giorni. Era meglio attendere tempi migliori, che si intravedranno a fine anno, quando maturerà un accordo col Teatro Argentina che porterà la nuova opera nel gennaio del ‘49 in una Roma ancora, almeno per poco, rivoluzionaria. Anche i periodici musicali si erano nel frattempo convertiti rapidamente all’imperativo patriottico del momento, cosicché la sensibilità del pubblico per i temi politici è accompagnata e sollecitata dal mondo editoriale che ruota intorno ai teatri e che segue con attenzione il nuovo filone non mancando di coglierne gli aspetti commerciali. L’«Italia musicale», il giornale dell'editore Lucca, cambia la propria

testata in «Italia libera, giornale politico, artistico e letterario» e il 9 di aprile del 1848 si rivolge così ai suoi lettori: «L'Italia musicale depone la sua cetra e fa tacere i suoi canti armoniosi davanti all’Italia guerriera che risorge». A sua volta la «Gazzetta musicale di Milano» aggiunge al proprio titolo originario la specificazione «di italiana armonia» che gioca su un chiaro doppio senso. Nel frattempo gli editori utilizzano ampiamente nel loro catalogo la carta degli inni patriottici che sembrano essere ormai gli unici ad avere un pubblico. Ricordi lancia una nuova serie di pubblicazioni 109 Lettera di Ricordi a Verdi, 27 luglio 1848, cit. in Carteggio VerdiCammarano, cit.

220

musicali all'insegna del tema patria, che si infoltisce rapida-

mente nel corso della primavera-estate ’48 e vuole proporre musica nobile, concitata, guerresca, che mantenga vivo l’entusiasmo patriottico e l'amor di concordia!!°, La serie è pubblicizzata a tutta pagina sul retro della «Gazzetta musicale» ma anche su altri giornali. Leggo rapidamente da un

numero a caso, quello del 12 aprile ’48: L’italiana, grido di guerra all’unisono, franchi 2 Milano liberata, fr. 1

Il canto di guerra degli italiani, fr. 1 Il cantico del milite lombardo, fr. 1.50 Il voto di una donna italiana, fr. 2

Una decina di numeri dopo, la serie, ora intitolata «Canti

e inni popolari», ha raggiunto ormai una quarantina di titoli, variabili da 1 a 5 franchi; e comprende sia inni famosi che

composizioni d'occasione, talvolta mandate all’editore da quei notabili di provincia, dottori, notai, avvocati, i quali in

questa fase eroica si cimentano nella composizione di versi d’occasione che vengono poi musicati e utilizzati nelle serate patriottiche riflettendo il nuovo protagonismo di quel pubblico che in provincia animava e organizzava le manifestazioni teatrali. La riapertura dei teatri, soprattutto nel LombardoVeneto, è graduale e spesso molto controversa. Al ritorno degli austriaci proprio le sale teatrali sono oggetto di una sorta di desistenza civica che viene giocata in due modalità diverse e certamente concordate: in taluni casi, dove i teatri vengono riaperti, si registra una provocatoria astensione del

pubblico, che rifiuta di ritornare nelle sale insieme ai militari austriaci («sembrava essere intenzione di un certo partito — così scrive il comandante di piazza di Brescia — il dare

a divedere il proprio malcontento intorno allo stato attuale 110 L’iniziativa di Ricordi doveva aver avuto qualche fortuna di mercato vista la reazione pronta del suo maggiore concorrente, l'editore Lucca, sulla cui rivista compaiono una serie di articoli polemici sui presunti «inni popolari» tanto diffusi e pubblicizzati e in realtà ben poco popolari. Sul tema cfr. R. Monterosso, La musica nel Risorgimento, cit., p. 73.

Z24

delle cose col non frequentare, in maniera come concertata,

le rappresentazioni teatrali»!!!); in altri casi, invece, sono le stesse deputazioni che rifiutano di riaprire i battenti dei teatri sociali adducendo motivazioni di ordine finanziario e continuando a mantenere chiuse le sale!!?. In entrambi i casi, queste dimostrazioni di ostilità si concludono con l’intervento di forza delle autorità austriache. Un editto del 24 dicembre 1849 precetta a Brescia tutti gli impiegati pubblici ad abbonarsi per la stagione di carnevale, pena l’assimilazione del rifiuto a una violazione del regolamento di lavoro. Questo ci riporta alla precettazione che a inizio secolo alcune corti avevano instaurato nei confronti della frequentazione teatrale dei propri impiegati e alla consuetudine tipica dei teatri italiani ad un pubblico fisso, esterno alle fluttuazioni del mercato, di dovere e non estemporaneo!!. A Padova l’autorità governativa impone alla società del teatro la riapertura forzata a condizioni particolari e straordinarie.

La concessione di un sussidio municipale che per tre anni facesse fronte alle difficoltà economiche avanzate dalla Deputazione viene condizionata ad esempio all’imposizione di prezzi d’ingresso particolarmente bassi per favorire l’afflusso del pubblico!!4. Ma anche dopo questi atti di autorità la tensione, pur trattenuta, rimane alta, come dimostra la riapertura di molti

ll Cit. in AA.VV., Il Teatro Grande di Brescia, cit., p. 151.

!!2 Dopo il 1860 la desistenza civica si ripete nei teatri veneti, la maggior parte dei quali rimarrà chiusa fino al 1866, per «lutto patriottico»; cfr. A.L. Bellina e B. Brizzi, I meelodramma e la musica strumentale, cit., pp. 454 ss.

13 AA.VV., Il Teatro Grande di Brescia, cit., p. 98. 114 Una cronaca padovana manoscritta datata 14 giugno 1850 sostiene che «500 circa sono gli abbonati all’opera teatrale. Dicesi che gli esuli italiani rifugiatisi in Piemonte siano molto indispettiti contro i Padovani perché dopo di un dignitoso contegno mantenuto e nella rivoluzione del 1848 e poi fino ai dì presenti, quasi dimentichi del passato movano sì numerosi a divertirsi in uno spettacolo voluto per forza dalle autorità militari [...]. Molte cose potrei rispondere a questo rimprovero ma limitandomi dirò che il teatro non è molto frequentato, che pochissimi signori e persone colte vi accorrono, molti invece artiggiani allettati dal modicissimo

prezzo dell'abbonamento»;

Padova, cit., p. 431.

DIR

cit. in B. Brunelli, I teatri di

contenziosi che da anni periodicamente riemergevano circa la concessione di un palco gratuito alle autorità da parte delle rappresentanze societarie. In uno dei più tenaci tra questi, quello bresciano, è direttamente coinvolto Giuseppe Zanardelli, futuro protagonista di una lunga carriera politica ed ora giovane segretario della Deputazione teatrale. Nel 1849 questi inizia una vertenza

che si protrarrà per una

decina d’anni con la Delegazione di polizia per la concessione del palco generalmente accordato alle autorità, concessione sulla quale egli ritiene non esservi alcun riscontro giuridico. È un tema noto e già oggetto di lunghe controversie fin dagli anni francesi, e che dimostra in primo luogo le resistenze di queste società di notabili ad abdicare alla propria autonomia riservando un palco a persone esterne alla società. Ora però è molto evidente che la questione si carica di una precisa valenza politica di contrapposizione alle autorità occupanti.

Questo succedeva nelle sale, ma anche sui palcoscenici la vita teatrale stentava a decollare nuovamente. Visconti Venosta ricorda nelle sue memorie che ancora nel 1852 a Milano erano aperti ben pochi teatri e che solo nel 1856 il mondo teatrale sembra riprendere a pieno ritmo le attività!5. E d'altronde anche il circuito extrateatrale risente a lungo del nuovo clima post-quarantottesco. Subito dopo i moti, le principali testate musicali chiudono: la «Gazzetta

musicale di Milano» dal luglio ’48 al gennaio ’50 e così «L'Italia musicale». Il «Figaro» aveva già chiuso alla vigilia dei moti e il «Pirata» sarà costretto a chiudere al ritorno degli austriaci. Ma ciò su cui il nuovo corso incide di più è certamente il controllo censorio sugli spettacoli. Abbiamo visto, espresso dal duca di Ventignano, quale fosse il nuovo orientamento della censura napoletana, che escludeva ormai qualsiasi riferimento agli affari politici sui palcoscenici. In altri stati 115 G. Visconti Venosta, Ricordi di gioventà, cit. in B. Gutierrez, I/ teatro Carcano (1803-1914). Glorie artistiche e patriottiche, decadenza e resurrezione, II ed. Milano, Sonzogno, 1916 (ristampa Bologna, Forni,

1984), pp. 107 ss.

225

si procede a riorganizzare gli uffici per rendere più efficace il controllo. In Toscana un decreto granducale prevede l’accentramento del servizio abolendo nel 1853 le censure locali e istituendo presso il ministero dell’Interno un’unica autorità per l’attività censoria. Nello Stato pontificio, dopo le esperienze del 1848, si sottopongono al controllo censorio non solo i testi da rappresentarsi ma tutti gli scritti, componimenti poetici o ritratti, che si volessero spargere in teatro;

la cosa era sottoposta ad uno speciale permesso da richiedere sia all'autorità governativa che alla deputazione teatrale,

alle quali si dovevano consegnare quattro esemplari di ciascuna composizione!!. Una certa insoddisfazione per il sistema in vigore si riscontra anche a Parma, dove un decreto del 1850 attribuisce al revisore del teatro non solo la sorveglianza sulla messinscena,

come

era fino ad allora, ma le

competenze censorie che erano del direttore generale. Il fatto che nel ’55 si torni al sistema precedente segnala però che l’organizzazione di questo servizio rimaneva problematica e insoddisfacente. Dieci anni più tardi, nel 1859, il copione delle serate teatrali patriottiche già sperimentato si sarebbe comunque ripetuto, anche se in una versione meno rivoluzionaria e più

tradizionalmente bellica: nelle sale teatrali si susseguono cioè cori e inni di battaglia, operistici e non, e serate di beneficenza in favore dei volontari, mentre si ripete lo sfoggio di vessilli e di decorazioni tricolore di vario tipo che a Cremona giunge perfino alla proposta di rivestire di verde le pareti dei palchetti!!”. In primo piano, dal punto di vista del refrain operistico, sono ora, oltre al solito Verdi degli anni ’40,

anche opere più lontane nel tempo ma recuperate per la presenza nei libretti di pur fugaci riferimenti ad una patria oppressa, come il Giuramento e la Donna Caritea di Mercadante o la Norzza belliniana. Al Carcano milanese nel °59 anche il pubblico si unisce al coro del «Guerra, guerra», 16 Cfr. A. Albani, M. Bonvini Senigallia, cit., p. 116.

Mazzanti

e G. Moroni,

I/ Teatro a

!! L’idea avanzata in sede di Deputazione è subito rigettata dai palchisti, in particolare dalle dame che ritengono il verde un pessimo sfondo per vestiti e carnagioni, cfr. E. Santoro, I Teatri di Cremona, cit.

224

mentre all'ingresso in città delle truppe francesi viene ripresa per 12 serate consecutive La battaglia di Legnano!!8. Proprio i francesi sono inizialmente i nuovi protagonisti di queste serate del 1859. Il Carlo Felice di Genova si appresta ad accoglierli con un corso apposito di spettacoli che con gran-

de sfarzo, addobbi e illuminazione particolare viene allestito ai primi di maggio, quando Napoleone III sbarca nella città a bordo del suo yacht, il Princesse Hortense. Rispetto all'evento ’48 i protagonisti di queste serate sono

in parte mutati: tramontati presto i francesi, come

oggetto degli omaggi del pubblico rimangono il re e Garibaldi, al suono dei cui nomi vengono tributati applausi all’inizio delle serate di spettacolo e in onore dei quali si eseguono i rispettivi inni. Una tale abitudine inizia però anche a complicare le cose, facendo intravedere le prime incrinature all’indiscusso unanimismo precedente. Sappiamo ad esempio che a Reggio Emilia la consuetudine degli inni al re e a Garibaldi mette subito in evidenza posizioni diverse del pubblico. C’è infatti chi non si accontenta di una sola esecuzione dell’inno all’eroe dei due mondi e con grida e applausi ne ottiene più d’una, suscitando la reazione sdegnata del sindaco, il quale arriverà ad invitare con un manifesto la cittadinanza a non unirsi alle gesta di quegli inverecondi attentatori della pubblica tranquillità!!?,

118 Cfr. B. Gutierrez, I/ Teatro Carcano (1803-1914), cit.

119 G. Armani, Teatro e vita politica dal 1848 al 1915, in Teatro a Reggio Emilia, cit., p. 228.

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CAPITOLO

QUARTO

L’OPERA LIRICA E L’ITALIA NUOVA

In un certo senso e durante un certo perio-

do per un popolo come il nostro il Melodramma è stato per così dire la «Macchina infernale». I piccoli teatri di una volta eran se si può dire delle rosticcerie del sentimento pubblico.

B. Barilli, I{ paese del melodramma, 1929

1. Igrandi teatri e il passaggio al nuovo stato In piazza Castello, a Torino, la sera del 18 febbraio 1861

si festeggiava con un concerto l’inaugurazione del nuovo Parlamento italiano avvenuta quel giorno. Il Corpo di musica della Guardia Nazionale insieme ad un centinaio di coristi affrontava un programma nazional-patriottico che si apriva con un galop intitolato alla Battaglia di San Martino e si chiudeva con l’inno nazionale di Novaro-Mameli. Tra questi, tutta una sequenza di cori e di sinfonie d’opera in cui primeggiava la produzione verdiana, presente il maestro a Torino in una inedita veste di deputato. Era previsto sia il Verdi degli anni 40, con l'ennesimo coro da Errani, che quello più recente di Aro/do e internazionale di Traviata. A completare la serata celebrativa contribuiva poi un pezzo dalla Gazza ladra di Rossini, uno dagli Orazi e i Curiazi di Mercadante,

e persino un valzer di Strauss, che ha tutta

l’aria di un lapsus e sembra tradire una scarsa familiarità con le celebrazioni della nazione. Se si escludono questo inserto curioso e alcuni inni la colonna sonora di questa

festa inaugurale è dunque rappresentata dalle arie del melodramma e la cosa doveva apparire del tutto ovvia agli ascoltatori, trattandosi della musica italiana per eccellenza, quella che aveva accompagnato tutta l'epopea risorgimentale. 2210

In un certo senso meno ovvio è il fatto che proprio dopo l’Unità la produzione operistica e il sistema teatrale che le stava alle spalle conoscano la parte discendente di una parabola che abbiamo seguito nei suoi sviluppi materiali e artistici fin dalla prima Restaurazione!. Un aspetto importante di questo quadro declinante è rappresentato dalla tortuosa vicenda parlamentare cui vanno incontro i grandi teatri demaniali, che si consuma tra il 1860 e il 1867 riflet-

tendo l’eccezionale intensità del dibattito di quegli anni e soprattutto il suo prevalente orientamento liberale, ostile all’idea stessa di un’ingerenza statale nelle articolazioni della società civile. Il percorso di quella vicenda è scandito da molte tappe che si intrecciano, anche nel più frettoloso epilogo, con una discussione particolarmente delicata come quella relativa all’assetto delle finanze locali. Va detto innanzitutto che tra il 1859 e il 1861, scaglionati secondo i tempi diversi delle annessioni, i teatri di corte o governativi, cioè Regio e Carignano a Torino, Scala e Canobbiana a Milano, Ducale a Parma, San Carlo e Fondo

a Napoli, diventano parte del demanio del nuovo stato e vengono inclusi nell’ambito di competenza del ministero degli Interni. Nello stesso quadro rientrano le sovvenzioni ad alcuni teatri minori che nel passato regime godevano di qualche forma di contributo governativo. La maggior parte era localizzata nel territorio dell’ex ducato parmense, che al contrario degli altri stati e probabilmente seguendo una linea di continuità con la tradizione austriaca, aveva impostato una politica non solo di controllo e di sorveglianza ma di supporto finanziario alle strutture teatrali. L'orientamento adottato inizialmente dal ministero è molto chiaro nella sua posizione di stretta continuità con le pratiche precedenti, che fa sì che i teatri di Piacenza, di Borgotaro, di Pontremoli,

quello appena costruito di Borgo S. Donnino, il Comunale ! Sulla situazione dei teatri dopo l'unificazione si vedano i due saggi di F. Nicolodi, I/ sisterza produttivo dall'Unità a oggi, in Storia dell’opera italiana, Torino, EDT, 1987, vol. IV, pp. 169-229; e I/ teatro d’opera e il

suo pubblico, in Fare gli italiani. Scuola e cultura nell'Italia contemporanea, a cura di S. Soldani e G. Turi, La nascita dello stato nazionale,

Bologna, Il Mulino, 1993, vol. I, pp. 257-304.

228

di Modena e quello di Massa continuino a godere dei medesimi, anche piccolissimi, sussidi incassati in precedenza. Men-

tre tutti quei teatri che inoltrano al ministero una nuova richiesta, come le sale di Empoli o di Potenza, ricevevano una risposta immancabilmente negativa, motivata dal principio della sola continuità con gli impegni già presi?. L'assunzione delle competenze sui grandi teatri, in un quadro istituzionale e burocratico tutto da costruire com'è quello dei primi anni postunitari, è segnata però da difficoltà e disguidi di vario genere, che per alcuni mesi inceppano la vita amministrativa dei singoli teatri, già alterata dagli eventi bellici. La vicenda apre uno spiraglio significativo sulla contingenza particolare di quei mesi di passaggio e ne mostra le difficoltà, anche solo di tipo organizzativo. Si pensi ai lavori frequenti e costosi di manutenzione delle sale, già avviati sia a Parma che a Milano, la cui nota spese rimane a lungo sospesa senza trovare collocazione nel nuovo bilancio; o alla voltura dei palchetti passati di proprietà proprio in quella fase e mai registrati, come succede a Parma dove il registro risulta trasportato nel 1859 a Modena, sede dei ministeri dell'Emilia, e poi a Torino, in data e luogo che rimangono imprecisati?; e ancora ai debiti pendenti e mai regolati dell’intendenza militare napoletana verso il teatro. A tutto ciò si aggiungono le controversie con gli impresari,

situazioni frequenti e ben conosciute nella vita dei teatri, che ora però si trovano ad essere giocate al centro, a Tori-

no, dove gli impresari in lizza per il nuovo appalto della Scala, scaduto proprio nel 1860, trasferiscono il loro consueto bagaglio di perorazioni e recriminazioni, talvolta sfruttando le divergenze che potevano crearsi tra il ministero e le commissioni locali. Ben più complessa si presentava poi la 2 Le domande di sussidio degli altri teatri sono in ACS, Ministero dell’Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 11, f. 15.

3 Sulle vicende parmensi del 1860-61 cfr. la documentazione conservata in ACS, Ministero dell’Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 8, f. 3.

4 A Milano la nuova commissione autorizzata a decidere anche sugli appalti approva un contratto con l’impresario Merelli, ma altre imprese reclamano direttamente presso il ministro innescando un primo conflitto tra autorità centrali e periferiche; cfr. il fascicolo apposito in ACS, Mini stero dell’Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 1.

229

questione del San Carlo, la cui situazione finanziaria ma anche artistica era stata definita già molto critica in una relazione della Sovrintendenza ai Regi teatri del 1849, che faceva seguito a numerosi fallimenti impresariali: «I Teatri Regi — vi leggiamo — sono discreditati presso l’estero per tutte queste vicende le quali compromettono il decoro della capitale, il sostentamento di una non picciola popolazione e finanche la stessa finanza». Alla base di un quadro tanto sconfortante, recitava quella relazione, stava l’abitudine di

richiedere agli impresari il maggior lustro e decoro possibile negli allestimenti, scegliendo quello che prometteva un maggior dispendio di mezzi senza considerarne in alcun modo l’attendibilità. La qual cosa non aveva favorito la buona qualità degli spettacoli, ma solo una forbice crescente tra entrate e spese, a cui la sovrintendenza si proponeva a quel punto di porre rimedi radicali esercitando un «vero controllo sui progetti, sulle paghe degli artisti e sulla situazione contabile delle imprese». Questi buoni propositi non

dovevano

aver avuto

un

grande esito, a giudicare dalla grave situazione debitoria

che nell’agosto del ’61 la nuova Luogotenenza generale delle province napoletane si era trovata a gestire. Questa ave-

va riferito al ministero che le condizioni eccezionali in cui Napoli si trovava in quel momento, priva di guarnigione fissa, di corpo diplomatico, con la nobiltà dispersa e timorosa di moti popolari, non consentivano una ripresa regolare della vita teatrale e ciò rendeva ancor più necessario un intervento finanziario diretto delle autorità a coprire il debito pregresso.

In caso contrario, si correva

il rischio di

esporre subito il nuovo governo ad un discredito che sarebbe stato proporzionato alla grande importanza che aveva il > La Sovrintendenza ai Regi Teatri al Ministro della Pubblica istruzione, 21 settembre 1849, in ASN, Teatri, b. 20.

© Che l’atteggiamento della Sovrintendenza non fosse cambiato molto in quanto a oculata gestione delle proprie finanze ce lo dice il fatto che ancora nel 1860, nella situazione debitoria di cui si è detto, questa aveva presentato un progetto per la costruzione di quattro grandi arene diurne, nell’intento di emulare l’esempio di altre città e creare spazi teatrali a prezzi modicissimi per un pubblico popolare; cfr. ASN, Teatri, b. 21.

230

teatro nella vita cittadina”. Qui, in particolare, il problema

più consistente da risolvere era rappresentato dalle cosiddette «masse» teatrali, ossia quel migliaio di persone che in

vario modo lavoravano intorno al teatro — comparse, coristi,

attitanti (cioè personale di servizio ai palchi), buttafuori, custodi, portinai — ai quali anche nelle stagioni di chiusura si usava distribuire un sussidio8. Era stato per far fronte a

questa situazione che soltanto a Napoli la sovvenzione governativa era stata significativamente aumentata dopo l’unificazione. Più tranquilla era invece la gestione della situazione nel gran teatro torinese, visto che il passaggio alla competenza municipale era già stato deliberato negli anni immediatamente precedenti l’unificazione, dopo un lungo dibattito che aveva impegnato il Parlamento subalpino a partire dal 1850 e di cui la discussione nel nuovo Parlamento ripercorrerà con sorprendente precisione i passaggi’.

In effetti il trapasso della gestione dei grandi teatri allo stato aveva previsto da subito l’istituzione di commissioni amministrative locali che assumessero i compiti delle passate sovrintendenze e consentissero una risoluzione in loco di gran parte dei problemi. Ma da un lato si trattava pur sem? Luogotenenza generale per le provincie napoletane al ministro dell'interno, agosto ballo, b. 7.

1861, in ACS, Ministero dell’Interno, Teatri e scuole di

8 L’importanza di questo corpo nella vita del teatro era notevolissima a tutti i livelli della sua gestione; basti pensare che le masse facevano sentire la propria voce anche nelle contrattazioni con gli impresari circa gli appalti. Così accade in occasione del contratto molto controverso del 1862-63 quando entrambi gli impresari in lizza presentano direttamente a Torino, presso il ministero, le proprie proposte. Nel fascicolo relativo ritroviamo una lettera che l'avvocato delle masse teatrali aveva inviato a Rattazzi per manifestargli tutta la preoccupazione dei suoi assistiti nei confronti di appaltatori che sono definiti inaffidabili e che risultava avessero già combinato disastri a Genova, Palermo, Messina; cfr. ACS, Ministero dell’Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 8, f. 2. ? Nella stagione del 1860-61 il governo aveva concesso comunque un sussidio, ritenuto opportuno per ragioni di ordine pubblico, ma già l’anno successivo il carico finanziario della dote, fatta eccezione per il contributo all’orchestra e alla scuola di ballo che rimaneva governativo, era passato al municipio, con un aggravio notevole del suo bilancio; cfr. ACS, Ministero dell’Interno, Teatri, b. 1.

2914

pre di organi consultivi, le cui deliberazioni, dai contratti d’appalto all’imposizione dei canoni dei palchettisti, andavano approvate dal ministero; dall’altro la loro composizione, prima di allora di nomina regia o sottoposta alla regia approvazione, non era stata facile e indolore nella nuova situazione istituzionale. Le indicazioni del ministero avevano previsto che esse fossero composte da due membri di diritto, cioè il prefetto e il sindaco, e da cinque membri elettivi scelti tra i proprietari dei palchetti. Ma tutti i prefetti delle città interessate avevano comunicato al ministero di trovare non poche difficoltà nell'individuare interlocutori all’interno del corpo dei palchisti, dove, caduta la tutela ravvicinata del monarca, si erano aperte non poche contese.

Quello di Parma si era trovato costretto a gestire in prima persona un esercizio provvisorio che si era rivelato ben poco conveniente, visto che il cattivo esito degli spettacoli era ricaduto, così scrive con preoccupazione, sulla dignità stessa del rappresentante del governo, travolto dalle critiche di un pubblico particolarmente esigente!®. Nella sua relazione questi suggeriva, sulla base dell’esperienza fatta, che sarebbe stato più opportuno modificare la composizione delle suddette commissioni, di modo che le autorità prefettizie non solo non le presiedessero ma nemmeno vi partecipassero, per non coinvolgerle in un discredito certo. Invece raccomandava che vi fosse rappresentata quella parte del pubblico non proprietario di palchi e che tuttavia rappresentava una fetta consistente dell'audience. Queste indicazioni, rafforzate da un parere analogo espresso dalla prefettura milanese, erano state recepite dal ministero e un decreto

reale del marzo 1865 aveva stabilito un nuovo assetto delle commissioni stesse!!, Anche su questo punto però le vicende della sovrinten!° La corrispondenza che passa in quel frangente tra il prefetto di Parma e il ministero è in ACS, Ministero dell'Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 10.

!! Il nuovo assetto prevedeva cinque membri, scelti dai palchisti non necessariamente al proprio interno; dovevano durare in carica cinque anni ed essere rinnovati per un quinto ogni anno; le loro decisioni erano comunque sottoposte al vaglio della prefettura.

252

denza napoletana si erano dimostrate più complicate. Una prima relazione ministeriale del gennaio ’62 aveva proposto di insediare a Napoli come negli altri teatri una commissione locale che per utile continuità con il passato poteva essere costituita dalla precedente sovrintendenza, purché modificata di nome e comprendente anche il prefetto e il sindaco. Tuttavia non avevano tardato ad arrivare molte accuse sull’operato dell’antico consesso. In particolare i proprietari dei teatri minori napoletani parlavano di una consuetudine di ingerenza indebita nella loro attività, soprattutto sulla nomina dei subalterni!. Una piccola indagine compiuta dal prefetto lo aveva portato a concludere che fosse opportuno

sciogliere l'antica sovrintendenza che, avendo funzionato «come una specie di tribunale eccezionale pei teatri», si rivelava poco consona ai principi costituzionali liberali cui si ispirava il nuovo regno. La situazione napoletana non

faceva che riflettere uno dei problemi principali relativi al controllo pubblico sul sistema teatrale nel Regno borbonico, e cioè la commistione di competenze tra autorità diverse, locali e centrali, poliziesche e religiose, e la sovrapposizione di istanze di sorveglianza non omogenee. Le aspettative delle classi dirigenti locali dopo l’unificazione erano da questo punto di vista quelle di una completa liberalizzazione del quadro e ciò finiva per originare aperte resistenze all'imposizione di qualsiasi nuova forma di controllo. A_Palermo ad esempio la tutela esercitata fino ad allora su tutti i teatri dell’isola dalla Sovrintendenza siciliana agli spettacoli, che viene confermata dal nuovo stato, aveva suscitato

la reazione del sindaco che sosteneva presso il ministro nel

luglio del 1861 di non poter riconoscere l'autorità di un organo che risaliva «ad un’epoca di tirannia che i nuovi 12 Sulle sorti della Sovrintendenza napoletana, definita dal suo presidente nel memoriale presentato in quell’occasione al ministero, una delle più nobili e vecchie istituzioni napoletane; cfr. il fascicolo conservato in ACS, Ministero dell’Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 5.

13 La nuova commissione locale di gestione del San Carlo non avrebbe avuto compiti di pubblica sicurezza e soprattutto avrebbe dovuto presentare alla superiore approvazione ogni più piccolo progetto di spesa per evitare di cadere in un baratro debitorio non più gestibile.

235

eventi politici avevano superato» e di ritenere ormai privo

di valore il controllo da questa esercitato su una struttura di proprietà municipale come il teatro Carolino!4. Ciò che appare chiaro, anche nella diversità delle situazioni istituzionali territoriali in cui i grandi teatri si trovavano, è che la questione della gestione dei luoghi teatrali toccava tasti particolarmente delicati e che passando dal controllo della corte a quello prefettizio-ministeriale si rimettevano in gioco, con le carte rimescolate dall’unificazione e dunque mutato uno dei soggetti in causa, le relazioni stesse tra la classe dirigente locale e il governo. Il fatto è che da sempre il luogo teatro rifletteva con particolare precisione quelle dinamiche di relazione, anche nella loro dimensione simbolica. Si pensi ad un fronte di conflitto così tradizionale come quello legato all’attribuzione dei posti riservati alle autorità, che puntualmente si ripresentava con la nuova si-

tuazione politica. Oltre ai palchi per la Real Casa sabauda in un suo eventuale passaggio bisognava prevedere una adeguata localizzazione nelle sale al prefetto, ma anche al questore, agli ufficiali di pubblica sicurezza, ma anche al comando della guardia nazionale; tutto ciò senza togliere diritti acquisiti al personale che da sempre prestava gratuito servizio in teatro — medici, architetti, ufficiali dei pompieri —; ed eventualmente si trattava di rispondere a chi aveva perso negli anni passati il privilegio del palco gratuito e distinto ma approfittava del cambiamento istituzionale per ritornare alla carica sull'argomento”. Una fetta consistente di palchi continuava così a rimanere fuori mercato, cosa che suscitava le comprensibili rimostranze degli impresari e soprattutto smentiva quell’im-

magine di liberalizzazione dell’industria dello spettacolo che proprio il dibattito parlamentare andava proclamando!‘ Il 14 Per la vertenza palermitana cfr. ACS, Ministero dell'Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 128.

!? Così fanno a Parma sia il revisore, che dal 1833 non godeva più di un intero palco ma entrava nel palco della Commissione amministrativa, che la commissione sanitaria, privata del consueto palco da Carlo III, le cui rinnovate domande sono in ASCPr, Teatro, Carteggio, 1861, f. XII.

!6 A Parma i palchi esentati dal pagamento del canone sono quattor-

234

problema diventava spinoso nei teatri sociali e accademici, ai quali si estendeva, suscitando resistenze anche tenaci, la richiesta di un palco «in posizione decorosa» per le autorità periferiche dello stato. Alla Pergola gli accademici proprietari attribuiscono al prefetto un palco di III ordine dove, scrive questi al ministero, non può ricevere convenientemente alcun ospite!”. La stessa cosa avviene nel teatro socia-

le di Varese — la società prega l’impresario di offrire alle autorità un palco in terz’ordine — ma dal ministero giunge al prefetto il divieto di accettare una localizzazione diversa dal palchettone centrale!8. Come già periodicamente si era verificato le società si dimostravano intenzionate a far valere la propria autonomia

e le proprie capacità autorganizzative,

senza però ottenere grande successo. Mentre il Parlamento discuteva l’opportunità di «lasciare che l’arte facesse da sé» liberando anche i grandi teatri della tutela e dei sussidi governativi, l’imposizione dei palchi gratuiti per le autorità, che riproponevano sia la tutela che il controllo, non accennava infatti ad essere discussa,

tanto che il regolamento allegato alla legge di pubblica sicurezza giungeva a troncare ogni reclamo da parte dei teatri,

prevedendo che ognuno di essi riservasse un palco gratuito in posizione decorosa per la prefettura e la sottoprefettura ed uno per gli ufficiali di pubblica sicurezza. La spinta alla liberalizzazione che nel caso dei teatri si era dimostrata particolarmente agguerrita, soprattutto nel dibattito parlamentare, manteneva in sostanza una forte carica di ambiguità. Oltre alla gestione più o meno complessa dei teatri dici; a Milano sono altrettanti ma suddivisi tra Scala e Canobbiana, continuando così la consuetudine di una parca elargizione dei biglietti di favore. !? Dapprima si suggerisce la soluzione dell’uso di un palco di proscenio, come pare accadesse in altre città; poi però si rettifica che quel palco era già stato concesso dal ministro della Real Casa al governatore dei Regi palazzi principe Corsini e al conte Cambray Digny intendente della Real Casa e la questione rimane irrisolta, in ACS, Ministero dell'Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 12. 18 Cit. in P. Macchione, Due secoli di teatro a Varese 1776-1987, Varese,

Lativa, 1987, p. 154. Qui la società contesta anche che il proprio regolamento interno appena emanato dovesse essere approvato dal prefetto.

255

demaniali al ministero rimanevano infine da evadere le richieste e i problemi posti dagli altri teatri, quelli che non vedevano modificato il loro statuto di sociali, municipali o accademici ma che in assenza di una legislazione specifica avevano comunque nel prefetto un nuovo punto di riferimento autoritativo in caso di controversie di qualsiasi tipo. A Firenze si mette in moto un contenzioso che durerà molti anni tra il municipio e il corpo accademico sulla dote alla Pergola. A Pavia si apre un conflitto altrettanto tenace tra il municipio e i proprietari dell’antico teatro condominiale, che dopo aver cercato senza successo di vendere a quest’ultimo la sala, minacciavano di chiuderla definitivamente la-

sciando la città priva di uno spazio per gli spettacoli!?, E gli esempi potrebbero continuare, poiché in questa fase di crollo delle passate autorità i conflitti intorno alle sale-teatrali sembravano davvero moltiplicarsi. 2.

In Parlamento

Questa era per grandi linee la situazione che si presentava di fronte al Parlamento che nell’aprile del 1863 discuteva per la prima volta il bilancio dello stato, in cui la voce relativa ai teatri, compresa nel bilancio degli interni, ammontava a più di un milione di lire, il 60% delle quali erano impegnate per le dotazioni. La ripartizione prevista è riportata nella tabella 4.1. Già i lavori della commissione preparatoria avevano chiarito che l’orientamento prevalente era favorevole alla cancellazione graduale di tutti i sussidi di cui i teatri avevano goduto nei passati regimi, attribuendo ai municipi la facoltà, volendolo, di provvedervi. Almeno tre diverse mo-

tivazioni spingevano in quella direzione rafforzandosi a vicenda: in primo luogo l’idea di decentrare le competenze per amministrare più efficacemente situazioni che apparivano troppo complesse e delicate, ad esempio quella spinosa !) Entrambi in ACS, Ministero dell'Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 128.

236

TaB. 4.1. Spese per i teatri nel bilancio preventivo dello stato per il 1863 ì Teatri

Dotazioni

Torino Milano Parma Napoli Sicilia

29259 82.000 399.490

Masse

Manu-

Spese

tenzioni

diverse

40.000 93.942 45.128 1.300 63.268 PSISSIM212249 DIVDS

Totale

1.500 41.500 408.398 10.069 S2240MI5 A A 676312 LIDO Z 611 3.670

1.600

Toscana Piacenza

8.000

1.600 8.000

Modena

15.000

15.000

Pontremoli

1.000

1.000

Borgo $S. Donnino Borgotaro

1.000 1.000

1.000 1.000

Massa

336

336

1.104.109

Totale

* A Napoli la gran parte delle spese per le masse doveva rientrare nell'ammontare della dote. Fonte:

ACS, Ministero dell’Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 11, f. 5.

delle masse teatrali napoletane che richiedevano una radicale epurazione. Così il ministro Peruzzi: Nessuno ignora l’importanza dei regii teatri di Torino, Napoli, Milano e Parma, tanto come istituti artistici nazionali, ricchi di

belle tradizioni, quanto come centri di estese industrie e di gravi interessi privati. Il Governo ha la convinzione che, dicentrata l’amministrazione di questi teatri e trasferita nelle mani dei municipii, i quali hanno più sicuri criterii per dirigerli secondo le convenienze locali, e più dirette ragioni per considerare come un proprio profitto il loro prosperamento, non che scapitare si avvantaggeranno le sorti e crescerà il lustro di quegli istituti?

Ad un medesimo spirito di decentramento, e soprattutto ad una normativa «leggera», si era ispirata proprio quell’anno anche la nuova organizzazione del servizio censorio, 20 Camera dei deputati, Progetto di legge presentato dal ministro dell'interno Peruzzi nella tornata del 25 luglio 1863. Il fronte favorevole ad un decentramento funzionale di alcune competenze è ancora piuttosto forte a quella data; si veda ad esempio il progetto per una normativa sui beni artistici presentato da Cavalcaselle a Matteucci nel 1863 e pubblicata in «Rivista dei comuni», 1863.

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che attribuiva all’Ufficio centrale di censura, al quale fino ad allora erano arrivati tutti i testi da rappresentarsi, creando un sovraffollamento ingestibile, solo ed esclusivamente la revisione delle opere che avrebbero circolato a scala nazionale, lasciando ai prefetti le competenze relative alla produzione di tipo locale?!. Una seconda motivazione contro le sovvenzioni proveniva da un ampio fronte liberista secondo il quale l’intervento statale doveva essere considerato come una fonte di incagli al libero sviluppo dell’iniziativa privata, anche o soprattutto sul fronte culturale. Il senatore conte Ponza di San Martino, aprendo i lavori della commissione sui teatri che propenderà poi per tutt’altra posizione, sosteneva che il sistema di sussidi adottato dai passati regimi era un sistema di privilegi ben poco attento all’interesse dell’arte. Solo il nuovo sistema della libertà, così argomentava nella discussione piuttosto accesa che si era aperta in proposito, avreb-

be potuto garantire, come succedeva negli Stati Uniti, la crescita dell’arte e delle sue forze più fresche, cancellando la pratica assolutistica del calmiere preventivo e invariabile sui prezzi di ingresso ai teatri. Sarebbe stato allora l’aumento degli introiti serali consentiti dal libero mercato a coprire il vuoto finanziario lasciato nei bilanci dalla dote governativa. Era in sostanza l’ipotesi di chi credeva che il teatro anche in Italia fosse ormai davvero «un’industria», come la-

mentavano da tempo molti intellettuali, e ne avesse tutti i requisiti salvo appunto la consuetudine al sussidio annuale. 2! Nel dicembre 1861 il governo Ricasoli aveva formato una prima Commissione per la revisione, i cui lavori si erano però interrotti con la caduta del governo. Una seconda commissione aveva presentato nel marzo 1863 il progetto che sarà poi adottato con il decreto reale del 1° gennaio 1864 e che si basava sulle considerazioni seguenti: 1) un sistema di assoluto accentramento finiva per nuocere alla libertà non tenendo conto della situazione particolare di ogni provincia; 2) la parziale attribuzione ai prefetti avrebbe sbloccato la situazione di pesante intasamento dei lavori a livello centrale. Si precisava d’altronde che le opere proibite localmente avrebbero potuto ricorrere al giudizio di una commissione centrale competente nella quale era necessario avvalersi di persone di provata esperienza nel settore, dai critici ai letterati; il materiale sulla riforma della revisione teatrale è raccolto in ACS, Ministero dell’Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 14.

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Un terzo ordine di ragioni era quello che si potrebbe definire municipalistico. Perché Milano, Parma, Napoli (o persino Pontremoli) godevano di supporti statali, e non Potenza, Empoli o Siena? L’idea che tra i comuni dovesse instaurarsi un sacro principio di uguaglianza accompagnava

l'affermazione di quel sistema di uniformità sul quale si sarebbe costruita nel 1865 tutta la normativa comunale e provinciale, e che in un estremo slancio di equità arriverà ad equiparare l’organizzazione del governo della capitale a quella dei comunelli rurali. La discussione parlamentare del 1863 rispecchiava fedelmente quanto era successo dieci anni prima in sede di bilancio dello stato sardo, presenti alcuni dei medesimi protagonisti. Come allora sulla questione si contrapponevano due fronti nettamente contrapposti: chi avversava ogni for-

ma di intervento statale in un campo che si riteneva dovesse essere lasciato alla libera iniziativa dei singoli o al massimo alla responsabilità dei municipi, e chi invece temeva gli effetti sulle già fragili finanze dei grandi teatri di una misura che cancellasse le tradizionali sovvenzioni. E le possibilità di mediazione tra le due posizioni risultavano scarse. Le necessità di economia che improntavano tutta la discussione facevano di fatto propendere per la prima ipotesi, per la cancellazione di spese-privilegio che erano l'esempio di un «caos di munificenza» dai criteri molto opinabili tipi-

co degli antichi regimi. C'era anche chi, come il deputato Mellana, già sostenitore della medesima idea nel Parlamento subalpino, citava a questo proposito il «danno delle molteplici capitali», ossia quello prodotto sullo sviluppo del nuovo stato unitario dalla presenza tipicamente italiana di più centri privilegiati, e sosteneva che la battaglia contro la centralizzazione andava combattuta anche rispetto a quelli. La posizione del ministro Peruzzi era più cauta sull’argomento e propendeva per una almeno provvisoria continuazione dei sussidi perché «il governo che sorge da una rivo-

luzione violenta — sosteneva — non rispetta niente, crea dei nuovi interessi, non

considera gli antichi; ma

noi non

ci

troviamo in queste condizioni» ed anzi abbiamo scelto di rispettare scrupolosamente gli impegni presi, ad esempio i 259

diritti acquisiti dalle tante famiglie che vivono intorno al teatro e che si sentono minacciate dalle nuove proposte. Per non parlare del rispetto più generale che si doveva avere nei confronti della «popolazione di quelle città la quale come quasi tutte le antiche residenze delle Corti cadute dà veramente

ai teatri una importanza che è esagerata forse per

noi, ma che pur nonostante influisce sulla pubblica opinione grandemente». Tutte queste considerazioni andavano tenute in conto, questa la conclusione del ministro, oltre al

fatto che bisognava attendere di votare la legge comunale e provinciale, la legge di perequazione delle imposte e specialmente la legge sul dazio consumo prima di decidere sul da farsi. A quella data il dibattito sulla finanza locale era infatti ancora aperto, e vedeva all’ordine del giorno, prima della sua rapida caduta di fronte alle crescenti difficoltà finanziarie, l'ipotesi avanzata da Minghetti di lasciare ai comuni i proventi del dazio di consumo. L’idea iniziale, che ricalcava quanto fatto dal governo della Toscana nel 1860, era proprio quella di far confluire quelle risorse sulle doti teatrali. La posizione governativa privilegiava in sostanza

l'ottica dei diritti acquisiti, fossero quelli delle masse napoletane use ai sussidi, o dei palchisti milanesi, che avevano sempre commisurato il proprio canone ai contributi pubblici, o delle imprese che nei propri contratti prevedevano appunto la pubblica dote; ed è questo anche l’elemento sul quale nel corso della discussione convergono le voci contrarie all'abbandono delle sovvenzioni. L’unica voce fuori dal coro rimane quella di Pasquale Stanislao Mancini che oppone all’obiezione liberista delle ragioni artistico-culturali di natura nazionale. Quella per i teatri — sostiene in un intervento particolarmente appassionato — andava considerata come una categoria di spesa che riguardava l’intera nazione e non

alcuni singoli comuni,

come

mostrava

l’esperienza

delle grandi capitali europee, dove grazie ad abbondanti sovvenzioni pubbliche ai teatri maggiori trionfava da molti anni anche la musica italiana’. Prima di procedere a cancel22 Prescindendo dal caso francese, dove l’Opéra era da secoli un’isti-

tuzione nazionale di grande prestigio, anche il sistema teatrale in Austria

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lare con un tratto di penna il passato c’era piuttosto da studiare una soluzione alternativa, che consentisse a quei teatri, al momento già in difficoltà, di riprendere con successo la loro produzione artistica; in caso contrario — con-

cludeva con un efficace paradosso — «il nuovo Governo italiano avrà la gloria di chiudere La Scala e il San Carlo». Il peso di questa posizione, autorevole anche se minoritaria, favorisce l'adozione di una soluzione tempora-

nea e provvisoria: alla fine della discussione la voce di spesa sui teatri viene abolita dal bilancio ordinario dello stato ma rientra in quello straordinario, ancorché ridotta, in attesa di

una decisione circa le modalità della sua cancellazione. Curiosamente, le conclusioni cui dovevano giungere di lì a poco i lavori della commissione incaricata di quello studio avrebbero riportato in vigore l’opinione contraria, prefigurando un possibile mutamento di fronte e mostrando quanto la questione fosse ancora controversa”. Il deputato Luigi Torrigiani, incaricato di relazionare sul quesito pregiudiziale («conviene che lo stato sussidi alcuni teatri nello stesso modo che sussidia alcune università, alcuni collegi, istituti, conservatori?»), ottiene infatti il consenso della

maggioranza della commissione sull’idea che l’attività dei grandi teatri andava considerata, insieme allo sviluppo complessivo delle arti belle, alla stregua di un pubblico servizio; soprattutto, sosteneva, nelle condizioni attuali in cui la libera iniziativa di cittadini e municipi si rivelava del tutto insufficiente a garantire il necessario sostegno allo sviluppo dell’arte musicale e drammatica?'. Era stato proprio il regie in Germania era basato sull’erogazione di cospicue sovvenzioni governative ai grandi teatri che in Germania costituivano l’eredità diretta degli impegni presi in precedenza dalle corti. Il sistema funzionava però in modo molto diverso perché si articolava intorno ad un repertorio vasto, ripetuto per stagioni anche nel medesimo allestimento da orchestre e cori stabili. La cosa sarebbe stata impensabile in Italia, così pensava anche Verdi, dove il pubblico era troppo abituato ai nuovi allestimenti e a messinscene sfarzose sempre diverse; cfr. F. Nicolodi, Orizzonti musicali italo-europei, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 37 ss. 3 1 lavori della commissione sui teatri del 1863-64 sono raccolti in ACS, Ministero dell’Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 12.

24 Torrigiani, che non a caso rappresentava una realtà come Parma

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me dei sussidi — queste le sue conclusioni — a permettere il grande sviluppo dell’arte vocale italiana e la sua diffusione nel mondo, imponendo il sistema delle opere nuove, favorendo una produzione intensa e garantendo allestimenti di alta qualità. Bisognava piuttosto rivedere in modo più controllato e mirato al vantaggio dell’arte il sistema di erogazione dei sussidi stessi. Le conclusioni cui era giunta la commissione furono però subito accantonate, come anacronistiche rispetto ad una decisione presa che non meritava più di essere discussa,

e il dibattito viene fatto rientrare nei binari precedenti: i diritti acquisiti da un lato, l’avversione pregiudiziale ai sussidi dall’altro?. La diversità delle situazioni in questione, così come veniva descritta nelle molte relazioni prefettizie che si susseguono in questi anni, non facilitava certo l'adozione di una soluzione omogenea. Da un lato un teatro di corte in buone condizioni e ben sussidiato, in un centro piccolo e marginale come

Parma? Dall’altro una struttura come la Scala, vero tempio della musica nazionale, che il governo austriaco aveva ampiamente sovvenzionato anche con assegnazioni straordinarie e

intorno al quale orbitava un giro commerciale importante che andava dagli editori di musica alle agenzie teatrali, dai laboratori di sartoria a quelli per le scene e l’attrezzeria. Infine il San Carlo, un teatro nato con grandi ambizioni ed ora in avanzato declino, dove risultava ormai prioritaria la questione delle masse. Collegati alla vita di questi ultimi e ai sussidi statali era poi l’esistenza di alcune orchestre stabili e quella dove le sovvenzioni al teatro avevano una lunga tradizione, si dice contrario a «quella scuola economica rigidissima» che si propone «di restringere gli uffizi del Governo di un paese alla tutela delle persone e delle cose, lasciando ogni altro compito, comunque di interesse generalissimo, alla libera iniziativa dei cittadini sussidiati dai benefizii dell’associazione», cit. in ‘bidem. 2 Lettera del Capodivisione al ministro, 16 aprile 1864, in ACS, Ministero dell’Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 12.

26 Nel teatro lavorava un corpo di 164 dipendenti; da sempre l’unica stagione realmente attiva e importante era quella di carnevale, quando la città si animava, gli alberghi erano affollati di forestieri e tutti, con anche troppo lusso nota il prefetto, vanno a teatro.

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delle scuole di ballo di Milano, Torino e Napoli, istituti importanti per la vita musicale del paese. Non è un caso che la reazione più forte e preoccupata ai recenti sviluppi legislativi venisse da Milano. Qui anche il prefetto, sollecitato da un memoriale della commissione amministrativa che preannunciava battaglia aperta da parte dei palchisti, aveva inviato al ministero una relazione in cui sottolineava il rango nazionale della Scala e la sua importanza

per la vita musicale italiana’. Da Parma la relazione prefettizia parlava dell’abitudine di questo pubblico agli allestimenti grandiosi tipici di una realtà di corte e rilevava nella classe dirigente locale una sorta bile anche alla nuova situazione mazione di alcuni grands opéra stosi, unita all’afflusso ancora

di disorientamento, imputadel teatro. Qui la programfrancesi particolarmente co-

modesto del pubblico dal

contado e dalle città vicine, avevano messo ripetutamente in

difficoltà l'impresa appaltante che richiedeva sussidi straordinari. «In una città — scrive il prefetto — dove si è sempre attribuita grande importanza allo spettacolo di carnevale [...] in altri tempi di fronte a cotal pericolo (la chiusura del

teatro) le casse dello stato non rifiutavano un supplemento di dotazione». Insomma la corte usava intervenire per coprire ammanchi eccezionali, soprattutto se, come era stato

in quell’anno, gli spettacoli avevano mantenuto un buon livello di qualità. Ma ora anche questa considerazione, la soddisfazione del proprio pubblico, non sembrava smuovere il ministero dai suoi impegni di bilancio e il supplemento di dotazione richiesto non viene concesso, tanto che la com27 Nel maggio 1863 il capodivisione Miraglia sottolineava come la cessazione del sussidio avrebbe prodotto un «tristissimo effetto» in tutte le classi della popolazione milanese e soprattutto «avrebbe avuto l’apparenza di una completa trascuranza per parte del Governo dei dritti acquisiti e degli interessi loro. Darebbe poi troppo facile appiglio ai nemici dell’attuale ordine di cose». Infatti sarebbe stato molto facile notare che il governo austriaco si era preoccupato costantemente di mantenere alto il tenore degli spettacoli in quel Regio Teatro mentre quello italiano si rifiutava di farlo. Cfr. Relazione al ministro sullo stato dei teatri demaniali, Torino, 6 maggio 1863, in ACS, Ministero dell’Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 11.

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missione

amministrativa

decide di intervenire in proprio

pagando almeno un sussidio agli artisti più bisognosi?8. Proprio da Napoli era giunta invece, non troppo sorprendentemente, l’unica relazione prefettizia che pareva credere negli effetti positivi della cessione al municipio e ne sollecitava la rapida attuazione??. «Solo il Municipio — scriveva il prefetto in una relazione riservata al ministro — può risolvere la questione delicatissima delle masse, un’enorme moltitudine che assorbisce oltre i due terzi della dote annua. Il Municipio conosce dappresso le condizioni di ogni individuo e può ottenere economie». La sua opinione era che solo localmente si potesse attuare quell’epurazione che le autorità centrali sollecitavano da anni ma che fino ad allora non aveva ottenuto grande successo. Il Teatro del Fondo invece, continuava il prefetto in linea con le menzionate opinioni liberali, avrebbe potuto essere convenientemente ceduto ad un privato speculatore con il quale avrebbe funzionato assai meglio. L’intera vicenda sembra trovare infine il suo epilogo scontato nel progetto di cessione dei teatri e delle relative scuole di ballo ai municipi presentato dal ministro Chiaves il 27 febbraio 1866’, La cessione doveva intendersi limitata all’uso dei teatri stessi, già di per sé molto onerosa, e non alla proprietà degli edifici che sarebbe rimasta demaniale fino a quando non si procedesse ad un vero e proprio passaggio di proprietà. Questo rispondeva, secondo la relazione, ad una direttiva di massima

che il nuovo

stato aveva

ormai assunto e di fronte alla quale tutte le considerazioni sul sostegno pubblico alle arti belle dovevano cadere: quella 28 Nota del prefetto, Parma, 29 gennaio 1867, in ACS, Ministero dell’Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 9. All’ennesima richiesta del prefetto,

il ministero concedeva infine per la stagione successiva un anticipo sulla dote, ma più che un avvicinamento alle esigenze locali sembrava trattarsi di una misura compensativa rispetto a quanto fatto per il San Carlo, che in vista del viaggio a Napoli dei principi di Savoia neo sposi aveva goduto di un contributo speciale per un corso di spettacoli di buon livello. 2? Relazione riservata del prefetto al Ministro dell'Interno, 4 agosto 1865, in ACS, Ministero dell’Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 5.

30 Camera dei deputati, Registro IX, I sessione 1865-66, vol. V, Firenze, eredi Botta, 1866, pp. 1-7.

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di limitare strettamente l’intervento della propria amministrazione agli interessi generali della nazione, lasciando quelli particolari alle cure delle autorità locali. Se allora la spesa dei teatri era senza alcun dubbio municipale — così, lapidariamente, concludeva il testo — altrettanto indubbia risultava la sua natura di spesa facoltativa, dal momento che valeva per alcuni e non per tutti i comuni. I municipi avrebbero

dunque provveduto alla dote per i grandi teatri se e come avrebbero creduto, dopo un congruo periodo di transizione che vedesse gradualmente decrescere nel successivo quadriennio l’intervento finanziario dello stato?!. Nella primavera di quell’anno, però, altre emergenze monopolizzavano l’interesse politico: la nuova guerra alle porte, l’avvenuto trasferimento della capitale, il cui costo era stato superiore alle aspettative, l'impegno finanziario assunto su altri terreni, in particolare l’esercito e le infrastrutture, fanno sì che la questione venga accantonata ad un

passo dall’approvazione. Quando il dibattito sui teatri riprende in Parlamento, l’anno successivo, la necessità di ta-

gliare le voci più controverse del bilancio supera ormai ogni considerazione di gradualità e di prudenza nella cancellazione delle doti e la spesa per i teatri viene semplicemente cassata dal bilancio del ministero, seguendo la sorte di altre spese statali che vengono trasferite ai bilanci locali (così le competenze dello stato civile, alcune spese giudiziarie, i costi delle elezioni, gli alloggi dei prefetti)??. Dopo le lunghe discussioni di questi anni, gli studi della commissione e le numerose indagini prefettizie, la spesa per i teatri scompare così dal bilancio dello stato senza che alcun intervento legislativo provveda ad un riordinamento organico del sistema, che lasciato completamente a se stesso rischierà il collasso. 31 A seguito del progetto una ennesima circolare ai prefetti interessati richiedeva nel settembre 1866 dati precisi sul valore degli edifici, sui motivi di pregio al loro interno, sull’attività, sulla loro importanza in termini di sviluppo artistico, sul movimento industriale e commerciale che si articolava intorno alla vita teatrale; i dati raccolti, molto interessanti, sono in ACS, Ministero dell'Interno, Teatri e scuole di ballo, b. 13.

32 Cfr. F. Volpi, Le finanze dei comuni e delle provincie del Regno

d'Italia (1860-1890), Torino, Ilte, 1962.

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Nelle quattro città interessate la questione del teatro riempie in questi mesi le pagine dei giornali locali, ma il tema è in grande evidenza anche sulla stampa nazionale, sui periodici di settore o sulle pagine del primo numero di «Nuova Antologia», dove il critico Francesco D’Arcais individuava nella soluzione municipale l'opportunità di un ammodernamento complessivo del sistema sulla base di orchestre, cori e repertori stabili, come accadeva in area tedesca”.

I palchettisti milanesi costituiti in consorzio iniziano le pratiche legali già preannunciate contro l’illegittimità del provvedimento rispetto agli impegni assunti dalla pubblica autorità al momento della costruzione del teatro nel 1778. A Parma il municipio aveva cercato di reagire con un con-

tro-progetto che prevedeva una forma di condivisione delle spese per il teatro tra comune, provincia e stato, ma aveva ricevuto un immediato rifiuto dal ministero”. Nel carnevale del 68-69 la situazione finanziaria del locale teatro è talmente critica da non consentire l'allestimento di alcuna opera, ma solo di alcune rappresentazioni drammatiche. Negli anni successivi, grazie ad una dote congiunta comunale e provin-

ciale, il teatro avrebbe ripreso la programmazione, pur ri-

ducendo il numero degli allestimenti, ma il peso delle ristrettezze finanziarie avrebbe avuto ricadute strutturali importanti come la soppressione nel 1875 dell'orchestra stabile, quella stessa che Maria Luigia aveva voluto riorganizzare nel 1834 secondo i migliori esempi europei incaricandone Niccolò Paganini”. A Napoli le trattative tra il ministero e il consiglio co3 F. D’Arcais, I/ teatro musicale in Italia, in «Nuova Antologia», 1, gennaio 1866, p. 120.

34 Il progetto, deliberato dal consiglio comunale il 15 maggio 1868, è pubblicato sulla «Gazzetta di Parma» del 18 maggio. Il ministero però ribadisce di aver cancellato ogni voce di spesa per ì teatri dal proprio bilancio e con ciò chiude immediatamente il caso. » L’istituzionalizzazione delle orchestre sinfoniche — e delle loro stagioni concertistiche — era avvenuta in molte capitali europee (Parigi, Londra, Lipsia) nel corso degli anni "20; in Italia la forma concerto si affermerà, costruendosi un proprio pubblico, solo a fine secolo. L’intervento di Paganini sull’orchestra ducale parmense, che prefigura già negli anni ’30 l’idea del concerto in abbonamento, rimane del tutto isolato e

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munale sulla cessione dell’uso del teatro trovano ancora nel 1870 notevoli difficoltà a decollare e il teatro rimane privo di dote?. Inizialmente il consiglio aveva cercato di sottrarsi all'impegno di gestire un’azienda così complicata e imprevedibile ma le pressioni provenienti dal ministero e dalle masse teatrali avevano indotto la rappresentanza comunale a cambiare atteggiamento e a deliberare un contributo annuo per il teatro. Per le masse la crisi del teatro, così si legge in un memoriale di quell’anno, andava vista infatti come una vera sciagura cittadina, che unita alla scarsità delle feste religiose privava completamente di lavoro una vera moltitudine di persone”. Se si considera che è questo il periodo in cui inizia il forte indebitamento dei grandi comuni, costretti a far fronte a risorse calanti, attribuzioni crescenti e a nuove ambizio-

ni di interventismo urbanistico, si può comprendere come le strutture teatrali, anche quelle non demaniali, vengano direttamente coinvolte negli squilibri finanziari di questi anni. Il tentativo di imporre al settore una sorta di modernizzazione accelerata attraverso l'assunzione di un’ottica di mercato era stato infine imposto dai condizionamenti finanziari sen-

za che un qualche progetto di riforma investisse un sistema che rimaneva così regolato dal solo codice commerciale e sul quale cadeva la scure fiscale. In questo contesto va collocato lo sfogo di Verdi che da S. Agata in quei giorni scriveva: Cosa singolare! Quando l’Italia era divisa in tanti piccoli stati le finanze di tutti erano fiorenti! Ora che tutti siamo uniti, siamo rovinati. Ma dove sono le ricchezze di una volta?!8 andrà incontro ad un sostanziale insuccesso. Quella orchestra avrebbe

mantenuto però un’ottima fama nel quadro non eccelso della situazione italiana. Cfr. M. Conati e M. Pavarani, Orchestre in Emilia Romagna nell'Ottocento e Novecento, cit.

36 Per la questione della cessione del teatro al municipio cfr. la documentazione in ASN, Prefettura di Napoli, b. 1103.

3 Lettera al prefetto degli appartenenti alla «famiglia teatrale del S. Carlo», 12 giugno 1870, in ACS, Ministero interno, Teatri, b. 8.

38 Cit. in Verdi intimo, Carteggio di Giuseppe Verdi con il conte Opprandino Arrivabene (1861-1886), raccolto e annotato da A. Alberti, Milano, Mondadori, 1931, pp. 78-79.

247

3.

La crisi dei teatri di città

Possiamo ora ritornare al punto da cui abbiamo cominciato con una diversa cognizione di causa. Il censimento dei teatri che il MAIC aveva organizzato nel 1868 e di cui mi sono servita nel primo capitolo aveva lo scopo di delineare un quadro di quella particolare industria dello spettacolo che tanto si era sviluppata nei decenni precedenti avendo come perno i luoghi teatro e che proprio in quanto industria viene sottoposta nel corso degli anni ’60 al pagamento di una serie di nuovi tributi: quello sulle licenze commerciali, la tassa sugli introiti lordi, che solleverà un grosso polverone tra gli addetti ai lavori”, il corrispettivo dei diritti d’autore sulle opere d’ingegno‘, e in Toscana anche una tassazione sulle quote accademiche, a proposito della quale si apriranno lunghi contenziosi". Era legata alla normativa sul diritto di autore, e non a strategie politiche di ordine culturale, anche la necessità di classificare i teatri tra sale di primo, secondo o terz’ordine, un fatto che produce più malu-

mori nelle élite locali eventualmente declassate che non conseguenze sulla programmazione e gli allestimenti” Il censimento è indetto proprio per farsi un’idea della consistenza e della distribuzione delle strutture teatrali in attività, in vista dell’applicazione della nuova legge sui diritti d’autore, che si era rivelata subito piuttosto macchinosa. Vediamo perché. Il testo di legge stabiliva che gli uffici comunali inviassero all’ufficio centrale competente dei rap-

porti trimestrali in cui fossero elencati con il nome dell’autore e il titolo preciso tutte le opere musicali e drammatiche rappresentate nella provincia e l'ammontare degli introiti prodotti. Il regolamento del 1867 aveva poi specificato nei dettagli un meccanismo di «tutela municipale» sulla riscossione di quei diritti, in cui si prevedeva che ogni municipio 39 Su questa nuova tassa e il teatro come «opifizio» si veda E. Rosmini, Le gislazione e giurisprudenza teatrale, cit., pp. DI SS ? Cfr. nota 9 del capitolo primo. 4! Cfr. A. Grandini, Cronache musicali del ji Petrarca, cit., p. 175. oi Vedi in appendice l'elenco dei teatri classificati di primo e secondo ordine.

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provvedesse a riscuotere giorno per giorno i premi control-

lando gli introiti serali di ogni teatro, abbonamenti compresi, e trattenendone per sé una piccola quota per le spese. Com'è facile immaginare una gran quantità di comunicazioni di sindaci e assessori competenti avevano iniziato a riversarsi sul ministero per chiedere lumi intorno ad una normativa che si riteneva nella sostanza inapplicabile. Alcuni municipi più grandi, come quello di Torino, avevano assunto una posizione di protesta aperta, rifiutandosi di adempiere a quelle mansioni e interpellando il Consiglio di stato sulla legittimità del provvedimento. Molti altri avevano scritto al ministero lamentando il fatto che i comuni, privi com’erano di quel potere di controllo sui teatri che era invece esercitato dall’autorità politica, non avevano alcuna capacità di farsi ascoltare da impresari e direzioni delle sale, e talvolta non riuscivano nemmeno ad ottenere il libero accesso alla sala per i propri rappresentanti*. Dall'altra parte, quella degli intestatari dei diritti, si lamentava invece che dopo essere stata attesa per tanti anni ora la legge pareva rimanere lettera morta. E anche su questo fronte c’era chi non si limitava a protestare ma procedeva per vie legali, come l’editore Ricordi che nel 1868 aveva deciso di porre di fronte al Tribunale di Napoli la questione della mancata riscossione dei diritti sulla rappresentazione a Castellammare di Stabia di due sue opere, Maria di Rohan e il Ballo in maschera, riuscendo ad ottenere il riconoscimento della re-

sponsabilità municipale. Preso tra i due fuochi, municipi e autori-editori, il ministero si era deciso infine a inviare una

circolare sia ai comuni interessati che ai maggiori editori di musica e teatro riconoscendo i molti inconvenienti che si erano registrati e la necessità di rivedere la legge tenendo conto delle proposte fatte dagli interessati. Si era giunti così ad un nuovo testo che nel 1875 aboliva la tutela muni4 Così ad es. l'Ufficio di polizia urbana del comune di Ancona al Ministro di Agricoltura, Industria MAIC, Divisione III, b. 2.

e Commercio, 12 marzo 1870, in ACS,

44 E, Rosmini, Legislazione e giurisprudenza teatrale, cit., pp. 469-471. %.MAIC, Circolare ai sindaci di Alessandria, Bologna, Brescia, ecc., 19 gennaio 1870, in ACS, MAIC, Divisione III, zi

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cipale sancendo che nessuna rappresentazione poteva avvenire senza il diretto consenso dell’autore o degli aventi diritto. Nelle intenzioni, doveva essere l'occasione buona per arrivare alla costituzione di apposite associazioni tra autori, come già succedeva in Francia, che tutelassero quei diritti. È un esempio ulteriore, molto simile nel suo decorso a quello avvenuto per la censura, di come il nuovo stato si fosse trovato a gestire e a tentare di normare in modo uniforme un settore particolarmente arretrato e tenacemente consuetudinario, e di come avesse infine prevalso una soluzione di compromesso tra esigenze in realtà molto diverse tra loro: l’uniformazione normativa da un lato e la diversità delle situazioni locali dall’altro, il controllo politico delle autorità centrali e l'efficienza amministrativa, nel quadro di una vaga propensione alla liberalizzazione delle iniziative. Nei primi due decenni che seguono l’Unità ciò finisce per dare il via ad una catena di tentativi legislativi che si susseguono l’un l’altro sollevando intorno al settore una sorta di polverone giuridico e moltiplicando le controversie giurisprudenziali. A dibattersi in queste difficoltà di adeguamento ad un quadro normativo in continua evoluzione non erano dunque soltanto i teatri maggiori, ma tutto quel sistema teatra-

le puntuale e articolato sul territorio che a lungo era stato tenuto insieme soltanto dai circuiti impresariali e che ora mostrava segni evidenti di crisi. Bisogna dire per la verità che nei primi anni postunitari si individuavano in quel quadro due dinamiche apparentemente contraddittorie, cioè da un lato il declino di molte

sale di provincia — nelle quali il pubblico scarseggiava, non

arrivavano più le novità operistiche del momento

e gli

allestimenti risultavano più scarsi nei decori come nelle voci — e dall’altro una nuova fase costruttiva che è ben visibile 4° Dopo una dere tra il 1879 vale tra il ’72 e dell’annosa lite

sopravvivenza difficile il Carlo Felice è costretto a chiue il 1883; La Fenice rinuncia a dodici stagioni di carneil '97; La Pergola versa in gravi difficoltà per il protrarsi tra gli accademici e il comune circa la dote che nel 1877

viene infine del tutto negata; cfr. F. Nicolodi, I/ teatro d'opera e il suo

pubblico, cit., p. 268.

250

nel solito censimento, dove i teatri che aprono in questa fase sono ben 198. Ma basta avvicinare lo sguardo per rendersi conto che si tratta di una situazione abbastanza diversa da quella di inizio secolo. Al nord e al centro aprono soprattutto molte grandi arene, strutture di legno spesso situate fuori dalle barriere urbane, che i dati prefettizi dicono dedicate a «spettacoli vari, anche equestri», e i primi politeama, sale capaci di ospitare tra i 2 e i 3.000 spettatori che cresceranno

poi notevolmente di numero nel decennio successivo. Sono iniziative promosse per lo più da investitori privati, i quali rispondono ad una domanda di spettacolarità diffusa e popolare alla quale si offrono prezzi particolarmente modici e prevalentemente generi leggeri, dall’operetta al vaudeville, anche se non mancano le incursioni nel genere operistico. La zona che ne vede inaugurare un maggior numero è ancora una volta la Toscana‘, dove comincia a intravedersi la

parabola discendente di quella forma tipicamente locale che era il teatro accademico e molti di questi ultimi iniziano ad adeguarsi ai tempi nuovi col mutare la propria inconfondibile denominazione. Ma il fenomeno delle arene e dei politeama è geograficamente diffuso. Solo ad Ancona ne aprono tre in pochi anni, a Cremona inaugura il Ricci, a Spezia il teatro di Varietà, a Pavia il Guidi, a Modena sia l’Aliprandi che il Goldoni, a Udine il Minerva, e ne ritroviamo in costruzione in questi anni anche in centri non capoluoghi di provincia come Voghera, dove apre un’arena da 500 posti, o Volterra

che ne ha una da 1.000 spettatori. AI sud invece la nuova tornata di costruzioni è legata allo sblocco di situazioni incubate da tempo ma arrestate dalle molte difficoltà che erano state create intorno ad ogni nuova iniziativa teatrale a partire all’incirca dalla metà degli anni °40. Grazie ad una nuova fase di espropri, oltre che alla legge del ’66 sull’incameramento dei beni ecclesiastici, l’edilizia teatrale municipale riprende qui con una certa ampiezza e vede la realizzazione delle sale di Caltanissetta e di Aci 4 Alcuni esempi: a Firenze inaugurano l'Arena Nazionale, il Politeama e l'Arena Morini; a Pistoia il Matteini, a Siena il Montemaggi, a Livorno il Labronica, tre ne risultano in costruzione in provincia di Pisa.

251

Reale, o l’edificazione di quattro piccole sale in Terra di Bari e nel Molisano. Si sbloccheranno più tardi invece le situazioni complesse di Catania e di Siracusa", particolarmente indicative dell’alto grado di conflittualità fazionale che intorno all’operazione teatro poteva scatenarsi, mentre si avvia nel

1864 la vicenda concorsuale che porterà alla costruzione del Massimo di Palermo, edificio esemplare e in qualche modo conclusivo della parabola della sala all’italiana. Si conclude dunque, nelle zone che per vari motivi ne erano state meno toccate, il boom edilizio teatrale che si era

messo in moto nei primi anni della Restaurazione, ma ciò avviene proprio mentre si impone il declino graduale del modello del teatro di città che ne era stato senza dubbio il perno. Le sale in cui il trauma dell’unificazione risulta più forte e immediato sono quelle in cui la vita del teatro si collegava strettamente ad una fiera periodica e intorno a questa e al suo grande movimento di viaggiatori costruiva la propria stagione. Così a Senigallia, dove la perdita delle franchigie della fiera e la crisi del teatro procedono in parallelo‘?, o a Foggia per la fiera di maggio, o a Reggio Emilia dove la fiera della Ghiara significava l'annuale trasferimento della corte nella seconda capitale e una vasta mobilitazione di gente e di merci non solo dal contado. Non c’è troppo da stupirsi, scriveva sulla «Gazzetta di Bergamo» un anonimo articolista nell’agosto del 1862, se gli spettacoli del teatro Riccardi erano risultati nelle ultime stagioni così modesti per l'esiguità dell'orchestra, la povertà delle scene, la miseria dei cori. La fiera di S. Alessandro non era a quel punto niente più che un mercato, dove accorrevano per abitudine solo provinciali e valligiani. 48 A Siracusa la prima pietra del nuovo teatro di cui si parlava da decenni fu posata nel 1872, nel giorno natalizio di Vittorio Emanuele II, ma l’edificazione continuava ad essere politicamente controversa tanto che l'inaugurazione avvenne solo nel maggio del 1897. Cfr. A. Loreto, Genesi sofferta di un teatro. Il Massimo Comunale di Siracusa, Siracusa, Romeo editore, 1997. 4° Gli sforzi di recuperare parte del proprio appeal turistico si rivolgeranno verso ambiti diversi dal teatro, sfruttando l’attività della appena costituita Società per azioni Stabilimento Bagni, cfr. A. Albani, M. Bonvini Mazzanti e G. Moroni, I/ teatro a Senigallia, cit., pp. 83 ss.

252

Negozianti e viaggiatori di altre province non possono ormai essere più attratti da Bergamo, né dal nostro Commercio, né dalla celebrità d'uno spettacolo teatrale possibile appena quando il Comune potrà dare al Teatro una dote di 20 mila franchi. Ora abbia o no l’impresario i 4 mila franchi dal Comune, lo spettacolo non potrà mai essere che gramo, e adatto appena a farci passare la serata alla buona, ed in famiglia e nulla più.

Per attrarre pubblico agli spettacoli l'impresa si troverà ad escogitare negli anni seguenti una lotteria che coinvolgeva chiunque acquistasse il biglietto d’ingresso. Come si spiega dunque che la vita dei teatri di città fosse così stentata dopo l’unificazione? Da un lato va tenuto conto del fatto che le difficoltà in cui si trovavano i grandi teatri, sottoposti ogni anno all’incertezza circa la pubblica sovvenzione, si riflettevano sull’intero circuito impresariale

e quindi anche sui teatri minori. D'altro canto risulta evidente che alla crisi dei teatri di provincia contribuivano elementi interni che andavano dalla crescente debolezza finanziaria dei municipi, se non proprietari quasi sempre com-

proprietari dei teatri di città, fino ad una generale contrazione del pubblico, di cui costantemente si lamentavano gli impresari e le deputazioni, fenomeni che uniti all'aumento delle spese fiscali prodotto dalle nuove normative accentuavano la precarietà di un sistema già segnato da una cronica fragilità finanziaria. Da Varese, dove pure il recente collegamento ferroviario faceva sperare in una maggiore vivacità di

circolazione, l’impresario appaltante segnalava «la scarsità degli abbonati, la nessuna affluenza dei commercianti del paese, la totale mancanza di presidio militare» che aveva privato il teatro del suo pubblico più costante??. Da Rovigo sappiamo che i soci comproprietari del Teatro Sociale continuavano

a diminuire, mentre le spese crescevano.

Quasi

dappertutto viene sottolineata la diminuzione degli abbonati, dei palchisti e dei militari, cioè di quel pubblico di pabitués, su cui gli impresari maggiormente contavano. A Brescia dal 50 «Gazzetta di Bergamo» del 12 agosto 1862, cit. in E. Comuzio, I/ Teatro Donizetti. Due secoli di storia, Bergamo, Lucchetti, 1990, p. 149. 51 Cfr. P. Macchione, Due secoli di teatro a Varese, cit., p. 176.

253

1874 anche il Teatro Guillaume programmava stagioni d’opera, in aperta concorrenza col Teatro Grande, e altrettanto

succedeva a Cagliari, dove il Civico soffriva la concomitanza delle rappresentazioni del nuovo diurno, che con i suoi spettacoli vari attraeva un pubblico numeroso fatto soprattutto di negozianti, arrivando ad adeguare i propri orari ai loro impegni”. Per di più in quegli anni aveva aperto i battenti nella città sarda il Casino commerciale, un nuovo luogo di riunione della borghesia locale che finiva per soppiantare quel ruolo affaristico-mondano a lungo giocato dal teatro. A diminuire l'afflusso ai teatri di città e alle loro stagioni d’opera contribuiva insomma il moltiplicarsi delle sale alternative e degli spettacoli leggeri, sui quali ormai non incombeva più il

divieto di rappresentare in concomitanza al teatro maggiore, clausola che a lungo aveva fatto parte dei capitolati di appalto. Ma un qualche ruolo nell’allentare la frequentazione un tempo quasi quotidiana al teatro lo giocava anche la crescita di un sistema più articolato di sociabilità, nel quale le occasioni di incontro erano più diversificate e specializzate del passato”. Se si considera infine che l'affermarsi di nuove forme di svago, più moderne del teatro, portavano «i ricchi e quelli che voglion parer tali», fuori dai grandi centri verso le mete della villeggiatura, verso i bagni marini o i viaggi all’estero”, si capisce anche come le stagioni operistiche estive e autunnali divenissero sempre più corte e finissero per attrarre ben pochi spettatori.

I teatri di provincia tendono a reagire alle crescenti difficoltà finanziarie in cui si dibattono in questi anni sia con l'aumento dei prezzi di ingresso, sull'onda di quanto avve?2 Per questo il venerdì gli spettacoli erano spostati dalle cinque alle sette per dar tempo ai commercianti che in quel giorno dovevano trattenersi negli scagni più a lungo per la partenza del vapore verso il continente di raggiungere la sala in tempo. Cfr. F. Ruggieri, Storia del Teatro civico di Cagliari, cit., pp. 138 ss. ?. Siamo ormai di fronte, scrive Marco Meriggi, ad «una galassia associativa dalle caratteristiche incomparabili rispetto a quelle tipiche della prima metà del secolo» (M. Meriggi, Mz/ano borghese, cit., p. 187). °4 Così scriveva il critico Francesco D’Arcais qualche anno più tardi, nella sua periodica Rassegna musicale e drammatica su «Nuova Antologia», 10 settembre 1889, p. 369.

254

niva nei teatri maggiori, che con la richiesta di un maggiore coinvolgimento finanziario rivolta alle due voci interessate all'impresa teatrale fin dalle sue origini: e cioè i municipi — a cui le direzioni richiedevano di prelevare la proprietà dell’edificio, se già non la possedevano, o di aumentare i sussidi — e i palchisti, che soprattutto a partire dagli anni ’70 si vedono domandare o imporre, a seconda dei casi, l’aumen-

to dei canoni annui. Anche se doveva essere chiaro a tutti che la dote municipale e il canone dei palchi costituivano da sempre le due maggiori fonti di entrata dei teatri, quelle che avevano consentito la sua costruzione, ma anche la ma-

nutenzione e la gestione, il fatto è che l’aumento e la redistribuzione dei costi che i tempi sembravano richiedere incontrano in entrambi i soggetti resistenze forti, che spesso si trasformano in contenziosi più che decennali, a riprova di come quel particolare meccanismo pubblico-privato su cui si erano basati fino a quel momento fosse entrato irreparabilmente in crisi. Come abbiamo notato per i processi costruttivi anche le dinamiche di questo graduale declino si ripetono con forti analogie di città in città e ci consentono di individuarne un

andamento generale, che non esclude vi siano poi esiti e percorsi diversi in ogni situazione locale. Ad Arezzo come a Piacenza il municipio autorizza l'impresa ad aumentare i biglietti d’ingresso, da decenni pressoché immutati, suscitando grande malumore nella cittadinanza. A Reggio Emilia come a Cagliari il comune propone ai proprietari dei palchi un aumento stabile del canone annuo ma riceve un netto rifiuto. A Reggio si aprirà in proposito una lunga controver-

sia giuridica, mentre nel capoluogo sardo molti decidono di affittare i propri palchi. A Mantova come a Cesena la questione della dote al teatro divide il consiglio comunale, tra

la condanna ad un divertimento che appare concepito per pochi e la difesa degli interessi dei molti che intorno alle stagioni teatrali trovavano occasioni di lavoro. Sono gli spunti iniziali di un lungo braccio di ferro che si protrae in crescendo nei decenni seguenti e fino all’inizio del Novecento, in un contesto che eccede i limiti cronologici del mio lavoro. E che si giocava su due fronti: da un lato la contesa 255)

municipio vs palchisti, sempre meno disposti a spendere cifre annuali considerevoli per uno status syrzbol che co-

minciava a perdere di attrattiva e di esclusività; dall’altro, all’interno della rappresentanza municipale, la contesa che passava tra favorevoli e contrari alla continuazione dei sussidi ai teatri. È quanto succede, in modo esemplare, alla

Fenice dove il consiglio comunalesneli4872/aveva»sifiutato di continuare ad erogare il contributo annuale che forniva al teatro ininterrottamente dal 1819, e che ora viene etichettato come spesa di lusso e cancellato dal bilancio, mentre i palchisti a loro volta decidono di non acconsentire all’aumento dei canoni, ritenuti già troppo elevati. Canoni così elevati — leggo nel discorso pronunciato in quell'occasione di fronte all’assemblea dei soci — hanno due funestissime conseguenze, che un gran numero non gli paga, e molti rinunciano alla proprietà del palco. Le rinunce presentate in questo anno sono diciassette. Dove finiremo, signori, di questo passo?”

Si consuma così in queste lunghe discussioni senza uscita la crisi di un sistema che si era sviluppato nel corso del Settecento e aveva permesso nel secolo successivo la diffusione capillare lungo la penisola delle sale teatrali?°. Sulla condivisione di responsabilità tra famiglie nobili locali ed eventualmente autorità municipali si era fondata l’impresa della costruzione e della gestione dei teatri, come spazi cittadini dedicati allo svago che l’assetto gerarchico della sala % Teatro La Fenice, Discorso pronunciato all'adunanza sociale del 1° aprile 1872 in seguito al rifiuto del consiglio comunale di concorrere in qualsiasi misura alla somma necessaria per aprire il teatro nell'inverno venturo, Venezia,

1872.

26 Una via d’uscita si troverà più tardi in alcuni comuni, ad esempio a Reggio Emilia, in una politica di popolarizzazione dei prezzi, che si impone però solo nel momento in cui viene accettata dalla pubblica opinione l’idea del teatro come servizio culturale offerto a tutti i cittadini. All’inizio del Novecento si sperimenterà poi, nei grandi teatri, una nuova soluzione gestionale, cioè la loro trasformazione in società anonime di tipo commerciale, accompagnata da una programmazione più varia e aperta ai generi minori e da una modificazione delle strutture della sala con l’aumento dei posti di galleria. Cfr. Relazione programmatica e statuto per la trasformazione in Anonima della Società Proprietaria del Teatro La Fenice in Venezia, Venezia, 1906.

256

all'italiana permetteva di mantenere almeno virtualmente aperti all’intera cittadinanza. Una sorta di esigenza civica, che corrispondeva in realtà ad una palese identificazione del teatro con l’immagine di sé, aveva a lungo collegato i notabilati locali a quell’impresa e ad un edificio monumentale a cui si era provveduto inizialmente senza badare troppo a spese e quasi sempre superando abbondantemente il budget previsto. Di quel sistema, che da nobile era rapidamente diventato notabilare, ora vengono a mancare i presupposti: i municipi, oberati da carichi più gravosi e da problemi più urgenti di governo urbano, tendono a liberarsi della responsabilità delle sale, troppo delicata e costosa, mentre la proprietà del palco finisce per mostrare di fronte ad un calcolo strettamente economico tutta la sua incoerenza. Non erano passati molti anni da quando il conte Saladino Saladini Pilastri illustrava al consiglio comunale di Cesena con la sua migliore capacità oratoria, è con lui che abbiamo aperto il volume, tutta l’importanza e quasi l’ineluttabile necessità di un edificio teatrale al passo coi tempi, grandioso e dispendioso quanto bastasse; ma le cose intorno al teatro erano notevolmente mutate. La discussione che si sviluppa a Brescia intorno alla sorte del Teatro Grande, da inizio secolo fonte di orgoglio per la città oltre che luogo principale della sua vita sociale, ci mostra con sufficiente chiarezza come fossero cambiati i termini della questione e come appunto la tradizionale sala all’italiana del teatro di città, riproposta e riattualizzata con la Restaurazione, non rispondesse più alle esigenze della società di fine secolo”. Due quesiti inerenti alla sua modernizzazione sollecitavano il dibattito locale a partire dagli anni ’70: 1) come accrescere il peso della voce pubblica nella sua gestione e 2) come renderlo accessibile ad un pubblico più ampio e variegato. I due problemi erano diversi ma l'andamento del dibattito li portava a convergere intorno ad un unico progetto: la riforma della realtà fisica della sala come elemento condizionante di tutta la sua attività. 5 Traggo tutta la vicenda dal volume collettaneo I/ Teatro Grande di Brescia, cit., pp. 195 ss.

227

Ciò che l’autorità municipale propone e mette allo studio è infatti un’operazione di ristrutturazione che producesse un effetto di «democratizzazione» del teatro, senza il quale, si dice, nessun’altra vera riforma sarebbe stata possi-

bile. Si trattava in buona sostanza dell’esproprio dei palchi di prima fila, che unita all’abolizione del palco reale consentisse di formare, subito sopra la platea, un’unica galleria continua, magari con sedie numerate, per ospitare una nuo-

va fetta di pubblico. L’obiettivo era quello di consentire l’afflusso a quel ceto medio crescente che la sala con i palchi in proprietà tendeva ad escludere, rendendo difficile l’accesso a chi non aveva la possibilità di acquistare o affittare un palco ma nemmeno poteva accettare di essere relegato nel loggione, in mezzo ai nullabbienti o poco più. Era un’operazione così complessa e controversa, e che rischiava tra l’altro di compromettere l’unità architettonica della sala all'italiana, da non riuscire talvolta ad essere realizzata, ma

che numerosi teatri tentarono di mettere in cantiere sul finire del secolo.

4.

L'icona verdiana

Dalle traversìe postunitarie dei teatri così come le abbiamo presentate fin qui è rimasto escluso un elemento che non possiamo invece dimenticare cioè il melodramma. Que-

sta assenza ha una ragione ed è il fatto che nelle discussioni parlamentari, nei provvedimenti legislativi, nei dibattiti cittadini che con un certa intensità si occupano in questi anni

della sorte dei teatri finisce per comparire ben poco quanto nei teatri in modo privilegiato si rappresenta, cioè l’opera lirica. Qui da noi bisogna convenire che l’arte non è neppure fatta segno a platoniche dichiarazioni d'amore — commentava Francesco D'Arcais su «Nuova Antologia» con un tono tra il polemico e il disincantato — I municipi, quando decretano ingenti somme per il teatro, hanno cura di giustificare il proprio operato con ragioni estranee all’incremento della musica. Di tutt'altro si parla: del decoro della città, della necessità di dar pane a centinaia di famiglie

258

che vivono a spese de’ teatri sussidiati, dell’utile che deriva dal concorso dei forestieri, e via di questo passo”.

E d’altronde anche la costruzione massiccia dei teatri era avvenuta per il medesimo insieme di ragioni extramusicali,

andando poi ad affiancarsi e a sostenere con il suo circuito infrastrutturale una stagione molto felice e intensa di produzione melodrammatica. Ora, in modo analogo, i due processi si toccano e si influenzano vicendevolmente, cosicché

alla crisi delle strutture teatrali corrisponde, senza peraltro che il rapporto causale sia univoco e diretto, l’affievolirsi del ritmo produttivo, il suo limitarsi alla schiacciante presenza verdiana e un calo della centralità dell’opera come unico genere teatrale di caratura nazionale presente nella penisola??. Gradualmente e con sorprendente ritardo rispetto al quadro europeo questa comincia infatti ad essere affiancata da altri generi teatrali, dalla musica strumentale, che prendeva piede con le prime Società del Quartetto, l’esperienza dei concerti popolari e le tourrées orchestrali in provincia‘, al teatro in prosa, fino ai nuovi generi leggeri provenienti da oltralpe. 28 F. D’Arcais, L'industria musicale in Italia, in «Nuova

Antologia»,

maggio 1879, p. 136. 2? Così Lorenzo Bianconi: «Scomparso Donizetti, ammutolito Mercadante, esauritosi nella routine Pacini, negli anni ’50 e ’60 la preminenza colossale di Verdi — cementata dai successi transalpini nel genere grand opéra (I Vespri siciliani, Parigi 1855; La Forza del destino, San Pietroburgo 1862; Don Carlo, Parigi 1867), dal controllo che l’editoria milanese esercita sulla distribuzione nei teatri d’Italia e dalla nuova legislazione sul diritto d’autore cui Verdi diede il suo apporto — aveva configurato un dominio artistico assoluto, quale mai si era verificato prima d’allora, neanche ai giorni di Rossini». Cfr. L. Bianconi, Il teatro

d'opera in Italia, cit., pp. 81-82. 60 S. Martinotti (Ottocento musicale, cit., p. 77) sostiene che i vent’anni decisivi per la ripresa in Italia della tradizione strumentale sono quelli compresi tra il 1864, con la nascita della Società del Quartetto milanese e il 1884, con l’Esposizione internazionale di Torino. E in questo lasso di tempo che si assiste alla penetrazione anche nell'opera di una nuova coscienza sinfonica e che la musica di Beethoven e di Litsz comincia ad acquisire un proprio pubblico, per lo più ancora limitato alle grandi città del nord, Torino e Milano.

61 Cfr. R. Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, Roma-

Bari, Laterza, 1988, pp. 135-182.

293,

Per il teatro lirico è una fase di effettivo disorientamento,

che si coglie nelle parole degli addetti ai lavori insieme alla percezione che l’unificazione nazionale stesse coincidendo ben più con il declino che non con la valorizzazione del-

l’opera come patrimonio culturale unificante. I grandi teatri, inseriti nel quadro cangiante e instabile delle spese facoltative dei municipi, sopravvivevano faticosamente; le poche istituzioni professionali o professionalizzanti del settore come orchestre stabili e scuole di ballo rimanevano incerte sulla loro sorte, mentre intorno ai conservatori si

apriva un estenuante dibattito. Nel frattempo la moda del grand opéra francese raggiungeva proprio negli anni immediatamente postunitari tutti gli angoli più riposti del circuito operistico testimoniando dell’imporsi anche sul fronte musicale di una sensazione di inadeguatezza culturale che sembra sollecitare in molta parte del dibattito del tempo una sorta di rincorsa emulativa alle esperienze straniere®

Questa sfasatura tra realtà e possibili aspettative si riflette anche sul piano delle rappresentazioni culturali, cosicché l'accostamento tra identità nazionale e melodramma in musica avverrà solo più tardi, a fine secolo, mostrando a quel punto tratti fortemente personalistici — il culto del grande personaggio — e quasi una subalternità a percorsi politicoculturali estranei alla musica. E d’altronde va detto che nemmeno nel Settecento, quando ancora l’italiano era la lingua dell’opera per eccellenza®, aveva particolarmente attecchito negli ambienti musicali italiani la querelle linguistico-musicale sul primato dell'italiano come lingua della musica che tanto aveva infiammato invece gli ambienti francesi, e che avrebbe potuto preludere in patria alla costruzione del culto dell’italianità dell’opera®. Nel corso dell'Ottocento poi, 6 Di cui si rilevano persino riflessi linguistici, cfr. M. Conati, L’oltracotata turba che si indraca. Inforestieramenti dell’opera italiana nel secondo Ottocento, in Musica senza aggettivi, studi per Fedele D'Amico, a cura di A. Ziino, vol. I, Firenze, Olschki, 1991, pp. 345-355. PAGG: Folèna, L'italiano în Europa. Esperienze linguistiche nel Settecento, Torino, Einaudi, 1983. 6 Sulla questione linguistico-musical-nazionale che affiora nel XVIII e sui suoi sviluppi ottocenteschi si veda I. Bonomi, I/ docile idioma. L’italiano lingua per musica, Roma, Bulzoni, 1998.

260

quando il melodramma aveva funzionato per alcuni decenni cruciali come strumento efficace di unificazione culturale, ciò era avvenuto, lo abbiamo visto, sull'onda dell’emulazione municipale, in modo non riconosciuto e tanto meno orienta-

to dalla cultura alta, ad opera di impresari e deputazioni teatrali ai quali non si potevano certo attribuire intenti di nazionalizzazione culturale. Eppure l’opera romantica italiana aveva accompagnato come una perfetta colonna sonora unitaria la fase eroica della redenzione patriottica, diventando veicolo condiviso di proiezione nell'immaginario collettivo di sentimenti e comportamenti

ideali, di eroismo,

abnegazione, coraggio”. Più difficile per il melodramma italiano diventava adeguarsi e trovare un proprio ruolo nella fase costruttiva postunitaria, di cui il dibattito verdismowagnerismo rifletteva piuttosto tutto il disinganno‘. A fronte di un interesse effettivamente debole delle istituzioni del nuovo stato per il settore musicale, anche il mondo operistico, che nel corso dell'Ottocento aveva continuato e sviluppato la propria tradizione cosmopolita, dimostrava una certa riluttanza a sostenere e a legittimare culturalmente uno sforzo di nazionalizzazione e a fare dell’opera lirica un momento alto e riconosciuto di italianità. Si pensi al fallimento cui va incontro il progetto di comporre una Messa da requiem in memoria di Rossini, subito dopo la morte del compositore pesarese. L’idea era partita dallo stesso Verdi, per approdare con la mediazione di Ricordi sulle pagine della «Gazzetta musicale di Milano», ma non aveva retto il

confronto con lo stato complessivo del settore. Si trattava di questo: una decina di compositori italiani avrebbero dovuto comporre una solenne Messa da requiem da allestire nella basilica di S. Petronio a Bologna in occasione del primo 65 E come

scrive M. Lavagetto (Quei più modesti romanzi, cit., p.

194), divenendo «una terra promessa costruita con la connivenza degli

spettatori, con i loro appetiti e le loro disperazioni mimetiche». 6 M. Miller, Wagner, wagnerism and Italian identity, in Wagnerism in European culture, a cura di D. Large e W. Weber, Ithaca, Cornell U.P.,

1984, pp. 167-197.

6 Si pensi solo al fatto che tutti e tre i maggiori compositori ottocenteschi avevano vissuto e lavorato all’estero e composto in lingue diverse dall'italiano.

261

anniversario della morte di Rossini. Doveva essere, scriveva

Verdi, un «monumento all’arte» e all’arte italiana; tanto che

«nessuna mano straniera né estranea all’arte» avrebbe dovuto contribuire all'opera, che sarebbe stata così un contributo spontaneo e privo di tornaconto degli artisti alla crescita di una coscienza nazionale®8. Il progetto incontrò una gran quantità di ostacoli e finì per incagliarvisi. Al suo fallimento contribuì sia la perplessità e la diffidenza dei compositori, molti dei quali rifiutarono di intervenire, sia il boicottaggio degli editori — veri registi del mondo operistico —, sia infine le difficoltà create dagli ambienti bolognesi, visto che la città stava puntando a divenire in quegli anni la roccaforte italiana del wagnerismo e su quel progetto sembrava giocarsi il suo rilancio in campo musicale®. Le celebrazioni per la morte di Rossini si risolvono così in una enorme quantità di onoranze locali non coordinate, che rievocano quello spirito municipale che era stato alla base della costruzione dell’armatura teatrale italiana’. Ritroviamo forse qui, negli anni immediatamente postunitari, una sorta di calo della tensione nazionale, o meglio il suo trasferimento in un inedito sforzo conoscitivo e normativo — le grandi >

68 Cfr. Messa per Rossini. Il testo, la storia, la musica, Parma, ISV, 1988.

6 Cfr. M. Miller, Wagner, wagnerism and Italian identity, cit. Nel 1871, con la prima italiana del Lohergrin a Bologna, la città si candidava a divenire centro musicale alternativo a Milano, proponendo di sé un’immagine cosmopolita. L’opera viene programmata nel quadro di una serie di manifestazioni culturali tra le quali la Conferenza internazionale di paleontologia, presenti in città molti volti noti dell’intellettualità europea tra i quali, ad esempio, Ernest Renan. 70 Nel corso degli anni 70 altre iniziative celebrative puntano l’obiettivo sui grandi maestri del melodramma ottocentesco per inserirli nel pantheon nazionale degli uomini illustri ma si tratta nuovamente di episodi isolati e localmente connotati come il trasporto delle ceneri di Bellini da Parigi a Catania, o di operazioni legate a una singola realtà, quella scaligera, sempre più votata a divenire museo di se stessa, come la collocazione nell’ingresso del teatro delle grandi statue dei tre compositori. Solo nel 1887, dopo innumerevoli difficoltà, prenderà corpo un’operazione di maggiore respiro nazionale come il trasporto della salma rossiniana in S. Croce e la progettazione del monumento che verrà infine inaugurato nel 1902. Cfr. Onoranze fiorentine a G. Rossini inaugurandosi in S. Croce il monumento al grande Maestro (23 giugno 1902), memorie pubblicate da R. Gandolfi, Firenze, Tip. Galletti & Cocci, 1902.

262

inchieste, le nuove leggi — dai contorni più prosaicie dagli esiti più controversi. Un episodio della biografia verdiana mi pare illustri perfettamente la situazione e ne prefiguri gli sviluppi. Parlo dell’invito che Verdi riceve, insieme ad altri tre musicisti

europei (Meyerbeer per la Germania, Auber per la Francia e Sterndale Bennett per la Gran Bretagna) a comporre per l'esposizione di Londra del 1862 un pezzo musicale che rappresentasse la propria patria. Rispetto alle altre la risposta verdiana era stata tardiva e aveva suscitato non poche perplessità negli organizzatori. In un’occasione tutta costruita

intorno alla celebrazione delle realtà nazionali — la prima, con perfetto tempismo, per l’Italia appena unificata — Verdi aveva rinunciato infatti esplicitamente a tracciare una sorta di bozzetto dell’identità musicale nazionale, cosa che dove-

va parergli evidentemente riduttiva, e aveva deciso di comporre il suo Izzo delle nazioni, che su libretto di Boito intrecciava i motivi dei grandi inni europei, dalla Marsigliese al God save the Queen. Al conte Opprandino Arrivabene, suo consueto confidente, il maestro spiegava questa scelta proprio sostenendo che l’italianità in musica era cosa talmente conosciuta e riconosciuta da non richiedere di essere raffigurata: In quanto poi all’Italia la sua musica non ha bisogno di essere rappresentata all'Esposizione. Essa viene rappresentata qui tutte le sere in due teatri e non solo qui ma dappertutto perché malgrado l’attuale decadenza scoperta dai savants! mai in nessun’epoca come in questa vi sono stati tanti teatri italiani, mai gli editori di qualsiasi paese hanno stampata e venduta tanta musica italiana [...] quando tu andrai nelle Indie o nell’interno dell’Africa sentirai il Trovatore".

Invece che l'occasione per celebrare il nuovo stato in una

grande

e inusuale

evenienza

curopea

l’esposizione

londinese diventa così per il compositore un momento di amplificazione di quel ruolo internazionale che egli aveva assunto già dagli anni ’50 e che continuerà a coltivare con 7! Lettera di Verdi a Opprandino Arrivabene, 2 maggio 1862, in Verdi intimo, cit., pp. 15-19.

263

successo, inaugurando ad esempio con Aida il taglio dell’istmo di Suez. La vicenda rappresenta allora una buona anticipazione di quanto avverrà in seguito, quando Verdi stesso sarà chiamato a rappresentare l’identità italiana in musica. A partire dagli anni ’80 infatti, in corrispondenza della prima fase di costruzione sistematica del mito risorgimentale, avrà inizio anche la costruzione della mitografia verdiana, tanto efficace quanto flessibile nell’adeguarsi a situazioni e valenze politico-culturali anche molto diverse. Il maestro di Busseto diventerà l’artista nazionale per eccellenza, il patriota ante litteram, vate del Risorgimento italiano e sua inusuale immagine

contadina, in un’operazione

nella quale si intrecciavano logiche commerciali — pilotate dal suo editore — e di pedagogia politica del nuovo stato. La longevità del personaggio gli avrebbe consentito un ruolo diretto di trait d’union tra la generazione risorgimentale e quella successiva e avrebbe favorito la sua identificazione in un’icona risorgimentale di grande efficacia simbolica, la cui sapiente drammaturgia narrativa vedrà il suo culmine nelle

esequie del maestro nel 1901 e infine nel centenario della nascita nel 1913.

264

APPENDICE

APPENDICE

ELENCO DEI TEATRI IN ATTIVITÀ AL 1° DICEMBRE 1868

L’elenco che segue è il risultato di uno spoglio selettivo del materiale prefettizio inviato a Roma al Ministero Agricoltura Industria Commercio in risposta alla circolare ministeriale del 21 dicembre 1868 e conservato in ACS, MAIC, Divisione III, Diritti d’autore e teatri, b.1.

Non ho riportato perché troppo lacunosi o giudicati con perplessità dagli stessi prefetti i dati relativi ad alcune altre voci, come il reddito presunto delle diverse strutture o l'ammontare della dote o sovvenzione annua. I prospetti elaborati dai prefetti utilizzano generalmente la terminologia dei luoghi e quindi parlano nei vari casi di condomini, di soci, di azionisti, di citta-

dini, di palchisti per riferirsi ai proprietari dei palchi e comproprietari dei teatri. Entro i limiti di un’ovvia esigenza di uniformazione delle tipologie proprietarie e gestionali ho mantenuto la terminologia originale. Dopo la localizzazione geografica l’elenco riporta dunque per ogni teatro e dove indicata la denominazione, l’anno di inaugurazione, il tipo di attività (e qui è stato necessario ripor-

tare la multiformità delle risposte entro alcune categorie comuni) e il numero di spettatori che la sala conteneva. Le ultime due voci riguardano la gestione e la proprietà dei teatri, per le quali ho utilizzato le abbreviazioni seguenti: accad = accademica; azion = azionisti; cittad = cittadini; cond =

condominiale; dep = deputazione teatrale; dir = direzione teatrale; imp = gestione impresariale; mun = municipale; palch = palchisti; priv = privata; prop = gestione del proprietario; soc = sociale; soc priv = società non palchettistica.

Quanto alla classificazione dei teatri dopo l'Unità, la legge 20 marzo 1865 imponeva a chiunque intendesse esercitare atti-

vità di pubblico intrattenimento l'obbligo di munirsi di una licenza. Per la gestione di edifici teatrali questa era soggetta ad

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una tassa proporzionata all’ordine, cioè all'importanza, del teatro stesso. Per questa ragione si procede ad una classificazione delle sale. Sono considerati di prim'ordine: La Scala di Milano, il San Carlo di Napoli, il Comunale di Bologna (nella stagione autunnale), La Pergola di Firenze, il Carlo Felice di Genova, il

Bellini di Palermo, il Comunale di Reggio Emilia (nella stagione della fiera), il Regio di Torino, La Fenice di Venezia. Sono di second’ordine: il Comunale di Alessandria, le Muse di Ancona, il Vintrolio Basso di Ascoli Piceno, l’Alfieri di Asti,

il Riccardi di Bergamo, il Comunale (tranne che nella stagione autunnale) e il teatro del Corso di Bologna, il Grande di Brescia, il Comunale di Catania, il Comunale di Cesena, il Concordia di Cremona, il Municipale di Ferrara, il Nicolini, il Nuovo e il Pagliano di Firenze, il Comunale di Forlì, l Andrea Doria e il Paganini di Genova, Gli Avvalorati, I Floridi e il Rossini di

Livorno, il Giglio di Lucca, il Comunale di Lugo, il Vittorio Emanuele di Messina, La Canobbiana, il Carcano e il Re di Milano, il Comunale di Modena, i Fiorentini e il Fondo di Napoli,

il Nuovo di Padova, il Santa Cecilia di Palermo, il Regio di Parma, il Civico di Perugia, il Municipale di Piacenza, il Ravvi-

vati di Pisa, l’Alighieri di Ravenna, il Comunale di Reggio Emilia (tranne la stagione della fiera), il Vittorio Emanuele di Rimini, il Sociale di Rovigo, il Comunale di Terni, il Carignano, lo Scribe e il Vittorio Emanuele di Torino, il Sociale di Treviso, il Sociale

di Udine, il San Benedetto e l’Apollo di Venezia, il Filarmonico di Verona e l’Eretenio di Vicenza. Tutti gli altri sono considerati di terz’ordine.

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