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Italian Pages 216 [225] Year 2022
Sara Trovalusci
L’ultimo titano del Risorgimento
Il mito di Francesco Crispi nell’Italia liberale (1876-1901)
viella
I libri di Viella 441
Sara Trovalusci
L’ultimo titano del Risorgimento Il mito di Francesco Crispi nell’Italia liberale (1876-1901)
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Copyright © 2023 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: febbraio 2023 ISBN 979-12-5469-304-9 ISBN 979-12-5469-264-6 ebook-pdf
TROVALUSCI, Sara L’ultimo titano del Risorgimento : il mito di Francesco Crispi nell’Italia liberale (1876-1901) / Sara Trovalusci. - Roma : Viella, 2023. - 214 p., [4] c. di tav. : ill. ; 21 cm. (I libri di Viella ; 441) Bibliografia: p. [193]-205 Indice dei nomi: p. [207]-214 ISBN 979-12-5469-304-9 1. Crispi, Francesco - Giudizi [dei] Contemporanei 945.0843092 (DDC 23.ed) Scheda bibliografica: Biblioteca Fondazione Bruno Kessler
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libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it
Indice
Introduzione
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1. La costruzione del mito 1. Un’immagine pubblica 2. Diffondere il mito
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2. Il mito alla prova 1. Il concetto incarnato della patria 2. Conoscere, controllare, trasformare 3. La politica si rappresenta
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3. Un uomo celebre 1. Il mito Crispi 2. La ricezione del mito 3. 1891-1892. «The great old man» 4. 1893. La soluzione Crispi
101 109 118 123
4. Tra mito e antimito 1. Le radici dell’antimito 2. L’antimito in parlamento 3. La guerra di carta 4. Piazze crispine e piazze anticrispine 5. Scontro di idee, scontro di leader
133 135 150 156 172
Epilogo
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Bibliografia
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Indice dei nomi
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Nessun uomo, in questo secolo, ha avuto in Italia mai tanta potenza; nessuno ha saputo imporre così la propria persona a tutto il paese; ha improntato tanto del suo carattere la vita politica della nazione; ha eccitato tanti entusiasmi, tante speranze, tanti odi; nessuno ha eclissato così interamente tutto il mondo politico che gli sta dietro. Guglielmo Ferrero, La reazione, 1895. Nella storia difficilmente troverete un uomo politico combattuto quanto me. Francesco Crispi a Roberto Galli, 31 marzo 1897. Ogni secolo porta nel suo seno i germi di vita del secolo che muore. Il secolo XIX è figlio del secolo XVIII ed è alla sua volta il genitore del secolo XX. Francesco Crispi, appunto autografo del 1899.
Abbreviazioni ACS
Archivio Centrale dello Stato, Roma CC: Carte Crispi Roma: Archivio di Stato di Roma DSSP: Deputazione di Storia Patria di Palermo RE: Archivio di Stato di Reggio Emilia ASP: Archivio di Stato di Palermo BNP: Biblioteca Nazionale di Palermo PCM: Presidenza del Consiglio dei Ministri Crispi: Gabinetto Crispi Palumbo Cardella: Fondo Giuseppe Palumbo Cardella Abele Damiani: Fondo Abele Damiani Pisani Dossi: Fondo Alberto Carlo Pisani Dossi Giuseppe Pinelli: Fondo Giuseppe Pinelli
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Archives de la Préfecture de Paris
ASMAE
Archivio storico-diplomatico del ministero degli Affari Esteri
ASR
Archivio di Stato di Roma
MRM
Museo del Risorgimento di Milano
MRR
Museo Centrale del Risorgimento di Roma
Introduzione
L’Italia è costituita, ma l’anima sua è assopita, l’energia è spenta; manca l’uomo che la rilevi e la conduca sulla via di quelle audaci virtù che provano la grandezza delle nazioni. Vedremo sorgere questo uomo? Lo spero.1
Queste righe, annotate su un diario privato nel 1899, chiudono una breve e nostalgica riflessione sulle battaglie di Curtatone e Montanara e potrebbero essere state scritte da uno dei tanti patrioti che avevano partecipato, più o meno direttamente, alle guerre del Risorgimento e vissuto con delusione gli anni successivi – il tempo lungo e prosaico della costruzione e del rimpianto per quel passato glorioso. E in effetti è proprio così: le parole sono del siciliano Francesco Crispi, che combatté in prima linea nella Palermo del 1848 e del 1860. Repubblicano e garibaldino, accettò la monarchia «per mancanza di meglio»2 e fu deputato della Sinistra storica dal 1861. Alla morte di Depretis diventò presidente del Consiglio e, con un’energia che molti coevi definirono giovanile, governò fino al 1891 e ancora dal 1893 al 1896. A rendere questa pagina di diario degna di nota è il fatto che la speranza nell’uomo della provvidenza, peraltro piuttosto diffusa nei decenni postunitari, si sia trasformata in Crispi, nel momento propizio, nella certezza di poterne vestire i panni. E il momento propizio sembrò avvicinarsi già dal 1876, quando le redini del governo passarono alla Sinistra. Sperando di arrivare un giorno a guidare l’esecutivo, il deputato siciliano sfruttò ogni occasione di visibilità per costruire e promuovere la 1. Francesco Crispi, appunto autografo del 1899, ora in Francesco Crispi, Pensieri e profezie racconti da T. Palamenghi-Crispi, Roma, Tiber, 1920, p. 188. 2. Francesco Crispi, appunto autografo, s.d., MRR, b. 668, fasc. 15.
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propria immagine; in seguito, negli anni in cui fu presidente del Consiglio, le doti carismatiche costituirono una risorsa efficace, continuamente messa in campo, per assicurare longevità al governo. La questione merita di essere esplorata a fondo come elemento costitutivo della politica crispina e, in una prospettiva più ampia, come fattore di innovazione nel campo del liberalismo italiano, che sperimentò per la prima volta con Crispi una leadership marcatamente personalistica: si tratta, come si vede, di un tema importante, che tuttavia finora non è stato oggetto di un’attenzione specifica, forse anche a causa dell’alterna fortuna storiografica del personaggio. Nella prima metà del Novecento infatti le tendenze personalistiche del governo di Crispi hanno suscitato giudizi antitetici, pur se ugualmente ideologici: dalla lettura critica di Gaetano Salvemini all’esaltazione di parte fascista fino al ritratto tranchant di Antonio Gramsci, che lo definì «giacobino» con «significato deteriore», «energico, risoluto e fanatico, perché fanaticamente persuaso delle virtù taumaturgiche delle sue idee».3 Solo nel secondo dopoguerra gli studiosi hanno provveduto a riequilibrare il quadro, superando l’approccio ideologico e aprendo a nuovi filoni di ricerca.4 Nonostante ciò, ancora nel 1990 Fulvio Cammarano rilevava l’assenza 3. Gaetano Salvemini, La politica estera di Francesco Crispi, Roma, La Voce, 1919; Antonio Gramsci, Un ritratto politico di Francesco Crispi, in Quaderni del carcere (19291935): Il Risorgimento, Torino, Einaudi, 1949, p. 45. Sull’interpretazione fascista della figura di Crispi si rimanda almeno alla biografia di Gioacchino Volpe, Francesco Crispi, Venezia, La Nuova Italia, 1928. Per un quadro storiografico cfr. Umberto Levra, Età crispina e crisi di fine secolo, in Il mondo contemporaneo. Storia d’Italia, vol. I, a cura di Umberto Levra, Fabio Levi e Nicola Tranfaglia, Firenze, La Nuova Italia, 1978, pp. 302-331; Giuseppe Tricoli, Crispi nella storiografia italiana, Palermo, ILA Palma, 1992. 4. Senza pretendere di restituire un quadro storiografico completo si rimanda all’opera pionieristica di Federico Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Roma-Bari, Laterza, 1951 e ad alcuni studi particolarmente significativi per l’approccio adottato in questo lavoro: Fauzo Fonzi, Crispi e lo “Stato di Milano”, Milano, Giuffrè, 1965; Raffaele Romanelli, Francesco Crispi e la riforma dello Stato nella svolta del 1887, [1971] ora in Id., Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 279-351; Gaetano Falzone, Crispi fra due epoche, Milano, Pan, 1974; Massimo Ganci, Il caso Crispi, Palermo, Palumbo, 1976; Ernesto Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, a cura di Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, vol. IV, Dall’Unità a oggi, t. 3, Torino, Einaudi, 1976; Vincenzo Pacifici, Crispi e Mazzini, in «Rassegna Storica del Risorgimento», 1 (1981), pp. 42-64; Id., Francesco Crispi (1861-1867): il problema del consenso allo stato liberale, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1984; Salvatore Lupo, Fare un monumento di se stesso. Una fonte oratoria, in Prima lezione di metodo storico, a cura di Sergio Luzzato, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 105-122.
Introduzione
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di uno studio complessivo sull’esperienza di governo di Crispi.5 La lacuna è stata in parte colmata dalla dettagliata biografia di Christopher Duggan, in cui però la questione del mito personale viene trattata marginalmente, come un «effetto collaterale»6 del ruolo di pedagogo patriottico assunto dal deputato negli anni Ottanta. In questo senso, spunti interessanti arrivano da Silvio Lanaro e da Umberto Levra e sono recepiti, in tempi più recenti, da Daniela Adorni.7 Le pagine che seguono intendono indagare le fasi, gli strumenti e gli elementi costitutivi di questa narrazione mitopoietica, verificandone di volta in volta l’utilizzo e l’efficacia. Per farlo, occorre calare quest’esperienza nel suo contesto, quello della fine dell’Ottocento, che si caratterizzò per una progressiva democratizzazione della partecipazione politica. Spinta dalla necessità di guidare il processo d’inclusione senza mettere in discussione i valori e le istituzioni della società borghese, la classe dirigente sperimentò la formula della leadership personalistica, che faceva del carisma, “dote” riconosciuta al singolo, una risorsa da impiegare a vantaggio della stabilizzazione del sistema.8 Una proposta, questa, resa attrattiva proprio dall’incertezza identitaria e dalla paura del livellamento generati dai processi di massificazione: il singolo infatti, riconosciuto come personalità inimitabile, riassumeva centralità e valore e pareva tradurre sul piano politico la figura romantica dell’eroe solitario.9 Crispi non fu un caso sui generis e anzi, contestualmente, nel più ampio scenario europeo, le redini di governo toccarono ad altri che seppero interpretare un ruolo simile. 5. Fulvio Cammarano, Introduzione, in Id., Il progresso moderato. Un’opposizione liberale nella svolta dell’Italia crispina (1887-1892), Bologna, il Mulino, 1990, pp. 7-11. 6. Christopher Duggan, Costruire la nazione. Vita di Francesco Crispi, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 471. 7. Cfr. Silvio Lanaro, L’Italia nuova. Identità e sviluppo (1861-1988), Torino, Einaudi, 1988, p. 152; Umberto Levra, Il Risorgimento nazional-popolare di Crispi, in Id., Fare gli italiani. Memoria e celebrazione nel Risorgimento, Torino, Comitato di Torino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, 1992, pp. 301-386; Daniela Adorni, Introduzione, in Id., Francesco Crispi. Un progetto di governo, Firenze, Leo S. Olschki, 1999, pp. XI-XXVIII. 8. Sul tema si rimanda a Paolo Pombeni, Diverse razionalità, diverse passioni? Altre forme politiche di raccolta del consenso, in Id., La ragione e la passione. Le forme della politica nell’Europa contemporanea, Bologna, il Mulino, 2010, pp. 533-689. 9. Cfr. Elena Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino, Bollati Boringhieri, 2001 e Andrea Millefiorini, Individualismo e società di massa. Dal XIX secolo agli inizi del XXI, Roma, Carocci, 2005.
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Certamente Bismarck fu un influente modello di “uomo forte”, ma il sistema istituzionale tedesco, che di fatto marginalizzava l’istituto parlamentare, aumentava la distanza tra la società e il leader e rendeva meno importante per quest’ultimo trovare uno spazio e degli strumenti necessari a un dialogo diretto con l’opinione pubblica. Diversamente, in altri luoghi, la quotidiana ricerca del consenso impose un vero e proprio apprentissage di nuovi modi di fare politica. Basti pensare alla Gran Bretagna, dove la necessità di raggiungere un elettorato in crescita favorì, sia nel campo conservatore che in quello liberale, la promozione di uomini carismatici – come Gladstone e Disraeli – in grado di popolarizzare il programma di partito. Per lo stesso motivo entrambi gli schieramenti modularono le loro strategie comunicative, i toni e i contenuti delle orazioni pubbliche – che si trasformarono a volte in esaltanti “appelli al popolo” – e investirono sulla dimensione “spettacolare” delle campagne elettorali. In Francia, dopo la sconfitta di Sedan e il crollo del Secondo Impero, l’immaginario patriottico fu rilanciato su vasta scala attraverso l’impiego di simboli e rituali dal forte impatto emotivo, con lo scopo di assicurare longevità alla risorta Repubblica. Come è stato notato, il sistema parlamentare francese conobbe più di una esperienza carismatica, quella di Gambetta in primis, che con le sue parole e le sue imprese – si pensi alla scenografica partenza in mongolfiera da Parigi nel settembre del 1870 – vestì i panni del salvatore della patria. La stessa posa sarebbe stata assunta, qualche anno dopo, da Georges Boulanger, il cui successo, per quanto breve, dovette molto al sostegno di testate nazionali di punta e di redattori influenti e a moderne trovate pubblicitarie – ritratti, pamphlet e oggettistica di vario tipo – che resero il generale Revanche una star politica amata e adulata dal pubblico.10 10. Cfr. Peter Clarke, A question of leadership. Gladstone to Thatcher, London, Hamish Hamilton, 1991; Eugenio F. Biagini, Il liberalismo popolare. Radicali, movimento operaio e politica nazionale in Gran Bretagna 1860-1880, Bologna, il Mulino, 1992; Id., Gladstone, London, Macmillan, 2000; Rohan McWilliam, Popular Politics in Nineteenth Century England, London, Routledge, 1998, pp. 81 ss; Fulvio Cammarano, Strategie del conservatorismo britannico nella crisi del liberalismo. «National Party of Common Sense» (1885-1892), Manduria, Laicata, 1992. Sul versante francese cfr. Didier Fischer, L’Homme providentiel. Un mythe politique en République de Thiers à de Gaulle, Paris, L’Harmattan, 2009; Jean Garrigues, Boulanger, ou la fabrique de l’homme providentiel, in «Parlement[s], Revue d’histoire politique», 13 (2010), pp. 8-23; Id., Les hommes providentiels. Histoire d’une fascination française, Paris, Seuil, 2012; su impiego dei media e della pubblicità nella costruzione del mito di Boulanger cfr. anche Jean-Yves Mollier, Le camelot et la rue. Po-
Introduzione
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Si tratta di esperienze diverse, per molti versi incomparabili, accomunate però da due elementi ricorrenti: la dimensione personalistica della leadership e quella mediatica e spettacolarizzata della politica. Questi fenomeni sono stati per lo più considerati in riferimento ai totalitarismi del Novecento e alle democrazie del XXI secolo; la loro genesi è però strettamente connessa alle dirompenti trasformazioni che investirono i mezzi di comunicazione dalla fine del Settecento e lungo tutto l’Ottocento.11 Adottando questa prospettiva, studi più recenti si sono occupati di leadership carismatiche nel variegato universo dei movimenti sociali – dal radicalismo, al socialismo fino all’anarchismo – la cui naturale resistenza nei confronti di una proposta “individualista” come quella incarnata dall’uomo carismatico fu superata in nome dei processi di inclusione che il fascino esercitato dal leader avrebbe potuto favorire.12 Attraverso l’esperienza di Crispi si può valutare in che modo il liberalismo italiano abbia adottato questa dimensione popolare e mediatica del potere che era stata propria, fino a quel momento, delle culture politiche antagoniste a quelle di governo. Il cambio di passo avvenne in Italia appunto a partire dagli anni Ottanta, quando l’ampliamento del suffragio e la prassi trasformistica provocarono una severa crisi di legittimità della politica liberale, tacciata da più parti di inoperosità e inefficienza. Di fronte alla perdita di tenuta della classe dirigente, Crispi assunse un atteggiamento da deputato catoniano, austero e incorruttibile. L’attenzione litique et démocratie au tournant de XIXe et XXe siècles, Paris, Fayard, 2004, pp. 125-153. Diversi autori hanno adottato questa prospettiva di analisi, rileggendo l’esperienza politica di altre figure politiche di rilievo attraverso la lente del carisma. A tal proposito si rimanda almeno a: Barry Schwartz, George Washington. The making of an American Symbol, New York, Free Press, 1987; Peter Clarke, Margaret Thatcher’s Leadership in Historical Perspective, in «Parliamentary Affairs», 45, I (1992), pp. 1-17; Michael Shelden, Young Titan: The Making of Winston Churchill, London, Simon & Schuster, 2013. 11. Si rimanda almeno a: Propaganda e comunicazione politica. Storia e trasformazioni nell’età contemporanea, a cura di Maurizio Ridolfi, Milano, Mondadori, 2004; La politica dei sentimenti. Linguaggi, spazi e canali della politicizzazione nell’Italia del lungo Ottocento, a cura di Marco Manfredi e Emanuela Minuto, Roma, Viella, 2018. 12. Cfr. La democrazia radicale nell’Ottocento europeo. Forme della politica, modelli culturali, riforme sociali, a cura di Maurizio Ridolfi, Milano, Feltrinelli, 2005. Su leadership carismatica e movimenti sociali si rimanda a: Leader carismatici e movimenti sociali nell’Ottocento europeo, numero monografico, a cura di Marco Manfredi ed Elena Papadia, in «Memoria e Ricerca», 3 (2021).
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del parlamento e del paese si rivolse presto verso di lui, che era testimone, uno tra gli ultimi ancora in vita, di un’epoca mitica di fasti e che, in un tempo di “pigmei”, manteneva intatta la sua levatura morale. Durante i mandati governativi Crispi non cessò di alimentare l’immagine pubblica dell’ultimo titano del Risorgimento, presentandosi come il solo uomo dotato della forza necessaria per risollevare le sorti del paese e capace di porsi in relazione con il sentire della comunità – il cuore della nazione. Il mito divenne così il cardine di una moderna operazione propagandistica volta a irrobustire il consenso attorno a un ambizioso progetto di governo riformatore e autoritario, che aveva lo scopo di assecondare l’«ammodernamento richiesto dallo sviluppo del paese»13 senza ledere, ma anzi estendendo, la capacità di controllo del centro sulle realtà periferiche. Per illuminare il “caso Crispi” da questa prospettiva occorre seguire parallelamente due binari: da una parte l’evoluzione della carriera, dall’altra i momenti e le tappe della sua rielaborazione mitopoietica. Assumono centralità le occasioni di protagonismo pubblico – commemorazioni di stampo patriottico e viaggi ufficiali –, durante i quali il potere incarnato dal leader si manifestava attraverso simboli e forme rituali.14 Questi potenti dispostivi, entro i quali si offriva agli spettatori «la rappresentazione pubblica […] di una posizione nella quale riconoscersi o con la quale misurarsi»,15 ricompattavano la comunità patriottica e ne ridefinivano i confini; rimanevano esclusi da questo consesso tutti coloro che non erano 13. Ragionieri, La storia politica e sociale, p. 1760. 14. Sulle celebrazioni di stampo patriottico cfr. Ilaria Porciani, La festa della nazione. Rappresentazione dello stato e spazi sociali nell’Italia unita, Bologna, il Mulino, 1997; Levra, Fare gli italiani. Sul significato simbolico del viaggio ufficiale cfr. René Girault, Voyages officiels, opinion publique et relations internationales, in Opinion publique et politique extérieure (1870-1915), Actes du Colloque de Rome (13-16 février 1980), a cura di Philippe Levillain e Brunello Vigezzi, École française de Rome, Rome, 1981, pp. 473-490; Un cérémonial politique: les voyages officiels des chefs d’État, a cura di Jean-William Dereymez, Olivier Ihl e Gérard Sabatier, Paris, L’Harmattan, 1998. 15. Alessio Petrizzo, Appunti su rituali e politica, in «Contemporanea», X, 1 (2005), pp. 157-167, p. 161. Sull’uso dei simboli in politica si veda: George Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania, 1815-1933, Bologna, il Mulino, 1975; David Kertzer, Ritual, Politics and Power, New Haven, Yale University Press, 1989, trad. it. Riti e simboli del potere, Roma-Bari, Laterza, 1989; Maurice Agulhon, Marianne au pouvoir: l’imagerie et la symbolique républicaines de 1880 à 1914, Paris, Flammarion, 1989.
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disposti ad accettare come veritiero il significato di “giusto” incarnato dal leader: gli avversari politici, messi a tacere e delegittimati dalla propaganda governativa perché nemici della patria.16 Gli elementi e i metodi della “religione civile” contribuirono al successo del mito e alla sua ricezione “in presa diretta”; d’altro canto, per spiegarne la diffusione ad ampio raggio occorre tenere in conto quel processo di mediatizzazione della vita politica di cui si è detto, che, pur non azzerando la distanza che ancora separava la diffusione e la forza dei circuiti mediatici italiani da quelli di altri paesi europei, fu comunque significativa, tanto da generare una «brama senza precedenti» nei confronti delle figure pubbliche di rilievo.17 Da questo punto di vista, il Risorgimento italiano aveva rappresentato un punto di svolta, come fucina di uomini celebri, Garibaldi in primis, e certamente il passato in camicia rossa concorse in maniera sostanziale anche alla fortuna del mito di Crispi.18 Nel frattempo però i canali di comunicazione avevano conosciuto importanti evoluzioni: un balzo di crescita più che significativo delle tirature dei giornali e la loro progressiva trasformazione in uno strumento non solo d’informazione ma anche d’intrattenimento aumentarono la popolarità dei politici più in vista, avvicinandoli a un pubblico vasto ed eterogeneo, che veniva edotto anche su aspetti della loro vita privata. La circolazione di cartoline e ritratti fotografici stampati in serie e venduti a basso costo ali16. Sulla categoria del “nemico” cfr. Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, a cura di Loreto Di Nucci e Ernesto Galli della Loggia, Bologna, il Mulino, 2003; Massimo L. Salvadori, Italia divisa. La coscienza tormentata di una nazione, Roma, Donzelli, 2007; Il nemico in politica: la delegittimazione dell’avversario nell’Europa contemporanea, a cura di Fulvio Cammarano e Stefano Cavazza, Bologna, il Mulino, 2010. 17. Stephen Gundle, Le origini della spettacolarità nella politica di massa, in Propaganda e comunicazione politica, pp. 1-24, p. 17. Cfr. anche Antoine Lilti, Figures publiques. L’invention de la célébrité 1750-1850, Paris, Fayard, 2014. 18. Cfr. Lucy Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Roma-Bari, Laterza, 2007. Cfr. anche Silvia Cavicchioli, Anita. Storia e mito di Anita Garibaldi, Torino, Einaudi, 2017; Ignazio Veca, Il mito di Pio IX. Storia di un papa liberale e nazionale, Roma, Viella, 2018; Arianna Arisi Rota, Il cappello dell’imperatore. Storia, memoria e mito di Napoleone Bonaparte attraverso due secoli di culto dei suoi oggetti, Roma, Donzelli, 2021. Per un interessante repertorio sulle celebrità ottocentesche si rimanda al catalogo della mostra mantovana (febbraio-marzo 2018) Icone politiche. Celebrità e nuovi media al tempo del Risorgimento, a cura di Costanza Bertolotti, Gian Luca Fruci e Alessio Petrizzo, Mantova, Istituto Mantovano di Storia Contemporanea, Istituto Superiore Carlo d’Arco e Isabella d’Este, 2018.
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mentava un’illusoria percezione di intimità, che assumeva rilievo politico nella misura in cui agiva da fattore di legittimazione o delegittimazione. In sostanza, l’autorità sociale di un leader dipendeva anche dalla sua capacità di attirare gli sguardi dell’opinione pubblica e, all’inverso, di tenersi lontano da eventuali macchine del fango. Crispi stesso fu protagonista di diversi scandali, alcuni dei quali riguardavano la sua vita privata, promossi o sfruttati dai suoi nemici: quello per la presunta bigamia che lo costrinse alle dimissioni da ministro dell’Interno nel 1878, come pure la vicenda del plico Giolitti, portato in parlamento nel dicembre del 1894 per dimostrare l’implicazione del presidente del Consiglio negli illeciti della Banca Romana. Tra gli altri documenti, vi era anche un nucleo di lettere indirizzate dalla moglie di Crispi al maggiordomo Achille Landi. Giolitti si giustificò, affermando di aver consegnato le lettere per evitare che fossero rese pubbliche, ma l’intento sembra esser stato diametralmente opposto: spostare l’attenzione, ancora una volta, sulla sregolata vita sentimentale del suo rivale. E sempre dal plico prese vita la crociata pubblica di Cavallotti, che si ingaggiò nella battaglia morale contro Crispi, in una commistione inestricabile di accuse all’uomo pubblico e privato.19 Come si vede, l’esposizione mediatica poteva ledere, ma anche giovare alla credibilità politica dei singoli: Crispi ne aveva coscienza e non mancò di sfruttarla a suo vantaggio, impegnandosi, e impegnando strumenti e attori diversi, in una strategia di propaganda modernamente concepita. Per questo manifestò una particolare attenzione verso la stampa, di cui sono prova non tanto le sovvenzioni e gli abbonamenti ai quotidiani nazionali, prassi già in uso nella politica italiana, quanto piuttosto la creazione di una rete di legami personali a elevato tasso di fidelizzazione. Su questi si basò il successo del giornale «La Riforma» e dello Stabilimento Tipografico Italiano, le più importanti vetrine mediatiche del deputato, affidate a tre giovani intellettuali milanesi: Luigi Perelli, Primo Levi e Carlo Alberto Pisani Dossi.20 Le “tre P”, aderendo sinceramente al progetto crispino, assicurarono ai media una forma e un linguaggio moderno e accattivante, al passo con le nuove direzioni della 19. Cfr. Clotilde Bertoni, Romanzo di uno scandalo. La Banca Romana tra finzione e realtà, Bologna, il Mulino, 2018. 20. Cfr. Manuela Cacioli, Un profilo: Primo Levi, in ISAP. L’amministrazione nella storia moderna, Milano, Giuffrè, 1985, vol. II, pp. 2047-2111; Enzo Piscitelli, Francesco Crispi, Primo Levi e la “Riforma”, in «Rassegna storica del Risorgimento», XXXVII, 1-4 (1950), pp. 411-416; Enrico Serra, L’altra vita di Carlo Dossi: Alberto Pisani Dossi diplomatico, Firenze, Le Lettere, 2015.
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comunicazione politica. Non solo. Levi e Pisani Dossi vennero incaricati di ruoli di primo piano all’interno dell’amministrazione statale: quest’ultimo, in particolare, fu protagonista di alcune fondamentali innovazioni introdotte da Crispi durante il primo mandato, che valsero a potenziare il legame di interdipendenza tra stampa e potere – come la nascita del primo Ufficio stampa al ministero degli Esteri. La vicenda dei giovani scapigliati non costituisce un’eccezione, ma è anzi la spia di un’adesione più trasversale al progetto crispino da parte dell’intellettualità italiana: Giosuè Carducci, Alfredo Oriani, Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao accanto a autori meno noti, accademici e insegnanti, intrattennero una relazione personale con Crispi e, più in generale, recepirono con entusiasmo la venatura decisionista della sua azione politica, assicurando, attraverso i loro scritti, maggiore diffusione all’immagine del titano del Risorgimento.21 Vista l’importanza che assunsero le relazioni private nel contribuire alla fortuna del mito si è scelto di valorizzare gli archivi personali, primo tra tutti naturalmente quello di Crispi stesso.22 L’enorme documentazione del fondo è di per sé significativa, soprattutto per le modalità di accumulazione, catalogazione e conservazione operate dal deputato, attraverso le quali già si definiva il “canovaccio” della narrazione mitopoietica.23 D’altro canto, fonti di natura diversa qui conservate (corrispondenza privata e istituzionale, diari, appunti e telegrammi) permettono di ricostruire il lavoro di regia 21. Cfr. Mario Vinciguerra, Carducci il fedele di Crispi, in «Studi politici», IV (1957), pp. 268-272; Alfredo Grilli, Carducci, Oriani, Albini. Tre Romagnoli fedeli a Crispi, in «Nuova Antologia», CDLXXVII (1959), pp. 79-90; Francesco Barbagallo, Il Mattino degli Scarfoglio (1892-1928), Milano, Guanda, 1979; Francesco Bonini, Retorica e produzione letteraria intorno al personaggio Crispi, in «Annali della Scuola Normale superiore di Pisa», 13, 2 (1983), pp. 623-658; Alfredo Oriani e la cultura del suo tempo, a cura di Ennio Dirani, Ravenna, Longo, 1985. 22. Cfr. Luisa Montevecchi, Le carte Crispi, in Francesco Crispi. Costruire lo Stato per dar forma alla Nazione, Atti del convegno tenuto all’Archivio Centrale dello Stato il 27 novembre 2001 nel centenario della morte di Crispi, a cura di Luisa Montevecchi e Aldo G. Ricci, Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione generale per gli archivi, 2009, pp. 321-332. 23. Ersilia Alessandrone Perona, Gli archivi personali come fonte della storia contemporanea, in «Contemporanea», 2 (1999), p. 325. Cfr. anche Giulia Barrera, Gli archivi di persone, in Storia d’Italia nel secolo ventesimo. Strumenti e fonti, vol. III, Le fonti, a cura di Claudio Pavone, Roma, Dipartimento per i beni archivistici e librari, Direzione generale degli Archivi, 2006, pp. 617-657.
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svolto da Crispi nell’operazione propagandistica, mentre gli archivi personali dei suoi principali collaboratori valgono a illuminare il modo in cui tale regia fu tradotta in pratica. L’analisi si avvale anche di numerose fonti a stampa, con particolare attenzione ai giornali nazionali e a «La Riforma». Non meno importanti risultano i racconti dei vignettisti e degli illustratori che verso Crispi alternarono «momenti di apprezzamento sfrenato ad altri di beffardo dileggio»,24 traducendo in un linguaggio semplice un ampio spettro di immagini sterotipate del leader. Per capire quanto questo progetto, sapientemente e modernamente concepito, abbia effettivamente funzionato in termini di consenso, occorre spostare il fuoco dai centri di produzione e diffusione del mito ed esplorare il versante della ricezione.25 Anche in questo caso il fondo Crispi costituisce una fonte di rilievo: lo statista conservò nel suo archivio un numero impressionante di lettere – spedite al suo indirizzo da esponenti del mondo politico, amministrativo e intellettuale come pure da privati cittadini – attraverso cui è possibile ricostruire il quadro piuttosto sorprendente di una ricezione diffusa e trasversale. Non solo. Da queste fonti appare chiaramente come la circolazione nello spazio pubblico abbia agito sul mito, disarticolandolo e declinandolo differentemente a discapito della coerenza narrativa originaria. Quest’alterazione diventò a volte un capovolgimento completo, dando vita un mito negativo. Così accadde nei difficili anni dell’ultimo mandato, quando l’immagine di Crispi come tiranno moderno, affossatore delle libertà statutarie, si sostanziò in parlamento, ma ebbe un’eco notevole fuori dalle aule del potere. Tra movimenti di piazza e pubblicazioni a stampa, Crispi fu, per una manciata di anni, al centro della scena politica e mediatica, in un’alternanza sorprendente di voci e protagonisti. Che fossero gli ammiratori o i detrattori 24. Cfr. Segni di gloria: storia d’Italia nella stampa satirica dal Risorgimento alla Grande Guerra, 1848-1918, a cura di Fabio Santilli, Montelupone, Centro Studi Galantara, 2012, p. 228. Cfr. anche Sandro Morachioli, L’Italia alla rovescia. Ricerche sulla caricatura giornalistica tra il 1848 e l’Unità, Edizioni della Normale, Pisa, 2013. Su Crispi si rimanda in particolare a Elena Papadia, Don Cicceide. Francesco Crispi nella satira democratica e socialista, in Le maschere della realtà. Satira e caricatura nell’Italia contemporanea, a cura di Lorenzo Benadusi ed Enrico Serventi Longhi, Roma, Viella, 2022, pp. 31-48. 25. Per una messa a punto storiografica cfr. Pietro Finelli, Gian Luca Fruci, Valeria Galimi, Introduzione. La ricezione del discorso politico: scatola nera o poliedro «multifaccia»?, in Parole in azione: strategie comunicative e ricezione del discorso politico in Europa fra Otto e Novecento, a cura di Pietro Finelli, Gian Luca Fruci e Valeria Galimi, Firenze, Le Monnier università, 2012, pp. VI-XIII.
Introduzione
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a spostare l’attenzione verso di lui, rimane il fatto che attorno alla sua persona, al suo stile di governo e alla sua storia le posizioni si polarizzarono e le spaccature si fecero più profonde. In questo senso la leadership carismatica dimostrava le sue potenzialità, riuscendo a mutare lo scontro politicosociale, che finiva per focalizzarsi attorno a un uomo-simbolo, incarnazione di un’idea di nazione che gli uni volevano difendere e gli altri combattere. *** Questo libro nasce dalla revisione della mia tesi di dottorato; la mia riconoscenza va in primis al mio tutor Massimo Baioni per tutto il tempo che mi ha dedicato, le preziose indicazioni e gli scambi sempre stimolanti, e a Elena Papadia che negli anni mi ha insegnato moltissimo e continua ancora a farlo. Ringrazio il Collegio docenti del Dottorato in Studi Umanistici dell’Università di Urbino per avermi guidato con costanza e dedizione, in particolare Anna Tonelli, Monica Galfré e Andrea Baravelli, e i miei colleghi Marco Labbate, Federico Carlo Simonelli e, ovviamente, Vanessa Maggi. Sono riconoscente a Sandro Guerrieri per avermi suggerito correzioni e integrazioni, a Marco De Nicolò per le revisioni, gli incoraggiamenti e l’amicizia e al personale dell’Archivio Centrale dello Stato per la disponibilità e l’aiuto. Tengo a ringraziare anche Cecilia Palombelli che ha creduto in questo lavoro e ha pazientemente atteso che trovasse la sua forma definitiva. Grazie a Cecilia Carponi, amica e ricercatrice di spessore, per aver letto e revisionato molte parti del testo, e per tutto il resto; e a Dario, grazie, per aver fatto di quest’impresa solitaria una questione di famiglia. Dedico questo libro a mia madre Paola e a mio padre Nazario: per molti, moltissimi motivi, non potrebbe essere altrimenti.
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1. Un’immagine pubblica «L’Eremita Crispi»1 Nel 1876, quando il governo della Destra storica cedette il passo alla compagine di Sinistra, Crispi visse con entusiasmo il cambiamento e accettò la presidenza della Camera: un ruolo politicamente marginale, che ricoprì con rigore, vigilando sull’operato del governo e rimproverando i deputati poco laboriosi, che si assentavano frequentemente dall’aula. La posa catoniana gli si confaceva e gli assicurò una certa popolarità: «tenne alta» – scrisse Vincenzo Riccio – «la dignità di capo dell’assemblea legislativa, circondandola di grande apparato, non trascurando nessuna di quelle forme esteriori che valgono a dar lustro alla carica».2 Appena un anno dopo, Depretis lo chiamò a sostituire Nicotera come ministro dell’Interno del suo secondo governo: era il 26 dicembre del 1877. Poco più di due mesi dopo Crispi avrebbe rassegnato le dimissioni. A travolgere momentaneamente la sua carriera fu l’accusa di bigamia, rivolta da «Il Piccolo» di Rocco De Zerbi, secondo cui il siciliano aveva sposato la giovane Lina Barbagallo pur essendo ancora legalmente unito alla precedente moglie, Rosalia Montmasson.3 Si trattava di una notizia accatti1. Giovanni Faldella, Salita a Montecitorio (1878-1882). I pezzi grossi. Scarpellate di Cimbro, Torino, Roux e Favale, 1883, p. 93. 2. Vincenzo Riccio, Francesco Crispi. Profilo e appunti, Torino-Napoli, L. Roux e C. Editori, 1887, p. 91. 3. Cfr. Enzo Ciconte, Nicola Ciconte, Il ministro e le sue mogli. Francesco Crispi tra magistrati, domande della stampa, impunità, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010. Su
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vante, perché coinvolgeva la sfera privata e sentimentale di un ministro del Regno: scoppiò così il caso mediatico, tra scoop e indiscrezioni che rimbalzarono da una testata all’altra, interessando pure la stampa internazionale.4 L’opinione pubblica, «straordinariamente eccitata»,5 seguì l’evolversi della vicenda e il processo successivo, che si chiuse con un non-luogo a procedere. Ben più pesanti furono le ricadute sull’immagine di Crispi, che i media accusarono di aver offeso la morale pubblica.6 La narrazione giornalistica infatti lo ritrasse come un anti-eroe, incline alle sregolatezze sentimentali e colpevole di aver abbandonato la prima moglie, la forte savoiarda Rosalia, nota al pubblico per aver partecipato all’impresa dei Mille. E fu questo, soprattutto, a far infuriare Crispi: se infatti, appigliandosi a cavilli e difetti di forma, riuscì a ottenere un verdetto favorevole, non poté difendersi dall’accusa di aver vissuto per vent’anni con Rosalia, presentandola pubblicamente come la sua consorte, per sposare poi in sordina una donna più giovane. Inoltre, il ministro sapeva che l’intera vicenda avrebbe fatto il gioco dei suoi nemici politici – in primis del gruppo di Nicotera, che non aveva digerito la sostituzione agli Interni – e non dispiaceva a molti altri, sia a Destra che a Sinistra, che temevano la presenza di un deputato dalle tendenze radicali nell’esecutivo.7 Alla fine, dovette cedere alle dimissioni. Non lo abbandonarono gli amici, che interpretarono la fuga di notizie come «la più sleale delle guerre che mai siasi vista»,8 ma dentro la Camera Rosalia Montmasson, di cui non rimane pressoché traccia nell’archivio privato di Crispi, si rimanda a Renato Composto, Una donna fra i Mille: Rosalia Montmasson-Crispi, Palermo, Novecento, 1989. Di recente Maria Attanasio ha pubblicato un romanzo sulla sua vita: La ragazza di Marsiglia, Palermo, Sellerio, 2018. 4. Particolarmente severo fu il giudizio espresso dalla stampa francese. A titolo di esempio cfr. Affaire Crispi, in «Le Rappel», 21 maggio 1878; M. Crispi trigame, in «Le Pays», 12 marzo 1878; S.H., Un ministre bigame, in «Le Parisien», 9 marzo 1878. 5. Riccio, Francesco Crispi. Profilo e appunti, p. 114. 6. A titolo di esempio cfr. Uno scandalo, in «Gazzetta dei Tribunali», 9 marzo 1879. Una corposa rassegna stampa sullo scandalo si trova in ACS, CC, RE, b. 10-11, fasc. 21 e ACS, CC, BNP, b. 1, fasc. 3. 7. Dello stesso parere fu Giovanni Bovio, Uomini e tempi. Seconda edizione riveduta ed ampliata dall’Autore, Milano, Zanichelli, 1880, p. 102; cfr. anche: Depretis e Crispi, in «Il Tempo», 20 novembre 1882, ACS, CC, DSPP, b. 130, fasc. 878; Giovanni Faldella, Salita a Montecitorio (1878-1882). Dai Fratelli Bandiera alla Dissidenza. Cronaca di Cimbro, Torino, Roux e Favale, 1883, p. 213. 8. Francesco Perez a Crispi, 30 marzo 1878, ora in Francesco Crispi, Carteggi politici inediti di Francesco Crispi (1860-1900) estratti dal suo archivio, ordinati e annotati da T. Palamenghi-Crispi, Roma, L’Universelle, 1912.
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in molti gli voltarono le spalle e gli rimasero pochissimi seguaci «sicché avrebbe potuto contarli tutti sulle dita».9 Fu un momento difficile, di isolamento e delusione, ma Crispi non si perse d’animo e rimase al suo posto, partecipando alle sedute parlamentari e, come prima, prendendo parola di frequente. Sperava ancora di veder sorgere un governo di Sinistra cui aderire con fiducia e il gabinetto di Cairoli, che successe a Depretis, gli parve una buona possibilità, tanto che chiese al direttore de «La Riforma» di non sollevare ulteriori polemiche.10 L’allineamento però durò poco: lo smantellamento di alcune opere del governo precedente lese le sue speranze11 e agli amici scrisse di voler solamente attendere che gli eventi precipitassero cosicché il parlamento e il paese scoprissero «quanto valgono gli uomini a cui fu affidato il potere, perché possano fare il confronto tra costoro e quelli che sono stati ingiustamente e disonestamente avversati».12 Il suo atteggiamento politico stava cambiando e i più accorti ne intuirono il significato, ipotizzando che, come «Achille sotto la tenda», aspettasse «l’uccisione di qualche Patroclo».13 A dicembre, dopo l’attentato di Giovanni Passannante a Umberto I e l’esplosione di vari ordigni a Firenze e Pisa, Crispi interrogò il ministro dell’Interno sulla situazione della pubblica sicurezza. La risposta di Zanardelli lo lasciò perplesso e decise per la rottura, dichiarando di sentirsi a disagio tra i banchi della Sinistra.14 Le dimissioni di Cairoli e la composizione del nuovo gabinetto di Depretis15 non bastarono a placare la sua preoccupazione verso l’andamento generale della politica che – secondo «La Riforma» – limitava «la sua azione nel perimetro delle faccende domestiche» e rimandava «qualunque 9. Riccio, Francesco Crispi. Profilo e appunti, p. 114. 10. Cfr. Crispi al direttore de «La Riforma» Gerolamo De Luca Aprile, 3 maggio 1878, ASMAE, Carteggio Crispi-Levi, busta unica. Il giornale limitò gli attacchi personali, ma non rinunciò a titoli come Inertia operis, Le incoerenze e Finis sinistrae (cfr. «La Riforma», 23, 25 e 26 maggio 1878). 11. Mi riferisco in particolare alla ricostituzione del ministero dell’Agricoltura che era stato soppresso da Depretis con r.d. del 26 dicembre 1877. 12. Crispi a Fabrizi, 2 luglio 1878, in Crispi, Carteggi politici inediti di Francesco Crispi. 13. Giovanni Raffaele a Damiani, 4 luglio 1878, ACS, Abele Damiani, b. 3. 14. Cfr. Tornata del 7 dicembre 1878, ora in Francesco Crispi, Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1915, vol. II, pp. 320-325. 15. Il governo Cairoli rassegnò le dimissioni l’undici dicembre del 1878.
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grande cosa».16 Tuttavia, onde evitare che il frazionamento della Sinistra rendesse instabili gli esecutivi e paralizzasse il processo riformatore, Crispi modulò ancora una volta i toni e chiese al suo giornale di pubblicare una missiva indirizzata a Nicola Fabrizi nella quale chiariva di appartenere alla Sinistra, aggiungendo però di attendere ancora un uomo superiore che sapesse guidarla.17 La parte del severo censore, che alternava rimproveri e incoraggiamenti verso il governo, era destinata a durare ancora pochi mesi. Nell’estate del 1879 il parlamento tornò a discutere la tassa sul macinato e Cairoli e Zanardelli, uniti al gruppo di Nicotera, rovesciarono Depretis, dando vita a un secondo governo Cairoli, privo delle ambizioni riformatrici della precedente edizione.18 A questo punto, Crispi scelse un più marcato isolamento e si assentò spesso dalla Camera. Nella corrispondenza privata confessava: «Voglio restare libero come l’aria, e non potendo avere fede in uomini più volte provati, il mio contegno è di aspettazione». Solo così – spiegò agli amici – poteva dimostrare la sua distanza dai governi che si erano succeduti dal 1876.19 Svestì, insomma, i panni del Catone e assunse una posa da eremita, scegliendo di “starsene in disparte” per non «perdersi con essi» – con Depretis, Cairoli, Nicotera – e per «sopravvivere alla loro morte politica».20 Alla fine del 1879, quando Cairoli e Depretis formarono un nuovo governo e gli venne proposta la presidenza del bilancio, ammise di sentirsi in imbarazzo, non potendo approvare la politica di un esecutivo che si reggeva sull’alleanza di due fazioni della Sinistra fino a poco prima in aperto contrasto.21 Alla fine però accettò la nomina: l’occasione era preziosa e Crispi sperava che potesse assicurargli nuova visibilità. Ripropose le pose 16. Atonia ministeriale, in «La Riforma», 27 gennaio 1879. 17. Cfr. Bozza dell’articolo, 17 gennaio 1879, ACS, CC, RE, b. 2. 18. Nel luglio del 1878 la Camera aveva votato per l’abolizione della tassa sui cereali inferiori (a partire dal 1 luglio 1879) e per l’abolizione della tassa sugli altri cereali a partire dal gennaio del 1883 (nel frattempo le imposte su questi ultimi sarebbero state ridotte di un quarto). Il Senato accettò solo la proposta di abolizione della tassa sui cereali inferiori. Il progetto emendato dal Senato aprì una discussione parlamentare che si chiuse con l’approvazione della proposta e con la caduta del governo Depretis. Cfr. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura XIII, Sessione del 1878-1879, Discussioni, II Tornata del 3 luglio 1879, pp. 8345-8365. 19. Crispi a Damiani, 1 dicembre 1879, ora in Crispi e Damiani. Carteggio 18761899, a cura di Giuseppe Astuto, Catania, Università, 1984. 20. Crispi a Primo Levi, 16 gennaio 1879, ACS, Palumbo Cardella, b. 5, fasc. 80. 21. Cfr. Crispi a Damiani, 26 dicembre 1879, ACS, Abele Damiani, b. 1.
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da Catone e gli isolamenti da eremita, suscitando la reazione di Cesare Correnti, che lo rimproverò di alimentare la discordia per calcolo politico: Tu giuochi un gioco disperato; […] E sarai tu, Francesco Crispi, che dirai all’Italia: o lasciamiti governare, o ricadi in braccio ad un’oligarchia impotente, contro la quale io susciterò poi i furori d’un’opposizione sviata dall’orbita legale e già fin d’ora declinante a guerra civile? Crispi! Tu credi d’aver il tatto e l’ardimento politico e confondi l’audacia con la forza.22
Crispi rifiutò le accuse: il potere non gli interessava, lo aveva avuto nel 1860 e nel 1878 e gli aveva provocato solo guai – rispose all’amico. Poco dopo lo scambio con Correnti presentò le dimissioni, scrivendo a Damiani di sentirsi stanco e inutile dentro alla Camera – «un albero, che non può più dare frutti» –, ma significativamente aggiunse: «Avrò il diritto di parlare, come io credo, all’Italia, e di non essere frainteso […] e l’opinione pubblica, la quale oggi è fuorviata, ritornerà a me senza alcun dubbio».23 Pur ritirando le dimissioni, non mutò atteggiamento e, fino a novembre, non prese più la parola in parlamento, concentrandosi quasi esclusivamente sul lavoro privato e dedicandosi alla famiglia.24 Tutt’altro che conclusa, la sua carriera trasse nuovo slancio dalle elezioni del 1882: l’anno seguente, partecipò con Zanardelli, Baccarini, Cairoli e Nicotera alla nascita della Pentarchia, il gruppo di opposizione alla politica trasformistica di Depretis. La collaborazione con gli altri deputati dissidenti si rivelò in poco tempo complicata per le divergenze d’opinione su questioni specifiche e, anche, per la difficoltà di dialogo tra il gruppo settentrionale e quello dei deputati meridionali; da parte sua Crispi non rinunciò a parlare solo per se stesso, mostrandosi in diverse occasioni «poco pentarchico ma molto crispino».25 Nel frattempo «La Riforma» proseguiva senza sosta la lotta al trasformismo: «il parlamento è inerme» – scriveva – il governo è guidato «dalla onnipotenza artificiale di una consorteria», nella vita politica «non più idea22. Correnti a Crispi, 6 giugno 1880, in Crispi, Carteggi politici inediti di Francesco Crispi. 23. Crispi a Damiani, 14 giugno 1880, in ACS, Abele Damiani, b. 1. 24. «Fo una vita di professione, alla quale rubo le ore del bagno, del cibo, del sonno. Leggo i giornali per abitudine» scrisse dalle terme di Casamicciola, dove si trovava durante l’estate. Crispi a Damiani, 19 agosto 1880, in Crispi e Damiani. 25. In particolar modo rispetto alla questione agraria e alla politica estera. Cfr. Giampaolo Boccaccini, La pentarchia e l’opposizione al trasformismo, Milano, Giuffrè, 1971, pp. 127-128.
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li, e quasi nemmeno più interessi».26 Dall’autunno pubblicò articoli di fondo titolati Come stiamo, Ci vogliono i fatti e Contro l’ozio e seguì passo dopo passo i preparativi della Pentarchia.27 Negli anni dell’opposizione a Depretis, l’immagine pubblica di Crispi iniziò a definirsi e a diffondersi anche fuori dalla Camera, soprattutto in Sicilia, dove venne rieletto nel 1880 e nel 1882. La sua battaglia per l’allargamento del suffragio e per lo scrutinio di lista, l’atteggiamento del deputato moralmente incorruttibile, indisposto a coalizioni e compromessi, lo resero, proprio come egli desiderava, più vicino all’opinione pubblica. Nel 1880 Giovanni Bovio, pubblicando la seconda edizione di Uomini e tempi, si riferì a Crispi come a «l’intelletto di più radicale e di più larga riforma»28 all’interno della Camera. Un profilo simile fu tratteggiato dallo scrittore e giornalista Giovanni Faldella che nel suo Cronaca di Cimbro lo raccontò «instancabile ed ostinato nei suoi propositi» e ne elogiò le virtù catoniane.29 Del resto, già all’inizio degli anni Sessanta, Ferdinando Petruccelli Della Gattina lo aveva apprezzato per essere «stringente negli argomenti», «laborioso» e «spiccio in mezzo alle panie amministrative»: un «Crispi tout court» che alle domande del giornalista – «Siete voi Mazziniano? […] Siete voi Garibaldino?» – aveva lapidariamente risposto «Io sono Crispi».30 Così ne parlava anche la stampa, descrivendolo positivo, energico, battagliero e «uomo tutto d’un pezzo, […] che non ammette transazione alcuna o accomodamento».31 E proprio in virtù della sua rettitudine morale e del suo radicalismo politico egli era da molti considerato la «testa forte»,32 il «Corifeo della Sinistra».33 26. Vacanze e trasformismo, in «La Riforma», 17 marzo 1883. 27. «La Riforma» rispettivamente 10 settembre, 20 settembre e 4 novembre 1883. 28. Bovio, Discorso circa Uomini e tempi, in Id., Uomini e tempi, p. 101. 29. Faldella, Salita a Montecitorio (1878-1882). Dai Fratelli Bandiera alla Dissidenza. Cronaca di Cimbro, pp. 194 e 200. 30. Ferdinando Petruccelli Della Gattina, I moribondi del Palazzo Carignano, Milano, Perelli, 1862, pp. 170-171. 31. Depretis e Crispi, in «Il Tempo», 20 novembre 1882, ACS, CC, DSPP, b. 130, fasc. 878. 32. La citazione è tratta da Francesco Crispi, in «La Soluzione», 8 aprile 1883, che riportava un estratto da «La Gazzetta di Torino» dell’agosto 1876, ACS, CC, DSPP, b. 130, fasc. 878. 33. Galleria del buonumore. Francesco Crispi, in «Il buon umore. Giornale per tutti i gusti», s.d., MRR, b. 660, fasc. 22.
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Anche oltre il perimetro del mondo politico e giornalistico queste idee avevano una certa risonanza: durante la campagna elettorale del 1880 Crispi non risparmiò critiche al governo34 e, di tutta risposta, ricevette diverse lettere da privati cittadini che lamentavano la condotta di prefetti, sotto-prefetti e funzionari di pubblica sicurezza: un’ulteriore prova – gli scrisse un maestro di Pordenone – del «dispotismo dell’attuale ministero».35 L’immagine del deputato che non «s’assimila»,36 capace di ergersi al di sopra degli interessi di parte, poiché energico, radicale nelle idee e mosso da un forte proposito politico, andava incontro a umori diffusi nel paese e per questo ebbe vasta fortuna. Rispondeva, quell’immagine, all’insofferenza con cui molti guardavano al presente: un’epoca “piccola”, di compromessi politici e ideali, che non faceva onore al sacrificio degli eroi e dei martiri del Risorgimento. Gli anni del trasformismo, le notizie dei primi scandali politico-finanziari che investirono il parlamento e la prassi del clientelismo elettorale alimentarono la nostalgia per un passato mitizzato soprattutto tra i nati “troppo tardi”, ovvero tra coloro che non avevano preso parte all’unificazione per motivi anagrafici e che percepirono dolorosamente lo scarto tra la “poesia” delle battaglie di liberazione e la “prosa” che gli era succeduta.37 Frustrazione, rabbia, deprecatio temporum si riversavano sul parlamento, considerato un luogo di malaffare e preso di mira dalla satira, dalla polemi34. Sulla propaganda antigovernativa di Crispi cfr: Tornata del 15 marzo 1880, in Crispi, Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, vol. II, pp. 401-417; Francesco Crispi, Il movimento elettorale, discorso tenuto in Napoli nel chiostro di Santa Maria Novella, 6 maggio 1880, in Id., Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi, Torino-Roma, Roux e Viarengo, 1890, pp. 474-478; Id., Le ragioni della crisi parlamentare, discorso tenuto nella Sala della società democratica di Palermo, 9 maggio 1880, ivi, pp. 478-484; Id., Il malgoverno e i nostri doveri, discorso tenuto nell’aula del Consiglio comunale di Tricarico, 19 maggio 1880, ivi, pp. 484-493. 35. Antonio Grandis, maestro di Pordenone, a Crispi, 2 giugno 1880, ACS, CC, DSPP, b. 21, fasc. 180. 36. In un articolo s.d. e s.t. conservato tra le sue carte si scrive: «mettetelo dove vi pare, in un Gabinetto, in un partito, in un’Assemblea, dovunque, Crispi si stacca, si alza, fa da sé, e s’isola senza accorgersene, anche quando mira o tende a tener riuniti gli altri», ACS, CC, DSPP, b. 130, fasc. 878. 37. Cfr. Elena Papadia, Di padre in figlio. La generazione del 1915, Bologna, il Mulino, 2013; Arianna Arisi Rota, 1869: il Risorgimento alla deriva. Affari e politica nel caso Lobbia, Bologna, il Mulino, 2015.
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ca giornalistica e dalla letteratura.38 Nel 1862 sempre Petruccelli della Gattina aveva già colto questo «atteggiamento di scontento»39 ne I moribondi di Palazzo Carignano, ma vi sarebbero tornati molti altri scrittori dopo di lui, tanto che si definì un genere nuovo, quello del romanzo parlamentare, un racconto della vita politica a metà strada tra denuncia e dileggio, di deputati senza spessore morale e passione civica, come l’Onorevole Qualunquo Qualunqui descritto da Luigi Bertelli, esponente del Partito Purchessisti e sostenitore del «programma qualsivoglia».40 I versi di Carducci degli anni Ottanta, che traboccavano di amaro disincanto verso «la farsa dell’infinitamente piccolo»,41 divennero dei potenti slogan di questo comune sentire. Uno tra i più celebri – «impronta Italia domandava Roma, / Bisanzio essi le han dato»42 – fu scelto come motto del giornale «Cronaca Bizantina», fondato nel 1881 a Roma da Angelo Sommaruga, a cui seguirono, qualche anno dopo, «Le Forche Caudine» e il «Nabab».43 Gli esperimenti di Sommaruga, che durarono solo qualche anno, raggiunsero tirature da record, dedicando ampio spazio alla cronaca degli scoop e delle voci di corridoio e indugiando sulle forme patologiche e deviate della prassi parlamentare. Questo racconto per eccesso della vita politica, di cui si esasperavano gli elementi negativi, popolato da anti-eroi, generò in molti la necessità di 38. Sull’antiparlamentarismo italiano di fine secolo si rimanda a: Alberto Mario Banti, Retoriche e idiomi: l’antiparlamentarismo nell’Italia di fine Ottocento, in «Storica», 3 (1995), pp. 7-41; Giacomo Perticone, Parlamentarismo e antiparlamentarismo nel post-Risorgimento, ora in Id., Scritti di storia e politica del post-Risorgimento, Milano, Giuffrè, 1969, pp. 185-218; Ettore Cuomo, Critica e crisi del parlamentarismo (18701900), Torino, Giappichelli, 1996. Sulla caricatura antiparlamentare rimando al mio: La satire: une image de l’antiparlemetarisme italien (1861-1887), in Deux siècles de caricatures parlementaires et politiques, a cura di Pierre Allorant, Alexandre Borrell e Jean Garrigues, Arras, Artois Presses Université, 2019, pp. 51-66. 39. Carlo A. Madrignani, Introduzione, in Rosso e nero a Montecitorio. Il romanzo parlamentare della nuova Italia (1861-1901), a cura di Id., Firenze, Vallecchi, 1980, p. 6. 40. Luigi Bertelli (Vamba), L’onorevole Qualunqui e i suoi ultimi diciotto mesi di vita parlamentare [1898], a cura di Carmelo Caruso, Palermo, Barion, 2013. 41. Giosuè Carducci, Discorso al popolo nel teatro nuovo di Pisa, 19 maggio 1886, in Id., Confessioni e battaglie, Bologna, Zanichelli, 1890, pp. 473-484, p. 481. 42. Giosuè Carducci, Per Vincenzo Caldesi otto mesi dopo la sua morte [1871], in Giambi ed Epodi, ora in Carducci tutte le poesie, a cura di Pietro Gibellini, Roma, Newton e Compton, 2010. 43. Cfr. Cronaca bizantina, a cura di Vincenzo Chiarenza, Treviso, Canova, 1975. Si rimanda anche a Carlo M. Fiorentino, Angelo Sommaruga (1857-1941). Un editore milanese tra modernità e scandali, Milano, Mondadori, 2014.
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riconoscere un uomo del riscatto a cui affidarsi. Crispi, che avvertiva una sincera delusione per il presente, si fece portavoce di questo sentimento, lamentando «il disordine intellettuale e morale» dei «bizantini» al potere,44 ma non ripiegò nel solo ricordo del passato; a Cesare Correnti, che con lui condivise la preoccupazione per il «naufragio» dell’Italia, scrisse: «Lasciamo i morti, e pensiamo ai vivi».45 Assunse, piuttosto, la posa del “solitario”, del deputato incompreso proprio per i suoi alti propositi, e questo gli permise di sfruttare a suo vantaggio la diffusa insoddisfazione verso la politica, guadagnando molti consensi nell’opinione pubblica. Quando alla metà degli anni Ottanta le polemiche antigovernative si riaccesero, a seguito di un’epidemia di colera e di un’ondata di scioperi, Crispi ricomparve sulle scene, cavalcando l’onda del problema sociale. Il Crispi della questione sociale Nel biennio 1884-1886 il governo dovette far fronte a una difficile congiuntura economica cui si sommarono due devastanti ondate di colera: la prima, nel 1884, colpì duramente Napoli, provocando in poco tempo ottomila morti, la seconda ebbe il suo epicentro a Palermo. La crisi sanitaria e i problemi a questa legati – l’assenza di un sistema di approvvigionamento idrico e di fognature adeguato e la necessità di una legislazione igienica efficace – si imposero all’attenzione dell’opinione pubblica grazie alle corrispondenze di giornalisti e letterati.46 Seguì, nel 1885, un’ondata di scioperi nelle campagne lombarde su cui «La Riforma» indugiò a lungo, raccontando le terribili condizioni di vita dei contadini e invocando misure protezionistiche a tutela dell’economia nazionale.47 44. Crispi a Lina, 16 maggio 1881, ACS, Palumbo Cardella, b. 5, fasc. 83; Crispi a Damiani, 28 giugno 1878, in Crispi e Damiani. 45. Crispi a Correnti, 11 settembre 1887, MRM, Carte Cesare Correnti, fasc. 135. Tra le carte Correnti, conservate al Museo del Risorgimento di Milano, si contano decine di appunti relativi ai «naufragi della Patria», in cui Correnti ripercorreva ossessivamente la storia del Regno, dall’unificazione fino agli anni Ottanta, che considerava il decennio della «palingenesi mancata» a causa di una generazione di «vecchi». Cfr. Correnti, appunto autografo, s.d., MRM, Carte Cesare Correnti, fasc. 70. 46. Cfr. Eugenia Tognotti, Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 245 ss. 47. Gli scioperi in Lombardia, in «La Riforma», 14 luglio 1885; cfr. anche Come si vive e come si muore a Milano, ivi, 11 agosto 1885; Come vive il contadino italiano, ivi, 16 agosto 1885.
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Quando scoppiò il colera a Palermo, Crispi decise di tornare nell’isola natale: il viaggio offriva visibilità politica e gli avrebbe permesso di testimoniare in presa diretta l’inefficacia dei provvedimenti governativi, come le quarantene, che impedivano rifornimenti e aiuti tempestivi. I preparativi per la partenza, però, si rivelarono più lunghi del previsto; Crispi, insofferente, contattò il sindaco di Palermo, scrivendogli di voler partire, e incalzò Depretis affinché gli fosse messa a disposizione una nave da guerra.48 Nel frattempo «La Riforma» dedicava alla Sicilia prime pagine e titoli ad effetto, e attaccava il governo, il quale, reagendo con impreparazione all’emergenza, dimostrava che dall’esperienza del 1884 «nulla s’è appreso, nulla s’è preparato, nulla s’è concretato, nemmeno nelle idee».49 Fu la partenza di Primo Levi per la Sicilia, imbarcatosi con Crispi, a dare al racconto de «La Riforma» tutt’altro spessore. Il direttore del giornale infatti, inviato sul campo, lavorò alla stesura di più di trenta articoli sulle condizioni di Palermo. Attraverso un reportage dai toni romanzeschi, restituì ai lettori il dipinto fosco di un paese abbandonato nell’anarchia e nell’ignoranza, tra cacce agli untori e improvvisati cordoni sanitari contro il contagio, mentre il colera mieteva vittime nelle borgate buie, a causa dell’assenza di acqua e delle più basilari norme igieniche.50 A far fronte a tale situazione apocalittica – continuava Levi – erano intervenuti Crispi, il medico Enrico Albanese e Giuseppe Palumbo Cardella, un giovane collaboratore del deputato, i quali, sopperendo alle mancanze del governo, avevano provveduto ai bisogni più urgenti della popolazione. Il giornale raccontò con minuzia di particolari l’opera di Crispi, che si prodigò per arginare il morbo e vincere le superstizioni popolari, organizzò un ricovero per gli orfani colerosi e occupò gli operai in lavori di abbattimento di edifici inagibili. La presenza del deputato siciliano e la sua opera 48. Cfr. Crispi al sindaco di Palermo, 12 settembre 1885 e Crispi a Depretis, 13 settembre 1885, ACS, CC, DSPP, b. 24, fasc. 211. Adirato per i molti ostacoli che ritardavano la partenza il 14 settembre Crispi scrisse a Lina: «Giustamente perché sono operoso non voglio immobilizzarmi sette giorni nel porto di Augusta. Sono d’ottima salute in un paese sano, potrei trovare nel luogo della contumacia un coleroso e farvi la fine del minchione», ivi. 49. Disordine e anarchia, in «La Riforma», 12 settembre 1885. Cfr. anche Don Abbondio, ivi, 16 settembre 1885 e Plebiscito di biasimo, ivi, 12 settembre 1885. 50. A titolo di esempio: Dove si abita, Cosa si mangia, Come si vive, in «La Riforma», 4, 5 e 10 novembre 1885.
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pronta ed efficace – concludeva il direttore – aveva risollevato lo spirito pubblico dei palermitani.51 Le corrispondenze de «La Riforma» non caddero nel vuoto: dal continente deputati e amici gli inviarono sentiti ringraziamenti per l’«eroica missione»52 siciliana, che ricordava l’impegno profuso nei giorni della spedizione garibaldina. Jacopo Comin, direttore de «Il Pungolo» di Napoli, gli mise a disposizione il suo giornale, altri lo contattarono desiderosi di seguire il suo esempio e imbarcarsi.53 Ma a questi Crispi rispose con fermezza, spiegando che il morbo stava rientrando e che nuovi arrivi sarebbero stati inutili se non deleteri, anche perché la popolazione aveva bisogno di qualcuno che comprendesse e parlasse il suo dialetto. Quando Felice Cavallotti insistette nel suo intento, il siciliano tuonò: «Non comprendo ostinazione di cotesti signori, ove il loro viaggio non abbia scopo politico e di politica questo non è tempo».54 Dalla fermezza con cui rifiutò l’aiuto e scoraggiò le partenze, sembra quasi che non volesse condividere la scena con altri, rendendo così il suo contributo un esempio inimitato di generosità umanitaria. Superata la fase di maggior propagazione del morbo, Levi tornò sul continente, ricevendo il plauso della stampa per aver prestato il suo aiuto e per aver fornito aggiornamenti costanti sulle condizioni dell’isola. Crispi rientrò poco dopo, trattenuto da questioni burocratiche e – scrissero i giornali siciliani – «non stanco ancora di tanti lavori e di tanti sacrifizii».55 L’esperienza di Palermo e la presenza di Levi sull’isola aumentarono la popolarità di Crispi e, nel gennaio dell’anno successivo, anche il re gli fece arrivare i suoi ringraziamenti, inviandogli una medaglia per il contributo generosamente offerto durante l’ondata epidemica.56 Da parte sua, il deputato, forte della visibilità acquisita, si batté ancora per il Mezzogiorno, stavolta nelle aule parlamentari. Nell’inverno del 1885 la Camera fu infatti impegnata in un’aspra discussione sui provvedimenti per la pe51. Cfr. Da Palermo. Il colera, ivi, 21-22 settembre 1885 e Telegrammi particolari della Riforma, ivi, 25 settembre 1885. 52. Scipione Ronchetti a Crispi, 4 ottobre 1885, ACS, CC, DSPP, b. 24, fasc. 211. «Strappaste Palermo ai Borboni la salverete dal delirio del dolore» scrissero “amjci” da Siena, 20 settembre 1885, ivi. 53. Comin a Crispi, 22 settembre 1885, ivi. 54. Crispi a Nicotera, 24 settembre 1884, ivi. 55. A Palermo grato animo, in «La Riforma», 22 novembre 1885. 56. Cfr. Depretis a Crispi, 15 gennaio 1886, ACS, CC, DSPP, b. 26, fasc. 210.
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requazione dell’imposta fondiaria, che Crispi riteneva dannosa per il Sud e che tentò energicamente di bloccare. Non ci riuscì, e il disegno diventò legge all’inizio del 1886. Il governo però uscì indebolito dai lunghi mesi di discussione e il deputato ne approfittò per rompere gli indugi: Mettete un uomo energico là; ma non l’uomo che piega, che cede; non l’uomo che, per farsi una maggioranza, ha bisogno di beneficare i deputati i quali alla loro volta devono beneficare gli elettori; l’uomo con un programma sicuro, attorno al quale si riuniscano uomini sicuri e convinti; ed allora, signori, potrete sperare che questi sette popoli decrepiti e viziati dal dispotismo divengano popoli seri e virtuosi.57
Poco dopo questo discorso, Depretis sciolse la Camera e indisse nuove elezioni. Iniziò così la campagna elettorale e a Crispi fu subito chiaro che era necessario insistere sulla questione sociale, proponendo un programma di ambiziose riforme. Dopo aver cercato invano un contatto col gruppo di Rudinì, si presentò da solo nei teatri delle città italiane. «La Riforma» espose il programma crispino «veramente nazionale, non più di nome soltanto, ma di idee e di fatto», riportò per intero i discorsi del deputato, introducendo una sezione dedicata ai commenti elogiativi della stampa, e descrisse la calda accoglienza ricevuta da Crispi a ogni sosta, «nei corridoi, sulle scale e nella piazza».58 Il foglio ebbe un ruolo decisivo nell’andamento della prova elettorale, assicurando un’eco nazionale alle apparizioni pubbliche del deputato. Non solo. La giovane e vivace redazione del giornale dispensò supporto e consigli preziosi: Levi lo seguì passo dopo passo e, convinto che occorresse coniugare la proposta riformista a uno stile energico, per andare incontro ai molti che sentivano «la necessità di progredire e quella di una mano forte per non precipitare», gli suggerì di mostrarsi «più liberale di un repubblicano e più severo di un ortodosso – ma liberale anzi tutto»; inoltre, si occupò di correggere le bozze dei discorsi e di curare gli aspetti tecnici per la buona riuscita dei singoli eventi, mantenendo i contatti con l’agenzia telegrafica Stefani e stabilendo le date delle orazioni, che dovevano tenersi – suggerì – solo aver 57. Tornata del 4 marzo 1886, in Crispi, Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, vol. II, p. 786. In questi mesi «La Riforma» ripropose continuamente titoli antigovernativi come La corda è spezzata, L’anemia parlamentare e I pericoli della noia, rispettivamente 21 dicembre 1885, 27 marzo 1886, 6 marzo 1886. 58. Il partito nazionale nelle elezioni, in «La Riforma», 1 aprile 1886 e Ultimo Corriere, ivi, 20 maggio 1886.
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atteso il giusto tempo e alimentato l’aspettazione e la simpatia del pubblico. Era mosso da una fiducia e da un entusiasmo politico sincero: «si rammenti che il nostro cuore, in questi giorni, batte a Palermo», «non abbiamo altra luce che lei», scrisse a Crispi nel maggio dell’86.59 Durante la campagna elettorale il deputato ricevette molti telegrammi di apprezzamento. Alle parole elogiative indirizzate al «precursore dei tempi nuovi», i mittenti accompagnavano sovente aspre critiche al governo, quasi che il sostegno a Crispi fosse una reazione alla malapolitica, una scelta «a danno di chi seppe gettare la patria […] nel lutto e nella desolazione». Alcuni gli scrissero per denunciare le pressioni e le intimidazioni dei prefetti durante la campagna elettorale, riconoscendo in lui il solo «faro» dell’Italia, l’unico che avrebbe potuto «se pure ne è in tempo, salvare le istituzioni».60 Il 21 maggio «La Riforma» assestò l’ultimo colpo a Depretis con l’articolo Due uomini – due discorsi nel quale comparò i luoghi scelti dai deputati per le loro orazioni, tenutesi entrambe due giorni prima: l’uno al Politeama di Palermo, di fronte a migliaia di cittadini, l’altro dentro una sala del Campidoglio, alla presenza di un pubblico più contenuto. Queste scelte – argomentò il giornale – erano una prova del diverso modo in cui i due politici si rapportavano con la società: Crispi infatti, pur se investito di minori responsabilità, «si esponeva al massimo rischio, adempiendo, nella più ampia forma, al suo obbligo di rappresentante della Nazione», mentre l’altro temeva il confronto diretto con il paese. Non solo. Parlando a un vasto e variegato uditorio il deputato siciliano dimostrava di saper rendere i suoi pensieri «istantaneamente popolari» attraverso un lessico semplice e fruibile ai più. Il discorso di Depretis – concluse il giornale – era stato invece pronunciato «lentamente, stentatamente dalla bocca dell’illustre uomo».61 I risultati elettorali evidenziarono un indebolimento della maggioranza governativa, mentre il siciliano venne rieletto a Palermo nonostante – come scrisse a Lina – «le violenze, le falsità, […] le intimidazioni» dello scontro.62 59. Levi a Crispi, 9 e 10 maggio 1886, ACS, CC, DSPP, b. 25, fasc. 215. 60. Studenti radicali di Roma a Crispi, 16 maggio 1886; Società Agricola di Mutuo Soccorso Sezione di Partanna, Mondello e sue adiacenze (Palermo), 13 maggio 1886; Casino della Società Agricola Giorgio Scanderbeg di Palazzo Adriano, 25 maggio 1886; Telegramma di Vincenzo Rioto, 30 maggio 1886, ivi. 61. Due uomini – due discorsi, in «La Riforma», 21 maggio 1886. 62. Crispi a Lina, 24 maggio 1886, ACS, CC, DSPP, b. 25, fasc. 215.
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A conti fatti l’engagement nella questione sociale assicurò una nuova popolarità a Crispi che pareva avere le doti giuste per occuparsi dei problemi di una nazione appena sorta e travagliata da tensioni sociali crescenti.63 L’energia dimostrata nel corso dell’emergenza epidemica e della campagna elettorale richiamava alla memoria di molti le prove della giovinezza, per cui Crispi era già celebre fuori e dentro i confini della sfera politica. L’ultimo titano del Risorgimento Aver preso parte al processo risorgimentale costituiva di per sé una garanzia di moralità e di capacità politica per coloro che dopo le patrie battaglie erano entrati in parlamento. Così fu anche per Crispi, che aveva vissuto la classica trafila del rivoluzionario – attività cospirativa, esilio, propaganda politica – coronando la sua carriera da patriota con un ruolo da protagonista nell’«omerica impresa» dei Mille.64 Proprio su questo episodio il deputato tornò più frequentemente: quella medaglia al valore gli permetteva infatti di tacitare d’un colpo gli avversari dentro al parlamento: «Ridevate anche quando il 4 maggio 1860 siamo partiti da Quarto; ma siamo arrivati a Marsala, e poscia vittoriosi sino a Palermo» – rispose a Ruggiero Bonghi durante la discussione sul bilancio nel 1879.65 Soprattutto però rievocò l’impresa garibaldina fuori dall’aula parlamentare, dilungandosi su aneddoti e dettagli suggestivi che solo un protagonista di quel viaggio avrebbe potuto conoscere. In questo modo sapeva di attingere a un bagaglio di memorie capace di suscitare commozione ed empatia nel pubblico. Anche perché Crispi non era un Mille tra gli altri, ma aveva avuto un ruolo chiave nella fase organizzativa – e per questo era considerato la “mente” della spedizione – ed era poi stato nominato segretario di Stato e ministro della dittatura garibaldina. Il protagonismo avuto nel 1860 gli per63. Come ha scritto Federico Anghelé «in corrispondenza con l’allargamento del suffragio, con l’accendersi delle rivendicazioni sociali e con l’intensificarsi delle prerogative statuali, l’autolegittimazione dei candidati non poteva più richiamarsi alle sole gesta del passato risorgimentale, ma, semmai, si connetteva maggiormente alla capacità della classe politica di offrire risposte concrete ai problemi del momento disegnando, allo stesso tempo, nuove, future prospettive per un popolo “in costruzione”», Cfr. Id., Educare alla patria e alla politica: il discorso elettorale nell’Italia liberale, in Patrioti si diventa. Luoghi e linguaggi di pedagogia patriottica nell’Italia unita, a cura di Arianna Arisi Rota, Monica Ferrari e Matteo Morandi, FrancoAngeli, Milano, 2009, p. 138. 64. Crispi a Cardella, 15 gennaio 1885, ACS, Palumbo Cardella, b. 8, fasc. 87. 65. Tornata del 27 marzo 1879, in Crispi, Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, vol. II, p. 355.
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metteva di presentarsi come un uomo politico versatile, dotato del coraggio del patriota in armi, ma anche della preparazione e della lungimiranza del legislatore. Come scrisse «La Riforma» quel governo «giusto, previdente e fecondatore» costituiva una prova della «sapienza politica e civile di coloro che avevano, non solo braccio e cuore per combattere, ma mente per pensare e volontà per compiere».66 Il coraggio della militanza e l’abilità politica: sono, questi, due tasselli fondamentali del mito di Crispi, a riprova della funzionalità del garibaldinismo come fattore di legittimazione e della sua versatilità mitopoietica.67 E in effetti l’immagine del combattente e del genio politico trovò da subito una buona accoglienza: negli anni Ottanta molte associazioni patriottiche gli scrissero per comunicargli la sua nomina a socio onorario, ricordandolo come l’«indefesso compagno di Garibaldi, il forte organizzatore» dell’impresa cominciata a Quarto.68 Nel 1885, quando venne invitato a Palermo come oratore per il venticinquesimo anniversario della spedizione, i giornali raccontarono l’ammirazione e il rispetto manifestatogli dai cittadini e dai reduci garibaldini: gli applasi, i lanci di fiori, la commozione delle donne e il religioso silenzio con cui la platea del Politeama aveva ascoltato il suo discorso.69 Se dunque il passato risorgimentale lo rendeva agli occhi di molti una «celebrità vivente» e un «augusto personaggio»70 della storia patria, questi non mancò di impiegarlo a sostegno delle sue idee, soprattutto in relazione alla politica estera. Già sul finire degli anni Settanta espresse più volte la sua preoccupazione per la debole posizione dell’Italia nello scacchiere europeo e per la politica rinunciataria della Sinistra. Amareggiato per la passiva partecipazione del ministro Luigi Corti al Congresso di Berlino del 1878, reagì con rabbia di fronte all’occupazione francese della Tunisia del 1881 e criticò l’at66. La dittatura legislatrice, in «La Riforma», 27 maggio 1885. Cfr. anche Quel che si deve fare, ivi, 29 maggio 1885. 67. Cfr. Eva Cecchinato, Camicie rosse. I garibaldini dall’Unità alla Grande Guerra, Roma-Bari, Laterza, 2007. 68. Telegramma della Società dei Reduci Garibaldini di mutuo soccorso di Torino, 20 ottobre 1882, ACS, CC, DSPP, b. 26, fasc. 221. 69. Cfr. Le feste. Palermo ai Mille, in «La Riforma», 29 maggio 1885 e Il discorso di Crispi, ivi, 29 maggio 1885. 70. Telegramma della Società Democratica Monarchica Progressista a Crispi, San Salvatore d’Italia (Messina), 25 dicembre 1882, ACS, CC, DSPP, b. 26, fasc. 221.
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teggiamento assunto dal governo italiano durante la crisi egiziana dell’anno successivo. Nell’82 infatti, per sedare la rivolta nazionalista guidata da Arabi Pascià, l’Inghilterra intervenne militarmente nel paese e si mostrò ben disposta a un’azione congiunta dell’Italia, che però declinò l’invito.71 Il pensiero di queste occasioni mancate lo ossessionava e nei suoi discorsi ribadì continuamente la necessità di scegliere le alleanze internazionali unicamente sulla base di interessi contingenti, rafforzando i legami con gli imperi centrali e con l’Inghilterra in funzione antifrancese. Per sostenere queste posizioni si appellò sovente all’idea della missione civilizzatrice di mazziniana memoria e a una tradizione di pensiero fortemente antifrancese diffusa in Italia a partire dagli anni Sessanta, per cui appariva necessario liberarsi dalla gratitudine verso Napoleone III, rendersi indipendenti, dare lustro alla propria storia e alle proprie tradizioni piuttosto che fare costante riferimento al valore paradigmatico del 1789.72 «La Riforma» amplificò la diffusione delle sue idee, riproponendole con insistenza: nel 1881, quando la Francia condusse «i legni nel porto di Cartagine», il giornale scrisse: «Ah! Quell’Italia che doveva essere, non solo rispettata, ma temuta; quell’Italia di cui Vittorio Emanuele disse che era fatta, ma non compiuta, cos’è mai divenuta, per essi».73 71. Nell’estate del 1882 Crispi compì un viaggio diplomatico in Europa come «insigne Rappresentante della Nazione» italiana: voleva capire se ci fosse ancora uno spazio di manovra in Egitto. Durante il viaggio scrisse di politica solo a Levi, chiedendogli di girare alcune missive al ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini. Con il direttore de «La Riforma» si coordinò per «dare la giusta intonazione al giornale»: dopo una fase iniziale di opposizione all’Inghilterra, che aveva agito contro il principio di nazionalità, il foglio crispino modificò la sua posizione, appoggiando l’ipotesi di un’azione congiunta dell’Italia e dell’Inghilterra in Egitto, in quanto necessaria al ristabilimento di «un governo che assicuri l’ordine all’interno e che dia garanzie all’Europa» (Crispi a Levi, 27 luglio 1881, ACS, CC, DSPP, b. 23, fasc. 193). Crispi spinse Mancini ad accordarsi con gli inglesi, ma il governo fu irremovibile e il deputato rientrò dal suo viaggio pieno di rammarico e di sconforto. Sull’evoluzione della posizione de «La Riforma» cfr. Intervento e resistenza, 5 luglio 1882, Una follia, 12 luglio 1882 e Intervento o astensione?, 21 luglio 1882. 72. Sulle tendenze anti-francesi della politica italiana negli anni Settanta e Ottanta cfr. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. I, Le premesse, cap. I. 73. L’invasione della Tunisia e il diritto europeo, in «La Riforma», 15 aprile 1881 e Tarda resipiscenza, ivi, 10 maggio 1881. In giugno Levi pubblicò diversi articoli sulla storia dei rapporti tra Italia e Francia con lo scopo di dimostrare che l’Unità non fosse stata raggiunta grazie all’appoggio di Napoleone III e che dunque l’Italia non potesse essere accusata di ingratitudine per aver scelto la neutralità nel 1870. Cfr. i numeri de «La Riforma» del 1 giugno, 5 giugno, 6-7 giugno, 8 giugno, 10 giugno.
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Se la prima condizione imprescindibile per risollevare le sorti internazionali del paese era quella di voltare le spalle alla Terza Repubblica, occorreva poi rafforzare l’esercito, anche costo di «mangiar mezzo pane, e spendere il resto per la difesa»,74 e trasformare ogni italiano in un soldato.75 Crispi era convinto che la monarchia dovesse ottenere una vittoria militare così da assicurarsi la forza e il prestigio che ancora gli mancavano; solo il “battesimo del sangue” avrebbe scosso la politica dal torpore e rigenerato l’animo degli italiani, funzionando da antidoto contro la mancanza di spirito civico e patriottico. «La Riforma» dedicò molti articoli alla questione, in particolare nel 1878 e nel 1882, anni in cui, alle delusioni del Congresso di Berlino e della mancata spedizione egiziana, si sommò il lutto per la scomparsa di Vittorio Emanuele II e Garibaldi, simboli per eccellenza del Risorgimento militare.76 Un’Italia davvero compiuta, perché restituita al suo destino di grande nazione europea, era infatti il sogno che aveva accomunato i due fattori dell’Unità e che ora veniva lasciato in eredità a una classe dirigente incapace di realizzarlo. Vi spesero molto inchiostro i giornalisti e i redattori del giornale, ma forse fu ancora più efficace la scelta di pubblicare, a poca distanza dalla sua morte, una lettera inviata da Garibaldi ad Anita nel 1849, in cui l’eroe confessava la sua preoccupazione e la sua delusione verso «questa ermafrodita generazione d’italiani» e un discorso del 1867 in cui esortava i giovani a munirsi della «santissima carabina» cosìcché gli stranieri non avrebbero più tentato «di venire a rifarsi la villeggiatura in Italia!».77 Queste idee – compiere il Risorgimento attraverso una nuova vittoria militare, riscattarsi dalla debolezza di cui fino a quel momento si era dato prova – erano condivise da molti uomini politici, a Destra e a Sinistra, e da intellettuali come Pasquale Turiello, Leone Carpi e Nicola Marselli.78 Il 74. Crispi, appunto autografo, s.d., MRR, b. 830, fasc. 27. 75. «È finito il tempo del soldato mercenario, è venuto il tempo del soldato cittadino», Crispi, L’unità nazionale con la monarchia, discorso pronunciato a Palermo inaugurandosi il Circolo universitario Vittorio Emanuele, 2 aprile 1884, in Id., Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi, p. 449. 76. Cfr. Il Risorgimento in armi: guerra eserciti e immaginari militari, a cura di Enrico Francia, Milano, Unicopli, 2012. 77. Cfr. La mente di Garibaldi, in «La Riforma», 5 giugno 1882, Il cuore di Garibaldi, ivi, 7 giugno 1882 e Garibaldi ed Anita, ivi, 13 giugno 1882. 78. Cfr. Chabod, Storia della politica estera italiana, vol. I, Le premesse, cap. I, pp. 26 ss. e Silvio Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 198 ss.
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costituzionalista Attilio Brunialti, un «crispino di ferro»,79 pubblicò negli anni Ottanta diversi saggi sulla politica estera, lamentando il basso profilo tenuto dal governo italiano. I suoi scritti facevano eco alle parole di Crispi, rielaborando così la tradizione risorgimentale: Più di tutto, poi, ci è riuscita dannosa la timidità eccessiva, che prevalse quasi sempre nella direzione dei nostri affari politici. […] ci siamo fatti vedere rannicchiati e piccini anche là dove avremmo potuto farci valere, senza rischiare nulla, e dovuto farlo ad ogni costo. Non solo abbiamo dimenticato l’insegnamento che ci lasciarono, in circostanza difficili e anche pericolose, Vittorio Emanuele e Cavour, e le virili energie di Garibaldi e di Mazzini; ci siamo, a dirittura, impiccioliti da per tutto, per fuggire persino il pericolo di un pericolo!80
L’ampia diffusione di questi temi, anche in ambito letterario, aveva come indiretta conseguenza quella di avvicinare il pubblico alla proposta politica crispina, soprattutto quando erano scrittori di fama a rimetterli in circolo. Basti pensare a Cuore, il best-seller di Edmondo De Amicis, che non a caso è stato definito «un vero e proprio abbecedario del crispismo»,81 e a Carducci, da cui molto dipese la fortuna letteraria del mito della missione civilizzatrice e del Risorgimento tradito, che riconobbe in Crispi un «novello Procida».82 Il poeta, che lamentava nei suoi scritti «questa non è l’Italia di Giuseppe Mazzini», assunse un atteggiamento aggressivo di rime infuocate e invocazioni bellicose, destinate a influenzare fortemente la generazione di scrittori cresciuta nel suo insegnamento: «Or non bisogna marcire più. Or bisogna: riforme sociali, per la giustizia; riforme economiche, per la forza; armi, armi, armi, per la sicurezza. E armi, non per difendere, ma per offendere».83 79. Silvio Lanaro, Retorica e politica. Alle origini dell’Italia contemporanea, Roma, Donzelli, 2011, p. 83. 80. Attilio Brunialti, Algeria, Tunisia e Tripolitania. Studii di geografia politica sugli ultimi avvenimenti africani, Milano, Treves, 1881, pp. 255-256. Cfr. anche Id., L’Italia e la questione coloniale. Studi e proposte di Attilio Brunialti, Milano, Brigola, 1885. 81. Silvio Lanaro, Il Plutarco italiano: l’istruzione del popolo dopo l’unità, in Storia d’Italia, Annale 4, Intellettuali e potere, a cura di Corrado Vivanti, Torino, Einaudi, 1981, p. 563. 82. Giosuè Carducci, Alla figlia di Francesco Crispi. X gennaio MDCCCXCV, ora in Id., Poesie di Giosuè Carducci, MDCCCLMCM, Bologna, Zanichelli, 1901, p. 991. 83. Id., Decennale della morte di Giuseppe Mazzini, in «Cronaca bizantina», 1 marzo 1882, ora in Id., Ceneri e Faville, Serie terza e ultima, 1887-1901, Zanichelli, Bologna,
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Più in generale, il crispismo degli anni Ottanta, che coniugava all’inflessibilità morale l’attenzione alla questione sociale e l’appello alla grandezza, pareva rispondere al bisogno di completare un edificio nazionale «senza porta e senza finestre» e ancora privo – appuntò il deputato – di «tutto ciò che costituisce i comodi della vita moderna».84 2. Diffondere il mito Narrare/Narrarsi Nel corso degli anni Settanta e Ottanta Crispi partecipò a diverse celebrazioni pubbliche. Ogni volta occupò la scena con sicurezza, non perdendo occasione per promuovere la sua immagine. La prima importante prova arrivò nel 1878 quando morì Vittorio Emanuele II e Crispi, che era ministro dell’Interno, gestì la delicata fase della successione. La scomparsa del primo re italiano, uno dei massimi artefici del Risorgimento, poteva costituire un momento di pericolosa incertezza e sollevare le voci dei detrattori dell’Italia sabauda – repubblicani e cattolici in primis. Per farvi fronte, occorreva trasformare le esequie funebri, previste per il 17 gennaio al Pantheon di Roma, in un rito collettivo unificante e restituire l’immagine di una monarchia vicina alle masse popolari. Con questo proposito il ministro si gettò nel lavoro e diede al questore della capitale precise indicazioni sull’organizzazione della pubblica sicurezza, sottoponendo alcune aree della città a vigilanza rafforzata onde evitare che si verificassero incidenti. Ciò che più gli premeva era però l’aspetto scenografico dell’evento, che curò insieme a Cesare Correnti, impartendo «istruzioni minute e precise per le ore, pel vestiario, per le precedenze» delle autorità civili e militari che avrebbero sfilato ai lati del catafalco del re.85 Non si trattava di formalità 1902, pp. 3-13, p. 11; Id., XX dicembre 1882, in «Don Chisciotte», 21 dicembre 1882, ora in Edizione Nazionale delle opere di Giosué Carducci, vol. XIX, Bologna, Zanichelli, 19381968, pp. 196-197. Su Carducci e i “nati troppo tardi” cfr. Roberto Balzani, Nati troppo tardi. Illusioni e frustrazioni dei giovani del post- Risorgimento, in Il mondo giovanile in Italia tra Ottocento e Novecento, a cura di Angelo Varni, Bologna, il Mulino, 1998, pp. 69- 85. 84. Crispi, appunto autografo, s.d., MRR, b. 668, fasc. 13. 85. Crispi non rinunciò ad avere l’ultima parola nelle scelte, tanto da «mutilare» le iscrizioni di Correnti per il catafalco del Re. Cfr. Correnti a Crispi, s.d. [ma gennaio 1878], MRM, Carte Cesare Correnti, fasc. 34.
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e i due ne erano consapevoli, come risulta dalla celebre lettera inviata da Correnti a Crispi che vale la pena riportare: Non trascurar le minuzie. Ricordatevi che i prelati queste cose le sapevano far bene. Non abbiamo precedenti. Tanto meglio. Inventateli. Fate portare la Corona Ferrea davanti il carro funebre con tutte le solennità. Ciò gratificherà la Lombardia. Poi in gran pompa la corona d’alloro mandata dall’Imperatore Guglielmo, e quant’altre corone vi sono. […] Infine, aiutatevi, queste solennità, se non parlano ai sensi e insieme all’immaginazione, sono una facchinata e una fanfullata.86
La cerimonia romana contò la partecipazione di un’immensa folla di cittadini su cui «La Riforma» insistette a più riprese, sostenendo che con quel plebiscito unanime di dolore l’Italia aveva ribadito la sua fedeltà alla monarchia.87 Pochi giorni dopo morì anche Pio IX e venne convocato a Roma il conclave per la proclamazione del nuovo papa. Crispi si mosse con accortezza: vietò ai rappresentanti dello Stato e ai reali di partecipare al sudario in San Pietro e alle cerimonie organizzate nelle varie città d’Italia, se non ufficialmente invitati dall’autorità pontificia, ma esortò i prefetti ad adoperarsi affinché non avvenissero dimostrazioni contro la legge delle guarentigie, che sarebbero risultate inopportune. Non risparmiò neppure piccoli gesti dall’importante valore simbolico: censurò gli eccessi della stampa, accettò lo stanziamento delle truppe italiane in San Pietro per la tutela dell’ordine pubblico, lo sparo a salve dell’artiglieria e persino il riutilizzo degli addobbi a lutto di Carlo Alberto per il funerale in absentia organizzato a Torino. Voleva in questo modo dimostrare «al mondo» – come scrisse ai prefetti – «che l’Italia lascia pienissima libertà ai cardinali di eleggere il nuovo pontefice».88 Entrambe le iniziative riscossero un enorme successo e Crispi ne ebbe un importante ritorno personale, ricevendo il plauso delle forze politiche e della stampa per l’equilibrio con cui aveva saputo gestire due momenti delicati e politicamente complessi. Anche la corte sabauda si mostrò rico86. Correnti a Crispi, gennaio 1878, in Carteggi politici inediti di Francesco Crispi. 87. Nel febbraio del 1878 «La Riforma» pubblicò numerosi articoli con il titolo di Plebiscito nazionale. Sui funerali del re cfr. Aldo Giovanni Ricci, Crispi regista dei passaggi istituzionali del 1878, in Francesco Crispi. Costruire lo Stato per dar forma alla Nazione, pp. 73-84; Catherine Brice, Monarchie et identité nationale en Italie (1861-1911), Paris, EHESS, 2010. 88. Crispi ai prefetti del Regno, 9 febbraio 1878, ACS, CC, DSPP, b. 18, fasc. 150.
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noscente, inviandogli la medaglia commemorativa di Vittorio Emanuele.89 Quando lo scandalo di bigamia lo costrinse a ritirarsi dal ruolo di ministro, ricordò più volte al parlamento le capacità dimostrate in quei soli settanta giorni: un arco di tempo piuttosto breve durante il quale si erano verificati due eventi eccezionali senza che l’ordine pubblico né risentisse o si verificassero incidenti, nonostante la morte del Re avesse radunato a Roma centinaia di migliaia di persone. Di altro segno, ma ugualmente importante come occasione di promozione personale, fu l’anniversario dei Vespri, festeggiato a Palermo nell’aprile del 1882. L’assenza del governo permise a Crispi, che era presidente onorario del Comitato promotore, un’ampia libertà d’azione e di parola: chiamato a parlare come oratore, pronunciò un discorso dai toni antifrancesi e anticlericali e presentò l’anniversario come la celebrazione di tre rivoluzioni, quella del 1282, del 1848 e del 1860, sostenendo che nel 1848 il ricordo di quella precedente sollevazione avesse scaldato «i petti dei siciliani». Il giornale crispino dedicò un numero speciale all’evento, pubblicando in prima pagina un articolo significativamente titolato Il Vespro e Il Risorgimento italiano, firmato da Crispi stesso. La narrazione storica così modulata voleva mettere in luce il protagonismo della Sicilia che – come scrisse «La Riforma» – aveva dato all’Italia «la lingua, primo strumento d’unità» e da cui la rivoluzione risorgimentale era cominciata per propagarsi fino alle Alpi.90 Nel ritornare con insistenza sul patriottismo dell’isola natia, Crispi attirava l’attenzione del pubblico su di sé e sulla sua storia personale e, come avrebbe fatto in molte altre occasioni, rileggeva la sua militanza giovanile alla luce della carriera politica successiva, presentandosi in una duplice veste, quella del militante per la libertà e del ministro devoto alla corona. In questo modo, diveniva egli stesso un elemento di armonizzazione delle due anime del Risorgimento e promuoveva un’immagine di sé più rassicurante, a uso della corte e degli ambienti del moderatismo piemontese, dove l’origine meridionale, il passato garibaldino e le tendenze politiche radicali non erano viste di buon occhio. 89. Cfr. Il ministro della Real Casa Giovanni Visone a Crispi, 31 maggio 1880, ACS, CC, DSPP, b. 26, fasc. 210. 90. Palermo, in Il sesto centenario dei Vespri, numero speciale de «La Riforma», 1 aprile 1882.
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Che la presenza di Crispi ai Vespri siciliani avesse uno scopo tutto politico lo notò, tra gli altri, anche un osservatore straniero: John Grand-Carteret. Giornalista e storico dell’arte, Grand-Carteret aveva una spiccata sensibilità per il linguaggio visivo e studiò la storia, la politica, i costumi del suo paese e di altre nazioni europee attraverso le immagini – ritratti, fotografie e caricature in primis. Nel 1891 pubblicò una raccolta di vignette su Bismarck e Crispi, proponendo al pubblico francese un giudizio a tuttotondo del presidente italiano – giudizio non particolarmente positivo; a proposito dei Vespri scrisse: En 1882, il n’était plus ministre […] il cherchait donc une occasion, un événement pour reconquérir la position perdue. Tout le monde connaît l’effet produit sur les masses par l’évocation d’un spectre quelconque – politique ou social – quand on sait l’agiter à propos; et à ce petit jeu Crispi était passé maître. Très certainement, le Bismarck italien a voulu voir ce qu’il pouvait obtenir de son public en surexcitant son patriotisme, en remettant sous ses yeux les hauts faits du passé, les actions d’éclat et surtout les souvenirs des guerres d’Independence.91
Come si vede, l’evento celebrativo, con il suo apparato di simboli, permetteva a Crispi di “mettere in scena” una precisa rappresentazione di se stesso. Questo rituale diventava tanto più efficace se gli era concesso di prendere la parola.92 Nonostante il progressivo potenziamento dei circuiti mediatici infatti il monologo era ancora considerato come un’azione politica di grande impatto e, dunque, la capacità oratoria rappresentava una variabile importante ai fini del successo del singolo deputato.93 91. John Grand-Carteret, Crispi Bismarck et la triple-alliance en caricature avec 140 reproductions des caricatures italiens, françaises et autres, dont 2 coloriées, Paris, Delagrave, 1891, pp. 47-48. Su J. Grand-Carteret si rimanda a: Philippe Kaenel, «Faire revivre l’histoire par l’imagerie vivante», John Grand-Carteret, Eduard Fuchs et les cultures visuelles transnationales autour de 1900, in Quelle est la place des images en histoire?, a cura di Christian Delporte, Laurent Gervereau e Denis Maréchal, Paris, Nouveau Monde Editions, 2008, pp. 305-332. 92. A tal proposito Alceo Riosa ha scritto: «Le mythe ne signifiait-il pas dans l’Antiquité “parole, discours”, et son âge d’or ne fut-il pas celui de la culture orale? Dans cette perspective, ne convient-il pas de traiter sérieusement l’histoire de l’art oratoire, les biographies des orateurs?», Alceo Riosa, Le patriottisme dans le verbe, in L’éloquence politique en France et en Italie de 1870 à nos jours, a cura di Fabrice D’Almeida, Roma, École française de Rome, 2001, p. 101. 93. Sull’arte oratoria in età liberale cfr. Pietro Finelli, “Una citazione a comparire”. Concezione del mandato, memoria risorgimentale e identità politiche nei discorsi elettorali
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Parole in azione «Rotta, sentenziosa, corta, dittatoria»: così Giovanni Bovio descrisse la retorica crispina.94 Queste caratteristiche davano adito a molte critiche da parte di chi lo considerava privo dell’equilibrio e della chiarezza di cui doveva essere capace il buon oratore liberale. In effetti, Crispi non rispondeva a questi canoni: non aveva una solida formazione umanistica, non misurava i toni dei suoi discorsi, che spesso risultavano eccessivi, incendiari, e prediligeva un linguaggio allegorico e immaginifico – quegli «schizzi incisivi, pittorici» di cui scriveva la stampa95 – all’esposizione logica e razionale degli argomenti. Non di rado le sue orazioni venivano paragonate dai giornalisti a colpi di revolver o a incontri di pugilato. D’altro canto, proprio questa continua rottura dell’equilibrio poteva risultare convincente e appassionante, tanto che, in occasione di suoi discorsi, capitava che l’aula parlamentare si popolasse anche di donne.96 Se Crispi era capace di «imporre il silenzio intorno a sé»97 era proprio perché, pur prendendo la parola nelle vesti di deputato, di ministro o di presidente del Consiglio, non dismetteva quelle del patriota militante. Al contrario, recuperava spesso i toni concitati del repubblicano e del garibaldino, proponendo uno stile comunicativo in rotta con la retorica piana e misurata dei liberali, come prima di lui avevano fatto solo espodell’Italia liberale (1860-1897), in Discorsi agli elettori, numero monografico di «Quaderni Storici», 117, 3 (2004), a cura di Pietro Finelli, Gian Luca Fruci e Valeria Galimi, pp. 673-696 e Parole in azione. In prospettiva transnazionale cfr. Henry Colin, Gray Matthew, Politica e retorica in Inghilterra 1860-1930, in La trasformazione politica nell’Europa liberale (1870-1890), a cura di Paolo Pombeni, Bologna, il Mulino, 1986, pp. 267-282. Per un’analisi delle strategie comunicative del discorso politico e della sua ricezione si rimanda almeno a: Jacques Gerstlé, La communication politique, Paris, Armand Colin, 2004; Francesca Santulli, Le parole del potere, il potere delle parole. Retorica del discorso politico, Milano, FrancoAngeli, 2005. 94. Bovio, Uomini e tempi, p. 101. Sulla retorica crispina cfr. Gabriele Pedullà, Introduzione, in Parole al potere. Discorsi politici italiani, a cura di Gabriele Pedullà, Milano, Rizzoli, 2011, pp. XL ss; Lanaro, L’Italia nuova, pp. 152-156 e Lupo, Fare un monumento di se stesso. 95. «La Patria», 3 giugno 1884, cit. in «La Riforma», 4 giugno 1884. 96. Cfr. Faldella, Salita a Montecitorio (1878-1882). Dai Fratelli Bandiera alla Dissidenza. Cronaca di Cimbro, p. 232. 97. Giuseppe Coceva, Francesco Crispi, in Biblioteca Parlamentare, diretta da Giuseppe Coceva. Biografie di deputati e senatori, Roma, Zolla e C., 1887, p. 35.
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nenti dell’Estrema Sinistra, mossi dalla stessa convinzione che il discorso politico dovesse al contempo docere et movere il pubblico.98 Per costruire le sue performance si preparava lungamente, impegnando i suoi collaboratori in un lavoro di diverse settimane, nella selezione degli argomenti da trattare e nell’elaborazione di una forma e di uno stile che lo soddisfacessero. Era solito, ad esempio, annunciare all’uditorio che non avrebbe svolto un programma politico, perché non ne sentiva il bisogno, essendo il suo passato una sufficiente garanzia di buona condotta: Fanno programmi coloro che non ne ebbero, o che avutolo ebbero ragione di mutarlo […]. Il mio programma è nella mia vita, che si è svolta in mezzo a voi. Voi conosceste quel che io posso e quel che io valgo, dal 1848 al 1860 […]. Voi sapete la via che abbiamo percorso; e possiamo rammentarla con onore.99
La dichiarazione d’intenti veniva poi puntualmente smentita e Crispi, come era normale, svolgeva un ragionamento politico, non risparmiando dure critiche al governo. L’apertura meta-discorsiva però, chiarendo che non si sarebbe dilungato sulla politica – in anni in cui questa era da molti assimilata a inutili e improduttive beghe ministeriali –, gli permetteva di presentarsi al pubblico in una posizione di superiorità rispetto ai colleghi deputati.100 Durante le orazioni pubbliche degli anni Ottanta assunse continuamente questo atteggiamento super partes, sostenendo che la sua fosse una scelta difficile, che accettava stoicamente per non ingannare il paese, anche a costo di combattere colleghi e amici di lunga data, alcuni dei quali aveva conosciuto e apprezzato negli anni delle cospirazioni e delle battaglie. In questo modo costruiva la sua immagine per contrasto a quella appannata del parlamento e del governo: «mentre io parlo» – dichiarò a Monreale durante 98. Sulla drammatizzazione del linguaggio politico cfr. Carlotta Sorba, Il 1848 e la melodrammatizzazione della politica, in Storia d’Italia, Annale 22, Il Risorgimento, a cura di Alberto Mario Banti e Paul Ginsborg, Torino, Einaudi, 2007, pp. 481-508 e Ead., Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nell’età del Risorgimento, Roma-Bari, Laterza, 2015. 99. Francesco Crispi, Il suffragio universale e il progresso legale, discorso tenuto al Politeama Garibaldi di Palermo, 22 ottobre 1882, in Id., Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi, p. 513. 100. Sull’introduzione meta-discorsiva cfr. Paola Desideri, Teoria e prassi del discorso politico: strategie persuasive e percorsi comunicativi, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 75 ss.
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la campagna elettorale del 1886 – «un ministro coprirà di ferrovie tutta l’Italia, ma a parole. […] Non lo credete! È un inganno».101 Con la ripetizione del vocativo «Signori» dava enfasi alle sue dichiarazioni e richiamava continuamente l’attenzione, mentre per riferirsi a se stesso utilizzava sovente il plurale maiestatis così da rimarcare il legame con l’uditorio: Grazie a dio, non siamo uomini da scoraggiarci. Abbiamo superato difficoltà maggiori nei 44 anni della nostra vita politica. Non siamo uomini ai quali manchino la volontà e la costanza, e quando ci siamo prefissi una meta da raggiungere, non sapremmo arrestarci sulla via, malgrado i pericoli che dovremo affrontare.102
Faceva spesso accenni alla materia giuridica, dimostrando di saperla maneggiare con agio, ma non si dilungava su cavilli e aspetti tecnici che sarebbero risultati di difficile comprensione e – come scrisse Giovanni Faldella – evitava di «confondersi con numerose guide dottrinali per raggiungere e dimostrare» le sue asserzioni.103 La sintassi dei discorsi era estremamente variegata e a periodi lunghi e involuti alternava brevi enunciati; a volte inseriva una lista di sintagmi che spezzavano la prosa, dando ritmo all’orazione. Nel 1886 di fronte agli operai palermitani così spiegò il problema sociale in Italia: Le opere necessarie alla emancipazione delle plebi sono: nell’ordine materiale per l’assicurazione della vita, della sussistenza dell’operaio, la fondazione: di case; di dormitori; di cucine; di magazzini cooperativi; di presepi. Nell’ordine morale: di catechismi ebdomadari; […] 101. Crispi alludeva all’onorevole Genala; La XV legislatura, discorso tenuto nella Grande Aula dei Benedettini di Monreale, 16 maggio 1886, in Id., Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi, pp. 563-564. 102. Francesco Crispi, Programma sociale, discorso tenuto nell’aula della Società Filarmonica Bellini di Palermo, 15 maggio 1886, ivi, p. 555. 103. Faldella, Salita a Montecitorio (1878-1882). Dai Fratelli Bandiera alla Dissidenza. Cronaca di Cimbro, p. 124.
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Nell’ordine economico: di casse di risparmio.104
Le orazioni erano costellate da continui rimandi al Risorgimento, di cui Crispi si faceva «protagonista, narratore e giudice».105 Rievocando memorie e valori condivisi riusciva infatti ad “avvicinare” l’uditorio, creando un contatto emozionale che agevolava la ricezione del messaggio.106 Concludendo il discorso Il riordinamento del partito democratico, pronunciato a Palermo nel 1882, Crispi ricordò Garibaldi a pochi mesi dalla sua morte: Se da questo luogo sorgesse improvviso, radiante di luce, severo e benevolo a un tempo, Giuseppe Garibaldi, e v’imponesse la concordia, che direste voi? Osereste negarvi? Or bene, se l’eroe non è materialmente qui, egli lo è in ispirito. Voi non potete averlo obliato, perché aveste da lui la libertà della quale godete; a lui vi legano, per le grandi cose ch’egli fece, gratitudine e venerazione. Lo spirito di Garibaldi aleggia in quest’aula, e per bocca mia egli vi chiede: unitevi, fate il fascio romano!107
In questo modo, il momento della parola assumeva il valore di una liturgia laica durante la quale lo spirito dell’eroe, trasfigurato in un messia, si esprimeva attraverso Crispi, che era stato prescelto come intermediario tra la volontà superiore e i presenti. Come si vede, lo stile comunicativo crispino segnò una rottura: la forma non era più quella tradizionale, quanto piuttosto una commistione tra il discorso parlamentare ottocentesco e sperimentazioni stilistiche già più vicine ai modi della retorica novecentesca. L’esempio più noto è forse quello del discorso tenuto nel 1885 per l’anniversario dell’entrata dei Mille a Palermo. In quell’occasione Crispi aprì la sua orazione facendo l’appello dei garibaldini defunti con una ripetizione cadenzata e suggestiva che anticipava un tratto tipico dell’oratoria dannunziana: «Manca il duce 104. Francesco Crispi, Le elezioni del 1886, discorso tenuto nella sala della Società Filarmonica Bellini di Palermo, 15 maggio 1886, in Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi, pp. 548-549. 105. Levra, Introduzione, in Id., Fare gli italiani, p. IX. 106. Sull’impiego di valori e immagini già note come «garanzie di accettabilità» del discorso cfr. Alberto Mario Banti, Narrazioni, lettori e formazioni discorsive, in «Contemporanea», VIII, 4 (2005), pp. 687-692. 107. Francesco Crispi, Il riordinamento del partito democratico, discorso tenuto nella sala Filarmonica Bellini di Palermo, 10 settembre 1882, in Id., Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi, pp. 511-512.
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supremo! Manca Giuseppe Sirtori […]. Manca Nino Bixio […]. Manca Giacinto Carini».108 La conclusione era per lo più positiva e quasi sempre aveva i toni di un appello diretto a tutta la comunità nazionale. Nell’occasione della morte del generale Medici, nel marzo del 1882, chiuse la sua orazione parlamentare ricordando l’importanza della memoria di quanti avevano sacrificato la loro esistenza al risorgimento della nazione e al «trionfo della libertà». Quel retaggio irrinunciabile andava trasmesso alle nuove generazioni, cui spettava il compito di conservare «la grande opera innalzata da coloro che muoiono».109 Non tutto però poteva essere preparato o previsto in anticipo; la buona riuscita della performance dipendeva pure dalla voce, dal ritmo, dalla gestualità con cui l’oratore sapeva interpretarla. Crispi ne era consapevole e si adirava quando dei fattori esterni intervenivano a disturbare la calma e la preparazione necessaria. Durante la campagna elettorale del 1886, Lina, che era solita lamentarsi per le lunghe assenze del marito e per i molti impegni politici da cui era assorbito, gli inviò una missiva piena di rimproveri e lui le rispose: Ieri fu una pessima giornata! Tutti dissero che io parlai magnificamente bene, che parlai da uomo di stato. Io so, che parlai male, non per le idee, perché queste furono quali dovevano essere, ma per l’animo, pel colorito, che mancarono affatto. Fui freddo come un ghiaccio, misurato, senza una frase di effetto, senza un concetto che poteva scuotere. […] Quando ho bisogno di aver lo spirito elevato, il cuore di fuoco, la mente svelta, tu piombi per conturbarmi, per abbattere lo spirito. E ieri ci sei riuscita.110
Gli intellettuali e la stampa Mentre aspettava che si presentasse l’occasione del potere, Crispi tentava instancabilmente di procurarsi le simpatie e i consensi del pubblico. I discorsi però, ascoltati da un uditorio limitato, non potevano bastare allo scopo e ben presto intuì che era necessario dotarsi di un giornale personale. All’inizio del 1878 concretizzò questo progetto riportando in vita 108. Francesco Crispi, I Mille e la Sicilia, discorso pronunciato nel Politeama Garibaldi di Palermo, 27 maggio 1885, ivi, p. 595. 109. Tornata del 9 marzo 1882, in Crispi, Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, vol. II, p. 567. 110. Crispi a Lina, 20 maggio 1886, ACS, PC, b. 5, fasc. 83.
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il quotidiano «La Riforma». Il foglio era stato fondato undici anni prima a Firenze da Agostino Bertani, Giuseppe Carcassi, Filippo De Boni, Cairoli e da Crispi stesso, per diffondere il programma di Sinistra.111 Nel 1871 era stato trasferito in un locale a via del Corso, a pochi passi da Montecitorio, con lo scopo di migliorarne la redazione, ma si era presto imbattuto in gravi problemi finanziari («altro che Marsala, spero di non restarvi schiacciato»112 aveva scritto Crispi a Bertani) che, sommati ai dissidi interni al gruppo dei fondatori, ne avevano causato la sospensione. Riprendere le pubblicazioni significò un enorme sacrificio economico per Crispi, che negli anni si interrogò più volte sulla possibilità di chiudere i battenti, prosciugato nelle finanze e inseguito dai creditori. Alla fine però non si lasciò travolgere e fino al 1896, anno in cui cessarono le pubblicazioni, «La Riforma» gli assicurò un efficace canale di propaganda per le sue idee politiche. Ciò dipese anche da un contesto favorevole: nel trentennio post-unitario molti fattori – l’unificazione del mercato, l’avvio dei processi di scolarizzazione, la libertà di stampa e lo sviluppo della pubblicità – indussero una crescita lenta ma significativa delle tirature dei quotidiani e del numero dei lettori.113 Seguendo il passo delle trasformazioni in atto, «La Riforma» si allontanò progressivamente dall’impianto tradizionale del quotidiano politico, proponendo contenuti e approfondimenti su materie diverse, che potessero soddisfare i gusti di un pubblico sempre più eterogeneo. La redazione venne organizzata secondo una moderna logica di divisione del lavoro tra il direttore, il redattore e i giornalisti, che misero a disposizione del foglio competenze specifiche. A dare il maggiore contributo furono tre giovani e dinamici intellettuali provenienti dal vivace ambiente della scapigliatura milanese: Primo Levi, Carlo Alberto Pisani Dossi e Luigi Perelli, le “tre P” 111. Cfr. Olga Majolo Molinari, La stampa periodica romana dell’Ottocento, Roma, Istituto di Studi Romani, 1963, vol. II, pp. 773-775. 112. Crispi a Bertani, 28 giugno 1871, Copialettere di Crispi 1869-1873, ACS, CC, RE, b. 2. Il programma de «La Riforma» del 1867 si trova in ACS, CC, RE, b. 9, fasc. 19. 113. Sulla stampa si rimanda a Valerio Castronovo, La stampa italiana dall’Unità al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1973; Paolo Murialdi, Storia del giornalismo italiano, Bologna, il Mulino, 1996; Giovanni Gozzini, Storia del giornalismo, Milano, Mondadori, 2000; Oliviero Bergamini, La democrazia della stampa. Storia del giornalismo, RomaBari, Laterza, 2006; Mauro Forno, Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 2012.
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de «La Riforma». Levi, formatosi a Milano con Cletto Arrighi e Giuseppe Rovani, si era trasferito a Roma con l’amico, anch’esso scrittore, Luigi Perelli. Insieme a Pisani Dossi, divennero ben presto indispensabili per la sopravvienza del giornale. Proprio in virtù della loro formazione e della loro giovane età, infatti, Crispi gli affidò la redazione. Nel 1878 Levi venne nominato redattore capo e, già l’anno successivo, sostituì Gerolamo De Luca Aprile nel ruolo di direttore. Scrittore abile e di ampia cultura, firmò, fino al 1893, molti degli articoli di fondo relativi alla politica. Pisani Dossi scrisse per il giornale in maniera intermittente e ripubblicò in appendice alcune delle sue opere. A Luigi Perelli toccò invece l’incombenza delle questioni amministrative e finanziarie, oltre alla direzione dello Stabilimento Tipografico Italiano. Il ruolo gli stava stretto e spesso se ne lamentò: «Le ho dichiarato e sempre ch’io son venuto a Roma a fare il pubblicista, non il contabile»114 – scrisse a Crispi nel 1886; alla fine però continuò a dirigere la piccola casa editrice che mandava quotidianamente in stampa «La Riforma» e che pubblicò – oltre a diversi discorsi di Crispi – romanzi, saggi e orazioni politiche di Bertani, Fabrizi, Francesco De Sanctis e Ettore Socci intorno alle maggiori riforme da compiersi.115 Dal mondo scapigliato approdò a «La Riforma» anche Cletto Arrighi che curò la rubrica Cronaca di Milano fino al 1887. Per assicurare al giornale la «dotazione necessaria»116 a battere la concorrenza, “le tre P” attuarono vere e proprie strategie di marketing; modificarono la veste grafica del giornale con l’utilizzo di font più barocchi e ariosi, lettere miniate, piccoli disegni in bianco e nero, e ridussero il prezzo di vendita durante le campagne elettorali e in momenti di particolare importanza per la vita politica del paese.117 Inoltre, dedicarono un’attenzione particolare al pubblico degli abbonati, a cui venivano riservati premi e omaggi. Nel 1882, ad esempio, ai lettori fidelizzati furono offerti due 114. Perelli a Crispi, 10 agosto 1886, ACS, CC, DSPP, b. 157, fasc. Luigi Perelli. 115. Tra gli altri, L’Altrieri. Nero su bianco di Pisani Dossi (1881), Giorgione. Romanzo storico di Petruccelli Della Gattina (1879) e L’arte a Torino. Lettere agli artisti italiani di Levi (1880). Durante gli anni dei mandati crispini i romanzi lasciarono spazio a saggi di approfondimento su questioni come l’emigrazione, il colonialismo e le riforme sanitarie. Nel 1894 comparve anche un opuscolo sul processo della Banca Romana. Le pubblicazioni si fecero più esigue già dal 1892, lo Stabilimento chiuse definitivamente i battenti nel 1900. 116. Levi a Crispi, 23 agosto 1886, ACS, CC, DSPP, b. 153, fasc. Primo Levi. 117. Così accadde ad esempio nel 1884 in occasione del pellegrinaggio al Pantheon in memoria di Vittorio Emanuele II.
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romanzi a scelta della Raccolta romantica dello Stabilimento Tipografico Italiano e un periodico specializzato.118 Dal 1885 al 1890 uscì anche «La Riforma Illustrata», un supplemento di grande formato che pubblicò a puntate La spedizione dei Mille. Diario di Francesco Crispi e brevi scritti di Matilde Serao, Edoardo Scarfoglio, Giuseppe Rovani e Carlo Dossi. Le dispense erano impreziosite dal disegno in stile liberty in copertina, da fotografie e illustrazioni a tutta pagina – alcune anche a colori –, e dalla riproduzione di ritratti e lettere inedite di uomini illustri, tra cui l’ultimo «autografo politico» di Garibaldi. Era questo un esperimento giornalistico rivolto a un target di pubblico specifico, quello della borghesia umbertina della capitale, che nutriva aspirazioni aristocratiche ed era tanto sensibile all’ethos patriottico quanto all’estetica raffinata e ricercata dell’oggetto da collezione.119 Anche il quotidiano aderì a una precisa proposta politico-culturale e ripubblicò in appendice i grandi romanzi sociali di Rovani, Arrighi, Dickens e Gogol’ che ben si intonavano ai temi del crispismo riformista degli anni Ottanta; in seconda e terza pagina comparvero le rassegne letterarie, teatrali e artistiche curate da Levi con la collaborazione di Perelli. Ampio spazio veniva riservato ad articoli di approfondimento su materie diverse come l’istruzione, l’educazione fisica e militare, l’igiene, l’antropologia e la criminologia. In prima pagina si pubblicava il notiziario politico, la Rivista della stampa nazionale, le corrispondenze italiane ed europee, la cronaca e il Diario sulla politica estera. Alle notizie che riguardavano Crispi veniva ovviamente data la massima enfasi. Quando questi partecipava a occasioni pubbliche, il giornale raccontava lo svolgersi della giornata in presa diretta, con dovizia di particolari, insistendo sulla reazione entusiastica del pubblico e sui commenti positivi della stampa. I corrispondenti de «La Riforma» seguivano gli spostamenti del deputato comunicando direttamente con l’agenzia telegrafica Stefani, mentre la redazione romana impartiva precise istruzioni «pel miglior servizio».120 I suoi discorsi venivano riportati per intero 118. Nel 1885 la selezione includeva «La Valigia. Rivista mondiale illustrata», «Lo Sport Illustrato», «Il Corriere del Viaggio. Giornale agricolo e commerciale» e «Il Teatro Illustrato». 119. Cfr. Carlo M. Fiorentino, Eros, scrittura, politica. Gabriele D’Annunzio e Matilde Serao nella Roma umbertina (1881-1900), Roma, Aracne, 2019. 120. Perelli a Crispi, 11 novembre 1881, ACS, CC, DSPP, b. 22, fasc. 187. In questo caso Perelli si riferiva all’orazione Trasformazioni ed evoluzioni politiche, tenuta da Crispi
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in prima pagina, dopo essere stati revisionati o riscritti a quattro mani con Levi, che ne era di fatto un coautore – tanto che nella corrispondenza privata Crispi ne parlava come del «nostro discorso». Non si trattava di un lavoro agile, ma di una correzione approfondita che terminava solo quando il deputato era completamente soddisfatto del risultato.121 Per i tre giovani scapigliati «La Riforma» non fu un solo un lavoro, al contrario – come scrisse Levi a Crispi – vi investirono «tutta la […] vita»;122 né l’impegno che vi profusero fu esclusivamente dettato dall’interesse economico e, anzi, in diversi momenti si ritrovarono a dover sopperire alla mancanza di finanziamenti e a coprire i debiti del giornale attingendo a risorse personali: «ho dovuto sfruttare tutto, tutto» – scrisse Perelli a Crispi nel 1886.123 Li muoveva, piuttosto, una sincera adesione al crispismo «ruggente, polemico, antigovernativo»124 degli anni Ottanta, che per alcuni aspetti sembrava avvicinarsi ai temi della polemica civile della scapigliatura milanese. Ciò rese naturale, per i tre, considerare il siciliano come l’unica concreta alternativa all’immobilità della Sinistra e sacrificarsi per «La Riforma», che sapevano essere «tanta parte» della vita politica del deputato.125 Da questa collaborazione nacque un rapporto fondato su «vincoli indissolubili di devozione affettuosa e di profonda ammirazione»: mossi da «reverenza filiale» verso Crispi, le “tre P” si sarebbero dimostrate in molte occasioni «amici onesti sino allo scrupolo, devoti sino alla morte, disinteressati sino all’imprudenza».126 nella sede della Società democratica di Palermo il 13 novembre 1881, in Id., Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi, pp. 493-509. 121. «Mio caro Levi, Sospendete la pubblicazione della mia conferenza. Le correzioni inviatemi da Palermo non possono andare. Bisognerebbe fare altrimenti» scrisse Crispi a Levi in riferimento al testo del discorso I Mille e la Sicilia del 27 maggio 1885, biglietto s.d., ASMAE, Carteggio Crispi-Levi, busta unica. 122. Levi a Crispi, 26 dicembre 1885, ACS, CC, DSPP, b. 153, fasc. Primo Levi. 123. Il 20 agosto 1886 Perelli scrisse a Crispi di aver impegnato anche l’orologio paterno. I problemi economici del giornale divennero particolarmente gravi a metà degli anni Ottanta: «noi siamo perseguitati dai creditori personali […] e non possiamo pagare», scrisse Levi a Crispi il 26 dicembre 1885, ACS, CC, DSPP, b. 153, fasc. Primo Levi. 124. Giulio Carnazzi, Da Rovani ai “perduti”. Giornalismo e critica nella Scapigliatura, Milano, Edizioni universitarie di Lettere Economia Diritto, 1992, p. 153. 125. Levi a Crispi, 26 dicembre 1885, ACS, CC, DSPP, b. 153, fasc. Primo Levi. 126. Perelli a Crispi, 4 ottobre 1880, ACS, CC, DSPP, b. 157, fasc. Luigi Perelli; Levi a Crispi, 4 ottobre 1880 e 20 maggio 1886, ACS, CC, DSPP, b. 153, fasc. Primo Levi.
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Crispi alla regia127 La regia editoriale de «La Riforma» era complessa e modernamente concepita; funzionava perché ognuno svolgeva il suo ruolo e Crispi li svolgeva tutti. Il siciliano non era infatti uomo da lasciar mano libera agli altri, seppur fidati, nella gestione di uno strumento così centrale per la difesa e la diffusione delle sue idee politiche e, all’interno della redazione, vestì i panni dell’eminenza grigia. Da dietro le quinte, curò molti aspetti della vita del giornale, occupandosi un po’ di tutto: dalla pubblicità, alle migliorie tecniche per la «riforma della Riforma», e persino della pubblicazione dei romanzi in appendice, ma, soprattutto, ponendo la sua esperienza al servizio del foglio.128 Durante le lunghe giornate alla Camera era solito inviare a Levi piccoli biglietti o vere e proprie lettere in cui sintetizzava i maggiori avvenimenti riguardanti la politica. A volte annotava brevi frasi o una lista di parole-chiave utili a svolgere i temi più importanti, altre volte invece scriveva riflessioni più lunghe, strutturate per punti. Il direttore aveva il compito di trovare la giusta forma agli appunti e di rielaborarli in un articolo che seguisse il flusso dei suoi pensieri, come Crispi scrisse chiaramente a Levi: «le mie lettere a voi sono scritte con rapidità, senza studio e come vengon dal cuore. I fatti e le idee sono tali da non doversene pentire ma lo stile, la forma meritano spesso necessaria lima».129 127. Il carteggio tra Crispi e Levi cui si fa riferimento in questo paragrafo è conservato presso l’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, in una busta sciolta non inventariata. Si tratta di 200 documenti, tra biglietti e lettere, scritte a mano da Crispi su carta intestata della Camera dei deputati o sulla sua carta da lettere personale. L’intero nucleo è da riferirsi al periodo 1878-1893. Le lettere sono per lo più senza data e dunque difficilmente utilizzabili tout court; in questa sede, il carteggio ha permesso di verificare il grado di coinvolgimento di Crispi nella gestione de «La Riforma». Si rimanda anche a: Piscitelli, Francesco Crispi, Primo Levi e la “Riforma”. 128. Perelli a Crispi, 16 ottobre 1886, ACS, CC, DSPP, b. 157, fasc. Luigi Perelli. A titolo d’esempio: «È impossibile avere il Giorgione per oggi, e forse nemmeno per domani», Crispi a Levi, ADMAE, Carteggio Crispi-Levi, busta unica; «Bisogna farsi in giornata i cartelloni per la Riforma. È necessario non perder tempo, perché a fin d’anno vi sono i rinnovamenti», Crispi a Levi, ADMAE, Carteggio Crispi-Levi, busta unica. 129. Crispi a Levi, 7 dicembre 1879 ora in Piscitelli, Francesco Crispi, Primo Levi e la “Riforma”, pp. 413-414. I biglietti inviati da Crispi avevano solitamente questa forma: «I trasformisti sono una dozzina e mezzo di spostati che non sanno come arrivare. Uomini che furono e che vogliono ritornare, nonostante le pessime prove»; «Armamenti. Prudenza Austria. Artiglieria. Fortificazione delle isole. Riserve e milizie territoriali. […] Cenni = difesa nazionale», Crispi a Levi, ADMAE, Carteggio Crispi-Levi, busta unica.
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Quando inviava articoli già pronti e titolati, celava la sua identità dietro la penna del giornalista anonimo, riferendosi a se stesso in terza persona, onde evitare che i pezzi fossero tacciati di faziosità e perdessero d’effetto. In altri casi, utilizzava il giornale per difendersi dalle accuse, pubblicando dichiarazioni ufficiali a suo nome oppure dando indicazioni su come rispondere. Prima della pubblicazione, la redazione rileggeva il pezzo, eliminando eventuali errori o imprecisioni; il tutto, se possibile, in tempo per l’ultimo corriere della sera.130 Crispi e Levi erano abili comunicatori, davano massima importanza ai temi e alla forma degli articoli,131 ed erano sempre alla ricerca della notizia da pubblicare per battere la concorrenza: «Ora, bisogna impedire che domani il Fracassa, rispondendo, torni alla carica. Se no, addio effetto» – scrisse Levi al deputato. Crispi, da parte sua, ogni volta che poteva, gli passava sottobanco notizie in anteprima e gli indicava come muoversi: «Caro Levi vi accludo un articolo, che comparirà stasera nel Bersagliere. Se sullo stesso tema vorrete scrivere due parole in ultimo corriere, fareste bene». L’ultima parola restava sempre al deputato che firmava la liberatoria per l’impaginazione con secchi «Stabbene» oppure rimandava indietro la bozza commentando: «L’intonazione dell’articolo non mi va». Il rapporto tra i due si forgiò nelle lunghe corrispondenze private, all’insegna del reciproco rispetto e della complementarietà dei ruoli. Crispi stesso confessò di sentirsi fortunato ad aver incontrato un interlocutore dotato di un cuore e una mente così adatti ad accogliere e sviluppare le sue idee: «Forse sarò stato il fucile, ma voi foste la pietra focaia».132 Vivendo anni concitati di duro lavoro, facendo coesistere occupazioni diverse come il giornale, la Camera, l’avvocatura, Crispi non si risparmiava e nel 1886 si convinse a fare un passo ulteriore. Alla crisi della maggioranza 130. A titolo di esempio: «Caro Levi, Vi accludo il mio articolo. Vogliate sorvegliarne la correzione. Vi accludo anche una risposta alla Ragione per Magliani. Rivedetene i dati e gli argomenti, e fatene un articolo che difendendo l’articolo non ci dia la taccia di ministeriali. Vostro affettuoso Crispi. […] PS. L’articolo pel Magliani deve andare stasera, che non si comprenda la connessione tral Magliani ed il Parlamento» e ancora: «Mi dicono che lo Journal de Rome abbia scritto che io chiesi al principe Guglielmo l’udienza che mi fu negata. Smentite duramente la notizia», ivi. 131. «Va benissimo. Solo quel riserbo che ho sotto segnato non mi sembra molto chiaro, in relazione al non ci pensano precedente. Non si potrebbe mettere invece ritardo?», Levi a Crispi, ivi. 132. Crispi a Levi, 15 febbraio 1880, in Piscitelli, Francesco Crispi, Primo Levi e la “Riforma”, p. 414.
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e alle sempre più numerose voci che chiedevano un governo autorevole, era deciso a rispondere con un progetto editoriale che lo rendesse il successore designato di Depretis il quale, anche per le precarie condizioni fisiche, sembrava aver fatto il suo tempo. Per questo pensò di pubblicare il diario del viaggio del 1877 in Europa:133 la stampa dei telegrammi, delle lettere e dei resoconti dei colloqui che aveva raccolto in quell’occasione gli avrebbe permesso di far conoscere al pubblico l’importanza della sua azione diplomatica e di rafforzare la sua posizione.134 Voleva, insomma, fare un po’ di rumore e l’idea della pubblicazione ben si prestava all’intento: l’editoria, come il mondo giornalistico, era in crescita ed evoluzione, i lettori aumentavano e i libri, stampati a basso costo, circolavano con più facilità.135 Depretis però lo bloccò subito. Quando Crispi gli comunicò le sue intenzioni, affinché la pubblicazione non giungesse improvvisa, gli negò il consenso del governo «per ragioni di pubblico interesse». Crispi reagì con rabbia, rispondendo di non aver bisogno di alcun beneplacito da parte di un ministero «il quale più non esiste» e che voleva solo evitare la «pubblica riprovazione»,136 ma alla fine non portò avanti il progetto, temendo, forse, di attirarsi troppe critiche. Decise piuttosto di lavorare alla raccolta dei suoi discorsi elettorali dal 1865 al 1886, che venne pubblicata nel 1887. Nella 133. Tra l’estate e l’autunno del 1877 Depretis e il re affidarono a Crispi una missione diplomatica in Europa. Il deputato fece sosta nelle principali capitali europee e incontrò i ministri di Francia, Germania, Inghilterra e Austria-Ungheria. Lo scopo del viaggio era quello di testare gli umori tedeschi circa la possibilità che l’Italia ottenesse una ricompensa territoriale nel caso in cui l’Austria-Ungheria avesse annesso la Bosnia-Erzegovina. Crispi incontrò Bismarck due volte: il cancelliere rifiutò di mediare tra l’Austria e l’Italia in favore di quest’ultima o di assumere posizioni antiaustriache, mentre si mostrò disposto a stipulare un’alleanza in funzione antifrancese. Sul Crispi diplomatico del 1877 cfr. Michele Graziosetto, Francesco Crispi tra politica estera e politica sociale, in Francesco Crispi. Costruire lo Stato per dar forma alla Nazione, pp. 199-210. 134. È possibile che volesse pubblicare anche un resoconto del viaggio del 1882 in Europa avendo scritto insistentemente a Levi di non disfarsi di alcuna lettera inviata nel periodo di soggiorno all’estero. 135. Cfr. Ada Gigli Marchetti, Le nuove dimensioni dell’impresa editoriale, in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, a cura di Gabriele Turi, Firenze, Giunti, 1997, pp. 115-163; Editori italiani dell’Ottocento. Repertorio, a cura di Ada Gigli Marchetti, Mario Infelise, Luigi Mascilli Migliorini, Maria Iolanda Palazzolo e Gabriele Turi, 2 voll., Milano, FrancoAngeli, 2004; Nicola Tranfaglia, Albertina Vittoria, Storia degli editori italiani dall’Unità alla fine degli anni Sessanta, Roma-Bari, Laterza, 2000. 136. Crispi a Depretis, 15 settembre 1886, Depretis a Crispi, 17 settembre 1886 e Crispi a Depretis, 19 settembre 1886, MRR, b. 831, fasc. 62.
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prefazione, firmata dall’editore, si spiegava il senso dell’opera, che mirava alla «volgarizzazione di tante idee feconde» in un momento decisivo in cui, ormai «vicini ad una seconda riscossa», gli italiani sentivano il bisogno di separarsi dal «mal vivo presente» e dal sistema di governo della Sinistra al potere, «emanazione putrida di un passato ben morto» e ostacolo a «un luminoso avvenire». Crispi veniva presentato come una figura d’eccezione per la costanza con cui aveva sempre cercato il bene del paese, dalle imprese risorgimentali fino ai problemi sociali del presente.137 Quest’introduzione ai discorsi, che riproponeva e saldava insieme tutti gli elementi dell’immagine pubblica di Crispi, fu in realtà scritta da Levi, che preferì celarsi dietro la firma dell’editore, ritenendo che il suo nome mancasse della giusta autorità agli occhi del pubblico. Il giovane scrittore si occupò anche di correggere le bozze e di scegliere con Crispi quali testi includere nella raccolta e quali scartare. Mentre lavorava a questo progetto editoriale, il deputato sentiva ormai di essere vicino alla sua occasione, «un avvenire» – scrisse – che era «suo di diritto».138 E in effetti fu così. Nella primavera del 1887 venne nominato ministro dell’Interno dell’ultimo governo di Depretis. Quando il 29 luglio l’anziano statista si spense, Crispi diventò presidente del Consiglio, mantenendo la carica agli Interni e assumendo ad interim quella di ministro degli Esteri. Aveva sessantotto anni, ma molti gli riconoscevano una tempra ancora giovanile. Giuseppe Coceva, pubblicando Biografie di deputati e senatori, scrisse di lui: Francesco Crispi pur invecchiando si mantenne giovane. Profondamente democratico, egli conservò intatto nel cuore il sentimento di quelle idealità, che furono la più potente leva della mirabile nostra risurrezione nazionale. Salito al potere in circostanze per lui certamente favorevoli, egli certo potrà raccogliere intorno a sé tutti quelli che vogliono il più ampio e incondizionato svolgimento della libertà armonizzato con le esigenze di un governo vigoroso all’interno, rispettato e temuto all’estero.139
137. Prefazione, in Francesco Crispi, Discorsi elettorali di Francesco Crispi (18651886), Roma, Stabilimento Tipografico Italiano, 1887, pp. V-XI. 138. Crispi a Depretis, 19 settembre 1886, MRR, b. 831, fasc. 62. 139. Coceva, Francesco Crispi, p. 36.
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1. Il concetto incarnato della patria «Io sono un principio, io sono un sistema di governo, dal quale può dipendere l’avvenire della patria»1 Nell’autunno del 1887 Giovanni Giolitti, coadiuvato da Giovan Battista Bottero e Luigi Roux, organizzò un banchetto a Torino come segno di amicizia da parte del Piemonte sabaudo verso il garibaldino divenuto presidente del Consiglio. Per Crispi, che accettò di buon grado l’invito, fu un momento importante: era la prima volta che si trovava a parlare in pubblico dopo aver incontrato Bismarck a Friedrichsruh, in Germania. Quell’appuntamento aveva fatto molto rumore in Europa, suscitando le preoccupazioni della Francia e della Russia, mentre in Italia era stato accolto con entusiasmo, come una prova del prestigio internazionale che la penisola stava finalmente acquisendo sotto l’egida del siciliano.2 Nel Teatro Regio di Torino il presidente toccò molti argomenti di politica interna: parlò della necessità di definire dei partiti in parlamento, del rapporto con la Chiesa, di riforme amministrative e dell’importanza di potenziare l’esercito. Anche sulla politica internazionale si espresse come ci si poteva aspettare: negò il significato antifrancese della visita a Bismarck, si dichiarò tutore della pace europea, favorevole alle aspirazioni di indi1. Crispi, appunto autografo, s.d., in Crispi, Pensieri e profezie, p. 202. 2. A proposito dell’incontro tra Bismarck e Crispi, il conte Solms, ambasciatore tedesco a Roma, scrisse: «Ho l’impressione che finora gli italiani sentissero di aver soltanto vestito i panni di una grande potenza, e che soltanto a Friedrichsruh, per la prima volta, Crispi abbia ottenuto per loro le lettere patenti che confermano il loro status», cit. in Duggan, Creare la Nazione, p. 607.
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pendenza dei popoli balcani e ricordò la necessità di vendicare l’oltraggio subito a Dogali. Su tutti questi temi però si mantenne piuttosto vago; avrebbe avuto occasione di tornarvi nelle discussioni alla Camera dei mesi successivi, prendendo parola a difesa delle molte riforme proposte. Come aveva confessato a Tommaso Villa, il suo scopo non era quello di dilungarsi su questioni specifiche, ma di dare al suo discorso il significato di un «fatto nazionale più che politico».3 E in effetti l’evento di Torino gli permise di presentare al pubblico gli aspetti principali del suo sistema di governo. Durante l’orazione, difendendosi dall’accusa di autoritarismo, affermò che alla guida dello Stato vi fosse bisogno di una figura autorevole. L’unica condizione imprescindibile era che il suo potere fosse legittimo e dunque riconosciuto dal «suffragio sincero dei più» e impiegato in vista del benessere della comunità nazionale. Ribadì la sua fiducia verso i ministeri che sapessero coniugare «il dovere, il volere e il sapere» poiché «all’infuori di ciò c’è l’arbitrio» e continuò: E l’arbitrio può bensì essere consentito dall’universale, in eccezionali momenti, a un solo uomo; e tutto un paese, tutta una nazione, tutto un Parlamento può stringersi intorno ad esso; ma ad un solo intento ei deve usarne: a quello di adoperarsi perché nel più breve tempo e nel modo migliore si torni alle condizioni normali.
Con queste parole gettava le basi di un governo incentrato sulla sua persona, le cui possibilità d’azione, anche oltre il perimetro definito dallo Statuto, dipendevano largamente dall’autorevolezza e dalla saggezza che gli erano riconosciute. Alla fine del discorso, ascoltato in silenzio da seicento invitati, chiese la fiducia all’uditorio in nome del patriottismo, che paragonò al raggio di sole nel quale «si confondono» i colori – le differenti anime politiche del paese.4 Le parole di Crispi furono calorosamente applaudite e fecero il giro della nazione, presentate da «La Riforma» come un messaggio messianico: «il capo del governo ha parlato», scrisse il 26 ottobre nell’articolo in prima pagina Locutus est!.5 I prefetti telegrafarono dalle varie provincie 3. Crispi a Tommaso Villa, 7 settembre 1887, ACS, CC, DSPP, b. 49, fasc. 296. 4. Francesco Crispi, Discorso di Torino, 25 ottobre 1887, ora in La politica italiana dal 1848 al 1897. Programmi di governo, vol. III, a cura di Luigi Lucchini, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, Ripamondi e Colombo, 1899, pp. 8 e 15. 5. Locutus est!, in «La Riforma», 26 ottobre 1887.
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per confermare che il discorso era stato accolto con entusiasmo, politici e funzionari inviarono le loro congratulazioni, dalla Sicilia arrivarono saluti commossi.6 Il passaggio del discorso in cui Crispi aveva parlato della possibilità che in tempi eccezionali fosse concessa un’ampia libertà d’azione al capo del governo non parve impressionare l’opinione pubblica che anzi, in generale, sembrò confortata dall’idea che il paese fosse finalmente nelle mani di un “uomo forte”.7 Anche la stampa internazionale commentò: se la Francia non si lasciò entusiasmare, in Germania le reazioni furono più che positive; il «Die Post» di Berlino rivolse le sue congratulazioni al popolo italiano che si era dimostrato degno della libertà «appunto perché a tempo opportuno depone le armi di cui è fornito a difesa di essa», affidando «un mandato illimitato» ad un solo uomo.8 Il «St. James’s Gazette» di Londra scrisse: For a long time past many an Englishman has “only wished” – and we all know what meaning there is in that phrase – that England had such a Minister as Prince Bismarck; and if he is to be judged by his later acts and deeds, we may now add, or as Signor Crispi.9
Negli anni successivi Crispi avrebbe fatto spesso riferimento a quell’«autorità del nome», acquisita «con la sapienza e l’energia, dopo un lungo corso di opere fortunate», per domandare ai ministri, al parlamento e al paese una fiducia preventiva sul suo operato.10 Come garanzia della sua buona fede bastava la parola data – il giuramento, di cui nessuno poteva dubitare.11 Già nell’estate del 1887, presentando in Senato la legge sui prefetti, aveva dichiarato: «tutto sta nella 6. Cfr. ACS, CC, DSPP, b. 49, fasc. 296. 7. A titolo di esempio, il direttore de «La Gazzetta di Saluzzo» scrisse a Crispi: «finalmente, tutti gli inciampi che si erano posti sul Vostro cammino per tenervi indietro si sono dissipati, – e […] finalmente, il tempo ha fatto giustizia, niente più che giustizia, all’esule modesto, al patriota ardente, indefesso, senza macchia, alla mente politica dell’epopea garibaldina, al fortissimo cittadino, al grande oratore», 25 ottobre 1887, ivi. 8. Traduzione dell’articolo Il banchetto di Torino del «Die Post», 30 ottobre 1887, ASMAE, Eredità Crispi, fasc. I. 9. Signor Crispi’s Statesmanship, in «St. James’s Gazette», 26 ottobre 1887, ACS, CC, DSPP, b. 49, fasc. 296. 10. Crispi, appunto autografo, s.d, in Crispi, Pensieri e profezie, p. 182. 11. «Non è permesso a nessuno di dubitare di ciò che dico», rispose Crispi a Bonghi durante la tornata del 18 febbraio 1889 relativa al decreto del 27 dicembre col quale era
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tempra dell’uomo che dirige le cose dello Stato» e «io non farò alcun uso politico di essa; lo prometto».12 Era convinto che il presidente del Consiglio, trovandosi in una posizione privilegiata, sulla «cima di una piramide» – come disse a Torino – potesse vedere le cose in modo diverso e dunque rivolgersi all’intero corpo nazionale. Lo ribadì a Firenze nel 1890: In questa condizione, bene poss’io dirigendomi a voi, che avete voluto ascoltarmi, dirigermi a tutta Italia, chiamando a difesa di questi beni supremi, al rispetto di questi supremi doveri, quanti sono italiani che non acciechi ira di parte, e il cui patriottismo sia confortato dal senno.13
Questa lettura crispina del rapporto tra politica e società ha, a ben vedere, delle importanti implicazioni: riferendosi a una comunità ideale, saldata col mantice del patriottismo, Crispi negava implicitamente il valore della differenziazione e della pluralità politica, piuttosto immaginando che le sue scelte dovessero avere il sostegno di tutti i cittadini, anche di coloro che non consentivano con il governo, poiché il bene della nazione avrebbe dovuto prevalere sugli interessi di parte e sulle divergenze politiche.14 Di fatto, l’intera comunità non poteva che riconoscersi nelle scelte del leader.15 A tal proposito, ricordando il banchetto di Torino, disse a Palermo: Nel 1887 non era tanto il veterano della politica soggetto al vario giudizio dei partiti; non era tanto il consigliere della Corona, il quale ancora poteva poco più che promettere, che si voleva onorare nella mia persona. Era il concetto dell’Unità nazionale. stato collocato in disponibilità il tenente generale Emilio Mattei, in Crispi, Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, vol. III, p. 282. 12. Tornata dell’11 luglio 1887, in Crispi, Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, vol. II, pp. 867 e 865. 13. Francesco Crispi, Discorso di Firenze, 8 ottobre 1890, in Id., Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi, p. 764. 14. Su questo aspetto «La Riforma» tornò continuamente. Cfr. Il programma di Torino, in «La Riforma», 28 ottobre 1887; Il mandato di fiducia, ivi, 14 maggio 1888; Paese e Camera, ivi, 29 maggio 1888; Uniti nei fatti, ivi, 11 giugno 1888; La parte della politica, ivi, 29 maggio 1889; Unità nazionale e sociale, ivi, 18 ottobre 1889; Governo e Paese, ivi, 2 aprile 1890; Libertà e autorità, ivi, 24 marzo 1890. Sul tema cfr. Fulvio Cammarano, Nazionalizzazione della politica e politicizzazione della nazione. I dilemmi della classe dirigente nell’Italia liberale, in Dalla città alla nazione. Borghesie ottocentesche in Italia e in Germania, a cura di Marco Meriggi e Pierangelo Schiera, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 139-163. 15. In questa comunità immaginata – ha scritto Loris Zanatta – «l’insieme supera la somma delle parti di cui è composto, […] l’individuo si fonde col tutto», Cfr. Loris Zanatta, Il Populismo, Roma, Carocci, 2013, p. 20.
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Io mi sentii allora altero e lieto che volesse vedere in me quel concetto incarnato la forte e leale città, ov’ebbero, nei più tristi e ne’ più gravi momenti, sicuro riparo le fortune d’Italia;16
Il discorso era chiarissimo: il capo del governo incarnava un concetto, la viva espressione dell’idea patriottica, e la carica istituzionale assumeva il significato di un’investitura profetica dell’uomo che, scelto tra gli altri per le sue doti straordinarie, aveva il compito di guidare la comunità dalla miseria alla salvezza. Quest’onere richiedeva una dedizione totale, imponendogli di mettere la sua vita al servizio della nazione. La stessa disponibilità a sacrificarsi, dimostrata in primis dal leader, poteva essere pretesa a buon diritto da tutti i componenti della comunità nazionale, come azione morale e certificato di patriottismo. Quando si trattava di domandare al parlamento un pieno appoggio alle scelte dell’esecutivo Crispi faceva spesso allusione a campi di battaglia, nemici, morti e feriti per la causa, soprattutto se il dibattito si preannunciava acceso: «Aiutateci e vinceremo» – disse nel 1888, chiedendo all’emiciclo parlamentare di sostenere il governo nel corso dei negoziati economici per la definizione delle tariffe doganali tra Italia e Francia. Durante la discussione sul bilancio dell’anno successivo, dovette confrontarsi con le opposizioni su un aumento delle previsioni di spesa, necessario per finanziare l’impresa coloniale in Africa; ai reticenti ricordò il sangue versato dai patrioti durante le guerre di liberazione e li ammansì con queste parole: «Ma credete voi, o signori, che i favori della fortuna si possano ottenere senza sacrifici!».17 In questo modo, attribuiva ai processi di compromesso tra potere esecutivo e potere legislativo significati evocativi, miranti a suscitare nell’interlocutore una risposta al livello dei sentimenti. Più in generale, il sistema di governo già presentato a Torino nel 1887 coniugava alla tradizionale proposta razionalista della politica liberale, una componente emozionale di grande impatto, che faceva appello all’ethos patriottico e ne riattualizzava il lessico per compattare le molte anime del paese sotto una sola bandiera. 16. Francesco Crispi, Discorso di Palermo, 14 ottobre 1889, in Id., Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi, p. 714. 17. Tornata del 29 febbraio 1888, in Crispi, Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, vol. III, p. 3; Tornata del 17 giugno 1889, ivi, p. 359. Sul sacrificio come azione morale cfr. Norbert Elias, John L. Scotson, Strategie dell’esclusione, Bologna, il Mulino, 2004 [ed. originale inglese 1965].
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Non tutti però prendevano parte alla comunità immaginata: rimanevano fuori da questi invalicabili confini coloro che costituivano una minaccia per la sua omogeneità. La tensione permanente e i nemici della patria Negli anni dei mandati crispini in Europa si respirava un’aria di cambiamento: la stagione più florida del liberalismo si stava chiudendo, la crescita rallentò, le misure protezionistiche a difesa delle economie nazionali dei singoli paesi suscitarono malumori; contemporaneamente la competizione colonialista generò alcune pericolose frizioni diplomatiche e indusse gli Stati a investire maggiormente nell’esercito e nella produzione di armi. Si diffuse, anche in Italia, un clima di incertezza e di paura di fronte alla possibilità di nuove guerre. Crispi non tentò di smorzare le preoccupazioni e, anzi, tra il 1887 e il 1888 ribadì continuamente che, pur desiderando la pace, il paese aveva il dovere di tenersi pronto perché un nuovo conflitto avrebbe potuto divampare da un momento all’altro in Europa. Avendo costruito la sua fortuna politica sulla doppia immagine di «uomo di guerra e uomo di governo»,18 questi segnali di tensione erano politicamente molto utili, poiché rafforzavano la sua posizione di uomo necessario alla salvezza nazionale: «ogni giorno mi persuado» – scrisse Alessandro Guiccioli all’inizio del 1888 – «che, data la situazione, Crispi è meglio di qualsiasi altro».19 Non solo. In un contesto generale di tensione permanente, l’individuazione di un temibile nemico esterno contribuiva a saldare il paese attorno al governo e lasciava sullo sfondo divergenze e contrasti: quel nemico, negli anni dei mandati crispini, fu la Francia. Le relazioni tra i due paesi, già difficili, si inasprirono alla fine degli anni Ottanta, e il comportamento del presidente del Consiglio contribuì, in varie occasioni, a quest’evoluzione.20 Di fronte alla Camera e al paese Crispi sostenne 18. Guido Pieragnoli, Profili Politici. Francesco Crispi, Roma, Tipografia di A. Pasqualini e G. Zappa, 1887, p. 7. 19. Alessandro Guiccioli, 22 febbraio 1888, ora in Id., Diario del 1888, in «Nuova Antologia», CD (novembre 1938), pp. 157-178, p. 160. 20. Sulle relazioni tra Italia e Francia negli anni crispini cfr. Pierre Milza, Français et italiens à la fin du XIXe siècle. Aux origines du rapprochement franco-italien de 1900-1902, Roma, École française de Rome, 1981; Gilles Bertrand, Jean-Yves Frétigné, Alessandro Giacone, La France et l’Italie. Histoire de deux nations sœurs de 1660 à nos jours, Paris, Armand Colin, 2016. Sulle relazioni culturali tra i due paesi cfr. Luisa Mangoni, Una crisi fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento, Torino, Einaudi, 1985.
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che le sue scelte fossero dettate dalla necessità di proteggere la nazione dalle continue provocazioni dei francesi e più volte lasciò intendere che questi stessero cospirando contro l’Italia, le sue istituzioni e i suoi interessi economici. Anche gli avversari nazionali venivano presentati dalla propaganda governativa come elementi estranei alla comunità patriottica e fonte di pericolo per la sua sicurezza. A questa categoria, pur se non sempre con la stessa convinzione, Crispi ascrisse il Vaticano, il nemico che tramava nell’ombra contro lo Stato laico e liberale.21 Ancor più decisa fu la polemica contro le opposizioni di Sinistra. In particolare Crispi bersagliò la «setta» dei socialisti, ai quali negò lo status di avversarsi politici legittimi, in quanto nemici della famiglia, della proprietà e della patria e dunque rispondenti a una scala valoriale diversa da quella della comunità immaginata. Anche i radicali, che inizialmente erano stati aperti verso la possibilità di un governo crispino, si trovarono ben presto in rotta con il presidente, a causa della politica anti-francese e triplicista, e per questo vennero inseriti nella lista nera delle forze antisistema della Sinistra.22 Nel biennio 1889-1890 la riforma dell’amministrazione locale varata dal governo portò molti esponenti dell’Estrema alla guida di capoluoghi e città dell’Italia centro-settentrionale. Nel frattempo la recessione economica inasprì le condizioni di operai e contadini e sollevò le prime proteste. Il governo rispose intensificando il controllo delle forze d’opposizione grazie alle nuove disposizioni sulla pubblica sicurezza, che introdussero l’obbligo del preavviso di ventiquattro ore all’autorità competente per lo svolgimento di riunioni pubbliche. Inoltre, le adunanze potevano essere sciolte in caso di manifestazioni e grida sediziose contro i poteri dello Stato, i capi dei governi esteri e i loro rappresentanti: in questo modo l’esecutivo subordinava la libertà di riunione al suo diretto controllo.23 21. Tra il 1894 e il 1895 Crispi tentò un avvicinamento ai cattolici in funzione antisocialista. Nel discorso del 10 settembre 1894 a Napoli dichiarò: «Dalle più nere latebre della terra, è sbucata una setta infame, la quale scrisse sulla sua bandiera: né Dio, né Capo. Uniti, oggi, nella festa della riconoscenza stringiamoci insieme per combattere cotesto mostro e scriviamo sul nostro vessillo: Con Dio e col Re per la Patria». Il testo del discorso si trova in ACS, CC, DSPP, b. 96, fasc. 569. 22. Cfr. Fulvio Cammarano, «Forca e dinamite». La delegittimazione politica nell’Italia liberale, in Il nemico in politica, pp. 13-58. 23. R.d. 30 giugno 1889 n. 6144. A titolo di esempio cfr. telegramma di Crispi al direttore generale della pubblica sicurezza Luigi Berti (25 settembre 1889): «Secondo l’articolo
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Crispi sapeva però che la censura non sarebbe bastata e che occorreva piuttosto rispondere attraverso l’impiego di argomentazioni convincenti, per delegittimare le ragioni dell’avversario e dimostrare – come scrisse «La Riforma» – che «queste benedette sette, di cui si fa oggi tanto discorrere, hanno assai minori affiliati di quel che si diceva».24 Per questo chiese ai funzionari locali di arginare la diffusione delle idee anarchiche, socialiste e repubblicane che, seppur «poco o nulla comprese dalle plebi», avevano il potere di alimentare false speranze ed eccitare gli animi: «È una propaganda che puossi ben combattere» – scrisse al prefetto di Catania – «se i liberali intelligenti e gli amici della Unità nazionale sapranno provarne con la sana critica la vacuità».25 Allo stesso modo commentò manifestazioni e proteste di piazza, come quella romana dell’8 febbraio del 1889: quando gli operai, schiacciati dalla crisi edilizia, scesero in piazza e si verificarono gravi scontri con le forze dell’ordine, Crispi alluse alle colpe della Sinistra, che da mesi cercava di creare difficoltà al governo, e sostenne che i disordini non fossero stati provocati dai lavoratori, quanto piuttosto da coloro che si proclamavano loro difensori e inneggiavano alla rivoluzione sociale.26 «La Riforma» seguì il passo e diede battaglia al «doppio Eolo clericale ed anarchico» che spirava sulle piazze italiane. L’ipotesi che «l’internazionale rossa e l’internazionale nera»27 cooperassero contro lo Stato unitario, pur se politicamente insostenibile, rafforzava la sensazione di un pericolo sotterraneo di fronte al quale occorreva riunire le forze: contro «la federazione del delitto» – annotò Crispi tra i suoi appunti – «è dovere del ministro prevedere il momento terribile».28 Anche l’attentato del giovane pugliese Emilio Caporali contro Crispi, verificatosi a Napoli il 4 settembre del 1889, fu sfruttato per indebolire le 32 le riunioni in luoghi pubblici o aperti al pubblico sono soggetti alle leggi di polizia. […] Sono luoghi aperti al pubblico quelli i quali o di notte o di giorno sono aperti al pubblico liberamente o sotto determinate condizioni. Entrano in questa categoria primissimi i teatri, qualunque sia il modo di ammissione di coloro che sono chiamati a riunirvi», ACS, CC, Roma, b. 16, fasc. 345. 24. L’avevamo detto, in «La Riforma», 3 settembre 1889. 25. Crispi al prefetto di Catania, 16 settembre 1888, ACS, CC, DSPP, b. 50, fasc. 302. 26. Cfr. Tornata del 9 febbraio 1889, in Crispi, Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, vol. III, p. 259. 27. Gli scioperi agrari, in «La Riforma», 24 marzo 1889 e Con la scusa dei disordini, ivi, 10 febbraio 1889. 28. Crispi, appunto autografo, s.d., ACS, CC, DSPP, b. 51, fasc. 314.
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opposizioni di Sinistra. «La Riforma» ne parlò come di una drammatica conseguenza della violenta campagna politica e mediatica che da mesi si combatteva contro il presidente del Consiglio e la stampa governativa fece buona eco a questa spiegazione, biasimando il comportamento dei repubblicani che avevano alimentato l’odio contro il governo, facendo il gioco dei nemici dell’Italia: «Risero il Vaticano e la Francia all’annunzio dell’attentato» – concluse la «Gazzetta di Messina».29 La notizia si propagò in Europa e i giornali di Berlino si dilungarono in elogi a Crispi, definendolo «una delle personalità più creatrici della sua epoca»; secondo il «Fremden-blatt» proprio la sua autorità di «uomo d’azione predestinato» aveva suscitato l’odio dei suoi nemici che, attentando alla sua vita, avevano dimostrato di temerlo.30 Su indicazione di Pisani Dossi, i telegrammi ricevuti da Crispi da parte delle maggiori autorità dello Stato italiano e delle nazioni straniere vennero inviati all’agenzia telegrafica Stefani per poter essere comunicati alle redazioni dei giornali.31 Dando voce al moto di commozione e simpatia suscitato dall’attentato, il giovane crispino voleva rafforzare il sentimento di riprovazione della pubblica opinione. La manovra funzionò: molti cittadini, anche dall’estero, inviarono i loro auguri di pronta guarigione al capo del governo, difensore delle istituzioni liberali; dall’Istituto Canterini di Torre Annunziata un allievo scrisse: «Stamane il nostro amato Direttore […] ci ha fatto una lunga e dettagliata conferenza sull’attentato […]. Noi siamo rimasti terrorizzati per sì vile reato e fra noi si piangeva!!». «Il paese tutto è indignatissimo»32 – concluse Adriano Lemmi in una lettera a Crispi. Anche gli irredentisti finirono sotto la scure della repressione del governo, che giudicava i sentimenti anti-austriaci espressione di un falso e 29. Cfr. L’attentato, in «La Riforma», 15 settembre 1889 e L’attentato, in «Gazzetta di Messina», 15 settembre 1889, riportato in ivi. Sull’attentato di Caporali cfr. Erika Diemoz, A morte il tiranno. Anarchia e violenza da Crispi a Mussolini, Torino, Einaudi, 2011, cap. I. 30. Cfr. le traduzioni di due articoli apparsi rispettivamente in «Die Post», 17 settembre 1889 e in «Fremden-blatt», 18 settembre 1889, ACS, CC, DSPP, b. 53, fasc. 329. 31. «Credo converrebbe comunicaste Stefani telegrammi più importanti dall’estero come del Principe di Bulgaria […], Salisbury, ecc. Primo desidererebbe testo telegrammi principali deputati d’ogni partito», scrisse Pisani Dossi a Edmondo Mayor des Planches, che si trovava a Napoli con Crispi, 16 settembre 1889, ACS, CC, Roma, b. 13, fasc. 316. 32. Lettera dall’Istituto Caterini di Torre Annunziata a Crispi, 15 settembre 1889 e Lemmi a Crispi, 14 settembre 1889, ACS, CC, DSPP, b. 53, fasc. 329.
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pericoloso patriottismo e combatté duramente la loro propaganda – quella «calda poesia» con cui tentavano di adescare l’opinione pubblica.33 Già nel 1889 Crispi sciolse il Comitato romano per Trento e Trieste sollevando molte polemiche e inducendo Aurelio Saffi a prendere posizione in una lettera apparsa su «Il Resto del Carlino». Il repubblicano criticò la scelta del governo, ma sollevò anche dei dubbi sulle modalità di protesta degli irredentisti, che proseguivano ostinatamente in una lotta infruttuosa senza considerare le reali possibilità di successo. «La Riforma» ripubblicò l’articolo e, piuttosto che attaccare l’insigne patriota forlivese, commentò positivamente le sue parole poiché, di fatto, giustificavano l’azione dell’esecutivo: l’assenza di quelle circostanze propizie di cui parlava Saffi dimostrava la colpa degli irredentisti, i quali, ergendosi a «monopolisti del patriottismo», rischiavano di isolare il paese, di screditarlo di fronte agli alleati europei e di indebolirlo agli occhi dei nemici interni ed esterni.34 Lo scontro raggiunse il suo apice nel 1890, con lo scioglimento dei circoli legati ai nomi di Guglielmo Oberdan e Pietro Barsanti e, soprattutto, con l’estromissione dal governo del ministro delle Finanze SeismitDoda, che aveva avuto un atteggiamento troppo morbido nei confronti di alcuni discorsi dai toni irredentisti tenuti in sua presenza durante un banchetto a Udine.35 L’atteggiamento di Crispi era dettato dalla convenienza politica perché l’alleanza con gli imperi centrali evitava l’isolamento dell’Italia in Europa. Fungendo da destabilizzatore dei legami internazionali, l’irredentismo costituiva una minaccia per il paese e, dunque, andava condannato e combattuto. Lontano dalla dimensione pubblica però, questa granitica opposizione lasciava spazio ad aggiustamenti e incongruenze: il presidente infatti finanziò, tramite i fondi del ministero dell’Interno, la Società Dante 33. Francesco Crispi, Discorso di Firenze, 8 ottobre 1890, in Id., Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi, p. 750. Cfr. anche Un patriottismo di nuovo genere, in «La Riforma», 24 febbraio 1888; Le insidie interne ed estere, ivi, 3 agosto 1889; L’opposizione alle alleanze, ivi, 5 luglio 1890; Il partito dello straniero, ivi, 31 agosto 1890. Sull’irredentismo cfr. Giovanni Sabbatucci, Il problema dell’irredentismo e le origini del movimento nazionalista in Italia, in «Storia contemporanea», 3 (1970), pp. 467-502. 34. Cfr. L’opposizione alle alleanze e la stampa liberale, in «La Riforma», 11 luglio 1890 e L’opposizione di un patriota, ivi, 2 agosto 1889. Sullo scioglimento del Comitato Trento e Trieste cfr. anche ACS, CC, Roma, b. 17, fasc. 362. 35. Per lo stesso motivo il prefetto di Udine Giovanni Rito venne messo in aspettativa; cfr. ivi.
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Alighieri, che si occupava di promuovere il sentimento di italianità nella città di Trieste.36 Non solo. In diverse occasioni manifestò le sue reticenze e sanzionò il modus operandi di Vienna che, arrestando e processando continuamente gli italiani, impressionava l’opinione pubblica e infuocava lo scontro.37 Nel luglio del ’90, quando l’Austria sciolse l’associazione triestina Pro Patria, Crispi chiese ai prefetti di punire severamente ogni atto che potesse turbare le relazioni con il governo austriaco,38 ma in privato confessò a Umberto I: «l’Austria faccia la sua via. Lo deploro, ma non devo inquietarmene. Facendo il nostro dovere e governando fortemente l’Italia, potremo a suo tempo aver ragione di dichiarare che non fu nostra la colpa se le sorti dell’impero vicino precipiteranno».39 L’oro straniero Il dubbio che potesse esistere una relazione o uno scambio tra nemici interni ed esterni saldava il paese attorno al governo e, contemporaneamente, delegittimava le ragioni degli oppositori di Crispi, dimostrando lo scopo anti-nazionale della loro azione. Per questo, il presidente del Consiglio fece spesso riferimento ai legami tra la Francia e il Vaticano e alle simpatie che i radicali nutrivano verso la Terza Repubblica. L’occasione perfetta coinvolse proprio il partito di Cavallotti e si presentò durante le elezioni politiche del 1890. I giornali ne parlarono come del caso Cernuschi. Enrico Cernuschi, piemontese d’origine e repubblicano, aveva partecipato alle cinque giornate di Milano ed era stato eletto deputato della Costituente della Repubblica Romana. Poco dopo, era partito alla volta della Francia dove aveva fatto fortuna come banchiere e finanziere. La strenua opposizione a Napoleone III lo aveva però costretto a un nuovo spostamento a Ginevra; rientrato a Parigi nel ’70, per assistere alla proclamazione della Terza Repubblica, era stato naturalizzato cittadino francese nei giorni della Comune parigina. 36. Per una ricostruzione dei rapporti tra Crispi e la “Dante Alighieri” cfr. in particolare: Archivio Storico Dante Alighieri, Roma, b. VA 213, fasc. 1891. 37. Cfr. Crispi all’ambasciata di Vienna, 29 luglio 1889, ACS, CC, DSPP, b. 52, fasc. 324. 38. Cfr. Crispi al prefetto di Milano Basile, 31 luglio 1890, ACS, CC, DSPP, b. 53, fasc. 331. 39. Con queste parole Crispi rispose a Umberto I che, plaudendo allo scioglimento dei circoli Oberdan e Barsanti da parte del governo italiano, si era mostrato preoccupato per gli atteggiamenti talvolta «eccessivi ed inutili» dell’Austria. Umberto I a Crispi e risposta di Crispi, 28 agosto 1890, ivi.
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All’inizio del novembre del 1890 si diffuse sulla stampa italiana la notizia che Cernuschi aveva firmato un assegno di 100 mila lire a sostegno del comitato centrale radicale presieduto da Cavallotti, per contribuire alla campagna elettorale democratica, antitriplicista e anticrispina.40 La notizia del finanziamento che veniva dalla Francia fu l’occasione per montare lo scandalo. Crispi si mosse subito: chiese al suo segretario Edmondo Mayor des Planches, che conosceva Cernuschi personalmente, e al conte Menabrea, ambasciatore in Francia, informazioni su come questi fosse divenuto milionario, sui suoi rapporti col credito francese e sulle operazioni finanziarie alle quali aveva preso parte.41 «La Riforma» fece da battistrada e i giornali vicini al governo la seguirono: si pubblicarono titoli come L’oro straniero e I denari francesi.42 Il «partito radicale» – scrisse «Il Giornale di Sicilia» – che combatteva il governo «perché così vuole la Francia» si dimostrava «in pieno vassallaggio dello straniero!». Cernuschi fu definito un italiano rinnegato e i radicali – commentò il «Capitan Fracassa» – accettando «cento mila lire perché si combattano le istituzioni consacrate dai plebisciti», avevano perso il diritto di chiamarsi italiani.43 La stampa radicale non si lasciò travolgere: «Il Secolo» difese le buone intenzioni di Cernuschi che aveva voluto dare man forte agli anticrispini, mentre «La Capitale» tacciò il governo di sovvenzionare la campagna elettorale con mezzi illegali. Cavallotti, da parte sua, promise la pubblicazione di lettere risalenti alla metà degli anni Ottanta che avrebbero dimostrato come la fedeltà del presidente del Consiglio alla monarchia fosse solo di facciata.44 La macchina del fango però non funzionò: i giornali governativi avevano assestato il colpo velocemente e i radicali risentirono dello scandalo. Bovio espresse pubblicamente le sue perplessità, dando vita a un botta 40. Sul caso Cernuschi cfr. Cammarano, «Forca e dinamite». La delegittimazione politica nell’Italia liberale, pp. 42 e ss; Alessandro Galante Garrone, I radicali in Italia. 18491925, Milano, Garzanti, 1973, pp. 288-290; Laura Barile, «Il Secolo» 1865-1923. Storia di due generazioni della democrazia lombarda, Milano, Guanda, 1980, p. 175. Sulla figura di Enrico Cernuschi cfr. Nino Del Bianco, Enrico Cernuschi: uno straordinario protagonista del nostro Risorgimento, Milano, FrancoAngeli, 2006. 41. Cfr. Crispi all’ambasciata italiana a Parigi, 23 novembre 1890, ACS, CC, DSPP, b. 55, fasc. 350. 42. «Gazzetta dell’Emilia», 18 novembre 1890; «L’Italia», 22-23 novembre 1890, ivi. 43. Ritagli e brandelli, in «Giornale di Sicilia», 17-18 novembre 1890; Ultime notizie: l’oro (con buona pace) dello straniero, in «Capitan Fracassa», 16-17 novembre 1890, ivi. 44. Cfr. La lettera di Crispi a Cavallotti, in «Corriere della Sera», 16-17 dicembre 1890. Una copiosa rassegna stampa sull’intera vicenda si trova in ACS, CC, DSPP, b. 55, fasc. 350.
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e risposta con Cavallotti che venne riportato da molti giornali, Luigi Ferrari cancellò il suo nome dalla lista di Alessandro Fortis affinché non fosse «accoppiato all’equivoco»45 e Matteo Renato Imbriani, contrario alla sottoscrizione pubblica a sostegno delle elezioni, si dimise dalla commissione esecutiva del comitato radicale.46 Il 18 novembre il «Corriere di Napoli» scrisse: «Il dissidio immenso che esiste fra i radicali e tutti i buoni italiani ha ricevuto la conferma più sicura. […] Muore il radicalismo italiano sotto quest’altro oro: ma chi si sente italiano, arrossisce».47 Nel racconto mediatico della vicenda, lo scontro tra sostenitori e oppositori del governo si tradusse in una battaglia tra patrioti e nemici dell’Italia. Al di là del caso Cernuschi, l’intera campagna elettorale del 1890 venne presentata dalla propaganda governativa come un aut aut al parlamento e alla nazione, chiamati a scegliere tra Crispi e i suoi oppositori. Secondo questa lettura, il problema della definizione dei partiti politici si risolveva nella distinzione tra gli elementi nazionali e quelli anti-nazionali. Del resto, due anni prima Crispi aveva chiarito al parlamento i termini dello scontro: «Coloro che seguono coteste idee sono i miei nemici, coloro che le combattono, sono i miei avversari. Ecco fatto i due partiti».48 2. Conoscere, controllare, trasformare Gli uomini del ministro Pur costruendo una leadership incentrata sulla sua persona, Crispi fu molto attento a curare le sue relazioni e a circondarsi di collaboratori stimati a cui poter domandare un’adesione quanto più completa alle sue disposizioni. Già nel 1878, in qualità di ministro dell’Interno, si interessò di conoscere i suoi sottoposti, passando al vaglio i profili personali e di carriera dei capi di sezione e dei segretari impiegati nelle diverse divisioni del dicastero, per farsi un’idea di quali fossero gli elementi di cui fidarsi e quali 45. Cardella a Crispi, 17 novembre 1890, ivi. 46. Cfr. il prefetto di Milano Codronchi a Crispi, 18 novembre 1890 e Imbriani contro un giornale radicale, in «L’Italia», 22-23 novembre 1890, ivi. 47. Il fallimento dei radicali, in «Corriere di Napoli», 18-19 novembre 1890, ivi. 48. Tornata del 10 luglio 1888, in Crispi, Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, vol. III, p. 109. Si tratta di un discorso parlamentare relativo alla legge comunale e provinciale che la Camera stava discutendo.
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invece fossero da tenere alla larga. Per ogni profilo, il ministro annotava a penna la provenienza regionale (la dicitura «piemontese» non doveva aver poco peso per un siciliano inviso alla corte sabauda), le protezioni politiche di cui godeva l’impiegato e aggiungeva un giudizio personale sul soggetto esaminato, che poteva essere riconosciuto «intelligente», «pratico, buon uomo» o dalla «ordinaria capacità», ma pure «mediocrissimo» e «un imbecille qualunque».49 Le minuziose analisi del ’78 anticipavano un modus operandi che venne impiegato su larga scala negli anni dei mandati, quando proprio le riforme varate dal suo primo governo resero la scelta dei collaboratori una questione di primaria importanza. Da una parte, la selezione di uomini fidelizzati doveva assicurare una maggiore capacità di controllo dei centri d’autorità periferici, a cui la legge sul governo locale riconosceva una maggiore autonomia;50 in secundis, la riorganizzazione del ministero dell’Interno e del ministero degli Esteri, attribuendo agli apparati burocratici mansioni più ampie e diversificate, imponeva di fatto una revisione del personale.51 Per questo, Crispi operò numerose sostituzioni di vecchi 49. Cfr. Copia a stampa con annotazioni del Ministero dell’Interno. Reparto delle attribuzioni e del personale, ACS, CC, Roma, b. 2, fasc. 20. 50. La legge 30 dicembre 1888 n. 5865 modificava la precedente norma sul governo locale (legge 20 marzo 1865). Due tra le più significative conseguenze di questa riforma furono l’estensione dell’elettorato attivo e passivo e l’elettività del sindaco nei comuni con più di diecimila abitanti. Il controllo del governo locale, in passato affidato alla deputazione provinciale, passava alla giunta provinciale amministrativa presieduta dal prefetto. Cfr. Adorni, Francesco Crispi. Un progetto di governo, pp. 236 ss. Per un quadro storiografico: Id., Nota alla bibliografia e alle fonti archivistiche, ivi, p. XXIV. 51. Con la riforma degli organici del ministero dell’Interno (R.d. 3 luglio 1887 n. 4707) vennero create in seno al dicastero le quattro divisioni generali – amministrazione civile, pubblica sicurezza, carceri e sanità pubblica – e un gabinetto del ministro. Cfr. i saggi dedicati al MI in Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica. Le riforme crispine, vol. I, Amministrazione statale, Milano, Giuffrè, 1990, pp. 327-486. Con i due decreti reali del 25 dicembre 1887 e il successivo decreto ministeriale del 29 dicembre si riorganizzarono invece gli uffici del ministero degli Esteri in cinque divisioni e un gabinetto del ministro, mentre vennero soppresse le direzioni generali. Cfr. Ministero degli Affari Esteri. Attribuzioni degli Uffici e Personale dell’Amministrazione centrale, Roma, Ippolito Sciolla Tipografo del ministero degli affari esteri, 1888, ASMAE, Gabinetto Crispi, cartella 5, fasc. 4; Vicenzo Pellegrini, Il Ministero degli Esteri: l’organizzazione, in Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica. Le riforme crispine, vol. I, Amministrazione statale, pp. 167-269; Pietro Alberto Lucchetti, Sinistra storica e riforma dell’amministrazione degli Affari Esteri sotto Crispi. Un modello antesignano di “comunicazione istituzionale”, in «Rassegna storica del Risorgimento», 2 (2000), pp. 187-204. Per un quadro sulle riforme crispine si rimanda a: Romanelli, Il comando impossibile, pp. 279-356.
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funzionari con l’immissione di una generazione nuova, selezionata tramite concorso e dotata di competenze professionali.52 Il presidente del Consiglio allontanò anche chi – scrisse «La Riforma» – non avrebbe potuto essere un «esatto esecutore»53 del suo programma. Tra gli altri, dovette abbandonare l’incarico il segretario generale degli Interni Giacomo Malvano, nemico acerrimo di Pisani Dossi, che sfuggì al trasferimento all’ambasciata di Tokyo grazie alla nomina nel consiglio di Stato. Crispi riconsiderò anche il corpo diplomatico, tradizionalmente legato alla corte e agli ambienti conservatori, con la sostituzione di alcuni eminenti uomini come, tra gli altri, Luigi Corti e Giuseppe Greppi, rispettivamente ambasciatori a Londra e a San Pietroburgo.54 Queste cocenti uscite di scena, seguite da numerose e più morbide sostituzioni, non stravolsero in toto gli attivi dei ministeri: in diversi casi Crispi passò al vaglio il profilo personale e professionale di uomini già assoldati da Depretis e li mantenne al loro posto.55 Così accadde per Luigi Bodio, la cui carriera ministeriale era già avviata e che durante i mandati crispini fu a capo della Direzione di Statistica.56 Il presidente del Consiglio, convinto che la statistica costituisse un strumento irrinunciabile per la conoscenza del paese, si rivolgeva conti52. Cfr. Maria Serena Piretti, Educare alla politica: il progetto della Scuola di scienze politiche di Bologna, in «Clio», 30, 2 (1994), pp. 355-373; Le fatiche di Monsù Travet: per una storia del lavoro pubblico in Italia, a cura di Angelo Varni e Guido Melis, Torino, Rosenberg e Sellier, 1997; Guido Melis, Uomini e culture, in Studi per la storia dell’amministrazione pubblica italiana (il Ministero dell’interno e i prefetti), Roma, SSAI, 1998, pp. 85-98; Id., Fare lo stato per fare gli italiani. Ricerche di storia delle istituzioni dell’Italia unita, Bologna, il Mulino, 2015. 53. Ministro e funzionarii, in «La Riforma», 30 aprile 1888. 54. Cfr. La rete consolare nel periodo crispino 1886-1891, a cura di Manuela Cacioli, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 1988. 55. Quasi nessuna sostituzione, per esempio, fu operata al ministero degli Interni. 56. All’inizio del 1878 Crispi istituì una Direzione di statistica presso il ministero degli Interni, in sostituzione all’ufficio di statistica, che faceva capo al soppresso ministero dell’Agricoltura. Lo scopo – si legge dalla bozza del decreto del 10 febbraio 1878 – era quello «di dare maggior unità d’indirizzo e più efficace impulso ai lavori statistici, così al centro, come negli uffici provinciali» (bozza del decreto, ACS, Roma, b. 2, fasc. 21). La Direzione venne di nuovo declassata a semplice ufficio già l’anno successivo, tornando alle dipendenze del ricostituito ministero dell’Agricoltura. Nel 1887 venne nuovamente ricostituita, sempre presso il ministero dell’Agricoltura. Cfr. Dora Marucco, L’amministrazione della statistica italiana dall’Unità al fascismo, Torino, Pluriverso, 1992; Ead., L’amministrazione della statistica nell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1996; Marco Soresina, Conoscere per amministrare: Luigi Bodio. Statistica, economia e pubblica amministrazione, Milano, FrancoAngeli, 2001.
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nuamente al direttore, chiedendo analisi su materie diverse come la produzione agricola e industriale, il sistema dei trasporti, la curva demografica, la diffusione della criminalità nelle varie provincie e la composizione del corpo elettorale.57 Bodio rispondeva fornendo appunti e rapporti dettagliati, a cui aggiungeva un commento o un parere personale, sempre ben accetto e tenuto in gran conto da Crispi. Tra i due si saldò ben presto un legame di stima e fiducia, anche per il tramite di un altro fedelissimo crispino, Pisani Dossi, che aveva conosciuto Bodio nel 1881, lavorando con lui al censimento degli italiani all’estero. I due, entrambi lombardi, strinsero presto un rapporto d’amicizia e si trovarono a collaborare ancora dal 1887 allorché il primo, chiamato da Crispi al ministero degli Esteri, avviò una riorganizzazione del lavoro all’interno del gabinetto e si servì sovente di analisi statistiche per stilare rapporti e memorie sulla politica internazionale.58 Quando nel 1890 Crispi dovette scegliere il nome della prima colonia italiana, fu a loro che si rivolse per un parere. Consapevole del peso simbolico di quella denominazione, chiese ragguagli sui nomi che avevano «presso gli antichi i paesi posseduti […] in Africa dall’Italia» e un consiglio su quali avrebbero potuto «rivivere»; alla fine, predilesse la proposta di Pisani Dossi.59 L’incarico di Bodio era per Crispi di vitale importanza per conoscere il paese, ma a nulla sarebbe valso senza una vigilanza diretta delle realtà locali, dove era tanto più importante assicurarsi la presenza di uomini scelti. Per questo, nel luglio del 1887, quando ancora era ministro dell’Interno, fece approvare una legge che regolava le aspettative, gli spostamenti e le pensioni dei prefetti e che aboliva l’incompatibilità parlamentare, aprendo le nomine a una preziosa tribuna di elementi fidelizzati.60 D’altro canto, nei primi tempi 57. In ACS, CC, Roma, b. 13, fasc. 305 ss., si conservano le analisi statistiche di Bodio sul movimento economico, sull’istruzione, sulla diffusione della miseria, delle malattie e dell’alcolismo in Italia; in ACS, CC, DSPP, b. 77, fasc. 475 ss., vi sono indagini statistiche sulla produzione e il commercio con l’estero, sul costo e il consumo di luce in Italia, sui procedimenti giudiziari, sul patrimonio delle Opere Pie, sulla diffusione della delinquenza. 58. Pisani Dossi e Bodio si occuparono anche di riformare le materie e i programmi degli esami di ammissione e promozione degli impiegati del ministero degli Interni. Cfr. r.d. n. 5829 del 25 novembre 1888 e la corrispondenza tra Bodio e Pisani Dossi conservata in ACS, Pisani Dossi, b. 28, fasc. A. Sul loro rapporto personale e sulla loro collaborazione si rimanda a: Serra, L’altra vita di Carlo Dossi: Alberto Pisani Dossi diplomatico; Carlo Dossi, Note Azzurre, a cura di Dante Isella, Milano, Adelphi, 2010. 59. Bodio a Crispi, 28 e 31 ottobre 1889, ACS, CC, Roma, b. 4, fasc. 96. 60. Cfr. Romanelli, Il comando impossibile, pp. 298 e ss.
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del mandato governativo si mostrò cauto nei ricambi e operò solo dopo aver studiato i profili, le biografie e i comportamenti di carriera dei prefetti, di cui conservava i fascicoli personali tra le sue carte.61 Facendosi guidare dal suo intuito e raramente accettando consigli da altri, li assegnava a una provincia piuttosto che a un’altra in considerazione della loro esperienza amministrativa e delle capacità personali. Se il tentativo non funzionava per «ragioni politiche», «soverchie relazioni» o perché il candidato si era dimostrato «insufficiente»,62 arrivava un nuovo trasferimento: così fu per il prefetto Cavasola, inviato suo malgrado a Palermo nell’ottobre del 1894 e poi spostato nuovamente nel marzo del 1896 poiché, a detta del questore, era stato troppo morbido coi socialisti. Stessa sorte toccò al prefetto di Firenze Capitelli, il quale, sospettato di aver tenuto un discorso antigovernativo, venne inviato a Genova nel settembre del 1894, nonostante le rimostranze e le preghiere, che si scontrarono con l’irremovibilità di Crispi.63 Lungi dall’essere esclusivamente un organizzatore del consenso a favore del “partito” di governo, il prefetto crispino era chiamato ad assolvere un compito più ampio e complesso, volto a corroborare gli sforzi dell’amministrazione centrale per il controllo e la conoscenza del paese. Come presidente della Giunta provinciale, si occupava di sorvegliare a stretto giro l’operato dei sindaci, notificava l’andamento delle riunioni del consiglio comunale, di banchetti o comizi e gli spostamenti di deputati e di esponenti politici dalla provincia. Gli era richiesto di svolgere indagini di natura economica e politica, di supervisionare l’umore pubblico, di coordinare la pubblica sicurezza e di rivestire un ruolo di mediazione tra governo, enti locali e privati in caso di conflitti.64 Soprattutto, doveva anticipare le mosse delle forze d’opposizione, notificando prontamente 61. Cfr. ACS, CC, Roma, b. 9, fasc. 225. Sulla questione: Enrico Gustapane, I prefetti dell’Unificazione amministrativa nelle biografie dell’archivio di Francesco Crispi, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 4 (1984), pp. 1034-1101. 62. Così Roberto Galli motivò a Crispi gli spostamenti dei sottoprefetti del settembre ’94, ACS, CC, Roma, b. 27, fasc. 593. 63. Cfr. Corrispondenza relativa al trasferimento da Roma a Palermo del prefetto Cavasola, al suo atteggiamento nei confronti dei socialisti e al suo trasferimento a Modena, 1 settembre 1894 - 6 marzo 1896, ACS, CC, Roma, b. 26, fasc. 591; Corrispondenza relativa a un supposto discorso antigovernativo del prefetto Capitelli a Messina e al suo trasferimento da Firenze a Genova, 1 settembre 1890 - 3 settembre 1894, ivi. 64. Ad esempio, nel marzo del 1889, mentre la crisi economica iniziava a produrre i primi moti di protesta nelle Puglie, Crispi scrisse al prefetto di Foggia che era suo compito convincere gli istituti di beneficenza a «soccorrere a domicilio» e, «ove gli istituti manchi-
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la nascita di associazioni repubblicane, radicali e socialiste, le riunioni indette, le possibili manifestazioni contro il governo e sequestrando, previa comunicazione, locandine e manifesti antigovernativi.65 In occasione di discorsi del presidente o di appuntamenti commemorativi rilevanti si coordinava con il ministero delle Poste e dei Telegrafi o con l’agenzia Stefani per diramare il testo del discorso e per raccogliere pareri e impressioni.66 Il prefetto crispino sommava, dunque, alla funzione amministrativa un’altra che – come ha scritto Daniela Adorni – appare più opportuno definire «governativa» anziché «politica»,67 proprio per il ruolo di guida pressoché assoluta assunta dal ministro dell’Interno nella gestione del lavoro dei suoi sottoposti. Niente a che vedere con il modus operandi di Depretis che era solito domandare una relazione semestrale in cui molte questioni erano trattate sinteticamente se non omesse, segno di un contatto piuttosto labile, certamente non regolare. L’uomo di Stradella non aveva particolarmente badato a curare il legame con i prefetti tanto che, di riflesso, questi considerarono la corrispondenza con il presidente del Consiglio come una mansione di secondaria importanza, svolta sovente con scarsa attenzione.68 Crispi, al contrario, a patto di una aderenza completa alle sue disposizioni, si mostrò propenso nel saldare un legame di natura personale non solo con i prefetti, ma più in generale con i sottoposti. La relazione era nutrita da uno scambio costante, in alcuni casi quotidiano, che passava attraverso i canali della corrispondenza istituzionale e anche per quella privata: è «con affetto quasi di figlio» che alcuni degli uomini più vicino», obbligare «i municipi a soccorrere con mezzi suoi» o incitare «i proprietari a riunirsi e contribuire per i poveri», 3 marzo 1889, in ACS, CC, RE, b. 5. fasc. 12. 65. Numerosi esempi in ACS, CC, DSPP, b. 48, fasc. 290; ivi, b. 82, fasc. 526; ACS, CC, Roma, b. 16, fasc. 353. Sulla figura del prefetto si rimanda a: Giovanna Tosatti, Il Ministero degli Interni: le origini del Casellario politico centrale, in Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica. Le riforme crispine, I, Amministrazione statale, pp. 471476 e Manuela Cacioli, Il Ministero degli Interni: i funzionari, ivi, pp. 371-373. 66. Il ministero delle Poste e Telegrafi fu creato con decreto del 10 marzo 1889 n. 5973. Cfr. Giovanni Arcuri, Il Ministero delle Poste e Telegrafi: l’istituzione e Marina Giannetto, Il Ministero delle Poste e Telegrafi: l’organizzazione, in Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica. Le riforme crispine, I, Amministrazione statale, pp. 487518 e pp. 519-581. 67. Adorni, Francesco Crispi. Un progetto di governo, p. 262. 68. Cfr. Giampiero Carocci, Premessa, in Id., Agostino Depretis e la politica interna dal 1876 al 1887, Torino, Einaudi, 1956.
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ni scrivevano dalle provincie, rivolgendosi «a Francesco Crispi […] e non al ministro».69 Basti citare i nomi dei prefetti Alessandro Guiccioli, Antonio Winspeare, Carlo Guala e Davide Silvagni, ma pure dei direttori generali di pubblica sicurezza Luigi Berti, Ferdinando Ramognini e Giuseppe Sensales. Si trattava, in ogni caso, di legami che mutavano nel corso degli anni e che talvolta lasciavano Crispi insoddisfatto se ancora nel 1894 confessava alla moglie: «I prefetti sono quello che sono. Non è materiale della mia fabbrica; io li ho trovati fabbricati. Del resto, l’Italia dà la roba che ha».70 Anche quando saldava rapporti più intimi e duraturi, il presidente riconosceva un margine di discrezionalità ai funzionari, chiedendo che trovassero i giusti mezzi per governare le realtà locali.71 In sostanza, l’esecutivo dettava l’indirizzo, e questa era la sua responsabilità, ma i compiti, così come i meriti e le colpe, andavano spartiti tra i molti ingranaggi del sistema. Nel 1889 il parlamento lo interrogò a proposito delle manifestazioni romane del febbraio e, di tutta risposta, Crispi si difese, affermando che il governo poteva solo sorvegliare lo svolgersi degli eventi dall’alto e impartire ordini tempestivi e precisi, ma non poteva essere giudicato per il modo in cui quegli ordini venivano eseguiti.72 Lo ribadì l’anno successivo, mentre si preparava a rispondere alle interpellanze sugli scontri avvenuti tra la polizia e i manifestanti nel comune di Conselice e annotò tra i suoi appunti: «Se il commissario regio fosse stato più previdente se il brigadiere dei carabinieri fosse stato meno diffidente, tutto sarebbe stato evitato».73 69. Il prefetto Guiccioli (subito dopo il trasferimento a Roma) a Crispi, 29 agosto 1894, ACS, CC, Roma, b. 26, fasc. 591. 70. Crispi a Lina, 1 ottobre 1894, ora in Amami come io ti amo. Lettere a Lina Barbagallo (1875-1899), a cura di Giuseppe Astuto e Gaetano Armao, Catania, Sampognaro e pupi, 2020, pp. 209-210. 71. Ad esempio, nel marzo del 1889 quando la crisi economica mise in ginocchio la Puglia e si verificarono alcune manifestazioni di protesta di società operaie e mutuo soccorso, ordinò al prefetto di Bari di trovare il giusto modo per risolvere la situazione. Cfr. Crispi al prefetto di Bari, 14 marzo 1889, ACS, CC, RE, b. 5, fasc. 12. 72. Cfr. Tornata del 9 febbraio 1889, in Crispi, Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, vol. III, p. 261-262. 73. ACS, CC, DSPP, b. 53, fasc. 340. Sui casi di Conselice si rimanda a: Conselice. Una comunità bracciantile tra Ottocento e Novecento, a cura di Pier Paolo D’Attorre e Franco Cazzola, Ravenna, Longo, 1991.
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Gli uomini di Crispi A questa rete di collaborazioni istituzionali si sommava quella dei rapporti ufficiosi. Il lavoro dei prefetti e della pubblica sicurezza era infatti coadiuvato dagli informatori e dalle spie, impiegati non solo per il controllo delle forze di opposizione, ma pure per la sorveglianza di elementi integrati.74 Alcuni tra questi erano inviati all’estero: è il caso del noto Ettore Sernicoli, pubblico funzionario di sicurezza stanziato a Parigi, che operò un serrato controllo sulle attività degli anarchici, sugli spostamenti di denaro o di individui e su possibili piani sovversivi.75 Meno noto di Sernicoli è un altro funzionario assoldato da Crispi, proveniente dagli ambienti di pubblica sicurezza, Cesare Garimberti. Cancelliere di questura a Milano e poi commissario a Fiume, Garimberti fu al servizio di Crispi almeno dal 1887 e fino al 1891. In diretto contatto con il conte Kálnoky e con il ministro Taaffe, l’informatore inviò numerose e dettagliate relazioni sullo spirito pubblico austriaco, in particolar modo in riferimento allo spinoso problema della chiesa cattolica in Italia e alla crescita dell’irredentismo. L’intera corrispondenza rimase nell’ombra: Garimberti spediva i rapporti a Giuseppe Turco, direttore del «Capitan Fracassa», celandosi dietro uno pseudonimo femminile. Turco, a sua volta, recapitava i rapporti al ministero e si occupava di far avere al funzionario laute ricompense.76 Inoltre, Crispi potè contare sull’appoggio di amici e conoscenti, che nutrivano per lui sincera stima, in particolar modo al Sud, dove la professione di avvocato e anche il matrimonio con Lina, d’origine siciliana, gli avevano permesso di estendere le sue conoscenze; né gli mancarono legami, più o meno sinceri, con influenti personaggi delle realtà locali. La prassi clientelare non fu una novità degli anni crispini, ma un sistema già 74. A titolo d’esempio, nel 1888 Pisani Dossi richiese all’ispettore di polizia Ermanno Sangiorgi due uomini da infiltrare alla Consulta «essendo sorti dubbi sulla fedeltà politica di alcuni impiegati», ACS, Pisani Dossi, b. 13, fasc. Agenti segreti. 75. A titolo di esempio, il 13 febbraio 1888 Sernicoli informava Crispi degli spostamenti di Cipriani, notificando anche che il gruppo di socialisti anarchici di Parigi, facente capo alla redazione del giornale «L’Attaque», aveva inviato a Corato 300 franchi «allo scopo di provocare manifestazioni tra i contadini ed operai senza lavoro». ACS, CC, DSPP, b. 51, fasc. 305. Sulla figura di Sernicoli cfr. Diemoz, A morte il tiranno, in particolare cap. IV. 76. Le cifre si aggirano intorno alle 1600 lire ogni due mesi. La corrispondenza con Garimberti si trova in ACS, CC, DSPP, b. 66, fasc. 396 e in ASMAE, Eredità Crispi, fasc. I. Le poche notizie su Garimberti sono tratte da Giuseppe Stefani, Cavour e la Venezia Giulia. Contributo alla storia del problema adriatico durante il Risorgimento, Firenze, Le Monnier, 1955, p. 140.
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rodato dai predecessori, volto a superare l’ impasse del «comando impossibile» della periferia attraverso la cooptazione di individui che trovavano nella relazione con l’autorità un appagamento personale, pur non facendosi portavoce di determinati interessi di categoria.77 Queste relazioni potevano divenire, al momento opportuno, un canale privilegiato di organizzazione ufficiosa del consenso e del controllo della vita politica e amministrativa: quando nel 1893 la situazione siciliana era sull’orlo del baratro, Crispi inviò nell’isola Gerolamo De Luca Aprile, il primo direttore de «La Riforma», che, insieme al deputato Antonio Marinuzzi, si occupò di aggiornarlo sullo stato dello spirito pubblico e di riorganizzare le file dei sostenitori.78 Da questi ricevette anche notizie sul comportamento dei funzionari di incerta fedeltà, come il questore Lucchesi che venne ripreso da Crispi per le «continue denunzie contro di lui di persone rispettabili».79 La rete dei legami crispini però non si esauriva nel perimetro del mondo politico e amministrativo, ma coinvolgeva anche quello della stampa. Tra le sue carte, il presidente conservava moltissimi biglietti da visita e missive spedite in forma privata da giornalisti e redattori che scrivevano per chiedere aiuti economici, per proporre un’intervista o una collaborazione. Crispi rispondeva solo dopo aver svolto un’attenta analisi preliminare: se lo scambio si fosse rivelato vantaggioso, si rendeva disponibile a stabilire un contatto, che poteva rimanere stabile nel tempo, ad elargire sovvenzioni e a stipulare abbonamenti, attingendo anche alla cassa del ministero.80 È emblematico il caso di Ange Morre, redattore politico del giornale francese «La Paix», che scrisse a Crispi nel febbraio del 1890 offrendo 77. Cfr. Romanelli, Il comando impossibile; Si rimanda anche a: Luigi Musella, Individui amici, clienti. Relazioni personali e circuiti politici in Italia meridionale tra Otto e Novecento, Bologna, il Mulino, 1994; Id., Clientelismo e relazioni politiche, in «Meridiana. Rivista di Storia e Scienze Sociali», 2 (1988), pp. 71-84. 78. La corrispondenza si trova in ACS, CC, DSPP, b. 149, fasc. Gerolamo De Luca Aprile e ACS, CC, DSPP, b. 155, fasc. Antonio Marinuzzi. Cfr. anche: Gerolamo De Luca Aprile, Prima e dopo la battaglia di Adua, in «Rassegna contemporanea», 4 (1911), p. 423. 79. Così scrisse Crispi al generale Morra, 24 febbraio 1894, ACS, CC, Roma, b. 26, fasc. 593. 80. A titolo di esempio, nel dicembre del 1888 il prefetto di Vicenza scrisse a Crispi chiedendo fondi per la pubblicazione di un giornale locale che avrebbe sostenuto il candidato governativo durante la campagna elettorale. Alessandro Fortis, sottosegretario all’Interno, rispose acconsentendo alla richiesta. ACS, CC, Roma, b. 8, fasc. 207. Cfr. anche Corrispondenza relativa a giornalisti stranieri e a giornalisti italiani all’estero, ACS, CC, DSPP, b. 121 e Rapporti con la stampa italiana ed estera, ACS, CC, Roma, b. 8, fasc. 212.
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«servizi in materia giornalistica» con lo scopo di migliorare i rapporti fra l’Italia e la Terza Repubblica. Il presidente si mise in contatto con l’ambasciata italiana a Parigi e chiese informazioni sul direttore, sulla sua posizione politica e sulla tiratura del foglio. Solo dopo aver ricevuto notizie positive accettò la proposta di Morre e si adoperò affinché fosse prelevato del denaro depositato a Parigi e di pertinenza del ministero dell’Interno per pagare la «mesata» al giornalista.81 Funzionari dell’amministrazione centrale, prefetti, informatori e giornalisti: l’entourage crispino era ampio e ramificato, ma per prendervi parte occorreva superare un’attenta selezione. Che Crispi fosse abituato a questo lavoro di reclutamento e abile nella scelta degli uomini lo dimostra il lungo sodalizio intrattenuto con i collaboratori più fidati, i pochi eletti che entrarono stabilmente a far parte del gruppo dei fedelissimi. 82 Il gruppo di fedelissimi Questo circolo ristretto era composto da pochi uomini scelti per vicinanza personale e stima professionale, cui Crispi affidò ruoli di responsabilità all’interno dei ministeri, in maniera più o meno ufficiale. Profondamente implicati nella politica crispina, questi ne seguirono le alterne vicende e, in diversi casi, la loro carriera subì una battuta d’arresto tra il 1891 e il 1893, per poi riprendere quando Crispi tornò al potere.83 Tra i nomi che vale la pena ricordare vi è quello di Giuseppe Palumbo Cardella, siciliano, classe 1856, corrispondente de «La Riforma» da Palermo e poi, conosciuto Crispi in occasione dei Vespri siciliani del 1882, suo fedele amico e segretario particolare dal 1887, assieme a Edmondo Mayor des Planches e al nipote di Crispi, Tommaso Palamenghi. Al contrario degli altri crispini, Cardella si occupò soprattutto di attività che esulavano dalla politica, curando la corrispondenza privata, i rapporti con gli altri collaboratori e divenendo un accompagnatore irrinunciabile 81. Cfr. Corrispondenza con Ange Morre ed altri, 1 febbraio - 28 novembre 1890, ACS, CC, Roma, b. 8, fasc. 212. 82. Pietro Alberto Lucchetti ha scritto a tal proposito: «l’abilità di Crispi si misura prima facie nelle scelte degli uomini, ai quali vennero affidate le responsabilità ministeriali, tecniche ed amministrative, in genere ben conosciuti, valutati, nonché, nella grande maggioranza dei casi, personalmente fidati». Pietro Alberto Lucchetti, Prefetti e amministrazione dell’Interno sotto Francesco Crispi, in «Instrumenta», 6 (1998), pp. 1072-1091, p. 1078. 83. Dopo il 1896 molti crispini continuarono la carriera amministrativa e diplomatica.
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per Crispi anche dopo il 1896, quando continuò a scortarlo nei tragitti verso il parlamento. A lui l’anziano statista assegnò il compito di censire e riorganizzare le carte del suo archivio, con lo scopo di pubblicare una raccolta di memorie.84 Anche Roberto Galli85 e Giuseppe Pinelli86 furono molto vicini al siciliano e vennero nominati rispettivamente sottosegretario degli Interni e capo di gabinetto del presidente del Consiglio nel 1893. Durante l’ultimo mandato infatti, Crispi fu costretto a tenere in conto le richieste che venivano da Destra e da Sinistra per la composizione del governo e per la scelta dei funzionari, ma non rinunciò ai suoi uomini più fidati. I collaboratori verso cui nutriva la massima stima vennero invece assegnati al ministero degli Esteri. Abele Damiani, garibaldino e amico intimo di Crispi, deputato della Sinistra da sempre interessatosi ai problemi di politica estera, fu chiamato a svolgere il ruolo di segretario generale degli Esteri e poi quello di sottosegretario, a partire dal 1887 e fino al 1891,87 per poi essere nominato, durante l’ultimo mandato, vice-presidente della Camera. All’interno della Consulta Damiani si occupò di mansioni relative 84. Nella prima metà del Novecento Cardella pubblicò alcuni contributi sull’opera crispina che, pur nei limiti interpretativi, restituiscono il senso della vicinanza e della stima che nutrì per lo statista siciliano. Cfr. Giuseppe Palumbo Cardella, Francesco Crispi. Appunti e ricordi, in «Il Messaggero», 14 agosto 1923; Id., L’epopea garibaldina e l’opera di Francesco Crispi, in «L’Impero», 2 giugno 1926; Id., Roma nel pensiero di Crispi, in «Il Messaggero», 11 agosto 1927; Id., Crispi e la politica mediterranea, coloniale e orientale, in «Politica» (1928); L’Istituto di Sanità pubblica da Crispi a Mussolini, Roma, Stabilimento Tipografico Europa, 1934; Id., Momenti della vita di Crispi, «Il Giornale d’Italia», 5 settembre 1941. 85. Roberto Galli, fondatore del «Tempo» (1869), eletto senza quasi interruzioni nel collegio di Chioggia dal 1886 al 1919, fu uno tra i più fedeli di Crispi. Nel 1894 venne nominato Alto Commissario per le provincie di Reggio Calabria e Catanzaro a seguito del terremoto, con una deroga speciale per attribuzione di poteri straordinari. Durante l’ultimo mandato crispino fu un uomo di punta del tentativo di mediazione coi cattolici del 1894 e contribuì alla stesura di importanti testi legislativi come quello sul domicilio coatto e sulla pubblica sicurezza. Su di lui cfr. anche Lauro Rossi, Presentazione, in Sotto il borbone non soffrii tanto. Lettere di Francesco Crispi dopo Adua (1896-1898), a cura di Id., Roma, Carocci, 2000, pp. 25-35. 86. Nella Lettera agli onesti di tutti i partiti, Cavallotti definì Pinelli «l’alter ego» di Crispi; ora in Cavallotti, Per la storia. La questione morale su Francesco Crispi nel 1894-1895 esaminata da Felice Cavallotti: lettere, cronaca e documenti, Milano, Aliprandi, 1895, p. 103. 87. Con il r.d. del 1 marzo 1888 n. 5247 il governo abolì la figura dei segretari generali e fissò le attribuzioni dei sottosegretari di Stato.
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al personale e all’amministrazione, mentre quelle politiche e diplomatiche vennero riservate a Pisani Dossi, che divenne capo di gabinetto.88 Subito dopo la nomina, il giovane scrittore presentò a Crispi un progetto di riordino degli Esteri che era stato duramente bocciato da Malvano nel 1885 e da cui presero corpo i provvedimenti di ristrutturazione del ministero.89 Agli Esteri Pisani Dossi visse i suoi «anni ruggenti»,90 assumendo su di sé ampie responsabilità e facendo del gabinetto il centro gestionale del ministero, dal quale dipendeva anche l’indirizzo impresso alla politica estera. Nel 1891 subì la vendetta di Malvano con il trasferimento a Bogotá, da cui scrisse a Crispi lettere piene di amarezza e rabbia. Lo stop impostogli dal cambio di guardia fu però solo temporaneo: nel 1893 rientrò agli Esteri come capo di gabinetto del ministro Alberto Blanc, con cui collaborò proficuamente. Crispi riponeva una sincera fiducia nell’intellettuale e lo stimava per la sua ampia cultura; per questo gli affidò compiti importanti, chiedendo la sua collaborazione per la stesura di leggi e trattati e chiamandolo a prendere parte a commissioni ministeriali, come quella che si occupò di definire l’ordinamento delle scuole italiane all’estero nel 1888.91 Durante il terzo e ultimo mandato crispino gestì il tentativo di conciliazione coi cattolici, il cui scopo era quello di proteggere la maggioranza dalle opposizioni di Sinistra che, in special modo a Milano, si preparavano a dare battaglia a Crispi nelle elezioni amministrative del febbraio del 1895 e in quelle politiche del maggio.92 Quell’anno, nonostante le resistenze di Blanc, venne trasferito all’ambasciata d’Atene, secondo sua personale richiesta. Di lì a poco però la sua carriera era destinata a una definitiva battuta d’arresto: al contrario di altri, dopo il 1896, il fedelissimo di Crispi, forse il più implicato nelle vicende politiche 88. Quando fu nominato agli Esteri Pisani Dossi era ancora segretario capo di gabinetto all’Interno. 89. Sul progetto di Pisani Dossi cfr. Adorni, Francesco Crispi. Un progetto di governo, pp. 187 ss. 90. A tal proposito Serra ha scritto: «l’Ufficio del Gabinetto degli Esteri, sotto Pisani Dossi, accentrò un tale potere, quale […] più non ebbe nemmeno ai tempi del fascismo», Serra, L’altra vita di Carlo Dossi: Alberto Pisani Dossi diplomatico, p. 66. 91. Pisani Dossi collaborò alla stesura della prima legge sull’emigrazione italiana (legge 30 dicembre 1888 n. 5866) e anche alla scrittura del Trattato di Uccialli. Nel 1890 predispose in seno al gabinetto un Ufficio coloniale per l’organizzazione e la gestione amministrativa dei possedimenti africani. 92. Già nel 1887 Pisani Dossi aveva fatto da tramite nel primo tentativo di mediazione tra il governo crispino e la Chiesa. Cfr. Carlo Alberto Pisani Dossi, Le relazioni tra F. Crispi e Padre L. Tosti. Pagine di un diario del 1887 a cura di Pisani Dossi, in «Nuova Antologia», CDII (1939), pp. 136-155.
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dello statista siciliano, non venne più riassorbito nel tessuto amministrativo e tornò alla vita intellettuale.93 Anche Levi entrò alla Consulta nel 1893, una volta abbandonato il timone de «La Riforma», ma in maniera ufficiosa, come elemento di raccordo tra il lavoro del ministro Blanc, il sottosegretario Antonelli e il presidente del Consiglio. Solo nel 1895 gli fu affidato l’incarico di capo dell’Ufficio della Colonia Eritrea e protettorati.94 La scelta di servirsi degli uomini de «La Riforma» non fu casuale. Certamente Pisani Dossi e Levi erano amici di comprovata fiducia, ma Crispi li chiamò alla Consulta per la loro formazione intellettuale e per le loro abilità comunicative, di cui avevano già ampiamente dato prova riorganizzando la redazione del giornale crispino.95 I processi di trasformazione in atto, la complessità della situazione internazionale e l’accresciuto impegno coloniale imponevano infatti di ripensare il sistema della comunicazione istituzionale, con lo scopo di rendere più efficiente il lavoro e di incidere maggiormente sull’opinione pubblica.96 Mezzi Il reclutamento degli intellettuali negli apparati burocratico-amministrativi che Crispi avviò partendo proprio da Levi e Pisani Dossi rispon93. Nelle Note Azzurre Pisani Dossi scrisse: «Francesco Crispi […] morì a Napoli (Villa Lina, Rione Amedeo) l’11 agosto 1901, domenica, alle ore 19.40, dopo lunga agonia. Mentre Crispi agonizzava, il Ministero (Prinetti) fece firmare dal Re un decreto che mi collocava a riposo, mentre non avevo ancora gli anni per la pensione e potevo rendere ancora servigi allo Stato», nota 5694. 94. Il regio decreto n. 700 del 28 dicembre 1893 aveva annullato la restaurazione compiuta da Rudinì e restituito al ministero l’ordinamento precedente. Secondo questo decreto «le materie riflettenti la Colonia Eritrea e i protettorati» sarebbero state trattate da un separato ufficio, dipendente dal gabinetto del ministro e del sottosegretario di Stato. Con successivo r.d. 5 maggio 1895 n. 251 venne creato il ruolo di direttore capo per l’Ufficio della Colonia Eritrea e protettorati (o ufficio coloniale). 95. Pisani Dossi scrisse di voler rendere il ministero degli Esteri «un solo corpo […] non da manichino, piallato da legni diversi e sempre per scollarsi e sfacciarsi; bensì un organismo umano, mosso da un solo sistema di nervi, e alimentato da unico sangue». La cit. è tratta da Serra, L’altra vita di Carlo Dossi: Alberto Pisani Dossi diplomatico, p. 23. 96. A proposito delle circolari scritte da Crispi ad uso dei funzionari ministeriali Guido Melis ha sottolineato la «straordinaria qualità tecnica, specie se confrontata con circolari del periodo depretisino» e «la novità di linguaggio che questi documenti contengono». Melis, Fare lo Stato per fare gli italiani, p. 59.
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deva all’esigenza, da sempre avvertita, di «saper guidare l’opinione e correggerla».97 Per questo, il siciliano riteneva di vitale importanza che il governo conoscesse e interagisse con i circuiti mediatici. Già nei pochi mesi in cui fu ministro dell’Interno nel 1878, spinse Depretis a prendere dei provvedimenti più incisivi sulla stampa, ma questi, poco sensibile ai problemi culturali, non si lasciò convincere. Quando prese il suo posto poté finalmente concretizzare il progetto e assicurarsi nuovi strumenti di controllo e propaganda politica. L’ordinamento del ministero degli Interni firmato nel luglio del 1887 prevedeva, tra le attribuzioni del gabinetto, l’organizzazione di un reparto funzionante da «osservatorio della pubblica opinione», che aveva il compito di raccogliere e visionare i rapporti dei prefetti, di leggere e riassumere gli articoli e le pubblicazioni italiane e di tradurre il materiale proveniente dall’estero.98 Pisani Dossi ne diede immediata notizia ai funzionari del ministero, richiedendo ai direttori generali e ai capi servizio di inoltrare al gabinetto, in una «forma sobria e piana», tutte le informazioni che potessero «interessare il pubblico ed essere date, senza inconvenienti, ai giornali».99 La presenza di una sezione dedicata alla stampa non fu una novità introdotta da Crispi, che pure si adoperò per ampliarne le mansioni, affidandosi alle conoscenze e all’intuito di Pisani Dossi, e immettendo nel gabinetto un gruppo di validi funzionari.100 Tra gli altri, si ricorda la figura di Alfonso Marescalchi, capo dell’Ufficio Stampa degli Interni dal 1889.101 97. Crispi, appunto autografo, s.d., MRR, b. 830, fasc. 32. 98. Cfr. Ordinamento Ministero degli Interni, Roma, Tipografia L. Cecchini, 1887, ACS, Pisani Dossi, b. 28, fasc. A. 99. Crispi ai direttori generali del ministero dell’Interno, 2 agosto 1887 [testo di Pisani Dossi], ivi. 100. In ACS, Pisani Dossi, b. 28, fasc. A si conserva una nota sulla composizione del bureau de presse del Département de l’Intérieur français. Su questi temi cfr. anche Luisa Montevecchi, Il Ministero degli interni: gli archivi e le informazioni, in Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica. Le riforme crispine, vol. I, Amministrazione statale, pp. 424-429. 101. Nel 1893, dopo aver lavorato agli Interni, Marescalchi venne spostato a Bologna come consigliere di prefettura ed entrò a far parte della Commissione per l’applicazione delle leggi sul domicilio coatto. Qui sorsero le prime frizioni poiché il funzionario si mostrò cauto nell’avallare le numerose richieste di applicazione del domicilio coatto inviate dal questore di Bologna e sollevò dei dubbi sul lavoro della commissione. Poco dopo, a causa di questi rilievi, gli fu imposto il trasferimento, cui reagì protestando e chiedendo le dimissioni. A quel punto Crispi presentò una relazione al re (3 novembre del 1894) per destituire il funzionario che mancava «di serenità di giudizio, sentimento di disciplina, spirito
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Mentre si occupava di riordinare l’ufficio, il direttore coordinò la compilazione di una statistica delle principali testate politiche pubblicate in Italia, sulla base di dati e informazioni forniti dai prefetti e dal ministero delle Poste. In queste schede venivano annotati il colore politico, il personale di redazione, le influenze di ciascun giornale e qualsiasi altra notizia di interesse. Inoltre, grazie ad apposite carte grafiche si poteva tempestivamente conoscere la diffusione dei quotidiani su tutto il territorio nazionale. Oltre a svolgere il lavoro assegnatogli, il direttore avanzò dei suggerimenti ai suoi superiori: la statistica dei giornali era uno strumento importante, ma sarebbe stato opportuno approntare anche un registro per ciascun collegio elettorale, che costituiva – scrisse – «l’unità nella quale si esplica effettivamente l’azione della pubblica opinione», per annotarvi le notizie politiche e «qualsiasi altro fatto che appassioni il pubblico». In questo modo – continuava Marescalchi – al momento delle elezioni, allorquando è maggiore la necessità di conoscere le condizioni precise dello spirito pubblico, i desideri delle popolazioni, i mezzi più acconci a soddisfarle, il governo, riassumendo semplicemente le notizie così minutamente raccolte, potrà formarsi un criterio esatto della situazione elettorale in ogni singolo collegio. A tutto ciò parmi inoltre cosa assai giovevole aggiungere una raccolta completa di tutte le manifestazioni fatte per le stampe dagli uomini politici.102
I consigli di Marescalchi non rimasero lettera morta. Per le elezioni del 1890 le notizie riguardanti i singoli collegi elettorali vennero raccolte in registri appositi; in questi quaderni si notificavano l’andamento delle elezioni politiche e amministrative degli anni precedenti, l’elenco delle associazioni attive nel territorio (con annotazione del nome, del numero dei soci e dello scopo) e la lista dei candidati alle elezioni. Per ogni candidato venivano specificati i nomi di eventuali sostenitori - associazioni e giornali, ma anche personalità di rilievo. Grazie a questa puntuale e aggiornata ricognizione sui media operanti a livello locale e nazionale e alla mappatura socio-politica di ogni di sacrificio» e il cui comportamento giovava «ai nemici dell’ordine». Marescalchi querelò in giudizio Crispi, senza ottenere soddisfazione legale. La vicenda, già finita sulle pagine dei quotidiani nel ’94, tornò a galla nel maggio successivo quando Cavallotti pubblicò il Memoriale Marescalchi («Il Secolo», 12 maggio 1895). Cfr. ACS, CC, DSPP, b. 96, fasc. 573; Adorni, Francesco Crispi. Un progetto di governo, pp. 274-275. 102. Marescalchi a Crispi, s.d., ACS, CC, DSPP, b. 96, fasc. 573.
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collegio elettorale, il potere centrale vantava di una conoscenza capillare del territorio.103 Anche al ministero degli Esteri l’immissione dei fedelissimi diede presto i suoi frutti. Per prima cosa infatti venne ripensata la strategia editoriale del dicastero e lo smilzo Bollettino Consolare, pubblicazione irregolare, cedette il passo al Bollettino del ministero degli Affari Esteri, che raccoglieva notizie e studi di settore firmati dagli impiegati. Il Bollettino, assieme all’Annuario Diplomatico del Regno d’Italia e ai molti Libri Verdi redatti da Levi, veniva mandato in stampa presso la nuova tipografia riservata della Consulta. Una volta riorganizzata la comunicazione interna, si mise mano al rapporto con la stampa: lo spoglio dei giornali diventò un’attività fondamentale del dicastero e al capo di gabinetto fu assegnato il compito di comunicare con i giornali e le agenzie telegrafiche; si creava, in questo modo, un rapporto diretto per cui le notizie viaggiavano velocemente e in due opposte direzioni: dalle redazioni verso il ministero, e viceversa.104 Il lavoro di organizzazione del nuovo ufficio procedette tra molte difficoltà, perché mancavano i traduttori105 e occorreva definire dei criteri omogenei di analisi, sintesi e revisione delle notizie, selezionando un gruppo di giornali rilevanti; la materia, una volta lavorata, andava smistata tra i vari uffici, fornendo a ciascuno una copia evidenziata, che rendesse di immediata lettura i passaggi più significativi.106 Anche in questo caso, i collabo103. L’elenco dei giornali italiani e il Registro di notizie sul colore politico dei giornali di Roma, si trovano in ACS, CC, DSPP, b. 55, fasc. 357; i registri compilati in vista delle elezioni del 1890 si trovano in ACS, CC, Roma, b. 7-8 fasc. 174-200. Sul controllo delle elezioni si rimanda anche a: Adorni, Francesco Crispi. Un progetto di governo, pp. 285 ss. 104. Cfr. Enrico Serra, La Consulta, in Opinion publique et politique extérieure 18701915, Actes du Colloque de Rome (13-16 février 1980), Rome, École Française de Rome, 1981, pp. 197-204. 105. Lettera s.d. di Enrico Tkalac, funzionario dell’Ufficio stampa del ministero degli Esteri, a Pisani Dossi: «Giorni fa incontrai il cavaliere Mayor e lo pregai di dirle che Ella si compiacesse di darmi per aiuto uno dei nuovi volontari che sappia l’inglese e un altro per il tedesco, ognuno per una sola ora al giorno, perché mi sarebbe impossibile di scrivere i sunti senza espormi al sicuro pericolo di perdere quel poco di vista che l’operazione della cataratta mi ha dato», ASMAE, Gabinetto Crispi, Cartella 5, fasc. 4. 106. Lettera a firma Mengola, funzionario del ministero, indirizzata all’Ufficio stampa del ministero degli Esteri, 27 dicembre 1889: «Al sign. Cav. Pisani Dossi devono mandarsi soltanto gli articoli riguardanti le faccende dell’Africa orientale e settentrionale (Massaua, Assab, Abissinia, Scioa, Zanzibar); […] A S. E. il comm. Damiani sono da inviarsi tutti gli articoli più interessanti relativi alla politica internazionale dell’Italia. Gli articoli dei giornali italiani e francesi si segnalano semplicemente con matita rossa. Degli articoli di giornali tedeschi e inglese conviene fare un sunto scritto, in cinque copie (per S. E. l’on. Crispi per
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ratori scelti da Crispi si dimostrarono all’altezza del compito assegnatogli. Un appunto anonimo, rinvenuto tra le carte di Crispi alla Consulta, restituisce la sensibilità con cui si avviò questo primo esperimento: L’importanza di un ufficio per la stampa estera può essere nulla o tale da recare sensibili vantaggi. Il tutto dipende dal modo con cui tale Ufficio è costituito e diretto. Ecco qualche idea in proposito che potrebbe servire d’embrione al programma dei lavori di siffatto ufficio, programma avente per iscopo di tracciare una via di condotta sicura, ferma, esente da titubanze, sbagli, negligenze colpevoli o nocivo zelo. Non basta, mi pare almeno, riassumere o tradurre articoli che la stampa più o meno interessata può pubblicare in nostro favore. Nondimeno questi articoli non sono da scartare. Tutt’altro. Essi, fatta la tara dei motivi della loro benevolenza vera o falsa, forniscono talora argomenti preziosi, che potevano esserci sfuggiti, in favore della nostra politica e costituiscono sovente un’arma tutta pronta con cui combattere, servendosene nei colloqui cogli uomini politici o popolarizzandoli mediante riproduzione negli organi unici del governo. Più ingrato e spesso nauseante è il compito – indispensabile se si vuole arrivare a formarsi un’idea giusta, media, dell’opinione pubblica del giorno, sicura delle argomentazioni ottimistiche degli amici e di quelle pessimiste degli avversari, – di controllare la stampa ostile. Secondo che si sente dire o che si ha avuto occasione di vedere, gli uomini di Stato fanno tesoro degli attacchi, anche ingiusti, degli avversari; ammettono e sfruttano quello che vi può essere di giusto, di serio – combattono, sia nei discorsi, sia mercé la stampa, quello che pur mancando di base, è tale da danneggiare la nostra politica. […] Nella scelta dei giornali ammessi all’esame si deve tener conto non solo della loro popolarità, sicurezza di informazioni, tendenze, ecc ma di molti altri elementi che non si possono riunire che col tempo, indizio che l’istituzione d’un buon ufficio della stampa non può essere spontanea, ma deve essere l’effetto d’un lungo ed assiduo lavoro preparatorio d’informazioni. E tali informazioni riguardano i proprietari d’un giornale, i suoi redattori, ispiratori politici, finanziari industriali, senza trascurare i mezzi di cui esso dispone e le loro fonti. […] L’Ufficio della stampa deve vigilare gelosamente, senza scendere a meschiS. E. l’on. Damiani, per il sign. Cav. Pisani Dossi, per l’ufficio della stampa al ministero dell’interno e (la prima col lapis nero) per il sign. comm. Puccioni). Si badi specialmente agli articoli ostili alla politica italiana. […] Le corrispondenze più importanti dall’Africa trovansi nei giornali Corriere di Napoli (Mercatelli), Piccolo di Napoli, Gazzetta Piemontese, Roma di Napoli (conte Pennazzi). Scrivono con una certa competenza intorno alle cose d’Africa: N. Corazzini del Piccolo, Macola della Gazz. Di Venezia, Belendi della Tribuna», ASMAE, Gabinetto Crispi, Cartella 5, fasc. 4. Cfr. anche la corrispondenza relativa alla stampa austro-ungarica, francese, greca, inglese, russa, spagnola, svedese, svizzera, tedesca e turca in ASMAE, Gabinetto Crispi, Cartella 5, fasc. 9-10-11.
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nità e pettegolezzi, su qualsiasi manifestazione dell’opinione pubblica per mezzo dei giornali, che tocchi il decoro, il prestigio, gli interessi del paese e l’onorabilità degli uomini che lo governano, il decoro e l’autorità di questi essendo strettamente legato a quello della patria – e non temere, rivelando anche propositi […] offensivi, d’esporsi a recare momentaneo scontento, perché talvolta il nemico ricorre precisamente a tali arti per scuotere la posizione degli uomini che gli danno fastidio. […] Il lavoro dell’Ufficio per essere proficuo non deve limitarsi a tradurre o riassumere alla cieca l’immensa mole d’informazioni […] Esso deve non solo saper scegliere sagacemente, ma arrivare a fornire agli uomini al potere uno specchio dell’insieme delle tendenze e dei giudizi dell’opinione, sbarazzando il terreno da materie inutili che un ministro non ha tempo di esaminare. […] Un ufficio della stampa che non arrivasse per lo meno a riunire in sè queste condizioni essenziali, sarebbe come una macchina guasta, un corpo inanimato, utile di rado, spesso dannoso; esso non sarebbe più, secondo l’espressione d’un uomo di Stato eminente, uno degli occhi del Ministero degli Affari Esteri, ma un occhio finto di vetro, ed il meglio ancora sarebbe di sopprimerlo addirittura.107
Come si vede, molti tra i funzionari crispini diventarono parte attiva delle trasformazioni in atto grazie a margini di discrezionalità, più o meno ampi, che permettevano di impiegare competenze e risorse personali differenti al servizio del ministero. Anche qui Pisani Dossi si trovò a svolgere un ruolo di primo piano: fu lui a stringere i rapporti con l’agenzia telegrafica Stefani e a guidare le trattative che portarono alla firma di un nuovo contratto tra questa e alcune agenzie telegrafiche europee.108 Alla fine degli anni Ottanta, la Stefani era legata all’agenzia francese Havas109 e subiva indirettamente le conseguenze di un accordo esistente tra quest’ultima e la Reuter inglese per cui i dispacci provenienti dall’Inghilterra, prima di arrivare in Italia, passavano per la Francia. La necessità di modificare uno status quo sfavorevole spinse Crispi e Pisani Dossi a 107. Qualche pensiero sul come dovrebbe essere costituito un ufficio per la stampa estera presso il ministero degli Affari Esteri, 10 agosto 1890, ASMAE, Gabinetto Crispi, Cartella 5, fasc. 4. 108. Sull’agenzia telegrafica Stefani cfr. Enrico Serra, Crispi, Pisani Dossi e le agenzie di stampa, in «Storia Contemporanea», 3 (1978), pp. 477-482; Sergio Lepri, L’Agenzia Stefani da Cavour a Mussolini. Informazione e potere in un secolo di storia italiana, Firenze, Le Monnier, 2001. 109. Il contratto stipulato nel 1867 riconosceva alla Stefani il diritto di diramare in Italia le notizie già diffuse dall’Havas francese.
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immaginare la stipula di un nuovo contratto con la Reuter e la creazione di una lega tra le agenzie telegrafiche di Germania, Austria e Italia. L’idea fu per la prima volta presentata a Bismarck durante il viaggio di Crispi a Friedrichsruh nel 1888: il cancelliere parve però non farsi tentare, avanzando dubbi sulla liceità dell’operazione, che avrebbe di fatto imposto un accordo diplomatico tra rappresentanti statali alla libera iniziativa di enti privati; questa «confusione tra agenzie e governi» importava ben poco a Crispi, che considerava la Stefani una branchia della Consulta. Perciò non mollò la presa e, all’occasione della visita di Umberto I a Berlino, proseguì nell’opera di convincimento, conclusasi a suo favore nell’estate del 1889.110 Grazie ai nuovi accordi il ministero poteva supervisionare le notizie pubblicate a proposito dell’Italia sulla stampa straniera e, di fatto, sottoporre la Stefani al controllo dell’esecutivo.111 Da questo nuovo stato di cose, il governo fu ampiamente favorito: nel clima di crescente tensione degli anni Novanta, gli scambi quotidiani tra Pisani Dossi, Levi e la Stefani permisero di misurare con precisione la circolazione delle notizie, di selezionare i dispacci in uscita e di ricevere aggiornamenti in anteprima sulla stampa estera.112 Sotto la lente dei crispini passavano, soprattutto, le notizie relative all’Africa che, previa pubblicazione, venivano riviste e corrette. Si voleva, in questo modo, tenere alta l’attenzione e il consenso dell’opinione pubblica verso la politica coloniale ed evitare che, in caso di incidenti o sconfitte, si rafforzasse il fronte degli oppositori. Nei mesi decisivi dello sforzo africano del 1894, Blanc scrisse a Levi: «Caro amico, per l’opinione pubblica ci vuole, mi pare, altro che il disp. Stefani circa Adua. Vuole venire alla consulta un momento alle 11 per concertare qualche cosa anche per la Capitale?».113 110. Per le trattative cfr. Serra, L’altra vita di Carlo Dossi, pp. 53 ss e ACS, Pisani Dossi, b. 12, fasc. 648-649. 111. Anche perché l’agenzia telegrafica necessitava di una concessione governativa per esercitare. 112. La Stefani si rivolgeva continuamente a Dossi e a Levi per chiedere notizie «pubblicabili». Da questi riceveva «preziosi dispacci», che permettevano di svolgere il suo servizio «in modo perfetto». Cfr. Friedländer a Pisani Dossi 24 e 3 dicembre 1893. La corrispondenza tra Pisani Dossi, Levi, il direttore della Stefani Ettore Friedländer e il redattore Giuseppe Casalegno si trova in ACS, Pisani Dossi, b. 12, fasc. 648-649. 113. Blanc a Levi, 28 agosto 1894. Ancora, a titolo di esempio: «Ti raccomando le notizie di Massaua. È tornato indietro poi il generale Baratieri? Queste notizie assorbiranno certo tutta l’attenzione pubblica perciò ti prego tanto non dimenticarti. Domani pubblico il
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Quando la revisione e il controllo delle notizie non bastavano a evitare problemi al governo, Crispi vi applicava una più severa censura. Nell’ottobre del 1887 fece approvare le Prescrizioni relative ai corrispondenti di giornali e di agenzie telegrafiche presso le Regie truppe in Africa, impostato sulla base del regolamento inglese e firmato dal ministero della Guerra Bertolè-Viale.114 Secondo le nuove prescrizioni ogni corrispondente di giornale o di agenzia telegrafica avrebbe dovuto essere in possesso, previa partenza, di una licenza accordata dal ministro della Guerra o dal comandante in capo delle truppe in Africa, i quali si riservavano il diritto di negarla senza addurne i motivi. Ai corrispondenti si vietava inoltre l’uso di cifrari e la trasmissione di notizie che potessero destare preoccupazione nel paese o risultare dannose per il prestigio dei comandanti e dei soldati; essi facevano direttamente capo a un ufficiale dell’esercito, il quale poteva esigere che gli fosse data visione delle corrispondenze e decidere se modificarle, sopprimerle o, addirittura, ritirare la licenza. Inoltre, per il periodo di soggiorno in Africa, gli inviati rispondevano al codice penale militare. Grazie a queste nuove Prescrizioni Crispi poté facilmente espellere i giornalisti scomodi dall’Africa115 ed evitare pubblicazioni sconvenienti che – come scrisse – «interesserebbe tenere ancora celate o che spetta al Governo di diffondere sotto miglior forma».116 Come si vede, strumenti coercitivi e di propaganda, così come attori politici, amministrativi ed esponenti dell’intellettualità minore e del giornalismo venivano impiegati di concerto con lo scopo di assicurare al centro una maggiore capacità di conoscenza e di controllo del paese. D’altro canto, proprio l’ampia disponibilità di mezzi e di uomini di cui Crispi poté servirsi quando divenne presidente del Consiglio gli permisero di alimentare ancora il suo mito personale, promuovendo una rappresentazione positiva del potere da lui incarnato. sunto del memorandum. È giornata propizia», Direzione della Stefani a Primo Levi, s.d., ASMAE, Primo Levi, b. 4, fasc. 2. «Tutti i giornali ci si raccomandano per avere particolari. Credo molto utile le liste dei morti e dei feriti più presto possibile» Friedländer a Pisani Dossi, 22 dicembre 1893, ACS, Pisani Dossi, b. 12, fasc. 648-649. 114. Una copia delle prescrizioni, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale del Regno il 19 ottobre, si trova in ACS, CC, DSPP, b. 57, fasc. 363. 115. In particolar modo fece rumore l’espulsione dei corrispondenti Scarfoglio e Mercatelli del «Corriere di Napoli» nel marzo 1890, ACS, CC, DSPP, b. 56, fasc. 359 116. Crispi al generale Baldissera a Massaua, 13 giugno 1889, ivi.
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3. La politica si rappresenta Occupare lo spazio Crispi intuì, prima di molti suoi colleghi deputati, che l’architettura e la monumentalistica, avendo la straordinaria capacità di rendere visibile un significato e di trasmetterlo in maniera immediata all’osservatore, potevano essere impiegati come dispositivi attraverso i quali plasmare l’immaginario collettivo. Per questo sostenne a più riprese che l’arte dovesse essere considerata come una «testimonianza del valore intellettuale della nuova Italia»: Dican le tele, dicano i marmi, dicano edifizi degni di accoglierli, ai tardi nepoti, che l’arte italiana ha saputo trarre dalla libertà maggior forza, che non desse, nella servitù, consolazione. E il governo del re andrà altero di dover tenerla in quel conto che meritano le grandi sorgenti della prosperità nazionale.117
Dopo il 1870 sentì l’urgenza di dare attuazione ai provvedimenti per lo sviluppo urbanistico di Roma poiché il «cemento» ne avrebbe perpetuato la vita e avrebbe dimostrato all’Europa la grandezza della nazione.118 Una volta giunto al potere, presentò in parlamento il disegno di legge Provvedimenti per la città di Roma che rendeva di competenza dello Stato l’amministrazione finanziaria e la gestione dei lavori per le opere pubbliche della città.119 Si trattava di un’anomalia rispetto al parziale decentramento riconosciuto con la riforma della legge comunale e provinciale del 1888, dettato dalla convinzione che Roma, «un’istituzione», non potesse essere paragonata a qualsiasi altro comune e che lo Stato avesse il dovere di compiere velocemente la sua trasformazione edilizia.120 Soprattutto, si batté affinché venisse costruito un luogo idoneo a ospitare la Camera dei deputati, l’edificio che più di ogni altro doveva rappresentare l’unità della patria e la consacrazione di Roma a capitale del Regno.121 117. Crispi a Francesco Jacovacci, 28 novembre 1887, ACS, PCM, 1887, Crispi, b. 68, fasc. 477. 118. Crispi, appunto autografo, s.d., MRR, b. 830, fasc. 32. 119. Il disegno presentato il 21 giugno 1890 alla Camera divenne legge il 20 luglio dello stesso anno (legge n. 6980). 120. Cfr. Tornata del 27 giugno 1890, in Crispi, Discorsi parlamentari, vol. III, pp. 577-579. 121. Cfr. Il palazzo del Parlamento, in «La Riforma», 10 settembre 1888 e Diciotto anni dopo, ivi, 20 settembre 1888. Sulla vicenda del Palazzo di Montecitorio cfr. Alberto Mario Banti, Storia della borghesia italiana. L’età liberale (1861-1922), Roma, Donzelli,
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Nel 1870 infatti, scartate le soluzioni di Palazzo Venezia e del Convento di San Silvestro, il parlamento si era trasferito nella sede della vecchia Curia Innocenziana, il Palazzo di Montecitorio, luogo carico di suggestioni storiche. La corte interna, velocemente ristrutturata, era così divenuta la prima aula dell’emiciclo, l’aula Comotto, restando in funzione per molto più tempo del previsto, nonostante fosse fredda d’inverno e calda l’estate, non disponesse di una buona acustica e versasse in pessime condizioni igieniche. Nel 1880, Cairoli presentò alla Camera il disegno di legge sul Concorso dello Stato nelle opere edilizie di ampliamento della capitale del Regno, che prevedeva la costruzione di un palazzo di giustizia, di un’accademia delle scienze, di un policlinico e di un quartiere militare. L’assenza di un progetto per la sede parlamentare irritò Crispi che ricordò ai colleghi deputati: Noi a Roma stiamo a disagio. È una locanda per noi piuttosto che una città; e guardando quest’Aula dovete tutti sentire un grave rammarico nel riflettere che, dopo 10 anni, siamo ancora in una casa di legno coperta di tela e di carta, quasi che stessimo provvisoriamente e non nella capitale definitiva dello Stato.122
Grazie al suo interessamento venne bandito un concorso per la costruzione del nuovo palazzo e nel 1883 venne creata una commissione per l’elaborazione di un programma di lavoro e per la scelta di un’area indicata, ma alla fine tutto fu prorogato fino al 1887. L’anno successivo la Camera votò la legge del 26 luglio 1888, approvando una spesa straordinaria di sei milioni da ripartirsi in quattro esercizi finanziari per la costruzione della sede del parlamento. Il nuovo concorso però si chiuse due anni dopo con un nulla di fatto;123 l’idea di una costruzione ex novo naufragò infatti sotto il peso della crisi finanziaria, così come anche il completamento del palazzo di giustizia e del policlinico. 1996, pp. 251 ss; Franco Zagari, La casa del Parlamento: fra architettura, istituzioni e potere, in Storia d’Italia, Annale 17, Il Parlamento, a cura di Luciano Violante, Torino, Einaudi, 2001, pp. 984-990. 122. Tornata del 10 marzo 1881, in Crispi, Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, vol. II, pp. 480-481. Sull’episodio cfr. Banti, Storia della borghesia italiana, pp. 251-252. 123. Una copia a stampa del Regio-decreto per istituire la commissione coll’incarico di scegliere la località ove dovrà sorgere il palazzo del Parlamento, (27 maggio 1883 n. 1414), del disegno di legge Autorizzazione di spesa straordinaria per provvedere alla residenza del parlamento nazionale presentato il 2 luglio 1888 da Crispi e dal ministro delle Finanze e del Tesoro (ad interim) Magliani e del testo a stampa della legge 26 luglio 1888 n. 5593 si trovano in ACS, CC, RE, b. 10, fasc. 20.
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La battaglia crispina per la costruzione della sede parlamentare, pur se fallimentare, fu tanto rumorosa da attirare l’attenzione dei media; un giornalista della «Revue de Deux Mondes» sostenne addirittura che le premure del siciliano fossero dettate da un interesse squisitamente personale: Il signor Crispi ama parlare ad alta voce e spendere largamente; prova ne sia quell’immenso palazzo ch’egli si propone di costruire vicino al Campidoglio, per adibirlo a sede del parlamento, e che, pare, costerà cento milioni. È chiaro che egli desidera che fra tanti monumenti che tramandano alla storia il nome di qualche pontefice, ci sia in Roma anche un magnifico edificio risalente alla nuova era italiana, e che un giorno forse verrà chiamato Palazzo Crispi.124
Maggiore fortuna incontrò il progetto di risistemazione delle sedi delle ambasciate italiane in Europa, per cui Crispi si adoperò in prima persona, promuovendo l’acquisizione di palazzi e facendo approvare in parlamento le spese per mobili, stoffe e oggetti artistici di fabbricazione italiana. In questo modo anche l’arredamento avrebbe permesso ai connazionali e agli stranieri di riconoscere «non solo di diritto, ma anche di fatto, e materialmente per così dire, un pezzo di territorio esclusivamente italiano».125 Questi luoghi assumevano così un importante valore simbolico, divenendo dei centri di irradiazione identitaria della nazione italiana sparsi in Europa e una testimonianza diretta della grandezza del paese. Tanto più importante fu per Crispi dimostrare questo valore quando nell’ottobre del 1888 Guglielmo II visitò Roma. Il viaggio in Italia dell’imperatore, a pochi mesi da quello in Germania del presidente italiano, doveva attestare – scrisse «La Riforma» – «che in questa marcia trionfale del progresso, Italia e Germania vanno di pari passo tra i primi».126 Crispi fu preso dal cruccio estetico e si gettò nel lavoro. Per i preparativi, Umberto 124. G. Valbert (Victor Cherbuliez), M. Francesco Crispi et sa politique, in «Revue des Deux Mondes», 1889, ora in Italia giudicata, ovvero la storia degli italiani scritta dagli altri. Dall’unificazione alla crisi di fine secolo 1861-1900, a cura di Ernesto Ragionieri, Torino, Einaudi, 1976, vol. I, p. 203. 125. Bozza di una circolare per il corpo diplomatico, 9 luglio 1889, ASMAE, Gabinetto Crispi, Cartella 5, fasc. 6. Nella tornata del 19 luglio 1888 la Camera approvò il prelevamento del fondo di riserva per le spese impreviste dell’esercizio finanziario 18881889 per l’acquisto di un palazzo dove ospitare la regia ambasciata di Madrid e le spese di acquisto di mobilio per le regie ambasciate e delegazioni aventi sede in palazzi demaniali. Cfr. AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVI, II Sessione, Discussioni, I Tornata del 19 luglio 1888, pp. 5023-5024. 126. Guglielmo II a Roma, in «La Riforma», 11 ottobre 1888.
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I assicurò la collaborazione del marchese Villamarina, esperto di cerimonie e ricevimenti, mentre il marchese Guiccioli, sindaco di Roma e longa manu di Crispi, si fece affiancare del rinomato scultore Ettore Ferrari e dal deputato Odescalchi.127 Come era nel suo stile, il presidente supervisionò ogni dettaglio, chiedendo la massima cura nella scelta delle decorazioni urbane. Si doveva predisporre tutto per non dare ai tedeschi – come scrisse a Guiccioli – «elementi di un giudizio tra le grandezze della Roma antica e le miserie della Roma moderna». Per questo, i due evitarono decori in stile classico che avrebbero fatto un pessimo effetto «vicino a quello che è vero e bellissimo».128 Le incoerenze di una capitale per molti versi ancora in costruzione non potevano essere risolte tutte in un giorno e questo preoccupava Crispi che si adoperò per abbattere gli edifici più fatiscenti in prossimità dell’alloggio dell’imperatore.129 Guglielmo II arrivo a Roma l’undici ottobre e la sua carrozza, accolta trionfalmente alla stazione, attraversò la capitale in festa. Le case ai lati della strada erano addobbate con bandiere, tra le Terme Diocleziane e Piazza dei Cinquecento era stato eretto un padiglione con cavalieri medievali e cavalli in cartapesta, in piazza delle Terme lo attendevano gli invitati e il pubblico pagante, assiepati in tribune costruite appositamente per l’evento. Le vie del centro erano state decorate con pennoni; quelli di via Nazionale portavano gli stemmi delle città italiane. Guglielmo II alloggiò al Quirinale, preferito alla Consulta – spiegò il re – per il suo «maggior effetto politico, essendo in Europa il nome del palazzo […] contrapposto a quello del Vaticano».130 Dopo aver fatto visita ufficiale a Leone XIII, l’imperatore partecipò per una settimana a pranzi di gala e ricevimenti e soggiornò a Napoli, dove lo accolse un concerto di duecento mandolinisti davanti al balcone del palazzo reale. Sulla costa, Guglielmo II presenziò al varo dell’Umberto I, per imbarcarsi poi sullo yacht Savoia. Dopo aver assistito ai fuochi d’artificio, l’imperatore fu condotto al sito archeologico di Pompei e fu fatto omaggio di un calco ottenuto riem127. Sulla figura di Guiccioli cfr. Mario Casella, Il Marchese Alessandro Guiccioli. Parlamentare, prefetto e diplomatico dell’Italia postunitaria, in «Archivio Storico Italiano», 152, 2 (1994), pp. 317-396. 128. Crispi a Guiccioli e risposta, 3 ottobre 1888, in MRR, b. 831, fasc. 61. 129. Cfr. Il ministro della Real Casa Urbano Rattazzi a Crispi, 3 agosto 1888, ACS, CC, RE, b. 9, appendice C. 130. Umberto I a Crispi, 31 luglio 1888, ACS, CC, DSPP, b. 65, fasc. 392.
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piendo di gesso la cavità lasciata dai corpi dei pompeiani nel lapillo. Rientrate nella capitale, le alte cariche dello Stato parteciparono al suggestivo spettacolo dell’illuminazione del Foro Romano, del Palatino e del Colosseo. Il gruppo dei fedelissimi si adoperò per dare risonanza all’evento: la tipografia degli Esteri pubblicò il Diario della visita, mentre la sesta dispensa de «La Riforma Illustrata» fu interamente dedicata all’imperatore, alla sua storia personale e a quella della casata reale prussiana. Ai lettori si propose anche la descrizione dei palazzi imperiali tedeschi, accompagnata da fotografie e da tre grandi ritratti «da mettere in cornice», quello di Federico II, di Guglielmo II e del cancelliere Bismarck.131 Il potere chiama, la nazione risponde Durante il viaggio dell’imperatore tedesco in Italia «La Riforma» si soffermò soprattutto sul dato della partecipazione popolare: la presenza dei cittadini radunati tra le strade di Roma aveva fatto la differenza, assicurando un effetto suggestivo, «magico» a quello che, altrimenti, sarebbe stato solamente un incontro politico formale, per quanto importante; «Dopo tutto – la grande decorazione è la folla»132 – concluse il giornale. E in effetti lo scopo ultimo della rappresentazione crispina era proprio quello di assicurarsi una partecipazione «espansiva, gioconda, ciarliera» delle piazze, per dimostrare a qualsiasi detrattore che il potere sapeva parlare a «quelle centinaia di persone che sentono più che non sappiano» e provocare «dolce emozione nel cuore di tutto il popolo».133 Per questo motivo Crispi si spese moltissimo nell’organizzazione dei suoi viaggi ufficiali e di quelli di Umberto I, richiedendo ai funzionari locali, ai collaboratori ministeriali e alla Stefani di lavorare in piena sinergia. Non sorprende che molte delle mansioni più delicate fossero affidate ai fedelissimi, i quali si occupavano – molto più che i ministri, solitamente tenuti in seconda fila – della fase preparatoria dell’evento, gestendo la cor131. Cfr. Visita di S. M. l’imperatore Guglielmo II a S. M. il re Umberto I in Roma, 11-19 ottobre 1888, Diario, Roma, Tipografia di Gabinetto del ministero degli Affari Esteri, 1889, ACS, CC, RE, b. 6, fasc. 12; Guglielmo II a Roma, in «La Riforma Illustrata», VI dispensa, ottobre 1888. 132. Le dimostrazioni popolari, in «La Riforma», 17 ottobre 1888; Guglielmo II a Roma, ivi, 11 ottobre 1888. 133. La dignità nazionale, in «La Riforma», 22 maggio 1889; A viaggio compiuto, ivi, 28 agosto 1889.
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rispondenza pubblica e privata, assicurandosi il massimo riserbo e rimediando nel caso di una fuga di notizie.134 Il progetto più ambizioso fu quello di un viaggio del re in Romagna nell’estate del 1888.135 Nella primavera dello stesso anno il duca d’Aosta Amedeo di Savoia si era fermato nella regione e poco dopo Umberto I e la regina Margherita, insieme a Crispi, avevano preso parte all’inaugurazione dell’Esposizione Emiliana; entrambi gli episodi si erano svolti senza incidenti e il presidente decise di alzare il tiro, immaginando una seconda visita dei reali nella regione. Portare la monarchia nelle piazze della regione più radicale e socialista d’Italia era senza dubbio una mossa azzardata, ma, se tutto fosse andato secondo i piani, il viaggio avrebbe aumentato la popolarità del re e assestato un sonoro colpo alle opposizioni di Sinistra. Non da ultimo, avrebbe assicurato un buon tornaconto al suo governo.136 Così a maggio scrisse a Giovanni Codronchi, che era stato il presidente del comitato esecutivo per l’Esposizione Emiliana, per comunicargli ufficialmente che le manovre militari si sarebbero svolte in Romagna e, da quel momento, la macchina della propaganda si mise in moto. I giornali governativi, che fino al giorno prima avevano descritto la regione come un luogo ingovernabile, prepararono il terreno per la visita.137 «La Riforma» si dilungò in elogi del popolo romagnolo, accusando la cattiva gestione preunitaria di aver abbandonato quelle terre «a se stesse ed a coloro che avevano interesse a farle deviare» e pubblicando in prima pagina diversi articoli 134. Ad esempio, mentre Crispi era in viaggio con Mayor verso la Germania, un dispaccio del «Pungolo» di Napoli annunciò la partenza del presidente: «La materia è sparsa, che fare?» scrisse Levi a Pisani Dossi, 19 agosto 1888, ASMAE, Gabinetto Crispi, Cartella 2, fasc. 3. Sul ruolo giocato dai collaboratori nell’assicurare la “segretezza” del viaggio, cfr. rispettivamente: Viaggio di Crispi a F. 1888: ACS, CC, DSPP, b. 68, fasc. 406; ACS, CC, RE, b. 6; ASMAE, Gabinetto Crispi, Cartella 2, n. 3; Viaggio di Guglielmo II a Roma: ACS, CC, DSPP, b. 65, fasc. 392; ASMAE, Gabinetto Crispi, Cartella 1, n. 4. Viaggio dei Reali nelle Puglie: ACS, CC, DSPP, b. 74, fasc. 448. 135. Sul viaggio del re in Romagna cfr. Dino Pieri, Grandi manovre. La visita di Umberto I nella Romagna repubblicana, Imola, La Mandragola, 1994. 136. Sull’ancoraggio repubblicano, radicale e socialista dell’Emilia-Romagna cfr. Maurizio Ridolfi, I repubblicani in Romagna e le origini del Pri nell’Italia liberale (18721895), Milano, FrancoAngeli, 1989; Storia dell’Emilia Romagna, vol. II, a cura di Renato Zangheri, Maurizio Ridolfi e Massimo Montanari, Roma-Bari, Laterza, 2004. 137. Sullo stereotipo negativo dei romagnoli cfr. Piero Camporesi, Lo stereotipo del romagnolo, in «Studi romagnoli», XXV (1974), pp. 393-411.
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di approfondimento storico da cui emergeva il racconto di una terra unitaria, laica e monarchica.138 In realtà, la reazione alla notizia del viaggio fu nient’affatto pacifica e per tutta l’estate il governo fu costretto a vigilare su possibili manifestazioni di protesta. Crispi però non volle cedere il passo, nonostante i dubbi di molti, e il 5 agosto scrisse a Codronchi un telegramma risoluto, confermando la sua intenzione; rinunciando al proposito infatti il governo si sarebbe mostrato debole e intimorito dalle opposizioni: «Il prestigio della autorità ne sarebbe menomato».139 Piuttosto, il presidente puntò all’imbavagliamento degli oppositori tramite un’abile strategia politica: il 20 luglio fece firmare al re il decreto per l’amnistia di Amilcare Cipriani, leader carismatico e popolare della Sinistra extraparlamentare, che scontava una pena di venticinque anni a Porto Longone per aver ucciso due guardie in Egitto nel 1867.140 L’intenzione era quella di rabbonire gli animi, ma il tentativo, mediato Alessandro Fortis, uomo di spicco della Sinistra forlivese, fu forse un po’ troppo goffo e la stampa non parve lasciarsi convincere.141 Scrisse «La Rivendicazione» di Forlì: E in ultimo, come immenso colpo di grancassa, come una chiusa d’effetto certo, sicuro, immancabile, ci gettaste Cipriani […] come un’enorme concessione fatta a bambini viziati cui si voglia molto bene e credeste con questo assicurarvi la nostra perenne ed infinita riconoscenza. Oh… furbi!142
Da parte sua, Cipriani colse l’occasione per tornare nella regione a fine agosto, dove fu trionfalmente accolto. Il secondo tentativo andò in138. Cfr. I due sistemi, in «La Riforma», 6 agosto 1888; Il Governo in Romagna - Altri tempi, ivi, 28 agosto 1888; La Romagna unitaria, ivi, 29 agosto 1888. Cfr. anche la vignetta a tutta pagina La conquista dei cuori apparsa su «Il Rugantino» nell’agosto del 1888. Nell’illustrazione Crispi e Umberto I vengono calorosamente accolti nella regione. La didascalia recita: «Sire! Le Romagne, calunniate finora, hanno avuto nel vostro primo ministro un degno interprete dei sentimenti. Qui come in ogni parte d’Italia palpita il cuore della nazione che vostro padre ha fatto libera, indipendente ed una, che voi farete grande, prospera e felice. Viva Umberto!». 139. Crispi a Giovanni Codronchi, 5 agosto 1888, ACS, CC, DSPP, b. 73, fasc. 446. Anche Domenico Farini tentò di dissuaderlo per non mettere a rischio la dignità della casa reale, ma Crispi non si lasciò convincere. 140. Su Cipriani si rimanda a: Elena Papadia, Amilcare Cipriani tra l’Italia e la Francia (1881-1914): eroe, mito, celebrità, in «Società e Storia», 170 (2020), pp. 767-794. 141. Nel dicembre del 1888 Fortis, che aveva avuto un atteggiamento di primo piano nell’organizzazione del viaggio reale, venne nominato sottosegretario all’Interno. 142. «La Rivendicazione», 25 agosto 1888, cit. in Pieri, Grandi manovre, p. 23.
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vece a buon fine: come già in passato il governo si servì delle parole di Aurelio Saffi che, il 6 agosto, dalle colonne de «Il Resto del Carlino», rivolse un appello ai democratici, affinché non si abbandonassero alle provocazioni e alle violenze, poiché sarebbero risultate `«errore e parodia».143 «La Riforma» diede risalto a questo gesto di distensione, che aprì la strada a nuove adesioni all’evento da parte di consigli comunali, società operaie e associazioni di mutuo soccorso o, anche, a più timide dichiarazioni di pacifica astensione. Tra le altre, la società operaia di Sant’Arcangelo di Romagna decise di partecipare alla visita del re esponendo la propria bandiera: si rimetteva così al parere del deputato per il collegio di Ravenna Alfredo Baccarini il quale, in una lettera pubblica, aveva affermato che l’esposizione dei vessilli e la partecipazione all’evento non costituiva un errore politico, ma anzi poteva considerarsi un gesto di cortesia nei confronti di Vittorio Emanuele II.144 Il compromesso funzionò e Crispi, onde evitare ulteriori fratture, decise di non partecipare all’evento; sapeva che la sua presenza avrebbe potuto agire come fattore di disgregazione e per questo rimase in disparte: «Preparazione non vi fu affatto» – scrisse «La Riforma» – Apparato, pompa ufficiale, carattere politico? Ma il Governo ne è stato tanto alieno, che nessun ministro, all’infuori di quello della Guerra […] ha accompagnato il Re».145 Le grandi manovre coinvolsero cinquantamila uomini divisi in due corpi d’armata e si svolsero all’insegna della mondanità: al rispetto della rigida etichetta reale, si preferì infatti una rappresentazione gioiosa e partecipata. Le strade principali delle città in cui Umberto I fece sosta vennero addobbate a festa, i cittadini salutarono il suo passaggio agitando fazzoletti e lanciando fiori dai balconi o scendendo nelle piazze con il tricolore. Il re presenziò a balli e ricevimenti e visitò accampamenti militari, ospedali e quartieri popolari, elargendo somme in beneficenza. L’inaugurazione del monumento ravennate ai martiri del Risorgimento e ad Anita Garibaldi, a cui Umberto I prese parte, permise di attestare, una volta di più, il legame tra la monarchia e le forze popolari, unite sotto la comune bandiera del patriottismo.146 La notizia dell’arrivo della regina, partita il 3 143. La parola di Aurelio Saffi, in «La Riforma», 9 agosto 1888. 144. Cfr. I rivoluzionari, ivi, 22 agosto 1888. 145. La parte del governo, ivi, 31 agosto 1888. 146. Sull’episodio cfr. Massimo Baioni, Rituali in provincia. Commemorazioni e feste civili a Ravenna (1861-1975), Ravenna, Longo, 2010, pp. 52-57. Sul potere di mobilitazione della monarchia umbertina, cfr. Francesco Luciani, La “monarchia popolare”. Immagini
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settembre per raggiungere il sovrano, accese l’entusiasmo della popolazione, coinvolgendo anche le donne, che si spostarono a Firenze e a Roma alla ricerca di un abito adatto a quell’occasione.147 A posteriori, «La Riforma» poté insistere sul significato non solo patriottico ma anche politico del viaggio, che precedentemente aveva negato: la partecipazione della folla ad ogni tappa del re – scrisse – dimostrava la fedeltà della maggioranza degli italiani al governo di Crispi.148 Non fece menzione, invece, delle difficoltà che l’esecutivo aveva incontrato nell’organizzare la visita e dei molti compromessi che erano stati necessari per tacitare il malcontento. Che il risultato positivo del viaggio non fosse per nulla scontato, lo si capisce dalle parole, soddisfatte e sollevate, che Crispi rivolse al re al termine della visita: «le accoglienze avute in Romagna sono state una rivelazione per coloro i quali […] temevano sventure e una delusione per gli anarchici i quali avevano dato a credere di disporre di una forza che non avevano».149 Pur non essendo protagonista dell’evento, lo statista trasse vantaggio dalla sua buona riuscita, rafforzando contemporaneamente l’immagine della monarchia popolare e la sua posizione personale. Allo stesso modo agì nel giugno dell’anno successivo quando vennero organizzate a Roma le feste per lo scoprimento della statua di Giordano Bruno a Campo dei Fiori. Il progetto del monumento, che si concretizzò solo dopo aver superato molti ostacoli, trovò in Crispi uno strenuo sostenitore: la memoria di Bruno infatti dava indirettamente voce alle sue idee politiche, promuovendo l’immagine di una Terza Roma finalmente restituita alle sue radici laiche. Le celebrazioni furono un successo: la presenza di migliaia di bandiere e di cittadini – scrisse «La Riforma» – dimostravano «l’indole civile della nuova Italia»;150 il governo, pur avendo deciso di non partecipare e lasciando il palco dell’orazione a Giovanni Bovio, ne trasse un importante tornaconto: nella narrazione giornalistica, Crispi, che aveva patrocinato la del re e nazionalizzazione delle masse negli anni della Sinistra al potere (1876-1891), in «Cheiron», 25-26 (1996), pp. 141-188; Brice, Monarchie et identité nationale en Italie (1861-1911). 147. Sulla regina Margherita cfr. Romano Bracalini, La Regina Margherita. La prima donna sul trono d’Italia, Milano, Rizzoli, 1983. 148. Cfr. Impressioni internazionali, in «La Riforma», 13 ottobre 1888. 149. Crispi a Umberto I, 5 settembre 1888, ACS, CC, RE, b. 9, appendice C. 150. Uniti nei fatti, in «La Riforma», 11 giugno 1889.
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causa, diveniva, alla stregua di Bruno, un difensore della libertà di pensiero. L’evento ebbe eco in tutta Italia, con il susseguirsi di manifestazioni che si sovrapposero a quelle del 2 giugno per l’anniversario della morte di Garibaldi e nelle piazze italiane gli evviva a Giordano Bruno si mescolarono agli evviva a Crispi.151 Sotto silenzio Come si vede, la buona riuscita del momento celebrativo imponeva al governo il controllo delle opposizioni, esili o robuste che fossero, le quali sarebbero intervenute a disarticolare la coerenza della rappresentazione proposta agli spettatori. Per evitarlo, occorreva vigilare sulla stampa antagonista e coordinare giornalisti e redattori amici, così da anticipare o rispondere a eventuali accuse.152 Quando Guglielmo II arrivò in Italia, i giornali francesi commentarono l’accoglienza «assez froide» riservata all’imperatore dai cittadini della capitale e diedero notizia dei momenti di disordine e degli arresti operati in via preventiva dal governo. Alle testate straniere fecero eco diversi fogli nazionali, che parlarono di una celebrazione «abortita» e sottolinearono come, tra le vie di Roma, fossero apparsi dei cartelli di protesta.153 I giornali governativi, da parte loro, furono pronti a sminuire queste narrazioni e sostennero che gli arresti di quei giorni non avessero nulla a che fare con il viaggio dell’imperatore; la riuscita dell’evento era indiscutibile e lo dimostrava il fatto che a quell’appuntamento si fossero presentati pochi antimonarchici, messi in minoranza dai molti sostenitori che avevano riempito le strade.154 151. Gualtiero Castellini, Crispi, Barbèra, Firenze 1915. Sul ruolo di Crispi nella vicenda cfr. Massimo Bucciantini, Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto, Torino, Einaudi, 2015, pp. 156 ss. 152. Quando Guglielmo II arrivò in Italia Crispi si assicurò che il noto corrispondente del «Times» William James Stillman, che conosceva personalmente e con cui intratteneva una relazione di stima e fiducia, fosse accolto a Venezia con ogni cortesia e facilitazione, (cfr. ASMAE, Gabinetto Crispi, Cartella 5, fasc. 11), mentre all’occasione del suo viaggio a Friedrichsruh nel 1888 si mise prontamente in contatto con il corrispondente del «Corriere di Napoli» inviatogli da Matilde Serao (cfr. ASMAE, Gabinetto Crispi, Cartella 2, fasc. 8). 153. Cfr. Telegramma del corrispondente de «Le Figaro», 11 ottobre 1888, e telegramma per le redazioni dell’«Unione» (Bologna) e dell’«Eco di Bergamo», 11 ottobre 1888, ACS, CC, DSPP, b. 65, fasc. 392. 154. Cfr. Arresti e cartellini, in «La Riforma», 14 ottobre 1888; Il giudizio degli altri, ivi, 19 ottobre 1888.
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Come si è visto però, fu soprattutto il viaggio di Umberto I in Romagna a mettere in difficoltà il governo e a richiedere un’attenta vigilanza delle forze dell’ordine, che dovettero contrastare giorno per giorno le mosse dei romagnoli anticrispini e antimonarchici, sequestrando giornali e censurando articoli dai toni polemici, rimuovendo dai muri le scritte sovversive e procedendo all’arresto degli agitatori irriducibili.155 La riuscita degli eventi pubblici dipendeva dunque in egual misura dalle strategie propagandistiche e dalle scelte coercitive, necessarie a tacitare i più ostinati. Neppure nel caso di commemorazioni patriottiche minori, organizzate a livello locale, Crispi abbassò la soglia di guardia: tra le sue carte personali il presidente conservava una ricchissima corrispondenza con le autorità locali e i prefetti su questa materia,156 a dimostrazione, una volta di più, di quanto la rappresentazione estetica della politica fosse tenuta in conto dal siciliano, che non era disposto a tollerare la mancata adesione alle disposizioni che provenivano dal centro, anche rispetto alla narrazione della storia patria.157 Presentandosi al paese come l’ultimo titano del Risorgimento, non poteva permettere che i protagonisti e gli avvenimenti di quel passato ve155. A titolo di esempio, il prefetto di Forlì De Amicis scrisse al ministro il 28 agosto: «Notte passata sui muri alcune case città e sui palchi eretti lungo percorso corteo reale furono fatte […] iscrizioni viva repubblica, viva rivoluzione sociale che furono subito cancellate agenti p.s. Cittadinanza disapprova queste manifestazioni», ACS, CC, DSPP, b. 73, fasc. 446. 156. Moltissimi sono i fascicoli relativi al controllo delle celebrazioni patriottiche. Cfr. in particolare: ACS, CC, Roma, b. 9, fasc. 220, Corrispondenza relativa alle cerimonie inaugurali di monumenti a Vittorio Emanuele II, 1 gennaio 1888 - 20 settembre 1890 e fasc. 221, Corrispondenza relativa alle cerimonie inaugurali di monumenti a Garibaldi, 21 gennaio 1889 - 24 agosto 1890; ivi, b. 12, fasc. 273, Corrispondenza relativa all’inaugurazione del monumento a G. Garibaldi e del busto a G. Mazzini in Piacenza e di lapide in onore degli stessi a Budrio (Bologna), 14 maggio - 19 agosto 1889; fasc. 278, Corrispondenza telegrafica relativa a commemorazioni dell’anniversario della Repubblica Romana, 9 gennaio 1890 - 10 febbraio 1890; fasc. 279, Corrispondenza telegrafica relativa all’inaugurazione del monumento a Manin in Firenze, 4 - 9 febbraio 1890; fasc. 280, XVIII anniversario della morte di Mazzini, 6 febbraio - 15 maggio 1890; fasc. 281, Corrispondenza relativa alla commemorazione dell’anniversario del 4 aprile 1860 a Palermo, 8 marzo - 14 aprile 1890; fasc. 286, Telegrammi relativi alla commemorazione della morte di Garibaldi in varie città d’Italia, 1-12 giugno 1890. 157. A titolo di esempio, Crispi al prefetto di Sassari in occasione della commemorazione per Aurelio Saffi svoltasi il 15 maggio 1890: «Ella chiariva, col suo telegramma di ieri, col quale si dà conto della commemorazione del Saffi, che non vi fu alcuna allusione alle istituzioni ed alla monarchia. In verità il confronto anche teorico tra il governo monarchico ed il repubblicano fatto dal Soro Pirino in una pubblica piazza, parrebbe contraddire il di lei ottimismo», ACS, CC, Roma, b. 12, fasc. 283.
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nissero impiegati come arma di delegittimazione del suo governo e diede battaglia ai «simboli dell’antagonismo» che, non avendo la forza e i mezzi per esprimersi a livello nazionale, cercavano visibilità locale. 158 Il presidente richiedeva ai prefetti aggiornamenti costanti sulla fase preparatoria di ogni evento pubblico, sul suo svolgimento, sui discorsi – che pretendeva «temperati» – e sul numero e la tipologia delle associazioni che avevano risposto all’invito. Non sfuggivano al controllo neppure le bandiere e i simboli di parte, che venivano vietati o preventivamente sequestrati.159 Nei casi più difficili, il governo si risolveva a vietare la celebrazione o a imporre lo scioglimento dell’adunanza, adducendo a motivo del divieto le «esigenze del momento» e l’assoluta infondatezza dell’interpretazione storica proposta.160 Lo testimonia, tra gli altri, il telegramma di risposta inviato nel giugno del 1890 al prefetto di Pesaro a proposito di una lapide da porsi in onore di Mazzini nel paese di Fano: La iscrizione della lapide, che vuolsi collocare nella suddetta città a memoria di Giuseppe Mazzini, contiene un errore storico ed è un vero atto d’ingiustizia. Mazzini volle l’Unità nazionale, ne fu l’apostolo, ma non il fattore. Fecero l’Unità della patria Garibaldi, Vittorio Emanuele, il popolo e l’esercito italiano. Il governo non può quindi permettere la collocazione della lapide.161
Come si vede, nulla veniva lasciato al caso da Crispi, che mirava a diffondere una rappresentazione del potere quanto più lineare e coerente possibile. A questo punto occorre però spostare il fuoco e chiedersi quale sia stata l’efficacia di una strategia propagandistica così elaborata. 158. Marc Abélès, Politica gioco di spazi, Roma, Meltemi, 2001, p. 7. Sulle memorie in conflitto del Risorgimento cfr. Franco Della Peruta, Il mito del Risorgimento e l’estrema sinistra dall’Unità al 1914, in Il mito del Risorgimento nell’Italia unita, in «Il Risorgimento», 1-2 (1995), pp. 32-70; Massimo Baioni, Risorgimento conteso. Memorie e usi pubblici nell’Italia contemporanea, Reggio Emilia, Diabasis, 2009. Su commemorazioni patriottiche e conflitti di memorie cfr. Maurizio Ridolfi, Feste civili e religioni politiche nel «laboratorio» della nazione italiana (1860-1895), in «Memoria e Ricerca», 5 (1995), pp. 83-108; Baioni, Rituali in provincia. 159. Spesso i prefetti davano notizia della possibile presenza di bandiere francesi, repubblicane e irredentiste, che venivano prontamente vietate. 160. Così annotò Crispi tra i suoi appunti preparandosi a rispondere all’interpellanza dell’on. Marcora sulle ragioni del divieto della commemorazione dei martiri del 6 febbraio 1853 che doveva aver luogo a Milano il 10 febbraio 1889. Cfr. ACS, CC, Roma, b. 4, fasc. 115. 161. Crispi al prefetto di Pesaro, 13 giugno 1890, ACS, CC, Roma, b. 17, fasc. 355.
Fig. 1. «Figaro», 14 marzo 1878, ACS, CC, RE, b. 10, fasc. 21.
Fig. 2. Le discussioni alla Camera – precauzioni necessarie, in «Don Chisciotte della Mancia», 21 aprile 1888. Fig. 3. Scuola elementare di giornalismo, in «Don Chisciotte della Mancia», 18 marzo 1888.
Fig. 4. Caricatura a mano, 21 giugno 1892, ACS, CC, DSPP, b. 79, fasc. 508.
Fig. 5. Il discorso, in «Il Pasquino», 2 dicembre 1894.
Fig. 6. Fotografia di Crispi, 1893, ACS, Palumbo Cardella, b. 3, fasc. 41.
Fig. 7. Lastra fotografica, 1894, ACS, Palumbo Cardella, b. 3, fasc. 41.
Fig. 8. Festeggiamenti a Palermo per il compleanno di Crispi, 1899, ACS, Palumbo Cardella, b. 3, fasc. 41. Fig. 9. Ultimo ritratto, «Rivista popolare di Politica, Lettere e Scienze Sociali», 15 agosto 1901, ACS, Palumbo Cardella, b. 4, fasc. 42.
Fig. 10. Roma e Berlino. Ricordo dei viaggi di S.M. Guglielmo II a Roma 1888, S.M. Umberto I a Berlino, Milano, Treves, 1889, ACS, CC, RE, b. 9, fasc. 19. Fig. 11. Pubblicità FerroChina all’arancio amaro dei F.lli Li Virghi, 1892, ACS, CC, RE, b. 8, fasc. 16.
3. Un uomo celebre
1. Il mito Crispi Al netto di giudizi divergenti sulla sua condotta politica, Crispi era da molti considerato una figura «notevole, caratteristica»,1 difficile da comprendere nel suo complesso, un «document human» di grande interesse – come scrisse il corrispondente del «Times» William James Stillman.2 Chi lo incontrava personalmente rimaneva colpito dallo sguardo fiero dei «begli occhi, a volte dolci e carezzevoli, a volte duri, freddi, fierissimi» e dai suoi atteggiamenti mutevoli, incostanti. Poteva infatti essere molto cordiale e «ipnotizzare» l’interlocutore con un’«espansione seducente di modi» – come disse Napoleone Colajanni – e poi d’un tratto divenire silenzioso, scontroso, persino irruento.3 Secondo i commentatori, ciò rivelava l’«indole vulcanica» da meridionale, la «troppa personalità di odi e di amori siculi» che Crispi faticava a contenere.4 1. Traduzione di un articolo del «Fremden-Blatt» di Vienna cit. in Francesco Crispi giudicato all’estero, in «La Riforma», 8 febbraio 1890, ACS, PCM,1887, Crispi, b. 65. 2. William James Stillman, corrispondente del «Times» a Roma dal 1886 al 1898, conobbe personalmente Crispi e nutrì per lui una profonda stima. Nel 1899 pubblicò una biografia in inglese di Crispi dal titolo Francesco Crispi. Insurgent, Exile, Revolutionist and Statesman, London, Grant Richards. La cit. è tratta da Duggan, Creare la Nazione, p. 570. 3. Cfr. Crispi per un antico parlamentare: col suo diario della spedizione dei Mille, Roma, Edoardo Perino, 1890, p. 22; Leone Fortis, Francesco Crispi, Roma, Enrico Voghera, 1895, pp. 8-9; Napoleone Colajanni, La politica estera di Francesco Crispi, in «Nuova Antologia», CLVIII (16 marzo 1912), pp. 193-205, p. 204. 4. Faldella, Salita a Montecitorio (1878-1882). Dai Fratelli Bandiera alla Dissidenza. Cronaca di Cimbro, p. 124; Petruccelli Della Gattina, I moribondi di Palazzo Carignano, p. 171.
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Lo stereotipo della meridionalità non era però declinato solo al negativo, ma anzi poteva esercitare un certo fascino sul pubblico, soprattutto quando si rifletteva in gesti e abitudini private – per esempio, il corno appuntato sul panciotto contro gli «iettatori» e la predilezione per i «cibi molto primitivi all’uso dell’isola»5 – che svelavano l’uomo dietro al personaggio. Questo lato intimo attirava l’attenzione della stampa, che in quegli anni scopriva il gusto per le cronache, gli inserti di approfondimento e le rubriche di costume, adeguandosi alle richieste del pubblico. Nasceva un giornalismo più vivace, che proponeva, accanto ai resoconti politici, letture di svago e intrattenimento, non disdegnando scoop e indiscrezioni sui personaggi più celebri e amati, compresi i deputati e i ministri. Ciò contribuiva, a sua volta, a modificare il racconto mediatico della vita politica, che orbitava sempre più frequentemente attorno ai singoli anziché ai partiti, agli uomini che meglio incarnavano un’idea o un programma e che i ritratti e le illustrazioni rendevano riconoscibili al pubblico. Questi prodotti della cultura visuale, in forte crescita alla fine del secolo, non solo concorrevano alla democratizzazione della sfera politica, raggiungendo una platea più ampia rispetto al testo scritto, ma tendevano a modificare il modo in cui l’opinione pubblica percepiva l’autorità. La postura fisica, lo sguardo, l’abbigliamento e i dettagli del contesto di un ritratto o di una fotografia davano la percezione di una conoscenza e di una prossimità che il resoconto del discorso parlamentare o l’articolo di giornale non avrebbero potuto restituire. Non solo. Riprodotte su vasta scala, le litografie e le carte-de-visites potevano essere appese alle pareti di associazioni, circoli e abitazioni private, o conservate in album fotografici, e divenivano così “proprietà” del pubblico, che ne fruiva a piacimento. Questa “umanizzazione” delle figure celebri aveva l’effetto di alimentare atteggiamenti adulativi e imitativi, che si esprimevano per esempio attraverso l’abbigliamento: si pensi alla cravatta “alla Cipriani”, o al cappello “à la Boulange”, ampiamente diffuso in Francia negli anni di massima popolarità di Boulanger.6 5. F. Crispi, in «La Provincia», 15 agosto 1887, ACS, PCM, 1887, Crispi, b. 65. La notizia del corno è riportata, tra gli altri, da Fortis, Francesco Crispi, p. 11. Sullo stereotipo della meridionalità di Crispi cfr. John Dickie, La “sicilianità” di Francesco Crispi: contributo ad una storia degli stereotipi del Sud, in «Meridiana», 24 (1995), pp. 125-142. 6. Sulla cultura visuale e sul suo impatto socio-politico si rimanda a: Il lungo Ottocento e le sue immagini. Politica, media, spettacolo, a cura di Vinzia Fiorino, Gian Luca Fruci e Alessio Petrizzo, Pisa, Edizioni ETS, 2013; Culture visuali e forme di politicizzazione nel lungo ’800 europeo, a cura di Gian Luca Fruci e Alessio Petrizzo, in «Passato e Presente», 100
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Non sorprende che una figura eccentrica e dibattuta come Crispi finisse nel mirino e che i giornalisti fossero spesso a caccia di dettagli sulla sua vita privata, quella che si svolgeva lontano dai luoghi del potere. All’indomani dell’attentato di Caporali, sul «Giornale di Sicilia» comparve un lungo articolo sulla convalescenza del presidente nella dimora napoletana di Villa Lina: È in piedi prima assai delle sei antimeridiane. Come il vecchio Cicerone, egli ha del proprio individuo cura diligente e decorosa. Fa la sua toletta e nel contempo il suo segretario gli comunica i dispacci e le notizie che pervengono durante la notte. Verso le otto si mette al lavoro. Fino alle dieci si occupa di politica estera. Egli suol ripetere che è appunto la politica estera quella che meno lo preoccupa, quanto al disimpegno giornaliero. […] Alle dieci fa colazione in famiglia. Francesco Crispi, più che altro, vi fa semplice atto di presenza. Non beve quasi mai vino. Egli è astemio. Pitagora lo avrebbe inscritto fra’ suoi discepoli più ortodossi. C’è dell’altro. Crispi non fuma. Nemmeno fiuta. […] Dalle undici e mezzo alle sette di sera l’onorevole presidente lavora instancabilmente alla politica interna. È calmo, ma rapido e pronto. I suoi segretari penano talora a tenergli dietro. Le interruzioni del resto sono numerosissime. Sono i ricevimenti di coloro che hanno chiesto e ottenuta l’udienza. Crispi li accoglie con correttezza perfetta. D’un gesto vibrato indica loro la segiola, siede ed ascolta. Parla poco, è riservato. Pure usando ogni gentilezza, abbrevia quanto può la visita. Il tempo che fugge è per lui una specie di dolore. Egli è come l’eroe di quella novella persiana di Marmontel, che pregava Allah di stabilire i giorni, non di ventiquattro, ma di quarantotto ore. Una volta libero delle persone accorrenti, si rimette al tavolino. Il momento del pranzo, alle sette di sera, arriva sempre un po’ presto. Ha sempre qualche ultima pratica da sbrigare. Adesso nella sua convalescenza, è un po’ donna Lina che riesce con dolce violenza a strapparlo dal lavoro. […] – Durante il pranzo discorre volentieri. Ma i suoi argomenti favoriti concernono quasi sempre uomini e cose del passato. Del presente parcamente discorre, e se può, sfugge alla contemporaneità degli argomenti. Dopo il pranzo, un po’ di conversazione. Alle dieci di sera, daccapo a lavoro, e così fino a tarda notte. Crispi è di quelli uomini che dormono poco. È del parere di Santo Agostino che diceva: essere il sonno il ladro di metà della vita.7 (2017). Sul concetto di “peopolisation” cfr. Peopolisation et politique, numero monografico, «Le Temps de Médias», X, 1 (2008); Jamil Dakhlia, Mythologie de la peopolisation, Paris, Le Cavalier Bleu, 2010. Sul significato politico dell’abbigliamento cfr. Carlotta Sorba, Writing the history of appearances and politics, in «Contemporanea», 20 (2017), pp. 527-540. 7. La giornata di Crispi, in «Giornale di Sicilia», 24 settembre 1889, ACS, CC, DSPP, b. 130, fasc. 878.
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Ne emerge il racconto di una quotidianità medio-borghese, scandita dal lavoro, dai pochi affetti familiari e priva di note mondane, ma circondata dal lusso e dalle comodità che la professione d’avvocato assicuravano a Crispi e ai suoi. La sfera degli affetti suscitava molta curiosità. Lina in particolare venne più volte presa di mira da giornalisti e scrittori, che la raccontarono come una donna superficiale, a tratti maligna, dedita esclusivamente ai ricevimenti e ai viaggi con cui dilapidava le finanze del marito. Persino il fedele Pisani Dossi sembrò condividere quest’antipatia per la moglie del presidente del Consiglio, quando annotò con velata ironia nelle Note Azzurre: «Quando Crispi fu ministro degli esteri, per uno dei soliti grandi pranzi che si davano alla Consulta il 14 marzo (compleanno del Re Umberto) fu telegrafato nell’Alta Italia per avere trote. Giunsero magnifiche e furono mangiate da Donna Lina».8 Il Crispi della quotidianità veniva invece giudicato differentemente. Se infatti la narrazione del deputato bigamo continuò a essere riproposta a lungo dai giornali d’opposizione, in altri luoghi venne ritratto come un uomo affettuoso e dedito alla famiglia. Nei suoi Appunti del 1887 Vincenzo Riccio scrisse: In casa è gentile, allegro, bonario. L’uomo si trasforma nelle pareti domestiche. Non si riconosce più in lui l’oratore robusto e qualche volta violento della Sinistra storica. Ha un idolo: sua figlia. Molto l’ama, molto per essa ha sofferto, molto ad essa ha sacrificato, molto per essa ha lavorato e lavora.9
Gli editori stranieri erano interessati ai ricordi della sua giovinezza, quell’epoca «full of thrillig adventures», ben più accattivante degli argomenti politici che avrebbero attirato solo l’attenzione dei lettori più colti;10 per questo gli scrissero alla ricerca di notizie oppure tornarono sui luoghi 8. Dossi, Note Azzurre, nota 5610. In maniera ben più esplicita scrisse Paolo Valera: «La Lina, in fatto di educazione, non dava punti alla Rosalia. Al pranzo di corte teneva la forchetta fin quasi ai denti. Più tardi andava in carrozza coi porchetti vivi, ai quali metteva al collo il nastro rosso. Palermo e Napoli l’hanno veduta con i suoi favoriti nel trugolo. Della sua fedeltà non vale la pena di parlare. I suoi scandali di letto sono nelle cronache. Sono arcinoti i bigliettini amorosi agli amanti capitati nelle mani del Comitato dei cinque o dei sette», Id., Mussolini, Milano, 1975. Sull’immagine pubblica di Lina Barbagallo e sui pettegolezzi sul suo conto cfr. anche Duggan, Creare la Nazione, pp. 573-575. 9. Riccio, Introduzione, in Id., Francesco Crispi. Profilo e appunti, p. 11. 10. Lloyd Bryce a Crispi, 20 novembre 1891. Cfr. anche la lettera di W.H. Rideing del «The Youth’s Companion» di Boston, rivista per ragazzi, 16 settembre 1892: «La vostra gioventù era così piena di alta ambizione, coraggio e variata attività che qualunque nar-
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della militanza, come fece «Le Grand Journal» poco dopo la sua morte, raccontando ai lettori le modeste stanze della mansarde abitata dal siciliano al tempo dell’esilio giovanile e raccogliendo le impressioni dei parigini che lo avevano conosciuto.11 E in effetti, anche i francesi seguirono con vivo interesse la carriera di Crispi, pur restandogli generalmente ostili, ancor prima che per le scelte politiche, per quella sua superba convinzione che «sans lui l’Italie n’aurait pas été faite».12 Il giornalista de «Le Figaro» Jacques Saint-Cère, a cui Crispi rilasciò una lunga intervista per il pubblico d’oltralpe nel 1890, confessò a proposito del suo viaggio in Italia: «ce que j’y ai vu de plus important et de plus curieux, c’est M. Crispi». Nel riportare quell’incontro, Saint-Cère descrisse il volto dai lineamenti marcati del siciliano: «il rassemble à M. Bismarck» – commentò – ma il suo atteggiamento era invece «très italien» e «très roublard» poiché mirava a convincere l’interlocutore senza incutergli timore.13 I commenti dei detrattori, italiani e stranieri, che prendevano parola per manifestare perplessità e fastidio nei suoi confronti, contribuivano a rimetterlo al centro dell’attenzione. Al pari dell’ammirazione, anche l’odio può infatti alimentare la celebrità di un personaggio in vista – quando non ne decreta la sparizione. Lo notò la pittrice tedesca Helene von Preschen che, sollecitata a dare un giudizio personale sul presidente del Consiglio italiano, rispose: «Invidio al Crispi l’odio di cui gode».14 In caricatura La diffusione dell’immagine pubblica o delle diverse immagini pubbliche di Crispi dovette molto alla satira giornalistica; i vignettisti, non solo in Italia, ebbero per lui una particolare predilezione, dedicandogli razione degli incidenti della vostra gioventù sarebbe d’interesse». Entrambe in ACS, CC, DSPP, b. 121, rispettivamente fasc. 765 e 774. 11. Notre ênquete - Rue Nollet - La mansarde de Crispi, in «Le Grand Journal», 10 marzo 1896, APP, Series Ba, fasc. 906, François Crispi (Président de la Chambre des députés italiens). In questo fascicolo si conserva una corposa rassegna stampa su di lui (1877-1901). 12. Domenico Margiotta, Francesco Crispi: son oeuvre néfaste, Grenoble, H. Falque, 1896, p. 2. 13. Jacques Saint-Cère, Chez M. Crispi, in «Le Figaro», 29 settembre 1890. Cfr. anche: Emilio, Entrevue avec M. Crispi, «Le Figaro», 15 aprile 1888, APP, Ba 906, François Crispi (Président de la Chambre des députés italiens). 14. Il giudizio è riportato nel volume Crispi di Hans Barth pubblicato nel 1893 (Leipzig, Gebhard).
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numerose caricature e illustrazioni. Già nell’ottobre del 1887 la rivista torinese «Il Telefono» pubblicò una vignetta del siciliano a cavallo de «La Riforma». Nell’immagine il presidente indossa l’elmo prussiano e, sorgendo dalla tomba di Depretis, indica la strada di fronte a sé; sulla destra si riconosce un clericale in fuga, mentre sullo sfondo, nascosto dalle nuvole, fa capolino il cancelliere Bismarck.15 Da questo momento lo spettro delle caricature non fece che ampliarsi, includendo proposte anche molto diverse – dal Crispi-ciabattino che rattoppa lo stivale malmesso al Cesare in trionfo sulla biga;16 alcuni temi però tornavano più di frequente: il Don Ciccio della caricatura era infatti un personaggio carismatico, capace di ispirare una fiducia cieca nella maggioranza parlamentare, come notò il celebre illustratore Casimiro Teja raffigurandolo a cavallo, in abiti mussulmani, mentre cammina su una schiera di deputati prostrati a terra: «la fede è una bella cosa» – si legge nella didascalia – «purché non giunga a tanta abnegazione».17 Torna altre volte lo stereotipo del Crispi profeta, di cui il «Rugantino» annunciò nel 1893 la resurrezione politica dal sepolcro delle «calunnie», del «clericalismo» e del «livore francese». Meno entusiasta fu, in quella stessa occasione, la reazione de «L’Asino», che pubblicò una vignetta di Crispi di fronte allo specchio, nell’atto di provare la feluca e il berretto frigio perché «è sempre bene averne per tutte le circostanze»;18 un riferimento, questo, ai molti compromessi tra Destra e Sinistra che erano stati necessari per formare la nuova compagine di governo. Che Crispi sapesse accomodarsi con alleati diversi, mostrando un volto politico idoneo a seconda dei casi, lo aveva lasciato intendere anche il «Don Chisciotte della Mancia» alla vigilia della visita ufficiale a Berlino del 1889, con tre vignette del presidente intento nei preparativi per il viaggio: «ci debbo mettere anche la medaglia dei Mille?» – chiede il maggiordomo mentre si occupa dei bagagli – «Ma che! Bismarck mi prenderebbe per un rivolu15. Ciccio Crispi, in «Il Telefono», 23 ottobre 1887. L’immagine è riprodotta in Segni di gloria, come anche le vignette de «La Rana», «Il Pappagallo» e «Il Fischietto» che vengono citate in questo paragrafo. 16. Su Crispi “ciabattino” cfr. Un ciabattino in funzione, in «La Rana», 11 gennaio 1889; La crisi del calzolai, in «Don Chisciotte della Mancia», 13 marzo 1889; s.t., in «Il Pappagallo», 7 giugno 1890. Su Crispi-Cesare cfr. s.t., in «Don Chisciotte», 7 dicembre 1889. 17. Il ritorno del tappetto dalla Mecca, in «Il Pasquino», 23 ottobre 1887. 18. La risurrezione politica di Francesco Crispi, in «Rugantino», 14 dicembre 1893; s.t., in «L’Asino», 17 dicembre 1893.
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zionario!» – risponde Crispi. L’anno dopo Teja lo immaginò supplicante davanti alla tomba semiaperta della Destra parlamentare: «Don GiovanniCiccio continua a cercare amore ora dall’una ora dall’altra rivale» – recita la vignetta.19 Carisma, dunque, e trasformismo politico, a cui si sommava un’altra fortunata rappresentazione: quella del Crispi dittatore, che consegnava la libertà in manette alla questura, secondo una vignetta de «Il Fischietto», e metteva all’angolo deputati e ministri, ritratti dal «Don Chisciotte della Mancia» «nel pieno esercizio delle loro funzioni», con bavaglio alla bocca e armati.20 In questa schiera di sottoposti al suo servizio non potevano mancare i giornalisti e i redattori. In una vignetta apparsa nel marzo del 1888 sempre sul «Don Chisciotte della Mancia» Crispi veste i panni di un maestro elementare mentre detta a una classe di allievi-giornalisti: «il mi-ni-stro prov-ve-de-rà con la so-li-ta e-ner-gi-a». Sullo stesso numero Vamba raccontò ironicamente il lavoro quotidiano della «stampa ultra-onesta», in un lungo articolo accompagnato da vignette; gli oggetti presenti negli uffici della redazione – il calamaio, le penne, i timbri, le lampade e le sedie – sono rappresentati “a forma di Crispi” «in modo da ricordare continuamente agli scrittori il nome riverito di colui che seppe con tanto fervore patrocinare la causa della stampa onesta»; gli articoli – proseguiva Vamba – dovevano essere «ispirati da uno studio profondo e continuo fatto su un solo libro», quello dei discorsi elettorali del siciliano. Nel raccontare il servilismo dei giornalisti, il «Don Chisciotte» alluse pure ai finanziamenti governativi: così quando dei venditori ambulanti avvicinano Crispi esortandolo: «Eccellenza! Compri!…Sono giornali onesti!» il presidente risponde: «I giornali onesti…li ho già comprati».21 Ne emerge l’immagine di un solipsista, sordo a ogni consiglio e convinto delle sue doti straordinarie: «a Don Ciccio la fede in sé stesso non 19. Il viaggio per Berlino, in «Don Chisciotte della Mancia», 17 maggio 1889; Amori funebri, in «Il Pasquino», 30 marzo 1890. 20. Onnipotenza crispina, in «Il Fischietto», 8 febbraio 1890; Le discussioni alla Camera – precauzioni necessarie, in «Don Chisciotte della Mancia», 21 aprile 1888; Dopo il voto di ieri – deputati nel pieno esercizio delle loro funzioni, ivi, 26 aprile 1888. 21. Scuola elementare di giornalismo, ivi, 18 marzo 1888; Vamba, I giornali ultraonesti, ibidem; In piazza colonna, ivi, 20 marzo 1888. Cfr. anche Dalla scuola elementare all’alta scuola, ivi, 19 marzo 1888: in quest’ultima vignetta «L’Esercito», «La Riforma» e il «Fracassa» vengono ammansiti da un Crispi-circense.
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manca» si legge in una vignetta del 1890 di Crispi che salta con il cavallo «nel cerchio delle finanze».22 L’ironia sulla politica finanziaria del governo divenne più mordente qualche anno dopo, quando la condizione economica del paese si era ancora aggravata e le opposizioni crispine avevano trovato un punto di incontro proprio su questo tema. Ad esempio, nel 1895 «Il Pasquino» pubblicò una vignetta raffigurante i ministri Boselli e Sonnino nelle vesti di due farmacisti: il primo prepara «il chinino per la febbre», il secondo «le pillole per il cata…sto»; nel frattempo «il grande Don Ciccio (alias F. Crispi)» – si legge nella didascalia – «si appresta a rinfrescare l’infiammazione al contribuente»: il presidente è infatti raffigurato in piedi con un clistere in mano davanti al letto di un cittadino moribondo, mentre «Imbriani, Cavallotti e Menelik cercano di rinfrescare lui».23 Negli anni dell’ultimo mandato, però, la satira, in particolar modo quella socialista, radicale e democratica, indugiò soprattutto sulla spedizione coloniale, che «L’Asino» raccontò come l’«impresa nuova» di un «impresario vecchio», il quale, non avendo «più nulla da rubare» in Italia, cercava fortuna oltremare.24 Sempre Vamba si prese gioco del presidente che, a dispetto di una totale impreparazione sul continente africano, mette a tacere i ministri («Voi vi credete, santo diavolone, di farmela a me…ma io me ne fot…rido di voi!… Il padrone – non volete capirla? – sono io!» risponde al ministro Saracco) e ordina a Baratieri: «Conquistatemi un po’ l’Africa, ma fate presto».25 L’assedio in Sicilia fu l’altro tema di punta dei giornali di opposizione che, anche attraverso le immagini, denunciarono la brutalità della «pacificazione» condotta dal generale Morra.26 Questa narrazione per eccesso, che riproponeva sovente vicende e situazioni reali, era sempre a rischio di censura: fu questo il caso di una vignetta del 1894 firmata da Teja che, alla vigilia della riapertura della 22. Gran circo romano – Io triumphe!!! – pennellate di Teja, in «Il Pasquino», 12 gennaio 1890. 23. Chinino – Monopolio di Stato, ivi, 15 dicembre 1895. 24. Bollettino d’Africa, in «L’Asino», 12 gennaio 1896. 25. Un po’ impreparati…, in «Don Chisciotte di Roma», 13 febbraio 1896. Il «Don Chisciotte di Roma» nacque nel 1893 dalle ceneri del «Don Chisciotte della Mancia» che aveva chiuso i battenti nel 1891. 26. A titolo di esempio: La pacificazione della Sicilia, in «L’Asino», 31 dicembre 1893. Nella vignetta Morra, alla testa del suo esercito, calpesta la popolazione prostrata a terra.
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Camera, propose ai lettori de «Il Pasquino» l’immagine di Umberto I di spalle nell’atto di imparare a memoria il discorso con cui avrebbe inaugurato la legislatura, sotto l’attenta supervisione di Crispi. La didascalia, che recita «Mi pare, Don Ciccio, che me l’abbiate già fatto ripetere parecchie volte…», allude all’abitudine del presidente del Consiglio di scrivere i discorsi della Corona con l’aiuto del fidato Pisani Dossi.27 Deputati, giornalisti e persino il re, tutti erano ridotti al servizio di un Crispi padrone; in un solo caso il rapporto di forza si rovesciava: nella relazione con Bismarck. La satira giocò sulla somiglianza fisica tra i due leader, ritraendoli come due gocce d’acqua,28 e sulla sudditanza di Crispi nei confronti del cancelliere. Con «l’amico Bismarck», il presidente italiano aveva il privilegio di reggere il peso del mondo politico, ma, per farlo, doveva compensare la sua statura più piccola mantenendosi in equilibrio su due lunghi trampoli. È un Crispi, quello raccontato dai vignettisti, che, pur avendo conquistato un ruolo da protagonista in Europa, deve accordare il suo strumento al diapason di Bismarck – come si vede in una caricatura a colori de «Il Pappagallo».29 In maniera più esplicita questo tema venne recuperato dalla satira tedesca, che ritrasse il presidente italiano nell’atto di lustrare le scarpe al cancelliere e di suonare per lui il mandolino.30 2. La ricezione del mito Attraverso i circuiti mediatici le rappresentazioni di Crispi si diffusero, acquisendo notorietà nel paese. La loro ampia ricezione è testimoniata dalle molte lettere ricevute dal siciliano e conservate tra le sue carte: si tratta di un flusso costante di corrispondenza che si intensificò notevolmente 27. Il discorso, in «Il Pasquino», 2 dicembre 1894. Cfr. le bozze lavorate da Crispi e Pisani Dossi dei discorsi della Corona del 16 novembre 1887 e del 28 gennaio 1889 in ACS, Pisani Dossi, b. 1, fasc. 2 e 3. In ASMAE, Gabinetto Crispi, cartella 5, fasc. 1 vi sono le copie a stampa dei discorsi della corona del 1887-1889 e la copia autografa, corretta da Crispi, di quello dell’89. 28. I due si distinguevano per un unico dettaglio che venne riproposto in molte caricature: Bismarck era infatti raffigurato con tre capelli, mentre Crispi era ritratto completamente calvo. 29. Il discorso di Crispi, in «Il Fischietto», 29 ottobre 1887; Incontro trinitario, in «Il Pappagallo», 8 settembre 1888. 30. Cfr. Segni di gloria, p. 234.
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negli anni dei primi due mandati, a riprova della forte capacità persuasiva del mito e della sua penetrazione nel tessuto sociale.31 L’analisi di queste migliaia di fogli – lettere, telegrammi, dediche e componimenti d’occasione – disattende l’ipotesi storiografica di un consenso tutto meridionale, con sacche di forte resistenza nelle regioni settentrionali: le missive infatti furono spedite in egual misura da grandi e piccoli centri del Nord e del Sud della penisola. Anche Torino, a lungo considerato il cuore del «Piemonte saldamente anticrispino»,32 trova posto in questa corrispondenza, con le attestazioni di stima inviate da autorità pubbliche, esponenti dell’alta borghesia sabauda e associazioni operaie.33 Nel 1887 anche Francesco Lanza, nipote di Giovanni, gli scrisse, facendogli dono di un volume stampato in onore dello zio e dedicandogli parole elogiative: «Voi rendete un servizio non solo all’Italia ma all’Europa, al mondo. – L’arte di Machiavelli e quella stessa di Cavour impallidirebbero di fronte alla nuova politica».34 Le missive spedite da associazioni, monti di pensioni, accademie, corporazioni di mestieri e società di mutuo soccorso arrivavano anche dal resto d’Italia. Lo scopo della lettera era sempre lo stesso: quello di testimoniare la propria fiducia nel governo e di comunicare la proclamazione di Crispi a socio onorario. A volte si inviava anche lo statuto dell’associazione o il resoconto dell’attività annuale, sperando forse in un aiuto economico. 31. Per una riflessione su questo tipo di fonti e sul loro utilizzo cfr. Deferenza, rivendicazione, supplica. Le lettere ai potenti, a cura di Camillo Zandra e Gianluigi Fait, Treviso, Pagus, 1991. 32. Umberto Levra mette in discussione quest’ipotesi in Fare gli italiani, p. 350. 33. Nel 1887 Crispi fu invitato dal sindaco della città all’inaugurazione della statua a Garibaldi (31 ottobre), ricevette il volume Salamina da Alessandro Palma di Cesnola, un ufficiale dell’esercito sabaudo e archeologo torinese (5 novembre), e fu informato della sua nomina a socio onorario da parte dell’associazione generale di mutuo soccorso degli operai torinesi (10 novembre), ACS, PCM, 1887, Crispi, b. 65. Cfr. anche: lettera della Società filotecnica di Torino che lo acclamò socio onorario, 1 novembre 1887, ACS, PCM, 1887, Crispi; b. 65; lettera di una tipografia torinese che gli inviò l’almanacco «Il Palmaverde», 21 giugno 1888, ACS, PCM, 1888, Crispi, b. 74; lettera dell’assemblea di elettori del quinto collegio di Torino che mandò «riverenti saluti e plauso per opera saggia, energica in difesa diritti e grandezza della nazione» a firma del sindaco di Ivrea, 11 novembre 1888, ACS, PCM, 1888, Crispi, b. 75; lettera di un professore della Regia Università di Torino che allegò un suo lavoro dal titolo Delitto politico e rivoluzione, maggio 1890, ACS, PCM, 1890, Crispi, b. 114. 34. Francesco Lanza a Crispi, 29 ottobre 1887, ACS, PCM, 1887, Crispi, b. 65. Il volume inviato da Francesco Lanza è La base del carattere di Giovanni Lanza, Casale, Tipografia e Litografia Cassone, 1887.
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Vi sono poi centinaia di messaggi personali di professionisti, commercianti, artisti e impiegati nei pubblici uffici: cittadini, dunque, che esprimevano gratitudine per «l’alta posizione» assunta dall’Italia in Europa e per la vasta opera legislatrice promossa da Crispi che – scrisse un palermitano – pareva aver risolto «l’insolubile problema di Stato formulato da Tacito […]. Democratizzare la monarchia».35 Per molti, che si firmavano «servi» o «ammiratori», Crispi incarnava «l’Uomo proprio della situazione», capace di aprire «i cuori alla speranza di vedere realizzarsi un migliore avvenire»36 e questo segnava la distanza tra lui e gli altri deputati in parlamento. Così scrisse un emiliano nel 1888: Penso d’interpretar bene il sentimento di quanti sono, come me, gli ammiratori dell’ordine, della dignità e del decoro delle nostre istituzioni, permettendomi d’esprimere sincere le mie congratulazioni alla E.V. per il contegno sempre nobile, ma fermo e risoluto, verso taluni onorevoli che, facendo troppo a fidanza sui propri diritti in parlamento, cercano ogni motivo per creare al Governo difficoltà d’ogni genere. Pur rispettando tutte le opinioni in fatto di politica, credo non voglia sinceramente bene al proprio paese chi fa guerra personale, continua e non giustificata all’Uomo sommamente patriotta e leale, al cui patriottismo lealtà e sapere, furono appunto affidati da un principe impareggiabile i supremi interessi della nazione, e alla cui tutela […] veglia. È ormai tempo che non eravamo più assuefatti a dichiarazioni così franche, risolute, autorevoli, com’escono adesso dalla bocca del primo ministro del regno: e ciò fa bene al sangue, non solo, rianima tutta la gente seria e benpensante, la quale impara sempre più a apprezzare la nobiltà e schiettezza di sentimenti della Eccellenza Vostra, e a distinguere […] l’ambizione dal vero amore di patria.37
Il flusso di corrispondenza si faceva più consistente in occasione dei discorsi tenuti pubblicamente da Crispi, a riprova che le energie profuse dal team dei fedelissimi erano valse la riuscita dell’evento. Dopo l’orazione di Firenze dell’ottobre del 1890, ad esempio, un cittadino romano gli scrisse: «non ce lo dico per adularla, né per sentimento di riconoscenza, […] ma perché così è: Ella ha discorso a Firenze da dotto, da italiano, da lungi 35. Lettera spedita da un cittadino di Castelnuovo Garfagnana, 29 dicembre 1888, ACS, PCM, 1888, Crispi, b. 75 e un cittadino palermitano a Crispi, 15 giugno 1888, ivi. 36. Carlo Zambelli, consigliere comunale di Milano, ACS, PCM, 1887, Crispi, b. 65. 37. Un ispettore delle imposte dirette di Modena a Crispi, 25 aprile 1888, ACS, PCM, 1888, Crispi, b. 75.
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veggente uomo di Stato».38 Poco dopo, arrivò anche la lettera di una coppia di coniugi bolognesi, Daniele Casanova, impiegato del comune, e Aristide Marchetti, insegnante di matematica nelle scuole secondarie, «umili ed ardenti patrioti», che mandarono «un affettuoso saluto al Re dei Patrioti italiani […]; perché l’esistenza della nuova Italia è interamente dovuta e all’onestà di Cavour, di Vittorio e di Garibaldi, che l’hanno redenta, e all’onestà di chi, tutt’ora, ne regge i destini».39 Questa scrittura ad alto tasso emotivo, che veniva «dal cervello e dal cuore»,40 fu sovente impiegata per richiamare le imprese della militanza giovanile e, proprio in nome di quel passato, anche maestri di musica e compositori gli mandarono i loro lavori, intitolati a protagonisti o a eventi del Risorgimento, alla capitale del Regno e alla gloria della nazione.41 Non di rado i mittenti esprimevano sentimenti negativi, di sdegno e addirittura di odio, verso gli avversari del governo: il Vaticano in primis, ma pure «certi giornalacci socialisti a cinque centesimi che col pretesto di propugnare la pace eccitano e promuovono la guerra civile».42 Un farmacista scrisse da Milano nel 1888: I siciliani residenti in Milano sono indignati contro i giornali Secolo e Lombardia per il contegno ostile, insolente, e poco patriottico, che tutto dì addimostrano scrivendo nauseanti articoli contro il grande fautore dell’Unità italiana, l’Illustre Giureconsulto, l’eccellentissimo presidente del Consiglio dei Ministri Onorevole Crispi. Riunitisi oggi in assemblea deliberarono ad unanimità un voto di biasimo contro i suddetti giornali, protestando energicamente. Giova ricordare però, e ci è di conforto, che la maggioranza dei cittadini milanesi ammira ed applaude l’eminente statista, approvando ogni suo operato.43 38. Un cittadino romano, ottobre 1890, ACS, CC, DSPP, b. 54, fasc. 343. 39. 9 ottobre 1890, ivi. 40. Così scrisse “un ammiratore” da Palermo, 15 giugno 1888, ACS, PCM, 1888, Crispi, b. 74. 41. Il 9 ottobre del 1888 un maestro di musica di San Leo mandò un componimento musicale alla memoria di Porta Pia, ACS, PCM, 1888, Crispi, b. 74; nel 1890 un altro musicista inviò da Palermo L’Apoteosi di Garibaldi, ACS, PCM, 1890, Crispi, b. 114. Il 3 ottobre 1888 Vincenzo Miceli, capobanda del corpo di musica municipale di Cefalù, dedicò a Crispi la marcia per banda Roma intangibile con queste parole: «A F. Crispi grande atleta del risorgimento italiano statista e patriota insigne in segno di ammirazione», ACS, PCM, 1888, Crispi, b. 75. Il 15 maggio 1890 Luigi Pecci, maestro di musica della provincia di Salerno, chiese di poter dedicare a Crispi la sinfonia Gloria d’Italia. Crispi rifiutò la dedica, ma conservò lo spartito, ACS, PCM, 1890, Crispi, b. 114. 42. Così scrisse un sacerdote, s.d., ACS, Pisani Dossi, b. 1, fasc. 9. 43. Un farmacista chimico a Crispi, 12 marzo 1888, ACS, PCM, 1888, Crispi, b. 75.
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Contro «i maneggi occulti dei maligni anti-governativi»44 molti chiedevano misure stringenti, arrivando a formulare ipotesi bizzarre, come quella di uno scrittore anonimo che propose di spedire gli anarchici in domicilio coatto in Africa o di un soldato che auspicò la «guerra con la Francia sino a che la bandiera italiana sventolerà a gonfie vele su Parigi».45 Intellettuali Tra questi mittenti vi erano molti uomini di cultura, intellettuali, giornalisti, verseggiatori più o meno talentuosi, che consideravano il governo di Crispi un elisir rigenerante per la vita politica. Giuseppe Verdi, Alfredo Oriani, Matilde Serao, Edoardo Scarfoglio e Leone Carpi riconobbero in lui – come scrisse Carducci – una personalità «troppo grande, […] non per l’Italia, ma per cotesta gente».46 Accanto ai più celebri, vi era poi la nutrita schiera degli scrittori minori, che pure non rinunciarono a inviare a Crispi il frutto delle loro fatica intellettuale, sperando che, pur non valendo «per merito letterario», sarebbe stato quantunque gradito «in omaggio della […] più profonda devozione». Si tratta per lo più di brevi componimenti d’occasione, in versi o in prosa, in cui il siciliano viene ritratto come un «titano» morale dalla «fama mondiale», «fulgido fanale», «saggio atleta» e «genio sovraumano / che i Regni abbella».47 Tra i molti appellativi, ritorna quello del «nuovo Mosè» italiano, come variante biblica della figura provvidenziale. Così ne parlò un autore che gli dedicò la sua opera: «Gran Cittadino; Gloria d’Italia; Perfezionatore di Stato; Propugnatore della pace Europea; Pontefice civile santificatore della nazione e della monarchia; […] Mosè italiano di quarant’anni di opere».48 44. Un maestro elementare di Montesilvano a Crispi, 2 ottobre 1890, ACS, CC, DSPP, b. 54, fasc. 343. 45. “Un suo servo” a Crispi, 4 maggio 1890, ACS, Pisani Dossi, b. 1, fasc. 9; il mittente si descrive come «un soldato che o prestato (sic) servizio nell’anno 1866, sino al 1871» in Francia, 22 novembre 1888, ivi. 46. Carducci a Crispi, 6 marzo 1891, ACS, CC, RE, b. 7, fasc, 13. Sulla produzione poetica d’ispirazione patriottica cfr. Amedeo Quondam, Risorgimento a memoria. Le poesie degli italiani, Roma, Donzelli, 2011. 47. Epigramma di Giuseppe Musacchia a Crispi, 28 ottobre 1890, e componimento poetico di Salvatore Canonico Tartaglione, 1890, ACS, PCM, 1890, Crispi, b. 114. 48. Cfr. Sonetto a Crispi del pretore di Vernole Ferdinando Scarpetta, in occasione delle elezioni politiche di novembre che, scrisse, avevano riacceso in lui «qualche scintilla di Apollo», 18 dicembre 1890 e Enrico Trotta a Crispi, 26 dicembre 1890, ivi.
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Alcuni tra questi gli furono lungamente fedeli: Vincenzo Riccio, Giuseppe Musacchia, Giuseppe Coceva e l’avvocato Enrico Trotta scrissero in diversi momenti inviandogli, a seconda delle occasioni, i loro componimenti. Così fece anche il maestro elementare Luigi Burgio, che definì Crispi «dell’italico ciel astro maggiore», e lo scrittore Fortunato Forcignanò, che mandò a Via Gregoriana Prima del discorso di Torino e Dopo l’attentato e prima del discorso di Palermo in cui dedicava al presidente versi traboccanti di retorica: Tu torni alla pugna Alto, potente, tu i destini d’Italia in pugno tieni: […]. Non mai com’oggi la dantesca idea s’incarnò in veltro Italian sì forte, Laico, popolar, tenace, pronto.49
Ma non si trattava solo di uomini di lettere. Tra le carte di Crispi si conservano un numero impressionante di volumi, studi, pubblicazioni relativi alle materie più diverse e a volte dal dubbio valore scientifico, recapitati al presidente del Consiglio non tanto «in considerazione dell’eminente carica», ma piuttosto «dell’alto suo ingegno, e delle profonde cognizioni».50 Questi mittenti lo ammiravano infatti per aver compiuto «sotto il suo ancor breve governo di sì pochi anni, tali importanti civili riforme» – scrisse Angelo Repossi da Milano – da non aver pari «sotto tutti i Ministeri insieme sommati che precedettero».51 Le innovazioni istituzionali introdotte da Crispi, tanto quanto l’audace politica estera, sapevano dunque risvegliare gli entusiasmi del ceto medio, suscitando anche l’approvazione di studiosi modesti che, con le loro opere, contribuirono alla diffusione del mito. Tra questi, vi erano professori universitari e maestri elementari. Nel campo dell’istruzione infatti l’influenza del mito di Crispi fu particolarmente significativa e gli addetti del settore lo apprezzarono per essere 49. Luigi Burgio, Sonetto A Crispi per la sua venuta in Palermo e Fortunato Forcignanò, A Francesco Crispi XIV ottobre Palermo 1889, ACS, CC, DSPP b. 52, fasc. 328. 50. Come scrisse un autore di Salerno inviando un volume sui demani comunali, 30 aprile 1888, ACS, PCM, 1888, Crispi, b. 75. I volume recapitati a Crispi riguardavano materie diverse: la produzione agricoltura, la statistica, l’archivistica, la storia, la letteratura, la pedagogia, l’antropologia, la medicina, la scienza, la navigazione e, soprattutto, il diritto. 51. Angelo Repossi, maestro elementare di Milano, che inviò a Crispi un esemplare della sua «operetta» Igiene domestica, 6 maggio 1890, ACS, PCM, 1890, Crispi, b. 114.
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al contempo «profondo statista e sereno filosofo», uomo di studio e di sentimento, e considerarono il suo governo una fonte di speranza e di conforto per tutti quelli che avevano messo al servizio della patria «il fucile o la penna».52 I dirigenti scolastici scrissero per dar conto dell’andamento dei loro progetti educativi53 e per testimoniare la coerenza tra i dettami del governo e i contenuti dei programmi pedagogici. Il direttore di una scuola superiore di studi commerciali di Genova notificò nell’88: I concetti nobilissimi che la E.V. svolse in questa circostanza, armonizzano pienamente con gli insegnamenti che si compartono in questa R. Scuola agli alunni, i quali in questo anno studiarono a fondo nella Classe di Economia applicata il problema delle colonizzazioni.54
Lo stesso anno vennero inviate a Crispi le trascrizioni di una conferenza tenutasi nell’università di Padova a proposito di Giordano Bruno con la speranza – scrisse il mittente – «che i criteri che la ispirano siano rispondenti all’ideale di governo […] e alle esigenze delle nazioni della civiltà moderna».55 Ancora nel 1890 il Professor Pietro Pacella, incaricato dal ministro dell’Istruzione pubblica di tenere quindici conferenze per maestri e maestre della provincia di Napoli a proposito degli anni 1848-1860, mandò a Crispi la litografia dei suoi discorsi.56 In questa magmatica raccolta di corrispondenze, vi sono anche alcuni autografi femminili di maestre, che omaggiarono il presidente con l’invio dei propri lavori, alla stregua dei colleghi,57 e di semplici cittadine. In oc52. Direttore del Regio ginnasio di Bosa a Crispi, 31 maggio 1888, ACS, PCM, 1888, Crispi, b. 74. Sulla penetrazione del crispismo nel mondo dell’istruzione e, più in generale, tra gli intellettuali, una riflessione sintetica e convincente rimane quella di Lanaro, Il Plutarco italiano: l’istruzione del popolo dopo l’Unità, pp. 553-587; si rimanda anche a: Ester De Fort, La scuola secondaria e la nazionalizzazione dei ceti medi, in Scuola e nazione in Italia e in Francia nell’Ottocento. Modelli, pratiche, eredità. Nuovi percorsi di ricerca comparata, a cura di Pier Luigi Ballini e Gilles Pécout, Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere e arti, 2007, pp. 207-247. 53. Ad esempio, il consiglio direttivo della prima gara pedagogica italiana tenuta in Palermo nel 1890 ringraziò per «l’incoraggiamento datoci a continuare i lavori», 17 aprile 1890, ACS, PCM, 1890, Crispi, b. 114. 54. 13 maggio 1888, ACS, PCM, 1888, Crispi, b. 74. 55. 12 giugno 1888, ACS, PCM, 1888, Crispi, b. 75. 56. 27 settembre 1890, ACS, PCM, 1890, Crispi, b. 114. 57. Per questo scrisse, per esempio, la «signorina Bice Milizia», insegnante nella Regia Scuola Normale femminile di Alessandria, il 28 giugno 1890, ivi.
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casione del passaggio di Crispi nel napoletano nel 1888, Cristina Riario Sforza scrisse: Compresa di ammirazione debbo dirle che non mi aspettavo giungesse a tanto. I Cesari, Napoleone 1, Palmerston, Cavour, Bismarck, non nascono a grappoli; ma, uno ogni mezzo secolo; sempre in diversa nazione. Con Cavour era passato il turno dell’Italia; però giunta lei al potere, facendo tacere ogni altra ambizione ha solo ascoltato l’amor di Patria ed ha dato a questa il benefizio del consiglio del Genio della Politica, e l’alleanza del più gran popolo moderno. Il viso soddisfatto del nostro Re, quando accompagnava l’Imperatore fra i suoi napoletani, valeva a Lei una corona d’alloro: e l’avrei gittata volentieri, se in quel momento l’avessi avuta; gridai invece “Evviva Crispi!” ma la voce mia fu superata da quella di mille altri.58
Il mito di Crispi, che circolò soprattutto tra i ceti medi, poiché riproponeva istanze e temi cari alla borghesia patriottica di fine secolo, ebbe una qualche influenza sul ceto popolare. Al presidente si rivolsero infatti associazioni e organizzazioni di mutuo soccorso, che riconobbero in lui l’unico politico ad avere «a cuore le sorti del povero operaio»,59 ma vi fu anche chi scrisse in forma privata. Ad esempio Sebastiano Iraci, pasticcere di Piazza Armerina, che mandò «uno scatolo di torrone», un dono «povero e meschino», «al più grande fra gli Italiani» e un intraprendente operaio pisano che allegò alla missiva uno strumento di lavoro di sua invenzione.60 Questo consenso, seppur parziale, avrebbe contribuito a spianare la strada all’ultimo mandato, quando sembrò che tutta Italia reclamasse il siciliano, e, in maniera più generale, dimostra come i valori patriottici di cui Crispi si autoproclamava incarnazione godessero di un certo appeal anche oltre il perimetro del mondo borghese. Si tratta di un rilievo importante, che si inserisce nel più ampio dibattito storiografico relativo al successo, o all’insuccesso, del progetto di “nazionalizzazione delle masse” in epoca liberale: seppur in maniera limitata infatti, queste fonti suggeriscono che il tentativo della classe dirigente di plasmare un immaginario 58. 30 ottobre 1888, ACS, PCM, 1888, Crispi, b. 74. 59. Il presidente dell’associazione mutuo soccorso di Roma a Crispi, 17 aprile 1890, ACS, PCM, 1890, Crispi, b. 114. Nel dicembre del 1887 anche l’associazione generale di mutuo soccorso e istruzione degli operai di Licata gli rese noto la sua nomina a socio onorario, ACS, PCM, 1888, Crispi, b. 74. 60. 14 dicembre 1888 e 14 agosto 1888, ivi.
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nazionale che parlasse a molti abbia avuto maggior fortuna di quanto a lungo si è riconosciuto.61 In che modo Crispi reagì a questa enorme mole di corrispondenza che arrivava al suo indirizzo? Generalmente non disdegnò queste espressioni di vicinanza e anzi incaricò il nipote e segretario Tommaso Palamenghi di ringraziare i mittenti. Non accettò, però, quasi nessuna tra le molte dediche proposte, preferendo non entrare nel merito dei lavori inviati. Rimasero senza risposta solo le missive anonime e quelle più bizzarre, su cui talvolta annotava a penna «mattoidi», categorizzando così i mittenti più stravaganti secondo la terminologia lombrosiana. Né mancavano scrittori mossi da sentimenti opposti: in un fascicolo conservato nell’archivio personale di Pisani Dossi si raccolgono scritti ingiuriosi contro Crispi, provenienti soprattutto dalla Francia. Il fedele collaboratore infatti conservò, sottraendole agli occhi del presidente, lettere di biasimo inviate da privati cittadini che agli elogi preferirono appellativi come «canaille» e «dernier de misérables». Le missive risalgono per lo più al 1888, a riprova di come la visita a Bismarck di quell’anno avesse inasprito il giudizio dei francesi verso il governo italiano, e ripropongono i topoi negativi diffusi dalla stampa avversa: Crispi traditore degli ideali repubblicani, gallofobo, «novello Scipione Africano rimbambito e ridicolo, novello Saturno mangia sindaci e galantuomini» e, anche, «prepotenza trigama sul soglio ministeriale»;62 trascorsi dieci anni dallo scandalo, l’accusa di bigamia continuava a essere impiegata dai detrattori come una prova di amoralità dell’uomo privato tale da minarne la credibilità politica. D’altro canto, proprio la presenza di questo nucleo di carte permette di valutare più serenamente il corpus di lettere d’omaggio e di considerarle quantitativamente più rilevanti. La storia di tale corrispondenza non si chiuse nel 1891 con la fine del secondo mandato, ma anzi proseguì negli anni successivi quando, 61. Per una riflessione sul tema si rimanda a: Baioni, Introduzione, in Id., Risorgimento conteso, pp. 11-36 e Marco Meriggi, Il Risorgimento rivisitato: un bilancio, in La costruzione dello Stato-nazione in Italia, a cura di Adriano Roccucci, Roma, Viella, 2012, pp. 39-57. Per un quadro storiografico cfr. Maurizio Isabella, Rethinking Italy’s nation bulding 150 years afterwards: The new Risorgimento historiography, in «Past and Present», 217 (2012), pp. 247-268. 62. Anonimo a Crispi, 3 gennaio 1888, ACS, PD, b. 1, fasc. 6. L’accusa di trigamia fa riferimento alla relazione giovanile di Crispi con Rosalia D’Angelo, dalla quale erano nati due figli, morti con la madre nel 1839.
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come scrisse Levi, lo statista continuò a ricevere «soddisfazioni continue» dall’opinione pubblica.63 3. 1891-1892. «The great old man» Il 31 gennaio del 1891 Crispi rassegnò le dimissioni. Il casus belli fu un’infelice uscita del presidente che, rivolgendosi a Bonghi, condannò i governi della Destra di aver avuto atteggiamenti servili nei confronti della Francia.64 A quel punto la Camera gli negò la fiducia. D’altro canto, la fine non arrivò come un fulmine a ciel sereno: nell’ultimo periodo la sua posizione si era fatta più complicata anche a causa di un atteggiamento diplomatico aggressivo che aveva suscitato parecchi malumori in Europa. Non potendo più contare sull’amico Bismarck, uscito di scena, Crispi aveva messo a dura prova la pazienza del cancelliere Caprivi e del primo ministro inglese Salisbury con le pressanti richieste di espansione in Africa, ottenendo fumose rassicurazioni e caute promesse. Non solo. Alla fine del 1890 Menelik aveva dichiarato che la traduzione italiana del trattato di Uccialli – per cui di fatto si riconosceva un protettorato sull’Etiopia – non corrispondeva all’originale in lingua amarica, provocandogli una figuraccia internazionale. Le successive dimissioni di Giolitti, sostituito da Bernardino Grimaldi al ministero delle Finanze e del Tesoro, avevano reso evidente la debolezza della compagine governativa. Così, quando lasciò il potere nel gennaio del ’91, Crispi colse l’occasione per dedicarsi all’attività forense e curare le finanze personali, messe a dura prova dal lavoro politico, e passò lunghi periodi nella sua casa napoletana, tenendosi volutamente lontano dalla «caverna di passioni ardenti e non sempre pure»65 della politica. Era deluso e amareggiato per gli attacchi rivolti contro di lui da Rudinì, suo successore, e per il disfacimento di molti suoi progetti, ma non si sottrasse agli occhi del pubblico, cui anzi si ripresentò con diversi articoli apparsi su prestigiose riviste straniere. Nel primo pezzo, pubblicato nella primavera del 1891 dalla newyorkese 63. Levi a Crispi, 13 agosto 1891, ACS, CC, DSPP, b. 153, fasc. Primo Levi. 64. Crispi, AP, Camera del Deputati, Legislatura XVII, I Sessione, Discussioni, Tornata del 31 gennaio 1891, p. 498. 65. Crispi a «caro Emilio», 27 maggio 1891, Copialettere di Crispi 1891-1892, ACS, Palumbo Cardella, b. 9, fasc. 93.
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«North American Review» con il titolo L’Italia e il Papa, Crispi giudicò negativamente la scelta del parlamento italiano di riconoscere al pontefice le immunità previste dalla legge delle guarentigie e sostenne che in Italia ancora si tramasse per la restaurazione del principato civile del Vaticano. A questo seguirono tre saggi, apparsi sulle londinesi «Contemporary Review» e «New Review».66 I due articoli per la «Contemporary», in particolare, fecero molto rumore. Con il primo saggio Crispi voleva rispondere a una pubblicazione, da poco apparsa sulla stessa rivista, in cui “a continental stateman” aveva accusato il governo italiano di atteggiamenti gallofobi. Per confutare questa tesi, il siciliano svolse un’articolata analisi storica volta a dimostrare l’anti-italianità di lungo corso della nazione francese e si firmò “an italian stateman”, pur sapendo che pochi dubbi sarebbero sorti sulla paternità del pezzo. Si trattava di una provocazione, e neppure tanto velata, di un ammonimento affinché – scrisse in privato – «il paese tenga gli occhi aperti e perché il governo non si addormenti».67 La reazione dei francesi soddisfò Crispi, che confessò al suo traduttore Stillman: «L’articolo stampato nella Contemporary di giugno ha scosso tutta la stampa francese. Non un giornale di Parigi ha saputo mantenersi tranquillo. Il modo violento, col quale hanno scritto, prova che li abbiamo colpiti giusto». Per il secondo articolo si lasciò convincere a svelare la sua identità, ma volle la garanzia che, in caso di risposta, gli sarebbe stata data la possibilità di replicare: «bisogna che non mi si chiuda la bocca»68 – tuonò indispettito dalle resistenze del redattore. Le pubblicazioni trovarono molti appoggi sia a Vienna che in Italia69 anche grazie al lavoro della redazione de «La Riforma», che per 66. L’articolo L’Italia e il papa (26 maggio 1891) si trova ora in Crispi, Ultimi scritti e discorsi extraparlamentari (1891-1901) a cura di Tommaso Palamenghi-Crispi, Roma, L’Universelle, 1913, pp. 3-40; I due articoli, pubblicati nei fascicoli di giugno e agosto del 1891 della «Contemporary», si trovano in ivi con il titolo L’Italia, la Francia e il papato, pp. 44-109, così come l’articolo I pericoli che corre il papato (New Review, 15 aprile 1892), pp. 113-140. Crispi scrisse per la rivista «The North American Review» anche l’articolo Le finanze italiane (20 maggio 1892) ora in ivi, pp. 143-157. 67. Crispi a Levi, 5 agosto 1891, Copialettere di Crispi 1891-1892, ACS, Palumbo Cardella, b. 9, fasc. 93. 68. Crispi a Stillman, 16 giugno e 15 luglio 1891, ivi. 69. Jessie White Mario si complimentò pubblicamente con il «patriota italiano di quella generazione forte e robusta, che fatalmente si va estinguendo» in un articolo apparso su un giornale di Bologna, secondo quanto riportò Crispi a Levi, 22 giugno 1891, ivi.
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tutta l’estate tornò sulle parole del deputato definendole «una cattedra di patriottismo».70 Crispi voleva continuare a battere il ferro e propose al redattore della «Contemporary» un articolo su Mentana: una battaglia “scomoda” nelle celebrazioni ufficiali, difficile da riassorbire nella narrazione armonica del Risorgimento, ma utile alla polemica gallofoba. Un secondo progetto di articolo, cui teneva massimamente, riguardava la possibilità della guerra in Europa. Alla fine però, forse per motivi economici o per divergenze personali, la collaborazione s’interruppe.71 In ogni caso, la scelta di insistere su questi temi si rivelò azzeccata, complice pure un colpo di fortuna politica per il deputato. All’inizio dell’ottobre del 1891 infatti alcuni pellegrini francesi in visita al Pantheon scrissero delle parole ingiuriose contro Umberto I nel libro delle dediche esposto all’entrata. «La Riforma» ricamò sull’evento per giorni sostenendo che l’oltraggio confermasse le idee di Crispi sulla Terza Repubblica.72 In una lettera privata Perelli scrisse al deputato: Ciò che perpetuarono oggi al Pantheon i pellegrini francesi, fu la più eloquente ed indicativa ratifica delle considerazioni di Lei, anche recentemente esposte, sul contegno e le intenzioni della Francia di fronte al Vaticano e all’Italia. Il nome suo era oggi sulle bocche di tutti, come quello del solo veggente e del solo capace tutelatore contro i pericoli e i nemici della Patria.
Anche Levi ritrovò fiducia nella possibilità di una seconda epoca al potere e confessò all’amico: «io sono tutto confortato. Roma è stata semplicemente grande. E tutta Italia lo sarà del pari il giorno del bisogno. Si rassicuri».73 Nel frattempo, la caduta del governo di Rudinì e l’ascesa di Giolitti nel maggio del 1892 amareggiarono ancora Crispi che agli amici si mostrò 70. La campagna propagandistica de «La Riforma» fu martellante. Cfr. L’articolo dell’onorevole Crispi, in «La Riforma», 3 agosto, 1891; Io mi chiamo domani, ivi, 5 agosto 1891; L’articolo provocatore, ivi, 8 agosto 1891; Ripetizione di verità, ivi, 14 agosto 1891; Le speranze del Vaticano, ivi, 18 agosto 1891; Una cattedra di patriottismo, ivi, 27 agosto 1891; I giudizi del Times, ivi, 30 agosto 1891; L’impenitenza sull’articolo, ivi, 30 settembre 1891. 71. Cfr. Corrispondenza con l’editore della «Contemporary», giugno-luglio 1891, Copialettere di Crispi 1891-1892, ACS, Palumbo Cardella, b. 9, fasc. 93. 72. Cfr. I disordini del pellegrinaggio, in «La Riforma», 3 ottobre 1891. 73. Perelli a Crispi, 2 ottobre 1891, ACS, CC, DSPP, b. 157, fasc. Luigi Perelli e Levi a Crispi, 3 ottobre 1891, ivi, b. 153, fasc. Primo Levi.
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stanco e disilluso, pronto a ritirarsi a vita privata; nell’anno e mezzo che precedette il suo ritorno non prese quasi parola in parlamento. Chiamato a parlare come oratore ufficiale per l’inaugurazione di un monumento a Garibaldi a Palermo, confessò di non volersi pronunciare sulla politica – «argomento abbastanza spinoso»74 – eppure, come già altre volte, il discorso divenne un’occasione per ribadire la sua posizione e colpire gli uomini al governo: «invece di rilevarci, ci hanno abbassato; invece di progredire, ci hanno fatto retrocedere» – affermò.75 «La Riforma» diffuse il testo dell’orazione e molti privati tornarono a scrivergli, lamentandosi del fiacco governo giolittiano e indirizzandogli omaggi e componimenti d’occasione.76 Tra la primavera e l’estate del 1892 si candidò per il consiglio comunale di Roma per dare man forte alla battaglia promossa da Giovanni Bovio e Adriano Lemmi contro la Chiesa, che nel 1891 si era pronunciata sulla questione sociale attraverso la Rerum Novarum di Leone XIII. Quando venne eletto consigliere comunale giunsero lettere e telegrammi di ammiratori entusiasti per la vittoria che – secondo un cittadino di Modica – sanciva la riscossa del ceto medio «con la sua operosità trasformatrice, con le sue passioni, coi suoi interessi» sulla «moltitudine di coloro che vivono degli artifici e dei mestieri attinenti a religione».77 «Col cuore esultante di gioia, e tutta Roma liberale lo è con me» – gli scrisse un altro mittente – «vi saluto consigliere comunale»: «Lassù nel campo clericale voi avete fatto l’effetto di una bomba».78 In privato Crispi non nascose la sua soddisfazione e confessò a Lina di sentirsi rigenerato, ma altri appuntamenti lo attendevano; il re infatti sciolse la Camera, che era per lo più ostile a Giolitti, e per il mese di novembre vennero indette nuove elezioni politiche, le prime dalla reintroduzione dei collegi uninominali. Crispi decise di parlare in pubblico solo una volta ottenuto il mandato, assumendo una posizione marginale durante la campagna elettorale, che registrò un elevato tasso di corruzione: voleva così, una volta di più, rimarcare la sua distanza dai metodi della politica giolittiana. 74. Crispi a Lina, 13 maggio 1892, ACS, Palumbo Cardella, b. 5, fasc. 83. 75. Francesco Crispi, Per l’inaugurazione di un monumento a Garibaldi in Palermo, 27 maggio 1892, in Crispi, Ultimi scritti e discorsi extraparlamentari (1891-1901), p. 163. 76. Cfr. ACS, CC, DSPP, b. 79, fasc. 507. 77. Lettera del 22 giugno 1892, ACS, CC, DSPP, b. 79, fasc. 508. 78. Il mittente, Luigi Ottolini de Campi, inviò anche una vignetta disegnata a mano, 21 giugno 1892, ivi.
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L’attesa del suo discorso suscitò fermento, fuori dal parlamento si radunarono sostenitori e giornalisti, mentre sui giornali si fecero molte ipotesi – «cervellotiche»,79 secondo il deputato – su come avrebbe parlato agli elettori. La regia dell’evento fu affidata alle “tre P” che invitarono nel Politeama di Palermo centosettanta ospiti, spedirono alla Stefani duecentocinquanta copie del discorso da diramare nelle varie città d’Italia per immediata diffusione e stabilirono l’orario opportuno per il discorso: non oltre le due del pomeriggio – suggerì Crispi a Pisani Dossi – per avere modo di organizzare la distribuzione del resoconto alle redazioni dei giornali ed evitare «la solita lotta per arrivare in tempo».80 La sala del teatro venne addobbata maestosamente con candelabri e vasi d’argento, e illuminata a gas: «Il colpo d’occhio» – scrisse la stampa – «è stupendo».81 Nel porto di Palermo il deputato fu accolto dalle autorità locali e da una gran folla di cittadini e accompagnato nel suo tragitto da un lungo applauso. Giunto all’hotel, l’entusiasmo dei sostenitori lo costrinse ad affacciarsi dal balcone per salutare la folla.82 Pur sostenendo di parlare da semplice cittadino e di non essere più interessato a un ritorno al potere, Crispi espose un programma politico completo e alluse a Giolitti, che si era presentato al paese vestendo i panni dell’uomo nuovo: ai sedicenti uomini nuovi – dichiarò alla platea – mancava un curriculum patriottico a garanzia dei loro atti, «la vita spesa per la patria, la esperienza acquistata con gli studi e con le opere».83 A chiusura dell’orazione fece un appello ai giovani affinché scegliessero un capo politico che rendesse l’Italia grande, libera e rispettata in Europa e che portasse a compimento le riforme necessarie al buon funzionamento delle istituzioni e al prestigio della monarchia. Fu un incredibile successo. Il discorso venne stampato dallo Stabilimento Tipografico Meridionale con una rassegna dei giudizi della stampa la quale, senza quasi distinzione politica, si espresse positivamente, rico79. Crispi a Lina, 20 ottobre 1892, ACS, Palumbo Cardella, b. 5, fasc. 83. 80. Crispi a «carissimo amico» [Pisani Dossi], 12 novembre 1892, ACS, Palumbo Cardella, b. 9, fasc. 94. Sull’organizzazione dell’evento cfr. anche ACS, CC, DSPP, b. 80, fasc. 512. 81. Il banchetto del Politeama, in «L’Amico del Popolo», 21 novembre 1892, ivi. 82. Cfr. L’arrivo dell’on. Crispi, ibidem; Il banchetto all’onorevole Crispi, in «Il Giornale di Sicilia», 19-20 novembre 1892, ivi. 83. Francesco Crispi, Desideri e speranze, Discorso pronunciato al Politeama Garibaldi di Palermo, 20 novembre 1892, in Crispi, Ultimi scritti e discorsi extraparlamentari (1891-1901), p. 171.
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noscendo in lui l’uomo «solitario»84 che poteva rispondere alle gravi esigenze del momento. Scrisse «Il Resto del Carlino»: «È l’io che, non per superbia o malsana ambizione, sebbene per la piena e giusta coscienza nell’on. Crispi di essere e di sentirsi un uomo superiore, è l’io, diciamo, che capeggia nella manifestazione delle sue idee di Governo».85 La «solipsia politica»86 iniziava a dare i risultati sperati: deputati, senatori e sindaci gli inviarono le loro congratulazioni, i privati scrissero colmi di entusiasmo, un garibaldino gli mandò un ritratto in dono.87 In quegli stessi mesi il siciliano divenne anche protagonista della pubblicità del liquore Ferro-China all’arancia: la farmacia palermitana dei fratelli Li Virghi lo scelse infatti per sponsorizzare il prodotto, rappresentandolo nell’atto di provare «uno, due, tre bicchierini» grazie ai quali il suo “pugno di ferro” ritrovava vigore.88 Crispi tornava alla ribalta come il «great old man»89 capace di sbrogliare la complessa situazione politica e sociale degli anni Novanta. 4. 1893. La soluzione Crispi La slavina della Banca Romana Il ritorno in voga del mito di Crispi, stavolta come l’anziano statista infaticabile e savio, fu anche una conseguenza della fragilità del governo giolittiano e dell’acuirsi della crisi economica e sociale. Lo scarso decisionismo del presidente del Consiglio in carica suscitò preoccupazione e allarmismi, soprattutto a fronte delle manifestazioni e delle proteste contro i licenziamenti, che si diffondevano a macchia d’olio, della politicizzazione del movimento operaio e della nascita del partito dei lavoratori nel 1892.90 84. Il solitario, in «Il Paese», 22 novembre 1892, ACS, CC, DSPP, b. 80, fasc. 511. Cfr. anche Il solitario, in «Il Folchetto», 15 febbraio 1893, ivi. 85. L’articolo è riportato in Francesco Crispi, Desiderii e speranze. Discorso pronunziato a Palermo il 20 novembre 1892, Napoli, Stabilimento Tipografico Meridionale, 1893, p. 60. 86. «Gazzetta Piemontese», ivi, p. 57. 87. Un garibaldino a Crispi, 21 novembre 1892, ACS, CC, DSPP, b. 80, fasc. 512. 88. Il volantino a stampa della pubblicità si trova in ACS, CC, RE, b. 8, fasc. 16. 89. Il nostro great old man, in «Le male lingue», 11 dicembre 1892, ACS, DSPP, b. 130. 90. Sulla nascita del partito si rimanda almeno a Maurizio Ridolfi, Il PSI e la nascita del partito di massa. 1892-1922, Roma-Bari, Laterza, 1992. Sul “crispismo” come “cesarismo di stato” cfr. Mangoni, Una crisi fine secolo, pp. 178 ss.
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Più in generale, il great old man incarnato da Crispi pareva a molti l’antidoto contro la degenerazione del sistema parlamentare. Come si è visto, posizioni antiparlamentari erano già state espresse a partire dagli anni Ottanta, ma sul finire del secolo le polemiche si esacerbarono a seguito dello scandalo politico-finanziario della Banca Romana. La bomba scoppiò il 20 dicembre del 1892 quando Napoleone Colajanni sottopose all’emiciclo parlamentare i risultati dell’inchiesta governativa Alvisi-Biagini del 1889 sullo stato di salute dell’ente, che erano stati lungamente taciuti. Il radicale, coadiuvato dal moderato Ludovico Gavazzi, svolse una violenta requisitoria contro la banca diretta da Bernardo Tanlongo – un personaggio vicino a molti politici –, che si era macchiata di gravi illeciti, e tirò in ballo ministri, deputati e giornalisti, accusandoli di aver usufruito di erogazioni poco limpide. Chiaramente la vicenda fece subito notizia, occupando a lungo la cronaca nazionale; lo scandalo venne ben presto trasfigurato in un torbido romanzo a puntate sulla mala politica e ne aveva, in effetti, tutti gli elementi: i loschi legami tra politica e banche, la misteriosa sparizione di documenti compromettenti e pure una morte sospetta (o, meglio, presunta tale).91 In una sequenza di colpi di scena, notizie gonfiate e vere mistificazioni, che attirarono morbosamente l’attenzione del pubblico, la classe dirigente si ritrovò nel mirino mediatico e il governo fu chiamato a rispondere delle accuse di Colajanni. La riprovazione generale si indirizzò da subito verso Giolitti, che fu, a conti fatti, la vittima politica dello scandalo, al netto di un processo giudiziario invece inconcludente.92 Era lui a ricoprire la carica di ministro del Tesoro all’epoca dell’inchiesta, sempre lui, ad aver proposto la nomina a senatore di Tanlongo e ad aver presentato un progetto di legge che avrebbe assicurato a tutti gli istituti di emissione di cartamoneta una proroga di ben sei anni.93 91. Si tratta della morte di Rocco De Zerbi, deputato di lungo corso della Destra Storica e direttore de «Il Piccolo», che rimase implicato nello scandalo della banca Romana per aver ricevuto sovvenzioni illecite. Inoltre, in qualità di segretario della commissione del Bilancio, il deputato aveva approvato la proroga del privilegio di emissione per i sei istituti bancari, tra cui vi era la Romana. Durante l’inchiesta venne sequestrato un biglietto di Tanlongo che testimoniava un avvenuto scambio di denaro tra i due con lo scopo di far passare la suddetta legge di proroga in parlamento. Il 3 febbraio la Camera accolse la richiesta di autorizzazione a procedere contro il deputato, che morì il 20 dello stesso mese per un attacco cardiaco. Sulla sua morte la stampa scrisse per giorni, arrivando a ipotizzare il suicidio. 92. Il processo si chiuse nell’agosto del 1894 con l’assoluzione di tutti gli accusati. 93. Di fatto ritardando la riforma bancaria e la creazione di un’unica banca di emissione. Cfr. AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Discussioni, Tornata del 6 dicembre 1892, pp. 197 ss.
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Il presidente del Consiglio fu immediatamente costretto ad accettare una nuova ispezione governativa sugli enti e, più tardi, una Commissione di sette deputati incaricata di far luce sulle erogazioni di denaro ai parlamentari, lui in primis. L’intera vicenda sarebbe stata un colpo di incredibile fortuna politica per Crispi se avesse potuto chiamarsi fuori dalle accuse, ma così non fu. C’era anche lui tra i deputati in contatto con Tanlongo e anche lui aveva ottenuto prestiti dalla Romana, senza contare che nell’89, quando si era svolta l’inchiesta, Crispi era presidente del Consiglio e non sembrava plausibile che fosse all’oscuro dei rilievi dell’indagine. Il deputato temeva di restare impigliato nello scandalo al pari di Giolitti e di molti altri, ma rispose con fermezza alle accuse, dichiarando di aver usufruito lecitamente dei prestiti della Romana per esigenze private; mentre si difendeva, tentò pure di affossare il presidente in carica: il 16 febbraio del ’93 rilasciò un’intervista ad Achille Plebano, direttore del «Fanfulla», spiegando di aver taciuto i risultati dell’inchiesta per impedire la disgregazione istituzionale del paese e assicurò che Giolitti fosse a conoscenza dell’intera vicenda. Si soffermò poi sul discredito in cui era caduta la nazione agli occhi dei nemici – del Vaticano che «gioisce» – e degli amici:94 gli uomini di Stato forti ed autorevoli non s’improvvisano. […] Voglio sperare che da una discussione, […] i deputati mostrino di comprendere la necessità della patria, e sappiano costituire una forza che salvi il Paese dalle difficoltà attuali. Senza di ciò, lo dico col più vivo dolore, l’avvenire del nostro povero Paese mi spaventa.
L’intervista, che fu solo il primo atto di una battaglia ad personam proseguita negli anni successivi a colpi di dichiarazioni screditanti, ruotava attorno ad un’argomentazione efficace perché Giolitti, che non aveva preso parte al Risorgimento e veniva dalla carriera burocratica – «scrivano straordinario»,95 lo definiva Nicotera –, scontava ancora la diffidenza di molti. Il primo atto dello scandalo si chiuse in un clima di sospensione e incertezza, ma Crispi aveva assestato bene il colpo e – come notarono i co94. Durante l’intervista Crispi dichiarò: «l’imperatore di Germania che venne in Italia e riconobbe Roma intangibile, oggi manda un suo ambasciatore speciale al Papa». Una copia dell’articolo si trova in ACS, CC, RE, b. 7, fasc. 13. 95. Cit. in Bertoni, Romanzo di uno scandalo, p. 123.
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evi – dal «micidiale morbo bancario che seppellisce uomini e nomi» parve uscire «forte e sano come un leone, ritto, integro».96 Parola d’ordine: Crispi Nel 1893 il governo dovette fronteggiare l’aggravarsi delle tensioni sociali determinate dal peggioramento della situazione economica, non solo al Sud, dove il movimento dei Fasci era in crescita, ma pure nel continente. Nella capitale, al malessere provocato dallo scandalo della banca Romana, si sommarono i problemi causati dalla mancanza di lavoro e dall’occupazione “a singhiozzo” di molti operai nei cantieri governativi; in soli tre mesi, tra gennaio e marzo, la questura contò venticinque esplosioni dinamitarde.97 Su un terreno già saturo detonò l’eccidio di Aigues Mortes dell’agosto del 1893. La notizia dell’uccisione di trenta italiani da parte di un gruppo di operai francesi scatenò le proteste: il 20 agosto i dimostranti giunsero sotto il parlamento al grido di “abbasso Giolitti” e il giorno successivo ruppero le vetrate dell’ambasciata francese.98 Nel frattempo, il fermento dilagò in molti centri, da Messina fino a Genova. Le manifestazioni non ebbero inizialmente un chiaro segno politico, connotandosi soprattutto come antigiolittiane e antifrancesi: nelle piazze «insieme con le grida d’indignazione e di protesta» – scrisse «La Tribuna» – riecheggiò «un grido di osanna. Viva Crispi!». Non solo al Sud, ma in tutte le grandi città del Regno, perfino a Milano, nel momento in cui «uno schiaffo sanguinoso» colpiva il paese, il suo nome assumeva il significato di una possibilità di riscatto all’oltraggio subito.99 Un giornalista incontrò il deputato a Palermo e si fece rilasciare un’intervista. Crispi rispose con distacco, ma quando gli venne chiesto in che modo aveva vissuto l’appello delle piazze, tradì una viva soddisfazione: «sono grato a quanti pensarono a me. Ho ricevuto per questa occasione molti telegrammi da Roma e da altre parti d’Italia. Ma non è colle di96. Il diario di Crispi, in «Don Marzio», 24 febbraio 1893, MRR, b. 660, fasc. 22. 97. Cfr. Mario Casella, Democrazia, socialismo, movimento operaio a Roma (18921894), Roma, Elia, 1979, p. 177. 98. Rapporto del questore di Roma, 20 agosto 1892, ASR, Serie Questura, b. 54, fasc. 230. Sull’eccidio di Aigues Mortes cfr. Enzo Barnabà, Morte agli italiani! Il massacro di Aigues-Mortes 1893, Roma, Infinito, 2008. 99. Aigues Mortes, in «La Tribuna», 27 agosto 1893, DSPP, b. 130. Cfr. anche La carneficina degli italiani in Francia, in «Il Secolo XIX», 21-22 agosto 1894, MRR, b. 663, fasc. 38.
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mostrazioni che si ottiene di rialzare la fibra della nazione. Purtroppo noi siamo caduti molto in basso!».100 I socialisti e i repubblicani, inizialmente colti di sorpresa dai disordini, sfruttarono l’occasione per sollevare le proteste contro la crisi economica e la disoccupazione e da agosto a novembre si susseguirono a Roma gli scioperi di diverse categorie di lavoratori.101 A novembre scioperarono anche i telegrafisti: era la prima volta che degli impiegati statali sospendevano il lavoro in segno di protesta e il movimento si espanse in tutte le principali città, da Nord a Sud.102 La risoluzione arrivò solo a fatica, dopo un primo tentativo compiuto della delegazione dei deputati Socci, Giampietro e Altobelli, che incontrarono il ministro delle Poste e dei Telegrafi Camillo Finocchiaro Aprile senza però giungere a un accordo soddisfacente per gli operai; a quel punto intervenne Cavallotti, convincendo gli scioperanti romani a una tregua. Dalla capitale la normalizzazione si estese nelle altre provincie non appena si diffuse – scrisse «Il Messaggero» – «la parola d’ordine per la ripresa del lavoro»: Crispi. Era un chiaro segnale della popolarità di cui vantava il deputato, anche tra il ceto popolare, e una prova di come l’ipotesi di un mandato risolutivo del siciliano si stesse diffondendo nel paese.103 I Fasci Mentre le piazze romane si agitavano contro il governo, le notizie più preoccupanti arrivavano dalla Sicilia, dove il movimento dei Fasci dei lavoratori si stava propagando a macchia d’olio, contagiando pure il conti100. Un’intervista con Crispi, in «Il Secolo XIX», 23-24 agosto 1893, ivi. La questione di Aigues Mortes tornò alla ribalta un anno dopo, quando la Corte d’Assise di Angoulême assolse gli accusati per i fatti dell’agosto 1893. L’indennità stabilita dai governi delle due parti a risarcimento dei danni subiti sollevò di nuovo i malumori dell’opinione pubblica italiana che si divise tra chi accettò di buon grado l’idea dell’indennizzo e chi invece lo considerò come un’ulteriore offesa della Francia. Anche in questo caso in molti si rivolsero a Crispi per pregarlo di rifiutare il denaro francese. Cfr. ACS, Pisani Dossi, b. 14, fasc. 40 e ACS, CC, DSPP, b. 112, fasc. 682. 101. Tra le categorie più inquiete vi erano gli scalpellini, i fornai e i macellai del mattatoio. 102. Cfr. ASR, Serie Prefettura-Gabinetto, b. 513, fasc. 11.13. 103. Lo sciopero dei telegrafisti italiani, in «Il Messaggero», 24 novembre 1893. Cfr. anche Casella, Democrazia, socialismo, movimento operaio a Roma (1892-1894), pp. 104-105.
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nente. I Fasci erano nati all’inizio degli anni Novanta dall’esperienza associativa delle corporazioni di mestiere e delle società di mutuo soccorso e si erano moltiplicati nel clima di crisi economica e politica, riuscendo a mobilitare un pubblico socialmente e culturalmente vario, urbano e contadino, popolare e medio-borghese. Le istanze sostenute dal movimento erano infatti molto eterogenee e passavano senza soluzione di continuità dall’opposizione contro l’iniqua politica fiscale e la corrotta amministrazione locale alla richiesta di modifica dei patti agrari. La popolarità dei Fasci dipendeva anche dall’attivismo dei suoi maggiori leader come Nicola Barbato, medico condotto e organizzatore del Fascio di Piana degli Albanesi, e Giuseppe De Felice Giuffrida, proveniente dagli ambienti democratici e socialisti siciliani, che nel maggio del 1891 aveva fondato il Fascio dei lavoratori di Catania ed era stato eletto deputato per il secondo collegio della città nel ’92. Come altri esponenti di punta del movimento, Barbato e De Felice erano giovani da poco usciti dall’università di Palermo e interamente dediti alla causa. Grazie a loro il movimento si strutturò in un’organizzazione dai tratti moderni, capace di cooptare molte adesioni e di diventare un modello per le altre associazioni dei lavoratori.104 Nelle sedi dei Fasci, mantenute con il contributo degli iscritti, si discuteva, si studiava, si scambiavano idee e si condividevano momenti ludici come rappresentazioni teatrali, concerti, feste, che funzionavano da vettori di integrazione sociale e di genere. Le processioni politiche, gli inni musicali, i ritratti esposti nelle sale comuni – Marx, Garibaldi, Mazzini, Bruno – raccontavano di un mélange tra linguaggi e contenuti trasmutati dal sacro e nuove forme della sociabilità politica; una forma – molteplici forme, anzi – di divulgazione del messaggio socialista particolarmente funzionali, tanto da divenire ben presto una spina nel fianco per il governo.105 Come se non fosse bastato lo scandalo della Romana, Giolitti si trovò nuovamente tra due fuochi: da una parte le piazze siciliane, dall’altra i 104. Sui fasci siciliani si rimanda a: Salvatore Francesco Romano, Storia dei fasci siciliani, Roma-Bari, Laterza, 1959; I Fasci dei Lavoratori e la crisi italiana di fine secolo (1892-1894), Atti del convegno per il centenario, Palermo-Piana degli Albanesi, 21-24 settembre 1994, a cura di Pietro Manali, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1995. Su Nicola Barbato e Giuseppe De Felice Giuffrida si rimanda a: Santi Fedele, Un milite dell’ideale. Nicola Barbato, Manduria, Lacaita, 2003; Giuseppe Astuto, Il viceré socialista. Giuseppe De Felice Giuffrida sindaco di Catania, Acireale, Gruppo editoriale Bonanno, 2014. 105. Cfr. Gabriella D’Agostino, La cultura dei Fasci, in I Fasci dei Lavoratori e la crisi italiana di fine secolo (1892-1894), pp. 361-380.
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molti che guardavano con insofferenza alle sue riluttanze e ai suoi temporeggiamenti di fronte alla possibilità di impiegare mezzi repressivi eccezionali. Anche in questo caso chi era all’affannosa ricerca dell’ordine fece il nome di Crispi. Il siciliano, da parte sua, si mantenne cauto: non voleva rompere coi Fasci e tentò piuttosto di assumere un atteggiamento rassicurante per entrambe le parti. Per questo a giugno raggiunse Lina a Termini Imerese, con la scusa di prendere una pausa dal lavoro, e vi rimase fino a settembre. Nel frattempo le simpatie dell’opinione pubblica crescevano. I manifestanti siciliani in protesta contro i municipi adottarono tra i loro slogan quello di “Viva Crispi! Abbasso Giolitti!”.106 A settembre «Il Corriere della Sera» scrisse: Ancora vive qualcuno – Crispi p. e. – che appartiene ad un’epoca della quale non vi ha più, ormai, che il mesto ricordo: epoca che fu certo la migliore d’Italia, per grandezza d’animo, serietà di propositi, e fulgore di fatti. […] Oggi la scena politica italiana spesseggia di pigmei, di intriganti, di simoniaci, di scettici, di sconfortati, di impotenti.107
Per il governo le cose si stavano mettendo male e la Commissione dei Sette stava per leggere il suo rapporto al parlamento. Crispalia Il 24 novembre, appena un giorno dopo il pronunciamento dei Sette – piuttosto morbido a dire il vero –, Giolitti rassegnò le dimissioni. Umberto I propendeva per un terzo governo crispino e con lui molti altri, ma Zanardelli aveva l’appoggio di un’ampia maggioranza parlamentare e, dopo il primo giro di consultazioni, l’incarico fu affidato a lui. Si vissero giorni concitati, Crispi espresse a Lina le sue preoccupazioni circa la possibilità di essere nominato ministro, Levi, temendo per l’incolumità dell’amico, lo informò su un possibile complotto dei gesuiti contro di lui,108 ma, fallito il tentativo di Zanardelli, la partita era ormai destinata a chiudersi in suo favore. Al suo rientro da Napoli, un’orchestra si fermò sotto le finestre di Via Gregoriana e intonò l’inno reale, mentre le strade 106. Cfr. Astuto, Il viceré socialista, p. 89. 107. La strada fatta, in «Il Corriere della Sera», 8 settembre 1893, ACS, CC, DSPP, b. 130, fasc. 878. 108. Levi a Crispi, 5 dicembre 1893, ACS, CC, DSPP, b. 82, fasc. 527.
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romane si riempivano di “abbasso Giolitti”.109 I giornali raccontarono di un moto di entusiasmo che si propagò nella penisola come «una forte carica elettrica»;110 Emma Perodi scrisse a proposito di quelle giornate nella capitale: La crisi ricominciò e sulle bocche di tutti, com’era avvenuto anche durante la lunga gestazione del Gabinetto Zanardelli, correva un nome: quello di Crispi, del sol uomo che possedesse sufficiente energia e autorità per salvare il paese dalle sventure in cui avevalo piombato il Giolitti.111
Erano ormai in molti, fuori dal parlamento, a sperare in un governo forte e autorevole; alcuni non disegnavano l’ipotesi di una dittatura, non solo come soluzione contingente per uscire dalla crisi, ma pure per l’effetto catartico che un simile cambiamento avrebbe avuto, sopperendo all’insufficienza civica degli italiani e all’indisciplina della Camera.112 Il 20 dicembre Crispi presentò la compagine ministeriale formata da Sonnino alle Finanze e al Tesoro, Boselli all’Agricoltura, Blanc agli Esteri, Saracco ai Lavori Pubblici e Maggiorino Ferraris, gradito ai radicali, alle Poste e Telegrafi. Un governo misto, dunque, che puntava a radunare le forze – il «gran partito unitario, che ha per sola mira l’Italia»,113 come lo definì Crispi. Anche lo scandalo della Romana sembrava essere passato senza creare troppi danni al siciliano se persino i radicali, gli infaticabili denunciatori dello scandalo e della corruzione politica, si mostrarono cautamente fiduciosi.114 Società operaie e Fasci siciliani si alli109. Cfr. Ispettore capo della questura di Roma Tavassi a Crispi, 15 dicembre 1893, ASR, Serie Prefettura-Gabinetto, b. 486, fasc. 9.3. 110. Francesco Crispi ed il nuovo Ministero, in «Vita Nuova», 17 dicembre 1894, ACS, CC, DSPP, b. 130, fasc. 878. 111. Emma Perodi, Roma Italiana, 1870-1895, Roma, Bontempelli, 1896, p. 504. 112. A titolo di esempio cfr. La nuova fase, in «L’Opinione», 10 dicembre 1893, cit. in Casella, Democrazia, socialismo, movimento operaio a Roma (1892-1894), p. 278, nota 12 e Le impressioni della giornata parlamentare, in «Il Corriere della Sera», 24-25 novembre 1893. Cfr. anche Duggan, Creare la Nazione, p. 818. Sui concetti di “dittatura risorgimentale” come soluzione contingente a un momento di crisi tale da non interferire «con i modelli di società prefigurata» e su quello di “dittatura rivoluzionaria” «educatrice e levatrice di libertà» cfr. Cesare Vetter, Dittatura e rivoluzione nel Risorgimento italiano, Trieste, Edizioni Università, 2003, pp. 89 ss. 113. Crispi, Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, vol. III, p. 674. 114. Lo stesso Colajanni, uno dei protagonisti della vicenda, moderò il giudizio su Crispi nel suo Banche e Parlamento: fatti, discussioni, commenti, pubblicato subito dopo la fine dei lavori della Commissione dei Sette (Milano, Treves, novembre 1893).
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nearono, certi di trovare in un governo guidato da Crispi l’appagamento delle loro richieste.115 Per una manciata di giorni l’Italia sembrò ribattezzarsi «Crispalia»:116 la propensione a sperare nell’uomo della provvidenza, tipica dei momenti di convulsa transizione, fece convergere speranze diverse sull’unico politico che pareva capace di soddisfarle tutte.
115. A titolo di esempio cfr. Telegramma del Fascio dei lavoratori di Margherita Belice, s.d., ACS, CC, Roma, b. 44, fasc. 699. 116. Dott. Calce (Giuseppe Calce), Italia o Crispalia? Pensieri e rivelazioni del Dott. Calce, Sondrio, E. Quadrio, 1895.
4. Tra mito e antimito
1. Le radici dell’antimito Come si è visto, l’immagine pubblica di Crispi assunse diverse sfumature di significato quando entrò in contatto col tessuto civile della nazione e venne di volta in volta rielaborata sulla base di criteri collettivi e soggettivi differenti.1 In alcuni luoghi il mito positivo non riuscì a imporsi, ma anzi ebbero molta fortuna narrazioni di segno opposto, impiegate per delegittimare l’uomo e il suo ruolo pubblico. L’antimito o gli antimiti di Crispi si definirono tra i ranghi dell’opposizione parlamentare ed extra-parlamentare ed ebbero buona circolazione già a partire dal difficile biennio 1889-1890, quando la stagione del riformismo crispino si stava chiudendo e la sfavorevole congiuntura internazionale, sommatasi alla guerra doganale con la Francia, aggravò la crisi economica. Mentre nel parlamento si ricomponeva il “partito delle economie”, fautore di una riduzione della spesa pubblica, trovando sostenitori sia a Destra che a Sinistra, fuori dalle aule del potere la fine del boom edilizio produsse un malumore crescente. In questo clima di incertezza in molti luoghi si inasprirono le critiche al governo: in primis tra le file della Destra parlamentare che nel 1889 scelse una più intransigente linea di opposizione e diede vita alla Federazione Camillo Cavour, il cui scopo era quello di raccordare l’azione di circoli e associazioni monarchico-liberali e di restituire coerenza identitaria al progetto politico dei moderati dopo gli anni del trasformismo. L’insoddisfazione politica della Destra dipendeva soprattutto dagli atteggiamenti assunti da Crispi 1. Sul tema cfr. Finelli, Fruci, Galimi, Introduzione, in Parole in azione, pp. VII-XIII.
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nei confronti del Vaticano e della Francia, considerati inutilmente provocatori, e dalla crescita incontrollata del disavanzo pubblico, frutto di una politica coloniale dispendiosa e avventata. Non piacevano ai moderati neppure i metodi giacobini del siciliano e il suo stile di governo, che consideravano una pericolosa negazione della «dimensione diffusa dell’autorità»2 propria dell’ortodossia liberale. L’immagine del presidente autoritario preso da sogni “megalomani” ebbe tuttavia una modesta diffusione: pesò l’incapacità, o la scarsa volontà, di avvicinare più ampi settori dell’opinione pubblica e la breve vita della Federazione, segnata dalle spaccature interne e dall’abbandono del gruppo rudiniano, che nel 1890 scelse di schierarsi col governo. Proprio mentre una parte della Destra tentava un accomodamento con Crispi, l’Estrema se ne allontanava, non condividendo la scelta triplicista e anti-irredentista né tantomeno il rafforzamento dell’esecutivo sancito, a danno del parlamento, dalla riforma dell’amministrazione centrale dello Stato.3 I toni dei discorsi parlamentari si fecero più aspri e iniziò a definirsi un’immagine destinata a una grande fortuna politica e mediatica: quella del presidente tiranno, traditore degli ideali repubblicani della giovinezza. Questo stereotipo negativo, adottato anche negli ambienti socialisti e anarchici, circolò nel paese all’occasione delle prime manifestazioni di piazza contro il governo. Dopo i disordini romani dell’8 febbraio del 1889 venne sequestrato dalle forze dell’ordine un manifesto clandestino contro il «capo banda dei ministri», il «rivoluzionario d’ieri» divenuto «il più abietto cortigiano d’Europa» e il «più triste fra i tiranni». Gli anarchici, imitando un’abitudine sempre più diffusa sulla stampa nazionale, impiegarono qui un elemento alieno dalla politica in funzione denigratoria, alludendo anche alle abitudini dispendiose di Lina, che assoldava per i suoi comodi «Achilli con livrea e cocchi» e spendeva «20 mila lire in un abito».4 La propaganda contro il Crispi «voltafaccia»5 e despota venne riproposta, poco dopo, da alcuni contributi a stampa: secondo un autore, di fronte al malessere sociale il presidente aveva rinnegato i suoi principi li2. Aristide Gabelli, La libertà in Italia, in «Nuova Antologia», XXIV (1 novembre 1889), pp. 5-86, pp. 9-10, cit. in Cammarano, Il progresso moderato, p. 168. 3. Sulla riforma dell’amministrazione centrale dello Stato cfr. Paola Carucci, La Presidenza del Consiglio dei ministri, in Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica. Le riforme crispine, I, Amministrazione statale, pp. 15-79. 4. Manifesto «I fatti di Roma l’otto febbraio 1889», s.d., ACS, CC, DSPP, b. 51, fasc. 314. 5. Lettera de “gli anarchici di Torino” a Crispi, 28 ottobre 1887, ACS, Pisani Dossi, b. 1, fasc. 10.
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berali, – «quei principi che lo menarono a capo della cosa pubblica» – svelando la sua vera natura e l’intento ultimo cui mirava: «stringere – (come suol dire il Signor Dittatore) – i freni e fare… il colpo di stato».6 In altri luoghi proprio la crescita delle opposizioni di Sinistra alimentò il mito positivo del salvatore della patria, rafforzando la convinzione che solamente il governo del siciliano avrebbe potuto assicurare al paese la «vittoria più difficile»,7 quella contro i sovversivi. Come si vede, già nel corso dei primi due mandati si definirono immagini differenti, che continuarono a confrontarsi, in un crescendo di discorsi parlamentari, proteste di piazza e pubblicazioni a stampa, nei difficili anni dell’ultimo governo. In questo conflitto di narrazioni si riverberavano le spaccature politiche dell’Italia fin-de-siècle, in una contrapposizione sempre più frontale tra coloro che si riconoscevano nello Stato liberale incarnato da Crispi e chi invece si batteva per trasformarlo, o abbatterlo. 2. L’antimito in parlamento «Voi stracciate lo Statuto»8 L’immagine del Crispi dittatore, affossatore delle libertà statutarie, arrivò in parlamento all’inizio del 1894. A porre fine a quel che era parso un vero plebiscito in favore del suo governo nel dicembre del ’93 era intervenuta la proclamazione dello stato di assedio in Sicilia, resa nota il 3 gennaio 1894, e seguita poco dopo dalla decisione di estendere il provvedimento anche alle provincie della Lunigiana, dove si era propagata l’insurrezione.9 6. Nicola Morelli, Gli orrori e le turpitudini del governo crispino, Roma, Editore Ciotola, 1890, p. 5. Cfr. anche Nicola Vito Colella, L’ombra di Cavour, Bari, Fusco, 1890. 7. Baldassare Galletti, L’attualità e l’onorevole Francesco Crispi, Palermo, Spinnato, 1890, p. 56 [corsivo nell’originale]. 8. Matteo Renato Imbriani, AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Discussioni, Tornata del 20 febbraio 1894, p. 6505. 9. Sullo stato d’assedio cfr. Luciano Violante, La repressione del dissenso politico nell’Italia liberale: stati d’assedio e giustizia militare, in «Rivista di Storia Contemporanea», V, 4 (1976), pp. 481-524; Ambra Boldetti, La repressione in Italia: il caso del 1894, in ivi, VI, 4 (1977), pp. 481-515; Giuseppe Astuto, Crispi e lo stato d’assedio in Sicilia, Milano, Giuffrè, 1999.
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Sul finire del ’93, infatti, l’assenza di risposte da parte del governo di Giolitti aveva radicalizzato le proteste. Crispi ben interpretò il senso delle manifestazioni quando scrisse ai prefetti che il movimento dei Fasci era stato alimentato anche dalla corruzione delle amministrazioni comunali e dall’iniqua politica fiscale. D’altro canto credeva che, data la gravità la situazione, non sarebbe bastato correggere questi «vizi»,10 ma fossero necessari provvedimenti eccezionali per riportare la calma: già il 23 dicembre ottenne dal consiglio dei ministri l’autorizzazione per decretare lo stato d’assedio e subito dopo nominò il senatore Roberto Morra di Lavriano comandante della XII armata e prefetto di Palermo, concentrando nelle sue mani i poteri militari e civili della Sicilia. A inizio gennaio, in concomitanza con la firma del decreto d’assedio da parte del re, Morra divenne Regio Commissario straordinario con pieni poteri. Nelle intenzioni di Crispi l’attuazione del provvedimento doveva coincidere con la riunione del Comitato centrale dei Fasci, cui avrebbero partecipato i maggiori esponenti del movimento: voleva così coglierli in flagranza di reato e accusarli per cospirazione contro le istituzioni dello Stato; soprattutto, mirava a De Felice che, essendo deputato, godeva dell’immunità parlamentare. Il piano però fallì perché le forze dell’ordine non riuscirono a scovare il luogo segreto della riunione, con sommo rammarico del presidente. Nel frattempo sull’isola arrivarono 40 mila soldati e iniziarono gli arresti di massa, le perquisizioni delle sedi dei Fasci, delle redazioni dei giornali e delle abitazioni private dei leader, nell’affannosa ricerca di documentazione utile per il processo. Attraverso una serie di decreti Morra sospese la libertà di stampa, bloccò i canali di comunicazione non ufficiali e sciolse, insieme ai Fasci, numerose altre società di mutuo soccorso. Sempre tramite decreto stabilì le modalità e l’applicabilità del domicilio coatto, a cui poteva essere assegnato per via diretta chi aveva precedenti penali e chi fosse stato considerato pericoloso per l’ordine pubblico.11 Sapendo che l’opposizione parlamentare gli avrebbe dato filo da torcere, Crispi prese tempo e prorogò l’apertura della Camera al 20 febbraio. Quando arrivò il momento del confronto insistette affinché le interpellanze sui casi siciliani seguissero l’esposizione finanziaria del ministro 10. Cfr. Crispi ai prefetti siciliani, 25 dicembre 1893, ACS, CC, DSPP, b. 92, fasc. 555. 11. Cfr. Daniela Fozzi, Tra prevenzione e repressione: il domicilio coatto nell’Italia liberale, Roma, Carocci, 2010, pp. 182 e ss.
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Sonnino che, nelle speranze del presidente, avrebbe dovuto tranquillizzare gli animi. Gli indugi però suscitarono le prime proteste: «lunedì potremmo essere stati soppressi»12 – tuonò Imbriani. Il 23 febbraio iniziò la discussione sui provvedimenti siciliani e Napoleone Colajanni prese la parola, negando che il Comitato centrale dei Fasci avesse esortato la popolazione a sollevarsi; piuttosto il caos era da imputarsi alle condizioni di terribile miseria e alla condotta di sindaci e funzionari locali; se in Sicilia era stato versato del sangue – continuò il radicale – la colpa ricadeva sulle forze dell’ordine che, con metodi repressivi, avevano inasprito lo scontro e gettato olio sul fuoco dei disordini. Dopo il discorso di Colajanni, e per otto giorni, la discussione proseguì con gli interventi di quasi tutti i deputati siciliani e di molti esponenti dei diversi schieramenti politici. Sui motivi della crisi il consenso fu piuttosto unanime, mentre sull’utilità della misure adottate dal governo gli oratori espressero pareri divergenti. L’Estrema le respinse in blocco, considerandole una violazione costituzionale. Lo stato d’assedio, infatti, contrariamente a quanto valeva per la Francia e per la Germania, non era previsto né dallo Statuto né dalle leggi ordinarie: «voi che andate perseguitando le idee» – sostenne Imbriani contro Crispi – «cercando i socialisti e gli anarchici, vi dimostrate i primi ribelli al diritto pubblico, i veri anarchici del momento. Perché se si ha un concetto esatto di ciò che è il diritto pubblico, non si può avere su di voi altro giudizio». Non solo. Gli avversari criticarono il modus operandi dell’esecutivo che non aveva sottoposto la decisione al bill d’indennità parlamentare, riunendo la Camera – sempre secondo le parole di Imbriani – «solo per imporgli un verdetto».13 Per Bovio, le condizioni in cui il governo aveva decretato l’assedio, marginalizzando il parlamento, facevano presagire il pericolo di una dittatura. Un’altra questione che sollevò le rimostranze di molti fu l’istituzione dei tribunali militari, a cui venne deferito il giudizio dei reati commessi nelle provincie siciliane prima della proclamazione dell’assedio.14 I deputati dell’Estrema considerarono questa scelta come «l’arbitrio degli arbitri» poiché, estendendo a tutti i siciliani l’applicabilità di norme procedu12. Imbriani, AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Discussioni, Tornata del 20 febbraio 1894, p. 6501. 13. Imbriani, ivi, Tornata del 24 febbraio 1894, pp. 6673 e 6668. 14. La fase istruttoria rimase invece nelle mani della magistratura ordinaria.
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rali limitate a una sola categoria di cittadini, violava di fatto l’art. 71 dello Statuto. Più volte sanzionato dal presidente della Camera, Imbriani parlò di «tribunali-giberne», protestò contro la retroattività della giurisdizione militare e chiese spiegazioni sulla situazione di De Felice, che era stato condotto in arresto nonostante godesse, secondo l’art. 45 dello Statuto, dell’immunità parlamentare.15 Crispi parlò la prima volta il 21 febbraio in risposta a Cavallotti e poi una settimana dopo: nei suoi interventi difese il ruolo della borghesia nazionale che aveva iniziato il cammino verso il progresso attraverso il Risorgimento e a cui spettava il dovere di compierlo con celeri riforme sociali ed economiche. Per farlo si era reso necessario un provvedimento d’emergenza che, pur essendogli costato «notti insonni», aveva permesso di salvare la nazione da un tentativo rivoluzionario: le agitazioni infatti – sostenne – non erano state provocate dalla miseria e dal disagio sociale, come dimostrava il fatto che avessero preso piede anche in alcune tra le province più agiate dell’isola, ma erano parte di un piano sovversivo mirante alla rottura dell’Unità: «È una spedizione all’inverso di quella di Marsala, che si voleva compiere» – dichiarò. La questione costituzionale appariva quindi di secondaria importanza, superata dalle necessità cui il governo aveva dovuto piegarsi. In aula non rinunciò ai toni enfatici e sentimentali – «chi ama, teme; ed io amo molto l’Italia e temo che si possa sfasciare», rispose a Cavallotti –,16 ma anche in privato ribadì a Umberto I la legittimità di quella scelta: «Non è dunque un potere nuovo che si crea: è piuttosto un decentramento che viene applicato. Nessuna autorità è menomata e nessuna autonomia può sentirsi ferita. È una funzione pubblica che si avvicina lì dove esiste il pericolo e che nulla sottrae ad alcuno».17 Nel discorso del 28 febbraio parlò della possibilità che la Sicilia si separasse dal Regno con la collaborazione della Russia e della Francia e lesse ai deputati il proclama rivoluzionario Agli Operai figli del Vespro, che – disse – era stato sequestrato in Sicilia dalle forze dell’ordine.18 Come 15. Imbriani, AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Discussioni, Tornata del 20 febbraio 1894, p. 6501. 16. Cfr. Crispi, Tornata del 28 febbraio 1894, in Id., Discorsi parlamentari di Francesco Crispi, vol. III, pp. 689 e 696 e Id., Tornata del 21 febbraio 1894, ivi, p. 682. I discorsi parlamentari di Crispi sullo stato d’assedio vennero pubblicati nello stesso anno dalla Tipografia della Camera dei deputati. 17. Crispi a Umberto I, s.d., ACS, CC, DSPP, b. 91, fasc. 4. 18. Il proclama, che Crispi sostenne essere «firmatissimo», si rivelò un falso, opera di un vice-cancelliere di Petralia Soprana, in provincia di Palermo, che si era innamorato
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già altre volte, voleva far leva sulla paura del suo uditorio, sostenendo la presenza sottotraccia di nemici esterni: nel mese precedente aveva cercato notizie a conferma di quest’ipotesi, chiedendo al ministro Blanc di contattare le ambasciate italiane in Europa per raccogliere prove della presenza francese in Sicilia e dialogando con l’ex cospiratore e deputato David Levi.19 L’entrata in scena del nemico esterno permetteva di appellarsi – come fece Morra nel suo primo decreto – all’art. 246 del Codice penale militare relativo alla dichiarazione di assedio in territori invasi dal nemico, ma soprattutto dava a Crispi la possibilità di nazionalizzare la crisi, sfruttando i venti francofobi da poco sollevatesi nel paese. Le allusioni circa un’insurrezione «a base di oro straniero e di mene papali» – secondo le parole di Altobelli – non trovarono però sostegno nel pronunciamento della Commissione nominata da Morra per vagliare i documenti sequestrati in Sicilia e, più in generale, suscitarono una timida reazione nell’emiciclo, a causa della dubbia veridicità del materiale presentato dal governo che, per alcuni, «puzza[va] di questura molto da lungi».20 Per questo nei giorni successivi Crispi ammise che l’art. 246 non fosse «del caso»,21 e si appellò invece agli articoli 243 e 251 del Codice militare: il primo riconosceva al re la possibilità di stabilire l’assedio tramite decreto, il secondo concedeva al comandante in capo delle truppe stanziate per la difesa di un territorio di emanare decreti che avessero validità di legge; dunque, tutto ciò che il governo aveva stabilito era legalmente ineccepibile, se è vero – come credeva – che «la guerra civile è guerra anch’essa».22 Alla fine della discussione parlamentare il provvedimento ottenne la fiducia con 342 voti a favore, 45 contrari e 22 astensioni: una maggioranza schiacciante. Di fronte al pericolo che il disordine contagiasse anche il della moglie di un fornaio e che, mosso da gelosia, aveva deciso di vendicarsi dell’uomo inviandogli il documento e denunciandolo anonimamente alla polizia. La ricostruzione del «breve intermezzo comico-erotico» è di Colajanni, in Gli avvenimenti in Sicilia e le loro cause, pp. 441 e ss. 19. Cfr. Lanza a Blanc, 10 gennaio 1894, cit. in Gastone Manacorda, Dalla crisi alla crescita. Crispi economica e lotta politica in Italia 1892-1896, Roma, Editori Riuniti, 1993, p. 97 nota 15; altri scambi tra Crispi e gli ambasciatori italiani sull’argomento si trovano in ACS, CC, DSPP, b. 91, fasc. 554; la lettera di David Levi a Crispi del 2 gennaio 1894 si trova in MRR, b. 667, fasc. 32. 20. Imbriani, AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Discussioni, Tornata del 1 marzo 1894, p. 6824. 21. Crispi, ivi, Tornata del 3 marzo 1894, p. 6905. 22. Così annotò nei suoi appunti, s.d., ACS, CC, DSPP, b. 91, fasc. 7.
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continente lo stato d’emergenza tornava in auge come soluzione per uscire dalla crisi.23 Oltre alla paura di nuovi e più gravi disordini, pesarono sulla scelta di voto di molti deputati gli stereotipi e i pregiudizi sul Mezzogiorno come luogo arretrato, primitivo, travagliato sin dalla proclamazione dell’Unità da difficoltà sociali ed economiche che apparivano estranee al resto della penisola e che avevano già in passato richiesto una soluzione di forza. Secondo Bovio questo spiegava lo scarso interesse di molti deputati, che avevano assistito alla discussione «come se si trattasse di un’isola sperduta nei mari lontani».24 D’altro canto, lo stesso partito socialista aveva assunto una posizione cauta verso i Fasci e ciò contribuì a isolare il movimento, che non ricevette direzioni e protezione dal centro né una buona copertura mediatica. Se nell’ottobre del 1893 Filippo Turati si era mostrato aperto, dichiarando sulle colonne di «Critica sociale» che i Fasci erano parte integrale del milieu socialista, ancora nel dicembre di quell’anno «Lotta di Classe» aveva descritto quella siciliana come una rivolta della fame e non del socialismo.25 Solo quando venne proclamato lo stato d’assedio i vertici del partito si incontrarono a Modena e stilarono un manifesto di solidarietà, mentre i deputati Agnini e Prampolini chiesero di potersi imbarcare per la Sicilia, incontrando però la ferma resistenza dall’esecutivo. A conti fatti, reticenze e paure assicurarono al governo l’approvazione del suo operato da parte del parlamento, ma Crispi sapeva che l’opinione pubblica attendeva dei provvedimenti risolutivi e aveva intenzione di presentare all’emiciclo un pacchetto di riforme fiscali per avviare la restaurazione finanziaria dello Stato e una riforma agraria per il rilancio del Mezzogiorno.26 23. Sul tema si rimanda a: Umberto Allegretti, Dissenso, opposizione politica, disordine sociale: le risposte dello Stato liberale, in Storia d’Italia, Annale 12, La criminalità, Torino, Einaudi, 1997, pp. 719-756; Pasquale Troncone, La legislazione penale dell’emergenza in Italia. Tecniche normative di incriminazione e politica giudiziaria dallo Stato liberale allo stato democratico di diritto, Napoli, Jovene, 2001. 24. Bovio, AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Discussioni, Tornata del 1 marzo 1894, p. 6834. Sullo stereotipo del Mezzogiorno si rimanda a: Paolo Macry, Se l’unità crea divisione. Immagini del Mezzogiorno nel discorso politico nazionale, in Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, pp. 63-92. 25. Cfr. Santi Fedele, Filippo Turati e i Fasci siciliani dei lavoratori, in I Fasci dei Lavoratori e la crisi italiana di fine secolo (1892-1894), pp. 445-454. 26. Sullo spirito pubblico in Sicilia cfr. la corrispondenza tra Crispi e i collaboratori inviati nell’isola, ACS, CC, Roma, b. 48, fasc. 753.
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Già il 20 febbraio il ministro Sonnino lesse alla Camera il suo progetto, il celebre Omnibus, che prevedeva un nuovo aumento delle imposte – tra cui la reintroduzione dei due decimi sulla terra, l’aumento della tassa sul sale, l’incremento dell’imposta sugli interessi dei buoni del tesoro – e alcune novità, come l’imposta complementare progressiva sul reddito, per un più equo ordinamento fiscale. Era l’altro lato della medaglia del progetto crispino che, però, incontrò resistenze insormontabili: quando la Commissione preposta all’analisi dell’Omnibus ne chiese modifiche sostanziali, Sonnino rifiutò e si dimise. A quel punto Crispi scelse la via del rimpasto, sostituendo Sonnino con Boselli al ministero delle Finanze, accettò la revisione del documento e rinunciò ai due decimi sull’imposta fondiaria e all’imposta sul reddito.27 Qualcosa si salvò, come l’aumento della tassa sui buoni del tesoro che venne approvata in estate: una vittoria importante per il governo che – scrisse Crispi a Lina – era almeno riuscito ad assicurare «le sorti del bilancio dello Stato».28 Stesso destino toccò al progetto di riforma agraria presentato dal governo il 1 luglio: anche in questo caso, a fronte di una ferma opposizione dei latifondisti siciliani guidati da Rudinì e dei capitalisti agrari della Destra lombarda, il disegno di legge venne ritirato, nell’attesa che una commissione parlamentare ne redigesse un secondo meno divisivo, il quale, però, non giunse mai in lettura,29 come aveva previsto l’onorevole Luzzatto: «Quella legge si arenerà negli Uffici, o sarà strozzata dalla Commissione; e avremo quindi la prova che nella Camera italiana si parla del bene del popolo, ma di effettivo per il popolo non ci sono che le catene; di effettivo per il popolo non c’è che la repressione».30 27. Il progetto passò alla Camera il 29 giugno e al Senato il 21 luglio del 1894. 28. Crispi a Lina, 29 giugno 1894, in Amami come io ti amo, p. 195. 29. Crispi credeva molto nel progetto, come scrisse in privato alla moglie: «Io non potrei, né dovrei ritornare alla vita privata senza aver prima provveduto agli interessi economici della Sicilia», 24 giugno 1894, ora in Gaetano Armao, Le lettere di Crispi. La dicotomia tra ruoli di governo e vita professionale, ivi, pp. 9-25, p. 16, nota 16. Sulla questione fondiaria e la legislazione “mancata” del 1894 cfr. Gastone Manacorda, Crispi e la legge agraria per la Sicilia, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», LXVIII, 1 (1972), pp. 9-95; Salvatore Mura, Parlamento, questione fondiaria e legislazione mancata (1894), in «Studi Storici», 55, 4 (2014), pp. 1013-1040. 30. Riccardo Luzzatto, AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Discussioni, Tornata del 10 luglio 1894, p. 11466.
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Le leggi anti-anarchiche Vista la relativa facilità con cui era stato approvato lo stato d’assedio, all’inizio di aprile Crispi presentò alla Camera la legge 314 sui reati commessi con materie esplodenti:31 era trascorso appena un mese dalla detonazione di un grosso ordigno davanti a Montecitorio, che aveva provocato gravi danni, due morti e alcuni feriti, e la paura generata da quell’evento poteva di nuovo giocare a suo favore.32 Nel discorso di presentazione, il presidente del Consiglio fece riferimento alle leggi contro le materie esplodenti promulgate in Inghilterra e in Germania all’inizio degli anni Ottanta e a quelle adottate in Francia a seguito dell’attentato di Auguste Vaillant; già in questa prima lettura dichiarò l’intenzione di completare la legge con altre, al fine di colpire il «genere di malfattori nuovi».33 La proposta, pur non incontrando una vera opposizione,34 non fu discussa in seconda lettura e l’allarmato appello del presidente produsse un effetto modesto sulla Camera, impegnata nella discussione sulla legge finanziaria. A giugno, in una manciata di giorni, tutto cambiò e il provvedimento, che pareva dimenticato, divenne oggetto di un’accesa discussione parlamentare: l’attentato del giovane operaio romagnolo Paolo Lega contro Crispi, la morte del presidente della Repubblica francese Sadi Carnot per mano di Sante Caserio e quella di Giuseppe Bandi ad opera di Oreste Lucchesi, costituirono la premessa necessaria al passaggio di questa e di altre due norme giuridiche eccezionali, valide solo per diciotto mesi in assenza di ulteriore proroga. Oltre alla 314, venne presentata anche la legge 315, che puniva i reati di istigazione a delinquere, eccitamento all’odio di classe e di apologia 31. Ivi, Tornata del 2 aprile 1894, pp. 7285-7324. 32. A questa successe un’altra esplosione, l’ 8 maggio, presso il palazzo dei conti Odescalchi a Roma e la detonazione di due ordigni, il 31 maggio, all’annuncio della condanna di De Felice, al ministero di Grazia e Giustizia e al ministero della Guerra. Per una ricognizione sugli episodi di violenza anarchica tra il 1892 e il 1894 cfr. Pensiero e dinamite. Gli anarchici e la violenza 1892-1894, a cura di Pietro Adamo, Milano, M&B, 2004; Diemoz, A morte il tiranno. 33. Tornata del 10 aprile 1894, in Crispi, Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, vol. III, p. 712. 34. Parlarono a proposito della legge gli onorevoli Luigi Lucchini, Pietro Nocito e Ferdinando Mecacci, tutti proponendo alcune modifiche, ma sposando lo spirito del progetto. AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Discussioni, Tornata del 10 aprile 1894, pp. 7513-7550.
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del delitto commessi con il mezzo della stampa. Entrambe prevedevano sanzioni pecuniarie e detentive. L’ultima legge, la 316, riconosceva l’applicabilità della pena del domicilio coatto da uno a cinque anni per tutti coloro che avessero riportato una condanna per delitto contro l’ordine e l’incolumità pubblica o per delitto con materie esplodenti. Non solo. La legge colpiva tutte le associazioni finalizzate al sovvertimento per vie di fatto degli ordinamenti sociali, punendo i contravventori con confino fino a sei mesi.35 La discussione parlamentare sui tre progetti si prolungò per giorni, il governo batté «ancora una volta la grancassa della salvezza dello Stato»,36 e le posizioni si polarizzarono. L’immagine del Crispi tiranno tornò di nuovo alla ribalta. La libertà Il primo luglio, lo stesso giorno dell’uccisione del direttore de «Il Telegrafo» Giuseppe Bandi, che aveva condotto una campagna mediatica contro gli anarchici, la Camera assistette alla lettura del progetto relativo ai reati commessi per mezzo di stampa. Il dibattito si accese immediatamente: da una parte vi fu chi, come Imbriani, mise in guardia il parlamento dal rischio di mettere in pericolo ciò che vi era di «più sacro sulla terra, vale a dire la libertà» a causa della commozione provocata dagli attentati;37 dall’altra, i governativi difesero i provvedimenti eccezionali, il cui scopo era proprio quello di proteggere la libertà dai «cavalieri della dinamite e del pugnale!».38 Scrisse Crispi in quei giorni nei suoi diari: La questione tra me e i miei avversari consiste in questo: resta a vedere quello che intendono i miei avversari per libertà. È libertà, il pugnalare gli onesti cittadini? È libertà, gettare le bombe per distruggere i privati o pubblici edifici? È libertà, gettare ordigni esplodenti nelle piazze pubbliche per uccidervi 35. Sulle leggi antianarchiche cfr. tra gli altri Boldetti, La repressione in Italia: il caso del 1894 e Giampietro Berti, La sovversione anarchica in Italia e la risposta giudiziaria dello stato (1874-1900), in «Quaderni fiorentini», XXXVIII, 1 (2009), pp. 579-600. 36. Così scrisse Antonio Labriola nel novembre di quell’anno, a proposito dello scioglimento del partito socialista, cit. in Casella, Democrazia, socialismo, movimento operaio a Roma (1892-1894), p. 352, nota 272. 37. Imbriani, AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Tornata del 1 luglio 1894, p. 11084. 38. Così scrisse «La Riforma», in L’Assassinio del Presidente Carnot, 26 giugno 1894.
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innocenti cittadini? Se credono che questa fosse libertà, non potremmo essere d’accordo.39
Il 2 luglio si aprì la discussione parlamentare sui singoli progetti con la seconda lettura della legge 314. L’opposizione dei radicali, mancando del tutto quella dei socialisti, si scagliò contro la severità di leggi promulgate ab irato. Imbriani contestò vivacemente i mezzi coercitivi del governo – le «tenaglie» e gli «squartamenti»;40 Barzilai sollevò la questione dell’intenzionalità, sostenendo che la detenzione senza licenza di materie pericolose potesse essere imputabile di contravvenzione, ma che non si potesse ammettere aprioristicamente il fine doloso. I discorsi appassionati dell’Estrema non bastarono però a convincere i più ed anzi innervosirono la maggioranza, tanto da provocare reazioni esasperate, come quella dell’onorevole Odescalchi che chiese di seguire l’esempio della Francia che «condanna a morte» gli anarchici «e fa bene».41 Di maggior forza argomentativa furono gli interventi di Francesco Spirito, relatore della Commissione preposta all’analisi e alla modifica del progetto governativo, e dello stesso Crispi.42 Entrambi sostennero che i disegni di legge fossero l’espressione di una politica di tutela sociale in perfetta sintonia con le decisioni di altri Stati liberali d’Europa e che si distinguessero per la loro mitezza.43 La difesa di Crispi infervorò Imbriani che tuonò: «dovete sempre imitare!», ma in generale funzionò per convincere molti che l’intenzione del governo fosse «d’imitare le cose buone».44 Commentando questo atteggiamento degli oppositori del governo, «La Riforma» non perse occasione per prendersene gioco, sottolineando il paradosso in cui erano caduti i radicali che «solevano additare la Francia 39. Crispi, appunto autografo, s.d., ACS, CC, Roma, b. 25, fasc. 562. 40. Imbriani, AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Tornata del 2 luglio 1894, p. 11118. 41. Baldassarre Odescalchi, AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Tornata del 2 luglio 1894, p. 11140. 42. Crispi si era preparato al dibattito studiando i provvedimenti eccezionali adottati da altri Stati europei. Il rapporto Misure internazionali contro gli anarchici datato 29 giugno 1894 e inviato al ministero degli Esteri si trova in ACS, CC, Roma, b. 25, fasc. 562. Le leggi antianarchiche francesi, in particolare, suscitarono l’interesse di Crispi che studiò anche alcuni procedimenti delle corti d’appello (Toulouse), e tra i suoi appunti annotò: «È questa una disposizione di legge degna di essere imitata», ivi. 43. Francesco Spirito, AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Tornata del 2 luglio 1894, pp. 11127-28. 44. Rispettivamente Imbriani e Spirito, ivi, p. 11133.
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come faro luminoso» e avevano dovuto rinunciare a loro modello di riferimento prediletto a seguito della proclamazione delle lois scélérates.45 Il 7 luglio si procedette dunque alla terza lettura e, simultaneamente, alla prima lettura della legge 315. L’opposizione contro quest’ultima fu più vivace rispetto alla precedente e alle voci dell’Estrema si unirono anche quelle dei socialisti, sotto la comune bandiera della libertà in pericolo. Enrico Ferri svolse una violenta requisitoria contro il governo che rinnegava i principi di libertà pubblica, «la ragione storica della rivoluzione compiuta dalla borghesia».46 Gli rispose il guardasigilli Calenda di Tavani, leggendo alla Camera un articolo pubblicato sul «Grido degli oppressi» di Ancona in cui si esortava il popolo a chiedere il pane «col pugnale in mano»: di fronte a questo – concluse – «il Governo non poteva non fare quello che ha fatto».47 La sessione si chiuse con la votazione dell’emendamento proposto dall’onorevole Barzilai per rendere di competenza dell’Assise il reato previsto dalla legge 315. La Camera lo respinse con una considerevole maggioranza. «Un pericoloso abisso»48 Lo stesso giorno Crispi propose di discutere il terzo progetto nella seduta successiva, ma l’idea non piacque all’Estrema e Cavallotti dichiarò che fossero necessarie ben altre condizioni per vagliare un provvedimento tanto importante. Il presidente però, confortato e quasi euforico per come era andato fino a quel momento il dibattito, non si lasciò intimorire e rispose che qualsiasi indugio sarebbe stato una grave colpa del parlamento, ottenendo numerose approvazioni. A quel punto l’Estrema, vista l’impossibilità di compattare una qualche maggioranza, scelse la via dell’ostruzionismo – le «chiassate», come scrisse «La Riforma»49 –, ma la tattica non funzionò. Il 9 luglio, anche a causa dell’abbandono dell’aula da parte di molti deputati nel corso della votazione nominale, la lettura della terza legge fu iscritta all’or45. Da Monarchia a Repubblica, in «La Riforma», 9 luglio 1894. 46. Enrico Ferri, AP, Camera dei Deputati, Legislazione XVIII, I Sessione, Discussioni, Tornata del 7 luglio 1894, p. 11407. 47. Vincenzo Calenda di Tavani, AP,Camera dei Deputati, Legislazione XVIII, I Sessione, Discussioni, I Tornata del 7 luglio 1894, p. 11422. 48. Pietro Aprile, ivi, Tornata del 10 luglio 1894, p. 11456. 49. I provvedimenti di pubblica sicurezza, in «La Riforma», 7 luglio 1894.
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dine per il giorno successivo.50 Non solo. Vennero votati a scrutinio segreto i primi due progetti di legge che passarono a larga maggioranza. Per stemperare il clima di tensione, dopo aver intavolato una trattativa con il gruppo radicale, il governo presentò una seconda versione del progetto che aveva recepito alcune modifiche proposte dal deputato Lucchini. Niente poteva ancora rimandare «la grande battaglia»:51 la discussione sulla 316 si svolse il dieci e l’undici luglio nella canicola romana. L’opposizione lottò strenuamente contro il provvedimento, che considerava un’ennesima violazione delle guarentigie statutarie e un’«aberrazione del senso giuridico».52 In particolar modo l’Estrema criticò la vaghezza del testo della legge, che avrebbe permesso alla pubblica sicurezza un’ampia discrezionalità. L’onorevole Aprile affermò: Non abbiamo una legge sulle associazioni. Non sappiamo precisamente quali, secondo il nostro diritto, siano legittime o no, non diamo neanche ai nostri magistrati la facoltà di giudicarle penalmente ed arriviamo all’estremo assurdo di sanzionare […] il solo far parte di una Società, che non è stata additata alla coscienza pubblica come criminosa.53
Proprio per questo molti sostennero che la 316 avesse un preciso scopo politico, poiché avrebbe permesso a Crispi di sbarazzarsi degli avversari più scomodi e di «conservare la pelle di ministro vita natural durante».54 Ancora una volta l’orazione più dura fu quella di Imbriani: Fate che domani questa legge passi, ed in ogni comunello gli avversari di chi sta su, saranno designati come anarchici. Voi non pensate al cumulo di odii, di ire, di rancori e di vendette che andate preparando. Egli è certo che in tutti i paesucoli, in tutti i piccoli centri, i partiti, i quali vogliono rimanere al potere, o coloro che vogliono vendicarsi degli altri, lanceranno agli avversari ed ai nemici l’accusa di anarchici.55
Il presidente del Consiglio si dichiarò offeso da accuse tanto gravi, ma era pronto a difendere le ragioni dell’esecutivo. Su un foglio volante 50. Cfr. AP, Camera dei Deputati, Legislazione XVIII, I Sessione, Discussioni, Tornata del 9 luglio 1894, pp. 11429-11434. 51. Crispi a Lina, 5 luglio 1894, ACS, Palumbo Cardella, b. 6, fasc. 84. 52. Imbriani, AP, Camera dei Deputati, Legislazione XVIII, I Sessione, Discussioni, II Tornata dell’11 luglio 1894, p. 11520. 53. Aprile, ivi, Tornata del 10 luglio 1894, p. 11456. 54. Altobelli, ivi, p. 11443. 55. Imbriani, ivi, p. 11461.
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annotò qualche spunto: «Barbarie nuova. Odio contro l’autorità. Violenza. Spirito di distruzione. Attentati contro l’ordine [civile]».56 Come si vede da queste brevi note e come risulta anche dai discorsi in parlamento, Crispi rifiutava di categorizzare il delitto anarchico come una ribellione di natura politica, riconoscendovi esclusivamente una battaglia volta alla distruzione dell’ordinamento sociale.57 Da qui, la legittimità dei provvedimenti governativi, che miravano alla difesa di «tutto ciò che vi è di sacro»: «Io capisco il repubblicano, capisco il socialista; non capisco l’anarchico» – dichiarò nel suo vibrante discorso.58 Questa lettura dell’anarchismo come agente del caos, portatore di violenza e distruzione non come mezzo ma come fine, trovava sostegno nelle tesi pseudo-scientifiche della scuola lombrosiana, che considerava l’anarchismo alla stregua di un fenomeno patologico, e anche per questo risultò accettabile da molti deputati.59 Non si trattava di mere disquisizioni teoriche, ma anzi il distinguo valeva moltissimo per il governo che, con l’avallo della Camera, avrebbe potuto rubricare i reati riconosciuti dalla 316 tra quelli comuni descritti dall’articolo 248 del codice Zanardelli. In questo modo la competenza sarebbe spettata ai tribunali comuni. Inoltre, ai rei comuni erano negati i benefici giuridici, come l’amnistia, concessi ai condannati politici. Dopo la votazione parlamentare, anche il Senato si espresse a favore dei tre provvedimenti, che vennero pubblicati il 19 luglio sulla Gazzetta Ufficiale del Regno. 56. Crispi, appunto autografo, s.d., ACS, CC, Roma, b. 25, fasc. 562. 57. Per un inquadramento sul tema del “delitto politico” cfr. Floriana Colao, Il delitto politico tra Ottocento e Novecento. Da “delitto fittizio” a “nemico di Stato”, Milano, Giuffrè, 1986; Mario Sbriccoli, Dissenso politico e diritto penale in Italia tra Otto e Novecento. Il problema dei reati politici dal ‘Programma’ di Carrara al ‘Trattato’ di Manzini, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2 (1973), pp. 607-702. 58. Crispi, AP, Camera dei Deputati, Legislazione XVIII, I Sessione, II Tornata del 11 luglio 1894, p. 11514. «La Riforma» ribadì gli stessi concetti scrivendo che «la società civile di fronte agli anarchici è in stato di legittima difesa ed occorrerebbe un fenomenale accecamento per sostenere che in tale difesa abbia ecceduto od ecceda» e ribadendo che il governo aveva «il diritto inalienabile» di «tutelare la società, così com’è, nelle sue primordiali istituzioni, da chi le vorrebbe distrutte». Cfr. I provvedimenti contro gli anarchici, in «La Riforma», 13 luglio 1894, I provvedimenti di pubblica sicurezza, ivi, 7 luglio 1894. 59. Va però specificato che, sebbene le teorie lombrosiane assicurassero legittimità “scientifica” ai provvedimenti legislativi, lo stesso Lombroso aveva all’epoca già preso posizione in favore del socialismo, rompendo con il governo di Crispi. Cfr. Cesare Lombroso, Gli anarchici, Torino, Bocca, 1894; Cesare Lombroso: gli scienziati e la nuova Italia, a cura di Silvano Montaldo, Bologna, il Mulino, 2010.
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In quegli stessi giorni venne approvato un disegno di legge presentato dal governo già in primavera, che proponeva di uniformare le procedure per la compilazione e l’approvazione delle liste elettorali (amministrative e politiche) e rendeva più stringenti le norme di accertamento dei requisiti di censo e di alfabetizzazione per l’ammissione al voto. Con il passaggio di questo provvedimento Crispi poté procedere a una rapida e imponente revisione delle liste elettorali.60 Le conseguenze più drammatiche di tutte queste misure colpirono ben presto il partito socialista e le associazioni a questo legate, che vennero sciolte tramite decreto il 22 ottobre dello stesso anno. Titano o dittatore Nel corso del dibattito parlamentare il presidente dimostrò una conoscenza approfondita in materia di provvedimenti eccezionali e del fenomeno dell’anarchismo61 e presentò la questione in termini di fiducia: «Le leggi preventive sono tutte leggi di fiducia. Ci sono deputati che certe facoltà le affiderebbero ad alcuni ministri, le negherebbero ad alcuni altri»62 – dichiarò l’11 luglio. La Camera si mostrò sensibile all’appello presidenziale e molti deputati votarono anche in nome della stima che nutrivano verso di lui: «lo faccio perché la lealtà della sua applicazione è confidata a Francesco Crispi, che è una delle più alte e delle più vive espressioni dell’unità e della patria» – disse l’onorevole Vastarini Cresi –: proprio per amor di patria «l’uomo adusato al vivere libero» poteva temporaneamente rinunciare alle franchigie costituzionali.63 Chi al contrario si oppose alle leggi ribadì la sua sfiducia nei confronti del dittatore che aveva «ceduto alle 60. Cfr. Astuto, Crispi e lo stato d’assedio in Sicilia, pp. 163 ss. 61. Prima dell’inizio del dibattito parlamentare Crispi aveva chiesto al ministro dell’Interno la copia a stampa della legge del 7 febbraio 1864 sulla repressione del brigantaggio nelle provincie napoletane con il regolamento relativo, il testo del suo intervento alla Camera sulla legge del 17 maggio 1866 a favore della concessione di poteri eccezionali al governo per la gestione della sicurezza interna dello Stato, il testo definitivo e la copia a stampa dei provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza, leggi del 6 luglio 1871 e del 3 luglio 1875, rivolti contro gli anarchici. Infine, aveva esteso le sue conoscenze sull’anarchismo grazie ai dettagliati rapporti dell’agente di polizia Ettore Sernicoli. 62. Crispi, AP, Camera dei Deputati, Legislazione XVIII, I Sessione, Discussioni, II Tornata dell’11 luglio 1894, p. 11513. 63. Alfonso Vastarini Cresi, ivi, Tornata del 10 luglio 1894, p. 11451.
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intimidazioni di idrofobi reazionarii»,64 tradendo le convinzioni politiche del passato: «Tornate all’antico» lo esortarono i deputati dell’Estrema.65 Di nuovo, quindi, la gestione personalistica dell’esecutivo da parte di Crispi influì sull’andamento del dibattito; d’altro canto, fu la sensazione di trovarsi di fronte a un imminente pericolo a convincere la maggioranza, che temeva la violenza degli anarchici, ma anche la forza crescente di nuovi soggetti politici capaci di mettere a rischio la dirigenza liberale; le leggi eccezionali avrebbero bloccato quest’avanzata e impedito un’estensione incontrollata e traumatica della ristretta base cui si reggeva lo Stato dall’epoca della sua fondazione. La crescita del socialismo in particolare, uno «Stato nello Stato», secondo una relazione pervenuta al ministero dell’Interno nell’ottobre del 1894, indusse le Camere a scegliere la via della difesa giuridica dello status quo, affidando la gestione dell’emergenza all’eccezionale sospensione delle libertà statutarie.66 Il dibattito tra il Crispi salvatore e il Crispi tiranno rimandava dunque a una questione più ampia, relativa al difficile rapporto tra la proclamazione costituzionale della libertà e il suo esercizio in funzione antagonista al blocco dominante, «tra il potere di una classe, e la libertà di tutti i cittadini».67 Nonostante lo scontro parlamentare si fosse risolto a favore del governo, proprio i provvedimenti eccezionali avviarono alcuni processi politici significativi. Stretto dalla morsa della repressione crispina, il gruppo milanese di Turati rimise in discussione la questione del rapporto con gli “affini” e scelse la via della cooperazione con radicali e democratici che avrebbe evitato ai socialisti di sparire nel completo isolamento. Il nodo era emerso dopo il Congresso di Genova del 1892, ma ancora dopo l’assedio era parso impossibile scendere a patto con Cavallotti, giudicato da molti troppo morbido nei confronti del dittatore. A ottobre però lo scioglimento del partito allarmò i socialisti, che decisero di sostenere la nascita della Lega della libertà promossa dai radicali: un «fascio» delle «forze devote alla vera libertà», «superiore ai partiti, alle scuole, alle tendenze personali o di gruppo» contro l’«opera violenta di uno spirito 64. Altobelli, ivi, p. 11441. 65. Riccardo Luzzatto, ivi, Tornata del 10 luglio 1894, p. 11467. L’onorevole Barzilai ricordò alla Camera la posizione assunta da Crispi e da Garibaldi in merito al disegno di legge sul domicilio coatto discusso dalla Camera nel 1875, ivi, p. 11446-7. 66. Relazione al ministero degli Interni, cit. in Casella, Democrazia, socialismo, movimento operaio a Roma (1892-1894), p. 351. 67. Sbriccoli, Dissenso politico e diritto penale in Italia tra Otto e Novecento, p. 611.
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squilibrato».68 Fu solo il primo passo di un avvicinamento progressivo, seguito dalla decisione dei socialisti di appoggiare le candidature degli affini nelle elezioni amministrative di Milano del 1895, giocate sul comune terreno dell’anticrispismo.69 Nel frattempo fuori dal parlamento il duello tra crispini e anticrispini continuò a dividere il paese. 3. La guerra di carta Gli anarchici e la propaganda contro il ministro dell’agonia Nel ’94 gli anarchici intensificarono la propaganda contro il governo, diffondendo volantini e numeri unici, spesso in arrivo dall’estero, contro lo stato d’assedio in Sicilia e i provvedimenti di pubblica sicurezza;70 dopo l’uccisione del presidente francese sostennero le ragioni dell’attentato e diramarono manifesti contro Carnot e il ghigliottinamento di Sante Caserio.71 Per combattere la censura, tentarono pure la collaborazione con 68. Così recitava il modulo di adesione alla Lega sequestrato dalla questura e ora in ACS, CC, Roma, b. 39, fasc. 665. 69. Sull’atteggiamento del gruppo socialista milanese e la nascita della Lega della libertà cfr. Fonzi, Crispi e lo “Stato di Milano”, pp. 219-257. Da parte sua, il governo sapeva di essersi alienato l’appoggio delle forze di Sinistra e cercò nuovi sostegni già dal gennaio del 1894, volgendosi verso il Vaticano. Si trattava di un cambio di rotta significativo, dettato dalla necessità di procurarsi appoggi in vista delle elezioni politiche dell’anno successivo e di quelle amministrative di Milano, roccaforte dell’opposizione radicale e socialista. Sulle manovre di avvicinamento ai cattolici si veda Ibidem. 70. A titolo di esempio, il 20 gennaio 1894 Crispi inviò una circolare a tutti i prefetti del Regno per informarli dell’imminente arrivo da Londra di un manifesto intitolato «Solidarietà alla Sicilia», inviato dal gruppo «Libera iniziativa», ACS, CC, Roma, b. 37, fasc. 650. Altre notizie su manifesti sequestrati dalla pubblica sicurezza si trovano in ACS, CC, Roma, bb. 34-35, fasc. 645. 71. Cfr. «À Carnot le tuer!», manifesto francese spedito da Sernicoli a Crispi il 29 giugno 1894 in cui si chiede vendetta per «le martyr Vaillant», MRR, b. 664, fasc. 16; «Un altro ghigliottinato», manifesto spedito da Londra e da distribuirsi il giorno dell’esecuzione di Sante Caserio, di cui diede notizia il prefetto di Bologna il 14 agosto 1894, ACS, CC, DSPP, b. 96, fasc. 566; «Déclaration de Caserio Santo», stampato proveniente da Londra e intercettato il 14 ottobre 1894, ACS, CC, Roma, b. 37, fasc. 650. Cfr. anche i cartellini anonimi rinvenuti nella città di Fano, in cui si esortava a imitare «Lega e Sante Caserio», cit. e riprodotti in Giuseppe Galzerano, Paolo Lega. Vita, viaggio, processo, “complotto” e morte dell’anarchico romagnolo che attentò alla vita del primo ministro Francesco Crispi, Salerno, Galzerano Editore, 2014.
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mondi politici affini: ne è una prova la lettera rinvenuta nell’abitazione di Lega, a seguito del suo arresto, in cui si parla della possibilità di destinare un sussidio ad alcuni giornali d’opposizione e anche del più ambizioso progetto di una pubblicazione quotidiana contro il governo coadiuvata dall’editore Sonzogno, che era stata abbandonata per motivi economici e che, nelle intenzioni del mittente, doveva essere rimpiazzata da una meno costosa ma altrettanto tenace campagna pubblicitaria «contro Crispi e contro l’Italia».72 Contro Crispi, e non contro il re. Il «ministro dell’agonia»73 infatti, che aveva «soffocato ferocemente» «i più giusti diritti»,74 fu il bersaglio favorito dai libertari che, oltre ad attentare due volte alla sua vita, gli spedirono una sfilza di minacce e intimidazioni.75 La predilezione non era casuale: più di quanto Crispi avrebbe voluto, gli anarchici si dimostrarono sensibili verso il mito carismatico che abilmente e instancabilmente costruiva attorno a sé stesso e questo gonfiò il loro odio per l’uomo che, come lui stesso ribadiva continuamente, incarnava meglio di chiunque il sistema di potere che desideravano abbattere. Sentendosi sotto attacco e temendo per la sua vita e per quella della sua famiglia, Crispi organizzò un servizio di sorveglianza attorno a Villa Lina e fece arrivare da Parigi una corazza impenetrabile da pugnale, sul modello di quella che aveva indossato Napoleone III.76 Al contempo intensificò il controllo sulla produzione a stampa, fece pedinare i capi del movimento e predispose una sorveglianza oculata dei sospetti, la loro schedatura e la diffusione di foto segnaletiche.77 72. Lettera di “77B” a Lega, 16 giugno 1894, ASR, Tribunale civile e penale, b. 6170. La lettera è citata anche da Diemoz, A morte gli anarchici, p. 89. 73. Così Emidio Recchioni definì Crispi nell’articolo Il regno del terrore pubblicato sul suo giornale, «L’art. 248», il 28 gennaio 1894, cit. ivi, p. 76. 74. Manifesto anarchico spedito da Londra da parte del «Gruppo Solidarietà», 1 marzo 1894, ASR, Serie Questura, b. 58, fasc. 239. 75. La corrispondenza tra prefetti, questori e altri su possibili progetti di attentati anarchici o minacce contro Crispi si trova in ACS, CC, DSPP, b. 96, fasc. 566. A titolo di esempio uno sgrammaticato messaggio anonimo senza data per Crispi: «A Milano ai [sic] vinto perché avevi il mestolo in mano ma a Livorno avrai la rivincita, il mestolo l’abbiamo noi. L’anarchia», ivi. 76. Cfr. Corrispondenza con il prefetto di Napoli Municchi, estate 1894, ACS, DSPP, b. 96, fasc. 566 e l’ambasciatore italiano in Francia Costantino Ressman a Cardella, 14 luglio 1894, ACS, PC, b. 8, fasc. 97. 77. Cfr. ACS, CC, Roma, b. 47. Sulla polizia e gli strumenti impiegati per la repressione del dissenso cfr. Giovanna Tosatti, La repressione del dissenso politico tra l’età liberale e il fascismo. L’organizzazione della polizia, in «Studi storici», 1 (1997), pp. 217-255.
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In altri ambienti, più difficili da sottoporre a censura, l’immagine del tiranno si ripropose con insistenza, avvicinando il mondo anarchico a mondi altri, sotto la comune bandiera della lotta anticrispina. «Italia o Crispalia?» Lungo tutto il 1894 il giornalismo nazionale e locale fu assorbito dallo scontro tra oppositori e sostenitori di Crispi e si schierò più o meno apertamente con una delle due parti. I fogli governativi non risparmiarono elogi per il presidente e per l’opera necessaria che aveva compiuto assumendo su di sé le responsabilità ignorate da Giolitti.78 Se per questi i provvedimenti eccezionali erano strumenti di legittima difesa, necessari a evitare il propagarsi dell’anarchismo e la distruzione della società,79 per gli altri erano invece la conseguenza funesta di una «pazza paura ridicola»;80 non mancò neppure la voce del giornalismo cattolico che, a seguito dello scioglimento del partito socialista, parlò di «razzia dei circoli socialisti», di «strage degli ugonotti» e delle deleterie conseguenze che avrebbe avuto il conflitto tra i rivoluzionari del passato e quelli del presente. 81 La battaglia politica tra i due schieramenti aveva un appeal notevole sul grande pubblico e stimolò anche la produzione di pamphlet e libelli a stampa. Crispi fece pubblicare per la Tipografia della Camera dei Deputati le sue orazioni parlamentari sullo stato d’assedio e, per mezzo di Pisani Dossi, convinse Sernicoli a fare delle sue relazioni sugli anarchici un volume edito dalla prestigiosa casa editrice Treves.82 78. Sulle responsabilità di Giolitti cfr. La responsabilità, in «Fanfulla», 7 gennaio 1894; così anche Vincenzo Riccio, Responsabilità, in «Gazzetta di Venezia», 9 gennaio 1894; Le responsabilità di Giolitti nella insurrezione di Sicilia, in «Gazzetta dell’Emilia», 6 gennaio 1894, ACS, CC, DSPP, b. 92, fasc. 555. 79. Si vedano le relazioni del prefetto di Venezia a proposito degli articoli pubblicati sulla «Gazzetta di Venezia» e quella del prefetto di Ferrara sulla posizione assunta dalla «Gazzetta di Ferrara», ACS, CC, Roma, b. 38, fasc. 663. 80. Così scrisse la «Gazzetta piemontese» secondo le parole del prefetto di Torino a Crispi, ivi. 81. Una razzia, in «L’Osservatore romano», 24 ottobre 1894 e La strage degli ugonotti, in «La Vera Roma», 28 ottobre 1894, cit. in Casella, Democrazia, socialismo, movimento operaio a Roma (1892-1894), p. 358 note 298 e 300. 82. Francesco Crispi, Lo stato d’assedio, Roma, Tipografia della Camera dei deputati, 1894, ACS, CC, RE, b. 9; La bozza di Sernicoli, L’anarchia e gli anarchici (Milano, Treves,
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La pubblicistica d’opposizione non fu da meno. Nel 1894 uscì per la Tipografia degli Operai di Milano La Crispiade o Doncicceide ossia Le glorie di Don Ciccio di Giuseppe Brandini: l’opuscolo in versi sbeffeggiava le argomentazioni addotte dal ministro a sostegno delle misure eccezionali, la politica africana, inutilmente dispendiosa, e la guerra doganale con la Francia. «L’uomo olimpico» – ironizzava l’autore nella conclusione – sarebbe arrivato a proporre «un decreto-legge per la castrazione del pensiero».83 Opera di spirito pari a quella di Brandini è pure Italia o Crispalia? pubblicata l’anno seguente dal noto Stabilimento Quadrio a firma di un tale Dott. Calce. Nel testo, le teorie lombrosiane tanto care a Crispi venivano impiegate come un escamotage satirico: l’autore riportava infatti un famigerato esame craniometrico effettuato sul presidente i cui risultati testimoniavano la presenza di diverse anomalie. Nonostante ciò – spiegava – nell’Italia di fine secolo il siciliano era «più forte assai di Cesare» grazie al «sistema moderno della suggestione ipnotica» con cui aveva soggiogato il parlamento e l’opinione pubblica.84 Come si vede, l’immaginario antimitico diveniva più articolato e, sollecitato dalle difficoltà politiche del momento, si arricchiva di nuove caratterizzazioni: Crispi «capo della compagnia che recita a Montecitorio», «carnefice di tanta gente in Sicilia», corrotto, prepotente e, di nuovo, «mormone, ingannatore fraudolento di donne». Tra i vari dispregiativi, l’aggettivo vecchio torna con molta frequenza, alternato al più schietto «rimbambito», a rimarcare una distanza anche generazionale tra gli uomini al potere e una parte della società: negli anni Novanta molti giovani guardavano ormai verso nuovi lidi, attratti soprattutto dagli ideali socialisti, e mostravano insofferenza e «melliflua pietà» verso chi rimaneva arroccato ai tempi lontani del Risorgimento e ai suoi modelli etico-valoriali.85 E, dunque, anche il patriottismo divenne un campo di tensione: «a forza di dire, e di 1895) si trova non a caso anche in ACS, Pisani Dossi, b. 28, fasc. A. Sul ruolo di Pisani Dossi nella vicenda cfr. Diemoz, A morte il tiranno, pp. 146-153. 83. Giuseppe Brandini, La crispiade o Doncicceide ossia Le glorie di Don Ciccio il grande, Milano, Tipografia degli operai, 1894, p. 78. 84. Dott. Calce, Italia o Crispalia?, pp. 19 e 96. 85. Cfr. I fischi di ieri sera, in «La Capitale», 7-8 maggio 1894, cit. in Casella, Democrazia, socialismo, movimento operaio a Roma (1892-1894), p. 332 e Fischiato via, in «L’Italia del popolo», 7-8 maggio 1894, ACS, CC, Roma, b. 37, fasc. 655. Sulla forza attrattiva del primo socialismo cfr. Paolo Spirano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Torino, Einaudi, 1958.
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far dire, ch’egli ha fatto l’Italia, alcuni cominciano a crederlo» – ironizzò il Dott. Calce.86 Neppure la divisa del garibaldino bastò più a legittimare i metodi e le scelte del Crispi ministro; così scrisse nel maggio del ’94 «L’Italia del Popolo»: Ma il fatto vero è che egli partecipò ad una sola impresa di guerra, i Mille, e vi partecipò da borghese. Non gli si vuol togliere il merito per questo. Quantunque Garibaldi non lo dica nelle sue memorie, vogliamo supporre che Crispi sia stato il più bravo di tutti. Ma e poi? Ha egli, insieme con la pensione dei Mille, acquistato il diritto a rompere continuamente le scatole al prossimo con le sue fanfaronate? L’Italia – per sua gloria – ha avuto una plejade di eroi. Ma erano dei modesti. Lui è il più insopportabile dei fanfaroni.87
In questo scontro di carta, il giornalismo lombardo assunse un ruolo di primo piano, in particolar modo nell’autunno del ’94 quando si pose a supporto della Lega della libertà e «La Lombardia» ne pubblicò il manifesto costitutivo; anche «Il Secolo» e «Italia del Popolo» si schierarono a favore, imitati dai socialisti «Lotta di Classe» e «Battaglia». Nonostante la censura, le adesioni si contarono a migliaia e i quotidiani andarono a ruba.88 Accanto alle testate più diffuse vi erano poi i quotidiani e i periodici minori, che sopravvivevano a fatica, fiaccati della penuria dei finanziamenti e della censura governativa, e che molto dovevano alla dedizione di redattori e giornalisti, spesso chiamati a difendersi nelle aule di tribunale. Questa stampa dalle tirature modeste conobbe una significativa crescita negli anni Novanta, soprattutto al Nord, e funzionò da cassa di risonanza per le idee socialiste, operaiste e anarchiche nei centri piccoli e piccolissimi del Regno, diffondendo le ragioni della protesta antigovernativa tra i ceti meno abbienti.89 86. Dott. Calce, Italia o Crispalia?, p. 19. 87. Ben altri fischi, in «L’Italia del popolo», 7-8 maggio 1894, ACS, CC, Roma, b. 37, fasc. 655. 88. La corrispondenza tra Crispi e i prefetti a proposito della costituzione della Lega si trova in ACS, CC, Roma, b. 39, fasc. 665. 89. Nel Prospetto della stampa socialista dell’aprile 1894 la pubblica sicurezza censì 35 testate di cui solo tre pubblicate al Sud, ACS, CC, Roma, b. 20, fasc. 448. Sulla censura e il controllo del giornalismo d’opposizione cfr. anche ACS, CC, Roma, b. 47, fasc. 738. Sulla stampa operaia e socialista cfr. Patrizia Audenino, Cinquant’anni di stampa operaia. Dall’Unità alla guerra di Libia, Milano, Guanda, 1976; Pantaleone Sergi, Comunicare il socialismo. La stampa del Psi (1892-1914) attraverso i congressi di partito, in «Humanities», 2, 4 (2013), pp. 78-107.
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Considerato che la roccaforte dell’opposizione era dislocata al Nord non sorprende che da qui arrivassero i giudizi più severi sulla condotta politica di Crispi e che, saldandosi alla tradizionale vulgata sul Mezzogiorno, riproponessero spesso l’immagine del brigante o – secondo le parole di Turati – del «picciotto di sgarro», apprezzato dalla classe borghese proprio per l’impulsività e la mancanza di scrupoli.90 Come il mito positivo, anche le narrazioni delegittimanti penetrarono nel tessuto sociale e divennero parte dell’immaginario collettivo: vale la pena citare l’anonimo che, specificando di non essere un anarchico «ma un semplice contribuente», si rivolse a Crispi dopo l’attentato di Paolo Lega definendolo «vecchio pazzo» e avvertendo: «Se un Lombardo ha saputo ammazzare un innocente come Carnot un altro Lombardo saprà bene pugnalare voi che siete stato e siete tuttora la rovina dell’Italia».91 Il siciliano, dal canto suo, rispondeva alle provocazioni degli avversari attraverso l’impiego di stereotipi sulle regioni del Nord, tirando in ballo i milanesi e tacciandoli di essere materialisti e anti-patriottici: «Mazzini non poté averli mai con sé, e sta in ciò la causa dell’insuccesso del 6 febbraio 1853»92 – scrisse tra i suoi appunti. Da una parte e dall’altra, la rilettura della storia patria poteva servire per screditare l’avversario. Anche Guiccioli annotò nel suo Diario: Quello è un ambiente che non comprende la politica di un vero uomo di Stato. I milanesi sono spesso brava gente, attivi, energici, abili negli affari, ma poco dotati di tatto politico e perlopiù incapaci di sollevarsi a una visione superiore delle cose e delle idee. Sono sempre gli stessi che hanno preso a fucilate Carlo Alberto e fischiato Wagner e Boito.93
La tensione, in costante aumento, non poteva esaurirsi in una guerra di parole, ma si tradusse in un conflitto vero e proprio, cui fecero da sfondo le piazze della capitale e di molte città del Regno. 90. Filippo Turati, I fondamenti dello Stato borghese e l’abolizione del diritto di voto, in «Critica sociale», 16 aprile 1894, p. 113, cit. in Manacorda, Dalla crisi alla crescita, p. 217 nota 37. 91. Anonimo a Crispi, s.d., ACS, CC, DSPP, b. 94, fasc. 565. 92. Crispi, appunto autografo, s.d., MRR, b. 668, fasc. 3. 93. Guiccioli, 7 maggio 1894, ora in Diario del 1894, in «Nuova Antologia», CDXIII (16 gennaio 1941), pp. 64-79, p. 74. Su questo stereotipo negativo cfr. ad esempio Tu l’as voulu, in «Il Mattino», 19-20 giugno 1894.
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4. Piazze crispine e piazze anticrispine L’assedio La sera dell’undici gennaio un agente di polizia di Roma notificò ai suoi superiori di essersi per caso imbattuto, lungo Ponte Sisto, in un pezzo di carta su cui era scritto a matita “abbasso Crispi” e di averlo prontamente staccato dal muro.94 La sua accortezza però valse quanto una goccia nel mare: l’onda d’urto dell’assedio aveva infatti scosso le forze della Sinistra, che da inizio gennaio si muovevano in molte città del Regno nel tentativo di dar vita a riunioni, comizi e proteste per dimostrare solidarietà ai «martiri di Sicilia».95 Nella capitale, dove gli animi erano particolarmente agitati, vennero predisposte misure di sicurezza straordinarie con lo spostamento di interi battaglioni dell’esercito, ma in più occasioni lo scontro fu inevitabile. Già dai primi giorni di gennaio nei principali teatri romani vennero lanciati cartellini inneggianti ai Fasci e tra le strade dei rioni comparvero manifesti e fogli volanti su cui si poteva leggere «abbasso Crispi» come pure «W Crispi / W il Re / Morte a De Felice». Negli stessi giorni, per rispondere agli oppositori del governo, l’associazione «Sempre Avanti Savoia» distribuì a via del Corso un manifesto in favore del presidente e dello stato d’assedio.96 La tensione arrivò al suo culmine il 7 gennaio quando si verificarono gravi scontri nella zona di Trastevere fra un centinaio di manifestanti e le forze della pubblica sicurezza: si gridò «viva la rivoluzione sociale, viva i martiri di Sicilia, abbasso il parlamento, abbasso all’esercito, abbasso Crispi» e nel tafferuglio partì qualche colpo d’arma da fuoco.97 94. Cfr. Agente di polizia al comandante della Guardie di Città - Brigata mobile, 11 gennaio 1894, ASR, b. 56, fasc. 233. 95. Come si scrisse su una bandiera apparsa il 6 gennaio a Roma nel cantiere del Palazzo di giustizia. Rapporto dell’ispettore capo Tavassi al prefetto Cavasola, 9 gennaio 1894, ivi. Un’enorme documentazione sulla gestione della sicurezza pubblica e sui disordini avvenuti tra il 1893-1896 si trova in ACS, CC, Roma, bb. 34-35-36, fasc. unico 645. 96. I volantini sono conservati in ASR, Serie Questura, b. 56, fasc. 233. 97. Rapporto dell’ispettore di pubblica sicurezza di Trastevere al questore di Roma, 8 gennaio 1894, ivi. Quel giorno a Roma si svolse la riunione del circolo repubblicanocollettivista «La Giustizia sociale» che contò l’adesione di quaranta associazioni politiche e operaie. Durante l’incontro venne deciso uno sciopero di due giorni per i fatti di Sicilia e si chiese alle associazioni aderenti di esporre per un mese le bandiere abbrunate. Nelle stesse ore si radunarono alla «Giuditta Tavani Arquati» esponenti delle associazioni democratiche
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Passato il fermento per l’assedio, le manifestazioni, gli scioperi e anche la detonazione di alcune bombe si susseguirono, dando filo da torcere alla pubblica sicurezza,98 e il nome di Crispi continuò a dividere l’Italia. Il 6 maggio, quando il presidente si recò a Milano in occasione dell’inaugurazione delle Esposizioni Riunite, alcuni manifestanti lo fischiarono: secondo il questore si trattava di un centinaio di repubblicani e socialisti guidati dai giornalisti de «Il Secolo», de «L’Italia del Popolo» e da Turati.99 I fogli governativi sminuirono l’accaduto, opera di pochi giovani armati di soli fischietti, e pubblicarono i telegrammi di sostegno arrivati al domicilio di Crispi che, al rientro da Milano, fu accolto da una calorosa dimostrazione dei cittadini romani a Piazza Colonna.100 Molto diverso fu il giudizio di Turati che in una lettera a Friedrich Engels scrisse: Notizie del nostro grandissimo uomo F. Crispi che abbiamo sonoramente, epicamente, fischiato, in risposta allo stato di assedio e a tutto il resto. Certo non sono questi che i minori episodi e più comici della gran lotta, ma anche questo, credo, vi farà piacere. Furono mezzo migliaio di fischi socialisti, cui se ne aggiunse qualche centinaio di repubblicani. Come effetto musicale è stato stupendo. Ora, poi, attendiamo i fulmini del nume.101
Appena tre settimane dopo i venti dell’anticrispismo si sollevarono di nuovo, e con più forza, quando si chiuse a Palermo il processo contro gli undici dirigenti dei Fasci arrestati nei giorni successivi alla proclamazione dello stato d’assedio. Tra loro vi erano Bernardino Verro, Garibaldi Rosario Bosco, Giacomo Montalto, Nicola Barbato e Giuseppe De Felice Giuffrida, la cui popolarità contribuì a dare risonanza mediatica all’evento. Il 30 maggio il tribunale militare a cui erano stati deferiti lesse la durissima sentenza per cospirazione contro lo Stato ed eccitamento alla romane, in una riunione presieduta da Antonio Fratti e a cui parteciparono importanti esponenti del mondo radicale e socialista tra cui Socci, Lollini e Albani. I partecipanti fecero proprio l’ordine del giorno votato da «La Giustizia sociale» e promossero una raccolta di fondi da inviare in Sicilia. Furono probabilmente alcuni fuoriusciti dalla riunione de «La Giustizia sociale» a ingaggiarsi negli scontri con la pubblica sicurezza. 98. Cfr. ACS, CC, Roma, b. 37, fasc. 651. 99. Cfr. Copia del rapporto inviato dal gabinetto della questura di Milano alla prefettura, 8 maggio 1894, ACS, CC, Roma, b. 37, fasc. 655. 100. Cfr. L’Esposizione di Milano, in «La Riforma», 6 maggio 1894 e Perodi, Roma Italiana, p. 511. 101. Corrispondenza F. Engels - F. Turati 1891-1895, [1958], cit. in Fonzi, Crispi e lo “Stato di Milano”, p. 19, nota 38.
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guerra civile: dodici anni per Verro, Garibaldi Bosco, Barbato e Montalto, oltre a due anni di sorveglianza speciale. A De Felice, condannato anche per aver vilipeso le istituzioni dello Stato in un discorso dell’ottobre del 1893 a Casteltermini, toccò la condanna più severa: diciotto anni di carcere e tre di sorveglianza speciale. Per tutti valeva anche l’interdizione dai pubblici uffici. Il giorno dopo a Roma scoppiarono due piccoli ordigni nel Palazzo di Grazia e Giustizia e al ministero della Guerra provocando solo danni materiali. Le forze dell’ordine si misero all’opera per sventare manifestazioni ostili al governo e per rafforzare la sicurezza nelle vie che Crispi percorreva quotidianamente dalla sua abitazione fino a Palazzo Braschi, ma le detonazioni romane erano solo l’inizio di una protesta che attraversò la penisola per dieci giorni. In diverse città si organizzarono sottoscrizioni a favore delle famiglie dei condannati, molti inviarono telegrammi di solidarietà alla figlia di De Felice, nei teatri comparvero nuovamente i cartellini lanciati dalle balconate, da Nord a Sud si inneggiò a De Felice e si augurò la morte al «vecchio rivoluzionario di Crispi».102 Il malcontento si sgonfiò intorno al 10 giugno, con qualche focolaio sparso che ancora resisteva e di cui le forze dell’ordine diedero prontamente notizia, come fece il questore di Roma Sironi informando che a Genzano, uno tra i piccoli ma rumorosi paesi del circondario romano, si insisteva ancora coi “viva” e cogli “abbasso”:103 erano trascorsi quindici giorni dalla sentenza e il nome di De Felice continuava a riecheggiare. A distogliere l’opinione pubblica dalle sorti del leader catanese intervenne però il gesto di Paolo Lega, un altro nome destinato a percorrere in lungo e largo la penisola nell’estate di fuoco del ’94. La paura Il 16 giugno, terminato il pranzo domestico, Crispi si stava recando a Palazzo Braschi, insieme al capo di gabinetto Pinelli. Quando la carrozza lasciò via Gregoriana per Capo le Case, un individuo, Paolo Lega, sparò 102. Così si scrisse su un manifesto rinvenuto dalla polizia dentro il cantiere di Porta Maggiore a Roma di cui diede notizia il questore Sironi al ministero dell’Interno, 2 giugno 1894, ASR, Serie Prefettura-Gabinetto, b. 470, fasc. 7.3. Una mappa delle manifestazioni svoltesi dal 31 maggio al 10 giugno in tutta la penisola si trova in una bozza conservata in ACS, CC, Roma, b. 46, fasc. 727. 103. Sironi al ministero dell’Interno, 15 giugno 1894, ASR, Serie Prefettura-Gabinetto, b. 470, fasc. 7.3.
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un colpo di pistola che entrò da uno sportello e uscì dall’altro. Mentre questo veniva tratto in arresto con l’ausilio di alcuni passanti, il presidente, illeso, si diresse verso la Camera dove i parlamentari lo accolsero con un applauso unanime e commosso. Era il secondo attentato subito da Crispi, ma questa volta la notizia fece più rumore: rilanciata già da qualche edizione serale, fu l’argomento di punta di tutti i quotidiani nazionali nei giorni successivi, che dedicarono le prime pagine al resoconto dell’accaduto, alla descrizione dell’attentatore e alle interviste dei testimoni diretti, alcuni dei quali si presentarono spontaneamente nelle redazioni giornalistiche per raccontare la loro versione.104 Sulle cause dell’attentato i quotidiani fornirono interpretazioni diverse: per i filogovernativi la violenza era stata indotta dalla martellante propaganda anticrispina degli ultimi mesi, mentre di altro parere furono i giornali di area radicale, democratica e socialista che lessero l’episodio come una conseguenza del disagio socio-economico dei ceti proletari.105 Al netto di ciò, i più furono concordi nel condannare il gesto di Lega, che anzi convinse gli incerti della necessità di misure energiche contro l’anarchismo.106 Soprattutto, il sangue freddo dimostrato dal presidente, che era rimasto composto, quasi impassibile di fronte allo sparo, tanto che – secondo alcune ricostruzioni – avrebbe tentato di difendersi da solo estraendo la sua pistola,107 rivitalizzò il mito del Crispi titanico, imbattibile nonostante l’età, grazie a una tempra fuori dal comune. Come scrisse Guiccioli nel suo Diario: «Si ha un bel dire, ma quell’uomo esce dal comune livello, superando di gran lunga tutti coloro che in questi ultimi anni ci governarono e vorrebbero oggi ritornare a governarci».108 104. All’inizio circolarono notizie confuse sulla provenienza e il nome di battesimo di Lega Cfr. Un attentato a Crispi, in «La Nazione», 17 giugno 1894; Un falegname spara contro Crispi una pistolettata senza colpirlo, in «L’Italia del popolo», 16-17 giugno 1894; Pietro Lega, in «Don Marzio», 17-18 giugno 1894; L’on. Crispi dopo l’attentato. Pietro Lega in carcere, in «Gazzetta Piemontese», 18-19 giugno 1894. Un’intervista a un testimone diretto fu pubblicata in L’attentato a Crispi. Altri particolari, in «Il Messaggero», 18 giugno 1894. 105. Su queste due differenti posizioni della stampa si veda ad esempio La difesa, in «Corriere di Napoli», 9 luglio 1894 e L’attentato contro Crispi, in «Il Resto del Carlino», 17 giugno 1894. 106. Anche i giornali radicali di Roma ammorbidirono le critiche verso Crispi e arrivarono a chiedere misure severe contro la violenza, cfr. La democrazia e l’ordine, in «La Capitale», 26-27 giugno 1894. 107. L’attentato a Crispi, in «Il Corriere della Sera», 17-18 giugno 1894. 108. Guiccioli, Diario del 1894, p. 78.
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Nelle città del Regno si scese in piazza per protestare contro l’Estrema Sinistra, qualcuno diede alle fiamme le copie de «Il Secolo».109 Il 18 giugno in piazza Colonna a Roma si radunò un corteo; «La Riforma» commentò: «Gli evviva e gli applausi risuonarono altissimi. Quella folla imponente, in cui si notavano anche non poche signore con tanti cappelli e fazzoletti […] rappresentava uno spettacolo originalissimo».110 Crispi ricevette moltissimi telegrammi (18 mila secondo alcuni quotidiani).111 Oltre ad ambasciatori e ministri, sindaci, prefetti e funzionari scrissero anche associazioni di varia natura e privati cittadini, tra cui diverse donne «colle lagrime agli occhi»;112 da Foggia, Luisa Corseni si firmò «ammiratrice» e chiese perdono per la scrittura: «non so spiegarmi bene che non sono tanto istruita». Da Taranto Vincenzo Di Beniamino inviò una missiva sgrammaticata cui affidò le proprie congratulazioni di «povero operaio» al «patriota senza macchia e vero cooperatore delle classi lavoratrici». Vittorugo Foschi, un bambino di sei anni, inviò una sua foto con dedica: «babbo mi ha raccontato il fatto. Adesso non posso, perché ho sei anni soli; ma quando sarò grande, se lo incontro, gli voglio dare uno schiaffo a quel brutto di Lega».113 Molti nutrivano la convinzione che il fallimento dell’attentato fosse opera della provvidenza che aveva risparmiato l’esistenza «tanto cara […] dell’Uomo illustre che […] strenuamente combatté per mantenere l’Unità italiana, cui fanno onta iniqui sobillatori».114 Lega fu additato come un «miserabile» «mandato dalla setta nera» dei «forsennati» e meritevole della forca.115 Qualcuno propose un ragionamento più ampio, come Vincenzo Marroni da Testaccio, che ricordò al presidente la necessità di immediate riforme economiche perché – proseguì – 109. Castellini, Crispi, p. 282. 110. La dimostrazione di ieri sera a Roma, in «La Riforma», 18 giugno 1894. 111. Oltre a «La Riforma», si veda Il numero dei telegrammi, in «Il Diritto», 19 giugno 1894 e Dopo l’attentato a Crispi, in «Il Corriere di Napoli», 19 giugno 1894. 112. Amelia Venchioni a Crispi (da Bologna), 17 giugno 1894, ACS, DSPP, b. 94, fasc. 565. 113. Luisa Corseni di Emilio, 17 giugno 1894; Vincenzo di Beniamino, 18 giugno 1894; Vittorugo Foschi, s.d, ivi. 114. Un artigiano di Certano a Crispi, 18 giugno 1894 e Filippo Zazzarone (da Roma), s.d., ivi. 115. Lettera di un’intera famiglia di Marino Laziale a Crispi, 19 giugno 1894 e Agenore Iacchi (da Grosseto), 18 giugno 1894, ivi.
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il paese, il popolo – quello dal cuore semplice, di mente non aperta, di limitata cultura, il quale non ha modo di approfondire le questioni che lo riguardano per emettere un giudizio equo – ha fisso in mente che Voi, Voi solo, siete la rovina d’Italia, la sua dannazione; che tolto voi dalla scena politica e dal supremo governo, le cose pubbliche andrebbero meglio e si starebbe in ventre di vacca.116
Altri mittenti chiesero invece un’azione risoluta da parte di tutti i governi d’Europa per «sradicare la mala pianta»; Virginia Pincetti scrisse da Roma: Permetta vostra eccellenza che io osservi che non possono continuare le cose, allo stato presente. Gli anarchici, i socialisti, i ladri, e gli assassini progrediscono giornalmente con un’audacia senza pari. Impossibile avere più pace in Italia, senza radicali cambiamenti. Eccellenza! A grandi mali, occorrono grandi rimedi, consigliate al re, di fare un colpo di stato, siate il suo primo ministro a vita e l’Italia allora rivivrà.117
«La Riforma» non perse occasione per dare eco a questa prova di solidarietà del paese e dell’Europa, pubblicando per una settimana stralci di articoli tratti dai principali giornali nazionali in cui si esprimeva solidarietà al «vecchio patriota che da mezzo secolo combatte e lavora per il suo paese, che la doppia maestà degli anni e della gloria dovrebbe rendere sacro ad ogni italiano».118 Riportò pure i testi di molti telegrammi, in un’apposita sezione della prima pagina titolata La protesta nazionale. L’attentato di Lega fu di fatto una cura ricostituente per il governo che di lì a poco sarebbe riuscito a far approvare le leggi antianarchiche, mentre gli oppositori, colti da «un’insana frenesia» – come scrisse Stillman – persero momentaneamente forza.119 In nome dell’Italia Nonostante la tregua del giugno, le voci anticrispine non si tacitarono mai completamente e la polemica trovò espressione, come già era accaduto negli anni precedenti, nel momento commemorativo. Durante l’ultimo 116. Vincenzo Marroni (da Testaccio, Roma), 17 giugno 1894, ivi. 117. Lettera di anonimo a Crispi, s.d. e Virginia Pincetti (da Genova), 27 giugno 1894, ivi. 118. L’attentato contro Crispi, in «La Riforma», 18 giugno 1894. 119. Cit. in Duggan, Creare la Nazione, p. 788.
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mandato gli appuntamenti del calendario patriottico, ufficiale e di parte, divennero per gli oppositori un buon pretesto – come scrissero i prefetti a Crispi – «non tanto per commemorare» «quanto per svolgere [le] solite teorie socialiste» e «infervorare così [i] presenti», «flagellando l’immoralità dell’attuale governo».120 Nel 1894 l’anniversario della morte di Garibaldi cadde solo tre giorni dopo la fine del processo dei Fasci siciliani e in diverse città le forze di Sinistra boicottarono le celebrazioni ufficiali dando vita a proteste e a commorazioni antagoniste. A Pavia repubblicani e socialisti deposero una corona sotto il monumento dell’eroe dei Mille, inneggiando ai «galeotti di Sicilia», a Bergamo e a Genova si interruppe l’esecuzione della banda militare, a Cremona si intonò l’Inno dei lavoratori e dalle logge del duomo di Milano vennero lanciati cartellini antigovernativi al passaggio del corteo. A Roma, durante la manifestazione commemorativa si gridò “evviva De Felice” e “abbasso Crispi”. Giunti al Campidoglio un gruppo di operai e studenti esortò l’onorevole Agnini a tenere un discorso «in senso socialista».121 Le cose andarono nello stesso modo l’anno dopo quando partì da Piazza del Popolo una dimostrazione che coinvolgeva, tra gli altri, anche il circolo «Francesco Crispi». Quel nome, ormai troppo divisivo, indusse l’associazione degli studenti democratici, quella anticlericale e quelle intitolate a «Mazzini» e a «Giuditta Tavani» a piegare le loro bandiere e a ritirarsi. Si trattava di una protesta - scrisse «Il Messaggero» riportando le parole di un presente - «contro il nuovo Caligola in camicia rossa».122 Garibaldi, la cui trasfigurazione mitica di parte liberale nelle vesti del rivoluzionario disciplinato non poteva piacere a Sinistra, diveniva in questi luoghi il simbolo della libertà, «terror dei tiranni» e «sollievo dei derelitti» e le sue gesta un modello di azione da imitare nel clima repressivo di fine secolo «tra infuriare di losche passioni e il gelido scettiscismo che dilaga».123 120. Relazioni del prefetto di Rovigo e del prefetto di Macerata al ministro dell’Interno a proposito della commemorazione di Oberdan, rispettivamente del 21 dicembre 1893 e 24 dicembre 1894, ACS, CC, Roma, b. 37, fasc. 646. 121. Elenco delle manifestazioni pubbliche avvenute nel Regno a seguito della condanna di De Felice e compagni, ACS, CC, Roma, b. 46, fasc. 727 e relazione di Sironi, 3 giugno 1894, ASR, Serie Prefettura-Gabinetto, b. 505, fasc. 10.5. 122. Cfr. Sironi al ministero dell’Interno, 2 giugno 1895, ASR, Serie Prefettura-Gabinetto, b. 505, fasc. 10.8 e In memoria di Garibaldi, in «Il Messaggero», 2-3 giugno 1895. 123. Manifesto «Commemorazione di Giuseppe Garibaldi» diffuso in occasione delle previste celebrazioni del 10 giugno 1895 a Civitavecchia, ASR, Serie Prefettura-Gabinetto, b. 505, fasc. 10.8.
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Crispi sorvegliò, ancor più che in passato, il momento celebrativo, vietando la maggior parte delle manifestazioni e sequestrando volantini e inviti alla cittadinanza. D’altra parte, non aveva intenzione di lasciare la memoria del Risorgimento in mano ai suoi detrattori e si dedicò all’organizzazione del 20 settembre del 1895, che era stato da poco proclamato giorno festivo agli effetti civili.124 L’anniversario della breccia di Porta Pia mobilitava ogni anno una straordinaria partecipazione popolare, ma dava anche adito a pericolosi sdoppiamenti celebrativi tra manifestazioni ufficiali ed eventi promossi dal milieu repubblicano.125 Occorreva dunque una gestione più che efficace, che sapesse coordinare le molte iniziative, facendole confluire in un evento unitario e nazional-popolare. Il comitato generale per l’anniversario della liberazione di Roma si mise presto al lavoro e durante l’estate nella città – scrisse Emma Perodi – «non si parlava d’altro». Nonostante i problemi di finanziamento e qualche battuta d’arresto, si riuscì a costruire un calendario celebrativo molto ricco: dal 15 settembre la capitale, percorsa in lungo e largo da bande e orchestre, fece da sfondo a un giubileo patriottico imponente, che si chiuse il 2 ottobre, nel giorno dell’anniversario del plebiscito del 1870.126 Alle manifestazioni culturali, che contarono la presenza di associazioni grandi e piccole, si intervallarono le inaugurazioni dell’imponente monumento equestre di Garibaldi sul Gianicolo, della colonna con la Vittoria in bronzo dorato a Porta Pia e delle statue di Cavour e Minghetti. 124. La documentazione inerente al progetto di legge e al voto di Camera e Senato si trova in ACS, CC, Roma, b. 41, fasc. 675. Sull’organizzazione del 20 settembre del 1894 e 1895 e sull’atteggiamento degli oppositori al governo cfr. ACS, CC, Roma, b. 40, fasc. 672 ss e ivi, b. 41, fasc. 677 ss. 125. Cfr. Ridolfi, Le feste nazionali, p. 38. 126. Il 15 settembre venne inaugurato il «III Concorso Ginnico Nazionale» e tre giorni dopo la seconda edizione della gara del tiro a segno nazionale; gli atleti vincitori della gara vennero premiati il 2 ottobre. Sul 20 settembre 1895 cfr. Bruno Tobia, Una patria per gli italiani. Spazi, itinerari, monumenti nell’Italia unita (1870- 1900), RomaBari, Laterza, 1991, pp. 143 ss; Ilaria Porciani, Stato, statue, simboli: i monumenti nazionali a Garibaldi e a Minghetti del 1895, in «Storia, Amministrazione, Costituzione», 1 (1993), pp. 211-242; Ridolfi, Le feste nazionali, pp. 38-53; Laura Francescangeli, Il Comitato generale per solennizzare il XXV anniversario della liberazione di Roma ed il suo archivio, in «Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée», 109 (1997), pp. 185-276.
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Il momento più importante fu quello dello scoprimento della statua di Garibaldi, opera terminata in tutta fretta da Emilio Gallori, alla presenza dei veterani garibaldini, dei reali e di una fiumana di persone. Crispi tenne un’orazione e sfruttò il momento per riavvicinare le forze della Sinistra dopo la dolorosa rottura consumatasi tra l’assedio e le leggi eccezionali. La stagione di collaborazione col Vaticano, a cui Crispi aveva dedicato le sue energie nell’anno precedente, si era conclusa positivamente con la vittoria dei clerico-moderati nelle amministrative di Milano, ma aveva pure mostrato i suoi limiti. Il presidente non aveva potuto concedere troppo al papato e questi, dal canto suo, aveva ribadito l’impossibilità di superare il non expedit, con una chiara presa di posizione di Leone XIII nel maggio dello stesso anno, qualche giorno prima delle elezioni politiche. La partecipata inaugurazione sul Gianicolo, sotto la statua dell’eroe che guarda verso il Vaticano, dove «ringhia la lupa cruenta», fu l’occasione per rinverdire una posizione anticlericalista. Alle parole di Crispi fece eco il numero speciale pensato dalla redazione de «La Riforma» che, prendendo in prestito i versi della commedia dantesca, parlò dell’impossibilità di far coesistere il potere temporale con la società progressista.127 Non solo. Nel suo discorso Crispi indirizzò un chiaro messaggio alle forze della Destra, escludendo Cavour dai fattori del Risorgimento. Mentre strizzava l’occhio alla Sinistra, si fece protagonista assoluto dell’evento, riproponendo, una volta di più, la divisa del «consigliere dell’eroe»; grida di “viva Crispi, viva il baluardo dell’Italia” accompagnarono il corteo verso il Gianicolo fino al momento dello scoprimento della statua, che il giornale crispino descrisse come «un generale delirio, che invase l’anima».128 Se l’enorme partecipazione popolare certificò la riuscita della celebrazione, l’«apoteosi nazionale» di cui parlò la stampa governativa nascondeva invero diversi elementi di debolezza. Non solo fu necessario rafforzare la presenza dell’esercito a Roma, con lo scopo di reprimere possibili proteste ma, soprattutto, si dovette fare i conti con molte assenze. Della famiglia Garibaldi solo Stefano Canzio rispose all’invito, mentre Menotti, dopo essersi dimesso dal ruolo di presidente della commissione esecutiva incaricata di organizzare le feste, decise di non 127. Il vaticinio di Dante e la potestà papale, in Roma intangibile, numero speciale de «La Riforma», 20 settembre 1895. 128. L’Apoteosi. Garibaldi sul Gianicolo, ivi.
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partecipare.129 I prefetti, che si occuparono di registrare le adesioni delle amministrazioni locali e di inviarne notizie al ministero, non riuscirono a evitare il rifiuto di consigli comunali a maggioranza clericale e dovettero constatare lo scarso entusiasmo manifestato da molte città settentrionali, in particolar modo da Milano.130 All’incerta coesione nazionale si sommò un atteggiamento di malcelata indifferenza da parte delle potenze europee: diverse rappresentanze diplomatiche non esposero la bandiera in segno di simbolica partecipazione. Oltre a provocare i fischi del corteo di passaggio sotto Palazzo Chigi, sede dell’ambasciata austriaca, questo silenzio rivelava quanto si fosse fatta incerta la posizione dell’Italia crispina nello scacchiere internazionale.131 Vi furono poi le voci di protesta, provenienti in primis dal mondo cattolico. La scelta di dar luogo a una commemorazione così imponente non piacque agli intransigenti e al Vaticano arrivarono telegrammi e lettere in numero tale – scrisse un corrispondente – da far «piena una stanza»;132 un ex deputato inviò dal comune di Crespano, in provincia di Treviso, un componimento che era stato affisso tra le strade del paese in cui si parlava del 20 settembre come del «giorno nefasto» dei «seguaci di Satana».133 A fine settembre circolò a Roma la notizia che la Chiesa stesse pensando a una contro-dimostrazione e, poco dopo, Leone XIII espresse le sue preoccupazioni in una lettera indirizzata al cardinal Rampolla e riportata da «L’Osservatore Romano»: prendendo atto del significato anticlericale delle feste romane e dell’atteggiamento bellicoso del governo, 129. Il 17 settembre Menotti Garibaldi scrisse a Crispi: «Riconoscente per tuo gentile invito ti ringrazio. Ma non interverrò a questa inaugurazione come non ho assisto a nessun’altra e spero vorrai apprezzarne i motivi», ACS, CC, Roma, b. 42, fasc. 684. 130. La mappa delle adesioni delle amministrazioni comunali si trova in ACS, CC, Roma, b. 41, fasc. 677. Sull’atteggiamento delle amministrazioni settentrionali cfr. anche Fonzi, Crispi e lo “Stato di Milano”, pp. 481 ss. 131. Cfr. Tobia, Una patria per gli italiani, p. 148 e Il corteo per l’inaugurazione del monumento a Garibaldi. Le ambasciate non espongono le bandiere, in «Il Corriere della Sera», 20-21 settembre 1895. Nell’articolo Le bandiere delle ambasciate, del 21-22 settembre 1895 lo stesso giornale scrisse: «Oggi issarono bandiera solamente l’ambasciata d’Inghilterra, Turchia, Olanda, Grecia e Stati Uniti». 132. Telegramma di un corrispondente del «Corriere di Torino», 24 settembre 1895, ACS, CC, Roma, b. 40, fasc. 674. 133. Componimento XX Settembre. W Maria W il Papa, s.d., ivi.
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il Vaticano – scrisse – non poteva che «rassegnarsi ormai alla cattività senza speranza di redenzione».134 Destarono maggiore preoccupazione le dimostrazioni promosse dalle forze della Sinistra. I tentativi del comitato organizzativo di tenere assieme le varie anime politiche del paese si arenarono già a luglio con le dimissioni di Menotti e da quel momento parve sempre più difficile scendere a patti con i repubblicani, che a metà agosto annunciarono ufficialmente la loro assenza, impegnandosi piuttosto a organizzare una serie di manifestazioni parallele, senza però l’appoggio dei socialisti, con cui non trovarono un accordo.135 Anche il campo irredentista non celò la sua delusione rispetto al programma ufficiale delle feste da cui era stata cancellata l’inaugurazione della lapide al triestino Venezian e ai caduti della Repubblica Romana sul Gianicolo. Di tutta risposta il 21 settembre un gruppo di manifestanti si recò di fronte al busto di Venezian al Vascello, dove Barzilai tenne una breve orazione. Come si vede, il racconto patriottico promosso dal governo fu osteggiato da altre memorie e narrazioni patriottiche, sempre più competitive e capaci di mobilitare l’opinione pubblica. Lo sottolineò «L’Asino» pubblicando una vignetta delle «bugie crispine», le candele a forma di Crispi che – scrisse – erano state distribuite alla popolazione insieme a bugie vere e proprie, false notizie sull’enorme successo dell’evento. In verità – secondo il giornale – nella folla romana si contavano molti finti garibaldini pagati «per 134. Cfr. ad esempio telegramma del corrispondente romano della «Nazione» di Firenze: «Clericali adopransi calorosamente per costituire con pellegrinaggi contro dimostrazione nostre feste. Vaticano diresse circolare segreta vescovi tutto il mondo perché promuovere serie pellegrinaggi quanto più possibile numerosi», 30 settembre 1895 e Lettera di Leone XIII, in «L’Osservatorio romano», 10-11 ottobre 1895, ivi. 135. Il 18 settembre nel quartiere romano di Trastevere si commemorò Giuditta Tavani Arquati, il 21 i repubblicani si ritrovarono sotto il monumento del Gianicolo, il giorno successivo venne organizzato un pellegrinaggio all’ossario dei caduti di Mentana. La commemorazione “alternativa” si chiuse il 29 settembre con una visita al busto di Mazzini in Campidoglio. Secondo quanto scrisse Sironi i socialisti avrebbero preso parte all’inaugurazione repubblicana del monumento a Garibaldi solo nel caso in cui i repubblicani avessero accettato le seguenti richieste: avrebbero potuto portare un «distintivo», Lollini e Costa avrebbero parlato in loro rappresentanza, si sarebbe deposta una corona a nome di De Felice, Barbato, Bosco e degli altri «reclusi socialisti». Lo stesso giorno il questore informò che l’accordo era saltato (Sironi al ministro dell’Interno, 6 e 8 settembre 1895, ACS, CC, Roma, b. 41, fasc. 680).
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sollevare entusiasmo al passaggio delle carrozze reali, e per dichiarare Crispi zio della patria».136 Al netto di ciò, vi fu un’Italia crispina che rispose all’appello del presidente, come dimostrano i moltissimi telegrammi di felicitazioni inviati a Crispi dai sindaci dei comuni del Regno, in cui si attesta la fedeltà al governo e alla monarchia137 e, in maniera forse più significativa, le centinaia di lettere spedite da associazioni, società operaie, congregazioni di carità, enti, circoli e privati cittadini.138 Il contenuto delle lettere testimonia il successo raggiunto quand même da Crispi, quello di aver reso la festa del 20 settembre e la celebrazione di Garibaldi la sua autocelebrazione; ne è una prova il fatto che i mittenti si rivolgessero al presidente, mandando solo indirettamente un saluto a Umberto I. Da questa corrispondenza riaffiora il mito di Crispi come «principale cooperatore dell’indipendenza», ma anche «strenuo difensore delle istituzioni» e «del diritto della patria».139 I mittenti, entusiasti per il discorso tenuto sul Gianicolo, lo incoraggiarono a proseguire la sua opera contro i nemici della nazione. Di nuovo, dall’istituto scolastico di Torre Annunziata venne inviato un canto al «patriota insigne / e principale fattore / dell’Unità e della grandezza / nazionale».140 Quell’idea, proposta nell’87 a Torino, per cui il concetto di patria trovava la sua perfetta incarnazione nella leadership crispina, ancora resisteva, sotto i colpi inferti dalle sempre più forti opposizioni, e dimostrava una volta di più la sua capacità persuasiva. Un professore di Malta scrisse in un componimento d’occasione inviato al presidente: Crispi glorioso, alcun ti mira Dal mar de le calunnie e degli agguati, D’immensa invidia, d’implacabil’ira… 136. Per le luminarie del 20 settembre e I finti garibaldini, in «L’Asino», 29 settembre 1895. 137. Cfr. ACS, CC, Roma, b. 43, fasc. 694. 138. Anche in questa occasione scrissero a Crispi in forma privata cittadini di estrazione sociale molto diversa tra cui senatori, deputati, avvocati, architetti, notai, impiegati, militari, reduci, dirigenti scolastici, professori e maestri. Numerosi telegrammi furono inviati anche dalle comunità degli italiani nelle colonie. 139. Tra gli altri appellativi che tornano con più frequenza: «campione dell’Unità» e delle «glorie italiane», «eroe degli eroi», «baluardo del governo e decoro della nazione» e «secondo padre della patria». Cfr. ACS, CC, Roma, b. 42, fasc. 681. 140. Clemente Caterini e alunni (da Torre Annunziata), s.d., ivi.
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Ma tu trionfi e trionfante guati: […] Te, acclama, invitto Cavalier, la voce Santa d’Italia, e non ti chiama invano, perché ritorni al lustro suo primiero.141
L’ultima piazza: Adua Il primo marzo del 1896 l’esercito italiano fu sbaragliato ad Adua dalle forze di Menelik, decretando la fine del sogno africano che Crispi aveva inseguito con tenacia nonostante molte incertezze strategiche, impiegandolo anche come diversivo per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai sempre più gravi problemi interni.142 Così era accaduto già nel dicembre del 1893 quando il combattimento di Agordat, che si era risolto a favore degli italiani per la debolezza delle forze mahdiste, aveva rinfrancato gli animi abbattuti dalla crisi dei Fasci; nell’estate dell’anno successivo, mentre il parlamento era appena uscito dal guado delle discussioni sulle leggi antianarchiche, la presa di Cassala, riportata da Baratieri il 17 luglio, fu presentata dai giornali governativi come un risultato eccezionale, frutto della preparazione dell’esercito e della capacità dei suoi generali.143 Ancora, tra l’inverno e la primavera del 1895, l’avanzata nella zona del Tigrè rappresentò una fortuna non da poco per il presidente che si preparava alle elezioni politiche: «in quei giorni» – scrisse Emma Perodi – «il miraggio africano abbagliava più che mai il paese».144 Vista la complessità della situazione, Crispi pensò di sfruttare ancora un po’ gli entusiasmi africanisti e scrisse a Baratieri: «Se le condizioni della colonia lo permettono gioverebbe molto la tua presenza in Italia durante la campagna elettorale. L’opposizione nell’Alta Italia combatte le nostre imprese africane ed un tuo discorso sventerebbe le trame degli avversari».145 E in effetti andò così. Al suo rientro il generale fu festeggiato come un eroe e accolto da dimo141. Corrado Sipione, Sonetto a Sua Eccellenza Francesco Crispi, Malta, Tipografia G. Maistre e G. Rizzo, 1895, ivi. 142. Sulla politica coloniale crispina si rimanda a: Nicola Labanca, In marcia verso Adua, Torino, Einaudi, 1993; Adua: le ragioni di una sconfitta, a cura di Angelo Del Boca, Roma-Bari, Laterza, 1997. 143. A titolo di esempio: L’Italia a Cassala, in «La Riforma», 21 luglio 1894. 144. Perodi, Roma italiana, p. 525. 145. Cit. in Labanca, In marcia verso Adua, p. 67.
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strazioni ad ogni sosta del treno che lo condusse a Roma.146 Anche Menotti brindò in suo onore, durante un banchetto organizzato a Marsala alla presenza dei reduci garibaldini, e ne parlò come del prosecutore dell’impresa del padre. Fu un’incredibile soddisfazione per il presidente del Consiglio, che aveva più volte dimostrato di guardare alla politica coloniale attraverso la lente del garibaldinismo. È significativo che già nel 1889, dialogando con il ministro della Guerra, contrario ad una spedizione ad Asmara, avesse risposto: «Che volete? Io sono ancora garibaldino».147 A conti fatti però fu anche questo a impedirgli una più corretta lettura della situazione coloniale, che nel 1895 stava lentamente scivolando verso il disastro. Infatti, mentre nel paese l’opposizione anticrispina si saldava, il negus e i ras ricompattavano le forze contro il comune nemico italiano, spinti dall’attivismo di Baratieri che, una volta rientrato in Africa, proseguì nella sua avanzata. I rovesci non tardarono ad arrivare e nel dicembre del 1895 l’esercito italiano subì una pesante sconfitta ad Amba Alagi: Crispi, insistendo sulla necessità di proteggere i territori già conquistati e di vendicare i soldati caduti, riuscì a strappare al parlamento un nuovo stanziamento di venti milioni; sapeva però di aver bisogno di una vittoria, avendo legato a doppio filo il suo destino politico alla guerra d’Africa. Un successo avrebbe potuto placare le opposizioni e i malumori dei ministri Saracco e Sonnino, scontenti per le scelte del presidente, che era sordo ai loro consigli e ai loro inviti alla cautela, ma le cose andarono diversamente. Al posto dell’agognata vittoria Crispi dovette incassare la presa di Makallé da parte di Menelik e ancora una volta non si arrese. Pensò piuttosto di sostituire Baratieri, che pareva aver perso la sua efficacia. Prima ancora di riuscire in quest’ultima mossa l’esercito italiano fu sconfitto ad Adua. Il presidente tentò il possibile per rimanere al suo posto e proseguire nell’avanzata coloniale, ma il fronte degli oppositori era oramai troppo esteso, sia dentro che fuori la Camera. Non accadde tutto in un giorno e, anzi, la crescita dell’anticrispismo e della protesta antiafricanista era avvenuta progressivamente, interessando prima e con più forza le regioni settentrionali. La distanza percepita in molti settori dell’opinione pubblica settentrionale verso il presidente autoritario, colonialista e protettore degli interessi del Mezzogiorno a discapito delle ricche e laboriose provincie del Nord, si era fatta addirittura incolma146. Perodi, Roma Italiana, p. 525. 147. Crispi a Bertolè-Viale, 7 aprile 1889, ACS, CC, Roma, b. 3, fasc. 93.
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bile alla fine del 1895 quando insieme ai primi rovesci africani era arrivata la decisione del governo di sospendere i lavori per il nuovo catasto, funzionale alla perequazione fondiaria.148 Anche nel Centro e nel Mezzogiorno gli ambienti tradizionali dell’anticolonialismo si agitavano da tempo149 e la propaganda si era fatta tanto battagliera da assumere una coloritura antipatriottica: quando insigni rappresentanti del partito socialista venivano chiamati a parlare come oratori durante comizi e riunioni non nascondevano di preferire la sconfitta dell’Italia a una nuova e inutile vittoria coloniale.150 Stesse idee circolavano pure sulla stampa clericale che, confrontando il comportamento di Menelik con quello del presidente italiano, comprendevano più facilmente le ragioni del primo: Menelik fa la guerra per salvare l’indipendenza d’Etiopia dal giogo straniero, Crispi fa la guerra per salvare il portafogli dal giogo dell’opposizione. Menelik non ha avuto mai da fare con nessun Tanlongo abissino, Crispi è stato sempre nelle più cordiali relazioni con tutti i Tanlongo. Menelik avrebbe potuto far morire di sete il battaglione di Galliano e non l’ha fatto, Crispi fa morire di fame tanti poveri disgraziati per mancanza di lavoro e d’occupazione. 151
Con l’esclusione del Nord, ormai avverso a Crispi, e delle tradizionali forze d’opposizione, fino all’inizio del 1896 una parte dell’opinione pubblica si mantenne fedele alla linea del governo. Lo dimostra la commossa partecipazione di molte autorità e dei cittadini alle commemorazioni per i caduti ad Amba Alagi come pure le processioni che accompagnarono, con 148. Sulla reazione di Milano alla sospensione dei lavori per il catasto cfr. Fonzi, Crispi e lo “Stato di Milano”, pp. 498 e ss. 149. Già nel giugno del 1894 Sironi aveva dato notizia che nel circondario romano la partenza dei soldati, momento solenne di unione patriottica, era stata interrotta da «giovinastri appartenenti al circolo socialista anarchico Aurelio Saffi», 28 giugno 1894, ASR, Serie Prefettura-Gabinetto, b. 505, fasc. 10. 8. Sull’anticolonialismo socialista cfr. Assunta Trova, Il dibattito sul colonialismo nella stampa socialista italiana tra il primo governo Giolitti e la crisi di fine secolo, in «Quaderni sardi di storia», II, 1 (1981), pp. 1147-1179. 150. Cfr. Telegramma di Sironi al ministero dell’Interno a proposito di una conferenza tenuta dall’avv. Bonavita a Roma durante la quale prese la parola l’avv. Lollini (10 febbraio 1896) e telegramma di un corrispondente de «La Tribuna» su una conferenza tenuta sempre da Lollini ad Ancona (18 febbraio 1895), ACS, CC, DSPP, b. 104, fasc. 652. 151. Menelik e Crispi messi a confronto da un clericale, in «L’Adige» che riportava un articolo della «Voce delle Marche», 6 febbraio 1896, ivi.
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tanto di bande musicali, la partenza dei soldati per l’Africa e che si ripeterono in molte città fino al febbraio del 1896. Quando si diffuse la notizia della presa di Makallé, a Porto Maurizio le rappresentazioni teatrali vennero interrotte da lunghi applausi rivolti all’esercito italiano; al teatro comunale di Reggio Emilia il terzo atto dell’Aida venne sospeso da molte ovazioni e da qualche fischio isolato del solo deputato Prampolini che era presente in sala.152 Questo fronte tenacemente crispino e africanista crollò sotto il peso di Adua. Quando si diffuse la notizia del disastro, la protesta infiammò le regioni del Nord per poi propagarsi al grido di “abbasso Crispi” e “viva Menelik”; mentre «la folla tumultuava in tutte le grandi città» – scrisse Achille Bizzoni – «i prefetti esterrefatti si barricavano nei loro palazzi».153 Il 3 marzo a Roma duecento studenti universitari entrarono nell’ateneo dando vita a una vigorosa protesta tanto che, il giorno dopo, il rettore decise di sospendere i corsi.154 A Milano, dove i disordini furono particolarmente violenti, tanto da provocare un morto, i deputati socialisti, tra cui Agnini, Badaloni, Costa, Ferri e Prampolini, stilarono un manifesto che incitava la popolazione a perseguire con le proteste per assicurare un definitivo allontanamento di Crispi dal potere.155 Il presidente chiese il sequestro del documento, onde evitarne la pubblicazione su «Il Secolo», ma si trovò di fronte alla riluttanza del procuratore generale che non riconobbe gli estremi per agire.156 L’anticrispismo coloniale era venuto a saldarsi con quello interno, il governo non poteva più salvarsi. 152. Prefetto di Reggio Emilia al ministero dell’Interno, 24 gennaio 1896, ACS, CC, DSPP, b. 104, fasc. 652. A titolo di esempio si veda il telegramma del prefetto Cavasola che scrisse da Modena il 20 gennaio 1895: «Iersera al teatro comunale letto ultimo telegramma riguardante Macallè pubblico proruppe in grandi acclamazioni al tenente colonnello Galliano, all’esercito e all’Italia. Inno reale ripetuto tra ovazioni generali». Ancora il 2 febbraio il prefetto di Ancona diede conto di una manifestazione improvvisata dagli studenti dell’Istituto tecnico e ginnasio per festeggiare i successi africani. Entrambi i telegrammi si trovano in ivi. 153. Achille Bizzoni, L’Eritrea nel passato e nel presente, Milano, Sonzogno, 1897, p. 507 cit. in Romain H. Rainero, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua (18691896), Milano, Edizioni di Comunità, 1971, p. 330. 154. Cfr. Sironi al ministro dell’Interno, 3 e 4 marzo 1896, ACS, CC, DSPP, b. 104, fasc. 652. 155. Il manifesto fu riportato dai corrispondenti di diverse testate nazionali. La comunicazione venne sequestrata dalla questura, ivi. 156. Cfr. Prefetto di Milano Winspeare a Crispi, 7 marzo 1894, ivi.
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5. Scontro di idee, scontro di leader I due Rabagas Durante l’ultimo mandato, Crispi si confrontò con altri leader carismatici, capaci come lui di incarnare un’idea politica e mobilitare il consenso. Il più battagliero e celebre dei suoi rivali fu Felice Cavallotti. Classe 1842, elemento di punta del partito radicale dopo la morte di Agostino Bertani, giornalista, drammaturgo e verseggiatore, Cavallotti era noto per il suo stile politico esuberante e teatrale e per le sue orazioni vivaci, ascoltate sempre con grande attenzione dentro la Camera. Dal 1873, anno in cui venne eletto deputato, lavorò instancabilmente per tenere assieme la compagine radicale e rafforzarne la posizione politica.157 Come molti altri intellettuali della sua generazione, nutriva una profonda ammirazione per l’uomo che aveva avuto un ruolo chiave nella spedizione dei Mille, ma il rapporto tra i due fu altalenante già all’epoca dei primi mandati del siciliano e Cavallotti si ritrovò a dover far distinzione «tra Francesco Crispi e il presidente del Consiglio» per formulare un sereno giudizio politico sull’operato dell’esecutivo. Il leader radicale non apprezzava infatti il triplicismo, l’inimicizia verso la Francia e la politica coloniale del governo né il piglio giacobino del presidente poiché – come dichiarò – «dal giacobinismo deriva il Cesarismo, metodi i quali non mi hanno mai persuaso nella storia della grande rivoluzione, e non mi persuadono nella vita pubblica presente».158 Nonostante ciò, fino al ’91 scelse la via dell’opportunità politica, concedendo o negando l’appoggio all’esecutivo a seconda delle proposte discusse in parlamento, alcune delle quali – il nuovo codice penale e la riforma del governo locale, ad esempio – si avvicinavano al programma del suo partito. Fu la battaglia del governo contro l’irredentismo ad assestare un duro colpo al loro rapporto, tanto che nell’estate nell’89 si aprì una vertenza cavalleresca tra il radicale e il fedelissimo di Crispi, Primo Levi; i due erano legati da una duratura amicizia, avendo Cavallotti iniziato Levi al giornalismo, e arrivarono ai ferri corti quando il deputato biasimò su «Il Secolo» il giornalismo di parte, 157. Su Felice Cavallotti si rimanda a: Alessandro Galante Garrone, Felice Cavallotti, Torino, Unione tipografico-editrice torinese, 1976 e Emanuela Minuto, Il «vendicatore delle plebi». Felice Cavallotti e la politica di massa di fine Ottocento, in Leader carismatici e movimenti sociali nell’Ottocento europeo, pp. 201-221. 158. Le citazioni sono riportate in Galante Garrone, Felice Cavallotti, pp. 541 e 576.
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finanziato illecitamente con i fondi segreti del ministero. Sebbene l’accusa non fosse esplicitamente diretta ai crispini, Levi si sentì tirato in causa e lo sfidò a duello. Il confronto non avvenne a causa di un vizio di forma, ma il rapporto tra i due si logorò e in privato Cavallotti gli scrisse: «Non io certamente t’ho insegnato il mestiere di turiferario leccazampe e non t’ho appreso io ad imbrancarti fra [i] monsieur Alphonse della stampa al servizio di un Rabagas rimbambito!».159 Da qui alla decisione di promuovere il Patto di Roma il passo fu breve; nel maggio del ’90 il deputato convocò nella capitale un congresso rivolto alle forze sparse della democrazia e del radicalismo con lo scopo di concentrare i voti in vista delle elezioni e presentò un programma politico chiaramente anticrispino, che dava la misura della distanza ormai creatasi tra le forze della Sinistra e il governo.160 La frattura parve parzialmente sanarsi nel dicembre del ’93 quando il radicale, anche vista la drammaticità della situazione del paese, accordò a Crispi la “tregua di Dio”, sospendendo il giudizio politico verso il presidente; la speranza di un riavvicinamento svanì all’annuncio dell’assedio siciliano e anzi, dopo la promulgazione delle leggi antianarchiche e lo scioglimento del partito socialista, Cavallotti assunse un ruolo di primo piano tra le forze dell’opposizione, fungendo da tramite coi socialisti di Turati, avendo questo deciso di schierarsi con Cavallotti per combattere Crispi. Nel frattempo il conflitto tra i due si fece progressivamente più aspro, uscendo dai modi dello scontro politico tradizionale. Nel dicembre del 1894 Giolitti consegnò al presidente della Camera un plico che avrebbe dovuto contenere nuovi documenti sullo scandalo della banca Romana e l’Estrema ne chiese immediata lettura. Si decise di passare il materiale al vaglio di una Commissione di cinque deputati, tra cui vi era lo stesso Cavallotti. La sesta busta, il nucleo di lettere di Lina a Landi, fu esclusa dalla cernita. Non bastò questo a placare la curiosità dei giornali che, su quelle missive, fecero molte ipotesi, immaginando che Lina avesse una relazione extra-coniugale con il maggiordomo o, anche, che questo procurasse a Crispi le sue amanti.161 Chi invece non ebbe modo 159. Ivi, p. 564. 160. Cfr. Galante Garrone, I radicali in Italia; per una rassegna storiografica sul radicalismo italiano cfr. Emma Mana, La democrazia radicale italiana tra politica e società civile, in «Studi Storici», 35, 2 (1994), pp. 405-434. 161. Cfr. Bertoni, Romanzo di uno scandalo, p. 197.
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di discutere del plico fu il parlamento perché il 15 dicembre Crispi ne decretò la chiusura, onde evitare – disse – che l’azione di Giolitti e dei suoi sostenitori mettesse in pericolo la vita stessa delle istituzioni.162 L’opposizione reagì con forza: Cavallotti, Rudinì, Zanardelli accusarono Crispi di essere un dittatore giacobino e denunciarono l’incostituzionalità di quella scelta, ma il dado era tratto e al leader radicale non restava che far rumore fuori dall’emiciclo. Il 24 dicembre comparve la Lettera agli elettori: era l’inizio della questione morale, la battaglia cavallottiana contro il Crispi politico e privato, che proseguì per tutto l’anno successivo sulle pagine de «Il Secolo» e del «Don Chisciotte di Roma». Crispi sembrò non curarsene e scrisse alla moglie di non temere «i sicari della penna»,163 ma la macchina del fango si era appena messa in moto. Nel giugno del ’95 infatti, poco prima della riapertura delle camere, circolò la voce che stesse per uscire un nuovo libello contro il siciliano a firma di Cavallotti, provocando un’incredibile aspettazione. Probabilmente la notizia di quel nuovo ciclone mediatico allarmò Crispi che – notò Biancheri – in quei giorni appariva «sfatto e preoccupato».164 La Lettera agli onesti di tutti i partiti165 comparve il 10 giugno, lo stesso giorno della riapertura del parlamento, su un supplemento speciale de «Il Secolo»; si trattava, in sostanza, di un lungo elenco di tutte le malefatte del presidente e degli scandali in cui era stato implicato: quello di bigamia, quello della banca Romana e l’affare Herz.166 Questioni note, passate più e più volte sulle pagine dei quotidiani, 162. Proprio quel giorno la Commissione di cinque deputati aveva distribuito alla Camera gli incartamenti per avviare la discussione sul plico. 163. Crispi a Lina, 27 dicembre 1894, Amami come io ti amo, p. 215. 164. La citazione è tratta da Galante Garrone, Felice Cavallotti, p. 658. 165. Cfr. Lettera agli elettori, in «Il Secolo», 24 dicembre 1894; Epistola ai Corinti, ivi, 5-6 marzo 1895; Lettera agli onesti di tutti i partiti, ivi, 10 giugno 1895, ora in Cavallotti, Per la storia. La questione morale su Francesco Crispi 1894-1895. 166. L’affare Herz, che aveva già causato molti fastidi a Crispi, si riferiva ai legami intrattenuti dal presidente con il banchiere francese Jacques Reinach tra il 1890 e il 1891 in vista di un avvicinamento tra l’Italia e la Francia. Come contropartita della sua opera di mediazione Reinach aveva chiesto a Crispi di far insignire con l’Ordine Mauriziano l’intellettuale di origine americana Cornelius Herz, amico del primo ministro francese Freycinet. La cosa si trascinò per un po’, ma lo scambio alla fine non avvenne. Quando scoppiò lo scandalo di Panama, di cui Reinach fu suo malgrado uno dei protagonisti, la vicenda divenne di dominio pubblico e risultò anche un pagamento di questo a Crispi per un valore di 50 mila lire. Il siciliano dichiarò che si trattasse di un compenso professionale, essendo
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che contribuirono a dare alla battaglia una venatura di impoliticità che non piacque a tutti, neppure ai radicali: il metodo della «caccia all’uomo» infatti preoccupava Emilio Giampietro e non convinceva Colajanni, che, tempo dopo, biasimò l’accecamento del giovane leader.167 Anche Andrea Costa, nella seduta parlamentare del 25 giugno, segnata dal violento dibattito sulla Lettera di Cavallotti, dichiarò che l’opposizione dei socialisti non era diretta contro l’uomo in quanto tale, ma in qualità di rappresentante di una classe e di un sistema di governo.168 Dietro allo scetticismo sui metodi del radicale c’era il timore che la crociata morale, a tratti scandalistica, riducendo lo scontro a un’affannosa ricerca dello scheletro nell’armadio, non avrebbe giovato, distogliendo l’attenzione del pubblico dalle ragioni più profonde dell’opposizione crispina. Era una paura fondata e anzi proprio quella campagna mediatica rivelava la crisi che attraversava il partito radicale, incapace di rinnovarsi culturalmente e politicamente e di mettersi al passo coi tempi, ma Cavallotti non parve volersi fermare, anche perché fuori dalle aule del potere la questione morale fu accolta con tutt’altro entusiasmo, tanto da valere a «Il Secolo» un’impennata delle vendite. I giornali presero le difese dell’uno o dell’altro protagonista del duello: gli uni difesero le ragioni del «baluardo della democrazia» e puntarono il dito contro «l’affossatore delle libertà statutarie», riproponendo lo stereotipo del dittatore che «sgoverna»169 o, anche, – impiegando un lessico di chiara derivazione risorgimentale – del reazionario «borbone». I più vicini a Crispi invece difesero il «venerando vegliardo», screditando «l’impotente Aristarco», l’«istrione della democrazia, volgare, vigliacco editore di plichi ignominiosi» e «Rabagas della politica italiana».170 Un riferimento, quest’ultimo, al protagonista del celebre dramma teatrale di Victorien Sardou, messo in scena per la prima volta a Parigi nel 1872, che era stato Reinach un suo storico cliente, ma per i nemici politici di Crispi – Giolitti, Rudinì e Rattazzi in testa – vi erano elementi a sufficienza per accusarlo di corruzione e di anti-italianità. 167. La citazione è tratta da Galante Garrone, Felice Cavallotti, p. 651. Cfr. anche Colajanni, Francesco Crispi, in «Rivista popolare di politica lettere e scienze sociali», 15 agosto 1901, p. 286. 168. Cfr. AP, Camera dei Deputati, Legislatura XIX, I Sessione, Discussioni, Tornata del 25 giugno 1895, p. 245. 169. Telegramma della Lega della libertà a Cavallotti, riportato dal prefetto Winspeare al ministero dell’Interno, 14 dicembre 1894, ACS, CC, DSPP, b. 93, fasc. 563. 170. Cavallotti in Sicilia, in «Il Freno», 18 maggio 1895 e S.t., in «La Sicilia liberale», 17 maggio 1895, ACS, CC, DSPP, b. 93, fasc. 563.
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impiegato dallo stesso Cavallotti nella lettera inviata a Levi qualche anno prima e che «L’Italia del popolo» aveva da poco riproposto parlando di Crispi.171 Nel furore della lotta morale del giugno del ’95 le accuse dei due schieramenti finirono per somigliarsi, come dimostra il riferimento al giovane avvocato Rabagas che, tradendo le sue convinzioni repubblicane per sete di potere, si era trasformato in un feroce reazionario.172 La vicenda fu materia buona pure per i vignettisti che ridicolizzarono lo scontro, traducendolo, per esempio, nel maldestro inseguimento di un «cavallotto» lanciato a massima velocità contro il presidente del Consiglio sulla sua biga; in un’altra immagine, pubblicata su «La Rana», un Cavallotti-torero tiene tra le mani un drappo su cui si legge «attacchi personali» con cui tenta di ammansire Crispi trasfigurato in toro; nel frattempo, l’animale riceve dei colpi anche da Imbriani ed è spalleggiato da un cane, simbolo della «stampa ministeriale». La questione morale, che il «San Carlino» tradusse in una efficace vignetta del radicale nell’atto di rovesciare del fango in testa a Crispi, interessò massimamente l’opinione pubblica che si divise tra sostenitori dell’uno o dell’altro, manifestando entusiasmo e riprovazione all’occasione di dibattiti e discorsi pubblici.173 Quando nel maggio del 1894 Cavallotti si fermò a Palermo per tenere un’orazione, mentre un centinaio di socialisti gridavano in piazza “abbasso Crispi”, un gruppo di studenti si radunò sotto l’hotel dove alloggiava il radicale gridando “viva Crispi”.174 A Catania, seconda tappa del deputato, la piazza lo fischiò: «il famigerato lanciatore di plichi, il poeta plagiario, il rinnegato italiano, che per diverse bocche, novello Cerbero, ingoia olim171. Cfr. Fischiato via, in «L’Italia del popolo», 7-8 maggio 1894, ACS, CC, Roma, b. 37, fasc. 655. 172. Il personaggio era noto a livello internazionale e il suo nome veniva impiegato in riferimento a personaggi senza scrupoli e voltagabbana. Sull’opera teatrale di Sardou cfr. la voce «Victorien Sardou» a cura di Georges Bergner, in Enciclopedia dello spettacolo, a cura di Silvio D’Amico, Torino, Le maschere, 1975, vol. VIII, pp. 1507-1510. Sul suo utilizzo come deonimico cfr. Roberto Randaccio, Il lustrascarpe del sovrano. Rabagas: vicende onomastiche di un voltagabbana, in «Rivista italiana di Onomastica», XXII, 2 (2016), pp. 762-768. 173. Cfr. «Il Pasquino», 16 giugno 1895, La lotta fra Felice Cavallotti e Francesco Crispi, in «La Rana», 18-19 dicembre 1895 e «San Carlino», 30 giugno 1895. Le immagini sono riprodotte in Galante Garrone, Felice Cavallotti. 174. Telegramma del prefetto al ministero dell’Interno, 16 maggio 1894, ACS, CC, DSPP, b. 93, fasc. 563.
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picamente l’oro francese di Cernuschi, è venuto in Sicilia» – scrisse un foglio filogovernativo.175 Durante tutto il ’95 entrambi gli uomini politici ricevettero lettere da parte di privati e associazioni che volevano dimostrare il loro supporto. I mittenti che scrissero a Crispi non fecero quasi alcun riferimento alle motivazioni politiche dello scontro, ma piuttosto rielaborarono in maniera semplicistica la vicenda, enfatizzando gli aspetti moralistici e rivolgendo parole ingiuriose contro «il cialtrone» Cavallotti. I crispini incoraggiavano il «glorioso vegliardo», la cui immagine pubblica si reggeva sulla «base granitica»176 dei meriti, a proseguire la sua opera senza curarsi dei detrattori. Un circolo cittadino di Alcamo rassicurò: «Le inique armi dei tuoi calunniatori si infrangono sulla tua adamantina tempra dell’intemerato onore e patrio tuo amore».177 Ancora, un reduce delle patrie battaglie scrisse da Treviso al direttore de «La Riforma»: Nella lettera testé pubblicata dal Cavallotti […] diretta a tutti gli onesti (tipo Cavallotti) nella quale il bardo si affatica a voler demolire S.E. il Presidente del Consiglio On. Crispi – tra i tanti documenti pubblicati a danno di quest’ultimo – si è dimenticato di farne stampare uno che formerebbe la vera gloria del libellista Cavallotti. E sarebbe: la dichiarazione: che la pubblicazione fatta in odio al presidente del Consiglio, fu pagata al Cavallotti a peso di napoleoni d’oro dalla repubblica francese, la quale ad ogni costo vorrebbe vedere S.E. Crispi scendere dal potere supremo. Crispi, però, rifulgerà più che mai di gloria e sarà adorato dal popolo italiano e dal re. Cavallotti, traditore della patria e disprezzato da tutti, terminerà tristemente i suoi giorni al manicomio criminale. Viva Crispi, viva il re!178
In altri luoghi, gli attacchi personali di Cavallotti stuzzicarono la curiosità dell’opinione pubblica e incrementarono la sua fama, diffondendo l’idea, in particolare al Nord, che il radicale costituisse l’antidoto contro il corrotto governo del siciliano. Per questo, nel giugno del ’95 le piazze anticrispine di Milano si infiammarono al grido di “abbasso Crispi” e “viva Cavallotti”;179 la scena si ripetè l’anno dopo, quando molti manifestanti si 175. S.t., in «La Sinistra Storica», 18 maggio 1895, ivi. 176. Così scrisse da Nerola Sabina un privato cittadino, 30 giugno 1895, ivi. 177. Telegramma del Circolo del Centro di Alcamo, 30 dicembre 1894, ivi. 178. Antonio Casalini, 23 giugno 1895, ivi. 179. Così riporta un telegramma del corrispondente del «Messaggero», 22 giugno 1895, ivi.
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radunarono sotto il palazzo di Montecitorio per festeggiare le dimissioni del presidente del Consiglio e acclamare il suo rivale. La fine politica di Crispi non segnò la conclusione del conflitto tra il «Procida profanato» e il «Catilina delle istituzioni»,180 né tantomeno lo fece la morte prematura di Cavallotti. Quando nel 1898 il radicale, ingaggiatosi nell’ennesimo duello, ebbe la peggio e cadde sotto i colpi del giornalista Ferruccio Macola, «L’Asino» tornò sulla questione morale con una vignetta di Crispi esultante che danza sulla tomba del rivale. Piangendo la scomparsa del radicale, il poeta Lorenzo Stecchetti pubblicò su «La Commedia Umana» un componimento d’omaggio nel quale apostrofava Verre «beato nella sua vergogna» che «tripudia dicendo: la bigamìa, le corna e il peculato/torneranno al governo!». Era piuttosto chiaro il riferimento a Crispi, che venne reso esplicito con una caricatura di qualche giorno dopo in cui il siciliano, ritratto sempre nei panni di Verre, dichiara: «Finalmente è morto! Ed io vivo e tripudio, e ritornerò al potere!».181 Lo scontro frontale tra i due sarebbe divenuto finzione letteraria nel 1901 quando Carlo Del Balzo pubblicò il romanzo Le Ostriche; i due protagonisti, Leonida e Paolo Barnaba, trasfigurazione di Cavallotti e Crispi, ben si prestano alle intenzioni dell’autore, che mise in scena un’Italia politica desolante e un sistema parlamentare degenerato. A Leonida, intrepido e infaticabile, si contrappone Barnaba, accerchiato dal suo gruppo di fedelissimi deputati e giornalisti, pronti a tutto per tenersi ben “attaccati” alla poltrona, come le ostriche.182 Cesare e Bruto Se di fronte ai sicari della penna parve mantenere un atteggiamento sicuro, Crispi perse più facilmente la pazienza quando dovette confrontarsi con Giuseppe De Felice Giuffrida. Già dall’inizio degli anni Novanta il catanese non gli aveva risparmiato attacchi in parlamento, servendosi anche del suo giornale, l’«Unione», per screditarlo.183 180. Due lettere di anonimi a Crispi, s.d., ivi. 181. Cfr. Lorenzo Stecchetti, In morte di Felice Cavallotti, in «La Commedia Umana», 13 marzo 1898 e Crispi festeggia la morte di Cavallotti, in «L’Asino», 13 marzo 1898. 182. Carlo Del Balzo, Le Ostriche, Milano, Aliprandi, 1901. 183. Cfr. Michela Schillaci, Fasci, ultimo atto: il processo, in I fasci dei lavoratori e la crisi italiana di fine secolo (1892-1894), p. 80. Per una ricostruzione del processo di
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Al di là delle accuse però, Crispi lo temeva come competitor politico nelle provincie siciliane; che De Felice avesse seguito proprio nei luoghi in cui aveva costruito la sua impenetrabile roccaforte di voti e consensi lo irritava massimamente. E lo irritava ancor di più il fatto che potesse piacere alle masse popolari poiché «bello, forte, bollente d’animo, eloquente di un’eloquenza ribelle ed entusiasta».184 Non sbagliava: De Felice aveva doti carismatiche tali da attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e suscitare molti entusiasmi. Già nel 1892 quando venne eletto deputato, il suo rientro da Malta fu accolto da una città festante, come ricordò il giornale «Adriatico» nel ’94: L’ingresso di De Felice a Catania dopo la elezione fu un trionfo, una apoteosi: quando il piroscafo che lo conduceva giunse in porto una folla di imbarcazioni imbandierate, piene di popolo acclamante, s’accalcò intorno al battello. Le strade erano imbandierate: dappertutto grandi festoni di verdi e di fiori: cinquanta musiche venute dai dintorni suonavano. Il popolo in preda ad un fanatismo che non si descrive, gridava: Viva il nostro padre, viva il nostro Cristo, viva il nostro salvatore. Chi vide quella scena, ricordante gli ingressi di Garibaldi nelle città siciliane, non la dimenticherà mai. Il resto della sua vita, e la sua azione parlamentare tutti conoscono. Il Santo di Catania – come lo chiamano, il parlatore non dotto ed elegante, ma immaginoso, e fluente, è rinchiuso nelle carceri giudiziarie, pare sotto l’accusa di alto tradimento.185
La stessa Anna Kuliscioff fece menzione a Turati della celebrità di De Felice, spiegando che a Catania baroni, principi e operai delle solfatare lo ossequiavano come un «viceré».186 D’altro canto, il deputato riuscì a costruire una posizione influente anche nel resto del sud e del centro Italia: così, ad esempio, fu lui a sostenere la nascita del primo fascio romano nel 1892 e del successivo, sorto alla fine del ’93, e – come scrisse l’ispettore capo della questura di Roma Vincenzo Tavassi – non mancò «mai in ogni riunione di eccitare i compagni Palermo si rimanda anche a Rino Messina, Il processo imperfetto. 1894: i Fasci siciliani alla sbarra, Palermo, Sellerio, 2008. 184. Alfredo Angiolini, Cinquant’anni di socialismo, cit. in Papadia, La forza dei sentimenti, p. 194 nota 46. 185. Lettere Siciliane. De Felice Giuffrida. Lotte processi trionfi, in «Adriatico», 12 gennaio 1894. Nel 1892 De Felice si trovava a Malta, dove si era rifugiato a seguito di una condanna, e poté rientrare in Italia grazie a un salvacondotto del governo. 186. Cit. in Astuto, Il viceré socialista, p. 9.
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alla pronta organizzazione», coadiuvato dall’avvocato Marabini, da Felice Albani e dal gruppo dei giovani redattori de «L’Asino».187 Le misure eccezionali del ’94 offrirono a Crispi un’arma per piegare l’odiato rivale. Questi, infatti, pur godendo dell’immunità parlamentare, venne arrestato il 4 gennaio e, nonostante le rimostranze, dovette attendere in carcere l’inizio del processo. Crispi nel frattempo incalzò Morra affinché fossero raccolti documenti che provassero le responsabilità penali di De Felice, gli arrestati fossero sottoposti con la massima celerità al giudizio e il processo fosse istruito «con intelligenza ed energia».188 Voleva assicurarsi una sua sparizione politica duratura e «L’Asino» colse nel segno quando lo ritrasse con gli occhi sbigottiti di fronte a un interlocutore che gli spiegava: «La fame ha reso furente il popolo» – «Arrestate De Felice» – risponde Crispi nella vignetta che, non contento di saperlo già in carcere, continua: «Allora… mettetelo in cella di rigore!».189 Anche i collaboratori che aveva mandato di guardia in Sicilia gli confermarono la necessità di condannare severamente il catanese per evitare il pericolo di vederlo rientrare in trionfo a Catania: «in questo momento di lotta la vittoria di De Felice è completa disfatta di Crispi», gli scrissero.190 La percezione era diffusa se il Dott. Calce scrisse nel suo Italia o Crispalia?: «Il Bruto di Crispi è De Felice».191 Gli sforzi per assicurarsi una risoluzione rapida e poco pubblicizzata del processo non bastarono poiché – come scrisse Sighele – i procedimenti giudiziari, «drammi veramente vissuti», sapevano interessare il pubblico «assai più dei drammi immaginarii che si rappresentano sui palcoscenici dei teatri».192 Il processo di Palermo fu infatti nel mirino mediatico da inizio aprile a fine maggio e i giornali raccontarono con dovizia di particolari le lunghe giornate di dibattimento e l’atteggiamento dei leader messi sotto 187. Telegramma al prefetto Cavasola, 25 dicembre 1893, ASR, Serie Questura, b. 56, fasc. 233. 188. Cfr. Crispi a Morra, 4, 12 e 13 gennaio 1894, ACS, CC, Roma, b. 46, fasc. 727. 189. Il provvedimento per la Sicilia affamata, in «L’Asino», 19 gennaio 1896. 190. Cfr. la lettera s.d. e senza firma a “Egregio amico” [Palumbo Cardella], del 13 giugno 1894, ACS, CC, DSPP b. 92, fasc. 558. 191. Dott. Calce, Italia o Crispalia?, p. 16. 192. Scipio Sighele, La letteratura dei processi, in Id., Letteratura tragica, Milano, Treves, 1906, cit. in Bertoni, Introduzione, in Id., Romanzo di uno scandalo, p. 25 nota 19. Sui processi come tribuna di propaganda politica cfr. Elena Papadia, I processi come scuola di “anarchia”. La propaganda sovversiva nelle aule dei tribunali (1876-1894), in «Memoria e Ricerca», 2 (2018), pp. 277-294.
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accusa, che si presentarono in aula con i quotidiani sotto il braccio, chiesero di potersi assentare per preparare la propria difesa, studiando i tomi di diritto penale nell’angustia del carcere e, quando vennero chiamati a parlare, dimostrarono una spiccata abilità oratoria. De Felice, soprattutto, si distinse per la sua posa da leader, lamentando le terribili condizioni igieniche della prigionia e difendendo, durante le sue orazioni, non solo la sua posizione, ma quella di tutti gli accusati. La prima volta che si alzò a parlare, di fronte a un’aula straripante di pubblico, era il 12 aprile: con una lunga e convincente orazione il catanese decostruì pezzo per pezzo l’accusa di cospirazione e di eccitamento alla guerra civile, protestò contro l’illiceità della procedura, per cui gli imputati erano chiamati a rispondere a dei reati precedenti alla proclamazione dello stato d’assedio, e si dilungò in un’appassionata apologia del socialismo. Come testimoni di scarico intervennero Cavallotti, Colajanni, Altobelli e Imbriani, che furono calorosamente accolti a Palermo. Nel frattempo l’impianto accusatorio faceva acqua da tutte le parti e i testimoni caddero in inesattezze e contraddizioni, suscitando pure qualche risata in aula.193 Al netto della risoluzione giudiziaria del processo, il governo nulla poté per impedire la trasformazione di De Felice – come scrisse il «Don Chisciotte» – in «un martire a buon mercato».194 Il suo ritratto e quello di Barbato vennero distribuiti in migliaia di copie, mentre i giornali di opposizione protestarono per l’arresto del deputato che godeva dalle guarentigie parlamentari195 e sbeffeggiarono le «scandalose burlette» governative per cui si era ipotizzato un «abboccamento»196 di De Felice con Cipriani in vista della rivoluzione. Che il processo fosse andato diversamente da come aveva sperato il governo lo notarono in egual misura sostenitori e oppositori di Crispi: i primi lamentando il modo in cui era stato concesso agli imputati di «mutare il banco degli accusati in tribuna di propaganda»,197 gli altri ragionando sulle 193. Il delegato di PS Morandi di Bisacquino, che aveva dichiarato di avere informazioni a proposito delle infiltrazioni di Francia e Russia nei moti siciliani, venne chiamato a testimoniare il 21 aprile. Le sue dichiarazioni furono seguite da commenti e risate nell’aula di tribunale. Cfr. Messina, Il processo imperfetto, p. 93. 194. L’arresto di De Felice, in «Don Chisciotte di Roma», 5 gennaio 1894, ACS, CC, Roma, b. 46, fasc. 727. 195. Cfr. Metodo sbagliato, ivi, 8 gennaio 1894 e Il flagrante delitto, in «La Capitale», 7 gennaio 1894, ivi. 196. In pieno stato d’assedio, in «Il Mattino», 8-9 gennaio 1894, ivi. 197. Domenico Farini, cit. in Manacorda, Dalla crisi alla crescita, p. 220 nota 61.
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conseguenze di lungo periodo del dibattimento che – scrisse Colajanni – si era trasformato «in processo al governo ed alle classi dirigenti» e aveva «servito alla più vigorosa e larga propaganda del socialismo».198 La cosa non sfuggì neppure al presidente, che a Morra scrisse: Dopo il processo di Palermo, il cui lungo e disordinato dibattimento fu scuola di anarchia, non vorrei che un altro se ne apra a Messina dello stesso genere. Il sentimento morale delle popolazioni ne resterebbe conturbato e le istituzioni politiche ne soffrirebbero grandemente. I testimoni devono rispondere alle domande del presidente e non dire tutto quello che vogliono perché l’ordine pubblico ne soffrirebbe.199
Fu proprio durante i mesi del dibattimento che lo scontro tra i due siciliani si trasformò in un duello personale, più che politico. Del resto, lo stesso De Felice aveva proposto questa lettura nell’aula di tribunale, spiegando ai presenti i motivi alla base del processo: se da una parte il governo voleva far credere «che l’Italia era già bell’e spacciata, che l’Unità era compromessa e che per salvarla non ci voleva che il pugno di ferro dell’on. Crispi»; dall’altra occorreva pure considerare – continuò De Felice – «quella antipatia che l’attuale Presidente del Consiglio ha sempre nutrita contro di me».200 Come fu per la questione morale di Cavallotti, i media ci misero lo zampino, aggiungendo alla cronaca del dibattimento alcuni dettagli politicamente insignificanti: qualcuno pubblicò la commovente lettera inviata da De Felice alla madre, altri si soffermano sull’abbigliamento della moglie del deputato.201 Soprattutto però fu la figlia più grande, Maria, ad attirare l’attenzione dei giornalisti. Già nota a Catania dove, durante l’assenza del padre emigrato a Malta, «arringava il popolo […] e se lo traeva dietro ebbro di entusiasmo»,202 la giovinetta presenziò al processo e fece parlare di sé dal primo giorno quando consegnò a Verro, a Barbato e a De Felice un garofano rosso, simbolo del socialismo, che questi appuntarono all’occhiello.203 198. Colajanni, Gli avvenimenti in Sicilia e le loro cause, pp. 392-393. 199. Crispi a Morra, 30 maggio 1894, ACS, CC, Roma, b. 46, fasc. 727. 200. Cit. in Messina, Il processo imperfetto, p. 73. 201. Il ritaglio di un articolo di giornale che riporta il testo della lettera si trova in ACS, CC, Roma, b. 46, fasc. 727. 202. Cfr. L’arresto di De Felice, in «Il Mattino», 5-6 gennaio 1894, ACS, CC, Roma, b. 46, fasc. 727. 203. Cfr. Messina, Il processo imperfetto, p. 67.
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Se l’atteggiamento di Maria De Felice, come pure la sua notorietà politica precedente, rende comprensibile l’interessamento mediatico, più singolare è il fatto che anche Giuseppina Crispi diventò, suo malgrado, una coprotagonista della vicenda. La giovane «Peppina», unica figlia nata dal matrimonio con Lina, era la prediletta del presidente e non aveva nulla a che fare con l’ambiente politico. Accadde però che, durante la seconda seduta parlamentare del 21 giugno, Imbriani presentasse un’interrogazione al governo sullo sfratto imposto alla famiglia di De Felice. Crispi reagì con irritazione, dichiarando che si trattava di un’invenzione dei giornali e che avrebbe preferito che le figlie e la moglie del catanese fossero rimaste in Sicilia «piuttosto che venire a peregrinare in Italia, e a fare scene le quali sono abbastanza deplorevoli». Quando Imbriani lo esortò a mostrare pietà verso una giovane che avrebbe potuto essere sua figlia, il presidente perse le staffe e definì Maria la «figlia di un volgare malfattore»;204 l’infelice espressione suscitò tanto scalpore da essere cancellata dai resoconti parlamentari e, soprattutto, ricadde su Giuseppina.205 Due giorni dopo il questore di Roma diede notizia a Crispi di un manifesto affisso nella notte per le strade della capitale che recitava: Compagni. Maria De Felice è figlia di un volgare malfattore. Ma Giuseppina Crispi è figlia di non si sa quale madre perché le mogli di Crispi sono state tre ma nessuna legale e quale padre, perché anche se il padre fosse lui sarebbe la figlia di un ipocrita ladro e carnefice dell’Umanità. Ministro di un governo assassino che dà piombo a chi domanda pane onestamente e titoli onori e oro a chi usurpa il pudore dei diseredati. Morte al sommo pontefice Francesco Crispi.
Non solo. In quei giorni una lettera anonima avvertì il presidente di un possibile attentato contro sua figlia, che sarebbe stata sfigurata in volto con l’acido solforico per vendicare l’oltraggio fatto alla figlia di De Felice: al di là dell’attendibilità della notizia, ciò rivela la forte risonanza che aveva 204. Crispi, AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Discussioni, II Tornata del 21 giugno, p. 10489. 205. In una lettera alla moglie Crispi scrisse: «Le sedute dell’altro ieri provano che per i nemici nulla vi è di sacro. M’irritai, quando si osò paragonare la mia alla figlia di De Felice. Se invece di essere nell’aula del Parlamento, fossi stato in un luogo privato, sarei venuto alle mani con quel mascalzone», Crispi a Lina, 23 giugno 1894, in Amami come io ti amo, pp. 192-193.
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lo scontro personale, capace di suscitare non solo la curiosità, ma anche l’astio dell’opinione pubblica.206 A fine luglio, pochi giorni dopo il passaggio delle leggi antianarchiche, il supplemento domenicale della «Tribuna» pubblicò in prima pagina un’immagine dell’incontro tra Crispi e Maria De Felice, che aveva chiesto di essere ricevuta dal presidente, il quale, nell’illustrazione, mostra un atteggiamento benevolo, quasi paterno. In effetti anche nel privato Crispi confessò di aver provato commozione alla vista delle due figlie di De Felice, vittime delle colpe paterne, ma i nemici non gli perdonarono le parole pronunciate dentro l’emiciclo e ancora mesi dopo, in occasione del matrimonio di Giuseppina, Cavallotti tornò sulla questione. Carducci infatti omaggiò la figlia del presidente con un celebre componimento e il radicale gli rispose di tutto punto: «Ed ora che ti sei intenerito, in versi e in prosa, […] spero che nelle tue glandole lacrimali di pietà sarà rimasta almeno una stilla per la giovinetta Maria De Felice, brutalmente insultata nel suo dolore in piena Camera, e alla quale stanno assassinando suo padre».207 Se il processo non giovò all’immagine pubblica di Crispi, la severità delle pene decise del tribunale di Palermo contribuì ad aumentare le tensioni politiche. Su suggerimento del prefetto di Catania, Crispi impedì lo scioglimento del consiglio comunale onde evitare l’elezione di De Felice e posticipò le elezioni amministrative previste per l’estate nei comuni in cui erano state presentate le candidature di protesta in favore dei condannati di Sicilia.208 Non riuscì però a sbarrare la strada all’elezione simbolica di Barbato, Bosco e De Felice durante le elezioni politiche dell’anno successivo209 e, soprattutto, a evitare il moto che si propagò per dieci giorni lungo tutta la penisola a seguito della condanna emessa dal tribunale, quando le strade di molte città si riempirono di “viva De Felice” e “abbasso Crispi”. Le università furono tra i luoghi più caldi della protesta: a Bologna e a Pisa gli studenti organizzarono cortei e manifestazioni, a Roma venne dato alle fiamme il ritratto del generale Morra. Ancor più preoccupante fu la situazione dell’ate206. Cfr. Sironi al prefetto di Roma, 23 giugno 1894, ASR, Serie Prefettura-Gabinetto, b. 470, fasc. 7.3 e biglietto di anonimo a Crispi, s.d., ACS, CC, DSPP, b. 96, fasc. 566. 207. Cit. in Galante Garrone, Felice Cavallotti, p. 653. 208. Cfr. ACS, CC, Roma, b. 21, fasc. 498. 209. Un manifesto elettorale del 1895 raffigurante il ritratto di Rosario Garibaldi Bosco attorniato dalle catene della prigione e diretto agli elettori del rione palermitano Mandamento Tribunali si trova in ACS, Giuseppe Pinelli, b. 1, fasc. 38.
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neo napoletano che venne chiuso per deliberazione del consiglio accademico dopo che alcuni studenti avevano organizzato fuori all’atrio dell’università una sottoscrizione in favore della famiglia di De Felice e si erano abbandonati ad atti di vandalismo, rovesciando un busto in gesso del re. Solo il 16 giugno l’università riaprì i battenti alla presenza delle truppe dell’esercito, che vennero tenute a controllo dell’ordine ancora per una settimana.210 In quei giorni Crispi scrisse alla moglie: «gli studenti (nome non meritato) non vogliono attendere allo studio, e pensano a far baccano»;211 faticava a comprendere i motivi di quella presenza massiccia dei giovani che sfilavano con il garofano rosso all’occhiello e, sostanzialmente, disconosceva la severità della frattura, pure generazionale, che attraversava l’Italia, tra quanti ancora lo sostenevano e chi, invece, aveva già in mente altri leader: i Barbato e De Felice giovani, istruiti, «apostoli» del socialismo, che, con le loro orazioni, le loro gesta, i loro ideali, sapevano entusiasmare le nuove generazioni. Come notarono anche gli scrittori coevi, i giovani, molti dei quali appartenenti alle classi agiate e istruite, erano affiliati ai circoli socialisti, mentre si andava progressivamente esaurendo l’influenza «di ogni antico patriota per quanto benemerito».212 Lo scrisse anche l’anarchico Armando Borghi ricordando come il 1894 avesse rappresentato, per lui appena undicenne, un apprendistato politico e giornalistico: Siccome, di giorno, non potevano parlare i giornali, parlavano di notte i muri «stampigliati». Una striscia di cartone o di grossa stoffa era bucata con grosse lettere. Passandovi sopra la vernice, le lettere rimanevano stampate sulla superficie sottostante. «Abbasso Crispi», «Viva Barbato», «Viva Cavallotti», «Via dall’Africa». Noi ragazzi aiutavamo gli anziani in queste operazioni editoriali notturne, reggendo la stampiglia e portando i pentoloni della vernice. Così ci iniziammo alla professione di «pubblicisti».213
La stessa contrapposizione si ripresentò nel caos del dopo Adua, quando un’Italia spaccata si fronteggiò anche negli atenei, in continui «pugilati fra i contrapposti gruppi studenteschi, “crispini” e “anticrispi-
210. Notizie sulle proteste universitarie romane si trovano in ACS, CC, b. 46, fasc. 727; sull’ateneo napoletano cfr. ACS, CC, Roma, b. 21, fasc. 481. 211. Crispi a Lina, 19 giugno 1894, in Amami come io ti amo, p. 191. 212. Farini, Diario, cit. in Fulvio Cammarano, Storia dell’Italia liberale, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 173. Cfr. anche Guglielmo Ferrero, La reazione, Torino, Olivetti, 1895, p. 54. 213. Armando Borghi, Mezzo secolo di anarchia (1898-1945), Napoli, ESI, 1954, p. 41.
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ni”, “africanisti” e “antiafricanisti”» – come scrisse Gioacchino Volpe, all’epoca studente a Pisa.214 Più in generale, le manifestazioni di piazza dell’ultimo mandato rivelarono la distanza tra gli uomini politici che – come sintetizzò Cavallotti – avevano avuto «una nobile e grande parte nella storia del loro paese», ma che in quei ricordi ci «vivono ancora» «anche quando la realtà è tanto diversa»,215 e i bisogni di un paese che mutava volto.
214. Gioacchino Volpe, Italia moderna, cit. in Cammarano, Storia dell’Italia liberale, p. 216. 215. Cavallotti, AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Discussioni, Tornata del 21 febbraio 1894, p. 6555.
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Dopo le dimissioni del 6 marzo del ’96 Crispi tornò tra i banchi dei deputati di Sinistra, sperando inizialmente di potersi aprire di nuovo la strada del potere; il suo partito si era però sfaldato, come dimostrarono le elezioni politiche del ’97 e le sconfitte elettorali di Roberto Galli, Abele Damiani, Luigi Miceli e Angelo Muratori.1 Fuori dal parlamento molti gli erano ancora fedeli, tra cui alcuni intellettuali tenacemente crispini, come Carducci, che gli si dichiarò vicino nella tempesta di critiche del dopo Adua, Matilde Serao, Edoardo Scarfoglio e Alfredo Oriani. Nel 1898, in occasione del suo compleanno, la città di Palermo, illuminata e imbandierata, lo festeggiò calorosamente.2 Nel frattempo però fu fatto bersaglio delle «inique macchinazioni»3 dei suoi nemici politici, Rudinì e Cavallotti in primis, che dopo il ’96 portarono avanti una violenta campagna contro di lui dentro e fuori il parlamento. Volendo chiudere definitamente il sipario sull’età crispina si affannarono a mettere in luce gli errori e le illegittimità di cui erano costellati i ministeri del siciliano; venne pure nominata una commissione d’inchiesta, con lo scopo di verificare l’illecita gestione dei fondi del ministero dell’Interno. Crispi si allontanò da Roma, trascorrendo la maggior parte del tempo nella sua residenza napoletana e occupandosi dei problemi economici che lo assillavano. Non smise di pensare alle condizioni del paese: era ancora convinto che la mancanza di educazione civica e la scarsa energia degli 1. Cfr. Crispi a Roberto Galli, 22 marzo 1897, ora in Sotto il Borbone non soffrii tanto, pp. 47-48. 2. Cfr. dispaccio dell’agenzia Stefani, 4 ottobre 1898, ACS, Palumbo Cardella, b. 3, fasc. 36. 3. Crispi a Galli, 16 aprile 1897, in Sotto il borbone non soffrii tanto, p. 52.
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uomini al governo fossero alla radice delle sue debolezze e dei suoi mali. Come spiegò a Guido Baccelli, il suo progressivo isolamento non voleva essere una rinuncia alla politica, ma era piuttosto dettato dalla convinzione che un atteggiamento di distacco fosse il solo possibile: Tu t’inganni nel ritenere che io mi sia ritirato dalla vita politica. La vita politica è la vita intellettuale. È un dovere di patria, non un mestiere, non una carriera. La mia conta 56 anni e durerà finché la mente sarà viva. Più volte hanno tentato ucciderla, ma non ci sono riusciti. Avresti detto meglio, che io rifuggo, come ho sempre rifuggito, dalle cospirazioni parlamentari che detesto, come ho detestato sempre i gruppi, le camarille, le insidie, le miserie personali di Montecitorio.4
Sembra quasi di leggere le lettere spedite a Damiani vent’anni prima quando, deluso dai governi della Sinistra, aveva assunto una posa da eremita della politica. Convito che i suoi nemici volessero attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su di lui per distoglierla dalle loro gravi mancanze, continuò a tutelare la sua immagine. Così, quando Baratieri rese noto il proposito di scrivere un libro sulla guerra africana, allertò Mocenni, Sonnino e Blanc onde evitare che il generale scaricasse le colpe della disfatta sul governo: «Scopo dell’opera è difendersi ed accusare il governo centrale, e specialmente il Crispi, che ad ogni costo bisogna uccidere. È il voto che si ripete da 37 anni», scrisse a Sonnino. E in una seconda lettera a Mocenni spiegò: «Bisogna prevedere tutto. Baratieri è un uomo leggero, e lo possono montare».5 Aveva intenzione di rispondere all’attesissima pubblicazione dando alle stampe le memorie della sua vita. Quest’idea lo accompagnava da un po’ e già nel 1891 aveva dialogato con un editore, proponendo una pubblicazione parziale, che includesse gli anni precedenti al 1870.6 Il materiale non gli mancava: nel corso della lunga carriera aveva riunito in un archivio personale moltissime carte, da cui sovente attingeva per preparare i discor4. Crispi a Guido Baccelli, 19 marzo 1899, ACS, CC, RE, b. 8, fasc. 15. 5. Crispi a Sonnino, 18 agosto 1897, ACS, CC, DSPP, b. 161 e Crispi a Mocenni, 3 settembre 1897, ACS, CC, RE, b. 12, fasc. 22. Mocenni era stato il ministro della Guerra dell’ultimo governo Crispi. Il volume di Baratieri venne pubblicato nel 1898: Memorie d’Africa (1892-1896), Torino, Bocca. 6. Lettera a “caro signore”, 14 dicembre 1891, Copialettere di Crispi 1891-1892, ACS, CC, RE, b. 9, fasc. 93.
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si politici e intervenire nei dibattiti parlamentari. La raccolta e la catalogazione dei documenti era una parte essenziale del suo lavoro, come disse a Giolitti nel 1893: «Tutte le volte che avvengono cose importanti nella vita politica, io ne prendo nota nel mio diario, al quale aggiungo i documenti che vi hanno relazione. In casa mia ho un archivio con varie buste. In ciascuna di esse è un nome con la data».7 La spiegazione, che suscitò qualche ilarità nel parlamento, corrispondeva alle modalità con cui Crispi aveva costruito un immenso impero di carta, ove erano confluiti anche molti atti istituzionali. Dopo Adua, sentendo di aver poco tempo, si decise a riordinare quella magmatica materia per costruire un’opera in più volumi sulla sua vita. L’idea gli stava tanto a cuore che chiese a Cardella di iniziare il lavoro, radunando le carte sparse tra la casa romana e quella di Napoli.8 Nel 1897, facendo testamento, lo nominò esecutore testamentario, insieme a Damiani e all’amico e avvocato Carlo Giampietri, affidandogli il compito di fare la cernita dei documenti conservati nel suo archivio. All’inizio dell’estate del 1901 affittò pure una villa a Posillipo per lavorare con i suoi collaboratori al piano dell’opera, ma la salute non gli permise di continuare e ben presto il progetto si arenò. L’attenzione con cui Crispi aveva predisposto il passaggio della sua eredità intellettuale non bastò a far andare le cose come lui avrebbe voluto: alla sua morte infatti si aprì una vertenza tra i mandatari, lo Stato, che voleva recuperare le carte istituzionali conservate impropriamente da Crispi, e Giuseppina, che chiese di partecipare alla compilazione dell’inventario.9 Ad appropriarsi dei documenti privati fu Tommaso Palamenghi, il nipote di Crispi, figlio di sua sorella, che negli anni Ottanta lo aveva pregato di accoglierlo a Roma: voleva lasciare la Sicilia, cominciare una nuova vita e seguire le sue orme.10 Dopo aver convinto lo zio, si era trasferito nella 7. Crispi, AP, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, I Sessione, Discussioni, Tornata del 22 febbraio 1893, p. 1620. 8. Cfr. Crispi a Cardella, 19 novembre 1896, ACS, Palumbo Cardella, b. 8, fasc. 87. 9. Sulle vicende giudiziarie relative alle carte dell’archivio di Crispi cfr. Giuseppe Paratore, Per La Principessa Di Linguaglossa, Giuseppina Crispi contro i Signori Senatore Abele Damiani, Carlo Giampietri e Palumbo Cardella, Napoli, R. Pesole, 1902 e Gaetano Ingraiti, La vicenda giudiziaria per l’archivio di Francesco Crispi, in La presenza della Sicilia nella cultura degli ultimi cento anni, vol. II, Palermo, Palumbo, 1977, pp. 1051-1066. 10. Le lettere inviate da Palamenghi allo zio negli anni Ottanta si trovano in ACS, CC, Palumbo Cardella, b. 5, fasc. 81.
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capitale, aveva preso il suo cognome ed era entrato nel gruppo dei fedelissimi come suo segretario particolare. Nel 1894 aveva assunto la carica di direttore e poi di proprietario de «La Riforma». Pur non essendo tra i mandatari scelti da Crispi, che gli preferì gli amici di una vita, fu lui a portare avanti il progetto: tra gli anni Dieci e Venti del Novecento lavorò alle carte dell’archivio avuto in eredità e ne curò la pubblicazione in diversi volumi.11 Nelle sue opere Palamenghi fece propria l’interpretazione della parabola politica di Crispi già proposta dagli articoli de «La Riforma» e dalle pubblicazioni dallo Stabilimento tipografico italiano. In sostanza, il nipote rimase fedele alle volontà dello zio, come dimostra anche la scelta di dare alle stampe una raccolta di articoli e scritti a cui Perelli aveva iniziato a lavorare nel 1891 su precise indicazioni di Crispi.12 Successivamente Palamenghi mise in vendita nuclei separati di carte per far fronte alle difficoltà economiche e l’archivio perse la sua organicità. Al di là delle vicende giudiziarie e della manipolazione della memoria di Crispi, operata negli ambienti nazionalisti e fascisti,13 l’ossessione che attanagliò il siciliano alla fine della sua vita era un segno ulteriore dell’im11. Oltre ai citati Carteggi politici inediti di Francesco Crispi cfr. Francesco Crispi, Politica estera. Memorie e documenti raccolti e ordinati da T. Palamenghi-Crispi, Milano, Treves, 1912; Id., Questioni internazionali, Milano, Treves, 1913; Id., La prima guerra d’Africa: documenti e memorie dell’archivio Crispi ordinati da T. Palamenghi-Crispi, Milano, Treves, 1914. Id., Politica interna a cura di T. Palamenghi-Crispi, Milano, Treves, 1924.Per una riflessione sul modo in cui gli ex collaboratori si fecero portavoci della memoria di Crispi nel primo Novecento e sui volumi di Tommaso Palamenghi rimando al mio: Consegnarsi alla storia. Il mito di Francesco Crispi e l’opera di Tommaso Palamenghi, in «Passato e Presente», 116 (2022), pp. 21-38. 12. Il 31 ottobre del 1891 Crispi aveva scritto a Perelli «Se ai due articoli miei bisogna aggiungere altri scritti, devesi mutare il frontespizio, il quale dovrebbe essere così: Francesco Crispi – Ultimi scritti. E poscia vorrebbe dentro prima dei due articoli il titolo: La Francia, L’Italia ed il papato. E poscia, l’articolo stampato a Nuova-York col titolo L’Italia ed il papa e finalmente le lettere a Desmart precedute dal titolo: Gli Stati Uniti d’Europa. Mi sono spiegato?», Copialettere di Crispi 1891-1892, ACS, CC, RE, b. 9, fasc. 93. Cfr. Crispi, Ultimi scritti e discorsi extraparlamentari (1891-1901). 13. Cfr. Francesco Bonini, Il “restauro” di Crispi negli anni del nazionalismo italiano, in «Il Risorgimento», 34, 3 (1982), pp. 184-212; Id., Il mito Crispi nella propaganda fascista, in «Rivista di Storia Contemporanea», 10, 4 (1981), pp. 548-74, ora in Id., Francesco Crispi e l’Unità. Da un progetto di governo un ambiguo “mito” politico, Roma, Bulzoni, 1997; Pier Giorgio Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze, valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, il Mulino, 1985.
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portanza da questi attribuita alla sua immagine pubblica: attraverso il lascito dell’archivio, il suo patrimonio intellettuale, Crispi tentò per l’ultima volta di prolungare la regia di un progetto propagandistico che molta parte aveva avuto nella sua vita politica.
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Indice dei nomi
Abélès, Marc, 100n Adamo, Pietro, 142n Adorni, Daniela, 11 e n, 70n, 74 e n, 80n, 83n, 84n Agnini, Gregorio, 140, 162, 171 Agulhon, Maurice, 14n Albanese, Enrico, 30 Albani, Felice, 157n, 180 Alessandrone Perona, Ersilia, 17n Allegretti, Umberto, 140n Allorant, Pierre, 28n Altobelli, Carlo, 127, 139, 146n, 149n, 181 Alvisi, Giuseppe Giacomo, 124 Amedeo di Savoia, duca D’Aosta, 94 Anghelé, Federico, 34n Angiolini, Alfredo, 179n Antonelli, Pietro, 81 Aprile, Pietro, 145 Arabi, Pascià, 36 Arcuri, Giovanni, 74 n Arisi Rota, Arianna, 15n, 27n, 34n Armao, Gaetano, 75n Arrighi, Cletto, 49, 50 Astuto, Giuseppe, 24n, 75n, 128n, 129n, 135n, 148n, 179n Attanasio, Maria, 22n Audenino, Patrizia, 154n Baccarini, Alfredo, 25, 96 Baccelli, Guido, 188 e n Badaloni, Nicola, 171
Baioni, Massimo, 19, 96n, 100n, 117n Baldissera, Antonio, 116n Ballini, Pier Luigi, 115n Balzani, Roberto, 39n Bandi, Giuseppe, 142, 143 Banti, Alberto Mario, 28n, 44n, 46n, 89n, 90n Baratieri, Oreste, 87n, 108, 168, 169, 188 en Baravelli, Andrea, 19 Barbagallo, Francesco, 17n Barbagallo, Lina, 21, 29n, 30n, 33 e n, 47 e n, 75n, 76, 103, 104 e n, 121 e n, 122n, 129, 134, 141 e n, 146n, 173, 174n, 183 e n, 185n Barbato, Nicola, 128 e n, 157, 158, 166n, 181, 182, 184, 185 Barile, Laura, 68n Barnabà, Enzo, 126n Barrera, Giulia, 17n Barsanti, Pietro, 66, 67n Barth, Hans, 105n Barzilai, Salvatore, 144, 145, 149n, 166 Basile, Achille, 67n Benadusi, Lorenzo, 18n Bergamini, Oliviero, 48n Bergner, Georges, 176n Bertani, Agostini, 48 e n, 49, 172 Bertelli, Luigi (Vamba), 28 e n, 107 e n, 108 Berti, Giampietro, 143n Berti, Luigi, 63n, 75
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L’ultimo titano del Risorgimento
Bertolè-Viale, Ettore, 88, 169n Bertolotti, Costanza, 15n Bertoni, Clotilde, 16n, 125n, 173n, 180n Bertrand, Gilles, 62n Biagini, Eugenio F., 12n Biagini, Gustavo, 124 Biancheri, Giuseppe, 174 Bismarck-Schönhausen, Otto von, 12, 42 e n, 54n, 57 e n, 59, 87, 93, 105, 106, 109 e n, 116, 117, 118 Bixio, Nino, 47 Bizzoni, Achille, 171 e n Blanc, Alberto, 80, 81, 87 e n, 130, 139 e n, 188 Boccaccini, Giampaolo, 25, Bodio, Luigi, 71 e n, 72 e n Boito, Arrigo, 155 Boldetti, Ambra, 135n, 143n Bonavita, Francesco, 170n Bonghi, Ruggiero, 34, 59n, 118 Bonini, Francesco, 17n, 190n Borghi, Armando, 185 e n Borrell, Alexandre, 28n, Bosco, Rosario Garibaldi, 157, 158, 166n, 184 e n Boselli, Paolo, 108, 130, 141 Bottero, Giovan Battista, 57 Boulanger, Georges, 12 e n, 102 Bovio, Giovanni, 22n, 26 e n, 43 e n, 68, 97, 121, 137, 140 e n Bracalini, Romano, 97n, Brandini, Giuseppe, 153 e n Brice, Catherine, 40n, 98n Brunialti, Attilio, 38 e n Bruno, Giordano, 97, 98, 115, 128 Bryce, Lloyd Stephens, 104n Bucciantini, Massimo, 98n Burgio, Luigi, 114 e n Cacioli, Manuela, 16n, 71n, 74n Cairoli, Benedetto, 23 e n, 24, 25, 48, 90 Calce, Giuseppe (Dott. Calce), 131n, 153 e n, 154 e n, 180 e n Calenda di Tavani, Vincenzo, 145 e n Caligola, 162
Cammarano, Fulvio, 10, 11n, 12n, 15n, 60n, 63n, 68n, 134n, 185n, 186n Camporesi, Piero, 94n Canonico Tartaglione, Salvatore, 113n Canzio, Stefano, 164 Capitelli, Guglielmo, 73 e n Caporali, Emilio, 64, 65n, 103 Caprivi, Leo von, 118 Carcassi, Giuseppe, 48 Carducci, Giosuè, 17 e n, 28 e n, 38 e n, 39n, 113 e n, 184, 187 Carini, Giacinto, 47 Carlo Alberto di Savoia, 40, 155 Carnazzi, Giulio, 51n, Carnot, Sadi, 142, 143n, 150 e n, 155 Carocci, Giampiero, 74n Carpi, Leone, 37, 113 Carponi, Cecilia, 19 Carucci, Paola, 134n, Caruso, Carmelo, 28n Casalegno, Giuseppe, 87n Casalini, Antonio, 177n Casanova, Daniele, 112 Casella, Mario, 92n, 126n, 127n, 130n, 143n, 149n, 152n, 153n Caserio, Sante, 142, 150 e n Castellini, Gualtiero, 98n, 160n Castronovo, Valerio, 48n Caterini, Clemente, 167n Catilina, Lucio Sergio, 178 Cavallotti, Felice, 16, 31, 67, 68 e n, 69, 79n, 83n, 108, 127, 138, 145, 149, 172178, 181, 182, 184 e n, 185, 186 e n, 187 Cavasola, Giannetto, 73 e n, 156n, 171n, 180n Cavazza, Stefano, 15n Cavicchioli, Silvia, 15n Cavour, Camillo Benso conte di, 38, 76n, 86n, 110, 112, 116, 133, 135n, 163, 164 Cazzola, Franco, 75n Cecchinato, Eva, 35n Cerbero, 176 Cernuschi, Ernico, 67, 68 e n, 69, 177 Chabod, Federico, 10n, 36n, 37n
Indice dei nomi Cherbuliez, Victor (G. Valbert), 91n Chiarenza, Vincenzo, 28n Cicerone, Marco Tullio, 103 Ciconte, Enzo, 21n Ciconte, Nicola, 21n Cipriani, Amilcare, 76n, 95 e n, 102, 181 Clarke, Peter, 12n Coceva, Giuseppe, 43n, 55 e n, 114 Colao, Floriana, 147n Colella, Nicola Vito, 135n Colin, Henry, 43n Codronchi, Argeli Giovanni, 69n, 94, 95 e n Colajanni, Napoleone, 101 e n, 124, 130n, 137, 139n, 175 e n, 181, 182 e n Comin, Jacopo, 31 e n Composto, Renato, 22n Corazzini, Napoleone, 86n Corseni, Luisa, 160 e n Correnti, Cesare, 25 e n, 29 e n, 39 e n, 40 en Corti, Luigi, 35, 71 Costa, Andrea, 166n, 171, 175 Crispi, Giuseppina, 183, 184, 189 e n Cuomo, Ettore, 28n D’Agostino, Gabriella, 128n Dakhlia, Jamil, 103n D’Almeida, Fabrice, 42n Damiani, Abele, 23n, 24n, 25 e n, 29n, 79, 84n, 85n, 187, 188, 189 e n D’Amico, Silvio, 176 n D’Angelo, Rosalia, 117n D’Attorre, Pier Paolo, 75n De Amicis, Edmondo, 38, 154n De Amicis, Tito, 99n De Boni, Filippo, 48 De Felice Giuffrida, Giuseppe, 128 e n, 136, 138, 142n, 156, 157, 158, 162 e n, 166n, 178-186 De Felice Giuffrida, Maria, 182, 183, 184 De Fort, Ester, 115n Del Balzo, Carlo, 178 e n Del Bianco, Nino, 68n Del Boca, Angelo, 168n Della Peruta, Franco, 100n
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Delporte, Christian, 42n De Luca Aprile, Gerolamo, 23n, 49, 77 e n De Nicolò, Marco, 19 Depretis, Agostino, 9, 21, 22n, 23 e n, 24 e n, 25, 26 e n, 30 e n, 31n, 32, 33, 54 e n, 55 e n, 71, 74 e n, 82, 106 Dereymez, Jean-William, 14n De Sanctis, Francesco, 49 Desideri, Paola, 44n De Zerbi, Rocco, 21, 124n Di Beniamino, Vincenzo, 160 e n Dickens, Charles, 50 Dickie, John, 102n Diemoz, Erika, 65n, 76n, 142n, 151n, 153n Di Nucci, Loreto, 15n Dirani, Ennio, 17n Disraeli, Benjamin, 12 Duggan, Christopher, 11 e n, 57n, 101n, 104n, 130n, 161n Elias, Norbert, 61n Engels, Friedrich, 157 e n Fabrizi, Nicola, 23n, 24, 49 Fait, Gianluigi, 110n Faldella, Giovanni, 21n, 22n, 26 e n, 43n, 45 e n, 101n Falzone, Gaetano, 10n Farini, Domenico, 95n, 181n, 185n Fedele, Santi, 128n, 140n Federico II, re di Prussia, 93 Ferrari, Ettore, 92 Ferrari, Luigi, 69 Ferrari, Monica, 34n Ferraris, Maggiorino, 130 Ferrero, Guglielmo, 185n Ferri, Enrico, 145 e n, 171 Finelli, Pietro, 18n, 42n, 43n, 133n Finocchiaro Aprile, Camillo, 127 Fiorentino, Carlo M., 28n, 50n Fiorino, Vinzia, 102n Fischer, Didier, 12n Fonzi, Fausto, 10n, 150n, 157n, 165n, 170n Forcignanò, Fortunato, 114 e n
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L’ultimo titano del Risorgimento
Forno, Mauro, 48n Fortis, Alessandro, 69, 77n, 95 e n Fortis, Leone, 101n, 102n Foschi, Vittorugo, 160 e n Fozzi, Daniela, 136n Francescangeli, Laura, 163n Francia, Enrico, 37n Fratti, Antonio, 157n Frétigné, Jean-Yves, 62n Friedländer, Ettore, 87n, 88n Fruci, Gian Luca, 15n, 18n, 43n, 102n, 133n Gabelli, Aristide, 134n Galante Garrone, Alessandro, 68n, 172n, 173n, 174n, 175n, 176n, 184n Galimi, Valeria, 18n, 43n, 133n Galletti, Baldassare, 135n Galli, Roberto, 73n, 79 e n, 187 e n Galli della Loggia, Ernesto, 15n Galliano, Giuseppe, 170, 171n Gallori, Emilio, 164 Galzerano, Giuseppe, 150n Gambetta, Léon, 12 Ganci, Massimo, 10n Garibaldi, Anita, 15n, 37 e n, 96 Garibaldi, Giuseppe, 15 e n, 35, 37 e n, 38, 44n, 46, 47n, 50, 98, 99n, 100, 110n, 112 e n, 121 e n, 122n, 128, 149n, 154, 162 e n, 163 e n, 164n, 165n, 166n, 167, 179 Garibaldi, Menotti, 164, 165n, 166, 169 Garimberti, Cesare, 76 e n Garrigues, Jean, 12n, 28n Gavazzi, Ludovico, 124 Gerstlé, Jacques, 43n Gervereau, Laurent, 42n Giacone, Alessandro, 62n Giampietri, Carlo, 189 e n Giampietro, Emilio, 127, 175 Giannetto, Marina, 74n Gibellini, Pietro, 28n Gigli Marchetti, Ada, 54n Ginsborg, Paul, 44n Giolitti, Giovanni, 16, 57, 118, 120, 121, 122, 124, 125, 126, 128, 129, 130, 136, 152 e n, 170n, 173, 174, 175n, 189
Girault, René, 14n Gladstone, William Ewart, 12 e n Gogol’, Nikolaj Vasil’evič, 50 Gozzini, Giovanni, 48n Gramsci, Antonio, 10 e n, 153n Grand-Carteret, John 42 e n Grandis, Antonio, 27n Graziosetto, Michele, 54n Greppi, Giuseppe, 71 Grilli, Alfredo, 17n Grimaldi, Bernardino, 118 Guala, Carlo, 75 Guerrieri, Sandro, 19 Guglielmo II, imperatore di Germania, 91 e n, 92, 93 e n, 94n, 98 e n Guiccioli, Alessandro, 62 e n, 75 e n, 92 e n, 155 e n, 159 e n Gundle, Stephen, 15n Gustapane, Enrico, 73n Herz, Cornelius, 174 e n Iacchi, Angenore, 160n Imbriani, Matteo Renato, 69 e n, 108, 135n, 137 e n, 138 e n, 139n, 143 e n, 144 e n, 146 e n, 176, 181, 183 Infelise, Mario, 54n Ingraiti, Gaetano, 189n Ihl, Olivier, 14n Iraci, Sebastiano, 116 Isabella, Maurizio, 117n Jacovacci, Francesco, 89n Kaenel, Philippe, 42n Kálnoky, Gustav von, 76 Kertzer, David, 14n Kuliscioff, Anna, 179 Labanca, Nicola, 168n Labbate, Marco, 19 Labriola, Antonio, 143n Lanaro, Silvio, 11 e n, 37n, 38n, 43n, 115n Landi, Achille, 16, 173
Indice dei nomi Lanza, Francesco, 110 e n Lanza, Giovanni, 110 e n, 139n Lega, Paolo, 142, 150n, 151 e n, 155, 158, 159 e n, 160, 161 Lemmi, Adriano, 65 e n, 121 Leone XIII, papa, 92, 121, 164, 165, 166n Lepri, Sergio, 86n Levi, David, 139 e n Levi, Fabio, 10n Levi, Primo, 16 e n, 17, 23n, 24n, 30, 31, 32, 33n, 36n, 48, 49 e n, 50, 51 e n, 52 e n, 53 e n, 54n, 55, 81, 84, 87 e n, 88n, 94n, 118 e n, 119n, 120 e n, 129 e n, 172, 173, 176 Levillain, Philippe, 14n Levra, Umberto, 10n, 11 e n, 14n, 46n, 110n Lilti, Antoine, 15n Lombroso, Cesare, 147n Lollini, Vittorio, 157n, 166n, 170n Lucchesi, Michele, 77 Lucchesi, Oreste, 142 Lucchetti, Pietro Alberto, 70n, 78n Lucchini, Luigi, 58n, 142n, 146 Luciani, Francesco, 96n Lupo, Salvatore, 10n, 43n Luzzato, Sergio, 10n Luzzatto, Riccardo, 141 e n, 149n Macola, Ferruccio, 85n, 178 Macry, Paolo, 140n Madrignani, Carlo A., 28n Maggi, Vanessa, 19 Magliani, Agostino, 53n, 90n Majolo Molinari, Olga, 48n Malvano, Giacomo, 71, 80 Mana, Emma, 173n Manacorda, Gastone, 139n, 141n, 155n, 181n Manali, Pietro, 128n Mancini, Pasquale Stanislao, 36n Manfredi, Narco, 13n Manin, Daniele, 99n Mangoni, Luisa, 62n, 123n Marabini, Ezio, 180 Marchetti, Aristide, 112
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Marcora, Giuseppe, 100n Maréchal, Denis, 42n Marescalchi, Alfonso, 82 e n, 83 e n Margherita di Savoia, regina d’Italia, 94, 97n Margiotta, Domenico, 105n Marinuzzi, Antonio, 77 e n Marroni, Vincenzo, 160, 161n Marselli, Nicola, 38 Marx, Karl, 128 Marucco, Dora, 71n Mascilli Migliorini, Luigi, 54n Mattei, Emilio, 60n Matthew, Gray, 43n Mayor des Planches, Edmondo, 65n, 68, 78, 84n, 94n Mazzini, Giuseppe, 10n, 38 e n, 99n, 100, 128, 155, 162, 166n McWilliam, Rohan, 12n Mecacci, Ferdinando, 142n Medici, Giacomo, 47 Melis, Guido, 71n, 81n Menabrea, Luigi Federico, 68 Menelik II, imperatore d’Etiopia, 108, 118, 168, 169, 170 e n, 171 Mengola, Antonio, 85n Mercatelli, Luigi, 85n, 88n Meriggi, Marco, 60n, 117n Messina, Rino, 179n, 181n, 182n Miceli, Luigi, 187 Miceli, Vincenzo, 112n Milizia, Bice, 115n Millefiorini, Andrea, 11n Milza, Pierre, 62n Minghetti, Marco, 163 e n Mocenni, Stanislao, 188 e n Mollier, Jean-Yves, 12n Montaldo, Silvano, 147n Montalto, Giacomo, 157, 158 Montanari, Massimo, 94n Montevecchi, Luisa, 17n, 82n Montmasson, Rosalia, 21, 22 e n, 104n Morachioli, Sandro, 18n Morandi, Matteo, 34n Morandi (delegato di PS), 181n Morelli, Nicola, 135n
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L’ultimo titano del Risorgimento
Morra di Lavriano, Roberto, 77n, 108 e n, 136, 139, 180 e n, 182 e n, 184 Morre, Ange, 77, 78 e n Mosè, 113 Mosse, George, 14n Municchi, Carlo, 151n Mura, Salvatore, 141n Muratori, Angelo, 187 Murialdi, Paolo, 48n, Musacchia, Giuseppe, 113n, 114 Musella, Luigi, 77n Napoleone I Bonaparte, 116 Napoleone III Bonaparte, 36 e n, 67, 151 Nicotera, Giovanni, 21, 22, 24, 25, 31n, 125 Nocito, Pietro, 142n Oberdan, Guglielmo, 66, 67n, 162n Odescalchi, Baldassarre, 92, 144 e n Oriani, Alfredo, 17 e n, 113, 187 Ottolini de Campi, Luigi, 121n Pacella, Pietro, 115 Pacifici, Vincenzo, 10n Palamenghi-Crispi, Tommaso, 9n, 22n, 78, 117, 119n, 189 e n, 190 e n Palazzolo, Maria Iolanda, 54n Palma di Cesnola, Alessandro, 110n Palmerston, Henry John Temple III, 116 Palombelli, Cecilia, 19 Palumbo Cardella, Giuseppe, 24n, 29n, 30, 34n, 69n, 78, 79n, 118n, 119n, 120n, 121n, 122n, 146n, 151n, 180n, 187n, 189 e n Papadia, Elena, 13n, 18n, 19, 27n, 95n, 179n, 180n Paratore, Giuseppe, 189n Passannante, Giovanni, 23 Pavone, Claudio, 17n Pecci, Luigi, 112n Pécout, Gilles, 115n Pedullà, Gabriele, 43n Pellegrini, Vincenzo, 70n Pennazzi, Luigi, 85n Perelli, Luigi, 16, 48, 49 e n, 50 e n, 51 e n, 52n, 120 e n, 190 e n
Perez, Francesco, 22n Perodi, Emma, 130 e n, 157n, 163, 168 e n, 169n Perticone, Giacomo, 28n Petrizzo, Alessio, 14n, 15n, 102n Petruccelli Della Gattina, Ferdinando, 26 e n, 28, 49n, 101n Pieragnoli, Guido, 62n Pieri, Dino, 94n, 95n Pincetti, Virginia, 161 e n Pinelli, Giuseppe, 79 e n, 158, 184 Pio IX, papa, 15n, 40 Piretti, Maria Serena, 71n Pisani Dossi, Carlo Alberto (Carlo Dossi), 16 e n, 17, 48, 49 e n, 50, 65 e n, 71, 72 e n, 76n, 80 e n, 81 e n, 82 e n, 84n, 85n, 86 e n, 87 e n, 88n, 94n, 104 e n, 109 e n, 112n, 113n, 117, 122 e n, 127n, 134n, 152, 153n Piscitelli, Enzo, 16n, 52n, 53n Plebano, Achille, 125 Pombeni, Paolo, 11n, 43n Porciani, Ilaria, 14n, 163n Prampolini, Camillo, 140, 171 Preschen, Helene von, 105 Prinetti, Giulio, 81n Puccioni, Emilio, 85n Pulcini, Elena, 11n Quondam, Amedeo, 113n Rabagas, 172, 173, 175, 176 e n Raffaele, Giovanni, 23n Rainero, Romain H., 171n Ragionieri, Ernesto, 10n, 14n, 91n Ramagnini, Ferdinando, 75 Rampolla del Tindaro, Mariano, 165 Randaccio, Roberto, 176n Rattazzi, Urbano, 92n, 175n Recchioni, Emidio, 151n Reinach, Jacques de, 174n, 175n Repossi, Angelo, 114 e n Ressman, Costantino, 151n Riall, Lucy, 15n Riario Sforza, Cristina, 116
Indice dei nomi Ricci, Aldo Giovanni, 17n, 40n Riccio, Vincenzo, 21 e n, 22n, 23n, 104 e n, 114, 152n Rideing, W.H., 104n Ridolfi, Maurizio, 13n, 94n, 100n, 123n, 163n Riosa, Alceo, 42n Rioto, Vincenzo, 33n Rito, Giovanni, 66n Roccucci, Adriano, 117n Romanelli, Raffaele, 10n, 70n, 72n, 77n Romano, Salvatore Francesco, 128n Romano, Ruggiero, 10n Ronchetti, Scipione, 52n Rossi, Lauro, 79n Roux, Luigi, 57 Rovani, Giuseppe, 49, 50, 51n Rudinì, Antonio Starabba marchese di, 32, 81n, 118, 120, 141, 174, 175n, 187 Sabatier, Gérard, 14n Sabbatucci, Giovanni, 66n Saffi, Aurelio, 66, 96 e n, 99, 170n Saint-Cère, Jacques, 105 e n Salisbury, Robert Arthur Talbot Gascoyne Cecil, III marchese di, 65n, 118 Salvadori, Massimo L., 15n Salvemini, Gaetano, 10 e n Sangiorgi, Ermanno, 76n Santilli, Fabio, 18n Santulli, Francesca, 43n Saracco, Giuseppe, 108, 130, 169 Sardou, Victorien, 175, 176n Sbriccoli, Mario, 147n, 149n Scarfoglio, Edorardo, 17 e n, 50, 88n, 113, 187 Scarpetta, Ferdinando, 113n Schiera, Pierangelo, 60n Schillaci, Michela, 178n Schwartz, Barry, 13n Scipione, Publio Cornelio (Scipione l’Africano), 117 Scotson, John L., 61n Seismit-Doda, Federico, 66 Sensales, Giuseppe, 75 Serao, Matilde, 17, 50 e n, 98n, 113, 187
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Sergi, Pantaleone, 154n Sernicoli, Ettore, 76 e n, 148n, 150n, 152 en Serra, Enrico, 16n, 72n, 80n, 81n, 84n, 86n, 87n Serventi Longhi, Enrico, 18n Shelden, Michael, 13n Sighele, Scipio, 180 e n Silvagni, Davide, 75 Simonelli, Federico Carlo, 19 Sipione, Corrado, 158n, 162n, 166n, 170n, 171n, 184n Sironi, Siro, 158 e n Sirtori, Giuseppe, 47 Socci, Ettore, 49, 127, 157n Solms-Sonnenwalde, Eberhard conte di, 57n Sommaruga, Angelo, 28 e n Sonnino, Sidney, 108, 130, 137, 141, 169, 188 e n Sorba, Carlotta, 44n, 103n Soresina, Marco, 71n Soro Pirino, Gavino, 99n Spirano, Paolo, 153n Spirito, Francesco, 114 e n Stecchetti, Lorenzo (Olindo Guerrini), 178 en Stefani, Giuseppe, 76n Stillman, William James, 98n, 101 e n, 119 e n, 161 Taaffe, Eduard von, 76 Tacito, Publio Cornelio, 111 Tanlongo, Bernardo, 124 e n, 125, 170 Tavani Arquati, Giuditta, 156n, 162, 166n Tavassi, Vincenzo, 109n, 156n, 179 Teja, Casimiro, 106, 107, 108 e n Tkalac, Enrico, 84 Tobia, Bruno, 163n, 165n Tognotti, Eugenia, 29n Tonelli, Anna, 19 Tosatti, Giovanna, 74n, 151n Tranfaglia, Nicola, 10n, 54n Tricoli, Giuseppe, 10n Troncone, Pasquale, 140n Trotta, Enrico, 113n, 114
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L’ultimo titano del Risorgimento
Trova, Assunta, 170n Trovalusci, Sara, 28n, 190 Turati, Filippo, 140 e n, 149, 155 e n, 157 e n, 173, 179 Turco, Giuseppe, 76 Turi, Gabriele, 54n Turiello, Pasquale, 37 Umberto I di Savoia, re d’Italia, 23, 67 e n, 87, 91, 92 e n, 93 e n, 94 e n, 95n, 96, 97n, 99, 104, 109, 120, 129, 138 e n, 167 Vaillant, Auguste, 142, 150n Valera, Paolo, 104 Vamba vedi Bertelli, Luigi Varni, Angelo, 39n, 71n Vastarini Cresi, Alfonso, 148 e n Veca, Ignazio, 15n Venchioni, Amelia, 160n Venezian, Giacomo, 166 Verdi, Giuseppe, 113 Verre, Gaio, 178 Verro, Bernardino, 157, 158, 182 Vetter, Cesare, 130n
Vigezzi, Brunello, 14n Villa, Tommaso, 58 e n Villamarina, Emanuele Pes, marchese di, 92 Vinciguerra, Mario, 17n Violante, Luciano, 90n, 135n Visone, Giovanni, 41n Vittoria, Albertina, 54n Vittorio Emanuele II di Savoia, re d’Italia, 36, 37 e n, 38, 39, 41, 49n, 96, 99n, 100 Vivanti, Corrado, 10n, 38n Volpe, Gioacchino, 10n, 186 e n Wagner, Richard, 155 White Mario, Jessie, 119n Winspeare, Antonio, 75, 171n, 175n Zagari, Franco, 90n Zambelli, Carlo, 111n Zanardelli, Giuseppe, 23, 24, 25, 129, 130, 147, 174 Zanatta, Loris, 60n Zandra, Camillo, 110n Zangheri, Renato, 94n Zazzarone, Filippo, 160n Zunino, Pier Giorgio, 190n
Finito di stampare nel mese di febbraio 2023 da The Factory s.r.l. Roma