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Italian Pages 228 Year 2005
Olindo Malagodi
Tlregimeliberale e l’avvento del fascismo acura di Fulvio Cammarano
Rubbettino
FOND EINAU RoMA -
FONDAZIONE LUIGI EINAUDI - ROMA
L'albero della libertà “’
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. Olindo Malagodi
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
a cura di Fulvio Cammarano
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Introduzione
Olindo Malagodi nacque a Cento, in provincia di Ferrara, il 28 gennaio 1870. Era figlio, come dice egli stesso, «della piccola borghesia agraria della Valle del Po». Il padre era stato un patriota che aveva partecipato ai moti del 1848. Dopo avere frequentato la facoltà di Lettere a Bologna e a Firenze, Malagodi si laureò a Milano nel 1893. Attratto sin da giovane dai temi della questione sociale, aderì al socialismo e appena laureato fondò e diresse per breve tempo a Reggio Emilia un precario quotidiano, «Il punto nero»!. Il titolo riprendeva provocatoriamente l'epiteto affibbiato dagli ambienti governativi alla città di Prampolini, da alcuni anni fucina del socialismo riformista. Dal 1892 cominciò la collaborazione alla «Critica Sociale» di Filippo Turati, dove scriveva anche di critica letteraria. Tuttavia, ben presto Malagodi maturò una sorta d’indipendenza di giudizio nei confronti di alcuni dei canoni più tradizionali della cultura socialista. Al giovane centese non 1 Nelle sue memorie, scritte fra il 1938 ed il 1964, Giuseppe Prezzolini ricorda come, tra i giornali letti dal padre, ci fosse «anche ‘Il Punto Ne-
ro’, che è il primo quotidiano socialista pubblicato in Italia, e lo dirige un tale Malagodi». In realtà molto probabilmente Prezzolini non collega quel «tale Malagodi» al direttore della «Tribuna» con cui aveva avuto modo di confrontarsi personalmente anni prima (G. PREZZOLINI, L’Italiano inutile, Milano, Rusconi, 1983, p. 11).
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
sfuggivano quegli eccessi «meccanicistici» di cui era sempre più intriso il socialismo italiano e che per lui rappresentavano un motivo di ripulsa, estetica prima ancora che politica. Fu proprio, non a caso, un pretesto letterario, cioè la sua stroncatura, dalle colonne della rivista turatiana, di un romanzo di Émile Zola, fortemente criticata dalla redazione che riteneva lo scrittore francese un mito intoccabile, a favorire, sin dal
1892, una sorta di graduale allontanamento dal movimento socialista. Continuò peraltro, sia pure sempre più saltuariamente, a collaborare alla rivista di Turati sino al 1907.
Una rapida scorsa alle recensioni firmate da Malagodi tra il 1892 ed il 1893 non solo mostra l'orizzonte culturale di un'epoca, ma delinea anche il passaggio obbligato di formazione di una intera generazione di giovani che in quegli anni si affacciavano sulla scena pubblica: dal darwinismo e dalla psichiatria lombrosiana alla Sociologia criminale di Enrico Ferri, passando per la Degererazione di Nordau e la Coppia criminale di Sighele. Lo scientismo entrava in ogni dove e faceva rima con il socialismo?. La scienza, certo, ma per Mala-
godi anche la letteratura si prestava come strumento per decifrare la complessità del reale: Ada Negri, Arturo Graf, tanto per fare alcuni nomi. D'altronde, la precoce sensibilità letteraria di Malagodi rappresentò sin d’allora la premessa ad una forma alternativa e parallela di espressione che negli anni seguenti l'avrebbe condotto a una cospicua produzione narrativa e poetica? capace, in modo del tutto peculiare, di affiancarsi (ma talvolta anche di affrancarsi) all’intensa atti-
vità di giornalista, saggista e commentatore politico. 2 Alcuni dei titoli degli articoli di quegli anni di Olindo Malagodi per la «Critica Sociale» sono indicativi: Gli individui e la società, Il socialismo e la scienza, Selezione e società, Partiti scientifici.
} Le poesie di Olindo Malagodi sono raccolte in: Ur libro di versi (1908), Madre Nostra e altri versi (1914) e Poesie vecchie e nuove (1928).
I racconti in: Il Focolare e la Strada (1904 e 1922), Nonni, padri e nepoti (1924), La casa della doppia vita (postumo nel 1934).
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Introduzione
Nel 1895 decise di trasferirsi a Londra, proprio mentre nella capitale inglese Luigi Albertini, suo collega di poco più giovane, stava completando quel breve (solo otto mesi) ma fondamentale apprendistato di studioso e soprattutto di giornalista, che si sarebbe rivelato così decisivo nella storia del giornalismo italiano. Negli anni successivi i due avrebbero avuto diverse e cordiali occasioni d’incontro4. Malagodi rimase nel Regno Unito sino al 1910 come corrispondente prima de «Il Secolo», quotidiano radicale di Milano, e, in
seguito, della «Tribuna», giornale di Roma vicino alle posizioni di Giolitti. Per il giovane radical-socialista, «sbalzato e succhiato, col suo piccolo bagaglio di idee ancora provinciali, nel gorgo vorticoso della metropoli inglese ed imperiale» l'effetto di quella nuova realtà «fu immediato: bastarono meno di due anni di quel soggiorno [...] per guarirlo dal suo socialismo fra evangelico e borghigiano, non distruggendo, ma spostando le sue inclinazioni e convinzioni intorno a nuovi centri di pensiero». I quindici anni trascorsi in Inghilterra, in effetti, si rivelarono fondamentali per l’allargamento dei propri orizzonti culturali e l’acquisizione di una più vasta prospettiva di giudizio, naturale conseguenza della frequentazione degli stimolanti ambienti intellettuali, politici ed economici della capitale inglese, «centro cosmopolita per eccellenza e la più alta specola aperta sulla vita del mondo». L'Inghilterra inoltre, e soprattutto, fu per Malagodi fonte d’ispirazione nella formazione di un metodo professionale tutto incentrato sulla chiarezza espositiva e di giudizio che ne fecero negli anni a cavallo della prima guerra mondiale uno dei più ascoltati commentatori politici del tempo. La lunga permanenza in Inghilterra, intervallata peraltro da viaggi all’estero o da rientri in Italia, come quello per un'inchiesta in Calabria in occasione del terremoto del 4 Cfr. L. ALBERTINI, I giorni di un liberale, Diari Il Mulino, 2000, passi.
1907-1925, Bologna,
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
19055, lo trasformò, come ebbe a scrivere Riccardo Bacchel-
li, in un «anglofilo non anglomane, anglologo [...] non anglicizzato»6, permettendogli di acquisire, con la conoscenza dei grandi temi dello scenario internazionale, la necessaria distanza in quella decisiva e inevitabile opera di comparazione da cui sarebbe discesa una più profonda comprensione dell'importanza dei meccanismi istituzionali liberali e della forza delle radici storiche per lo sviluppo e il consolidamento delle moderne libertà politiche. Fu, non a caso, in tale stimolante ambiente che Malagodi concepì un’originale indagine sull’imperialismo. Si trattò di uno studio che, sia pure nell’ottica di un ottimismo liberale ancora ingenuamente fiducioso nei fattori di compensazione in senso democratico insiti nelle grandi trasformazioni economiche e sociali in corso, non mancava di fornire acu-
te osservazioni sul tema, recependo sensibilità ed analisi allora in auge nei circoli intellettuali britannici. Il volume anticipò di un anno la prima sistematica riflessione di John A. Hobson (il quale, tuttavia, aveva già affrontato il tema sulla
«Contemporary Review») sul fenomeno destinato a caratterizzare buona parte del XX secolo?. Nel 1909 Malagodi, con l’industriale Cesare Goldman, /orga manus di Albertini, av-
viò delle trattative, poi fallite, per l'acquisto de «Il Secolo»8. Erano dunque già maturi i tempi per il ritorno in patria. Scelto personalmente da Giolitti, tra una rosa di candidati, alla direzione della «Tribuna»?, Malagodi rientrò alla fine ? L'inchiesta fu pubblicata con il titolo Calabria desolata, Roma-Torino, Casa editrice nazionale, Roux e Viarengo, 1905.
6 R. BACCHELLI, Olindo Malagodi nel centenario della nascita: Cento, 28 gennato 1970, Cento, Tip. Baraldi, 1973, p. 10. 7 O. MALAGODI, Imperialismo: la civiltà industriale e le sue conquiste, Milano, Fratelli Treves, 1901.
8 Cfr. L. ALBERTINI, I giorni di un liberale, cit., pp. 117-118. ? Per le lettere inviate a Giolitti dai diversi intermediari impegnati nella soluzione del problema della nuova direzione del giornale, fortemente contesa dal giovane deputato Andrea Torre, si veda Dalle carte di Gio-
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del 1910 in Italia!0, diventando uno dei più autorevoli giornalisti italiani; autorevolezza amplificata, nella sfera politica, dalla notoria dimestichezza con gli ambienti governativi e dall'esistenza di un rapporto di crescente stima ed amicizia con Giolitti verso cui, tuttavia, manteneva una riconosciuta
indipendenza di giudizio. Tale indipendenza non nasceva, secondo lo stesso Malagodi, da «insofferenza o partito preso; ma perché adusato nel lungo soggiorno estero a guardare alle cose nostrane con una visuale diversa da coloro che vi erano immersi». Scrisse in proposito Bacchelli: cinquantennio del Regno, impresa di Tripoli, premio della lira sull’oro, conversione della rendita, l’Italia «grande potenza» e
paese industriale per il direttore della «Tribuna», austero foglio nel chiassoso giornalismo della capitale, erano l’ambiente favorevole al suo compito di sostenitore dignitoso, di critico illustratore della politica giolittiana. E lo adempì in modo che egli acquistò stima e fiducia di tutti gli uomini influenti e di conto di ogni parte e partito, tanto e così che nel fatale luglio del 1914, nella neutralità e nel conflitto fra neutralisti ed inter-
ventisti [...] stima e fiducia si fecero confidenza e richiesta di pareri illuminanti!!,
Pochi mesi prima, nell’ottobre del 1913, in occasione delle prime elezioni a suffragio quasi universale maschile, aveva anche tentato, senza riuscirvi, di entrare alla Camera co-
me rappresentante del collegio di Cento. Il suo avversario, il socialista Armando Bussi, ottenne oltre 7.500 voti a fronte vanni Giolitti. Quarant'anni di politica italiana, vol. III, Dai prodromi della grande guerra al fascismo, a cura di C. PAVONE, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 17-30. 10 Il 17 novembre 1910 la «Tribuna», salutando il direttore uscente
Luigi Roux, annunciava che il Consiglio di amministrazione «nell’attesa che possa essere nominato, secondo le norme dello statuto sociale, il nuovo Direttore, ha chiamato a reggere la direzione il corrispondente da Londra, Olindo Malagodi» (Ibidem p. 19). 11 R. BACCHELLI, Olindo Malagodi, cit., p. 12.
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dei poco più di 5.000 di Malagodi. Il collegio, tradizionalmente liberale, era perso ma Malagodi, osservando gli esiti di analoghi confronti in quell'area, poteva ritenersi soddisfatto. Inoltre, con quella sconfitta, aveva in fondo simbolicamente saldato il conto con il suo passato. Una decisa intonazione nazionalista si era affiancata alle sue tradizionali posizioni, come si può evincere dal discorso tenuto a Cento durante la campagna elettorale. Riprendendo il Pascoli della «grande proletaria si è mossa» sottolineò, parlando della conquista della Libia, l’aspetto del nuovo ruolo del popolo italiano, non più ilota e di conseguenza pronto a partecipare alla competizione internazionale!2. Non a caso dunque, tra il 1914 e l’entrata dell’Italia in guerra, Malagodi prese le distanze dal neutralismo assoluto di Giolitti, pur mantenendo nei confronti dello statista un sentimento di rispetto ed amicizia qua e là attraversato da riflessi di irritata incomprensione!3. Nei primi mesi provò a sfumare la posizione di
chiusura dell’ex presidente del Consiglio di fronte a un possibile intervento in guerra. In tale contesto andrebbe inquadrata la decisione di Malagodi di apportare, prima di pubblicarlo, alcune modifiche
al testo della famosa (e all’epoca famigerata) lettera di Giolitti al deputato Camillo Peano (la «lettera del parecchio»), nella speranza di mitigarne l’impatto presso gli ambienti interventisti. «Discutemmo con Peano la cosa, e si decise —
scrisse Malagodi — di pubblicare la lettera [...] mutando una parola: ‘Credo che z0/to si possa ottenere’ [dai negoziati con l’Austria in cambio della neutralità italiana ndr.] con 12 Cfr. I/ discorso-programma del dr. Olindo Malagodi, «Gazzetta Ferrarese», 13-10-1913.
13 Annota per sé nel 1917: «Uomo superiore nella sua sfera», ma anche «credo che Giolitti sia arrivato in quell’età in cui il cervello non produce più, ma lavora secondo le tendenze e i metodi già fissati» (Note e pensieri generali sulla guerra, Fondazione Luigi Einaudi, Fondo Giovanni Malagodi — d’ora in poi FGM - Busta 489).
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‘parecchio’; che a me pareva, ed infatti è, nell’uso, espres-
sione più bonaria e meno forte»!4. In realtà la sortita ottenne l’effetto opposto e proprio quell’avverbio finì per moltiplicare lo sdegno e il sarcasmo antigiolittiano dei nazionalisti. «Giolitti non gliene serbò rancore. È un particolare minuscolo, ma lumeggia il carattere dei due, che la gravità di quel loro capitale dissenso non rese avversi né disuniti»!. Anche a guerra in corso Malagodi non rinunciò a battersi per evitare quella che lui riteneva una pericolosa deriva per l’immagine e le prospettive future dello statista, adoperandosi energicamente per evitare l’identificazione tra Giolitti e i cosiddetti «giolittiani» e per ricucire, forte del suo impegno interventista, i rapporti tra Giolitti e i settori politici
e sociali favorevoli all'entrata dell’Italia in guerra. A tale proposito, nei drammatici giorni che seguirono la rottura del
fronte a Caporetto, il direttore della «Tribuna» non esitò a inviare un accorato appello al politico di Dronero, invitandolo a riprendere il ruolo che gli spettava nella vita pubblica italiana: Ella — scrisse il 31 ottobre 1917 — deve rientrare in questo momento nella vita nazionale. Ella deve proclamare che dalla situazione attuale l’Italia non può uscire che per una via, e per la via diritta e maestra, con la resistenza sino agli estremi ed a qualunque costo per raggiungere la sola pace possibile: la pace con la vittoria, a fianco dei nostri alleati. Qualunque scorciatoia non condurrebbe che ad un precipizio. La Sua parola in questo senso avrebbe oggi un valore immenso, eserciterebbe una risanatrice,
forse decisiva influenza sullo spirito di tutti gli italiani. Mi perdoni se sento di doverle dire la verità intera, aspra e cruda: purtroppo, sia per accuse settarie, sia per la pochezza di alcuni che si chiamano Suoi seguaci, il Suo nome e l’epiteto di giolittiani si 14 O. MALAGODI, Conversazioni della guerra 1914-1919, 2 voll., a cura di B. Vigezzi, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1960, vol. I, p. 42. 15 R. BACCHELLI, Olindo Malagodi, cit., p. 17.
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Il regime liberale e l'avvento del fascismo identifica in molti cervelli, specie nelle classi umili, con l’idea del-
la pace a qualunque costo, anche a prezzo della disfatta e del disonore nazionale. E questo purtroppo, negli stessi ranghi dell’esercito, in specie ai soldati a cui si domanderà il compito di così aspri doveri. Solo la sua parola chiara, ferma, decisiva, può sfatare la triste leggenda, dare a tutti un monito austero, e fare com-
prendere alle popolazioni ed ai soldati che pensare nel suo nome significa e non può oggi significare altro che compiere il proprio dovere, sino agli estremi, combattendo per la salvezza presente e pei destini futuri del proprio paese. Venga all’apertura del Parlamento e parli, e compi (sic) questo grande atto morale, che sarà un soccorso alla patria ed un onore imperituro pel Suo nome!6,
Terminata la guerra, i rapporti tra i due ripresero l’antica consuetudine al punto che Malagodi riuscì, nel 1921, a convincere un riottoso Giolitti a scrivere le memorie della propria vita. A quell’opera il direttore della «Tribuna» collaborò nella raccolta e organizzazione della cospicua mole di documenti necessari alla stesura delle memorie e con un’introduzione sulla figura e l’opera di Giolitti!?. Per Malagodi era iniziata la stagione dei riconoscimenti pubblici. Dal 1916 era diventato corrispondente da Roma di uno dei più prestigiosi quotidiani dell'America Latina, «La Naciòn» di Buenos Aires, a cui col-
laborò sino al giorno della sua morte. L’8 giugno 1921, su proposta di Giolitti, fu nominato senatore mentre il 27 dicembre dell’anno successivo il re del Belgio gli conferì la nomina di commendatore dell'Ordine di Leopoldo. In Senato prese la parola una sola volta, il 31 marzo 1922, per un’interpellanza su due decreti legge relativi a questioni agrarie in cui contestava al governo dimissionario l'opportunità di tali provvedimenti in quel frangente e la scarsa sensibilità costituzionale. Ultime soddisfazioni prima dell’avvento del fascismo. 16 O. Malagodi a G. Giolitti, 31-10-1917, Fondazione Luigi Einaudi, FGM, busta 486. !7 G. GIOLITTI, Merzorie della mia vita, Milano, Treves, 1922.
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Sino alla fine Malagodi rimase tenacemente aggrappato all’illusione che la minaccia del «colpo di stato» di Mussolini sarebbe stata sventata. Gaetano Salvemini ricorda che il 28 ottobre 1922, al culmine della crisi e con le squadre fasciste alle porte di Roma, Prezzolini «andò a parlare con Malagodi [...] mettendolo in guardia contro i pericoli della situazione. Malagodi era assolutamente ottimista; guardò l’orologio (erano le dieci) e disse: fra due ore, proclamato lo stato d’assedio, tutto sarà finito’»!8. Finiva invece, insieme al
suo ottimismo, l’Italia liberale. Malagodi, infatti, da quel momento comprese, a differenza di una consistente parte di intellettuali e politici, che il fascismo non sarebbe stato una meteora!? e avrebbe comportato uno stravolgimento profondo del sistema e della cultura stessa del confronto politico. Egli, d'altronde, aveva avuto modo di sperimentare da
subito, sulla propria pelle, la vera essenza del nuovo regime. Fascisti al comando dello squadrista Alfredo Tamburini l’avevano aggredito il 31 ottobre del 1922. Secondo quanto riporta Salvemini, il mandato di dar l'olio di ricino a Malagodi fu dato da Igliori20, Questi spiegò l’iniziativa come rappresaglia per gli articoli pubblicati da Malagodi sulla «Tribuna» contro D'Annunzio nei giorni della crisi di Fiume2!. Ma dietro Igliori c'erano giornalisti ro18 G. SALVEMINI, Opere, VI, Scritti sul fascismo, vol. II, a cura di N. Valeri e A. Merola, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 57 e ID., Merzorie e soliloqui. Diario 1922-1923, a cura di R. Pertici, Bologna, Il Mulino, 2001, p. SIZ25
19 Luigi Albertini annota nel suo diario, il 3 agosto 1923: «È inutile illudersi: questo regime è destinato a durare a lungo. Tale il parere di Malagodi che mi ha fatto ieri una lunga visita. Egli rispecchia l’ambiente di Giolitti, il quale, secondo lui, non ebbe a suo tempo dal re i necessari appoggi» (L. ALBERTINI, I giorni di un liberale, cit., p. 412). 20 Ulisse Igliori è un fedelissimo di D'Annunzio passato al fascismo. 21 D'Annunzio, «non essendo mai riuscito, pure con tutto lo sforzo di un’ambizione disperata a portare la verità della vita nella letteratura, 0ggi, abusando di circostanze eccezionali, tenta la inversione di portare la
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mani che erano in urto personale con Malagodi per questioni di stipendi, pare. [...] Malagodi fu invitato dai fascisti a venire in automobile ad una riunione di direttori di giornali; fu un vero agguato?2.
La sua condanna del fascismo ne causò l’allontanamen-
to, nel 1923, dalla direzione della «Tribuna»: I suoi ultimi dieci anni — ricordò il figlio — li trascorse tra i famigliari e gli amici — intrattenendosi con Benedetto Croce e, fino al 1925, con Giovanni Gentile; con Alessandro Casati; con Guglielmo Ferrero; con il suo antico collaboratore letterario
Emilio Cecchi e con la sua cara ed intelligente moglie, Leonetta Cecchi Pieraccini; con gli amici e colleghi liberali che incontrava al Senato; con il corrispondente europeo de «La Naciòn», Ortiz Echague; di quando in quando con amici inglesi stabiliti o di passaggio in Italia; con uomini dell'economia eminenti per intelligenza ed esperienza, come Giuseppe Toeplitz,
Pietro Fenoglio, Edgardo Morpurgo, Furio Cicogna, Donegani. S'incontrava sovente con Raffaele Mattioli?3.
Non mancarono ovviamente le visite a Giolitti. In una di
queste, nel dicembre del 1926, in compagnia del figlio Giofalsità della sua letteratura nella vita [...]». La sua impresa non è altro che «l’egotismo protervo di chi, dopo aver fatturato il superuomo nella letteratura pretende di fare il sopracittadino nella vita» (O. MALAGODI, Di fronte alla realtà, «La Tribuna», 24-12-1920). Nello stesso articolo Malagodi denuncia di essere oggetto per la sua campagna contro l'impresa fiumana, di «ingiurie anonime o firmate». 22 G. SALVEMINI, Opere, VI, Scritti sul fascismo, vol. II, cit., p.71 e ID.,
Memorie e soliloqui, cit., p. 145. Roberto Pertici, curatore del volume, annota: «La mattina del 31 ottobre 1922, un gruppo di fascisti aveva prelevato dalla sua abitazione romana Malagodi e lo aveva condotto all’accantonamento delle camicie nere fiorentine comandate da Tamburini. Qui il direttore della «Tribuna» fu bastonato ma rifiutò di bere l’olio di ricino» (p. 145). 2 G. MALAGODI, Introduzione in O. MALAGODI, Ventiquattro poesie, due ballate, diciotto racconti, Milano, R. Ricciardi, 1987.
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vanni, l’ormai vecchio statista, sempre lucido e pungente,
fornì, secondo quanto riporta il giovane Malagodi nel suo diario, un sarcastico e, a ben guardare, molto «giolittiano»,
commento del quadro politico: «La situazione? Quando Lei per strada vede venire una grandinata si ripara sotto un portone e aspetta di vedere se passi»24. La grandine avrebbe percosso ancora a lungo il paese e dal portone Olindo Malagodi non sarebbe più uscito. Colpito da ictus morì il 30 gennaio 1934 a Parigi dove si era recato per conto del figlio in previsione di un possibile incarico di direttore generale della Banca Sudameris. Qualche anno prima della improvvisa scomparsa, Olindo Malagodi aveva lasciato al figlio Giovanni precise disposizioni testamentarie riguardo ai propri scritti. Dopo essere
stato costretto ad abbandonare la direzione della «Tribuna» aveva avuto modo di intensificare l’attività di stesura di riflessioni che possono considerarsi a metà strada tra la testimonianza e la riflessione storico-politica. Nelle «Istruzioni riguardo alle mie carte», che risalivano probabilmente al 1928, Malagodi mise a disposizione «la somma di 25.000 lire [...] per la pubblicazione di miei scritti inediti, compatibilmente con le circostanze». Questi scritti comprendevano Le Conversazioni della guerra, pubblicate solo nel 1960, rispettando la volontà dell’autore che aveva stabilito non potessero essere rese pubbliche prima della morte dei protagonisti, e il libro a cui sto lavorando col titolo di «Pagine di storia contemporanea». Questo non cade sotto il divieto di cui sopra; ma
il suo carattere può richiedere il rinvio indefinito della sua pubblicazione; particolarmente se io entrerò nella seconda parte, cioè il dopoguerra. La prima parte potrebbe invece passare — e
24 Diario di Giovanni Malagodi 1925-1926, Fondazione Luigi Einaudi, FGM, Busta 450.
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se non c'è che quella si può pubblicare; ma se vi sono entrambe non si può pubblicare l’una senza l’altra [...]. Ad ogni modo lascio questo al giudizio tuo. Al peggio, una copia potrebbe essere sigillata e consegnata ad una biblioteca per essere resa pubblica dopo venticinque anni e così via??.
Di fatto Malagodi, alla sua morte, aveva completato solo l'introduzione e i primi tre capitoli della prima parte mentre, per i rimanenti, rimangono solo commenti ed appunti,
talvolta estesi altre volte appena abbozzati, raccolti in dieci quaderni. Spunti e riflessioni che in molti casi fanno trasparire alcuni dei temi su cui l’autore avrebbe posto l'accento nello sviluppo del testo. Non è chiaro per quale motivo Giovanni Malagodi, pur così attento nell’opera di ricostruzione dell’attività politica, giornalistica e culturale del padre, trascurò questo abbozzo di saggio che, per quanto incompiuto, contiene analisi di grande interesse. Si può supporre che non l’avesse mai letto con attenzione, forse a motivo della
struttura largamente incompleta, sottovalutandone l’importanza. Quello che comunque appare certo è il lento processo di parziale rimozione della memoria stessa di questo materiale. Nel 1960 Giovanni Malagodi, nel tratteggiare le note biografiche paterne per la pubblicazione delle Conversazioni della guerra, aveva accennato all’esistenza di «un saggio storico ancora inedito su I/ regizze liberale e l'avvento del fascismo». L’annotazione fu, tra l’altro, ripresa dieci anni dopo da Riccardo Bacchelli, a Cento, in occasione di un di29 «Poi ci sono una serie di brevi cose del tipo ‘Essay’ inglese, già finite, altre a mezza via o da ricorreggere». (Fondazione Luigi Einaudi, FGM, Busta 449). Tra queste vanno senza dubbio annoverate le pagine dattiloscritte che Giovanni Malagodi ha descritto come «pensieri e commenti sulla guerra che il M. aveva scritto in margine, ma al di fuori delle Conversazioni, per lasciare a queste il loro raro carattere di intelligente documento originale» (O. MALAGODI, Conversazioni, cit., Nota biografica
a cura di g.f.m., p. LXKXXIII). 26 Ibidem, p. LKXXIV.
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Introduzione
scorso celebrativo per il centenario della fascita di Malagodi. Lo scrittore fece riferimento a quel saggio inedito come ad una fonte fondamentale per capire la vera opinione di Malagodi «su I/ regirze liberale e l'avvento del fascismo [che] si avrà, se il saggio, ancora inedito, così intitolato, non sia
troppo incompiuto, troncato come fu dalla morte improvvisa»27. Da allora però sembrano perdersi le tracce di questo importante inedito tanto che, in una lettera a Brunello Vigezzi nel 1986, Giovanni Malagodi, passando in rassegna la bibliografia del padre, non solo lo definì soltanto un «frammento», ma fece intendere di non essere sicuro di poterlo ritrovare?8,
Recuperato tra le sue carte, alla morte di Giovanni Malagodi nel 1991, l’incompiuto saggio dell’ex direttore de «La Tribuna», a poco più di settant'anni dalla sua stesura, che può essere fatta risalire, almeno per i capitoli completati, al periodo tra il 1929 ed il 1931, riesce, oggi, finalmente a vedere la luce.Un aspetto da tener presente nella lettura di questo abbozzo inedito è la consapevolezza dell’autore che il lavoro sarebbe comunque uscito postumo. Tale considerazione ha un rilievo psicologico da non sottovalutare. C’è una significativa postilla, nei suoi appunti, esplicitamente destinata, come integrazione, alla parte finale dell’introduzione già scritta: Finire introduzione con questo motivo: io nell’esercizio del giornalismo avevo evitato il settarismo, cercando, nella misura
del possibile e delle necessità polemiche dell’azione, di soste27 R. BACCHELLI, Olindo Malagodi, cit., pp. 17-18. 28 «Cercherò di ritrovare in campagna, a Pasqua, quello che c’è di un abbozzo sul Fascismo. Temo però che sia veramente solo un frammento iniziale» (Fondazione Luigi Einaudi, FGM, busta 433). L’anno successivo nella Introduzione a O. MALAGODI, Ventiquattro poesie, due ballate, di-
ciotto racconti, cit., Giovanni si limitò a dire che negli ultimi dieci anni di vita il padre «rifletté molto sulla recente storia d’Italia, sul liberalismo ed il fascismo».
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nere la verità. Nelle condizioni attuali, giornalista senza giornale, a me pare di toccare l’apice delle mie aspirazioni facendo il giornale assolutamente libero, non solo verso partiti, uomini ma anche verso le varie retoriche che sono la peggiore di tutte le verità.
Un’aggiunta che segnala come Malagodi avesse progressivamente percepito, durante la stesura del testo, il piacere quasi fisico di quella piena libertà d’espressione di solito negata a un direttore di giornale o a un commentatore politico per quanto autonomi e spregiudicati. Per Malagodi, attento collettore delle opinioni della classe dirigente, sempre molto misurato nell’esprimere le proprie, l'avvento del fascismo e l’estromissione dalla «Tribuna» sembrano fornire l’occasione tanto attesa di affiancare alla rilevante mole di dati,
confidenze, pettegolezzi, notizie relative alla vita politica (e di cui Conversazioni della guerra rappresentano un esempio letterario insuperabile), quel commento personale che il proprio naturale riserbo e uno stile consolidato negli anni, avevano sino ad allora limitato. È vero dunque, e Bacchelli era riuscito ad intuirlo: questo inedito rappresenta «il suo commento intiero ed intimo»?9 sul periodo di storia che Malagodi aveva attraversato e di cui era stato testimone privilegiato.
Malagodi nell’Introduzione afferra il toro per le corna. L'opera che si accinge a scrivere non ha nulla a che fare con il genere della testimonianza e della cronaca politica, a cui si era sempre orgogliosamente ispirato per il suo lavoro di giornalista e commentatore e che tra l’altro aveva fornito le robuste ed originali fondamenta delle appena completate Conversazioni della guerra39. Adesso intende vestire i panni 29 R. BACCHELLI, Olindo Malagodi, cit., p. 17. 20 «E non è forse male che la cronaca, quando sappia rimanere tale,
senza volersi levare ad altre virtù che non siano la verità e l’esattezza, e te-
nersi spoglia di preconcetti dottrinari e passioni politiche e partigiane,
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dello storico e-per farlo deve sgombrare il campo da dubbi metodologici che, se non chiariti, potrebbero declassare il saggio che stava scrivendo nella categoria della polemica politica. Ormai Malagodi scrive per i posteri e a loro intende lasciare considerazioni che abbiano il respiro profondo della riflessione storica. Per prima cosa, dunque, bisogna confrontarsi sulla legittimità storiografica del proprio lavoro, ponendosi il sempre attuale quesito: «si può veramente scrivere di cose contemporanee, alle quali ancora partecipiamo ed il cui ciclo pare ancora lontano da un suo qualunque compimento?». Una questione ineludibile su cui, tra l’altro, un’autorità indiscussa come Benedetto Croce si era appena
pronunciato nell’ Avvertenza che introduceva la sua Storia d'Italia, pubblicata nel 1928. Croce, con poche stringatissime parole, argomentava la scelta di arrestare la sua narrazione al 1915 affermando che il periodo iniziato con la I guerra mondiale, «per ciò stesso che è ancora aperto, non è
di competenza dello storico, ma del politico. Né io vorrò mai confondere o contaminare l'indagine storica con la polemica politica, la quale si fa, e si deve certamente fare, ma in al-
tro luogo»3!. Più in generale Malagodi, senza mai citare Croce, non condivide quella che definisce «un'opinione filosofica», una «concezione senza dubbio originale, degna dell’alto studioso che l’ha formulata, in perfetta concordanza col complesso del suo pensiero». Tale prospettiva, infatti, richiama uno degli assunti fondamentali della concezione storiografica crociana, l’anteporre cioè «la storia dei risultati, dietro la quale gli uomini coi loro pensieri e i loro fatti scompaiono come ombre evanescenti» a quella che emerge «dall'immenso e contraddittorio dramma delle intenzioni, della
mantenga un suo posto vicino alla storia. Minore, ma non d’ancella» (O. MALAGODI, Conversazioni, cit., pp. 3-4). 31 B. CROCE, Storza d'Italia dal 1871 al 1915, a cura di G. Talamo, Napoli, Bibliopolis, 2004 (1922), p. 7.
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volontà e delle azioni umane». Dunque a quella che ritiene un’astrazione (chi può dire che «un risultato, cioè materia già purificata e conducevole alla trattazione storica, sia veramente tale?»), Malagodi preferisce «la storia vivente degli uomini e dei fatti»?2. L’autore non intende addentrarsi in «una disputa dottrinale», tanto più che, ammette, a spingerlo alla trattazione del presente c'è un’incoercibile esigenza personale, cioè il «mio stesso impulso di raccontare e giudicare questa storia nella quale ho vissuto e vivo; e che il rinunciarvi m’infliggerebbe il tormento di una mutilazione morale, come di qualcosa di incompiuto nella mia vita». Un dovere a cui Malagodi sente di non potersi sottrarre. In fondo, incalza, quando c’incontriamo «con quello scrittore amico e maestro noi usiamo
scambiarci notizie che per noi sono verità, e discutere e pronunciare giudizii». Perché dunque aver timore di trasmettere quelle stesse notizie, così vive, alle generazioni future? Posta come del tutto legittima la narrazione «della storia che si vive», l’autore sente il bisogno di stabilire «chi vi sia più adatto» a farla. Su questo Malagodi non pecca di modestia. La descrizione dell’autore ideale ricalca perfettamente la sua biografia: non deve aver partecipato direttamente al conflitto politico in quanto sarebbe sviato dalla passionalità del coinvolgimento, ma non deve nemmeno vivere come un pallido uomo di studi «nella arcadia del puro pensiero». L'ideale sarebbe un «segretario del Principe», qualcuno «mescolato alle cose della politica» senza però l’incombenza di farle. Chi meglio di lui, dunque, che per anni quotidianamente a contatto con i protagonisti dell’alta politica ha sa32 Malagodi ha appena terminato di scrivere queste stesse riflessioni per la breve presentazione di Conversazioni della guerra: «La storia, ne’ suoi maggiori compiti, preoccupata soprattutto di coordinare e giudicare
secondo i risultati, inclina troppo spesso a far rientrare questi nelle intenzioni e previsioni degli attori assai più che non vi siano stati» (O. MALAGODI, Conversazioni, cit., p. 4).
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puto mantenere la propria indipendenza intellettuale anche di fronte a Giolitti? Ci vuole indipendenza, non certo imparzialità, che invece impedirebbe la vera comprensione della storia. Malagodi non inclina, diremmo oggi, verso il relativismo dei valori. Rivendica il proprio liberalismo non come una delle possibili appartenenze, «un’idea fra le altre», ma come quella posta al centro, a cui tutte le altre «si riconducono e si arrendono». Un’orgogliosa rivendicazione per nulla scalfita dalla sconfitta patita da quel sistema e da quella cultura. Il liberalismo in Italia — argomenta polemicamente Malagodi — non è stato una moda importata, come cercano di far credere i fascisti. Come ogni altra grande creazione spiritua-
le dell'umanità anche «le istituzioni del liberalismo rappresentativo moderno, elaborate dagli anglosassoni, universalizzate fuori da certo gretto empirismo locale per virtù della Rivoluzione francese», una volta entrate nella storia, diven-
tano patrimonio comune. In Italia, dove le basi storiche non sembravano le più adatte (erano mancati l’assolutismo e la riforma protestante), il liberalismo si adattò alle condizioni particolari del paese modificandosi però nella sua essenza originaria, nonostante l'iniziale età aurea «presto sfiorita» della Destra storica: «assunse una particolare sua forma, ambigua e complessa, sostanzialmente diversa dagli esempi da cui era partito, pure mantenendone i modi e le parvenze».
Dunque, in Italia il liberalismo non solo nacque, per quanto ‘con caratteri peculiari, ma non morì nemmeno «in culla»,
come sostenevano ormai in molti: il suo decesso va ricondotto «all'ottobre del 22». Ed è proprio da questa morte che, a suo parere, bisogna partire, senza infingimenti e complicità, per scoprire «manchevolezze e contraddizioni intrinseche del caduto regime liberale». Non a caso il libro si apre con il capitolo dal titolo La crsi del regime liberale. Una riflessione questa che ci conduce nel cuore delle intenzioni ispiratrici del saggio. Malagodi non 21
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sembra interessato a passare in rassegna la storia d’Italia in quanto tale, ma intende affrontarla per comprendere, «sia nella narrazione che nell’interpretazione», le cause, di breve
come di lunga durata, dell'avvento del fascismo. In questo senso prende implicitamente le distanze sia dall'amico Ferrero, che vedeva una evidente continuità tra gli antidemocratici regimi liberali e il fascismo, sia da Croce, il quale considerava l’Italia liberale un risultato «oggettivo» il cui valore andava salvaguardato da polemiche e giudizi di detrattori che confondevano la realtà con i propri desideri. Malagodi, invece, ritiene che il fascismo abbia rappresentato una netta cesura rispetto ai sistemi precedenti, anche se non per que-
sto l’Italia liberale deve essere mantenuta al riparo delle considerazioni critiche. Al contrario, va immessa nuovamente
nel flusso dell'indagine storica e analizzata proprio alla luce della sua scomparsa e in funzione del disastroso esito finale. È questo esito il suo cruccio, di questo vuole parlare ai posteri. Soprattutto si ha l’impressione che, scrivendo, voglia provare a spiegare a se stesso, prima che agli altri, quell’enorme abbaglio («tra due ore tutto sarà finito») dietro cui ci 33 L'importanza di uno studio coevo, sia pure incompiuto, inteso a ricostruire le origini del fascismo è testimoniata dalla constatazione di Renzo De Felice secondo cui sino a La nazssance du fascisme di Angelo Tasca,
nel 1938, le due sole opere che affrontarono questo tema furono Pietro Nenni, Storia di quattro anni e Gaetano Salvemini, The Fascist Dictatorship in Italy. (Cfr. R. DE FELICE, Le interpretazioni del fascismo, Bari, Laterza, 1969, pp. 183-184). Per Angelo Ventura a questi si dovrebbero aggiungere gli scritti di Silvio Trentin. Per quest’ultimo aspetto si veda A. VENTURA, Introduzione, in S. TRENTIN, Diritto e democrazia. Scritti sul fascismo 1928-1937, a cura di G. Palladini, Venezia, Marsilio, 1988. Ovvia-
mente l'annotazione di De Felice va intesa in riferimento a studi veri e propri con relative ricostruzioni storiche degli avvenimenti. In questo senso non sono presi in considerazione lavori pur interessanti come G. FERRERO, Da Fiume a Roma, Milano, Athena, 1923; L. SALVATORELLI, Nazionalfascismo, Torino, Piero Gobetti, 1923; L. STURZO, Italy and Fascism, London, Faber and Gwyer, 1926; EL. FERRARI, Le régime fasciste italien, Paris, Editions Spes, 1928.
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sono allo stesso tempo il sommarsi di eventi contingenti e una profonda debolezza dell’intero sistema politico. Probabilmente sino all'ottobre del 1922 l’ex direttore della «Tribuna» era il prototipo del liberale fiducioso nel mondo in cui «viveva, operava, cui si sentiva intimamente le-
gato»34. Sino ad allora credeva non solo nei valori del liberalismo ma anche negli uomini che erano chiamati a metterli in pratica. D'altronde, il suo pragmatismo lo aveva sempre convinto a non accentuare divergenze e rivalità tra i vari esponenti liberali delle quali spesso, con occhio professionale, intravedeva la natura personalistica. Ma il fascismo lo costrinse a rivedere molte delle proprie fiduciose posizioni. Nel momento in cui scrive, il regime si trova al culmine del suo successo anche dal punto di vista propagandistico. Lungi dunque dall’apparirgli una parentesi, Malagodi ritiene il fascismo un vero e proprio «regime avverso» e alternativo di cui va spiegata la ragione storica. Ma questa operazione deve essere portata avanti senza soggezione e senza cedimenti alle semplificazioni di comodo. Ciò che infatti muove l’autore «dal profondo è il bisogno e la volontà della rievocazione della realtà concreta e il più che possa totale, con le incertezze, mediocrità e miserie che accompagnano ogni
cosa umana». È questo il motivo ispiratore della sua opera, il manifesto intellettuale e metodologico: al dilagare della retorica, accademica e soprattutto di regime, bisogna contrapporre la realtà della «nota umana, che parla soprattutto agli assetati di verità e realtà». Malagodi, dunque, non ama i grandi scenari, ma a volte «gli tocca di premettere [...] qualche disquisizione generica della quale il lettore farebbe volentieri a meno». L'immagine dell’Italia liberale che emerge dalla sua penna non sem34 B. VIGEZZI, Introduzione, in O. MALAGODI, Conversazioni, cit., p. XI.
35 O. MALAGODI, Conversazioni, cit., p. 4.
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bra apparentemente discostarsi molto da quella descritta nella sempre più diffusa pubblicistica di critici e delusi dal processo di razion building. È una catena di debolezze: quella ideale di un liberalismo privo di radici risulta profondamente intrecciata alla fiacchezza politica e morale dello Stato a cui nonostante tutto però spetta il compito di sostenere una fragile società civile e di porsi come riferimento di fronte sia all’assenza di classi popolari che «non hanno un’anima politica» sia allo speculare disinteresse per la politica mostrato dai ceti industriali e imprenditoriali. Se a ciò si aggiunge il zor expedit della Chiesa e quello, di segno opposto, ma egualmente delegittimante, dei socialisti, la vita pub-
blica meridionale «borbonica», il campanilismo clientelare e i limiti delle classi dirigenti, sembra di imbattersi in una perfetta sintesi della classica invettiva politica tipica di molti ambienti dell’intellighenzia italiana tra Ottocento e Novecento. In realtà il lettore si troverà di fronte a qualcosa di molto diverso. La prosa calma ed avvolgente di Malagodi rinviene a colpi di cesello, all’interno di questi grandi scenari, le tracce dell’indelebile passaggio degli uomini in carne ed ossa, ricordando a tutti che «la politica è quella che è, co-
sa essenzialmente terrestre e quotidiana; e l’uomo politico deve operare su la materia che il suo paese e il suo tempo gli presentano quale essa si sia». C'è in Malagodi la profonda consapevolezza, tipica di chi ne ha colto davvero l’essenza, che la politica non è accademia, ma implica una capacità non comune di «mordere» i fatti. «Non si entra veramente nella politica se non ci si rende capaci di affrontarne i problemi, non in forma vaga e generica, ma con preciso senso di realtà,
nelle loro concrete determinazioni di luogo e momento». Inutili anche le nostalgie dei /audatores temporis acti. Lo storico, e qui si percepisce l'influenza di Ferrero, «sa che la città doveva fatalmente uscire dall’idillio e precipitare nel dramma, senza il quale non avrebbe conseguita grandezza politica e fatta storia». Incontrandosi con il pragmatico realismo 24
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malagodiano, intessuto di suggestioni che rinviano, talvolta direttamente, altre in modo molto personale e sfumato, alle tradizioni degli «studi positivi» come quelli di Mosca, Ferrero, Pareto, i drastici giudizi sul significato delle vicende storiche si «ammorbidiscono», ma non nel senso di una sus-
sunzione di tipo idealistico-crociano di tali vicende in un contesto superiore bensì, al contrario, individuando in esse un’incoercibile natura contingente ed umana. Malagodi, insomma, non nega, anzi spesso condivide, gli assunti e le grandi affermazioni di principio che non di rado coincidono con alcuni dei più consolidati stilemi della storia politica nazionale, ma cerca quasi sempre di mostrarne il «retrobottega», di sicuro meno gradevole esteticamente ma più vivo. Così quando Malagodi si interroga su «cosa s’intenda per ceti politici o classi dirigenti, come si usa ora chiamarle» e sulla radice del loro potere, ammette di trovarsi di fronte ad una necessità profonda «nel moto della storia» che però non risponde a leggi immutabili. Per analizzare questo peculiare tipo di potere bisogna abbandonare le vecchie convinzioni dogmatiche sulla centralità di questo o quell’aspetto, giuridico, economico o burocratico, ed accettare l’idea che la natura «i-
bera e spontanea» della formazione delle classi politiche sia essenzialmente il frutto del «fattore individuale». Ed è proprio questa natura a renderla «instabile, fluida, mutevole». Poi,
però, quando dalle astrazioni si scende nel mondo reale questa classe politica, analizzata come categoria, diventa umana a tal punto che, ad esempio, Malagodi non esita a collocare il pettegolezzo politico tra le «necessità per l’uomo di governo», strumento indispensabile per chi «deve conoscere l'animo degli uomini, dei ceti, dei gruppi che deve manovrare e che sono materia della sua arte». Perché la politica è «contaminazione di sacro e profano, di grande e piccolo, di nobile e plebeo, e che non coagula se non col concorso di tutti codesti elementi disparati e contrari». Spesso la saggezza teorica o l'integrità etica possono condurre, in politica, a «sciocchezze pratiche». 29
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Una constatazione, questa, molto giolittiara visto che era
stato proprio lo statista di Dronero a domandarsi se si fosse «mai visto in politica, dire e fare qualcosa di giusto da un professore». Inoltre, «è preferibile avere al governo un briccone che un uomo debole, il briccone non facendo che le
bricconate che gli convengono, mentre il debole le fa per conto di tutti quelli che gli si son messi d’attorno». Salvemini avrebbe considerato questi «aforismi» come i soliti «giochi di bussolotti e gianduiate» con cui Giolitti si sottraeva al giudizio morale sul suo operato, ma in realtà rispecchiano pienamente la convinzione intima di Malagodi che sembra giungere ad una definizione di «buon governo»: alla fine «la libera giostra, nel pallio universale della politica, dei vizi e delle virtù in perfetta eguaglianza, pare ancora la via che conduce al decente successo degli equilibri conseguibili secondo condizioni e circostanze». Insomma, Malagodi, mettendo a nudo lo scarto tra la teo-
ria e la pratica, si compiace di mostrare la complessità di problemi che solo un’attitudine demagogica può pensare di ridurre ad ingenue semplificazioni o facili moralismi. Se è vero, ad esempio, che, sulla base della teoria politica liberale,
in Italia con gli anni Ottanta dell'Ottocento si realizzò, vista la capacità d’interferenza elettorale del governo, «un pervertimento dell'intero sistema», bisogna essere capaci di «guardare anche all’altro verso». Non si può infatti dimenticare che, quando si va a toccare con mano tale pervertimento, ci s'imbatte in Agostino Depretis e nelle sue arti parlamentari, in grado, con la minuta pratica, di dare stabilità al
sistema. In quegli anni già Croce ha «riabilitato» il trasformismo, a dispetto della vu/gata tradizionale e dell’acredine fascista, ma Malagodi va oltre: l’opera di Depretis «merita di essere proposta alla meditazione di quei fantasticatori che idoleggiano una loro figura di uomo politico fra il poeta, il pensatore ed il santo; sdegnoso delle cose piccole e che mira sempre all’alto». Con Crispi e la successiva crisi di fine se26
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colo si entra nella sfera della memoria personale, in vicende «la cui cronaca, per la vivezza drammatica, non è ancora sbiadita nel ricordo». Per lo statista siciliano e per «lo sforzo reazionario» che lo seguì, comunque, non ci sono le attenuanti che la storia è in grado di concedere: «non si riconduce un popolo verso forme e norme di governo restrittive e repressive dalle quali lo si è incitato a liberarsi e si è liberato con una rivoluzione recente, ancora viva negli spiriti». Di fatto, man mano che la narrazione si avvicina agli anni in cui Malagodi è stato attivo testimone della scena politica, le generalizzazioni interpretative s’impastano sempre più con la viva cronaca, dando luogo ad un quadro storico mosso e talvolta contraddittorio ma in grado, proprio per l'originalità dell’impianto e in virtù di una robusta dose di libertà espressiva e metodologica, di restituirci qualcosa di più di un incompiuto saggio storico e cioè l’immagine di un processo che potremmo definire esame di coscienza generazionale. In questo senso l’instaurarsi del fascismo ha facilitato in non pochi spiriti critici la «rivisitazione» di molti di quei miti, il più delle volte negativi, che sin dagli anni Ottanta dell’Ottocento erano parte integrante della coscienza e della sensibilità dell’inzellighenzia politica nazionale. Il nuovo regime, in altre parole, diventa, per le varie categorie di oppositori e non solo, l’occasione per una riflessione critica sul sessantennio liberale e le sue grandi questioni inevase. Una sorta di bilancio disvelatore nel quale alcuni di quei problemi, magari nel contrasto con la retorica fascista, assumono una luce diversa che permette talvolta di vedere con occhi nuovi e minore severità il senso di tante invettive e altre volte, al contrario, di spiegare meglio le ragioni del successo fascista. Malagodi affronta molti di questi miti. Uno dei più diffusi ed efficaci dal punto di vista della delegittimazione del sistema parlamentare liberale è senza dubbio quello della inadeguatezza del personale politico. Cioè l’idea, «entrata a 27
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poco a poco nel rango delle giaculatorie che sfuggono a qualunque esame», che «il paese fosse superiore agli uomini a cui veniva affidato». Normalmente le due entità si equivalgono, essendo il mondo politico «specchio fedele del paese». Ma per l’Italia la situazione appare particolare. Malagodi è convinto, come Giolitti, che in Italia sia esistita una clas-
se politica piena di difetti ma «indubbiamente superiore alla media del paese». Questo perché la scelta è sempre rimasta ristretta «alle classi colte o abbienti». L'argomentazione appare, però, poco convincente proprio alla luce delle stesse considerazioni dell’autore sull’imponderabilità del successo in politica, il quale non risente, se non solo in parte, di fattori come «nascita, posizione sociale, ricchezza». Inoltre,
«da quando mondo è mondo si è sempre dato il caso di coloro che nella politica riescono ad arrivare senza portare gran che nel loro fardello; mentre ad altri, che arrivando recherebbero un tesoro, non avviene di imbroccare la strada».
Indirettamente connesso al tema dei limiti della classe politica nazionale si presenta un altro mito che, sin dalla fine dell'Ottocento, si era imposto sulla scena della cultura politica italiana: la questione del trapasso generazionale e il ruolo dei giovani in situazioni socio-economiche in rapida trasformazione come quelle attraversate dai processi d’industrializzazione. C'era già un'abbondante letteratura su un tema che, affrontato spesso con malcelata ironia — si pensi alle argute pagine in proposito diJacini, Fortunato e Salvemini, per citare solo i più noti — rappresenta invece un’a-
mara e più generale constatazione delle limitate prospettive egemoniche della borghesia italiana. Tuttavia in Malagodi l'intuizione del ruolo decisivo e peculiare della «intromissione dei giovani nella politica del nostro paese» va letta soprattutto alla luce di un’interessante comparazione con il caso britannico. In Italia la «gerontarchia» regna sovrana ovunque eccetto che nella politica, grande riserva naturale di quell’esercito di «spostati» che non riuscendo, per «ec28
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cesso di candidati», a collocarsi nell’ambito delle cosiddet-
te professioni liberali, formano una inesausta folla d’insoddisfatti. E questo il terreno fertile per la litigiosità paesana, una sorta di «anticamera alla politica irrequieta e sovvertitrice degli insoddisfatti», linfa vitale, peraltro, «dei tre gran-
di moti di politica giovanile»: risorgimento, socialismo e fascismo. In Gran Bretagna, dove alla politica si arriva dopo un lungo processo formativo in altri settori, la naturale e giovanile «passione dell’avventura» può trovare sfogo nelle innumerevoli occasioni formative offerte dall’esistenza di un vasto impero. In Italia, invece, tale esigenza è destinata a «consumarsi negli angusti limiti della vita paesana» a detrimento della legittimazione dei governi e delle istituzioni pubbliche. Tuttavia, per trasformare un giovane «spostato» ed irrequieto in un possibile pericolo per le istituzioni occorre un altro, decisivo ingrediente: l’ideologia, che è una «merce» di cui l’Italia è il maggiore importatore al mondo. Non c’è stato sistema di idee elaborato all’estero che non abbia trovato, «passate le Alpi, fervorose accoglienze e facile cittadinanza». L'Italia è stata tributaria dall’estero non solo di quelle che Malagodi ritiene essere «le due sole genuine ideologie della politica» esistenti, e cioè la «borghese-democratica e illuminista contro il feudalesimo nella rivoluzione francese; e quella socialista materialista contro la borghesia capitalista nella rivoluzione russa, che è il proseguimento di quella», ma anche di ibridi come quella nazionalista, nonostante l’Italia,
per la sua storia recente, fosse il paese del nazionalismo più puro. Il «carosello delle ideologie» è certamente una realtà negativa che però nasconde qualcosa di più profondo del semplice bisogno di dare la necessaria «mascheratura» al conflitto politico il quale, dall'epoca delle grandi rivoluzioni americana e francese, per esistere deve «crearsi una ra-
gione ideologica [...] e gonfiarla e ingrandirla all’infinito». Malagodi ritiene, infatti, che la passione tutta italiana per 20
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ogni sorta di ideologia derivi dal bisogno di «sciogliere il nodo del suo forse più difficile problema», quello di «ricostituirsi una fede, o meglio l’abito della fede». Manca ancora, insomma, ogni prospettiva di un saldo legame tra gli italiani che trascenda gliinteressi di parte. È ancora «il ‘particulare’ del Guicciardini la tragedia di questo paese, la sua impotenza a creare delle unità spirituali — superiori a quelle materiali di classe — e che siano consistenti; che lo riuniscano e lo
plasmino». Di fronte a questo limite non c’è sistema dottrinario che tenga. «La facilità con cui gli italiani prendono le dottrine sorte dovunque [...] e la volubilità con cui le mutano [...] rappresenta da una parte una certa leggerezza, ma anche uno sforzo doloroso per darsi alla fine una fede». Siamo, con queste considerazioni, al centro dei motivi ispiratori dello sforzo interpretativo di Malagodi e comunque dinanzi ad una sorta di indiretto e mai esplicitato filo conduttore dell’opera. Non è certo casuale visto che si tratta, in ultima analisi, della grande ed annosa questione del «fare gli italiani» su cui si sono affannate generazioni d’intellettuali. Sul principio di fondo c’è sempre stato consenso unanime, i contrasti tuttavia sono sorti sul «come farli», questi benedetti italiani. Su questo punto Malagodi avanza una complessa e non del tutto risolta ipotesi sugli ostacoli incontrati nel rendere la politica un terreno fertile per favorire l’unità morale del paese. La debolezza del tessuto civile e sociale in Italia e la scarsa presa del liberalismo avrebbero favorito sin dall’inizio l'imposizione di una dittatura di tipo particolare, che si esercitava all’interno delle istituzioni parlamentari senza toccare le libertà costituzionali. Nei suoi appunti si trova un rapido schizzo: «dittatura sempre: la prima fu di una classe pel suffragio ristrettissimo; poi Depretis su corruzione parlamentare; poi Crispi su una sua infatuazione nazionalista prematura; poi Giolitti su amministrazione e gioco forze sociali.
Gli intermezzi furono tutti irrequieti e finirono male». In fondo, in Italia il liberalismo «scendeva dall'alto, come una mu30
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nifica elargizione politica; sempre vigilato da un potere, una autorità, un giudizio moderatore». Dittatura sì, dunque, ma liberale, nel senso che era intesa a preservare un sistema fragile accollando sulle spalle del «dittatore» di turno tutte le tensioni dell’instabilità del giovane sistema. Il termine è sicuramente ad effetto, proporzionato al clima del nuovo regime, e soprattutto utile, come vedremo, a
spiegare come il fascismo abbia trovato rapidamente la strada per giungere al potere, ma non rende giustizia al ruolo del parlamento nell’età liberale. Malagodi non denuncia mai gli evidenti limiti di una situazione in cui la maggioranza non ha alternative nel sistema. È tuttavia ben consapevole della tendenza dei deputati, specialmente, ma non solo, di area meri-
dionale, a fornire ai governi una specie di milizia ubbidiente e pronta a tutto nell’interesse degli uomini di potere, con la nefasta conseguenza «di oscurare i problemi che si affacciavano a mano a mano alla coscienza nazionale». Detto questo, però, Malagodi ricorda in più occasioni come complessivamente la funzione parlamentare abbia mantenuto, in un mo-
do o nell’altro e soprattutto nelle fasi più delicate, il proprio ruolo dando voce all'opposizione e garantendo il controllo parlamentare sul governo. Non a caso quando, durante la crisi di fine secolo, qualcuno si era domandato «perché il dittatore e non la dittatura [...] esplicita, giuridicamente stabilita [...]?» aveva trovato pronta e negativa risposta dal paese e nel parlamento che, tra l’altro, la spinta reazionaria «si proponeva di diminuire; e il Parlamento, come era ad un tempo suo diritto e suo dovere, non la lasciò passare». Lo stesso Malagodi, d’altronde, fa del parlamentarismo
l’unità di misura della partecipazione delle classi popolari alla gestione della cosa pubblica, tanto che, più volte, ricorda
come l’antiparlamentarismo, che ha attraversato in lungo e in largo la storia d’Italia, non sia altro che la manifestazione della resistenza di alcuni settori di classe dirigente all’estensione di quella partecipazione. «Il mostro è il suffragio universale DI
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contro cui la lotta è diretta particolarmente» e la stessa «diffusione dell’antiparlamentarismo nelle classi superiori coincide con la crescente influenza delle classi popolari nelle istituzioni parlamentari». Insomma se dittatura c’era non aveva certo ancora messo sotto controllo il parlamento e lo stesso Malagodi deve ammettere che era «ambigua ed in fondo debole», reggendosi su «equivoci ed espedienti». In realtà quello che Malagodi definisce dittatura non è altro che la misura, più o meno variabile, di un potere politico personale, in grado di identificarsi (in un sistema privo di partiti e di alternative politiche) con un progetto politico di cui il «dittatore» si fa interprete garantendo, allo stesso tempo, il perseguimento di una trasformazione «preservatrice» degli equilibri esistenti. In questo senso, allora, chi più di Giolitti può rappresentare il «dittatore liberale» per eccellenza? Con Giolitti, di cui Malagodi, «un po’ indulgendo alla lunga consuetudine», traccia un denso e chiaramente simpatetico profilo, l’arte di Depretis venne raffinandosi al massimo. Lo statista piemontese era riuscito a spostare il problema del controllo della maggioranza parlamentare, essenziale per la sopravvivenza di ogni governo visto che «per fare bisogna anzitutto vivere», «dall’aula e dai corridoi parlamentari al paese, o se si vuole ai collegi elettorali; con un procedimento di lenta e continua erosione degli elementi avversi». Un altro «elemento del suo dominio gli venne dalla burocrazia» che conosceva benissimo. Anche questa era una dittatura personale, sui gerzerzs, in quanto tendeva ad estendere le libertà nel paese benché, basandosi sul predominio di una personalità, nel lungo periodo non favorisse la «formazione di un costume politico robusto, fondato su convinzioni ferme e genuine». Qua e là Malagodi sembra talvolta dare spazio all'idea della natura prevalentemente «dittatoriale» e per nulla liberale del sistema pre-fascista36. 36 Una considerazione certo non originale a cui probabilmente non è estranea l’influenza di autori come Salvemini, Ferrero e Filippo Burzio.
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Il problema di fondo del regime liberale; quello di «darsi una fede», «non fu dunque e non poteva forse essere risolto dalla pratica giolittiana; i governi personali essendo bensì i meglio adatti a sciogliere i nodi del giorno, ma non quelli della storia». Per quelli c’è bisogno di una passione e di una partecipazione collettiva a cui il basso profilo del giolittismo, così essenziale nel dettare le regolarità e affrontare la grigia quotidianità, era totalmente estraneo. Malagodi vede dunque in Giolitti l’espressione di un liberalismo necessario ma non sufficiente a colmare il deficit di educazione politica del paese. Tra i tanti meriti del sistema giolittiano, l’amico e collaboratore di vecchia data rintraccia, senza di-
chiararlo esplicitamente, un grave, esiziale limite: l’incapacità, frammista alla impossibilità, di uscire da se stesso per restituire «quella passione politica che nonostante i suoi inconvenienti e i guai troppo deplorati, è segno e fonte di vitalità». In questi limiti del liberalismo e segnatamente del giolittismo s’insinuò il fascismo: di fronte «ad una crisi di difficoltà materiali e smarrimento morale, i due elementi in
esso sapientemente combinati si disgiunsero: il liberalismo cadde e rimase, con ben altri spiriti e forme, la dittatura». Mentre Malagodi scriveva queste note, Giolitti si era da poco spento, ma era ancora viva l’immagine di quell'uomo che «nell’estremo della sua vecchiaia [...] immutabilmente sereno» assisteva «allo spietato benefizio d’inventario a cui la sua complessa e difficile eredità veniva sottoposta». Egli era rimasto fermo al suo posto, sino all’ultimo e quasi solo, attestando, fra la ressa delle recriminazioni e delle rapide conversioni, la sua tranquilla fede negli istituti liberali, e guardando forse ad un’altra immancabile eredità, sia pure lontana; secondo un altro detto degli interpreti dell’enigma giolittiano, che per lui il tem-
po non contava, e sapeva aspettare.
Malagodi non incalza Giolitti sull’incomprensione di fondo della natura del fascismo e del pericolo che compor5D
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
tava, sottovalutazione peraltro non dissimile da quella di molte altre preminenti figure dell’universo liberale. Nel giudizio su Giolitti c'è un’indulgenza a cui non è estraneo il forte legame personale, ma che in questa sede sembra soprattutto il frutto di un ripensamento, il bisogno di ammettere che, nel momento del bivio decisivo, nel 1914, forse quel-
l’uomo «con la sua fredda serenità» e quello «strano fascino che svuotava gli spiriti», aveva visto giusto. Pur senza passione, magari tra calcoli opportunistici, Giolitti ci aveva provato ad estendere la partecipazione politica. «Un liberalismo, insomma di avviamento»: l'allargamento quasi universale del suffragio avrebbe alla lunga agevolato l’ingresso delle grandi masse nella vita pubblica. Non si trattava evidentemente di enfatizzare la forza taumaturgica dell’estensione del suffragio subordinata com'era ai limiti «posti dalla tradizione, ricchezza e potenza». Tuttavia «sarebbe ingiusto disconoscere che essa avrebbe probabilmente corrisposto ai suoi scopi [...] senza l'interferenza della guerra». Qui Malagodi tocca uno dei punti più delicati, quello dell'ingresso in guerra dell’Italia, su cui non ha fatto in tempo a scrivere non solo il previsto capitolo, ma anche qualsiasi annotazione o appunto specifico. Data la conoscenza del problema e la ricchezza del materiale in suo possesso, Malagodi si era forse riservato di scrivere questa parte dopo aver lavorato ad aspetti per lui meno problematici della storia italiana. Si può però formulare un’altra ipotesi. I pochi fugaci accenni al tema che compaiono nel testo lasciano intuire il bisogno d’inquadrare il fenomeno della guerra in un contesto più vasto che avrebbe richiesto ulteriori riflessioni. In quel «senza l’interferenza della guerra» c'è qualcosa di più di una revisione delle originarie convinzioni interventiste che lo conduce a ripensare, un po’ riduttivamente, la mitica
piazza del maggio 1915 non più come il luogo delle passioni, il propellente necessario per dar vita ad una comunità nazionale, ma
come
ad una
messa
34
in scena
conservatrice,
Introduzione
«mossa dal governo, aiutato dalla polizia e dalla massoneria d’accordo con l’Ambasciata francese; mentre il popolo, che era contrario, la disertò»37. C'è la scoperta e la dolorosa am-
missione che la caduta del sistema liberale «si è consumata dopo e quasi in conseguenza dell’eroico sforzo storico sostenuto dall'Italia entrando in guerra». Ora, in sede di bilancio storico, è forse giunto il momento di fare ammenda dei drastici giudizi con cui Malagodi aveva talvolta bollato, nelle sue annotazioni personali, le manovre di Giolitti prima e durante la guerra. Il fatto di aver collocato lo statista tra «i furbi» che pensavano di «stare fuori dalla guerra ma sfruttarla» probabilmente pesa su Malagodi nel momento in cui, a fascismo trionfante, deve prendere atto che il neutralismo di Giolitti implicava non solo il rifiuto più o meno opportunistico della guerra, ma la richiesta di non interrompere il delicato esperimento di razion-building in corso, pena il tracollo in cui la guerra avrebbe precipitato le ancora incerte e contestate istituzioni liberali italiane. Senza tematizzarlo, Malagodi tocca un punto chiave per comprendere le cause non contingenti della debolezza del sistema politico italiano in età liberale: il perverso rapporto tra istituzioni e individui, tra nazione e ideologie. Durante il suo soggiorno londinese ha visto, con sua grande sorpresa, come, a differenza di quanto accadeva in Italia dove ogni ideologia ha la «pretesa di assorbire in se stessa la nazione», oltremanica è la nazione ad essere al di sopra di tutti: «degli uomini e delle idee più popolari, dei partiti ed organismi più forti, degli interessi più dominatori e delle passioni più vio37 Si può apprezzare l’evidente scarto con quanto Malagodi aveva annotato nel 1917: «Nelle giornate di maggio le nostre classi politiche, abiette, ignoranti, vigliacche, servili, procaccianti, egoiste, sentirono d’un colpo di non avere nessuna autorità, di non essere nulla; e il parlamento neutralista in grandissima maggioranza approvò la guerra sotto gli sputacchiamenti» (Note e pensieri generali sulla guerra, Fondazione Luigi Einaudi, FGM, Busta 489).
3)
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
lente». Il fascismo ha saputo approfittare di questo limite strutturale che attiene alla realtà costituzionale materiale per cui «in Inghilterra la costituzione organica del paese è così forte che essa assorbe in sé i partiti, le loro idee, facendone
nuovi succhi vitali; ma mantenendo sempre il proprio carattere. Vedi assorbimento dei laburisti; mentre da noi il fasci-
smo ha assorbito il paese». Il regime di Mussolini è, quindi, frutto di una debolezza endemica e perniciosa delle istituzioni da sempre delegittimate da minoranze che predicano la necessità di un’altra Italia. «Sempre due Italie — contro la ufficiale prima i garibaldini: con camicia rossa, inno; poi socialisti con pure inno, bandiera; poi fascisti con camicia nera, inno». Un’Italia ufficiale «scialba e grigia» contro cui si scaglia quella imbevuta di ideologie sempre pronta a dileggiare il governo, indipendentemente dalla linea politica. Nel mezzo la grande maggioranza, la cui «estraneità era già una connivenza».
Malagodi torna spesso sul tema della assenza prima e della lontananza poi dei ceti popolari dai grandi temi della politica nazionale e su quello della tradizionale separatezza fra classi dominanti e classi popolari. Tali annotazioni, però, lasciano l'impressione di un'immagine statica dei rapporti di classe, debitrice della pessimistica e meccanica applicazione del pensiero elitista e il cui motivo conduttore rimane interno al perverso rapporto tra maggioranze
inerti, sempre
pronte a farsi trascinare da minoranze attive e disinvolte. Se si fa eccezione per qualche breve cenno al «torto della borghesia» di aver tenuto lontane, «negli ultimi tempi», le classi popolari, manca l’analisi del perché non si è mai colmato il vuoto della «dispersione individualista moderna» — cioè ogni riferimento al fallimento di una prospettiva che in termini gramsciani si potrebbe definire egemonica. La gioventù irrequieta e le minoranze ostili, nell’affresco malagodiano, sembrano agitarsi all’interno di una scena teatrale a cui viene tolto il fondale, elemento decisivo per inquadrare 36
Introduzione
le azioni dei protagonisti. È assente, negli incompleti frammenti dell’opera, l’analisi delle concrete politiche governative, lasciando alle sole ragioni storico-strutturali la spiegazione del distacco tra classi popolari e politica e della conseguente debolezza delle fondamenta del sistema. Una frattura, questa, che ha finito per travolgere gli stessi socialisti che pure l'avevano alimentata, compiacendosi «di questo distacco ed antagonismo». Al socialismo, a cui pure va il merito di aver avvicinato le classi popolari alla politica, «sfuggiva, in quella sua dialettica ad un tempo rigida e facile», che tale «scarso sentimento di fedeltà delle plebi italiane» gli si sarebbe ritorto contro, «quando sotto la violenta pressione di forze avverse, le vaste schiere raccolte con la disciplina di un trentennio cedettero quasi senza resistenze, lasciandosi travasare supinamente dalle loro associazioni marxiste al nuovo sindacalismo fascista, come mandrie inerti che ubbi-
discono, non alla voce, ma alla verga del pastore». Per Malagodi, il socialismo è una grande forza che sgorga dalle viscere della storia di fronte alle gravi ingiustizie prodotte dallo stravolgimento della società moderna, una forza a cui inizialmente è andata la simpatia dei «borghesi» che «non misconoscevano la serietà di non pochi dei problemi da esso posti». Per questo Malagodi mostra comprensione verso l’intransigenza del primo socialismo, necessaria per fare chiarezza e separarsi dall’invadente influenza radical-democratica, verso quella «primavera di spiriti», a cui egli stesso aveva caldamente partecipato, guardata con benevolenza persino da quelli che avrebbero dovuto esserne il bersaglio. Una primavera, tuttavia, ben presto destinata a sfiorire non sotto i colpi della quasi del tutto assente critica liberale ma a causa della contraddizione presente in quel «rigoglio misto di idee e di illusioni». Pur riconoscendo infatti il ruolo fondamentale svolto nell’«organizzazione del lavoro, sia pure con la sua conseguenza di scioperi», egli non nasconde, tuttavia, l’immagine ambivalente del socialismo italiano che gli Dl
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
deriva dalla conoscenza diretta del movimento e dei suoi capi. Da una parte, infatti, troviamo il «praticismo» riformista,
«spinto sino all’opportunismo personale», e dall’altra il «mi sticismo rivoluzionario» destinato a impedire uno sbocco concreto al riformismo. Il vero grande interprete di tale irrisolta ambiguità è Filippo Turati di cui Malagodi, forte di una personale frequentazione, è in grado di schizzare, con un’abile miscela di chiaroscuri, un formidabile ed acuto profilo umano e politico. Nelle dense pagine su questa «specie di geroglifico psicologico» è possibile rinvenire molte delle ragioni della sua lunga e contrastata leadership, ma anche le fondamenta della debolezza del riformismo italiano. Attorno a Turati si muoveva gente in fondo bene intenzionata riguardo gli scopi [...] che mirava ad una conciliazione riformista perpetuamente operante; e invece infida ed incapace riguardo ai mezzi, perché rifuggiva
dall’assumere le necessarie responsabilità» motivando che tale rifiuto era necessario perché «le masse non avrebbero capito la cosa e sarebbero passate agli estremisti.
Un dualismo pernicioso, ricordato anche da Croce38, che
Malagodi considera la causa dell’impotenza politica del socialismo e la sua permeabilità nel momento in cui finiscono i «tempi prosperi e calmi». Il fascismo, dunque, si è visto spalancare le porte del potere da una doppia e apparentemente paradossale debolezza, quella che, alla fine della guerra, nel clima di un reducismo qui sapientemente tratteggiato, ha reso imbelli sia le istituzioni (governo, magistratura e polizia) nella loro lotta contro uno pseudo-bolscevismo (svoltosi «più che altro come una vicenda seccante, tormentosa; che punzecchiava e non 38 B. Croce, Storia d’Italia, cit., pp. 217-218.
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Introduzione
colpiva»), sia il movimento socialista, i cui capi, «tremanti delle responsabilità in cui erano involti [...] proseguivano insomma il vecchio gioco; stando fra il sì e il no, paurosi sia della rivoluzione sia di una possibile reazione». Alla fine lo squadrismo, perseverando in quella «psicologia di guerra» che altrimenti sarebbe stata ben presto «riassorbita nella psicologia ordinaria», sostituì il potere legale sempre incerto nell’agire contro la folla e i capi. Sull’avvento e il consolidamento del fascismo, l’ex direttore della «Tribuna» ha rac-
colto molti appunti, talvolta appena abbozzati ma quasi sempre ricchi di spunti e riflessioni di grande acutezza, in grado di far emergere nitidamente un interessante profilo del nuovo regime. Non c’è dubbio che Malagodi veda nel fascismo una reazione di classe, l'estremo tentativo cioè di
ostacolare la crescente influenza delle classi popolari nelle istituzioni: «il mostro è il suffragio universale contro cui la lotta è diretta particolarmente [...]. Ugualmente con la stampa, che era altra forma della potenza del mostro temuto». Nella fase contingente, comunque, al «fascismo minoranza» andava riconosciuto di essersi fatto efficace interprete di un diffuso «sentimento spontaneo» non meglio definito anche alla luce del fatto che negli appunti è praticamente assente ogni riferimento diretto al «fascismo agrario». Malagodi, tuttavia, andando all’essenza ultima del fenomeno, vi trova «due cose sostanziali: moto di carattere reazionario,
tinto di clericalismo, con abbassamento degli organi rappresentativi e rafforzamento degli autoritari» e «tentativo di riassorbire entro l'organismo e lo spirito nazionale le correnti socialiste». Le basi socio-politiche di questo «colpo di mano» vanno cercate nel carattere delle «classi industriali» a cui manca l’interesse per la politica e dunque pronte ad appoggiare indifferentemente qualunque governo, dato che «non pensano che ai propri affari [...]. Per loro la politica era un gioco, una sciocchezza da ragazzi, e quindi la lasciano ai ragazzi, non preoccupandosi che di favorire il ragazzo più in 39
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
gamba, per averlo benevolo e che non faccia loro del male». Fondamentali inoltre erano la «borghesia con i suoi interessi e le sue ragioni, buone o cattive [...] la nuova generazione uscita dalla piccola borghesia la quale intende prendere i posti d’assalto, come in guerra, e non con un lungo noviziato [...], i residui del socialismo rivoluzionario». Mussolini,
di fronte alle incertezze e debolezze del dopoguerra, di cui Nitti rappresentava, nella efficace descrizione malagodiana, il simbolo più evidente, tentò un colossale ricatto: «o cedete o porteremo la guerra civile», e tutti cedettero «per paura, per prudenza, per considerazioni superiori» o anche convinti che fosse un fuoco di paglia. Certo non fu una rivoluzione, o meglio lo fu «col permesso dei superiori, una specie di compromesso nel quale i poteri costituiti consegnavano il
governo al nuovo venuto, e questi alla sua volta s'impegnava a mantenere i poteri costituiti e rispettare gli obblighi costituzionali». Anche se non si trattò di rivoluzione, il fascismo era riu-
scito comunque a ridare fiato e speranza agli «eccentrici» che, ad ogni generazione, «in qualunque attività si mettano, nella politica, negli affari, nella letteratura, nelle professioni vengono respinti, e rimangono al margine, astiosi e implaca-
bili, tutta la loro vita». C'è probabilmente in queste considerazioni, oltre ad un’inevitabile superficialità di giudizio sul complesso fenomeno della mutazione della classe dirigente, un qualche motivo di risentimento legato alla sua vicenda personale, al punto che la prosa, solitamente improntata ad una sorta di freddezza analitica, mostra in queste pagine, segni di non trattenuto disprezzo presentando il nuovo regime come l’occasione per la «resurrezione degli scartati». Li possiamo immaginare, come in un quadro di Bosch, brulicanti, tutti di diversa educazione, abitudini, scopi: clericali, nazionalisti, semi borbonici, anarchici, sindacalisti, futuristi ed artisti
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Introduzione
da strapazzo; letterati pazzi e megalomani; pazzi e finti pazzi. Come insetti che escono dai loro fori attratti da una luce e da un colore. E risfoderano ognuno la loro pazzia, rimettendola a nuovo; collegandola col movimento; facendosi dei precursori.
Malagodi è consapevole che i «sani», ossia «l’immensa maggioranza, cioè la folla operaia e contadina era contraria», ma questo rappresenta ai suoi occhi un’irritante aggravante,
perché «nella politica contano solo quelli che sono in grado di agire politicamente; e poco importa che gli altri ne siano stati allontanati con la violenza. Se non hanno saputo reagire, basta che ne siano stati allontanati». In fondo le «mino-
ranze audaci» sono importanti in politica ma solo «in ragione diretta della debolezza politica e morale (la stessa cosa)
del paese. [...]. In Inghilterra dove la resistenza media delle masse è alta e la resistenza individuale altissima, la cosa è im-
possibile». Cosa era successo, dunque? «Un gruppo di minoranza [...] aveva avuto il potere per condizioni e circo-
stanze speciali» e doveva governare in un sistema «creato pel governo della maggioranza. Ne seguirono malintesi e complicazioni». La storia del fascismo è dunque, sin dalle origini, una storia di ambiguità ed equivoci. Malagodi, sia detto per inciso, in questo frangente finisce per sfiorare il tema delle responsabilità della Corona il cui ruolo politico ed istituzionale egli di fatto ha sempre minimizzato o ignorato. Doppiezza, quindi: oltre all’arruffata matassa dei «poteri costituiti compromessi con la rivoluzione (monarchia) e la rivoluzione compromessa coi poteri costituiti», è palese l’iniziale «malinteso fondamentale», cioè che l’opinione pubblica considerava il governo Mussolini, nonostante l’occasionalità del suo accesso al potere, un governo ordinario e dunque sottomesso alle norme, mentre i fascisti accentuavano l’aspetto della conquista rivoluzionaria. Una contraddizione che produsse l’ambigua «duplice investitura» di Mussolini che era allo 41
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
stesso tempo capo del governo e duce del fascismo e la conseguente duplice interpretazione della sua condotta giocata tra legge e illegalità. Una doppiezza che neppure la crisi seguita al delitto Matteotti risolse, perché se è vero che, dopo il discorso del 3 gennaio 1925, furono abbattuti i limiti costituzionali sino ad allora utilizzati come freno, è anche evidente che ciò avvenne comunque con «la finzione di farlo costituzionalmente: argomento della vera natura dello Statuto, falsato dalla pratica parlamentare». Anche per il fascismo, dunque, il problema della legittimazione rimase centrale, nonostante il ricorso all’imposizione violenta. Ci voleva la prospettiva di un obiettivo, in questo caso l’unità d’intenti, di cultura, che fungesse da «giustificazione, temporanea e qualificata della dittatura». Ovviamente Malagodi sa che «si governa sempre con la forza. Ma l’uso continuativo e bruto della forza per se stessa non può durare; per governare la forza deve trasformarsi in autorità [...]. Di qui il loro conato di creare miti, di deificare uomini [...]».
La «promozione ad idolo» di Mussolini rappresentò dunque un passaggio obbligato per capire il processo di affermazione del regime: «dove non c’è reale movimento ideale o di nuovi interessi, il mito non si forma; ed allora si cerca di creare il mito-uomo». Sul Mussolini «uomo» Malagodi semina molte annotazioni per lo più destinate a suffragare l’idea che il «grande uomo» in politica «è un'invenzione». Mussolini, con i suoi atteggiamenti, la sua demagogica arte oratoria e l’abile uso dei moderni mezzi di comunicazione di massa, appare agli occhi di un navigato conoscitore di uomini politici come Malagodi, poco più di un pericoloso e cinico giocatore d'azzardo. Il duce, infatti, è un maestro del-
l’esteriorità, in grado di mettere a frutto il paradosso di una storia personale, quella del rivoluzionario passato «in parte ai conservatori», tutta incentrata su una «romagnolità» che
Malagodi, cedendo allo stereotipo, probabilmente riprende acriticamente dagli scritti del suo amico Ferrero. Il «dram42
Introduzione
ma possibile», tuttavia, è «che l’uomo non si rassegnerà ad essere strumento d’interessi [...] ma vorrà fare di tali interessi strumento per sé e per le sue idee. Ma quali?». Questo è il quesito più difficile. Mussolini apparteneva infatti a quella schiatta di uomini politici che non servono l’idea ma si servono dell’idea, «fingendo però di sottomettersi ad essa», e comunque non si deve dimenticare che «per un pezzo il fascismo, a meno delle cose generiche o immediate, per le quali più che di politica si tratta di polizia, non ha saputo esprimersi che negativamente: negazione del socialismo, della democrazia ed infine del liberalismo». La generica intenzione di voler «fare» finalmente gli italiani fungeva in realtà da contenitore di un volontarismo sterile perché nella sostanza l'intento di Mussolini era solo quello di «risospingerli alla soggezione di fanciulli ed alla virtù passiva dell’obbedienza». Egli è piuttosto abile nel dar vita ai sogni, nel creare realtà fittizie che però per mantenersi hanno bisogno di essere continuamente alimentate. Per tale motivo il regime ha «bisogno di fare qualcosa di grosso ad ogni costo; se non si può fare all’estero, all’interno, ingrandendo anche i problemi più modesti». Quello che comunque non va dimenticato è «che si fanno delle cose ‘grosse’ quando non si possono fare delle cose ‘grandi’». Se si elimina «la grande politica» come espressione profonda della vita della nazione, bisogna poi essere pronti a riempire il vuoto che questa lascia. L'ordinaria amministrazione così «tende a dilatarsi, a trovare cose nuove e impressionanti: all’interno con mutamento appa-
rente o reale degli ordinamenti amministrativi, con la grande edilizia, le bonifiche; all’estero con le avventure coloniali
o di politica estera». In questo senso Malagodi, coerentemente con quanto afferma, risulterà facile profeta: «l’uomo non può contentarsi di essere un restauratore e poi un amministratore; donde il dilemma di una rivoluzione assoluta interna — trasformare anche fisicamente gli italiani; o di una impresa estera». La se-
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Il regime liberale e l'avvento del fascismo
conda evidentemente risulterà più facile. Dietro la fosca premonizione si avverte la tensione dello studioso che cerca di bucare la spessa coltre del presente in cui è immerso per cogliere l’essenza di un fenomeno di natura proteiforme e perciò particolarmente scivolosa sul piano interpretativo. Il fascismo, giunto al potere per cause contingenti, venne nutri-
to da filoni minoritari ma non per questo ininfluenti della cultura politica nazionale, tuttavia, proprio perché privo di un forte radicamento nel paese, non poté limitarsi al ruolo di regime autoritario incentrato unicamente sul recupero
della tradizione. Tale funzione, pure presente ed essenziale nel fascismo, garantiva «tranquillità sociale e disciplina» ma il paese, annota Malagodi, la pagò con una perdita di competitività. Questo tipo di disciplina imposta andava infatti a scapito del necessario «adattamento del paese al moto del progresso storico» ed era quindi destinata al fallimento. Mussolini probabilmente lo sapeva e dunque era costretto a forzare la mano e a inventare rivoluzioni più o meno fittizie, perpetuando la grottesca immagine di un «paese in cui tutto deve essere fatto dallo Stato, anche le rivoluzioni».
Non quelle vere, come ad esempio quella economica (impossibile da fare in un paese dai limitati margini di «stravolgimento» negli assetti materiali), «senza la quale non vi è vera rivoluzione». Ma di facciata però sì, visto che il fascismo non era altro che una «reazione fatta con spirito rivoluzionario» da gente in fondo cresciuta nel sistema, a cui è congeniale l’altra funzione del fascismo, quella «agitatoria», sempre foriera di un’inevitabile deriva «guerriera». Nei suoi ultimi appunti Malagodi si sofferma, emblematicamente, sul tema che ha rappresentato il filo conduttore della sua narrazione, il problema della «formazione» degli italiani. Egli, come abbiamo visto, si era posto l’obiettivo di capire le ragioni dell’infausto esito della stagione liberale e la natura del nuovo regime. Questa operazione però non può prescindere dall'analisi dei due grandi protagonisti del44
Introduzione
la scena storica: le classi politiche e le grandi masse. Mentre sulle prime Malagodi si muove con evidente competenza e lucidità utilizzando i diversi registri interpretativi a sua disposizione, sulle seconde appare dubbioso, incerto. C'è in lui il residuo di una cultura positivistica che lo costringe a pensare alla maggior parte della popolazione italiana ancora in termini di educazione, un riflesso questo che rende talvolta moralistica la sua valutazione isterilendo la non comune capacità di penetrazione analitica. Termini come masse, cittadini, folla, pubblico, italiani, si alternano ondivaghi e in-
tercambiabili senza che si riesca a dare loro una definizione più precisa.
In realtà, in Malagodi sembra sopravvivere quell’immagine di «massa» che aveva avuto modo di conoscere negli anni Novanta e a cui, come tutti i socialisti padani di quella leva, si era avvicinato con intenti sostanzialmente ispirati ad una sorta di illuminismo pedagogico. Quarant'anni dopo si rivolge, stizzito, a quella stessa massa ritenuta ancora priva di una vera e profonda fede, capace solo di superficiali adesioni e guidata unicamente da una «immensa» passività che, come Malagodi intuisce, finirà per corrodere le stesse basi del potere fascista. Insomma, un male endemico, apparentemente insondabile a cui il liberale educato alle virtù della ragione non riesce ad accedere. Non è un caso che nella sua analisi e nella gran mole degli appunti manchi quasi del tutto un approfondito riferimento all’impatto politico e sociale del cattolicesimo. Era sì previsto un capitolo sulla «restaurazione» giolittiana e il popolarismo, ma di fatto su questo Malagodi non scrive. Il ruolo del movimento cattolico accennato tra le righe, senza alcun tentativo di analisi originale, nei capitoli sulla crisi dell’Italia liberale, rari riferimen-
ti al partito popolare negli appunti sugli anni del dopoguerra, nessun accenno al Concordato anche se in un'occasione
il regime viene comunque definito clericale. Insomma ce n'è abbastanza per cogliere un disagio di Malagodi nell’affron4
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
tare tale questione che probabilmente gli appare un «non problema» e che dunque merita di fare da sfondo a contrasti e conflitti di ben più radicale momento. La stesura di una storia d’Italia costringe insomma Malagodi ad uscire dal mondo che conosce a memoria e a ondeggiare perplesso in un'Italia «anarchica e bigotta ad un tempo» in cui vivono individui scettici ma pronti a trasformarsi in folla credulona e sensibile alla retorica. In tal modo egli si condanna a veleggiare pericolosamente attorno ad alcuni luoghi comuni che, in quanto tali, garantiscono sì un ampio, sebbene poco illuminante, spettro di copertura interpretativa ma lasciano intravedere il tratto non risolto del suo discorso. Malagodi non possiede la flemma e il realismo cinico del suo grande mentore Giolitti, il quale non vuole educare
gli italiani ma solo governarli nella speranza che questo comunque possa rappresentare, nel lungo periodo, un percorso empiricamente educativo. Come molti dei liberali «progressisti» della sua generazione, Malagodi si è avventurato, per un breve periodo, alla ricerca di una risposta alternativa al grigio pragmatismo giolittiano. Si trattava, in sostanza, di dare una fede, un collante spirituale agli italiani senza tradire i principi del liberalismo, impresa ardua, come sappiamo e destinata al fallimento. Una sconfitta pagata in prima persona e di cui, con questa incompiuta ma densa riflessione sul-
la storia d’Italia, Malagodi ha cercato nell’amarezza dei giorni bui una ragione, convinto della necessità della testimonianza come dovere. Una ragione e forse, soprattutto, un rifugio, un sollievo personale che gli auguriamo di avere, anche solo per un attimo, trovato. Fulvio Cammarano
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Avvertenza
Per quanto riguarda il titolo del presente lavoro si segnala che è il frutto di una libera interpretazione di Giovanni Malagodi e di Riccardo Bacchelli in quanto non esiste una proposta definitiva da parte dell’autore. Se Olindo Malagodi nelle disposizioni testamentarie accenna a un «Pagine di Storia Contemporanea» è anche vero che persino nello schema generale non c’è traccia di titolo mentre tra le sue carte è emersa anche un'ipotesi di «Storia italiana dei nostri tempi». I/ regime liberale e l'avvento del fascismo fornisce un’efficace rappresentazione di quello che avrebbe dovuto essere il risultato finale dell’opera. Il testo dell’incompiuto saggio è composto da un’introduzione, tre capitoli dattiloscritti e appunti a mano raccolti in dieci quaderni. I titoli riportati dai capitoli dattiloscritti («Il regime liberale e la sua caduta», «Classi politiche e personale di governo», «I ceti popolari e il socialismo») non coincidono con i titoli indicati nello schema generale scritto successivamente e a cui ho deciso di rifarmi nella presunzione che dovesse rappresentare una versione più meditata e dunque avvicinarsi all'indice definitivo dell’opera. Il terzo di questi capitoli («Le classi popolari e il socialismo») riporta, nella parte superiore della prima pagina, l’indicazione (scritta a mano probabilmente da Malagodi) «copia corretta». In effetti all’interno ci sono diverse parole e in alcuni casi intere espressioni cancellate e riscritte, a mano, dall’autore. Dei tre
capitoli dattiloscritti questo è anche l’unico su cui Malagodi aveva conservato e/o raccolto degli appunti che ho ritenuto 47
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
opportuno aggiungere in appendice al capitolo stesso. Pochi sono invece gli appunti relativi ai primi due a riprova che erano considerati conclusi. Per quanto riguarda il testo degli appunti ho proceduto in modo da rendere quanto più possibile scorrevole la lettura senza tuttavia omettere alcuna parte dell’originale. Laddove si sono trovate frasi o addirittura annotazioni a mo’ di promemoria, apparentemente prive di immediata connessione con il testo precedente e successivo, ho preferito riportare tali brani in nota. Per chiarezza si è deciso di utilizzare due diversi caratteri per distinguere il testo dei capitoli di fatto completati da quello degli appunti. Il testo raccolto da Malagodi nei quaderni d’appunti è stato riprodotto quanto più fedelmente possibile. Le parole illeggibili sono state segnalate dal punto interrogativo tra parentesi. Ho invece eliminato i numerosissimi «ecc.» con cui Malagodi concludeva quasi ogni sua annotazione. Le abbreviazioni sono state nel limite del possibile sciolte mentre alcune, poche, modifiche sono state apportate alla punteggiatura originale e solo quando tale punteggiatura avrebbe reso difficile la comprensione del testo. Per quanto riguarda l'ortografia sono state preservate tutte le parole che in un modo o nell’altro risultano presenti nel Grande Dizionario Italiano dell'uso, diretto da Tullio De Mauro (Torino, Utet, 1999) mentre quelle ritenute errate si è ritenuto opportuno
indicarle con la consueta indicazione del sic tra parentesi. Ringrazio vivamente per aver letto e commentato l’introduzione Roberto Balzani, Raffaella Baritono, Salvatore Botta, Stefano Cavazza, Maurizio Griffo, Giulia Guazzaloca, Sandro Mezzadra, Giovanni Orsina, Roberto Pertici, Maria Serena Piretti, Paolo Pombeni, Gaetano Quagliariello, Giovanni Sabbatucci, Antonio Schiavone, Teodoro Tagliaferri,
Brunello Vigezzi, Loris Zanatta.
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Olindo Malagodi
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Le classi popolari e il socialismo
I ceti popolari e il socialismo
Che nei moti per l’unificazione e indipendenza nazionale, prolungatisi per oltre due generazioni, anche nei suoi tre momenti più drammatici, diversamente colorati, del ’31, del ’48
e del ’59, la partecipazione dei ceti popolari sia stata spiritualmente e di fatto scarsissima se non affatto nulla, è verità
accennata a mezza voce da studiosi e uomini politici, quasi che un aperto riconoscimento ne diminuisse il valore storico e ne infirmasse i risultati. E mettendosi pei viottoli confidenziali delle cronache locali e delle memorie e carteggi personali, ci s'imbatte a rivelazioni peggiorative; ad esempio che i popolani milanesi alla rientrata delle truppe austriache dopo fiaccata la rivoluzione sui campi di battaglia, si accalcavano sul percorso vociferando: — Non siamo noi che l’abbiamo fatta; sono stati i signori; — e che ai garibaldini in ritirata, dopo la caduta di Roma, per l'Umbria e le Marche, quando si sban-
dassero veniva data la caccia dai villani — ed è ormai pacifico che la repressione del brigantaggio nelle Calabrie e nella Basilicata dopo il °60 mascherava una faticosa guerriglia contro le ultime resistenze che gli emissari borbonici riuscivano a tener viva col favoreggiamento e la connivenza del contadiname. Episodi a cui si contrappone il caso dei «picciotti» siciliani che si misero in folla dietro Garibaldi; ma quel che se ne
5A
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
legge nelle stesse note di un eroe della impresa, il D’Abba [? Prob. Abba], dà chiara impressione che si trattasse più che altro di una attrazione d'avventura, senza alcun fondo di senti-
mento politico; e nelle gesta quarantottesche della «santa canaglia» celebrata dal poeta, in qualche città di Romagna e di Toscana, ci sono troppe ombre, chi ne cerchi i particolari, per conferire loro un vero valore civico e morale. La conclusione a cui altri sono tratti, che il moto nazionale fosse opera della borghesia, va intesa tuttavia nel senso individuale, in quanto i suoi artefici provenivano dalle classi medie; perché la stessa borghesia nel suo insieme più che fare lasciò fare, uscendo fuori nel giorno delle luminarie, o come fu poi il motto mordace, portando il suo aiuto alla sesta giornata. Non altrimenti del resto andarono le cose altrove, nelle agitazioni e rivolgimenti che empirono la prima metà del secolo scorso; se se ne eccettuano i popolani di Parigi che si erano fatta, specie quelli del famoso «Faubourg S. Antoine» una educazione e tradizione politica nella grande rivoluzione, ed alcuni episodi dei cartisti inglesi, le masse cittadine non vi ebbero iniziative né parteciparono largamente; mentre le plebi rurali fornirono spesso alle reazioni i suoi più validi strumenti, come si vide dopo il colpo di stato di Napoleone III, e peggio nella repressione czarista del °67 in Polonia, dove i russi trovarono nei contadini polacchi i più accaniti seguaci per la caccia ai patrioti fuggiaschi o nascosti. Del resto le nozioni in voga sulla azione delle classi popolari nella moderna storia europea, imperniate sul romantico concetto mazziniano di «Dio e Po-
polo», richiederebbero una totale revisione. La quale metterebbe in chiaro che la partecipazione di questi ceti alla politica è stata sempre di secondo grado, con una apprensione crepuscolare delle idee che la muovono; pallido riflesso della luce che splende e della fiamma che brucia nei focolai generatori; un po’ come nel caso della poesia popolare, che alla fine si deve risalire all'individuo che l’ha composta; e l'individuo o il poeta non è figlio di questa o quella classe, ma di tutta la 138
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immensa realtà spirituale, e si trova al di fuori e al di sopra di quelli pei quali ha parlato. Non mancano, nel vasto e denso quadro della storia, puri moti di plebei, schiavi del mondo antico o servi della gleba medievale; ma sono fra le sue apparizioni più sinistre, angoli d’ombra su cui non cade raggio di pensiero. Traendo origine da impulsi primitivi, senza alcuna mediazione di idee che li sorregga e li avvii; mera reazione bruta della sofferenza e della disperazione, essi o esulano fuori della realtà disperdendosi in aberrazioni mistiche ed in aspettazioni messianiche; o si gettano, con gli incendi e le stragi delle «jacqueries» sulla realtà immediata come su una preda, destinati nel primo caso ad esaurirsi nella prostrazione che segue a questi morbosi esaltamenti; nell’altro ad essere schiacciati e soffocati con repressioni sanguinose. Frequenti in Italia sono stati nel passato, specie fra le plebi campagnole, in molti luoghi così remote dalla civiltà cittadina e del suo spirito quasi vivessero in altri tempi e paesi, codesti risvegli mistici, nei quali pate sfogarsi, nel segno di palingensi (sic) vaghe ed ingenue, la loro incapacità politica attuale; e se ne vide un caso ai nostri tempi, quello suscitato dal povero profeta anacronistico Davide Lazaretti (sic), fra le umili genti del Monte Amiata; ma alle nostre belle terre furono risparmiate, sia per
una insita gentilezza o per più antico spirito di sommissione, quelle tregende di fuoco e sangue delle rivolte della gleba, che pure afflissero altri paesi civili in tempi anche recenti. La vita politica delle classi popolari nel passato, che abbiamo qualificata di crepuscolare, nel senso quasi di una sementa dormente, avente di per sé solo rare e sparse e non vitali germinazioni, va considerata anche per un altro e più generale aspetto; ed è della qualità e carattere dei loro rapporti con le classi dominanti; o tradizionalmente ligi o copertamente ostili, o anche solo passivi e indifferenti. Quali abissi di ostilità ed odio dissimulato possono scavarsi fra i potenti e felici e i deboli e reietti nella cerchia di una singola società e nazione, più profondi di quelli stessi che stanno fra le nazioni disgiunte se139
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colarmente da costumi, lingua e vicende di storia e di guerra; lo aveva mostrato la rivoluzione francese, dove gli aristocratici si videro insorgere contro, con una spietatezza inaspettata,
aizzati dai demagoghi, i contadini dei feudi aviti, legati alle loro famiglie da secoli di sottomissione, e incendiare come covi di belve i loro castelli, non sentendosi nemmeno sicuri dalla delazione e tradimento dei vecchi servitori nati in casa; ed
un’altra e più atroce manifestazione di questo odio di classe, covato nel silenzio servile di secoli, e implacabile sino al totale sterminio dei vecchi «signori» l’ha messo sotto i nostri occhi, nel pieno meriggio della civiltà moderna, la rivoluzione bolscevica. Altrove invece, in Inghilterra, Prussia ed Austria,
dove lo svolgimento storico era stato più graduale, il nuovo innestandosi su l’antico, o in paesi minori quasi appartati dalla storia, il vecchio lealismo feudale, che raccoglieva intorno al si-
gnore come in una sola grande famiglia tutti i dipendenti, sino ai più umili, con un controllo rigido e severo, ma anche col compenso di un interessamento umano, prolungandosi oltre le istituzioni che l’avevano stabilito, sopravvisse alla dispersione individualista moderna; e sopravvive ancora, eredità preziosa, nella specie di una libera e spontanea fedeltà, oltre che in casi di vecchia vita patriarcale, quali permangono nella campagna, in un sentimento diffuso, operante anche nelle sfere di una vita profondamente mutata. In Italia, per le vicissitudini storiche con la conseguente mutabilità dei dominii e la loro frequente dipendenza straniera, e per la situazione peculiare della Chiesa, che anche in questo campo manteneva una sua gerarchia autonoma, avocando a sé, a mezzo dei monasteri e di altre sue istituzioni so-
cialmente democratiche, un ufficio di vigilanza e protezione degli umili; le condizioni furono sempre scarsamente propizie alla formazione di questo costume e dei sentimenti che gli si accompagnano; e noi dobbiamo rifarci ai ricordi dei nostri vecchi per intravvedere nel passato qualche residuo aspetto di bonario paternalismo. Lo stacco fra classi dominanti e 140
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classi popolari precedette da noi quei profondi rivolgimenti della economia moderna ai quali generalmente lo si riferisce, e l'avvento del regime unitario l’allargò e approfondì; accompagnato come fu da un rapido mutamento sociale, che spostando i centri di vita e le attività economiche rese sempre più scarsi i rapporti fra artigiani provinciali e contadini e i loro signori di un tempo; richiamati questi sempre più verso le città e dalle minori alle maggiori, e ristretti ad un avaro egoismo dalle esigenze dei nuovi lussi esotici, il cui dispendio non rifluiva come un tempo verso le classi povere, e dai maggiori pesi pubblici a cui venivano assoggetati (sic); l’opera della beneficienza ptivata, sia la minuta di ogni giorno che quella dei cospicui lasciti per la fondazione d’ospedali, ricoveri, ed altre carità, venendo sostituita dalle provvidenze
pubbliche dei municipii e dello Stato. Infine il disagio che si aggravò sul paese in ragione dello sforzo compiuto per entrare nella sua nuova vita storica, insieme al travaglio del passaggio dalla piccola economia artigiana e campagnola a quella industriale e mercantile, riducendo a precarie condizioni la borghesia provinciale che viveva con modesti margini, e riempiendo di un miserabile ozio plebeo borgate e villaggi, inasprì ancora le cose, facendo fermentare l’indifferenza di un tempo a sordo rancore. Il socialismo, pure deprecando formalmente la confusione fra la lotta di classe da lui bandita e l’odio di classe in cui si traduceva nelle rozze passioni popolane, in fondo si compiaceva di questo distacco ed antagonismo, che spianavano più facile la via alle sue predicazioni ed alla educazione delle masse ai sentimenti nuovi, ossia
all’allevamento, quale era il gergo, di «proletari evoluti e coscienti»; procedendo a dimostrare che le pretese virtù della fedeltà, anche individuale, altro non erano che servilismo, stigma ereditario della servitù feudale. Gli sfuggiva, in quella sua dialettica ad un tempo rigida e facile, in cui era la sua apparente forza e la sua segreta debolezza, che un sentimento, quale si siano le sue origini, una volta formato ha un va141
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lore suo proprio nella sfera superiore dello spirito, operando universalmente. E dovette poi accorgersi che lo scarso sentimento di fedeltà delle plebi italiane, con la fragilità e mutabilità morale che gli si congiunge, quanto più agevole, altrettanto resero più precaria la sua conquista; quando sotto la violenta pressione di forze avverse, le vaste schiere raccolte con la disciplina di un trentennio cedettero quasi senza resistenze, lasciandosi travasare supinamente dalle loro associazioni marxiste al nuovo sindacalismo fascista, come mandrie
inerti che ubbidiscono, non alla voce, ma alla verga del pastore; e più quando è più duramente brandita. Filippo Turati e la Critica Sociale Comunque fu col socialismo che in Italia, come dovunque in Europa, le classi popolari, sciogliendosi da un sonno secolare, nacquero veramente alla politica, cioè ad una politica loro propria, che non era più il riflesso di quella di altre classi ed interessi, a cui partecipassero per inconsapevole rimorchio. Non che nel loro seno se ne elaborassero le idee, le
quali, come è sempre delle idee viventi e vitali, si produssero e lampeggiarono nelle sfere più alte a cui il pensiero storico si fosse a quel tempo levato; ma perché quelle idee trovarono rispondenza quasi immediata, e vasta e profonda nello spirito di queste classi, preparate a riceverle dalle condizioni stesse della loro vita; sia dove, come nei paesi più avanzati, la realtà, con la creazione e la crescita delle mostruose città del-
la industria, paresse lavorare con meccanica docilità e precisione a riempire i rigidi schemi della dottrina marxista; sia dove, come presso noi, lo scarso sviluppo di questi fattori materiali fosse surrogato e compensato da altri elementi, che per l’Italia erano appunto il rilassamento degli antichi vincoli e quella condizione di dispersione sociale e morale che abbiamo sopra descritta. 142
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Qualche lampo del pensiero socialista che aveva già avuti larghi sviluppi, sia pure con motivi romantici ed utopistici, nel paese politico per eccellenza, la Francia, ed era stato poi ripreso con spiriti più profondi e realistici ad un tempo in Germania, non era mancato nemmeno fra le vicende del-
la rivoluzione nazionale; ed i socialisti più tardi esumarono un libro del Pisacane, dove ne erano notevoli traccie (sic), ri-
vendicando l’eroe della spedizione di Sapri quasi come un loro precursore. Ma fu solo dopo il ‘70, quando il sanguinoso dramma della Comune parigina, di cui era stato pure non secondario attore un italiano, fatto poi famoso per le disavventure e le agitazioni che empirono tutta la sua vita, Amilcare Cipriani, pose la rivoluzione sociale come un faro di luce violenta e sinistra al centro della vita europea, che le idee fondamentali del socialismo si affacciarono, sia pure in forma ancora cruda, al nostro paese; trovando da prima acco-
glienza, meglio che nelle nascenti zone industriali, nelle terre di Romagna e Lunigiana, dove s’innestavano alle tradizioni ancora persistenti del repubblicanesimo d’azione e del vecchio carbonarismo. In Romagna aveva cercato asilo il Bakounin, specie di mo-
struoso ibrido del misticismo orientale e della cultura d’occidente, Tamerlano della rivoluzione sociale, che portava in giro per l'Europa le sue imaginazioni di catastrofi apocalittiche, inoculando per tutto il «virus» del forsennato nihilismo russo; e vi aveva fatti proseliti, sforzandosi in conciliaboli clandestini di eccitare ad atti di rivolta immediata e di terrorismo. E romagnolo era Andrea Costa, il quale dapprima confuso nel rivoluzionarismo sociale generico, dove col Merlino, il Malatesta, il Cafiero, il Pini, il Galleani, il Gori ed altri predomi-
navano gli anarchici teorici e gli anarcheggianti di temperamento, finì per sciogliersene, traverso polemiche furibonde alle quali si sospettava non estranea la mano della polizia ed a cui si mescolarono persino attentati personali; ed ebbe l’o-
nore di portare per primo il nuovo verbo nel Parlamento; 143
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benché il suo fosse un socialismo di scuola francese, impennecchiato di fraseologia romantica e che non rinunciò mai al motivo delle barricate: confusionario insomma, come poi lo compatirono i puristi del marxismo. Nei centri industriali, con a capo Milano, i nuovi impulsi che serpeggiavano qua e là nella classe operaia, introdottovi da compagni, quali il Lazzari e il Croce, il Bertini, alcuni reduci dall'estero, cercavano sfogo nella costituzione delle Camere del Lavoro, sospettate,
vigilate ed alfine processate; appartandosi con astiosa diffidenza dalla politica democratica-radicale, la quale faceva capo al Cavalotti (sic) ed al giornale «Il Secolo», con una punta di rinfrescato repubblicanesimo, dove le idee federaliste del Cattaneo prendevano il sopravvento su quelle del Mazzini, mescolandosi anche di impressioni americane, rappresentato dalla «Italia del Popolo» di Dario Papa, giornalista di grande stile, mutato da conservatore a repubblicano in seguito ad un suo pellegrinaggio negli Stati Uniti. I democratici vedevano con occhio inquieto questa gente nuova, sia per antagonismo
dottrinario acuito dalla segreta coscienza che le loro idee e parole invecchiate perdevano sempre più presa; sia pel risentimento personale di chi, pure occupando tuttora le posizioni e tenendo in mano i più validi strumenti, sente che sono già nati coloro che li caccieranno (sic) di nido. Intimamente conservatori non ostante la clamorosa opposizione a tutti i go-
verni e qualche attacco di sbieco alle istituzioni, questi democratici, che rappresentavano il mercantilismo dei nuovi arricchiti e di quelli che lavoravano ad arricchirsi, ed avevano per grandi elettori le leghe dei bottegai, si vedevano posti in sempre più grave imbarazzo; essendo in fondo ostili alle novità socialiste e pure avendo bisogno del voto popolare contro gli altri conservatori di antico stampo, proprietari terrieri ed eredi di vecchie famiglie. S’industriavano quindi nell’arte dei mezzi termini e dei compromessi, facendo omaggio al socialismo in astratto, come ad un ideale supremo, ma lontanissimo e certo fuori della realtà presente; procurando intanto di
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tenersi legati gli operai con le associazioni di mutuo soccorso, beneficienza popolare ed altri gingilli, e col far posto a qualche bravo «operaio autentico» nelle loro liste. E siccome i conservatori vecchio tipo, per stratagemma elettorale davano grande rilievo nei loro giornali alle deliberazioni astensioniste delle Camere del Lavoro e dei primi minuscoli circoli socialisti, ne risultavano recriminazioni e ritorsioni acri, la stampa democratica lasciandosi andare sino ad insinuare che costoro fossero agli stipendi della cosidetta consorteria moderata se non addirittura agenti provocatori della questura. Solite commedie d’equivoci del vuoto elettoralismo dei momenti di trapasso; a cui pose fine l’opera di due uomini nuovi; quella, più vistosa, critica e polemica di Filippo Turati, e l’altra, più intimamente creativa pure nel circolo di un piccolo mondo, condotta nelle campagne emiliane da Camillo Prampolini. La figura di Filippo Turati rimane notevole meglio forse che nella sua apparenza pubblica, nel ricordo di chi lo abbia conosciuto da vicino; non pel rilievo di qualche grande linea in cui, pure nel difetto di doti ricche e varie, è spesso la forza e la fortuna dell’uomo politico; ma pel bizzarro groviglio di qualità e tendenza diverse ed anche contradittorie; specie di geroglifico psicologico che eludeva i più esperti decifratori. La sua stessa persona fisica, con gli occhi fanciullescamente
interrogativi ed evasivi e le labbra tagliate insieme alla malinconia ed al sarcasmo, e la continua mutabilità della espressione fra il divagamento, il sogghigno e la schietta ilarità; col gesto a scatti dalla piccola mano aristocratica che accompagnava lo scoppiettio mimico della voce e dava rilievo al gioco quasi funambulesco della frase, dove le metafore letterarie si mescolavano ai frizzi meneghini, e le pedanterie e le stiracchiature si concludevano con improvvise vivide trovate; lasciava,
in chi l’avvicinasse con intelligenza degli uomini, una impressione inquietante, dove alla simpatia si mescolava qualche stilla di repulsione; mentre quel suo apparente abbandono nel nascosto riserbo riusciva ad un tempo lusinghiero e sconcer145
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tante a quei pellegrini che nella nuova Mecca milanese cercavano il conforto di quella autorità del capo, che nella aspettazione di proseliti non si scompagna mai da una tenuta di sussiego. La sua personalità, umanamente varia ed irrequieta,
piena d’ombre e sottintesi, mancava della quadratura che soggioga una volta per sempre; così che, pure mantenendo sempre, nelle varie vicende del partito e della sua politica, una posizione primaria e quasi centrale, non vi ebbe mai l’ascendente della autorità indiscussa, costretto anzi a stare sempre in armi e a riguadagnarsela con la scherma serrata della polemica, di volta in volta. E gli mancò pure l’altro ascendente, goduto pure da minori, che viene dall'amore. Egli non fu veramente mai amato, anche dai fedelissimi, perché non amava egli stesso; e l’amore va all'amore. Temperamento fastidioso fra di artista e di aristocratico, intimamente schivo di famigliarità e contatti, condannato a tuffarsi nella folla, a cercarla anzi nei
suoi strati più rozzi, in un mondo lontano dalla sua educazione e dai suoi gusti di borghese e di letterato, non gli sfuggivano certo, secondo il detto heiniano, i poco gradevoli sentori che ne emanano; e le visite e le conferenze con annessi con-
tradittorii, ai circoli popolani, infestati da anarchici e «confidenti», con le quali cominciò la sua nuova carriera politica, erano per lui una specie di calvario a cui risaliva di sera in sera, compensandosi del martirio con le celie e le malizie sussurrate a mezza voce agli intimi che l’accompagnavano. Pure non essendo un vero conoscitore degli uomini, nel senso di chi sa pesarli con un giudizio complessivo ed utilitario, era dotato di una diabolica chiaroveggenza delle manchevolezze e storture personali; e scarso di carità umana come pure insofferente di dissimulazioni, non sapeva resistere al gusto di bollare con una malizia tanto più pungente nel suo travestimento di bonomia le persone, ed erano i più, che non gli andavano a garbo; e le rassegne che faceva dei «compagni», e i giudizi che passava su l’opera del partito, i suoi congressi e dibattiti e deliberati ai quali egli stesso rassegnato partecipava e 146
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si sottometteva, pungevano e tagliavano ben più netto e profondo che le inesperte diatribe degli avversari. Da queste sue manifestazioni di indole e temperamento gli venne presto la taccia di scettico, vuoto di fede. Certo non c’era in lui la fe-
de semplice fatta dell’appassionato amore e della totale dedizione ad una idea e ad una causa, né quella che nasce dalla salda persuasione di una verità; ma sarebbe ingiusto relegarlo alla bolgia del rivoluzionarismo dilettantesco che si è accompagnato a quello genuino nei nostri tempi; diversione e passa-
tempo alla noia di esteti e decadenti. La molla che lo moveva, il motivo che lo aveva spinto e lo teneva, pure fra il frequente fastidio, su quella strada, era sostanzialmente serio e religioso; se non la fede, certo la nostalgia di una fede; una accorata nostalgia, nata fra le malinconie di una giovinezza che aveva vista la caduta di ideali inconsistenti e provvisori e non aveva saputo trovare compenso nell’attività pratica o in quella puramente intellettuale; e che alla fine, traverso a questa,
con suoi studi di criminologia, dove al concetto antropologico della delinquenza, messo allora in gran voga dal Lombroso, aveva opposto quello sociale, giunse al socialismo e vi si attaccò; se non con la persuasione assoluta o con passione
evangelica, certo come alla cosa a cui nelle condizioni attuali si poteva meglio fare credito, e che con la promessa di una opera non vana, dava alfine alla coscienza un suo riposo. Ed egli in questo rappresentava e interpretava e risolveva anche,
come mostrò il fervore con cui tanti suoi coetanei si misero su la stessa strada e gli si raccolsero intorno, il caso di coscienza e l’intimo travaglio della sua generazione; di quella migliore gioventù che non si adatta ad entrare nella vita col semplice viatico del pane quotidiano; lo risolveva provvisoriamente, per quel momento e in quelle condizioni. Quel problema infatti, il sitio Deum dei tempi scettici e critici, si ripropone fatalmente ad ogni generazione, perché la stessa critica che ha dissolte per noi le comode religioni confessionali, intacca senza posa anche queste delicate religioni spirituali, mutandole e 147
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riadattandole di continuo alla mutevole realtà; così che l’uo-
mo moderno, il quale, invece di nascere come i suoi avi in una religione è astretto a crearsela per se stesso, carne della propria carne, sangue del proprio sangue; si trova pure spesso condannato anche a vedersela decadere intorno, e peggio a sentirla morire entro di sé, riducendosi a cercare allora rifu-
gio in una fede nuova, ed anche opposta; come abbiamo visto di quei socialisti intransigenti i quali, sotto l’urto di nuove cose, si buttarono alla fine a un non meno esacerbato nazio-
nalismo, si illusero di quetarsi [in] ambigue conciliazioni. Dalle quali apostasie, che non potevano non tentare il suo spirito critico, egli fu preservato, non tanto dalla febbre rivoluzionaria, che era in lui blanda ed assai intermittente, né dalla
fedeltà ad un partito in continuo travaglio di aberrazioni e deviazioni che lo esasperavano; ma da un’altra e opposta qualità del suo temperamento, una specie di conservatorismo burocratico, che lo teneva legato, buon funzionario della rivoluzione socialista, al compito che si era dato; attaccato alla sedia del suo studio, alle bozze ed all’amministrazione della sua
rivista, della quale incollava perfino i cartellini di spedizione; al disbrigo della minuta corrispondenza che gli si accumulava quotidianamente sul tavolo; al suo scanno di deputato, alla compilazione degli innumerevoli ordini del giorno che accompagnavano di passo in passo la verbosa attività del partito, ed alle altre infinite tracasseries della politica militante. Non va infine dimenticato che, in codesta fatica che riempì l’intera sua vita, gli fu costantemente vicina, con l’ispirazione,
il consiglio e la collaborazione, una donna singolare, Anna Kulishoff (sic), tanto che dei due si formò, caso raro nella sfe-
ra dell’intelligenza, quasi un’anima sola; alla quale la signora Anna, come la si chiamava fra i «compagni», apportò non il lievito del misticismo e fanatismo russo, come si sospettava da coloro che avrebbero preferito di vedere il Turati mantenersi anche politicamente su la strada di quel buon senso di cui privatezza dava pur sempre segno; ma piuttosto una razionalità 148
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consequenziaria; temperata da una sagacia femminile applicata alla politica e ricca di intuizioni ed antiveggenze. Len quel matrimonio di due teste, la donna si mostrava in lei anche nella ingenua gelosia con la quale vigilava a proteggere il predominio nel partito da loro creato, dell’amico contro l’insidia di invidiosi e nella inquietudine con la quale vedeva entrarvi personalità che per la loro forza e popolarità potessero metterlo in forse. La fondazione della «Critica Sociale» nel 1891 fu veramente l’atto di nascita del socialismo italiano, in quanto essa gli dette il punto d’appoggio, il pernio intorno a cui si raccolsero le aspirazioni vaghe che erano nell’aria, e si unificarono e fusero per incanalarsi in una direzione precisa le tendenze, i conati e le azioni fino allora disperse e sconnesse. E giunse nel momento più propizio pel compito che si proponeva, alla confluenza di una crisi complessa e molteplice; di metodi e uo-
mini nel campo politico, di aggravato malessere in quello economico, e di idee e sentimenti in quello morale. C'era nell’aria odore di polvere; e la pugnace rivista s'impegnò subito a fondo dando non una ma più battaglie, o tutta una complicata battaglia su tre fronti; la massima al centro, e due altre, piuttosto tattiche, su le ali. La battaglia centrale, diretta contro il
sistema capitalista, la borghesia e i suoi organi politici, per la rivoluzione sociale universale, a fianco degli altri eserciti del proletariato internazionale, e in primo luogo del tedesco che giganteggiava su tutti, e del quale i nostri si sentivano umili ausiliari, era condotta con una baldanza cieca, senza temperamenti e discriminazioni; involvendo nella sua critica spietatamente logica anche quegli ideali superiori di nazionalità e patria, pei quali avevano palpitato e si erano sacrificati gli uomini più generosi delle recenti generazioni, e senza la cui opera, come un giorno alla Camera rinfacciò validamente ad Enrico Ferri Vittorio Imbriani, la stessa nuova battaglia non sarebbe stata possibile; facendo tutto un fascio, sotto la spregiata etichetta borghese, di liberali e reazionari, e vituperando egual149
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mente avversari e persecutori, quali Crispi e Di Rudinì; e uomini, quali Zanardelli e Giolitti, di ferma fede liberale, e que-
sto ultimo nel momento stesso che giocava la sua reputazione e posizione col fare della propria politica baluardo contro la già minacciante reazione; e mostrandosi indulgenti solo ai fucinatori di scandali, come collaboratori alla tesi della univer-
sale e inevitabile corruzione dello Stato borghese. La battaglia di sinistra si rivolgeva contro i rivoluzionari romantici, gli anarchici e i teorici dell’azione diretta, farneticanti di com-
plotti ed insurrezioni ad avviamento verso il gran giorno della apocalissi rivoluzionaria universale, e deprecanti qualunque contatto con la politica borghese e qualunque partecipazione ai suoi istituti rappresentativi, descritti quali strumenti di corruzione e inganno per le classi operaie; contro ai quali si ritorceva l'accusa di prestarsi al gioco del nemico, esponendo le plebi inermi alle repressioni sanguinose, e dando pretesto a misure reazionarie che le avrebbero tanto più indebolite ed avvilite. E per eguali ragioni venivano combattuti i repubblicani i quali, pure ammettendo che nel loro concetto di repubblica rientrassero le rivendicazioni sociali, le ritenevano inconseguibili senza una antecedente rivoluzione politica che allargasse ed assicurasse la libertà, elevando il popolo in senso mazziniano. Alla destra la lotta era ingaggiata contro le varie speci (sic) di democrazia, a sventare la manovra di coloro che s’industriavano a che il nuovo movimento si concertasse, a mezzo di intese ed alleanze, con le forze che avevano finora
tenuto il campo, portando le sue fresche reclute alle schiere ormai stracche dei vecchi partiti popolari; e la ripulsa si accaniva particolarmente contro quella democrazia scientificamente rammodernata, che pretendeva attingere al socialismo senza impegnarvisi, di cui era precipuo banditore nella sua «Rivista Popolare», Napoleone Colaianni (sic); alla quale si rinfacciava il peccato peggiore e più pericoloso pel socialismo ancora fanciullo, il peccato di «confusionarismo», e pei cui adepti era stato coniato il nomignolo di «socialistoidi». 150
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Codeste varie ed opposte intransigenze parevano eccessive agli spiriti pratici, i quali consideravano ‘non buona tattica, per un partito pur mo’ nato e che doveva ancora farsi le ossa, rifiutare anzi ributtare sgarbatamente intese e collaborazioni oneste, potendosi procedere assieme su una strada per lungo tratto ancora comune; quando gli stessi più rigidi assertori della dottrina prospettavano a grande distanza nel tempo l’avvento delle vere lotte e conquiste proletarie. La intransigenza tuttavia ebbe il di sopra su i consigli del sensato opportunismo; al Congresso di Genova dello stesso 1891 (sic), rompendola clamorosamente con la sinistra d’azione e gli anarchici, che dopo quel loro ultimo sforzo per dominare il moto operaio se ne trassero fuori, disperdendosi in minuscole conventicole individuali nei loro nidi sicuri della Lunigiana, della Romagna e delle Marche, e poi l’anno successivo, a Reggio Emilia, chiudendo definitivamente le porte ai democratici sociali e bollando di eresie qualunque tattica di compromessi ed intese. Vero è che se all’opportunismo non mancavano buone ragioni, l’intransigenza, in quella condizione di animi e di cose, aveva ragioni più profonde. Anzitutto essa vinse le diffidenze delle masse operaie, alle quali non era facile persuadere che dei «signori» s’occupassero con disinteresse delle loro sorti, dopo un trentennio di illusioni e delusioni democratiche; incuorandole per un altro verso a partecipare largamente ed apertamente ad una rivoluzione incruenta, che doveva essere combattuta con l’arma
della scheda, assai meno pericolosa a maneggiarsi che le bombe degli anarchici; mentre apriva poi nuove strade alle capacità ed alle ambizioni dei capeggiatori, chiamati ormai in prima fila, su piede d’eguaglianza con gli uomini di dottrina; oggi candidati e domani forse deputati, superando la umile funzione di semplici grandi elettori plebei. E, in sfera più alta, essa si attagliava allo spirito della gioventù colta, attratta verso la nuova dottrina da motivi diversi, di cuore e di pensiero; sia che vi cercasse l’appagamento d’insoddisfatti biso151
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gni morali, o credesse trovarvi la chiave dei problemi che avevano travagliata la storia nei secoli e che ora s’ingigantivano prospettandosi in più spazioso avvenire. Questi moti
politico-religiosi non traggono mai origine da una enciclopedia di idee vagliate e conciliate, bensì da una Bibbia di idee assolute; e la Bibbia dei nuovi tempi era il «Capitale» di Marx, il libro fatidico il quale, se pure nella sua tormentata dialettica per asservire la scienza ad un sentimento e forzarne le conclusioni su una strada prefissa, rimaneva chiuso con sette suggelli, non che alla massa dei gregari, agli stessi banditori della dottrina, aveva già fornito al pensiero politico formule nette e precise, che fiammeggiavano nell'animo di tutti. L’inclinazione ai compromessi, alla ragionevolezza, alla indulgenza, antica virtù dell'anima italiana, pareva avere già dati tutti i suoi frutti, e non tutti buoni, alla nostra nuova vita politica; si mettesse dunque ormai alla prova questa virtù opposta della intransigenza. La incompatibilità e la rottura con le ideologie democratiche aveva poi un’altra ragione nel contrasto di motivi e scopi, in quelle prevalentemente politici, e in buona parte già soddisfatti, con appena qualche corollario economico secondario ed appicicaticcio (sic); mentre nella nuova dottrina il motivo economico stava al centro,
e quelli politici erano respinti alla periferia, come semplici derivazioni. Concezione che rispondeva d’altronde al nuovo spirito e costume che si formava ed accentuava in Europa, dove l'interesse e la passione dei problemi politici e delle conseguenti lotte si affievolivano dovunque, fino a quasi spegnersi, e i problemi e le preoccupazioni economiche passavano in primo piano; il capitalismo coi suoi borghesi e il socialismo coi suoi proletari trovandosi in questo d’accordo nella loro stessa discordia; gli uni per l’accumulazione della ricchezza, gli altri per la sua ripartizione. Posizioni curiose, che si esprimevano in episodi alquanto comici; come quando alle invettive di Edoardo Scarfoglio contro l’imbecillità socialista di volersi impadronire di un capitale che in Italia 152
Le classi popolari e il socialismo
non esisteva, rispondeva la pedanteria marxista fosse appunto compito del socialismo di spingere, anzi costringere la borghesia italiana ad arricchirsi, per poterla poi spogliare. L'intransigenza, quando applicata alle idee ormai isterilite, ne affretta l’inaridimento e la morte; ma per le idee giovani, ricche di succhi vitali, è come il forzamento del germe, che fa più rigogliosa la messe. Il successo del nuovo verbo fu rapido e largo oltre ogni aspettazione, con allarme, più che di avversari e competitori, dei puristi, e soprattutto del suo massimo banditore, il Turati, con ostentata preoccupazione di confusioni e
deviazioni; ma in verità per le ragioni di temperamento già accennate, il socialismo essendo stato per lui una specie di rifugio, la cui porta, se non affatto serrata, doveva essere tenuta socchiusa, varco discreto agli amici ed ai fidi; ed ora se lo vedeva invaso dalla strada. Anche di fatto, con la ressa dei nuovi
«compagni» che venivano a fare omaggio al maestro nel suo elegante studio, aperto con le ampie vetrate su la piazza del Duomo, e che trovavano su l’uscio, a lettere di scatola, l’am-
monimento, simbolico dell'animo dell’ospite, di sfangarsi le scarpe prima di entrare. Ad arginare la diffusione, togliendo illusioni e sventando calcoli nello spirito dei neofiti e degli opportunisti, si ribadiva l’intransigenza elettorale; e non solo si vietavano le liste miste, ma si insisteva che si vegliasse su la purezza stessa degli anonimi voti, astenendosi dal corteggiare gli elettori, e magari respingendo i dubbiosi. I voti dati dovevano essere tutti consapevoli, oro puro dai più profondi filoni della coscienza. Non c’era forse in queste schifiltosità, che ad altri parevano ingenue, una oscura previsione del giorno quando la brutale valanga dei voti socialisti doveva travolgere, non la borghesia, ma coloro stessi che l’avevano mossa? Il Turati, che aveva avuta nel passato una candidatura fortunata al Consiglio Provinciale di Milano, diceva con la sua scherzosità mordace
che quel suo successo era stato dovuto non alla sua qualità di candidato del popolo, ma perché i popolani l'avevano scambiato con un conte Turati, gran magnate del quartiere. E il po153
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
vero Pompeo Bettini, che veniva al socialismo dal giardino triste e solitario della sua poesia, diceva, fine e sarcastico, che la
corruzione elettorale era preferibile, facendo comprendere ai proletari che il voto valeva almeno cinque lire, al confusionismo democratico, che li frodava gratis. Questi pudori puristi ebbero del resto piena soddisfazione nei successi assai smilzi delle prime liste, non corrispondenti certo alla forza e larghezza del movimento; come fu ancora per non pochi anni, sia per ragione del suffragio ristretto, sia perché solo con un lungo e paziente lavoro le liste elettorali tenute dai municipi poterono essere aggiornate. Veicolo della diffusione era in prima linea la gioventù universitaria; sia i giovani più proclivi allo studio ed alla meditazione dei nuovi problemi proposti, sia quelli che s’infervorano della lotta per la lotta; e segno notevole degli spiriti mutati, laddove nel passato l'avviamento alla politica pareva riservato ai candidati della avvocatura; a questa politica nuova si andavano avvicinando gli studenti delle scienze positive; della medicina che vi portavano la considerazione delle malattie come effetto delle condizioni sociali; e della ingegneria ai quali il socialismo appariva nell'aspetto di un mondo trasformato e redento dalla meccanica, loro studio speciale. Nei cam-
pi della filosofia e della storia si aprivano pure nuove viste, di profondità insospettate nelle quali tutto si chiariva, facendosi facile ed ovvio, in una luce meridiana; e gli enigmi che avevano tormentato nei secoli lo spirito dei pensatori si risolvevano
nel gioco di meccanismi nei quali da ruota a ruota si arrivava al principio motore; e trovato quel bandolo l’arruffata matassa della storia, coi suoi drammi dolorosi e le sue violente con-
traddizioni si dipanava agevole, di filo in filo, ed ogni cosa andava al suo posto; e il posto delle cose si mutava, gli eroi di tutti i tempi, diabolici o divini, retrocedendo in seconda linea,
quasi alla funzione di comparse; mentre al primo piano si avan-
zava il coro, la immensa folla anonima, che ormai l'avrebbe oc-
cupato definitivamente. Era, in quel rigoglio misto di idee e di illusioni, in quella baldanza e sicurezza di propositi, un caso, 154
Le classi popolari e il socialismo
sia pure in piccolo, della perenne creazione del mondo; di questo vecchio mondo che rinasce di generazione in generazione ogni qual volta un germe di vita cada su le sue ceneri; e quando non rinasca è segno che qualche inciampo, qualche morto residuo si è insinuato fra le ruote delle cose. I ritrovi studenteschi erano le sedi delle iniziazioni e della preparazione morale; seminarii delle nuove idee avide di attecchire; e che i giovani, rincasando dalle città universitarie
per le ferie, portavano ai loro paesi, venendovi in contatto ed affiatandosi con popolani che avevano già bazzicato nella politica democratica ed attirandoli presto a sé; e non era infrequente il caso di conversioni in massa, che lasciavano i vecchi caporioni nella solitudine delle fedi sorpassate o li costringevano ad abdicare. Si fondavano circoli, nei cui locali le imagini dei profeti ed apostoli della fede nuova, tanto più venerabili per l’aura esotica che li circondava, Marx ed Engels, Be-
bel e Liebkneckt, prendevano il posto degli eroi del Risorgimento, di Garibaldi e Mazzini; e le massime socialiste, e in
prima linea il grande motto, «Operai di tutto il mondo, unitevi!», sostituivano le ormai vuote formule della democrazia;
e dove le disuguaglianze sociali venivano sommerse nella nuova camerateria, e il trattarsi col #4 diffondeva un profumo di evangelismo; e quel discendere degli uni di qualche gradino, porgendo la mano agli altri a salire, stabiliva contatti ed affiatamenti, che per una parte richiamavano in nuove forme e su un piano morale più elevato qualcosa dell’antica famigliarità patriarcale, per l’altro davano agli umili quasi una primizie della futura fratellanza. Era l’incontro e l’abbraccio di due giovinezze, quella perpetua del popolo non pervenuto mai a farsi veramente adulto, e di questi figli delle classi borghesi, dei cosidetti «padroni», che si erano creata una nuova anima, cancellando il loro peccato originale, e svestendosi, o così era-
no persuasi, dello stigma della propria classe. I giornali settimanali di propaganda, che cominciavano a pullulare, prendevano lo spunto dalla «Critica Sociale» o dalla «Lotta di 155
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
Classe», che le era stato fondato a canto, a volgarizzarne l’astrusa materia, mescolando le predicazioni socialiste con le questioncelle ed anche le beghe di campanile; l’istinto pratico inculcando la necessità di prender terra, e terra italiana,
perché si era infine a Carpi o a S. Donnino, e non nella beata terra di Germania, dove tutto si poteva fare filosoficamente. Dalla folla si profilavano già le figure dei futuri capi: il Treves, il Morgari e lo Zerboglio a Torino; il Canepa a Genova, il Filippelli, il Caldara a Milano; a Cremona il Bissolati; a Mantova il Bonomi; lo Zanardi, il Graziadei, lo Zibordi a Bologna;
e più radi altrove, fra i quali a Napoli Arturo Labriola ed Ettore Cicotti, che però aveva preso il suo viatico socialista a Milano. La valle del Po, come già prima pel Risorgimento, e poi pel fascismo, era il centro diffusore del movimento, quasi ma-
trice della politica italiana. Su questa, che fu veramente una primavera di spiriti, se pure presto sfiorita, piovevano raggi di benevolenza dagli empirei del pensiero e della fama. Uomini di scienza, professori d’Università fattisi in questo scolari dei propri scolari, traendone anch'essi un loro ringiovimento; quali — lasciando a parte Antonio Labriola, che fu a quel tempo il solo genuino maestro della materia — il più illustre clinico d’Italia, Augusto Murri ed il fisiologo Albertoni; Cesare Lombroso, il filosofo
asturaro, Ludovico Mortara, allora professore a Pisa e che poi entrato nella magistratura vi raggiunse il posto supremo; e giovani che presto furono in prima linea nella pubblicistica e nella cultura, quali il Croce ed il Ferrero; ed anche uomini politici di diversa parte, quali il Bovio e il Sacchi, pure non facendosi socialisti mostravano segni di simpatia, tanto più preziosi per la loro indipendenza, ed occasionalmente davano alla rivista del partito la loro collaborazione per problemi specifici; e a collaborare si prestavano anche, con forzato pseudonimo, alti funzionari da Roma, fra i quali si fece notare, per
la verve della sua prosa, uno che firmava «Lucius». Altra pre-
ziosa testimonianza, che concorreva a creare un’aura di ri-
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Le classi popolari e il socialismo
spetto intorno alle nuove idee ed ai loro propagatori, era quella di letterati e poeti; quali il De Amicis, Arturo Graf, Mario Rapisardi, Giuseppe Giacosa, Olindo Guerrini, Corrado Corradini, sia che entrassero addirittura in casa, o si affacciassero, commossi e benevoli, su la soglia. E va ricordata la
popolarità a cui salì di un colpo una maestrina popolana, Ada Negri, col suo primo libro di versi, tutto pieno, come si diceva, di poesia sociale; e pel quale si scomodò dal suo sussiego di corifeo della stampa conservatrice, Torelli Viollier, scriven-
done un articolo celebrativo nel suo ponderoso giornale. Altri guardavano tacendo; ma nessuno levò la voce del rimprovero o dall’allarme. Il maggiore di tutti, Giosué Carducci, non ostante i suoi furori crispini, e il recente trapasso dalla repubblica alla monarchia, pure non avendo mai dato segno pubblico del suo pensiero, non era spettatore indifferente o ostile; e un giorno ad uno di quei giovani, Guido Podrecca, diceva con accorata nostalgia di vecchio lottatore: - Non c'è che dire; siete in una bella battaglia —. Né, nei suoi primi tempi, quel socialismo giovanile, non ostante le sue truculenti pose antiborghesi e le grosse parole sovversive, fu guardato con occhio ostile dagli stessi che ne erano bersaglio; verso lui andando quella indulgenza che non manca mai alla gioventù anche scapigliata. Pure oppugnandolo negli articoli politici, i giornali borghesi non misconoscevano la serietà di non pochi dei problemi da esso posti, aprendo le colonne alla collaborazione di simpatizzanti, fra la quale (sic) si fece notare quella di uno scrittore, che si im-
poneva nel suo stesso pseudonimo di «Justus» un giudizio spassionato e sereno; e dando delle cose cronache imparziali, quali furono quelle che la «Tribuna», non ostante la sua veste di ufficiosa, raccolse per i fatti di Sicilia. Veri conati per controbatterlo dottrinalmente non ci furono, se non il caso
singolo di un giovane patrizio milanese, Alberto Sormani, che con la sua «Idea Liberale» si sforzava di opporre al marxismo il liberalismo; ma era fervore tutto personale, che 157
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
non riscoteva echi nella opaca moderateria lombarda, che guardava alla politica con grosso scetticismo pratico, come strumento degli affari a cui si stava volgendo; interrotto solo ai momenti critici da improvvisi accessi di furore poliziesco. La Chiesa stessa levando la sua voce con la famosa enciclica «Rerum novarum» contro il socialismo, sostanzialmente gli giovò; la condanna dei metodi per risolverli implicando l’ammissione dei problemi, ciò che appunto importava; mentre non mancava nelle alte gerarchie chi vagheggiava già una ripresa d’influenza su le masse con l’assecondamento delle loro aspirazioni e la difesa dei loro interessi in una specie di socialismo cristiano. Nelle famiglie i padri che avevano al loro bel tempo indossata la camicia rossa, non si potevano scan-
dalizzare troppo che i figli seguissero ora una bandiera dello stesso colore; e fra la borghesia campagnola, che non si rendeva ben conto delle cose, ne nascevano bonarii equivoci; co-
me nel caso dei grandi elettori di Enrico Ferri, grossi fittavoli e mercanti di buoi, i quali, fatti perplessi dalla conversione del loro amato deputato, gli si fecero un giorno attorno a chiedergli cosa fosse quella rivoluzione di cui egli andava predicando. Non è rivoluzione, rispose egli con una delle sue trovate fra opportuniste e beffarde, ma evoluzione; e ci vogliono dei secoli a farla. Al che quelli lo assolsero senz’altro:— Quando è così; professore, la faccia pure — Indulgenza, equivoco, curiosità scettica e rassegnata; come nell’altro episodio del milionario Franchetti di Reggio Emilia, padre del musicista; il quale sentendo della predicazione del Prampolini, volle anch'egli ascoltarlo, ma in casa, come facevano i signori di un tempo coi predicatori venuti in fama. E ci fu una lunga conversazione, dove il milionario non si lasciò naturalmente persuadere, anzi cercò di convertire l’apostolo socialista alla reli-
gione dei milioni; ed alla fine, rassegnato, fece chiamare il figlio, e battendogli con la mano su la barba concluse: — Voi mi potrete vuotare la tasca, ma non la musica che è qui dentro. 158
Appendice al capitolo «I ceti popolari e îl socialismo»!
Provvedimenti eccezionali di Pubblica Sicurezza - 1894 - 19 luglio 1 = Repressione contro le masse anarchiche (chiunque detenga bombe o le fabbrichi — Associazione a delinquere (tre persone) Apologia di reato 2 = Assegnazione a domicilio coatto mediante commissione provin-
ciale sino a tre anni Vietate associazioni e riunioni che abbiano per oggetto di sovvertire con vie di fatto gli ordini sociali 3 = Istigazione a delinquere e apologia di reato per mezzo della stampa
fumo evangelico; si stampavano giornaletti settimanali; che prendevano dall'organo massimo lo spunto, e mescolavano le predicazioni del socialismo universale con le questioncelle di campanile. alla Mecca, cioè a Milano, si guardava, diffidenti, scettici ed anche al-
quanto sbigottiti di questa tanta responsabilità... In pubblico si parlava forte, salutando l'aurora siciliana, moltiplicando le metafore a nascondere il dubbio; ma a quattrocchi non si nascondeva. In Parlamento si pensa l'occasione a fare sfoggio della nuova dottrina da oratori scettici ad ascoltatori ancora più scettici; chi trovò il tono giusto, in rispondenza alla realtà; tanto a commuovere Biancheri fu il Prampolini. Dopo tutto questo bisogna porre un quesito: altro è l’uomo per la vita privata, altro per la pubblica; ciò che in quella è virtà 0 vizio, può capovolgersi. 1 Questa parte contiene gli appunti raccolti sotto il titolo del capitolo “Le classi popolari e il socialismo” ma non inseriti nel testo del capitolo stesso.
DS
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
Ora quale qualità fondamentale? Indubbiamente concessione a passione — unità che si opponeva benissimo all’atomismo dilagante. Naturalmente, come avviene sempre in uomo d'azione, il centro dell'u-
nità è personale; non può pretendersi che il rude lavoratore sia anche un saggio: che alla sua irruenza attiva si accoppi il distacco filosofico. Però anche questa unità personale può colorarsi variamente, essere flessibile ad ammettere collaborazioni: qui invece è negata ed afferma se stessa fino al parossismo.
Contro la guerra di Libia e suffragio universale Rimprovero fatto da alcuni a Giolitti che con quelle due cose rompesse l'equilibrio sovvertendo quello interno, e dando un forte colpo a quello internazionale. Economia
Tutti quelli della nostra età ricordano che i nostri vecchi rimpiangevano la vecchia Italia grassa di fronte alla penuria dei nuovi tempi. L'Italia si era dunque impoverita? Lo stesso difetto d’autorità che era nel paese, si riproduceva nel partito socialista, dove ogni nuovo venuto, gridando più forte, obbligava i dirigenti insidiati dalla gelosia a cedere e seguirlo almeno nelle apparenze. Bonarietà fondamentale delle classi popolari. Basta mostrare loro un po’ d'interesse e cortesia perché rispondano. Il torto della borghesia era stato, negli ultimi tempi, di lasciarle e tenerle lontane; ciò che dipendeva anche dalla sua scarsezza di mezzi: la vera canaglia si trova in alto. Se nelle classi popolari si forma qualche canaglia di grosso calibro, ed evita di andare in galera per inesperienza, passa presto nelle classi dirigenti. Socialistoidi Gnocchi-Viani - Colajanni - G. Ferrero
Come nella poesia popolare: dove alla fine ci deve essere stato l’individuo che l’ha composta, e l'individuo o il poeta non è figlio di una classe, ma di tutto la immensa realtà spirituale
La loro partecipazione è sempre di secondo grado, con una appren-
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Le classi popolari e il socialismo
stone crepuscolare delle cose, trasferita al sentimento ed alle passio ni, buone o cattive: moti religiosi, jacqueries ecc. Nicola Barbato - Garibaldi Bosco - Rava (?) - Lumigiani (2) - Gori (anarchismo della Lunigiana) - Bernardino Verro - Felice Giuffrida (altro borghese di Palermo)
La parte migliore dell’opera socialista: l’organizzazione del lavoro, sia pure con la sua conseguenza di scioperi. Cosicché lo stesso fascismo, alimentando il calcolo conservatore di averlo a gendarme dei propri interessi, la ha conservata e în un certo senso anche elevata, ed
è questo suo titolo migliore. (Giornale Lavoro Fascista - Lavoro di Faenza) Questione scioperi: attivo e passivo. Dal punto di vista degli imprenditori certo seccatura, ma quello non può essere giudizio politico Teoria dello Svegliarinoce
La duplice anima del socialismo legalitario. Da una parte il praticismo, che esagerava fatalmente sino all’opportunismo personale, alle concessioni chieste ed ottenute, e che,
diventando sistema avrebbe dovuto condurre alla loro partecipazione al governo; dall'altra il mantenimento di un vago misticismo rivoluzionario che l’impediva. Gente in fondo bene intenzionata riguardo gli scopi, e che mirava ad una conciliazione riformista perpetuamente operante; e invece infida e incapace riguardo ai mezzi, perché rifuggiva dall’assumere le necessarie responsabilità. Questa duplicità di condotta era dai capi giustificata con la scusa che se avessero fatto il passo per entrare legittimamente nell'orbita legalitaria ed assumere le conseguenti responsabilità, le masse non avrebbero capito la cosa e sarebbero passate agli estremisti. Il che può anche essere vero. Ma una tale situazione sospesa ed ambigua, non può essere sostenuta indefinitivamente. Buona per tempi pro-
speri e calmi, dove la politica è un gioco, non regge più quando le cose si fanno grosse.
Fedeltà - migliore nei casi di guerre e invasioni
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Il regime liberale e l'avvento del fascismo
Aggiunte e correzione: Bertini (capi operai)
Anarchici, rifugiati in certi loro nidi nella Lunigiana, nella Romagna e nelle Marche, donde avrebbero poi fatto parlare di sé in altre circostanze ed occasioni. Gnocchi-Viani: Maestro di scuola, dalla sua eloquio pacato e didattico come Cicotti, che aveva preso il suo viatico a Milano Corrado Corradini - Masini - (Merlino - Malatesta - (2) — Morselli -
Sergi) 1892 Genova - 1893 Reggio - 1894 Sicilia - 1895 Leggi Maggio
Colla politica le classi popolari italiane non sono fatte. Essa vive in un clima spirituale primitivo — catartico — religioso; gli è mancato il protestantesimo che gli risvegliasse il senso della responsabilità morale, alla quale la politica è strettamente legata. Quindi si lascia prendere dalla politica solo in quanto tocchi i suoi interessi immediati o la sua immaginazione; donde le forme mistiche della politica di mas-
sa, che altrove si sfoga în altri modi. (Salvation Army) Il socialismo in Italia si trovò presto imbrigliato nella complessità della nostra vita economica, vero museo secolare, piena di sopra-
vivenza, in confronto a quella inglese, o americana o anche tedesca e francese — ad esempio il socialismo, per ragione di logica dottrinaria, doveva essere antiprotezionista, viceversa la sua esistenza
dipendeva da un proletariato industriale vivente sul protezionismo. Tristi, dolorose folle italiane, loro risvegli mistici, che presto degene-
rano. Mai abbandonava i suoi capi all’eccidio, al rogo - Vedi Cola di Rienzo, Savonarola, Masaniello
Fragilità, trasformabilità, stesse trombe che suonavano gli inni socialisti, poi suonarono quelli fascisti. In certi borghi della Lombardia, le insegne dei circoli socialisti furono rivoltate, dipingendovi a retro della falce e martello ilfascio littorio.
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Le classi popolari e il socialismo
Invece di fare del partito il proprio strumento, si umiliavano a diventare strumenti del partito per piccole cose. L'ultimo uomo, Mussolini, tentò di superare questa situazione, non riuscì e fu per allora spezzato, ma poi si prese la formidabile rivincita spezzando a sua volta il partito Personaggi Bakunin - Corte - Cipriani - Gnocchi-Viani Turati - Kulischoff - Bissolati - Agnini - Berenini - Cabrini - Prampolini - Ferri - Maffei
Arrivavano professori - Capi burocrazia (Ciccotti Albertoni Labriola) - Letterati De Amicis Poi giovani - Treves - Zerboglio - Cabrini. Caratteristiche: caso Ferri
- Badaloni - Agnini - Berenini Congressi Genova e Reggio E mentre si preparavano alla loro burocratica conquista scoppiò fuori, da dove non si sarebbe mai aspettato (Fasci siciliani) Ferri, non era chiaro se in lui il temperamento tradisse il calcolo, 0 il
calcolo in ritardo sciupasse il temperamento. L'incapacità politica mostrata dal socialismo in questo senso mostra che la politica delle masse, e della loro preparazione ad una coscienza, non è sufficiente. Essa rimane rude, grezza embrionale; non basta il risveglio, occorre anche l’educazione. Non si entra veramente nel-
la politica se non ci si rende capaci di affrontarne i problemi, non in forma vaga e generica, ma con preciso senso di realtà, nelle loro concrete determinazioni di luogo e momento ecc. Nazionalismo. Anche per esso, come e più che per le forme del socialismo, l’Italia è stata tributaria. Il che costituisce un paradosso un po’ penoso, perché attingere all’estero ciò che, per suo stesso nome, dovrebbe essere strettamente indigeno, è assurdo. Tanto più che non ve nera bisogno. Fra i paesi europei l’Italia, che aveva compiuto di recente il suo sforzo per l'unione nazionale, era appunto il paese che aveva un nazionalismo più puro, tutto proprio, fuori dalla realtà e che era stato realtà appunto nel movimento di formazione nazionale, senza il torbido misticismo dei nazionalismi reazionari quale ilfrancese, o i briganteschi, quali quelli dei Balcani.
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Parte I
Appendice. Parte I
IV La gioventù politica e la cultura
Il fenomeno delle ideologie politiche
Storicamente l’elemento ideologico nella politica è una apparizione recente. Nei tempi antichi le lotte si svolgevano su problemi precisi e chiari, debitori e creditori, ripartizioni terre ed onere, (?).
Vi erano dei casi individuali, e fuggevoli. L’apparizione delle ideologie comincia con le guerre di religione; la rivoluzione inglese svoltasi sui diritti della corona e del Parlamento ne è il primo grande esperimento. Poi la guerra di libertà americana con proclamazione diritti uomo; sua immensa ripercussione in Europa e più tardi nell'America centrale e meridionale. Il più grande esempio di moto ideologico si ha con la rivoluzione francese, preceduta da una lunga preparazione dottrinaria e che si proponeva il rinnovamento delle istituzioni secondo la ragione. Ma anche in essa l'elemento degli interessi finì per prevalere, sia pure nascostamente; e gli ideali rivoluzionari mascherarono spostamenti di proprietà. D’allora in poi l’ideologia rifugiandosi nella lotta politica elettorale e parlamentare ha esercitato questa funzione anche se la mascheratura è inconsapevole. Donde la tendenza, per ogni moto o partito di crearsi una ragione ideologica, ormai necessaria perché fa parte dell’armamentario politico, e di gonfiarla e ingrandirla all'infinito, con la pretesa di avere da instaurare tutto un nuovo mondo, con anche l’ispirazione mistica di una ideologia che non esiste. Le due sole genuine ideologie della politica che si abbiano avute sono state quella borghese-democratica e illuminista contro il feudalesimo nella rivoluzione francese; e quella socialista materialista contro la borghesia capitalista nella rivoluzione russa, che è il proseguimento di quella. L’uomo ha bisogno di eternità, o almeno di durata oltre se stesso, nelle generazioni. Ai suoi motivi egli vuole dare ragioni trascendenti, alla sua opera il suggello della permanenza (60 anni - anzi un secolo). Anzi della eternità, e cioè che siano fatte una volta per sempre. La idea che pure un giorno dovremo passare e cadere; è già ragione di indebolimento.
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Il regime liberale e l'avvento del fascismo
V La trasformazione economico-sociale
Che l’Italia dal 1860 in poi (anzi Lombardia o Piemonte - opera Cavour antecedente) si sia arricchita ed abbia sviluppato un nuovo sistema economico, assimilandovi a mano a mano nell’agricoltura, nell’industria, elettricità. Ciò che si andava trovando e applicando nel mondo, e che insomma sia entrata nella grande cor-
rente capitalistica moderna è noto. E sarebbe superfluo raccogliere dati e cifre e fare confronti... Quello che importa è rendersi conto cosa sia stato intimamente questa trasformazione e quali effetti abbia avuto nella vita spirituale e sociale del paese. (Vedere varie regioni — Polemica nord e sud — Creazione di nuovi ceti). Sforzo grandioso Punto di partenza — Il paese era poverissimo per ogni rispet-
to. Scarsissime risorse naturali: niente miniere; bisognava quasi «fabbricare» il territorio zolla a zolla, con bonifiche: mentre gli altri paesi distendeva (sic) la loro produzione su le terre vergini coloniali. Mancava capitale: concorrenza cotoni fatta col basso prezzo. Sforzo d’introdurre la nuova civiltà: mentre per sé è mirabile, indubbiamente ha portato ad un disagio: vivere sempre sui margini; dipendere dalle buone condizioni altrui; pericolo permanente, crisi. Mutamento carattere nazionale; la preoccupazione diventata vera malattia permanente; impressione andando Inghilterra trovare un popolo allegro. Contributo classi popolari enorme, nella emigrazione. Inconsapevolmente, premuti dalla necessità, diventarono più importante fattore della trasformazione, inviando Italia 28 miliardi oro, quasi
metà valore patrimonio italiano; e fu quel capitale che permise la immensa trasformazione. Ripercussione alla emigrazione su le classi popolari stesse. Quelli che sono cresciuti fra il 1870 e il 1900 che fu il periodo più difficile economicamente del nuovo Stato, ricordano di avere
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Appendice. Parte I
sentito spesso dai loro nonni o padri, specie nella piccola e media borghesia provinciale, rimpiangere i buoni tempi antichi, i tempi grassi in confronto alla penuria di che allora si soffriva. Viceversa le statistiche mostrano che anche in quel tempo, pure lottando con continue difficoltà, anche economicamente l’Italia progrediva, cioè si arricchiva, aumentando il capitale nazionale e il suo rendimento con la creazione di nuove industrie, con l’espansione all’estero dei commerci.
Qual è la ragione della contraddizione?
I vecchi governi, pigri e indolenti e incapaci del resto di promuovere il progresso tecnico economico nei limiti in cui ciascuno
era racchiuso, quando invece tale progresso richiede larghezza e facilità di scambi: avevano in quella loro piccolezza e mediocrità una virtù: quella della parsimonia. I loro Stati, specie quelli sottoposti al Papa e il meridionale, erano, si diceva male governati; senza nessun lume di progresso fra tanto e così rapido movimento del mondo; ma erano governati assai a buon mercato, coi centesimi; e quin-
di i balzelli e le imposte erano poche e leggere. Il nuovo Stato doveva invece compiere una immensa opera di costruzione; ferrovie ed altri lavori pubblici ed impiantare la amministrazione necessaria; fare cioè e far fare al paese uno sforzo finanziario tanto maggiore quanto maggiore era stata la trascuratezza. Si tentava di allacciare le varie regioni con le ferrovie, di stabilire un completo sistema postale e telegrafico, di introdurre nelle
città i moderni sistemi d’igiene smantellando quartieri; scavando fognature; di creare o allargare i porti e di provvedere alle spese di un esercito che rispondesse ai bisogni della politica estera, per la difesa del nuovo Stato ed il suo compimento. Le imposte quindi si moltiplicarono ed aggravarono, e fu quella la prima ragione di impopolarità del nuovo regime; sfruttata dalle opposizioni, le quali domandavano, come sogliono, le cose più contraddittorie; cioè alleviamenti di tributi e maggiori spese pubbliche ad un tempo. L'Italia insomma doveva riconquistare il terreno perduto nella grande gara internazionale; introdurre rapidamente nel paese quella civiltà nuova industriale che negli altri era
in sviluppo già da oltre una generazione. E così fu (?) fin d’allora, LA)
Il regime liberale e l'avvento del fascismo
e non poté più essere. La politica di quello sforzo che il nostro paese con risorse naturali magre, senza capitali accumulati; e con una
educazione tecnica arretrata in confronto all'Inghilterra Francia e
Germania, che erano a volta a volta gli esempi pregressi; per mantenersi al livello della nuova civiltà, la quale essendo in sviluppo continuo non dava riposo, ed era essenzialmente una civiltà di ricchi (vedi Spagna).
Il proletariato, con l’emigrazioni, grande banchiere della nazione. Retorici per intimidazione Curiosa situazione; mentre uno per uno gli italiani sono antiretorici, in folla si umiliano alla intimidazione della retorica. E una strana combinazione, di retorica con scetticismo, una specie di esplosivo buono per petardi solamente rumoroso. E sono bambini; come i bambini capiscono meglio le masche-
re che i volti viventi. Donde la scarsa popolarità di uomini quale Giolitti; e la popolarità di D'Annunzio, Mussolini. Spesso anche trasformano poi in maschere anche i grandi uomini semplici: caso Manzoni.
VI La politica estera e il sentimento nazionale - retorica e realtà Ad ogni generazione c’è bisogno di trovare una retorica nuova; e chi la trova fa fortuna. In prima linea nelle civiltà artistica ed intellettuale e creativa; arretrati invece nella civiltà pratica, politica e morale. Al rovescio di Roma, a cui viceversa ci si richiama, mentre costituisce un Op-
posto. Il potere politico per la sua stessa natura tende ad allargarsi rompendo la crosta dei privilegi e smantellando la fortezza delle posizioni acquisite; e per la sua stessa natura, giunto ad un allargamento che minaccia di annullarlo togliendogli autorità; tende di nuovo a restringersi, con una serie di sintesi ed antitesi. 172
Appendice. Parte I VII
Culmine e Sintesi. La guerra di Libia e il suffragio universale I limiti del suffragio, altrimenti germe di una continua rivoluzione. Oltre i limiti fissati dalla costituzione politica, che sarebbero facilmente travolti dalle onde del suffragio universale, vi sono quelli posti dalla tradizione ricchezza e potenza. Sotto la apparente uguaglianza dei diritti, vi è la ineguaglianza della capacità di farli valere: esempio dell’esercito, dove, mentre i principii sono di uguaglianza assoluta, diventano in realtà ufficiali solo i borghesi. Nella storia della politica si vede universalmente che gravi crisi occorrono ogni qual volta le classi basse — siano esse schiavi o iloti nell’antichità, o servi della gleba nel medioevo, o operai nei nostri tempi, tentano di fare pesare la propria forza entrando nello Stato. La divisione fra classi dirigenti e classi governate è più profonda che non si riconosca, anche nei tempi nostri. Essa ha forse, 0ggi, il suo tipo preciso nella vita militare, dove, mentre legalmente tutti sono obbligati al servizio senza privilegi, in realtà l'ufficialità si recluta quasi esclusivamente dalle classi dirigenti. E quando si attenuano i vincoli politici, aumentano quelli economici, e viceversa. Una società, per vivere, ha bisogno di una certa dose di tirannia, insieme a una certa dose di libertà.
Suffragio = Quell’esercito striminzito della borghesia, vedendo le nuove masse avversarie avanzarsi, cominciò a guardarsi alle spal-
le, cercando il riparo delle vecchie fortezze della polizia politica e della legge d’eccezione. Patto Gentiloni: così fu riguardo l’entrata dei clericali nella politica: salvo la situazione venuta dopo, con la creazione di un partito proprio, costretto ad opera demagogica. Invece che col Parlamento: con le piazze, sommovendo le fol-
le, eccitandone le passioni, assoldando i facinorosi. Cominciò con le giornate del Maggio ‘15; poi venne la politica dell’arengo dannunziano imitata nei particolari stessi: domande e risposte. La piazza è di chi la prende. Errore di credere che in essa si esprima il basso popolo; può essere un espediente anche conservatore. In quel caso la piazza fu mossa dal governo, aiutato dalla
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Il regime liberale e l'avvento del fascismo
polizia e dalla massoneria d’accordo con l’Ambasciata francese; mentre il popolo, che era contrario, la disertò rimanendo mogio. VII Crisi e fallimento. L'intervento nella guerra europea
IX La guerra
Il «particulare» del Guicciardini è appunto la tragedia di questo paese, la sua impotenza a creare delle unità spirituali — superiori a quelle materiali di classe — e che siano consistenti; che lo riuniscano e lo plasmino. La facilità con cui gli italiani prendono le dottrine sorte dovunque — socialismo, liberalismo, nazionalismo, e la
volubilità con cui le mutano, è l’effetto di questa deficienza; rappresenta da una parte una certa leggerezza, ma anche uno sforzo doloroso per darsi alla fine una fede!.
1 Nei Quaderni di appunti, Malagodi accenna ad un capitolo X (prima parte) dal titolo «Riassunto morale» non sviluppato. Non esiste tuttavia riferimento a tale capitolo nello schema generale.
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Parte II
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