Scritti d'arte

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RE

É CREVEL

SCRITTI D'ARTE medusa

Il panico e 1' estasi André Ba/anchine

Non è ancora maturo il tempo di René Crevel. Mezzo secolo di quasi totale silenzio, di "purgatorio letterario", poi una lenta, embrionale rinascita, come quelle che periodicamente si verificarono nel suo corpo e nella sua mente, ma ancora a uno stadio di gestazione non completo, che prepara al parto nell'eterno per un angelo affetto da una quantità di "malattie mortali". Verrà, questo tempo; lo dimostrano gli studi sempre più frequenti in anni recenti, la ripubblicazione delle sue opere e di un corposo gruppo di inediti. Questa definitiva rinascita, questo instaurarsi della gloria in un corpo postumo, in una effigie dai tratti - nonostante il mito ancora incerti, o forse proprio perché incerti in grado di evocare le più diverse facce di un prisma esistenziale carico di troppi riflessi. Per consentire a Crevel questo venire alla luce, nella luce inobliabile dell'eterno (era quello a cui, nella sua spasmodica ricerca di libertà e amore, aspirava senza forse esserne del tutto consapevole), è necessario liberare il suo mito dalla congerie di stereotipi che gli sono stati imposti. O meglio: che egli ha permesso, per una disperata volontà di coincidere con lo "slancio mortale", la seduzione della morte che cura ogni male, che gli venissero imposti. Omosessuale, surrealista, comunista, rivoluzionario, nemico assoluto di ogni potere storicamente costituito (militare, ecclesiastico, politico, morale, familiare ecc.) ... Probabilmente, Crevel non era nessuna di queste cose e tutte insieme le interpretava. La definizione che più si avvicina alla sua natura interiore è quella di "dandy rivoluzionario", ma anche in questo caso il romanticismo di fondo, la benevolenza estetizzante di questo modo di essere frequentatore di salotti, fascinoso ragazzo che incantava donne e uomini (un po' ricorda Géricault, il grande pittore dai riccioli

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biondi che ebbe, anch'egli, una vita breve come Crevel, in continua spola fra tragicità e delirio della bellezza, e che incarnava una condizione di limite, di confine, fra maschile e femminile, un' androginia che accoglie l'umano nelle sue differenze di genere, in una coerente bisessualità)-; ma anche fustigatore e accanito demolitore della morale borghese, delle convenienze sociali e religiose, del mito che i poteri chiamano "normalità". L'arte è per Crevel il territorio dove libertà, passione, sentimenti radicali dell'esistenza sono lasciati a briglia sciolta. Dali, l' antioscurantista, è il demiurgo che estrae dalla realtà onirica una verità nascosta. E Sigmund Freud il profeta di una nuova alchimia, dove la psiche è il vaso nel quale si produce il succo di una nuova realtà. Dobbiamo però considerare che dietro queste "scoperte" che Crevel andava facendo e che lo immersero fino ai capelli nella "rivelazione" surrealista (un rito propriamente battesimale, vissuto da neofita e poi amplificato in una lotta quotidiana contro i perbenismi di Qgni tipo e provenienza), non devono essere separate dalla coscienza che egli ebbe, ininterrotta, della condizione di dolore che l'esistenza impone a chi cerca la propria liberazione. La malattia, il sanatorio: la montagna incantata di Crevel è completamente avvolta in un colore-luce che sente privo di vita. Il colore della neve, dei sepolcri assolati, dell'impenetrabile barriera astratta che tutto contiene e tutto nasconde: il bianco. Se · noh fosse stato Rimbaud a scriverlo, non avrebbe qui per noi il senso che ha costatare che l'unica vocale presente in René Crevel è quella che il grande poeta nella sua poesia sulle vocali, associa al bianco: «A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu: voyelles»: «Candori di vapori e di tende, lance di ghiacciai superbi, re bianchi, brividi di umbelle». Nella sua brevissima "autobiografia" Crevel nomina quelli che considera "veri poeti", due anche se avrebbero verosimilmente dovuto essere in numero maggiore, conoscendo le sue preferenze, ma due fra i più importanti, Lautréamont e Rimbaud. Le associazioni che quest'ultimo lega alla vocale E definiscono a contrario il sentimento che Crevel prova per il bianco e le alture:

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non amava la montagna, quella che vedeva dalle finestre del sanatorio di Davos, perché era per lui simbolo di oppressione fisica e morale, di pesantezza; e l'amava ancora meno innevata, perché il candido manto nevoso produceva in lui quell'allucinazione bianca che porta l'uomo a sentirsi svuotato dall'interno, privato delle sue passioni; colore che evoca il rigore e la ragione, e quando Crevel è più attivo - dalla seconda metà degli anni Venti fino alla morte nel 1935 -, in Europa il bianco è il simbolo di uno stile internazionale, il razionalismo e il funzionalismo, che hanno nella meccanicità, nel dogma della ragione, la pressa che schiaccia l'Esprit, lo fa scoppiare e sanguinare. L' élan vita[ di Bergson a cui Crevel oppone l' élan morte!, rappresenta appunto per lo scrittore un sacrificio dell'umano, è una maschera della volontà di potenza (Bergson però lo considerava spinta necessaria all '"evoluzione creatrice", ciò che libera l'umano, ma per Crevel, all'epoca, la morte era l'ultimo stadio verso la liberazione, e il suicidio l'atto cosciente di chi vuole entrare in questo spazio che riporta il corpo e la mente allo stato iniziale, alla loro proiezione dell'eterno, che si ripete in modo ciclico secondo l'idea nietzscheana. «Il suicidio è un mezzo di selezione. Si suicidano quelli che non hanno la quasi universale viltà di lottare contro una certa sensazione d'animo così intensa che bisogna prenderla, fino a nuovo ordine, per una sensazione di verità», risponde nel 1925 all'inchiesta Il suicidio è una soluzione? condotta dalla rivista "La Révolution Surréaliste"). Il bianco di Crevel, quello di una morte che cammina nel dolore e nell'alienazione umana trovando nell'architettura razionale (delle bianche cattedrali di un tempo) il suo gelido saccello, è lo stesso che anni dopo riappare come una rovina nelle figure tormentate, scarnificate, ridotte all'osso, di Alberto Giacometti. Il gesso con cui esegue le sculture nel dopoguerra, è molto più di una materia duttile; è l'essenza stessa dell'umano esangue che continua a vivere pur con un'apparenza mortale. È l'effetto del "bacio del lebbroso", per citare uno scrittore che Crevel criticò aspramente per il suo cattolicesimo, François Mauriac. La contraddizione suprema, per Crevel. La vita è pericolosa (dolorosa) ma anche ebbra di passioni, ricerca dell'amore da dare e da ricevere. Oppure, a cui sottrarsi, consapevol-

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mente, negando in sé la vita, suicidandosi, liberandosi dal giogo imposto dalle assurde convenzioni che negano al corpo le sue intelligenze sensitive. Per sottrarsi così alle costrizioni dei poteri nefasti. Questa è l'essenza tragica della dimensione coercitiva che ogni regime (politico, religioso, morale, sociale) impone all'individuo. Soltanto la visione mistica di Crevel poteva essere capace di vedere uniti surrealismo e comunismo. Il massimo d'imponderabile verità che può emergere dal fondo dell'umano, dal suo inconscio e dalla sua estatica libertà di sogno, e la rivoluzione che pone il popolo al centro, come soggetto agente e capace di prendere in pugno il proprio destino rovesciando il tavolo della storia, secondo la prospettiva del materialismo dialettico. Benjamin nelle sue tesi sulla storia traduce l'alchimia psicoanalitica che Crevel assume come momento di riscatto da una millenaria schiavitù dei poteri costituiti, in escatologia. Ma "le sommeil hypnotique" che rappresenta per i surrealisti lo spazio-tempo dove tutti i colori si mischiano generando gli oggetti che parlano la lingua delle associazioni più o meno automatiche, per Crevel in realtà è il banco di prova - la prova generale - della morte. Giovane uomo disilluso, che fin da piccolo fu spinto a riflettere sul valore liberatorio del suicidio (la madre, cattolica e rigorista sul piano morale, lo portò a vedere il corpo del padre che penzolava a pochi centimetri da terra e la visione ebbe certamente un peso decisivo nell'imprigionare la psiche del giovanissimo René in quello schema di amore e odio per i gehitori, che è anche il cordone ombelicale mai più tagliato che lo rende psichicamente dipendente da loro); Crevel sembra amare la morte più di quanto non amasse la vita: «La nuit, le froid, la mort, la liberté ... » (La Mort difficile, Paris 1979, p. 227). Ma non è così. Le morti, i suicidi, le efferate uccisioni che ricorrono nei suoi romanzi sono il ripetuto tentativo di rivivere il momento dove tutto cambiò, dove la sua vita cadde dentro la rete del ricatto psicologico che lo legava indissolubilmente ai genitori. È questo il deus ex machina di tutte le "ostilità" di Crevel: la critica delle istituzioni conservative che si tramandano da millenni e vincolano l'individuo a convenzioni e precetti "innaturali". Il potere impietoso. Sempre che si possa parlare dell'uomo come qualcosa di naturale. Tutto ci differenzia dal

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resto dei viventi: a cominciare da quel sentimento di amore e odio che non è proprio tipico delle realtà naturali, vincolate invece a leggi interne dalle quali non evadono e nemmeno sentono la necessità di evadere. Colori e morte sono, come ha scritto Jean-François Gueraud, l'iride nella quale si può leggere la complessa ricerca della morte di Crevel. È, per esempio, "la blancheur et la mort" che Crevel incarna nella donna morta, Yolande, di uno dei suoi romanzi più virulenti, Etes-vous fous?, che di sé dice: «Mes joues, mes lèvres, tout mon visage, mon cou, mes bras, sont blancs, blancs, blancs: et plus que bianche toute ma personne, plus que bianche, incolore, exangue». In realtà Crevel ci sta dicendo, come Flaubert per Madame Bovary, «Yolande c'est moi». E del resto, forse illuminando anche di una luce diversa, meno mistica e più tragica, il "bianco su bianco" di Malevic, in Babylone Crevel ritorna a parlare di questo "colore esangue": «Tout est blanc sur blanc» (e così ne La Mort difficile ). A differenza di Rimbaud che ne esalta il candore, ovvero la bellezza algida e sublime, le tante E che si ripetono nel nome di Crevel sembrano ribadire ostinatamente la negazione di questo aspetto puro e assoluto che il bianco assume nei versi del poeta delle Illuminations. Del resto, Michel Pastoureau ha sottolineato come il bianco sia il "grado zero" del colore. Come scrisse Klaus Mann nella Svolta, in Crevel convivono il panico e l'estasi. E se Dali - erede di Sade e di Lautréamont - rappresenta per lui la liberazione dalle convenzioni, dai dogmi sottoscritti e imposti da una società borghese che in sé riassume tutti i mali ereditati dagli altri sistemi sociali che hanno regnato nella storia e dall'ipocrisia di chi gode a imprigionare i corpi nelle reti d'acciaio della ragione, Klee invece è l'immagine aurea dell'ippocampo, il Pegaso marino che rende meno opprimenti le balene, i mastodonti, che doID:inano la scena: «Un pittore ha aperto i pugni e tra le luci delle sue dita incredibili uccelli hanno preso il volo, e adesso popolano le tele docili, per la loro felicità, a questa magia». Crevel non è un romantico. È un ribelle, e questa inclinazione a uscire da tutto quanto stabilisce la norma, lo porta a comprendere in sé i contrari: angelo o boxeur, come anche è stato scritto,

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eterno ragazzo e spietato sacrificatore di luoghi comuni, «la vita che accetto è il più terribile argomento contro me stesso», rispose all'inchiesta della "Révolution Surréaliste", negando che la felicità potesse essere una comodità dentro cui sedersi, addormentarsi. La felicità ottunde i sensi, e come tale fa paura e impedisce di vivere la liberazione dai gioghi imposti per controllare l'uomo nelle sue passioni più profonde. È la battaglia condotta poi qualche decennio dopo da Michel Foucault contro la repressione sessuale, il potere medicale e clinico, la biopolitica, la società punitiva simboleggiata dal panopticon, il dominio psichiatrico. Ma la paura della felicità, che Crevel sublima vestendosi e atteggiandosi da dandy, frequentando i salotti mondani, assecondando il proprio fascino di angelo-bambino, che insinua e rende più ambigua la nozione di omosessualità, corrispondendo da un lato al cliché della madre castratrice, ma anche sfidando in virtù del proprio aspetto le stèsse categorie libertarie e quindi, all 'occorrenza, abbracciando l'idolo femminile come contrappunto necessario alla propria inclinazione sessuale; ebbene, è questo stare sul confine che lo definisce meglio come essere astrale, come ingenuo scombinatore di carte, di demone bambino che vuole portare scompiglio là dove si trova ad agire. Gioca, gioca con i ruoli, con le idee, con le parole, e persino con le proprie ~sie , patologiche. La fissazione a voler unire surrealismo e comunismo è tanto ostinata, quanto, sulla carta, ipotizzabile ma impraticabile (per l'ostacolo dell'etica comunista, un'etica tradizionale, non meno dogmatica di quella religiosa, che vuole liberare l'uomo ma senza concedergli tutti i benefici di quella libertà). L'ibrido che Crevel vuole creare mettendo d'accordo surrealismo e comunismo esisteva già nella letteratura francese. È l'abbazia di Thélème immaginata da Rabelais in Gargantua, la comunità-utopia dove non esistono orologi perché l'uomo, liberato dai vincoli, è anzitutto un uomo indifferente alle partizioni del tempo, perché ha in sé i propri ritmi e non ha bisogno che qualcuno gli dica quando mangiare, amare o dormire. È l'utopia di un mondo dove non e-

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sistono più governanti e governati, perché in ogni uomo è scritta una volontà divina che agisce rendendo inutile la ragione umana. Se sia un mondo felice è tutto da vedere, certo le immaginazioni, il sonno ipnotico che anche Crevel incentiva (ma considerando ciò che emerge come una verità ben più profonda delle associazioni involontarie della scrittura automatica cara a Breton e al suo movimento), aprono scenari alternativi, non sempre immediatamente chiari e perseguibili. E proprio per questo ostacolo alla fusione con il comunismo che, all'epoca, era pensato come il frutto di una scienza storica che aveva portato alla luce nel materialismo dialettico l'impostura di sistemi di governo che miravano a conservare il potere di pochi sui molti sfruttati e maltrattati. Crevel non fu un ideologo e forse neppure un teorico. Fu e resta un poeta e uno scrittore, nel quale la questione della "malattia" gioca un ruolo decisivo anche nella sua polemica "antioscurantista". Deluso dal fallito incontro fra surrealisti e comunisti; sentendo sempre più insopportabile il peso delle cure per la tubercolosi che lo consumava, «non trovando soluzioni nella vita» si diede la morte aprendo il tubo del gas di casa propria. Se il rivoluzionario è colui che è capace di rinunciare a tutti i suoi privilegi e beni per testimoniare e realizzare la sua visione di giustizia, Crevel ha rinunciato al suo bene maggiore forse perché i suoi compagni di viaggio capissero che la rivoluzione non ammette vie di mezzo. E il secolo delle rivoluzioni, a ben vedere, ha prodotto frutti piuttosto irranciditi. L'eredità di Crevel riguardo il pensiero e la funzione dell'arte è riassunta in poche righe di una conferenza che tenne poco tempo prima di morire, dal tono quasi lapalissiano, ma oggi, d'altra parte, poco rispettato nei suoi fondamenti antropologici e spirituali: «Da Griinewald a Dali, dal Cristo putrefatto all'asino putrefatto, nell'eccesso di certe fermentazioni, in fondo ai più venefici splendori, la pittura ha saputo trovare ed esprimere delle verità nuove che non erano soltanto di ordine pittorico». Una costatazione che dovrebbe servire anche alla critica d'arte per riscoprire il giudizio di valore in una cultura fondata su principi economicistici che negano quanto di più sacro e umano dovrebbe esserci nell'opera d'arte.

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Nota bibliografica - Da/i ou l 'Anti-obscurantisme, José Corti, Paris 1931. -Nouvelles Vues sur Da/i et l'obscurantisme (sci-irto a Davos, in sanatorio, nel 1933 è stato pubblicato per la prima volta postumo in L'Esprit contre la Raison, Tchou, Parigi 1969. - Paul Klee, Gallimard, Parigi 1930. - L'art dans l 'ombre de la mais on brune, è uscito sulla rivista "Commune" nel maggio 1935. - Discours aux peintres, è uscito sulla rivista "Commune" nel luglio 1935.

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«Tutto è, e non è», constata Eraclito. «Ora - nota Engels -, questo modo di vedere, benché esprima il carattere generale del quadro che offre alla nostra osservazione l'insieme dei fenomeni, però lascia sfuggire i dettagli, non calandosi nel loro studio specifico. Per conoscere questi dettagli saremo obbligati a scinderli dal loro legame naturale o storico, analizzandoli individualmente, uno dopo l'altro, nelle loro qualità, cause ed effetti particolari». Questo «obbligo di separare», l'opportunismo-individualismo ha fatto in fretta a divinizzarlo. Non è per caso che, lungo venti secoli, venne predicata la rassegnazione o, almeno, consigliata da chi si considerava uno spirito forte, la sottomissione alla realtà. Doppio errore, da una parte premeditato, odioso; e pietoso dall'altra, sia che il signore-che-si-gira-i-pollici per lusingare il non-signoreche-sgobba, ripeta la canzoncina del poeta romantico «O lavoro, legge santa del mondo»; sia che il non-signoreche-sgobba ascoltasse, senza strozzarlo, le frottole del signore-che-si-gira-i-pollici. Di conseguenza, il feticismo dello strumento di lavoro, il procedimento analitico dell'intellettuale e l'attrezzo dell'operaio diventati la fine dei fini, il fine del fine. Cerebralismo e meccanismo pertanto servono da testicoli (di cartapesta, s'intende) al modernismo ufficiale, come il pascolo e l'agricoltura furono le mammelle della Francia di Sully. * • La Francia di Maximilien de Béthune, duca di Sully (1559-1641), compagno d'anni e poi ascoltato consigliere di Enrico IV [ndt].

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Lo stesso scettico, colui che, secondo la tradizione mediterranea, incarna la libera intelligenza, non siede forse in una comoda poltrona a leggere Proust, all'ombra di un quadro che rappresenta l'idillio tra un cuscinetto a sfere e un pistone? Certamente, la psicologia del pelo del culo tagliato in quattro e il partito preso estetico di un quadro di F emand Léger sono i campioni della cultura borghese di oggi, così poco sovversivi nell'essenza come lo furono, a suo tempo, i racconti di adultere raffinate o le cesellature di un qualsiasi bronzo di Barbedienne *, come quel famoso "Cantante fiorentino", di grande effetto, al centro di un caminetto in stile "plaine Monceau". Di tutti questi oscurantismi soddisfatti decidono, non solo la volgarità degli appetiti, ma anche l'orgogliosa stupidità del sapiente che si permette di credere (anche fuori da qualsiasi quèstione d'interesse materiale, onorifico) che la regola speciale per la sua piccola fatica possa diventare la panacea universale. Chi riesce a staccare, per studiarlo, un elemento dall'insieme originale, si troverà presto a considerare questo stesso elemento dotato di vita e così gli accorderà la priorità e persino un potere assoluto sull'insieme da ·cui è stato tratto. Ciò che viene offerto, come idea generale, molto spesso è dunque soltanto la dittatura di un dettaglio, secondo la buona volontà di ciascuno e al momento giusto. Non esiste tecnico che non abbia visto, all'acme del suo minuscolo sapere, il Capo, e nella sua persona il Faro dell'umanità. * Celebre fonderia nata nel 1834 e specializzata nella realizzazione di multipli (quali il "Cantante fiorentino" di Paul Dubois cui allude Crevel), che ha aperto la strada a un tipo di arte commerciale che ha condizionato le pratiche di mercato per oltre un secolo. L'espressione "bronze de Barbedienne" ha dunque la connotazione spregiativa di un'arte fatta solo per ragioni speculative [ndt].

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Ogni facoltà che l'uomo oppone l'una all'altra, così fiero da notare fra di loro delle differenze essenziali, non deve far credere che la mania di analisi che viene esercitata contro di esse, prima di affrontare il mondo esterno, ne abbia fatto dei corpi semplici, quanto meno con virtù di purezza, chiarezza, trasparenza. Ma come la regina d'Inghilterra inghiottì il suo parapioggia per avere la certezza di apparire agli occhi dei suoi sudditi sempre incredibilmente diritta, e di conseguenza maestosa, così ogni parte della totalità mentale fa corpo col processo, col metodo che la tradizione dichiara suo attributo. Ecco come, senza l'ombra di questi pretesti, simboli o almeno, a rigore, scuse di grazia, rapidità nella corsa, ricca virilità di cui ebbero, nell'era pagana, l'educazione elementare di mettersi in gioco, sirene, centauri e fauni, il realismo stravagante degli ultimi secoli ci ha portato, e ancora ci porta, una mitologia di mostri ibridi. I più stimati fra loro, i pesce-sega dell'intelligenza, hanno mostrato tutti i loro denti e spezzato tutto quello che hanno trovato sul loro cammino. Organizzazione del lavoro, sistema Taylor, come se il passato fosse diventato sinonimo di perfezione, l' esperienza è continuamente invocata, come centro mistico e dunque lusinghiero, col concetto di vocazione secondo il quale ogni individuo nasce dotato di un determinato modo di esprimersi e di conseguenza votato a questo modo d'espressione, ovvero, alla fine, limitato, senza diritto di oltrepassarle, a quelle ricerche puramente formali e questo, nel caso in cui egli fosse un estremista e volesse apportare qualche novità al piccolo spazio destinato alla sua autocultura. Così certe superstizioni familiari destinano i bambini al blu e al bianco. Questi bambini che hanno diritto, in

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materia di colori, solo a quelli della Vergine Maria possono, senza eccedere nella disinvoltura metaforica, rappresentare tutto ciò che di restrittivo è compreso nell'idea di vocazione dal momento che questa è, infatti, non la possibilità di raggiungere qualche nuovo punto di vista attraverso un semplice cammino, ma la proibizione di guardare oltre quel cammino che, peraltro, finisce quasi sempre in un vicolo cieco. Teoria di morte, ma di una morte ipocritamente truccata con i colori della vita e di cui vantiamo la saggezza, come se un cadavere potesse avere qualche merito a non muoversi più. Dali è uno dei rari esempi probanti, la cui attività surrealista, al servizio dell'imminente crisi della coscienza, al servizio della rivoluzione, si oppone alla mummificazione di quelle mummie che si sono così mummificate solo per aver, secondo un accordo quasi unanime, alternando i nomi dell'obiettività e dell'introspezione, scelto e fissato un punto esterno del mondo o di quello che i piccoli analitici chiamano, senza modestia e senza humour, il loro mondo interiore, fino a quando non sopraggiunga un bel coma. Senza dubbio Dali ha ricevuto dei doni espressivi pro'àigiosi, ma questi doni, nel loro insieme, non costituiscono affatto quel mosaico di vocazioni che la psicologia tradizionale amerebbe certo segnalare, per precisare che il tempo dei Pico della Mirandola non è così definitivamente, irrevocabilmente trascorso come si potrebbe credere. Ora, senza andare a cercare degli esempi nel Rinascimento italiano o altrove, se Dali è contemporaneamente pittore, scultore, poeta, filosofo e oratore dall'eloquenza incredibilmente diretta, se ha collaborato con Luis Bufiuel al Cane Andaluso e all'Età dell'oro, i due primi e unici film sovversivi, è che la pittura (e accidenti ai critici

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d'arte che condannano, perché letteraria, quella che non accetta di essere bestialmente golosa), l'arte di scolpire, poetare, sceneggiare e quella di farsi capire dagli ideologi esperti o nelle riunioni pubbliche, non sono dei fini ma dei mezzi. Verità lapalissiana, senza dubbio, ma da ripetere continuamente perché, per l'ortodossia del suo canto del cigno, la cultura borghese moltiplica gare parlamentari, aneddoti romanzati, considerazioni plastiche, problemi di grammatica e di etimologia e, in nome della chiarezza francese, fra guazzabugli di sedicenti talenti attorcigliati su se stessi, lascia cadere la manna delle sue Legioni d'onore. E ogni polemista può piccarsi, beninteso, d'imparzialità letteraria o artistica. Facendo eco, gli intellettuali rispondono con un liberalismo che considerano la migliore astuzia per non prendere posizione, come se non schierarsi non significasse affatto tollerare l'ordine attuale delle cose, e dunque prendere partito per quest'ordine. La psicologia ha per principio e tradizione di considerare ogni facoltà dotata di vita propria. Stravaganza analitica e subito pronta a passare dall'astratto al concreto e vedere, per esempio, nei sensi non più un'illuminazione a luci variabili e concordanti, ma un intarsio di entità nel quale un punto più luminoso renderebbe trascurabili gli altri, così come gli occhi di un pittore messi su un piatto resterebbero sempre gli occhi di questo pittore, e ugualmente l'orecchio di un musicista, con padiglione e retrobottega, che venisse staccato dalla testa e deposto in uno 1crigno ovattato. Si tratta di percepire o di assimilare, giudicare quanto 6 stato percepito, la specializzazione ha amputato il suo uomo. Chi si trova senza appigli, senza possibilità di agire su un mondo, non potrà trovare questo mondo intelligibile. Da qui l'oscurantismo; allorché tutti domandano,

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speranzosi, alle briciole di sé volontariamente sparpagliate, d'andare a cercargli brandelli di sensazioni, lustrini d'idee, in vista di una sintesi che essi sognano a immagine del classico formicaio. Di conseguenza, può sembrare a un certo punto che non abbia avuto come altra ipotesi provvisoria e non dimostrata (e chi avrebbe avuto motivi per un migliore esercizio, lungo un tempo determinato, di certi mezzi d'investigazione) la distinzione ritenuta per millenni fondamentale tra il mondo materiale e il mondo spirituale. Ciò non significa che gli idolatri materialisti abbiano la fortuna di trovare, nocciolo della carne, quell'anima che un chirurgo si vantava di non aver incontrato sotto il suo bisturi: né che questa o quella superstizione rischi di far ricrescere il braccio--di un monco a Lourdes. In attesa, bisogna continuare a ripetere che il difetto di conoscenza è direttamente proporzionale al difetto di dialettica. Ed è per questo che, dopo aver equamente constatato: «La decomposizione della natura nelle sue parti integranti, la separazione dei diversi fenomeni e oggetti naturali in categorie distinte, lo studio intimo dei corpi organici, nella varietà delle loro forme anatomiche, tali erano le condizioni essenziali dei progressi giganteschi che, negli ultimi quattro secoli, ci hanno portato tanto avanti nella conoscenza della natura», Engels non meno equamente osserverà: «Ma questo metodo ci ha lasciato in eredità.l'abitudine di studiare gli oggetti e i fenomeni naturali nel loro isolamento, al di fuori delle relazioni reciproche che li collegano in. un tutto omogeneo, di studiare gli oggetti, non nel loro movimento ma nel loro riposo, non come essenzialmente va- · riabili ma come essenzialmente costanti, non nella loro vita ma nella loro morte. E quando accadde, grazie a Bacon e a Locke, che questa abitudine di lavoro passò dalle scienzè ·

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naturali alla filosofia, essa produsse la grettezza specifica degli ultimi secoli, il metodo metafisico». Grettezza specifica anche di questo secolo, con tutto quello che ne consegue di miserie spirituali e materiali. Beninteso, tutti quelli che guadagnano poco, quelli dell'intelligenza e altro, dopo tante precauzioni e parsimonie, non accettano a cuor leggero di vedersi rovinati. Dunque a noi il concerto delle geremiadi. I loro lamenti, i loro «ve l'avevamo detto» sono risibili come la disperazione di quell'avaro che, venuta l'estate, nasconde il suo gruzzolo in fondo a un caminetto, poi parte per un viaggio, ma la sera d'autunno quando rientra a casa trova un fuoco acceso nel camino che gli serviva da cassaforte. Contrapposta all'abominevole favola de La cicala e la fòrmica, questa storia dovrebbe essere insegnata ai bambini con questo assioma di Paul Valéry (quello precedente al periodo accademico) per morale: «La speranza non è che la sfiducia dell'essere nelle previsioni del suo spirito». In questo modo, l'ottimismo è tale solo di nome e ben più fallace che bello, all'ombra del quale sboccia il fiore delle aiuole reazionarie: l'opportunismo, il cui fiore si lascia portare solo all'occhiello rappresentato dal meno allegro dei simboli aritmetici, intendo il segno meno, lo stesso delle sottrazioni. La bramosia cristiana della salvezza e l'accanimento r che, fin dentro i suoi più laici sforzi, ogni coscienza met~ te per cercare la pace, come conclusione ai calcoli più ' 1trampalati, spingono i creduloni ad amputarsi pezzo per ◄ pezzo. E mentre si rallegrano nel vedere le membra di cui '\la loro lebbra morale cosparge la terra, già le sognano .raccolte da creature celesti che le metteranno da parte, . come ex voto, per la gloria di Dio. Accolti sotto la stessa insegna, questi atei consentono a sacrifici del genere in

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virtù di non si sa quale pretesa mistica patriottica e umanitaria che rasenta il fanatismo, ma, in verità, per pura e semplice sottomissione alle ideologie padrone del momento e del luogo. In questa cloaca (morale, intellettuale, fisica) di volontà mutilatrici in estasi per il dovere compiuto, non si sa più dove mettere i piedi, perché è il marciume universale di tutto ciò che le piccole previdenze hanno accumulato, in vista delle soddisfazioni dei giorni passati e di quelli che seguiranno. E certamente il surrealismo non avrebbe potuto abitare le zone che gli erano fino allora precluse, se non fosse partito da questo postulato: «La salvezza non è da nessuna parte». * Dali precisa: «Idealisti senza partecipare ad alcun ideale». Questa fornÌula condanna le soddisfazioni idealiste o materialiste che mettono a tacere ogni pensiero. Il materialismo dialettico spazza via questo cloroformio, l'unico in grado di dare alle nozioni il movimento di cui l'analisi metafisica li aveva defraudate. Ed ecco allora che immagini e concetti s'intrecciano, si trasformarn?, cadono le pareti stagne. Da qui parte la rivoluzione della conoscenza, oggi preludio, domani (in virtù della legge della reciprocità universale aggirata da cavilli causali e mascherata dall'ombra di dettagli accumulati e diventati ostacoli) riflesso rispecchiato della Rivoluzione vivente, della Rivoluzione vissuta. * Ma il surrealismo, dicendo che «la salvezza non è da nessuna parte>►, intendeva che anche la dannazione non era da nessuna parte. Così, dialettica fin dalla sua prima fase (dialettica di una dialettica negativa, come non poteva esser diversamente, al seguito del dadaismo), il surrealismo, per quanto abbiano voluto pretendere gli imbroglioni della critica letteraria, si è sempre opposto al Romanticismo, così bestialmente unilaterale nel suo sfruttamento letterario del genere maledetto, dell'antitesi per bravata, antitesi a vuoto, perché senza tesi, dunque senza la minima chance di sintesi [nda].

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Così vengono impediti controsensi e frodi, nei quali eccellono i signori benpensanti dell'arte, della letteratura, della diplomazia che fingono d'interessarsi a opere sovversive solo per svuotarle del loro midollo, affiancandovi, per esempio (come è successo a Rimbaud da parte di Claudel), un tutore di legno mistico, compiacente ai balzi d'umore del conformismo glossatore. Allora l'ideale non potrà più (come succedeva a favore e come pretesto dell'individualismo e delle chimere compensative di cui ama sognare appunto questo tndividualismo) essere preso per una succursale extraterrestre cli quelli che spacciano per realtà il realismo in forma bigottamente aggressiva, intendo quello dei tomisti e neotomisti, e tutti gli altri realismi, dalla passività scettica alle fanfaronate conformiste. Il surrealismo gratifica con una pioggerella di carboni ardenti il bazar della Realtà che ha gli stessi titoli per provocare l'incendio della Carità, sua gemella in ipocrisia, dove, parecchi lustri addietro, trovò la morte il fior fiore dell'aristocrazia. Il bazar della Realtà, come il bazar della Carità, avrà avuto i suoi profittatori, le sue vittime e anche i suoi eroi. Figli e figlie sottomessi agli eventi, sacerdoti e sacerdotesse di un culto che, fuori da questo recinto, si sentirebbero perduti, meno che morti, e vorrebbero farci credere che da queste rovine rinascerà un tempio della Fenice. Si bn1ciano le dita, si arrostiscono la pianta dei piedi e la. 1ciano bruciare quello che hanno di più dolce in fatto di . pelle morbida, poco importa. Scontano il loro purgatorio : in terra, con la speranza di salvare l'anima e la classica, limitata, impermeabile, pietrificata nozione di persona lenza la quale non saprebbero vivere. A questo Breton ci aveva invitati nell'Introduzione al discorso sulla pochezza della Realtà. Dali invece scrive,

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fin dalla prima pagina de La donna visibile: «Credo che , sia vicino il momento in cui, grazie a un processo di carattere paranoico e attivo del pensiero, sarà possibile (contemporaneamente all'automatismo e altri stati passivi) sistematizzare la confusione e contribuire al discredito totale del mondo della realtà». Allora, invece di un'accettazione unilaterale finalmente la libertà sarà restituita allo spirito. L'immaginazione , avrà recuperato i suoi diritti. La volontà di scoperta spezzerà i legami con cui l'apriorismo didattico l'aveva ostacolata da secoli.L'uomo sincero, questo automa che discuteva incessantemente della sua umanità, anche se in · fatto di umanità non valesse né meglio né peggio del suo confratello l'uomo normale, si sposterà, si disperderà in tutti gli angoli dell'universo, lui, i suoi scrupoli sofistici, i suoi pruriti confessionali. Esauriti i piagnistei dell'inquietudine, in questo stagno la coscienza non saprà più dove andare a pescare le rane. Non agiterà più i suoi straccetti e l'inconscio, la sua parte maschile, non s'infangherà più d'angoscia per commuovere o divertire i viandanti. Si saprà infine che lo spettacolo è non nei limiti ma molto oltre gli scenari della realtà. Per questa comare, che faccia, almeno una volta, tacere la sua voracità e non pensi di chiedere la sua fetta di torta, «i nuovi simulacri che il pensiero paranoico può far apparire improvvisamente, non solo avranno origine nell'inconscio, ma anche la forza del potere paranoico sarà messo al servizio di quest'ultimo». Sarebbe da citare per intero L'Asino putrefatto, questo studio che apre il libro di Dali. Il riconoscimento della paranoia e~ di seguito, «un'attività a tendenza morale che potrebbe essere provocata dalla volontà violentemente paranoica di sistematizzare la confusione», aprono nella storia dell'uomo e del suo pensie-

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ro

una strada più larga a quello sconvolgimento di cui Prcud ha dato il primo segnale e al quale non ha smesso di lavorare il surrealismo attraverso la metamorfosi sovversiva del sogno, che la mollezza dei poeti anglosassoni aveva lasciato andare in giro in cravatta nebulosa. Il realismo è libero di prendersi ancora un po' di riposo, ma la sua meschinità non impedirà che oggi la stravaganza venga riconosciuta come una conseguenza sua, e non di quegli stati che la vecchia psichiatria, insieme paurosa e imbecille, credeva di screditare per sempre adattandoli alla piccola felicità dei dementi. Ora, già, osserva Dali, «tutti i medici sono d'accordo nel riconoscere la velocità dell'inimmaginabile sottigliezza frequente nel paranoico, il quale, avvalendosi di motivi e fatti di una finezza tale che sfuggono alle persone normali, giunge a conclusioni spesso impossibili da contraddire e respingere, e che, in ogni caso, sfidano quasi sempre l'analisi psicologica». D'altra parte, ne L'Immacolata Concezione, Breton ed Eluard hanno dimostrato a quale magnificenza poetica poteva giungere la simulazione di deliri così fortemente caratterizzati. Tutta la pittura di Dali, e non solamente la sua pittura ma l'insieme delle sue opere, illustrano questo fatto nuovo. Siamo agli antipodi degli sputi formali nei quali amano annegare i signori delle Belle Arti. Procedimenti accademici o anti-accademici, era tutt'uno. Che il colore, la pasta, la scrittura, la linea e tutti quanti [in italiano nel testo, ndt] non escano più dalle soffitte dell' estetica, dalla confusione delle maniere. Dali, così padrone dei suoi mezzi da non aver mai sfiorato, neppure con un'ombra, gli idolatri del mestiere e della materia, Dali, al contrario di tanti sedicenti creatori che parlano delle loro opere solo per difenderle, e senza

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successo, a colpi di argomenti più o meno speciosi, Dali può riprodurre davanti il quadro Dormiente, cavallo, leone, ecc. invisibili e sul verso scrivere (il testo non è né esplicativo né descrittivo, ma tessuto con lo stesso filo della tela, davanti, fotografata): «È tramite un processo chiaramente paranoico che è stato possibile ottenere un'immagine doppia: ossia la rappresentazione di un oggetto che senza la minima modifica figurativa o anatomica, sia, al tempo stesso, anche la rappresentazione di un altro oggetto del tutto differente, priva anch'essa di qualsiasi genere di deformazione o anormalità che possa denotare qualche arrangiamento. «Ottenere questa immagine doppia è stato possibile grazie alla violenza del pensiero paranoico che si è servito, con astuzia e abilità, della quantità di pretesti, coincidenze ecc., facendo in modo di far apparire la seconda immagine che, in questo caso, prende il posto dell'idea ossessiva. «L'immagine doppia (il cui esempio può essere quello dell'immagine del cavallo che è allo stesso tempo l'immagine di una donna) può prolungarsi, continuando il processo paranoico, poiché è sufficiente l'esistenza di un'altra idea ossessiva perché una terza immagine appaia (l'immagine di un leone, per esempio) e così via, fino al concorrere di un numero d'immagini vincolato unic8;mente dal grado di capacità paranoica del pensiero». Capacità che potrebbe sbalordire i signori scettici il giorno non lontano in cui gli spiriti non accetteranno più che i loro desideri siano respinti sotto la minaccia delle convenienze, evirati antenna su antenna in nome della ragione. Allora le immagini, in tutta libertà, giocheranno e non alla campana, perché il verbo giocare sarà diventato altra

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cosa dal suo sinonimo-parente-povero del verbo godere.* Restituiti al movimento gli oggetti, alla dialettica le nozioni, la proprietà, l'individualismo (due maschere per il pomo della scala che funge da volto dell'ultimo dio oscurantismo) non serviranno più a tenerli lontano. E come disegni animati nelle vallate cervicali, nella terra arata, in mezzo alle strade, all'ombra degli uccelli, sotto i piedi di un cavallo. Prosciugate le paludi del relativismo, il tempo e lo spazio non stagneranno più, qui ingorgo di ricchezze putrefatte, là deperimento per mancanza dello stretto necessario. Il diritto del pensiero alla paranoia, checché ne possano dire i Mussolini dell'igiene mentale, è lo stesso che ha un sesso all'erezione, alla eiaculazione. Dunque, più cappucci sugli oggetti e meno preservativi sulle idee. Si eccitano e rompono i preservativi, corazza contro la voluttà, tele di ragno contro i rischi. Nel momento del sonno, scriveva Breton, «le parole, le parole infine fanno l'amore». Oggi, se si afferma che gli oggetti si eccitano, non è un capriccio metaforico. E non si eccitano nel vuoto. Si accarezzano, si succhiano, s'infilano, fanno l'amore, suvvia!, questi oggetti surrealisti inventati da Dali e di cui valutò le possibilità, le risorse, le suggestioni erotiche; come la palla di legno che Giacometti segnò con una fessura femminile, perché potesse scivolare sul nerbo di un lungo frutto della stessa materia ma di forma virile, l'uno e l'altro coi nervi a pezzi~ frenetici l'uno dell'altro, e facendo partecipare a questo modo di presentarsi chi li contemplava; cosa che non sarebbe sembrata possibile, a priori, per due pezzi di legno molto lisci, ma lo diventava innegabilmente per merito di una comicina che tratteneva il pomello nel suo slan* Gioco di parole conjouer ejouir [ndt].

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cio e non gli permetteva di cadere nel nirvana dell'appagamento. Dali ha creato degli oggetti surrealisti, anche altri l'hanno fatto, ma non è per caso (almeno come l'intende la passività abituale) che la più commovente fosse l' opera della donna che Dali ama. All'estremità di un filo di ferro molto flessibile, Gala aveva messo una spugna metallica la cui punta era rappresentata da un ossicino tinto di carminio. Lo stelo si abbassava e il capezzolo veniva a carezzare la superficie immacolata della farina contenuta in una ciotola. Un impulso dato allo stelo e il seno, da lei sollevato, si sporgeva per leggere la sua confessione. Ma la diffidenza, la mancanza di sensibilità, conseguenze dell' eresia realista, mettevano le bende sugli occhi. In questo modo, il borghese 1900, incoraggiato dal1' albero di tasso che il suo giardino di periferia faceva sembrare un elassico tappeto erboso, condannava inanticipo, col nome di utopie, il pensiero che si risvegliava, le audacie contemporanee del secolo e, molto violentemente, soprattutto lo stile moderno perché, diceva, nato dal fumo di una sigaretta. Per lui era una follia voler imporre alla pietra, al legno le contorsioni delle volute fatte per perdersi nel cielo aperto. Questo accadeva ai tempi più belli della cultura (se così si può dire) ufficiale e salottiera, del vago e delle costrizioni, dei ricami inglesi e dei corsetti, della musica prima di tutto quando, deliberatamente, si ignorava qualsiasi ricerca e questo in nome dell'arte che accettava di essere solo una golosità, pretesto di distrazione, opportunismo. Allora Lautréamont era ignorato, il piccolo Larousse fingeva di vedere in Huysmans solo uno scrittore preciso e raffinato. I fumatori non pensavano certo che il fumo delle loro sigarette fosse la prima parvenza, l'ectoplasma originale di una macchina del pensiero, il pensiero di che? Dali? Pensare co-

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me? Dali, questa macchina che volete costruire, precisa e

sconvolgente, sorella dell'oggetto di Gala, lo stesso oggetto per pensare amorosamente, perché la spugna metallica e l'ossicino color carminio che rappresentano il seno, devono solo muoversi e commuoversi per togliere il velo dei simulacri. La realtà accettata, nella sua piatta quotidianità, per la quasi unanimità degli intellettuali di tutti i tempi e di tutti i paesi - sia che fossero scettici e pronti a sfruttare al meglio quello che veniva loro offerto, sia che fossero religiosi, ossia sottomessi a degli obblighi del presente nella speranza del-futuro -, questa realtà avrà il suo bel daffare, il suo mito obsoleto non può oggi prevalere. Dali osserva: «L'accettazione dei simulacri di cui la realtà si sforza penosamente di imitare le apparenze ci porta al desiderio delle cose ideali. «Certo nessun simulacro è stato creato per gli insiemi ai quali calzi più esattamente la parola ideale del grande simulacro che costituisce la sconvolgente architettura ornamentale dello stile moderno. Nessuno sforzo collettivo è riuscito a creare un mondo di sogno così puro e così inquietante come quelle costruzioni in stile moderno che, in margine all'architettura, costituiscono di per sé vere realizzazioni di desideri solidificati dove l'automatismo più violento e crudele tradisce dolorosamente l'odio della realtà e la necessità di rifugiarsi in un mondo ideale, alla maniera di quello che succede in una nevrosi infantile. «Ecco quello che possiamo ancora amare, il blocco imponente di queste costruzioni deliranti e fredde sparse per tutta l'Europa, disprezzate e trascurate dalle antologie e dagli studi. Ecco, ciò che è sufficiente opporre ai nostri porci estetici contemporanei difensori dell'esecrabile "ar-

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te moderna" e anche ciò che è sufficiente opporre a tutta la storia dell'arte». Dali mi ha mostrato a Barcellona queste «realizzazioni di desideri solidificati» che avrebbero spinto l 'Huysmans di À rebours sulla strada dell'artificio e della sovversione, lontano dal miserabile surrogato religioso, dove lasciò sprofondare il suo disgusto. In mezzo all'uniforme repressione dei quartieri ricchi e docili alle regole di un urbanesimo senza immaginazione, rappresentavano le lave fmalmente liberate del vulcano della collera. Nell'infanzia di Dali avevano significato non la rivolta, ma la rivoluzione permanente di cui segnano uno dei momenti più precisi ed eloquenti. Così furono la rue Vivienne e la Senna per Lautréamont, «la molto bella e molto inutile porta Saint-Denis» per André Breton, il passaggio dell'Opéra per Aragon, e per De Chirico, ai suoi tempi migliori, le piazze e le vie di un'Italia che il fascismo non aveva ancora insozzato. E di queste «realizzazioni dei desideri solidificati», con le loro ombre che occultano le statue degli eroi nazionali e anche quelle delle entità padrone di nome e di fatto, e delle balline porose e paurose che si attaccavano sempre alle tue gonne, tu te ne ricordi, grande, pietrificata ragion di Stato. Del resto, è proprio qui, più che altrove, che l'opera di Dali presta il fianco all'equivoco, perché il quadro che può essere considerato la sintesi fino a oggi s'intitola L'Uomo invisibile. A questo Uomo invisibile nato dal paesaggio, corollario delle architetture di simulacri, si oppone naturalmente, senza il minimo procedimento letterario né ricerca di antitesi romantica, la «Donna visibile, nella cui immagine - scrive Dali - tutto quello che penso vive e si rinnova perché tutto ci porta a pensare che l'amore non sia che u-

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na specie d'incarnazione dei sogni, avvalorando l'espressione corrente che vuole che la donna amata sia un sogno che si è fatto carne». E poiché da secoli non si finisce di parlare, di scrivere dell'amore - il fantasma castrato di Abelardo, grazie al pretesto derisorio di un piccolo talento epistolare, simbo1izza ancora la passione-, Dali fa ancora meglio quando precisa: «Analiticamente, avrei voluto trovare Stendhal imparziale davanti ai provvedimenti del Vaticano come pure in presenza delle famose e non meno misurabili "cristallizzazioni". Per quanto mi riguarda, mi piace ripetere, ma questa volta davanti al grande cristallo di rocca dell' amore, quello che pronunciò davanti a San Pietro a Roma: ecco dei dettagli esatti». E dà per lui dei dettagli esatti. Pertanto, poiché Dali non permetterà mai che le brume sentimentali oscurino il suo modo di vedere le cose né che si trasformi in nebbia il suo contrario, questo «grande cristallo di rocca dell'amore», questo blocco luminoso fatto di dettagli esatti che posa il suo sguardo sulle favole che l'umanità credeva definitive, verrà, perciò, infranto il rivestimento tradizionale che da tempo immemorabile li aveva imprigionati. Come Freud risuscitò Edipo, egli ha risuscitato Guglielmo Tell. Questo personaggio silvestre che gioca con l'arco e una mela sulla testa del figlio, e il cui sentimento paterno non si rivolta più di quanto fece Abramo sacrificando Isacco o Dio padre il figlio Gesù Cristo, questo Guglielmo Tel1, risuscitato nei quadri e nei poemi, incoronato di rose, un petto di donna ballonzolante su un torso contorto e la verga fuori dai pantaloni più nodosa di quei rami, lungo i quali sale, un pane fra i denti, perché ben merita di dare il suo nome a qualche complesso, avrà il più bel monumento di simulacri al centro della città dialettica che le

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dita, la penna, i pennelli, la parola, i sogni, l'amore di Dali trasformano in ogni istante. 1931

Nuove osservazioni su Dali e l'oscurantismo

Si sa che, per la maggior parte dei signori del pennello e della penna, dipingere, descrivere è niente più che lanciare una rete sulle linee mobili che ci si propone di fissare. Così, per colpa loro, si trova dominato, paralizzato, condannato a morire sul posto tutto ciò èhe certo sarebbe stato meglio lasciar fuggire da vivo. Ma, in verità, poiché per lo spirito non c'è altra chance che la sorpresa, gli intellettuali timorati, sempre pronti ad appellarsi allo spirito, in suo nome si oppongono a qualsiasi sorpresa. Incapaci di riconoscersi in questo, incapaci di conoscere, dal profondo del loro accecamento, dal profondo dei loro pregiudizi, essi non sanno, non possono, non vogliono che giocare d'astuzia. Ogni giorno rivolge loro domande più angosciate, e più angoscianti, agli angoli delle strade, agli angoli delle cose, agli angoli degli esseri. Non accettano di essere disturbati. E tuttavia, quale meraviglia antitetica, quale meraviglia di sintesi nuove e sconvolgenti, in queste immagini disturbanti, così numerose e frequenti che Dali, per riunirle tutte in una collezione, ha dovuto soltanto attingere da un qualsiasi giornale o rivista. Queste fotografie e illustrazioni che, lì per lì, nei loro soggetti non sembravano inàicare perspicacia poetica, eccole costrette, volenti o nolenti, a confessarci il loro contenuto latente che il contenuto evidente, come paravento, cercava di nascondere. Se tanti hanno considerato la psicologia una palude di complessi, dove potevano specchiarsi nelle sempiterne dilettazioni tristi, Dali invece non era certo d'umore da

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lasciarsi soddisfare dalle pratiche di un narcisismo di tradizione insieme classica e romantica, e quindi di tutto riposo. La masturbazione non è più un passatempo a fior di pelle. Ecco Il Grande Masturbatore. Ecco la sfinge dei tempi moderni. Un gesto più o meno fotogenico, una frase ben costruita, una mano compiacente, ma questo non basterebbe a risolvere i suoi enigmi. E, per prima cosa, la fotogenia del gesto, la costruzione della frase, la compiacenza della mano, ci appaiono come altrettante nuove interrogazioni su, per, contro, in questo mondo che l'uomo, suo triste abitatore, oggi più che mai, deve interpretare fossero solo ma decisive illuminazioni dei suoi deliri per trasformarlo completamente. Ad altri il piacere mediocre di ricominciare, con vocaboli nuovi, tutti questi virtuosismi, dei quali i più riusciti saranno solo-·delle piccole variazioni su un tema conosciuto, troppo conosciuto e tuttavia non abbastanza, non ancora conosciuto. Dunque l'arte uscirà dall'infanzia vecchiotta dove vegetava. L'intuizione ha trovato nella geniale lezione di Freud non un'arma contro le necessità, ma un mezzo per disarmare, senza colpo ferire, le necessità intabarrate ( con berretto, stivali e corazza), le apparenze cieche e accecanti. Dali fa restituire il maltolto a un universo che ha il colore della retrocessione. La sua pittura risuscita la luce e la risuscita così splendidamente perché ha saputo psicoanalizzare le forme, le facciate esteriori, per illuminare, col segreto rivelato da queste forme, la parte più interiore di sé, come, del resto, illuminerà forme e facciate interiori con il segreto rivelato da questa sua interiorità. Così tutta la sua opera scritta e dipinta è l'applicazione concreta del grande principio della dialettica hegeliana: «Ciò che è particolare è anche generale e ciò che è generale è particolare».

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Sono generali le entrate del metro parigino in stile moderno, è particolare la visione che ne ha Dali. Ma diventa generale, questa sua visione, nel momento in cui, dopo averci chiesto: «Avete già visto l'entrata* del metro di Parigi?», Dali constata: «Maestosa fioritura dalle tendenze erotiche, irrazionali, incoscienti». A ogni passeggiata, lettura, ricerca, ossia a ciascuna delle sue scoperte, sia che il suo sguardo si soffermi su un testo di Kant, la "Publicitat", "Paris Soir", o un libro di viaggi, sia che ammiri gli scogli di cap de Crens, le case in stile moderno di Barcellona, la pittura di Bocklin, l'Angelus di Millet e anche quel quadro di Meissonier dietro il quale sembrava impossibile, a priori, non sospettare nulla, Dali sa sempre trovare l'accesso per illuminare il racconto, il paesaggio. Non c'è un sasso che si possa spaccare in due sull'uomo, su quello che dell'uomo è insieme il fatto più costante e il più imprevisto. Ma se passa dall'esteriore all'interiore, dal conscio all'inconscio, è ancora un volta, ancora e sempre, per far sì che l'interiore renda conto dell'esteriore, l'inconscio del conscio, "vasi comunicanti" ha osservato Breton. Nella parte più segreta come sulla superficie di questi vasi comunicanti, flusso e riflusso hanno lo stesso movimento della vita che non cessa di fare e disfare per fare e rifare di nuovo, -e poi rifare ancora. Nel deserto del razionale, dell'astratto, al passaggio di Dali zampillano (quale piacere liquido!) le fontane dell'i:crazionalità concreta. Ora, se questo concreto ci appare irrazionale, la colpa è unicamente della ragione. La ragione, questa vecchia smorfiosa, aveva finito per prendere delle forme così restrittive che lo spirito, durante questi * Vedi "Minotauro", 2 «Della bellezza terrificante e commestibile dello stile moderno» [nda].

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ultimi anni, ha dovuto dichiararsi contro di lei. Paralizzata, paralizzante, metteva la sua opacità tra il pensatore seduto per pensare e la materia in cammino, in via di trasformazione, come se questa materia non fosse materia di pensiero. La ragione, con la sua pedanteria, sporcava tutto di prudenza realista. Diceva che c'era del fuoco in lei, la megera. Gli intellettuali non amano il rischio. E anche se non aveva il volto molto fresco, correvano tutti come lepri a rifugiarsi nel suo grembo. E là i nostri furbacchioni traevano piccoli piaceri domestici squisiti e ripugnanti da ciò che vale solo per la potenza, la possibilità, il potere di disorientamento. Quando non hanno avuto più la calma indispensabile per sopportare questo abile raggiro, i nostri giovani borghesi decadenti, incapaci di guardare oltre la decadenza borghese, invece di andare avanti, si chiusero nel rimpianto di quello che era stato. Così l'inquietudine, la famosa inquietudine del dopoguerra*, fu il riflesso di una classe che, abituata ai privilegi sociali e morali, si risvegliava all'improvviso inorridita al pensiero che il futuro non sarebbe stato a suo vantaggio. Infantile, moribonda ma non ancora morta, ahimè, l 'inquietudine sarà l'ultima a morire di tutta la fauna irritante, idealista e conservatrice già, e per fortuna, in parte decimata dal vento di crisi che scuote le foreste romantiche tradizionali e misere, e spazza via le non meno tradizionali e misere sporcizie classiche. Come intenerirsi sulla sorte di un verme che la paura dell'altrove, del domani, confina in un "qui e ora" abbellito da piccoli sbalzi alla Barrès, dai fiori frementi alla Mallarmé. Sulle rive dei laghi egoisti, induriti da un gelo di vanità, ne abbiamo ascoltati parecchi di questi canti del cigno. Tempeste sui globi degli occhietti a forma di bottone * Quello seguito alla Grande Guerra [ndt].

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da stivale, tempeste in una goccia d'inchiostro, una goccia di pittura, non è impunemente che un tale individuo avrà ridotto l'universo alla misura della sua opera. Non sa più dove si trova, questo narratore patentato, per il quale la luce era soltanto lo strumento tagliente con cui il quotidiano superficiale doveva essere evirato dall'imprevisto sotterraneo, dal geyser multiplo. Aveva paura di essere sbollentato, squartato, povero caro. Ma la descrizione con le sue griglie di scrittura, le barre di colore, chi dunque imprigionava dopotutto? Dall'animazione, dalla profondità con cui vanifica le cose, lo spirito si annulla da solo. Ancora e sempre Mallarmé col suo «dal diafano ghiacciaio dei non fuggiti voli».* Il ghiacciaio conserva la memoria di tutti i cadaveri e gli stessi cadaveri non saprebbero certo evocare i giochi, gli scambi di uno spirito caldo, di un corpo libero. Il volo significa l'erezione, un volo che non riesce a prendere il suo slancio, non fa la felicità di nessuno. Anche se non ci avessero avvertiti, avremmo indovinato che ciò non eccitava più i signori letterati. Qualsiasi intelligenza che teme l'influenza, l'oppressione della vita, diventa a sua volta incapace di influenzare e di opprimere. Per una simile intelligenza la vita non è più solamente minacciosa, è anche minacciata. I tratti sono fissati solo per perpetuare un istante, un luogo precario, il luogo di quell'istante, l'istante di quel luogo che il prossimo istante, il prossimo luogo hanno tutte le possibilità di cancellare . •È ugualmente stupido, ugualmente sterile esaltare, a spese l'uno dell'altro, o l'occhio che inquadra tra le palpebre un paesaggio o il paesaggio inquadrato. Egocentrismo avaro, scontroso e passività epicurea finiscono sem* Lirica del 1885, Il vergine, il vivace, il bel/ 'oggi nota anche col titolo Il sonetto del cigno, che esprime il dramma della incapacità creativa [ndt].

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pre nello stesso vicolo cieco retinico, si perdono nello stesso deserto di una pagina bianca che non basterà irrigare d'inchiostro per renderla fertile. Invano un tipo del genere avrà considerato il suo fatto personale, unico e particolare, la possibilità generale (ma non esageriamo) d'azione della specie umana sull'universo. Invano la suddetta specie negherà come un sol uomo l'azione dell'universo su di lei. Ciascuno è libero di credersi l'unico soggetto mobile in mezzo a oggetti immobili. Il soggetto blocca gli oggetti senza pensare che il blocco degli oggetti provoca di ritorno - non di fiamma ma di ghiaccio -, il blocco del soggetto. Si chiude, s'imprigiona nella propria ambiguità colui che sa solo chiudere e imprigionare tutto intorno a sé. Il divorzio pronunciato tra questi due mondi che bisogna, ancora provvisoriamente, chiamare mondo esteriore e mondo interiore, che solitudine di silice, che morale pietrificante! L'uomo virtuoso, dal cuore di sasso, il commendatore che non resiste alla tentazione di trasformare in un minerale il molto animale ebreo errante dell'amore: Don Giovanni. Nei giardinetti, la verginità infetta con un lichene di labbra grigie le più fiere statue. Ci sarebbe da disperarsi se ne L'età d'oro, DaH e Buiiuel non ci avessero mostrato con quale bocca il desiderio può risuscitare un piede di marmo. Nati da certa scultura animata di Giaco metti, ecco che, grazie alla chiaroveggenza e alla prescienza di Dali, che seppe fame la teoria e diffondeme la pratica, gli oggetti surrealisti ci hanno mostrato come elementi diversi, assemblati da e per rapporti vitali, senza la minima preoccupazione plastica, potevano iscrivere nello spazio la curva di questo desiderio unico nel rendere il suo spessore irradiato, irradiante nel tempo. Così, ancora una volta, viene proclamata la legge di reciprocità che regola le rela-

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zioni tra gli esseri e le cose, da esseri a cose, da cose a esseri, dal più faticoso quotidiano a quelle sorprese troppo leggere perché, a prima vista, si possa immaginare che posto andranno a occupare e da dove si irradieranno ali' interno del formicaio delle associazioni. Qui notiamo che l'uomo dalla testa di vitello, l'uomo che crede di avere il naso fino perché si è messo occasionalmente del prezzemolo nelle narici, colui che di volta in volta ha preteso di astrarsi (idealista) dal mondo esteriore, e poi (materialista, meccanico, primario) dal mondo interiore, questo particolarista con tutta la sua rabbia analitica non è riuscito a impedire ai sensi di collaborare. Accordatore di piano che per la sua cecità un barboncino guida attraverso le strade della celeberrima chiarezza francese; bisogna dunque essere ciechi per avere l'orecchio giusto? o sordomuti per avere il diritto di dipingere? Il metodo analitico, passato dalle scienze naturali alla filosofia, si sa come abbia prodotto la limitatezza specifica di un'epoca, questa "miseria della filosofia" denunciata a suo tempo da Marx. Se anche Breton ha dovuto, a sua volta, denunciare la "rpiseria della poesia", non è che, disintegrati, privati della possibilità di collaborare, i sensi* - e di conseguenza le diverse facoltà dello spirito di cui sono le porte - si sclerotizzavano, si paralizzavano, diventavano incapaci di movimento, di libertà d'ipotesi? Se infatti, da parecchi anni, non c'era nulla che la divisione del lavoro percettivo non avesse ridotto a brogliaccio, in favore del quale esaltare la parete stagna, femminile del muro divisorio, oggi dal punto di vista dialettico, * Nel dicembre del 1933 Breton scrive: «Oggi, come dieci anni fa, continuo a credere ciecamente (cieco ... di una cecità che copre tutte le cose visibili) al trionfo, "tramite l'uditivo", del visuale inverificabile». Cfr. "Minotauro", 2, Le Pressage automatique [nda].

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dal punto di vista del materialismo dialettico, è importante, in tutti i campi, ridurre allo stato di incomprensibili ricordi muri divisori e pareti stagne. Inoltre, nel momento in cui il fascismo tenta di rabberciare i vecchi quadri, per riempirli con la grande marmellata che è diventato l'universo, in un nuovo oscuro Medioevo che non lascia immaginare un Rinascimento senza rivoluzione violenta, come non ricordare che Marat, prima di pubblicare il trattato Le catene della schiavitù (libro che fece del suo autore il primo teorico dell'insurrezione armata*), aveva scritto un Saggio sull'anima umana, presto completato e ripubblicato con il titolo Saggio filosofico sull'uomo.** Rimproverava a Racine, Pascal e Voltaire di aver fatto della conoscenza dell'uomo un enigma e riportava una frase di Jean-Jacques Rousseau, già vecchia allora di qualche decennio: «La più utile e la meno avanzata di tutte le conoscenze umane mi sembra essere quella dell'uomo». Da notare che, per progredire in questa conoscenza, Marat pensava fosse buona cosa cercare esempi nell'amore. «I critici - scriveva - forse mi biasimeranno perché prendo così spesso i miei esempi dall'amore. Che mi mo* A Work wherein the clandestine and villainous attempts ofprinces to ruin liberty are pointed out (''Opera in cui s'illustrano i sotterranei e scellerati tentativi dei prìncipi di cancellare la libertà"), che Marat pubblicherà in francese col titolo Les chafnes de l'esclavage ("Le catene della schiavitù") nel 1789 [ndt]. ** Nel 1765 Marat lasciò improvvisamente la Francia per Londra, forse confidando nella superiore vivacità dell'ambiente scientifico inglese, nelle maggiori possibilità che offriva ai giovani volenterosi e forse perché ammirava ancora, nel solco del pensiero illuminista, la società e le istituzioni inglesi. Qui cominciò a lavorare ali' Essai, di cui nel 1772 pubblicò anonima in inglese la prima parte, col titolo An Essay on the Human Soul, e l'anno dopo, sempre anonimo, il libro completo col titolo: A philosophical Essay on Man, being an attempt to investigate the Principles and Laws ofthe reciproca/ Influence ofthe Soul and Body dove, pur criticando Cartesio, ne accoglie la nota distinzione fra res cogitans e res extensa, saggio dove sostiene che la sede dell'anima umana sia nelle meningi, le membrane che rivestono il cervello e il sistema nervoso [ndt].

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strino allora un'altra passione riferita alla mente e al corpo che posa fornire un quadro più sopportabile». Questo "quadro sopportabile", dobbiamo a Freud di conoscerne qualcosa di più dei piani superficiali. Viali viventi, strade carnali si aprono direttamente su quello che era stato limitato allo sfondo. Non ci sono più zone vietate. L'uomo libera il suo sguardo, la sua immaginazione. Di conseguenza non solo deve creare cose nuove ma anche ricreare se stesso. Quei viali vivi, quelle strade carnali attraverso zone una volta vietate non hanno, oggi, un passante più chiaroveggente e preciso di Dali. Ed è proprio per questo che alcuni fra i più bei versi d'amore che siano mai stati scritti si trovano ne L'Amore e la Memoria, poema di Salvador Dali, che là, come del resto dappertutto e anche nei suoi quadri e nelle pagine di studio critico, nelle sue opere teoriche e nelle sue fantasticherie, ci fa la grazia di risparmiarci i dettagli esatti. Questi dettagli esatti, Dali li incatena ma non li accumula. Non è mai stato tentato di divinizzarli, di fame delle cose in sé. Non rischia neppure una volta di cadere nella metafisica naturalista. Al contrario, da un'esattezza particolare passa a un'esattezza generale dalla quale, per nuove ipotesi feconde, ripartirà verso altri dettagli inediti. Suonatore perspicace, osservatore lirico, tecnico impeccabile, dal più notturno dei sogni suscita la chiarezza in eco diurna. Né l'ombra né la luce lo accecano. Egli sa qual è la luce di quest'ombra, qual è l'ombra di questa luce. Supera le cataste sia tradizionali sia stravaganti che pretendono di opporsi a ogni progresso. All'ultimo stadio di un periodo meccanico quando, nei paesi capitalisti, l'uomo succube della macchina cerca un orticello dove rifugiarsi e così si fa una mentalità di agrimensore (vedi pensatore), quando, per cogliere il ritmo di

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una vita che non sa più dominare, l'uomo (vedi artista) si fa una mentalità di metronomo, Dali ci offre in compenso i suoi orologi molli. La vita era solo un immenso pretesto per il complesso di castrazione (chi si castrava dal mondo esteriore, chi dal mondo interiore). Le lancette di un quadrante ritenevano di farneticare nell'assoluto e spezzavano il tempo fino all'ultima briciola. Che miseria! Ed ecco che i quadranti, le lancette, gli orologi sono diventati relativi, piuttosto pateticamente relativi per non osare più fare a pezzi il relativo erettile. Il metallo degli strumenti di precisione - di falsa precisione - non si è fuso ai soli raggi del sole sotterraneo di cui s'illumina il più piccolo quadro di Dali. Gli orologi molli hanno preceduto Le uova sul piatto senza piatto nel «discredito tale del mondo della realtà» che, fin dal suo primo libro, 1a Donna visibile, Dali ci esortava a "sistematizzare" attraverso un processo violentemente paranoico.* Il delirio d'interpretazione, delirio poetico per eccellenza, ecco la migliore possibilità per andare da ciò che viene considerato realtà (ossia dal più sordido, dal più stereotipato) alla surrealtà (ossia al più generoso, al più cede* Se Dali si è dedicato allo studio, all'utilizzo della paranoia e delle possibilità che essa offre attraverso la conoscenza, è perché i dati di ogni problema mentale si trovano, a dire il vero, non posati ma agitati, nei loro dettagli più instabili, quando la psicosi paranoica che colpisce tutta la personalità, e non solo la prolunga, la sviluppa, l'anima, ma diventa specchio deformante che la riflette, e con lei riflette anche il centro della sua crescita. Nella sua tesi "Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità" Lacan_ha dedicato molte pagine alla posizione teorica e dogmatica del problema. Egli differenzia, per meglio conoscerne i rapporti, ciò che è stato soggettivamente provato e ciò che può essere obiettivamente constatato. Di solito, o il soggettivo-introspettivo sfocia nel quadro metafisico, o l'osservatore cosiddetto obiettivo, col pretesto della psicologia scientifica, riduce il soggetto a una cordicella, lo condanna a essere solo una successione di desideri, di immagini. Constatiamo dunque, una volta di più, che si tratta di chiarire il dentro come il fuori e non di optare per una luce a spese di un'altra. Non ci sono troppi raggi dell'una e dell'altra contro l'oscurità, l'oscurantismo [nda].

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vole), E, per favore, non considerate la surrealtà/surrealismo un rifugio noumenico da dove poter sdegnare il mondo dei fenomeni. La surrealtà, ma si potrebbe anche definirla così: realtà ridotta al suo divenire, realtà che si supera da sola e destinata a superarsi continuamente. L'uomo che deve, secondo l'espressione familiare, saper uscire da se stesso, come potrebbe senza far uscire le cose da sole? Nella violenza del surrealismo, del "più che realtà", bisogna vedere la risurrezione dallo stato statico a quello dinamico, dato che, da così tanto tempo, non c'era stata che decadenza dal dinamico allo statico, e l'orizzonte culturale veniva nascosto dai funzionari delle pompe funebri che assegnano a ogni soggetto, a ogni oggetto la sua forma a mo' di bara. «Ma allora, signori artisti, morite voi per primi». A Dada spetta il merito di questa ingiunzione. Dopo di lui, il surrealismo non smise mai di venire a guastare la festa, questa sepoltura di prima classe, perché intendeva rendere alla vita contraddittoria e feconda le nozioni che i grandi teorici ed esperti del materialismo dialettico hanno sempre definito «riflessi delle cose in noi». Per precisare, oggettivare l'oggetto, è necessario sapere "come", con quali deformazioni, cammin facendo, questi riflessi portano al soggetto, al soggettivo. Il ponte dei riflessi che fa da navetta tra il soggetto e l'oggetto, permette al primo di trasformare il secondo, per trasformarsi a sua volta nella metamorfosi di cui è l'autore. Così Dali, alla luce del mondo esteriore, illumina i suoi complessi, così come, alla luce dei suoi complessi, s'illumina il mondo esteriore. Reciprocità. Reciprocità universale. Non c'è un sasso, un filo d'erba, una tazza da tè - portoghese o no - che non si prolunghi in eco solari

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sul non meno solare e riflettente schermo della vita mentale.* Innovatore, rinnovatore, Dali ha riallacciato i rapporti con le grandi tradizioni, i grandi miti. Li ha riallacciati soprattutto perché voleva che quella grande vacca che è la tradizione restituisse il maltolto. Voleva anche che partorisse tutti gli anamorfici di cui essa era incinta da secoli, la vecchia ipocrita, che si esauriva ed esauriva gli altri nelle questioni di pura forma solo per non mostrare il fondo, il fondo del suo sacco. Quanto ai grandi miti, li ha già incorporati alla piccola vita da cui sono usciti. Bisogna che gli dèi, i semidèi, i personaggi favolosi escano dalle loro guaine minerali, insensibili e tabù. Ecco che Ermafrodite ha lasciato il marmo dove da più di duemila anni il suo corpo unico e doppio dimorava- ibernato. Eccolo ritornato alla vita, eccolo diventato vecchio, diventato padre e madre, adesso. Poiché soltanto l'intuizione permette ai poeti di ritrovarsi nel dedalo delle nozioni mitiche o semimitiche, poiché soltanto l'ispirazione sa trovare il legame che unisce le ispirazioni più strane in apparenza e fa comunicare liberamente, allo stesso livello, le parti fra loro più distanti nel tempo e nello spazio, per questo spettava a Dali presentarci il vecchio principio maschio, il vecchio principio femmina, vecchio Ermes, vecchia Afrodite, I'Ermafrodite di una volta, oggi trasformato in Guglielmo Tel1. Nel Guglielmo Tell di Dali dobbiamo riconos1:;ere, sotto il suo aspetto più allucinante, "la madre fantastica", ossia, secondo quanto hanno saputo insegnarci gli psicoanalisti, la madre montata dal padre. Ecco perché Dali ha decorato il suo Guglielmo Tell con tutto quello che l'uno e l'altro sesso hanno di specificatamente sporgente: pene e seni di * Leggere a questo proposito l'analisi de L'Angelus di Millet [nda].

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donna. «Il ragazzo di Guglielmo Tell, ossia Dali stesso, invece di intenerirsi sulla sua piccola persona, invece di compiacersi delle sue dilettazioni morose, di ubriacarsi di liquori cinestetici, di perdersi nell'astrattismo d'indecifrabili musiche, il ragazzo, l'artista, per sfuggire all'influenza parentale, universale, Dali per passare ad altre nozioni, altri riflessi, esteriorizza la nozione, i riflessi temuti. Così ogni opera, per la sua portata psicanalitica generale e particolare, segna un nuovo passo nel cammino che conduce l'autore a nuove tappe. Allora, questa madre fantastica* e ferina, deve solo guardarlo allontanarsi, arrampicarsi sugli alberi** questo Guglielmo Tell che metteva una mela sui capelli del figlio (la capigliatura nel simbolismo freudiano ha sempre un significato fallico) solo per colpire con una freccia la suddetta mela, come se il ragazzo dovesse essere castrato, sodomizzato e mangiato con un sol colpo ... Ma che Guglielmo Tell si rizzi di erezioni enigmatiche, terrificanti, dalla coscia destra alla visiera del suo berretto, ognuna delle sue nuove incarnazioni è per Dali solo un mezzo - ma che mezzo! - per ricreare quello da cui è stato creato, quello che l'ha creata. In questo modo domina la situazione. Così il suo occhio diurno è padrone dei più favolosi membri notturni. A ogni ora il suo sole per illuminare questo eroe epico. Ma poiché è un grande viaggiatore, ecco libero, liberato dalla sua presenza, il luogo che fu quello dei primi giochi, dei giochi lugubri. Ecco sbocciare in piena terra, in pieno amore, il complesso. delle rose. Ecco Gradiva. La sua testa è fatta di rose * Madre fantastica anche questa caffettiera che, dichiara Dali, in un servizio da caffè aveva il ruolo di madre nei confronti delle tazze che riempiva. Ora, il membro di porcellana la cui erezione segue gloriosamente il ventre di ogni caffettiera, a priori, ha un significato più virile che femminile. E tuttavia Dali ha ragione. Quella caffettiera è la madre di quelle tazze [nda]. ** Vedi L'Amore e la Memoria [nda].

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che si sfogliano, il suo ventre si apre su una rosa che sanguina, che sanguina di sangue umano, il più umano, mai troppo umano, perché altrimenti umano, ben altrimenti umano di questo umano troppo umano di cui gli umanisti e gli umanitari intendevano imporci i collegamenti restrittivi. Qui Dali raggiunge Sade, Lautréamont*, e nelle più crudeli fantasie di cui i corpi sono gli oggetti, c'è l'aurora più fine, più nuova, più forte di idee. Gradiva: tutto è da glorificare nella donna amata, tutto quello che riguarda la donna amata dev'essere glorificato; le sue viscere, le sue budella sono fiori amorosi. A Babilonia, veniamo a sapere da Otto Rank, il tempio più antico si chiamava tempio degli intestini e aveva la stessa forma degli intestini.** Come se, fin dalla più lontana antichità,- un tale tempio fosse stato costruito per ospitare l'oggetto surrealista, i lavori più recenti di Dali sul cannibalismo hanno mostrato a me, a noi, che quell'oggetto era fatto per essere mangiato. Essere mangiato per risuscitare sotto forma di anamorfi conici, di meteoriti.*** Dali non intende affatto confermarci allo stadio orale, a quel narcisismo**** che fa sì che l'individuo·divori l'universo, lo sopprima, lo distrugga in tutti i suoi oggetti, per assumere lui stesso il ruolo di oggetto e, non avendo più altre nozioni, altri riflessi che se stesso, distrutto annega l'oggetto che è diventato. *Vedile sue illustrazioni per I Canti di Maldoror [ndà]. ** Si pensi a questo proposito quale nuova interpretazione può essere data del labirinto della mitologia greca [nda]. *** Vedi Il Surrealismo al servizio della rivoluzione, n. 5: "Oggetti psicoatmosferici anamorfici" di Salvador Dati [nda ]. **** Il famoso distacco cristiano dai legami del mondo - supponendo che non sia soltanto una semplice formula ipocrita-, la facoltà di disprezzare gli oggetti o più semplicemente perderli, ecco, secondo le più recenti scoperte della psicologia moderna, ecco delle prove innegabili di narcisismo [nda].

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In verità (e l'opera di Dali è la più commovente illustrazione di questa verità), si tratta non di perdersi nella propria ombra, ma di ritrovarsi nelle cose, di cercare l' eterno non nella stabilità (la stabilità non esiste; non è che il primo movimento, la partenza al rallentatore della decomposizione) ma nel movimento. Ciò che è considerato tragico- senza che noi invochiamo una nozione primaria, meccanica di progresso-, soltanto questo dà un valore alla vita perché questo soltanto offre qualche possibilità. L'opera di Dali, chiave di volta di questo ponte di riflessi che va dal continente esteriore all'isola interiore opalescente, conduce dalla palude di oggi al cristallo di domani. Davos, dicembre 1933

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Il più coraggioso degli uomini oserebbe guardare diritto negli occhi un ippocampo, punto interrogativo a testa di cavallo, emerso dalle profondità oceaniche alla superficie del sogno? Questo magnifico figlio del mare, più verticale nella sua ascensione di un lift ultimo grido, questo Centauro la cui semplice presenza turba a tal punto che tutto debba essere rimesso in discussione, chi altri potrebbe simbolizzare meglio Paul Klee? Ora, paragonati a questo fatale e solitario Pegaso, come ci appaiono meno temibili i mastodonti ponderosamente affermatisi. C'è stata sempre e sempre ci sarà una realtà qualsiasi che serva da pastorella al gregge mostruoso. Si nutrono in pace le balene nelle steppe liquide più ghiacciate. Se ben ricordo le nozioni di storia naturale, queste buone e grosse madri, poco abili a immergersi come le ciccione delle spiagge piccolo borghesi, poiché non hanno (le cosiddette ciccione) le risorse, quando sopraggiunge l'inverno, dei negozi dove giocare con nastri, sete e fr.ange, sbuffano grandi getti che trasformano l'acqua in pennacchi gemelli di piume, che hanno un così bell' effetto sui cappelli provinciali, nelle regioni più sperdute perché, grazie a Dio, le mogli dei sottoprefetti, dei notai e dei colonnelli, non hanno perso, nonostante i secoli, il senso della loro maestà.

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Balena, imperatrice degli oceani polari, come la rosa è la regina dei fiori e il porro l'asparago dei poveri, simpatico cetaceo, regina senza principe consorte, gigante troppo saggio per complicare inutilmente le cose, ti pavoneggi nelle tue banchise senza crisi di coscienza, e ingrassi più e meglio di una regina batava, perché gli iceberg ti risparmiano ogni tentazione, compresa quella dei tulipani. Poiché il tuo destino è spettacolare, persuasa che tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili, concludi: a ciascuno il suo mestiere. Hai più di una possibilità a disposizione e ami le sentenze. Ora, così mondana e frivola coi tuoi proverbi come Monsieur de La Rochefoucault con le sue massime, dimentichi che gli uni e le altre si rivoltano come dei guanti. Parli di mestieri. I bambini delle città sono abbastanza magri da avere il diritto di rispondere che ne esistono soltanto di sciocchi. Infatti, dato che la scienza moderna ha voluto insegnarci che le vacche, anch'esse, sono soggette alla tisi, non c'importa affatto se siano più o meno male allevate. Non amiamo né gli asparagi dei poveri né i porri dei ricchi. Sotto la maschera delle metafore facili troveremo delle belle ingiurie per offendere la saggezza delle nazioni. E soprattutto non se ne può più di questa sensibilità leziosa di cui si fanno belli gli pseudointellettuali e gli pseudoartisti. Abbiamo già una bella vendetta, una bella gioia positiva poiché gli abissi che la tua paura sembra sdegnare, balena, sono pieni di misteri raffinati. I palombari d'Europa, è vero, hanno le dita molto pesanti e i tuffatori polinesiani, che sfuggono al martirio delle suole di piombo, amano cogliere, nelle loro immersioni fra le onde, solo le perle tenere e rotonde, simili alle palpebre del loro sonno ingenuo.

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E allora, come non considerare un miracolo Paul Klee, questo escursionista del più segreto dei mari, da dove sei tornato tenendo nel cavo della mano un tesoro di pietre, di comete, di cristalli, una messe di allucinanti relitti e il riflesso di città sommerse. Tutto quello che hai riportato dagli abissi si rivela degno, in trasparenza, dei pesci dentati. I granchi, sì, anche i granchi hanno le ali. Un pittore ha aperto i pugni e tra le luci delle sue dita incredibili uccelli hanno preso il volo, e adesso popolano le tele docili, per la loro felicità, a questa magia. E così non esiste nessuna linea, per quanto sottile, che non abbia la sua qualita emozionante. Le unghiate che graffiavano, in balìa di un gigantesco capriccio, rocce e ciottoli, tutti i graffiti dell'Aldilà, le creature d'ipnosi e i fiorì d'ectoplasma, sono stati disegnati, fotografati senza trucchi d'illuminazione, senza falso romanticismo né magniloquente menzogna d'espressione. Ed ecco la più intima e anche la più esatta surrealità. Un pennello divenuto amante, il labirinto del sogno subito magnetizzato, si dispiega in lunghi anelli. Com'era timida la leggenda che faceva obbedire alla voce di Orfeo le bestie feroci considerando che, adesso, piante e pietre si muovono, non sanno più restare immobili. Mondo in cammino, universo di ramoscelli palpitanti, formicai liberati da ogni costrizione, da ogni vincolo, perché gli occhi degli squali ne hanno contemplato la nascita, un ritmo sovrano, fuori dal tempo e dallo spazio, che fa precipitare i tre regni di questa creazione. Allora ascoltatemi balene e voi altri megalomani, ascoltatemi e ricordatevi, questi animali favolosi che si sarebbero nutriti volentieri di molle a spirale per crescere in lungo e in largo, questi mostri preistorici, così sciocchi da

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non sapere che cosa fare della loro pelle, hanno lasciato, sul nostro pianeta, e giustamente, soltanto il ricordo del, loro scheletro. E tuttavia, all'alba dei tempi, la famiglia Diplodocus doveva ben credersi destinata a regnare su questo pianeta usque ad vitam aeternam. Non sono né profeta né predicatore, ma posso assicurarvi che ci saranno delle pulci fino al giorno del giudizio, mentre l'ultimo rampollo della famiglia diplodoco, che certo doveva disprezzare i cugini mammut e, a maggior J ragione, gli elefanti, i suoi parenti poveri, l'ultimo e il più I grosso dei favolosi quadrupedi, se mi prende la voglia, mi ì basta andare al museo per solleticargli le ossa. Paul Klee, poiché hai liberato gli infinitamente piccoli, quest'inverno le larve canteranno con voce da sirena, e l'Europa e le-due Americhe si vergogneranno per essersi lasciate sedurre dal sistema metrico. Non si tratta neppure di cedere alla tentazione del nebuloso Oriente che le inchieste della stampa e delle riviste specializzate, e i paradossi della filosofia, hanno fatto diventare moda. Quotazione in Borsa che puzza d'inchiostro di stampa o Nirvana profumato alla carta d'Armenia, se non troppo bello, è almeno troppo facile per essere onesti. Conosciamo l'immagine cara al signor Maeterlink dei due lobi del cervello, l'orientale e l'occidentale, impenetrabili l'uno all'altro, come è giusto. Questa metafora, che si potrebbe ritenere inoffensiva nella sua amabile semplicità, fa in modo che l'Ovest sogni l'Est. D'altra parte, sembra che l'Oriente acquisti dall'Occidente fucili, cappelli, solini in celluloide, giarrettiere e romanzi psicologici. Bisogna dunque notare che questi impenetrabili sono, pur senza speranza, come Abelardo ed Eloisa, amanti l'uno dell'altra.

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Europa, Asia. I più ottimisti sperano in un'unione che potrebbe essere celebrata da una canzone come quella che, dopo aver gagliardamente affermato La guaina è fatta per la lama conclude: E la ragazza per il ragazzo.

*** Ora, benché Paul Klee, con tre granelli di sabbia ci abbia dimostrato che i grattacieli di New York, le Galeries Lafayette di Parigi, la straordinaria bulimia notturna di Berlino, le insegne luminose di Londra, non sono niente per gli occhi dello spirito, per le orecchie dell'immaginazione, benché abbia fatto risplendere migliaia di occhi di fronte alle più piccole creature e, a dispetto delle alghe che ha liberato da ogni appiglio, nonostante tanti esseri viventi, vegetali, cose che possono essere negate nella loro imponderabile surrealità meno dei nostri lampioni a gas, i caffè, la carne degli amori quotidiani e settimanali secondo le possibilità dei temperamenti civilizzati, tutta la meraviglia che ci dispensa non dev'essere defraudata, pervertita, sfruttata per l'una o l'altra causa. Ci rifiutiamo di vedere in lui un fachiro semplicista. È l'opposto di questi principianti di musie-hall o profeti per vecchie vergini britanniche e teosofe. Libertà dunque al giovane Europeo di cantare la nuovissima e già classica canzone delle sue inquietudini, libertà all'Adone impomatato di celebrare il suo amore per le valigie, il vagone letto, la velocità e che il suo fratello abbronzato degli antipodi giochi al Buddha morto o vivo,

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la fraseologia dei giornalisti retorici, le distinzioni dei cri- • tici e i loro discorsi sofisticati, tanta architettura in pieno • vuoto non saprebbe prevalere su una goccia di spontaneità. Paul Klee orientale? Sì, certamente, perché alcuni suoi quadri sembrano tes- · suti in omaggio alle più fresche visioni delle Mille e una Notte. Ma lasciamoci condurre in mezzo al verde, lungo viali segreti, alla caverna di cui l'età della pietra animò le pareti di uri e renne. E torneremo con le braccia cariche di fossili, colti all'ombra incandescente degli alberi di sale. L'opera di Klee è un museo completo del sogno. L'unico senza polvere. La cenere stessa diventa prato attorno ai villaggi in miniatura, come li costruiscono i bambini coi loro giochi di costruzioni. Lo spazio, questo vecchio pregiudizio, viene infine smentito perché certe cosmogonie serviranno da strada e la Via Lattea da fiume verso quel paradiso lillipuziano di cui gli animali e gli uomini vigorosi salutano l'incendio dei pesci volanti. Davanti a questa luce nessuno può non sentire e non vedere. Tutto intorno una fioritura sorprendente. È per questo che sull'unghia del suo pollice un pittore ha saputo disegnare delle muraglie da far sognare Babilonia e Palmira, sul soffitto delle loro stanze, i malati che hanno saputo leggere nelle sue tele, potranno, per vendicarsi della febbre, del silenzio e dell'immobilità, scoprire chilometri e chilometri di storia. Basta un pezzetto di intonaco scrostato per svelare i più vertiginosi segreti. Paul Klee lo sa e non lo tentarono né gli arabeschi né la virtuosità. La materia più semplice, parole o colori, serve da tra-

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mite tra l'Aldilà e il veggente. La poesia è la scoperta dei rt1pporti insospettati tra un elemento e un altro. Il pittore dotato di poesia saprà trovare nella più arida geometria le Hcale per le sue immersioni. Sale, scende, risale e, allo stadio più alto, avendo perduto la chiave della porta che doveva aprirsi direttamente al cielo e al vento, a Paul Klee basterà guardare dal buco della serratura per scoprire, in due centimetri quadrati, toto caelo, un mondo di stelle che gli uomini credevano perduto. Non ci sono più misure. Voglio dire che le unità di lunghezza, peso, capacità non servono più come misure. Noi non crediamo più al sistema metrico. Nessuno saprebbe misurare in aune* i sogni, i desideri. * E non credo nemmeno più a quei luoghi comuni metaforici che la nostra pigrizia si concedeva per timore di sorprese. A ventinove anni suonati, comincio a non credere più neanche al corvo come uccello del malaugurio, da quando questa mattina, uno di questi nevermore** è venuto a posarsi non nel vano della porta ma sul mio balcone. L'oscuro personaggio aveva il becco di un giallo canarino e le zampette rosse, tanto che, mio malgrado, ho pensato a una sposa paradossale il cui viso, nascosto dai veli, pareva adornato di smeraldi e i piedi calzati di viola. Questo corvo delle altitudini risponde allo sconcertante soprannome di Choucas, come se fosse una puttana cocainomane. * Antica misura usata in Francia prima del s.m.d. [ndt]. ** Riferimento alla poesia di Edgar Allan Poe Il corvo. Narra la vicenda di un amante che soffre per la morte della sua amata e, mentre medita su un libro, a mezzanotte sente un forte battito d'ali, sono quelle di un corvo che facendogli visita ripete continuamente l'espressipone Nevermore, "Mai più" [ndt].

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Decisamente i conservatori esagerano e se hanno il . minimo senso di giustizia alla fine non si meraviglieran- · no affatto se Paul Klee disprezza le montagne alte 4.810 metri, le cascate del Niagara e tutti gli animali che godono una buona reputazione, anche se passano per bestie fe- · roci, come i leoni, questi commessi viaggiatori del deserto che indossano una cravatta Lavallière. Sebbene il romanticismo all'ultima moda celebri i ferrivecchi, il cemento armato e tutte quelle metallurgie che aspirano al record del salto in lungo, Paul Klee, libero da ogni vertigine, segue un semplice capello sospeso tra il cielo e la terra. Il suo occhio ha colto il miracolo dei colo- · ri, il grande miracolo di tutti i colori, in una goccia d'acqua, la semplice, famosa goccia d'acqua che fa traboccare il vaso, l'oceano e, nel giorno della gloriosa collera, l'insondabile-rassegnazione degli uomini. La pittura di Paul Klee si afferma dopo il diluvio, dopo le nostre aspettative, per terminare il lavoro lasciato incompiuto dagli altri. Viva l'inondazione. * In omaggio a un poeta, hai avuto ragione, Paul Klee, a dedicare questa scala rossa sperduta nell'etere tortora. Questa è l'unica scala che possa condurci al trampolino da cui salteremo, a piedi uniti, nell'impossibile, perché si tratta infine di raggiungere la luna. Ma se la casa dei pesci si chiama acquarium e palmarium quella che ospita le palme, in ricordo delle pesche miracolose, dei pesci brulicanti diventati mazzi di stelle, chiamerò cielarium il palazzo dove ogni tua tela è una stanza.

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Allora, esiliato nel paese dell'abitudine, degli uomini ' in carne e ossa, delle montagne di pietra e di alberi troppo verosimili, non c'è che chiudere gli occhi, come ai tempi dell'infanzia, quando si scopre che il nero è una menzogna perché, sotto le palpebre ermeticamente chiuse, si illuminano mille fuochi minuscoli e tuttavia più grandi delle nostre stelle conosciute. Toccante fraternità dei poeti. Per illustrare la magia potente e delicata di Paul Klee, canta questo verso di Saint-Léger-Léger: «E il sole non è nominato, ma la potenza sua è tra di noh>.* Leysin, ottobre 1929

* SAINT JOHN PERSE, da Anabasi, 1924

L'arte ali' ombra della casa nera

Engels ha denunciato i misfatti dell'analisi quando, dalla scienza di cui aveva permesso i grandi progressi, era passato alla filosofia. Così, per colpa di un metodo fecondo all'origine, gli oggetti e le idee che ne derivarono per l'uomo furono considerati non nei loro rapporti, ma nel loro isolamento, non nel movimento ma nella quiete. Da qui, la ristrettezza metafisica con la teoria noumenale dell'arte per l'arte, tra altre forme e formule. Ora, esiste soltanto la cosa da dipingere, la cosa dipinta in sé non è nulla. Intermediaria tra gli uomini, permette loro di comunicare attraverso il tempo e lo spazio. E anche quando l'esibizionismo è soltanto un simulacro, il modo dinascondersi (e nondimeno, del resto, quello di simulare) diventa un assenso. Non c'è opera astratta che, con un tratto concreto, non definisca il suo autore. Bisogna prendere coscienza di quanto afferma la negazione. Per esempio, la tendenza a perdere tutto (e quindi a rifiutare e a negare tutto) permette di diagnosticare il narcisismo e le sue conseguenze. Conseguenze mortali. Ecco dunque Narciso allo stato di cadavere per non aver preso coscienza di quello e quelli che lo circondano, e per not1 aver saputo immaginare dei rapporti viventi fra lui e loro. Credeva di poter arrestare, a sua gloria e vantaggio, il corso del ruscello. Ne ha fatto la sua tomba definitiva. Senza insistere su questo caso limite, ricordiamoci dell'immobilismo dei letterati prima della crisi, occupati a riparare il male del secolo. Seduti comodamente in pol-

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trone stile "N.R.F.", foderate d'inquietudine, si guardavano l'ombelico, senza smettere di pontificare, beatificare, , dire sciocchezze sull'oggetto perduto. Dal punto di vista della fenomenologia dello spirito, era necessario rendere trasparenti quei paraventi, la cui ombra propizia ai vespri introspettivi accoglieva l'individualismo e la sua sfilza di contraddizioni. Quando dà peso e corpo ai più imponderabili particolarismi, l'artista afferma la sua volontà di agire sull'universo, in risposta all'azione dell'universo su di lui. Il suo pensiero non saprebbe limitarsi ai contorni, ai colori che lo rivestono. Esiste in funzione dell'ora, del luogo, dei problemi che li agitano. Ritenersi neutrale equivale, allo stato attuale delle cose, ad accettare di essere complici degli sfruttatori nei confronti degli sfruttati. Nell'atto duplice e opposto di mummificare i suoi piccoli segreti o di assoggettare gli occhi a qualche paesaggio residuo, si tradisce un'opposizione al divenire comune del mondo esteriore e del mondo interiore, tra i quali non si scelgono ma si stabiliscono dei rapporti. Una fotografia che fosse pura passività non è concepibile. Descrivere è fatalmente esprimersi tra il descritto e la descrizione. Chi si esprime si trasforma per il fatto stesso che si esprime. Lo slancio della sua metamorfosi lo porta verso un nuovo orizzonte. Vuole superare quella foresta che non si accontenta di essere metaforica. In tutto il mondo capitalista, veri alberi di vero legno e davvero potenti diffondono un'ombra di cui si deve sondare la profondità, non per perdersi o compiacersi, ma per portarvi la luce. Attraverso questa oscurità patibolare si accende un libero sole. Tuttavia, l'immaginazione non deve pretendere di esercitare un potere assoluto. Lo spirito, di cui è una delle parti integranti, ha per trampolino la mate-

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ria. Con un salto in avanti, l'ipotesi del poeta come quella del saggio si propone di raggiungere e di chiarire la necessità cieca finché essa non è conosciuta. Ora, da necessità cieca a necessità conosciuta, da filo nero ad ago di fuoco, non sembra che la cultura possa mai raggiungere la fine della corsa. Se l'ordine e la luce sono stati messi in un paesaggio, questo si ripopola subito di punti interrogativi pronti a sbocciare più dei crochi allo sciogliersi della neve. Qui, oggi, questa immagine floreale non suggerisca l'illusione di un qualche idillio. La conoscenza non potrebbe avanzare senza combattere. Da più di vent'anni, il pensiero, la sua espressione nell'arte e nella scienza, hanno dovuto parare molti colpi. Quante teste fracassate, occhi accecati, membra strappate, crolli, libri bruciati, quadri condannati, sculture distrutte. Più che mai la grandezza di un'opera era in funzione del potere di lotta del suo autore. Nei vortici di un talento, di una tecnica, di uno stile di fronte alla vita che l'economia di una società propone agli uni e agli altri, si giudicano non solo questi manipolatori di penna o di pennello, ma anche grazie al gioco reciproco di azione e reazione, tutta un'epoca, tutto un mondo attraverso tempi, luoghi, oggetti, esseri e scosse che, chi li possiede, avrà fissato penna e pennello su un foglio di carta o su una tela in filigrana. In un tempo di decomposizione violenta, la misura compiacente verso se stessa, l'estremo buon gusto, l'opportunismo delle smancerie, figureranno come agenti provocatori. Ricordiamo la sfida di Trianon, l'infamia di una cattiva coscienza che scimmiotta, nelle vesti di sfruttatrice, quelli che sfrutta. Vicino a noi, l 'hitlerismo ha voluto imporre il ritorno al folclore edulcorato, Per esempio, a teatro si dovevano rappresentare soltanto opere pastorali. Fu dato ordine agli autori, ai decoratori e agli atto-

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ri di usare un inchiostro, una tavolozza e un fondo tinta bucolici. Di fronte al risultato, il Ministro dell' Agricoltura ha dovuto proibire questi spettacoli. Da questa dimostrazione, per assurdo si può trarre una , conclusione per la teoria e la pratica. Nella cascata delle ' parole, delle forme e dei colori, le fiamme danzanti della collera sono gli unici specchi dove la vita possa ancora fremere e intrecciare, dalla superficie delle cose all'intimo segreto dell'uomo, un ponte di riflessi, movimento e cammino nel movimento, strada che si anima e si apre alle più legittime tentazioni di vedere e di sapere. Le brume sanguinanti del razzismo, le cavallette della superstizione si ostinano contro questa liana, vogliono strapparla dalle rive che il suo slancio si è proposto di raggiungere. L' oscurantismo, sipario di tenebre vischiose, ha per cornice la ragion di Stato. E lo Stato, come ha constatato Lenin ne Lo Stato e la Rivoluzione, «è il prodotto e la manifestazione dell'antagonismo delle classi. Lo Stato esiste là dove le contraddizioni non possono essere obiettivamente conciliate e nella misura in cui non lo possono essere». In nome dello Stato hitleriano, Johst* ha osato scrivere: «Quando sento la parola cultura tiro fuori il revolver». Inoltre, un anziano della vecchia guardia nazista, Ewald Banse, professore di geopolitica alla scuola politecnica di Brunswick, ha inventato una scienza nuova, la scienza militare che prevede e sistematizza l'utilizzo soldatesco di tutte le scienze e di tutte le arti. Ma è proibito usare l'im* Hanns Johst (Seerhausen, 1890 - Ruhpolding, 1978), poeta tedesco formatosi nell'atmosfera dell'espressionismo, ne accolse alcuni elementi nello stile delle sue prime opere (la commedia Stroh, 1915; la raccolta di liriche Wegwiirts, 1916). Ma già nel drammaDer Einsame (1917) l'eccitato lirismo tende a raccogliersi intorno al tema della tragica aspirazione alla grandezza in tempi ostili. Dall'atteggiamento pessimistico passò, attraverso una serie di opere, a una risoluta fede nella vita (/eh g/aube!, 1928). Aderì al nazismo, di cui si fece interprete nel dramma Schlageter (1933) e in Maske und Gesicht (1935) [ndt].

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maginazione. In "Propaganda e Potere nazionale" un certo Eugen Hadamovsky* dichiara: «Dopo secoli di libertà artistica e assenza di costrizioni, esigiamo oggi dall'intelligenza artistica che sia conforme alle tendenze della volontà nazionale. In arte, l'era dell'indisciplina è finita». Poiché l'intelligenza artistica dev'essere conforme alle tendenze della volontà nazionale, è in pompa magna e con spreco inaudito di discorsi, che fu inaugurata a Berlino la mostra del professor Vollbehn, grande genio e grande eroe perché non aveva avuto paura di salire su un pallone (aerostatico) per eseguire, tra il 1914 e il 1918, dei perfetti disegni del fronte tedesco e del fronte francese. Poiché l'era dell'indisciplina è finita Klee, Kokoschka e molti altri hanno dovuto fare i bagagli e partire. Nella Germania prima del Terzo Reich, un piccolo borghese, invece di comprare per sua moglie un falso diamante o un buffet Enrico II, le regalava delle belle riproduzioni di Van Gogh. Contrariamente a quelli francesi, i musei offrivano un'ampia scelta di quadri contemporanei. Impossibile, dunque, non opporre delle opere specificamente nazionalsocialiste alle forme più recenti dell' espressione umana che, in Mein Kampf, il Fiihrer ha condannato come prodotti marxisti. Ed ecco perché, da giugno a ottobre del 1934, la Nuova Pinacoteca è stata svuotata e messa a disposizione di pittori e scultori che non erano stati pregati di fare un breve viaggio all'estero. Per essere giusti, ricordiamo che Parigi aveva appena aperto il suo Salon des Artistes Anciens Combattants. Risposta del pastore alla pastora: a Monaco sembrava piuttosto che si avesse a che fare con futuri combattenti. All'ingresso, trionfava la più aggressiva scempiaggine, * Eugen Hadamovsky (Berlino 1904-1945), politico e direttore dei programmi radio del Reich nazista dal 1933 al 1942 [ndt].

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sotto l'aspetto di un grande san Michele che abbatte il demonio simile a san Giorgio che uccide il drago, come un uovo marcio assomiglia a un altro uovo marcio. Non c'era maestro dell'epoca che non avesse il suo ritratto. Di faccia, ben inteso. Infatti questi Signori portano sulla loro camicia bruna dei graziosi visini da patata bollita. Per la legge di compensazione, Mussolini lavorava di profilo. Dopo l'assassinio di Dollfus e la mobilitazione italiana al Brennero, venne sganciato e pregato di riposarsi. Tra imperialismi complici nascono dei conflitti così improvvisi che la propaganda non saprebbe né prevedere né risolvere. Per fare da contrappeso a queste zizzanie internazionali, la reazione aveva ottenuto l'accordo nazionale, nonostante le polemiche da nazisti a curati e da curati a nazisti. Quell'inverno, dopo il tradimento dei cattolici istigati dal vescovo di Trèves (qualunque orrore possa ispirare una profezia a posteriori), alcuni striscioni lungo le strade ordinavano ai tedeschi di pensare alla Sarre, senza temere la vicinanza dei cartelloni pubblicitari per la passione burlesca d'Oberamergau. Su questi striscioni, attraverso un gioco d'immagini inteso a dare la morte, sciabola e croce si confondevano. Lo strumento di tortura, divinizzato, diventava spada di fuoco, direttamente dal cielo, sopra questo paese dove la superstizione è mantenuta ai più bassi fini commerciali e obbliga i montanari alla miserabile follia di credersi Gesù, san Giovanni Battista, Dio Padre, santa Vergine, Maria Maddalena e altri bellimbusti e smorfiose della stessa pasta. Ma il viaggiatore non era neanche costretto a prendere l'auto per capitare in pieno bigottismo. Alla Nuova Pinacoteca c'erano solo crocifissioni e deposizioni. Per «la spiegazione al popolo e la propaganda», il Reich si era affrettato ad acquistare una dozzina di apostoli. Uno dei pellegrini di Emmaus approfittava dell'au-

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rora per sferrare un calcio al sole appena sorto. Simbolo o no, il fatto esisteva. A un san Francesco nella sua estasi, seguiva un san Sebastiano venuto a farsi trafiggere nella capitale. Il modo in cui la fascia non aderiva ai fianchi e tutto quanto nel suo atteggiamento (non meno dei rigonfiamenti troppo rosei dei giovani hitleriani ingordamente ritratti) provavano che non bastava bruciare i documenti dell'ebreo Hirschfeld per risolvere la questione sessuale. Un certo dottor Erick è libero di scrivere in un saggio sull'educazione artistica: «Non vogliamo più niente di quanto appartiene alla sfera della patologia». Un quadro intitolato Immersione mistica dimostra che questo dottore avrebbe torto a considerare i suoi desideri come realtà: un'infelice, una di quelle che l'ideologia del regime condanna alle tre K [Kuche, Kinder, Kirsche, ndt], cucina casa e chiesa, tende verso il nulla le mani all'inizio della menopausa. Gli occhi strabuzzano. Un'ondata d'isteria, un uovo su un getto d'acqua, salta dalla clavicola al mento. Ed ecco la donna sistemata. Quanto ai bambini, nonostante il delirio razzista non promettono nulla di buono. Il cesello di uno scultore non ha avuto molte possibilità con due cretinetti che si azzuffano. La Vecchia Pinacoteca non è lontana dalla Nuova. Una famiglia del Quattrocento è stata invitata a spostarsi dall 'una all'altra. Cammin facendo, si è fermata in un negozio di abbigliamento. E ora, un piccolo fiore d'idiozia è nelle mani del maschietto, quello tra papà e mamma, e non resta che commuoversi su questo trio di ritardati mentali. La copertina del catalogo e i manifesti della mostra raffigurano una colonna sprovvista di capitello su uno sfondo nero come l'uniforme delle SS. Un casco da legionario mette una nota di colore, tipo scoria intestinale, scelto per la divisa delle SS. È nel passato che il fascismo

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va sempre a cercare gli accessori del suo sinistro cotillon. Ossessione antisemita che riconduce alla vecchia Giudea, delirio spartano, sogno d'imperialismo colonizzatore, gusto della superstizione medievale. Per ravvivare i soggetti più sbiaditi, che mazzi di rifiuti! Un certo quadro rappresenta un contadino ben aggiogato al suo aratro. Relatività del tempo, nonostante l'esilio di Einstein: il più biblico degli arcobaleni incorona i buoi di un re fannullone, uno strumento dell'aratura lacedemone, e un reclutamento per il servizio militare obbligatorio, il tutto trattato secondo la ricetta dell'accademismo più banale. Di fronte a ciò che si tiene e si avvale delle tradizioni per evitare di inventare qualcosa di nuovo e rimane attaccato ai rami secchi, come non ripetere la frase così spesso e mai abbastanza citata di Eraclito: «Non ci si bagna mai due volte di seguito nello stesso fiume». E il fiume non bagna mai di seguito la stessa persona. Ecco perché i bagnanti che si sentono sciogliere e cadono a pezzi cercano le fontane pietrificanti. Fanno in modo che un sasso si trovi al posto del cervello. Vogliono soltanto frontiere divisorie e chiusure stagne. E cosa è più abominevolmente impermeabile di questa sufficienza calcarea che ·funge da meninge alla Francia vittoriosa? La democrazia borghese dal cuore di sasso seppe unire ai suoi vegliardi meglio induriti altri menhir di un'agilità granitica. E questo vecchiume continua a calpestare, sfrondare, tagliare sul vivo l'Europa centrale e orientale, per organizzare la miseria intellettuale. Se l'hitlerismo è il figlio maledetto del Trattato di Versailles, a questo punto nessun padre si considerò responsabile delle malefatte del figlio. Brodetto di peste nera, salsa di terrore bianco o zuppa tricolore in fondo al piatto reazionario, è sempre lo stesso osso di seppia. E se potesse parlare, questo scarto delle

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maree, userebbe lo stesso linguaggio di quella vecchia carcassa di Carlo X che, dal 1789 al 1815, si vantava di non aver imparato niente. E ancora questa mancanza di vergogna nell'imbecillità vale più di tutte le ipocrisie classiche e neoclassiche. Se un secolo e mezzo dopo la morte di André Chénier, Charles Maurras si accanisce a celebrarne il culto, è che l'uomo degli alcioni resta definito in un verso: «Su pensieri nuovi facciamo versi antichi». Immaginate piuttosto un pensiero nuovo. All'indomani dell'assassinio di Marat, il fabbricante d'Oarystis, ex cadetto gentiluomo del reggimento d' Angoumois e addetto d'ambasciata a Londra, l'elegiaco, pubblicava un'ode in onore di Charlotte Corday, come se la megera assassina fosse stata la colomba pugnalata. In questo modo, la giovane Tarantina assumeva l'aspetto di arpia. Lei e la sua oleografia da mare Ionio andavano a raggiungere nel vicolo cieco dei sanguinanti «et ron et ron petit patapon» artistici, Mme Veto nata Maria Antonietta di Asburgo Lorena, il suo Trianon e le sue infedeltà. Un pensiero nuovo non dovrebbe vestirsi all'antica. Al primo slancio fa scoppiare il mitico pallone gonfiato. Altrimenti sarà la solita mascherata della vecchia pera sbafata con l'inganno, della solita vecchia noce d'ipocrisia. Per porre fine al distinguo dei pedanti tra fondo e forma, è tempo di sostituire il famoso detto "Dimmi con chi vai. .. " con quest'altro: "Dimmi come ti comporti e ti dirò che cosa ti porti dentro". Tutti sappiamo che gli ascensori merovingi della Plaine Monceau non sono stati costruiti per far salire i bei fiori dell'audacia. Nei quartieri residenziali, questi immobili, le cui facciate sono abbellite da ghirlande stile Luigi XVI, come una vena in rilievo sulla fronte di un arteriosclerotico, non sono i forzieri dei sogni che possono fare questi piccoli gioielli da azionari di Suez.

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A Monaco, una pubblicità mostruosa obbliga a visitare un certo "Siedlung", colonia di abitazioni a poco prezzo, ai bordi della città. Ora, queste case che si susseguono in serie, sono uniformemente coperte da tetti a punta, monotona sciocchezza tanto meno scusabile di quanto i vecchi pignoni di Rothenburg, per esempio, hanno permesso di comprendere e amare meglio una poetica Germania e il suo modo di esprimersi attraverso l'architettura. Ma a che cosa ·serve, nel 1935, questo granaio dove la dattilografa, l'impiegato d'ufficio, il commesso, il piccolo esercente, non avranno niente da riporre. Tutto questo spazio sprecato quando tante persone non sanno dove rifugiarsi, tutto questo vuoto rivestito d'ardesia, che simbolo! L'idolatria del motivo obsoleto, la venerazione dei cadaveri formali e la rabbia di volerli risuscitare rivelano un malessere innat-o. Non vuole certo il cambiamento del mondo colui che rabbercia le crepe, consolida le facciate in rovina e libera le macerie che si oppongono al libero gioco delle cose e al loro riflesso sull'uomo. Dietro queste barriere che si ripetono per l'eternità, c'è un disordine di cui bisogna prendere coscienza in vista di un ordine nuovo. Se la censura prende di mira l'arte nelle sue espressioni più originali è segno che l'arte e gli artisti hanno ancora e sempre molto da dire, forse troppo, per i reaz10nan.

Discorso ai pittori* ...

Davanti al dipinto più sconvolgente state attenti a non gridare al miracolo della generazione spontanea. Hanno una radice, si aggrappano al quotidiano questi fugaci convolvoli dell'inconscio che coprono di venature il cristallo esoterico e segnano certe strade nel più inestricabile dei labirinti interiori. Possiamo riconoscere l'onnipotenza di questi fili tesi, senza essere tentati di fame delle linee di frontiera. L' analisi ha per troppo tempo, troppo impunemente, scisso e fatto a pezzi. Aveva costruito delle barriere attorno ai più infimi pulviscoli di stato psichico. Ora, come ha dichiarato Hegel, lo spirito non è che un bagaglio di capacità. D'accordo con la psicologia, l'arte, fin dagli inizi del Novecento, ha scoperto, esplorato, conquistato montagne di desideri instabili, i geyser inconfessati, i coralli dell'inconfessabile, le alghe di un tumulto di cui, lungo la sua spiaggia di apparenza, il vagabondo della superficie non avrebbe saputo prevedere gli splendori sottomarini. Da allora, non c'è abisso dove non debba avere il coraggio di buttarsi chi si propone di rappresentare l'uomo. Ma che la zona fino a ieri inaccessibile non pretenda oggi di essere il paradiso ritrovato. Se, in una pagina famosa, Lenin ha detto quale fonte di energia poteva essere il sogno, non ne consegue, anzi avviene il contrario, che * Frammento di una conferenza tenuta il 9 maggio 1935 alla Casa della Cultura [ndt].

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gni di questo Napoleone che indossa i panni del ricattatore. Lui stesso ce ne risparmia la fatica, perché dichiara guerra a tutti quelli che chiama meticci e pseudo-intellettuali. Xenofobia, antisemitismo, conosciamo i ritornelli con cui accompagnano i loro misfatti tutti i portavoce, i portaspada*, i brucialibri, i distruttori di quadri al soldo degli sfruttatori, a partire da quelli che nel 1914 condannarono il cubismo perché crucco, fino al Paul Iribe del 1935, passando per gli antisemiti del 1931 che saccheggiarono una mostra intera, in occasione dell'Age d'Or.**

* Allusione ai Chevaliers Porte-Glaive o Frères de l 'Épée, ordine militare cristiano prossimo ai templari nato in Germania nel XIII secolo, dunque nel senso di pretoriani della Chiesa [ndt]. ** Film di Buiiuel, realizzato nel 1930 con la collaborazione di Salvador Dali [ndt].

Il cuore puro di Crevel* KlausMann

Je suis dégouté de tout: «Sono disgustato di tutto» ... Il mio amico René Crevel scrisse queste terribili parole su un pezzo di carta prima di aprire il becco del gas ( avendo preventivamente ingoiato una buona dose di panodorm). Ciò avvenne nell'estate del 1935, circa tre anni dopo che si era suicidato quell'altro mio fratello spirituale e prediletto compagno: Ricki. Molte cose io dimentico, ma i momenti in cui ho appreso la morte di una persona cara, mi sono sempre presenti. Ogni volta è come se morisse un pezzo di me; ogni volta mi sento più pronto alla morte. Dopo tanti distacchi, il distacco da noi stessi diventa facile. Vorrei andarmene prima che fossero spariti d'attorno a me tutti i volti cari. Amerei lasciare dietro di me qualcuno che forse mi ricordasse. Penso a René. Lo ricordo. In sua memoria scrivo queste righe. Aveva un cuore puro. I suoi occhi erano bellissimi, molto aperti, di un colore stranamente mescolato. Parlava rapidamente con bocca puerilmente molle, un po' troppo carnosa e goffa. Credeva di odiare i suoi genitori, specialmente la sua degna correttissima madre. Egli non era corretto. Odiava tutto ciò che era sciocco e cattivo. Imprecava a ogni ignobiltà, benché sapesse che ignobilità e potere vanno assieme. Ma il potere non gl'imponeva rispetto. Era un ribelle. * Nota di edizione. Questo testo di Klaus Mann è tratto da Der Wendepunkt, 1962 (La svolta, Mondadori, Milano 1988, trad. di Barbara Allason, qui par-

zialmente modificata, pp. 294-296).

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alcuni possano ritirarsi nei propri sogni, come altri in campagna, per costruirsi un rifugio, un alibi. La fiamma di una vita interiore, per quanto intensa, non potrebbe, da sola, né illuminare il mondo né essere sufficiente per forgiare il mondo di cui un minimo di buona fede e d'intelligenza dà l'impressione di volere che stia facendo in modo che lo diventi. Questa fiamma, se si ostina ad autoalimentarsi, ben presto languisce e rimane una virgoletta, un piccolo fuoco di bengala appena in grado di sottolineare le leziosaggini decorative dei giardini in miniatura, i pochi centimetri quadrati di isole, detriti di sughero e di muschio che galleggiano in superficie negli acquari, mentre, in fondo alle acque putride, si estingue la vena trasparente dei pesci sofisticati. E soprattutto, non si deve assolutamente vedere uno scopo, la fine dei fini, il fine del fine, attraverso un'esplorazione che avrebbe permesso qualche scoperta in tal senso, ma aggredita da domande troppo brucianti perché possa ripetere all'infinito l'eterno parola per parola. * Una borghesia che si sente declinare, fondere e cadere a pezzi, si mette sempre alla ricerca di fonti pietrificate. Ora, queste fonti pietrificate non potrebbero trovare scuse in nessuna estetica, fosse pure l'estetica della macchina, così cara ai rinnovatori dell'arte sacra futurista. Degli accademici che portano un cappello d'alluminio valgono come altri accademici con bicorni miserabili. Marinetti e la sua cricca si guarderebbero bene dal dimenticare che, dai Patti Lateranensi, ci si è ripresi bene in Vaticano.

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La tiara marcia, se così si può dire, tenendo per mano la camicia nera. Se il Vaticano ha la sua stazione, ha anche la sua prigione. Fillia, esperto di arte sacra, intitola uno dei suoi capolavori Religione imperiale. E sa di che cosa si tratta, perché ha firmato insieme a Marinetti il manifesto dell'arte sacra che, praticamente, conclude con l'urgenza di ricostruire la verginità della Madonna in cemento armato. Questi signori vogliono che le chiese siano illuminate elettricamente, perché la sua luce bianca e azzurrognola è infinitamente più mistica della luce rossastra e lussuriosa delle candele. Un'opera di Enrico Prampolini si intitola Credere, obbedire, combattere. È destinata a una casa di giovani fascisti, come quell'altra: Libro e facile. Il re d'Italia, così basso che il suo mento striscia sull'asfalto insanguinato dal fascismo dove Mussolini fa battere i suoi tacchi, per compensazione va pazzo per la pittura aerea, essenziale, mistica, ascensionale, simbolica, come dice il capofila dei futuristi. Acquista volentieri quelle tele ornate di città geometriche e stilizzate al punto di sembrare preghiere metalliche, cilindriche, sotto aeroplani santificati, come croci in un'atmosfera del tutto astratta, tanto da sembrare sacra. D'altra parte, Marinetti si rivela benefattore dell'umanità perché, per distrarla dai suoi problemi, si propone di organizzare nuovi piaceri latini, parallelamente ai piaceri africani, dove il corpo di spedizione fascista, in mancanza di colonizzazione, è il grande ordinatore dell'Eritrea. Esempi di nuovi piaceri latini: il trasferimento provocato e calmato (ossia una piccola serata di gala), lo starnuto provocato e calmato (ossia un lieve raffreddore di testa), il massimo della lentezza in bicicletta, sotto il tiro

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di proiettili spiacevoli, come frutta e uova marce, acqua sporca, getti d'acqua di seltz. C'è da scegliere fra una trentina di piaceri latini di questa qualità umana, di questo valore immaginifico, sia per lo spirito che per il corpo. Alla luce di questa lista, pubblicata con la compiacenza di "Le Journal", come potrebbe il pittore non accusare questa società che pretende di assegnare ai pittori il posto che una volta occupavano i buffoni di corte? Certo, la volontà dell'inedito per l'inedito, l'imbroglio dello scandalo puramente formale, un desiderio rabbioso di originalità a tutti i costi, senza fondamento reale, sia ideologico che affettivo, sfociano nelle peggiori scempiaggini. Si tratta di rilancio, non di novità. Nonostante le apparenze contraddittorie, versi nuovi su pensieri antichi, versi antichi su pensieri nuovi, si riducono a una misera identità.

* Sempre e senza che mai la più piccola ombra di eccezione sia venuta a confermare la regola, l'uomo è stato il soggetto di tutti i libri, di tutti i dipinti, di tutte le architet- , ture. Dalla sua condizione e dal suo divenire più in generale dipendono le manifestazioni più particolari dell'arte. Allora il pittore può e deve rifiutarsi di separare l'arte e l'uomo, anche se non è ancora arrivato, come Robert Delaunay, a usare l'arte solamente allo scopo di predisporre case per l'uomo. Quando era di moda il quadro da cavalletto, così ci ha detto, Robert Delaunay pensava solo a grandi opere murali, architettoniche, presentando un progetto collettivo.

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Non ha mai smesso di seguire questa strada. Vuole che l'uomo esca dalla caverna, che non ci siano più porte simili a casseforti, ma che viva in un habitat degno di lui. Questa decisione del pittore rivela una fra le tendenze della pittura, indica una delle sue possibilità, le apre una strada per rinnovarsi, invece di spegnersi e finire nell'angolo di una galleria, sotto la luce dei proiettori, con pretese da nani e sospiri di evanescenza. Ha un bel dire: «Io, Robert Delaunay, io artista, io artigiano, faccio la rivoluzione sui muri». Ma perché la rivoluzione si faccia veramente sui muri, le porte e le finestre, non crede, caro Delaunay, che si debba cominciare altrove? «I sovietici dovunque», dichiarano gli artigiani, gli operai e gli artisti, gli intellettuali, se hanno preso coscienza della sorte inammissibile provocata dal disordine capitalista, e delle possibilità individuali che potrà loro offrire l'armonia collettiva, in un mondo senza classi. Basta una piccola passeggiata per le strade delle grandi città e dei paesi di campagna per constatare che laborghesia, la minoranza dei ricconi, dei proprietari di capanne e tuguri, non ci tengono a dare all'uomo un habitat degno di lui, un habitat che pennetta all'uomo di essere ogni giorno un po' più degno di se stesso. E in questo campo, quando i teorici dell'oscurantismo si dedicano a qualche precauzione oratoria, espressa non a parole, ma in habitat, è sempre la stessa caduta nella regressione medievale, nello stesso pathos, nello stesso pasticcio. Sempre e ovunque la reazione parla lo stesso linguaggio. Così, Paul Iribe, il cui falso Testimone non perde mai l'occasione di attaccare la pittura moderna, scrive: «No-

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nostante la sirena del professor Gropius di Berlino, noi resteremo francesi. Nonostante il suono del piccolo flauto idilliaco di M. Le Corbusier di Ginevra, noi resteremo francesi. La nostra letteratura ha già conosciuto un cittadino di Ginevra. Un secondo ci sembra superfluo». E in nome del lusso che ha tutte le buone ragioni per difenderlo, Paul Iribe esorterà la Francia a non dimenticare che è diventata la patria spirituale di Leonardo da Vinci. È un male innato, sostenuto e perpetuato dall'idolatria del motivo scaduto, la venerazione dei cadaveri formali e il desiderio rabbioso di risuscitarli. Non vuole certo la trasformazione del mondo colui che rabbercia il vecchiume, consolida le facciate sbrecciate, toglie le rovine che si oppongono al libero gioco delle cose e dei lero riflessi sull'uomo. Spetta all'uomo negare ciò che lo nega. «Distruggere e negare sono state le parole d'ordine di quasi tutte le scuole d'avanguardia della borghesia» ha dichiarato il nostro compagno J.-L. Garcin. Io direi piuttosto: distruggere e negare sono state le parole d'ordine di tutte le scuole d'avanguardia, contro la borghesia. Qualche volta è importante saper andare a ritroso, controcorrente, a condizione tuttavia che questo "ritroso" non diventi mai un ritorno al passato, come fu sinistramente il caso per Huysmans. Come per qualsiasi altro movimento dialettico, la storia, l'allegoria del chicco d'orzo, come ce l'ha raccontata Engels, vale anche per il movimento artistico. Fra le opere più importanti, bisogna considerare, come è sempre stato, quelle che, per il fatto stesso che constatavano una decomposizione, facevano ricorso ai responsa-

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bili, non senza spandere sulla decomposizione stessa le fosforescenti promesse di una germinazione futura. Da Griinewald a Dali, dal Cristo putrefatto all'asino putrefatto, nell'eccesso di certe fermentazioni, in fondo ai più venefici splendori, la pittura ha saputo trovare ed esprimere delle verità nuove che non erano soltanto di ordine pittorico. Ma questo apporto di conoscenze, questo aiuto in vista della trasformazione di un mondo non potrebbero bastare affinché l'uomo munito di pennello aspiri al ruolo di mago che, dopo il Romanticismo, l'uomo di penna ha osato pretendere di essere, non senza rendersi ridicolo. Troppi spettacoli sollecitano gli occhi che sanno vedere affinché vogliano ubriacarsi della bellissima opale corrotta, cielo diurno offerto ai fantasmi della notte, a quei mostri che, secondo Goya, genera il sonno della ragione. Al museo Gustave Moreau, davanti a una tela splendida e tuttavia limitata al suo splendore, basandosi, forse, su ricordi intimi di quel pittore che aveva conosciuto personalmente, il custode pronunciò queste parole che valevano tutti i ragionamenti più o meno teorici: «Si tratta di bella pittura, ma è pittura da egoista». Adesso però non è più il tempo della pittura egoista. Il padre del purismo austero, come amava definirsi, Amedée Ozenfant, deciso a non rinnegare i suoi fratelli maggiori, impressionisti, fauves, cubisti, costruttivisti, astrattisti, le cui opere rappresentano ammirevoli inventari dei metodi dell'arte, sempre pronta comunque a tener conto delle esperienze dell'avanguardia, dichiara che la ricerca della purezza fine a se stessa è un lavoro sterile. Ed esclama: «L'ossessione dell'abisso scavato tra il popolo e se stesso finisce per provocare una vertigine paralizzante».

76 I René Crevel

Questo fatto, enunciato sotto una forma antitetica, è sostenuto dalla tesi di André Derain, secondo cui non è compito dell'artista educare il popolo, ma è il popolo che deve educare l'artista. Andando contro tutti gli estetisti, Derain dà ragione al tizio che sta disegnando sui muri con un carboncino, perché considera i graffiti l'origine delle opere più belle e perché ha imparato molto guardando un marinaio che ridipingeva la sua barca, e insiste: «È il popolo che crea le parole e dà a esse spessore, così come è il poeta che gli dà il ritmo».

* Solamente i pittori hanno diritto di dire e, più che dire, di dimostrare nelle opere future come e dove possono cercare e trovare àei "rossi" degni delle loro emozioni*, dei rossi capaci di moltiplicarsi, per dar vita a prismi di colori e di forme inattese. Ma non devono essere rinnegati né gli strumenti di ricerca né gli apporti culturali che essi hanno permesso. Non solo: è grazie al collage che Max Emst ha reso questa atmosfera, che è l'atmosfera stessa che P·aul Eluard ha definito evidenza poetica. Ma ancora: grazie al collage, o piuttosto grazie al fotomontaggio, John Heartfield, come testimonia la sua mostra, ha trattato, con una violenza esatta e un'immaginazione perentoria, i soggetti che l'attualità, l'urgenza della lotta, il bisogno di sapere, l'indignazione incontenibile, le necessità rivoluzionarie possono imporre all'artista, per il maggior profitto dell'arte. D'altra parte, la storia ci dimostra che i quadri e i disegni con un preciso significato politico, le opere rivoluzio* Vedi la dichiarazione di Signac. "Commune", 21, p. 956 [ndt].

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narie sia per il soggetto che per la tecnica, come furono quelle di Goya e di Daumier, non hanno solamente descritto la loro epoca, per condannarla per la sua particolare atrocità, ma hanno permesso agli artisti futuri di trovare nuove strade. Ci sono I disastri della guerra e La Giornata dell '8 maggi,o 1808 di Goya, Rue Transnonain di Daumier, ma ci sono anche i famosi neri di Goya che Manet certo non ha ignorato, e ci sono nelle sculture di Daumier deformazioni di cui l'espressionismo si guardò bene dall'ammettere la presenza. Recentemente, nella prigione di Madrid, dove sono andato a trovare un compagno che, dietro le sbarre, non disdegnava di parlare di pittura, costatava con gioia: «Se Goya fosse vivo, sarebbe con noi». Gli oscurantisti che sarebbero contro di lui, sappiamo a quale cricca non hanno cessato di appartenere. A Parigi, sui pannelli elettorali del quartiere Notre-Dame-des-Champs, è steso un manifesto intitolato Alle soglie delle lotte future e redatto in un linguaggio scurrile da guardiano della scrofa delle fondazioni Marcelle-Jean Chiappe.* L'ex Cesare della Tour Pointue** si vede già presidente del Consiglio municipale e senz'altro Ministro degli Interni, con un bel paio di forbici da censura nelle sue graziose mani d'assassino. Non abbiamo certo voglia di andare a rovistare nei so,. Jean Chiappe, prefetto di Polizia di Parigi e futuro alto-commissario di Vichy, viene definito così da Crevel nel suo ultimo romanzo, incompiuto, Le roman cassé. Al centro l'assassinio di un finanziere ebreo, ucciso da un suo avversario che egli ha rovinato con una speculazione di borsa, Crevel getta uno sguardo sull'oscena «grande marmellata contemporanea» che prefigura una prossima apocalisse del mondo ormai corrotto dalla borghesia [ndt]. ** Nell'antico francese, l'argot, la Tour pointue è la prefettura di polizia di Parigi [ndt].

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Il ribelle trovò il suo maestro: André Breton, capo della conventicola surrealista. Il surrealismo non rese felice il fiero e sensibile ribelle; la confusa dottrina del maestro Ereton non poteva appagarlo per sempre. Durante gli ultimi suoi anni il mio amico era tanto vicino ai surrealisti quanto ai comunisti; per dir meglio egli era tra i due campi che si combattevano accanitamente. Alcuni dei sostenitori di Breton e amici di Crevel - specialmente Louis Aragon e Paul Éluard- eran già passati allo stalinismo. Il leale René esitava ancora. In ogni caso, nel 1935 era già pervenuto al punto di dare il suo nome e la sua collaborazione a organizzazioni dirette da comunisti. Il Congresso degli scrittori "Contro la guerra e il fascismo", che nell'estate di quel 1935 tenne le sue adunanze a Parigi, era senz'ombra di dubbio ispirato dal Partito Comunista, benché anche parecchi liberali vi partecipassero. René non era soltanto iscritto come oratore, ma sedeva anche nel comitato organizzatore con Malraux, Gide e altri che allora erano considerate le colonne del comunismo francese. Non così André Breton che si era messo contra gli scrittori del Congresso, sebbene non fosse proprio pro guerra e fascismo. Ma non era poi così pacifista da sottrarsi a una buona baruffa! Si arrivò quindi a una drammatica collisione tra il capo dei surrealisti e un rappresentante del Cremlino, il compagno Ilja Ehrenburg, da cui entrambi uscirono perdendo sangue dal naso; tutta Parigi rise di quella farsa. Ma René Crevel non rise. René, il puro folle, il Parsifal militante prese la farsa sul serio. Tutto egli prendeva sul serio, la poesia e la rivoluzione, il surrealismo e lo stalinismo, Breton ed Ehrenburg. Egli non voleva tradire né la poesia né la rivoluzione. Si suicidò perché André Breton e Ilja Ehrenburg si erano accapigliati? Il mio amico si suicidò perché era malato; si

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suicidò perché temeva la pazzia; si suicidò perché ritenne il mondo impazzito. Ci si chiede: perché mai uno si suicida? Perché non si vuol più vivere la prossima mezz'ora, i prossimi cinque minuti, perché non ci si sente più di viverli. Di colpo ci si trova al punto morto ... al punto di morte. Si è raggiunto il confine ... non un passo in più! Dov'è la chiavetta del gas? Qua il panodormt È amaro? Che importa? Anche la vita non fu dolce! Je suis dégouté de tout. Come fosse ieri, e non posso dimenticarlo. Per partecipare al Congresso dei letterati antifascisti, da Zurigo dove mi trovavo, mi recai a Par.igi assieme a Leonhard Frank. Era una notte afosa, Landshoff che era giunto da Amsterdam, ci aspettava alla stazione. A quell'ora René era già morto. Landshoff sapeva che René era morto, ma non me lo disse: forse apparivo molto stanco del viaggio ed egli volle risparmiarmi il colpo sino al mattino seguente. Presi alloggio al Palace sui Campi Elisi per compiacere Frank che amava il lusso; mentre io preferisco di gran lunga e mi trovo più a casa mia nei piccoli alberghi della riva sinistra. Al momento di separarci Landshoff mi disse: «Domattina non uscire prima che io mi sia fatto vivo!». Dormii male nella camera sotto il tetto che mi avevano assegnato, faceva un caldo soffocante. Il mattino mentre nel bar facevo colazione con Franlc suonò il telefono: mi parlava uno degli organizzatori del Congresso, Johann R. Becher. Discutemmo del programma delle prossime sedute, del discorso che avrei tenuto. Alla fine Becher disse: «Atroce, no, la faccenda del povero Crevel?». Fu così che appresi la notizia. Credo che impallidii molto. «Che c'è di nuovo?» mi domandò Franlc con la sua profonda, vibrante voce di violoncello. Il suo gelido sguardo azzurro esigeva una risposta.

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Gli raccontai tutto. Mi ascoltò col suo sorriso distratto e lontano, e però pieno di benevolenza e comprensione. (Molti anni dopo in una circostanza affine mi scrisse: «È cosa che si capisce. Però posso dire soltanto: la vita non vale la pena che uno se la tolga.») Lo stesso giorno ebbero inizio le sedute del Congresso. Mio zio Heinrich Mann parlò contro la guerra e il fascismo. Il mio grande amico André Gide parlò contro la guerra e il fascismo. L'intelligentissimo Huxley, il simpatico E.M. Forster, l'efficace André Malraux: tutti parlarono contro la guerra e il fascismo. E René era morto. Tra l'uno e l'altro dei discorsi ebbi modo di parlare con Mopsa Stemheim; era stata amica sua, era la mia amica. Vederla mi fece bene. Piangemmo insieme. Piangendo mancammo il discorso del compagno Cachin: contro la guerra e il fascismo. «Lui era il migliore» continuava a ripetere Mopsa. «Era il migliore di tutti». Il dolore e il calore fecero colare il ritocco nero delle sue ciglia. Il rivoletto nero le correva lungo le guance. Pareva che piangesse lacrime nere sul caro amico defunto. «Era il migliore» ripigliava ostinatamente. «E val la·pena di continuare a combattere quando i migliori se ne vannò? Val la pena? domando!». «Finché noi siamo qui ... » rispondevo. «Voglio dire: finché lui c'era, ha scelto di comportarsi da coraggioso». Qualcuno mi fece cenno dalla sala del convegno. Era il mio turno e mi aspettavano sulla tribuna degli oratori. Asciugai a Mopsa le lacrime che le rigavano il viso. La baciai. Poi seguii sul podio il signore dal bracciale rosso. Parlai contro la guerra e contro il fascismo.

La morte di René Crevel* Salvador Da/i

La morte di René Crevel è un'altra storia. Per cominciare dall'inizio, devo raccontare la storia della AEAR, ovvero, "Associazione degli scrittori e artisti rivoluzionari", sequenza di parole cui va il grande merito di non significare quasi niente. I surrealisti, animati allora da una grande generosità idealista e attirati dal carattere equivoco del titolo, si erano iscritti in blocco e costituivano la maggioranza di questa associazione di mediocri burocrati. Come per tutte le associazioni di questo tipo, destinate a cadere nel vuoto in preda a una nullità congenita, la prima pensata del1' AEAR fu quella di preparare un Grande Congresso Internazionale. Per quanto lo scopo di questo congresso fosse facile da intuire, fui l'unico a denunciarlo in anticipo: si trattava anzitutto di liquidare tutti gli artisti e gli scrittori che dessero prova di talento e tutti quelli che avrebbero potuto possedere e sostenere la più piccola idea davvero sovversiva e dunque rivoluzionaria. I congressi sono strani mostri, circondati da corridoi nei quali corrono esseri psicologicamente adeguati, ovvero persone corrive. Ora, Breton sarà tutto quello che volete, ma prima di tutto è un uomo integro e rigido come una Croce di Sant' Andrea. In ogni corridoio, soprattutto quelli di un congresso, egli si tra• Nota di edizione. Questo testo di Salvador Dali è tratto da Diario de un genio, )952-1964), ora in Obra Completa. Textos autobiograflcos, a cura di Félis Fa1és, ed. Destino, Barcellona 2003, volume I, pp. 1010-1017. lJna versione più ampia e con alcune modifiche, venne pubblicata come prefa~ione all'edizione del 1974 de La mort difficile di René Crevel (edito in italia10 da Einaudi nel 1992). La traduzione dallo spagnolo è di Caterina Cecchetti.

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sforma subito nel più ingombrante e meno assimilabile dei ! "Corpi estranei". Non può né correre, né attaccarsi al muro. Questa fu una delle ragioni per cui la crociata surrealista non potè nemmeno varcare la soglia del congresso dell 'As- ' sociazione degli scrittori e artisti rivoluzionari, come avevo previsto senza tanti sforzi celebrali. L'unico membro del gruppo che credeva nell'efficacia dell'intervento surrealista all'interno del congresso internazionale della AEAR era René Crevel. Particolare straordinario e pieno di significato, egli non aveva voluto chiamarsi Pablo o Andrés come tutti gli altri. Così come in catalano Gaudi e Dali significano rispettivamente "godere" e "desiderare", Crevel si chiamava René, che potrebbe anche venire dal participio passato del verbo renaftre, ovvero, rinascere. Allo stesso modo, conservò il cognome Crevel che evocava l'atto di crever, ossia crepare, o come direbbero i filosofi un po' filologi "lo slancio vitale" di crepare. René fu l'unico a credere alle possibilità dellaAEAR, ne fece la sua pista di decollo e ne divenne l'avvocato più appassionato. Aveva la morfologia di un embrione, o con più esattezza, la morfologia di un seme di felce nel momento in cui sboccia e si appresta a sviluppare le spirali dei suoi viticci nascenti. Avrete sicuramente già visto il suo volto accigliato da un•· angelo cattivo, sordo e beethoveniano come le volute di una felce. Se ancora non l'avete fatto, fatelo ora con attenzione e avrete un'idea precisa di quello che può sembrare il volto prominente da bambino ritardato di René Crevel. Egli rappresentava allora per me il simbolo più vivo della embriologia, come oggi si è trasformato ai miei occhi nel più perfetto esempio di quella nuova scienza denominata feniciologia, di cui parlerò a tutti voi che avete la fortuna di leggermi. È probabile che, sfortunatamente, non ne sappiate ancora niente. La feniciologia insegna a noi viventi le

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meravigliose opportunità di cui disponiamo per renderci immortali durante la nostra vita terrena, e questo grazie alle possibilità segrete che abbiamo di ritrovare il nostro stato embrionale e poter così rinascere veramente all'infinito dalle nostre ceneri, come la Fenice, l'uccello mitico il cui nome è servito a battezzare questa nuova scienza che si manifesta come una delle più singolari della nostra epoca. Nessuno ha mai avuto tante occasioni di "crepare" e così tante occasioni di "rinascere" come il nostro René Crevel. Trascorse la sua esistenza entrando e uscendo continuamente da case di cura. Entrava distrutto per uscirne rinato, fiorente, nuovo, splendente ed euforico come un bimbo. Ma durava poco. La frenesia dell'autodistruzione presto s'impossessava ancora di lui e ricominciava ad angustiarsi, fumava oppio, si dibatteva fra irrisolvibili problemi ideologici, morali, estetici e sentimentali, abbandonandosi senza controllo all'insonnia e alle lacrime fino a creparne. Allora, si contemplava come un ossesso in tutti gli specchi per maniaci-compulsivi di quella Parigi deprimente e proustiana di allora, ripetendosi ogni volta: «Ho l'aria di un derelitto, la faccia di un moribondo», fintantoché, stremato, confessò a pochi intimi: «Preferisco crepare una volta per tutte che continuare a vivere così anche soltanto un altro giorno». Lo spedivano in una casa di cura perché si disintossicasse e dopo mesi di cure assidue René rinasceva. Lo vedevamo risorgere a Parigi, traboccare di vitalità come un bambino felice, vestito come un super gigolò, sfolgorante, super ondulato, ridondante di un ottimismo che lo portava a generosità rivoluzionarie, ma poi, poco alla volta, fatalmente e inevitabilmente, ricominciava a fumare, torturarsi, contraendosi e arricciandosi come una voluta di felce, senza vita! René passò i suoi periodi di più grande euforia e di rinascita a Port Lligat, luogo degno di Omero, che appartiene

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solo a me e a Gala. Furono i mesi migliori della sua vita, come scrisse nelle sue lettere. Il mio ascetismo lo impressionava e per tutto il tempo che passò con noi a Port Lligat, visse come un anacoreta, imitandomi. Si svegliava prima di me, anche prima che sorgesse il sole, e passava tutto il santo giorno nudo nell'oliveto, sotto il cielo più intenso e oltremarino di tutto il Mediterraneo, il più meridionalmente estremista di una Spagna già estremista fino alla morte. Voleva più bene a me che a chiunque altro, ma comunque preferiva Gala, che, come me, chiamava l'oliva, ripetendo che se non avesse trovato una Gala tutta per sé, un'oliva, la sua vita non poteva che finire in modo tragico. Fu a Port Lligat che scrisse Les pieds dans le plat, Dali et l 'anti-obscurantisme e La Clavecin de Diderot. Negli ultimi tempi Gala lo ricorda spesso e paragonandolo a certi nostri giovani di oggi, pensierosa esclama: «Non ne nascono più oggi di ragazzi come lui». C'era una volta una cosa chiamataAEAR. Crevel iniziava a mostrare un aspetto preoccupante. Credeva che non esistesse niente di meglio del congresso di scrittori e artisti rivoluzionari per abbandonarsi agli eccessi afrodisiaci ed estenuanti dei tormenti e delle discussioni ideologiche. Da surrealista com'era, credette sinceramente che, senza fare · concessioni, potessimo marciare gomito a gomito con i comunisti. Ciò nonostante, già prima dell'apertura del congresso, si scatenarono i più deplorevoli scontri e gli intrighi più bassi per assicurarsi a priori la liquidazione pura e semplice della piattaforma ideologica sulla quale si fondava il nostro gruppo. Crevel andava e veniva tra comunisti e surrealisti, proponendo le riconciliazioni più disperate ed este- , nuanti, crepando e rinascendo. Ogni notte dava luce a un dramma e a una speranza. Il dramma più terribile fu il suo scontro inevitabile con Breton. Crevel, con le lacrime agli

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)echi come un bambinetto, venne a raccontarmelo. Io non lo incoraggiai sulla strada del comunismo, anzi tutto il con:rario. Mi sforzai invece, seguendo la mia tattica abituale :laliniana, di provocare in ogni situazione il massimo possi,ile di antagonismi insolubili, al fine di estrarre da tutte iueste opportunità il gioco più irrazionale. Fu in quel monento che la mia ossessione "Guglielmo Teli - pianoforte ~enin" lasciò il posto a quella del "gran-paranoico-comme:tibile", ovvero quella di Adolf Hitler. Davanti ai singhioz:i di Crevel, risposi che l'unica conclusione pratica e possi>ile per il congresso della AEAR sarebbe stata votare una nozione che proclamasse la visione e il posteriore goffo di f itler dotati di un lirismo poetico irresistibile, che non do'eva impedirci di lottare contro di lui sul piano politico, an:i il contrario. Allo stesso tempo, rendevo Crevel partecipe lei miei dubbi riguardo al tema del canone di Policleto e fi1ivo affermando che ero quasi certo che Policleto fosse un ascista. Come ebbi prova quotidianamente durante la sua ,ermanenza a Port Lligat, Crevel era, fra tutti i miei amici, uello che era maggiormente convinto che al fondo delle 1ie truculente e tragiche stramberie risiedesse sempre, co1e era solito dire Raimu, un fondo di verità. Passò una setmana e sentii di essere in preda a un forte senso di colpa. >ovevo chiamare Crevel, perché avrebbe potuto pensare h.e mi mostravo solidale con il comportamento di Breton, ~bbene questo fosse ben lontano dal condividere il mio lismo hitleriano, così come lo stesso congresso. Durante uella settimana di attesa, gli intrighi di corridoio al conresso sfociarono nella palese impossibilità per Breton an1e solo di leggere il documento del gruppo surrealista. aul Éluard fu incaricato al suo posto di presentarne una ersione molto edulcorata e ridotta. Dopo quelle giornate, revel si trovò lacerato fra i doveri di partito e le esigenze

88 / Salvador Dali

del gruppo surrealista. Quando, alla fine, mi decisi a chiamarlo, una voce strana mi rispose dall'altro capo del filo con olimpico sprezzo: «Se prova un forte sentimento di amicizia per Crevel - mi disse - prenda un taxi e venga all 'istante. Sta per morire. Ha voluto suicidarsi». Saltai su un taxi, ma arrivato nella strada in cui viveva, rimasi colpito dalla folla ferma davanti a casa sua. Davanti all'abitazione c'era un'auto dei pompieri. Non afferrai subito il rapporto fra il suicidio e i pompieri, dando per scontato, attraverso un'associazione di idee tipicamente daliniana, che un incendio e un suicidio fossero accaduti nella stessa casa. Entrai, la stanza di Crevel era piena di pompieri. Con l'ingordigia di un neonato, René aspirava ossigeno. Non ho mai visto nessuno così attaccato alla vita. Dopo aver cercato di crepare con il gas di Parigi, provava a rinascere con l'ossigeno-di Port Lligat. Prima di suicidarsi, si era legato al polso destro un cartoncino sul quale aveva scritto in chiare lettere maiuscole: RENÉ CREVEL. Siccome a quel tempo non sapevo ancora usare molto bene il telefono, corsi a casa dei visconti di N oailles, grandi amici di Crevel, dove annunciai, con il maggior tatto possibile e nel modo più adeguato, la notizia che avrebbe commosso Parigi e che io per primo avevo saputo. Nel salone risplendente di bronzi dorati, sullo sfondo scuro e olivastro dei Goya, MarieLaure pronunciò su Crevel parole eccessivamente ispirate che furono subito dimenticate. Jean-Michel Franck, che si sarebbe suicidato poco tempo dopo, fu il più colpito da questa morte ed ebbe varie crisi nervose nei giorni successivi. La sera della morte di Crevel, andammo nei boulevards e, per volere del caso, entrammo a vedere un film su Frankenstein. Come tutti i film che vedo, alla luce del mio sistema critico-paranoico, questo film illustrava nei minimi dettagli necrofili l'ossessione della morte di Crevel. Franken-

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tein gli assomigliava anche fisicamente. D'altra parte, 'intero copione del film si basava sull'idea di morire eritascere, come un anticipato assaggio pseudoscientifico lella nostra nuova feniciologia. Le realtà meccaniche della guerra avrebbero spazzato ria i tormenti ideologici d'ogni genere. Crevel era uno di 1uei viticci di felce che non sanno attorcigliarsi fino al borio dei vortici chiari, tormentati e leonardeschi dei vivai ileologici. Dopo Crevel, nessuno ha più parlato seriamente lel materialismo dialettico, né del materialismo meccanici:ta, niente di niente. Ma Dali ora vi annuncia che molto >resto, quando lo spirito avrà ritrovato i suoi ornamenti più :quisiti, le parole "monarchia, misticismo, morfologia, fe1iciologia nucleare", ricominceranno ad agitare il mondo. René Crevel, René si crevellerà, sono io che te lo grido: inasci Crevel. E tu, alla maneira spagnola e in corretto ca:tigliano, tu mi rispondi: «Presente!». Ci fu una volta una cosa chiamata AEAR.

Indice

5

Il panico e l'estasi, André Ba/anchine

i

Nota bibliografica SCRITTI D'ARTE

5

Dali o l'anti-oscurantismo

3

Nuove osservazioni su Dali e l'oscurantismo

)

Paul Klee

)

L'arte all'ombra della casa nera

)

Discorso ai pittori

)

Il cuore puro di Crevel, Klaus Mann

3

La morte di René Crevel, Salvador Da/i