Prime alla Scala
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LEONARDO

Il precoce amore per la musica, nato forse, nell’infanzia, a una matinée domenicale genovese in cui si rappresentava la Sonnambula, condusse il giovane Montale, dotato di una buona voce da baritono, a prendere lezioni di canto, interrotte però dopo appena un anno (nel 1916) dalla morte di Ernesto Sivori, l'anziano maestro. Se il debutto non ebbe mai luogo, e la carriera di cantante lirico divenne solo una delle «particelle del possibile scartate nel gioco delle combinazioni» (per usare una suggestiva espressione di Italo Calvino), rimase però vivissimo il rapporto con il melodramma, di cui Montale è sempre stato spettatore competente

e appassio-

nato. Nient’affatto casuale ed «estravagante» la sua attività di critico musicale — esercitata presso il Corriere d'Informazione dal 1954 al 1967 — che ebbe un curioso prologo nel 1916, con una recensione al Mameli di Leoncavallo scritta per conto di Vittorio Guerriero, con la firma del quale infatti apparve sul Piccolo di Genova. Il Montale critico di musica, cultore attento, oltre e più che dei capolavori «consacrati», delle opere minori e quasi dimenticate, amava certo quello che il Montale poeta argutamente defini-

va «l’orrido / repertorio operistico con qualche preferenza / per il peggiore» (Satura, Due prose veneziane, I, 7-9), ma seguiva anche con vivissimo interesse i festival veneziani di musica contemporanea. Il titolo del volume si riferisce infatti solo a una sezione, la più cospicua, alla quale se ne aggiungono altre quattro, comprendenti rispettivamente pagine più generali sulla «musica», alcuni «ritratti» di cantanti e direttori d'orchestra, le cronache dei festival musicali, soprattutto di Spoleto e Venezia.

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Eugenio Montale PRIME ALLA SCALA

A cura di Gianfranca Lavezzi

LEONARDO

Dello stesso autore nelle edizioni Leonardo

Farfalla di Dinard

© 1981 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione Leonardo febbraio 1995 ISBN 88-04-39422-6

Avvertenza

Questo volume si propone di offrire un ampio panorama antologico dell’attività montaliana nell’ambito della critica musicale. A una prima sezione di pagine di riflessione su aspetti teorici o problemi generali della musica seguono (nella seconda e terza) una serie variata di «ritratti» (Stravinskij, Gavazzeni, Titta Ruffo, Toscanini, la Callas) e le cronache dai festival di Spoleto e di Venezia. La quarta sezione, eponima e

particolarmente cospicua, raccoglie le recensioni delle «prime» scaligere e alla Piccola Scala, mentre a chiusura del libro si sono riunite le cronache scritte nell’occasione di altre rappresentazioni in teatri diversi: fra queste il curioso esordio di Montale come critico musicale, datato 1916.

Accanto al titolo di ogni articolo si è indicato il luogo di pubblicazione in giornale (o rivista), seguito dal numero corrispondente della Bibliografia montaliana di Laura Barile (Mondadori, Milano 1977, Sezione C, «Collaborazioni a

giornali e periodici»). Le sigle C.d.I. e C.d.S. stanno per Corriere d'Informazione e Corriere della Sera. L’antologia è vicina alla completezza nella prima sezione, da legare idealmente alle non poche pagine «sulla musica» di Auto da fé; minime le esclusioni anche nella sezione dei «Ritratti», che il lettore potrà incrementare con i sintetici ma incisivi «profili» estrapolabili dagli altri scritti. I maggiori problemi inerenti alla scelta sono emersi per la quarta sezione, poiché in più di un decennio di critica «militante» Montale ha recensito un numero molto elevato di opere, su alcune del-

le quali è tornato più volte a distanza di tempo: in tali frangenti, l’articolo cronologicamente primo, quasi sempre il più ampio, è stato in genere preferito agli altri, con la possibilità però di infrangere questa norma ogni qual volta un intervento seriore risultasse di completezza o interesse maggiore. È

parso comunque utile informare il lettore della eventuale presenza di altre recensioni relative alla medesima opera attraverso il rimando, sottoscritto al titolo, ai corrispondenti nu-

meri della Bibliografia montaliana già citata. Minimi ritocchi sono stati apportati dall’Autore ai singoli «pezzi», che si è voluto pubblicare integralmente, mantenendo anche (fatte pochissime eccezioni, segnate da tre punti di omissione) quelle parti finali più specificamente cronachistiche (applausi e chiamate degli interpreti alla ribalta) che possono risultare ripetitive, ma non necessariamente. Questa decisione consentiva anche di non alterare la natura di pagine che sono nate — e tali vogliono rimanere —- come recensioni scritte per un quotidiano: condizionate dunque da fattori contingenti, non ultimi il poco tempo a disposizione del critico-

cronista tra la fine dello spettacolo e la messa in macchina del giornale, e lo spazio più o meno limitato a sua disposizione. Del resto, i luoghi più occasionali e «di mestiere» dei singoli articoli possono anche essere funzionali, per contrasto alla mise en relief di alcune immagini arditamente metaforiche o di grande suggestione. Oltre che alla cortesia dell’Autore, sono debitrice ai consigli di Dante Isella e di Marco Forti, ai quali desidero qui esprimere un ringraziamento particolare. La mia riconoscenza va anche a Giulio Nascimbeni, che ha favorito il reperimento di parte del materiale, e a Gianandrea Gavazzeni al quale devo molte informazioni utili. Gianfranca Lavezzi

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Paradosso della cattiva musica La Rassegna d’Italia, a. I, n. 11, Milano, novembre 1946, pp. 5761 (n. 200)

a Massimo Mila

Il primo teatro in cui io abbia ascoltato a lungo e col dovuto profitto una sufficiente quantità di cattiva musica non era un teatro ma un capannone stile liberty provveduto di un piccolo palcoscenico: il caffè ristorante del Lido d’Albaro, ai tempi della mia prima gioventù. Al tavolino, succhiando la cannuccia di una bibita, mentre lo sguardo correva sulle onde giallognole oltre le vetrate e seguiva il fumo dei piroscafi al largo, si potevano tener d’occhio, s’intende con un occhio solo, gli allegri sberleffi della Mascotte o della Figlia di Madama Angot, abbandonarsi alla disperazione di Loris Ipanof o alle prestigiose contraffazioni musicali di Leopoldo Fregoli. L’ambiente era adatto, il pubblico rozzo, conciliante e since-

ro, la natura che spaziava intorno e il grande viale che percorrevo nel viaggio di andata e ritorno (la passeggiata a mare della Marinetta), tutto formava la cornice adatta a una buona (o meglio cattiva) educazione musicale. La cattiva musica, infatti, a differenza della buona, non necessita di ottimi interpreti ma richiede un concorso di circostanze favorevoli che a

volte solo il caso mette insieme. Un esempio può bastare per tutti. Una sera, da Radio Amburgo, udii una voce profonda intonare un bellissimo Lied che mi pareva di conoscere e non sapevo identificare. Ci pensai su a lungo, poi di colpo scoper11

si l’incredibile verità. Si trattava nientedimeno che di Ponchielli, si trattava del canto del «feral marito» Alvise Badoe-

ro, eseguito in tedesco e in un tempo sbagliato, lontanissimo dalle indicazioni del metronomo. E l’effetto era irresistibile. Potrei continuare a lungo, potrei insistere su certa musica

scritta o trascritta per banda, o almeno su quella che soltanto in una veste e in una sede più proprie rivela pienamente la sua efficacia; ma forse i lettori hanno già capito dove voglio parare. È triste confessarlo, e tuttavia penso che sia un dovere verso i molti che la pensano come me e che non osano esprimersi credendosi negati alla sensibilità dei suoni: amo la cattiva musica, la musica in cui il destino non batte alle porte e in cui i temi conduttori sono ripetuti trenta o quaranta vol-

te, certo per una immotivata presunzione della nostra sordità; amo la cattiva musica, o meglio la musica che la frateria

non sempre disinteressata degli specialisti o dei musicanti di professione proclama pubblicamente tale. Dico pubblicamente perché per i membri della gilda musicale, come per i gesuiti e per i grandi politici, esistono due verità: una privata e strettamente confidenziale e un’altra per il grosso pubblico che si vuole educare al sublime e al quale soprattutto s’intende propinare sotto l’etichetta dell’eterno e del classico ogni sorta di esperienze nate in odio alle Muse. I musicisti intelligenti (ce n’è) sanno benissimo che una parte della cattiva musica di ieri, di quella ch’è rimasta in giro dopo l’energica stacciatura del tempo, non è affatto cattiva o trascurabile o priva di significato; lo sanno, ma si guardano bene dal dirlo nei loro congressi e tanto meno lo scrivono nelle loro riviste; lo dicono solo agli amici profani, in rari momenti di sincerità e dopo essersi guardati sospettosamente intorno, per paura che qualcuno stia ad ascoltarli. Amano anch'essi, gl’infelici!, la cattiva musica, ma la carriera, la pro-

fessione, la stessa resistenza ch’essi trovano in sé, impedisce loro di proclamare questa verità. E finiscono così per negare l’evidenza che si impone alla felice ignoranza dei non iniziati: che in nessun’altra arte, come oggi in quella dei suoni, il dono, la natura, la scintilla che non si acquista con lo studio sono sacrificati alle ricerche della tecnica, alle trouvailles del mestiere e del laboratorio, alla parola d’ordine delle conventicole. 12

La buona musica e la cattiva hanno del resto caratteri assai diversi che finora non sono stati oggetto di attento studio. La musica buona o eletta ha bisogno di teatri,.di auditorii, di

golfi mistici o di sale da concerto in cui i misteri dell’acustica non siano più tali; ha bisogno di interpreti d’eccezione, possibilmente stranieri, meglio se tedeschi; ha bisogno di guide tematiche, libretti-programma, prefazioni e introduzioni da scodellarsi volta per volta; ha bisogno di abbonati, di clienti e di patiti; ha bisogno insomma di una straordinaria montatura culturale, ed è naturalmente materia di mercato, merce che

dà da vivere a tutto un mondo che effettivamente non potrebbe vivere in un’altra maniera. Soprattutto essa ha bisogno di organizzazione e di ritualità. Ci si reca al concerto del divo o all’operina d’avanguardia o alla salmodia per voce recitante tam-tam e clarinetto come si va in chiesa, e anzi con

costrizioni più rigide, perché in chiesa, la domenica, le messe si dicono ogni mezz’ora; si va insomma a sentire la buona musica in condizioni d’animo tali che escludono a priori la sorpresa, l’imprevisto, il caso, che escludono, cioè, quella

condizione di passività ricettiva e gratuita che meglio permette di cogliere il segreto della creazione artistica. Un pezzo come la Primavera di Grieg sarebbe forse intollerabile in una sala da concerto, né io ricordo di avervelo mai sentito eseguire. Ma fate ch’esso vi giunga dalla casa di faccia una mattina d’inverno, attraverso gl’incerti annaspamenti di un oscuro dilettante, e vi sentirete veramente sgelare il cuore, come avvie-

ne nel Pan di Hamsun e come non avviene, oh no, nelle esibi-

zioni dei più illustri concertisti. Il vantaggio della cattiva musica è infatti ch’essa (piacendo a Dio) ci soccorre a tutte le ore del giorno e della notte. Si giova anch’essa di un ambiente adatto e di un pubblico educato (in questo caso ineducato), ma il suo ambiente non è

mai prevedibile né calcolabile, potendo essere il teatro di provincia, il caffè, il baraccone, la nostra stessa stanza invasa dalle onde hertziane o dal canto notturno di un ubriaco. Inoltre la cattiva musica non è soggetta a canoni interpretativi violando i quali si possa passare per grandi restauratori e scopritori. Accetta, sollecita forse, tutti gli arbitrii, ma chi commette tali arbitrii non è portato in trionfo come accadde a quel giovane direttore contemporaneo che, «avendo sco13

perto Verdi» (sic) e avendolo eseguito assai peggio degli oscuri maestri... omissis omissis, ha fatto versare fiumi d’inchiostro e ha profondamente commosso i nostri critici. Povero Verdi, tenuto in quarantena dagl’intellettuali fino a venti anni fa malgrado l’entusiasmo popolare che lo ha sempre accompagnato, promosso poi alla schiera dei musicisti tollerabili per l’opera sua più eclettica, il Falstaff, sopportato anche in qualche spartito che come il Macbeth ha avuto il battesimo del festival di Glyndebourne; povero rauco cigno bussetano messo prudentemente da parte, oggi, come musicista sw!

generis, quasi che tale non fosse l’irriducibile situazione dei più grandi artisti! Mi dicono che il recente astro inglese Benjamin Britten abbia fatto tanto di cappello alla Traviata; ma chi persuaderà certi amici che so io, convinti che stile, stilizzazione e noia siano altrettante equivalenze algebriche? Chi li convincerà che la musica dei concerti contribuisce in parte minima, quasi infima, all’educazione dell’uomo d’oggi — in confronto all’ «altra musica», alla musica dei boschi e del mare e della vita, alla quale appartengono a buon diritto anche i più alti vertici di Gluck e Musorgskij, di Wagner, di Ver-

di e del migliore Debussy? Mi accorgo che ho lasciato nella penna le cime maggiori (Bach, Mozart) e che ho parlato soprattutto di musica teatrale o impura, perché è quella di cui ho più diretta esperienza, quella che non può morire senza trascinare con sé la musica pura, a lei legata da molti fili; ma ritengo che volendo si potrebbe allargare il discorso, si potrebbe postulare l’esistenza di una musica senza aggettivi che comprenderebbe tanto F/ relicario e Stormy Weather quanto certi angosciosi frammenti di Sch6nberg che Roman Vlad mi ha fatto sentire recentemente a Roma e che per essere più poesia che musica sono immediatamente accessibili a chi senza essere musicista conosca i caratteri e le forme della lirica che va da Rimbaud a Trakl. E forse non farei che contrapporre la musica geniale alla musica di applicazione, Padilla a Respighi, la Chovans$Cina al Faust di Busoni, e di fronte a questa lapalissiana verità mi si chiuderebbe la bocca, accusandomi di incompetenza, confusione di «generi», sensibilismo dilettantesco, antistorico ecc.; salvo poi rico-

noscere tra loro, a porte chiuse, i cari professionisti, che nello scorso secolo pianismo da concerto e sinfonismo da grande 14

orchestra hanno immiserito e soffocato la musica facendone un’arte che si può imparare nei conservatorii e che più tardi la reazione a questo andazzo (piccoli complessi orchestrali, ricerche puramente timbriche, falsarighe di testi letterari ipersquisiti) è stata condotta con freddezza polemica, da gente che per lo più era nata per seguire la vecchia strada, sulla quale non si rassegnava all’epigonismo. E a questo punto l’onesto

ignorante, l’amatore della «cattiva» musica, deve concludere che pura o impura, facile o difficile, la musica viva di domani sempre meno ci verrà da musicisti di «clan», da fanatici; così

come non ci verrà la poesia di domani dai letterati che frequentano le «case della cultura» e i congressi sulla ricostruzione spirituale dell’Europa.! Sono convinto che anche Claude Debussy, grande musicista soprattutto quando scoperse per conto suo il pianoforte, con una prodigiosa immersione nella civiltà del suo paese, da Rameau-Couperin fino a Monet e a Renoir, amava quella che io chiamo la cattiva musica, la musica che alcuni immemori della

favola della volpe e dell’uva fingono di trovare cattiva. Le pagine ch’egli ha dedicate a Massenet nel suo Mr Croche antidilettante sono intonate a ironica condiscendenza, come qualcuno ha creduto? In realtà Debussy sapeva benissimo che Manon eseguita come si deve eseguire, da cattivi interpreti francesi dell’Opéra Comique, era ed è come il Faust di Gounod un’opera di stile; e sapeva che chi ha scritto la parte di Carlotta nel Werther ha capito il romanticismo tedesco, e non solo quello musicale, assai meglio di tanti specialisti. A conti fatti mi si potrà concedere che difficilmente Massenet si potrebbe iscrivere fra i «cattivi musicisti»; e qualcuno ammetterà con me — come l’ammetteva Fernando Liuzzi — che persino il povero Mascagni non ha infarcito soltanto di cose scadenti l’avveniristico (per i suoi tempi) zibaldone dell’Iris. Ma che vale? In questa materia io non amo convertire i dissenzienti,

perché se essi mi dessero ragione diventerei il più assiduo abbonato della «Società del Quartetto». Amo, e lo dico molto semplicemente, quei musici in cui l’amor vitae non si fa ucci1 Absit iniuria, caro Flora. Se l’invito non mi fosse giunto con un mese di

ritardo sarei venuto ad applaudirti anch'io. 15

dere dalla superstizione di un nuovo stile; li amo forse perché indicano la via che avrei voluto seguire nell’arte mia, se ne avessi una e se la poesia fosse davvero un’arte come le altre: il che non è troppo facile a dimostrarsi... > E finirò con un aneddoto. Quando Giacomo Puccini (lirico talvolta ispirato, benché i suoi «pezzi» facciano regolarmente a pugni con la cornice che li accoglie) rivelò alla prova generale della Fanciulla del West che per ottenere l’effetto di uno squadrone di cavalleria irrompente dietro le quinte occorreva «agitare un sacco di noci di cocco», tutti rimasero stupefatti. (A quel tempo non esistevano grandi registi e il teatro stava in piedi lo stesso.) Il maestro aveva scoperto il trucco molti anni prima, a Marsiglia, assistendo a un dramma del Grand Guignol, parlando col direttore della compagnia, supplicandolo e commovendolo alla rivelazione del suo nome. E del segreto s’era ricordato al momento opportuno. Anche col sacco delle noci di cocco la Fanciulla non vivrà in eterno; ma l’episodio mi è rimasto in mente perché fa luce sulla psicologia di un uomo per cui il mondo esteriore, nella musica e fuori della musica, è veramente esistito. Ho detto il mondo esteriore e dovevo dire la realtà compatta che ci presenta la vita; quella vita nella quale non si può distinguere un didentro e un difuori e che troppo spesso i professionali del sublime mostrano di ignorare nelle loro opere; quella stessa che attende uno stile dagli artisti e che domanda, ma invano, di filtrare dai commerciali alambiccamenti di chi, pur facendo bottega dinanzi a un pubblico guasto e corrotto, osa sovente presentarsi nelle vesti di bigello del più puro disinteresse.

Tavola rotonda di musicologi all’isola di San Giorgio C.d.S., 23 settembre 1958 (n. 1120)

Venezia, 22 settembre, notte

Accanto ai maggiori congressi che si sono svolti in questi giorni presso la Fondazione Cini, e dei quali leggeremo i risultati in grossi volumi (oppure, nel caso del Simposio di estetica, nella Rivista di estetica, diretta da Luigi Pareyson),

le riunioni a una table ronde di alcuni eminenti musicisti o 16

musicologi italiani e stranieri per discutere di «tradizione e rinnovamento» in materia di creazione musicale hanno avuto un carattere di particolare interesse. ; In una nota precedente! demmo notizia, sia pure in breve,

dei discorsi introduttivi di Francesco Malipiero, W.H. Auden e Guido Piovene, tenuti in seduta introduttiva, alla presenza

di un folto pubblico. Ma il problema vero di queste riunioni è stato affrontato solo negli incontri successivi, che sono terminati oggi. In che misura la tradizione musicale dell’Ottocento è conservata dagli odierni compositori d’avanguardia? Abbiamo avuto una rivoluzione oppure vive tuttora il vec-

chio tronco, capace di esprimere nuovi germogli? In parole diverse: crisi del sistema o nel sistema? L'opinione più conser-

vatrice, fra le molte che abbiamo ascoltate, è venuta oggi da Virgil Thomson, che è stato per molti anni l’autorevole critico musicale del New York Times. Ma è da notarsi che nessuna voce francamente reazionaria, nessun invito a un ritorno

all’antico, si è levata dai convenuti.

Secondo il Thomson, le attuali novità tecniche rispondono a effettivi bisogni della nostra sensibilità, ma sono limitate a non molti sentimenti e situazioni. Paesaggi sublunari o depressivi stati d’animo cercheranno adeguata espressione nei procedimenti dodecafonici o seriali, particolarmente adatti a musiche di scena o di commento; ma l’intera gamma dell’ani-

ma umana potrà e dovrà ancora trovare il suo strumento in

quelle forme tradizionali che fino al termine dell’Ottocento hanno avuto una lentissima evoluzione organica. Al che Massimo Mila obietta che la crisi delle forme comincia col romanticismo e che oggi i sussulti e le scosse non fanno che ripetersi con maggior frequenza. Qui ha parlato Auden, facendo notare che in tutte le arti si hanno periodi di scoperta, seguiti da tempi di sfruttamento o di colonizzazione. Ammessa la necessità delle ricerche tecniche che si sono avute da Schénberg in poi, quale sarà il compito del musicista di domani? La scoperta è eroica ma la colonizzazione può essere qualcosa di altrettanto degno: può essere utile all’uoi mo. La domanda non trova che risposte implicite nei discors

1 Cfr. p. 85. dr

dei singoli partecipanti. Secondo H.H. Stuckenschmidt, convinto che oggi la creatio ex nibilo sia il dovere d’ogni artista, la tradizione non può essere continuata, perché è troppo grande e soverchiante; perché ne siamo schiacciati. La rottura è dunque necessaria e noi ne vediamo appena gli inizi. Con maggior prudenza sembra venirgli di rincalzo Fred Goldbeck, il quale sottolinea il carattere paradossale di alcune recenti esperienze di vivo innesto alla tradizione. Couperin, egli afferma, era se stesso quando scriveva Le tombeau de Lulli; ma non può dirsi già in una situazione archeologica il Ravel che scrive il Tombeau de Couperin? E da allora le tombe si sono moltiplicate: ieri Stravinskij ci dava, col suo Libertino, il tombeau dell’opera italiana; e domani ascolteremo le sue dodecafoniche Lamentazioni di Geremia, che saranno nien-

tedimeno che il tombeau di Guillaume de Machaut... Ultimo oratore d’oggi, prima che nel pomeriggio Nicholas Nabokov, signorile presidente della «tavola rotonda», riassumesse i punti d’accordo e i luoghi della discordia, è stato Roman Vlad, che pratica la tecnica seriale senza crederla obbligatoria per ogni musicista. A Virgil Thomson, il quale aveva affermato che esiste oggi un artificioso monopolio della modernità, un’organizzazione in cui tutto è standardizzato - il prodotto musicale e il suo consumatore —, egli concede che ogni novità è soggetta a degenerare in accademia, ma che nessuno può contestare la validità delle nuove ricerche tecniche quando esse siano dettate da una esigenza interiore e animate dal soffio del genio, che è sempre raro. E almeno su questo punto sembra che il consenso sia stato generale. Abbiamo preferito riassumere la più vivace delle sedute anziché soffermarci sulle molte relazioni che certamente troveranno la loro ultima destinazione in qualche rivista di studi musicali. Ma l’impressione ultima è che la modernità come partito preso (e lo stesso accade nelle arti visive) non sia più considerata come un recipe che guarisce tutti i mali dell’anima moderna. Non foss’altro che per questo conserveremo un gradito ricordo di una riunione che rischiava di essere inutile ed è stata, invece, molto istruttiva.

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Come sarà la musica dell’avvenire C.d.I., 8-9 aprile 1959 (n. 1178)

Mentre continua la polemica sul destino (finanziario) degli enti lirici c'è invece chi si preoccupa dell’avvenire (artistico) dell’opera musicale. Critici di gusto sottile affermano che il melodramma tradizionale è morto senza speranze di resurrezione, e qualcuno (per esempio Gillo Dorfles nel suo ultimo libro Il divenire delle arti pubblicato da Einaudi) pensa che l’ultima e giustificata stagione sia stata quella di Giuseppe Verdi. Fra le opere successive il Dorfles salva solo il Wozzeck di Alban Berg, quasi fischiato anni fa alla Scala; ma non manca di osservare che il lato drammatico di quest’opera risulta sopraffatto dalla struttura musicale troppo densa. In parole più povere noi avevamo detto, in altra occasione, che il dramma di Biichner regge meravigliosamente sul palcoscenico «anche senza la musica». In molte, in troppe altre opere moderne la musica non fa che aggravare la scelta di un libretto o di un dramma inesistente. Dopo avere accennato ad altre esperienze più o meno re-

centi (l’opera da camera L’histoire du soldat di Stravinskij dove «il recitativo è sostituito da una dizione staccata dalla musica», l’opera da concerto in cui prevale l'elemento musicale e l’opera in cui la musica crea uno sfondo riserbando alla vocalità il predominio assoluto, secondo un criterio che acla sua comunerebbe Menotti a Gershwin) il Dorfles arrischia

profezia sull’opera di domani e scrive: «In un melodramma to futuro che voglia essere soprattutto azione scenica, raccon musica non e e teatral che il pubblico possa seguire, opera

dell’uoammantata di scene e travestita da dramma, la voce

gio; e mo dovrà riprendere la sua posizione d’assoluto privile mai “naquesta voce dovrà essere usata in un dialogo quanto esser releturale” mentre l’elemento musicale non potrà che parlacoro un di voce alla gato a parti non recitanti, 0 unito scenica ra struttu fo 0 a una voce cantante non essenziale alla del dramma». parlato Se abbiamo ben compreso si avrebbe un dramma d’atmosfera, in cui la musica dovrebbe ancora aver funzione commento di ti compi be e il canto, anche se monodico, avreb 19

e di rafforzamento ma assai difficilmente potrebbe essere espressione diretta dei personaggi. E d’altronde come far cantare i protagonisti quando la loro melodia non può più essere (sempre secondo il Dorfles) «la melodia dolcemente orec-

chiabile dell'Ottocento»? Eppure il potere d’attrazione del melodramma (quando non esistevano né radio né cinema né TV) fu sempre dato dal fatto che ipersonaggi cantavano i loro sentimenti in melodie riconoscibili, anche se non sempre facilmente orecchiabili. Un’opera musicale in cui i personaggi non cantano non sa-

rebbe più attraente di quelle in cui essi cantano in modo orridamente antivocale. Sarebbe un’opera per gli happy few, non un’opera destinata al gran pubblico. D’altronde, coloro che vivono per e sul teatro lirico non debbono spaventarsi per queste previsioni. Sono tanti da formare una imponente massa di interessi indistruttibili. Per merito (o per colpa?) loro anche il melodramma concepito secondo i vecchi schemi può avere ancora una lunga, e forse non del tutto artificiosa, durata.

Capire la musica d’oggi GdS7A- luplio:1959(n71205)

Venezia, 30 giugno, notte

Che un gruppo di studiosi delle varie discipline e alcuni musicisti si siano riuniti intorno a una tavola rotonda per discutere di musica non sarebbe fatto nuovo né interessante se il dialogo si fosse risolto (come già altre volte accadde alla Fondazione Cini) in una nuova querelle des anciens et des modernes. Ma nel convegno svoltosi in questi giorni all’isola di San Giorgio pochi erano i musicisti impegnati in esperienze musicali d’estrema avanguardia e molti i semplici dilettanti o amatori di musica; tanto che il dialogo ha potuto sempre mantenersi a un livello teorico molto elevato. Riconosciuto da tutti che il «consumo» musicale ha raggiunto proporzioni del tutto nuove nella storia; ammesso che mai l’universo so-

noro è stato, come oggi, così denso e lacerante di suoni e di rumori, a un segno tale che molti musici tentano di annettere 20

il rumore ai loro mezzi espressivi e ritengono ormai insufficiente la scala temperata, era inevitabile che la discussione sul tema proposto, «il valore della musica», diramasse e divagasse in un gran numero di osservazioni particolari.

Proviamoci a riassumere qualche punto che può dirsi acquisito: nessuno ha dubitato che anche il linguaggio umano, il discorso, sia fondato su ragioni non solo intellettive ma anche musicali (il senso della pausa e la giusta dosatura degli «intervalli», intesi questi in senso musicale, fanno sì che anche l’oratore sia, a modo suo, un musico).

Quasi tutti, per fortuna, hanno rinunziato a proporre una graduatoria, dalla quale la musica risultasse al vertice del si-

stema delle arti: solo due scienziati (uno dei quali è Cesare Musatti) pensano che la musica abbia più spiccati caratteri di «purezza», ma nessuno dei musicisti si è associato con convinzione a questa tesi.

Il valore pedagogico della musica ha trovato tutti concordi. Con altrettanta unanimità si è rilevato che in Italia, e in

genere nei paesi latini, poco si fa per fornire ai giovani almeno un rudimento di istruzione musicale. I latini sarebbero dunque meno musicali dei tedeschi e degli slavi, o lo sarebbero in modo diverso? Questa seconda ipotesi, a mio avviso molto ragionevole, non è stata svolta. Constatato da tutti il fatto che i problemi della musica attuale hanno riscontro anche nelle altre arti, non ha trovato dissensi l’opinione di Antonino Pagliaro, secondo il quale stiamo forse entrando in una civiltà transitoria che tenta di sostituire al segno linguistico l’immagine musicale o visiva. In parole povere: oggi si cerca di pensare con l’udito e con l’occhio, non col cervello. Il problema che sorge inevitabilmente in simile genere di discussioni, «Esiste, e perché esiste, una rottura fra il gusto musi-

cale odierno e quello del passato? E perché “capire la musica” è oggi diventato difficile, problematico?», è stato illuminato magistralmente da Luigi Ronga. Fino all’età preromantica, egli ha

detto, la musica è sempre stata attuale, non ha conosciuto il

classicismo. A partire dal XII secolo ogni generazione pensava di creare la miglior musica che fosse esistita. Capire la musica è problema che si pone quando nell’età moderna hanno inizio il recupero della musica passata — il tardivo umanesimo musicale 21

— e il conseguente studio delle varie notazioni musicali che si sono succedute. Vien meno la concezione dell’universalità della musica e nasce il bisogno dell’educazione musicale e dell’affinamento di un gusto storico. Di qui, nel nostro secolo, la riconquista di Mozart che l’Ottocento considerò come il semplice preparatore di Beethoven. Quanto alla cosiddetta impasse della musica modernissima, è probabile che questa abbia ecceduto nell’opporsi al carattere sensuale e ornamentale che civiltà altamente intellettuali attribuivano alla musica. Si è forse andati troppo oltre nella concezione dell’autonomia del fatto musicale. Ma non accade lo stesso in altri campi? Qui Tecchi ci ricorda che per Wackenroder, Tieck e poi per Hoffmann la musica era il linguaggio dell’ineffabile; un linguaggio dal quale Wackenroder si ritrasse con orrore perché gli pareva che facesse naufragare ogni distinzione tra il bene e il male. E da questo punto di vista acquista un significato il conservatorismo della musica liturgica. Comincia da allora l’irrazionalismo tecnicistico. E il musicalismo dilaga nella pittura e nella poesia. Musicalismo che diventa, secondo Vittore Branca, ve-

ra musica in una parte della poesia moderna, una musica sottile che crea le proprie leggi e non si fonda più su ragioni estrinsecamente metriche. Sul valore del silenzio nella musica, e non solo del silenzio

come momento dell’espressione sonora ma soprattutto come accesso al «valico metafisico», si è intrattenuto Francesco

Carnelutti che ha presieduto e ordinato le discussioni; ma qui non parve che si fosse raggiunta un’intesa, perché il senso metafisico appartiene a chi lo possiede in proprio e tutte le grandi opere d’arte possono sollecitare questa apertura: Rembrandt non meno di Beethoven, Baudelaire più di César Franck. Non abbiamo fatto che sfiorare una materia in ebollizione, un dialogo a molte voci al quale hanno preso parte Flora e Pugliatti, Mortari e Ghedini, Guzzo e Manacorda, Orazio

Costa e Marino Gentile, Malipiero ed Elsa Respighi e molti altri: alcuni con formidabile erudizione, altri con la commo-

vente espressione del buon senso e dell’esperienza diretta, come l’organista Tagliavini, il quale vede nella necessità dell’inD2,

terprete addirittura una naturale inferiorità dell’arte musicale. Ma non hanno bisogno di interprete anche molte pitture e poesie? Quanto alla conclusione, permettetemi di non trarne nessuna. Incontri di questo genere hanno l’utilità di spargere qualche seme o di suscitare qualche dubbio. Quel che sembra certo è che, se una crisi esiste, non è una crisi della musica,

ma una crisi a cui non può sfuggire «anche» la musica. Vero Verdi, Puccini vero C.d.I., 17-18 dicembre 1962, ed. della notte (n. 1479)

Alcuni anni or sono il giovane musicista e direttore d’orchestra australiano Denis Vaughan confrontando due successive edizioni della partitura del Falstaff si accorse che tra esse si riscontravano alcune «differenze». Il maestro esaminò allora l’autografo verdiano giacente negli archivi di casa Ricordi e annunziò di avervi trovato un’infinità di discordanze. Se ne doveva dedurre che le attuali esecuzioni di quell’opera, condotte sulle partiture esistenti in commercio, non facevano testo e non rispondevano affatto al pensiero dell’autore. Più tardi il Vaughan allargò la sua indagine ad altre opere verdiane, e anche pucciniane, e giunse ad analoghe conclusioni: noi ascoltiamo esecuzioni verdiane e pucciniane ad usum delphini, notevolmente discordanti dagli originali. Non sarebbe tempo che i manoscritti originali di Verdi e di Puccini fossero disseppelliti dagli ipogei in cui sono custoditi e messi a disposizione di interpreti più scrupolosi dei loro predecessori? Certo la ristampa di quelle partiture importerebbe spese ingentissime e non potrebbe farsi in breve tempo. In ogni modo il 0 problema esiste, secondo il Vaughan, e dovrà essere risolto,

dagli attuali editori o da altri che ne assumano il peso e la responsabilità. A questo punto conviene precisare di quali errori 0 discor-

può danze si tratta. Di errori, il Vaughan lo concede, non si le parlare perché le vere e proprie figurazioni musicali sono abbonqueste in Ma oni. stesse nei manoscritti e nelle riedizi queldano quei segni agogici, quei legamenti, quelle forcelle, 23

le indicazioni di «staccato», quelle dosature di pp e di ff che non esistono o non hanno corrispondenza esatta negli originali. Chi ha posto le nuove indicazioni nelle partiture oggi in uso? Si risponde: la tradizione fondata dai maggiori interpreti. Il Verdi stesso vi ha contribuito, poi i successivi direttori d’orchestra, da Toscanini a oggi; e tutto questo formicaio di segni è andato di anno in anno a costellare l’originale, in modo da renderne più agevole la decifrazione e renderne trasmissibile lo stile. Non v’è dubbio che un direttore d’orchestra giovane d’anni e di esperienza si troverebbe assai impacciato se dovesse dirigere un’opera verdiana tenendo

d’occhio il testo originale; gli verrebbe a mancare il sussidio di una tradizione ormai consolidata e in parte accettata dal Verdi stesso. In quei frangenti che cosa dovrebbe fare l’ipotetico direttore? Dovrebbe dare infiniti suggerimenti espressivi non solo agli interpreti vocali ma anche ai vari gruppi degli strumentisti: qui più forte, qui più piano, qui più lento, là più rapido, ecc.; dovrebbe decidere di sua iniziativa in molti casi

in cui il testo (per esempio nel caso di molte cadenze vocali) resta evidentemente aperto e si affida alla discrezione e al buon gusto dell’interprete. Ora, che cosa avrebbe fatto in realtà l’ipotetico direttore? Nient'altro che ripristinare le mille differenze di cui si lamenta l’apparizione nelle partiture oggi disponibili. O se non proprio le stesse, numerose altre «differenze» più o meno opinabili. Che i manoscritti di Verdi e di Puccini fossero, nell’intenzione degli autori, testi da accettarsi a scatola chiusa, testi re varietur, non è credibile; e nel caso di Puccini sappiamo ch'egli

era molto docile e aperto a modifiche e suggerimenti. Tuttavia non si può nemmeno concedere che gli innumerevoli segni sopraggiunti (e dei quali si ignora la paternità) siano parole di Vangelo, intoccabili. Sarebbe forse impossibile una assoluta fedeltà ai manoscritti, ma non meno assurda può dirsi l’ostinazione a fidarsi ciecamente di «varianti» che spesso «variano» da edizione a edizione. E da questo punto di vista — strettamente filologico e scientifico — non c’è dubbio che i futuri esecutori faranno molto bene se si cureranno di tener presenti gli originali delle opere a loro affidate. Non è che questi originali possano far fede al cento per cento: è chiaro che là dove una parte di flauto porti, per esempio, un pp incompatibile col 24

fragore di altri ff orchestrali che vi si sovrappongano, l’interprete potrà e dovrà discordare dall’originale; ma è altrettanto certo che la cosiddetta tradizione può in determinati casi esser stata sinonimo di semplicismo e di pigrizia. Ben vengano dunque — se verranno - le edizioni degli originali verdiani e pucciniani; ma non si creda per questo che ne seguirà una rivoluzione interpretativa. Forse saranno utili alle interpretazioni — più corrette ma più fredde — dei festival musicali, oggi sempre più favorevoli a Verdi; assai meno a quelle esecuzioni «di massa» che mantengono in vita il mito verdiano, il sogno di una grande arte nazionale e popolare. C’è posto per tutti nel mondo dell’opera: c’è posto per le esecuzioni filologiche e per quelle meno scrupolose, ma più calde, più aperte. Chi vuole che l’opera viva a qualunque costo darà torto al Vaughan; chi vuole che l’opera si spogli di qualche inutile volgarità gli darà la sua parte di ragione. L'importante è che la polemica, ormai in corso da anni, non si arroventi, e che a tempo e a luogo non resti senza qualche utile frutto. Parole in musica C.d.S., 4 agosto 1963 (n. 1538)

«M’hanno detto che Beppe va soldato / e che vi han visto pianger di nascosto. / Far pianger sì begli occhi è gran pecca-

to: / Beppe non partirà: prendo il suo posto.» Su queste paro-

le un musicista di fine Ottocento compose una romanza che commosse i nostri padri. Tale risultato fu possibile perché

l'oscuro maestro Rotoli colse non la poesia, che non c’era, ma la situazione che i brutti versi esprimevano. Storicamente

si ha un bel distinguere tra i musicisti del recitar cantando, attenti alla parola (in diverso modo da Monteverdi a Wagner) e quelli che si contentano della situazione espressa in pa-

role (quasi tutti gli operisti, compreso Verdi); la verità è che

la parola veramente poetica contiene già la propria musica e non ne tollera un’altra: e che solo la parola poco o punto poetica sopporta di essere l’attaccapanni di una successiva poesia. 25

Talché i veri musicisti delle parole in musica (Gluck, Wagner, Verdi, Musorgskij e tanti altri) hanno prodotto opere il cui testo poetico è traducibile senza gran danno della musica. Con Debussy le cose cambiano. E oggi si sono fatti ulteriori passi perché si tenta di vivisezionare la parola cantata o recitata, di scioglierne le fibre e di distillarne o emulsionarne i succhi. A simile effetto si scelgono testi incomprensibili (per esempio, Le marteau sans maître del primo Char) oppure si prende una pagina dell’Ulisse, la si scompone elettronicamente ottenendo un flusso ininterrotto di sillabe che non sarebbe diverso se l’operazione fosse stata condotta su una pagina dell’orario ferroviario. Il mio amico Massimo Mila pensa che con tentativi del genere la musica cerchi di uscire dal proprio isolamento — ma non direi che ne sia proprio convinto. Il carattere sostanzialmente asemantico della musica rappresenta una grande conquista della cultura moderna anche per chi non abbia simpatia per il dottor Hanslick (il Beckmesser dei Maestri Cantori)

e creda che il melodramma - genere impuro — abbia prodotto indistruttibili capolavori. Altro è accettare l’inevitabile impurità di un genere — la musica di teatro, che ha bisogno di situazioni e perciò di parole o di gesti — e altro sollecitare artificialmente sue nuove e più capillari impurità. Non solo il melodramma ma anche la musica a programma che abbisogna di esplicazioni supplementari (dai Quadri di un’esposizione di Musorgskij fino ai poemi sinfonici di Strauss) rientra a buon diritto tra le forme musicali accettabili. Qui non c’è isolamento: e in tutti i tempi la musica ha tratto ispirazioni dalla pittura e dalla poesia. Bisogna dunque far molta tara sulla pretesa purezza e ineffabilità dell’arte dei suoni. Dopotutto, se non si vuol risalire al canto degli uccelli, la musica è per noi la più giovane delle ar-

ti. Ma detto questo non si ha l’impressione che dalla parola maciullata col tritacarne possa sorgere una nuova e più profonda musica. Tanto meno, poi, se la parola utilizzata è

una parola veramente poetica. Vogliamo dir tutto? Molta musica d’oggi è nella sua intima essenza una tardiva ancella della poesia moderna, senza però possederne la duttilità e la ricchezza musicale. E non c’è nulla di male in questo, purché non si parli davvero di vie nuove da percorrere. 26

Variazioni C.d.S., 9 marzo 1969 (n. 1768)

..+ I musicisti che devono appoggiarsi alla parola si servono quasi sempre di parole brutte. Ci sono eccezioni, che ricorderò, ma quando si ascolta il Pierrot lunaire e lo stesso Pelléas si resta sorpresi constatando che uomini come Schénberg e Debussy non abbiano sdegnato di mettere in musica simile paccottiglia verbale. Le eccezioni sono poche: alcune risalgono alle origini del melodramma, altre si osservano nel campo

liederistico (Heine ha avuto buona fortuna). A parte restano i

casi di Mozart e di Wagner. A Mozart servono particolari schemi ritmici e le sue opere restano in piedi anche se tradotte da un abile uomo del mestiere. Wagner si è scritto da sé i suoi testi; non era probabilmente un grande poeta (in versi) ma la sua attenzione alla parola giustifica il fanatismo di quelli che vorrebbero ascoltarlo sempre «nell’originale». Anch’io preferisco ascoltare Musorgskij in russo sebbene sia ignaro di quella lingua. Mi sono così risparmiate le orrende parole della versione. Non so che cosa accada sentendo il Wozzeck in lingua italiana. Probabilmente non accade quasi nulla perché in lui il suono (verbale) è secondario. Nel melodramma verdiano, e soprattutto nel postverdiano, la parola è un fil di ferro che deve piegarsi alle necessità vocali anche se il significato fa a pugni con la musica. Quasi mai si comprende come il si bemolle o il do del tenore che dovrebbero corrispondere a uno stato d’animo particolare siano collocati nelle frasi più insignificanti. Dell’incongruenza si accorse Pizzetti, spesso autolibrettista, ma la sua continenza trasformò il canto in un perpetuo recitativo e il rimedio si rivelò peggiore del male. Oggi i parolieri tipo Sanremo mettono insieme poche dozzine di parole che sono sempre le stesse e non richiedono di essere poste in un qualsiasi contesto. Poiché nel campo dell’opera in musica si parla a ogni secolo di riforma, anche questa dei parolieri è una riforma bell’e buona, ma attuata al più basso dei livelli. Non si potrà scendere più in giù ...

ZI

Variazioni C.d.S., 17 febbraio 1974 (n. 1819)

... È abbastanza diffusa l’opinione che l’Italia sia un paese sostanzialmente amusicale. Almeno quattro secoli di grandi musicisti dimostrerebbero il contrario, ma che importa? La tesi è sostenuta dai veri competenti, i musicisti stessi, i quali vorrebbero che l’insegnamento della loro arte fosse introdotto addirittura nelle scuole elementari. Ora, a parte la difficoltà di reperire un vero esercito di insegnanti, sta il fatto che nella nostra scuola dell’obbligo almeno due materie non meno importanti, la lingua italiana e l’educazione civica, esistono quasi solo nei programmi. Tuttavia non di questo vorrei

occuparmi ma del sentimento d’insoddisfazione che musicisti e musicologi dimostrano sulla natura e sull’«esito» stesso della loro arte. I mezzi audiovisivi inondano di musica le nostre case, fatto nuovo nella storia; eppure in confronto ad altre arti (la poesia, per esempio, o le arti figurative) la musica

ha una diversa collocazione. In parole povere: conta di più perché ha un impatto maggiore sulla nostra sensibilità; conta di meno perché il suo lato esecutivo comporta meccanismi e macchinazioni di ogni ge-

nere. Idealmente la musica vive sulla carta, sul pentagramma (oggi anche su nastri), ma la sua effettiva traduzione in note o suoni e la sua stessa diffusione sono legate a una prassi piena d’incognite. Basta il cenno di un uomo a scoprire o riscoprire un quadro, un testo. È necessaria un’organizzazione, una congiura per rimettere in circolazione un’opera musicale dimenticata. Ma non è tutto qui.

L’insoddisfazione di ogni (presunto) grande musicista d’oggi riguarda addirittura il «posto» che l’opera sua occupa o occuperà nel quadro della nostra moderna civiltà. È un sentimento diffuso. Secondo quanto ha riferito qui sul Corriere l’amico Laurenzi, il grande musicologo tedesco Alfred Einstein si sarebbe chiesto come mai creatori quali Brahms, Mabler, Schénberg, Hugo Wolf non sono posti accanto a Joyce, Musil, Kafka, Freud (?), Thomas Mann e altri. Ma perché dovremmo accostarli? Se fosse possibile, e non è, una

storia universale di tutte le arti questi nomi figurerebbero 28

nello stesso volume, escluso Freud che tentò di psicanalizzare Mahler. Ma è tutto qui. E bisogna ricordare che non sempre a un capolavoro è attaccato un nome. I nostri musei (e più ancora quelli americani) sono pieni di opere insigni che portano un nome e un punto interrogativo. E anche nessun no-

me. Quanto al consumo (e mi scuso dell’orrenda parola) non c'è dubbio che oggi Brahms e Mahler sono molto più consumati dell’Ulisse di Joyce. Il guaio è che raramente o mai i compositori di musica trovano il pubblico che vorrebbero avere ...

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Sulla scia di Stravinskij C.d.S., 19 settembre 1951; E.M., Fuori di casa, Ricciardi, MilanoNapoli 1969; Mondadori 1975 (n. 445)

Venezia, 8 settembre

Ho una bella camera sulla riva degli Schiavoni e un interminabile Canaletto brulicante e vivente mi si dispiega sotto gli occhi. Finisco qui le mie ferie per assistere alla nascita di un presunto capolavoro; o meglio per spiare questo battesimo dalle coulisses, dal retrobottega. Dio sa però se riuscirò a veder da vicino Stravinskij che è arrivato con la sua suite al completo (moglie, figlio, medico di fiducia, ecc.). Il Maestro, a quanto pare, è piuttosto «arancino», come dicono a Firen-

ze, coi giornalisti. A Napoli lo hanno interrogato a lungo per definirlo poi «il grande violinista»; ide irae che sconsigliano ogni approccio diretto. Esco, entro in un dedalo di strade e raggiungo il celebre bar dove mister Cipriani, l’amico di Hemingway, mi fa omaggio di un aperitivo e di una pallina di riso fritto. Poi riesco e passeggio ancora, annoiandomi. Fa caldo e c’è una folla enorme. Dovunque grandi cartelli invitano a manifestazioni artistiche di ogni genere. Perché il Comune di Venezia non annunzia al mondo intero che d’ora in avanti nessuna attrazione (né artistica né mondana né sportiva) sarà più ammessa in questa divina città dove non giunge il frastuono degli scooter? Sparirebbe d’incanto anche il cicaleccio dei calabroni del bel mondo e Venezia si assicurerebbe una 33

colonia di nuovi ospiti infinitamente maggiore e più duratura. Una città del silenzio ben organizzata contro ogni forma di organizzazione mondana attirerebbe gente da ogni parte del mondo. Lancio l’idea senza sperare, purtroppo, che sia raccolta e attuata. 8 settembre, sera

Son riuscito a procurarmi il libretto di The Rake’s Progress che è un gioiello del genere e contiene forse i più bei versi di Auden. Senza mancar di rispetto a quei quasi capolavori che sono i libretti di Giacosa e Illica, da quanti anni non si tesseva una ragnatela così perfetta? D’altronde tutta la recente poesia inglese tende al libretto d’opera o d’operetta (senza musica, 0 con la sola musica delle sue parole). Questo non è però un libretto funzionale come forse Auden crede. Quale musica potrà sottolineare versi che saltano dallo stile del Mikado di Sullivan al monologo di Baba la Turca arieggiante certi pezzi della Terra desolata di Eliot? Temo che rimarrà sempre uno scompenso tra l’intelligenza ramificatissima e allusiva di Auden e l’intelligenza nuda e quasi astratta dell’ultimo Stravinskij. Intanto mi canterello, con musica di mia fattura What deed could be as great As with this Gorgon to mate? All the world shall admire Tom Rakewell Esquire.

(Dice di messer Rakewell e del suo previsto accoppiamento con quello scorfano della donna barbuta: exploit che riempirà il mondo di ammirazione. Ma non invidio il traduttore, che deve salvare il senso e il ritmo, qui e in molti altri luoghi più difficili. Anche se farà miracoli, ho l’impressione che questo testo secco come un bambù guadagnerà sempre a esser letto e cantato nella lingua originale.) 9 settembre

Il medico di Stravinskij mi ha detto: «Perché non provi ad aggredire il figlio anziché il padre? Sa tutto di lui, ha scritto persino un libro sul Maestro». Ho seguito il consiglio e ho passato mezz’ora con Theodore Stravinskij, pittore residente 34

at

a Ginevra e autore di un Messaggio di Stravinskij che il grande Igor giudica definitivo. Disgraziatamente, Theodore non vede il padre da dodici anni e preferisce parlarmi della sua pittura. Gli chiedo se è pittura impressionista, ma da un suo sobbalzo comprendo di aver fatto una gaffe. Thedore è stato toccato profondamente dall’esprit de Genève e vorrebbe affrescare intere chiese. Parla perfettamente il francese; col padre si esprime in russo ma pare che il russo del padre e del figlio sia alquanto arrugginito. Quando cerco di ricondurlo in carreggiata egli insiste molto sulla religiosità di Stravinskij. In alcune dichiarazioni stampate contenute nel programma di The Rake’s Progress, il musicista ha infatti affermato il suo attaccamento

alla Chiesa ortodossa; non

escludendo però di potersi fare cattolico romano un giorno 0 l’altro. La sua religione è tuttora in fieri. Intasco una copia del messaggio e mi accomiato. L’aggressione non ha dato i frutti che mi attendevo. 10 settembre

Da un palchetto della Fenice, ho assistito alla prova generale del Libertino. Dirige Leitner, da uomo navigato: domani,

quando l’autore salirà sul podio, si dice che tutto sarà più annacquato. Non ho la pretesa di dare un giudizio sulla nuova musica di Stravinskij, ma non posso non salutare con soddisfazione la ricomparsa, dopo tanti anni, di un’opera in cui esistono «parti» per i cantanti. Eseguito in inglese, a me il Libertino pare un delizioso lavoro di ebanista, di stipettaio;

un’opera che tira come una pipa Dunbhill di vecchia radica. Non ho mai inteso nulla di così squisitamente legnoso e rifinito. Può darsi che in esso il settecentismo finisca poi in uno stile Chippendale più sobrio che elegante; ma non oso decidere. Altra gradita novità è la soppressione della grande orchestra, dell’imbottitura sinfonica. Qui il diavolo si fa accompagnare dal pianoforte; e gli basta. Il giorno che un musicista di teatro crederà al potere espressivo della musica (Stravinskij è un illuminista che odia l’espressione e vuol ridurre la musica a pura idea platonica) questa partitura potrà suggerirgli molte cose.

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10 settembre, sera

Tre dei più illustri poeti inglesi dei Thirties (il periodo che va dal ’30 al ’40), W.H. Auden, Stephen Spender e Louis MacNeice, stavano mangiando una zuppa di peoci mezz'ora fa,

in un ristorante della Frezzeria. Poiché conoscevo già gli ultimi due, l’incontro con Auden è stato per me il più fruttuoso. Wystan Hugh Auden, il librettista del Libertino, in collaborazione con Chester Kallman, ha quarantaquattro anni, è alto

un metro e ottanta e non ha, o ha perduto, l’espressione efebica e la chioma fluente che certe fotografie gli prestavano. È un uomo forte, cordiale, umano, che sembra di aver cono-

sciuto sempre. Divide la vita fra Ischia e Nuova York; ormai cittadino americano, ha percorso in senso inverso la strada di Eliot che da americano s’è fatto inglese. Secondo Stravinskij, che lo ha scelto per consiglio di Huxley, Auden è il Bach della poesia moderna. Fa quello che vuole e non ignora nessun segreto della tecnica. E infatti il suo verso è dolce come quello di Spenser, ironico e arguto come quello di Pope, arido e discorsivo come quello di Eliot. Salta dal vecchio al nuovo con perfetta disinvoltura, aggancia le sue strofe come le migliori del Don Giovanni di Byron, palleggia il pensiero «moderno» con acrobatica agilità, muovendosi a tempo e luogo tra i fantasmi di Kierkegaard e le invettive di Karl Barth, ha abbandonato la religione marxista per quella anglo-cattolica in cui è nato; e infine (ed è per me, oggi, la sua maggiore attrazione) ama l’opera in musica e ha saputo scrivere col libretto del Libertino un capolavoro del genere. «Poesia camaleontica» ha definito la sua il biondo (una volta) Spender che è venuto dal Garda per assistere a questa «prima mondiale». Camaleontica, nel senso che prende il colore delle idee senza restar prigioniera delle idee. E poiché Auden è tale personalità da muover l’aria che gli sta dattorno, stasera tirava in Frezzeria un’auretta piuttosto da oratorio sacro che da opera

comica.

«Quando finirà questo scandalo delle tre Chiese (la

romana, l’ortodossa e l’anglicana) disunite?» mi ha detto Au-

den. Tuttavia, adepto di una sua religione în progress, egli non spera che l’esempio venga dall’alto, dai boss, dai capi gerarchici. È un lavoro difficile, che deve essere iniziato da pic36

coli gruppi di «privati», di individui. Meglio dar tempo al tempo e sgusciare un ultimo peocio. Lo lascio pieno d’invidia. Mi mancherà sempre la gioia di vivere da straniero in Italia. E Dio sa se non ho provato a farlo; ma quando ci si è nati il giuoco non riesce! 11 settembre

Grande trionfo della Carriera del libertino, alla Fenice. Stravinskij è stato tirato alla ribalta dove rimbalzava come un burattino di gomma. Quando dirige, indaffarato e assente, con largo gesto impreciso, sembra Benedetto Croce curvo su

un vecchio codice. Come lui appartiene d’altronde al passato, a un grande passato. Il libretto di Auden attraverso il suo filtro ha perduto molti dei suoi sapori moderni ma ha acquistato in compattezza di stile. Stile o tecnica? Un uomo come Stravinskij che fa una non lieve confusione tra forma e tecnica e distingue assurdamente tra opera in musica e dramma musicale (venerando l’una e scorbacchiando l’altro) non poteva approdare a un diverso risultato. Non è un piccolo risultato, s'intende. Con la Carriera del libertino un grande europeo d’elezione ammonisce gli europei a non farsi barbari. Prevedo però che molti europei di nascita e non d’acquisto risponderanno che senza barbarie non si darà un nuovo volto all'Europa. E continueranno a scrivere noiosi drammi musicali, non opere architettate come una suonata da camera. 12 settembre

Vermut d’onore offerto dal Comune. Stravinskij è giunto all’imbarcadero, a Rialto, seguito dalla sua troupe e accolto

dagli applausi di un centinaio di peoni in ciabatte, con la camicia sciolta sui pantaloni sbracalati, logori pullover attorcigliati sul davanti o sul didietro e ciuffi di setole giallastre sfuggenti dal cerchio degli occhiali neri. Mi spiegano che non si tratta di peoni ma della quintessenza più squisita dell’intelligenza mondana. Parlano una Roiné anglo-romanesca («Il progresso del racchio») e si conoscono tutti fra loro. In una sala del palazzo comunale facciamo capannello.intorno al sindaco che tiene un’apprezzata allocuzione in cui figurano i da

nomi di Eschilo, di Hugo e di Arrigo Boito. Stravinskij, seduto, incassa e ringrazia. È un ometto curvo, malazzato e sorri-

dente, che si inchina alla russa, a tuffo. Riesco a scambiare alcune parole con lui e non mi meraviglio di trovarlo così semplice e umanamente solitario. La celebrità, Hollywood e i dollari non hanno minimamente scalfito la sua natura di piccolo barine che teme il diavolo e vorrebbe che tutta la vita fosse una bella opera in musica, più vicina a Cajkovskij che a Wagner. 13 settembre

Torno a Milano. E all’aeroporto rivedo Auden che parte per Roma, per raggiungere Ischia. Parla quasi in italiano, mi fa un’istantanea, mi ripete la sua ammirazione per Dante, poeta

che gli inglesi cucinano a modo loro (e hanno ragione); poi salta sull’apparecchio come un capriolo. La sua testa color carota s’imbuca, sparisce. Poco dopo decolla anche l’apparecchio per Milano. Venezia s’imperla di nebbia, vista dall’alto. Valeva la pena di chiudere con questo sogno l’epifania del Libertino.

Gavazzeni C.d.S.,7 agosto 1956; poi come prefazione a G. Gavazzeni, I nemici della musica, Scheiwiller, Milano 1965 (n. 906)

Baveno (Villa Franca), estate 1956

Sono qui, da poche ore, con alcuni amici, ospite del maestro Gianandrea Gavazzeni, che sta prendendosi qualche giorno di riposo dopo la sua laboriosa stagione invernale e primaverile. Villa Franca non è costruita a picco sul lago, ma permette la vista di un vasto specchio d’acque e dell’Isolino dove sorge la villa dei Borromeo, che fu per anni il rifugio di Toscanini. Da una casa vicina, per fortuna nascosta dagli alberi, un’ignota pianista si esercita tutto il giorno su una fuga di Bach: sembra che faccia sensibili progressi. A questa rete di suggestioni musicali Villa Franca contribuisce con rarissimi fili perché il pianoforte verticale di Gavazzeni resta chiuso la maggior parte del giorno. Quando si apre, dietro nostra pre38

ghiera, ne sprigionano le note più suggestive e meno note di uno spartito tutt'altro che trascendentale: l’Iris di Mascagni, che Gavazzeni dirigerà al teatro dell'Opera e alla Scala. Poco fa il maestro ci ha fatto ascoltare le confessioni di Osaka, di Kyoto e del Cieco, che di solito si tagliano, e che questa volta sopravviveranno. In verità in quest’opera le forbici dovrebbero scendere un po’ dovunque, col sistema della sfumatura, caro ai parrucchieri, e ne uscirebbe qualcosa di sorprendente. Ma chi può prendersene la responsabilità? Omettere intere parti, come ha fatto Gavazzeni con Le maschere, presentando un’opera nuova e vitale, qui non sembra possibile. Il lavoro di rammendo dovrebbe scendere in profondità.

Nell’ora di siesta ho intervistato la cuoca di Gavazzeni e ho scoperto che il menù di questi due giorni è stato composto dal maestro e scritto di suo pugno. Una sua tempestiva telefonata all’Isola dei pescatori ci ha assicurato quei filets de perche che, senza rivaleggiare col salmone del Minho e nemmeno con le sardine dell’Estoril, restano pur sempre una delle ghiottonerie del lago. Ora comincio a comprendere come il maestro abbia fatto ad allestirci il recente Ballo in maschera scaligero, così diverso dagli altri. Persino questi trascurabili particolari mi confermano che Gavazzeni ha lasciato cadere del tutto quella scorza d’intellettualismo che è la prigione degli artisti giovani, quando sono colti (e Gavazzeni è coltissimo); mentre il suo entusiasmo di sempre, la sua vitalità, la

sua fede nel lavoro d’ogni giorno fanno pensare che per lui non esisterà mai il pericolo degli artisti vecchi, degli «arriva-

ti»: la routine, l'adattamento alla mediocrità di certi ambien-

ti, il culto del «si è sempre fatto così, è inutile cambiare». Gavazzeni ha quarantasette anni e i suoi occhi azzurri si mantengono infantili, anche se sui suoi capelli è scesa una precoce brina. Quando dirige ingrassa un poco, per effetto, sembra, delle troppe libagioni d’acqua minerale; ma dopo ritrova la linea. La musica l’ha respirata fin dall’infanzia. Suo padre era un melomane arrabbiato, capace di venire venti volte da Bergamo a Milano per sentire e risentire il Parsifal. Quando poi l’onorevole Giuseppe Gavazzeni — che fu deputato per due legislature, fino all’avvento del fascismo — si convinse che il suo ragazzo (già affidato per il pianoforte a 39

due ottimi insegnanti bergamaschi) aveva serie attitudini, non esitò a seguire i consigli di Marco Enrico Bossi e portò il figlio a Roma consegnandolo, per lo studio del pianoforte, alle cure di Giuseppe Cristiani, un prestigioso allievo di Sgambati. Siamo agli anni dell’Augusteo (1921-24), fertili di scoperte e di entusiasmi. Più tardi, a Milano, verranno gli anni della composizione (Pizzetti, per qualche tempo anche Mario Pilati). Nel ’31 gli studi accademici sono finiti, nel °32 Gavazzeni si sposa, nel ’33 esordisce a Torino, alla RAI, come

direttore d’orchestra: una via ch’egli non ha più lasciata. E l’altro Gavazzeni: lo scrittore, il critico non solo musica-

le, il lettore d’infiniti libri, come è nato? Qui le risposte — già evasive nel campo musicale — si fanno anche più esitanti. «Fin da quando lessi i primi russi,» mi dice «fin dall’età di quindici anni ho compreso che in me la musica uccideva un eventuale scrittore. Da allora vivo con l’impressione di portarmi un morto dentro.-E non è una cosa lieta.» Il colloquio continua a lungo mentre sto assaporando una

squisita torta di mele (frutto di una seconda tempestiva telefonata). Non posso prendere appunti per non destare sospetti e d’altronde gli argomenti divagano e si accavallano. Pochi musicisti sono più riluttanti di Gavazzeni a parlare di musica.

Tempo fa Eugenio Gara gli chiese notizie del baritono F.,, bergamasco, da molti anni scomparso dalle nostre scene. F. — che non si chiama affatto F. ma che io nascondo sotto questa lettera per non urtare il suo probabile orgoglio — è stato il maggior Jago, verdiano, delle nostre scene, nonché un grande Guglielmo Tell e Gianciotto. A Gara, che è una miniera di notizie, occorreva anche questa per non so quale suo schedario o enciclopedia: la data di morte di F. «E. è ancora vivo» risponde Gavazzeni. «È vivo e so dove abita. Mi informerò.» E scrisse subito al parroco del paese dove F. vive. «Il signor E.» rispose il parroco «è il più povero dei miei parrocchiani.» Dopo pochi giorni F. ricevette i primi tangibili segni di interesse e di simpatia da parte dei suoi vecchi ammiratori; ma come ciò sia avvenuto non posso dire perché certi gesti non desiderano la luce del riflettore. Sono certo che a Gavazzeni non farà piacere di veder mes40

| so in carta questo episodio. Io stesso ho dovuto faticare per cavarglielo di bocca. Credo tuttavia ch’esso riuscirà illuminante per chi conosce in lui solo il direttore d’orchestra e non immagina da quale complessa evoluzione spirituale sia uscita la sua figura di uomo di teatro. Dalla letteratura (non solo musicale) alla musica pura; e dalla musica pura all’opera, senza mai mettere alla porta la letteratura. Questo l’itinerario del più colto dei nostri attuali direttori d’orchestra. Forse solo Vittorio Gui, che appartiene però ad altra generazione, ha letto tanti libri quanto Gavazzeni. In sé il fatto può anche significare poco o nulla. Non mancano esempi di grandi e trascinanti direttori d'orchestra, che di libri ne avevano letti pochissimi. Il caso di Gavazzeni resta però esemplare perché dai libri egli non ha fatto che ricavare una lezione di umanità: il che non avviene a tutti. Intorno al ’30, che è suppergiù la data del nostro primo in-

contro, Gavazzeni era, o poteva sembrare, un giovin signore

lombardo, studioso di musica, curioso di libri, ma non ancora toccato dal demone. Quand’era di passaggio da Firenze

frequentava le «Giubbe rosse» come tanti altri giovani scrittori accusati di vivere nella «torre d’avorio» e non sembrava

di stoffa diversa. In realtà, forse la stoffa era la stessa e la torre d’avorio esiste ancora per Gavazzeni, indefesso autore di journaux intimes, che resteranno fra i più notevoli documen-

ti del nostro tempo. Ma qualcosa è indubbiamente mutato se dal dilettante gratuito e «disponibile» è uscito fuori un uomo concreto, capace di alienarsi completamente nella buona riuscita di un grande spettacolo musicale: un uomo che sente il melodramma, l’opera, come un fatto di vita, ed è perciò lontanissimo da coloro che, intellettualisticamente, «ritornano

al melodramma», portando nella nuova scoperta il peso delle loro inutili complicazioni. Dal ’36 a oggi Gavazzeni ha pubblicato quindici volumi e ne ha tre in preparazione, e dal ‘40 comincia la sua attività di direttore di opere teatrali. Parlando di lui Alfredo Gargiulo si era chiesto se il letterato avrebbe ucciso il musicista, 0 se sa-

rebbe accaduto il contrario. S'è avverata una terza ipotesi, poco credibile allora. Una simile energia si trova, di solito, soltanto in chi viene dalla gavetta; mentre Gavazzeni è sceso 41

al teatro da sfere assai elevate, dopo una gioventù difficile e problematica. Inoltre le sue concertazioni sono quelle di un uomo del mestiere, non di un decadente che si degni di dirigere opere teatrali. È sceso dunque al teatro o è piuttosto asceso? Se confrontate la sua Butterfly con quella di Karajan (tutt’e due sono registrate) sapete subito chi dei due è il latino e chi il gotico-decadente. Si noti che del decadentismo come periodo storico Gavazzeni ha un’alta opinione, lo considera come uno dei fiori dell’Ottocento. «È stato un fenomeno» dice «di grande importanza vitale.» Ma è prudentissimo di fronte alla ripetizione «a freddo» del fenomeno. In questo gusto apparentemente «borghese», in realtà nutrito di solido buon senso, Gavazzeni si avvicina più d’ogni altro a Toscanini, di cui ha registrato i «detti memorabili» nei suoi diari. Dell’Ottocento ama e rispetta tutto, anche il deprecato verismo musicale. Dopo... è un’altra musica. «Checché abbiano scritto» mi dice «i teorici e apologeti dodecafonici, e più tardi quelli elettronici e concertisti, temo

che l’invenzione musicale vada esaurendosi nell'uomo moderno. Ci si avvia alla scomparsa della nozione di “musica” così come essa è stata configurata dal Cinquecento a oggi. Ma era forse scritto che un simile concetto dovesse durare fino alla fine del mondo? È già tanta la musica esistente che non si finisce mai di conoscerla e di studiarla.» E ancora: «Qualunque cosa accada nella vita delle arti certi testi ci garantiscono per il presente e per il futuro: basta riaprirli. Mi è accaduto in questi giorni con un volume di scritti minori di Baudelaire. Quel che conta è che opere simili continuino a esistere nella nostra vita. Così, il mese scorso, ho ritrovato,

dopo un ventennio, l'emozione, il cuore in gola, per l’immaginaria pittura di Elstir, attraverso Proust». State pur certi che queste idee — che non stupiscono in un lettore di Huizinga, di Ortega y Gasset e di Thomas Mann non impediranno affatto a Gavazzeni di scoprire, tra i primi, il nuovo musicista di domani, se ne verrà fuori uno. Il suo

pessimismo, come spesso accade, non è che uno degli aspetti della sua fede. Così, col suo bagaglio di libri da leggere o da scrivere, con poche amicizie, quasi tutte di letterati, Gavazzeni continua il suo viaggio in quella difficile selva ch’è il mondo dell’opera. 42

Non ha nulla dell’esteta, non si cura di dirigere a memoria, e non passa le giornate ricopiando sinfonie (come altri fanno) per mandarle a niente. Le sue idee sull’opera le esprimerà in un volume sulla «vocazione e l’esperienza operistica», se riuscirà a scriverlo. Ma per chi conosce Gavazzeni, chi l’ha sentito parlare, chi ha assistito alle sue esecuzioni, questo libro è già scritto da un pezzo. Basta saperlo leggere.!

Toscanini C.d.I., 15-16 gennaio 1958 (n. 1658)

Un anno fa — il 16 gennaio — moriva a Riverdale, presso Nuova York, Arturo Toscanini. E in quell’occasione, e più tardi quando la salma del Maestro fu portata a Milano, la stampa di tutto il mondo dedicò allo scomparso il più commovente

omaggio che mai, a memoria d’uomo, fosse stato tributato a un musicista italiano. Che cosa possiamo oggi aggiungere a

quanto allora scrivemmo di lui? I suoi meriti di musicista e di

interprete hanno trovato illustratori coscienziosi e attenti, la sua vita ha avuto biografi innumerevoli tra i quali si annoverano non solo musicologi ma anche - seppur con poche pagi-

ne — scrittori «specializzati», come lo Zweig, in vite di eroi 0

di «uomini-faro». Romantica, ricca di aneddoti, coronata da folgoranti successi, la vita di questo artista venuto dal popolo, di questo grande uomo libero che seppe tener sempre la testa alta in tempi di oscuro servilismo, è stata frugata in tutti i sensi e in tutte le direzioni. Nulla evidentemente potremmo dire a chi conosce a memoria le tappe di quella esistenza, nulla a coloro che ricordano le grandi interpretazioni che hanno dato alla Scala il primato ch’essa tenta ancora di mantenere fra tutti i teatri d'opera del mondo. Ma esistono anche i giovani, quelli per i quali Toscanini era ed è poco più di un celebre nome; i giovanissimi, per i quali il nome di Toscanini è associato sole della Sera del 1 Subito dopo la pubblicazione di questo scritto sul Corrier suonare. di e ivament definit smise pianista gentile la 1956, 7 agosto 43

tanto a «musiche in scatola», a dischi e grammofono. E a questi si può ricordare qualcosa che essi forse non sanno o che hanno forse dimenticato. Toscanini è stato l’uomo che più d’ogni altro, sul finire del secolo scorso e nei primi decenni del nostro secolo, ha contribuito a elevare il livello del teatro musicale italiano, mutando

e trasformando radicalmente una situazione di fatto che sembrava ormai inguaribile e immodificabile. Toscanini è entrato nella vita teatrale italiana quando le più viete convenzioni e i più ridicoli arbitrii offuscavano le esecuzioni dei nostri capolavori ottocenteschi, quando lo stesso Verdi pareva ormai rassegnato a non riconoscer più i «tempi» delle sue opere, magari a due mesi di distanza da prime esecuzioni sorvegliate da lui; è entrato nella vita teatrale italiana quando non esistevano enti sovvenzionati ma solo società private e impresari

che al direttore d’orchestra chiedevano solo di agitare la bacchetta, non già di ingerirsi nella scelta degli artisti o addirittura del repertorio e tanto meno in questioni di allestimento e scenografia: è entrato nella vita teatrale italiana quando ancora non si parlava di regia o di registi, quando gli spettacoli si svolgevano a sala illuminata e all’opera (magari all’opera di un genio) faceva obbligatoriamente seguito un ballo di qualità musicale spesso indecorosa; quando l’orchestra, non ancora sprofondata nella fossa, faceva siepe tra il palcoscenico e il pubblico; e quando i divi del canto si permettevano licenze di ogni genere e persino un Maurel, che era uno degli artisti più intelligenti, poteva bissare, alla Scala, e fin trissare il prologo dei Pagliacci. Toscanini si affacciò al podio della Scala quando gli intelligenti del tempo consideravano l’opera (italiana) come un genere musicale di bassa lega, sostanzialmente buono per la populace ma non per gli iniziati; e più tardi si affacciò al podio del Metropolitan - e fece trionfare il nostro repertorio — quando il gusto della musica tedesca imperava e quando i soli direttori d’orchestra che riscotessero credito dovevano venire dalla Germania. Ebbene: se oggi esistono giovani e giovanissimi (sono ancora pochi ma cresceranno di numero) che

possono recarsi alla Scala o in altri grandi teatri nostri e ascoltare esecuzioni tenute a un buon livello artistico e rispettosamente fedeli ai testi, esecuzioni nelle quali lo scrupolo fi-

44

lologico si sforza di non andar disgiunto dall’estro inventivo, questo fatto porta, primo e più alto fra altri che poi seguirono, il nome di Toscanini. Fu una battaglia che durò dalla prima giovinezza del Maestro fino al suo definitivo addio alle scene; e una battaglia che resta quasi incredibile a chi conosca quanta è la forza passiva di certi ambienti e quanto sia difficile togliere di mezzo consuetudini e stratificazioni ormai inveterate. Perciò quando qualche giovane esteta supercilioso viene a dirci che non conviene esagerare e che dopotutto To-

scanini era un artista d’interpretazione e non di creazione, e

che i suoi gusti musicali furono quelli del suo tempo e ch'egli non sentì crescere l’erba d’oggi, noi dobbiamo stringerci nelle spalle e ricordar loro che la rivoluzione compiuta da Toscanini è stata la maggiore che potesse compiersi negli anni più luminosi della sua esperienza teatrale. Da un punto di vista storico si può dire che Toscanini sia stato l’ultimo e probabilmente il più grande dei Maestri che abbiano creduto nella musica «scritta». Toscanini credeva che le partiture, lette attentamente ed eseguite con piena fedeltà al testo originale, fossero già da sole sufficienti a esprimere tutti i loro segreti. Non fu perciò, in questo senso, un

divo, anche se del divo ebbe l’intransigenza e il senso del proprio valore, perché in lui mancò del tutto la pretesa di sovrapporre all’opera d’arte la cosiddetta «personalità» dell’interprete. Il suo ideale fu quello di lasciar parlare la musica; non gli esecutori, non lui, Toscanini. Può darsi, anzi è certo,

che a un certo punto si sia andati «a sentire Toscanini», non propriamente a sentire il Tristano 0 il Falstaff; ma ciò avvenne senza sua colpa o intenzione. Un artista non è mai responsabile della «personalità» che gli viene attribuita, gettata addosso come un mantello; a meno ch’egli non si presti all’equivoco e accetti di identificare se stesso con la maschera che gli viene attribuita. I direttori che ci propongono la loro personalità, che fin dal principio ci fanno sapere che intendo-

e no fare diversamente dagli altri, sono venuti dopo di lui,

oggi sono legione. Sono coloro (e non hanno tutti i torti) per i quali i segni del pentagramma non esauriscono il fenomeno musicale; oppure (ed è l’ipotesi peggiore) quelli che vogliono distinguersi dagli altri a ogni costo. 0 Toscanini è stato presentato più volte come un demiurgo 45

un mago; e io ricordo che in un paese della riviera ligure, nei primi anni del nostro secolo, quella povera gente, che ignorava tutto di lui, lo chiamò subito «l’uomo dei giuochi», cioè il prestigiatore, tanta era la forza di suggestione che da lui, e dal suo modo di vestire, irradiava. Eppure non si spiega nulla di lui e di quel continuo bisogno di solitudine e di evasione che caratterizzarono (soprattutto quando egli fu al culmine della fama) la sua vita se non si riconosce ch’egli fu sostanzialmente un uomo semplice, sbigottito, anzi atterrito dal personaggio ch’egli era inconsapevolmente diventato. Nei gusti, nelle abitudini, nel modo di vivere, nella stessa

severa intransigenza che lo portò al rifiuto del laticlavio e che lo induceva spesso a fraternizzare con gli umili e a tenersi lontano dagli ambienti del lusso e della mondanità, egli restò sempre il tipo stesso dell’eroe borghese, nato apposta per non intendersi col prototipo dell’eroe allo specchio, col D° Annunzio.

Toscanini fu anche l’ultimo esemplare del grande artista artigiano che ci fosse rimasto. Chi ha lavorato con lui (artista di canto o professore d’orchestra) ha creduto a un certo punto di aver sorpassato le sue possibilità, non per effetto di una forza medianica, ma per il semplice fatto di aver imparato il proprio mestiere. E ancora oggi l’uomo di teatro o il semplice maestro sostituto o il modesto suggeritore che possa dire di aver «lavorato» con Toscanini, si direbbe che porti con sé il segreto dell’autenticità. Grande distruttore di ogni forma di esibizionismo e di gigionismo, Toscanini visse abbastanza a lungo per vedere risorgere in varie forme il nemico ch’egli aveva combattuto. Non c’è nessun dubbio che tra la formazione rigidamente ottocentesca del Maestro e la concezione spettacolare non solo del teatro ma della vita stessa che oggi predomina non ci fosse possibilità d’intesa. Il Toscanini degli ultimi anni, l’uomo di Riverdale, non avrebbe potuto vivere che là, confortato dal canto di quaranta canarini, in una sorta di esilio dorato,

perché là solo, in parte nascosto, in parte ingigantito agli occhi del mondo, egli avrebbe potuto parlare alle moltitudini come a ben pochi altri artisti fu concesso. Là solo, da un piedistallo ch’egli non aveva mai né voluto né presentito, egli poteva trovare le condizioni adatte a restare se stesso senza 46

troppo smentire «l’altro Toscanini», l’uomo di fama universale da cui tutti attendevano nuovi doni. Ma il cuore dell’uomo, ne siamo certi anche se ci mancassero le testimonianze,

| era rimasto semplice, incorrotto. sentiremmo di ci non sinfonica Come interprete di musica ormai lonricordi di giudicarlo in modo assoluto sulla scorta tani; ma quanto al suo gusto personale, al suo modo di sce-

gliere il repertorio e di sentire l’arte dei suoni non possiamo non rilevare ch’egli è stato forse anche l’ultimo musicista che abbia attribuito all’invenzione il posto che a essa spetta nell’arte della creazione musicale. Toscanini, interprete d’una sottigliezza capillare, tecnico a cui nulla sfuggiva della più difficile partitura, non si lasciò mai sedurre dalla tecnica e non pensò mai che il suono preso in sé come fatto acustico suscettibile di una teoria e di un’analisi quasi scientifiche potesse sostituire la mancanza di un fantasma musicale, di un vero e proprio sentimento tradotto in figurazioni musicali. Compagno di strada dei «veristi» dell’ultimo Ottocento (che in Italia, non bisogna dimen-

al ticarlo, erano, a modo loro, all’avanguardia), egli impose

pubblico italiano, che a tutta prima non mostrò di gradirle, opere come la Luisa e il Pelléas, ma non si spinse oltre. E d’altronde gli ultimi anni della sua carriera d’interprete non furono dedicati ad esecuzioni teatrali. Ai tempi della sua giovinezza la presenza di un uomo in un teatro, di un solo uomo deldella sua tempra, poteva esser tutto. Oggi la «macchina» numero l’infinito e creati le esecuzioni (compresi gli interessi codi persone che vivono di musica e per la musica) si è fatta di presenza la sì pesante che forse in nessun teatro del mondo Toscache un uomo d’eccezione potrebbe aver l’importanza e a nini ebbe in gioventù a Torino, nella maturità alla Scala orNuova York, al Metropolitan e alla testa di due grandi il teachestre. Non c’è dubbio che Toscanini, quando lasciò suoi ultimi gli E conto. tro per l’auditorium, se ne rendesse ra(la tecnici mezzi anni furono dedicati a servirsi dei nuovi parmaggior la dio, le incisioni) per trasmetterci molte (forse anche delle te) delle sue esecuzioni sinfoniche, e qualcuna te e direi teatrali. Solo chi ascolterà quelle musiche conserva del Maequasi refrigerate, con l’ausilio di qualche biografia furono i che tempi dei storica stro, e con piena intelligenza 47

suoi, potrà comprendere quale miracolosa avventura umana, quale prodigio di sensibilità, di buona fede e anche di intelligenza potessero render possibile la «missione musicale» di questo grande amico e confortatore degli uomini.

Titta Ruffo C.d.I., 5-6 luglio 1958 (n. 1104)

Compiono oggi cinque anni dalla morte di Titta Ruffo (Firenze, 5 luglio 1953) e benché un lustro sia troppo breve tempo per tentare una commemorazione (di solito si attende almeno mezzo secolo) alcuni amici e ammiratori del grande baritono pisano mi hanno scritto per chiedermi di ricordarlo. Indubbiamente Titta Ruffo, celeberrimo cantante e tempra di italiano esemplare che soffrì persecuzioni e anche il confino per aver mantenuto la sua indipendenza di pensiero in un tempo di oscuro servilismo, non merita la dimenticanza in cui sembra esser caduto. Ma tant’è: Titta era un cantante, e

fra tutti gli artisti di teatro i cantanti sono quelli che entrano più facilmente nell’oblio. Solo qualche donna, qualche illustre primadonna — dalla Malibran alla Patti, dalla Cavalieri alla Callas — affida o affiderà il suo nome alle cronache, per ragioni non sempre attinenti all’arte (la péche Melba non appartiene al bel canto ma alla gastronomia). Artiste simili hanno segnato una moda, un costume, sono entrate, magari di straforo, nella cultura del loro tempo. Ma quale traccia potevano lasciare nella storia del nostro costume i Titta Ruffo e i Viglione Borghese, artisti che non ebbero dietro di sé una leggenda, nemmeno quella romantico-sentimentale di un Caruso? Purtroppo ho poco avvicinato Titta Ruffo e poco l’ho sentito cantare. L’uomo, che conobbi a Firenze, era affascinante

per la semplicità del tratto. L’artista solo due volte l’ho ascoltato a teatro: nei Pagliacci e nell’Amleto di Thomas, intorno — ma posso sbagliare — al 1920. Molti anni prima avevo posseduto un disco Pathé, inciso suppergiù nel 1905, che portava due arie cantate da lui: Il balen del Trovatore e Vien Leonora della Favorita. Questi dischi (o cilindri) del 1905 sono 48

molto imperfetti, ma restano forse i soli che riproducano fedelmente il colore della sua voce. Credo che qualcuna delle incisioni comprese tra il 1905 e il 1914 sia stata più tardi riportata in microsolco, con un risultato fonico assai dubbio. Se non mi ingannano ricordi non recenti i dischi più moderni di Titta Ruffo non rendono affatto il bronzeo, ineguagliabile colore della sua voce. I vecchi cataloghi della Voce del padrone indicavano Titta Ruffo come un rappresentante della «scuola moderna», e tale fu Titta se paragonato, per esempio, a Battistini e a De Luca, artisti di lui meno idonei al grande repertorio drammatico verdiano e all’opera «verista» che seguì. Ma qui si fermava la ‘modernità dell’artista, perché il suo canto era d’impostazione rigorosamente classica. La sua voce sembrava, ed era, ecce-

zionale per l'ampiezza e la continuità dell’arco sonoro e per l'incredibile estensione, e in questo senso si poterono leggere, su di lui, referti di medici che misurarono le sue corde vocali, i «seni» della sua vasta fronte, e tutti i risonatori della sua «maschera»

(nell’archivio del Colén di Buenos Aires esiste

una sua cartella clinica che fu letta e trascritta pochi anni or sono da Giuseppe De Luca). E tuttavia come potrebbe oggi destreggiarsi con le sottili esigenze del repertorio modernissimo un cantante come lui, o come fu Nazzareno De Angelis,

dotato di una voce che si poteva paragonare al rombo di una valanga? Con Titta Ruffo, e con qualche raro suo simile, non è morto il canto, ma è morto il canto eroico. Egli stesso distinse tra arte vocale (Caruso) e arte verbale (Sagljapin). Nel suo tempo Titta — ch’era orgoglioso di avere studiato recitazione con Virginia Marini — intravide e tentò di conciliare le due contrarie qualità. E così si spiegano i diversi modi del suo canto: la forte colata sonora di Adamastor re dell’acque profonde (Meyerbeer) oppure di Sei vendicata assai (Dinorah), oppure di Zazà piccola zingara e, all’opposto, il quasi strascicato lamento ch’egli dette alla figura di Amleto, in un’opera oggi ineseguibile, a lui lasciata quasi in eredità da Victor Maurel, che fu uno dei suoi primi amici ed estimatori. Se consultiamo l’elenco dei dischi incisi da Titta ci rendiamo conto del notevole eclettismo dimostrato da questo artistà quasi autodidatta in tempi notevolmente favorevoli al gi49

gionismo e ai facili effetti. Vi troviamo non solo Rigoletto e Trovatore, Don Carlos e Aida, Chénier e Tosca ma anche

opere come il Demone di Rubinstein, cantato in un russo che, a quanto si disse, non mancava di qualche inflessione pisana; e vi troviamo canti popolareschi, come E! relicario di Padilla, da lui trasformato in un capolavoro. E che dire di certe interpretazioni apparentemente minori, come quella di Siberia? Il suo Gleby fu considerato una scoperta. Tra i vecchi dischi incisi da Titta Ruffo non manca neppure qualche curiosità: si veda per esempio il Tremin gl’insani del Nabucco (registrato nel 1914), nel quale Titta canta da solo tre parti: una di baritono e due di basso. Nell’insieme, però, le forse centocinquanta incisioni lasciate dall’artista sono rivelatrici di un gusto, di un temperamento e del carattere musicale di una lunga stagione del nostro teatro lirico. Nello studio di ogni nuova partitura Titta era scrupoloso fino alla mania: non per nulla la sua arte di attore fu paragonata a quella di Salvini. Arte veristica per eccellenza. Si racconta che quand’egli studiò l’Ozello un suo fedele servitore si licenziò da lui dicendo che s’era trovato benissimo con Titta Ruffo ma che gli riusciva impossibile di vivere accanto a uno Jago! Non so se esista oggi un album, una antologia delle migliori interpretazioni dell’artista. Quella ch’è stata fatta di Caruso, utilizzando vecchie matrici, dovrebbe scoraggiare tali iniziative, che hanno carattere unicamente commerciale. Ignoro anche se nelle scuole dove si insegna il canto (a Santa Cecilia,

per esempio, dove non posso credere che sia in cattedra un nuovo Cotogni) qualche vecchia e significativa registrazione del grande Titta sia proposta, non all’imitazione ma allo studio degli allievi. In ogni modo la voce registrata di Titta — anche quand’essa sia poco più che la monocroma fotografia di un bel dipinto — potrà sempre, coi suoi pregi e i suoi difetti, insegnare qualcosa. Uscito da una famiglia di modesti artieri, fabbro egli stesso nella prima gioventù, Titta Ruffo fu uomo di una semplicità esemplare, alieno da ogni divismo. Non lo si direbbe ascoltando quel brindisi dell’Am/eto che fu la sua interpretazione più famosa, e ch’è tutta un portento di pirotecnica vocale.

Ma chi ha conosciuto davvicino l’artista sa che anche per il suo carattere, per la sua tempra d’uomo, egli meritava e me50

4 riterà in avvenire un ricordo durevole nella storia del nostro

teatro d’opera.

Dal teatro alla vita C.d.S., 21 maggio 1968 (n. 1754)

Il volumetto Maria Callas che ho sottomano fa parte di una collezione pubblicata da Longanesi e dedicata a uomini e donne di cui oggi si parla. Hanno figurato nella serie Fanfani, Umberto, Maria José, Sofia Loren e il sedicente cantante Celentano; alcuni malvagi affermano che vi saranno presentati anche uomini di lettere, fra i quali il sottoscritto. Autrice di questo profilo callasiano è Camilla Cederna di cui è superfluo sottolineare l’arguta intelligenza e il pieno scrupolo professionale. Il ritratto della diva può dirsi perfetto e del tutto riuscita è la rievocazione del tempo e dell’ambiente in cui si svolse la luminosa e anche tempestosa parabola della divina per antonomasia. Riassumere il racconto della Cederna, così folto di particolari pur nella concisione di appena cento paginette, sarebbe impresa destinata all’insuccesso perché lascerebbe sfuggire il più e il meglio del ritratto: lo sfondo mondano-sociale e persino culturale che rese possibile l'apparizione e la dissolvenza dell’appena credibile stella. Tuttal più si può aggiungere al libro qualche postilla o meglio qualche riflessione sul fenomeno del divismo teatrale nel tempo dei mass media, ossia in un tempo particolarmente favorevole a esplosioni di notorietà molto più intense di quelle di cui furono oggetto e vittime i divi di lontane stagioni.

Occorre star fermi al campo del teatro e particolarmente del teatro d’opera perché il divo (seppure con altri nomi) non può dirsi specifico di questo campo ed è reperibile in tutte le attività che possono fare dell’uomo o della donna un personaggio pubblico. Ma se non restassimo nell’ambito del teatro rischieremmo di far passare per divo anche il chirurgo Barnard, oggi molto più famoso dei modesti coniugi Curie. Inoltre dovremmo far posto a illustri lavoratori del piede e della Sal

testa (i calciatori) e a non so quanti altri che per varie ragioni

fanno parlare di sé. Nell’ambito dello spettacolo, invece, e in particolare in quello del melodramma, il solo di cui ho esperienza diretta, se mi chiedessero che cos'è il divo risponderei ch’esso è, non sempre ma quasi sempre, una donna: la diva, la primadonna. So bene che esistono registi-divi (Visconti, Zeffirelli), direttori d’orchestra - divi (Karajan); ma qui ci sono differenze che mi trovano impreparato. In fatto di primedonne mi sento più sicuro e ho pronta una risposta che mi sembra esauriente:

raggiunge il titolo di diva la cantante che sa trasformare in pregi i suoi difetti. Si può aggiungere, anzi, che senza tali difetti l’artista potrebbe percorrere una brillante carriera ma non diventerebbe mai un fenomeno sociale e mondano. Naturalmente i difetti non devono essere solo tecnico-vocali ma anche particolarità che investano tutto il carattere dell’artista e che «facciano notizia». La diva parte dal teatro ma ne esce quasi subito (spesso in ritardo) per diventare un personaggio. A tale scopo, volontario o meno, scandali, pettegolezzi, indiscrezioni sono ingredienti necessari per tenere accesa la mic-

cia. Se non ci fossero, un accorto impresario dovrebbe provocarli artificialmente. È ovvio che un successo di questo genere è difficilmente accessibile a un uomo. Ho conosciuto alcuni grandi cantanti (maschi) dei cosiddetti anni Venti, Trenta, Quaranta. Fuori

del teatro non erano uomini interessanti; sul palcoscenico avevano lampi di intelligenza e persino di sensibilità, e si noti che allora non esistevano i grandi registi, i grandi consulenti e specialisti dello spettacolo. Ma visti a tu per tu non offrivano motivi di interesse. Titta Ruffo era rimasto un uomo semplice, un abile e modesto fabbro pisano. Ebbe anche sufficienti necrologi; altri sono morti con quattro righe sui giornali e oggi nessuno li ricorda, esclusi Eugenio Gara e Rodolfo Celletti. Il caso Callas era di natura ben diversa e qui chiedo licenza per una breve digressione. Il romanticismo — ma si può risalire addirittura fino a Diderot — ha lasciato tutta una letteratura sul presunto dissidio psicologico che si crea fra la grande comédienne quale donna 2

pubblica e la vera e propria donna in carne e ossa che è in lei. La diva inventa se stessa sulle scene: si crea una personalità che in effetti non le appartiene. Anzi, se dovessimo riferirci al Diderot, il grande attore deve simulare i sentimenti ma non provarli affatto; se poi giungiamo a Brecht, l’attore non deve nemmeno simulare, non deve perdere il suo carattere di «persona» (maschera). Edmond de Goncourt nel suo capolavoro — La Faustin, 1882, libro che nessuno legge — portò all’acme il preteso dissidio. La celebre attrice Faustin esiste e trionfa solo sulle scene; nella vita privata non è nulla, è uno zero as-

soluto. za. Ma donna. manzo

Di qui, la sua consapevolezza, la sua tragica sofferendi qui anche, in negativo, la sua reale intelligenza di È probabile che Pirandello non conoscesse questo roquando riprese e guastò il tema in uno dei più infelici

suoi lavori: Trovarsi, in Italia poco noto, in Francia trionfal-

mente rappresentato l’anno scorso. Ora possiamo chiederci se esiste qualche analogia tra l’immaginaria Faustin e la vivente e tuttora incombente Maria Callas. Personalmente io le ho parlato una sola volta sull’aereo che ci portava da Atene a Parigi. Fu cortese, ma all’arrivo, pur mostrandosi sorpresa che io non avessi una macchina in attesa, non mi offrì un posto sulla sua. In questa c’era un uomo, non il Battista né il grande Greco. Da tempo era divisa dal marito. Ma era poi facile vivere con lei? Qui debbo riferirmi a quanto ce ne dice la Cederna. Pare che avesse un sale

caractère, un temperamento che provoca e anzi alimenta i

pettegolezzi e gli scandali. Sulla scena non poteva soffrire i partner, anche se di prima grandezza. Si guastò con molti teatri, col Metropolitan, con la Scala (salvo poi riapparirvi trionfalmente ma «con una voce diversa» dopo ch’ebbe perduto una trentina di chili); si guastò con Edimburgo, con l'Opera di Roma quando non andò oltre il primo atto di Norma. Era in palco il presidente Gronchi che batteva impaziente il tacco e poi lasciò il teatro. Grande fu l’indignazione del pubblico e della stampa. Ma è quasi inutile insistere su incidenti che sono di dominio pubblico. Anche la sua rottura matrimoniale non fu poi un grande scandalo; il nostro tempo non si scandalizza per così poco. Più curioso è apprendere che prima della rottura il patriarca Atenagora, in presenza del Battista, aveva intrecciato le mani di Maria e del Greco

EE)

benedicendoli: e il Meneghini ebbe il sospetto (sic) che si trat-

tasse addirittura di un matrimonio avant letire. E qui lasciamoci alle spalle le chiacchiere e le maldicenze e vediamo come e perché la Callas poté trasformare-in pregi i suoi difetti. Si può dirlo in poche parole. Non è che avesse due o tre voci, come si è affermato. Ogni cantante, dopo una certa carriera, sa bene di averne avute altrettante. Artisti non famosi, dovendosi piegare all’eclettismo di un vasto repertorio, hanno dovuto riadattare di volta in volta la loro voce. Ma in genere, fino all’apparizione della Callas, i cantanti maggiori si mantenevano nei limiti della loro specialità. La Callas, che quando apparve alla Scala pareva destinata alla carriera del sopranone drammatico, ruppe invece queste barriere. Fattosi più esile il registro centrale dopo la cura che le fece perdere molta zavorra, non per questo le venne meno il forte temperamento drammatico. D’altronde il genere comico le era vietato (il Barbiere fu un mezzo disastro) e il suo orgoglio di primadonna non le permetteva di figurare prima tra i suoi pari in opere di cui non fosse protagonista. Quindi anche Mozart era da escludersi. Restavano e non erano rare le parti (spesso in opere poco note) nelle quali un drammatico d’agilità, mostro oggi quasi scomparso, potesse cimentarsi e vincere

la partita. E questo avvenne puntualmente in quelle nove o dieci opere a cui resterà giustamente legato il suo ricordo. Bellini e Donizetti furono tra i suoi cavalli di battaglia: dovunque fosse una scena della pazzia il suo trionfo era inevitabile. Le opere «veriste» le erano meno congeniali, Tosca fu una parziale eccezione perché qui l’attrice vinceva sulla cantante, ma non credo che il si bemolle fosse il forte della Callas, che invece si spingeva più o meno fortunosamente alle note sopracute. La dizione era chiara e scandita anche se il suo italiano quasi veneto le rendeva ostico il raddoppio delle consonanti. Si aggiunga l’eleganza della figura e del portamento e la squisita sensibilità nella mezzavoce (è la terza Callas, quella che incise numerosi dischi sotto la direzione del geniale Georges Prétre). E ora ditemi: che cosa si poteva chiedere di più a un’artista lirica? Resta insoluto il problema, probabilmente artificioso, se in lei fu dissidio o dramma tra la sua figura di diva e quella che fu la sua ron privata privacy. A mio avviso il dissidio dovette 54

ridursi a ben poco. La Callas resterà famosa anche quando non potrà più aprir bocca. Ce l’assicurano le sue numerose registrazioni, quali nessun altro artista ebbe mai. Esse sono tutte ricordate e talora commentate nel libro stesso della Cederna da Mario Pasi.

Ora, per concludere, almeno due parole sul problema degli artisti che hanno due o tre voci. In un recente numero della Nuova Rivista Musicale Rodolfo Celletti ci parla di Mariano Stabile e del suo Falstaff. Il baritono aveva già compiuto una buona ma non eccellente carriera quando fu accettato e istruito da Toscanini per quella parte. E risultò che non solo i pregi quanto i difetti vocali dell’artista concorrevano a far di lui un perfetto protagonista di quell’opera. Rilevato il fatto, l’acutissimo Celletti si chiede se lo Stabile prefalstaffiano non avesse per avventura una voce diversa, un’altra voce. La mia risposta è affermativa. Io ricordo uno Stabile-Jago intorno al 1914-1915. Aveva accanto a sé un Otello baritonale, potentissimo, anche se non grande artista. Eppure Stabile era senza dubbio più baritono del suo pericoloso antagonista. La voce non era chiara di colore e nel Credo fu anche molto robusta nel registro centrale. Perfetta l’interpretazione, non inferiore a quella dell’ormai sconosciuto Francesco Cigada. Evidentemente, al tempo dell’incontro con Toscanini, lo Stabile aveva

posto in frigorifero, o perduto, la sua prima voce, trovandone una che si adattava mirabilmente al nuovo personaggio la musicale. Non per questo Stabile divenne un divo e mai era sua vita privata destò l’interesse della stampa. Egli non ed disceso dall’Olimpo (liberty) delle grandi mode culturali altri, non era, per giunta, un uomo, un uomo come tutti gli

una misteriosa e affascinante primadonna. Per lui e per i suoi simili esistevano dunque limiti insuperabili.



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«Il giro di vite» di Britten C.d.I., 15-16 settembre 1954 (n. 688)

Venezia, 15 settembre, mattina

Uno dei più grandi racconti di Henry James, Il giro di vite (The turn of the screw), a poco più di cinquant’anni dalla na-

scita (1898), è comparso, sotto forma di libretto d’opera, alla

Fenice di Venezia, in una prima mondiale a cui ha assistito un pubblico folto, elegante e probabilmente impreparato, che ha fatto tuttavia al lavoro una festosa accoglienza. Bisogna esser grati al festival veneziano di musica contemporanea di essersi assicurata la primizia assoluta di questa tragedia tascabile, e di avere, anzi, incitato il musicista, Benjamin Brit-

ten, ad affrontare questo difficile compito. I festival musicali

sono già molti, in Europa, e si trovano tutti più o meno in

difficoltà, anche perché il pubblico che vi affluisce è tutt'altro che sterminato. Con la prima rappresentazione italiana di Porgy and Bess di Gershwin — imminente — e con la prima mondiale del Giro di vite, Venezia ha compiuto un tour de force che dev'essere riconosciuto. Benjamin Britten e Giancarlo Menotti (più musicista il pri-

mo, più teatrante il secondo) sono i due musici contemporanei ai quali si deve l’apparizione dell’opera da camera, del melodramma per piccoli complessi che il Berg di Wozzeck aveva in parte intravisto e realizzato, senza però salvarsi da un certo s0SO

vrappiù di tristanismo e di titanismo orchestrale che esaspera al di là dell’umano il pur bellissimo dramma. Nella sua opera più discussa, I! console, Menotti ha tentato, meglio che una tragédie de poche, un romanzo musicale, una narrazione com-

mentata da una musica di scena, funzionale, volutamente pro-

sastica; e quand’è riuscito più fuso e concreto ci ha fatto sentire opericciole leggere, da music-hall. A partire dalla ricca ma pesante saga di Peter Grimes, Britten è andato sempre più av-

vicinandosi alla meta del vero e proprio dramma per piccoli complessi. Un passo indietro sembrò alla critica l’opera ch'egli scrisse per l’Incoronazione; ma chi ha ascoltato, tre anni fa, a

Parigi, il suo Billy Budd (dal racconto di Melville), vivo e potente nelle parti ambientali e drammatiche, ma appesantito dal ricorrente e fastidioso intervento di una inutile voce recitante, ha avuto la netta impressione che ormai Britten si avvi-

cinasse alla meta. Oggi la prima tappa veramente importante ci sembra raggiunta con questo Giro di vite, opera in due atti e

sedici quadri scritta per sette voci (tre soprani, due voci bianche e uno o due tenori) e per tredici strumenti. L'ha realizzata l’English Opera Group, una associazione di musicisti, scenografi, librettisti che amano l’opera e che hanno svolto la loro attività soprattutto nell’ambito dei festival di Glyndebourne, di Aldeborough e di Devon, fondando, nel ’48, anche un’Opera School. L’English Opera Group, che ha oggi cinquecento soci, è un’associazione privata che si propone di far fiorire l’opera, l’opera in musica, in un paese come l’Inghilterra, dove questo genere non conta brillanti tradizioni. Siamo così di fronte a un nuovo tipo di melodramma che si potrebbe chiamare senz’altro il melodramma inglese: un melodramma di pochi e, finora, per pochi, che presuppone un pubblico diverso dal nostro; un pubblico al quale una certa educazione, una certa cultura e una buona carica di «complessi» permettano di intendere e di collaborare. La grande opera di Verdi e di Wagner era nata indubbiamente sotto altra stella; e da questo punto di vista si può sorridere quando si vedono sottolineati il wagnerismo di Schénberg ed epigoni, e il verdismo di Benjamin Britten. La nuova opera da camera, che io mi ostino a chiamare melodramma perché la vecchia definizione può accogliere ancora nuovi contenuti, non è insomma un’opera popolare, o almeno non potrà esserlo da 60

noi per lungo tempo. Se si è affermato che con Faulkner la tragedia greca ha «fatto irruzione» nel romanzo giallo, potrà dirsi di Britten che con lui entra la tragedia nel mondo dello stile Chippendale, che fu appunto, tutto sommato, il mondo di Henry James. Un mondo di benessere e di tragedia felpata, dissimulata. Non so se molti lettori ricordano I/ giro di vite di James. A una istitutrice vengono affidati due bambini, Miles e Flora. Chi glieli affida è lo zio dei ragazzi, che a essa dà carta bianca. Non vuole esser disturbato né ricevere notizie. I ragazzi

vivono in una villa a Bly, con una governante, la signora Grose. Una precedente istitutrice è morta. A Bly l’istitutrice dovrebbe trovare solo la bambina, Flora, perché Miles è in collegio. Trova invece anche Miles, che è in ferie; e, quel ch’è

peggio, una lettera del collegio informa che il ragazzo si è

comportato in modo «assai scorretto» e non potrà più essere

ammesso. Qui entrano in scena due fantasmi che appaiono periodicamente all’istitutrice: sono gli spettri della precedente

istitutrice, Miss Jessel, e di un cameriere, morto anch'esso, un

certo Quint. Cotesti due malefici personaggi avevano inco-

minciato, in vita, un’opera di corruzione a danno di Miles e

di Flora, e intendono continuarla dopo la morte. Anche i ra-

gazzi sono in comunicazione con gli spettri, ne subiscono an-

cora il fascino. L’istitutrice lotta per strappare i suoi pupilli al diabolico influsso, li torchia per fargli confessare il loro peccato, li sottopone a un incessante «giro di vite»; finché il bambino ammette, morendole fra le braccia, la natura demoniaca di Quint, mentre la bimba, forse più radicata nel male,

non riconosce i suoi rapporti con l’ectoplasma di Miss Jessel. Nel racconto di James i due spettri non parlano: si limitano ad apparire dall’alto di una torre. Il climax è affidato tutto all’arte verbale dello scrittore, qui veramente superba. La librettista Myfanwy Piper ha deciso invece di farli parlare e l’inizio del secondo atto ci offre addirittura un duetto di spettri. Ma sono fantasmi che vestono panni e solo in qualche movimento allucinato si distinguono dagli altri personaggi. Com'essi parlino, è difficile spiegare in breve. Probabilmente, se il libretto fosse tradotto in italiano, le parole ci farebbero ridere. Infatti, non una sillaba di questa limpida partitura dovrebbe andare perduta. Qui però, a Venezia, si avvera la con61

dizione — per noi ideale — della parola che si sente e non si sente. Se la Piper ha affidato ai suoi ghosts frasi che solo un imitatore dozzinale del più imbellettato Swinburne potrebbe scrivere (ma il ritornello «the ceremony of innocence is drowned» — la cerimonia dell’innocenza è affogata — appartiene a Yeats) dobbiamo in complesso lodarla per la parsimonia con cui ha limitato queste effusioni. In tutto il resto il taglio delle sedici scene è perfetto e il progresso degli effetti magistrale. I tredici strumenti dell’orchestra fanno, apparentemente, assai poco: commentano sobriamente l’azione e la legano con brevissimi intermezzi nei quali si notano temi ricorrenti.

Ogni interludio forma, anzi, la variazione su un’aria iniziale di dodici note. Si ha quindi probabilmente, alla lettura dello spartito, l’impressione di un anello ben chiuso, di un’architettura esatta come quella del Wozzeck. E a questo proposito non escluderei che l’eclettico Britten abbia imparato qualcosa dal Berg e dal duettino fra Swallow e il tenore, con semplice accompagnamento di pianoforte, nel Rake' Progress stravinskiano. Tuttavia veri raffronti non possono farsi perché il Rake è una deliziosa opera archeologica e il Wozzeck presta una potente musica a un testo che in fondo cammina per conto suo. Qui, invece, il bellissimo canovaccio offerto dalla Piper ci dà un James spolpato e il miracolo di Britten è appunto di esser riuscito a ricreare, con altri mezzi, la sugge-

stione di The turn of the screw. James ha scritto il suo racconto in prima persona. Il suo personaggio era l’istitutrice, la persona che racconta. Erano quindi possibili, e non sono mancate, interpretazioni psica-

nalitiche della sua storia. I fantasmi potrebbero essere un’allucinazione dell’istitutrice, innamorata dello zio dei ragazzi, magari attraverso il tramite del nipote! (Ed è forse un caso che Peter Quint sia stato cameriere di quel fantomatico zio che ella ha visto una sola volta?) Di qui a vedere addirittura nello zio il vero protagonista e addirittura l’incarnazione del genio del Male il passo era breve. Poco di tutto questo poteva ritrovarsi nella riduzione teatrale. Ciò che a Britten serviva era un’atmosfera viziata, più o meno la stessa che va ricercando il romanziere sedicente cattolico Graham Greene. Ma Britten, per quel che ne sappia62

mo, non è un cattolico: è semplicemente un cristiano-pagano

trouble, un artista che ha bisogno di pescare nel torbido: e stavolta l’argomento lo ha magnificamente servito. Più ancora che in Billy Budd dove la falange orchestrale era ancora assai ricca, stavolta la scarsa compagine lo ha indotto a darci, piuttosto che un’opera da camera, un’operaconcerto, nel senso che vi abbondano le parti in cui predominano le modalità e gli schemi della musica che suol dirsi classica: ma non senza, quando l’urgenza del dramma lo richiedeva, quelle invasioni nel campo dell’atonalismo espressionistico che per molti hanno trovato la ricetta migliore nella teoria dei dodici suoni, nella legge dell’indefesso fluire del «totale cromatico». Appare dunque anche qui il vero Britten: sconfessato dai dodecafonici non meno che da quanti credono ancor oggi efficiente la formula della pseudomelodia infinita postwagneriana, a base di raddoppio di violini e di meli-

smi più o meno gregoriani. Sconfessato, eppur vivo e vitale come nessun altro autore di teatro d’oggi. Dire che la musica ch’egli ha composto per Il giro di vite è degna dell’alto argomento da lui scelto è, crediamo, fargli il miglior elogio. Per la

potenza della drammaticità, per il forte e originale carattere vocale di tutta la partitura Britten ha superato da vero maestro la prova e non crediamo di essere dotati di qualità profetiche se prevediamo che la sua ultima opera sia destinata a una vita non effimera. Britten sa cantare, questo è il suo vero segreto. Eclettico è nel senso che tiene tutte le porte aperte, simile in questo a quei poeti moderni (Auden, per esempio) nei quali un frammento della Bibbia può accompagnarsi a una citazione tolta da un giornale sportivo: ma il risultato ultimo è ben suo, e porta sempre il suo nome. Abbiamo detto poc'anzi perché, e in quali limiti, l’opera tascabile risponde a un vero bisogno dei nostri tempi. Aggiungiamo che se un giorno anch’essa diventerà una moda e un poncif, i nostri nipoti assisteranno forse a un ritorno dei

golfi mistici e dell’operone più o meno maiuscolo. Ma occor‘ rerà sempre un distacco dall’opera ottocentesca e dalla recente opera veristica: un distacco per il quale i tempi sono

tutt'altro che maturi. Per ora non un solo Britten, ma molti

altri compositori di teatro degni di lui occorrerebbero a un lavoro di smobilitazione ch'è appena cominciato.

63

Gagliardamente diretto dal giovane autore I/ giro di vite ha avuto un’eccellente esecuzione da parte dei componenti dell’English Opera Group. Il tenore Peter Pears (Prologo e Quint) sa sdoppiarsi a dovere e la sua voce un po’ da clergyman ci ha dato i brividi nella lunga invocazione al ragazzo Miles (massima contaminazione, nell’opera, del sacro e del

profano); i tre soprani Jennifer Vyvyan, Joan Cross, Arda Mandikian sono stati inappuntabili nel canto e nella recitazione. Perfettissimi, quasi incredibili, i due ragazzi David

Hemmings e Olive Dyer, accusati dal libretto di dirsi «orribili cose» e capaci di dirle con angelica semplicità. Le scene sono di John Piper: ingegnose e atte a contenere un numero an-

che maggiore di spettri. Non sono forse troppo visibili, troppo tangibili questi revenants? È questo, forse, l’unico appunto che potrei fare al musicista e alla regia: restando d’accordo che in qualche modo gli spettri qui dovevano apparire e cantare. i Un pubblico magnifico e veramente internazionale, superato il primo effetto di sorpresa, ha accolto con acclamazioni e numerose chiamate alla ribalta l’autore e gli interpreti. Se ci fu qualche dissenso i nostri orecchi non l’hanno sentito. Il parere dei musicisti presenti non abbiamo voluto ascoltarlo prima di scrivere queste note. Britten è ancora e rimarrà a lungo un arti-

sta discusso, obbligato com'è a lottare su due fronti. Ma probabilmente tutti ammetteranno che quella d’oggi è stata una serata indimenticabile per l'Opera Group, per Britten, per il festival veneziano e per il maestro Piovesan che ha, si può dire, sollecitato e visto nascere quest'opera d’eccezione.

«Porgy and Bess» di Gershwin C.d.I., 23-24 settembre 1954 (n. 690; cfr. n. 730 e n. 732)

Venezia, 15 settembre

George Gershwin aveva dodici anni quando prese le prime lezioni di pianoforte, dapprima da una Miss Green, poi da un capobanda ungherese, Mister Godfarb, che gli faceva suonare esclusivamente arie d’opera italiana. Più tardi, presentatosi a un più serio maestro — Charles Hambitzer — ed 64

eseguita dinanzi a lui la sinfonia del Guglielmo Tell si sentì dire: «Al tuo maestro tirerei una freccia, ma senza mettergli la mela sulla testa!». Fece rapidi progressi, e a sedici anni, interrotti gli studi commerciali, lo troviamo già pianista in un complesso di musica leggera di Tinpall Alley. Gershwin era nato a Brooklyn nel settembre del ’98. Di origine russa, figlio di un immigrato che aveva fatto molti mestieri (il fornaio, il tabaccaio, il gerente di bagni turchi o di biliardini), a

diciott’anni il giovane George aveva già cambiato ventotto appartamenti, compresi tre a Brooklyn. Tipico appartenente

a quella generazione che fu detta perduta, o «bruciata» (la generazione di Fitzgerald), della quale egli rappresenta il musicista migliore, non si può dunque far di lui un autodidatta della musica, sebbene a otto anni egli suonasse già il pianoforte a orecchio. Sappiamo ch’egli studiò teoria, contrappunto e armonia con Edoardo Kilenyi: ma sappiamo pure che nella riduzione per orchestra della Rapsodia in Blue egli dovette farsi aiutare; e che egli deluse sempre le aspirazioni dei suoi maestri, e di sua madre, che avrebbero voluto far di

lui un nuovo Mendelssohn. «Un Mendelssohn?» rispondeva. «Magari, ma

un Mendelssohn

americano, il Mendelssohn

della musica popolare.» In questo lo guidò sempre un istinto infallibile. La coscienza di possedere uno strumento imperfetto lo tormentò sempre, ma è probabile ch’egli sentisse come quello strumento era ben suo, e perfettamente sufficiente. Ciò non toglie che a trent'anni, e già celebre, egli si rivolgesse (suppongo più per civetteria che per altro) a chi ne sapeva più di lui. Maestri famosi gli dettero risposte rimaste leggendarie: «Perché volete diventare un Ravel di seconda mano invece che un Gershwin di prim'ordine?» gli disse l’autore delle Histoires naturelles. E Stravinskij, saputo che egli guadagnava già centomila dollari all'anno: «In questo caso, permettete che io prenda lezioni da voi». In verità il ragazzo che si era iniziato alla musica mettendosi due tubi di gomma nelle orecchie e introducendo una monetina negli apparecchi dei rickelodeons popolari portava già il suo destino scritto in sé: quello di organizzare in suite, in rapsodie, in architetture, insomma, tali da reggere il confronto con le sinfonie romantiche, il materiale tematico dei canti po65

polari negri, dei blues, degli spiritual, della musica jazzistica in genere. Un’apparente contraddizione: quella dell’improvvisa- — zione scritta sta alla base della sua musica. Gershwin è stato il primo rappresentante musicale di quella febbre di crescenza che colse l'America di questo primo trentennio: l'America che precedette il tracollo di Wall Street. Privo, o quasi, di preparazione letteraria, lontano dalle complicazioni intellettuali degli scrittori suoi coetanei, egli ha pur saputo dare con l’Americano a Parigi un’esatta pittura di quella che dovette essere, intorno al ’29, la vita parigina di McAlmon, di Hemingway, di Gertrude Stein, allora in piena fioritura. Vita parigina, sì, ma vista da un americano. Per l’intensità del ritmo, per il coraggioso e spontaneo eclettismo in cui temi Cajkovskiani e magari pucciniani vengono inseriti in un contesto nuovo, la Rapsodia in Blue, l Americano a Parigi e in minor misura anche il Concerto in fa, e la Seconda rapsodia fanno data, segnano un’epoca molto più dei vari tentativi, che pur non erano mancati, di

creare opere interamente americane, nella musica e nel libretto (più nota di tutte The Scarlet Letter di Walter Damrosch, dal romanzo di Hawthorne). Gershwin aveva trentasette anni quando mise mano alla sua unica opera, Porgy and Bess. L’ispirazione gli venne da

un popolare romanzetto di Du Bose Heyward, che narra l’amore di un mendicante negro, Porgy, per una ragazza chiamata Bess. Ambiente: Charleston, nella Carolina del Sud.

Collaborarono al libretto il romanziere stesso e il fratello del musicista, Ira Gershwin.

Per scrivere la sua opera il musicista si trasferì addirittura a Charleston, dove ebbe modo di affondare nell’ambiente e

nell’atmosfera dei negri gullah, i più musicali d'America. Dopo undici mesi di febbrile lavoro, al quale non mancarono i consigli di Rouben Mamoulian, che aveva già inscenato un dramma tratto dal romanzo di Du Bose, Gershwin mise fine

all’opera, che venne eseguita per la prima volta a Nuova York al teatro Alvin, il 10 ottobre del ’35, sotto la direzione di Alexander Smallens, lo stesso maestro che l’ha diretta ieri

sera alla Fenice di Venezia. L’opera ebbe allora accoglienze piuttosto riservate, ma fu poi ripresa qua e là, e incontrò finalmente un grande successo 66

i in una ripresa a Nuova York nel ’42. Da quella data non fu più contestato il posto che Porgy and Bess occupa nella storia della musica teatrale americana. Un'occhiata al mediocre romanzo del Du Bose e al libretto di cui non esiste (e neppure sarebbe immaginabile) una traduzione italiana può render conto delle difficoltà che Gershwin ha affrontato portando sulla scena una composizione in cui lo slang dei negri e il particolare canto dei gullah (quel canto gridato che affida i suoi effetti soprattutto a un ritmico battere di mani e di piedi) dovevano essere predominanti. Un’opera in musica non può fare a meno di protagonisti, di eroi, e ben lo sapeva Gershwin che sognava di comporre nientedimeno che un Boris o un Pelléas, su uno sfondo di folclore negro, e che aveva poi, più modestamente, pensato a un

Dibuk, argomento nel quale fu poi preceduto da un compositore italiano. Porgy, opera populista, non offre eroi, non presenta personaggi di rilievo. È un’opera di folla, di sentimenti rudimentali, quasi indifferenziati. Un musicista come Charpentier, in qualche scena di Luisa, aveva già esplorato questa strada, ma non senza dimenticarsi di porre sullo sfondo populista un paio di personaggi che cantano in modo tra wagneriano e massenetiano. Qui invece il colore doveva essere tutto, lo slang doveva trovare i suoi corrispettivi nella molteplice timbrica che il canto negro metteva a disposizione del musicista. Così, di scena in scena, alternando il canto al recitativo e

addirittura al secco «parlato», col sussidio di un orchestrale pletorico che ha spesso mera funzione di riempitivo, l’opera

si svolge in tre atti (ieri sera rappresentata con un solo intervallo) e nove scene. Su una trama popolarissima in America, e ricca di pretesti,

Gershwin ha gettato il mantello policromo dei suoi canti, percorrendo tutta la gamma con una ormai lunga tradizione di blues e di spiritual. L’ha fatto, diciamo subito, con un gusto sapiente delle voci, che sono usate nei modi della percussione e dello swing, dei tremolo e dello staccato, con effetti timbrici che probabilmen-

te nessuno aveva mai pensato in questa misura e in queste proporzioni. E, aiutato da uno schema narrativo che offriva a un

regista di talento straordinari effetti di composizione scenica e 67

di luci, ha realizzato un tipo d’opera che diremo da music-hall, di effetto senza dubbio nuovo e sconcertante. Della lunga e quasi gloriosa tradizione dell’operetta inglese, quella che parte da Sullivan, egli sembra essersi servito assai poco. Una alternanza di piani avrebbe vantaggiosamente servito in un’opera del genere in cui la tragedia è mescolata al chiacchiericcio e allo sfoggio del colore. Il folk da solo, il canto popolare, la nenia, la cantilena, sia pure usati in senso espressionistico, non garantivano quegli effetti di varietà che un’opera intesa soprattutto come spettacolo richiedeva. Di

qui, un certo senso di monotonia che solo la grande varietà dei timbri vocali riesce a ravvivare. Quanto alla consistenza e alla bellezza dei suoi canti, bisognerebbe conoscere a fondo tutta la musica negra per esprimere un parere. Chi ha ascoltato una sola volta Porgy and Bess (e tale è la situazione dei critici convenuti a Venezia, perché i rappresentanti della stampa non furono ammessi ad alcuna prova, anche perché non so quanti chilometri di cavo occorrente agli effetti delle luci non erano ancora giunti dall’ America) non può che limitarsi a una prima e provvisoria impressione, ri-

mandando ad altra occasione un giudizio più meditato. Ciò non toglie che varie scene abbiano impressionato per la loro efficacia drammatica e che il dramma abbia mostrato a tutti chiari segni di vitalità. L’opera porta certamente una data, e non per niente alcuni

biografi di Gershwin fanno corrispondere alle principali tappe del musicista quelle della vita e dei successi di Caruso. Due destini romantici, due vite parallele, due artisti usciti dal popolo che hanno saputo cantare per molta gente, e che oggi sono personaggi di vite romanzate e di film. Gli interpreti di ieri sera sono stati eccellenti, per quel che riguarda il palcoscenico. Non voci belle, che qui sarebbero del tutto fuori posto, ma voci fortemente timbrate, a volte gutturali e schiacciate, capaci di pericolosi salti di ottava e di glissati inumani da sassofono. In pochi anni si vede che un Paul Robeson ha fatto scuola. Vorremmo enumerare tutti questi cantori negri, ma ci limi-

tiamo a indicare Irene Williams che dà un forte risalto all’im68

pervia tessitura di Bess, John McCurry (Porgy) e Joseph Attlee (Sporting Life). Ma almeno un’altra ventina di nomi dovrebbero essere ricordati. Il maestro Alexander Smallens ha diretto con amore e alta competenza un’opera che ha tenuto a battesimo, e la massiccia orchestra italiana lo ha seguito con molta buona volontà, riempiendo il sacco, l’involucro destinato all’accompagnamento del dramma, senza squilibri e senza provocare guai. D'altronde, non è il commento sinfonico quello che più interessa in Porgy and Bess. La stupenda regia di Robert Breen, il sapiente gioco delle luci, la varietà dei costumi, la scimmiesca agilità dei movimenti di massa hanno completato l’effetto di questo orgiastico film musicale sacro e profano, che solo una troupe agguerrita può rappresentare in modo conveniente. Il pubblico, ammesso allo spettacolo con un’ora e mezzo di ritardo, ha accolto l’opera con applausi scroscianti anche a scena aperta e con almeno dieci chiamate finali. Un trionfo anche superiore alle previsioni; e solo l’ora tardissima ci dispensa dal commentarlo.

«L’angelo di fuoco» di Prokof'ev C.d.I., 15-16 settembre 1955 (n. 789; cfr. n. 943 e n. 1203)

Venezia, 15 settembre

L’angelo di fuoco di Prokof'ev, l’opera ormai quasi leggendaria di cui si disperava di trovare lo spartito, rinvenuto poi casualmente a Parigi, nel ’45, nei magazzini di una casa editrice

di musiche, è stata ieri rappresentata alla Fenice in una prima mondiale. Il primo a essere meravigliato del fatto sarebbe l’autore stesso, che dall’opera irrappresentabile si era rassegnato a estrarre una sua «terza sinfonia». Diamo subito atto alla direzione del festival veneziano del coraggio dimostrato e dell’utilità culturale di questa riesumazione di un presunto chef-d’oeuvre inconnu. Prokof'ev non fu mai fortunato col suo teatro e fin dalla sua giovinezza il Djagilev aveva fatto di tutto per scoraggiarlo da questa via. Considerato autore neoclassico, qualcosa come uno Stravinskij in erba, Prokof'ev non si scoraggiò mai, 69

e di opere ne scrisse quattro o cinque, che vennero poco e male rappresentate. L’angelo di fuoco scritta nel ’27 è, con Guerra e pace (’42), la sua maggior prova teatrale. È un’opera, diciamolo subito, che dovrebbe essere studiata nei conservatorii (se vi esistesse una cattedra veramente dedicata ai se-

greti dell’opera in musica) per mostrare agli allievi in che modo un dramma musicale ron deve essere concepito. Il suo difetto non è che vi manchino i cosiddetti «pezzi chiusi», che in forma aperta o dissimulata crediamo si trovino in tutti i grandi drammi musicali.È probabile, anzi, che nell’Angelo di fuoco i pezzi antologici esistano e siano anche apprezzabili. Ma un’opera che non è scritta per voci (per voci umane), che non presenta caratteri e figure e che si fonda su un libretto totalmente sprovvisto di vere situazioni e insomma

di «parti», è già in partenza un’opera scritta sulla

sabbia. Perché Prokof’ev ha tratto dal romanzo del simbolista russo Valeri} Brjusov questo suo zibaldonesco canovaccio? Le ragioni sono probabilmente le stesse che indussero Busoni a scrivere il suo Dottor Faust: e crediamo di trovarle in quella che si può chiamare la cattiva coscienza dei musicisti puri di fronte all’aborrito melodramma. Un dramma che sia fatto di sola musica, un libretto che sia non una situazione ma una summa di situazioni: una nuova e quasi astratta Divina Commedia musicale: che sogno per un grande musicista negato al teatro! Si aggiunga che Prokof’ev

proveniva da un mondo musicale che aveva radici nella sua stirpe e in certo naturale messianismo del popolo russo. E forse si potrà comprendere com’egli abbia potuto porre la sua fiducia in un poema totalmente privo di senso. Ma vediamo in breve l’argomento di quest’ Angelo. Nel primo dei sette quadri un cavaliere, certo Ronald, non russo

dunque ma vestito da boiardo e dotato di inflessioni di voce molto slave, incontra in un albergo un’ossessa, Renata. (Sia-

mo in Germania nel XVI secolo.) Costei gli confessa di esser stata posseduta da un angelo di fiamma, Madiel, che l’ha abbandonata. Ha creduto poi di ravvisare Madiel in un certo conte Enrico, ma il nobiluomo non crede affatto di esser Ma-

diel. Anche Enrico è fuggito e bisogna ritrovarlo. In seguito vediamo che Ronald e Renata sono a Colonia e studiano magia. Ronald va a trovare un dottor Agrippa, il quale rifiuta di 70

rivelargli i suoi segreti cabalistici. Nel quadro successivo Renata ritrova Enrico e persuade Ronald a ucciderlo. Ronald lo sfida a duello ma già Renata è pentita di quanto ha fatto. Il giorno dopo Ronald è ferito in duello, delira, sogna i pellirosse fra i quali dice di esser vissuto (!!!) e Renata lo cura. Arriviamo ora al quarto atto. Qui lo zoppicante Ronald è respinto da Renata che si pugnala e tenta di ucciderlo. In tali tristi frangenti Ronald incontra Mefistofele e Faust e si aggrega alla loro compagnia non prima che Mefistofele abbia divorato e poi risuscitato un fanciullo. Nell’ultimo atto Renata è in convento, la sua ossessione si comunica a sei mona-

che che inneggiano al diavolo. Intervengono i cori, che se ne stanno però seduti nel golfo mistico, mentre sulla scena si agitano maschere. Si ha una sorta di sabba infernale al quale Ronald assiste dalla finestra. Dopo avvinghiamenti, urla e danze di tregenda l’Inquisitore interviene e decide ragionevolmente che Renata sia condotta al rogo. Non crediate che il nostro scarno riassunto faccia torto al libretto. Temiamo anzi che ne offra un aspetto vantaggioso. Perché se in qualche modo la cantafavola che abbiamo esposto offriva il pretesto a qualche situazione lirico-grottesca, nella realtà dei fatti Prokof’ev ha tutto ignorato per immergere i suoi personaggi in una marea incessante di suoni dalla quale raramente la voce umana riesce a emergere. Ha scritto insomma una specie di sinfonia ininterrotta nella quale il suo istinto di compositore nutrito della miglior musica tedesca trova accenti persino schumanniani, ma quasi mai la giusta

inflessione della parola, la sobrietà dell’accordo che blocca e scolpisce una situazione. La musica è fatta anche di silenzi e Prokof’ev ignora il silenzio. Strumentalmente poi il quasi costante predominio degli ar-

chi dà a tutto l’edifizio sonoro un aspetto grigio, indifferen-

ziato, tutt'altro che «moderno». La melodia infinita nata dal

genio di Wagner diventa in questi sviolinatori del primo Novecento (e non solo in Prokof’ev) un accento di tipo internazionale, privo di carattere. Aveva dunque ragione Boris De Schloezer quando affermava (e dobbiamo l’informazione a Roman Vlad) che in Prokof’ev le «tendenze motrici dell’arte

russa cadono quasi a zero». Con ciò non si può arrivare a negare che in questa bislacca 71

cattedrale, in questo esemplare di quel barocchismo che gli americani chiamano ginger bread, esistano parti, piccole sculture, frammenti, fregi che rivelano la mano di un forte compositore e anche un accento specificamente russo. I pochi momenti statici, nei quali due o tre personaggi possono raccogliersi come in uno spazio e una luce di icona, contengono

indubbiamente bellezze che probabilmente meritavano di essere ascoltate, anche a patto di affrontare uno spartito teatralmente mancato. Quel che non si spiega è che di intere scene, come quella fra Ronald e Agrippa, non si giunga a percepire non solo una pa-

rola ma neppure un suono vocale. Probabilmente Prokof'ev ha proceduto con mentalità di architetto, alternando i pieni e i vuoti, e qui ha avuto bisogno di un pieno, anche se la situazione non lo comportava. Una nota di varietà è data dalla figura di Mefistofele, tenore anch’esso come il diavolo di Busoni, ma

inutile personaggio; e più di una parentesi di felicità si apre nel canto a lungo metraggio di Renata quando essa si umanizza e pensa meno agli spiriti maligni.

Ricca di effetti è anche la parte dei cori, forse la più vocalistica dell’intero spartito. Qui e nella quasi wertheriana aria di Renata (Carlotta) nella scena quarta pare che Prokof’ev sia stato anche vero poeta di teatro; ma bisogna attendere troppo per saperlo. Dopo di che come meravigliarsi che il musicista russo abbia deciso un giorno di «andare verso il popolo» e di scrivere una Guerra e pace in cui è presente l’ombra del vecchio Cajkovskij? Diretta con ferreo polso da Nino Sanzogno che in queste opere difficili supera se stesso, affidata all’esemplare regia di Giorgio Strehler che ha regolato a dovere le composizioni e i movimenti del palcoscenico, l’opera ha trovato un’ottima interprete in Dorothy Dow, soprano di tipo straussiano, dotato di voce non forte ma aguzza e resistente. Ronald era il baritono Panerai, Mefistofele il tenore Annaloro, Inquisitore il basso Campi, tutti lodevoli. Ma meritano anche lode il Borriello e le signore Carturan, Amadini e Masini. Le scene di Luciano Damiani, molto sintetiche, sono piaciute e così i costumi del

Frigerio. E in modo valoroso si sono comportati i cori diretti da Sante Zanon.

Un pubblico magnifico ha decretato all’opera e all’esecu72.

zione un successo assai caldo evocando molte volte alla ribal-

ta il maestro Sanzogno, lo Strehler e i principali interpreti.

Vecchie stampe mimate C.d.I., 26-27 settembre 1955 (n. 794)

Venezia, 26 settembre, mattina

Gli spettacoli che la Compagnia del teatro classico cinese ha presentato ieri sera e presenterà nei prossimi giorni, a conclu-

sione del festival veneziano, si possono chiamare solo molto impropriamente spettacoli d’opera. Il signor Chao-Feng, direttore artistico della Compagnia, ci ha anzi spiegato, in una conferenza stampa, che in Cina

esiste un vero e proprio teatro d’opera non troppo lontano dal nostro; e che molto diverse e molto antiche sono le rap-

presentazioni classiche qui portate. Per trovarne i primi esempi bisogna risalire all’VIII secolo. Si tratta di piccole scene «a soggetto» nelle quali la mimica e la danza, il canto e la recitazione, la coreografia e persino l’acrobazia appaiono intimamente fusi. Arte di collaborazione e insieme d’invenzione (si pensi che su una traccia fissa la musica può essere improvvisata), essa non è possibile se non in virtù di una grande forza: la tradizione. Il teatro è probabilmente, oggi, la sola forma d’arte in cui la tradizione conti al cento per cento. Sen-

za questa piattaforma, in fatto di teatro, il talento individuale conta poco o nulla. Un’idea di cotesto teatro classico e popolare può esserci data dalla nostra antica commedia dell’arte; ma dubitiamo

che essa possa aver mai raggiunto la raffinatezza degli sketch presentati dagli odierni artisti della Repubblica Popolare Cinese. Non siamo sinologi di professione, ma è evidente da queste prove che in Cina il livello del gusto (aiutato dalle forti qualità astrattive di quel popolo) è rimasto alto, e che là meno che da noi esiste una frattura fra il pubblico e le creazioni degli artisti. Con elementi scenografici minimi, tutte le scene risultano ammirevolmente costruite; ed è chiaro che ogni gesto, ogni 73

ved

inflessione di voce, ogni salto mortale sono sentiti come gli elementi di una strofa perfettamente articolata. Qui sfugge, dunque, anche il confronto col teatro dell’arte: l’ermetismo si fonde con la spontaneità, la simbologia .con l’espressione immediata. Quanto alla musica, affidata a strumenti a corde, a fiato e a percussione, diremmo che essa è pienamente funzionale, è una perfetta musica di scena. Vi si impiegano strumenti anti-

chissimi come lo uling, il titse e il pipa. La melodia di simili espressioni musicali è assai gradevole, ed è probabile che l’armonizzazione risulti alquanto occidentalizzata. Nulla in ogni modo che faccia sentire l’angoscia del quarto di tono permanente, obbligatorio. Evidentemente, l’angoscia di noi europei non abita in Cina. D’altronde il Governo «popolare» si affretterebbe a bandirla e il signor Chao-Feng ha tutta l’aria di essere uno zelante funzionario di Stato. Realismo e stilizzazione sono in complesso i caratteri salienti di queste vecchie stampe mimate e cantate. I saggi che ne abbiamo visto stasera hanno avuto sempre questi caratteri. Tumulti nel regno del ciel, con cui si è cominciato, si svolge in cielo e descrive i combattimenti che permettono a un re delle scimmie di sconfiggere il generale che comanda l’armata cinese; nel Fiume d’autunno assistiamo a un dialogo fra un vecchio barcaiolo e una fanciulla innamorata che cerca il suo amante. Nella prima stampa si ha la stilizzazione della battaglia; nella seconda, quella della vita del fiume e dei gesti dei rematori. Sono due scene non troppo antiche (XVII e XVI secolo).

La fortezza di Yentanchan, opera dell’inscenatore Hsu Chu-hua, ha avuto in Cina un premio che corrisponde ai nostri Oscar cinematografici. Svolge un episodio guerriero del VI secolo, ma poiché vi si racconta di una trionfale insurrezione di contadini contro un generale oppressore, è ovvio che il regista-poeta abbia avuto intenti di piena attualità. La Fortezza è il più atletico, il più ginnico di questi spettacoli. Abbiamo lasciato per ultimo una serie di scene che sono tolte da un romanzo popolare e s’intitolano I tre incontri. Sono, in sostanza, un imbroglio a lieto fine che dà modo a tutti gli attori di impegnarsi anche in quello che in Cina dev'essere il «genere comico».

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Non meno interessanti le danze, eseguite come intermezzi: la danza del loto, la danza della raccolta del tè e il concerto

di musica folcloristica (in cui dominano due tipici strumenti, il tchen e il violino cinese).

)

Non v’è teatro che, come questo, sfidi ogni possibilità di rendiconto, a uso e consumo del pubblico. Di una commedia, di un film è ancora possibile dare un’idea raccontandone il canovaccio: ma qui siamo a mezza via tra la pittura, la poesia, la musica e la danza; siamo dinanzi a un’unità vivente

che le parole non possono raffigurare. Limitiamoci, dunque, a lodare gli eccellenti artisti, animati tutti da uno spirito artigianesco che spiega molte cose: il «primo giovane» Yeh Sheng-lan, il «giovane cavaliere» Chang Yun-tsi, la prima attrice giovane Tu Chin-fang, il pazzesco acrobata Chang Chun-hua, nonché il signor Li Tson-yi, specialista nelle parti di «barbuto» (probabilmente l’uomo cattivo, il baritono). À

questi artisti dell'Opera di Pechino e del teatro di Liaoning e al regista Chang Chi-hsiang, il folto pubblico ha rivolto trionfali omaggi. Messa in scena (ridotta quasi a zero), COreografia, costumi, luci, colori, tutto ha contribuito a una se-

rie di cartoni animati, ai quali auguriamo fortuna anche fuori della cornice ristretta di un festival.

Stravinskij dirige Stravinskij C.d.I., 14-15 settembre 1956 (n. 909)

Venezia, 14 settembre

Venezia rigurgita di musica e di musicisti; in questa stagione

non vi sono presenti soltanto i compositori eseguiti al Festi-

val, ma anche i rappresentanti dei maggiori festival del mondo riuniti a congresso. Inoltre, sotto gli auspici del Conservatorio, si rappresentano addirittura opere, come La finta semplice di Mozart, che si vale di buoni cantanti giovani e della regia di Corrado Pavolini. Troppa grazia, dunque? Eppure proprio stamane, sotto un cielo caldo e sciroccoso che ricorda quello di Nuova York, il maestro Virgil Thomson, che fu per dodici anni l’autorevole la critico musicale del New York Times, ci assicurava che Vis)

musica non interessa più nessuno, e men che mai quelli che la scrivono.

Nelle sagre delle novità musicali, i giudizi correnti sono molto simili a questo. Ma non c’è amarezza in tali giudizi. Venezia è in se stessa uno spettacolo da giustificare qualsiasi pretesto di convegno. Altrove un meeting culturale s’esaurisce nella propria sede: qui ha un’immediata rispondenza nella vita. Figuratevi uno Stravinskij o un Hemingway a Milano: tutto si esaurirebbe in una conferenza stampa. A Venezia, invece, l’uomo celebre diventa un personaggio locale, è segnato a dito. Ho veduto Stravinskij uscire dal suo albergo e avviarsi verso le Frezzerie: nessun importuno lo fermava, ma molti si voltavano e lo seguivano con lo sguardo. Avendo altre volte importunato il maestro, senza cavargli fuori aforismi degni di essere incisi nel bronzo, stavolta non ho ripetuto l’assalto. Stravinskij ha molto teorizzato, ma non è un teorico: è piuttosto uno sperimentatore. E non fa mera-

viglia che, dopo avere espresso la propria disapprovazione per la musica seriale, egli abbia fatto ora ricorso alla tecnica dodecafonica per una parte notevole delle trecento battute del suo Canticum senza neppur dimenticare «il gambero» (la ripetizione in senso inverso della serie) e «lo specchio», cioè una rifrazione prospettica e spaziale della serie già svolta, tale da appagare l’occhio, ma non certo l’orecchio, che di nulla s'accorge.

D’altronde gamberi e specchi sono di casa a Venezia. Piuttosto ci si chiederà quale motivo di ispirazione poteva ricavare il glorioso vegliardo dalla figura di san Marco, da lui riassunta in versetti tratti dal Vangeio di san Marco e dal Vecchio Testamento. In verità san Marco non c'entra per nul-

la. È una lode di. Venezia che l’ortodosso Stravinskij, non dimentico del carattere bizantino di altre sue musiche religiose, ha inteso di comporre. E, quanto alla tecnica, egli ha affermato recentemente che per lui tutte le tecniche sono buone. Lasciamo dunque cadere le insinuazioni dei maligni, i quali attribuiscono all’influsso del giovane Robert Craft il bisogno che il maestro ha dimostrato di mettersi à la page, d’aggiornarsi. Non credo però che, se fossero mancati i punzecchiamenti del maestro Craft, il Canticum per San Marco, eseguito ierse76

ra nella basilica dinanzi a un pubblico cosmopolita, sarebbe molto diverso. L’uso della serie avrà dato a Stravinskij un’etichetta più moderna, ma il fondo è rimasto immutato. Chi ricorda la Messa stravinskiana, che pure non ha diretti rapporti col Canticum, non si stupirà d’ascoltare, una volta ancora, una musica dura e legnosa che bandisce violini e violoncelli e insiste su effetti percussivi, un’architettura sonora che non è interrotta dalle frequenti pause dovute a ricerche fatte dal maestro sull’acustica di San Marco. (Ma l’acustica è risultata infelicissima.)

Quanto al testo, i pochi versetti, scerpati qua e là dalla vulgata latina del Vecchio e Nuovo Testamento, dovrebbero formare un poema che indica «Le strutture della Chiesa predicante» e si accentra nella «Trinità delle virtutes». Per quanto può dirsi da una prima esecuzione (sia pure seguita da un bis), siamo — dal punto di vista poetico e musicale — nel regno dell’alta ortopedia. Ascoltiamo e vediamo strutture abilmen-

te funzionali, ci immergiamo con un piacere un po’ acre in

un'atmosfera che può dirsi anche religiosa, se si esclude dalla religiosità qualsiasi confidenza con Dio; ma non giungiamo mai a un trasporto, a un raptus, a una convinzione.

Il Canticum s’inizia con una dedicatio modale: un duetto

fra tenore e baritono (Richard Lewis del Covent Garden e

Gérard Souzay) con accompagnamento di tromboni; segue un versetto che «rappresenta il legame col passato di Stravinskij», e poi si entra nei dodici suoni col Surge, Aquilo affidato al tenore: un brano melismatico che ricorda la musica elisabettiana e i gemiti del fantasma nel Giro di vite di Britten. (Con un orecchio si direbbe che Stravinskij è sempre rivolto all’Inghilterra; con l’altro alla Russia.) A intermittenza ci vengono poi servite le tre virtù: Chari-

tas, Spes, Fides, dialogo tra soli e coro aventi nelle parti estreme canoni corali. Qui la serie si scapriccia a suo piacere. Segue un quarto movimento in tre sezioni. Si passa dal canto

fermo del baritono a un interludio, che è