L’uomo. Una questione aperta 9788860811875


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L’uomo. Una questione aperta
 9788860811875

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LE PAROLE E LE COSE

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Collana diretta da Tonino Griffero

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Helmuth Plessner

L’uomo: una questione aperta Introduzione di Hans-Peter Krüger

ARMANDO EDITORE

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PLESSNER, Helmuth ; a cura di M. Boccignone L’uomo: una questione aperta; introd. di Hans-Peter Krüger Roma : Armando, © 2007 112 p. ; 17 cm. (Le parole e le cose) ISBN: 978-88-6081-187-5 1. Antropologia filosofica 2. Filosofia e valore dell’uomo 3. Storia del pensiero

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CDD 184 Titoli originali: Die Aufgabe der philosophischen Anthropologie, Über einige Motive der philosophischen Anthropologie, Immer noch philosophische Anthropologie?, in Gesammelte Schriften VIII, Frankfurt am Main, Surkamp, 1983. Traduzione e cura di Martino Boccignone © 2007 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 18-16-001 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

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Sommario

Introduzione (Hans-Peter Krüger)

7

Nota al testo

33

L’uomo: una questione aperta (Helmuth Plessner)

35

1. Il compito dell’Antropologia Filosofica (1937) 37 2. Circa alcuni motivi dell’Antropologia Filosofica (1956) 63 3. Ancora dell’Antropologia Filosofica? (1963) 89

Nota biografica

105

Nota bibliografica

109

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Introduzione

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di Hans-Peter Krüger Nel 1931 Helmuth Plessner (1892-1985) esprime la speranza che l’atteggiamento filosofico successivo «non sia più soltanto affare per eruditi, ma oggetto dell’intera vita spirituale e pubblica in Europa: collegare la rinuncia alla supremazia del proprio sistema di valori e di categorie con la salda convinzione che esso possa avere un avvenire»1. La Germania nazionalsocialista dal 1933 al 1945 prende proprio la direzione opposta. La cortina di fumo della guerra calda e della guerra fredda si è appena dileguata in Europa centrale e in Italia, quando, negli anni Novanta, comincia per la prima volta una lettura completa degli scritti di Plessner in ambito filosofico, sociologico e storiografico2. Certamente, anche prima del biennio 1989-1990 egli vale come il coniatore concettuale, divenuto anonimo, della locuzione “nazione in ritardo” per i tedeschi rispetto agli europei occidentali, e come una sorta di cenno per conoscitori, quando si tratta di comprendere l’uomo come “doppio” o “sosia” [Doppelgänger], come “eccentrico” e “homo absconditus”, cioè come l’essere insondabile. Però la prima edizione delle sue Gesammelte Schriften in dieci volumi (1980-1985) viene esaurita solo alla fine degli anni Novanta e, a partire dalla metà di questo 7

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Introduzione

decennio, è integrata da volumi contenenti scritti minori, lezioni universitarie scelte e carteggi contenutisticamente significativi3, la cui pubblicazione richiederà in futuro ulteriori volumi4. Lentamente viene alla luce un’opera filosofica fondamentale che non si adatta a nessuno degli usuali scompartimenti concettuali e che, all’ombra di grandi nomi, non solo da Martin Heidegger sino a Carl Schmitt, ma anche, tra gli emigranti, da Ernst Cassirer a Theodor W. Adorno e, tra i francesi, da Jean-Paul Sartre a Maurice Merleau-Ponty, non è stata riconosciuta nel suo valore. Forse qualcuno, trovandosi tra tutte le possibili cattedre e tra i vari fronti accademici, ha pensato qualcosa di diverso, magari qualcosa di meglio, qualcosa che può trovare una più ampia risonanza solo tra i successori, liberatisi ormai delle alternative troppo nette e bellicose. Tutti questi grandi nomi volevano far valere l’Antropologia Filosofica, nel migliore dei casi, come una sottodisciplina della filosofia. Dopo la morte improvvisa di Max Scheler nel 1928, Plessner è l’unico pensatore di rilievo ad elaborare l’Antropologia Filosofica in modo interdisciplinare e al tempo stesso come philosophia prima: «Perché il concetto dell’uomo non è nient’altro che il “mezzo” mediante il quale, e nel quale, viene compiuta quella equiparazione valorialmente democratica di tutte le culture nella loro retroazione su un creativo fondamento vitale»5. Mentre l’Europa sembra essere improvvisamente liberata e recidiva solo nei Balcani, essa deve anche già affrettarsi nuovamente nella sua integrazione, perché nella globalizzazione, a confronto con gli USA, minaccia di diventare il continente “in ritardo”. 8

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Hans-Peter Krüger

Cosa può sensatamente rappresentare la nuova Europa, un’Europa che non voglia ripetere i suoi vecchi errori, per se stessa e per gli altri nella futura storia mondiale? Intorno a questa domanda si collegano come in una rete tanti piccoli circoli, che già precedentemente si sono occupati di riflessioni plessneriane, nel primo decennio dopo la caduta del muro di Berlino, da Napoli, Firenze e Zagabria sino a Groningen e Amsterdam, Varsavia e Cracovia, da Friburgo, Würzburg e Gottinga nell’Ovest della Germania sino a Potsdam, Berlino e Dresda nell’Est della Germania. I polacchi e gli italiani sono tra i primi in molte discussioni e nelle traduzioni, e certo non per caso, perché anche essi hanno conosciuto il ritardo comparativo come problema e come opportunità per sé in Europa e nel mondo. Con il volgere del millennio si aggiungono discussioni e traduzioni delle opere plessneriane in America, Francia e Cina, e non solo. Con la problematica di portata storica globale circa il compito futuro dell’Europa cresce anche e soprattutto la sfida delle nuove scienze della vita di carattere biomedico, incluse le loro conseguenze negli ambiti dell’autoconoscenza e dell’autocomprensione, sui mercati economici e nelle pratiche degli esseri viventi di carattere personale [personale Lebewesen]. Ora, forse, minaccia di presentarsi un nuovo biologismo, improntato alla libertà di mercato, che, come compensazione, potrebbe provocare un nuovo romanticismo della vita. Tornerebbero dunque, nella nuova forma della globalizzazione, proprio i due fenomeni contro i quali Plessner già tra le due Guerre Mondiali aveva abbozzato una via d’uscita? Così si moltiplicano le ricezioni di Plessner da parte di cor9

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Introduzione

renti sinora contrapposte, dalla filosofia a sfondo cattolico sino alla filosofia della comunicazione linguistica proveniente da un protestantesimo secolarizzato6. Con la fondazione plessneriana delle scienze della natura e delle scienze della cultura, condotta per mezzo di una filosofia della natura, forse, si può trovare una risposta anche alla sfida delle life sciences, incluse le loro conseguenze pratiche. L’Antropologia Filosofica plessneriana, dunque, potrebbe condurre fuori dal dualismo, e questo non solo, sul piano politico, tra il radicalismo di destra e il radicalismo di sinistra, come egli aveva richiesto sin dalle sue Grenzen der Gemeinschaft. Zur Kritik des sozialen Radikalismus (1924), rivolte sia contro il bolscevismo sia contro il fascismo, a favore del mondo civile rappresentato dall’Europa occidentale7. Forse la sua Antropologia Filosofica può condurre fuori anche dall’altra falsa contraddizione, quella tra il dover spiegare e dominare tutto e il dover comprendere e perdonare tutto. In tal caso, infatti, cosa rimarrebbe per noi uomini di non arbitrario e indifferente, visto che ci sarebbe un meccanismo a fare e decidere già tutto per noi? Plessner, come nessun altro filosofo del XX secolo, amplia sia le possibilità della spiegazione dell’uomo (anche nelle scienze della società e della cultura) sia le possibilità della sua comprensione (proprio nelle scienze della natura), considerando come fondamentalmente errata l’intera scissione tra le scienze naturali solo esplicative e le scienze dello spirito solo comprendenti. Con questa doppia strategia incrociata, consistente nello svelamento delle premesse di carattere comprendente della spiegazione e delle possibilità di carattere esplicativo della com10

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Hans-Peter Krüger

prensione, però, non viene solo radicalizzato ancora una volta il “circolo antropologico” (M. Foucault)? Ciò che è più sorprendente nel modo di procedere plessneriano, che integra il metodo fenomenologico con i metodi ermeneutico, dialettico e trascendentale, consiste senza dubbio nel fatto che egli fa in modo che si dia un controllo reciproco di tutti questi metodi, cosicché non possa emergere alcun circolo dell’assoluta autorizzazione di se stesso [Selbstermächtigung] da parte dell’uomo. Ciò che altri filosofi del XX secolo hanno considerato già come una filosofia (fenomenologia, ermeneutica, dialettica, ricostruzione trascendentale delle pratiche simboliche), Plessner lo riconverte in metodi antropologici del moderno modo di condurre la vita [Lebensführung]. Essi mostrano l’un l’altro, reciprocamente, i rispettivi limiti, di modo che nel complesso emerge una relazione di indeterminatezza e di insondabilità, cioè una negatività dell’assoluto più ampia e meglio fondata che non in altri autori8. Ciò cui gli uomini fanno ricorso come elemento possibilizzante [Ermöglichung] per le loro determinazioni positive di qualcosa e qualcuno, non assomiglia più affatto a tali determinazioni. Nella loro condizione compiono l’incondizionato, nella loro determinazione eseguono l’indeterminato, nella loro finitezza attuano l’infinitezza, servendosene come di contrasti necessari. Essi fanno inevitabilmente ricorso alla negatività dell’assoluto. Questa non può essere abbandonata a nessun meccanismo composto di molteplici positività, perché in tal modo non se ne potrebbe più assumere la responsabilità. Tutte le ideologie, anche quelle del mercato e dello scientismo, promettono di 11

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Introduzione

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poter volgere, qui sulla terra, la negatività nella positività dell’assoluto. Però, storicamente, questo capovolgimento torna indietro come un boomerang. Per questo Plessner ha sviluppato una nuova concezione della sovranità degli esseri viventi di carattere personale, la quale comporta ampie conseguenze per la sfera pubblica del politico in quanto elemento possibilizzante di nuove politiche. La sovranità non coincide più, per lui, con l’autodeterminazione e l’autorealizzazione positiva di individui e di collettività, bensì con la salvaguardia dei limiti di tale autodeterminazione (sul piano teoretico) e di tale autorealizzazione (sul piano pratico)9. Le sue analisi sui limiti del ciclo del comportamento umano scoprono le tautologie e i paradossi che si nascondono nell’autorizzazione di se stesso da parte dell’uomo. Mentre tutte le altre filosofie pongono al proprio centro una forma della “vita activa” (lavorare, produrre, agire linguistico) o della “vita contemplativa” (pensare, volere, giudicare)10, Plessner decentra questi centri tradizionali delle antropologie a partire dai limiti del comportamento. Egli combina le “situazioni limite” di Karl Jaspers con la fenomenologia di Max Scheler, nuova rispetto a quella di Edmund Husserl. Su entrambi ha costruito, nella sua opera tarda, anche Hannah Arendt (1906-1975). I limiti della costituzione del comportamento umano secondo Plessner vengono raggiunti e superati quando il riso e il pianto non possono più essere recitati, dunque quando erompono, irrompono e interrompono non simulatamente. Così nella costituzione personale del comportamento diviene visibile la frattura (lo iato11) 12

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Hans-Peter Krüger

che si trova tra il decentramento del comportamento “via dal corpo” [Körperleib] e il ricentramento del comportamento “indietro verso il corpo”12. Quando la Arendt e Plessner si incontrarono a Long Island nell’autunno del 1962, ella gli chiese: «Ma come ha potuto scrivere, in esilio, su “il riso e il pianto”?». Ed egli la guardò meravigliato: «E perché no?»13. Quanto maggiore, a partire dal XX secolo, diventa l’interesse per il confronto con l’opera complessiva di Plessner, per poter trovare una via praticabile attraverso il XXI secolo, tanto più importante diventa la pubblicazione anche dei suoi scritti minori, che permettono ad un più ampio pubblico di gettare uno sguardo nel suo laboratorio concettuale. La presente raccolta riunisce tre di questi testi, che traggono bilanci intermedi nella sua opera. Composti in punti di svolta della sua vita, questi scritti chiariscono il profilo sistematico della sua Antropologia Filosofica confrontandola con altre correnti del secolo scorso. Il 30 gennaio 1936 Plessner tiene la sua lezione inaugurale Die Aufgabe der Philosophischen Anthropologie all’università di Groningen. Nel 1933 ha dovuto lasciare la Germania a causa dell’origine ebrea di suo padre, anche se questi, un benestante dottore di Wiesbaden, era ormai assimilato da tempo (nel 1893 si era fatto battezzare secondo il rito luterano). Helmuth Plessner, da adulto, non ha praticato alcuna religione in nessuna delle fasi della sua vita e su questo punto non è rimasto impressionato neanche dall’incontro con Gershom Scholem (1897-1982) dopo la Seconda Guerra Mondiale14. Dopo i suoi studi di zoologia Plessner, durante la Prima Guerra Mondiale, 13

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studia con filosofi molto differenti quali Hans Driesch (vitalismo), Edmund Husserl (fenomenologia trascendentale), Wilhelm Windelband e Emil Lask (Neokantismo del Baden) e nel circolo di Max Weber a Heidelberg ha l’occasione di conoscere, tra gli altri, Ernst Troeltsch, Ernst Bloch e Georg Lukács. Nel 1920 Scheler porta Plessner all’appena fondata università di Colonia, dove egli ottiene subito l’abilitazione e dove rimane sino alla presa del potere da parte di Hitler. Dopo una breve puntata nel 1933 a Istanbul, dove tuttavia oltre a Hans Reichenbach (empirismo logico) non viene concessa una seconda cattedra di filosofia, dal 1934 Plessner, inizialmente con l’aiuto della Rockefeller Foundation, lavora a Groningen con lo psicologo del comportamento Frederik Jakob Buytendijk, che segue un approccio comparativo tra il comportamento umano e quello animale. Dalle lezioni di Groningen del 1934/35 risulta il volume Das Schicksal deutschen Geistes im Ausgang seiner bürgerlichen Epoche (1935), che nel 1959 riceve il titolo Die verspätete Nation15. In questo libro egli rappresenta il progressivo declino di tutte le autorità, dapprima di quelle religioso-teologiche e poi di quelle mondane (filosofiche, storiche e delle scienze empiriche), sino al momento in cui non rimane in vigore altro che l’ideologia della razza. Anche lo “strato più illuminato delle intelligenze d’Europa”, si dice nella lezione, è stato afferrato dall’“eroismo della pura azione”, dalla “tendenza oscura e violenta verso l’affermazione della mera vita”16. Ciò che ancora oggi, sul piano sistematico, risulta sorprendente nell’orientamento di Plessner consiste in quanto segue: in questa situazione, nella quale 14

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l’uomo non viene più riconosciuto proprio in quanto uomo, egli non considera come valide vie d’uscita né la filosofia dell’esistenza (Heidegger, Jaspers), né la filosofia della ragione (Neokantismo), né la metafisica dello spirito (Scheler). Ancora oggi, in forma nuova, ci si attiene a queste vie per la compensazione di scissioni dualistiche. Plessner abbandona l’intero gioco modernistico delle scissioni dualistiche e della loro compensazione attraverso miti dell’unità di stampo romantico (Schelling) e postromantico (Bergson, Klages). In luogo di far ciò, egli dirige ora la moderna scepsi verso le autorità assolute contro questa scepsi stessa, in quanto essa rappresenta la nuova autorità. La scepsi esistita finora esprime il sospetto che ogni autorità poggi sull’autoinganno di un soggetto. Così però non si esce dal vortice delle “distruzioni” che vogliono ricondurre nuovamente ogni nuova autorità al “soggetto”, anzi ci si finisce dentro sempre più profondamente. La serie delle “rivoluzioni copernicane” da Kant sino a Freud e a oggi è come una reazione a catena di sospetti ideologici. Si conosce già prima (aprioristicamente) la risposta che deve stare nella radice (in modo radicale) della soggettività. In tal modo non si dissolve il «principio fondamentale della distruzione secondo l’idea direttiva di ogni scepsi radicale», bensì lo si sposta soltanto all’interno del circolo dell’“animal ideologicum”, cioè nella fiducia nel prossimo autoinganno del soggetto: «Non supereremo questa scepsi fino a quando non la avremo realizzata. La scepsi realizzata nel senso del suo superamento è possibile solo come Antropologia Filosofica»17. – La strategia plessneriana di realizzare la scepsi contro la risposta datale sinora, cioè la risposta 15

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consistente nel prossimo autoinganno del soggetto, conduce fuori dalla generale disperazione nei confronti del soggetto (nei confronti di sempre nuovi soggetti singoli e collettivi). Sul piano del metodo, ad un primo sguardo, tale strategia ricorda la Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Però Hegel legava anche la figura della realizzazione della scepsi contro se stessa alla messa in funzione della riflessione del soggetto contro tale scepsi stessa18. Inoltre la “autodestabilizzazione della filosofia” di Plessner, sul piano storico, non può più, come Hegel, fare affidamento sul potere che lo Spirito Assoluto esercita su di sé. L’Antropologia Filosofica plessneriana radicalizza la possibilità di mettere l’uomo in discussione, anziché fissarla in una risposta determinata, cioè in una “filosofia antropologica”19. La falsa correlazione biunivoca tra un determinato metodo e una determinata filosofia viene dissolta. Ciascun metodo fornisce solo uno dei molti aspetti umani, quello fisico, quello psichico, quello spirituale, ma non può dare una risposta completa alla domanda sull’essenza dell’uomo. Il filosofare viene liberato dai suoi vincoli. Non deve essere legato alla necessità di dare una risposta alla questione dell’essenza contro i mutamenti storici. Al contrario: la struttura essenziale della frattura (tra physis, psyche e spirito) può essere praticata solo nell’apertura storica verso il futuro. Il filosofare non deve neanche essere fissato difensivamente sul contrasto con le scienze empiriche. Al contrario: le scienze fanno ricorso a condizioni socioculturali che le rendono possibili e che esse stesse non possono né spiegare né controllare metodicamente. E il filosofare, per parte sua, ha bisogno di “fatti” in tutti i 16

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possibili domini di valore, per poter responsabilmente dare un orientamento all’interno del conflitto. Nella pluralizzazione plessneriana dei metodi e delle teorie cadono i primati di valore sinora vigenti, che assicuravano già sempre in anticipo una risposta alla domanda sull’essenza dell’uomo. Non c’è più alcuna falsa promessa riguardo a questa o quella fine della storia. Al contrario: il «coraggio verso la scepsi senza riserve in quanto metodo dell’uomo per ritrovare se stesso attraverso l’autodestabilizzazione» vive del rispetto dell’«inattingibilità dell’essere umano attraverso modelli»20. Molto prima di Foucault e Derrida, Plessner pratica «la distruzione di un’essenza propria presuntivamente indubbia dell’uomo», ma in modo metodico, così che diventa chiaro «il capovolgimento nella decisione a favore dell’umanità» e con ciò dunque anche il limite «sino a cui egli può mettersi in discussione in quanto uomo»21. L’Antropologia Filosofica svela la moderna “autodeificazione dell’uomo” che emerge ad opera dei progressi della scienza e della tecnica, con i quali egli può, ma non necessariamente deve, giocare con il “suo destino”22. Il secondo testo qui tradotto, Über einige Motive der Philosophischen Anthropologie, esce nel 1956 in “Studium Generale”, cioè in un compendio di cultura generale per studenti di tutte le facoltà delle università della Germania Occidentale, all’apogeo della Guerra Fredda. Nel 1951 Plessner torna in Germania dall’esilio olandese, in cui ha potuto conoscere e apprezzare per la prima volta una democrazia funzionante, a differenza della rovina della Repubblica di Weimar. Diventa ordinario di sociologia, con l’auto17

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rizzazione a insegnare contemporaneamente filosofia, all’università di Gottinga, dove nel 1962, nel suo settantesimo anno di vita, diviene professore emerito. Ricoprendo, tra le altre, le cariche di decano (1957) e di rettore (1960-61) a Gottinga e inoltre di presidente della Deutsche Gesellschaft für Philosophie (1955) e di presidente della Deutsche Gesellschaft für Soziologie (1958), in questo decennio egli compie un enorme lavoro di ricostruzione postbellica. La sua Antropologia Filosofica non solo si colloca tra la filosofia e la sociologia, tra le scienze della natura e le scienze dello spirito. In quanto “ricerca di confine” essa è in grado di tematizzare anche e soprattutto i passaggi tra le nuove scienze dell’uomo, cioè delle scienze umane nel senso francese e americano, ovvero delle scienze che si occupano di “persone”. Egli non la progetta come una scienza supplementare, bensì come la cornice filosofica per la riflessione sulla “totalità aperta” della personalità nella natura vivente della sua “esperienza quotidiana”23. La rifondazione dell’universitas, cioè dell’unità che integra le discipline di ricerca specializzate, non deve più avvenire gerarchicamente dall’alto attraverso un’“immagine chiusa del mondo” (teologica, metafisica o ideologica), bensì a partire dall’“unico centro intelligibile” rappresentato dall’uomo: nella sua realtà possono mostrarsi le “zone intermedie dell’interconnessione” delle dimensioni inorganica, fisica, psichica e mentale; pertanto si tratta di un’universitas “aperta, pluralistica, democratica, antropocentrica”24. Per “pluralismo” Plessner non intende un’ideologia della multiculturalità armonica o di una futura fusione ermeneutica, bensì «una società di sistemi di va18

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lori in aperta concorrenza reciproca. A questa trasformazione incompiuta in una società senza autorità prestabilita, cioè all’Illuminismo portato a compimento, corrisponde il timore nei confronti di una fissazione dell’essenza umana e della sua determinazione in un senso non più rivedibile. Ciò che dal punto di vista di un ordine del mondo e di una costituzione della società vincolati ad autorità e tradizione appare come debolezza, indecisione, perplessità e angoscia, nella prospettiva dell’ordine sociale in divenire acquisisce il valore della forza e del coraggio per la libertà”25. Nell’indagine plessneriana intorno ai limiti entro cui gli uomini portano avanti la loro natura come costante e la variano storicamente, il concetto di limite ha una doppia funzione, «una interna alla scienza e una filosofico-morale, che si sostengono a vicenda»: “hominitas”, cioè l’appartenenza alla specie zoologica degli ominidi, non è “lo stesso che humanitas”. Di nuovo, l’Antropologia Filosofica si pone il compito di svelare quel fondamento che rende possibili le prestazioni umane nella scienza, nella società, nella cultura e nella storia, fondamento senza il quale queste prestazioni vengono rese impossibili: «L’homo absconditus, l’uomo insondabile, è il potere della sua libertà che continuamente si sottrae a ogni fissazione teoretica, che spezza tutte le catene, le unilateralità della scienza speciale come le unilateralità della società»26. La personalità dell’essere vivente umano è una “ineffabilità dell’individuo”27. Essa resta – fenomenologicamente parlando – il “supporto” e “nucleo” adombrato per cornici entro le quali soltanto affiora19

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no storicamente gli oggetti di cui possono essere predicate le qualità. Il fatto di intendere e determinare “in quanto umani” i modi di apparizione della personalità rappresenta esso stesso, qui sulla terra, un frutto tardivo dal punto di vista storico-culturale. La personalità, essa stessa indicibile, rimane in sviluppo, non è semplicemente data, oppure essa non esiste neanche, in forma dicibile, nella determinatezza delle sue apparizioni. Quale “singolare complicatezza” presenta questo tipo di essere vivente28! Non già la socialità di gruppo e l’uso di utensili, né la dimensione culturale collettiva e l’utilizzo deittico del linguaggio distinguono l’uomo essenzialmente dallo scimpanzé, bensì innanzitutto il personale “senso per il negativo” (assenza, mancanza, vuoto) nell’elemento possibilizzante dei modi di apparizione. Questo senso è contenuto in particolare, ma non solo, nel linguaggio in quanto “espressione alla seconda potenza”29. Allo stesso modo, esso si mostra negli altri modi espressivi degli esseri viventi di carattere personale, nei loro vizi, nelle loro dipendenze e nelle loro passioni, nella musica, nell’arte figurativa e nella cinematografia, nell’alienazione dei valori comunitari all’interno della sfera pubblica e sociale, nel riso e nel pianto, senza essere legato in modo particolare a forme organiche tipiche della specie biologica30. Altrove, al di fuori della nostra terra, potrebbero esserci esseri viventi di carattere personale anche in una forma diversa da quella specificamente ominide. Così finisce il terzo dei testi qui raccolti, pubblicato nel 1963 con il titolo Immer noch Philosophische Anthropologie? come contributo allo scritto celebrativo per il sessantesimo compleanno di Theodor W. 20

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Hans-Peter Krüger

Adorno, mentre Plessner, nel biennio 1962-63, esercita la carica di professore ospite alla New School for Social Research a New York, in un circolo comprendente molti emigranti. Egli non accetta la chiamata alla Brandeis University di Boston, per spostarsi invece nella Svizzera tedesca, dove da tempo, durante le vacanze tra i semestri, si incontra con i coniugi Löwith, gli Adorno, i Gurwitsch, gli Scholem, Peter Szondi e Hans Mayer e molti altri, e dove, a Zurigo, ha anche importanti amici tra gli artisti. Le sue lezioni e i suoi seminari all’università di Zurigo nel periodo dal 1965 al 1972 divennero leggendari. Da essi è risultata una ricca saggistica e, nel 1970, la Anthropologie der Sinne, dove viene riformulata la funzionale Einheit der Sinne. Grundlinien einer Ästhesiologie des Geistes del 1923, questa volta però senza apparato trascendentalfilosofico31. Sul piano personale, Plessner e Adorno avevano fiducia e stima reciproca, motivo per cui, ad esempio, nel semestre invernale 1952/53 Plessner sostituisce Adorno a Francoforte sul Meno, poiché questi deve tornare a lavorare per un anno negli USA per mantenere la cittadinanza americana32. Entrambi gli emigranti sono tornati in Germania, nel doppio ruolo di filosofi e di sociologi, per aiutare a fare sì che Auschwitz non si ripeta più33. Pur con tutto il comune obbligo verso la critica kantiana alla ragione che autorizza dialetticamente se stessa34, le differenze non possono essere ignorate. Plessner, considerato da un punto di vista filosofico, è un ultraliberale, non un marxista. Per questo, nel 1953, non vuole fungere da foglia di fico per Max Horkheimer e venire in soccorso all’Istituto francofortese. Inoltre egli consi21

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dera la critica di Horkheimer alla presunta “immagine guida e modello”35 dell’Antropologia Filosofica come una manovra di politica di scuola. La sinistra dogmatica, come sua immagine speculare strutturale, ha bisogno di un’immagine nemica sul versante di destra, dove si trova l’antropologia filosofica di Arnold Gehlen. È tuttavia indegno scambiare l’Antropologia Filosofica di Plessner con quella di Gehlen. Anche Adorno, in quanto pensatore di sinistra, ha sì bisogno di Gehlen come controparte di destra, tuttavia, al contrario di Horkheimer, critica Plessner sull’altro fianco, a partire dalla negatività dell’assoluto, che più tardi Adorno vuole sviluppare meglio di Plessner: «Che non si possa dire che cosa sia l’uomo non è un’antropologia particolarmente sublime, bensì un veto contro qualsiasi antropologia»36. Mentre qui Adorno, nella sua opera tarda, si riavvicina alla critica heideggeriana all’Antropologia Filosofica di Scheler e di Plessner, precedentemente egli ha criticato Plessner da un punto di vista marxista, ma sempre indirettamente, senza menzionare esplicitamente il nome di Plessner. La filosofia di Plessner si orienterebbe ancor sempre all’essere sociale singolo, un orientamento «che presume di poter trattare direttamente, qui ed ora, degli uomini, anziché determinare preliminarmente gli uomini socializzati come momento della totalità sociale – anzi in massima parte come suoi oggetti»37. Plessner non condivide la diagnosi marxista della società. La considera come un’autoparalisi. Se la società nel capitalismo fosse già sempre totalmente alienata in oggettività, allora non si potrebbe fare più null’altro, sul piano di una filosofia della storia, che rinviare sempre di nuovo il pa22

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rametro dell’uomo singolo ad un’epoca successiva alla rivoluzione. Fino a quell’epoca si potrebbe solo coltivare l’autocompassione della soggettività. Ma la socializzazione di singoli esseri viventi di carattere personale può essere svolta in modo diverso rispetto allo schema di soggetto e oggetto, schema totalizzante in termini di teoria della conoscenza. In Immer noch Philosophische Anthropologie? Plessner riassume brevemente con quali e contro quali filosofi egli sviluppa la sua apertura della domanda sull’essenza dell’uomo. Come egli fa spesso a partire dagli anni Venti, dapprima riconosce il merito di Husserl, che consisterebbe nell’avere introdotto una nuova prassi metodologica. Attraverso il metodo fenomenologico, che produce un contatto preteoretico e intuitivo con i nessi tra le cose, la ricerca prenderebbe finalmente il posto della dogmatica delle visioni del mondo. Però questo metodo del sospendere [Ausklammern] e del mettere tra parentesi [Einklammern] determinati aspetti nell’intuizione dei fenomeni dovrebbe essere chiaramente separato dalle teorie in base a cui vengono interpretati i risultati ottenuti metodicamente. Purtroppo Husserl con le sue Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (1913)38 è ricaduto in una teoria trascendentale per dare una risposta alle domande rese possibili dal metodo. Plessner invece non limita il metodo fenomenologico a dare solo risposte che si hanno già prima dell’analisi. Mentre Husserl stesso faceva ritorno alla soggettività trascendentale kantiana, Wilhelm Dilthey (più tardi sistematizzato da Georg Misch) abbozzava la sua er23

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meneutica delle scienze dello spirito e proponeva a Karl Jaspers la sua analisi esistenziale di situazioni limite. Nessuno dei due era fenomenologo, ma entrambi sono stati utilizzati dapprima da Heidegger e più tardi da Sartre per la soluzione del problema teoretico dell’interpretazione del metodo fenomenologico. Sia Heidegger che Sartre, allo stesso modo di Merleau-Ponty sotto l’influsso di Buytendijk e Plessner39, hanno nei loro anni giovanili una fase antropologica di cui non riescono a venire a capo40. Per Plessner tutti gli autori menzionati hanno mollato troppo presto. Troppo in fretta essi hanno limitato il metodo della scoperta fenomenologica alla mera funzione di appoggiare un’interpretazione filosofica, qui l’esistenza o la corporeità vissuta, lì l’Esserci o l’incommensurabilità, sul piano delle scienze dello spirito, di ciascuna epoca storica in se stessa. Si potrebbe dire che è ricominciata da capo la fiera delle gelosie filosofiche, cioè delle paure del confronto (Max Frisch) della propria interpretazione con altre interpretazioni. Per tutte le filosofie dualistiche il corpo non consiste di altro che di fatti, per i quali devono essere competenti le scienze empiriche, non la filosofia. La filosofia in questo modo priva dualisticamente il corpo della sua cittadinanza. Plessner invece utilizza il metodo fenomenologico diversamente. Egli non fa astrazione dai giudizi empirici di esistenza su fatti dai quali può dipendere la vita. Dei fenomeni vengono prese sul serio anche le dimensioni relative al corpo organico [körperliche Dimensionen], per poterle distinguere dalle loro dimensioni relative al corpo vissuto [leibliche Dimensionen]. I metodi dell’illumina24

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zione esistenziale (Jaspers), dell’analisi dell’Esserci e dell’esistenza (Heidegger), della corporeità vissuta (Merleau-Ponty), della comprensione propria delle scienze dello spirito (Dilthey), del nullificare di un cogito preriflessivo (Sartre), tutti questi metodi non sono per Plessner delle filosofie definitive, ma solo ipotesi metodologiche per l’interpretazione delle dimensioni relative al corpo vissuto. La domanda decisiva comincia solo con il terzo elemento correlato delle distinzioni, cioè con la personalità. Nel loro modo temporale di condurre la vita, le persone distinguono tra le dimensioni relative al corpo organico (che possono essere scambiate, rappresentate, sostituite) e quelle relative al corpo vissuto (che non possono essere scambiate, rappresentate, sostituite). Non si tratta di mettere tra parentesi o di sospendere determinati aspetti per ottenere così una risposta teoretica ultima che ponga definitivamente termine alla domanda. Questo conduce, anche nel caso della filosofia delle forme simboliche di Cassirer, nuovamente, solo ad una “filosofia antropologica”41, che pretende di sapere che l’uomo è l’“animal symbolicum”42. Però, dice Plessner, che cosa interconnette [verklammert] la physis e la psyche per la vita di carattere personale, la quale non richiede la sospensione né la messa tra parentesi di alcuni suoi aspetti, bensì la loro inter-connessione [Ver-klammern]? Come fanno le persone a intrecciare i monopoli dell’uomo, e come possiamo scoprire se si tratta di monopoli effettivi dell’uomo o solo di presunti tali? Come possiamo dunque superare l’antropocentrismo che si nasconde in tutte le risposte date sinora, come se avessimo già da tempo raggiunto la fine della sto25

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ria: esistenza, Esserci, corpo vissuto, religione, mito, cultura, linguaggio, funzione simbolica e così via? Queste presunte risposte filosofiche provenienti dal XX secolo sono per Plessner, nel migliore dei casi, metodi storicamente determinati per l’interpretazione dei reperti fenomenologici. Solo che non si deve cadere vittima di tutte queste filosofie, che di metodi dell’interpretazione fanno subito dei principi teoretici! Nessuna vuota disputa intorno ai principi! L’Antropologia Filosofica di Plessner non prosegue la prima serie delle rivoluzioni copernicane. Essa incomincia con il tentativo diltheyano di applicare «la svolta copernicana di Kant ancora una volta a se stessa»43, però volgendosi ora contro Dilthey, cioè senza rimanere all’interpretazione solamente storica. Poiché natura e storia non si possono più dividere. Le persone viventi hanno bisogno della loro interconnessione. Il rivoluzionamento copernicano delle rivoluzioni copernicane sinora vigenti, come operato da Plessner, apre la domanda verso il futuro. Formulato contro l’obiezione di Adorno (v. sopra, nota 36): non si tratta della sublimità della negatività. Per la sublimità, la misura di questa smisuratezza sarebbe pur sempre la soggettività. Così rimarremmo ancora imprigionati nella prima serie delle rivoluzioni copernicane, che ruota intorno al soggetto. Per Plessner si tratta piuttosto di quella negatività che rende possibile il futuro per quella forma di vita che si presenta nell’interconnessione degli aspetti secondo il carattere della personalità, con o senza aspetto ominide, con o senza “provincialismo terrestre”44. Il titolo del presente volumetto è dunque scelto in modo appropriato: L’uomo, una questione aperta. 26

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NOTE 1 Helmuth Plessner, Macht und menschliche Natur. Ein Versuch zur Anthropologie der geschichtlichen Weltansicht (1931), in Idem, Gesammelte Schriften V, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1981, p. 186; trad. it.: Potere e natura umana. Per un’antropologia della visione storica del mondo, a cura di Bruno Accarino, Roma, Manifestolibri, 2006, p. 93. 2 Cfr. lo sguardo bibliografico d’insieme di Jan Beaufort, Plessner Lesen, in «Information Philosophie», 31/1 (2003), e la pagina web della Helmuth Plessner Gesellschaft per l’Antropologia Filosofica (http://www.helmuth-plessner.de/). 3 Cfr. Josef König – Helmuth Plessner, Briefwechsel 1923-1933. Mit einem Briefessay von Josef König über Helmuth Plessners “Die Einheit der Sinne”, a cura di HansUlrich Lessing e Almut Mutzenbecher, Freiburg-München, Karl Alber, 1994. Helmuth Plessner, Politik – Anthropologie – Philosophie. Aufsätze und Vorträge, a cura di Salvatore Giammusso e Hans-Ulrich Lessing, München, Wilhelm Fink, 2001. Helmuth Plessner, Elemente der Metaphysik. Eine Vorlesung aus dem Wintersemester 1931/32, a cura di Hans-Ulrich Lessing, Berlin, Akademie Verlag, 2002. 4 Si tratta di corrispondenze epistolari, estremamente interessanti sia sul piano della storia contemporanea che su quello filosofico, con, tra gli altri, Frederik J.J. Buytendijk, Nicolai Hartmann, Martin Heidegger, Karl Jaspers, Josef König, Gerardus van der Leeuw, Theodor Litt, Karl Löwith, Georg Misch, Hendrik J. Pos, Erich Rothacker, Carl Schmitt, Rudolf Smend, Bruno Snell. 5 Helmuth Plessner, Macht und menschliche Natur…, cit., p. 186; trad. it. cit., pp. 93-94. 6 Cfr. a titolo di esempio per questo ampio assortimento Robert Spaemann, Personen. Versuche über den Unterschied zwischen “etwas” und “jemand”, Stuttgart,

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Klett-Cotta, 1996 (trad. it.: Persone: sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, a cura di Leonardo Allodi, Roma-Bari, Laterza, 2005). Jürgen Habermas, Die Zukunft der menschlichen Natur. Auf dem Weg zu einer liberalen Eugenik?, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2001 (trad. it.: Il futuro della natura umana: i rischi di una genetica liberale, a cura di Leonardo Ceppa, Torino, Einaudi, 2002). 7 Cfr. Helmuth Plessner, Grenzen der Gemeinschaft. Eine Kritik des sozialen Radikalismus (1924), in: Idem, Gesammelte Schriften V, cit., pp. 41, 43 e 49 sg.; trad. it.: I limiti della comunità. Per una critica del radicalismo sociale, a cura di Bruno Accarino, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 33 sg., 36 sg. e 42 sg. 8 Cfr. Helmuth Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie (1928), Berlin, De Gruyter, 19753, p. 294 (anche: Idem, Gesammelte Schriften IV, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1981, pp. 366-367); trad. it.: Il regno dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, a cura di Vallori Rasini, Torino, Bollati Boringhieri, 2006, pp. 317 sg. Per la relativa discussione cfr. Hans-Peter Krüger – Gesa Lindemann (a cura di), Philosophische Anthropologie im 21. Jahrhundert, Berlin, Akademie Verlag, 2006. 9 Cfr. Hans-Peter Krüger, Zwischen Lachen und Weinen, Bd. I: Das Spektrum menschlicher Phänomene, Berlin, Akademie Verlag, 1999, e Idem, Zwischen Lachen und Weinen, Bd. II: Der dritte Weg Philosophischer Anthropologie und die Geschlechterfrage, Berlin, Akademie Verlag, 2001. 10 Cfr. Hannah Arendt, Vita activa oder Vom tätigen Leben, München, Piper, 19968 (ed. or.: The Human Condition, Garden City, NY, Doubleday, 1958); trad. it.: Vita activa: la condizione umana, a cura di Alessandro Dal Lago, Milano, Bompiani, 200512. 11 Helmuth Plessner, Die Stufen des Organischen und

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der Mensch…, cit., p. 292 (Gesammelte Schriften IV, cit., p. 365); trad. it. cit., p. 316. 12 Cfr. Helmuth Plessner, Lachen und Weinen. Eine Untersuchung der Grenzen menschlichen Verhaltens (1941), in Idem, Gesammelte Schriften VII, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1982, pp. 201-387; trad. it.: Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, a cura di Vallori Rasini, Milano, Bompiani, 2000. 13 Monika Plessner, Die Argonauten auf Long Island. Begegnungen mit Hannah Arendt, Theodor W. Adorno, Gershom Scholem u. a., Berlin, Rowohlt, 1995, p. 93. 14 Cfr. Carola Dietze, Nachgeholtes Leben. Helmuth Plessner (1892-1985), Göttingen, Wallstein Verlag, 2006, pp. 28, 516, 527 sgg. 15 Helmuth Plessner, Die verspätete Nation. Über die politische Verführbarkeit bürgerlichen Geistes, in Idem, Gesammelte Schriften VI, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1982, pp. 7-223. 16 Idem, Die Aufgabe der Philosophischen Anthropologie (1936), in Idem, Gesammelte Schriften VIII, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1983, p. 45; trad. it.: Il compito dell’Antropologia Filosofica, infra, p. 54. 17 Ivi, p. 41, cfr. ivi, p. 45; trad. it.: infra, p. 48, cfr. inoltre p. 53. 18 Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807), a cura di Johannes Hoffmeister, Berlin, Akademie Verlag, 1971, pp. 20 e 67 sg.; trad. it.: Fenomenologia dello Spirito, a cura di Enrico De Negri, Firenze, La Nuova Italia, 1996, pp. 50 sgg. e 128 sgg. Sul rapporto tra Plessner e Hegel, cfr. Hans-Peter Krüger, Zwischen Lachen und Weinen. Bd. II: Der Dritte Weg…, cit., capitolo 2.4. 19 Helmuth Plessner, Die Aufgabe der Philosophischen Anthropologie, cit., p. 36; trad. it.: infra, p. 41. 20 Ivi, pp. 46 sg.; trad. it.: infra, pp. 55 sg. Per una fon-

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dazione dettagliata dell’insondabilità dell’uomo in quanto principio teoreticamente definitivo e praticamente regolativo, cfr. Idem, Macht und menschliche Natur…, cit., pp. 160 sgg. e 190 sg.; trad. it. cit., pp. 65 sgg. e 98 sg. 21 Helmuth Plessner, Die Aufgabe der Philosophischen Anthropologie, cit., pp. 45 sg.; trad. it.: infra, p. 54. 22 Ivi, pp. 50 sg.; trad. it.: infra, p. 62. 23 Helmuth Plessner, Über einige Motive der Philosophischen Anthropologie (1956), in Idem, Gesammelte Schriften VIII, cit., pp. 119 sg., 123, 125 e 134; trad. it.: Circa alcuni motivi dell’Antropologia Filosofica, infra, passim. 24 Ivi, pp. 118 e 120 sg.; trad. it.: infra, pp. 65 e 68 sg. 25 Ivi, p. 128; trad. it.: infra, p. 79. 26 Ivi, pp. 133 sg.; trad. it.: infra, pp. 86 sgg. 27 Ivi, p. 131; trad. it.: infra, p. 83. 28 Ivi, p. 122; trad. it.: infra, p. 70. 29 Helmuth Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch…, cit., pp. 270 sg. e 340 (Gesammelte Schriften IV, cit., pp. 340-342 e 417 sg.); trad. it. cit., pp. 294-296 e 361 sg. 30 Cfr. ivi, pp. 301 sg. (Gesammelte Schriften IV, cit., pp. 374-376); trad. it. cit., pp. 315 sg. Per questo motivo, questi esseri viventi possono esperire la personalità anche in forme totalmente dissimili da essi. 31 Entrambi i libri sono contenuti in Idem, Gesammelte Schriften III, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1980. 32 Cfr. Rolf Wiggershaus, Die Frankfurter Schule. Geschichte – Theoretische Entwicklung – Politische Bedeutung, München-Wien, Carl Hanser Verlag, 1986, pp. 511513, 594 e 655; trad. it.: La Scuola di Francoforte: storia, sviluppo teorico, significato politico, a cura di Paolo Amari e Enzo Grillo, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 472 sgg., 548 e 604. 33 Cfr. Kersten Schüßler, Helmuth Plessner. Eine intel-

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lektuelle Biographie, Berlin-Wien, Philo Verlagsgesellschaft, 2000, pp. 176-187. 34 Cfr. tra gli altri Helmuth Plessner, Adornos Negative Dialektik. Ihr Thema mit Variationen (1970), in Idem, Politik – Anthropologie – Philosophie…, cit., pp. 265-281. 35 Marx Horkheimer, Zum Begriff des Menschen heute, in Wesen und Wirklichkeit des Menschen. Festschrift für Helmuth Plessner, a cura di Klaus Ziegler, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1957, p. 263. 36 Theodor Wiesengrund Adorno, Negative Dialektik, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1966, p. 130; trad. it.: Dialettica negativa, di Pietro Lauro, cura e introduzione di Stefano Petrucciani, Torino, Einaudi, 2004, p. 115. 37 Idem, Soziologie und empirische Forschung, in Wesen und Wirklichkeit des Menschen…, cit., pp. 248 sg.; trad. it.: Sociologia e ricerca empirica, in Idem, Scritti sociologici, Torino, Einaudi, 1976, p. 194. 38 Edmund Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. I: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, Niemeyer, Halle, 1913; ristampato in Husserliana, vol. 3, Nijhoff, Den Haag 1950, trad. it.: Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. 1, Libro primo: Introduzione generale alla fenomenologia pura, a cura di Elio Franzini – Vincenzo Costa, Torino, Einaudi, 2002. 39 Maurice Merleau-Ponty, in tutte le sue opere maggiori, rimanda con gratitudine alla sua scoperta del tema della corporeità in F.J.J. Buytendijk – Helmuth Plessner, Die Deutung des mimischen Ausdrucks. Ein Beitrag zur Lehre vom Bewusstsein des anderen Ichs (1925), in Helmuth Plessner, Gesammelte Schriften VII, cit., pp. 67-129. Purtroppo Merleau-Ponty è rimasto a questa posizione teorica del 1925. Non ha mai compreso le Stufen plessneriane del 1928. 40 Cfr. Helmuth Plessner, Immer noch Philosophische

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Anthropologie? (1963), in Idem, Gesammelte Schriften VIII, cit., p. 237; trad. it.: Ancora dell’Antropologia Filosofica?, infra, p. 92. 41 Ivi, p. 243; trad. it.: infra, pp. 100 sg. 42 Cfr. Ernst Cassirer, Versuch über den Menschen. Einführung in eine Philosophie der Kultur, Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 1990 (ed. or.: Essay on Man: an Introduction to a Philosophy of Human Culture, New Haven, Yale University Press, 1944); trad. it.: Saggio sull’uomo: introduzione ad una filosofia della cultura umana, Roma, Armando, 1996. 43 Helmuth Plessner, Immer noch Philosophische Anthropologie?, cit., p. 242; trad. it.: infra, p. 98. 44 Ivi, p. 246; trad. it.: infra, p. 104.

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Nota al testo Per la traduzione ho fatto riferimento ai testi delle Gesammelte Schriften, a cura di Günter Dux, Odo Marquard e Elisabeth Ströker, con la collaborazione di Richard W. Schmidt, Angelika Wetterer e MichaelJoachim Zemlin, vol. VIII, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1983. Ho riportato e tradotto solo le note dell’Autore, tralasciando quelle dei Curatori delle Gesammelte Schriften. Le aggiunte mie, Martino Boccignone, nel corpo del testo o a piè di pagina, sono contrassegnate dall’indicazione “Nota del Traduttore” (N.d.T.). 1. Die Aufgabe der Philosophischen Anthropologie (“Il compito dell’Antropologia Filosofica”): prolusione tenuta all’università di Groningen il 30 gennaio 1936, pubblicata inizialmente in «Philosophia», 2, 1937, pp. 95-111, e ristampata in Helmuth Plessner, Zwischen Philosophie und Gesellschaft. Ausgewählte Abhandlungen und Vorträge, Bern, Franke, 1953, pp. 117-131 (seconda edizione: Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1979, pp. 133-149). Ora in Gesammelte Schriften VIII, cit., pp. 33-51. 2. Über einige Motive der Philosophischen Anthropologie (“Circa alcuni motivi dell’Antropologia Filosofica”): pubblicato in «Studium Generale», vol. 9, fa33

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scicolo 8, Berlin-Göttingen-Heidelberg, 1956, pp. 445-453. Ora in Gesammelte Schriften VIII, cit., pp. 117-135. 3. Immer noch Philosophische Anthropologie? (“Ancora dell’Antropologia Filosofica?”): pubblicato in Zeugnisse. Theodor W. Adorno zum sechzigsten Geburtstag. Im Auftrag des Instituts für Sozialforschung, a cura di Max Horkheimer, Frankfurt am Main, Europäische Verlagsanstalt, 1963, pp. 65-73, e ristampato in Helmuth Plessner, Diesseits der Utopie. Ausgewählte Beiträge zur Kultursoziologie, Düsseldorf-Köln, Eugen Diederichs Verlag, 1966, pp. 230240 (seconda edizione: Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1974). Ristampato anche in «Universitas», vol. 23, fascicolo 6, Stuttgart, 1968, pp. 569-578, con il titolo Die Frage nach dem Wesen des Menschen – Der Ruf nach Philosophischer Anthropologie. Ora in Gesammelte Schriften VIII, cit., pp. 235-246. Una prima traduzione italiana di questo saggio è apparsa in Helmuth Plessner, Al di qua dell’utopia, a cura di F. Salvadori, Genova, Marietti, 1974, pp. 187199 (traduzione parziale di Diesseits der Utopie…, cit.), ed è stata ristampata, immutata, in Maria Teresa Pansera, Antropologia filosofica. Le peculiarità dell’umano in Scheler, Gehlen e Plessner, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 189-197.

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HELMUTH PLESSNER L’uomo: una questione aperta

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1. Il compito dell’Antropologia Filosofica (1937)

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I L’antropologia in senso filosofico non può essere semplicemente identificata con le correnti e i metodi che mirano a determinare l’essere e le peculiarità dell’uomo in contrapposizione con i metodi specialistici delle scienze della natura, della psicologia, della storiografia e della sociologia. Simili tentativi di un’elaborazione concettuale organica e comprensiva, i quali (come per esempio la caratterologia), tenendo in considerazione l’«essere unitario» fisico-psichico-spirituale, devono rompere con la tradizionale tecnica di isolamento dell’analisi dei processi corporei dall’analisi dei processi della coscienza e di quest’ultima da quella dei complessi spirituali, rimangono senz’altro empirici e avranno successo solo se si comporteranno in modo neutrale nei confronti della filosofia. Solo lo sforzo di trovare un criterio per l’elaborazione concettuale organica e comprensiva può chiamarsi filosofico, perché la ricerca di tale criterio pone di fronte alle problematiche specificamente filosofiche della teoria della conoscenza, dell’ontologia e così via. L’Antropologia Filosofica, peraltro, non è una scoperta del nostro tempo. C’è sempre stata una filosofia dell’uomo, se con “uomo” non si intende solo una 37

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formazione particolare nel cosmo (e con antropologia solo una teoria di questa immagine in riferimento al suo “essere”, alla sua “posizione”), bensì l’orizzonte a noi assegnato di compiti che – nelle svariate culture e al di là di grandi distanze storiche – sono stati considerati come propri dell’uomo; compiti di un essere che desidera e spera, pensa e vuole, sente e crede, si preoccupa della propria vita e in ogni cosa deve esperire la distanza tra la perfezione e le sue possibilità. Vista in questo modo, l’antropologia può essere a mala pena distinta dalla filosofia. Ma anche se non ci si spinge così lontano, è ancora possibile parlare di una storia dell’Antropologia Filosofica. Non ci si deve però mai dimenticare che essa è intrecciata con la storia delle scienze, e in modo particolarmente stretto con la storia delle scienze dell’uomo. Sino al XIX secolo la tendenza all’universalità predominava sull’interesse verso lo specialismo. Proprio nelle cose riguardanti l’uomo, i dotti cercavano unità e connessione tra ciò che è e ciò che deve essere. Era considerato incolto e privo di gusto dimenticare la prassi a causa della teoria. Perciò, solo dopo l’irruzione della concezione moderna della divisione scientifica del lavoro negli ambiti dell’uomo, delle sue espressioni vitali e della storia, è diventato possibile contrapporre una filosofia dell’uomo all’empiria. Ciò che per secoli era rimasto unito, tenuto insieme, per lo più implicitamente, dai “fermagli” dell’immagine teologica del mondo, ora al contrario, venuti meno tali fermagli, si smembra esplicitamente. Nell’idea kantiana di critica, l’uomo, in quanto punto prospettico della critica stessa (sotto i titoli delle diverse “facoltà”: intuizione, intelletto, facoltà di 38

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giudizio, ragione), è ancora inteso in modo troppo generale e formale perché la si possa definire esplicitamente come una Antropologia Filosofica. Ciononostante la critica kantiana è il suo precursore più importante. Infatti il suo modo di procedere, consistente nel “ricondurre” grandezze e tesi apparentemente indipendenti dall’uomo a funzioni interne all’uomo, assicura all’essere umano, in quanto “base di riduzione”, una posizione preminente. Questa base di riduzione non significa l’uomo concreto nella sua piena realtà, bensì la struttura ideale di un essere razionale, ed è questo che distingue la critica idealistica dalla critica “materialistica” posthegeliana di un David Friedrich Strauß e di un Ludwig Feuerbach. L’antropologia apparve per la prima volta come filosofia – il che qui significa: come controparte ed eredità di ogni teologia, aperta o cammuffata che fosse – nel movimento della sinistra hegeliana. Questa tendenza condusse a Marx e Stirner e con ciò all’autodissolvimento dell’antropologia in senso filosofico1. Sotto la pressione dello sviluppo industriale, che favorì un’estrema divisione del lavoro nell’ambito della ricerca allo stesso modo in cui divise gli interessi in borghesi e proletari, da parte borghese si rinnovò l’idealismo e dalla parte opposta si conservò il marxismo. Questa situazione, dominante in Germania a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, è crollata do1 Cfr. i lavori di K. Löwith su questo periodo trascurato dalla storiografia accademica. [Cfr. Karl Löwith, Von Hegel zu Nietzsche. Der revolutionäre Bruch im Denken des 19. Jahrhunderts (1941), Hamburg, Meiner, 1995; trad. it.: Da Hegel a Nietzsche: la frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Torino, Einaudi, 2000, N.d.T.].

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po la guerra [la Prima Guerra Mondiale, N.d.T.]. Si impone una nuova situazione sociale. Nella dissoluzione di un mondo determinato dal cristianesimo e dall’antichità, l’uomo, ora abbandonato del tutto da Dio, contro la minaccia di affondare nell’animalità, si pone nuovamente la domanda circa l’essenza e lo scopo dell’essere uomo. II Significativamente, dell’elaborazione di questa domanda viene incaricata una disciplina particolare “della” filosofia. Un’Antropologia Filosofica, nel significato attuale della parola, è collegata, in quanto antropologia, a un gruppo di singole scienze consolidate, mentre, in quanto disciplina filosofica, è collegata all’ambito tradizionale della filosofia ed è quindi essa stessa in una posizione specialistica. Tuttavia, rispetto alla teoria della conoscenza e alla dottrina della scienza, poste anch’esse in una situazione simile, essa assume inoltre una particolare responsabilità nei confronti della vita pratica e delle sue forze. Il suo campo non è un ambito delimitabile obiettivamente e secondo determinate categorie generali che si dovrebbero inventariare fin dall’inizio, bensì è “l’uomo” “nel” mondo, mondo che è un’irruzione verso orizzonti aperti e la cui polivocità e insondabilità, e con ciò anche essenzialmente insicurezza, hanno dato all’uomo, per esperienza storica, nel richiamo e nella minaccia, la coscienza di essere “uomo”. Chi, di fronte a questa insicurezza, si arrischia a dire qualcosa sull’uomo come tale, deve fare i con40

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ti con il fatto di essere chiamato da lui a risponderne davanti al tribunale della storia. Per l’esposizione del compito dell’Antropologia Filosofica occorre tenere a mente questo triplice legame con le singole scienze, con la filosofia e con la situazione storica della vita umana. Cionondimeno sarebbe affrettato, a partire dalla particolare responsabilità di fronte alla vita e dal particolare legame con così tante scienze, in parte così lontane l’una dall’altra, trarre la conclusione che essa sia il cuore della filosofia o addirittura il suo fondamento. Essa può intendere se stessa come disciplina periferica rispetto ad ampi campi del sapere della tradizione, come parte della filosofia o come parte dell’antropologia, i cui ambiti in essa giungono ad una parziale sovrapposizione. Non facciamo di essa una filosofia antropologica (ad esempio secondo il modello di Feuerbach) o addirittura un’antroposofia. Guardiamoci dal dichiarare fin dall’inizio come suo principio l’idea del microcosmo, secondo l’indicazione della grande tradizione antica e medioevale nello stile per esempio di un Paracelso o dei grandi romantici o postromantici. Dove non sussiste più alcuna certezza di un macrocosmo, anche il pensiero del microcosmo non ha più alcun fondamento né verità. Nell’Antropologia Filosofica ci si rivolge all’uomo in quanto uomo, e in questa aggiunta “in quanto uomo” si effettua una delimitazione dell’ambito che occupa un centro non fissabile con precisione tra gli estremi opposti della massima individualizzazione possibile e della massima generalizzazione possibile. L’aggiunta “in quanto uomo” significa in primo luogo una pretesa che non può essere semplice41

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mente riscattata su un piano teoretico, poiché la classificabilità zoologica della specie homo sapiens in base a caratteri distintivi non parla in modo assoluto a favore della sua esistenza, né i contrasti tra le concezioni delle religioni, delle culture e dei popoli sulla questione “uomo” testimoniano in modo assoluto contro di essa. Rispetto all’individualizzazione estrema, nel senso per esempio di Stirner o di Kierkegaard, l’ambito intermedio dell’Antropologia Filosofica mantiene la costituzione essenziale dell’essere uomo ad un livello superiore, che nondimeno trova espressione in tutti i destini degli individui e dei popoli. Rispetto alla generalizzazione estrema, come ad esempio quella per cui l’uomo è sostanzialmente solo sangue o popolo o ragione o storia e ha in ciò la sua “essenza autentica”, l’ambito intermedio mantiene invece la prossimità alla realtà, una prossimità la cui interpretazione non è priva di rischi. In secondo luogo l’aggiunta “in quanto uomo” significa una pretesa pratica per il cui soddisfacimento possono essere date altrettanto poche garanzie universalmente riconosciute. Noi dobbiamo la scoperta o la pretesa di essere uomini e di doverlo essere a un determinato processo storico, all’antichità greca e alla religiosità giudaico-cristiana. Se su questo processo storico cade il sospetto che esso sia una strada sbagliata e una sventura (così vogliono alcune correnti del neopaganesimo), il concetto di uomo conserva solo il significato di un’astrazione zoologica senza alcun senso vincolante. Il sapere circa la contestabilità di criteri o garanzie obiettivamente univoci, circa l’essere in pericolo e con ciò circa il carattere arrischiato del concetto 42

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“uomo”, deve distinguere un’Antropologia Filosofica attuale, messa alla prova di fronte al tempo, alla situazione delle scienze dell’uomo e alla situazione della filosofia, da tutti i tentativi romantici e preromantici. Dato che oggi, grazie alle esperienze della storiografia, alla critica dell’idea di sviluppo, alla vulnerabilità politica e ideologica della humanitas, siamo a conoscenza dell’arrischiatezza e della mancanza di fondamento del concetto di “uomo”, noi dobbiamo considerare l’essere uomo nella maggior ricchezza pensabile di possibilità, nella sua indominabile polivocità e nel suo reale essere in pericolo, in modo tale che l’arrischiatezza di un simile concetto diventi comprensibile come assunzione di una particolare responsabilità davanti alla storia. Con ciò abbiamo ottenuto il principio che un’Antropologia Filosofica attuale deve seguire nella formulazione di tutte le sue questioni. Noi possiamo illustrare questo principio con una definizione classica, quale è data da Kant nella prefazione alla sua Antropologia da un punto di vista pragmatico. Essa comincia con le parole: «Tutti i progressi civili, per mezzo dei quali l’uomo compie la propria educazione, hanno per fine di applicare le conoscenze e le abilità acquistate all’uso del mondo; ma l’oggetto più importante nel mondo, a cui egli può applicarle, è l’uomo, perché l’uomo è fine a se stesso. – Il conoscere, dunque, l’uomo nella sua specie come creatura terrestre dotata di ragione merita di essere detto, in modo particolare, conoscenza del mondo, sebbene egli costituisca solo una parte delle creature della terra. Una dottrina della conoscenza dell’uomo, concepita sistematicamente (antropologia), può essere fat43

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ta o da un punto di vista fisiologico o da un punto di vista pragmatico. – La conoscenza fisiologica dell’uomo mira a determinare quel che la natura fa dell’uomo, la pragmatica mira invece a determinare quello che l’uomo come essere libero fa oppure può e deve fare di se stesso»2. Un’Antropologia Filosofica che renda possibile il passaggio tra la “fisiologica” e la “pragmatica” risalendo alla radice dell’essere uomo come tale deve osservare il principio di assicurare a ciascuno dei due punti di vista (nell’esempio di questa citazione) la stessa serietà, lo stesso significato per una conoscenza dell’essere umano. Essa può farlo solo se segue tre massime fondamentali. Nessuno dei due modi di trattazione deve essere sovraordinato all’altro. In termini generali: a ogni aspetto per il quale può essere avanzata la pretesa che in esso appaia l’essenza umana, sia esso un aspetto fisico, psichico, etico-spirituale o religioso, va riconosciuto lo stesso valore per lo svelamento dell’intero essere umano. Questa massima fondamentale distingue già sul piano metodico l’Antropologia Filosofica da tutte le unilateralità materialistiche, idealistiche ed esistenzialistiche che in direzione di una dimensione fondamentale, in conformità o in contrasto con la tradizionale stratificazione ontologica nell’articolazione della natura umana, riservano all’uomo un particolare aspetto-guida. 2 Akad.-Ausg. Bd. VII, S. 119. [Immanuel Kant, Werke. Akademie-Textausgabe (Nachdruck), Bd. VII, Berlin, De Gruyter, 1968; trad. it.: Idem, Antropologia pragmatica, a cura di Giovanni Vidari e riveduta da Augusto Guerra, Roma-Bari, Laterza, 20065, p. 3, N.d.T.].

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L’unità che sta a fondamento dei vari aspetti e che rende possibile il passaggio dall’uno all’altro, ad esempio da quello biologico a quello storico, da quello psicologico a quello sociale, da quello teoreticamente oggettivante a quello attivo-esistenziale, non può pretendere di fornire in modo esteriore una cornice agli asserti della filosofia, delle scienze e della vita; questa unità deve essere della stessa originarietà che l’uomo dimostra nella propria esistenza che diviene storia, originarietà che l’uomo si guadagna faticosamente nel corso dell’esistenza. La peculiare connessione con la situazione pratica, infine, vieta all’Antropologia Filosofica di formulare o definire l’uomo, foss’anche nella ricchezza di “tutte” le sue dimensioni d’essere, riguardo a ciò che egli può e deve essere “autenticamente”. Le formule strutturali non possono pretendere di avere alcun valore teoretico-conclusivo, ma solo un valore aprenteespositivo. “L’uomo” (secondo la sua specie) costituisce sì la sua categoria di orientamento, ma non al fine di una mera classificazione, bensì allo scopo di garantire un’insondabilità che costituisce la serietà della responsabilità di fronte a “tutte” le possibilità in cui egli può comprendersi e quindi essere. Con l’osservanza di queste tre massime fondamentali è posto in linea di principio il compito di un’Antropologia Filosofica. La prima massima fondamentale determina l’eguale valore metodologico di tutti gli aspetti in cui si manifestano l’essere e il fare umani per la cosiddetta conoscenza essenziale dell’uomo. La seconda massima fondamentale determina il carattere dell’unità che sta a fondamento degli aspetti in virtù del loro eguale valore. La terza massima fondamenta45

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le determina la funzione di un’Antropologia Filosofica che è conscia dei propri limiti teoretici in riferimento alla sua responsabilità pratica nei confronti dell’insondabilità di ciò che è possibile all’uomo. Con ciò sono indicate, già sul piano del metodo, le spiccate differenze rispetto alla cosiddetta filosofia dell’esistenza di Heidegger e Jaspers e rispetto all’ontologia di Max Scheler. Heidegger e Jaspers (come anche Scheler, peraltro) dividono l’ambito dell’essere (sia esso rappresentato, come in Heidegger, da una formula strutturale o sia esso assegnato indirettamente, come in Jaspers, con un procedimento universalmente difensivo-evocativo) dall’ambito empirico dell’uomo; nel far ciò, entrambi sono discepoli del trascendentalismo, se non nel contenuto, almeno nel principio. Questo procedimento, per il suo apriorismo, ci sembra non essere sufficiente. Esso non sa condurre alla multivocità dell’esistenza reale; pur in tutta la sua pesantezza, se la rende troppo leggera, partendo da decisioni preliminari, non pienamente coscienti, di carattere religioso sul valore dell’interiorità, dell’essere-se-stessi e della libertà, senza lasciare l’uomo ad altre possibilità, e precisamente a quelle a cui – nonostante la loro apparente irrilevanza – egli, per esempio, è aperto, nel bene e nel male, in quanto essere vivente corporeo. Scheler, provenendo da una tradizione cattolica mai abbandonata del tutto, rinnova la vecchia dottrina della struttura a strati della natura umana. Il pensiero dominante di questa dottrina – che l’ordine gerarchico, sussistente a livello macrocosmico, dal superiore ed elevato strato divino fino allo strato inferiore della materia, delle forze e dello spazio, sia rap46

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presentato a livello microcosmico nell’uomo – porta Scheler a proseguire la vecchia linea di un’Antropologia Filosofica che interpreta l’uomo in termini cosmologici. Il compromesso tra la fiducia cattolica in un ordine gerarchico tra le creature, ovvero nella credibilità della evidente stratificazione dell’essere umano, e il dubbio moderno circa la superiore forza di ciò che è più alto, il contrassegno dell’opera di Scheler, rende la sua antropologia storicamente superata. Ciò che egli ha in più rispetto all’atteggiamento di fuga dal mondo e all’eroismo della mancanza di vincoli della filosofia dell’esistenza, ovvero il senso per la ricchezza dell’intraumano, subumano e sovraumano, l’apertura non accademica e in Germania particolarmente inusuale per i cosiddetti lati notturni dell’esistenza – egli ha tutto ciò solo al prezzo di un’ingenuità (amabile, certamente) nei confronti di se stesso e del proprio filosofare. Il suo dubbio è un mezzo dubbio, la sua fede una mezza fede. Non ancora confrontato con un mondo andato in pezzi, egli non ha mai trovato l’occasione né la forza di spezzare la tradizione postromantica. La conoscenza della minacciabilità, da parte dell’uomo stesso, non solo dell’essere umano ma addirittura dell’idea dell’essere umano, obbliga un’Antropologia Filosofica che voglia rimanere fedele a questa idea all’osservanza delle tre massime fondamentali sopra nominate. Solo in questo modo essa può affrontare il pericolo che sorge dalla sfiducia propagata attualmente contro il comprendersi dell’uomo nella prospettiva della libertà. Le dogmatizzazioni intramondane della natura umana, l’eccessiva valorizzazione delle proprietà biologico-vitali, la sopravvalutazione del 47

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corpo (espressione di una mancanza di fede in Dio e nella ragione, nello spirito e nell’umanità) che si esprime nel sospetto verso la consistenza reale dell’uomo, sono diventate un grande pericolo per l’uomo. L’Antropologia Filosofica deve finalmente essere resa consapevole in modo tale che la comprensione dei suoi limiti apra la via al loro superamento. Se l’uomo vuole imparare a vedersi in quanto uomo in una insuperabile radicalità, si deve qui impostare il lavoro contro l’eredità secolare di una distruzione che è stata spesso avversata, ma non ancora realmente risolta, non ancora portata a dissoluzione. A questo scopo occorre aver compreso il principio fondamentale della distruzione secondo l’idea direttiva di ogni la scepsi radicale: il “riconducimento” di ogni autorità al soggetto (caduto, nella fiducia in essa, in preda a un autoinganno). Non supereremo questa scepsi fino a quando non la avremo realizzata. La scepsi realizzata nel senso del suo superamento è possibile solo come Antropologia Filosofica. III In questo sta la sua autentica vocazione per quest’epoca, il suo compito al tempo stesso politico-morale secondo il senso del mondo, poiché essa deve fare i conti con la seguente situazione3: con il crollo di un’autorità sovramondana che l’umanità europea 3

Cfr. il mio libro Das Schicksal des deutschen Geistes im Ausgang seiner bürgerlichen Epoche, Zürich [Max Niehans Verlag, N.d.T.], 1935. [Il libro, che raccoglie una serie di le-

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aveva rispettato fino ai tempi delle guerre confessionali, l’autonomizzazione delle nazioni in stati secolari e la secolarizzazione della scienza, sono diventate dubbie una dopo l’altra le istanze in virtù delle quali soltanto l’uomo e nulla oltre l’uomo era considerato come creatura fatta a immagine di Dio, istanze alle quali egli poteva fare appello solo in quanto uomo, cioè secondo il suo carattere specifico [Gattungscharakter], al quale era vincolato come a un obbligo [verpflichtet]. Poiché sin dall’Illuminismo è diventato possibile mettere in discussione l’esistenza di Dio, la verità della ragione e il carattere vincolante dell’umanità, è venuta meno ogni base extranaturale, spirituale ed etica che concedeva unità a tutto ciò che ha un volto umano. Tranne la base rappresentata dalla natura, tutti i livelli a partire dai quali e verso i quali l’uomo deve comprendersi nel suo carattere specifico non sono più vincolanti. Tuttavia la base naturale mostra ciò che è umano nell’uomo solo nell’astrazione di un tipo medio che possiamo ottenere artificialmente, se lo vogliamo, a partire da tutte le possibili varietà razziali. Però chi o cosa deve ancora indurci a questo, se non la fede nella figliolanza divina dell’uomo e nel suo essere fatto a immagine e somiglianza di Dio o almeno la fede che solo all’uomo è data la ragione e con essa un grado gerarchico più alto tra le zioni universitarie tenute da Plessner presso l’università di Groningen nel semestre invernale 1934/35, è stato poi ripubblicato, integrato da una lunga prefazione e alcune aggiunte finali, con il titolo Die verspätete Nation. Über die Verführbarkeit bürgerlichen Geistes, Stuttgart, Kohlhammer, 1959. Ora è in Helmuth Plessner, Gesammelte Schriften VI, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1982, pp. 7-223, N.d.T.].

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cose reali, la fede nella dignità di un’esistenza razionale-spirituale che resta fedele al suo carattere specifico? Se non c’è più questa fede, allora l’interesse delle scienze naturali per una netta delimitazione della specie homo rispetto agli altri antropoidi ha solo un valore problematico. La base naturale dell’esistenza, che è l’unico residuo lasciato alla fine dalla storia universale del sospetto contro ogni autorità, è di per sé priva di carattere vincolante. Solo per questo si è potuti giungere al fatto che il nazionalismo moderno (irrazionalistico e materialistico) fa del valore del proprio popolo la massima esclusiva del proprio agire e non teme di posporre ad esso l’idea dell’umanità, e infine è persino giunto a considerare certe qualità razziali biologiche o assunte come biologiche e la loro riproduzione selettiva [Züchtung] come requisito, anzi come senso dell’esistenza umana. Bizzarrie occasionali non possono ingannare circa la serietà del pericolo in cui si trova, in questo modo, l’idea dell’uomo. Se le sue vecchie garanzie metafisiche e ontologiche non valgono più in modo indiscusso, allora anche il genere umano [Menschheit] e l’umanità [Menschlichkeit] diventano un problema di carattere morale. L’unità biologica specifica, su un piano formale, dell’uomo, con i vari caratteri dell’andatura eretta, dello sviluppo della mano, del linguaggio, della scoperta e dell’uso di utensili ecc., la possibilità, data con ciò, a coloro che appartengono a questa specie di comprendersi reciprocamente e dunque di produrre, nell’elemento del lavoro spontaneo, ciò che la natura ha loro esibito, tale unità specifica non basta a esortare l’uomo a essere un uomo. Egli può perdersi nel senso più stretto della parola, può uscire da un’e50

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sistenza di cui deve essere storicamente responsabile, se in questa responsabilità non riconosce più alcuna dignità. Oggi l’uomo non può più accertarsi di questa dignità a partire da una tradizione indiscussa. Così, se egli prende sul serio, come solo è possibile, il dubbio nei confronti della tradizione ormai sconvolta, allora il suo essere uomo come dato di fatto e come compito è ora diventato per lui un problema. E, se vediamo bene, lo è diventato proprio in un’estensione e in una profondità che non permettono più alcun incremento. Non si tratta più di domande del tipo: come la creatura di Dio sia potuta diventare peccatrice, o come possa l’uomo, finito e peccatore, pensare l’infinito dell’essere divino, o se e come l’uomo, sottoposto alle leggi causali, affermi la propria libertà rispetto alla loro determinazione. Si tratta dell’essere uomo come tale e al tempo stesso della fondatezza della sua delimitazione teoretica e del suo carattere vincolante a livello pratico; si tratta della questione: cosa significa e come è possibile essere un uomo. È questa la questione la cui trattazione costituisce e richiede una dottrina dell’uomo che abbia un intento filosofico, svolta secondo il filo conduttore della sua fondamentale dubitabilità. In questa questione si può riconoscere il suo essere originata in un’epoca storica di svolta, in cui lo sconvolgimento dell’autorità sovramondana e intramondana si è esteso all’autorità dell’uomo. Noi non possiamo più prendere come fondamento la stessa fiducia nella stabilità del punto di vista a partire da cui giudicano la scienza tradizionale e la filosofia, così come tale fiducia le dominava ancora sino alla metà del XIX secolo. Resi edotti dalle scoperte della storia del nostro proprio 51

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essere, dobbiamo per lo meno fare i conti con la possibilità che l’apparato con il quale noi giudichiamo (la nostra ragione, i nostri concetti, categorie, principi, e i valori in base a cui valutiamo) non rappresenti l’unica possibilità, contraddistinta dalla sua verità, grazie a cui l’essere uomo è garantito, e, in quanto garantito, deve essere compreso e plasmato4. Le esperienze del XIX secolo ci hanno fatto conoscere l’insondabilità della natura umana. Proprio le scienze dell’uomo appartengono allo sviluppo più recente della ricerca. La strutturazione metodica e la diffusione del materiale nella storiografia e nelle cosiddette scienze storiche, soprattutto storico-comparative, dello spirito, nella scienza del linguaggio, nella sociologia e nell’etnologia, nello studio della preistoria e nell’archeologia, si collocano nell’ultimo secolo e in misura non trascurabile nei suoi ultimi decenni. Se il XVII secolo e in parte anche il XVIII stavano nel segno della fisica e delle scienze naturali dell’inorganico, per il XIX secolo la prospettiva si è per lo meno spostata. Qui predominano la biologia genetica e le scienze dello spirito. Si deve ad esse se i rigidi 4 Confronta il mio libro Macht und menschliche Natur. Ein Versuch zur Anthropologie der geschichtlichen Weltansicht, Berlin [Junker & Dünnhaupt, N.d.T.], 1931. [Ristampato inizialmente in Helmuth Plessner, Zwischen Philosophie und Gesellschaft. Ausgewählte Abhandlungen und Vorträge, Bern, Franke, 1953, pp. 241-317 (seconda edizione: Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1979, pp. 276-363); ora in Idem, Gesammelte Schriften V, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1981, pp. 135-234; trad. it.: Potere e natura umana. Per un’antropologia della visione storica del mondo, a cura di Bruno Accarino, Roma, Manifestolibri, 2006, N.d.T.].

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schemi con i quali ancora l’Illuminismo tracciava l’immagine dell’uomo sono stati ricondotti storicamente alle loro fonti e così si è spezzato, anche nella vita, il loro incantesimo. Esse hanno insegnato a cogliere l’uomo come essere reale, in carne ed ossa, in tutte le dimensioni della sua esistenza corporea, psicologica e spirituale, nell’insieme di tutte le culture viventi e estinte, sullo sfondo imponente di una storia evolutiva, vecchia milioni di anni, della vita organica su questa terra. Con un simile allargamento della prospettiva alle lingue, alle culture e alle religioni extraeuropee, alla storia precristiana e preclassica, alle forme di vita preistoriche, preumane e extraumane, la coscienza europea e occidentale ha perso la disinvoltura di fronte a se stessa. Essa ha acquisito una certa distanza rispetto ai propri criteri di valore, alla superiorità tradizionale della sua cultura fondata sull’antichità e sulla religiosità giudaico-cristiana, e all’assunto tradizionale secondo cui l’uomo è posto al vertice degli esseri viventi nel tutto della natura. Con un’acutezza senza eguali evocata dalla totale perdita di autorità, è messo in discussione il senso del proprio essere in quanto essere umano. E poiché oggi vige il sospetto circa tutte le possibilità di indirizzare verso strade ragionevoli le energie in una certa misura svincolate, liberate dalla mancanza di fede, di distogliere l’animal ideologicum chiamato uomo dalla sua presunta essenza disumana (animale-pulsionale), la risposta alla domanda sull’essenza dell’uomo in quanto forma particolare dell’essente si dirige proprio contro questo presupposto della domanda. L’uomo non viene più riconosciuto appunto in quanto uomo. L’intuizione antropologica che ha 53

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trovato accesso alla letteratura naturalistica alla moda (Chamberlain5, Spengler, Lessing6, Klages) lo vede al di sotto del suo livello, così che peraltro non ci si deve meravigliare se prima o poi anche uno Stato trova gusto nel trattarlo in modo corrispondente. La tendenza oscura e violenta verso l’affermazione della mera vita, un eroismo della pura azione, ha afferrato proprio lo strato più illuminato delle intelligenze d’Europa. Noi la vediamo minacciare gli ideali dell’umanità; anzi, di più: la vediamo minacciare l’idea della responsabilità umana. Si può anche obiettare cento volte che, scientificamente, l’ideologia di tale dionisiaca deificazione della vita non può essere presa sul serio, poiché essa «contraddice se stessa» in ogni sua proposizione, ma il problema rimane. Per amore dell’umanità occidentale, per amore della conservazione della tradizione europea, l’uomo deve capire sino a che limite egli può mettersi in discussione in quanto uomo. L’uomo non deve, nell’ambito della filosofia, rendersi le cose più semplici di quanto la realtà non glielo permetta. Altrimenti egli non si libererà del sospetto contro il diritto di parlare dell’uomo come di un essere particolare e obbligato al suo carattere specifico. Per questo occorre chiarire in modo definitivo tale sospetto e sottoporre a prova nel modo più esaustivo possibile i motivi contro una posizione 5 Houston Stewart Chamberlain (1855-1927), scrittore anglotedesco, fautore di un antisemitismo fortemente razzista e nazionalista e sostenitore della superiorità della “razza ariana” [N.d.T.]. 6 Si intende l’ebreo tedesco Theodor Lessing (1872-1933), filosofo e pubblicista, vicino alle posizioni pessimistiche di Oswald Spengler e Ludwig Klages [N.d.T.].

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particolare dell’uomo. Tale sospetto non può essere superato con l’argomento secondo cui i motivi si contraddicono, poiché i presupposti concettuali, etici e religiosi a partire dai quali tali barriere sono pensabili appartengono agli ambiti dell’autorità ormai sconvolta. Solo lungo la via opposta della radicalizzazione consapevole degli argomenti distruttivi e del loro inasprimento sistematico contro tutte le rassicurazioni che ci si è portati dietro sinora, si può esporre e destabilizzare il fondamento dell’essere umano in modo tale che la distruzione di un’essenza propria presuntivamente indubbia dell’uomo produca il capovolgimento nella decisione a favore dell’umanità7. La filosofia deve trovare questo coraggio verso la scepsi senza riserve in quanto metodo dell’uomo per ritrovare se stesso attraverso l’autodestabilizzazione, ed essa può trovarlo oggi anche considerando Kierkegaard e Nietzsche (in questo diamo ragione alla filosofia dell’esistenza), ma anche Marx. Ma essa può farlo solo in quanto Antropologia Filosofica condotta con i mezzi della critica scientifica. Il suo principio è catartico, purificatore, apre alla libertà per la decisione, non è dissolutivo e disfattista. Essa vuole portare l’uomo di fronte a se stesso in tutte le sue dimensioni per togliergli la possibilità, sfruttata dal 7 Ho cercato di sviluppare l’autodestabilizzazione della filosofia così richiesta in Die Frage nach dem Wesen der Philosophie, in “Idealismus. Jahrbuch für die idealistische Philosophie”, a cura di Ernst Harms, Vol. I, Zürich-Leipzig-StuttgartWien 1934, pp. 127-146. [Ristampato in Helmuth Plessner, Zwischen Philosophie und Gesellschaft…, cit., pp. 79-98 (seconda ed. cit., pp. 88-111); ora in Idem, Gesammelte Schriften IX, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1985, pp. 96-121 [N.d.T.].

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vecchio idealismo della libertà e della coscienza, ma anche dalla filosofia dell’esistenza, di sottrarsi di soppiatto alle responsabilità di un’esistenza mondana estremamente terrena, consegnata totalmente e senza privilegi esistenziali alle imprevedibilità dell’esperienza, e di nascondersi in “sé” e dietro il suo possibile essere se stesso. Il suo principio dunque, ovviamente, non è neanche dogmatico. Essa ricopre in realtà la funzione che ogni scepsi ha avuto nella storia del sapere (anche le trattazioni dubitative di carattere solo metodico, orientato alla conoscenza, da Descartes sino a Husserl): respingere la falsa autorità e, attraverso il suo sconvolgimento, aprire la strada verso l’autentica sicurezza. IV L’Antropologia Filosofica può risolvere questo suo compito solo in positiva collaborazione con le scienze dell’uomo, come loro connessione interna. Nei tempi di uno specialismo portato ad alto livello si è allentata fin troppo la connessione tra le scienze naturali e le scienze culturali dell’uomo, tra di esse e la filosofia. I dotti lo hanno avvertito già da tempo. Per questo motivo, spesso, i tentativi di un riavvicinamento alla realtà totale originariamente chiusa della persona umana sono partiti dalla ricerca stessa, e non sempre la filosofia li ha seguiti. Comprensibilmente le lotte sono più appassionate nei punti in cui i contrasti tra la trattazione scientifica dell’uomo sinora vigente e la sua natura personale cozzano più fortemente l’una contro l’altra: nella psicologia, nella medicina 56

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(qui particolarmente nella fisiologia, medicina interna e psichiatria) e nella teoria delle scienze dello spirito. L’opposizione si dirige ovunque contro la sopravvalutazione del metodo isolante del laboratorio nella conoscenza dell’uomo reale. La critica fondamentale di Bergson all’ideale di una misurazione delle grandezze psichiche e la lotta di Dilthey a favore di una psicologia comprendente, non sperimentale, che vuole assicurare allo storico un fondamento adeguato, hanno introdotto la nuova riflessione sull’inattingibilità dell’essere umano attraverso modelli che discendono dal modo di pensare delle scienze della natura. Tutto ciò che li ha seguiti si può ridurre alla formula: lotta contro il naturalismo secondo il metodo e il contenuto. Perciò lotta contro l’astratta psicologia della coscienza, ma anche contro gli idoli di una teoria della conoscenza orientata solo al punto di vista delle scienze naturali, lotta per un impiego reale dell’idea di persona contro la signoria di schemi astratti risalenti al XVIII secolo, che per fin troppo tempo hanno incatenato la psicologia e la teoria della conoscenza in prospettive artificiali. Tendenze simili si destano nella medicina da quando (nominiamo qui, forse in modo troppo unilaterale, nomi tedeschi) la psicopatologia generale di Jaspers8, la dottrina dei tipi di Kretschmer9, la pato8 Karl Jaspers, Allgemeine Psychopathologie. Ein Leitfaden für Studierende, Ärzte und Psychologen, Berlin, Springer, 19131; le edizioni attuali si basano sulla quarta edizione (1946), interamente riveduta; trad. it.: Psicopatologia generale, a cura di Romolo Priori, Roma, Il Pensiero Scientifico, 2000 [N.d.T.]. 9 Ernst Kretschmer (1888-1964), psichiatra tedesco. La sua dottrina dei tipi, o tipologia, distingueva tre tipi principali di

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logia della persona di F. Krauss10 e i lavori di Weizsäcker e di Binswanger hanno dato spazio all’idea secondo cui tra il dottore e il paziente non possono decidere solo fisiologia, chimica e batteriologia. La costituzione, il carattere, il tipo e la personalità unica e irripetibile sono momenti altrettanto essenziali nell’immagine del malato nel corpo o nell’anima. Così si è compiuta una grande svolta nella conoscenza dell’unità effettuale della persona tra corpo vissuto [Leib] e anima, corpo organico [Körper] e spirito. Questa unità, naturalmente, pone di fronte a compiti nuovi anche la teoria della conoscenza e l’ontologia, compiti specificamente filosofici, di cui Scheler ha avviato la trattazione con il tipo di analisi fenomenologica fondata da Husserl. corporatura (l’astenica o leptosomica, piccola e debole, l’atletica, muscolosa e dotata di larga struttura ossea, e la picnica, grassa e tarchiata), e sosteneva l’esistenza di una determinata corrispondenza tra la costituzione fisica e la personalità dell’individuo umano. Di grande importanza su questo tema è stata la sua opera Körperbau und Charakter. Untersuchungen zum Konstitutionsproblem und zur Lehre von den Temperamenten, Berlin, Springer, 19211 (edizione riveduta e ampliata: Berlin-Heidelberg-New York, Springer, 196725); fondamentale inoltre la sua Medizinische Psychologie, Leipzig, Thieme, 19221 (edizione riveduta e ampliata: Stuttgart, Thieme, 197514), di cui esiste una trad. it.: Manuale teorico-pratico di psicologia medica, a cura di G. Ferri, Firenze, Sansoni, 1952 [N.d.T.]. 10 Friedrich (Anton) Kraus, Die allgemeine und spezielle Pathologie der Person. Klinische Syzygiologie, Leipzig, Thieme, 1919 sgg. Il fatto che Plessner scriva “Krauss” può essere dovuto a un semplice errore di battitura come anche a una confusione tra il medico austriaco Friedrich Anton Kraus (1858-1936) e il sessuologo e etnografo ebreo croato Friedrich Solomo Krauss (1859-1938) [N.d.T.].

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L’uomo: una questione aperta

Sotto la stessa pressione cede lentamente la diffidenza decennale degli accademici verso tutto ciò che è connesso con la caratterologia, la dottrina dei temperamenti, la tipologia, la fisiognomica e la grafologia. Sta nascendo una scienza universale dell’espressione, e Klages può pretendere a buon diritto di avere lottato per essa in un’epoca in cui la psicologia ufficiale lo considerava solo come uno sgradito outsider. La rivoluzione nell’antropologia però non riguarda solo i problemi che stanno nell’ambito della persona. Essa coglie anche le relazioni extrapersonali e sovrapersonali tra base naturale, materiale, e sovrastruttura spirituale, le quali sin dall’inizio del secolo hanno giocato e giocano un ruolo importante nelle lotte sulla metodica della scienza della storia e della società. Allora si trattava, come nella psicologia e più tardi nella medicina, dei limiti dell’elaborazione concettuale delle scienze naturali. Ciò che proprio il positivismo, e in modo diverso il materialismo economico, avevano colto istintivamente (cioè il fatto che il mondo spirituale non sta sospeso, diviso da un abisso, al di sopra del meccanismo vitale, bensì è determinato socialmente, emergendo dal terreno, fertilizzato dal sangue, del potere di esistenza e incorporandosi continuamente sempre di nuovo in esso), non deve restare nascosto a causa di un dualismo nella metodica scientifica. Anche le formazioni culturali storiche sono unità pluridimensionali; nella materia e nel contenuto spirituale esse portano, come tutte le manifestazioni degli uomini, l’impronta di uno stile complessivo che si estende su ogni loro aspetto. Qui ricordiamo solo il tentativo del grande E. Sie59

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vers11, rimasto certamente problematico per la germanistica, ma estremamente istruttivo per l’antropologia, di accertare delle relazioni tra lo stile poetico di espressione e l’atteggiamento corporeo. Ricordiamo il tentativo di Dilthey di una tipologia della visione del mondo, la sua prosecuzione in Spranger, Misch, Litt e Nohl12; la tipologia comparata delle immagini del mondo della grande scuola sociologica francese di Durkheim e Lévy-Bruhl e dell’etnologia nel senso di Frobenius, ricordiamo la morfologia della storia di Spengler, tutto ciò che oggi viene violentemente alla luce come morfologia della cultura; ciò che a partire da Marx ed Engels, in particolar modo nella sociologia comparata della religione e della cultura sin da Max Weber e Troeltsch, nella sociologia dell’economia a partire da Sombart, è stato fatto per la scoperta di correlazioni tra le condizioni economico-politiche di esistenza di una società e il suo rispettivo sistema spirituale di valori. 11 Eduard Sievers (1850-1932), germanista e filologo tedesco, autore di importanti studi sulla fonetica indogermanica, sulla grammatica dell’anglosassone e del sassone antico e sulla metrica dell’alto tedesco antico, è noto anche per gli studi sulla ritmica e sulla melodica intrinseche ai testi letterari, sintetizzati in Rythmisch-melodische Studien, Winter, Heidelberg 1912 [N.d.T.]. 12 Eduard Spranger (1882-1963), filosofo, pedagogo e psicologo tedesco; Georg Misch (1878-1965), filosofo tedesco, esercitò un influsso diretto sullo sviluppo del pensiero di Helmuth Plessner; Theodor Litt (1880-1962), pedagogo e filosofo tedesco, elaborò egli stesso un’antropologia filosofica; Herman Nohl (1879-1960), pedagogo e filosofo tedesco. Tutti questi autori si possono ricondurre più o meno direttamente, seppure con sfumature diverse, alla corrente storicistica di impronta diltheyana [N.d.T.].

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L’uomo: una questione aperta

Queste indicazioni devono bastare per rendere chiaro che il compito dell’Antropologia Filosofica è diventato urgente anche su un piano scientifico. Ciò che può fare qui una teoria della conoscenza è limitato. In questo caso essa non può appoggiarsi, come ad esempio la teoria della conoscenza di Kant, su un progresso assicurato (il progresso della scienza naturale matematica). Essa deve cercare di elaborare un fondamento affidabile per sforzi non ancora consolidati. Inoltre, essa non può, soprattutto essa non ha il diritto di ritrarsi in un sistema di condizioni trascendentali, bensì deve dare una mano essa stessa, perché i collegamenti trasversali tra gli ambiti fisico, psichico e spirituale, così come ci sono messi a disposizione a partire dalla vecchia ontologia e teoria della conoscenza, sono diventati inapplicabili per lo sviluppo delle cose. Se in questo devono essere evitati gli errori tipici della cultura superficiale nel teorema razziale ora di moda o altre assolutizzazioni oggi non più di moda, non si può rinunciare all’aiuto della filosofia. Se intesa rettamente, in questo modo si può realizzare nell’Antropologia Filosofica l’intenzione che divenne avvertibile per la prima volta nell’analisi dell’uomo nei secoli XVI e XVII e, passando per i grandi pensatori francesi e inglesi del Settecento, raggiunse il suo apice nella critica kantiana della ragione. Poiché essa, come dimostra già lo sviluppo della teoria kantiana della conoscenza nel XIX secolo, è diventata inapplicabile alla situazione odierna, l’Antropologia Filosofica, per quanto resti a una certa distanza rispetto alle dottrine kantiane e sia posta di fronte a un’epoca totalmente differente, dovrà realizzare qualcosa di corrispondente alle intenzioni della critica trascendentale 61

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per la scienza, la filosofia e la vita: si tratterà di una critica indirizzata non più contro una presunta scienza della trascendenza contro il falso legame della volontà a teorie non passibili di controllo, bensì contro una minacciosa autodeificazione dell’uomo. Kant voleva limitare il sapere per fare posto alla fede. Egli voleva porre un freno alla presunzione teoretica di poter dimostrare qualcosa in questioni riguardanti la libertà, l’immortalità e l’esistenza di Dio, poiché egli, di fronte alla debolezza umana, temeva che tale metafisica potesse avere conseguenze catastrofiche sull’intenzione morale. Anche oggi si tratta di nuovo della necessità di respingere una presunzione teoretica. Ma essa non si rivolge alla metafisica, bensì si rivolge all’uomo, al modo in cui egli consegna se stesso al proprio potere di disposizione enormemente cresciuto per i progressi della scienza e della tecnica. Perciò occorre porre un limite alla pretesa illegittima, che diventa sempre più spietata, dei politici, degli economisti, dei dottori, in fatto di sterilizzazione, eugenetica, politica razziale, riproduzione selettiva degli uomini, cioè occorre porre un limite alla capacità [Können] dell’uomo di giocare con il proprio destino. L’uomo è diventato, a causa della sua capacità, una minaccia per il suo futuro, perché egli supererà la sua capacità solo attraverso una capacità maggiore [Mehrkönnen], ma non sussiste alcuna garanzia del fatto che nel frattempo non vada persa l’umanità stessa. Qui si mostra lo scopo propriamente filosofico dell’Antropologia Filosofica: limitare la capacità dell’uomo per mezzo di un illimitato sconfinamento del sapere circa la sua insondabilità e insicurezza verso la sfera sorgiva del suo futuro, per fare nuovamente posto alla fede nell’uomo. 62

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2. Circa alcuni motivi dell’Antropologia Filosofica (1956)

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I Alla base di queste argomentazioni sta un’idea non temeraria e tuttavia non del tutto incontestata: l’idea che la ricerca scientifica, nonostante il suo carattere specialistico, è sulla via verso l’universitas e dunque forse sulla via del superamento dello specialismo. Qui la parola universitas deve essere intesa come quell’unità comprensiva che manca oggi allo specialista: un’unità dell’orientamento pratico per una vita sociale frammentata in cento interessi contrastanti, non tenuta insieme né alimentata da alcuna chiara visione del futuro, un’unità dell’orientamento teoretico per una scienza frammentata in cento discipline. Naturalmente, resta aperto il modo in cui questa unità debba configurarsi. Infatti noi non disponiamo più, come il mondo medievale, di un’immagine complessiva in cui le cose della natura e della società si inquadrano in modo sensato e per tutta l’eternità. Questa immagine grandiosa di una totalità differenziata in ranghi di valore non ha retto allo spirito critico dell’età moderna. Con l’universitas chiusa della società corporativa feudale se ne è andata anche la sua immagine del mondo e al suo posto, spinti dalle rivoluzioni scientifica, politi63

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ca e industriale, sono venuti un nuovo tipo democratico di società e una nuova idea di universitas. Gli ideali ora sono autonomia, indipendenza e autolegislazione, e ciò che prima doveva essere pensato solo in intima dipendenza dall’autorità assoluta ha spinto verso l’emancipazione: lo Stato autonomo, il popolo che si autodetermina, la libera economia, la scienza priva di presupposti, l’arte pura, la religione pura, il diritto puro. Molti sistemi di valori, ciascuno con lo stesso rango e con la stessa pretesa, sono oggi in concorrenza ed espongono gli uomini alla tensione, che diventa sempre più pericolosa, del pluralismo delle norme e delle istituzioni sociali. Per questo motivo sono nell’aria cortocircuiti autoritari nel senso delle dittature moderne. Le esperienze del passato più recente e del presente dovrebbero avere mostrato energicamente che con essi non si possono ottenere soluzioni autentiche. Ma la controsoluzione restauratrice consistente nel tentativo di rinnovare l’universitas andata perduta dovrebbe condurre nuovamente, come già avvenuto una volta all’inizio del XIX secolo, alla irrealtà romantica. Un’unità quale quella cui noi aspiriamo vuole essere elaborata con i mezzi materiali e spirituali del nostro tempo, e viene all’espressione in modo pienamente autentico solo nella loro molteplicità di forme e di sforzi. La sua apertura, che non preme per giungere a un termine conclusivo bensì spinge al di là di sé, è il mezzo entro il quale l’universitas si fa valere in un senso nuovo. Essa si profila così nell’organizzazione di autorità sovrastatali e nelle visioni del futuro della tecnica come anche nel lavoro paziente e minuzioso della ricerca scientifica. 64

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Dunque constatiamo innanzitutto che la nostra universitas non poggia, come quella del medioevo, sulla rivelazione, né viene simboleggiata dalla suprema autorità ecclesiastica e mondana, non è teocentrica, monarchica e gerarchica. Essa non cerca di cogliere l’uomo e il mondo a partire da Dio, bensì, al contrario, Dio e il mondo a partire dall’uomo. Essa è sotto ogni aspetto il contrario dell’ordine medievale, non è chiusa in un vertice supremo, bensì aperta, pluralistica, democratica, antropocentrica. Per molti, questo può risultare doloroso. A questa idea di un’universitas aperta corrisponde la scienza moderna. Essa non è deduttivo-apologetica, bensì cerca e ricerca nell’ignoto. Essa è parcellizzata in discipline autonome che vigilano gelosamente sui loro confini. Anche la ricerca è diventata una comunità di lavoro che produce conoscenza in rami sempre nuovi, disciplinata secondo metodi rigorosi, fedele alla linea, ma non vincolata a scopi fissati una volta per tutte, non obbligata a nessuna immagine chiusa del mondo, bensì aperta per un mondo non più conforme ad alcuna immagine. Se è vero che per la moderna comunità di lavoro e per il suo modo di far scienza solo l’uomo costituisce ancora il centro intelligibile, allora una dottrina dell’uomo assume una posizione chiave per la comprensione della universitas in questo senso nuovo. Dunque essa può, anzi deve avanzare una pretesa particolare. Allora si tratta non solo di una disciplina speciale accanto e tra altre discipline speciali, bensì le sue intuizioni assumono una funzione universale che va al di là di ciò. Come può, tale dottrina, riscattare questa pretesa? Come può l’uomo, 65

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come oggetto della scienza, diventare la forza integrante in grado di unire i risultati dello specialismo moderno in una per quanto aperta totalità?

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II La risposta è data dalla natura particolare dell’oggetto. Nella dottrina dell’uomo, l’uomo non conosce un essere estraneo, bensì se stesso. L’oggetto di questa scienza coincide con il suo portatore. Che siano la medicina o la sociologia, la psicologia o la scienza della storia a occuparsi di corpo e anima, di rapporti sociali o fatalità passate, traffichiamo sempre in una cosa che ci appartiene. Tutte queste discipline sono vie e modi dell’incontro dell’uomo con se stesso. Allo stesso modo, esse sono anche scienze speciali e devono anzitutto porsi, come altre discipline, la questione generale sul modo in cui esse progrediscono sulla via verso l’universitas. Come si caratterizza questa via? Io vedo tre possibilità. Non possiamo trascurare la prima possibilità, che è senz’altro legittima e di cui ha fatto largo uso il tardo XIX secolo, e che consiste nella riflessione filosofica sopra i fondamenti e il valore conoscitivo della scienza che di volta in volta sta al centro del dibattito. In senso stretto, essa non sta nella linea del lavoro di ricerca stesso, anzi in una certa misura la interrompe, ma, ugualmente, appartiene ad essa come al lavoro appartiene ogni pausa creativa. Di più: essa costituisce il controllo indispensabile per ogni fare disciplinato che non voglia degenerare nella mera routine. Un buon esempio di 66

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ciò è dato dalla disputa intorno al metodo nella scienza della storia tra K. Lamprecht1 e i fautori della scuola storica, disputa che oggi ci appare in una certa misura provocata artificialmente. La seconda possibilità di confrontarsi con la propria disciplina all’interno della ricerca stessa è l’autentica indecisione che nasce sempre laddove il lavoro, a motivo della riflessione metodologica o di autentiche scoperte, porta a contraddizioni che non possono essere risolte con i mezzi speculativi considerati validi sino a quel momento. Nell’ambito della fisica, la scoperta del quantum di energia ad opera di Planck all’inizio del secolo ha prodotto una situazione simile. A riflessioni non meno fondamentali ha dato avvio la teoria della relatività speciale di Einstein nel 1905. Nell’anno 1895 la trasposizione di Darwin dell’esperienza dell’allevamento al problema dell’origine delle specie ha messo in movimento l’intera biologia e, oltre a ciò, la concezione dell’essenza e della posizione dell’uomo nel mondo. Quanto a forza sovversiva le si può mettere a confronto, nell’ambito della psicologia, solo la scoperta dell’inconscio da parte di 1 Karl Lamprecht (1856-1915), storico tedesco, sottolineava l’importanza a livello storico della ricerca sulla genesi dei fenomeni culturali ed economici, contrapponendola a un metodo storico incentrato sulla descrizione delle azioni degli individui sul piano politico, esemplificato dalle concezioni di Leopold von Ranke (1795-1886) e Heinrich von Treitschke (1834-1896). La sua opera diede luogo, nell’ultimo decennio del XIX secolo, a un’accesa disputa metodologica tra i fautori delle due contrapposte concezioni del metodo storico. Tra i rappresentanti della storia “politica” assume un ruolo di spicco lo storico Friedrich Meinecke (1862-1954) [N.d.T.].

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S. Freud, il cui influsso si estende sino alla medicina e alla storia della cultura. C’è però ancora una terza possibilità, che si dà quando la ricerca, a partire da se stessa e spesso contro la propria volontà, viene portata a intuizioni che forzano i confini disciplinari esistenti e conducono a unità che li superano: ai cosiddetti ambiti della ricerca di confine. Alla ricerca di confine riescono sconfinamenti tra ambiti che sono considerati essere così disparati che non si sospetta alcuna dipendenza reciproca e si ritengono impossibili passaggi dall’uno all’altro. Tali zone di confine ci vengono mostrate chiaramente, secondo il modello venerando della filosofia aristotelica, nell’ascesa in forma graduale dalla materia sino alla forma suprema passando per la pianta, l’animale e l’uomo. Il modello è poi stato raffinato in modo corrispondente nel corso della differenziazione scientifica. Tra matematica e fisica, fisica e chimica, chimica inorganica e organica, di nuovo tra questa e la biologia, tra biologia e psicologia, tra psicologia e sociologia stanno le misteriose zone intermedie dell’interconnessione del reale, alle quali la scienza speciale, limitata alle varie zone principali, anche solo per motivi metodici non osa avvicinarsi. Con ciò si dice chiaramente che la ricerca nelle zone di confine non deve necessariamente essere limitata all’ambito di realtà dell’uomo e occuparsi solo di lui. Gli stupefacenti progressi della scienza della natura nella direzione di una unificazione delle conoscenze fisiche, chimiche e mineralogiche, da una parte, e biochimiche e fisiologiche, dall’altra, parlano un linguaggio molto persuasivo. Nella ricerca sui virus, ad esempio, si comprendono cose che, in un futuro non 68

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troppo lontano, dovrebbero rendere superflua la vecchia disputa tra l’interpretazione meccanicistica e quella vitalistica dei fenomeni vitali, e la ricerca sull’ereditarietà e la fisiologia dello sviluppo, anche grazie allo sviluppo della microfisica, acquisiscono possibilità di analisi che la generazione del 1910 non poteva nemmeno immaginare. Nondimeno, la realtà dell’uomo rappresenta il caso classico per la ricerca di confine, e precisamente nel duplice significato della parola. Egli è l’oggetto più ricco di dimensioni che noi conosciamo ed è, in tutte queste dimensioni e rispetto ad esse, soggetto. Egli offre dunque non solo sul puro piano dell’essere il maggior numero di passaggi da strato a strato, da materia a vita, a anima, a spirito, bensì, al tempo stesso, in quanto persona, in quanto nucleo e supporto di questa ricchezza di strati, è superiore a essi e in una certa misura a essi sottratto. In quanto l’uomo limita in tal modo i vari strati, in lui si incontrano natura e storia, legge e libertà, destino e grazia. Il suo corpo è studiato dai medici, ma anche da zoologi, chimici e fisici; la sua anima o ciò che egli e gli altri pensano di essa, i suoi vissuti e il suo inconscio sono studiati dagli psicologi, dagli psicoanalisti e dagli psichiatri; il suo spirito è studiato dalle scienze del linguaggio, dalle scienze della cultura e dagli storici. Perché l’uomo è un produttore e un consumatore di beni, materiali e ideali. All’alba dell’età della pietra egli ha fabbricato amigdale e illustrato le pareti delle sue caverne con immagini di animali, molto presto ha poetato e prodotto musica, ha ordinato la sua convivenza secondo regole e usanze, infine ha scritto, fatto libri e macchine e nel corso della sua storia 69

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ha preso la brutta china di un’irrequietezza tanto sublime quanto ambigua, in cui si sono susseguite la creazione e la distruzione delle sue istituzioni. Fin dove possiamo risalire con il pensiero, lo vediamo mettere mano a sé e al proprio ambiente per godere e in realtà per soffrire, pronto a schierarsi, combattere e morire per qualcosa. È un essere vivente di singolare complicatezza, che gli dà il diritto di definirsi un essere razionale, spirituale, che obbedisce ad altri interessi rispetto a quelli che gli impongono le sue pulsioni e i suoi bisogni vitali. Egli ha una storia con cui deve confrontarsi di continuo, poiché essa, in quanto fatalità e incarico, lo priva della sua quiete e lo irretisce in compiti per i quali egli stesso, per così dire, non ne può nulla. Di tutte queste curiose caratteristiche della sua esistenza si occupa un intero esercito di eruditi della scienza dello spirito, filologi, storici, etnologi, sociologi, economisti, giuristi, teologi. Un osservatore non prevenuto cui sia concesso occasionalmente uno sguardo in questo mondo imponente e al tempo stesso oscuro e sconcertante dell’impresa del sapere non dubiterà dell’ordine del suo funzionamento interno. La cosa gli si rappresenta in modo che tutte le discipline menzionate con i loro gruppi e ambiti hanno il loro posto l’una vicino all’altra e si dividono la totalità dell’essere umano secondo le sue superfici di approccio e le sue sfaccettature. Costui si immagina una collaborazione ideale, che forse non sempre funziona senza attriti, perché appunto anche gli eruditi sono uomini, perché la delimitazione degli ambiti di ricerca può procurare difficoltà e l’uno considera assodato ciò che all’altro in70

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vece non sembra convincente. Ma egli considera in linea di principio consolidata la divisione scientifica della totalità umana secondo discipline, la vede come non problematica per quanto riguarda la cosa studiata. Non dubita del fatto che la cooperazione tra gli specialisti debba produrre un’immagine complessiva che attraverso il continuo lavoro della ricerca subisce, certamente, molte modificazioni, ma guadagna nondimeno in precisione e dettaglio, e nel progressivo succedersi delle epoche rappresenta un possesso consolidato di conoscenze sull’essenza e sulla varietà della realtà umana; in una parola: non dubita che nelle scienze dello spirito domini lo stesso grado di sicurezza di profitto che si ha nella scienza della natura. Poiché però avviene che le prestazioni spirituali, i processi psicologici e le proprietà corporee, pur con tutta la differenza tra i metodi con cui sono colti, appartengono alla realtà unica dell’uomo, si pone la domanda sul modo in cui i risultati delle singole discipline possano essere rielaborati in una totalità. Essi devono poterlo essere, perché l’analisi dei processi corporei – per fare un esempio: del parlare – non conduce ai fenomeni del linguaggio in quanto struttura di significati di parole o alle leggi della sintassi e della grammatica, sebbene evidentemente il parlare e il linguaggio siano intimamente connessi. In questo non devono essere trascurate né l’intenzione, cioè la costituzione interiore del parlante, il suo orizzonte di esperienza, né la sua situazione sociale e storica. Il lessico e la scelta delle parole sono subordinati a fattori della psicologia individuale come anche della psicologia collettiva, fattori collocati 71

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a loro volta in contesti più ampi. L’inevitabile processo di frammentazione degli specialisti richiede dunque una correzione in relazione all’ampia totalità cui deve essere conforme una collaborazione bene impostata tra le discipline. Ma cosa significa qui “impostare bene”? “In relazione alla totalità della realtà umana”, anzitutto, significa comunque solo una direzione che ci è indicata dall’esperienza quotidiana nei rapporti con gli uomini. Ma come si vogliono ottenere, da questa esperienza immediata, indicazioni per la sintesi delle conoscenze delle singole scienze, in parte di notevole grado di astrazione? Senza alcuna riflessione fondamentale sul modo in cui la dimensione fisica è interconnessa con quella psichica, evidentemente, non si può andare avanti. La convergenza delle discipline speciali su un punto della loro unificazione è certamente riconosciuta come esigenza da tutte queste, ma non è deposta in esse stesse e non viene condotta da esse. Lo specialista rimane sulla sua strada, la cui meta è fissata dall’aspetto parziale della sua disciplina. Tra scienza della natura e scienza dello spirito sussiste, come sempre, la fessura che né la psicologia – neanche la psicologia del profondo e la medicina psicosomatica – né la sociologia, di per se stesse, possono colmare. Un superamento di queste fessure richiede piuttosto una riflessione fondamentale sulla struttura dell’essere umano, quale solo la filosofia è in grado di dare. I tempi del dualismo spensierato tra una veduta esterna e una veduta interna dell’uomo, che venivano studiate divise metodicamente in modo rigoroso l’una dall’altra, stanno alle nostre spalle. Noi prendiamo scientificamente sul serio le esperienze, in parte antichissime, 72

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secondo cui a un certo tipo di corporatura appartiene un certo tipo di carattere e temperamento. Noi cerchiamo di venire sulle tracce dei completi tipi di costituzione e di personalità che predispongono all’ulcera gastrica, all’angina pectoris, alla sclerosi, alla tubercolosi. Contro molte riserve e allo stesso modo contro molte entusiastiche romanticizzazioni, la medicina psicosomatica conquisterà il suo posto e produrrà fondamenti affidabili per una psicoterapia delle malattie degli organi interni. Un altro esempio tratto dall’ambito della ricerca di confine, e precisamente dal medesimo ambito intermedio tra fisiologia e psicologia, è la dottrina dell’espressione. Da tempo la grafologia è diventata uno strumento riconosciuto per test, di cui fanno largo uso l’industria e le autorità, ma la conoscenza scientifica dei nessi tra la struttura psicologica e il movimento nella scrittura è ancora agli inizi. Informazioni non meno significative le promette lo studio dell’andatura, in base alla quale, notoriamente, spesso riconosciamo una persona prima ancora che per il suo accento o il suo volto. Pensiamo poi alle così strane modalità espressive del riso e del pianto, specifiche per l’uomo, alle quali la ricerca, divisa in fisiologia del corpo e psicologia della coscienza, non poteva avvicinarsi, perché le rimaneva fondamentalmente inaccessibile l’ambito intermedio tra il dentro e il fuori, cioè la zona di confine in cui l’uomo vive come un tutto. Tutti questi problemi di confine davanti a cui ci porta la ricerca non possono essere risolti senza una riflessione sulla struttura dell’essere umano, senza un’analisi filosofica della natura umana. Da essa certamente si deve esigere ancora di più. Perché biso73

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gna oltrepassare non solo la fessura tra corpo e anima, ma anche quella verso le dimensioni specificamente spirituali-culturali. Società, economia e “spirito”, cioè diritto, arte, letteratura, scienza e mondo religioso della rappresentazione, costituiscono in ciascuna delle loro epoche un’unità con un’impronta tipica. Se l’esperienza storica porta testimonianze inconfutabili di ciò, una dottrina dell’uomo può ancora accontentarsi di astrazioni non vincolanti come essere e coscienza, struttura e sovrastruttura? Qui occorre infrangere il monopolio del materialismo storico, che certamente ha stimolato l’analisi di questa zona intermedia, ma al tempo stesso l’ha notevolmente bloccata. Nella trattazione del passaggio dallo strato vitale allo strato spirituale dell’uomo, senza dubbio, diventa significativo il secondo aspetto del termine ambivalente “ricerca di confine”: la pluridimensionalità umana nella sua connessione con la soggettualità. Non solo sul piano dell’essere l’uomo offre il maggior numero di passaggi tra le diverse zone stratificate con cui si affaticano la scienza della natura, la psicologia e la scienza dello spirito, ma, grazie a questa ricchezza, egli si presenta al tempo stesso come persona, come unità di carattere soggettuale. Essa entra già nel campo visuale della medicina e della psicologia e costituisce sin dall’inizio l’oggetto della sociologia e della storia. Però la zona personale non può essere considerata semplicemente come lo strato più alto nella costruzione della natura umana, per così dire come la soffitta di una casa composta di molti piani, bensì essa la segna sin dalle fondamenta e sempre di nuovo in modo diverso nel mu74

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tarsi della storia. In questo l’uomo, in quanto nucleo e supporto della propria ricchezza di strati, è sempre superiore a essa, in una certa misura sottratto a essa, e la limita nella propria storicità. Sebbene si dica che in ogni tempo e in ogni cultura l’uomo, in fondo, resta lo stesso, mosso dalle stesse passioni, tuttavia i fatti dicono il contrario. Egli certamente non si è sempre e ovunque compreso nello stesso modo, ha cercato di istituire la sua vita secondo ideali e rappresentazioni sempre diversi di se stesso e del mondo. Se si dà ascolto all’uomo nel suo rispettivo presente, la variabilità storica inghiotte la costante nella natura umana fino a un paio di resti poco significativi. Se però lo si vede con gli occhi dell’antropologo, allora si impone la sfera costante e le cose variabili della storia si riducono a “molto rumore per nulla”2. Per questo tipo di questioni di confine, che ci hanno portati sino all’esistenzialismo, è molto caratteristico il fatto che nel positivismo dell’inizio del XX secolo le si incontrava solo nella forma della disputa sul metodo della psicologia e delle scienze della cultura. Certamente ci si opponeva energicamente alla loro falsificazione attraverso l’imitazione dei metodi delle scienze naturali, ma ciononostante si dava per assodato anche per il loro ambito il progresso 2

Nel testo originale Plessner fa riferimento a tre drammi shakespeariani, citandone i titoli in tedesco: “Was ihr wollt, Sturm und viel Lärm um nichts” (ovvero, rispettivamente: “What you will” (anche: “Twelfth Night”), “The Storm” e “Much Ado About Nothing”), per indicare in modo plastico l’arbitrarietà e la burrascosa vanità delle cose terrene [N.d.T.].

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univoco della conoscenza. Prima della Prima Guerra Mondiale lo spirito della sicurezza teneva gli uomini sotto il suo incantesimo. Nel frattempo ci sono stati tirati via da sotto i piedi così tanti terreni che la disposizione a mettere tutto in questione è fatalmente diventata familiare alla coscienza media. Per citare Rothacker: «Il filisteo della cultura [Bildung] del XIX secolo ha fatto spazio al filisteo della crisi del XX secolo». Per il filisteo della crisi il dubbio radicale sul valore della scienza per la conoscenza non rappresenta più alcuna sfacciataggine. Così l’essenza dell’uomo è diventata una questione che può essere affrontata solo evitando le posizioni estreme. Se si seguono i naturalisti, ad esempio i teorici della razza, o gli psicologisti, allora la si colloca troppo in basso e si uccidono la libertà e la storicità dell’uomo. Però, se si seguono gli storici di stampo idealistico o materialistico, la si colloca troppo in alto e la si trascende in una lontananza irraggiungibile. Per evitare un equivoco: questa constatazione non deve significare alcuna critica al lavoro scientifico, come se esso stesso avesse perso il giusto coraggio e la solidità di prima. Si tratta del contrario. Attraverso l’esperienza delle catastrofi esso ha guadagnato nella critica delle rappresentazioni tramandate, nell’ampiezza della posizione dei problemi e in libertà di giudizio. Molto di ciò che ancora all’inizio del nostro secolo [del XX secolo, N.d.T.] si considerava assodato e risolto, ha ricevuto un nuovo carattere di incertezza. Le scienze dell’uomo, in strano contrasto rispetto alla smania di dubbio, aumentata di molto, e al tono scettico fondamentale del perio76

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do tra le guerre e del dopoguerra, hanno preso uno slancio che non è affatto inferiore allo slancio delle scienze della natura nello stesso lasso di tempo. Esse devono tenere in considerazione che, con ciò, la tendenza e anche l’arte di elaborare e rappresentare grandi quantità di materiale sono diventate più scarse. La grande erudizione, l’istruzione ben fondata si sviluppano meglio in tempi di quiete esterna e interna, quale si è avuta in Germania tra il 1871 e il 1914, che non nell’epoca rivoluzionaria alla quale sono divenuti sospetti i criteri tramandati. La ricerca stessa sembra adattarsi a questo ritmo, se essa, sin dagli anni Venti, negli ambiti più disparati, sottopone a critica i propri fondamenti, sui quali intere generazioni credevano di poter accumulare continuamente il capitale conoscitivo. La fine di un’epoca immeritatamente lunga di sicurezza borghese significò dunque per le scienze in generale e per le scienze dell’uomo in particolare, già per la mutata atmosfera del tempo, un’eccellente occasione per rilassare gli irrigiditi confini territoriali tra scienza della natura e scienza dello spirito e per afferrare la realtà complessa dell’essere umano sia dalla parte del metodo che da quella dell’oggetto. Allora divenne avvertibile la misura in cui, al di sopra della ricchezza del materiale divenuto immenso del sapere speciale in biologia e psicologia, storia e etnologia, era stato trascurato il nesso interno che deve essere posto a fondamento di ogni collaborazione tra di esse. Solo allora si comprese tutto il peso del rimprovero secondo cui la comprensione di ciò che è specifico dell’essere umano, non più supportata da alcuna concezione etica o religiosa as77

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sunta come vincolante, era uscita da troppo tempo dal campo visuale della filosofia perché la scienza positiva potesse ancora trovare consiglio in essa. Nel suo scritto diventato noto alla fine degli anni Venti con il titolo piuttosto ottimistico «la posizione dell’uomo nel cosmo»3, il filosofo Max Scheler parlava della vocazione di quest’epoca per una nuova dottrina dell’uomo. Quest’epoca disporrebbe, come nessun’altra sinora, di un così grande sapere empirico e, contemporaneamente, sarebbe precipitata in una completa perplessità su ciò che essa dovrebbe fare con tutto questo sapere per una conoscenza dell’essenza dell’uomo e della sua determinazione [Bestimmung]. III Tra l’essenza dell’uomo e la fiducia nella sua determinazione – che non significa mai un’esigenza puramente cognitiva, bensì primariamente pratica e deve essere ancorata in modo che, prima di ogni discussione, sia testimoniata, supportata e difesa dal potere della tradizione, delle istituzioni e del costume – c’è una tensione le cui origini sono difficili da fissare, ma che sotto la pressione della rivoluzione 3 Max Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos, Darmstadt, Reichl, 1928; ora: Bonn, Bouvier, 200215 (anche in Idem, Gesammelte Schriften IX. Späte Schriften, a cura di Manfred Frings, Bonn, Bouvier, 19952, pp. 7-71); trad. it.: La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di Guido Cusinato, Milano, Franco Angeli, 20044 [N.d.T.].

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industriale è diventata una questione pubblica. Nella doppia sproporzione tra sapere empirico e insicurezza della sua valutazione cognitiva, tra l’apparato incomparabilmente sviluppato per il coglimento teoretico dell’essenza umana e il dubbio abissale circa il suo senso, si rispecchia pertanto non solo la perdita di autorità dell’ordine cristiano del mondo, ma anche lo sviluppo di una società pluralistica non ancora tornata all’equilibrio, cioè di una società di sistemi di valori in aperta concorrenza reciproca. A questa trasformazione incompiuta in una società senza autorità prestabilita, cioè all’Illuminismo portato a compimento, corrisponde il timore nei confronti di una fissazione dell’essenza umana e della sua determinazione in un senso non più rivedibile. Ciò che dal punto di vista di un ordine del mondo e di una costituzione della società vincolati ad autorità e tradizione appare come debolezza, indecisione, perplessità e angoscia, nella prospettiva dell’ordine sociale in divenire acquisisce il valore della forza e del coraggio per la libertà. La trattazione scientifica dell’uomo, però, facendo di lui un oggetto, solleva altre questioni fondamentali che vanno oltre le nostre riflessioni iniziali, questioni che toccano il rapporto tra realtà e responsabilità di sé o, se lo si vuole formulare diversamente, i limiti dell’oggettivazione dell’essere umano. In che misura, in generale, l’uomo può essere reso oggetto? Si apre sin dentro le sue ultime pieghe allo sforzo conoscitivo scientifico oppure questa oggettivazione è limitata per motivi legati alla sua peculiarità essenziale o per motivi di tipo morale? La conoscenza di sé – se deve essere realizzata una conoscenza di ca79

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rattere scientifico – significa necessariamente oggettivazione di sé. Ha la possibilità ovvero il diritto di essere spinta così lontano da togliere al “sé” il suo carattere di soggetto? In questo modo la conoscenza non viene a minacciare quell’elemento della dignità umana senza di cui l’uomo non riesce a cavarsela nel rapporto con i suoi simili e con se stesso: l’inavvicinabilità? Possiamo reggere alla violazione anche dell’ultimo strato protettivo che ci nasconde da noi stessi e dallo sguardo degli altri, e non ci fa perdere essa l’ultima sicurezza, l’ultima fiducia in noi stessi, senza di cui non saremmo neanche in grado di vivere? Non c’è una sorta di benefica oscurità in cui noi dobbiamo rimanere per gli altri come anche per noi stessi? «Ma non toccare il sonno del mondo», ha detto Hebbel4. Non trasgrediamo la saggezza di questo sonno, se ci esponiamo senza riguardi al raggio indagatore della conoscenza? O la nostra natura essenziale si occupa essa stessa di mantenere il proprio nucleo nell’oscurità? Ci è sottratta, in questo punto, la responsabilità? Può darsi che questa questione non preoccupi lo scienziato, anzi, non deve nemmeno preoccuparlo, poiché essa lo paralizza sin dall’inizio. Tuttavia egli non può evitarla, poiché essa si attacca alle conseguenze del suo lavoro. Noi abbiamo visto quali pericoli risultano per la natura umana se queste riflessioni vengono gettate al vento. La legislazione razziale, le leggi per la prevenzione di discendenze af4 Friedrich Hebbel (1813-1863), drammaturgo e poeta tedesco, noto soprattutto per la trilogia Die Nibelungen (1861) [N.d.T.].

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fette da malattie ereditarie5, per la soppressione della vita indegna, a cui sono stati sacrificati milioni di esistenze, non sono da condannare solo perché esse avevano innalzato errori a dogmi e avevano fatto di precipitose generalizzazioni di una pseudobiologia e di una pseudogenetica, saldate con valutazioni arbitrarie, il fondamento della politica. La falsità consapevole dietro la facciata scientifica, a dire il vero, è stata una variante particolare del regime nazista e non è un elemento necessario dell’arte dello Stato. Piuttosto: quale potere terreno protegge dagli errori anche le persone di buona volontà? Quando, in che momento, una conoscenza scientifica è così consolidata da poter valere come fondamento per interventi dell’autorità statale nella vita umana? Sotto quali norme precauzionali si possono condurre esperimenti sull’uomo, anche con il suo consenso? Non sempre il pericolo dell’oggettivazione scientifica dell’uomo appare in un’attualità così spaventosa e in una così inquietante prossimità all’arte medica, sul cui progresso noi, con diritto, abbiamo fiducia. Ma nella resistenza contro metodi di test psicologici e contro la psicoanalisi non si esprime solo una mera ottusa arretratezza. Il gran sospiro: «Dio mi conservi i miei complessi» ha, sullo sfondo di una nevrosi, un altro valore che non sullo sfondo di una disposizione geniale, anche se i meccanismi di rifiuto sono gli stessi. Ora, per amore della terapia, deve 5 Plessner cita testualmente il nome del “Gesetz zur Verhütung erbkranken Nachwuchses” del 14.07.1933, che apre la via alle successive disposizioni legislative di carattere razziale nella Germania nazionalsocialista [N.d.T.].

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per questo finire sotto i ferri ed essere corretta anche la disposizione geniale? Non è indifferente ciò che risulta da una nevrosi, se si tratti di un’opera o di una vita distrutta. Tuttavia, chi decide in proposito? Chi ha l’ultima parola, la generalità o l’individualità? I metodi della tipizzazione oggi possono essere ancora abbastanza grossolani e impacciati per permettere agli individui di eluderli scivolando attraverso le maglie della rete. Ma il tempo di cui Aldous Huxley fa la caricatura nel suo “Brave New World”6 non è più lontano e non lo si potrà quasi più distinguere dalla sua caricatura, anche solo perché mancherà l’umorismo per farlo. Dietro tutte queste riflessioni può nascondersi una stupidità reazionaria così come può esprimersi un’autentica preoccupazione per la libertà personale. L’uomo come oggetto della scienza cade sotto le leggi dell’oggettività. L’oggettivazione però rende disponibili, mette a disposizione, attraverso la sussunzione del particolare sotto l’universale, il tipo, la regola, la connessione causale o funzionale. Con questa crescente disponibilità sul piano della teoria è dato immancabilmente l’inizio della disponibilità prati6

Riferimento al famoso romanzo di Aldous Leonard Huxley (1894-1963), Brave New World (1932), di cui nello stesso anno di pubblicazione era stata fatta una traduzione in tedesco, intitolata Welt wohin? Il libro, ambientato nel XXVI secolo, tratteggia una società totalitaria mondiale basata sul modello di produzione fordista e sul controllo tecnologico di diversi aspetti della vita umana, anticipando diversi temi del dibattito attuale sulla bioetica; trad. it. in Idem, Il mondo nuovo e Ritorno al mondo nuovo, a cura di Lorenzo Gigli-Luciano Bianciardi, Milano, Mondadori, 1991 [N.d.T.].

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ca. Con il rubrum [l’ocra rossa, N.d.T.], viene la rubrica, e la burocrazia della società totalmente razionalizzata non può rinunciare alle rubriche. La tentazione all’abuso è lì, abuso a cui la religione e i diritti fondamentali costituzionalmente garantiti pongono un freno solo fintanto che lo Stato viene mantenuto entro dei limiti da una corrispondente riflessione e da efficaci forze contrarie. Dove il timore di fronte all’ineffabilità dell’individuo si infiacchisce, tutto è perduto7. La preoccupazione per l’influsso della teoria antropologica sulla prassi non si è espressa per la prima volta nella filosofia dell’esistenza. Essa si trova innalzata a principio in due punti di svolta della filosofia moderna: in Kant, nella sua dottrina della cosa in sé, e in Marx, nella sua teoria del superamento dell’autoalienazione dell’uomo attraverso la rivoluzione. L’esigenza di Kant è la tutela della libertà umana. L’uomo è libero solo sotto la legge che egli stesso si dà. La libertà non gli è garantita per natura, tranne che in questa possibilità di rendersi libero. Se essa gli fosse garantita per natura, e se egli potesse saperlo, se potesse riconoscersi come libero, allora per la libertà non ci sarebbe praticamente nessun rimedio. Infatti, per l’uomo così come è di 7 Qui Plessner fa uso di una locuzione che solo difficilmente può essere resa in italiano: “hat auch der Kaiser sein Recht verloren”. Letteralmente ciò significa “anche l’imperatore ha perso il suo diritto”, ma solitamente viene tradotto con “non si può cavare sangue da una rapa”. In questo contesto ciò significa che, in tali circostanze, non ci si può più aspettare nulla che possa tutelare e preservare la dignità umana [N.d.T.].

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fatto, ovvero un essere finito e debole, tra timore e speranza non ci sarebbe più alcuna intenzione pura. Cioè, se gli fosse concesso lo sguardo nella profondità della sua propria essenza, e ciò per il Kant credente significa al tempo stesso uno sguardo nella trascendenza di ogni esperienza, nel mondo promesso dopo questa vita terrena, allora tutti i motivi del suo agire sarebbero necessariamente alterati dal mirare all’effetto trascendente delle sue opere. Egli si farebbe necessariamente guidare da timore e speranza. Sarebbe un servo della giustizia celeste, non un uomo dipendente da se stesso, che pur in tutta la sua debolezza presta ascolto unicamente alla sua coscienza e che solo in questa misura è libero e razionale. Dovevo limitare la sfera del sapere per fare posto alla fede, dice; perché la fede non può essere sapere o supposizione. Della limitazione del sapere approfitta però nella stessa misura anche la volontà: essa soltanto le dà la possibilità dell’autonomia, cioè della libertà. Rinviata ai limiti dell’esperienza possibile e così sempre vincolata alle apparenze, la scienza non può oggettivare l’uomo al di là di questo limite, cioè nella sua essenza. Egli rimane per se stesso, anche con la psicologia più raffinata, un enigma insolubile. Questo è il limite che gli è tracciato, ma solo per mezzo della sua stessa ragione e solo nella misura in cui egli sa della determinazione sostanzialmente pratica di essa. L’uomo, se non si difende, può essere raggiunto e sorpassato dall’oggettivazione scientifica, che degenera in reificazione e con ciò porta con sé l’autoalienazione della propria essenza. Se getta la spugna, diventa una mera apparenza per se stesso. Per Kant 84

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a ogni individuo umano, indipendentemente dal tempo in cui vive e dalla situazione sociale in cui si trova, è dato non solo questo diritto di resistenza, bensì oltre a ciò anche il potere di dichiararlo e di farlo valere. Per Hegel, ci vuole per questo scopo l’intera esperienza storica in quanto faticoso processo in cui l’apparenza sublima nell’essenza. La conoscenza, la conoscenza scientifica, non ha davanti a sé alcuna trascendenza che le sia sottratta per principio e che le stia di fronte ad una distanza insuperabile, bensì penetra nell’essere, però con ciò non giunge alla quiete dell’appagamento definitivo, bensì lo rimodella, lo spinge davanti a sé e, raggiungendo la propria meta (e non, ad esempio, mancando la sua meta e fallendo), crea la nuova tensione per la nuova meta, fino a che essa, la conoscenza, nell’incessante tormentarsi, ha consumato le ultime contraddizioni e raggiunto e afferrato pienamente se stessa. Applicato all’uomo come oggetto della scienza, questo significa: egli deve essersi compreso nel suo essere gettato nella dimensione sociale, per giungere alla conoscenza di sé. La via verso di sé conduce attraverso il mondo intero come storia esperita. Nella storia, con il sapere, nasce l’oggettivazione, per scomparire infine, ancora con esso, nella misura in cui esso sa di essa e le si oppone. Nella rappresentazione di Hegel, però, questo processo rimane non sviluppato e senza conseguenze per la prassi umana, perché notoriamente la società borghese, a cui tale processo conduce, in lui non rimanda più al di là di sé, allo stesso modo della sua propria filosofia. A ciò si è riallacciato Marx e in questa oggettivazione estrema dell’uomo in una storia del mondo in cui si svol85

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ge il dramma sovrapersonale dello spirito ha visto il luogo e il tempo dell’intervento rivoluzionario ad opera del proletariato, che condurrà il mondo borghese e l’interpretazione scientifica del mondo al di là di sé e della loro alienazione. Tuttavia anche qui, di nuovo, solo sotto il presupposto che il proletariato comprenda la situazione e sfrutti l’occasione data storicamente, presupposto che si appella alla capacità di decidere del proletariato stesso. Il ristabilimento dell’essenza dalla sua alienazione nel mondo trasformato si compie non sopra le teste o senza le teste degli emarginati, bensì per opera di esse. Da questi esempi risulta chiaramente che la questione circa i limiti dell’oggettivazione dell’uomo ad opera della scienza è determinata essenzialmente dal tipo di scienza che compie l’oggettivazione. Per Kant stanno in primo piano la scienza della natura e la psicologia, perché la dottrina biologica dello sviluppo, la fisiologia e la psicologia si sono sviluppate in reali strumenti della ricerca solo a metà del XIX secolo. La costanza della natura umana non è per lui un problema, la storia non rappresenta per lui una scienza e l’influsso relativizzante che essa esercita più tardi sta fuori del suo orizzonte. Solo con lo sviluppo della critica storica delle fonti e dell’arte dell’interpretazione, con l’ampliamento dell’esperienza storica, sociologica e etnologica, la questione circa il rapporto tra costanza e variabilità della natura umana, cioè la questione dei limiti della sua storicità, viene a occupare il punto centrale. Solo la psicologia del profondo e l’analisi della società rendono possibile fondare realmente nel particolare il sospetto circa il carattere ideologico della nostra coscienza e 86

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confrontarla così con se stessa in un modo fino ad allora sconosciuto. Se oggi si dice che la scienza dell’uomo – da quando c’è la divisione del lavoro della scienza – sta più fortemente che mai nel segno della ricerca di confine, poiché la sovrabbondanza di conoscenze eterogenee spinge verso l’unità dell’intuizione, il concetto di confine ha una doppia funzione, una interna alla scienza e una filosofico-morale, che si sostengono a vicenda. Non vorrei più appesantire la lista degli esempi, tuttavia, in chiusura, posso ricordare ancora una volta l’effetto illuminante e chiarificatore che la storia biologica dello sviluppo, la psicologia del profondo e la critica sociologica della cultura hanno avuto sull’autocoscienza dell’uomo dei nostri giorni. A queste tre scienze deve essere attribuito principalmente il fatto che all’uomo sono diventati dubbi tutti i predicati della sua posizione privilegiata tra le creature, i quali per secoli della sua storia gli sembravano assodati. Egli non può più né dubitare della sua provenienza da forme di vita preumane, animali, né può dare alle evidenze della sua coscienza e della sua intuizione quella fiducia illimitata che contrassegna gli animi ingenui e dà loro forza. Deve comprendersi sotto ogni rispetto come una questione aperta, non più solo come un essere tra l’animale e l’angelo, al quale la sua preistoria ha solo elaborato certe possibilità per diventare ciò che egli è. La sua indubbia appartenenza alla famiglia zoologica degli ominidi, il dato di fatto homo sapiens, rappresenta un compito e non già la garanzia della essenza umana. Hominitas non è più lo stesso che humanitas. Il possesso della facoltà del linguag87

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gio, l’andatura eretta, la formazione e l’uso di utensili e l’autocoscienza sono privilegi, ma non garanzie automatiche contro la possibilità di essere più bestiale di qualsiasi animale. Noi abbiamo visto i pericoli di un’ideologia che voleva definire l’uomo in modo puramente biologico. Altre ideologie, che lo definiscono in modo diverso, ma che egualmente lo fissano, sono altrettanto fatali. Una conoscenza che seppellisce le possibilità aperte nell’essere e per l’essere dell’uomo, nel grosso come nel piccolo di ogni singola vita, non solo è falsa, ma distrugge anche il respiro del suo oggetto: la sua dignità umana. L’homo absconditus, l’uomo insondabile, è il potere della sua libertà che continuamente si sottrae a ogni fissazione teoretica, che spezza tutte le catene, le unilateralità della scienza speciale come le unilateralità della società. L’immagine complessiva dell’uomo, richiesta sempre di nuovo, non risulta dunque automaticamente dalla collaborazione delle singole scienze, bensì abbisogna dell’Antropologia Filosofica. Questa non è una scienza che viene ad aggiungersi ad esse, bensì è la continua riflessione critica sui loro fondamenti e sulle loro delimitazioni. Esercitando una simile riflessione sull’essenza dell’uomo, essa lo sottrae all’oggettivazione e con ciò al processo che lo rende disponibile per le astrazioni delle scienze e della società. In questo modo essa compie la sua funzione universale, volta a mantenere l’apertura, entro i limiti della dignità dell’uomo.

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3. Ancora dell’Antropologia Filosofica? (1963) L’esigenza di un’Antropologia Filosofica è il tardo riflesso del processo storico del pensiero moderno sull’uomo, pensiero che ha messo la sua natura in una luce tanto più chiara quanto più il suo ruolo nel mondo diventava oscuro. In questo processo storico l’interesse empirico per le cose umane si è destato tardi, e tardi si è canalizzato in scienze proprie, poiché la teologia ha dominato la scena sino al XVIII secolo. Solo più tardi le descrizioni di viaggi e i resoconti di scoperte sono stati presi sul serio per la conoscenza e si è cominciato a confrontare il proprio mondo con quello al di fuori del Cristianesimo. I francesi e gli inglesi, per la propria esperienza di colonizzazione, hanno avuto in questo un ruolo di spicco. La letteratura tedesca ha seguito esitando. Ancora l’antropologia di Kant, un’opera secondaria nella sua produzione filosofica, offre quasi come in un gabinetto delle rarità frammenti di una psicologia individuale e collettiva ante litteram sotto il punto di vista pragmatico della conoscenza dell’uomo. Per la Germania le scienze empiriche dell’uomo sono divenute filosoficamente rilevanti solo nella seconda metà del XIX secolo, quando le scienze storiche dello spirito, la psicologia, la biologia e la sociologia hanno privato la sua posizione nel mondo dei suoi ultimi soste89

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gni tradizionali. La loro scoperta della pluralità e della storicità dei sistemi umani di norme ha reso virulenta la critica al proprio sistema europeo di norme. La relativizzazione della coscienza a forze sociali e vitali ha posto fine al processo storico dell’emancipazione dell’uomo dal mondo, processo tracciato nella filosofia da Descartes sino all’Esistenzialismo. In tale situazione si collocano gli sforzi per un’Antropologia Filosofica a partire dal 1928. Essa – e questo è stato decisivo – disponeva dello strumento dell’analisi fenomenologica, che permetteva di riportare a uno sguardo originario tanto le asserzioni empiriche quanto le asserzioni filosofiche. Sempre, dove spunta il pericolo che le teorie si smarriscano o che i problemi diventino dogmatici, si può ottenere fenomenologicamente un contatto preteoretico, diretto, “intuitivo” con ciò a cui si applicano i problemi e le teorie. Come si interpreti questa prassi fenomenologica è del tutto indifferente. L’intuizione delle essenze è stata intesa platonico-aristotelicamente, ma anche, come in Heidegger, in un senso orientato contro questa tradizione. Questo non deve preoccupare la prassi fenomenologica. Sulla questione della sua teoria è nata una disputa già quando Husserl nelle Ideen del 19131 ha fatto della prassi fenomenolo1 Edmund Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. I: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, Niemeyer, Halle 1913; ristampato in Husserliana, vol. 3, Nijhoff, Den Haag 1950; trad. it.: Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. 1, Libro primo: Introduzione generale alla fenomenologia pura, a cura di Elio Franzini - Vincenzo Costa, Einaudi, Torino, 2002 [N.d.T.].

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gica una filosofia che, con lo stupore di tutti, conduceva sul binario dell’idealismo trascendentale. Heidegger ha proceduto nella stessa direzione, solo più radicalmente, e ha forzato l’orizzonte della coscienza e le determinazioni ontologiche fondamentali derivanti dalla classicità greca. Come Husserl, egli ha fatto del metodo fenomenologico un principio della filosofia. Questo non ha nulla a che fare con l’Antropologia Filosofica, perché per essa i reperti empirici dell’uomo rimangono dati in via preliminare. Nel suo orizzonte si danno solo questioni circa la costituzione di quell’organismo che noi chiamiamo uomo perché dispone di possibilità spirituali-culturali. Fin dall’inizio, cioè dalla fine degli anni Venti, queste riflessioni sono rimaste all’ombra della filosofia dell’esistenza, che era interessata ad un’analisi della natura umana e della sua costituzione solo nella misura in cui essa ha peso per il problema morale-politico e religioso del poter-essere-umano nel mondo odierno. Poiché oggi l’uomo dà valore al poter essere uomo solo se egli si decide per ciò, ma lo spesso tessuto di ruoli della società industriale lo condanna all’anonimità e alla scambiabilità funzionale nella vita pubblica, che egli, di nuovo, può affrontare solo se si afferma come se stesso, la filosofia dell’esistenza ha fatto cadere tutta la luce sugli atti di scelta di sé e di illuminazione di sé, e ha lasciato in ombra la parte naturale. Questo ha dovuto condurre – non in Jaspers, che è sempre rimasto kantiano, ma certamente in Heidegger e Sartre, per non parlare degli esistenzialisti religiosi – a intrecci difficilmente districabili tra asserzioni fenomenologiche e asserzioni filosofico-esistenziali. I moralisti sono soli91

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ti essere egualmente insensibili di fronte alla natura e alla cultura. I filosofi della morale trovano motivi adeguati per questo. La natura non pone loro alcun problema. La cultura, però, la vecchia parola magica tedesca proveniente dal secolo passato [dal XIX secolo, N.d.T.], è diventata sospetta, da quando essa, irrigidita a industria, ha cominciato a mostrare un volto antiumano e si è coagulata in movimenti automatici, in una seconda natura proveniente dalla libertà perduta. Ad un pensiero che ruota in tal modo intorno all’uomo nel suo stato di abbandono restano aperte solo vie di fuga: nelle cavità dell’interiorità o nell’azione rivoluzionaria. Ora una filosofia non coincide con la sua collocazione storica e sociale. Jaspers ha sempre evitato le analisi fenomenologiche. Heidegger e Sartre, al contrario, le hanno praticate con virtuosismo, ma ancora per scopi diversi da quelli di tipo antropologico. Nel giovane Sartre e in Merleau-Ponty la questione antropologica ha giocato un ruolo non inferiore che nel giovane Heidegger. Tuttavia la sua collocazione in sforzi orientati di volta in volta diversamente rende difficile, se non impossibile, staccarla da essi e dare alle sue asserzioni una certa importanza per l’illuminazione strutturale della natura umana. In Heidegger, dopo la “svolta” [“Kehre”], un simile tentativo è vietato. Qui si tratta di un rinnovamento della filosofia nell’insieme, della revisione delle tradizionali determinazioni fondamentali dell’essere alla luce della storicità di un essere aperto al mondo, essere che l’uomo attribuisce a se stesso. Così si compie un ritiro dell’uomo nell’essere, un ritiro che, diversamente che in Hegel o Leibniz, ma con uguale 92

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ambizione, aspira a conservare la sua emancipazione come soggetto nella filosofia postmedievale. Seguiamo dapprima le tappe principali di questo processo storico di emancipazione. In esso il soggetto umano compare in una contrapposizione tanto più marcata rispetto al mondo quanto più questo perde il carattere dell’ordo cristiano e quanto più diventa dubbio il ruolo che l’uomo vi deve giocare. Tra le cause di questa perdita fa parte la meccanicizzazione della realtà fisica ad opera della scienza esatta della natura. Nei suoi inizi il progetto teoretico del mondo non disturba la concezione etica. «All’interno del modello del mondo progettato da Descartes doveva essere contestato che il meccanismo del processo del mondo avesse qualcosa a che fare con lo scopo dell’esistenza dell’uomo. L’automa corporeo, che era sincronizzato con un ego cogito in un modo enigmatico che avrebbe ancora tormentato l’età moderna, non aveva nulla a che fare con l’autocoscienza dell’uomo. L’uomo si trovava in questo meccanismo del mondo solo come marionetta, ma cionostante nell’“immagine del mondo” di Descartes l’uomo rimaneva il centro»2. Il processo [di emancipazione, N.d.T.] ha assunto un significato decisivo per i secoli successivi, infatti sinora non è stata ancora superata la fenditura tra un soggetto che accresce continuamente la sua individualità e un mondo che accresce il suo carattere og2 Hans Blumenberg, Weltbilder und Weltmodelle. Vortrag anläßlich des Jahresfeier der Justus-Liebig-Universität Gießen am 1. Juli 1961, in: «Nachrichten der Gießener Hochschulgesellschaft», 30. Jg., 1961, pp. 67-75, cit. p. 69 [N.d.T.].

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gettivo in una natura sottoposta a leggi formulabili matematicamente. Non appena il dinamismo di questa fenditura è stato riconosciuto come una minaccia per la libertà etica e per la fede (si conoscono i tentativi del XVIII secolo di fare del newtonismo un modello etico, come si è fatto con il darwinismo nel XIX secolo), i tentativi metafisici di compensazione secondo il modello di un’armonia prestabilita hanno perso credibilità. O si limitava la validità della scienza – e allora si metteva in pericolo l’ordine legale della natura, opera di Dio – oppure si limitava la libertà. Il famoso sistema kantiano della restrizione fa della domanda sull’essenza dell’uomo, in cui la natura e la libertà devono bilanciarsi, una questione della critica delle sue facoltà di sapere, agire e sperare. Per poterle criticare, però, sono presupposte, anzitutto, la necessità di criticarle, e, in secondo luogo, la possibilità di criticarle. La necessità di criticarle risulta chiara dalla miseria della filosofia precedente, ma la possibilità? Kant si richiama a una “disposizione naturale” dell’uomo, che stranamente non è adeguata sin dal principio alle sue forze. Essa lo spinge in una certa misura o troppo in alto o troppo in basso, in relazione a ciò che egli, in quanto uomo, è in grado di fare, deve fare e ha diritto di fare. La disposizione naturale non costituisce ancora l’uomo. Il rischiaramento [Aufklärung], che mi aiuta a realizzare in me la forma umana, si serve di uno strumento delle mie facoltà che è molto differenziato, ma non ulteriormente spiegabile in tutte le sue parti. A partire dalle forme dell’intuizione sensibile per giungere sino alla ragione, passando per le categorie 94

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L’uomo: una questione aperta

e l’immaginazione, Kant sottolinea continuamente il loro carattere contingente di casualità trascendentale. Nonostante la loro comprensibilità in quanto condizioni per la costituzione di un’esperienza conforme a leggi, esse, prese di per sé, sono dei fatti, cioè delle possibilità di approccio semplicemente date per la natura e la libertà, e non fatti della natura. Se la disposizione naturale stessa appartenesse alla natura, se essa cadesse sotto le leggi dell’empiria, la libertà sarebbe perduta. Da dove proviene questa conoscenza? Che carattere hanno le asserzioni sulla disposizione naturale, sulla strumentazione delle sue facoltà, sulla necessità di accordarla e temperarla per portarla a una proporzione umana e degna dell’uomo? Sicuramente non hanno un carattere psicologico. Tuttavia, se la conoscenza non mi è fornita dall’auto-osservazione, bensì è coglibile solo indirettamente nel vivace riverbero della miseria di una filosofia non rischiarata, si tratta ancora propriamente di asserzioni? Abbiamo qui di fronte a noi un’ipotesi antropologica fatta al fine della critica, cioè un’antropologia trascendentale con intenzione critica, o abbiamo piuttosto già il principio di una metafisica futura che si presenterà come scienza? Come è noto, neanche i successori di Kant hanno risolto questo problema e a partire dagli elementi centrali della sua concezione hanno costituito quella metafisica antiontologica che è sfociata nella filosofia dell’identità dell’Idealismo tedesco. Il verdetto di Hegel su una critica che crede di potersi mantenere nell’orizzonte dell’uomo finito, definita come il tentativo di imparare a nuotare prima di osare gettarsi in ac95

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qua, non solo ha posto fine a questo sviluppo, ma ha anche aperto una nuova strada. Quando, infatti, nella sinistra hegeliana, ci si è accinti a portare nella sua posizione normale la filosofia mondiale, poggiante sulla testa e sul potere del concetto, per metterla su piedi umani, si è ripetuta la stessa sceneggiata. Feuerbach voleva partire dall’uomo concreto. La sua antropologia doveva rinnovare il tentativo della riduzione critica. E che cosa è diventata l’antropologia materialistica di Feuerbach nella critica di Marx? Un lodevole tentativo che resta irretito nell’illusione che, nell’astratta contrapposizione rispetto alla filosofia dell’io e dello spirito, sia sufficiente il rimando alla carne e al sangue e all’amore terreno, e che si possano smascherare Dio e l’aldilà come immagini di desiderio dell’uomo truffato del suo aldiqua. Al posto della lacerazione individuale Marx mette la lacerazione storico-sociale dell’antagonismo di classe, e al posto di una teoria del soggetto, di nuovo, mette una teoria della storia. Da questa eredità speculativa ci separa un secolo di esperienza dialettica. Nelle trasformazioni del soggetto imposte dall’industrializzazione diventa illusoria ogni idea di una fine della storia intesa come riconciliazione. In una realtà aperta a possibilità sconosciute, il teorema che afferma la possibilità di risottrarre l’uomo all’alienazione ha perso la sua forza speculativa ed è diventato un concetto con cui psicoanalisti e sociologi trattano ancora solo fenomeni di perdita individuale di sé in una società burocratizzata. Il nostro mondo non si rimargina più, non ha più una sua conclusione. Il procedere in esso non descrive più un circolo, bensì una linea infinita. Co96

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scienza storica e coscienza naturale si sono adeguate l’una all’altra. La storia è divenuta un processo che fa sorgere e morire anche l’uomo con il suo mondo. Di fronte a questo storicismo non ha stabilità nessuna concezione chiusa di sviluppo storico, perché esso le sottrae il suo sostegno. Il tipo uomo svanisce nella corrente della storia, dice Dilthey, e, per la conoscenza di se stesso, da questa tesi trae la conseguenza che solo a partire dalla storia l’uomo scoprirà ciò che egli è. Questo potevano dirlo anche Hegel e Marx (dove Marx avrebbe utilizzato, anziché storia, il termine preistoria), solo che qui la proposizione ha un altro senso, perché essa mette in conto una storia finita. Per Dilthey la storia è un processo infinito senza un’epoca o una figura centrale. La forma umana plasmata dalla classicità greca e dalla tradizione cristiana è solo una forma tra le altre in cui la vita – non un modo dell’essere – si “manifesta parlando” [sich ausspricht]. Sul palcoscenico il cui sfondo per la scena, la scena storica, è uniforme, la realtà sanguigna della vita accade in forme storiche che noi possiamo comprendere perché esse parlano di sé e del proprio mondo in testi e monumenti. Dietro la scena, per noi, dice Misch, non c’è nulla, e tuttavia essa è costruita su qualcosa che, dalla natura, si spinge fin dentro la vita e, dalla vita, riconduce alla natura. In Kant l’“uomo” è la figura secondo l’ideale dell’umanità: una prestazione etica che prende in considerazione in modo esigente le disposizioni umane. In Dilthey, da una parte, l’“uomo” è stato un tipo di stampo conforme all’umanità [Typus humaner Prägung], e questo tipo si dissolve nel processo della storia, perché esso è il risultato riconoscibile di pen97

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sieri greci e cristiani sotto le condizioni, destinate a non tornare più, dell’epoca borghese. Per questo, [in Dilthey, N.d.T.] “uomo” deve essere compreso anche in un altro significato, più ampio, storicamente non specifico: come forma della vita nella realtà sanguigna, forma che, plasmata secondo una qualche concezione, può anche essere in contrasto con l’ideale dell’umanità. Però tutte le culture hanno diritto ad essere prese sul serio con le loro norme etiche e religiose. Il fatto che ai popoli sviluppatisi secondo i criteri greco-cristiani siano riuscite l’irruzione nella vastità del pianeta e la liberazione dello sguardo sia verso gli altri che verso se stessi, non ha alcun valore come argomento contro lo storicismo della filosofia della vita. Al contrario, questa scoperta [dello storicismo, N.d.T.] esige un fondamento filosofico che è posto più profondamente rispetto ai fondamenti delle filosofie che non sapevano ancora nulla della loro propria storicità. Al tentativo del tardo Heidegger, per quanto problematico nell’insieme per quanto riguarda sia l’impostazione che la realizzazione, non si potrà contestare la serietà con cui egli vuole soddisfare questa esigenza. In Dilthey l’uomo si dissolve come costante dei suoi fattori storici. Proprio per questo il suo concetto diventa un problema ermeneutico. La relativizzazione storica, accrescendosi sino alla radicalità, sfonda la prospettiva centrata sull’uomo “razionale” cui la storia del pensiero europeo era rimasta fedele, cioè coglie l’uomo come excentrum (ovvero: la rivoluzione copernicana di Kant applicata ancora una volta a se stessa, senza rifluire nella concezione ontologica abbandonata), e in tal modo essa incontra il proble98

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ma di un’Antropologia Filosofica, però solo in quanto problema dei principi interpretativi di documenti e monumenti. Una filosofia della vita derivata dalla teoria delle scienze dello spirito non può forzare questo orizzonte. La vita sanguigna delle forme storiche è vita testimoniata, raccontata, vita impersonificata, non la vita in quanto physis. La distanza degli avvenimenti passati e il suo superamento coi mezzi artificiali dell’asserzione appartengono all’apertura, ma anche all’apribilità di questa vita. In questa misura possono essere colti anche il vitale, la passione, la malattia e la costituzione corporea, ma questi non possono mai giocare, in senso biologico, un ruolo fondante per l’atto ermeneutico. Nella sua limitazione alla prestazione culturale la filosofia delle forme simboliche di Cassirer si incontra con Dilthey. Solo che, in confronto, essa lavora con un arsenale di forme costante. In questo, Cassirer è rimasto indietro rispetto alla problematica di Dilthey. Anche per Cassirer una definizione della natura umana è possibile solo come definizione funzionale, non sostanziale. Non c’è alcun principio a lui inerente, un vinculum substantiale, come pensava la Scolastica, e non c’è alcuna facoltà specifica attraverso cui si possa determinare l’essenza umana. L’unica peculiarità è la sua prestazione: linguaggio, mito, religione, arte, scienza, storia. Una filosofia dell’uomo ha il compito di produrre una visione della struttura fondamentale di ciascuna di queste attività umane e di comprenderle come un tutto organico. Così si può cogliere il vinculum functionale che sussiste tra linguaggio, mito, arte ecc., e che, così come li isola l’uno dall’altro, allo stesso modo li rende re99

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ciprocamente dipendenti. Tale sistema della funzione fondamentale è la loro origine comune, non una sorgente nascosta da cui nascono le funzioni. Esse si dispongono in un sistema non, ad esempio, su un piano logico, bensì su un piano morale, cioè come fasi nella progressiva liberazione di sé dell’uomo nella costruzione di un mondo ideale. Il carattere positivistico del tardo Idealismo determina il modo di procedere. Al posto di questioni dalla cui risposta dipende la mia esistenza in quanto uomo, compare l’analisi delle forme in cui l’uomo si esprime specificamente. Dai suoi frutti dovete riconoscerlo. Perché siano proprio questi frutti e non altri, la teoria non può dircelo, perché la sua unione funzionale non dice nulla in proposito. L’unione delle funzioni deve attenersi alle manifestazioni date di fatto, poiché l’uomo che si esprime in esse e per il quale esse funzionano è determinabile a sua volta solo attraverso di esse e non compare egli stesso come un soggetto coglibile come tale. Egli è dato solo come l’insieme delle prestazioni. In Kant è diverso. Kant mette in conto il surplus di una struttura non regolata, Cassirer no. Il soggetto è già sempre scomparso nelle sue prestazioni, che perciò rappresentano simbolicamente proprio il soggetto. Anche Cassirer, certamente, sa che l’uomo è un essere vivente, ma sul piano filosofico non fa alcun uso di questa cognizione. Le forme di espressione animali gli servono solo come mezzo di contrasto per mettere in rilievo, rispetto allo sfondo da loro rappresentato, le forme espressive specificamente umane. Il loro senso funzionale rimane oscuro, poiché non si sa per chi esse funzionino. 100

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Un’“antropologia filosofica” limitata già nel suo approccio alla cultura come prestazione non può problematizzare questo senso funzionale. Questo è possibile solo da una posizione collocata al di fuori dell’orizzonte, posizione a cui rimanda l’intreccio delle prestazioni umane con l’organismo umano. Da un kantiano come Cassirer o da uno storico delle idee come Dilthey non ci si può aspettare che trovino il coraggio, anzi anche solo l’interesse, per vedere in tale intreccio nient’altro che un semplice fatto empirico. Dove comincia la dimensione corporea, per essi finisce la filosofia. Secondo l’opinione oggi dominante, questo bando è stato tolto dalla fenomenologia dell’esistenza. In questo c’è di corretto il fatto che il concetto di esistenza nasconde il problema, o, se si vuole, lo abolisce, poiché esso sostituisce il soggetto della coscienza (il punto di fuga legato sì al corpo vissuto [Leib] di un uomo, ma non limitato ad esso) con il soggetto dell’esserci, un tipo di essere che è proprio dell’individuo concreto in quanto essere finito, limitato dalla morte. La corporeità vissuta [Leiblichkeit], in questo tipo di essere, è inclusa fin dall’inizio, e anche per questo motivo non risulta difficile né ai marxisti né agli psicopatologi operare con il concetto di esistenza. I marxisti potranno mantenere rispetto alle prospettive della filosofia dell’esistenza lo stesso grado di libertà che l’analisi esistenziale psichiatrica possiede nei confronti della psicanalisi o della speculazione ontologica. La connessione teoretica del concetto di esistenza con la sua fondazione e la sua trattazione fenomenologiche è una questione a parte. Ma il concetto stesso – non c’è da dubi101

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tarne – ha fatto sì che orientamenti reciprocamente ostili, come il marxismo, la psicologia ermeneutica, l’analisi ermeneutica dell’esserci e la psicologia del profondo, per lo meno vedano la possibilità di instaurare un dialogo. Però ciò che manca al concetto di esistenza, ciò di cui esso non tiene conto, è l’intreccio, che non può essere ignorato, del modo umano d’essere con l’organismo umano. La corporeità vissuta, in quanto momento strutturale dell’esistenza concreta con cui essa deve confrontarsi e che la attraversa nelle più svariate modalità di stato o condizione [Zuständlichkeit] e di resistenza, non costituisce un problema in quanto corpo organico [Körper]. Questo viene lasciato alla biologia e alle scienze naturali dell’organico. Prendendo in considerazione la corporeità vissuta sin dall’inizio nell’approccio del modo in cui gli uomini sono nel mondo, l’analisi esistenziale nasconde il fenomeno umano in quanto problema della corporeità organica [Körperlichkeit] nella sua fatticità e, allo stesso modo del trascendentalismo critico, benché con un’altra motivazione, le rende impossibile trovare il collegamento con il mondo fisico. Ciò che noi chiamiamo fenomeno esterno dell’uomo in senso esistenziale: il suo volto, il suo sguardo, le qualità rilevanti sul piano estetico-erotico, non è interessato da ciò, perché questi elementi appartengono alle forme costitutive della corporeità vissuta. Nella tradizione di Kant, della filosofia dell’identità e del Neokantismo, la natura è l’altro, il costituito, il prodotto di funzioni creative, e anche come spirito nel suo essere-altro è solo un interludio sulla via del ritorno all’origine. (Ancora per Marx nella conce102

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zione dell’uomo come essere naturale sociale l’accento sta sull’aspetto sociale, e l’intera antropologia è contenuta nel libro aperto dell’industria). Anche Heidegger deve essere compreso come un passo ulteriore su questa linea. La priorità della coscienza diventa la priorità dell’esserci, nel cui orizzonte ricompaiono tutte le figure di pensiero recitate nel trascendentalismo, coerentemente modificate come differenziazioni ontico-ontologiche. La natura nell’ambito della scienza naturale riceve il suo senso dalla tecnica. Come physis e forza creatrice però essa richiede il compimento di quella svolta [Kehre] dopo di cui, per esempio, non è più possibile contrapporre l’uomo, in quanto essere vivente dotato di linguaggio, ad altri tipi di esseri viventi. Egli viene al discorso con l’appello [Anspruch] e l’invito [Zuspruch] dell’essere. Questo significa però che l’Antropologia Filosofica è in entrambi i casi un ibrido insostenibile, un modo temporaneo di porre il problema, che si dimostra insensato in una filosofia dell’uomo. Abbozzi del tipo di Bergson, Scheler o Teilhard de Chardin allora sono già sbagliati nell’approccio. Con l’abbandono della filosofia della vita a favore della filosofia dell’esistenza il problema dell’intreccio dei monopoli specificamente umani con l’organismo umano finisce inevitabilmente fuori del campo visuale. Ma cosa significa il superamento dell’antropocentrismo, superamento che, certo, ha compreso ed accettato la conoscenza della storicità dell’essere umano e delle sue immagini del mondo, ma non presta attenzione alla sua natura se non per il fatto che l’uomo ne ha bisogno per morire? Se il metodo fenomenologico è considerato capace di aprire 103

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Helmuth Plessner

l’essere stesso, perché allora attaccarsi solo al fenomeno per cui esso, l’essere, parla? Perché esso si “manifesta parlando” [sich ausspricht]? La fissazione sul linguaggio in quanto casa dell’essere – un’eredità del metodo fenomenologico nella misura in cui esso vuole pervenire alla cosa stessa attraverso il significato delle parole – è la controparte ontologica della tecnica di liquidazione di tutte le questioni metafisiche con l’aiuto dell’analisi linguistica. Tra trasfigurazione e impoverimento del linguaggio i fenomeni diventano irrilevanti; e non ci si deve sorprendere se la filosofia dell’esistenza, pur senza volerlo, favorisce una teoria non filosofica dell’uomo, che fa come se l’obliato problema della natura potesse essere nascosto con prestiti dal museo del behaviorismo. Nel superamento dell’antropocentrismo, inteso come lascito del processo storico di emancipazione del soggetto, è importante il passo successivo anche nel metodo. Questo passo segue la via che noi percorriamo sin da Copernico e Darwin, che è stata seguita dalla ricerca storica e culturale dell’uomo e che forse condurrà a spezzare il monopolio, mantenutosi fino ad oggi, dell’uomo in quanto unico essere razionale nella natura. Allora, però, la questione antropologica assumerebbe un aspetto pratico. Non si è mai potuta escludere la possibilità di altre forme di vita capaci di avere un mondo, dotate di ragione. Oggi, che sul piano tecnico già si affronta il nostro provincialismo terrestre, si parla di questa possibilità già come di una probabilità. Noi sulla terra conosciamo l’uomo solo come ominide. Tuttavia chi ci dice che la sua forma vitale sia l’unica possibile per un essere finito che dispone di ragione e di forza creativa? 104

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Nota biografica

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1892

1910 1911

1913

1914 1916

1917 1918

Helmuth Plessner nasce il 4 settembre a Wiesbaden, figlio di un medico di origine ebrea, Fedor Pleszner, e di Elisabeth Eschmann. Si iscrive alla facoltà di medicina presso l’università di Freiburg im Breisgau. Si trasferisce a Heidelberg, dove studia zoologia, coltivando al contempo interessi di carattere filosofico e seguendo i seminari di Wilhelm Windelband. Stringe amicizia con Hans Driesch ed è introdotto nel circolo di intellettuali gravitante intorno a Max Weber. Pubblicazione del primo libro filosofico di Plessner: Die wissenschaftliche Idee. Ein Entwurf über ihre Form. Si trasferisce a Göttingen per seguire i seminari di Edmund Husserl sulla fenomenologia. Consegue il dottorato in filosofia a Erlangen sotto la guida di Paul Hensel, allievo di Windelband. Presta servizio civile volontario al Germanisches Museum a Nürnberg. Pubblicazione della dissertazione di dottorato con il titolo Krisis der transzendentalen Wahrheit im Anfang. Dopo un breve periodo a München, si trasferisce a Köln, invitatovi da Max Scheler. 105

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Helmuth Plessner

1920

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1923

1924

1925

1928

Consegue l’abilitazione alla libera docenza con una dissertazione dal titolo Untersuchungen zu einer Kritik der philosophischen Urteilskraft e una conferenza sulla concezione herderiana dell’origine del linguaggio. Comincia a insegnare come libero docente presso l’università di Köln. Pubblicazione di Die Einheit der Sinne. Grundlinien einer Ästhesiologie des Geistes, opera che rappresenta il primo passo importante verso l’impostazione filosofico-antropologica. Inizio dell’amicizia con Josef König, vicino alla scuola diltheyana di Göttingen incentrata sulla persona di Georg Misch. Esce il suo primo libro di argomento sociopolitico: Die Grenzen der Gemeinschaft. Eine Kritik des sozialen Radikalismus. Comincia l’amicizia con il fisiologo olandese F.J.J. Buytendijk, conosciuto attraverso Max Scheler. In collaborazione con altri filosofi e scienziati, Plessner comincia la pubblicazione della rivista interdisciplinare Philosophischer Anzeiger. Zeitschrift für die Zusammenarbeit von Philosophie und Einzelwissenschaft. Nella rivista esce anche il saggio scritto a quattro mani con F.J.J. Buytendijk, Die Deutung des mimischen Ausdrucks. Ein Beitrag zur Lehre von Bewusstsein des anderen Ichs, primo importante contributo plessneriano alla teoria dell’espressione. Pubblicazione della sua prima e principale opera di antropologia filosofica: Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einführung in die philosophische Anthropologie.

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Nota biografica

1931

1933

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1934

1935

1939 1940

1941

1946

1952

Pubblicazione di Macht und menschliche Natur. Ein Versuch zur Anthropologie der geschichtlichen Weltansicht. A causa dell’entrata in vigore delle leggi razziali nazionalsocialiste, deve interrompere l’insegnamento e si sposta a Istanbul. Si trasferisce a Groningen, nei Paesi Bassi, su invito di F.J.J. Buytendijk, che vi dirige l’Istituto di Fisiologia. Prosegue le proprie ricerche antropologiche, collaborando anche con l’istituto di Buytendijk. Pubblicazione di Das Schicksal deutschen Geistes im Ausgang seiner bürgerlichen Epoche. Ottiene la cattedra di sociologia all’università di Groningen. L’occupazione tedesca dei Paesi Bassi costringe Plessner a lasciare la cattedra. Si sposta a Utrecht e poi ad Amsterdam, dove, con il sostegno di amici e studenti, trascorre gli anni seguenti in incognito e con passaporto falso; è inoltre costretto a cambiare alloggio di frequente. Pubblicazione di Lachen und Weinen. Eine Untersuchung der Grenzen menschlichen Verhaltens. Ritorna a Groningen, dove ottiene la cattedra di filosofia. Comincia un periodo molto prolifico che vede la pubblicazione di numerosi brevi scritti di carattere filosofico e sociologico, raccolti successivamente in diverse raccolte di saggi (cfr. la “Nota bibliografica”). Riceve la cattedra di sociologia a Göttingen, 107

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Helmuth Plessner

occupandosi parallelamente anche di filosofia. Comincia ad impegnarsi attivamente nell’ambito dell’istruzione per adulti. Matrimonio con Monika Artzert (Monika Plessner, autrice del libro autobiografico Die Argonauten auf Long Island. Begegnungen mit Hannah Arendt, Theodor W. Adorno, Gershom Scholem u.a., Berlin, Rowohlt, 1995). 1955 Esercita la carica di presidente della Deutsche Gesellschaft für Philosophie. 1958 Esercita la carica di presidente della Deutsche Gesellschaft für Soziologie. 1960 È rettore dell’università di Göttingen. 1961 Pubblicazione dell’importante saggio Die Frage nach der Conditio humana. 1962 Insegna per un anno a New York presso la New School for Social Research in qualità di primo Theodor-Heuss-Professor. 1963 Si trasferisce con la moglie a Erlenbach presso Zürich. Tiene lezioni e seminari all’università di Zürich. 1964 A Groningen, prima di una conferenza, ha il suo primo colpo apoplettico. Negli anni successivi se ne verificheranno altri, che gli causeranno diverse riduzioni funzionali. 1980-85 Pubblicazione delle Gesammelte Schriften in dieci volumi. 1985 Reso muto e immobile dall’età, assistito dalla moglie, Plessner muore a 93 anni il 12 giugno a Göttingen; viene sepolto a Erlenbach.

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Nota bibliografica

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1. Opere di Plessner La maggior parte degli scritti plessneriani è stata ripubblicata nelle Gesammelte Schriften, a cura di Günter Dux, Odo Marquard e Elisabeth Ströker, con la collaborazione di Richard W. Schmidt, Angelika Wetterer e Michael-Joachim Zemlin, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1980-1985, 10 voll. Qui di seguito sono riportati, in ordine cronologico, gli scritti maggiori e le raccolte di saggi pubblicate mentre Plessner era ancora in vita. Nel caso degli scritti principali è indicata anche la loro collocazione nelle Gesammelte Schriften (GS): 1913 Die wissenschaftliche Idee. Ein Entwurf über ihre Form (GS I, pp. 7-141). 1918 Krisis der transzendentalen Wahrheit im Anfang (GS I, pp. 143-310). 1920 Untersuchungen zu einer Kritik der philosophischen Urteilskraft (GS II, pp. 7-321). 1923 Die Einheit der Sinne. Grundlinien einer Ästhesiologie des Geistes (GS III, pp. 7-315). 1924 Die Grenzen der Gemeinschaft. Eine Kritik des sozialen Radikalismus (GS V, pp. 7-133; trad. it.: I limiti della comunità. Per una critica del radicalismo sociale, a cura di Bruno Accarino, Roma-Bari, Laterza, 2001). 1925 Die Deutung des mimischen Ausdrucks. Ein Bei109

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Helmuth Plessner

1928

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1931

1935

1941

1953 1961

1966

trag zur Lehre vom Bewusstsein des anderen Ichs (con F.J.J. Buytendijk; GS VII, pp. 67-129). Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einführung in die philosophische Anthropologie (GS IV; trad. it.: I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, a cura di Vallori Rasini, Torino, Bollati Boringhieri, 2006). Macht und menschliche Natur. Ein Versuch zur Anthropologie der geschichtlichen Weltansicht (GS V, pp. 135-234; trad. it.: Potere e natura umana. Per un’antropologia della visione storica del mondo, a cura di Bruno Accarino, Roma, Manifestolibri, 2006). Das Schicksal deutschen Geistes im Ausgang seiner bürgerlichen Epoche (rivisto e riedito nel 1959 con il titolo Die verspätete Nation. Über die politische Verführbarkeit bürgerlichen Geistes; ora in GS VI, pp. 7-223). Lachen und Weinen. Eine Untersuchung der Grenzen menschlichen Verhaltens (GS VII, pp. 201-387; trad. it.: Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, a cura di Vallori Rasini, Milano, Bompiani, 2000). Zwischen Philosophie und Gesellschaft. Ausgewählte Abhandlungen und Vorträge (raccolta di scritti). Die Frage nach der Conditio humana (GS VIII, pp. 136-217; trad. it.: Il problema della conditio humana, in I propilei. Grande storia universale del mondo, vol. I, a cura di M.A. Magrini, Milano, Mondadori, 1967, pp. 29-93). Diesseits der Utopie. Ausgewählte Beiträge zur Kultursoziologie (raccolta di saggi brevi; trad. it. parziale: Al di qua dell’utopia, a cura di F. Salvadori, Genova, Marietti, 1974).

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Nota bibliografica

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1970 Philosophische Anthropologie, raccolta che contiene anche l’inedito Anthropologie der Sinne (GS III, pp. 317-393). 1982 Mit anderen Augen. Aspekte einer philosophischen Anthropologie (raccolta di saggi brevi, con un’inedita “Autobiographische Einführung”). Recentemente si è provveduto a pubblicare alcuni scritti rimasti inediti o non accolti nel piano di pubblicazione delle Gesammelte Schriften (cfr. la “Introduzione”): 1994 Josef König – Helmuth Plessner, Briefwechsel 1923-1933. Mit einem Briefessay von Josef König über Helmuth Plessners “Die Einheit der Sinne”, a cura di Hans-Ulrich Lessing e Almut Mutzenbecher, Freiburg-München, Karl Alber. 2001 Helmuth Plessner, Politik – Anthropologie – Philosophie. Aufsätze und Vorträge, a cura di Salvatore Giammusso e Hans-Ulrich Lessing, München, Wilhelm Fink. 2002 Helmuth Plessner, Elemente der Metaphysik. Eine Vorlesung aus dem Wintersemester 1931/32, a cura di Hans-Ulrich Lessing, Berlin, Akademie Verlag. 2. Letteratura secondaria in italiano Qui di seguito sono riportate le principali pubblicazioni su Plessner accessibili al pubblico italiano: GIAMMUSSO SALVATORE, Potere e comprendere. La questione dell’esperienza storica e l’opera di Helmuth Plessner, Milano, Guerini, 1995. 111

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Helmuth Plessner

Helmuth Plessner. Corporeità, natura e storia nell’antropologia filosofica. Atti del Convegno internazionale di studi [Salerno, 27-28 novembre 2000], a cura di Andrea Borsari – Marco Russo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005. RASINI VALLORI, Teorie della realtà organica. Helmuth Plessner e Victor von Weizsäcker, Modena, Edizioni Grafiche SIGEM, 2002. RUSSO MARCO, La provincia dell’uomo. Studio su Helmuth Plessner e sul problema di un’antropologia filosofica, Napoli, La città del sole, 2000. TOLONE ORESTE, Homo absconditus. L’antropologia filosofica di Helmuth Plessner, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000.

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