Imperialismo e questione europea

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Domenico Losurdo

Imperialismo e questione europea

Diotima Questioni di filosofia e politica

La scuola di Pitagora editrice

INDICE

Introduzione, di Emiliano Alessandroni I.

PRIMO, SECONDO E 'fERZO MONDO:

GLI UsA, L'EUROPA E LA

II.

13

e INA

25

L'IDEOLOGIA DELLA GUERRA E IL MITO DELLA TRANSLATIO IMPERII DAL!JEUROPA AGLI USA

Autocoscienza europea, «guerra santa» ed espansioneplanetaria 2. Gli incerti confini dell'Europa: esclusioni, scomuniche e riammissioni 3. Vecchia e nuova Europa, vecchio e nuovo Occidente 4. «Sentimento di raZZ/1 occidentale», controra-a.ismo e rivalità tra «sottociviltà»

29

1.

29 41

55 61

III. MARXISMO O

POPULISMO?

1. Marx e la globaliZZtlzione 2. La prima fo1ma di populismo

3. Populismo e «cinismo da cretino» 4. Purismo populista e fuga dalla complessità 5. Il carattere pervasivo del populismo 6. Il mito populista e qualunquista della «nuova Yalta» !V.

ESISTE OGGI UN IMPERIALISMO EUROPEO?

1. La riscoperta di Lenin

2. 3. 4. 5. 6.

Uno strano elenco Il ruolo della Cina L'Unione Europea non èrmo Stato Un Impero planetario I rapporli di forza sul piano ideologico

V.

LA DOTTRINA ~SH E IIIMPERIALISMO PLANETARIO

71 71 73 78 81 87 93

97 97 100 103 106 110 113

119

1. Dal nuovo ordine internazionale

all'imperialismo 2. Perché è essenziale la categoria di imperialismo 3. Stati Uniti e Israele: l'asse dell'imperialismo

123

VI.

137

L'IMPEROAMERIC.ANOE Z:EUROPA

1. La malattia mortaledell'antiamericanismo

2. L'z1luminismo e la divaricazione tra Stati Uniti e Europa 3. Antiamericanismo e antisemitismo? Ford e Hitler

128 133

137 138 144

4. L'America come autentico Occidente e la condanna dell'Europa come Oriente 5. Il nazismo come erede del pathos esaltato dell'Occidente 6. Al posto di una conclusione. I bandidi scomunica dell'aspirante Impero planetario

VII.

2. .3. 4. 5. 6. 7. 8.

156 160

GLI STATI UNITI E LE ORIGINI POLmco. CULTURALI DEL NAZISMO

l.

151

Il «secolo delle razze»: dall'Otto al Novecento Le parole-chiave dell'ideologia nazista e la loro origine La controrivoluzione razzista dagli Stati Uniti alla Germania La «ferrea legge della disuguaglianza» Costruzione dello Stato razziale e modello americano Analogie storiche e affinità razziali L'antisemitismo tra Stati Uniti, Rt1Ssia bianca e Germania Il nazismo come progetto di white supremacy a livello planetario

17.3 17.3 180 188 192 199 205 210 216

VIII.!LNEMICO PRINCIPALE SI TROVA NEL PROPRIO CONTINENTE?

!X.

«CoNCENTRARE TUTTE LE FORZE» CONTRO «IL NEMICO PRINCIPALE»

Democrazia e pace? 2. Le guerre coloniali 1.

227

2.31 2.31 2.36

9

3. Una visione «barocca» della lotta antimperialista 4. Togliattr.; Stalin e la guen·a fredda 5. L'imperialismo USA e i crescenti pericoli di guerra X.

COSA SIGNIFICA ESSERE ANTI.IMPERIALISTI OGGI?

XI.

L'IDEALE DI "PACE PERPETUA'' TRA EUROPA E STATI UNITI

239 244

251

255

263

1. L'ideale della pace pe,petua

2.

3. 4.

5. 6.

7. 8.

9. 10.

alla scuola del realismo politico Trionfo delle «comunità pacifiche» e scomparsa delle razze «guerriere» «Ordinamento cosmopolitico» e «pace perpetua e universale» L'«internazionalismo liberale» quale «nuovo internazionalismo» La «1ivol11zione neoconservatrice» sulle orme di Trotskij e di Cloots? «Rivoluzione neoconservatrice» o controrivoluzione neocoloniale? Dalla «pace definitiva» di Wilson al dileggio della «pace perpetua» di Kant L'antagonismo rimosso tra «le due piiì antiche democrazie» L'Impero, i vassalli e i barbari L'ideale della pace pe1pet11a alla scuola del realismo politico

XII.

263 268 272 282 287 294 296

301 310 314

LA NUOVA VIA DELLA SETA E IL DIALOGO TRA LECMLTÀ

323

XIII. PERCHÉ l/IMPERW,ISMO USA È DI GRAN LUNGA IL NEMICO PRINCIPALE

1.

2. 3. 4. 5. 6.

XIV.

353

La liquidazione della rule of law

nelle relazioni internazionali Democrazia o Impero? «Il potere assoluto corrompe in modo assoluto» Universalismo o etnocentrismo esaltato? «Universalismo» o «eccezionalismo»? Il nuovo quadro mondiale, i crescenti pericoli di guerra e la dispersa sinistra occidentale

353 356 359 363 372

375

Può UN IMPERW,ISMO cosTITUIRE UN BALUARDO DI DEMOCRAZIA?

385

APPENDICE EcoNOMICISMOO DIALETTICA? UN APPROCCIO MARXISTA ALLA QUESTIONE EUROPEA

di Emiliano Alessandroni 1. Gli USA e l'orientali:aazionedell'Europa 2. Ipostasi dell'antieuropeismo 3. La Repubblica Popolare Cinese e la Teoria dei tre mondi 4. Isolare e combattere tt nemico principale 5. L'Unione europea e la questione sociale 6. Gramsci, Lukdcs e il fascino per zl «piccolo mondo» 7. Il PCI e l'Europa 8. Una fenice dalle ceneri? 9. Conclusioni

389 389

395 416 427 435 449 453 467 468

POSTFAZIONE

L'EMERGERE DI UNA DEMOCRAZIA BONAPARTISTA POSTMODERNA E PLEBISCITARIA E LA RIVOLTA "SOVRANISTA" CONTRO LA GRANDE CoNVERGENZA E CONTRO L'EUROPA

471

di Stefano G. Azzarà 1.

2.

3. 4.

5. 6.

Una gigantesca concentrazione di potere neoliberale nel solco del bonapartismo postmoderno Destra e sinistra, alto e basso: tt "populismo" europeo Una gigantesca crisi di legittimazione della /razione stabilita delle élites capitalistiche La Grande Convergenza e i suoi contraccolpigÙJbali. La reazione dell'Occidente Stato nazionale, ridefinizione della Comunità dei Liberi e ''sovranismo" Populismo o marxismo?

Bibliografia Indice dei nomi

471 476 485

492

503 512

519

535

Introduzione

di Etniliano Alessandroni

Quando 1'11 dicembre 2011 si spense Hans Heinz Holz, allievo di Emst Bloch e amico di Gyorgy Lukacs, oltre che Presidente onorario della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx fiir dialektisches Denken, Domenico Losurdo espresse pubblicamente tutto il suo cordoglio: si trattava infatti, scrisse, «di un grave lutto non solo per l'Associazione che egli, grazie alla sua profonda cultura, alla stima universale di cui godeva, alla simpatia che ispirava e al suo appassionato impegno di fùosofo e di militante politico, contribui in modo essenziale a fondare, ad animare e a dirigere», ma di «un grave lutto altresì per la comunità filosofica internazionale e per il movimento che lotta per la causa della pace e dell'emancipazione>>'-. Losurdo, Èmorto HansHeinz: Hok, grandefilosofo marxista e militante politico comunista, dal blog di Losurdo, notizia del 1212-2011, reperibile al seguente indirizzo: http://domenicolosurdo. 1 D.

13

Emiliano Alessandroni

Qualche anno prima, in una conversazione privata, Losurdo mi comunicò che Holz costituiva uno dei pochi intellettuali di spessore internazionale col cui pensiero riscontrava una particolare affinità di vedute: «vi è un unico tema», tuttavia soggiunse, «che ci divide profondamente: l'Unione europea». Su questo argomento Holz, a detta di Losurdo, appariva particolarmente intransigente: non ammetteva posiziorù che non conducessero a una rottura con il processo di convergenza in corso e ad un'uscita nazionale dalla moneta unica. Allieva brillante e carismatica di Holz è stata Sahra Wagenknecht. Questa figura di spicco della Link.e tedesca, dopo avere contribuito alla fondazione del movimento Au/stehen su posiziorù più antieuropeiste, in un contesto di awnento degli attriti tra Stati Uniti e Unione europea e di tentativi da parte dell' ammirùstrazione Trwnp di disgregare la già di per sé flebile unità politica del vecchio continente, in un contesto in cui il governo Salvini vedeva awnentare le friziorù con l'Ue e avvicinarsi sempre più alla Casa Bianca, senza pronunciare un'unica parola sul dominio e le ingerenze che gli Usa esercitano in modo via via sempre più pressante sul nostro territorio, ha dichiarato,in un'intervista, che «gli italiarù non vogliono essere governati da Bruxelles, e non vogliono nemmeno essere governati da Berlino>>2.

blogspot.com/2011/12/e-morto-hans-heinz-holz-giande-filosofo. html. 2 nDie Italiener wollen nicht von Brussel regiert werdenn (Sahra Wagenknecht im Gespriich mit Tobias Armbri.ister), Deutschlandfunk, 24-10-2018.

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INTRODUZIONE

Quasi fossero contenti, invece, di lasciarsi governare da Washington! In confronto all'era Bush e al periodo di tensioni venuto a generarsi tra Usa e Ue coni distanziamenti di Jaques Chirac e Gerhard Schroder rispetto alla «guerra preventiva» scatenata da Washington contro l'Iraq, l'era Obama ha registrato un maggiore allineamento del Vecchio continente alla politica americana. Nelle vicende della Libia, dell'Ucraina e della Siria, l'Ue ha mostrato, sia pure in posizione subalterna alla regia d'oltre Atlantico, tutta la propria aggressività. La concezione liberale europea ha ostentato, in questi anni, i segni profondi dell'ideologia coloniale di cui è impregnata, di quell'ideologia nella quale affonda le radici. Questo dato non era sfuggito a Losurdo che, tuttavia, parlando ancora una volta dell'Ue, mi comunicò questo pensiero: «per quanto riguarda le posizioni antieuropeiste che aleggiano nella sinistra radicale d'Occidente posso convenire per alcuni aspetti sulle premesse, ma non di certo sulle conclusioni: sono d'accordo che l'Ue sia un processo capitalistico e posso anche essere d'accordo sul fatto che potrà sviluppare una propensione imperialista. Da queste due premesse alcuni traggono la conclusione di dovere uscire dall'Europa. Ame sembra una conclusione priva di senso. Seguendo questa logica dovremmo uscire anche dall'Italia». Quando gli ricordai che l'antieuropeismo, divampato anche a sinistra in seguito alle vicende greche, identificava l'Ue con un progetto di dominio della Germania o, a seconda dei casi, dell'asse franco-tedesco, Losurdo rispose che il processo di convergenza che i paesi del continente perseguono non esprime una vo-

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Emiliano Alessandroni

lontà di sottomissione al potere dei paesi centrali, ma ubbidisce a un bisogno di unificare le aree economiche per costruire un mercato più robusto; altrimenti si è destinati a permanere in uno stato di subalternità rispetto alle economie egemoni. «Prendi un paese come la Serbia», mi disse, «verso il quale ho sempre nutrito una profonda stima. Sono anni che sta chiedendo di entrare nell'Unione europea. A muoverla è l'esigenza di non restare in una posizione emarginata rispetto ai grandi processi economici mondiali». Le conversazioni su questo tema sono continuate nei mesi successivi e la sua contrarietà all'exit è rimasta invariata. Il 18 aprile 2016, alle ore 20.54, ricevo una sua mail nella quale era scritto: «In occasione dell'ultima riunione a Roma (luglio) del Coordinamento, prima del mio (breve) intervento fu ***** a invitarmi a criticare pubblicamente le parole d'ordine di fuoriuscita dall'Europa. Mi pento di non aver seguito questo consiglio». Il mese precedente aveva pubblicato sul sito di Marx XXI, Associazione di cui rivestiva allora il ruolo di Presidente, un articolo dal titolo Perché l'ùnperialis,no USA è di gran lunga il ne,nico principale. Farà eco a questo saggio un secondo dell'anno successivo dal titolo

«Concentrare tutte leforze» contro «zl ne,nico principale». Togliatti e la lotta per la pace ieri e oggi. Entrambi gli scritti, riportati in questo volume, volevano costituire un invito a ridurre lo spreco di energie investite per chiedere l'uscita dell'Italia dall'Europa e dall'euro, al fine di concentrarle contro i crescenti pericoli di guerra che la politica degli Stati Uniti seminava e contro la sistematica violazione del diritto internazionale che

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INTRODUZIONE

l'asse Usa-Israele commetteva. Questi segnali, tuttavia, non vennero accolti; oppure, forse, li si volle ignorare deliberatamente per ciò che significavano sul piano teorico e su quello della contingenza politica. Vennero colti, tuttavia, dal Partito Comunista di Marco Rizzo che, professando posizioni sull'Europa ancora più radicali di quelle del KKE greco a cui si sente vicino, sul suo organo di stampa ufficiale rispose con un articolo, debole nelle argomentazioni ma duro nei toni, dal titolo L'antùnperialistno "barocco'~ In esso Losurdo viene dipinto come un mistificatore, un anefice di «capriole dialettiche» che tenta di «far passare Lenin come un antileninista» e che «gioca sporco», al punto da strumentalizzare impropriamente i classici del marxismo per difendere il «blocco imperialista» europeo e tutti gli «altri blocchi capitalisti-imperialisti, a cominciare dai cosiddetti BRICS»J. Con l'elezione di Trump alla Casa Bianca, gli attriti tra Usa e Ue tornano a farsi stridenti. In proporzione ad essi avvertiamo, sulla sponda opposta, segnali di avvicinamento, o di riduzione delle tensioni, tra Ue e Russia e tra Ue e Cina 4. Losurdo assisteva dunque, negli ultimi mesi della sua vita, ad un aumento delle frizioni tra i due continenti, ma parallelamente a queste, anche a uno 3

A. Lombardo, L'antimpen'alismo "barocco". Commenti a

"Concentrare tutte leforze contro il 'nemico pn'ncipale"' di Domenico Losurdo, LaRiscossa, 13-03-2017. Consultabile online al seguente indirizzo: http://www.lariscossa.com/2017/03/13/lantimperialismobarocco/. • Su questi aspetti cfr. il saggio in appendice, Economicismo

o dialettica?

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Emiliano Alessandroni

spostamento di baricentro delle enegie combattive: dal contrasto alle pohtiche espansionistiche dell'asse Usa-Israele all'opposizione contro la tenuta pohticoistituzionale dell'Unione europea. Se le forze glielo avessero consentito, avrebbe cercato dimettere mano a un lavoro per fare chiarezza sulla questione, come fece quando, su l'Ernesto del 2003, pubbhcò quell'adombrato saggio, Esiste oggi un ùnperialis1no europeo?, che abbiamo riportato in questo volume. La morte tuttavia, sopraggiunse ad impedirghelo. Con questa raccolta di scritti ci auguriamo non soltanto di essere venuti incontro ai suoi ultimi desideri e di aver contribuito a far conoscere il suo pensiero sul tema qui esposto, ma anche di aver concorso a gettare una luce chiarificatrice, per l'appunto, sulla controversa questione europea e sul concetto diimperiahsmo. Gh scritti che abbiamo qui raccolto conservano, salvo alcune piccole varianti compiute per evitare uno smarrimento della logica tematica, l'ordine cronologico con cui sono apparsi e coprono un arco temporale che va dal 1978 al 2017. La maggior parte dei titoh sono rimasti invariati e laddove sono state apportate modifiche il titolo originale è stato riportato in nota. Lo scritto che apre la raccolta, Prùno, Secondo e Terzo nzondo: gli Usa, l'Europa e la Cina, si riconnette concettuahnente alla cosiddetta Teoria dei tre 1nondi di Mao Zedong e Deng Xiaoping su cui ci siamo soffermati nel saggio in appendice. Esso va ricollegato al § XI. 9 L'I11zpero, i vassalli e i barbari, nel quale l' «odierno impero americano» viene accostato «all'Impero roma no» e «i presunti alleati di Washington si rivelano Stati "vassalli e tributari" owero "protettorati"», ciò che vale

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INTRODUZIONE

«per "l'Europa occidentale" e per "quella centrale", così come per il Giappone» (Infra p. 158). L'Europa, in questo quadro, costituisce il Secondo mondo, ovvero il mondo dei vassallt; non un Primo Mondo in competizione con gli Usa. Se i vassalli mostrano sovente un atteggiamento aggressivo verso i barbar; è tuttavia l'I,npero a costituire il bersaglio principale, non i suoi cantoni, che devono essere invece sospinti a separarsi da quel potere che li sovrasta: ciò che risulta possibile soltanto quando questi riusciranno ad acquisire una sufficiente forza economica, militare e politica. Forza difficilinente immaginabile al di fuori di una loro unità. Si tenga presente che l'avversione espressa da Losurdo per qualunque ipotesi di uscita dall'euro e dall'Ue, non costituisce alcuna forma di idolatria incondizionata verso l'Europa. A fugare questo potenziale equivoco contribuisce il capitolo II, il quale offre una ricostruzione minuziosa dell'ideologia colonialista e razzista che ha contraddistinto la storia del liberalismo europeo (sempre più fomentato dagli impeti della missione civilizzatrice), per poi mostrare come tale ideologia, tale mito imperiale, abbia tuttavia conosciuto una progressiva translatio dall'Europa agli Stati Uniti che l'ha conservato pressoché intatto nella ..' . . . sua aggress1vita originaria. I saggi Marxisnzo o populisnzo? ed Esiste oggt' un ùnperialisnzo europeo? devono essere pensati insieme e accostati ai due a cui abbiamo fatto precedentemente riferimento: «Concentrare tutte le forze» contro «il nevzico principale» e Perché l'ùnperialisvzo USA è di gran lunga il ne11zico principale. In essi vengono criticati rispettivamente, e concepiti come tra loro affini,

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Emiliano Alessandroni

il «populismo», l' «economicismo» e ciò che Losurdo definisce «antimperialismo barocco». Capire questi tre concetti, nella loro interconnessione, risulta indispensabile per comprendere la critica che viene mossa ai sostenitori dell'uscita dall'Europa. I capitoli V, VI e VII, mostrano come la cultura del colonialismo e l'ideologia dellawhite supre,nacy abbiano sempre contraddistinto la storia ideologico-politica degli Stati Uniti, facendoli emergere comeprecursori e al tempo stesso eredi del pensiero nazista. Il capitolo VIII costituisce la prima traduzione italiana di un intervento compiuto da Losurdo in tedesco a una tavola rotonda sull'Europa in occasione della XIV. lnternationale Rosa-Luxe,nburg-Kon/erenz del 2009. Completa infine il quadro un capitolo tratto da Il 1narxis1no occidentale, nel quale viene scardinata la concezione meccanicista della conflittualità, facendo notare come non soltanto un paese capitalistico, ma persino una potenza imperialista non sia al riparo dal rischio di subire un soggiogamento coloniale. A partire da una rielaborazione teorica e da una riflessione intorno al mosaico concettuale offerto in questo volume abbiamo dato vita al saggio che si trova in appendice: Econo1nicisv10 o dialettica? Un approccio

1narxista alla questione europea. Da ultimo, come Postfazione, uno scritto di Stefano G. Azzarà nel quale, sulla scia degli insegnamenti teorici di Losurdo, vengono analizzate le vicende culturali e politiche del populismo, fenomeno dilagante negli ambienti dell' euroscetticismo radicale. Prima di concludere, desidero infine ringraziare con affetto la famiglia Losurdo - Ute, sua moglie

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INTRODUZIONE

nonché compagna di vita, e il figlio Federico - per la fiducia che hanno riposto in tale progetto, per avermi aiutato, con premura e convinzione, a realizzarlo. Senza questo sostegno, avvertito sul piano sentimentale prima ancora che pratico, questo volume non avrebbe visto luce. Un ultimissimo ma doveroso ringraziamento, infine, va all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli e a Massimiliano Marotta che, avendo conosciuto Mimmo personalmente, avendo quindi potuto apprezzarne la statura intellettuale e umana, ha offerto senza esitazioni il pieno sostegno a questa pubblicazione.

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lo non credo al nichilismo antieuropeo: secondo me non si ritornerà allo status quo ante, qualunque sia il giudizio che si voglia dare. Il processo di unificazione europea è certamente totalmente egemonizzato dalla borghesia, su questo non c'è ombra di dubbio, ed è un processo che si sviluppa in modo contraddittorio: non credo affatto che sia destinato a sfociare in tempi prevedibili nellafonnazione di uno stato federale. È a metà tra mercato comune e aspirazione ad uno stato federale. La tendenza a costruire aree più larghe non riguarda soltanto l'Europa; guardate per esempio ali' America Latina, ali' Alleanza Bolivariana per le Americhe .. . dove però la contrapposizione all'imperialismo americano è netta e dichiarata, mentre, da questo punto di vista, il nostro atteggiamento è più positivo. Insomma, non credo che si possa ritornare allo status quo ante, non credo che l'Europa si possa mettere sullo stesso piano degli Stati Uniti e credo che l'imperialismo oggi sia rappresentato in primo luogo da questo asse tra USA e Israele. Naturalmente bisogna prendere atto che l'Unione Europea è totalmente egemonizzata dalla borghesia e combattere su questo terreno. Così come, dal punto di vista di Marx

ed Engels, era chiara la consapevolezza che l'Unità d'Italia era totalmente egemonizzata dalla borghesia ma questo non significava che si dovesse rimpiangere il frazionamento statale. La situazione oggi naturalmente è diversa: non si va verso uno stato unitario, però non credo che sia una parola d'ordine di sinistra quella che invita ad uscire dall'Unione Europea. E in ogni caso è una parola d'ordine velleitaria. Da Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra - colloquio con Domenico Losurdo, Firenze 31 ottobre 2009

In occasione dell'ultima riunione a Roma {luglio) del Coordinamento, prima del mio (breve) intervento fu ***** a invitarmi a criticare pubblicamente le parole d'ordine di fuoriuscita dall'Europa. Mi pento di non aver seguito questo consiglio. Domenico Losurdo (email inviata a Emiliano Alessandroni il giorno 18/04/2016 ore 20.54)

I. PRIMO, SECONDO E TERZO MONDO: GLI USA, L'EUROPA E LA CINA1

Isolare il nemico principale ed unire tutte le forze che possono essere unite: è un principio che si trova più volte enunciato nelle opere di Mao Tsetung; ed è un principio che Ciu En-lai ha sempre cercato di applicare nella sua attività di primo ministro. Nel pubblicare le Proposte riguardanti la linea generale del ,novùnento co1nunista internazionale, nel giugno del 196.3, il PCC aveva caratterizzato la situazione internazionale in questi termini: «Profittando della situazione creatasi dopo la seconda guerra mondiale e sostituendosi ai fascisti tedeschi, italiani e giapponesi, gli imperialisti americani cercano di fondare un immenso impero mondiale senza precedenti. Il loro obiettivo strategico è sempre 1

Testo originale privo di titolo. Introduzione a Ciu En-lai, Appoggio alle lotte dei paesi e popoli del secondo mondo, in Ciu En-lai, Scritti e discorsi, a cura di Domenico Losurdo, Editrice Popolare, Milano 1978.

25

Domenico Losurdo

stato quello di invadere e di dominare la zona intermedia situata fra gli Stati Uniti e il campo socialista, di soffocare la rivoluzione dei popoli e delle nazioni oppresse, di passare alla distruzione dei paesi socialisti, e porre in tal modo tutti i popoli e tutti i paesi del mondo, compresi gli alleati degli Stati Uniti, sotto il dominio e la schiavitù del capitale monopolista americano». Già allora la «zona intermedia» costituita in primo luogo dai paesi capitalistici avanzati dell'Europa occidentale e dal Giappone (che, successivamente, sarà definito il «secondo mondo»), veniva chiamata ad opporsi alla politica d'ingerenza e di sopraffazione degli USA[. ..]. E' significativo che, in occasione della motte di Charles De Gaulle, il presidente Mao Tsetung invia un messaggio alla vedova, il cui testo afferma: «Avendo appreso della motte del generale Charles De Gaulle, tengo a presentarvi le mie commesse condoglianze e a rendere un sincero omaggio al defunto, combattente inflessibile contro l'aggressione fascista e per la salvaguardia dell'indipendenza nazionale della Francia». In quella stessa occasione, Ciu En-lai inviava a sua volta un messaggio, dello stesso tenore, al presidente della Repubblica francese e al suo futuro ospite in Cina, Georges Pompidou (Cfr. Pekin In/onnation, 1970, n. 46). Come emerge da ciò, tratto costante della politica estera della Repubblica Popolare Cinese è l'incoraggiamento per la lotta dei paesi piccoli e medi in difesa della loro indipendenza e sovranità, lotta che colpisce «i più grandi sfruttatori ed oppressori internazionali della nostra epoca»[ ...]. E' in questo quadro che va collocata la visita in Cina effettuata dal presidente Pampidou nel settembre 1973. Ciu En-lai (che pochi giorni

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PRJMo, SECONDO ETERZOMONDO' GLI UsA, L'EUROPA E LA CINA

prima, a nome del Comitato Centrale, aveva letto la relazione politi.ca al X Congresso del PCC), ricevendo l'ospite francese, dopo aver sottolineato i crescenti pericoli di guerra, dichiara: «Noi sosteniamo tutte le giuste lotte condotte dai popoli dei diversi paesi. Noi appoggiamo anche i popoli europei che s'uniscono per preservare la loro sovranità e la loro indipendenza. E noi siamo a favore di questo punto di vista: la causa dell'unità europea, se condotta a termine, contribuirà al miglioramento della situazione mondiale». Ciu Enlai confermerà questo atteggiamento nel suo Rapporto alla IV assemblea popolare nazionale il 1.3 gennaio 1975, allorché dichiara: «Appoggiamo la lotta dei paesi e dei popoli del secondo mondo contro il controllo, le minacce e le vessazioni delle superpotenze, e gli sforzi compiuti dai paesi dell'Europa occidentale per unirsi in questa lotta». Come primo ministro del governo cinese, Ciu Enlai ha dato un grande contributo alla costruzione del fronte unito più largo possibile ... contro l'imperialismo amencano.

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II. L'IDEOLOGIA DELLA GUERRA E IL MITO DELLA TRANSLATIOIMPERII DALL'EUROPAAGLI USA1

1. Autocoscienza europea, «guerra santa» ed espan-

sione planetaria Nel 1772,ArthurYoung calcola che, su 775 milioni di abitanti del globo terrestre, a godere della libertà sono soltanto 33 milioni, ed essi son tutti concentrati in una zona piuttosto limitata del pianeta, con esclusione dell'Asia, Africa, quasi tutta l'America, nonché la parte meridionale e orientale della stessa Europa2 • Si tratta di un tema successivamente ripreso e sviluppato con eloquenza da Adam Smith:

Titolo originale: Idee d'Europa e ideologie della guerra, in Luciano Canfora (a cura di), Idee d'Europa, Edizioni Dedalo, Bari 1997. 2 Riportato in S. Drescher, Capitalism anàAntislavery. Bn"tish Mobilization in Comparative Perspective, New York-Oxford, University Press, 1987, p. 17. 1

29

Domenico Losurdo Siamo portati a credere che la schiavitù è quasi estirpata per

il fatto che nulla sappiamo di essa in questa parte del mondo, ma, ancora ai gionù nostri, essa è pressoché universale. Una piccola parte dell'Europa occidentale è la sola porzione del globo ad essere immune, esi tratta di ben poca cosa rispetto ai vasti continenti in cui la schiavitù ancora predomina 3.

Europa o Occidente si raffigurano compiaciuti come la minuscola isola della libertà e della civiltà in mezzo ali'oceano tempestoso della tirannide, della schiavitù e della barbarie. Per procedere a tale autocelebrazione, Young e Smith sono però costretti a sorvolare su un particolare tutt'altro che trascurabile: la tratta dei neri, che comporta la forma più brutale di schiavitù, la chattel slavery, e che vede da secoli impegnata per l'appunto l'Europa occidentale, a cominciare proprio dall'Inghilterra liberale che di quel commercio di carne umana si è procurato il monopolio, l'Asiento, strappandolo alla Spagna. Dall'America, la tratta dei neri ci riconduce all'Africa. Da Hume la tratta degli schiavi viene evocata, ma solo per essere messa sul conto delle stesse vittime. A dimostrazione del fatto che le «nazioni europee» costituiscono «quella parte del globo che nutre sentimenti. di libertà, onore, equità e valore superiori al resto dell'umanità»4, il filosofo inglese fa notare che «si può ottenere qualsiasi cosa

A. Smith, Lectures on Jurispruàence , (1762-3 e 1766), Indianapolis, LibertyClassics (=voi. V dell'ed.di Glasgow), 1982,pp. 451-2 (corso di lezioni del 1766). ◄ D. Hume, The History of England, Indianapolis, Liberty Classics, 1983 (sulla base dell'ed. del 1778), voi. I, p. 161. 3

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L'IDEOLOGIA DELLA GUERRA E IL MITO DELLA TRANSlATIO L\fPERII

da un negro se gli si offre una forte bevanda alcoolica, e si può facilinente riuscire a fargli vendere non solo i propri figli, ma la moglie e l'amante per un barile di acquavite». C'è allora motivo di credere che i neri «siano per natura inferiori ai bianchi» e inferiori sino al punto da esser privi di ogni «barlume» di ingenuity, e cioè di ingegno ma anche di spirito libero5. Smith e Hume criticano, in quanto economicamente improduttiva, la schiavitù, ma la realtà di tale istituto non interviene a gettare ombra sul quadro luminoso dell'Europa che essi tracciano. In Locke, invece, la giustificazione della schiavitù nelle colonie, a carico di uomini «per legge di natura soggetti al dominio assoluto e all'incondizionato potere deiloro padroni», va di pari passo con la celebrazione dei «nostri paesi occidentali» come luogo esclusivo della libertà, abitati come sono da «gente intrattabile, e irrimediabilinente caparbia e ostinata», la quale certo non tollererebbe la «castrazione» subita dai «maomettani» dell' «impero ottomano»6 • Si comprende allora che l'autocoscienza o falsa coscienza della «sola porzione del globo» ad essere libera non viene scossa neppure dall'intervento militare con cui Inghilterra liberale prima e Francia ' D. Hume, O/ National Characte,;, in Essays Mora! Politica! and Literary (1772 e 1777), Indianapolis, Liberty Classics, 1987, pp. 214 e 208 nota; tr. it. in Opere, a cura di E. Lecaldano e E. Mistretta, Bari, Laterza, 1971, voi. II, pp. 624. e 618 nota. 6 Sulla giustificazione della schiavitù in Locke, cfr. D. Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, Roma, Editori Riuniti, 1992; pp. 354-5; sulla contrapposizione Oriente-Occidente, cfr. J. Locke, A Third Letter /or Tokration (1692), in Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, Torino, UTET, 1977, p. 673.

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napoleonica poi cercano di reintrodurre a S. Domingo la schiavitù scossa dalla rivoluzione dei neri guidati da Toussaint Louverture: «Uno Stato nero nell'arcipelago occidentale» - scrive «The Times» - «è radicalmente incompatibile con l'intero sistema della colonizzazione europea». E dunque: «In questa zona l'Europa recupererà, ovviamente, l'influenza e il dominio che essa giustamente rivendica in virtù della superiore saggezza e delle superiori doti dei suoi abitanti»7. Abbiamo visto Smith celebrare l' «Europa occidentale» e Hume, indifferentemente, le«nazioni europee» e i «bianchi»: un'identità che balza più netta all'occhio nelle colonie inglesi in America e negli USA, dove ad essere oggetto di celebrazione è la «razza bianca ovvero europea»8, la cui superiorità tende sempre più ad asswnere un fondamento «naturale». Le categorie da Burke fatte valere a proposito della «razza eletta dei figli d'Inghilterra» ovvero della «nazione nelle cui vene circola il sangue della libertà» (è una questione di «genealogia», contro la quale impotenti si rivelano gli «artifici umani>>9), queste medesime categorie vengono fatte valere da buona parte della cultura europea ; Riportato in D. Geggus, British Opinion and the Emergence o/ Haiti, 1791-1805, in]. Walwin (ed.), Slaveryand Bn'tish Sociefy 1776-1846,London, Macmillan, 1982,pp. 1.36-7. 8 Così, ad esempio, si esprime uno dei più prestigiosi difensori dell'istituto della schiavitù: cfr.J. C. Calhoun, Speech on the Reception o/Abolition Petitions (18.37), in R. M. Lence (a cura di), Union and Liberty. The Politica! Philosophy o/John C. Calhoun, Indianapolis, Liberty Classics, 1992, p. 47.3. 9 E. Burke, Speech on Moving His Resolution /or Conciliation with the Colonies (1775), tr. it. Mozione di conciliazione con le colo-

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e occidentale del tempo per spiegare il rapporto tra metropoli e colonie o resto del mondo. All'interno della minuscola isola della libertà, i singoli paesi rivaleggiano tra di loro, ma resta il fatto che a quell'isola compete, rispetto all'oceano sconfinato della schiavitù, un primato che non è meramente storico. Burke fa tlll'altra osservazione impo1tante. Proprio nelle colonie americane dove è presente o è più diffuso l'istituto della schiavitù la libertà appare «qualcosa di più nobile e di più liberale». Qui, i liberi «sono più fortemente e più ostinatamente attaccati alla libertà» che non gli abitanti delle colonie settentrionali: «la superbia dell'imperio si combina con lo spirito di libertà, lo fortifica e lo rende invincibile»io. Per di più -si può aggillllgere-la presenza di schiavi neri, e il rappo1to di separazione e conflittualità con loro esistente, stimola tra i bianchi liberi il sentimento di uguaglianza. Qualcosa di simile avviene a livello planetario. Ben lllllgi dall'indebolirla, il soggiogamento progressivo del resto del mondo e la sua sottomissione a rapporti di lavoro servili o semiservili, potenzia ulteriormente l'autocoscienza dell'Europa come rappresentante privilegiata o esclusiva della libe1tà, e rafforza altresì il senso d'identità e di comtllle appa1tenenza, nonostante la molteplicità degli Statiche la costituiscono, ad tlll'entità culturale e politica Wlica e infinitamente superiore a tutte le altre. O ltre che di «bianchi», Hume parla anche di «Germani» e di «nazioni nordiche» che danno vita nie, in Id.,Scritti politici, a cura diA. Martelloni, Torino, UTET, 1963, pp. 100 e 142-3. 10 lvi, p. 91.

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all'Europa cristiana e amante della libertà 11; e, in questo medesimo senso, Burke inneggia ai «nostri antenati gotici>>12 • Si tratta di un tema chiaramente desunto da Montesquieu che, nel far discendere la libertà inglese da lui tanto ammirata dai «boschi» dei «Germani>>13 , celebra come «liberi» «i popoli del nord e di Germania>>14, mentre denuncia nei Turchi e nelle «nazioni meridionali» una «grande minaccia per l'Occidente», ovvero per il «nord» e per «l'Europa»". La quale ultima è sinonimo anche di «cristianità», come risulta già dal titolo del celebre libro di Novalis, Christenheit oder Europa, o dalla celebrazione che A. W. Schlegel fa delle Crociate come espressione del «patriottismo cristiano-europeo»16. Più tardi, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, il pathos dell'Europa, dell'Occidente e del Nord s'intreccia, in larghi ambienti culturali e politici, col mito «indo-europeo» e «ariano». Così in Renan: l'insieme delle «nazioni europee», l' «Europa» come «confederazione di Stati D. Hume, The History ofEngland, cit., pp. 160-1. E. Burke, Speech on Moving His R.esolution/or Conciliation with the Colonies, tr. it. cit., p. 91. u Ch. L. S. de Montesquieu, Esprit des lois (1748), cap. XI, 6 (in Oeuvres complètes, a cura di R. Caillois, Paris, Gallimard, 1949-51, voi. II,p. 407). 1• Ch. L. S. deMontesquieu,Lettres Persanes (1721), CXXXI, (in Oeuvres complètes, cit., voi. I, p. 328). is Ch. L. S. de Montesquieu, Réflexionssur la monarchie universelle en Europe (17.34), in Oeuvres complètes, cit., voi. II, p. 29. 16 A. W. Schlegel, Ueber das Mittelalter (180.3), in «Deutsches Museum», hrsg. von F. Schlegel, Wien, 1812-3 (ristampa anastatica a cura di E. Behler, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1975), voi. II, pp. 438-9. 11

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uniti dalla comwie idea di civiltà», !'«Europa cristiana [. . .] così superiore all'Oriente» comincia a prender forma con la «conquista germanica del V e del VI secolo [che] è divenuta in Europa la base di ogni conservazione e di ogni legittimità»; ma questa entità culturale e politica ha a sua fondamento la «razza indoeuropea» ovvero «razza ariana» con la sua «grande superiorità»17• Così in Lapouge, per il quale «ariano» è sinonimo di «Homo Europaeus»18, così, per quanto riguarda l'Italia, in Lombroso, il quale contrappone 1'hon10 europaeus (rappresentante della razza ariana o germanica) all'ho,no 1nendionalist2• Fin qui, si tratta di esclusioni etniche sancite se non coralmente in modo abbastanza compatto dalla cultura europea e occidentale. Più tormentata è la vicenda degli ebrei. 30

Lettera a N.W. Senior del25 marzo 1852, in A. de Tocqueville, Oeuvres complètes,eit., voi. VI, 2,p. 151. 31 A. de Tocqueville,De la démocratieen Amerique (1835-40), tr. it. in Scn'ttipolitici, a cura di N . Matteucci, Torino, UTET, 1968, voi. II, p. 42. 32 Cfr. D. Losurdo, La comunità, la morte, l'Occidente. Heidegger e !'«ideologia della gue"a», Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 84.

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Secondo Renan, essi sono ormai parte integrante della storia dell'Europa e dell'Occidente, anzi della Civiltà in quanto tale, dato che costituiscono, assieme agli ariani, «la grande famiglia ariano-semitica», l'insieme delle «grandi razze civilizzate» ovvero delle «grandi razze nobili», il cui dominio «è nell'ordine provvidenziale dell'umanità» e che soggiogano, «sterminano» o «rigenerano» le «razze inferiori», quelle ferme «allo stato selvaggio>>''. Diversamente hanno proceduto i cantori più esaltati prima del cristianesimo e poi dell' arianesimo, i quali, talvolta, per escludere più facilmente gli ebrei dalla spazio sacro della civiltà europea e occidentale, non hanno esitato a inventare la figura di un Gesù ariano. Non ci sono dubbi, comunque, per Chamberlain che si tratta di un «popolo asiatico»>4; alcuni decenni più tardi, la «soluzione finale» sarà preceduta e accompagnata dalle incessanti messe in guardia dei gerarchi nazisti contro una «razza» doppiamente estranea all'Europa, in quanto rinviante alle «centrali semitico-ebraiche del Vicino Oriente»35 e in quanto ispiratrice del «bolcesvismo orientale>>36 • Ma non solo gruppi etnici, anche gruppi sociali possono essere razzizzati ed espulsi, o meglio scomunicati, dall'Europa. E' quello che si verifica soprattutto in ocn E. Renan, Histoire des langues sémitiques, cit., pp. 580-1 e 585-6; La ré/orme intellectuelle et morale de la France, cit., p. 390. 3• H. S. Chamberlain,Die Grundlagendes neum:ehten]ahrhunderts (1898), Milnchen, Bruckmann, s.d. p. 382. » A. Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts (1930), Milnchen, Hoheneichen, 1937, p. 55. 36 ]. Goebbels, Reden 1932-1945, a cura di H.Heiber (1971-72), Bindlach, Gondrom, 1991, voi. II, p. 175.

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casione di grandi rivoluzioni. L'irruzione sulla scena politica e storica delle masse popolari viene assimilata, da una larga pubblicistica, tra il 1789 e il 1848, ad una «nuova invasione dei barbari», la quale minaccia l'Europa, l'Occidente e la civiltà in quanto tale37• Ad essere presi di mira sono soprattutto i dirigenti del movimento rivoluzionario: i giacobini vengono denunciati da Burke come «selvaggi feroci»38, peggiori degli stessi turchi 39 (i nemici per eccellenza della cristianità europea); anzi, a ben guardare, secondo sia il whig inglese che secondo Constant, si tratta di «antropofagi»4° (è la categoria classica per denunciare i barbari). Ed ecco allora che l'Europa e l'unità europea assurgono al ruolo di parole d'ordine centrali della crociata controrivoluzionaria. Sì, il grande giurista svizzero del Settecento, Vattel, ha definito l'«Europa moderna come una specie di Repubblica, i cui membri, indipendenti ma legati dall'interesse comune, si riuniscono per mantene1vi

Cfr. D. Losurdo, Marx e il bilancio storico del Novecento, Roma, Bibliotheca, 199.3, p . .31. 38 E. Burke,R.emarks on the Policyofthe Allies withrespect to France (179.3), in Id., The Works, London, Rivingston, 1826, voi. VII, pp. 12.3-4 e 145. 39 Siveda la lettera al conte E. Dalton del 6 agosto 179.3, in E. Burke, The Co"espondence o/Bdmund Burke, Cambridge-Chicago, University Press, voi. VII, a cura di P. J. Marshall e J. A Woods, 1968, p . .382. • 0 Per quanto riguarda Burke, cfr. R.eflections on the R.evolution in France (1790)in The Works, cit., voi. V, p. 146; per quanto riguarda Constant, cfr. H . Guillemin, Benjamin Constant muscadin 1795-1799, (VI ed.) Paris, Gallimard, 1958, p. 13. 3;

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l'ordine e la libertà» 41 . E sottoscrivendo questa tesi, Burke e Gentz dichiarano che non si può rimanere indifferenti a quanto sta avvenendo in Francia42 : il nuovo regime è «in contraddizione con l'intero tenore della legge pubblica europea»; e, dunque, «questo male nel cuore dell'Europa dev'essere estirpato a partire già dal centro», in modo da evitare qualsiasi contagio43 • Qualcosa di analogo si verifica in occasione della rivoluzione d'Ottobre. Qualche decennio prima, Quinet annovera la Russia, assieme all'Inghilterra e alla Francia, tra i «re Magi» chiamati a portare la luce della civiltà e del cristianesimo europei all'Oriente da colonizzare44. Ma, con l'avvento dei bolscevichi-dichiara Spengler facendosi portavoce di un'opinione largamente diffusa - la Russia ha gettato via la «maschera "bianca"», per diventare «di nuovo una grande potenza asiatica, "mongolica"», animata da «odio infuocato contro l'Europa» e, come dimostrano i suoi appelli alla sollevazione dei popoli e paesi coloniali, parte integran•• M. de Vattel, Le droit des gens ou pn'ncipes de la loi nature/le (1758), LibroIII, cap.III, § 47(sivedala riedizionecuratadaJ. Brown Scott, Washington, «The Classics of Intemational Law», 1916, voi. II, pp. .39-40). 42 Burke procede alla trascrizione dei brani da lui considerati più significativi di Vattel: cfr. The Works, cit., VII, pp. 201-215 (si veda in particolare a p. 211). Per quanto riguarda F. v. Gentz, Uber den Ursprung und Charaleter des Krieges gegen diefram:.osische Revolution, 1801, inAusgewahlte Schriften, a cura di W. Weick, Stuttgart undLeipzig, Rieger, 18.36-18.38, voi. II, p. 195. 0 E. Burke, Headsfor Consideration onthe Present State of A/fairs (1792), in The Works, cit., voi. VII, pp. 99 e 114. " E. Quinet, Le Christianisme et la Révolution française, cit, p. 148.

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te, ormai, dell'«intera popolazione di colore della terra, che essa ha compenetrato del pensiero della comune resistenza» e lotta contro l' «umanità bianca» 45. Il bando di scomunica dall'Europa può avvenire con modalità diverse. La rivoluzione francese viene talvolta spiegata dalla pubblicistica reazionaria come il risultato della sollevazione delle popolazioni autoctone, ovvero dei gallo-romani sconfitti dai Franchi, cioè da quei Germani, quelle popolazioni nordiche che fondano l'autentica Europa cristiana. Se per un verso assimila i giacobini ai turchi, perun altroBurke mette la rivoluzione francese sul conto di oscure manovre di illuministi, Illuminati ed ebrei4, Oltre che come «mongoli» e «asiatici», i bolscevichi vengono bollati come ebrei o loro complici. In ogni caso - dichiara Henry Ford, il magnate dell'industria automobilistica americana, in questi anni freneticamente impegnato a mettere in guardia contro il «complotto ebraico-bolscevico» - «la rivoluzione russa è di origine razziale, non politica»47. In questo contesto, la teoria del complotto ebraico, che fa capolino in occasione delle grandi rivoluzioni, mira anche ad espellere dall'Europa autentica movimenti politici e sociali intollerabili dal punto di vista dell'ordine costituito.

•s O. Spengler, Jahre der Bntscheidung, Mi.inchen, Beck, 1933, p.150. • 6 Cfr. D. Losurdo, Vincenzo Cuoco, la rivolw.ione napoletana del 1799 e la comparatistica delle rivolw.ioni, «Società e storia», n . 46, 1990, pp. 907-8. 47 H. Ford, Der Intemational Jew (1920), tr. ted. Der intemationale Jude, Leipzig, Hammer, 1933, p. 145.

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Più che un luogo geografico, l'Europa è un principio di legittimazione. Dato che essa è sinonimo di civiltà, le guerre al suo interno sono accompagnate da reciproci bandi di scomunica dalla civiltà e dall'Europa stessa cui procedono le parti contrapposte. Contemporaneo di Smith e Hume, anche Blackstone celebra l'Europa come luogo della libertà, ma sviluppando al tempo un'ulteriore dicotomia che contrappone questa volta all'Inghilterra, dove «la libertà politica fiorisce al massimo grado» e «si avvicina alla perfezione», agli Stati del «continente europeo», dove invece il dispotismo è di casa48. Alle spalle di tale contrapposizione c'è l'ascesa imperiale di un paese che ha sconfitto i suoi rivali, la Spagna prima e la Francia poi (la guerra dei Sette Anni si conclude due anni prima della pubblicazione da parte del grande giurista inglese dei suoi Co11t1nentaries on the Laws o/ England). Lo scontro tra Inghilterra e Francia si acutizza ulteriormente con la rivoluzione francese e l'awento di Napoleone. Il bilancio, ideologico, di tali vicende possiamo leggerlo in J. S. Mili. Questi vede incarnato il «governo rappresentativo» in primo luogo negli Anglosassotù, i quali sotto tale aspetto si distinguono nettamente e positivamente non solo rispetto ai barbari fermi allo «stato selvaggio, o quasi», che costituiscono la «grande maggioranza della razza umana», ma anche rispetto ai popoli del «mezzogiorno d'Europa», la cui «indolenza» e «invidia» impediscono lo sviluppo della società industriale, l'affermarsi di un solido gruppo dirigente ◄• Riportato

in R. Blackburn, The Overthrow ofColonia! Slavery 1776-1848 (1988),London•NewYork, Verso, 1990,p. 81.

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e l'ordinato funzionamento delle istituzioni. Persino nel confronto con gli altri popoli che abitano il cuore dell'Europa, gli Anglosassoni finiscono col rivelarsi superiori, privi come sono di quelle caratteristiche («sottomissione», «rassegnazione», statalismo) tipiche dei Francesi e delle «nazioni continentali», tutte «incancrenite dalla burocrazia» e dall'invidiosa smania egualitaria: «più le istituzioni sono uguali e più si crea un numero infinito di posti; di conseguenza l'eccesso esercitato da tutti su ciascuno, e dell'esecutivosu tutti, diventa più mostruoso che mai»49, Ancora in occasione del conflitto franco-prussiano, autorevoli personalità inglesi chiamano a manifestare la solidarietà con la Prussia, rappresentante eminente della «civiltà europea» impegnata nella lotta contro un impero sinonimo di «reazione e barbarie»,o, anzi nella lotta - per dirla questa volta con Bismarck - contro «una nazione di nullità, un gregge» istupidito dalla tradizione rivoluzionaria, contro «trenta milioni di ebeti come negri» (Kaffer), i quali «vivono solo nella massa» e sono privi di qualsiasi «sentimento individuale del proprio io»-51 • Con l'acutizzarsi della rivalità anglo-tedesca e poi con lo scoppio della Seconda guerra dei Trent'anni, la dicotomia civiltà europea/barbarie extra-europea ◄9

J. S. Mili, Considerations on Representative Govemment

(1861); tr. it., Considerazioni sul Governo rappresentativo, a cura di P. Crespi, Milano-Firenze-Roma, Bompiani, 1916,pp. 61-4, passim. 5° Cfr. P. M. Kennedy, The Riseof the Anglo-German Antagonism 1860-1914, London, Ashfield, 1980, p. 118. 51 Riportato in F. Herre, Deutsche und Pranzosen, Bergisch Gladbach, Liibbe, 1983,pp. 173 e 167.

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si disloca diversamente. Fino a quel momento, ariani, germani, teutoni, anglosassoni, vengono evocati a maggior gloria dell'Europa e dell'Occidente nel suo complesso, e, in modo tutto particolare, del ceppo abbracciante unitariamente Germania, Gran Bretagna e USA. E' «pressocché universalmente ammesso» scrive nel 1842 uno stimato etnologo inglese - che il «corpo collettivo delle nazioni europee» discende dalla «razza ariana ovvero indo-europea»; qualche decennio più tardi, un cantore dell'imperialismo britannico celebra negli inglesi e nei tedeschi le «due grandi correnti della razza teutonica»~2. Nel 1899, èlo stesso ministro inglese delle colonie,Joseph Chamberlain, a chiamare Stati Uniti e Germania a strin~ere, assieme al suo paese, un'alleanza «teutonica»'3. E solo più tardi, che da strumento di corale auto-celebrazione dell'Europa e dell'Occidente (e soprattutto dei loro paesi-guida), le categorie in questione diventano strumenti di lotta «fratricida». Negli USA, con l'intervento in guerra contro la Germania, il termine «teutone» smarrisce la connotazione positiva e celebratoria, che aveva in larghi ambienti culturali e politici, per divenire un insulto rivolto ai nuovi nemici' 4 • La scissione dell'Europa e dell'Occidente è anche la scissione della razza ariana. Alla fine dell'Ottocento, mentre sulle due rive H. A. Mac Dougall, R.acial Myth in English History. Trojans, Teutons, and &glo-Saxons, Montreal-London, Harvest-University Press of New England, 1982, pp. 120 e 98. ss Cfr. H. Kissinger,Diplomacy, NewYork, Sim.on &Schuster, 1994, p. 186. s, 'l'h. F. Gosset, R.ace. The History ofan Idea inAmerica, New York, Schocken Books, 1965, p. 341. 52

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del Reno monta l'ondata sciovinista, Nietzsche prende nettamente posizione a favore della Francia con un linguaggio assai significativo: «La "Norddeutsche Zeitung" [. .. ] vede nei francesi dei "barbari" - per quanto mi riguarda io cerco il continente nero, là dove si vorrebbero liberare "gli schiavi", dalle parti della Germania del Nord» (l'allusione è alla propaganda guglielmina che legittima e trasfigura la sua espansione coloniale come crociata per la liberazione degli schiavi africani)ss. L'espulsione dall'Europa avviene etichettando il nemico come barbaro e negro. Il momento di svolta è rappresentato dal delinearsi di quella che un autore americano, Lothrop Stoddard (assurto a rapida notorietà internazionale ed elogiato da due presidenti USA) definisce la «Guerra di secessione dei bianchi», la «guerra civile bianca», ovvero la «nuova guerra del Peloponneso» della «civiltà bianca»s6, E' una guerra che, distruggendo la «solidarietà bianca», e dilaniando in primo luogo l'Europa, «il paese dei bianchi, il cuore del mondo bianco», ha rappresentato il «suicidio della

F. Nietzsche, Niek.schecontra Wagner(1888), Wohin Wagner gehort. 56 L. Stoddard, The Rising Tide o/Color Against White-WorldSupremac-y (1920) Le flot montant des peuples de couleur contre la suprematie mondiale des Blancs, tr. fr. dall'americano, Paris, Payot, 1925, pp. 7-8 e 15.3; il lusinghiero giudizio del presidente Harding è riportato ad apertura della traduzione francese; per i riconoscimenti aStoddard attribuitida Hoover, cfr. S. Ki.ihl, The Nazi Connection. Eugenics, American R.acism and German National Socialism, NewYork-Oxford, UniversityPress, 1994,p. 61. 55

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razza bianca», come dimostrano la rivoluzione d'Ottobre e la «marea montante dei popoli di colore>>57• A partire dal 1914,l'ideologia dell'Intesa e persino personalità illustri del livello di Hobhouse e Boutroux bollano come «goti», ovvero come «discendenti degli unni e dei vandali>>5 8, i tedeschi, che tali continueranno ad essere nel corso del secondo conflitto mondiale. Sul versante opposto, Thomas Mann denuncia l'Inghilterra come «una potenza extra-europea e anzi ano-europea, totalmente priva di coscienza europea e del sentimento di solidarietà europea», in ultima analisi una «potenza asiatica» che, non a caso, pur di perseguire i suoi disegni di egemonia asiatica e mondiale, non esita a «deviare la spinta espansionistica russa da Est ad Ovest, dirigendola contro l'Europa>>59 . È un tema più tardi ampiamente sviluppato da Schmin, secondo il quale «la creazione di un impero britannico d'oltremare» sta a significare «la trasformazione dell'essenza dell'isola inglese. Questa, da parte distaccata della terraferma europea che era, si trasforma in una parte del mondo oceanico. A partir da questo momento, l'Inghilterra non può esser più considerata come appartenente al continente europeo. Essa ha rescisso il suo connubio col continente per celebrare quello con l'oceano»60 • Il politologo tedesco riprende, rovesciandone il giudizio "Ivi, pp. 17.3, 159 e 19.3-5. ~s Cfr. D. Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, cit., pp. .347-8. ~9 Th. Mann, Betrachtungen eines Unpolitischen (1918), a cura di H. Helbling, Frankfurt a. M., Fischer, 1988, pp.422-.3. '° C. Schmitt, La mer contre la te"e (1941), in Id.,L'unità del mondo e altri saggi, a cura di A. Campi, Roma, Pellicani, 1994, pp. 256-7.

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di valore, la contrapposizione tra Inghilterra e continente cara, come abbiamo visto, anche a Mili: L'Inghilterra divenne signora del mare e costruì col suo domi-

nio del mare, esteso su tutto il globo, un impero mondiale britannico disseminato in tutti i continenti [. .. )Il termine 'continentale' acquisì il significato secondario di arretrato eia popolazione che vi abitava divenne 'backward peoplè [...) Disraeli, il più importante politico dell'epoca della regina Vittoria, disse con riferimento all'India, che l'impero britannico era una potenza più asiatica che continentale. Egli fu anche colui il quale nell'anno 1876 unì il titolo della regine d'Inghilterra con quello di imperatrice dell'India. In questo trovò espressione il dato che la potenza mondiale inglese deriva dall'India il suo carattere di impero. Lo stesso Disraeli aveva già nel 1847, nel suo romanzo Tancred, avanzata la proposta che la regina d'Inghilterra dovesse trasferirsi in India: "La regina dovrebbe mettere insieme una grande flotta e con tutta la sua corte e tutto il ceto dominante traslocare, e spostare la sede dell'impero da Londra a Delhi. Lì troverà un regno enorme e pronto, un esercito di prima qualità e grandi rendite""·

L'Inghilterra conquista il dominio dei mari, grazie anche all'azione di «predoni,privateers, corsari, pirati, filibustieri», e dunque attraverso imprese belliche totahnente estranee allojus publicu1n europaeu1n62 • Disraeli «sapeva che cosa diceva allorché faceva queste proposte. Egli presentì che l'isola non era più un pezzo 61

C. Schmitt, Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung (1942; 1954), tr. it. Terra e mare, a cura di A. Bolaffi, Milano, Giuffrè, 1986,pp. 75-6. 62 C. Schmitt, La mer contre la te"e, tr. it. cit., p . 256.

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d'Europa. Il suo destino non era più necessariamente legato con quello dell'Europa. Essa poteva pertanto andarsene e, quale metropoli di un impero mondiale marittimo, cambiare la sua sede. La nave poteva levare le ancore e gettarle di fronte ad un altro continente»63 • In conclusione, nulla ha a che fare la Gran Bretagna con l'Europa propriamente detta. Se l'Intesa e poi gli USA espellono i tedeschi dall'Europa e dall'Occidente scomunicandoli come unni e vandali, la Germania procede a sua volta ad escludere dalla comunione con la civiltà i suoi nemici, bollandoli come irrimediabilmente bacati a causa delle contaminazioni apportatevi dai negri (la Francia che si avvale delle truppe coloniali è per Spengler un paese «euro-africano» 64) e dagli ebrei, essi stessi barbari e non a caso dalla propaganda nazista spesso associati ad altre razze «inferiori»: «ebreo marocchino» è il ministro inglese della guerra agli occhi di Hitler, e «sangue ebraico» scorre nelle vene di Roosevelt, la cui moglie ha comunque un «aspetto negroide» 65• Del resto, il caporione nazista non fa che ritorcere lo stereotipo agitato, nel corso della prima guerra mondiale, da certi settori del mondo inglese che, con riferimento alla propaganda antizarista sviluppata presso gli ebrei russi e polacchi dalla Germania gugliehnina, la bollano come 63

C. Schmitt,Land und Meer, tr. it. cit., p. 76. O. Spengler, Frankreich und Europa (1924), in R.eden und Aufsiitze, a cura di I. Komhardt, Miinchen, Beck, 1937, p. 88. 6s Si vedano iBormann-Vermerke (sono la trascrizione delle conversazioni a tavola di Hitler curata da Martin Bormann), tr. it., A.Hitler, Ideesul destinodelmondo,Padova,Eruzioni diAr, 1980. p. 178 (12-13 gennaio 1942) ep. 476 (1 luglio 1942). 64

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una nazione «ebraica» e dominata, più precisamente, dagli «uruù-askenaziti»66. Ma è Schmitt a procedere alla più organica giudaizzazione di un paese nemico, da considerare estraneo e ostile all'Europa. A contribuire potentemente a distaccare dal continente l'Inghilterra, che «venne in tal modo sradicata e deterrestrizzata», sino a smarrire ogni legame autentico con «terra e patria», è un ebreo, un membro del popolo apolide per eccellenza, privo com'è di radici e di legami col suolo. Ma Disraeli - aggiunge il politologo tedesco - è anche un «l'Abravanel del XIX secolo», uno di quei «cabalisti ebrei» che nello scontro fratricida in Europa spiano l'occasione del trionfo della loro razza .. ,67 Alle espulsioni o scomuniche possono far seguito le riammissioni nel seno della civiltà e dell'Europa. Dopo la fine del primo conflitto, e in presenza della minaccia costituita dall'Unione Sovietica, i tedeschi cessano di essere unni agli occhi di Churchill: «Combattendo il bolscevismo, costituendo il baluardo contro di esso, la Germania può compiere il primo passo verso la finale riunificazione col mondo civile»68. Questa l'opinione anche di un illustre filosofo, discepolo di Croce e Gentile. Dopo aver espulso dall'Occidente il bolscevismo e lo stesso movimento spartachista tedeCfr.J. H. Clarke,Englandunderthe Heel ofthe Jew, riportato in A. de Benoist, Psicologia della teoria del complotto, in «Trasgressioni», n. 14, gennaio-aprile 1992, p. 17. 67 C. Schmitt, La mer contre la te"e, tr. it. cit., pp. 258 e 253. 68 Discorso dell'l l aprile 1919, in D. Cannadine (a cura di), The Speeches o/ Winston Churchill, London, Penguin Books, 1990, p. 91. 66

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sco in quanto fenomeno politico propriamente slavo, De Ruggero - è di lui che si tratta - così prosegue: «Contro l'anarchia slava, la Germania ha costituito e costituirà il più potente baluardo della civiltà europea [. . .] Un principio di giustizia ha voluto dalle sue colpe trarre questo motivo profondo di espiazione; essa oggi volge in favore della civiltà europea quelle forze che prima aveva rivolto contro di essa: così si redime e si rinnova»6~ . Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, i tedeschi vengono di nuovo espulsi dall'Europa. Churchill, anzi, rincara la dose: «Ci sono meno di 70 milioni di unni malvagi. Alcuni (so1ne) di questi sono da curare, da uccidere sono altri (others), molti dei quali sono già impegnati nell'opprimere austriaci, cechi, polacchi, francesi e le numerose altre antiche razze che essi ora tiranneggiano e saccheggiano»;o. L'esclusione dall'Europa è anche l'esclusione dalla cristianità (si tratta per l'appunto di una scomunica). Nel 1916, Boutroux condanna la Germania per non

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G. De Ruggero,La lotta civile in Germania (1919), in Scritti politici 1912-1926, a cura di R. De Felice, Bologna, Cappelli, 1963, pp. 203-4. ;o Discorso del27 aprile 1941,in W. Churchill, His Complete Speeches 1897-1963, voi. VI, New York-London, Chelsea House, 1974, p. 6384; su questo brano ha richiamato l'attenzione E. Nolte

(Der europaische Biirgerkrieg 1917-1945. Nationalso:dalismus und Bolschewismus, Frankfurt a. M. Berlin, Ullstein 1987, p. 503), il quale, però, traduce tendenziosamente others con die Anderen, come se si trattasse di tutti gli altri. Peraltro, come emerge dal contesto, agli occhi di Churchill non sembrano essere molti gli appartenenti alla «razza» degli «unni» suscettibili di essere curati e cooptati nel mondo civile.

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essersi ancora «pienamente convertita alla dottrina cristiana del Dio dell'amore e della bontà»71. Ventiquattro anno dopo, Churchill chiama alla lotta contro quei «feroci barbari pagani» che sono i tedeschiì 2 •

3. Vecchia e nuova Europa, vecchio e nuovo Occidente Abbiamo visto Smith, Hume, Tocqueville sussumere le colonie inglesi in America e poi gli USA nella categoria di Europa. Ma questa unità è tutt'altro che indiscussa dall'altra parte dell'Atlantico. Agli occhi di Hamilton, il nuovo Stato appena costituitosi costituisce il luogo sacro e remoto rispetto a «tutti i pericolosi labirinti della politica e delle guerre europee»n. Per questo, nel suo messaggio d'addio, Washington invita i suoi concittadini a mantenersi ben alla larga dagli «affanni delle ambizioni, rivalità, interessi, umori o capricci dell'Europa»i4, il cui comportamento fa pensare a quello degli indiani: «mentre in Europa guerre É. Boutroux, L'Allemagne et la guerre. Deuxième lettre à la revue des Deux-Mondes (15 maggio 1916), in Études d'histoire de la phik>sophieallemande, Paris, Vrin 1926,p. 234. 11

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Così nel messaggio radiofonico del 23 dicembre 1940, riportato in W. Churchill, Great Destiny, antologia a cura di F. W. Heath (1962), NewYork,Putnam' Sons, 1965,pp. 687-9. 13 A. Hamilton, J. Madison, J. Jay, The Federalist (1787-88), a cura di B.F. Wright (1966); tr. it., Il Federalista, a cura di M. D'Addio e G. Negri, Bologna, Il Mulino, p. 75 (n. 7). 74 Messaggio presidenziale del 19 settembre 1796, in G. Washington,A Collection, a cura diW. B. Allen, Indianapolis, Liberty Classics, 1988, p. 525.

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e disordini sembrano agitare quasi ogni nazione, pace e tranquillità prevalgono tra di noi, se si eccettuano alcune zone delle nostre frontiere occidentali, dove gli indiani sono stati molesti: stiamo prendendo le misure opportune per educarli o castigarli»75• Il vecchio mondo viene così relegato tra i barbari assieme ai pellerossa. Tale accostamente continua a farsi a lungo sentire nella tradizione politica americana. Nel 1802, nel commemorare l'anniversario dell'indipendenza degli Stati Uniti, un autore della Founding Era attribuisce a Washington e a Adams il merito di aver «stipulato trattati vantaggiosi con le nazioni dell'Europa e con le tribù che abitano i selvaggi territori dell'Ovest»i6, Dieci anni più tardi, nel dichiararle guerra, Madison accusa l'Inghilterra di colpire con la sua flotta indiscriminatamente la popolazione civile senza risparmiare né donne né bambini, secondo un comportamento simile a quelle dei «selvaggi» pellerossa77• Al pathos dell'Europa subentra ora il pathos dell'Occidente, ma di quello autentico che, seguendo un disegno provvidenziale, è trasmigrato - si sottolinea ripetutamente - al di là dell'Atlantico. L'Oriente sembra cominciare già con l'Europa. Nel 1794, con ;; Lettera al marchese di Lafayette (Philadelphia, 28 luglio 1791), in G. Washington,A Collection, cit., p. 555. ; 6 Cfr. Z. Swift Moore, An Oration on the Anniversary of the Indipendenceof the United States o/America (1802), in Ch. S.Hyneman e D. S. Lutz (a cura di), American Politica! Writing during the Pounding Era 1760-181.5, Indianapolis, Liberty Press 1983, p. 1209. ;, H. S. Commager (a cura di), Documents of American History, New York, Appleton-Century-Crofts, VII ed., 1963, voi. I, pp. 208-9.

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1.., 1DEOLOGIA DELLA GUERRA E

IL MITO DELLA TR.ANSLA110 L\!PERII

lo sguardo rivolto alla rivoluzione francese, un autore della «Founding Era» scrive che «una totale demolizione del vecchio ordinamento» sociale (il totalitarismo si direbbe oggi) può avere senso solo nel «continente orientale» e cioè in Europa78 • E dell'Orientel'Europa continua sostanzialmente a far parte anche nel momento in cui il presidente americano Monroe formula la celebre dottrina che da lui prende il nome e che contesta alle potenze europee il diritto di intervenire in America, in «questo continente», in «questo emisfero», ovvero nell'emisfero occidentale. Alla vigilia della prima guerra mondiale, Theodore Roosevelt ribadisce la dottrina Monroe e ne radicalizza il significato, affermando che l'«emisfero occidentale» deve rimanere immune dall'influenza contaminatrice delle «potenze del Vecchio Mondo»J9, A conflitto già scoppiato, nei primi mesi il giudizio di condanna colpisce indistintamente tutti i contendenti, i quali- osserva un editoriale del «Times» del 2 agosto 1914 - «sono ricaduti nella condizione di tribù selvagge»80 • Ancora nel suo discorso del 26 ottobre 1916, Wilson mette in stato d'accusa «l'intero sistema europeo» che, col suo «collegamento di alleanze e di intese, una rete complicata di intrighi e di spionaggi», ha «saldamente 18

J. Kent, An Introductory Lecture to a Course ofLaw Lectures

(1794), in Ch. S. Hyneman e D. S. Lutz (a cura di), American Politica/ Wnting during the Pounding Bra 1760-1815, cit., p. 948. 79 Th. Roosevelt, An Autobiograpby (1913), New York, Scribner's Sons, 1920, p. 506. so Riportato in R. H. Gabriel, The Courseof American Democratic Thought, New York-Westport-London, Greenwood, 1986 (III ed.), p. 388.

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Uomemco Losurdo

catturato nelle sue trame» e trascinato in una guerra rovinosa «l'intera famiglia dei popoli»81 • Successivamente, man mano che si delinea l'intervento americano a fianco dell'Intesa, la denuncia si concentra in modo univoco sui tedeschi, bollati dalla stampa e da una larga opinione pubblica come i «barbari» che sfidano la «civiltà», come gli «uruù», o come selvaggi che si collocano al di sotto persino «dei pellerossa d'America e delle tribù nere dell'Africa»82 • Una dialettica analoga si sviluppa in occasione della seconda guerra mondiale. Ancora nell'aprile del 19.39, Franklin Delano Roosevelt accusa i paesi europei nel loro complesso di non essere riusciti a trovare metodi migliori, per comporre i loro dissidi, di quelli usati «dagli unni e dai vandali mille e cinquecento anni fa»; fortunatamente, grazie ad una «istituzione tipicamente americana» qual è l'unione che abbraccia tutti i paesi della «famiglia americana», «le repubbliche del mondo Occidentale» (Western world), ovvero del continente americano, riescono a «promuovere la loro comune civiltà sotto un sistema di pace» e a protessere il «mondo occidentale» dalla tragedia che colpisce «il Vecchio Mondo»83. 81

Riportato in C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Volkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Koln 1950; tr. it. di E . Castrucci,

Il nomos della te"a nel diritto internazionale dello «Jus Publicum Europaeum», Milano, Adelphi, 1991,p. .348. 82 Riportato in R. H. Gabriel, The Course o/American Democratic Thought, cit., pp. .394-9. s; «Handsolf the Western Hemisphere». F.D. Roosevelt's PanAmerican DayAddress (15 aprile 19.39),in H. S. Commager (a cura di), DocumentsofAmerican History, cit., voi. II, p. 414.

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L'IoEOLOGIADELLAGUERRAEll, MITODELLA TRANSLATIO L\!PiiRJI

In seguito all'intervento in guerra, il presidente USA concentra il fuoco esclusivamente sulla Germania, senza neppure preoccuparsi in modo particolare delle distinzioni al suo interno, come risulta in particolare dall'idea, espressa nell'agosto del 1944, di «castrare il popolo tedesco» in modo da sventare una volta per sempre il pericolo che esso fa pesare sulla civiltà e l'Occidente84. Si comprende lo sdegno di Schmitt per il fatto che Jefferson contrappone «l'emisfero occidentale» all' «Europa corrotta», la «vecchia e malata Europa» da relegare «tra le spazzature della storia universale»s5. Peggio, la tradizione politica americana guarda agli europei allo stesso modo in cui costoro guardano alle popolazioni coloniali: «Stranamente, la formula dell'emisfero occidentale era diretta proprio contro l'Europa, l'antico Occidente. Non era diretta contro la vecchia Asia o l'Africa, ma contro il vecchio Ovest. Il nuovo Ovest avanzava la pretesa di essere il vero Ovest, il vero Occidente, la vera Europa». E così, «la vecchia Europa» finisce col subire la stessa sorte dell'Asia e dell'Africa, già da sempre escluse dalla civiltà86• Ma non è poi molto diverso dall'atteggiamento qui denunciato quello assunto dalla Germania prima s• J. Bacque, Other Losses (1989), tr. it., Gli altri Lager. I prigio-

nieritedeschi nei campi alleati in Europa dopo la 2ague"a mondiale,

Milano, Mursia, 199.3, p. 21. ss C. Schmitt, Beschleuniger wider Willen, oder: Die Problematik derwestlichen Hemisphiire (1942), tr. it. La lotta per i grandi spazi e l'illusione americana, in L'unità del mondo e altri saggi, eit., pp. 265-6. 66 C. Schmitt, Der Nomos der Brde, tr. it. cit., p . .381.

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guglielmina e poi del Terzo Reich, la quale agita la parola d'ordine dell'Europa autentica, e soprattutto della Mitteleuropa, in contrapposizione non solo alla Russia (e tanto più all'URSS) ma anche ai suoi nemici ad Ovest, con particolare riferimento per l'appunto all'America. È in questo senso che, nel 1935, Heidegger celebra la lotta della Germania e dell'Europa contro la «tenaglia» tesa da due paesi che rappresentano il medesimo principio, quello della «tecnica scatenata» e della «massificazione dell'uomo», nonché della «mancanza di storicità» e quindi, in ultima analisi, di autentica cultura. Più grevemente, nell'autunno del 1942, parlando a Vienna al congresso della gioventù europea, Baldur von Schirach, leader della gioventù hitleriana, così si rivolge agli USA: «Dove sono i vostri Prassitele e Rembrandt?[...] Di dove vi viene l'audacia di prendere le armi, in nome di uno sterile continente, contro le divine ispirazioni del genio europeo?» A procedere alla «scoperta dell'Europa», su cui ironizza ThomasMann8i, non sono soloi nazisti tedeschi. Mussolini celebra a sua volta il fascismo come la più autentica idea «europea», capace di unire i «veri europei» («mi rifiuto di definire europei gli agglomerati balcanici») contro «l'eventuale nemico di Asia o di America». È questo il senso dello slogan ricorrente: o Roma o Mosca88 • Sul finire del secondo conflitto s; Cfr. D. Losurdo, La comunità, la morte, l'Occidente, cit., pp. 90 e 155-6. ss Cfr. B. Mussolini, Intexvista rilasciata al «Popolo d'Alessandria» del 20 aprile 1945, in E. Santarelli (a cura di), Scritti politici di Benito Mussolini, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 354.

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mondiale, Gentile tuona contro i «novissimi barbari» che bombardano le città italiane senza preoccuparsi della popolazione civile e dei monumenti: è un «bestiale vandalismo» di cui si rende colpevole in primo luogo il «nuovo continente», da considerare l'erede degli antichi barbari, «restio [. ..] e sordo all'azione incivilitrice dell'Europa, e cioè di Roma»89.

4. «Sentùnento di ra:a.a occidentale», controra:a.is,no e rivalità tra «sottociviltà» L'esito delle due guerre mondiali e della guerra fredda ha consentito di unificare il mondo europeooccidentale sotto l'egemonia degli USA. In questo senso, è giunta a compimento la translatio ùnperii dalla vecchia alla nuova Europa, dal vecchio al nuovo Occidente. Queste due entità sono comunque unite dal «sentimento di razza occidentale» di cui parla T oynbee9° e che proprio ai giorni nostri, sia pure per lo più spogliato delle sue configurazioni grevemente biologiche, celebra i suoi massimi trionfi. E' un sentimento che non sembra essere seriamente scalfito dagli isolati spunti di riflessione autocritica che qua e là emergono. Vediamo perché. Nel 1943, Croce, in una pagina alta, condanna con forza non solo il razzismo del Terzo Reichma anche quello che 89

G. Gentile, Discorso agli italiani (194.3), in Id., Politica e cultura, a cura di H. A. Cavaliera, voi. II (Opere: voi. XLVI), Firenze, Le Lettere, 1991, pp. 200e 207. ,o A. Toynbee, A Studyof History, tr.it. cit., p. 47,nota 1.

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abbiamo visto emergere nella stessa coalizione antinazista, ma lo condanna in quanto espressione di «torbida religiosità orientale», la quale non a caso ha colpito in particolare un paese venutosi così a trovare in una situazione di «dissidio spirituale» con l' «Europa>~1 • In modo analogo procede qualche anno dopo Hannah Arendt. Dopo aver descritto senza indulgenze i misfatti del colonialismo, colpevole ad esempio di aver «ridotto la popolazione indigena (del Congo) dai 2040 milioni del 1890 agli 8 milioni del 1911», l'autrice delle Origini del totalitaris,no osserva che, agendo in tal modo, Leopoldo II, re del Belgio, si è mosso in totale contrasto con «tutti i princìpi politici e morali dell'Occidente»92. La riflessione inizialmente critica e autocritica si rovescia così in una trasfigurazione dell'Europa e dell'Occidente, la cui essenza, sia pur contrapposta alla storia reale e dedotta non si sa bene a partire da cosa, si rivela più luminosa che mai. Ed ecco allora che, più strumentalmente, un autore come Emst Nolte pretende di mettere il genocidio nazista sul conto della barbarie «asiatica», da Hitler imitata guardando ad Est, alla rivoluzione d'Ottobre93. Attraverso questi periodici riti di purificazione ed esternalizzazione del male (che già conosciamo dalle pagine di Quinet), B. Croce, Il dissidio spirituale della Germania con l'Europa (1943),inB. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), a cura di A. Carella, voi. I, Napoli, Bibliopolis, 1993 (voi. VII, 1 dell'Edizione Nazionale), pp. 157-8. 92 H.Arendt, TheOriginso/Totalitarianism (1951);tr. it.,Leorigini del totalitarismo, Milano, Comunità, 1989, pp. 257 e 259 nota. 93 E. Nolte, War nicht der «kchipel Gulag» ursprunglicher als Auschwitz?, in«Frankfurter Allgemeine Zeitung», 6 giugno 1986. 91

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l'Occidente riacquista la sua incontaminata purezza e può continuare a rivendicare la sua permanente missione planetaria e ad atteggiarsi ad angelo sterminatore del Male, come in occasione della guerra del Golfo. Si comprende che tale atteggiamento si scontri con una crescente resistenza, se non sul piano militare, dati i rapporti di forza esistenti, in ogni caso su quello culturale. In occasione dell'inaugurazione del mausoleo dedicato all'Olocausto, i superstiti delle tribù indiane si sono chiesti perché un analogo mausoleo non venga innalzato negli USA a ricordo del genocidio qui propriamente consumatosi. A loro volta, i militanti neri sottolineano, in polemica contro l'ideologia dominante, la centralità che nella storia americana ha quello che essi definiscono il Black Holocaust. Mal'odierna protesta non si limita a mettere in stato d'accusa la falsa coscienza e le rimozioni dell'Europa e dell'Occidente. Andando ben oltre, ecco alcuni intellettuali e militanti neri celebrare la superiorità del pensiero nero (con la sua «dimensione emozionale») rispetto ali'«educazione occidentale», colpevole di aver «storicamente subordinato i sentimenti» per dare valore esclusivamente a «comunicazione e calcolo»94 • Non ha già Leopold Senghor formulato la tesi secondo cui «l'emozione è nera» mentre «la ragione è ellenica»9J? In tale prospettiva, i bianchi appaiono freddi, individualistici e materialistici: costituiscono il «popolo di ghiaccio» che ha impresso nella storia del mondo «dominio, distruzione A. M. Schlesinger, The DisunitingofAmen·ca. Reflections on a Multicultural Societ:y, NewYork-London, Norton, 1992, p. 63. 95 Ivi, p. 82. 94

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e mone», owero le tre D, «domination, desu-uction and death». La tradizione culturale, filosofica e politica dell'Europa e dell'Occidente (e del mondo bianco) diviene ora sinonimo di pensiero calcolante e volontà di potenza, caratteristiche queste che sembrano connaturali alla razza dei dominatori. che ha dettato legge e si è sempre gloriata di aver dettato legge nel mondo96• Le vittime della volontà di potenza e del pensiero calcolante diventano a loro volta l'incarnazione di un pensiero, di una cultura, di un modo di essere totalmente altro che solo può imprimere alla storia del mondo un corso diverso rispetto a quello sinora seguito. Owiamente, il conu-o-razzismo non è la stessa cosa che il razzismo. La violenza degli oppressi (in questo caso, la violenza culturale che monopolizza certi valori a vantaggio di una razza) non può essere messa sullo stesso piano della violenza degli oppressori. E, tuttavia, resta il fatto che all'interno di movimenti di emancipazione si può manifestare la tendenza a riprendere certi stereotipi della cultura conservatrice e reazionaria, sia pure con giudizio di valore rovesciato. Per secoli la discriminazione a danno delle «razze inferiori» è stata motivata con la loro incapacità ad argomentare in termini rigorosamente e astrattamente logici e con la loro mancanza di coraggio e di spirito guerriero, con la loro tendenza a lasciarsi guidare dai sentimenti e dall'emotività~7. Il rovesciamento del giudizio di valore non 96 Ivi,

pp. 67 e 64. Per fare solo un esempio, l'incapacità dei neri ad innalzarsi a fonne sviluppate di civiltà dipende dal fatto, secondo Jefferson, che «ingenerale, la loro esistenza sembra guidata più dall'istinto 9;

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aggiunge credibilità a tali stereotipi. Questo secondo bilancio non è più soddisfacente di quello precedente. n fatto è che l'uno e l'altro continuano a procedere per dicotomie ed essenze contrapposte, so1volando sugli intrecci e le contaminazioni della storia reale. Voglio qui limitarmi ad un esempio. Europa e Occidente amano esibire il loro «individualismo» come un titolo di gloria che li distingue positivamente rispetto al resto del mondo. Ma, se con questa categoria intendiamo il riconoscimento di ogni individuo, indipendentemente dal censo, dal sesso o dalla razza, come soggetto titolare di diritti inalienabili, è chiaro che non possiamo comprendere tale risultato senza il contributo della tradizione rivoluzionaria che va da Toussaint Louverture a Lenin, senza il contributo cioè di personalità e movimenti che l'ideologia dominante si affanna ancora oggi a considerare estranei all'Europa e all'Occidente autentici. Se a suo tempo il «giacobino nero» viene denunciato dall'Europa e dall'Inghilterra liberale come doppiamente barbaro in quanto «nero» e in quanto giacobino, ancora ai giorni nostri non sono solo gli emuli di Spengler a leggere in chiave asiatica Lenin. Quest'ultimo sarebbe da interpretare come «il prodotto piuttosto della che dalla riflessione»; se, in quanto a «ragione» sono «molto inferiori», «nella musica i neri sono generalmente più dotati dei bianchi ed hanno orecchie sensibili alla melodia e al ritmo», anche se risultano ugualmente incapace di innalzarsi ali' autentica «poesia», che presuppone pur sempre il superamento dell'immediatezza emotiva: cfr. Notes on Virginia (1787); tr.it.in M. Sylvers, Il pensiero politico e sociale di Thomas Jelferson, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 1993, p. 141.

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reazione russa all'Occidente che del marxismo»9 8 • Ma chi esprime meglio l' «individualismo» europeo o occidentale, Toussaint Louverture che, prendendo sul serio la dichiarazione dei diritti dell'uomo, guida la rivoluzione degli schiavi di S. Domingo («nessun uomo, rosso, nero o bianco che sia nato, può essere proprietà del suo simile») o Napoleone Bonaparte che cerca di reintrodurre la schiavitù («sono per i bianchi, perché sono bianco; non c'è altra ragione oltre a questa, ma questa è quella buona>:>99 ). Lo esprime meglio Lenin che lancia l'appello agli «schiavi delle colonie» a spezzare le loro catene o Mill e i suoi seguaci in terra inglese o francese che teorizzano l'«obbedienza assoluta» delle «razze» cosiddette «minorenni»?ioo E' un dato di fatto costantemente rimosso dall'ideologia dominante: nel continente americano, ad abolire per primo la schiavitù è lo Stato nato dalla rivoluzione degli schiavi neri di S. Domingo, non certo il paese guida dell'emisfero «occidentale» celebrato da Monroe, lui stesso proprietario di schiavi 101; ad affermare il principio del suffragio universale, al di là di ogni discriminazione di censo, di razza e di sesso, è per prima la Russia rivoluzionaria proprio in quel periodo di tempo

s L. Dumont, Homoaequalis, II. L'idéologieallemande, Paris, Gallimard, 1991, p. 27. 99 Riportato in F. Gauthier, Triomphe et mort du droit nature! en Révolution, Paris, PUF, 1992, p. 282. 100 J. S. Mili, On Liberty, tr. it. cit., p . .32. 101 Cfr. R. Blackburn, The Overthrowo/Colonia/Slavery, cit., p. 275. 9

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scomunicata dall'Europa e dall'Occidente1°2 • Separato dalla sua genesi storica reale e trasformato in un monopoho esclusivo della cultura europea e occidentale, l'«individuahsmo» diviene un'ideologia della guerra. Toussaint Louvenure e Lenin si muovono ai margini del mondo europeo e occidentale, ma ne hanno assimilato la cultura più alta, pur senza mai smarrire il profondo lergame che h unisce al proprio popolo e alla propria terra. Il primo, estraneo e ostile alla cultura vudu di molti degh schiavi di S. Domingo, è «un cristiano devoto»103 che poi legge la Storia delle due Indie di Raynal-Diderot, un'opera che, nell'ambito della più avanzata cultura illuministica, sottopone a dura critica l'esaltata autocoscienza e falsa coscienza dell'Europa. Il secondo, lettore di Hegel e Marx, non ha nulla a che fare con gh slavofili, come dimostra il fatto che in lui la condanna del coloniahsmo e dell'imperiahsmo s'intreccia strettamente alla celebrazione dello «spirito europeo» e della «cultura europea» irrompenti nelle colonie le quali, prese dalle «idee di libertà», cominciano a ribellarsi ai loro padroni. (Ancora dopo la rivoluzione d'Ottobre, il rivoluzionario russo sottohnea la necessità di far tesoro sul piano pohtico-statuale, dei «rnighori modelli dell'Europa occidentale» sia pure per trasformarli e superarh). La denuncia impietosa della politica di saccheggio, di aggressione e di genoSu ciò cfr. D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 50-4. 103 Cfr. R. Blackburn, The Overthrow o/ColonialSlavery, cit., p. 256. • 02

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cidio condotta dalla metropoli capitalistica non sfocia affatto nella trasfigurazione di un mondo non ancora contaminato dalla modernità capitalistica ed europea: Ciò significa forse che l'Occidente materialista è putrefatto e che la luce splende solo dall'Oriente mistico, religioso? No. Proprio l'opposto. Significa che l'Oriente siè incamminatodefìnitivamente sulla via dell'Occidente, che altre centinaia e centinaia di milioni di uomini parteciperanno d'ora innanzi alla lotta per quegli ideali per i quali l'Occidente ha cessato di battersi. Putrefatta è la borghesia occidentale ...104

La critica più radicale e più incisiva dell'Europa e dell'Occidente è quella che sa far tesoro delle categorie e materiali elaborati dalle sue correnti di pensiero e dai suoi movimenti politici più avanzati. L'indebolirsi o il disgregarsi di una posizione capace di congiungere la critica dell'Occidente al riconoscimento dei suoi punti alti e della valenza universale della sua eredità spiega il fatto che, ai giorni nostri, i movimenti di resistenza alla politica egemonica ed imperiale dell'Occidente tendano ad assumere sempre più la forma di guerra di religione e di civiltà. Rotto l'equilibrio tra critica dell'Occidente ed eredità dei suoi punti più alti, alla guerra santa dell'Occidente corrisponde la guerra santa dell'Islam. Ecco dunque in atto il clash o/civilisations,

Cfr. D. Losurdo, Civiltà, barbarie e storia mondiale. Rilefl{.endo Lenin, in D. Losurdo (a cura di), Lenin e ilNovecento,Napoli, Istituto Italiano per gli Studi filosofici, 1995. • 04

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ovvero lo scontro tra kin-countries 105, cioè tra stirpi diverse e contrapposte. L'wùtà della «razza europea» di cui parla Tocqueville sembra così ristabilita. In realtà, non mancano, e anzi diventano sempre più evidenti, le tensioni tra vecchia e nuova Europa, tra vecchio e nuovo Occidente, ovvero tra quelle due subcivilisations dell'Occidente che sono l'Europa e gli Stati Uniti106 • E' in questo contesto che bisogna collocare la recente osservazione (omessa in guardia) di Kissinger, secondo il quale, «la leadership mondiale è inerente al potere e ai valori americani»101,

,o, S. P. Huntington, The Clash o/Civilisations?, in «Foreign Affairs», estate 1993, pp. 35-6. lvi, p. 34. 10, Cfr. H. Kissinger, Diplomacy, cit., p. 834.

'°'

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III. MARXISMO O POPULISM0?1

1. Marx e la globalz'zzazione Ai giorni nostri la retorica del nuovo celebra i suoi trionfi: «Dopo Genova nulla può più essere come prima!». Trascorrono poche settimane dalle grandi manifestazioni e dalla brutale repressione poliziesca ed ecco che, in seguito agli inauditi attentati terroristici negli Usa, trionfa una nuova cronologia: «Dopo Manhatan nulla può essere come prima!». Un mese dopo, l'incontro tra Cina, Usa e Russia al vertice Apec è l'occasione di un nuovo colpo di scena. A Shanghai - riferiscono Liberazione e il manifesto - le grandi potenze si sono

Titolo originale: Dinanzi al processo di g/,obalizzazione: marxismo o populismo?, apparso per la prima volta in «L'Ernesto. Rivista comunista», n. 4, 2002 (gennaio/febbraio), pp. 78-85; ripubblicato in «Aginform»,n. 24 (marzo 2002)e in SergioManes (ed.),Ilmondo dopo Manhattan,La Città del Sole, Napoli,2002, pp. 135-152. 1

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unite in una coalizione compatta, una Santa Alleanza planetaria senza precedenti nella storia. E dunque, se ne può dedurre: «Dopo Shanghai nulla può più essere come prima!». Le svolte epocali incalzano ormai a ritmo mensile. Sono i miracoli della globalizzazione, a partire dalla quale - afferma una cena sinistra - così radicali sono i mutamenti. intervenuti nel capitalismo e sulla scena mondiale da rendere del tutto obsoleta la lezione di Marx. In realtà, la storia del capitalismo è la storia del processo di formazione del mercato mondiale. È così che Marx la descrive e, ancora oggi, illuminanti sono le pagine da lui dedicate all'espansione dell'Occidente in Asia. Sotto l'onda d'uno «del vapore e del libero scambio made in England», più ancora che dei «militari britannici», le tradizionali «comunità familiari [. ..] basate sull'industria casalinga» e «autosufficienti» cadono irrimediabilmente in crisi: «miriadi di laboriose comunità sociali, patriarcali e inoffensive» vengono «gettate in un mare di lutti, e i loro membri singoli privati a un tempo delle forme di civiltà tradizionali e dei mezzi ereditari di esistenza»2 • Interi popoli sono investiti da una tragedia senza precedenti: è la «perdita del loro mondo antico, n~n compensata dalla conquista di un mondo nuovo»'. E una sintesi fulminante del processo di globalizzazione capitalistica.

K. Marx-F. Engels, India Cina &I.sia. Le premesse per tre n'voluxioni, a cura di BrunoMaffi, il Saggiatore, Milano, 1975, p. 76. 'Ivi, p. 72 2

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2. La prùna /onna di populis1110

Proprio per questi caratteri della globalizzazione, si apre un ampio spazio per il rimpianto nostalgico del mondo antico e la sua trasfigurazione: per lo meno nel passato c'era un «mondo» di legami comunitari e valori condivisi, un mondo non ancora investito dalla crisi e quindi fornito di senso. È qui che si annida la tentazione populista, che emerge non solo nel mondo coloniale o semicoloniale ma nel cuore stesso della metropoli capitalistica, man mano che la grande industria sottomette le aree agricole e manda in rovina l'artigianato e l'industria domestica tradizionale. Si prenda una personalità come Sismondi. Simpatetico con le sofferenze del popolo, al fine di alleviarle egli sembra suggerire l'imposizione di un freno allo sviluppo della produzione, per evitare l'insorgere della sovrapproduzione e della crisi. L'introduzione di nuovi e più potenti macchinari comporta sì un «incremento di produttività» ma finisce col distruggere il precedente equilibrio senza che ne derivi alcun vantaggio reale e duraturo: i «vecchi telai andranno perduti»◄• In questo senso, Sismondi - osserva Marx - «diventalaudator temporis acti»5, un nostalgico del buon tempo antico. Nel suo «romanticismo econo-

•J. C. L. S. de Sismondi, Nouveaux principes d'économie politique ou de la nchesse dans ses rapports avec la population (1819; 1827), a cura di Piero Barucci, tr. it, di Pietro Reggi, Nuovi pnitcipi di economia politica o della ricchezza nei suoi rapporti con la popolazione, Isedi, Milano, 1975, pp. 208-209. s K. Marx-F. Engels, Werke, Dietz, Berlin, 1955 voi. XXVI, 3, p. 50.

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mico» - incalza Lenin - Sismondi si rivela afflitto dalla «distruzione del paradiso dell'ottusità e dell' abbrutimento patriarcale della popolazione rurale»6 • Nell'esprimersi così, Lenin ha chiaramente presente la lezione di Marx il quale, con riferimento all'India, metteva in guardia contro la tendenza a rimpiangere e idealizzare una «vita priva di dignità, stagnante, vegetativa», una società nel cui ambito la miseria e l'assoggettamento delle grandi masse appaiono come «un destino naturale immutabile» e le «piccole comunità sono contaminate dalla divisione in caste e dalla schiavitù>9. Se il marxismo e il leninismo si sono sviluppati nel corso della lotta contro il populismo, questo sembra oggi godere di una nuova giovinezza. Ecco in che modo Liberazione riferisce di una mostra sul «Tibet perduto»: La caccia, la pesca, persino l'uccidere un insetto o scavare 'madre terra', divennero azioni da non commettere, mentre mulini di preghiere sorgevano lungo tutti i corsi d'acqua». Quando si arriva a Palazzo Magnani, a Reggio Emilia, per vedere la splendida mostra fotografica di Fosco Maraini sul «Tibet perduto», sono queste le parole affisse al muro che colpiscono di più il visitatore. Descrivono un «popolo unico [...]Persone straordinarie i tibetani, abituati a vivere ad oltre 4000 metri di quota, in uno scenario natu-

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V. I. Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1955, vol.II, p. 218. 1 K. Marx-F. Engels, India Cina Russia, cit., p. 77.

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rale incredibile, dove le malattie quasi non esistono, perché virus e batteri non sopravvivono a quelle altezze 8 •

È un esempio da manuale di populismo. Una società «contaminata dalla divisione in caste e dalla schiavitù», che istituiva una barriera insonnontabile tra servi e signori, discriminandoli nettamente dalla nascita alla mone o oltre (dando in pasto agli awoltoi i corpi dei primi e riservando la dignità della cremazione o tumulazione solo ai secondi), conosce ora una mitologica trasfigurazione. Nell'ambito di tale ordinamento la miseria, la denutrizione, le malattie e la mone precoce erano subite, per dirla con Marx, come «un destino naturale immutabile»; ma peril giornalista o poeta sotto l'incantesimo del populismo è motivo ulteriore di entusiasmo il fatto che i «mulini di preghiere «sbarrassero la strada ai blasfemi lavori impegnati a violare e «scavare "madre terra"» e accrescere la produzione agricola. Come Lenin ha chiarito, il populista ritiene che la «la luce splende solo dall'Oriente mistico, religioso»~. In effetti, in certi articoli di Liberazione e del Manifesto il Dalai Lama tende per l'appunto a prendere il posto di Lenin (e di Marx). Il populismo svolge un ruolo imponante nell'ostilità con cui questi giornali e ambienti politici guardano alla Cina. A suscitare orrore è in primo luogo l' «ossessione della crescita quantitativa»10• Sì, Marx e Engels sot-

V. Bonaruù, Tibet perduto, in«Liberazione» del 16 gennaio 2001,p. 17. • Lenin, cit., voi. XVIII, p. 154. 0 • R. Gagliardi, Sognando un libretto rosso, in «Liberazione» del 5 ottobre 1999, Speciale, p. Il. 8

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tolineano che «il proletariato si servirà del suo potere politico» e del controllo dei mezzi di produzione in primo luogo «per accrescere, con la più grande rapidità possibile, la massa delle forze produttive». In difficili condizioni, dati il ritardo storico accumulato e il permanente semi-embargo tecnologico imposto dagli Usa, la Cina cerca di sviluppare le «industrie nuove», che non hanno più una base nazionale e la cui «introduzione» - sottolinea sempre Marx - è «una questione di vita e di morte per tutte le nazioni civili»u. Ma tutto ciò è solo motivo di scandaloperil populista, che guarda con fastidio al mondo profano della «quantità»: «Un bambino nato a Shanghai nel 1995 aveva meno probabilità di morire nel suo primo anno di vita, più probabilità di imparare a leggere e scrivere e poteva contare su una durata della vita superiore di due anni (settantasei anni) a quella di un bambino nato a New York».12. Ora il governo cinese ha messo in atto una politica di giganteschi investimenti per estendere anche alle regioni interne il prodigioso sviluppo conseguito dalle regioni costiere. Risultati importanti sono già sotto gli occhi di tutti: il Tibet «ha registrato una crescita economica tre volte più veloce di quella degli Usa negli anni del boom tra la fine dell'amministrazione Reagan e l'inizio dell' amministrazione Bush»13 • Epperò sviluppo economico-sociale,

K. Marx-F. Engels, Werke, cit., vol. r:v, p. 466. The Delusion o/ Global Capitalism, Granta Books, London, 1998, p. 118. " William H. Overholt, The Rise o/ China. How Economie Reform is Creating a New Superpower (1993), tr. it., di Giuseppe Barile, Il risveglio della Cina, il Saggiatore, Milano, 1994, p. 69. 11

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J. Gray, False Dawn.

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accesso all'istruzione, avvento della moderrùtà con la sua carica emancipatrice, prolungamento della durata media della vita, tutto ciò sembra essere irrilevante per il populista immalinconito dalla nostalgia per i «vecchi telai» o, peggio, peri «mulini di preghiere». Si comprende il rancore riservato alla figura di Deng Xiaoping. Questi ha avuto il merito di criticare lo shttamento populistico che portava la Rivoluzione Culturale a inseguire l'ideale di «un ascetismo universale e un rozzo eguahtarismo>>14. E invece «non ci può essere comunismo col pauperismo o sociahsmo col pauperismo»; è una contraddizione in termini parlare di «comunismo povero>>15. Sociahsmo e comunismo non hanno nulla a che fare con l'uguaghanza nella miseria e nell'austerità dei costumi: se anche per tutto un periodo permane il problema di una distribuzione in qualche modo giusta della penuria, in primo luogo «sociahsmo significa eliminazione della miseria»16 • Il problema principale è dunque lo sviluppo più rapido possibile delle forze produttive. E, invece,proprio in ciò il populista lamenta la perdita, per dirla con Marx, di una mitica «pienezza originaria»17, ovvero denuncia, per dirla con Lenin, il trionfo dei disvalori dell' «Occidente materiahsta»18•

14

K. Marx-F. Engels, cit.,p. 489. u DengXiaoping, Selected Wolk, voi.III (1982-1992), Foreign Languages Press, Beijing, 1994, p. 174. '' Ivi, p. 122. i; K. Marx, Grundrisse der Kntik derpolitischen Okonomie. (Rohentwurf) 18.57-18.58, Dietz, Berlin, 1953, pp. 80-82. 18 Lenin, op. cit., voi. XVIII, p. 154.

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3. Populis1no e «cinis1no da cretino» Oltre che nell'ingenua trasfigurazione di rapporti sociali rurali e arretrati, il populismo può trovare espressione in forme più «sofisticate». Si prenda Proudhon: la proprietà è un funo. Un'unica linea di demarcazione divide l'intera umanità in proprietari e non proprietari, ladri e derubati, ricchi e derelitti. E' l'unica contraddizione realmente rilevante. Proudhon bolla come «pomocrazia» il movimento femminista agli albori. Analogamente deride le aspirazioni nazionali dei popoli oppressi come espressione di attaccamento oscurantista a pregiudizi obsoleti. In Polonia, la lotta per l'indipendenza nazionale vede la partecipazione anche di borghesi e persino di nobili. La cosa non stupisce, dato che a subire l'oppressione è la nazione nel suo complesso. Ma ciò è motivo di scandalo per il populista incline a pensare che l'unica contraddizione reale sia quella tra poveri e ricchi, «popolo» umile e incorrotto da un lato e i grandi e potenti dall'altro. Di qui l'atteggiamento beffardo di Proudhon verso i movimenti nazionali. Duro è il giudizio di Marx, che parla a tale proposito di «cinismo da cretino», per di più alla coda dell'imperialismo zarista o, in altri casi, del bonapartismo di Napoleone IIl19, Al populista francese siamo condotti a pensare, allorché leggiamo Toni Negri sbeffeggiare «gli ultimi sciovinisti della nazionalità»: così sono bollati quanti si attardano a difendere l'indipendenza e la sovranità nazionale contro la realtà di un Impero planetario, 19

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K. Marx-F. Engels, Werke, cit., voi. XVI, p. 31.

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nell'ambito del quale l'unica contraddizione sarebbe quella tra «il potere sovrano che governa il mondo» e la «moltitudme» rivoluzionaria. Assistiamo così ad un paradosso. Oggi è facile ritrovare presso autori borghesi il riconoscimento del fatto che nel mondo è in atto un processo di «ricolonizzazione». Se in questi termini si esprime il generale Carlo J ean, ad affermare in modo esplicito il carattere benefico della ricolonizzazione è il teorico ufficiale della «società aperta», Karl Popper. Anche il New YorkTimes, dando la parola a PaulJohnson, tempo fa poteva annunciare: «Finalmente torna il colonialismo, era ora»20, Dunque, non ci dovrebbero essere dubbi sulla permanente attualità della questione nazionale. Anzi, a ben guardare, essa si sta inasprendo. Pensiamo alle guerre seguite al crollo dell'Urss. 1991: la guerra contro l'Irak e l'imposizione di un protettorato su un paese di decisiva importanza geoeconomica e geopolitica sono state formalmente autorizzate dall'Onu. 1999: questa autorizzazione viene considerata superflua per la guerra contro la Jugoslavia; ora si teorizza il diritto sovrano della Nato a scatenare «guerre umanitarie», che non si limitano ad imporre il protettorato ma procedono sino allo smembramento del paese aggredito. 2001: nel dichiarare che il terrorismo è presente in oltre 60 paesi, nel decidere chi sono i terroristi e preannunciare di essere pronta a colpire chiunque appoggi o tolleri il terrorismo, Washington si arroga il diritto di inter-

° Cfr. D. Losurdo, Il Nuovo Ordine Internazionale nella sto-

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ria delle ideologie della guella, in «Giano. Ricerche per la pace (Roma)», n. 14-5, par. .3.

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venire in ogni angolo del mondo senza tener conto né dell'Onu né della Nato. Se poi si tiene presente che esponenti dell'amministrazione americana hanno fatto trapelare la possibilità del ricorso ad armi nucleari, allora una conclusione si impone: gli Usa tendono a far pesare una minaccia economica (l'embargo), militare e persino nucleare su ogni paese del mondo. È stata messa in piedi una macchina bellica di un'efficienza implacabile anche per quanto riguarda il dispositivo politico-ideologico: l'amministrazione americana può bollare come terroristica la resistenza palestinese, o alcune sue correnti, ed ecco che risultano fuorilegge Stati come la Siria, l'Iran, l'Iraq ecc.; oppure può consacrare quali «combattenti per la libertà» le forze secessioniste che essa cerca di alimentare in questo o in quel paese, ed ecco che una repressione giudicata eccessiva da Washington si configura come un crimine, che apre le porte ad un giusto e severo intervento «umanitario». Una lotta sanguinosa è in corso nel Kashmir conteso tra India e Pakistan. La guetrigha può essere bollata come terrorismo, ed allora diventa un legittimo bersaglio il Pakistan che l'appoggia; oppure può essere innalzata alla dignità di lotta di liberazione, ed allora diventa un legittimo bersaglio l'India che, reprimendola duramente, si macchia di crimini contro l'umanità. Consapevoli del rischio che corrono, i due possibili bersagli s'impegnano in una gara per contendersi i favori di Washington, l'aspirante sovrano planetario. È necessario ribadirlo con forza: la questione nazionale non è mai stata così acuta. Ma il peso crescente delle multinazionali non riduce ad un guscio vuoto la sovranità statale? Nel 1917, Lenin

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osserva: «Il capitale finanziario è una potenza così ragguardevole, anzi si può dire così decisiva, in tutte le relazioni economiche e internazionali, da essere in grado di assoggettarsi anche paesi in possesso della piena indipendenza politica>>21• Ciò però non significa che sia divenuta irrilevante la lotta contro l'assoggettamento politico. I paesi che godono dell'indipendenza politica cercano di consolidarla mediante la conquista dell'indipendenza economica e così si scontrano con l'imperialismo che, in situazioni di crisi, pur di mantenere l'egemonia, è pronto a liquidare la stessa indipendenza politica. A spiegare la tesi del dileguare della questione nazionale è solo l'influenza che populismo e neo-proudhonismo esercitano nell'ambito del movimento anti-globalizzazione.

4. Puris,no populista e fuga dalla cotnplessità Ferma restando la centralità della lotta per la difesa e la conquista della sovranità statale, in che modo essa si manifesta ai giorni nostri? Negli anni '60, Lin Piao, guardando alle lotte di liberazione nazionale nel Terzo Mondo, auspicava il progressivo accerchiamento della città capitalistica ad opera di una campagna povera e rivoluzionaria. Anche in questa visione è evidente la presenza del populismo. Si trattava della generalizzazione arbitraria di un bilancio storico peraltro errato della rivoluzione cinese. Il partito comunista era giunto alla vittoria non già limitandosi a stimolare e dirigere le lotte 21

Lenin, op. cit., voi. XXII, p. 260.

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dei contadini poveri, ma sapendosi mettere anche alla testa della lotta della nazione cinese nel suo complesso contro l'occupazione militare giapponese e costruendo un largo fronte unito di cui la borghesia nazionale era parte integrante. Per di più, il movimento di resistenza e liberazione nazionale non aveva esitato ad utilizzare le rivalità tra le grandi potenze imperialistiche. Una visione che a livello internazionale veda agire solo la contraddizione tra paesi deboli e forti, poveri e ricchi, Terzo Mondo e metropoli capitalistica è da considerare una riedizione in forma nuova del populismo. Intanto, nell'ambito del Terzo Mondo spicca un paese che sta fuoriuscendo dal sottosviluppo e che, diretto da un Partito comunista, già con le sue dimensioni e col tasso spettacolare di crescita della sua economia, è avvertito come una minaccia dagli Usa. Ma concentriamo la nostra attenzione su Usa, Russia, Giappone, Germania, Francia ecc. e Unione Europea nel suo complesso. Si tratta di paesi capitalisti, che però non possono essere messi sullo stesso piano. La cosa è immediatamente evidente per la Russia. A suo tempo, Eltsin è stato definito come un Quisling, cioè come dirigente di uno Stato solo formalmente sovrano e in realtà fantoccio di una potenza imperiale esterna2 2 • E' probabile che in tale definizione ci sia un elemento di esagerazione. Resta il fatto che la Russia, sempre piùincalzata dall'espansione della Nato ad Est, deve affrontare spinte separatiste e secessioniste, spesso alimentate dall'esterno e che non a caso si manifestano lungo le rotte strategiche del petrolio. 22

G. Chiesa, Russia addio. Geme si coloni:a.a un impero, Editori Riuniti, Roma, 1997,p. 8.

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Ma neppure i paesi di più consolidata tradizione capitalistica e imperialistica possono essere messi sullo stesso piano. Contro la tendenza a condannare in modo imparziale l'imperialismo americano, giapponese ed europeo, conviene ricordare le parole di Mao. Siamo nell'agosto 1946: lo scoppio della guerra fredda stimola una visione bipolare del mondo, che contrappone ad un campo socialista ferreamente unificato un campo capitalista unificato in modo non meno ferreo. Ma ecco che Mao sviluppa un'analisi del tutto diversa: Gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica sono separati da una zona molto vasta che comprende numerosi paesi capitalistici, coloniali e semicoloniali in Europa, in Asia e in Africa. Fino a quando i reazionari statunitensi non avranno assoggettato questi paesi, un attacco contro l'Unione Sovietica è fuori questione. [Gli Stati Uniti) controllano da lungo tempo l'America centrale e meridionale, e cercano di porre sotto il loro controllo anche l'intero Impero britannico e l'Europa occidentale. Con vari pretesti, gli Stati Uniti adottano provvedimenti unilaterali su vasta scala ed installano basi militari in molti paesi [ . ..)Attualmente [ .. .) non l'Unione Sovietica, ma i paesi in cui queste basi militari vengono installate sono i primi a subire l'aggressione USA 2' .

Come si vede, Mao non esita a far ricorso alla categoria di «aggressione» per definire il rapporto che l'imperialismo statunitense istituisce con le grandi potenze capitalistiche. In modo analogo, Stalin chiamerà 23

Mao Tsetung, Opere scelte, Edizioni in lingue estere, Pechino, 1975, voi. IV, pp. 95-96.

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i partiti comunisti dell'Europa occidentale a «risollevare» la «bandiera della indipendenza nazionale e della sovranità nazionale [. . .] gettata a mare» dai governanti borghesi 24, criticati in primo luogo non già in quanto imperialisti ma in quanto succubi dell'imperialismo amencano. Alle spalle di Mao e Stalin agisce la lezione di Lenin. Questi, nel ribadire nel 1916 il carattere imperialista del primo conflitto mondiale, osserva tuttavia che se esso fosse terminato «con vittorie di tipo napoleonico e con la soggezione di tutta una serie di Stati nazionali capaci di vita autonoma [. ..], allora sarebbe possibile in Europa una grande guerra nazionale>>2'. Questa situazione si verifica in realtà con il secondo conflitto mondiale: la vittoria di tipo napoleonicoiniziahnente conseguita dal Terzo Reich pone all'ordine del giorno guerre di liberazione nazionale nel cuore stesso dell'Europa. E' su questa base che si sviluppa la Resistenza non solo in Jugoslavia, Albania, Cecoslovacchia ma anche in Francia e Italia. Per comprendere l'odierna situazione internazionale, è necessario prendere atto che nel 1991 gli Usa hanno conseguito una vittoria che rassomiglia ad una vittoria di tipo napoleonico. Così grave è la sconfitta dell'Urss che dalla guerra fredda essa è uscita smembrata: parti cospicue del suo territorio nazionale non solo si sono costituite come Stati indipendenti, ma sono

J. W. Stalin, Discorso al XIX congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, in Problemi della pace, pref. di Pietro Sec2•

chia, Edizioni di Cultura Sociale, Roma, 195.3,pp. 15.3-4. 25 Lenin, op. cit., voi. XXII, p . .308.

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entrate nel sistema di alleanze diretto da Washington. Per quanto riguarda l'UE e il Giappone, la loro tecnologia militare sta subendo un ritardo sempre più grave rispetto a quella sviluppata dagli Usa e sperimentata attraverso una serie di guerre «limitate»: è in atto ciò che gli strateghi del Pentagono definiscono orgogliosamente come RMA, Revolution in Military Affairs. Ma c'è un aspetto forse ancora più importante. Subito dopo la seconda guerra mondiale, gli Usa introducono in Giappone una Costituzione che fa professione di radicale antimilitarismo, rinunciando al tradizionale «diritto sovrano della nazione» alla guerra, all'uso della forza e alla minaccia dell'uso della forza. Ora è Washington a suggerire quando questo articolo può e deve essere considerato superato e aggirabile. Analoghe considerazioni valgono per la Germania. Il rapporto che gli Usa intrattengono coi loro «alleati» è caratterizzato da una schiacciante superiorità non solo in campo militare ma anche in campo ideologico e politico-diplomatico: in ultima analisi è la Casa Bianca a detenere le chiavi della legittimazione del ricorso alla forza da parte di Giappone e Germania, a decidere se questo è espressione della loro nuova realtà «democratica» o rinvia alla sciagurata tradizione condannata a Tokyo e Norimberga. Con la vittoria nella seconda guerra mondiale e nella guerra fredda, gli Usa hanno conseguito il potere di «scomunicare» i loro nemici prima ancora che di distruggerli. Oltre alla Cina e a Cuba, a rifiutarsi di mettere sullo stesso piano gli Stati imperialisti o con potenzialità imperialiste sono gli stessi movimenti rivoluzionari impegnati in lotte assai difficili. Ciò non vale solo per

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la resistenza palestinese. Si veda la recente presa di posizione di un dirigente delle Fare colombiane: «L'atteggiamento europeo rispetto al Piano »gringo« contro la Colombia è stato prudente [. ..] Ma l'Europa può avere un ruolo ancora più decisivo, non partecipando né apertamente, né in maniera nascosta alle politiche decise a Washington. La verità è che l'Europa può e deve avere un maggiore protagonismo in America Latina e nei Caraibi»26• In Italia i comunisti sono in una situazione particolarmente favorevole per comprendere la duplice natura del paese in cui vivono e lottano. Se da un lato, con D'Alema prima ancora che con Berlusconi, l'Italia ha assunto pose mussoliniane e da grande potenza imperiale, dall'altro essa è stata devastata dalla strategia della tensione e dalle stragi architettate a Washington, e continua a subire una condizione di sovranità limitata (vedi la vicenda del Cermis). E cioè, se da un lato partecipa in funzione subalterna a infami aggressioni imperialiste, dall'altro l'Italia è essa stessa bersaglio dell'«aggressione» dell'imperialismo Usa. Sia pure con opportune cautele, considerazioni analoghe valgono per l'UE nel suo complesso (pensiamo allo spionaggio economico e militare di Echelon). In conclusione, come emerge dalla lettura della storia del movimento comunista internazionale, dalle prese di posizione dei movimenti rivoluzionari e, in primo luogo, dall'analisi concreta della situazione 26

P. Reyes, Pian Colombia: un piano di guerra, (inteivista a Angela Nocionie Marco Consolo), in «Liberazione» del26 agosto 2000, p. 202.

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concreta, mettere sullo stesso piano le grandi potenze capitalistiche non è affatto sinonimo di rigore rivoluzionario e comunista. Conviene piuttosto chiedersi se in tale atteggiamento purista non ci sia un residuo di populismo, che avverte come elemento di disturbo ogni analisi che fuoriesca dallo schema della contraddizione unica (quella tra umili e potenti) e come elemento di contaminazione qualunque rapporto che vada al di là del mondo degli umili. Se anche la contraddizione umili/potenti dovesse ora assumere una forma statuale e configurarsi come la contraddizione tra paesi poveri del Terzo Mondo e paesi ricchi e imperialisti, se la si continua a far valere come una contraddizione unica, si rimane pur sempre nell'ambito del populismo.

5. Il carattere pervasivo del populis1110 E' una tendenza che si manifesta nei più diversi ambiti problematici. Il Che fare? è pressappoco contemporaneo alla polemica già vista contro il romanticismo economico, contro il populismo. Non a caso nel Che fare? svolge una funzione essenziale la confutazione della tesi secondo cui presso le classi subalterne, presso il popolo in quanto tale, sarebbe depositata la coscienza rivoluzionaria, una superiore visione del mondo, non contaminata dai disvalori borghesi. E invece per Lenin la coscienza rivoluzionaria è una costruzione che implica il contributo decisivo degli «intellettuali borghesi» e l'assunzione di un'eredità teorica che è in larga parte il lascito di intellettuali borghesi (si pensi a Hegel). D'altro canto, «per la loro posizione sociale, gli stessi

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fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed Engels, erano degli intellettuali borghesi>:P. E a loro volta già Marx ed Engels, mentre da un lato sottolineano la funzione controrivoluzionaria spesso giocata dal sottoproletariato, dagli «straccioni», dall'altro richiamano l'attenzione sul contributo che alla formazione della coscienza e del movimento rivoluzionario forniscono i transfughi della borghesia (in primo luogo gli intellettuali). Non c'è posto qui per il mito populista in base al quale la coscienza rivoluzionaria, la prospettiva di una società più giusta, sarebbe il dato naturale e immediato del popolo, degli umili, degli oppressi (ovvero della classe operaia: l'operaismo è una variante del populismo). L'odierno fastidio per la forma-partito e la tendenza a sciogliere il partito comunista nel movimento del «popolo di Seattle» sono una delle forme in cui si manifesta il ritorno del populismo. Analizzando il movimento populista americano della seconda metà dell'Ottocento, è stato osservato che a caratterizzarlo è anche «la concezione della storia come cospirazione»28 • Dato che il popolo è l'incarnazione immediata dei più alti valori umani, il regno della giustizia e della felicità è a portata di mano: basta neutralizzare i potenti e i traditori. Di rado è stato notato il peso che questa visione del mondo ancora oggi esercita nella sinistra occidentale. Attorno al '68, ha conosciuto una notevole diffusione un libro di Renzo Lenin, op. cit., voi. V, p. 106. R. Hofstaster, The Ageof Reform. Prom Bryan to P. D. Roosevelt (1956), tr. it. di Paolo Maranini, L'età delle riforme. Da BryanaP. D. Roosevelt, Il Mulino, Bologna, 1962,pp. 53 e60 sgg. 27

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Del Carri.a che già nel titolo (Proletari senza rivoluzione) forniva la chiave di lettura della storia del nostro paese dal Risorgimento alla Resistenza. Perché la lotta contro il fascismo non siera conclusa con l'avvento del socialismo? Ma è chiaro: Stalin a Yalta e Togliatti a Salerno l'avevano impedito. Risposte analoghe venivano fornite per la Settimana rossa del 1914, per i moti del 1898 e per quelli ancora precedenti. Queste risposte semplicistiche si possono spiegare solo con l'influenza del populismo: sempre animate dall'amore della giustizia, le masse finivano regolarmente con l'essere abbandonate o tradite, nel momento cruciale, da dirigenti e burocrati. Per rendersi conto dell'influenza tuttora esercitata da questa ideologia, poniamoci ora un problema più generale: perché il regime scaturito dall'Ottobre ha deluso prima le speranze di molti, che pure l'avevano salutato con entusiasmo, e poi è risultato sconfitto nello scontro col mondo capitalista? «Chi ha ucciso la rivoluzione?» - titolava qualche tempo fa un supplemento a Liberazione. Era una domanda retorica, ma per chi ancora avesse avuto dubbi, a fugarli provvedeva in prima pagina una foto di Stalin, che sembrava farsi beffe della rivoluzione da lui assassinata con fredda e cosciente determinazione. Nel dare questa «spiegazione», Rina Gagliardi sapeva di essere in sintonia con larghi settori della sinistra italiana e occidentale. In effetti, il populismo ha conseguito un tale successo da diventare luogo comune. Come devonoconfi.gurarsii rapporti.politici, economici e sociali dell'«ordine nuovo» chiamato a prendere il posto del capitalismo? Attraverso quali processi possono

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essere realizzati? Quali sono le priorità e in che modo può essere sconfitta la fonnidabile coalizione di forze impegnate a perpetuare o restaurare l'antico regime? Bisognerebbe partire da queste domande per comprendere i dubbi, le scelte, le oscillazioni, i ripensamenti, le contraddizioni, i conflitti, gli errori e i crimini di un gruppo dirigente. Ma di questa analisi non avvertono alcun bisogno i populisti, i quali si cullano in una confortevole certezza: il popolo, le masse, sanno istintivamente qual è il regno della libertà e della giustizia e vi aspirano con tutte le loro forze; se esso non si realizza, è chiaro che è intervenuto un tradimento, il tradimento di un individuo assetato di potere - Stalin come Deng - che non condivide i generosi ideali del mondo degli umili. Lo studioso statunitense precedentemente citato fa notare che «l'utopia populista è situata nel passato, non nel futuro>>2~. E' un tratto che vige anche nell'odierno populismo, in movimenti e partiti che pure si richiamano al comunismo. Certo, il progetto rivoluzionario dovrebbe per definizione rinviare al futuro; senonché, allorché analizzano le rivoluzioni storicamente verificatesi, i populisti individuano il momento magico sempre e solo nel passato, in uno stadio che subito dilegua per l'intervento di potenti e prepotenti, traditori estranei al popolo e agli ideali che immancabilmente lo animano. I populisti di sinistra talvolta si richiamano alla Rivoluzione Culturale. In particolare amano agitare una parola d'ordine che, dal punto di vista marxista, è particolarmente discutibile: «Ribellarsi è giusto». Come se la storia non fosse costellata di ribellioni reazionarie, ad 29

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lvi, p. 54.

MARXISMO O POPULISMo?

esempio quella dei proprietari di schiavinel Sud degli Usa, e come se queste ribellioni non fossero spesso scandite da una fraseologia libertaria! Abbiamo a che fare in realtà con una parola d'ordine che ci riconduce al populismo. Rinunciando ad un'analisi di classe,essa implica una dicotomia popolo/governanti ovvero umili/ potenti, nel cui ambito è sempre il potere a rappresentare il momento negativo. Ad una sorta di populismo si è ridotto anche il «trotskismo» dei giorni nostri. Solo così si può spiegare il fatto che esso vada alla ricerca disperata di qualsiasi movimento di massa, anche se di segno chiaramente reazionario, per ribattezzarlo in chiave rivoluzionaria. Eltsin è stato a suo tempo celebrato come il protagonista di una rivoluzione antiburocratica da parte di certi ambienti «trotskisti». Se vittoriosi, i moti di Piazza TienAn Men del 1989 avrebbero significato l'ascesa al potere di un Eltsin cinese, ma anche in questo caso non mancano i trotskisti che gridano alla rivoluzione tradita e repressa! Una rivoluzione fatta da studenti che portavano in trionfo l'effige della Statua della Libertà e che si sarebbe verificata nello stesso momento in cui l'Occidente capitalista e imperialista trionfava in Europa orientale e in tutto il mondo i partiti comunisti si affrettavano a cambiare nome. A questi miracoli si può credere solo a condizione di essere populisti, di rinunciare cioè all'analisi laica delle classi e della lotta di classe per sostituirla con la credenza mitologica nel valore comunque salvifico del«popolo» e delle «masse». Ho parlato di «trotskisti» facendo costante ricorso alle virgolette, per distinguere la caricatura farsesca dall'originale tragico cui essa pretende di richiamarsi.

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Certo, il pericolo dello shttamento populistico è ben presente in Trotski, con la sua ossessione a spiegare col ruolo infausto di burocrati ben pasciuti le difficoltà e gli arretramenti di una rivoluzione portata avanti da masse sempre disposte al sacrificio, come se nella storia non si fossero mai verificate situazioni in cui il burocrate di partito e di Stato risulta più avanzato del «popolo»! E tuttavia, enorme è la differenza che separa Trotski dai suoi sedicenti seguaci di oggi. In un momento storico che sembrava caratterizzato dall'avanzata irresistibile della rivoluzione, egli poteva ben sperare in una radicalizzazione «antiburocratica» della rivoluzione russa. Ma non si sarebbe mai sognato di legittimare come rivoluzionario Eltsin o i dirigenti dell'Uck alimentati dalla Nato! D'altro canto, Trotski non aveva esitato a reprimere una rivolta come quella di Kronstadt, pure scoppiata agitando la parola d'ordine del ritorno all'originaria democrazia sovietica, calpestata dal monopolio del potere usurpato e detenuto dai burocrati bolscevichi. Se per un verso presenta contatti col populismo, per un altro verso Trotski è, fra i dirigenti bolscevichi, colui che ha sviluppato la criticapiù vigorosa contro la visione del socialismo come socializzazione della miseria, aspetto essenziale dell'odierno populismo «comunista» La ricostruzione di un punto di vista marxista e comunista, con la neutralizzazione delle influenze populiste, comporta dunque il superamento delle vecchie polemiche tra stalinismo e trotskismo, così come tra titoismo e antititoismo o tra maoismo e antimaoismo. Bisogna saper accogliere in un ideale pantheon rivoluzionario Trotski e Stalin assieme a Lenin e Bucharin; Tito e le sue vittime 92

lVl=SMO O POPULISMO:'

fedeli al Cominform e all'URSS; Mao assieme a Liu Shao-dù e Deng Xiaoping. Sono stati tutti protagonisti di un grandioso processo di emancipazione e, al tempo stesso, di una grande tragedia storica. Così come, per quanto riguarda la rivoluzione francese, in un ideale pantheon c'è posto per Danton come per Robespierre e i suoi «arrabbiati» critici di sinistra, tutti protagonisti e vittime di un altro grandioso processo di emancipazione e di un'altra grande tragedia storica.

6. Il ,nito populista e qualunquista detta «nuova Yalta» Negli sviluppi della «guerra contro il terrorismo», e soprattutto nell'incontro tra Jiang Zemin, Bush e Putin, i populisti hanno visto la conferma della loro analisi: dileguate le contraddizioni e i conflitti tra le grandi potenze, assisteremmo all'awento di un mondo che vede da un lato i potenti del pianeta, coalizzati in un'unità corale, e dall'altro i diseredati, gli esclusi, gli umili. Contro la «nuova Yalta» si erge soltanto il «popolo di Seattle»! Ma proviamo a sfogliare la grande stampa d'informazione. Con riferimento a Russia, Gran Bretagna e Germania, l'International Herald Tribune già nel titolo osseiva: «I paesi-guida dell'Europa utilizzano la crisi afghana per rafforzare il loro ruolo mondiale».3°. Il «Corriere della Sera» così giustifica e sollecita la par,o J. Vinocur, Europe's Leading Nations Use Afghan Crisis to

Enhance Wor/J Role, in «lntemational Herald Tribune» del 12 ottobre 2001, p. 7.

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uomemco L,osurao

tecipazione italiana alla guerra: «un conflitto armato disegna sempre nuove gerarchie mondali di potere e di influenza [...]Ora l'Italia deve rincorrere, non perché ami la guerra ma perché ha capito quanto può costare non farla»31• Come si vede, persino per quanto riguarda l'Occidente, la convinta partecipazione alla spedizione purùtiva contro l'Afghanistan non è in alcun modo la fine della rivalità e della contesa per l'acquisizione delle sfere d'influenza. Ma oggi la contraddizione più acuta è ovviamente un'altra. Riapriamo l'International Herald Tribune. Ecco un altro titolo a tutta pagina: «La svolta politica di Pechino sfida l'influenza americana in Asia>»2. Chi ancora non avesse capito, può trarre profitto dalla lettura di Die Zeit: «Sotto molti aspetti, a partire dalla guerra in Afghanistan, tra Pechino e Washington un conflitto in vecchio stile tra grandi potenze è diventato persino più probabile di un autentico avvicinamento>»3• Come si vede, non c'è traccia qui dell'abbraccio sinoamericano di cui favoleggianoi populisti. Da un lato la Cina prende atto con sollievo che, almeno per qualche tempo, Washington difficilmente potrà seguire la raccomandazione dell'«esperto» William D. Shingleton, che invita a far tesoro dell'esperienza dello smembramento dell'URSS per «affrontare in maniera più coe" F. Venturini, Se l'Italia vuole avere una voce, in Corriere della Sera del 15 ottobre 2001, pp. 1 e 15. n J. Pomfret, Beijing's Policy Shift Challenges Washington's Influence in Asia, in «International Herald Tribune» del 19 ottobre 2001, p. 5. "G. Blwne e C. Yamamoto, Elenfantenflirt in Shanghai, in Die Zeit del 18 ottobre 2001, p. 11

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MARXISMO O POPUIJSMo?

rente la futura frarrunentazione della Cina>>3 4• Il grande paese asiatico coglie dunque l'occasione della crisi per allentare la pressione militare e politico-diplomatica esercitata dagli Usa (in particolare dall'amministrazione Bush) e consolidare l'indipendenza politica, sia neutralizzando le interferenze statunitensi, sia rilanciando lo sviluppo economico mediante lo sgretolamento del semi-embargo tecnologico. Dall'altro lato, se anche in questo momento Washington è costretta a concentrarsi su altri bersagli, non per questo ha rinunciato all'obiettivo del contenimento o dell'aggressione ai danni della Cina: su La Stampa si può leggere che Jiang Zemin deve «mettere nel conto che la battaglia contro i talebani è condotta in nome di principi che potrebbero essere applicati un giorno» contro la stessa Cina (oltre che contro la Russia),5, Una superpotenza accelera la sua corsa per il conseguimento del dominio o dell' egemonia planetaria; un paese del Terzo Mondo accelera la sua corsa per la fuoriuscita dal sottosviluppo e dalla situazione di pericolo anche militare che questo comporta. Senonché, per i populisti, i «potenti» sono tutti uguali: il populismo è una forma di qualunquismo. Un'ultima considerazione. I devoti del mito populista e qualunquista della «nuova Yalta» dimenticano che la Yalta del 1944 è stata l'immediata vigilia di una terribile guerra fredda! Il fatto è che, assieme all'oblio delle regole della grammatica e della sintassi del dilnF. Miru.,Xùijiango Turkestanorientale?, in«Limes. Rivista italiana di geopolitica», n. 1, 1999, p. 92. 35 B. Spinelli, Vizi e virtù di un'alleanza, in «La Stampa» del 25 novembre 2001, p. 1. 34

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scorso politico, il populismo comporta anche la perdita della memoria storica. In tali condizioni diventa assai problematica e smarrisce comunque ogni efficacia la lotta per la pace e contro la politica di guerra dell'imperialismo.

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IV. ESISTE OGGI UN IMPERIALISMO EUROPEO? IMPERIALISMO USA, CONTRADDIZIONI INTERIMPERIALISTICHE E "IL NEMICO PRINCIPALE DEIPOPOLI" 1

1. La riscoperta di Lenin

Si può ancora parlare di «imperialismo»? Qualche tempo fa un libro di grande successo, firmato da due autori che si richiamano al movimento comunista, ne ha decretato la fine . Avrebbero ormai perso senso i confini nazionali e statali e i conflitti tra le grandi potenze e il mondo risulterebbe unificato in un unico Impero. La situazione odierna sarebbe radicahnente diversa rispetto a quella analizzata e affrontata da 1

Prima versione in tedesco: Gibt es beute einen europaischen Imperialismus?, in «Marxistische Blatter», n . 5, 2004, pp. 79-86; versione italiana dal medesimo titolo in «L'Ernesto. Rivista Comunista», ottobre 2004, pp. 56-62 (ripubblicata in AA. W ., Neocons. L'ideologia neoconservatricee le sfide della storia,Il Cerchio, Rimini, 2007, pp. 13-25); tr. francese inJacques Bidet (ed.), Gue"e impériale, gue"e sociale, PUF, Paris, 2005, pp. .31-4.3; tr. brasiliana in «Projeto Historia», n . .30, gennaio-giugno 2005, pp. 15· 28.

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Lenin. Se non che, nello scrivere il suo saggio sull'imperialismo, il grande rivoluzionario si richiama alla «fondamentale opera inglese sull'imperialismo»2 di Hobson, apparsa in prima edizione nel 1902. Era ancora fresco il ricordo della spedizione congiunta che due anni prima aveva represso nel sangue la rivolta dei Boxer in Cina. Pur costellata di massacri a danno dei «barbari », l'impresa era stata celebrata dai suoi ideologi e da una larga opinione pubblica in Occidente come la realizzazione del «sogno di politici idealisti, gli Stati Uniti del mondo civilizzato». L'impresa non aveva visto unite tutte le grandi potenze del tempo? Non è qui tanto importante rilevare che, a breve distanza di tempo, l'abbraccio internazionale del capitale avrebbe ceduto il posto alla carneficina della prima guerra mondiale. Conviene invece concentrarsi sul fatto che la categoria di imperialismo comincia ad affermarsi non in riferimento al conflitto tra le grandi potenze {latente o acuto a seconda delle circostanze e dei rapporti forza), ma per rispondere in primo luogo ad un'esigenza diversa. Se Theodore Roosevelt, nel 1904, celebra le imprese coloniali come operazioni di «polizia internazionale», portate avanti dalla «società civilizzata » nel suo complesso, in quello stesso periodo di tempo a parlare di imperialismo sono coloro che denunciano la realtà della guerra, dei massacri, dell'oppressione nazionale e dello sfruttamento economico cui sono sottoposti i popoli delle colonie e semi-colonie.

V. I. Lenin, Opere complete, Editori Riwùti, Roma, 1955, voi. XXII, p. 189. 2

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Ben si comprende allora quello che avviene ai giorni nostri. Alla cancellazione della categoria di imperialismo corrisponde la rinnovata trasfigurazione delle guerre coloniali come operazioni di polizia internazionale. A suo tempo, Michael Hardt (autore, assieme a Negri, del fortunato I,npero), ha giustificato la guerra contro la Jugoslavia, al tempo stesso in modo tortuoso e magniloquente: «Dobbiamo riconoscere che questa non è un'azione dell'imperialismo americano. È in effetti un'operazione internazionale (o, per la verità, sovra-nazionale). Ed i suoi obiettivi non sono guidati dai limitati interessi nazionali degli Stati Uniti: essa è effettivamente finalizzata a tutelare i diritti umani (o, per la verità, la vita umana)»>. Nonostante la retorica del nuovismo, sembra di rileggere Theodore Roosevelt! Questa deriva ha una sua logica. Partendo dal presupposto di un Impero, di uno Stato mondiale, che abbraccia l'intera umanità (e che ovviamente dispone di una sua polizia), le «operazioni di polizia internazionale» possono al più essere criticate in quanto eccessivamente energiche o insufficientemente imparziali; ma esse non possono essere contestate alla radice, in quanto espressione di rapporti politico-sociali fondati sulla legge del più forte, sulla violenza intrinseca all'imperialismo, che fa pesare una terribile minaccia su ogni Paese incline a difendere la propria indipendenza. Parlare di «superamento» dell'imperialismo significa infliggere un colpo grave al movimento di lotta per la pace.

3

«D manifesto» del 15 maggio 1999.

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Non a caso questa categoria viene oggi riscoperta da eminenti intellettuali, di orientamento borghese, ma comunque angosciati dagli sviluppi della situazione internazionale e dal crescente peso negli StatiUniti di circoli esplicitamente guerrafondai. E non si tratta affatto di intellettuali astratti. Persino politici di primo piano, quali il senatore americano Ted Kennedy e l'ex-cancelliere tedesco Helmut Schmidt non esitano a parlare, in relazione all'amministrazione Bush, di imperialismo ovvero di tendenze imperialistiche!. In questo senso, potremmo dire che, a partire dal tentativo di dare una risposta ad alcune domande pressanti per chiunque abbia a cuore le sorti della pace (perché la sconfitta del «campo socialista» ha aperto la strada non già ad un allentamento bensì ad un inasprimento della situazione internazionale? perché alla guerra fredda ha fatto seguito non già la pace perpetua promessa dai vincitori bensì una serie di guerre calde che sembra non dover conoscere fine?), si assiste ad una riscoperta di Lenin persino in campo borghese.

2. Unostrano elenco

Se ineludibile è la categoria di imperialismo, per quali Paesi dobbiamo farla valere? Stando a Contropiano, l'odierna situazione internazionale sarebbe caratterizzata dalla «competizione» sempre più intensa «tra • Cfr. D. Losurdo, La dottrina Bush e l'imperialismo planetario.

Isolare l'asse imperialista USA-Israele primo compito del movimento per la pace, L'Ernesto, novembre-dicembre 2002.

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il nascente polo imperialista europeo con gli altri poli (USA, Giappone, Cina)>>5. Dinanzi a questo quadro, anzi a questo elenco, alcune domande subito s'impongono. Ma perché non inserirvi la Russia, che tuttora dispone di un arsenale nucleare inferiore soltanto a quello della superpotenza americana? O perché non inserirvi l'India? Certo, il suo prodotto interno lordo è inferiore a quello della Cina, ma la percentuale destinata al bilancio militare è sensibilmente superiore, a giudicare almeno dai dati riportati dal volume di aggiornamento del 2002 dell'Enciclopedia Britannica. In ogni caso, l'India è una potenza nucleare, nutre «smisurate ambizioni» e conduce «una politica di potenza cinica», ha «moltiplicato gli interventi nello Sri Lanka dal 1987 al 1990» e ha sviluppato una non trascurabile marina da guerra che esibisce la sua forza sin «nello stretto di Malacca»6, A tutto ciò si accompagna l'ascesa di un'ideologia che celebra la «supremazia indù» e «ariana»7; è quest'ideologia che spinge il governo a chiudere un occhio o entrambi sui pogrom anti-islamici; ed è sulla base dell'islamofobia e dell'antisemitismo antiarabo che l'India stringe legami sempre più stretti con gli Stati Uniti e Israele. Riuscirà il ritorno del Partito del Congresso alla direzione del Paese a modificare queste tendenze e questi orientamenti?

s Cfr. Contropiano, febbraio 2003. 6 K. Jacobsen e S. H. Khan, Le smisurate ambizioni dell'India, in «Le Monde diplomatique-il manifesto», luglio 2002, p. 22 7 R. Lakshmi, Hindu rewriting ofhistory texts splits India, in «lntemational Herald Tribune» del 15 ottobre 2002, p. 12.

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Oppure, perché non inserire nell'elenco dei «poli imperialisti» un Paese come il Brasile? Il suo reddito pro capite è pressappoco cinque volte quello della Cina, e non mancano le voci che attribuiscono ambizioni nucleari al grande Paese latino-americano. È vero, se facciamo riferimento al prodotto interno lordo, una certa distanza separa il Brasile dalla Cina; ma tale distanza non è certo superiore a quella che separa la Cina, non diciamo dagli USA o dal Giappone o dall'Unione Europea nel suo complesso, ma già dalla Germania presa isolatamente. Alle domande qui formulate l'articolo di Contropiano da me criticato risponde indirettamente, allorché evidenzia la competizione «tra le economie più forti e/o i poli imperialisti». E, dunque: «polo imperialista» è sinonimo di potenza economica (misurata in termini di prodotto interno lordo). A questo punto, per fare l'elenco dei poli imperialisti basta riprodurre la classifica dei Paesi con più alto prodotto interno lordo. Se non che, ben lungi dall'essere oggettivo, l'elenco si rivela del tutto arbitrario: non si comprende perché esso debba includere la Cina e concludersi con essa, piuttosto che fermarsi prima o procedere ancora oltre. L'approccio statistico mette fuori gioco la storia, la politica, l'ideologia. L'unica cosa che realmente conta è l'empiria immediata dell'ammontare del pil. Con conseguenze paradossali. Se dovesse bloccarsi la crescita economica della Cina, questa cesserebbe di essere un Paese o un «polo» imperialista; diventerebbe invece imperialista il Brasile di Lula, se dovesse avere successo nel suo tentativo di sottrarsi ali'abbraccio neocolonialista dell'Alca e di dare impulso allo sviluppo di un'autonoma economia nazionale. I Paesi più im-

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portanti del Terzo Mondo vengono così posti dinanzi ad una imbarazzante alternativa: o continuare ovvero tornare ad essere una semicolonia oppure diventare una potenza imperialista! Se voghono evitare l'accusa di imperialismo, devono rassegnarsi alla sconfitta politica o al fallimento sul piano economico!

3. Il ruolo delta Cina Ma proviamo a far re-intervenire la storia, la politica, l'ideologia. Alla vigilia delle guerre dell'oppio, la Cina è ceno ai primi posti nella classifica dei Paesi con più alto prodotto interno lordo; ma non per questo è un Paese imperialista, come conferma l'orribile oppressione e umiliazione che essa appena dopo comincia a subire. E ai giorni nostri? Facciamo pure astrazione dal fatto che, nel grande Paese asiatico, a detenere il monopolio del potere politico è un partito comunista che nei suoi documenti ufficiali tuttora si richiama a Marx, a Lenin e a Mao, oltre che al socialismo, un partito al quale fino a ieri non erano ammessi gli imprenditori e che ancora oggi, stando ai dati riportati dal Il Sole-24 Ore dell'8 novembre, vede al suo interno una larga maggioranza di operai, contadini e pensionati. Sì, sorvoliamo su tutto ciò, anche se prima o dopo bisognerà pure aprire un dibattito su un tema ineludibile per coloro che si richiamano a Marx: un partito comunista che conquista il potere in un Paese in condizioni semicoloniali e di terri-bile arretratezza economica deve impegnarsi in primo luogo a ridistribuire le scarse risorse disponibili (senza nep-

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pure propriamente risolvere il problema della fame e dell'inedia), oppure deve far leva sullo sviluppo delle forze produttive (che è anche il prerequisito per la difesa dell'indipendenza nazionale)? Ma qui partiamo dall'ipotesi che in Cina sia stato intrapreso e portato a tennine un processo di restaurazione capitalistica. Dobbiamo considerare imperialista un Paese che è fondamentalmente ripiegato al suo interno e che vede tutte le sue forze assorbite dall'obiettivo di quadruplicare in vent'anni il pil, così com'è riuscito a fare nei vent'anni precedenti? L'imperialismo ha anche una dimensione ideologica, come dimostra da ultimo l'esempio degli USA, che si autodefiniscono una «nazione eletta» ed «unica» e che rivendicano il loro diritto a intervenire e a portare avanti la loro «grande missione» in ogni angolo del mondo. Diametralmente opposta è l'ideologia ribadita dal recente Congresso del PCC che, sul piano internazionale, riafferma i principi della coesistenza pacifica e dell'uguaglianza tra i diversi Paesi e, sul piano interno, chiama a raddoppiare gli sforzi per mantenere la «stabilità» e assicurare il benessere generale ad una popolazione che ammonta ad un quinto dell'umanità! L'attenzione ai problemi della pace e dello sviluppo rappresenta un chiaro elemento di continuità ideologica rispetto al passato: si pensi, ad esempio, agli anni della Conferenza di Bandung. Ipotizzare una trasformazione indolore in un «polo imperialista» da parte di un Paese a lungo alla testa dei movimenti di emancipazione nazionale significa dar prova - avrebbe detto Trotskij - di un «riformismo rivoltato »! D'altro canto, possiamo considerare definitivamente conclusa la lotta di liberazione nazionale che ha presie-

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duto alla nascita della Repubblica Popolare Cinese? Non si tratta solo di Taiwan. A partire, per lo meno, dal trionfo degli USA nella guerra fredda, insistenti risuonano le voci che prevedono o auspicano per il grande Paese asiatico una fine analoga a quella subita dall'Unione Sovietica o dalla Jugoslavia: «una nuova frammentazione della Cina è l'esito più probabile» - annunciava un libro di successo pubblicato a New York nel 1991-8 • Quattro anni dopo, è la rivista Limes a richiamare l'attenzione, già nel suo editoriale, sull'aspirazione di importanti circoli statunitensi ed occidentali a smembrare la Cina in «molte Taiwan». In quello stesso numero della rivista, un ex-generale degli alpini e ora docente di geopolitica scrive a proposito dei cinesi: «Sanno berùssimo che la loro espansione economica sta suscitando gelosie e timori e che il mondo esterno, dagli Stati Uniti al Giappone e agli Stati confinanti, spera nell'instabilità interna e forse nella frammentazione del colosso cinese>:-9. Ancora quattro anni dopo,nel 1999, sempre su Limes, un altro generale, si richiama, simpateticamente, agli studi di un «esperto» statunitense che invita l'amministrazione del suo Paese ad «affrontare in maniera più coerente la futura frammentazione della Cina>>1°. E questi inviti non sono semplici esercitazioni accademiche. Sempre nel 1999, l'anno del bombardamento dell'ambasciata

Cfr. G. Friedman e M. Lebard, TheComing Warwith Japan, St. Martin Press, New York 1991. ' C . Jean, Le direttrici geostrategiche di Pechino, in «Limes. Rivista italiana di geopolitica», n-1, 1995, p. 121. 1° F. Mini, Xinjiang o Turkestan orientale?, in «Limes. Rivista italiana di geopolitica», n. 1, 1999, p. 92. 8

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cinese a Belgrado, un esponente dì rilievo dell' amministrazione americana dichiara che la Cina già solo per la sua «dimensione » costituiva un problema ovvero una potenziale minaccia per i suoi vicini11. D'alu-o canto, lo scudo spaziale particolarmente caro a Bush jr. mira anche o in primo luogo a mettere il grande Paese asiatico, impegnato nello sviluppo e nella corsa per superare l'arretratezza, dinanzi ad un dilemma: rinunciare ad un deterrente nucleare credibile (e quindi esporsi disarmato al ricatto di Washington), oppure farsi coinvolgere in una corsa al riarmo economicamente e politicamente devastante. E' una riedizione del «grande gioco» che ha componato la disfatta e lo smembramento dell' Unione Sovietica. E, dunque, anche a voler panire dal presupposto (arbitrario) della restaurazione del capitalismo in Cina, le sue contraddizioni con gli USA non potrebbero essere definite come competizione tra «poli imperialisti». Sarebbe preoccupante sei comunisti fossero in grado di riconoscere e appoggiare una lotta per la liberazione o l'indipendenza nazionale solo quando questa si svolge in condizioni disperate o assai difficili!

4. L'Unione Europea non è uno Stato Per quanto riguarda i rapporti tra superpotenza americana e Unione Europea, si fa spesso riferimenM . Richardson, Amz Looks to Zhu for Sign ofBacking Off On Spratlys, in «lnternational Herald Tribune» del 22 novembre 1999, p. 5. 11

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to al tendenziale mutamento dei rapporti di forza sul piano economico tra questi due «poli imperialisti». Ma è privo di senso un confronto tra due grandezze così eterogenee: l'Unione Europea non è uno Stato! Da che parte si sdùererebbe l'Inghilterra nella fantomatica ipotesi di un conflitto tra le due rive dell'Atlantico? E da che parte si schiererebbe l'Italia di Berlusconi? E riuscirebbe a sopravvivere l'odierno, malfermo, asse franco-tedesco all'eventuale ritorno al potere in Germania dei democristiani e in Francia di un partito socialista dai forti legami con Israele? Ancora unavolta l'economicismo si rivela fuorviante. Diamo uno sguardo alle modalità con cui oggi si svolge la corsa al riarmo: nel 2003 gli Stati Uniti spenderanno da soli più dei 15-20 Paesi inseguitori messi assieme. Incohnabile sembrerebbe essere il vantaggio su cui può contare la superpotenza americana, la quale, tuttavia, continua ad accelerare: solo per il settore della Ricerca e dello Sviluppo militare, Washington destina risorse finanziarie superiori ai bilanci militari complessivi della Germania e della Gran Bretagna messi assieme 12 • Infine: «gli USA spendono per la Difesa quasi il doppio dell'insieme degli altri membri dell'Alleanza (prima dell'allargamento)»13• E ora rileggiamo Lenin: la guerra tra le potenze imperialistiche interviene allorché i rapporti di forza si modificano a favore della potenza emergente e a S. G. Brooks e W. C. Wohlforth,American Primacy in Perspective, in «ForeignAffairs», luglio/agosto 2002, pp. 21-2. 13 F. Venturini, Il rischio dett'Allea,u,a: diluita e semprepiù «americana», in «Corriere della Sera» del 23 novembre 2002 , p.5. 12

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danno della potenza sino a quel momento egemone. Lo illustra in modo particolarmente brillante la dialettica che presiede allo scoppio della prima guerra mondiale, col declino dell'Inghilterra e la contemporanea ascesa della Germania. Se non che,la situazione odierna è del tutto diversa: i rapponi di forza ceno si modificano ma accrescendo ulteriormente il vantaggio di cui gode la superpotenza americana. Alla vigilia della prima guerra mondiale, l'Europa è divisa e lacerata da due contrapposti schieramenti diplomatico-militari che raggruppano i Paesi che successivamente si affrontano sui campi di battaglia; ai giorni nostri vediamo all'opera un'unica Alleanza, che si allarga sempre di più e che continua ad essere egemonizzata dagli Stati Uniti. Negli anni che precedono il 1914, l'Inghilterra suona ripetutamente l'allarme per il progressivo rafforzarsi del potenziale militare della Germania; ai giorni nostri, al contrario, gli USA sferzano gli alleati europei perché destinano insufficienti risorse al bilancio militare e così rischiano di non essere più in grado di partecipare, in funzione subalterna, alle spedizioni punitive in ogni angolo del mondo sovranamente decise da Washington. Far riferimento all'antagonismo anglo-tedesco, e quindi alla dialettica che presiede allo scoppio della prima guerra mondiale, non ci aiuta in alcun modo a comprendere gli odierni rapporti internazionali. Semmai, ferma restando l'assoluta peculiarità di ogni situazione concreta, è un diverso capitolo di storia che conviene tener presente. Nel 1814 termina il duello che aveva contrapposto Londra e Parigi per quasi un quarto di secolo e che aveva persino travalicato i confini dell'Europa, configurandosi agli occhi dei

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contemporanei come una sorta di guerra mondiale. Al crollo dell' «imperialismo napoleonico»14 - così si esprime Lenin nelluglio 1916- fa seguito l'egemonia incontrastata della Gran Bretagna, che può così sviluppare la sua espansione coloniale ed estendere la sua influenza in ogni angolo del mondo. E' la cosiddetta «pace dei cento anni». Naturalmente, anche in tale arco di tempo non mancano le tensioni e i conflitti tra le grandi potenze, per non parlare dei massacri di cui queste si rendono responsabili nelle colonie. Resta il fatto che una sfida mortale alla potenza egemone verrà lanciata soltanto ad un secolo di distanza dal trionfo inglese del 1814. Per dirla col Lenin dell' Imperialismo: «Mezzo secolo fa la Germania avrebbe fatto pietà se si fosse confrontata la sua potenza capitalista con quella dell'Inghilterra d'allora»15. Oggi, in realtà, è decisamente più grande il distacco che separa la potenza egemone rispetto ai possibili sfidanti. Diamo la parola allo storico statunitensePaul Kennedy: «L'esercito britannico era molto più piccolo degli eserciti europei, e perfino la Marina reale non superava per dimensioni le due Marine combinate delle potenze che occupavano il secondo e il terzo posto - in questo momento, tutte le altre Marine del mondo messe insieme non potrebbero minimamente intaccare la supremazia militare americana»16. E non si dimentichi che lo strapotere navale, sommato al controllo delle aree più ricche di •• Lenin, op. cit., voi. XXII, p . .308. u Ivi, pp. 294-5. 16 P.Kennedy, cit. in M. Hirsh, In Europa, in «Limes. Rivista italiana di geopolitica», n . .3,2002, p. 71.

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petrolio e di gas naturale, dà agli USA la possibilità di tagliare le vie di rifornimento energetico ai potenziali nemici. Da questo punto di vista, il Giappone è in una condizione di debolezza ancora maggiore dell'Unione Europea. Se così stanno le cose, non ha senso stare a scrutare l'orizzonte alla ricerca di nubi che preludano ad una futura tempesta militare e ad un futuro scontro tra gli USA e l'Unione Europea ovvero tra gli USA e il Giappone. Chi pensa che, con la scomparsa dell'Unione Sovietica, e cioè del Paese scaturito dalla rivoluzione d'Ottobre e dalla lotta contro la carneficina della prima guerra mondiale, il mondo sia tornato alla situazione precedente il 1914, farebbe bene a ricredersi.

5. Unl11rpero planetario Al di là del mutamento rappresentato dal crollo del tradizionale colonialismo e dall'esistenza di Paesi e partiti di governo che continuano a richiamarsi al socialismo, trasformazioni profonde sono intervenute anche nei rapporti tra le grandi potenze capitalistiche. La guerra inter-imperialista di cui parla Lenin è lo strumento per ridefinire le sfere d'influenza in base ai nuovi rapporti di forza, che sono il risultato della disuguaglianza dello sviluppo. Ai giorni nostri, invece, sempre più netta emerge l'ambizione degli Stati Uniti di costruire un impero planetario, da gestire in modo solitario ed esclusivo. Siamo in presenza di un fenomeno nuovo. Certo, nel momento in cui ritiene di poter rapidamente liquidare l'Unione Sovietica e,

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sull'onda di questa ulteriore vittoria, di costringere la Gran Bretagna alla capitolazione, Hitler accarezza l'idea di utilizzare l'Europa continentale così assoggettata e unificata per lanciare una sfida anche agli Stati Uniti e conquistare l'egemonia mondiale. Ma si tratta di un'illusione di breve durata e, soprattutto, di un progetto che, sin dall'inizio, è privo delle gambe per poter realmente camminare. Ai giorni nostri, invece, gli USA sono già presenti dappertutto con le loro navi da guerra e con le loro basi e, grazie all'enorme vantaggio militare accumulato, con arroganza sempre maggiore teorizzano il loro diritto a inte1venire e a dettar legge in ogni angolo del mondo. Nella cultura statunitense è ormai diventato un luogo comune il richiamo all'impero romano: esso ora sarebbe risorto a nuova vita al di là dell'Atlantico, senza più le limitazioni geografiche e temporali del passato, in modo da consacrare il dominio perenne della nazione «unica» ed «eletta da Dio»17• Per poter fronteggiare questa folle ambizione, è intanto necessario prenderla sul serio: è fuorviante mettere sullo stesso piano gli Stati Uniti e le altre grandi potenze capitalistiche. Hanno dunque ragione Kautsky e Negri a parlare rispettivamente di «ultra-imperialismo» e di «Impero»? Il realtà, il discorso dell'Impero ormai unificato e il discorso, apparentemente contrapposto, dello scontro all'orizzonte tra i Così G. W.Bush, cit. in R Cohen, No, Mr. Lieberman, America lsn't Really God's Country,in «lntemationalHerald Tribwie», 8 settembre 2000, p. 7 (nell'articolo si parla erroneamente diLieberman, ma il giorno dopo è apparsa la rettifica: la dichiarazione criticata è in realtà di Bush, ivi, 9 settembre, p. 6). 17

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poli imperialisti partono da un presupposto comune: sarebbe lecito parlare di imperialismo solo allorché la rivalità tra le grandi potenze capitalistiche fosse così acuta da sfociare o tendere a sfociare nello scontro armato. Ma le cose non stanno in questi termini: durante la guerra fredda, agli Stati Uniti è senza dubbio riuscito di egemonizzare l'intero mondo capitalistico. Non per questo l'imperialismo era dileguato: nel 1956, Washington approfitta della crisi di Suez per estromettere dal Medio Oriente Inghilterra e Francia, le quali, tuttavia, sono e si sentono così deboli nei confronti del loro «alleato» di oltre Atlantico, che finiscono col rinunciare senza opporre grande resistenza ad una loro tradizionale e importante zona d'influenza. Dopo la fine della guerra fredda, lo squilibrio di forze a favore della supetpotenza americana si è ulteriormente accentuato. Ma ciò non comporta in alcun modo il dileguare dell'imperialismo. Al contrario, oggi risulta quanto mai istruttiva la polemica di Lenin con Kautsky: l'imperialismo non mira ali'assoggettamento soltanto delle zone agrarie e delle aree periferiche; la ricerca dell'egemonia può acutizzare la questione nazionale persino nel cuore stesso dell'Europa, come osserva Lenin nel luglio 1916, nel momento in cui, con le armate guglielrnine alle porte di Parigi, la guerra sembra doversi concludere con una vittoria della Germania «di tipo napoleonico>>' 8 • Ai giorni nostri, gli aspiranti padroni del mondo non si accontentano di ridisegnare radicalmente la geografia politica dei Balcani e del Medio Oriente. Al di là della 18

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Lenin, op. cit., voi. XXII, p . .308.

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Cina, presa particolarmente di mira per la sua storia e la sua ideologia, ad essere minacciata di smembramento è anche la Russia. Persino per quanto riguarda i Paesi di più consolidata tradizione capitalistica, il loro rapporto con la superpotenza americana può essere descritto solo in parte mediante la categoria di competizione inter-imperialistica. Si pensi in particolare all'Italia: gli USA la possono controllare con le basi militari e con le truppe sottratte alla giurisdizione ordinaria, con una rete capillare di spionaggio che si avvale dei metodi tradizionali e della tecnologia sofisticata di Echelon, con gli attentati terroristici e la strategia della tensione che scatta al momento opportuno, con la loro fone presenza economica, con un ceto politico che rigurgita di Quisling o aspiranti Quisling. Nel 1948, nell'ipotesi di una vittoria elettorale della sinistra, la Cia aveva approntato piani per proclamare l'indipendenza della Sicilia e della Sardegna: la dialettica oggettiva dell'imperialismo tende ad acuire la questione nazionale nel cuore stesso della metropoli capitalistica. D'altro canto, per deboli che siano, le titubanze e le riserve di alcuni Paesi europei, non ci consentono di metterli sullo stesso piano dei più decisi istigatori della guerra: è l'asse statunitense-israeliano dell'aggressione imperialista che è comunque deciso a distruggere non solo l'Iraq, ma anche l'Iran, la Siria, la Libia, per non parlare della Palestina.

6. I rapporti di/orza sul piano ideologico A livello internazionale, i rapporti di forza sul piano militare sono chiari. Ma sarebbe miope ignorare la di-

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mensione ideologica del problema. Per allargare la base sociale di consenso stÙ piano interno, per proiettarsi più agevolmente all'esterno e riuscire a raggruppare una quinta colonna nei Paesi controllati o da controllare, una grande potenza imperialistica ha bisogno di un mito genealogico, deve riuscire a presentarsi come l'incarnazione di una superiore missione alla quale è sciocco e criminale voler opporre resistenza. Alla fine dell'Ottocento, dopo aver celebrato i prodigiosi successi conseguiti dalla Germania stÙ piano economico, politico e ctÙturale, un feivente e influente sciovinista, e cioè Heinrich von Treitschke, prevedeva e auspicava che il Novecento diventasse un «secolo tedesco». Ai giorni nostri, privo ormai di qualsiasi credito in patria, questo mito ha preferito trasmigrare negli Stati Uniti, dove ha trovato accoglienza calorosa e entusiastica: è noto che il «nuovo secolo americano» è la parola d'ordine agitata dai circoli neoconseivatori, che un ruolo così importante svolgono nell'ambito dell' amnùnistrazione Bush e, più in generale, della cultura politica statunitense. Differenziandosi nettamente dalla Germania guglielmina, Paesi come la Francia, l'Inghilterra, l'Italia e gli Stati Uniti sono andati incontro al massacro della prima guerra mondiale agitando la bandiera dell' «interventismo democratico»: la guerra era necessaria per far avanzare stÙ piano mondiale la causa della democrazia, per liquidare negli Imperi centrali l'autocrazia e l'autoritarismo e sradicare così una volta per sempre il flagello della guerra. Comune in passato a tutti i nemici occidentali della Germania, questo motivo ideologico è ora diventato un monopolio degli

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Stati Uniti: il Paese che già con Jefferson aspirava a realizzare «un impero per la libertà, quale mai è stato visto dalla Creazione ad oggi», che si gloria di aver liberato il mondo prima dal totalitarismo nazi-fascista e poi dal totalitarismo comunista, oggi si presenta, per usare le parole di Bush, come la «nazione eletta da Dio» quale «modello per il mondo» e col compito di imporre dappertutto «democrazia» e «libero mercato». Nella storia dell'Europa il fascismo e il nazismo hanno comportato l'awento di nuovi miti genealogici e di nuove ideologie della guerra. «L'Impero è tornato sui colli fatali di Roma»: con tale slogan Mussolini si gonfiava il petto e giustificava la marcia espansionistica e i crimini orrendi dell'Italia fascista. Ma oggi questa ideologia non gode più di alcun prestigio nel nostro paese. Al contrario, le forze più reazionarie, quelle impegnate a smantellare lo Stato nazionale assieme a quello sociale, amano gridare: Roma ladrona! Misconosciuto o disprezzato nella sua terra d'origine, il mito caro a Mussolini ha attraversato l'Atlantico, e ora politologi e ideologi di grido non esitano a presentare gli Stati Uniti come una sorta di rinato impero romano di dimensioni planetarie. Infine. Il Terzo Reich ha costruito la sua ideologia attingendo largamente alle tradizioni razziste degli Stati Uniti: contro la minaccia che sull'Occidente e la civiltà in quanto tale facevano pesare i bolscevichi orientali e i popoli coloniali e di colore da essi aizzati, la Germania hitleriana amava presentarsi come il campione della riscossa bianca e occidentale, come il Paese chiamato a riaffermare la white supremacy su scala planetaria e sotto egemonia tedesca. Questa

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ideologia è ritornata al suo luogo d'origine, anche se ora gli Stati Uniti preferiscono presentarla in forma più levigata: Hitler si atteggiava a campione della supremazia ovvero della missione occidentale, bianca o ariana; oggi è più opportuno limitarsi a parlare di missione dell'Occidente! In conclusione. Sul piano ideologico i rapporti di forza sono sbilanciati a favore degli Stati Uniti in modo ancora più netto che su quello militare. E come, sul piano militare, anche su quello ideologico la supremazia dell'unica superpotenza mondiale tende a diventare ancora più schiacciante. Sostenuta da un formidabile schieramento multimediale, è in corso a livello mondiale una massiccia campagna, il cui obiettivo è chiaro e allarmante: come oggi viene liquidata quale espressione di antisemitismo ogni critica coerente della politica di Israele, in modo analogo in futuro ogni critica non meramente episodica della politica statunitense dovrà essere bollata quale espressione di un antiamericanismo torbido e antidemocratico! E così, oltre che a livello politico-militare, l'alleanza tra Stati Uniti e Israele si salda ulteriormente anche a livello ideologico e, si potrebbe aggiungere, persino teologico: è sacrilego e blasfemo schierarsi contro quella che Bush, con linguaggio vetero-testamentario, definisce la «nazione eletta da Dio»19. Siamo di fronte ad una campagna che non prende di mira soltanto i movimenti rivoluzionari: per essersi rifiutata di appoggiare la guerra preventiva di Bush, la Francia non solo è esclusa dalla lucrosa «ricostruzione» " In R. Cohen, cit.

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dell'Iraq ed è colpita da altre rappresaglie economiche, ma è anche additata al pubblico ludibrio sul piano internazionale in quanto focolaio di antiamericanismo e di antisemitismo! Al potere di annientamento nucleare gli Stati Uniti hanno ora aggiunto, grazie anche al rinsaldarsi dell'alleanza con Israele, il potere di scomunica e cioè di annientamento ideologico e morale. E non si perda di vista il fatto che la campagna anti-francese (e anti-europea) lanciata da oltre Atlantico può contare sull'appog-stessa Europa) di uno schieramento tutt'altro che trascurabile. C'è un altro elemento da non perdere di vista. Oggi nei principali Paesi europei (Inghilten-a, Francia, Italia, Spagna) si manifesta un'agitazione separatista, che può talvolta assumere la forma di lotta armata; e ancora una volta sono gli Stati Uniti a decidere se tali movimenti sono da inserire nella lista delle organizzazioni terroristiche o in quella dei movimenti di liberazione nazionale! E cioè, al di là dell'Unione Europea, Washington ha la possibilità di disgregare gli stessi Stati nazionali che la costituiscono. Ma, allora, che senso ha evocare lo spettro di un imperialismo europeo in ascesa, che si appresta a sfidare e a scalzare la superpotenza americana? A spingere in direzione di questa fantapolitica è una lettura dottrinaria e scolastica di Lenin, è la convinzione per cui ogni grande Paese capitalistico può svolgere sempre e soltanto una funzione imperialistica. Ma questa non è l' opinione di Lenin. L'abbiamo visto ipotizzare nel 1916, nel caso di una «vittoria di tipo napoleonico» dell' esercito di Guglielmo II, una guerra di indipendenza e di liberazione nazionale condotta dalla Francia, che

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pure in quel momento dispone di un grande impero coloniale. Quattro anni dopo, nel presentare l'edizione francese e tedesca dell'Imperialismo, Lenin è costretto a prendere atto di una situazione radicalmente nuova: la gara per l'egemonia mondiale, «la spartizione del "bottino" ha luogo tra due o tre predoni (Inghilterra, America, Giappone) di potenza mondiale, armati da capo a piedi, che coinvolgono nella loro guerra, per la spartizione del loro bottino, il mondo intero ». Non si parla qui della Francia. Ma ad essere significativo è soprattutto un altro silenzio: sottoposta com'è alla pace di Versailles, «di gran lunga più brutale e infame» della pace di Brest-Litovsk, nel 1920 la Germania non è inserita nel novero delle potenze imperialistiche20. Certo, con l'ascesa prima e l'avvento al potere poi del nazismo, la situazione cambia di nuovo e in modo ancora più radicale. Il Terzo Reich consegue la «vittoria di tipo napoleonico» che era sfuggita a Guglielmo II: di conseguenza, anche un Paese capitalistico avanzato e con ampi possedimenti coloniali qual è la Francia si trasforma a sua volta in una colonia o in una semicolonia della Grande Germania ed è costretta quindi ad impegnarsi in una guerra di liberazione nazionale, per l'appunto secondo la previsione o l'analisi di Lenin. Senza farsi ingabbiare dalla scolastica, i comunisti devono sempre procedere ad un'analisi concreta della siruazione concreta. Ai giorni nostri, la lotta contro l'imperialismo è essenzialmente la lotta contro l'imperialismo americano e contro l'asse Stati Uniti-Israele.

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Lenin, op. cit., p. 193.

V. LA DOTTRINA BUSH E L'IMPERIALISMO PLANETARIO ISOLARE L'ASSE IMPERIALISTA USAISRAELE PRIMO COMPITO DEL MOVIMENTO PER LA PACE

Nonostante si sviluppi nella medesima area geografica e abbia di mira il medesimo paese, l'aggressione contro l'Irak che gli Stati Uniti si apprestano a scatenare ha un significato sensibilmente diverso e decisamente più inquietante della guerra del Golfo del 1991. Nel frattempo è intervenuta la dottrina Bush, con la teoria della guerra preventiva, chiamata a fronteggiare «le minacce emergenti prima che esse abbiano preso pienamente forma». Che si tratti di «una minaccia specifica nei confronti degli Stati Uniti» ovvero «dei loro alleati ed amici», di una minaccia alla sicurezza o anche solo agli «interessi», tutte, senza distinzioni superflue, devono essere liquidate. A chi ancora non l'avesse compreso, l'amministrazione americana chia-

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Pubblicato in «L'Ernesto. Rivista comunista», novembredicembre 2002, pp. 60-64.

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risce di essere pronta ad «agire ogni qual volta i nostri interessi siano minacciati». Ma tutto ciò non basta; è necessario farla finita con «terroristi e tiranni» e coi paesi i quali «rifiutano i valori umani basilari ed odiano gli Stati Uniti e tutto ciò che essi rappresentano». Se si tiene presente che a definire le «minacce», gli «interessi»,i «terroristi», i «tiranni», i «valori umani basilari», e persino il sentimento di «odio» è sempre e soltanto la superpotenza americana, che esplicitamente rifiuta di lasciarsi legare le mani da un organismo internazionale, una conclusione si impone: non c'è paese, qualunque sia il suo regime politico e sociale, non c'è area geografi.ca, per lontana che sia dagli Stati Uniti, che possa considerarsi al riparo dalla pretesa alla giurisdizione universale che si arroga Washington. Siamo in presenza di un interventismo planetario che, in nome della prevenzione, è pronto a mettere a ferro e fuoco il pianeta. Non a caso, un pathos attivistico attraversa in profondità la dottrina Bush: «Nel nuovo mondo in cui ci siamo affacciati l'unica strada per la salvezza è la strada dell'azione». E questa azione, come in più occasioni è trapelato dalle dichiarazioni di questo o quell'esponente dell' amministrazione americana, può ben varcare la soglia nucleare. Si comprendono allora l'inquietudine e l'allarme che si diffondono ben al di là dei circoli della sinistra. Cosa sta succedendo? Perché alla guerra fredda ha fatto seguito non già la pace perpetua promessa dai vincitori bensì una serie di guerre calde che sembra non dover conoscere fine? Quali sono i reali obiettivi del nuovo corso e della dottrina Bush? Se esaminiamo le risposte o i tentativi di risposta a tali domande, ecco

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che una categoria balza agli occhi. Già subito dopo I' 11 settembre, un eminente storico inglese delle dottrine politiche, Quentin Skinner, ha dichiarato: «Penso sarebbe più giusto caratterizzare gli attacchi terroristici non come rivolti alla libertà o agli ideali americani, ma alla politica americana, all' imperialismo americano, soprattutto in Medio Oriente» (Passarini, 2001). Ed ora diamo la parola ad altri due studiosi, questa volta statunitensi: «La guerra americana contro il terrore è una riedizione dell'imperialismo>>2; ad ispirare Bush - osserva Anatol Lieven, esponente di una prestigiosa istituzione (Carnegie Endowment for lnternational Peace) - è un «imperialismo sempre più esplicito» (in Lewis, 2002, p. 6). Ad esprimersi in questo modo non sono solo intellettuali: se Ted Kennedy prende le distanze dal «nuovo imperialismo» di Washington (in Molinari, 2002), l'ex-cancelliere tedesco Helmut Schmidt denuncia con forza la «tendenza americana all'unilateralismo o persino all'imperialismo>>3. Indipendentemente da questo o quell'autore, da questa o quella personalità, sempre più frequentemente risuonano le riserve o le critiche nei confronti dell' «imperialismo del libero mercato» ovvero dell' «imperialismo dei diritti umaru». Sul versante opposto, non mancano i tentativi di riabilitazione. In occasione della guerra contro la Jugo-

M. Ignatieff,Lehrer Atta, Big D unddie Amerikaner, in «Die Zeit» del 15 agosto (nr. 34) 2002, p. 11 (originariamente pubblicato su «The New YorkTimes Magazine»). 3 H. Schmidt, Europa brauchtkeinen Vormund,in «Die Zeit» del 1 agosto (nr. 32) 2002, p. 3. 2

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slavia, sulla stampa americana si poteva leggere: «Solo l'imperialismo occidentale - benché pochi amino chiamarlo per nome - può ora unire il continente europeo e salvare i Balcani dal caos»4 • Ad un paio d'anni di distanza il discorso diventa più preciso; da «occidentale» l'imperialismo diventa univocamente statunitense; ed ecco "Foreign Affairs" proclamare, già nel titolo della pagina che introduce il numero della rivista e poi nell'articolo di apertura, che «la logica dell'imperialismo', ovvero «del neoimperialismo è troppo stringente perché Bush possa resistervi>>5. Sì, gli Stati Uniti, sarebbero «un imperialista riluttante», ma necessario e benefico. Per la verità, la vignetta chiamata ad illustrare questa tesi, che rappresenta uno zio Sam impegnato a giocherellare col mappamondo, dà un'idea, più che della riluttanza, di un sovrano compiacimento. E, tuttavia: da un lato la riabilitazione di una categoria divenuta odiosa negli anni della lotta contro il nazifascismo e il colonialismo rende evidente la radicalità del processo di reazione oggi in atto; dall'altro la critica dell'odierna politica di guerra e di potenza fa ricorso sempre più frequente ad una categoria che gioca un ruolo centrale nell'analisi di Lenin, un autore a lungo considerato morto e travolto dalle rovine del campo socialista.

• R. D. Kaplan, A NATO Victory Can Bridge Burope's Growing Divide, in «Internationa!Herald Tribune» dell'8 aprile 1999, p. 10. s S. Mallaby, The Reluctant!mpen'alist, in «ForeignAffairs», marzo-aprile 2002, pp. 2-7.

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LIMPERIALISMO PLANETAJUO

1. Dal nuovo ordine internazionale alt'ùnperialis,no

Come spiegare queste novità? Dieci anni fa Bush sr. scatenava la guerra contro l'Irak in nome del Nuovo Ordine Internazionale: erano chiamati a costruirlo l'Occidente nel suo complesso, il Giappone e persino la boccheggiante Unione Sovietica di Gorbaciov; almeno in teoria, ad essere protagonista era la «comunità internazionale», il mondo «civile» in quanto tale. Ben diverso è il clima ideologico dei giorni nostri. La dottrina di Bush jr. rivendica agli Stati Uniti e solo ad essi una «grande missione». Non a caso si tratta del presidente, che a suo tempo ha condotto la campagna elettorale agitando un dogma sul quale non è consentito alcun dubbio: «La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo». È vero, si tratta di un vecchio motivo dell'ideologia americana. Ma esso, ora, non solo diventa ossessivo, ma pretende di essere il principio-guida per la trasformazione e rigenerazione dell'intero pianeta, e cioè per il suo assoggettamento alla volontà sovrana di Washington. Rispetto ad un paese ispirato e consacrato dalla divina Provvidenza, non solo «terroristi e tiranni», ma anche i tradizionali alleati «democratici» si rivelano in tutta la loro profana volgarità e irrilevanza. La stessa Alleanza Atlantica, per non parlare dell'Onu, può collaborare e rendersi utile all'amministrazione americana ma non deve essere d'intralcio alla sua volontà sovrana: «dobbiamo essere preparati ad agire separatamente quando i nostri interessi e le nostre uniche responsabilità lo richiedano». Già in

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un'intervista della scorsa estate il presidente statunitense ha tenuto a sottolineare che «gli Stati Uniti sono in una posizione unica» 6• Alla «comunità internazionale», che ha presieduto alla prima guerra del Golfo e all'aggressione contro la Jugoslavia, è subentrata la nazione «unica» ed «eletta da Dio». A questo punto, emerge con nettezza il carattere subalterno della funzione prevista per i paesi «alleati», ed ecco che al loro interno cominciano ad emergere voci critiche nei confronti dell' «unilateralismo» e, talvolta, persino dell«'imperialismo» di Washington. Si tratta di una presa di coscienza non solo timida e incompleta, ma anche piuttosto tardiva. Vediamo con quali argomenti, in occasione della prima guerra del Golfo, i suoi campioni hanno cercato di convincere i settori dell'opinione pubblica americana riluttanti ad imbarcarsi nell' awentura bellica: «Dawero gli isolazionisti conservatori si sentirebbero sollevati se la Marina giapponese pattugliasse il Golfo mentre 100.000 soldati giapponesi sbarcano in Arabia Saudita?»Il giornalista italiano, che riportava tale dichiarazione di Irving Kristol, commentava: «Non c'è dubbio che il gruppo dirigente degli Stati Uniti abbia visto nella crisi una occasione di riproposizione della leadership americana sul terreno su cui non conosce concorrenti», e cioè sul terreno militare7. Qualche tempo dopo, sull'onda della vittoria contro l'Irak, Washington minacciava anche la B. Woodward, Bush's sets a course of "confident action", in «IntemationalHerald Tribune»del 20novembre 2002, pp. 1 e4. 7 R. Brancoli, Dietro il consenso a Bush giàserpeggia il malumore, «Corriere della Sera» del 24 agosto 1990, p. 3. 6

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Libia, ed ecco l'ambasciatore russo a Tripoli, Beniamin Popov, osseivare che gli Usa mu:avano sì a «controllare la produzione del greggio mediorientale», ma anche ad «impedire lo svilupparsi delle relazioni economiche tra Libia ed Europa» 8• A questo punto conviene rileggere Lenin: a caratterizzare l'imperialismo è «la conquista di terre, diretta non tanto al proprio beneficio quanto ad indebolire l'avversario». Possiamo ora comprendere meglio gli obiettivi perseguiti dalle guerre del Golfo nonché dall'insediamento che, col pretesto della lotta al terrorismo, gli USA sono riusciti a realizzare in Asia centrale. Non basta rinviare al petrolio quale obiettivo costante di questo frenetico attivismo diplomatico-militare. Anche il colonialismo ha di mira il saccheggio delle materie prime e delle risorse dei paesi che esso assoggetta. È più importante un'altra considerazione: la superpotenza americana, in Medio Oriente così come in Asia centrale, mira a sottoporre al suo controllo totale ed esclusivo le fonti energetiche da cui dipendono i paesi che potrebbero mettere in discussione la sua egemonia e che già oggi le fanno ombra. Se il colonialismo classico mira in primo luogo al saccheggio, la ricerca dell'egemonia è la molla decisiva dell'imperialismo propriamente detto. Uno sguardo alla storia degli Stati Uniti può chiarire meglio questa differenza. Tra Sette e Ottocento, la conquista del Far West, con la progressiva espropriazione, deportazione e decimazione dei pellerossa, è un capitolo di storia 8

I. Man, Prigioniero nel suo labirinto, in «La Stampa»dell'l aprile 1992, p. 1.

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del colonialismo: si tratta di appropriarsi della terra e delle ricchezze del sottosuolo. Con l'occupazione delle Filippine, agli inizi del Novecento, all'obiettivo tradizionale del saccheggio delle risorse s'intreccia un altro ancora più ambizioso. Ora, a partire dalla postazione avanzata costituita dal nuovo territorio assoggettato, lo sguardo si rivolge al Giappone: è già iniziata la gara imperialistica per l'egemonia nel Pacifico che poi sfocia in una sanguinosa prova di forza militare tra il 1941 e il 1945. Al suo concludersi, gli USA installano nel paese sconfitto basi militari, il cui obiettivo è in primo luogo il contenimento e l'accerchiamento dell'Unione Sovietica. Dopo la fine della guerra fredda e la vittoria di tipo napoleonico (per dirla con Lenin), che li consacra come superpotenza unica e senza rivali, gli Stati Uniti sono sempre più chiaramente impegnati a realizzare un impero planetario. E' in questo quadro che va collocato l'espansionismo ormai senza più freni in direzione delle aree più ricche e promettenti dal punto di vista delle riserve di petrolio e di gas naturale. Al di là dello slancio che ne potrebbe ricavare l'economia americana, grazie ai rifornimenti energetici a basso prezzo, ai nuovi mercati che si aprono e al boom dell'industria militare, è in gioco una posta ancora più importante: si tratta di ridimensionare drasticamente il peso geoeconomico e strategico della Russia e di aggravare la vulnerabilità energetica ed economica non solo della Cina - alla quale la dottrina Bush, come vedremo in un prossimo articolo, lancia pesanti avvertimenti -ma anche dei paesi «alleati» in Asia e in Europa. Per non parlare del fatto che la sperimentazione sui campi di

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battaglia delle nuove armi e delle nuove tecnologie potrebbe rafforzare ulteriormente il ruolo degli USA come superpotenza unica e senza rivali, in grado di inviare in ogni angolo del mondo, senza grossi rischi, i suoi poliziotti e i suoi plotoni d'esecuzione. Si comprende allora che in Europa comincino a mugugnare o a protestare apertamente anche setto, ri della borghesia nazionale. E in tale quadro che va collocato l'intervento di Helmut Schmidt. Questi non si limita a criticare l' «unilateralismo» e il tendenziale «imperialismo» della nuova amministrazione americana. Egli cerca anche di rintracciare le origini di tale politica: «Reagan bombardò Grenada, Clinton bombardò Belgrado e una fabbrica in Sudan- il tutto senza una risoluzione del consiglio di Sicurezza dell'ONU, il tutto in violazione della Carta delle Nazioni Unite». Ancora più importante è il fatto che l'ex-cancelliere tedesco contrapponga positivamente Russia e Cina al servilismo di certi governi europei: «Diversamente da Putin e Jiang Zemin, alcuni ministri e capi di governo europei hanno reagito all'unilateralismo americano in modo piuttosto privo di dignità». Infine, Schmidt non esita a prendere le difese della Cina: a scatenare oltre Atlantico la campagna contro il grande paese asiatico sono «intellettuali di orientamento imperialistico». E, di nuovo, nella critica di un paese ormai incline ad un «uso della potenza privo di scrupoli» e pronto persino a sparare «il primo colpo nucleare», nell'analisi dell'odierna situazione internazionale ritorna una categoria che rinvia in primo luogo a Lenin.

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2. Perché è essenziale la categoria di ùnperzalisnzo

Ad attardarsi a guardare con ironia alla categoria di «imperialismo» sono i settori più provinciali della sinistra, coloro che, presi dalla smania di apparire moderni e aggiornati, finiscono in realtà col riecheggiare acriticamente i luoghi comuni dell'ideologia dell'imperialismo. La sua storia è accompagnata come un'ombra dal mito che celebra l'unità corale delle grandi potenze «civili», in quanto «polizia internazionale» chiamata a mantenere l'ordine nel mondo. A strombazzare con particolare zelo questo mito, sia pur mutando il segno da positivo in negativo, sono oggi i critici a sinistra della categoria di imperialismo, i sedicenti campioni del superamento del leninismo. In realtà, atteggiandosi in tal modo, essi diffondono una pericolosa illusione, come se la guerra infinita, teorizzata e messa in atto da Washington, dovesse avere come bersaglio sempre e soltanto piccoli paesi: la Jugoslavia, l'Irak, e, domani, l'Iran, la Siria, la Libia, ovvero, nell'emisfero occidentale, Cuba, Venezuela, ecc. Senonché la dottrina Bush è di una chiarezza inequivocabile: «resisteremo strenuamente a qualunque aggressione proveniente da altre grandi potenze». E ancora: «Le nostre forze armate saranno abbastanza forti da dissuadere potenziali avversari dal perseguire una politica di riarmo nella speranza di superare, o anche solo di raggiungere, la potenza degli Stati Uniti». Come si vede, ad essere presi di mira non sono soltanto i piccoli «Stati-canaglia» ... Che nessuna grande potenza si azzardi non diciamo ad «aggredire» ma anche solo ad inseguire gli Stati Uniti nella loro frenetica

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corsa al riarmo, ostacolando l'aspirazione dell'inquilino della Casa Bianca ad affermarsi come sovrano unico e indiscusso dell'intero pianeta! Mentre passa sotto silenzio il pericolo di guerre su larga scala, la teoria che considera dileguato l'imperialismo e le contraddizioni tra le grandi potenze non aiuta e non incoraggia certo la resistenza dei popoli e paesi oppressi. Da Lenin a Mao, da Ho Chi Minh a Castro, i grandi ispiratori e protagonisti dei movimenti di emancipazione dei popoli coloniali hanno insistito sulla necessità di utilizzare tutte le contraddizioni del quadro internazionale. A facilitare la vittoria della rivoluzione cinese è stato il conflitto non solo tra Unione Sovietica socialista e Giappone imperialista ma anche tra imperialismo giapponese e imperialismo americano. Sempre nel secondo dopoguerra, il popolo indiano, egiziano, algerino ecc. hanno potuto conquistare o mantenere l'indipendenza per il fatto che la loro lotta ha saputo trarre profitto sia dall'appoggio politico-diplomatico e, talvolta, militare del campo socialista, sia dalle contraddizioni e dalle incrinature che dividevano l'imperialismo americano dall'imperialismo britannico e francese. Ma ecco che ora la teoria della «nuova Yalta» dichiara ai popoli oppressi o minacciati di aggressione che essi continueranno ad avere contro di sé la forza intera e compatta non solo del mondo capitalista ma anche di tutte le grandi potenze, compresa la Cina diretta da un Partito comunista. Nello sforzo di sfuggire al micidiale embargo imposto da Washington, Cuba sviluppa rapporti commerciali non solo con Spagna e Canada, che bene o male provano a resistere alle

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pressioni statunitensi, ma anche, nonostante la grande distanza geografica, con la Cina, dalla quale la piccola isola importa macchinari industriali essenziali al suo sviluppo. Ma, dal punto di vista dei critici qualunquisti della «nuova Yalta» non c'è differenza alcuna tra la superpotenza che impone l'embargo, i paesi che con tinùdezza cercano di aggirarlo e il grande paese asiatico che l'ignora del tutto. Anche in questo caso, i sedicenti "ultrasinistri" non fanno che riprendere i nùti dell'ideologia dominante. A suo tempo, l'aggressione contro la Jugoslavia è stata presentata come un'iniziativa della «comunità internazionale»: eppure, ad opporsi alla guerra erano paesi come la Russia, la Cina, l'India ... La presunta «comunità internazionale» del 1999 si è oggi ulteriormente e drasticamente ristretta; e, tuttavia, gli Stati Uniti cercano di giustificare la guerra che nùrano a scatenare contro l'Irak presentandosi come gli interpreti e gli esecutori della risoluzione votata all'unaninùtà dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Sorvolano sul fatto che quella risoluzione è il risultato di un duro scontro nel corso del quale Washington, nonostante le sue minacce, è stata costretta a rinunciare alle sue richieste più estrenùstiche. E lo scontro è ben lungi dall'essersi concluso: mentre Russia, Francia e Cina continuano a ribadire che l'ultima parola spetta ancora al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, Bush si riserva il diritto di premere il grilletto quando e come vuole. Agitando il nùto di una «nuova Yalta», coralmente unita nella volontà di guerra contro l'Irak, i sedicenti "ultrasinistri" danno di fatto ragione all'amministra-

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LIMPERIALISMO PLANETARIO

zione americana e finiscono con l'accreditare i suoi piani di guen-a ! Infine. L'inteiventismo planetario di Washington non può non considerare superati i confini statali e nazionali. Ci sono diritti umani che valgono per «ogni persona, in ogni civiltà»; e, dunque, «gli Stati Uniti sfiutteranno l'opportunità di questo momento per estendere i benefici della libertà in tutto il pianeta». E, ancora una volta, cosa si debba intendere per «libertà» lo decide il sovrano planetario che siede alla Casa Bianca. E' da condannare come infetto di «totalitarismo» ogni governo che metta in discussione la «libera impresa», la «libertà economica», i «mercati aperti», il «rispetto della proprietà privata», che faccia ricorso, invece che a «sane politiche fiscali a sostegno dell'imprenditoria» e degli investimenti, alla «mano pesante del governo». In ultima analisi, è da respingere come un attacco alla libertà ogni tentativo di costruire o di mantenere in piedi lo Stato sociale. E così il sedicente universalismo statunitense si rivela come un attacco di dimensioni planetarie ai diritti economici e sociali che pure sono sanciti dall'ONU. Per quanto poi riguarda gli altri diritti dell'uomo, conviene non perdere di vista la condizione dei detenuti a Guantanamo ovvero l'esecuzione senza processo, dall'alto degli aerei della CIA, di coloro che sono sospettati di avere legami con la rete terroristica ... Non per questo l'universalismo di Washington si rivela meno imperioso. Anzi, esso è così sicuro di sé da presentarsi in forma decisamente più ingenua rispetto al passato. Bush jr. non ha esitazioni a dichiarare che le guerre da lui programmate mirano ad affermare «gli

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interessi e i principi americani». Ma perché mai gli altri popoli dovrebbero inchinarsi senza obiezioni e anzi con gesto di riverenza agli interessi e ai principi americani? Per gli ideologi e gli strateghi della Casa Bianca e del Pentagono non ci sono dubbi: fra «gli interessi e i principi americani» da un lato e i valori universali dall'altro c'è una sorta di armonia prestabilita. Ed ecco allora la dottrina Bush teorizzare senza imbarazzo e senza vergogna un «internazionalismo squisitamente americano che rifletta l'unione dei nostri valori e dei nostri interessi nazionali»! Non solo i «valori» ma persino gli «interessi» di un popolo determinato si presentano come l'espressione di una superiore universalità, cui non è lecito resistere e che è chiamata ad imporsi anche con la forza delle armi. Siamo in presenza di una contraddizione logica manifesta owero di una pretesa inaudita; ma tutto ciò non costituisce un problema per chi pretende di parlare a nome di un «popolo eletto» e di aver con sè il buon Dio e la Provvidenza. Ed è a partire da questa tranquilla certezza di essere il portavoce unico ed esclusivo dei valori universali, anzi dei «valori dati da Dio», com'egli ha dichiarato nell'intervista già citata, che Bush jr., nel formulare la dottrina che rivendica a Washington il diritto alla guerra preventiva e all'interventismo planetario, proclama anche la fine dello Stato nazionale: «Oggi, la distinzione tra affari interni ed esteri si sta assottigliando. In un mondo globalizzato anche eventi che awengono oltre i confini dell'America hanno un grande impatto interno». E così tendono a diventare questioni di politica interna alla superpotenza americana anche vicende

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che si svolgono a grande distanza dai suoi confini. Naturahnente, negli stessi USA, i critici liberali di questo imperialismo camuffato da «internazionalismo» e universalismo non hanno difficoltà ad osservare: «È una visione nell'ambito della quale la sovranità diviene più assoluta per l'America, anche se diviene più condizionata per i paesi che sfidano gli standard di Washington di comportamento sul piano interno ed internazionale»~. E cioè, lo strapotere sovrano che si arroga l'unica superpotenza è una grave minaccia all'indipendenza e alla sicurezza degli altri paesi. Viene in mente l'osservazione di Lenin, secondo cui l'imperialismo è caratterizzato dall' «enorme importanza della questione nazionale». Al di là della sfera economica, la polarizzazione provocata dall'imperialismo investe anche la sfera politica: il problema della difesa dell'indipendenza nazionale si fa sentire con forza ben al di là del tradizionale mondo coloniale. E, ancora una volta, nel proclamare la fine dello Stato nazionale, una certa "sinistra" finisce con l'essere in sostanziale consonanza con l'imperialismo .

.3. Stati Uniti e Israele: l'asse detl'ùnperialisnto La strapotenza militare e multimediale dell'imperialismo americano non deve farci perdere di vista i G. J. Ikenberry, America's Imperia! Ambition, in «Foreign Affairs», settembre/ottobre 2002, p. 44. 9

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suoi elementi di debolezza. Ad identificarsi totalmente con esso è solo un paese. Se la stessa Inghilterra o la stessa Australia rivelano a tratti qualche tentennamento, non così Israele. Su questo punto non c'è differenza tra Sharon e Peres o Barak: tutti e tre, al governo o all'opposizione, premono per la guerra, e non solo contro l'Irak ma anche, in prospettiva, contro l'Iran, la Siria, la Libia ... Per costringere il popolo palestinese alla capitolazione, Israele ha bisogno di fare il deserto attorno a sè. Sul finire del secondo conflitto mondiale e prima dello scoppio della guerra fredda, Washington pensa per un attimo di liquidare una volta per sempre la concorrenza della Germania, de-industrializzandola e riducendola ad un paese agricolo e pastorale. E' il famoso o famigerato piano Morgenthau, che avrebbe condannato alla miseria e persino all'inedia settori consistenti della popolazione tedesca. Col pretesto di impedire la proliferazione delle armi di distruzione di massa, Stati Uniti e Israele sono concordi nel voler imporre la de-industrializzazione dei paesi arabi e islamici che costituiscono la retrovia del popolo palestinese. In tal modo, Israele consoliderebbe nettamente la sua posizione di potenza egemone nel Medio Oriente e gli Stati Uniti percorrerebbero un bel pezzo della strada che conduce all'instaurazione dell'agognato impero planetario. Oltre alla convergenza strategica, a saldare ulteriormente l'unità dei due paesi dell'asse dell'imperialismo è anche la consonanza ideologica, come dimostra il ricorso in un caso e nell'altro alla mitologia del «popolo eletto».

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Per il movimento di lotta per la pace, la denuncia e l'isolamento dell'asse dell'imperialismo costituiscono oggi il compito principale.

VI. L'IMPERO AMERICANO E L'EUROPA1

1. La ,nalattia ,nortale dell'antia112ericanis1110

Disgraziatamente, ad ostacolare la riflessione autocritrica sul fondamentalismo dell'Occidente e soprattutto del suo paese-guida provvede una campagna, che ha preso le mosse dall'ultima guerra contro l'Irak. In tale occasione si è cercato di mettere a tacere il movimento di protesta e le critiche e le riserve espresse da alcuni governi europei, bollando questo atteggiamento di ostilità o di diffidenza quale espressione di antiamericanismo. E questo, più ancora che come un atteggiamento politico errato, è stato dipinto come il sintomo più o meno acuto di un morbo: il disadattamento rispetto alla modernità e la sordità alle ragioni della democrazia. Brani e paragrafi tratti da Il linguaggio dell'Impero. Lessico dell'ideologia amen·cana, Laterza, Roma-Bari 2007. 1

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L' antiamericanismo - si afferma- accomuna correnti di sinistra e di destra e caratterizza le pagine peggiori della storia europea; e dunque - si conclude- indulgere ad un atteggi.amento disinvoltamente critico nei confronti degli Stati Uniti non promette nulla di buono. E, ancora una volta, emerge il dogmatismo dell'ideologia dominante, che elude due domande che pure dovrebbero essere elementari e obbligate: a manifestarsi con più forza è l'antiamericanismo in Europa oppurel'antieuropeismo negli Stati Uniti? E perché mai il primo atteggiamento dovrebbe essere più deprecabile del secondo? E, tuttavia, senza perder tempo nell'affrontare tali problemi, si infittiscono sulle due rive dell'Atlantico i hbri, i saggi, gli interventi giornalistici che denunciano il diffondersi dell'antiamericanismo, ne indagano i sintomi, ne ricostruisconola genesi, sempre per giungere alla conclusione che si tratta di un morbo rovinoso che infuria sia a destra che a sinistra.

2. L'illu11zinis1no e la divaricazione tra Stati Uniti e

Europa Dinanzi a questa ideologia, anzi a questa teologia della missione l'Europa si è sempre trovata a disagio. E' nota l'ironia di Clemenceau a proposito dei quattordici punti di Wilson: il buon Dio aveva avuto la modestia di limitarsi a dieci comandamenti! Nel 1919, in una lettera, John Maynard Keynes definisce Wilson «il più grande impostore della terra>~. 2

In R. Skidelsky, fohn Maynard Keynes. Speranze tradite 18831920, (1981; 1986, 2° ed.), Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 444.

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L'IMPERO A.\IBRICANO EL 'EUROPA

In terminiforse ancora più aspri si esprime Freud, a proposito della tendenza dello statista americano a ritenersi investito di una missione divina: siamo in presenza di «spiccatissima insincerità, ambiguità e inclinazione a rinnegare la verità»; d'altro canto, già Guglielmo II riteneva di essere «un uomo prediletto dalla Provvidenza>». Ma qui Freud sbaglia, e sbaglia due volte. Intanto ha torto a personalizzare un problema di carattere generale. Nel 1912 Wilson giunge alla presidenza sconfiggendo il partito progressista, che per la sua Convenzione aveva scelto come musica di fondo la canzone «Avanti soldati di Cristo!»; e il candidato del partito progressista, Theodore Roosevelt, aveva concluso il suo discorso di accettazione proclamando: «Noi siamo ad Armageddon e combattiamo per il Signore»4. E cioè, in quanto a fervore teologico e ad autocoscienza missionaria è difficile dire quale dei due candidati si distinguesse maggiormente! Soprattutto, nel paragonare Wilson a Guglielmo II, Freud rischia di accostare due tradizioni ideologiche assai diverse. E' vero, anche l'imperatore tedesco non disdegna di abbellire con motivi religiosi le sue ambizioni espansionistiche: rivolgendosi alle truppe in partenza per la Cina, egli invoca la «benedizione di Do» su un'impresa chiamata a stroncare nel sangue la rivolta

; S. Freud, Introdimone allo studio psicologico su Thomas Woodrow Wilson (1930; pubblicato per la prima volta nel 1971), in Opere, a cura di C. L. Musatti, Bollati Boring}ùeri, Torino 1995,pp. 35-6. • W. S. Hudson, Religion in America (1965), Scribner, New York, 3° ed. 1981,p. 317.

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dei Boxer e a diffondere il «cristianesimo»5 ; è incline a considerare i tedeschi come «il popolo eletto di Dio»6 • Quest'ultimo motivo è ampiamente ripreso da Hitler, che già prima della conquista del potere dichiara di sentirsi chiamato a svolgere «l'opera del Signore» e di voler obbedire alla volontà dell' «Onnipotente»7 • Più tardi il Fiihrer conclude i proclami che fanno seguito all'aggressione contro l'Unione Sovietica con una ripetuta invocazione: «Che il Signore Iddio ci aiuti in questa lotta». Ancora più eloquente è la conclusione del proclama del 19 dicembre 1941: «Il Signore Iddio non negherà la vittoria ai suoi valorosi soldati>>8. D'altro canto, i tedeschi sono «il popolo di Dio»9 e ben si comprende allora il motto Gott ,nit uns (Dio con noi) ... Tutto ciò è vero. E, tuttavia, non bisogna soprawalutare il peso di questi motivi ideologici. In Germania (la patria di Marx e di Nietzsche) il processo di secolarizzazione è assai avanzato. L'invocazione della «benedizione di Dio» da parte di Guglielmo II non viene presa sul serio neppure nei circoli sciovinisti: almeno agli occhi dei loro esponenti più aweduti (Maximilian

j

J. R. Rohl, Wilhelm II. Der Aufbau der Personlichen Monar-

chie, 1888-1900, Beck, Miinchen. 2001, p. 1157. 6 J. R. Rohl, Wilhelm II. Die Jugend des Kaisers 1859-1888, Beck, Miinchen.1993, p. 412. 7 A. Hitler, Mein Kamp/(1925/7), Zentralverlag der NSDAP, Miinchen 1939, pp. 70 e 439. 8 A. Hitler, R.eden und Proklamationen 1932-1945 (1962-63 ), a cura di M. Domarus, Siiddeutscher Verlag, Miinchen 1965, pp. 1732 e 1815. 'In H. Rauschning, Gespriiche mit Hitler (1939), Europa Verlag, New York, 2° ed. 1940, p. 227.

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Harden), ridicoli appaiono il ritorno ai «giorni delle Crociate» e la pretesa di «conquistare il mondo al Vangelo»; «così gironzolano attorno al Signore i visionari e gli speculatori furbi» 10• Sì, prima ancora di ascendere al trono, il futuro imperatore celebra i tedeschi come «il popolo eletto di Dio», ma a prenderlo in giro è già la madre, figlia della regina Vittoria e incline, semmai, a rivendicare il primato dell'Inghilterra11 • È un punto su cui convieneriflettere ulterionnente. In Europa i miti genealogici imperiali si sono in una certa misura neutralizzati a vicenda; le famiglie reali erano tutte imparentate tra di loro sicché, nell'ambito di ognuna di esse, si affrontavano idee di missione e miti genealogici imperiali tra loro diversi e contrastanti. A screditare ulterionnente queste idee e queste genealogie ha provveduto l'esperienza catastrofica di due guerre mondiali; d'altro canto, nonostante la sua finale sconfitta, qualche traccia ha pur lasciato nella coscienza europea la pluridecennale agitazione comunista, condotta in nome della lotta contro l'imperialismo e del principio dell'uguaglianza delle nazioni. Il risultato di tutto ciò è chiaro: in Europa risulta priva di credibilità ogni idea di missione imperiale e di elezione divina agitata da questo o quel paese; non c'è più spazio per l'ideologia imperial-religiosa che un ruolo così centrale occupa negli Stati Uniti. Per quanto riguarda in particolare la Germania, la storia che va dal Secondo al Terzo Reich presenta un'oscillazione tra la nostalgia di un paganesimoguer10 11

In Rohl 2001, cit., p. 1157. Rohl 1993, cit.,p. 412.

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resco e incentrato attorno al culto di Wotan e l'aspirazione a trasforma re il cristianesimo in una religione nazionale, chiamata alegittimare la missione imperiale del popolo tedesco. Questo secondo tentativo trova la sua espressione più compiuta nel movimento dei Deutsche Christen, i «cristiani tedeschi». Poco credibile a causa già del processo di secolarizzazione che, oltre alla società nel suo complesso, aveva investito la stessa teologia protestante (si pensi a Karl Barth e a Dietrich Bonhoeffer), e poco credibile altresì a causa delle simpatie paganeggianti dei dirigenti del Terzo Reich, questo tentativo non poteva avere che scarso seguito. La storia degli Stati Uniti è, invece, attraversata in profondità dalla tendenziale trasformazione della tradizione ebraico-cristiana in quanto tale in una sorta di religione nazionale che consacra l'exceptionalis111 del popolo americano e la missione salvifica a lui affidata. Possiamo ora comprendere i limiti dell'approccio di Freud e Keynes: ovviamente, nelle amministrazioni americane che via via si succedono non mancano gli ipocriti, i calcolatori, i cinici, ma non c'è motivo per dubitare della sincerità ieri di Wilson e oggi di Bush jr. Allorché questi vanta la sua familiarità con il buon Dio, è in piena consonanza con la tradizione politicoreligiosa alle sue spalle e col diffuso sentire dei suoi concittadini. Ma questo èun elemento di forza, non già di debolezza. La tranquilla certezza di rappresentare una causa santa e divina facilita non solo la mobilitazione corale nei momenti di crisi, ma anche la rimozione o bagatellizzazione delle pagine più nere della storia degli Usa. Sì, nel corso della guerra fredda Washington ha inscenato in America Latina sanguinosi colpi

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di Stato e imposto feroci dittature militari, mentre in Indonesia, nel 1965, ha promosso il massacro di alcune centinaia di migliaia di comunisti o di filo-comunisti; ma, per spiacevoli che possano essere, questi dettagli non sono in grado di offuscare la santità della causa incarnata dall' «Impero del Bene». E' più vicino alla verità Weber allorché, nel corso della prima guerra mondiale, denuncia il «cant» americano12. Il «cant» di cui parla Weber (e prima ancora Nietzsche, in relazione all'Inghilterrau) ovvero la falsa coscienza cui fa riferimento Engels non è la menzogna e neppure, propriamente, l'ipocrisia cosciente; è l'ipocrisia di chi riesce a mentire anche a se stesso o, se si vuole, è la sincerità che risulta da una doppia menzogna, l'una rivolta al mondo esterno, l'altra a se stessi. Sia in Keynes sia in Freud si manifestano al tempo stesso la forza e la debolezza dell'illuminismo. Largamente immunizzata dall'ideologia imperial-religiosa che imperversa aldilà dell'Atlantico, l'Europa si rivela tuttavia incapace di comprendere adeguatamente questo intreccio tra fervore morale e religioso da un lato e lucido e spregiudicato perseguimento dell'egemonia politica, economica e militare a livello mondiale dall'altro. Ma è questo intreccio, questo peculiare fondamentalismo che consente agli Stati Uniti, forte della

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M. Weber, Zwischen zwei Geseb;en (1916), in Gesammelte politische Schri/ten, a cura di J. Winckelmann, 3° ed., Mohr (Siebeck), Tiibingen 1971, p. 144. 13 Cfr. D. Losurdo, Nieksche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhieri, Torino 2002, cap. 22, § 3.

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loro consacrazione divina, di considerare irrilevanti l'ordinamento µiternazionale vigente, le leggi puramente umane. E in questo quadro che va collocata la delegittimazione dell'Onu, la sostanziale messa fuori gioco della Convenzione di Ginevra, gli avvertimenti lanciati agli stessi «alleati».

3. Antia1nericanis11zo e antise11zitis1110? Ford e Hitler Sorvolando sugli omaggi a suo tempo resi al1'«americanismo» (o a certi suoi aspetti) da esponenti di primo piano del fascismo e del nazismo, l'ideologia dominante procede imperterrita nel suo tentativo di mettere a tacere ogni critica nei confronti di Washington, in quanto espressione non solo di antimericanismo ma anche di antisemitismo. «L'antiamericanismo è il nuovo antisemitismo» - titola « La Stampa» in una corrispondenza da New York, che riferisce di una conferenza del «filosofo e giornalista francese BernardHenry Lévy al Council onForeign Relations, uno dei salotti della politica estera americana>f4 • A conferma dell'intreccio tra questi due morbi o, meglio, tra questi due sintomi di un unico morbo, si adduce uno sbrigativo bilancio storico: non a caso, la follia criminale, sfociata da ultimo nella soluzione finale, si sarebbe manifestata solo da una parte dell'Atlantico, quella che oggi chiude spesso e volentieri gli occhi sull'antisemiti1



B. H. Lévy, «L'antiamericanismo èil nuovo antisemitismo»

(intervista a Maurizio Molinari), in «La Stampa» del 28 gennaio 2006,p. 11.

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smo dei nemici di Israele, mentre uno sguardo sempre più diffidente e ostile riserva alla superpotenza ormai solitaria, l'unica affidabile alleata dello Stato ebraico. Ascoltiamo Elle Wiesel: Il problema è l'Europa. Lo è stato in passato e lo è ancora oggi. Si tratta di un continente dove l'odio nei confronti degli ebrei si è sommato, radicato nel corso dei secoli, con origini e matrici differenti, e dove quindi resta urgente combatterlo, denunciarlo, non abbassando mai la guardia15.

Ancora oltre si spinge una personalità di primo piano del mondo politico israeliano, Nathan Sharansky, il quale non solo assolve gli Stati Uniti, ma chiama a contrastare «l'ondata antisemita-antiamericana» che infuria in Europa16. Sì, sul tema dell'antisemitismo passato e presente e della lotta contro questa infamia, è divenuto un luogo comune contrapporre positivamente il Nuovo al Vecchio Mondo. Ma è storicamente fondata questa contrapposizione? Coloro che la agitano farebbero bene a rileggersi Herzl il quale, a dimostrazione o a conferma dell'onnipresenza dell'antisemitismo, citava ripetutamente l'esempio della repubblica nord-americana17. Forse egli E. Wiesel,L'Buropa è lafrontiera dell'intolleranza (intervista a Maurizio Molinari), in «La Stampa» del 26 gennaio 2004, p. 7. '' N . Sharansky, Il pregiudizio antisemita allontana la pace in Medio Oriente (intervista a F. Nirenstein), in «La Stampa» del 19 gennaio 2004, p. 12. 17 T. Herzl,Zz'onistische Schriften, a cura diL. Kellner,Ji.idischer Verlag, Berlin-Charlottenburg l933Altneuland, Lowit, Wien, 10° ed. 1920, voi. I, p. 47 e voi. II, p. 237. is

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aveva presente un fatto paradossale. La prima grave crisi del processo di emancipazione degli ebrei, in atto in Occidente nell'Ottocento, si manifesta proprio nella repubblica nord-americana. Grant, il generale che dirige l'esercito dell'Unione, prende drastiche misure contro un gruppo etnico che ritiene responsabile di violazione del blocco economico imposto al Sud: assistiamo così alla prima deportazione degli ebrei (dal Tennessee). E' vero, la misura è presto revocata18 ; resta il fatto che non resiste all'indagine storica il mito chiamato oggi a fornire un importante contributo alla trasfigurazione della solitaria superpotenza mondiale. Tanto più se si tiene presente l'influenza che, anche in tema di antisemitismo, gli Stati Uniti hanno esercitato sulla Germania. Subito dopo l'ottobre 1917, Henry Ford, il magnate dell'industria automobilistica, si impegna a denunciare la rivoluzione bolscevica come il risultato in primo luogo del complotto ebraico e a tale scopo fonda una rivista di larga tiratura, il «Dearborn Indipendent»: gli articoli qui pubblicati vengono raccolti nel novembre 1920 in un volume, L'ebreo internazionale che subito diventa un punto di riferimento dell'antisemitismo internazionale, tanto da poter esser considerato il libro che più di ogni altro ha contribuito alla celebrità dei famigerati Protocolli dei Savi di Sion. Certo, dopo qualche tempo Ford è costretto a mettere la sordina alla sua campagna, ma intanto è stato tradotto in Germania e ha incontrato grande fortuna. Più tardi diranno di essersi ispirati a 18

H. M. Sachar,A History o/ the Jews in Amen'ca, Vintage

Books, New York 199.3,p. 80.

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lui o di aver da lui preso le mosse gerarchi nazisti di primo piano come von Schirach e persino Himmler. Il secondo in particolare racconta di aver compreso «la pericolosità dell'ebraismo» solo a partire dalla lettura del libro di Ford: «per i nazionalsocialisti fu una rivelazione». Seguì poi la lettura dei Protocolli dei Savi di Sion: «Questi due libri ci indicarono la via da percorrere per liberare l'umanità afflitta dal più grande nemico di tutti i tempi, l'ebreo internazionale»; com'è chiaro, Himmler fa uso di una formula che riecheggia il titolo del libro di Henry Ford. Potrebbe trattarsi di testimonianze in parte interessate e strumentali. È un dato di fatto però che nei colloqui di Hitler con Dietrich Eckart, la personalità che ha avuto su di lui la maggior influenza, lo Henry Ford antisemita è tra gli autori più frequentemente e positivamente citati. E, d'altra parte, secondo Himmler, il libro di Ford assieme ai Protocolli, avrebbe svolto un ruolo «decisivo» (ausschlaggebend) oltre che sulla sua formazione, anche su quella del Fi.ihrer19, Risulta evidente la superficialità della contrapposizione schematica tra Europa e Stati Uniti, come se la tragica vicenda dell'antisemitismo non avesse coinvolto entrambi. Nel 1933 Spengler sente il bisogno di fare Si veda la testimonianza di Felix Kersten, il massaggiatore fuùandese di Himmler, nel Centre de documentationJuive contemporaine di Parigi (Das Buch von Henry Ford, 22 dicembre, 1940, n. CCX-.31); su ciò cfr. L. Poliakov, Storia dell'antisemitismo (1961-77), La Nuova Italia, Firenze 1974-90, voi. IV, p. 29.3 e D. Losurdo, La comunità, la morte, l'Occidente. Heidegger e /'«ideologia della gue"a», Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 11.3-6. 19

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questa precisazione: la giudeofobia da lui apertamente professata non va confusa col razzismo «materialistico» caro agli «antisemiti in Europa e in America»20• L'antisemitismo biologico che soffia impetuoso anche al di là dell'Atlantico viene consideratoeccessivo persino da un autore pure impegnato in una requisitoria contro la cultura, e la storia ebraica in tutto l'arco della sua evoluzione. E anche per questo che Spenglerappare pavido e inconseguente agli occhi dei nazisti. I loro entusiasmi si rivolgono altrove: L'ebreo internazionale continua ad essere pubblicato con grande onore nel Terzo Reich con prefazioni che sottolineano il decisivo merito storico dell'autore e industriale americano (nell'aver fatto luce sulla «questione ebraica») e evidenziano una sorta di linea di continuità da Henry Ford a Adolf Hitler!21 • Disgraziatamente, la visione stereotipa degli Stati Uniti quale luogo incontaminato dal contagio universale ha preso piede anche nella storiografia: uno storico americano di successo definisce l'antisemitismo e persino l'«antisemitismo sterminazionista» come una «caratteristica comune del popolo tedesco» 22: neppure nell'indice dei nomi del suo libro figura Henry Ford! Né vi figurano i nomi degli antisemiti statunitensi più esagitati che, prima di Hitler, esigono lo «sterminio» (extennination) degli ebrei, in

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O. Spengler.Jahre der Bntscheidung,Beck, Miinchen 1933, p. 157. 21 Cfr. D. Losurdo 1991, cit., pp. 113-5. 22 D . J. Goldhagen, Hitler's Willing Excurtioners. Ordinary Germansand theHolocaust,Little, Brown and Company, London 1996, pp. 49 sgg. e455-6.

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modo da realizzare la necessaria «disinfestazione» (disinfection) della società23 • Non bisogna perdere di vista il fone contributo che gli ideologi d'oltre Atlantico forniscono ali' elaborazione di un motivo (la lettura della rivoluzione d'Ottobre come risultato di un complotto ebraico-bolscevico), che poi gioca un ruolo di primo piano nella «soluzione finale»: «la rivoluzione russa è di origine razziale, non politica» - proclama Henry Ford, agitando iProtocolli dei Savi di Sion24. Sì - ribadisce un'altra voce del coro che sta montando nella repubblica nordamericana - è all'opera l'«imperialismo giudaico, col suo obiettivo finale di stabilire un dom.inio ebraico su scala mondiale». Un duro destino - tuonano altre voci ancora più minacciose - attende il popolo responsabile di questo infame progetto: si profilano «massacri degli ebrei tali [. ..] da essere ritenuti sinora impossibili», e dunque «di una scala senza precedenti nei tempi moderni»25 • È così fragile il motivo ideologico che pretende di connettere in modo indissolubile antiamericanismo e antisemitismo, che esso può essere agevolmente rovesciato. Basti pensare alla celebrazione del «genuino americanismo di Henry Ford» ad opera del Ku Klux R. Singennan, The Jew as R.acial Alien: The Genetic Component ofAmericanAnti-Semitism, in David A. Gerber (a cura di), Anti-semitism in American History, University of Illinois Press, Urbana and Chicago 1987, p. 112. 2• H . Ford, Der internationale ]ude (1920), tr. ted., di Paul Lehmann, Hammer, Leipzig 19.3.3, p. 145. 2• In]. W. Bendersky, The«Jewish Threat». Anti-Semitic Politics ofthe U.S. Army, Bas.ic Books, New York 2000, pp. 58, 54 e 96. 23

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Klan26. Almeno nel caso di questa organizzazione, che non a caso intrattiene rapporti coi circoli più reazionari della Germania e con lo stessomovimento nazista, l'antisenùtismo va di pari passo con un'esaltata professione di fede nell'americanismo. Non si dimentichi, peraltro, che il furore antisenùta non impedisce a Hitler di rendere esplicito omaggio ali' «americanismo» (supra, cap. III, § 4). Anche a voler attribuire un qualche fondamento alla leggenda oggi in circolazione, la contrapposizione manichea tra i due continenti risulta assai discutibile sul piano etico. Se il razzismo anti-ebraico è sfociato nella «soluzione finale», non è ceno una bagattella il razzismo che in America ha suggellato la deponazione, la decimazione o l'annientamento dei pellerossa ovvero la schiavizzazione e l'oppressione dei neri anche dopo la formale abolizione dell'istimto della schiavitù, in pieno Novecento. Ancora dopo il crollo del Terzo Reich ha continuato a manifestarsi un sinistro componamento razzista, per il quale Clinton si è sentito obbligato a chiedere scusa alla comunità afroamericana: «Negli anni '60 oltre 400 uomini di colore dell'Alabama vennero usati come cavie umane dal governo. Malati di sifilide, non vennero curati perché le autorità volevano studiare gli effetti della malattia su un 'campione della popolazione'»27• Né gli amerindi e gli afroamericani

In N . MacLean, Behind the Mask of Chivalry. The Making of the Second Ku Klux Klan, Oxford University Press, New York-Oxford 1994, p. 90. 27 R. E., Clinton: "Usammo i neri come cavie umane. Una vergogna americana", in «Corriere della Sera», 10 aprile 1997, p. 8. 26

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sono le sole vittime del razzismo che ha infuriato al di là dell'Atlantico. Si pensi alle umiliazioni, alle persecuzioni e ai linciaggi subiti anche dai «gialli», in particolare i cinesi. Contrappone manicheisticamente, in tema di antisemitismo, l'esempio positivo degli Stati Uniti a quello negativo dell'Europa è un'operazione all'insegna non solo della manipolazione storica ma anche di una sottile forma di razzismo.

4. L'AJnerica co1neautentico Occidentee la condanna

dell'Europa co1ne Oriente L'inclinazione a far coincidere l'esclusione dall'Occidente autentico con l'esclusione dalla razza bianca si manifesta ancora più nettamente in America. Alla metà del Settecento Franklin non ha dubbi sul fatto che a costituire «il nucleo principale del popolo bianco», del «popolo bianco in modo puro» siano soltanto gli inglesi insediati sulle due rive dell'Atlantico, mentre buona pane dell'Europa continentale è «di colore vagamente scuro>>28 • A panire dalla rivoluzione americana, la condanna del dispotismo e della corruzione politica e morale tende ad escludere l'Europa nel suo complesso dal luogo sacro della civiltà e dall'Occidente più autentico. E dell'Oriente l'Europa viene in qualche modo considerata pane integrante nel momento in cui il presidente americano Monroe formula la celebre dottrina che D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 243. 28

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da lui ha preso il nome e che contesta alle potenze europee il diritto di intetvenire in America, owero in «questo continente», in «questo emisfero», nell'emisfero occidentale. Nel 1794, con lo sguardo rivolto alla rivoluzione francese, un autore della «Founding Era» scrive che «una totale demolizione del vecchio ordinamento» sociale può avere senso solo nel «continente orientale», nell'Europa corrotta e degenerata29. Da questo luogo dell'intrigo e della violenza Washington invita i suoi concittadini a tenersi lontani: «mentre in Europa guerre e disordini sembrano agitare quasi ogni nazione, pace e tranquillità prevalgono tra di noi, se si eccettuano alcune zone delle nostre frontiere occidentali, dove gli indiani sono stati molesti: stiamo prendendo le misure opportune per educarli o castigarli»3o, Il Vecchio Mondo tende ad essere relegato tra i barbari assieme ai pellerossa. Tale accostamento continua a farsi a lungo sentire nella tradizione politica americana. Nel 1802, nel commemorarel'anniversario dell'indipendenza degli Stati Uniti, un autore della F ounding Era attribuisce a Washington e a Adams il merito di aver «stipulato trattati vantaggiosi con le nazioni dell'Europa e con le tribù che abitano i selvaggi

29

J. Kent, An Introductory Lecture to a Course o/Law Lectures

(1794),in Ch. S. Hyneman eD. S. Lutz (a cura di, 1983),Amencan

Politica! Wdting dudngthe Founding Bra 1760-1815, Liberty Press, Indianapolis, 1983, p. 948. ;o G. Washington, A Collection, a cura di William B. Allen, Liberty Classics, Indianapolis. 1988, p. 555 {lettera al marchese di Lafayette del 28 luglio 1791).

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territori dell'Ovest>»'. Dieci anni più tardi, nel dichiararle guerra, Madison accusa l'Inghilterra di colpire con la sua flotta indiscriminatamente la popolazione civile senza risparmiare né donne né bambini, secondo un comportamento simile a quello dei «selvaggi» pellerossa>2 • Ad un secolo di distanza, con lo scoppio della prima guerra mondiale, un duro giudizio di condanna colpisce il Vecchio Mondo nel suo complesso e tutti i contendenti, i quali - osserva un editoriale del Tùnes del 2 agosto 1914 - «sono ricaduti.nella condizione di tribù selvagge». Successivamente, man mano che si delinea l'intervento statunitense a fianco dell'Intesa, la denuncia si concentra in modo univoco sui tedeschi, bollati dalla stampa e da una larga opinione pubblica come i «barbari» che sfidano la «civiltà», come gli «unni», o come selvaggi che si collocano al di sotto persino «dei pellerossa d'America e delle tribù nere dell'Africa>>33 • Una dialettica analoga si sviluppa in occasione della seconda guerra mondiale.Ancora il 15 aprile del 19.39, Fran.klin Delano Roosevelt accusa i paesi europei nel loro complesso di non essere riusciti a trovare metodi migliori, per comporre i loro dissidi, di quelli usati 31

Z. Sw. Moore,An Oration on the Annivenaryofthe Indipendence ofthe United States of America (1802), in Ch. S. Hyneman e D. S. Lutz (a cura di) cit., p. 1209. 32 In H. S. Comrnager, Documents ofAmerican History (7° ed.),Appleton-Century-Crofts, New York. 1963, voi. I, pp. 208-9. n InR. H. Gabriel, The Coune ofAmerican Democratic Thought, Greenwood Press (3° ed.), New York-Westport-London 1986, pp. 388 e 399.

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«dagli unni e dai vandali mille e cinquecento anni fa»; fortunatamente, grazie ad una «istituzione tipicamente americana» qual è l'unione che abbraccia tutti i paesi della «famiglia americana», «le repubbliche del mondo Occidentale» (Western world), ovvero del continente americano, riescono a «promuovere la loro comune civiltà sotto un sistema di pace» e a proteggere il «mondo occidentale» dalla tragedia che colpisce «il Vecchio Mondo>>3 4 • In seguito all'intervento in guerra, il presidente Usa concentra il fuoco esclusivamente sulla Germania. Ben lungi dal rinviare ad umori e contingenze politiche immediate o di breve periodo, la pretesa di rappresentare l'Occidente autentico è espressione di una filosofia della storia radicata nella tradizione politica americana. Ad attraversarla in profondità è il mito della translatio ùnperii dall'Europa e dall'Oriente al di là dell'Atlantico. Profetici sono considerati i versi (composti nel 1726) di George Berkeley: «Verso Occidente volge il corso dell'Impero;/i primi quattro atti già sono passati/un quinto chiuderà il dramma e la giomata;/la più nobile creatura del tempo è l'ultima». A tali versi si richiama ancora nel 1874, un autorevole senatore Charles Sumner, il quale, in un'opera scritta in vista del primo centenario della rivoluzione americana, dopo aver cercato analoghe «profezie» già nell'Antico Testamento e in Platone, cita poi compiaciuto diversi autori americani che avevano agitato tale motivo. «Tutte le cose del cielo, come il sole glorioso, si muovono verso l'Occidente»; e ciò vale anche per l'impero che aveva 34

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ln H . S. Commager,cit., voi. II, p. 414.

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trovato il suo centro a Roma e che «già s'affretta verso un mondo nuovo»: così pochi decenni dopo il vescovo e filosofo inglese, si esprime il pittore americano Benjamin West. Ma è soprattutto importante l'opinione di un personaggio illustre della storia americana (il secondo presidente degli Usa), col quale ancora una volta Sumner si identifica pienamente:

John Adams, da vecchio, andando in cerca di ricordi dei suoi anni giovanili, rammentò nelle sue lettere che nulla «era più antico dell'osservazione secondo cui le arti, le scienze e l'impero si erano mossi da Oriente verso Occidente e che comunemente, nel corso di una conversazione, si aggiungeva che la loro prossima tappa sarebbe stata l'America, oltre l'Atlantico». Con l'aiuto di un vicino ottuagenario, rammentò due versi che sentl. ripetere «perpiù di sessanta anni»: «Le genti di Oriente decadono, finisce la loro gloria/e sorge l'impero là dove scende il sole»>~.

Il motivo della translatio ùnperii ad Occidente si salda col motivo veterotestamentario della nuova Israele, della città sull'altura degli eletti di Dio, della «razza eletta» (chosen race )3 6 , ovvero della «nazione scelta» (chosen nation) da Dio al fine di «guidare la rigenerazione del mondo», per riprendere il linguaggio usato

In P. Bairati, I profeti dell'impero americano. Dal pen'odo coloniale ai nostri giorni, Einaudi, Torino 1975,pp. 108-13. 36 Così, nel 1787, il «poeta teologico» Timothy Dwight, in A. K. Weinberg, Manifest Destiny. A Study of Nationalistic Expansionism in American History (1935), Quadrangle Books, Chicago »

1963, p. 40.

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nel Novecento da un autorevole senatore americano (Beveridge) e oggi più che mai caro ai presidenti che si succedono alla Casa Bianca37• In questo contesto la potenza senza precedenti conseguita dagli Stati Uniti, il luogo dove l'Occidente si manifesta nella sua autenticità, non è altro che l'evidenziarsi del disegno provvidenziale. E il ricorso alle armi per difendere o consolidare questo primato è per definizione santificato da Dio: gli europei che ciò non comprendono dimostrano di muoversi ai margini o persino al di fuori dell'Occidente autentico.

5. Il nazis,no co11ze erede del pathos esaltato dell'Occidente La tendenza della tradizione politica americana a relegare gli europei tra i barbari suscita lo sdegno di Schmitt: «Stranamente, la formula dell'emisfero occidentale era diretta proprio contro l'Europa, l'antico Occidente. Non era diretta contro la vecchia Asia o l'Africa, ma contro il vecchio Ovest. Il nuovo Ovest avanzava la pretesa di essere il vero Ovest, il vero Occidente, la vera Europa». E così, «la vecchia Europa» finisce col subire la stessa sorte dell'Asia e dell'Africa, già da sempre escluse dalla civiltà38• La gara a rappresentare il centro dell'Occidente (ovvero dell'Europa 37

In A. K. Weinberg, cit., p. 459. * A. Schmitt,An lnquiry into the Nature and the Causes ofthe Wealth o/Nations(l775-6; .3° ed. 178.3),Liberty Classics,Indianapolis 1991, p . .381. 3

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vecchia e nuova) è l'espressione ideologica della competizione per l'egemonia. Da questa gara e da questa competizione non poteva certo essere assente la Germania nazista. Già subito dopo l'ascesa al potere, Hitler attribuisce a merito del popolo tedesco la «responsabilità profondamente sentita per la vita della comunità delle nazioni europee>>39. ' E in questo senso che Rosenberg inneggia ai «valori creativi» e all' «intera cultura dell'Occidente», ovvero ai «valori germanico-occidentali» e all'«anima nordico, occidentale»◄o. E un motivo che diventa sempre più enfatico in seguito all'invasione dell'Unione Sovietica. Subito dopo l'inizio dell'operazione Barbarossa, Hitler si presenta, nel suo proclama del 22 giugno 1941, come «rappresentante, cosciente della propria responsabilità, della cultura e civiltà europea»◄1 • Ripetutamente,nelle conversazioni a tavola egli insiste sul fatto che bisogna scongiurare il «tramonto dell'Occidente», sventare «il pericolo comunista proveniente da Est», eventualmente facendo ricorso, dopo la conquista e la colonizzazione dei nuovi territori, a un «gigantesco vallo [. ..] contro le masse dell'Asia centrale» 42 • All'indomani di Stalingrado, Goebbels mette in guardia l' «umanità occidentale» contro il pericolo rappresentato dal «bolA. Hitler, R.eden und Proklamationen 1932-1945 (1962-63), a cura di M . Domarus, Si.iddeutscher Verlag, Mi.inchen 1965, p. 226 (discorso del 21 marzo 1933). • 0 A. Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts (1930),Hoheneichen, Mi.inchen 1937, pp. 81-2 e 434. • 1 A. Hitler 1965, cit., p. 1730. 2 • A. Hitler, Tischgespriiche, a cura di H. Picker (1951), Ullstein, Frankfurt a. M.-Berlin 1989, pp. 69,237 e 449. 39

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scevismo orientale», e agita la bandiera della «missione europea», della «missione storica» dell'Occidente. È in gioco «il destino futuro dell'Europa, anzi dell'Occidente civile nel suo complesso». Neppure per un attimo bisogna perdere di vista la questione decisiva: «L'Occidente è in pericolo», «l'umanità occidentale è in pericolo»43. Dopo la disfatta della Germania, Heidegger giustifica la sua adesione al regime dichiarando di aver agito guardando alla «situazione storica dell'Occidente», per senso di «responsabilità occidentale», nella speranza che Hitler stesso sarebbe stato all'altezza della sua «responsabilità occidentale». Non è allora sulla base di un pathos esaltato dell'Occidente che ci si può contrapporre realmente al nazismo. Quando autori tra loro così diversi quali Strauss e Hayek procedono alla loro appassionata celebrazione dell' «uomo occidentale» a partire dall'antica Grecia, ignorano di riprendere motivi ed espressioni cari allo Heidegger degli anni '30 e ben presenti in Goebbels e nella cultura e nell'ideologia del Terzo Reich, nell'ambito del quale la polemica contro l'Ovest nemico della Germania si salda con una celebrazione senza limiti dell'Occidente, di cui proprio la Germania si erge a baluardo e interprete autentico44 .

•3

J. Goebbels, R.eden 1932-1945, a cura di H.Heiber (1971-72),

Gondrom, Bindlach 1991 a, voi. II, pp. 16.3, 175-9 e 18.3. ◄< D. Losurdo 1991, cit. cap . .3, § 8 (per quanto riguarda Heidegger); F. A. von Hayek, La società libera (1960), Vallecchi, Firenze 1969, p . 21; L. Strauss, Progress or retum? (1952), trad. it. in Id., Gerusalemme e Atene, a cura di R. Esposito, Einaudi, Torino 1998, p . .32.3.

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Agli occhi dei nazisti più che mai l'esclusione dall'Occidente coincide con l'esclusione dalla razza bianca. La Francia, che non esita ad attingere dalle popolazioni coloniali per reclutare i suoi soldati, attraversa ormai un processo di «negrizzazione» (Vernegerung); anzi, assistiamo già all'«emergere di uno Stato africano sul suolo europeo»45. Più complesso è il rappono con gli inglesi e i nord-americani: sono indubbiamente occidentali, grazie anche alla loro origine germanica: epperò, allorché si lasciano influenzare e contaminare dagli ebrei, cioè da un popolo esso stesso orientale e asiatico, e si schierano contro la Germania, si auto-escludono dall'Occidente e dalla razza bianca. Se, come sappiamo, agli occhi di Hitler «sangue ebraico» scorre nelle vene di F. D. Roosevelt, «ebreo marocchino» è il ministro inglese della guerra. Ancora più eloquenti sono le note di diario di Goebbels: le élites inglesi «a causa dei matrimoni ebraici sono così fonemente infette di ebraismo che in pratica non sono più in grado di pensare in modo inglese» (e occidentale). Ovvero: gli inglesi sono «il popolo ariano che più di tutti ha assunto caratteristiche ebraiche», cioè le caratteristiche di una stirpe sostanzialmente estranea all'Occidente e alla razza bianca e solo «apparentemente civilizzata»46.

◄5

A. Hitler 1939, cit., p. 730. ◄6 D. Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari 1996, cap. I,§ 2 (per quanto riguarda Hitler);]. Goebbels, Tagebucher, a cura di R. G. Reuth,Beck, Miinchen-Ziirich 1991, pp. 1764 e 1934; J. Goebbels, &den 1932-1945, a cura di H. Heiber (1971-72), Gondrom, Bindlach 1991, voi. II, p. 181.

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6. I bandi disco1nunica dell'aspirante I11ipero plane-

tario 1. Nell'ottobre del 1914, in un momento in cui

la neutralità dell'Italia gli consentiva di pensare e di esprimersi con sovrano atteggiamento di superiorità rispetto alla schiera folta e variegata degli ideologi della gigantesca carneficina allora in corso, Benedetto Croce annotava sarcasticamente: «Credo che, a guerra finita, si giudicherà che il suolo d'Europa non solo ha tremato per più mesi o per più anni sotto il peso della guerra, ma anche sotto quello degli spropositi»4i, E oggi, quale bilancio ideologico possiamo tracciare della «guerra contro il terrorismo»? Non bisogna perdere di vista gli elementi di novità. Non che manchino gli «spropositi», tutt'altro. Ma il quadro geopolitico e ideologico è sensibilmente diverso. Nel corso della prima guerra mondiale, se l'Intesa si ergeva a campione dell'autentica civiltà, la Germania rispondeva attribuendo ai suoi nemici solo una volgare «civilizzazione», tutta all'insegna del culto della quantità, del comfort, di una «sicurezza» filistea, e incapace di cogliere i valori autentici dell'esistenza. Gli intellettuali tedeschi celebravano l'eccellenza della cultura e, talvolta, della «razza» germanica, ed ecco che sul versante opposto rispondeva un coro non meno compattamente impegnato a cantare le lodi ., B. Croce, Giudizf passionali e nostro dcvere. Da un'intervista (ottobre 1914), in L'Italia dal 1914 al 1918. Pagine sul1.a guerra (1927), Laterza, Bari, 3° ed. 1950,p. 12.

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della superiore cultura e «razza» latina e anglosassone. Gli Stati Uniti di Wilson si sentivano investiti della missione di diffondere la democrazia nel mondo? Max Weber non aveva difficoltà ad ironizzare su questa pretesa avanzata da un paese in cui continuavano ad infuriare il Ku Klux Klan, il regime di supremazia bianca e i linciaggi dei neri. In breve: nel 1914-1918, sul piano ideologico lo scontro rassomigliava ad una rissa da osteria, con le accuse di inciviltà e anti-democrazia che rimpallavano tranquillamente da una parte all'altra. Non così ai giorni nostri. Con la vittoria trionfale conseguita dagli Stati Uniti nel corso della guerra fredda, si è verificato un radicale mutamento del quadro internazionale. Nonsiamo piùin presenza di una contesa per l'egemonia tra Stati o alleanze militari con una forza più o meno equivalente, al contrario, una superpotenza solitaria dichiara in modo esplicito di non tollerare rivali, di voler ulteriormente rafforzare il suo primato militare sino al punto da renderlo incolmabile. A questo mutamento nei rapporti di forza sul piano militare corrisponde un mutamento altrettanto o forse ancora più radicale nei rapporti di forza sul piano ideologico. Washington si atteggia ormai, non senza successo, a precettore del genere umano. Già presente al momento della fondazione degli Stati Uniti, questa tendenza diventa un motivo ossessivamente ricorrente a partire dal secondo conflitto mondiale. Subito dopo il suo scoppio F. D. Roosevelt condanna come contrari ai sentimenti di «ogni uomo e donna civile» e alla «coscienza dell'umanità» e come espressione di «disumana barbarie» i bombardamenti 161

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aerei che colpiscono la popolazione civile 48• Ciò non gli impedisce negli anni successivi di promuovere la distruzione sistematica delle città giapponesi e di partecipare alla distruzione non meno sistematica delle città tedesche. Collocandosi su questa linea ancora oltre andrà il suo successore, e cioè Truman, che procede tranquillamente all'annientamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki. Sennonché, finora, nessun presidente statunitense ha avvertito il bisogno di prendere le distanze da questi atti di «disumana barbarie». A guerra conclusa, gli Stati Uniti introducono in Giappone una Costituzione che professa un radicale antimilitarismo: in base all'art. 9 il paese sconfitto rinuncia in modo solenne al tradizionale «diritto sovrano della nazione» alla guerra, alla minaccia dell'uso della forza e all'esercito. Ma già con lo scoppio della guerra fredda, con lo sguardo rivolto a Mosca e oggi più che mai, nell'ambito della politica di «contenimento» della Cina, gli Stati Uniti fanno pressioni sul Giappone perché svolga un ruolo militare più attivo e si dichiari e si tenga pronto sin d'ora a inviare truppe all'estero in caso di crisi, calpestando e liquidando la Costituzione pur a suo tempo ispirata o imposta da Washington. Il medesimo gesto sovrano decide quando è conforme alla causa della pacee dei diritti dell'uomo rinfoderare o sguainare la spada. 2. E' un potere sovrano che, al di là dell'ambito politico in senso stretto, investe la cultura, la storia, la religione. Negli anni '50 del Novecento, gli Stati

•• J. W . Dower, War Without Mercy.

Race and Power in the Pacific War, Pantheon Books, New York 1986, p. 39.

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Uniti sono impegnati a contenere e strangolare la Repubblica Popolare Cinese, sottoposta ad un micidiale embargo economico e non ammessa all'Onu, dove a rappresentare in modo esclusivo un quarto o un quinto della popolazione mondiale è il rappresentante di Taiwan, l'isola posta sotto il protettorato di Washington. Tale politica suscita perplessità persino in Inghilterra: Churchill suggerisce a Eisenhower una maggiore duttilità. Ed ecco che allo statista inglese, campione a suo tempo della lotta contro la politica di appease,nent nei confronti della Germania nazista, viene impartita una lezione proprio su questo campo. E' assolutamente necessario evitare una nuova «Monaco»; non è più tollerabile l'appease,nent nei confronti di un nemico che invece è necessario affrontare subito in modo deciso e coraggioso - Eisenhower ammonisce Churchill: Se posso ancora far riferimento alla storia, non agendo unitariamente e tempestivamente non riuscimmo a bloccare Hirohito, Mussolirù e Hitler. Ciò significò l'inizio di lunghi anni di nera tragedia e di disperato pericolo. Hanno imparato qualcosa le nostre nazioni da questa lezione?49•

Poco dopo, in occasione della crisi di Suez, Eden, succeduto a Churchill nella carica di primo ministro, fa ricorso anche lui al gioco delle analogie storiche: «Nasser è un paranoico e ha la stessa struttura mentale di

◄9 Sulla corrispondenza tra i due statisti cfr. P. G. Boyle,

The

Churchill-Eisenhower Correspondence 1953-1955, The University of Carolina Press, Chapel Hill andLondon 1990, pp. 193,197 e 138.

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Hitler», ovvero è «una sorta di Mussolini islamico»J0: qualsiasi cedimento o compromesso relativamente ai diritti dall'Inghilterra rivendicati sul canale di Suez avrebbe significato una riedizione della funesta politica di appease,nent che, a suo tempo, aveva incoraggiato i dittatori nazi-fascisti nella corsa al potere mondiale. Ben lungi dal lasciarsi impressionare da tali analogie, nel 1956 Eisenhower coglie prontamente l'occasione dell'intervento anglo-franco-israelianocontro l'Egitto per mettere alle strette gli alleati occidentali: Washington faceva brutahnente presente a Londra che dipendeva finanziariamente dagli Stati Uruti, mettendosi a vendere sterline a man bassa. Questo attacco si stava sviluppando con tale rapidità che, scrive Eden nelle sue memorie, 'poteva metterci in una situazione disastrosa'. Invano cercò di raggiungere per telefono Eisenhower. Era la notte delle elezioni e tutto quello che ricevette fu una comuIÙcazione del suo ambasciatore a Washington in base alla quale risultava che se il calo della sterlina continuava, il Regno Unito avrebbe rischiato il fallimento' 1 •

La vicenda si conclude col varo, il 9 marzo 1957, della dottrina Eisenhower: «l'area generale del Medio Oriente» diventa ormai «vitale» per gli «interessi nazionali» americani; è il passaggio dalla Gran Bretagna so St. Z. Freiberger, Dawn over Suez. The Rise ofAmerican

Power in the Middle Bast, 1953-1957, Ivan R. Dee, Chicago 1992, pp. 165 e 263. s, A. Fontaine, Storia dellague"a fredda (1965-67), il Saggiatore, Milano 1968, voi. II, p. 291.

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agli Stati Uniti del controllo di una zona di decisiva importanza strategica. Eden non aveva capito che il potere di scomunica non era nelle sue mani bensì in quelle del sovrano che siede alla Casa Bianca. A lui soltanto compete l'autorità di paragonare a Hitler questo o quel capo di Stato e di governo e di condannare in quanto colpevoli di appease111ent gli alleati che non si accodano prontamente alla Crociata contro i nemici dell'Impero. E' così che negli anni '80 Reagan innalza alla dignità di combattenti contro un nuovo hitlerismo i contras che in Nicaragua con atti terroristici di ogni genere combattono il governo sandinista. Dopo essersi reincarnato nientemeno che nel dirigente di un minuscolo e impotente Stato dell'America centrale, e cioè in Daniel Ortega (colpevole di una radicaleriforma agraria sgradita a Washington), successivamente il Fi.ihrer nazista assume via via le sembianze di Milosevic, di Bin Laden, di Saddam Hussein. La storia e la logica non giocano alcun ruolo in questi successivi bandi di scomunica. Abbiamo per l'appunto a che fare con la teologia, come dimostra in particolare una vicenda straordinaria di incarnazione e transustanziazione: dopo essere stato celebrato quale combattente della libertà in lotta contro le truppe sovietiche intervenute in Afghanistan, contro l'Impero del Male e contro il nuovo Hitler che risiedeva a Mosca, Bin Laden cambia radicahnente natura e finisce con lo svolgere proprio lui il ruolo di Hitler e di Satana . .3. Ovviamente, la teologia si intreccia con la geopolitica. Mentre, ogni volta che è possibile, si serve del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per promuovere o per legittimare la condanna allo strangola-

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mento economico e all'occupazione militare di volta in volta inflitta a questo o quel paese, per un altro verso Washington si rifiuta di subordinare all'approvazione dell'Onu (e della stessa Nato) le sue guerre e le sue iniziative belliche. E non è tutto. Anche se alleati, i paesi che non si attengono alle misure di embargo varate unilateralmente dal Congresso americano rischiano pesanti rappresaglie commerciali. Sempre più chiaramente emerge la pretesa della superpotenza solitaria di esercitare una giurisdizione universale. Com'è confe1mato da un ulteriore particolare. La Casa Bianca non si stanca di proclamare che, dinanzi al problema di colpire i responsabili di crimini contro l'umanità, le frontiere e la sovranità statale sono ormai irrilevanti; eccola allora promuovere la creazione di tribunali ad hoc per giudicare i dirigenti dei paesi via via sconfitti (come nel caso della Jugoslavia) . Sennonché, allorché in Europa emerge l'aspirazione a creare una sorta di Tribunale Penale Internazionale, Washington procede ad una pesante messa in guardia: ad esso in nessun caso possono essere sottoposti, nonché i dirigenti statunitensi, neppure l'ultimo dei soldati o dei contractors americani. La sovranità statale è superata per tutti i paesi, tranne quello che è chiamato ad esercitare la sovranità universale. L'ideologia della guerra che si dispiega ai giorni nostri è illinguaggio dell'Impero che, pur tra battute d'arresto e sconfitte ma con rinnovata tenacia e facendo leva su un apparato militare ogni giorno più poderoso o più mostruoso, cerca di estendere il suo potere in ogni angolo del mondo. Si tratta di un Impero che, contrariamente a quanto sostenuto da un libro assai fortunato, non è affatto privo di centro

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e di sovrano52 • Questa tesi finisce inconsapevohnente col riecheggiare essa stessa il linguaggio dell'Impero, che sin dal suo emergere ha preteso di essere mosso non da meschini calcoli nazionali bensì da un provvidenziale «destino manifesto» e che oggi più mai ama presentarsi come l'incarnazione dell'universalità e di un vero e proprio disegno divino. In realtà, si fa sentire così fortemente la tradizione dell'imperialismo, che oggi vediamo Washington ereditare ed unificare le diverse ideologie che storicamente in Occidente hanno legittimato e alimentato le pretese al dominio e all'egemonia. Alla fine dell'Ottocento, dopo aver celebrato i prodigiosi successi conseguiti dalla Germania sul piano economico, politico e culturale, un fervente e influente sciovinista, e cioèHeinrich von Treitschke, prevedeva e auspicava che il Novecento diventasse un «secolo tedesco>>5>. Ai giorni nostri, privo ormai di qualsiasi credito in patria, questo mito ha preferito trasmigrare negli Stati Uniti, dove ha trovato accoglienza calorosa e entusiastica: è noto che il «nuovo secolo americano» è la parola d'ordine agitata dai circoli neo-conservatori, che un ruolo così importante svolgono nell'ambito dell'amministrazione Bush e, più in generale, della cultura politica statunitense. Nel corso della prima guerra mondiale, paesi come la Francia, l'Inghilterra, l'Italia e gli Stati Uniti sono andati incontro al massacro agitando la bandiera del}'«interventismo democratico»: la guerra era necessa2

M. Hardt e A. Negri, Impero (2000), Garzanti, Milano 2002. > D. Losurdo, Niet:z:sche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio cn'tico, Bollati Boringlùeri, Torino 2002, p. 284. •

3

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ria per far avanzare stÙ piano mondiale la causa della democrazia, per liquidare negli Imperi centrali l'autocrazia e l'autoritarismo e sradicare così una volta per sempre il flagello della guerra. Si tratta di un motivo ideologico non del tutto estraneo alla Germania guglielrnina che, almeno sino alla rivoluzione del febbraio 1917, ha preteso di esportare la democrazia nella Russia zarista. Assai diffuso agli inizi del Novecento, questo motivo ideologico è ora diventato un monopolio degli Stati Uniti ed ha assunto un'enfasi senza precedenti: la più antica democrazia del mondo, la nazione eletta da Dio, «deve continuare a guidare il mondo» sulla via della libertà, nell'ambito di una «missione» che, per dirla con le parole a noi già note di Clinton, è «senza tempo». In realtà, questa visione, in base alla quale c'è un unico popolo cui compete il privilegio eterno di guidare mentre tutti gli altri popoli si devono rassegnare ad essere eternamente guidati, è la negazione stesso dell'idea di eguaglianza e di democrazia nei rapporti internazionali. E un'analoga considerazione si può fare a proposito della visione secondo cui da un lato c'è un popolo eletto da Dio per l'eternità e dall'altro popoli per sempre esclusi da questa particolare dimistichezza con l'Onnipotente. E, tuttavia, l'ideologia non si occupa di tali sottigliezze. Resta fermo che oggi solo gli Stati Uniti si attribuiscono la missione eterna e divina di imporre dappertutto, anche con la forza delle armi, «democrazia» e «libero mercato». ll mito dell'Impero apportatore di ordine, di stabilità e di pace accompagna come un'ombra la storia del colonialismo e dell'imperialismo. All'apice della sua potenza, la Gran Bretagna della regina Vittoria non

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disdegnava di paragonarsi all'Impero romano. Ovviamente, questo è un motivo caro in modo particolare a Mussolini che, dopo aver in modo barbaro messo a ferro e fuoco l'Etiopia, nel discorso del 9 maggio 19.36, saluta la «riapparizione dell'Impero sui colli fatali di Roma» e celebra il rinato impero romano come «impero di pace» e «impero di civiltà e umanità». È un motivo ben presente anche in Hitler, anche se questi, con lo sguardo rivolto alla conquista dell'Europa orientale, preferisce far riferimento in primo luogo a Carlo Magno e al Sacro Romano Impero della Nazione germanica. Caduta in disgrazia in Europa, tale mitologia è più che mai di casa al di là dell'Atlantico, dove non mancano neppure le riabilitazioni esplicite dell'imperialismo in quanto tale. In ogni caso, nei circoli dominanti il culto dell'impero è così forte da comportare anche la denigrazione della categoria di «equilibrio», inaccettabile già per il fatto di implicare in qualche modo l'idea di uguaglianza o di reciproco rispetto, sia pure soltanto tra le grandi potenze. A porre fine una volta per sempre a questo vecchiume è chiamato una sorta di rinato impero romano di dimensioni planetarie e, naturalmente, garante della pace, della civiltà e dell'umanità. Infine. La storia della tradizione coloniale è tutta attraversata dall'appello enfatico alla difesa dell'Europa e dell'Occidente e all'espansione dell'area della civiltà di contro alla minaccia owero all'ostinazione dei barbari. Nell'ereditare e radicalizzare la tradizione coloniale, il fascismo e il nazismo non potevano non riprendere questo motivo ideologico, che risuona in particolare nelle dichiarazioni dei dirigenti e degli ideologi del

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Terzo Reich, immediatamente confinante con la bar~arie orientale e asiatica da sconfiggere e assoggettare. E appena il caso di dire che oggi ad ergersi a campioni dell'Occidente, e soprattutto dell'Occidente più autentico e più puro dalle incrostazioni e dai cedimenti filoislamici, sono gli Stati Uniti d'America 4. Al di là delle dimensioni planetarie che esso pretende di assumere, la vera novità dell'Impero americano è un'altra. Ogni anno il Dipartimento di Stato pubblica un rapporto sul rispetto dei diritti dell'uomo nel mondo e in ogni singolo paese del pianeta, ad eccezione s'intende degli Stati Uniti, che chiaramente costituiscono il giudice indiscusso, mentre tutti gli altri sono imputati, almeno allo stato potenziale. Chi pensa agli Stati Uniti come ad una superpotenza esclusivamente militare, ha capito ben poco dell'odierna situazione. Al tendenziale monopolio delle armi più sosfisticate e più micidiali - lo scudo stellare degli Stati Uniti mira a rendere inservibile l'armamento nucleare degli altri paesi - corrisponde la pretesa di Washington di ergersi a giudice universale, un giudice che per di più detta le regole del discorso e sancisce in modo inappellabile le norme, i capi di imputazione morale, i peccati, contro cui bisogna stare in guardia se si vuole evitare di essere messi in stato d'accusa in quanto colpevoli, in misura più o meno grave e in modo diretto o indiretto, di terrorismo, fondamentalismo, antiamericanismo, antisemitismo (e antisionismo), filoislamismo e odio contro l'Occidente. Dagli effetti potenzialmente devastanti, questi bandi di scomunica colpiscono in primo luogo i paesi da Washington assimilati a canaglie fuorilegge, ma tengono sotto tiro gli stessi alleati riluttanti, i quali

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ultimi, senza mettere in discussione l'autorità morale dei loro accusatori, si limitano per lo più a balbettare imbarazzate difese o giustificazioni. Insomma, se il primo conflitto mondiale si configurava sul piano ideologico come una rissa da osteria, la «guerra contro il terrorismo» ci fa assistere ad una sorta di seduta del Santo Uffizio che, mentre inchioda sul banco degli imputati gli eretici (i nemici), non perde certo di vista i miscredenti, gli agnostici e i tiepidi (gli alleati indisciplinati o anche solo esitanti). Non paga del suo mostruoso apparato militare, Washington si atteggia anche a suprema autorità morale e religiosa: da sempre awezza a sancire le sue «dottrine» (il linguaggio teologico non è nuovo), ora più che mai bandisce le Crociate, talvolta nel senso letterale del termine e pretende di rendere a sé subalterna la stessa Chiesa Cattolica. Le categorie centrali dell'odierna ideologia della guerra sono al tempo stesso i bandi di scomunica dell'aspirante Impero planetario.

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VII. GLI STATI UNITI E LE RADICI POLITICO-CULTURALI DEL NAZISMO1

1. Il «secolo delle razze»: dall'Otto al Novecento

A partire almeno da Hannah Arendt è diventato un luogo comune sussumere Terzo Reich e Unione Sovietica sotto la categoria di «totalitarismo». Ma questo approccio presenta non pochi inconvenienti. In primo luogo separa nettamente il Novecento, letto come il secolo dell'avvento del potere totalitario e genocida, dallo sviluppo storico precedente, quasi ad avvalorare la consueta lettura che vede i decenni precedenti il 1914 o il 1917 come il periodo della belle époque. Eppure storici autorevoli hanno visto nell'Ottocento Titolo originale: White supremacy e çontrorivolw.ione. Stati Uniti, &ssia biança e Terzo Reiçh in «Belfagor. Rassegna di varia umanità», gennaio 2008, pp. 1-29; ripubblicato in Andreas Piras, ed., Imperia. Esperienze imperiali nella storia d'Europa, Il Cerchio, Rimini, 2008, pp. 141-168). 1

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il secolo in cui giunge a compimento l' «olocausto americano» (ovvero la «soluzione finale» della questione degli amerindi), e si consumano l'«olocausto australiano» e gli «olocausti tardovittoriani». Siamo in presenza di orrori che investono la stessa metropoli, e non solo gli Stati Uniti (dove «la degradazione e l'annientamento degli indiani della California» diviene «una sorta di sport popolare» e il linciaggio sadico dei neri si configura come uno spettacolo di massa, regolarmente annunciato dalla stampa locale e seguito con appassionata partecipazione da una folla che comprende anche donne e bambini), ma anche l'Europa: il principale responsabile (sir Trevelyan) della politica inglese che a metà dell'Ottocento conduce alla morte per inedia di diverse centinaia di migliaia di irlandesi è stato talvolta bollato come il «proto-Eichmann»2. Il secolo, che oggi la teoria del totalitarismo tende a contrapporre positivamente al Novecento,è stato a suo tempo definito come il secolo «più doloroso» della storia umana. A esprimersi così è Houston S. Chamberlain, che tuttavia non intende formulare alcun giudizio critico: dopo tutto, si tratta del «secolo delle colonie» e soprattutto del «secolo delle razze», cui spetta il merito di aver confutato una volta per sempre le ingenue «idee di affratellamento universale del 18° secolo» e la mitologia della comune origine e dell'unità del genere umano, l'armamentario ideologico al quale, nonostante le sonore smentite della storia e della scienza, restano pateticamente aggrappati 2

D. Losurdo, Controstoriadel liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, capp. IX, § 2 e X, § 5.

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i «socialisti>>3. Questa configurazione dell'Ottocento, a opera di un autore particolarmente caro a Hitler, ci rinvia immediatamente al Novecento e al programma coloniale e razziale del Terzo Reich, suggerendo così una continuità ignorata dal discorso corrente sul totalitarismo. Ma, almeno, questa categoria consente di abbracciare nella sua totalità l'orrore del secolo su cui essa si propone di concentrare l'attenzione, l'orrore del Novecento? Disgraziatamente non è così. Procediamo a ritroso rispetto alla rivoluzione d'Ottobre, che costituirebbe il punto di partenza della vicenda totalitaria. Di quali categorie possiamo allora avvalerci per comprendere la prima guerra mondiale allorché, per dirla con Weber, anche nei paesi di consolidata tradizione liberale allo Stato viene «attribuito un potere "legittimo" sulla vita, la morte e la libertà» dei cittadini?4 In effetti, ecco fare irruzione la mobilitazione totale e l'irreggimentazione totale, le esecuzioni e le decimazioni anche all'interno del proprio campo, le spietate punizioni collettive, che comportano, ad esempio, la deportazione e lo sterminio degli armeni. E in quale contesto collocare, ancor prima, le guerre balcaniche, con i massacri su larga scala che le caratterizzano? Sempre procedendo a ritroso, come leggere la tragedia

'H. S. Chamberlain, Die Grundlagen des neum.ehnten Jahrhunderts (1898), Ungekiirzte Volksausgabe, Bruckmann, Miinchen 1937, pp. 997 e 33. ◄ Cfr. D. Losurdo, Kampf um die Geschichte. Der historische Revisionismus und seine Mythen - Nolte, Puret und die andere, Papyrossa, Koln 2007, cap. V,§ 2.

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degli Herero, dalla Germania guglielmina considerati inutilizzabili persino come forza-lavoro servile e quindi, agli inizi del Novecento, con un ordine esplicito condannati all' aruùentamento? Ora, invece che a ritroso, procediamo in avanti rispetto alla prima guerra mondiale e alla rivoluzione d'Ottobre. Poco più di due deceruù dopo, il campo di concentramento fa la sua apparizione anche negli Stati Uniti: in base ad un ordine esecutivo di Franklin Delano Roosevelt, vi vengono rinchiusi i cittadini americani di origine giapponese, comprese donne e bambini. In questo stesso momento, in Asia, la guerra condotta dall'Impero del Sol Levante assume forme particolarmente ripugnanti. Con l'espugnazione di Nanchino, il massacro diviene una sorta di disciplina sportiva e, al tempo stesso, di divertimento: chi riuscirà ad essere più rapido ed efficiente nel decapitare i prigionieri? La de-umanizzazione del nemico raggiunge ora una completezza assai rara: invece che su animali, gli esperimenti di vivisezione sono condotti sui cinesi, i quali per un altro verso costituiscono il bersaglio vivente dei soldati giapponesi che si esercitano ad andare all'assalto con la baionetta. La de-umanizzazione investe in pieno anche le donne che, nei paesi invasi dal Giappone, sono sottoposte ad una brutale schiavitù sessuale: sono le comfort women, costrette a «lavorare» a ritmi infernali al fine di ristorare dalle fatiche della guerra l'esercito di occupazione e spesso eliminate, una volta divenute inutili per l'usura o le malattie sopraggiunte5• La guerra Cfr. D. Losurdo, Per una critica della categoria di totalitarismo, in Manuela Ceretta (a cura di), Bonapartismo, cesarismo e 5

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in Estremo Oriente, che vede il Giappone far ricorso contro la Cina anche alle armi batteriologiche e infierire altresi contro i prigionieri inglesi e americani, si conclude con il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, in un paese che pure è allo stremo e si prepara ad arrendersi: è per questo che studiosi americani hanno paragonato l'annientamento della popolazione civile delle due città giapponesi onnai indifese ali'ebreicidio dal Terzo Reich consumato in Europa. Di tutto ciò non c'è traccia nelle consuete teorie del totalitarismo, così come non c'è traccia di quello che si verifica nella seconda metà del Novecento, ad esempio in America Latina, dove gli Stati Uniti intervengono ripetutamente non solo per mantenere in piedi o instaurare feroci dittature militari ma anche per promuovere o facilitare «atti di genocidio»: lo sottolinea in Guatemala la «commissione per la verità» istituita nel 1999, che fa riferimento alla sorte toccata agli indiani Maya, colpevoli di aver simpatizzato con gli oppositori del regime caro a Washington6 • Infine, la categoria di totalitarismo riesce a spiegare ben poco dell'universo sociale, politico e ideologico dei regimi a cui essa viene applicata. Mi concentro qui sul Terzo Reich. Alla vigilia dell'operazione Barbarossa, nel chiamare ali'«annientamento dei commissari bolscevichi e dell'intellettualità comunista», Hitler enuncia un crisi della società. Luigi Napoleone e il colpo di Stato del 1851, Olschki, Firenze, pp. 167-196 2003, § 4. 6 M. Navarro, U. S. Aid and. 'Genocide'. Guatemala Inquiry Details CL4's Help to Military, in «International Herald Tribune» del 27/8 febbraio 1999, p. 3.

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principio dì essenziale impo1tanza: «la lotta sarà molto diversa dalla lotta in Occidente»; in Oriente s'impone una «durezza» estrema e gli ufficìali e i soldati sono chiamati a «superare le loro riseive» e i loro scrupoli morali;. Come spiegare che il medesimo paese, nel medesimo periodo dì tempo e anzi nel corso del medesimo conflitto mondiale, teorizza e pratica sui due fronti dì guerra comportamenti tra loro così diversi? È fatica vana cercare la risposta alla luce del discorso sul totalitarismo. Possiamo rinviare al furibondo anticomunismo del regime nazista, ma in tal modo finiamo col contrapporre i due paesi che quella categoria tende ad accostare. D'altro canto, già per la campagna in Polonia Hitler formula un programma identico a quello appena vistoin relazione all'Unione Sovietica: s'impone l'«eliminazione delle forze vitali» del popolo polacco; «tutti i rappresentanti dell'intellettualità polacca devono essere annientati»: «ciòpuò suonare duro ma è pur sempre una legge della vita»; occorre «procedere in modo brutale» senza lasciarsi inceppare dalla «compassione»; «il diritto è dalla parte del più fone»8 • Eppure, in questo caso ad essere aggredito è un paese che col Terzo Reich condivide il feivore anticomunista. Sennonché, anche qui si tratta dì stablire un «protettorato>~, a somiglianza dei «protettorati» previsti per «i paesi del mar Baltico,

; A. Hitler, Mein Kampf (1925/7), Zentralverlag der Nsdap, Miinchen 1965, p. 1682 (30 marzo 1941). 8 Ivi, pp.1237-38 (22 agosto 1939)e p. 1591 (2 ottobre 1940). 'A. Hitler, Hit/ers Zweites Buch. Bin Dokument ausdem Jahre 1928, a cura e con commento di Gerhard L. Weinberg, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1965,p. 1238 (22 agosto 1939).

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l'Ucraina e la Bielorussia». In un caso e nell'altro non bisogna perdere di vista i «compiti coloniali»10 e le dure necessità dell'impero continentale da edificare in Europa orientale: affrontando i popoli destinati a lavorare a guisa di schiavi al servizio della razza dei signori, è necessario non solo annientare il ceto intellettuale esistente ma anche con ogni mezzo «impedire che si formi un nuovo ceto intellettuale»; non bisogna dimenticare che «ci può essere un solo padrone, quello tedesco»11 • Ecco perché la guerra a Est dev'essere condotta con modalità diverse e decisamente più barbare che non ad Ovest. Per la verità, anche a Ovest interviene una differenziazione: dal rispetto dello jus in bello e delle norme dello jus publicum europaeum sono esclusi gli ebrei, che sono estranei anche loro all'Europa e alla civiltà e costituiscono, per dirla con Goebbels, «un corpo estraneo nell'ambito delle nazioni civili»12. Come si vede, l'elemento centrale dell'ideologia nazista è la dicotomia tra popoli e razze depositarie della civiltà e destinate al dominio e popoli e razze che incarnano la barbarie e devono rassegnarsi alla loro condizione naturale di schiavi o semischiavi. Ben lungi dall'essere dileguati, il secolo delle «colonie» e delle «razze» e la connessa distruzione dell'unità del genere umano (di cui parla Chamberlain alla fine dell'Ottocento) entrano ora nella fase decisiva e fanno irruzione nella stessa Europa: «durante tutto il secolo scorso» 0

Ivi, p. 1682(30 marzo 1941)e p.1591. Ivi, p. 1682 (30 marzo 1941) e p. 1591. 12 J. Goebbels, Tagebucher, a cura di Ralf GeorgReuth, Beck, Miinchen-Ziirich 1991, p. 1659 (19 agosto 1941). •

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sottolinea Hitler rivolgendosi agli industriali tedeschi e guadagnandosi definitivamente il loro appoggio per l'ascesa al potere - «i popoli bianchi» hanno conquistato una posizione di incontrastato dominio, a conclusione di un processo iniziato con la conquista dell'America e sviluppatosi all'insegna dell' «assoluto, innato sentimento signorile della razza bianca»13. A minacciare la gerarchia naturale che sussiste tra gli individui che costituiscono un popolo e, ancora prima e in misura ancora più accentuata, tra i diversi popoli e le diverse razze, a mettere in pericolo il fondamento della civiltà sono la rivolta dei popoli coloniali e la sowersione comunista. È all'opera l'Untennensch owero l'Untennenschentum bolscevico o meglio ebraico-bolscevico14, e questo sotto-uomo e sotto-umanità mirano non solo allo spodestamento ma persino all' «annientamento delle razze europee», dei «popoli ariani», dei «popoli ariano-europei»u.

2. Le parole-chiave dell'ideologia nazista e la loro ongtne

Untennensch: ci imbattiamo qui nella parola-chiave che esprime in modo concentrato la carica di de-umanizzazione e di violenza genocida insita nell'ideologia

u A. Hitler 1965, cit., p. 75 (discorso del 27 gennaio 1932). A. Rosenberg, Der Mythusdes 20. Jahrhunderls (1930), Hoheneichen, Miinchen 1937, pp. 102 e 214; A. Hitler 1965, cit., p. 1773 (8novembre 1941). 15 A. Hitler 1965,cit., pp. 1937, 1920 e 1828-29 (8 novembre, 30 settembre e 30 gennaio 1942). 14

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nazista: sono privati in anticipo della piena dignità di uomo quanti sono destinati a divenire semplici strumenti di lavoro o ad essere annientati quali agenti patogeni, colpevoli di fomentare la rivolta contro la razza dei signori e contro la civiltà in quanto tale. La ricerca delle origini di questa parola-chiave, che un ruolo così centrale e così nefasto svolge nella teoria e nella pratica del Terzo Reich, ci riserva una sorpresa: Untermensch non è altro che la traduzione dall' americano Under Man! Lo riconosce e anzi lo sottolinea nel 19.30 Rosenberg, il quale esprime la sua ammirazione per l'autore statunitense Lothrop Stoddard: a lui spetta il merito di aver per primo coniato il termine in questione, che campeggia come sottotitolo (The Menace o/the Under Man) di un libro pubblicato a New York nel 1922 e della sua versione tedesca (J)ie Drohung des Untennenschen) apparsa a Monaco tre anni dopo16. Al riconoscimento tributato da uno dei teorici di punta del movimento nazista si associane} 19.3.3 un ideologo minore che, nell'indagare i «fondamenti» della Rassenforschung, mette in guardia contro i pericoli insiti nella corrente contrapposizione tra mondo animale e «umanità»: sotto quest'ultima categoria rischiano di essere sussunti in modo indifferenziato due realtà tra loro assai diverse, l' «uomo nordico» e l'Untermensch

16 A.

Rosenberg cit., p. 214; L. Stoddard, The Revolt ag(linst Civilization. The Menace ofthe Under Man (1922),ristampa, Scribner, New York 1984; L. Stoddard, The Revolt against Civilkation. The Menaceof the Under Man (1922), tr. ted. dall'americano, di Wilhelm Heise, Der 'Ktllturumstur-;:. Die Drohung des Untermenschen, Lehmanns, Munchen 1925.

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di cui per primo ha parlato, con espressione «calzante», Stoddard17. Per quanto riguarda il significato del termine, l'autore statunitense chiarisce di averlo coniato al fine di designare «tutti quei tristi rifiuti che ogni specie vivente secerne», la massa degli elementi «inferiori», «dei disadattati e incapaci», dei «selvaggi e barbari», spesso carichi di risentimento e di odio nei confronti delle personalità «superiori», che ormai si rivelano «irrecuperabili» e sono pronti a dichiarare «guerra alla civiltà». E' questa minaccia terribile, di carattere sociale ed etnico, che occorre assolutamente sventare «se si vuole salvare la nostra civiltà dal declino e la nostra razza dalla decadenza»1s, Ho parlato di «sorpresa» a proposito del risultato dell'indagine per una parola-chiave decisiva dell'ideologia nazista. Ma è del tutto giustificato questo sentimento? Se pensiamo allo «sport popolare» dell'annientamento dei pellerossa e allo spettacolo di massa del linciaggio e dell'agonia tormentosa e interminabile inflitta ai neri considerati ribelli o scarsamente rispettosi nei confronti della razza superiore, non è certo stupefacente che in questo contesto sia emerso il termine che consacra la distruzione del genere umano e procura la buona coscienza ai responsabili di tali infamie.

Così Hennann Gauch (Neue Grundlagen der Rassenfor schung, Leipzig 1933), riportato in L. Poliakov e J. Wulf, Das dritte R.eich und seine Denker ( 1959), Saur, Miinchen 1978, p. 409. 18 L. Stoddard 1984, cit.,pp. 22·4 e 86-7; per la tr. ted. cfr. L. Stoddard 1925, cit. pp. 23-4 e 70-1. 17

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Negli Stati Uniti della white supremacy il programma di riaffermazione delle gerarchie razziali si salda strettamente col progetto eugenetico. Si tratta in primo luogo di incoraggiare la procreazione dei migliori e di scoraggiare quella dei peggiori, in modo da sventare il pericolo di «race suicide». Coniata nel 1901 dal sociologo americano Edward A. Ross19, questa espressione si diffonde nel mondo politico e nella larga opinione pubblica a partire soprattutto da Theodore Roosevelt. In lui l'evocazione dello spettro del «race suicide» e della «race humiliation» va di pari passo con la denuncia del «calo delle nascite tra le razze superiori», ovvero «nell'ambito dell'antico ceppo dei nativi americani»: ovviamente, il riferimento è qui non ai «selvaggi» pellerossa ma ai Wasp, ai White Anglo-Saxon Protestants, alla prima ondata di immigrati, che sul piano culturale, religioso e razziale esprimevano la bianca civiltà americana in tutta la sua purezza 20 • ' E un discorso che suscita un'eco simpatetica nella cultura e nella pubblicistica di lingua tedesca. Occupandosi della diffusione dell'eugenetica negli Stati Uniti, nel 1913 il vice-console dell'Impero austro-ungarico a Chicago osserva:

19

S. Kiihl, The Nazi Connection. Bugenics, American Racism

and German National Socialism, Oxford University Press, New York-Oxford 1994,p. 16. 2 °Cfr. T. Roosevelt, The Letters, a cura di EltingE. Morison, John M. Blum,John J. Buckley, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1951 sgg. 1951, vol. I, pp. 487 nota 4, 647 e 1113 e vol. Il, p. 1053.

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La fertilità ridotta degli Yankees è considerata una disgrazia nazionale e l'espressione utilizzata da Roosevelt, sucidio razziale (Rassenselbstmord), divenuta una parola d'ordine, esprime in modo calzante l'angoscia per il sopravvento di strati della popolazione di scarso valore21 •

Qualche anno dopo è Spengler, richiamandosi anche lui in modo esplicito allo statista statunitense, ad additare nel «suicidio razziale» (Rasseselbshnord) che incombe sui bianchi uno dei sintomi più inquietanti del «tramonto dell'Occidente» che si profila all'orizzonte 22. Con linguaggio appena diverso Hitler mette in guardia contro il Volkstod, la «morte del popolo» o della razza, ovvero contro «la decimazione e degradazione» della popolazione tedesca 23• Come si vede, anche in questo caso l'indagine storico-linguistica conduce a risultati inattesi. Ma torniamo agli Stati Uniti della white supremacy e all'autore caro in particolare a Rosenberg. La lotta senza quartiere contro l'Under Man è inserita da Stoddard nell'ambito di un programma eugenetico e razziale di più ampia portata: occorre «ripulire la razza delle sue peggiori impurità» (fo cleanse the race o/its worst itnpurities)24 , s'impone una politica complessiva di «pulizia razziale» (race cleansing), di «purificazione razziale» (race purification); occorre applicare in modo Hoffmann 1913, p. 15. O. Spengler,Der UntergangdesAbendlandes (1918-23),Beck, Mi.inchen 1980,p. 683. 23 A. Hitler 1965, cit., p. 1422 (23 novembre 1939). 2• L. Stoddard 1984, cit., p. 249. 21

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sistematico le scoperte di Francis Galton, «la scienza dell'Eugenetica ovvero del "Miglioramento Razziale"» (the science o/"Eugenics" or "Race Bettennent')25. Nella traduzione tedesca questi due ultinù termini diventano per lo più, già a partire dall'indice analitico, «Erbgesundheitslehre und-pflege». Ecco irrompere un'altra parola-chiave del discorso ideologico nazista, adoperata per lo più come sinonimo di Rassenhygiene. Conviene riflettere anche sulla storia di quest'ultimo termine, che conosce la sua prima apparizione alla fine dell'Ottocento. A farvi ricorso è Alfred Ploetz, il quale a tale proposito si richiama agh studi condotti dal «famoso ricercatore dell'ereditarietà Francis Galton»26 e può far tesoro del suo soggiorno negli Stati Uniti, dove la nuova scienza celebra i suoi massinù trionfi, anche perché qui - osserva Ploetz - gh «ariani» sono impegnati in una lotta contro «indiani, negri e mulatti» e gli «yankees più lungimiranti» si preoccupano di evitare che i nuovi immigrati, grazie alla loro maggiore fertilità, prendano il sopravvento sul bianco ceppo originario27, Alcuni anni dopo vede la luce a Monaco un hbro che, già nel titolo, addita gli Stati Uniti come modello di «igiene razziale». L'autore, il vice-console che già conosciamo, celebra gli Stati Uniti per la «lucidità» e la «pura ragion pratica» di cui danno prova nell'afs Ivi, p. 42.

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26

A. Ploetz, Grundlinien einer R.issen-Hygiene. I Theil: Die Tiichtigkeit unsrer R.asse und der Schutz der Schwachen, Fischer, Berlin 1895, pp. 3 e 215. 27 Ivi, pp. 77-9.

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frontare, e con la dovuta energia, un problema così importante eppur così frequentemente rimosso: l'igiene razziale viene promossa favorendo l' «accrescimento di quanti sono razzialmente più dotati» (Rassentiichtigste), scoraggiando la procreazione dei «meno validi» (Minderwertige), procedendo ad un'accurata «selezione degli immigrati», in modo da scartare non solo gli individui indesiderati ma anche «intere razze>>28 , L'igiene razziale è messa in pratica anche ad un ulteriore livello: vige il «divieto dei matrimoni misti» e del «mescolamento (Vennischung) extra-matrimoniale tra la razza bianca e nera»; violare tali leggi può comportare anche dieci anni di reclusione e ad essere condannabili, oltre ai protagonisti, sono anche i loro complici. Ma, al di là della norma giuridica, non bisogna perdere di vista il peso del costwne: «La purezza razziale è agognata in modo quasi inconscio e un mescolamento con sangue negro o anche asiatico è considerato un crimine, una vergogna» (Schande '19 • Siamo di nuovo ricondotti al cuore dell'ideologia e del linguaggio nazista, col profilarsi della dicotomia: Rassereinheit contra Rassen,nischung e Rassenschande (ovvero Blutschande). Naturalmente, il rapporto che stiamo indagando non è a senso unico. Stoddard ha studiato in Germania, è stato profondamente influenzato da Nietzsche, conia il termine Under Man in contrapposizione allo

s G. von Hoffmann, Die &ssenhygiene in den Vereinigten Staaten von Nordamerika, Lehmanns, Miinchen 1913, pp. IX, 17,111 e 114. 29 Ivi, pp. 67-8 e 17. 2

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Gu STATI ~ E LE RADICI POUTico- CULTURALI DEL NAZISMO

Ùbermensch celebrato dal filosofo tedesco 30; nell' esprimere tutto il suo disgusto nei confronti dell'Under Man (roso dall'invidia per le personalità superiori) è probabile che abbia presente la figura dello Schlechtweggekommenen o dello Missrathenen, del «malriuscito» sul quale Nietzsche non si stanca di riversare il suo disprezzo. Resta il fatto che, ben prima dell'avvento del Terzo Reich, gli Stati Uniti della white supremacy sono un modello per quanti si augurano l'adozione anche in Germania e nell'Impero austro-ungarico di una politica razziale ed eugenetica. Ridiamo la parola al vice-console a Chicago: «Da nessuna parte si parla e si scrive tanto di razza e di superiorità ovvero di inferiorità razziale quanto in America». Sì: «Il sogno di Galton, per cui l'igiene razziale sarebbe divenuta la religione del futuro, si avvia alla sua realizzazione in America. Essa conquista il Nuovo Mondo con una marcia trionfale; finora nessuna dottrina può vantarsi di qualcosa di simile». Il diffondersi impetuoso dell'igiene razziale tende a produrre risultati che vanno ben al di là degli Stati Uniti. Siamo in presenza di un movimento di staordinaria importanza, che mira e sta riuscendo ad «allevare una razza nuova, ideale, capace di dominare il mondo». L'Europa non deve rimanere indietro: «Le aspirazioni dell'America a nobilitare la razza sono in sé e per sé degne di essere imitate»31• Più tardi, nel 1923, un medico tedesco, FritzLenz, si lamenta del fatto che, per quanto riguarda l' «igiene io Cfr. Losurdo 2002, cit., cap. 27, § 7. 31 G. von Hoffmann, cit., pp. 114, 14 e 125.

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Domenico Losurdo

razziale», la Germania è ben addietro rispetto agli Usa 32 • Ancora dopo la conquista del potere da parte del nazismo, gli ideologi e "scienziati" della razza continuano a ribadire: «Anche la Germania ha molto da imparare dalle misure dei nord-americani: essi sanno il fatto loro>>33.

3. La controrivoluzione razzista dagli Stati Uniti alla

Ger1nania Non si tratta qui di indulgere a un banale «antiamericanismo», secondo l'accusa comunemente rivolta a coloro che esitano a inchinarsi compunti dinanzi all'immagine sacralizzata degli Stati Uniti quale tempio della libertà. Al contrario, sottolineare l'influenza esercitata dalla reazione americana su quella tedesca e europea significa al tempo stesso richiamare l'attenzione su una grande rivoluzione, per lo più dimenticata, che si svolge negli Stati Uniti. La fine della guerra di secessione vede non soltanto l'abolizione dell'istituto della schiavitù ma l'awento, sia pure nelle difficili condizioni di uno stato d'eccezione che non accenna a dileguare, di una democrazia multietnica: per mantenere il controllo del Sud, dove gli ex-proprietari di schiavi continuano a rivelarsi riottosi e ribelli, l'Unione e le sue truppe hanno n R. J. Lifton, The Ntm Docf-Ors. Medica! Killing and the Psychology