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Italian Pages 156 [78] Year 2011
Nahtjak89
Roberta De Monticelli
LA QUESTIONE CIVILE Del buon uso dell'indignazione
Ci sono momenti in cui un uomo pensa che la sua vita non abbia valore. Ce ne sono altri in cui si pensa che non abbia più valore la vita di nessuno. Per molti di noi questo è un momento come il secondo. È questo, vivere oggi in Italia. È questa erosione di speranza, di coraggio e di slancio creativo a ridurre in cenere i nostri giorni. E forse a ridurre anche la crescita del PIL. Con il tono appassionato di un’orazione civile, Roberta De Monticelli mette a fuoco con esattezza il cuore della tragedia che stiamo vivendo, e mostra come dal buon uso della nostra indignazione possa risultare una rifondazione, un progetto per una nuova civiltà.
Indice Premessa 9 Le anime morte 17 1. Le rivoluzioni incompiute 19 2. Le due maschere di un Paese tragico 23 3. La cultura dell'osceno e l'indifferenza 27 4. Un suicidio morale 36 5. Bellezza e giustizia: la giustizia come valore intrinseco 44 La giustizia 53 6. Proposito 55 7. Il lessico della giustizia: excursus sulle origini 61 8. Ciò che dobbiamo al mondo 66 9. La bella sofista 73 10. Lezione di giustizia: l'indignazione 80 11. Un Paese all'incanto 90 12. Un Paese illiberale? 95 13. Libertà e giustizia 98 14. A ciascuno il suo Dio 109 15. L'età dei doveri e la Repubblica 115 Filosofia del risveglio 125 16. Due modelli di normalità127 17. L'animale normativo e cooperativo 132 18. Inno a Socrate 137 19. Homo italicus: un aggiornamento sulla banalità del male 142 20. Invettiva finale, e razionale 150
Come è possibile essere "impegnati", senza essere dogmatici e fanatici? E come è possibile essere tolleranti, senza essere indifferenti? GUIDO CALOGERO
Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l'inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare. ALBERT EINSTEIN
Che ho a che fare io con gli schiavi? PIERO GOBETTI
Premessa Ci sono momenti, nella vita di un uomo, in cui si dispera del proprio valore. Ce ne sono altri, in cui sembra che l'esistenza di nessuno possa più avere alcun valore. Per molti di noi questo è un momento come il secondo. La scena politica italiana può mutare anche radicalmente, ma non muterà in profondità l'assetto della nostra vita civile se non faremo i conti con questo sentimento sordo e muto che già da troppo tempo erode le nostre vite, quasi svuotandole dall'interno. È questa erosione di senso, di speranza, e quindi di coraggio e di fiducia, e quindi di slancio creativo e di felice dedizione all'opera, sia la propria o quella di molti è questo respiro che ci manca a ridurre in cenere i nostri giorni. Forse a ridurre anche la crescita del pil. E certamente a togliere forza e credibilità alle parole stanche, ripetitive, opache dei leader politici che dovrebbero dar forma a una stagione nuova della nostra Repubblica. 11 Immanuel Kant illumina il senso di una situazione del genere, quando scrive: Se la giustizia scompare, non ha più alcun valore che vivano uomini sulla terra. (1) Si obietterà che, quanto a giustizia, ben altre sono state le epoche in cui si poteva lamentare questo sommo male della sua assenza dalla vita sociale, civile e politica. Eppure questa obiezione non coglie alla giusta profondità il carattere proprio di questo valore: la giustizia - e in verità di ogni altro valore, come la bellezza o la nobiltà. La parola "valore" è terribilmente inflazionata e fraintesa: ma solo facendo luce sulla svalorizzazione delle nostre vite potremo timidamente cominciare a prendere coscienza della cosa significata. L'essenza di un valore non si dà che in un risveglio. Questo libro abbozza una filosofia del risveglio. Come ogni valore, la giustizia non vive certamente tutta intera nelle sue realizzazioni, ma nella coscienza che prendiamo di sempre nuovi aspetti del giusto, e della lontananza del suo ideale dal poco realizzato. Ognuna di queste scoperte è felice: per mezzo loro si sono affrancati gli schiavi, liberate le colonie, fondate le democrazie. Così se cerchiamo di fare un po' di luce sul nostro disagio, oggi, scopriremo il tesoro della nostra sofferenza morale, per troppo larga parte ignara, ignota a se stessa. Scopriremo un tesoro, perché nel dolore di quello che ci manca leggeremo come in un calco il valore di questo bene che manca - la giustizia, o qualche suo aspetto a noi ancora ignoto, ancora nuovo. In un certo senso è questo lo scopo delle pagine che seguono: dire che cosa si impara da questo senso di mancanza, da
questa specie di disagio o sofferenza. Forse ne saremo naturalmente condotti ad approfondire la nostra coscienza di che cosa sia "giustizia". Secondo una tesi di fondo di La questione morale, tale "questione", lungi dal riguardare soltanto la politica o la vita dei partiti, si genera dalle dipendenze fra mores, politica, diritto, religioni: in un circolo che, quando si fa vizioso, e rovinosamente vizioso, ci sfida a ripensare, attraverso tutte le necessarie distinzioni, l'unità del pensiero pratico: cioè il pensiero che risponde alla questione "che fare?". In generale, nella storia umana, un circolo vizioso di questo tipo si spezza o si riconferma nella sfera politica - quella in cui si elaborano i progetti della società in cui vorremmo vivere. L'urgenza pratica si presenta dal lato del valore di giustizia che possiamo chiamare "pubblico": la giustizia come qualità di valore di una società "bene ordinata". Si presenta per esempio con l'urgenza di opporsi, costi quel che costi, a una disposizione di legge o a una decisione governativa "ingiusta". Ma a ben guardare, ci sono momenti in cui l'azione, la resistenza o addirittura la rivolta vengono vissute come esigenza morale: tipicamente è quello che avviene oggi nei casi di "disobbedienza civile". Perché in una democrazia, perfino in una democrazia mal funzionante e a rischio come è la nostra, l'autenticità dell'esigenza morale si valuta dalla civiltà del metodo di resistenza. Oggi e qui non può essere moralmente autentica la protesta che rinuncia alla civiltà della non violenza, lo scriviamo a scanso di equivoci. Ma l'autenticità morale ancora oggi si valuta dal prezzo personale che si è disposti a pagare: come hanno mostrato le centinaia di uomini e donne che hanno fatto catena inerme per proteggere il Museo Egizio del Cairo, sotto i colpi dei cecchini che sparavano dai tetti. Queste persone hanno - al contrario degli sfasciacarrozze che invece a Roma i palazzi e i luoghi più preziosi del mondo li hanno messi a rischio - dimostrato l'assolutezza della loro esigenza morale. (2) E hanno rinnovato il senso di quell'"appello al cielo" che giustifica, secondo i classici della filosofia politica moderna, la rottura del pactum societatis, quando per esempio sia conculcata la libertà e minacciata la vita. L'esito dei rivolgimenti politici che si compiono sull'onda di quella che diventa per molti una vera e propria nuova esperienza morale è spesso un mutamento delle regole costitutive della vita associata, dunque anche del fondamento delle leggi. Ne abbiamo esempi chiari nella nostra storia: il Risorgimento, la Resistenza. Avviene in questi momenti che il
pensiero pratico nella sua totalità cerchi una rifondazione: a volte, cioè, l'urgenza della questione pratica "che fare?" è proporzionale alla sua profondità. Così per esempio la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789 stupì i filosofi, anche quelli che più profondamente avevano meditato sulle ragioni ultime dell'agire umano. Come Immanuel Kant, che a questo proposito scrisse nel 1790: Un fenomeno simile nella storia degli uomini non si potrà dimenticare mai più, perché ha rivelato nella natura umana una tale disposizione al progresso e una tale capacità di realizzarlo, che nessun uomo politico, considerando il corso anteriore delle cose, avrebbe mai potuto concepirlo. (3) 3. I. Kant, testo citato in J. Hersch (a cura di), Le droit d'être un homme. Anthologie mondiale de la liberté, UNESCO, Paris 1968, p. 156. 15 Eccolo qui, il "legno storto" dell'umanità, agitato dai gazzettieri (atei) devoti di casa nostra, a mo' di spauracchio contro i progressisti e i "moralisti". La Dichiarazione del 1789 sembrò portare alla parola e alla luce una nuova fondazione del pensiero pratico: ma ogni simile nuova fondazione consiste nella scoperta di un contenuto nuovo, di un nuovo aspetto o strato dell'idea di giustizia. Così è successo nei momenti di svolta dell'umanità moderna, quando con le rivoluzioni contro l'Ancien Régime si è inaugurata "l'età dei diritti". Ma forse è così che deve succedere in ogni svolta vera, anche quelle non così grandi che comunque non sono certamente "grandi" in proporzione alla loro violenza, ma in proporzione alla profondità raggiunta dal sentimento dell'ingiustizia nell'anima delle persone. Avviene allora che il pensiero pratico non solo si rifonda, ma si rifonde: si rinnova rifondendo le sue parti al calor bianco dei grandi rivolgimenti - dove la parte più significativa è ancora quella interiore. Morale, diritto, politica e forse religione allora si rinnovano a partire da una coscienza più profonda del valore giustizia - di questa Idea senza fine, fondamento di valore della nostra esistenza associata.
Le rivoluzioni incompiute
1. Le anime morte È durata troppo a lungo la nostra indifferenza. Anche se tutto può cambiare improvvisamente nella vita politica di un Paese, il cambiamento di cui sentiamo il bisogno non può ridursi alla fine di una maggioranza politica. Dobbiamo evitare che la storia si ripeta, e con essa l'incompiutezza delle grandi rivoluzioni morali e civili che hanno segnato questo Paese, dal Risorgimento alla fondazione della Repubblica, alla cosiddetta fine della cosiddetta Prima Repubblica. Tutte trasformazioni incompiute, incompiute nella cosa più importante: la coscienza dei contemporanei. Non possiamo che lasciare agli storici la riflessione su questa costante della storia italiana: ma in modi e forme diverse sembra si ripeta la prima tragedia, quella che getta ombra sulla nostra nascita come Stato unitario. Il Risorgimento è stato una magnifica epopea, nonostante dai prodromi delle campagne napoleoniche alla battaglia 19 del Volturno passino sessantanni di storia fitti di sconfitte brucianti per le avanguardie liberali, e soprattutto, naturalmente, per quelle repubblicane e democratiche. Erano in gioco non soltanto l'unità d'Italia, quella cui un ministro della Repubblica irrideva ai nostri giorni con una protervia e una volgarità senza pari, ma anche un'altra cosa di cui l'unità era condizione necessaria: l'organizzazione politica di una società liberale e giusta, vale a dire l'ideale politico della modernità pòst-illuministica. Su questa posta in gioco si proietta l'ombra di una sconfitta che Garibaldi, Mazzini, Cattaneo e Crispi - che pure avevano concezioni del mondo e politiche tanto diverse - tentavano di evitare, quando fecero di tutto per rendere possibile la convocazione di un'Assemblea Costituente prima, o almeno contestualmente ai plebisciti d'annessione al Regno sabaudo. (1) Ma non ci riuscirono: e così la nazione italiana si diede uno Stato unitario prima di essersene data motu proprio i fondamenti, le regole costitutive. E molto più tardi, dopo che uscendo dalla catastrofe mondiale anche l'Italia ricostituì la sua forma di Stato, scrisse le sue regole fondamentali su un prezioso pezzo di carta, la Costituzione - molto, ma molto prima che nella coscienza degli italiani. Al punto che un noto giurista contemporaneo può scrivere che "nel momento stesso in cui la
Costituzione entrava in vigore, il 1° gennaio 1948, si apriva quella che sarebbe stata chiamata la fase dell'"inattuazione costituzionale". (2) E poi, quando negli anni Novanta alcune Procure "progressivamente disvelano a un Paese prima attonito, poi scandalizzato, infine adirato, un abisso non solo di ruberie, ma di corruzione culturale e morale", (3) scandalo e ira, lungi dallo scavare a fondo nella coscienza di ognuno, presero in una maggioranza di italiani la via paradossale dell'esaltazione precisamente di quegli aspetti della vita politica che avevano confuso la funzione e l'interesse pubblico con gli affari e interessi privati. Sola e non piccola differenza, l'identificazione avviene a cielo aperto e si incarna in una persona, la radicale incompatibilità fra gli scopi privati che animano questa persona e la funzione politica che assume viene non solo occultata dietro l'eufemistica espressione di "conflitto di interessi", ma semplicemente abolita con un assurdo "farò gli affari vostri e non solo gli affari miei", come se il buon governo della cosa pubblica coincidesse con la spartizione di una torta, sottratta ai brutti gendarmi che pretendono non sia tua. Una maggioranza di italiani esulta e consegna il Paese nelle mani del Capo: come qualcuno scrisse lucidamente all'epoca, la contesa elettorale aveva "segnato il ripudio da parte degli elettori vincenti di molti dei valori di base della nostra Costituzione", imponendo "valori costitutivi opposti [...] un desiderio nuovo che faccia piazza pulita dei metodi di mediazione democratica". (4) Stupisce che oggi, dopo che questo ripudio ha prodotto gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti, molti politici d'opposizione parlino ancora dei "moderati", quegli elettori "moderati" che bisognerebbe riconquistare alla democrazia. Ma dov'erano questi "moderati"? Dove sono? Può essere definito "moderato" un desiderio e un programma di questo tipo? Ma qui è più viva, più efficace la voce del poeta: la lunga pazienza degli italiani di fronte agli scandali e ai latrocinii era stata "anche corresponsabile viltà". Era "l'aver assunto [...] una vita idiotamente 'felicitosa' i cui modelli ci venivano proposti da anni [...] Cosa mancò perché tutto questo diventasse totale coscienza e dunque pratica di vita"? (5) La lezione che il nostro passato sembra sugge4. M. Pirani, "Hanno vinto gli antipartito", in la Repubblica, 31 marzo 1994, cit. in G. Crainz, Autobiografia di una repubblica, Donzelli, Roma 2009, p. 212. 5. G. Testori, "I topi della disfatta", in Corriere della Sera, 18 novembre 1992, cit. in G. Crainz, op. cit., p. 193, corsivo mio. 22 rire è triste. La democrazia non ha trovato le sue naturali fondamenta,
in Italia - le naturali fondamenta della democrazia essendo la coscienza delle persone. E per questo, se veramente è in corso un risveglio, dovere del filosofo e di qualunque altra persona pensante è contribuire a che, per una volta nella nostra storia, questo risveglio si prolunghi per ciascuno e per tutti in una compiuta presa di coscienza del disvalore che ci sta divorando la vita. "Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male", ha scritto Simone Weil. (6) Credo che abbia ragione almeno nel senso che non c'è coscienza morale se non nello sgomento di fronte a questa mescolanza e nell'esercizio di questa distinzione, in ogni dato presente.
2. Le due maschere di un Paese tragico Verso la fine della sua vita Norberto Bobbio, uno dei nostri rari maestri di civiltà, sembrava giunto a una consapevolezza amara, come attesta uno dei passi più acuti dell'Autobiografia, scritta nel 1997: L'Italia è sempre stata un paese tragico, nonostante che le nostre maschere, attraverso le quali siamo conosciuti dagli stranieri, siano maschere comiche: il servo contento e il padrone 6. S. Pétrement, La vie de Simone Weil, Fayard, Paris 1973, p. 662 [tr. it. parziale La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994]. 23 gabbato. Un paese tragico anche se la maggior parte degli italiani non lo sa o finge di non saperlo. O meglio, non vuole saperlo. (7) Non è chiaro, dato come è fatta la storia umana, se ci siano Paesi non tragici, e tuttavia di questo passo colpisce proprio il "nonostante": la tonalità peculiare del tragico italiano, sembra dirci Bobbio, sta precisamente nel suo essere "ignorato". In effetti dovremmo aggiungere: nel modo in cui è ignorato. È occultato nella comicità. Perché qui Bobbio coglie forse inconsapevolmente un aspetto profondissimo e universale del problema del male, che già Agostino lamentava con la sua domanda: "Peccata enim quis intelligit?". Il male si fa ignorare da chi lo fa, e a volte perfino da chi lo subisce, e questo il Novecento lo ha riscoperto con l'analisi di ciò che Arendt ha chiamato la banalità del male. Ne esiste una forma tutta italiana, che è doveroso conoscere meglio anche filosoficamente. E quale è questo male che è tragico ignorare, nella sua versione italiana? Le due maschere esemplari bene lo dicono. I servi contenti, siamo noi. E i padroni gabbati, siamo ancora noi. Non saperlo,
è tragico, in uno dei sensi precisi di questo termine di cui non bisognerebbe abusare. Sovrani, in democrazia, siamo noi tutti. An7. N. Bobbio, cit. in Autobiografia, a cura di A. Papuzzi, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 166. 24 cora di più in un certo senso i giovani, i ragazzi, che un profeta pedagogo definiva "i sovrani di domani": (8) coloro che esercitano la propria sovranità attraverso il loro consenso o dissenso nei confronti del progetto di società espresso da una data maggioranza di governo. I sovrani di domani sono i più gabbati di tutti, eppure molti e molte di loro, pare, si preparano al mestiere dei servi contenti. I padroni ingannati siamo noi, in quanto sovrani privati della facoltà di esercitare il potere come vorremmo che fosse, cioè a tutela e protezione delle risorse comuni da un lato, e dall'altro per sviluppare quei servizi senza i quali sono violati i nostri diritti - dalla giustizia civile e penale all'istruzione, dalla sanità alla tutela dei meccanismi delicati di una democrazia, dalla separazione dei poteri all'esistenza di un'informazione degna del nome. Ma i servi contenti siamo ancora noi, sudditi di un capo che si è messo al di sopra della legge, e non più liberi perché soggetti a una legge che approviamo. Servi che partecipano ai vantaggi del capo, nella minima o massima misura data a ciascuno. Del capo, o piuttosto di troppi di coloro che partecipano all'amministrazione della cosa pubblica, dal momento che 8. L. Milani, "Lettera ai giudici" (1965), in A che serve avere le mani pulite se le si tengono in tasca, Chiarelettere, Milano 2011, p. 11. 25 questo sistema si è esteso purtroppo dovunque si amministri il Paese, indipendentemente dal colore politico e a ogni livello. L'equazione tragica fra padroni gabbati e servi contenti si produce quando un sistema di rappresentanza politica viene trasformato in un sistema di relazioni di scambio fra poteri pubblici e interessi privati, per esempio con la sistematica svendita di legalità in cambio di consenso cui assistiamo in tutti i casi di dissipazione del territorio, dove si aggirano vincoli e controlli ambientali, si condonano sistematicamente gli abusi, si regalano addirittura a privati beni pubblici, come foci di fiumi e litorali, si finanziano con fondi pubblici imprese speculative private, presentate come vantaggiose per lo "sviluppo" economico: in cambio, naturalmente, di consenso elettorale quando va bene, e di veri e propri trasferimenti in pecunia o in natura, dalle tangenti alle giovani donne, nei casi più gravi, quelli in cui il corrispettivo è addirittura la concessione di appalti e posti nelle aziende pubbliche o nei parlamenti,
regionali, nazionale, europeo. Questo venir meno delle separazioni che dovrebbero essere l'essenza delle democrazie liberali - fra il pubblico e il privato, il controllo e l'impresa, la politica e gli affari - fa parte, con la sistematica erosione dei vincoli e dei limiti posti alle volontà delle maggioranze dalle moderne costituzioni, di quel processo di "decostituzionalizzazione" che è in atto in Italia, di 26 cui eminenti giuristi hanno scritto con definitiva chiarezza. (9) L'identità di servi contenti e padroni gabbati è il suicidio non solo della democrazia, ma dell'istituzione Stato in quanto distinta da una banda organizzata per detenere il potere e l'esercizio della forza che lo sostiene. E questo suicidio è tragico, perfino per chi ne ha un profitto. Non parliamo poi di quanto lo sia per la maggioranza di quei "sovrani di domani" che stanno crescendo in un Paese che sta ridiventando incapace di assicurare loro pari opportunità nell'accesso alle carriere, e alla lunga anche di fornire un'istruzione sufficiente e un'informazione degna del proprio nome, condizioni minime per esercitare i diritti politici di partecipazione alla sovranità.
3. La cultura dell'osceno e l'indifferenza Non arresteremo la tragedia di questo suicidio, quand'anche cambino le maggioranze di governo, se non fermeremo gli occhi e la mente sul male che abbiamo già fatto a noi stessi. Perché se i governi passano, certe devastazioni restano. Una lenta catastrofe si svolge sotto i nostri occhi, in quello che con stanca ironia continuiamo 9. L. Ferrajoli, Poteri selvaggi - La crisi della democrazia italiana, Laterza, Roma-Bari 2011; E. Gliozzi, Legalità e populismo - I limiti delle concezioni scettiche del diritto e della democrazia, Giuffré Editore, Milano 2010. 27 a chiamare il Bel Paese. È l'irreversibile distruzione della bellezza dei nostri paesaggi, storici e naturali. Tutto il mondo sa che non c'è paesaggio italiano che non abbia nutrito fioriture d'arte, a partire dalla Toscana dei Macchiaioli, dove i litorali stanno diventando agglomerati di seconde case, residenze e lottizzazioni sempre più invendute, dove si spacca San Gimignano per una tangenziale, dove dalla sera alla mattina le raffiche di casette a schiera dei geometri deturpano le colline senesi dipinte da Simone Martini e cantate da Mario Luzi, dove l'autostrada Spaccamaremma ha i suoi cantieri aperti e gira voce che lo stesso
ministro dei Trasporti che l'ha imposta stia preparando una lottizzazione nel Parco dell'Arcipelago, e dove in aree che appartengono a riserve naturali di Stato si sposta addirittura la foce di un fiume per dar luogo alla speculazione. Parlo della Toscana perché è la regione che conosco meglio, ma lo stesso vale per i litorali dalla Liguria alla Calabria, dove si progettano e si eseguono sempre nuovi porti turistici, al punto che presto in certe aree saranno fitti come fossero distributori di sigarette; vale per tutti i luoghi della memoria storica italiana, come l'altopiano di Asiago, dove si riempiono di cemento e parcheggi prati che erano fatti solo d'erba, cielo e silenzio. Un paesaggio di cui Luigi Meneghello scriveva - in I piccoli maestri - che: "Le forme vere della natura sono forme della coscienza". E, com'è noto, la speculazione edilizia non è la sola causa di distruzione senza sviluppo, benché sia di gran lunga la più devastante. Dalla Val di Susa alla Sicilia, dalle Alpi a Pantelleria, dalle isole maggiori alle più piccole, il paesaggio naturale e il paesaggio storico della penisola sono sottoposti a dissipazioni, cementificazioni e sconvolgimenti artificiali che non solo hanno aumentato la loro scala e intensità negli ultimi vent'anni in modo esponenziale, ma vedono proprio ora un'accelerazione improvvisa, a dispetto di ogni crisi, come se ci fossero nell'aria un presagio di diluvio incombente e un'esplosione come di furia rabbiosa, una sinistra pulsione a rapinare tutto quello che si può, finché si è in tempo. I pessimi governi e le amministrazioni criminose - tristemente bipartisan - del territorio passeranno: le devastazioni resteranno, per sempre. Non voglio aprire un capitolo sulla questione più o meno accademica di quanto necessaria o inevitabile sia la trasformazione del volto dei paesaggi nel corso della storia, date le trasformazioni dell'economia e dei costumi ecc. È pacifico che i paesaggi cambiano, come dice lo stesso aggettivo "storici". Tuttavia ci sono luoghi e parti anche molto estese di un territorio nazionale che anche un bambino lo vede - "dovrebbero" nella misura del possibile preservare la bellezza, naturale o culturale, e nella maggior parte dei casi le due cose insieme, per la quale sono famosi nel mondo. "Dovrebbero", precisamente in ragione dei mutamenti economici e culturali: del valore anche strumentale, economico, di questa bellezza siamo divenuti in teoria consapevoli, e in teoria sappiamo che questa risorsa è forse una delle ultime che erano certe e cariche di futuro per la nostra economia. Questa redditività la chiamiamo turismo, il turismo è un concetto economico che è sostanzialmente emerso nel secolo scorso,
o alla fine di quello precedente. Neppure vorrei aprire un'altra questione accademica sulla relatività del concetto di bellezza. Non la vorrei aprire, perché quanto c'è di autentico in questa questione lo affronteremo, implicitamente e poi esplicitamente, fin dalle prime righe. Le cose che vengono ritenute belle indubbiamente cambiano, seppure meno di quello che si pretende; la qualità di valore che chiamiamo bellezza invece conviene a infinite, sempre nuove cose belle, e se l'esperienza che ne facciamo non fosse ogni volta esperienza di bellezza, neppure potremmo dire che "cambia" ciò che viene considerato bello. Se avesse ragione chi confonde una qualità di valore con le cose che questa qualità rende dei beni, delle cose di valore appunto, allora neppure capiremmo la tesi che cambiano le opinioni su cosa sia e cosa non sia bello-, se la capiamo, invece, è perché al predicato non associamo un contenuto qualunque fra gli innumerevoli che nei secoli hanno esemplificato il valore 30 della bellezza, ma l'idea di uno standard normativo peculiare, diverso da quello significato dalla parola "utile", o dalla parola "intelligente". Ma, anche se per assurdo si potesse ammettere la confusione fra una qualità di valore e il bene che la realizza, fra la bellezza e la cosa bella, resterebbe un dato impossibile da contestare. Che una cosa è la pianificazione urbanistica, altra cosa è la speculazione edilizia selvaggia. Una cosa è un porticciolo con le sue casette a colori vivaci in fondo a una baia, altra cosa sono trentacinque porti turistici ogni cento chilometri di costa, circondati da centri commerciali e schiere di residence e distese di box da periferia urbana, inquinamento materiale, acustico e luminoso compresi. Una cosa è che la pianura ai piedi, poniamo, di una città "patrimonio dell'umanità" faccia spazio a un'urbanizzazione civile e ordinata. Altra cosa è l'urbanizzazione selvaggia e casuale. Una cosa è che si potenzi al massimo una rete ferroviaria, sviluppando le tecnologie dell'alta velocità dove sia utile e richiesto. Altra cosa è sconvolgere irreversibilmente fragili e preziosi ambienti alpini contro ogni esistente calcolo scientifico dei costi e dei benefici e contro la volontà di tutte le popolazioni interessate. Una cosa è permettere alle multinazionali di cercare il petrolio, nei luoghi dove non sia messo a rischio l'equilibrio ambientale e con sufficienti controlli e garanzie; altra cosa è trivellare il Mediterraneo a ridosso di alcune isole, solo perché costa poco, e pazienza se un errore o un incidente potrebbero semplicemente significare la fine della vita nel mare nostro. (10) Accantonate dunque
le possibili obiezioni preliminari irrilevanti, allarghiamo, come è ne10. I casi cui si accenna riguardano rispettivamente: la distruzione dei litorali in corso con la costruzione di porticcioli turistici a ritmo frenetico, agevolata dalla normativa Burlando sulle concessioni demaniali, e accompagnata invariabilmente da speculazioni edilizie selvagge, caso ultimo un progetto faraonico, per il quale è stata presentata denuncia alla Commissione Europea, che prevede addirittura lo spostamento della foce del fiume Cecina e riguarda una Riserva Naturale di Stato, oltre che un'area regionale protetta; vedi M. Preve, E Sansa, Il partito del cemento, Chiarelettere, Milano 2008; la cementificazione e conseguente irreversibile distruzione dei paesaggi storici più preziosi, oggi particolarmente intensa in Toscana ma con punte patologiche ovunque dall'altopiano di Asiago alla Calabria e Sicilia, fenomeno su cui insiste da tempo, inascoltato, uno studioso dell'autorevolezza di Salvatore Settis; la prepotenza con cui sono stati fatti iniziare i lavori per l'autostrada Spaccamaremma, nonostante l'opposizione di tutte le voci della scienza e della cultura e nonostante sia ancora in discussione addirittura il suo tracciato; la mancanza di argomenti diversi dalla forza con cui le autorità governative rispondono a una ormai gigantesca letteratura di obiezioni scientifiche, tecniche, economiche e civili rispetto alla questione dell'alta velocità in Val di Susa; le trivellazioni iniziate in prossimità di Lampedusa e Pantelleria, denunciate da Nicola Zingaretti http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/08/26/pozzi-nel-mediterraneo-ungiallo-permontalbano/150829/ e dovute come gran parte dell'investimento industriale in Italia ai costi praticamente nulli delle concessioni. 32 cessario fare, la nostra prospettiva. Quando parliamo di dissipazione della bellezza non parliamo soltanto dei paesaggi naturali e storici, ma naturalmente anche del patrimonio artistico e culturale. Parliamo di Pompei che frana in polvere. Parliamo delle povere, antiche ossa di questo nostro Paese, che si stanno sbriciolando. Parliamo del nostro passato. E quindi delle nostre radici, che Simone Weil definiva "il bisogno più importante e più disconosciuto dell'anima umana". (11) La perdita del passato, collettivo o individuale, è la grande tragedia umana, e noi abbiamo gettato via il nostro come un bambino strappa una rosa. (12) È una verità semplice e dolorosa, ma chi potrebbe contestarla? Lo stiamo gettando via, e non perché abbiamo perduto una guerra! Non del solo passato parliamo, naturalmente, ma del presente e
del futuro - quando si pensi a espressioni di stupidità non sai se più demenziale o più proterva, come "la cultura non si mangia", le quali determinano intere politiche di spesa pubblica sulle istituzioni che fanno civile un Paese, dai teatri alla vita artistica e musicale. 11. S. Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l'essere umano (1943), a cura di G. Gaeta, tr. it. SE, Milano 1990, p. 49. 12. Ibidem, p. 113. 33 Ma se parliamo di bellezza, parliamo anche di quella che può distinguere l'uso parlato e scritto di una lingua: la nostra lingua di fuoco e di grazia, la lingua di Dante e di Luzi, di Galileo e di Beccaria, e anche solo di Calamandrei o di Pasolini. La sentiamo umiliata in tutto lo spazio pubblico e televisivo, ridotta al gergo da suburra dei faccendieri che fanno l'agenda politica dei governi. Un capitolo immenso si aprirebbe qui, sulla lingua e la sua bellezza, che è, fondamentalmente, quella dell'esattezza e della logica, in cui la miglior tradizione filosofica e politica dell'Occidente ha riposto le condizioni di verità del discorso pubblico, e le condizioni di esistenza di uno spazio delle ragioni, dunque della democrazia. E infine, quando parliamo di bellezza, parliamo anche di una qualità di valore dei costumi: parliamo del decoro, l'aspetto visibile di quella "disciplina" e di quell'"onore" che il famoso articolo 54 della nostra Costituzione, ormai non a caso a tutti noto, esige dai cittadini che esercitano funzioni pubbliche. Su questo punto bisognerebbe costruire una Antologia della Turpitudine, che resti a monito delle future generazioni e a memoria nel nostro presente. Non sarebbe difficile. La stampa nazionale e in alcuni casi mondiale è piena di immagini che in ogni rispetto, credo, costituiscono un fenomeno nuovo nell'iconografia della vita politica occidentale. Nel34 la prima scena di questa Antologia si potrebbe contemplare un Presidente del Consiglio italiano in posa con un gruppo di ragazzi e ragazze di un'associazione di volontariato, che ha indotto a imitarlo in un gesto scaramantico che dà nel fescennino, o forse nel più squallido avanspettacolo. Nel secondo mistero si contempla un ministro della Repubblica con il dito medio della mano proteso in un gesto ancora più irriferibile, rivolto peraltro a un cittadino che, nel centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia, aveva osato cantare una canzone all'Italia in sua presenza. Nel terzo mistero si contempla lo stesso ministro della Repubblica mentre, in canottiera, barrisce e rutta. E le altre scene le lasciamo da comporre ai lettori e ai comici che grazie al cielo continuano a prosperare in questo Paese. Se insistiamo su questi
dettagli contingenti e orripilanti è perché la fenomenologia ci chiede la massima fedeltà non solo al dato, ma alla sua essenza intuitiva, al suo eidos: e per coglierne la peculiare qualità assiologica negativa, il peculiare disvalore - non c'è verso - bisogna soffrire fino in fondo. Soprattutto in relazione al nostro scopo, che è studiare il fenomeno esibito da questa catastrofe estetica. Ci se ne può occupare da due punti di vista. Se si guarda alla cosa stessa, il fenomeno è quello del tracimare del brutto e dell'osceno su tutte le superfici del visibile e dell'udibile, in natura e sulla scena pubblica. 35 Se si guarda alla coscienza che ne abbiamo, il fenomeno è la nostra relativa indifferenza. Tutto questo ci annoia - annoia anche chi scrive, che ha dovuto farsi forza per scriverne. O non ci interessa, non lo notiamo neppure, non lo notiamo più. Ora, uno scopo pratico, e più precisamente morale e civile, di questo scorcio di Antologia della Turpitudine sarebbe di offrirsi a una sorta di nuovi esercizi spirituali, mirati a spaccare anche a colpi di piccone questa coltre di indifferenza che come vedremo è una vera e propria forma di autoanestesia, sintomo di una profonda depressione psichica, di cui ancora siamo troppo inconsapevoli. Sono gli esercizi spirituali del disgusto, oggi più che mai necessari come esercizi di conoscenza approfondita del disvalore.
4. Un suicidio morale Torniamo allora al fenomeno a parte obiecti, la distruzione della bellezza in ogni sua forma. Non è certamente una tendenza recente: recente è soltanto il parossismo, l'estensione e l'intensità dei processi di distruzione. "La nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni. [...] Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa hanno preso le armi." Così scriveva Albert Camus nei suoi Saggi letterari. È un tema profondo 36 della riflessione di Camus, viene dal suo studio della tradizione neoplatonica e dal suo amore per Simone Weil. La guerra di Troia diventa l'immagine della lotta per riconquistare la bellezza, di cui Elena è simbolo. Così Camus riassume un tema profondo del pensiero greco. L'etica antica è la teoria della vita buona, come vita felice o riuscita, fioritura dell'uomo che fa la sua vita degna di essere vissuta. La "virtù", cioè l'aretè, l'eccellenza, il valore di un uomo viene sentito come la sua bellezza. Questo dice l'ideale greco
del kalokagathos, cui dà pienezza intuitiva la grande plastica greca del v secolo, con i suoi modelli di bellezza, i paradigmi del grande umanesimo greco e i modelli appunto della paideia. In generale il pensiero greco, così definito e plastico, identifica o piuttosto sente il valore, la qualità delle cose preziose, come splendore. Camus pensa a tutto questo, quando con uno slancio che dice tutta la speranza - e ormai possiamo tranquillamente aggiungere: la speranza tradita, la speranza sconfitta - dell'ultimo dopoguerra europeo, scrive: Ammettere l'ignoranza, rifiutare il fanatismo, porre limiti al mondo e all'uomo. Il viso amato, la bellezza insomma, è questo il terreno su cui ci ricongiungeremo ai Greci. Il senso della storia di domani non è in certo modo quel che si crede. Esso è nella lotta fra creazione e inquisizione. Nonostante il prezzo che agli artisti co37 steranno le loro mani vuote, si può sperare nella loro vittoria. Sopra il mare scintillante ancora una volta si dissiperà la filosofia delle tenebre. O pensiero meridiano, la guerra di Troia viene combattuta lontano dai campi di battaglia! Anche questa volta le terribili mura della città moderna cadranno, per darci, "anima serena come la calma dei mari", la bellezza di Elena. In L'uomo in rivolta (1951) Camus lega così i concetti di bellezza e di rivoluzione: La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei. Sessant'anni dopo, ai nostri giorni, sembra fargli eco James Hillman, celebre studioso junghiano, che scrive: Se i popoli si accorgessero del loro bisogno di bellezza, scoppierebbe la rivoluzione. (13) Ma il senso dell'affermazione è tanto cambiato quanto lo sono i tempi. Hillman constata, come noi, un ottundimento impressionante del senso del bello e del decoroso, che va di pari passo con il dilagare incontrastato del brutto e dell'osceno. Riportiamo la citazione per intero perché - a confronto della cultura dell'osceno in cui viviamo immersi - gli esempi scelti da Hillman ci fanno un curioso effetto di understatement - magari fosse tutto qui, l'ottundimento della risposta estetica! La risposta estetica è immediata, istintiva, animale, e precede nel tempo e nell'ontologia i gusti che rendono elaborata la risposta ai giudizi che la giustificano. Ogni repressione di quella risposta non soltanto è deleteria per la nostra natura animale, ma è anche una ferita istintuale nociva al nostro benessere, come è nociva la repressione di qualsiasi altro istinto. [...] Passeggiare accanto a un edificio maldisegnato, vedersi servire del cibo preparato in modo sciatto e accettarlo, indossare una giacca tagliata e
cucita male, per non parlare del non sentire gli uccelli, del non accorgersi del crepuscolo [...] tutto questo significa ignorare il mondo. Eppure questo stato di ignoranza, questa an-estesia, è in larga misura la condizione umana attuale. Ed è sostenuta e favorita dalla nostra economia, dal nostro modo di impiegare il tempo libero, dall'uso che facciamo dei nostri mezzi di comunicazione [...] e dal nostro modo di curarci. Dal momento che questa anestesia, questo "ottundimento psichico" - come lo chiama Robert J. Lifton, che ha studiato a fondo le catastrofi collettive - è così diffusa ai giorni nostri, ho il sospetto che favorisca la passività politica del 39 cittadino euro-americano, e quindi aiuti i poteri dominanti a proseguire, senza impedimenti, sulla loro rotta rovinosa. In effetti in queste circostanze c'è ben poco da sperare in una rivoluzione, anche solo interiore. In ogni caso io credo che postulando un nesso fra bellezza e rivoluzione ci si abbandoni a una suggestione vaga, evitando invece la cosa più necessaria: mettere a fuoco con esattezza il cuore della tragedia che stiamo vivendo, e l'esatta relazione fra la bellezza che non ci accorgiamo di dissipare - la catastrofe estetica - e il tragico nascosto dietro al grottesco - la catastrofe morale e civile. Siamo partiti dal paesaggio: al paesaggio torniamo. Come si spegne in noi il sentimento della bellezza, che era virtù riconosciuta dai viaggiatori di un tempo in tutti gli italiani, dai principi ai contadini, forse la sola virtù riconosciuta ed elogiata, fra mille vizi di quei poveri servi che troppo a lungo siamo stati come popolo? Ed è durata a lungo, questa fama, qualche residuo ne dura ancora stancamente, alimentando il marketing internazionale della moda. Eppure è innegabile che questo sentimento non vive più nella sensibilità media e quotidiana dei più fra noi. Come si è spento, dunque? C'è ovviamente il dato palese, su cui tanto si è insistito, e che le parole del poeta citato sopra 40 riassumono in modo vivido, il richiamo televisivo di una "vita idiotamente 'felicitosa' i cui modelli ci venivano proposti da anni." C'è la crescente ignoranza che non è solo scarsa scolarità, ma perdita dell'organizzazione mentale e della cultura materiale legata ai mestieri, in particolare alla tradizione agricola delle campagne. Ma c'è altro, che riguarda molti di noi, che abbiamo avuto il privilegio dell'istruzione, che nelle professioni e fuori di esse potremmo e dovremmo contribuire quotidianamente alla qualità della vita e della coscienza morale, civile e intellettuale sulla quale si regge una democrazia. Altro su cui invece
non si è, mi pare, ancora molto riflettuto. È il lavoro caratteristico della rimozione. Comincia in modo semi-volontario, quando la ferita inflitta agli occhi e all'anima dal brutto ancora si sente. E proprio perché non faccia male, allora, si distolgono gli occhi. E il male della ferita allora si attenua. Ma la capacità di sentire, cioè di soffrire ma anche di gioire, in questo modo si spegne. Si spegne a poco a poco, modificandoci insensibilmente, abbruttendoci a dosi graduali, giocando sulla rassegnazione e l'abitudine. Ma rassegnazione e abitudine rimuovono semplicemente il dolore come la rimozione sempre fa, con l'autoinganno, infine: e infatti oggi le agenzie turistiche usano e mettono sui loro siti le cartoline di vent'anni fa per vendere le loro settimane di vacanza nei luoghi ameni che non ci sono più. 41 Chiunque può andare a controllare la verità di questa affermazione. Quello che sta avvenendo sempre più rapidamente è una specie di suicidio delle nostre anime, un suicidio morale. Vedremo oltre perché è legittimo usare questa parola, "morale": intendendo che quella che stiamo sopprimendo in noi stessi è una capacità, e un modo di rapportarci alla realtà, che già nel mito biblico ci definisce come persone umane: la capacità di fare esperienza del bene e del male. Adamo e Eva cacciati dal giardino dell'Eden a questo, appunto, sono condannati: in questa dolorosa e felice esperienza consisterà tutta la loro vita. Ma questo suicidio morale è un suicidio istigato. La dissipazione della bellezza è parte dell'andamento criminoso della nostra vita civile e politica, nel circolo vizioso che abbiamo descritto, dove la relazione fra la società civile e la politica non è più una relazione di rappresentanza, ma una relazione di scambio. E cioè, dicevamo, la sistematica e criminosa svendita di legalità in cambio di consenso. Siamo il Paese degli abusi e dei soprusi, dei condoni e dei perdoni. Una relazione di scambio e di rapina che si consuma a spese della cosa di tutti. Dell'Italia, che è anche tutto quello che abbiamo. Lingua, memoria, cultura, radice, nutrimento, presente e futuro. La nostra condizione nazionale in effetti somiglia molto a quella di quei depressi gravi che si fanno simbolicamente 42 e realmente del male. Noi stiamo letteralmente sfigurando il nostro volto. Stiamo distruggendo quella parte della nostra identità che nel paesaggio italiano ha nutrimento e radice. Per questo si può dire che quello degli istigatori di questo suicidio morale di un'intera nazione, qualunque sia la loro appartenenza partitica, è un crimine senza pari. O forse
paragonabile solo a quello degli istigatori di quegli spaventosi suicidi di massa cui la storia dell'Occidente ha assistito al tempo delle rapine coloniali. Ce ne racconta un caso sconvolgente Elias Canetti in Masse e potere. (14) Identici gli elementi di base perché l'istigazione dei conquistatori faccia il suo effetto: rimozione, autoinganno, accecamento, ignara mimesi del carnefice da parte della vittima, inconsapevolezza dell'equazione tragica. Certo, niente maschere comiche o grottesche là - ma il puro orrore. Che pure ci insegna molto sui meccanismi invarianti di quel fenomeno enigmatico che oggi i filosofi hanno ripreso a studiare e chiamano intenzionalità collettiva, e sul principale, sempre incombente pericolo che vi si cela: l'autodestituzione della coscienza personale, radice di quella che è stata chiamata la banalità del male. 14. E. Canetti, "L'autodistruzione degli Xosa", tr. it. in Masse e potere (1960), Adelphi, Milano 1981, pp. 230239. 43
5. Bellezza e giustizia: la giustizia come valore intrinseco Torniamo a Camus. Sarebbe un grave errore leggere il passo citato sopra, su Elena, lo splendore e la guerra di Troia che dobbiamo riaprire in noi stessi, come espressione di un atteggiamento estetizzante, più o meno nietzscheano (come sarebbe idiota ostinarsi ancora a vedere nella bellezza, in questo suo senso così comprensivo, un "lusso"). C'è veramente il cuore del pensiero greco, invece: la bellezza, cioè in senso greco l'ordine del cosmo, è la forma visibile della giustizia. C'è qui un improvviso allargamento di visuale che, lungi dall'essere una fuga estetizzante dal dolore dell'Europa distrutta, è un ritorno alla prima fonte della meditazione filosofica sull'esperienza del bene e del male e sul destino delle società umane: Platone. Con questa mossa Camus ci chiede di non relegare la giustizia nelle mani degli ideologi, o anche soltanto dei filosofi politici - per non parlare dei politici di mestiere, dei capipartito o dei sindacalisti. Tutte queste persone vedono solo alcuni aspetti della giustizia. Non ne vedono il fondo. E poiché non ne vedono il fondo, forse, non arrivano alla fonte viva, attingendo alla quale si può rinnovare e insieme approfondire la nostra conoscenza del giusto. Ricordiamo la frase di Kant citata nella Premessa: "Se la giustizia scompare, non ha più al44 cun valore che vivano uomini sulla terra".
L'abbiamo commentata dicendo che questa frase illumina il profondo disagio che ci abita, questo sentimento sordo e muto del "non ne vale la pena". Illumina quella depressione diffusa e ignara di sé che vediamo soprattutto nelle generazioni di mezzo e in quelle più giovani, e che in queste soprattutto ha in qualche caso esiti devastanti. La depressione, dicevamo, ha un carattere che i sapienti hanno sempre ben descritto: quando è profonda, è autoanestetica. Produce insensibilità. Indifferenza. Sembra non si soffra più. Si è come morti. Per questo, per tentare di svegliarci almeno alla sofferenza, abbiamo intrapreso i nostri esercizi spirituali del disgusto. E poi l'abbiamo colta, questa virtuale "morte dell'anima", in un aspetto di cui non si può negare l'enorme diffusione, quando si pone mente alle innegabili devastazioni e all'oscenità esibita che ci circonda: l'ottundimento fino a estinzione del senso della bellezza e del decoro. Se l'osceno e il brutto sono la forma visibile dell'ingiusto, allora è proprio il dolore al quale ci ridestiamo, il dolore che buca la nostra indifferenza, a insegnarci il valore del giusto. È questo fondo assiologico dell'idea di giustizia che gli specialisti pratici e teorici della giustizia, i politici e gli ideologi, finiscono per non vedere più, e forse anche da questa veduta corta deriva l'assenza apparente di idee nuove, di progetti di società e 45 di rinnovamento che sembra affliggere il pensiero progressista contemporaneo. A complemento di questa miopia che è sterile c'è la nostra impotente sofferenza: ma questa, che è pur sempre esperienza, può forse diventare fonte viva di conoscenza di ciò che più importa. Come è oggi la nostra esperienza a illuminare nuovamente le grandi pagine di Platone o di Kant sulla giustizia, così è solo a partire da questo ritorno all'origine, che non è nel lontano passato ma nell'attualità della nostra tristezza, che ci sarà forse dato acquisire una coscienza più profonda del valore giustizia. Indubbiamente c'è un aspetto strettamente platonico che fa della giustizia una figura del cosmo, e per estensione di ogni tutto, di ogni intero, compresa la Città ideale. Questo è il primo senso in cui la bellezza naturale, cioè l'ordine del cosmo, è l'aspetto visibile della giustizia. Noi moderni temiamo questa tentazione totalizzante o totalitaria del pensiero platonico, e a ragione. Più oltre vedremo perché. Ma l'aspetto "totalitario" non è necessario alla generalità della nozione del giusto, o se vogliamo alla qualità di valore più generale che il termine "giusto" indica. Ci sono due termini che sono i più frequentemente usati per caratterizzare il giusto nella Repubblica di
Platone: uno è il "bello", kalos, che nella tradizione delle lingue europee suona anche "onesto", nel senso del "parlare onesto" di dantesca memoria: nobile e autentico insieme. 46 Sull'altro termine, ofeilomenon, il "dovuto", torneremo. La bellezza non entra in rapporto con la giustizia solo per essere l'ordine o la giustizia cosmica, la giustizia del tutto. A noi la semplice bellezza, anche quella già intaccata dei nostri paesaggi, annuncia direttamente qualcos'altro, come ogni bellezza - e in fondo la bellezza, che sia di una baia splendente o di un volto, è sempre percepita come una specie di promessa, di annuncio, di rivelazione. Lo splendore annuncia il valore. Non fatichiamo a cogliere la platonica idea del bene nell'immagine del sole. Ancora questo dice il sogno "meridiano" di Camus, col suo mare scintillante. È come se la bellezza e lo splendore stessero per ciò che vale nel valore, in ogni valore: per ciò che c'è di bene in ogni bene, in ogni cosa di valore - e le qualità di valore sono innumerevoli. Perché? La bellezza è essa stessa un valore: questo è indiscutibile. Ma la bellezza inoltre "sta" in qualche modo per la classe più elevata di valori, perché mostra una caratteristica che è propria di tutti i valori superiori: la gratuità. La bellezza è per se stessa, non per qualcos'altro. La bellezza non ha ragione, ma dà ragioni. È fine e non mezzo. Il suo valere, la sua preziosità, non si esaurisce con la soddisfazione che dà, come il valore del piacevole, o con lo scopo cui serve, come il valore dell'utile. È un valore intrinseco. Come tanto bene dice il distico della rosa di Silesio, che 47 È senza perché, fiorisce per fiorire. Di se stessa non cura, che tu la guardi non chiede. San Francesco, patrono d'Italia, fu un genio della conoscenza del valore: nel Cantico delle Creature scoprì la bellezza dell'acqua e del fuoco. Tutti conoscevano il loro valore di utilità. Nessuno aveva ancora visto, nel mondo cristiano, la loro bellezza: il loro valore di... gratuità, o di grazia. Fu un prolungamento sconvolgente della teologia dell'Incarnazione. Una sorta di redenzione del creato, di superamento della dura opposizione fra cielo e terra, spirito e carne, Dio e mondo che troviamo ancora nella teologia paolina. (15) In questo senso, possiamo dire, San Francesco ha "inventato" il paesaggio, che di lì a poco sarebbe fiorito nella pittura italiana. Ecco: al filosofo politico medio contemporaneo, per non parlare del politico o del sindacalista, sfugge la natura stessa del valore intrinseco. Può sembrare troppo lungo il détour per la bellezza e la scoperta di Francesco, che aveva intuito questa gratuità, questo peculiare tocco di grazia che è proprio di tutti i valori intrinseci.
Eppure è un aspetto importante della giustizia. 15. Oggi Vito Mancuso la mette in questione - ma pur nella sua radicalità, sa bene di non essere il primo a farlo, e di ritrovare una specificità profonda, una virtualità in fondo certamente più "cattolica" che protestante del cristianesimo. Vedi V. Mancuso, Io e Dio, Garzanti, Milano 2011. 48 È precisamente quello che dà valore alle nostre vite, e senza il quale esse perdono di senso, esattamente come perde senso e valore una vita vissuta in mezzo all'oscenità e alla bruttura, una vita vivere la quale è solo disgusto. Una società dove ci sia pane per tutti è possibile, anche dove non ci sia giustizia. E per quanto impellente oggi da noi sia, o si awii a ridiventare, anche il problema del pane, questa è una delle cose che dovremmo aver imparato oggi, guardando ai Paesi dell'Occidente soggetti a tentazioni populistiche e a quelli che come la Cina (o la Russia) sono diventati grandi potenze economiche. Dicevamo nella Premessa come il pensiero pratico sembri rinnovarsi attraverso i grandi rivolgimenti della storia, in quei momenti in cui esso non solo si rifonda, ma si rifonde: si rinnova come rifondendo le sue parti al calor bianco delle rivoluzioni, interiori ed esterne. Ma in definitiva dove veramente una simile rifondazione abbia luogo, essa ha luogo a partire da un risvegliarsi del sentimento di giustizia che è anche un approfondimento della conoscenza di nuovi strati o nuovi aspetti di questo valore. Morale, diritto, politica e forse religione allora, dicevamo nella Premessa, si rinnovano a partire da una coscienza più profonda del valore giustizia - di questa Idea senza fine, che abbiamo definito fondamento di valore della nostra esistenza associata. 49 Una società in cui la giustizia sia assente fa sì che non valga più la pena di vivere in essa, che la vita in essa sia totalmente svalorizzata. Questa non è retorica, è la nostra esperienza della depressione - o anche, in certi momenti storici, la molla della rivolta. Perché la morte civile viene dalla morte dell'anima, e dal suo risveglio soltanto una civiltà può rinascere. L'anima è quella capacità di sentire i valori e i disvalori, quella sensibilità che ci permette di fare esperienza del bene e del male, e che in noi si ottunde non solo quando manca la soddisfazione dei bisogni di base, ma anche e ancora di più quando manca la soddisfazione del bisogno di valore intrinseco, di quello che è buono in se stesso, che è prezioso come la bellezza, che non si cerca per altro ma per sé, che appunto in questa sua natura di "grazia" nutre, rinnova, ravviva, ricrea. Giacomo Leopardi doveva aver ben vivo il senso di
questa indispensabile "grazia" quando scrisse, a vent'anni giusti, questa fiammante pagina d'amore dedicata all'Italia: [...] madre di cose altissime, ardente e giudiziosa, prontissima e vivacissima, e tuttavia riposata e assennata e soda, robusta e delicata, eccelsa e modesta, dolce e tenera e sensitiva oltre modo, e tuttavia grave e disinvolta, nemica mortalissima di qualsivoglia affettazione, conoscitrice e vaga sopra ogni cosa della natura50 lezza, senza cui non c'è né fu né sarà mai beltà né grazia, amante spasimata e finissima discernitrice del bello e del sublime e del vero, e finalmente savissima temperatrice della natura e della ragione [...]. Leopardi chiudeva così il suo Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, con una supplica ai suoi coetanei, che vorremmo girare ai ventenni di oggi, ai molti che si stanno risvegliando alla questione civile e ai pochi che si sono lasciati accecare da una disperazione ignara a se stessa, finendo nelle trappole dell'idiozia e della violenza: [...] ancora siamo più di qualunque altro popolo vicini a quel punto, che quando si oltrepassa, non è quella civiltà ma barbarie [...] Ma sovvenite alla madre vostra ricordandovi degli antenati e guardando ai futuri [...] secondando questa beata natura onde il cielo v'ha formati e circondati [...] considerando la barbarie che ci sovrasta; avendo pietà di questa bellissima terra, e de' monumenti e delle ceneri de' nostri padri; e finalmente non volendo che la povera patria nostra in tanta miseria, perciò si rimanga senz'aiuto, perché non può essere aiutata fuorché da voi. (16) 16. G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in Tutte le poesie e le prose, Newton Compton, Roma 1997, p. 996. 51 Impariamo a fare buon uso della nostra sofferenza - dell'"indignazione", anche. Approfondire, come cercheremo di fare nella seconda parte di questo libro, la nostra conoscenza della giustizia è scoprire nuovi aspetti di ciò che è necessario alla nostra vita, perché "ne valga la pena". Ogni sradicamento, ogni "perdita della patria" è l'occasione di scoperte nuove. Anche noi forse rifonderemo su queste scoperte una "nuova civiltà" - o, alternativamente, sprofonderemo indefinitamente nel vuoto dove si sono smarrite, insieme, anima e patria. 52
6. Proposito La seconda parte di questa riflessione vorrebbe aiutare ciascuno di noi a ricordare quanto abbiamo nel corso della nostra storia già approfondito il contenuto della nozione di giustizia, da Platone a oggi. L'abbiamo fatto - questa è la tesi che certo solo a volo d'aquila possiamo illustrare qui ogni volta che, nella sofferenza per il senso della vita associata che veniva meno, abbiamo di nuovo "sentito" l'aspetto intrinseco e vorrei dire assoluto di quel valore. Ogni volta che ne abbiamo insieme rinnovata e approfondita la coscienza che ne avevamo, questa coscienza è divenuta viva. In un certo senso, i classici ci aiutano semplicemente a riordinare e distinguere gli strati del valore giustizia di cui avevamo già preso coscienza nei secoli, depositando questa coscienza in concetti e teorie che ogni generazione dovrebbe studiare, come in parte avviene. Le pagine che state per affrontare non hanno certo l'ambizione di sosti55 tuire questo apprendimento e questo studio. Esse vogliono soltanto, con l'aiuto di qualche ricordo dei classici, mettere a profitto la nostra esperienza di contemporanei, insieme riordinandola e usandola per quello che, sullo sfondo delle griglie antiche e moderne, essa ci insegna di nuovo. Sembra che ogni aspetto della nostra sofferenza, analizzato, porti in luce insieme a quelli acquisiti un aspetto nuovo, oggi calpestato, della giustizia, in tutti gli ambiti di realizzazione di questo valore: da quello più lato, al quale ci ha introdotto la fenomenologia del brutto e dell'osceno, a quello morale, a quello civile e politico. Nei corsi di filosofia morale e in quelli di filosofia politica si studiano teorie della giustizia, teorie che dicono quali caratteristiche devono avere un'azione, una decisione, una scelta, una volontà per essere giuste, oppure quali caratteristiche deve avere una società per essere giusta. I loro proponenti argomentano razionalmente la necessità di queste caratteristiche al godimento di quella qualità, la giustizia, considerano obiezioni e confutazioni, e così via. Dunque, che la conoscenza di come debbano essere fatte le cose per godere di un certo valore, per essere cose che lo realizzano, o beni, sia un aspetto dell'esercizio teorico della nostra ragione, è un fatto di cui è impossibile dubitare. In La questione morale e altrove ho cercato di mostrare quanto sia assurdo contrapporre il sen56 timento alla ragione, come il soggettivo all'oggettivo, l'irrazionale al razionale. È l'opposizione quasi universalmente accettata che sorregge la dicotomia,
altrettanto largamente accettata, fra giudizi di fatto e giudizi di valore. Ma se esercizio di ragione è per esempio la costruzione e discussione delle proposizioni e dei ragionamenti in cui si articolano le teorie della giustizia, il valore giustizia stesso, cioè lo standard normativo associato a questa parola, diverso da quelli associati alle parole "santità" o "prosperità", è presente in modo tipicamente intuitivo, come una peculiare qualità dell'azione, dell'interazione, dell'ordinamento di cui si tratta: come si potrebbero altrimenti tentare di identificare le proprietà dell'azione, dell'interazione, dell'ordinamento giusti? Ora, questo "intuire" è tipicamente un pensante sentire, senza il quale non avremmo le caratteristiche risposte emotive adeguate ai mali e ai beni, come lo sdegno di fronte all'ingiustizia impunita, la gratitudine di fronte alla generosità, l'ammirazione per la capacità di sacrificio ecc. Per esempio, la crudeltà di un'azione la qualifica a fortiori come ingiusta, in almeno uno dei sensi del termine, che vedremo. E non c'è dubbio che se i fatti stessi si qualificano come beni e come mali, la distinzione fra giudizi di fatto e giudizi di valore va ripensata su tutt'altre basi che quelle su cui si usa fondarla - l'opposizione fra l'oggettivo e il soggettivo, il razionale e l'affettivo, l'universalmente 57 verificabile e il relativo. "Nerone era crudele" è un giudizio di fatto o un giudizio di valore? In effetti i giudizi di valore hanno nel sentire adeguato l'ultima e certo sempre parziale verifica, esattamente come le proposizioni e i ragionamenti che riguardano ogni specie di fatti "neutri" hanno in ultima analisi nell'osservazione esperta, cioè nella percezione sensoriale adeguata, la loro parziale verifica. Naturalmente perché questa tesi sia corretta occorre che a loro modo valori e disvalori ci siano - a loro modo vuol dire che siano dati nei beni e nei mali in cui si realizzano e non si realizzano, come qualità negative e positive dei fatti: perché nessuno ha mai incontrato la Giustizia in persona se non nelle sue immagini iconografiche. Occorre che i valori siano dati appunto e non inventati, proiettati dai soggetti, costruiti dalle culture - le quali anzi si distinguono proprio per le loro peculiari scoperte in tema di valori, e per la ristrutturazione nelle scale di priorità di valore condivise che queste scoperte provocano. La civiltà ateniese scopre il valore della libera ricerca razionale, quella cristiana il valore della persona, e così via. Una grandissima parte dell'irresponsabilità o dell'impotenza caratteristiche di molta filosofia italiana contemporanea, anche e soprattutto se professata da intellettuali "progressisti", si radica nello
scetticismo assiologico e pratico della filosofia del Novecento. 58 E perché valori e disvalori non dovrebbero darsi? Chi non crede che ai valori si possa attribuire alcun essere, alcuna oggettività, deve essere pronto ad ammettere lo stesso coi disvalori. Ora, negare che in questo mondo ci siano mali, e in particolare torti, che ci sia per esempio molta ingiustizia, non è facile. Ma se appena riconosciamo che ci sono torti, allora non si capisce perché non dovremmo riconoscere che ci sono azioni giuste, e dunque che a suo modo ci sia la loro qualità comune, la giustizia. Teoricamente, insomma, è abbastanza azzardato negare l'esistenza del male che c'è in terra. Andatelo a dire a una persona che abbia subito violenza, che in materia di valori è tutto soggettivo e che ognuno ha il suo demone, che farci. Dopotutto è appunto per non vedere l'orrore che ricorriamo alle tecniche semiautomatiche della rimozione e dell'autoanestesia. E questo è un altro argomento a favore della tesi che qualcosa di dato e di orribile c'è, eccome. Questo ci dice anche qual è propriamente il modo di esistenza dei valori: come dover essere, come esigenze ideali. In verità le cose non sono affatto come dovrebbero essere nella maggior parte dei casi: e che non lo siano, e siano invece come non dovrebbero essere, "salta agli occhi", cioè è dato a un sentire anche minimamente educato, in molti casi: tutti quelli per cui usiamo la vivida espressione "grida vendetta al cielo". Ma per chi crede che valori e disvalori esistano a loro modo, come esistono a loro modo le altre qualità delle cose, non è sorprendente che noi abbiamo, da Platone a oggi, di molto approfondito la nostra conoscenza del valore giustizia. Non c'è alcuna difficoltà ad ammettere che la nostra conoscenza dei valori può crescere. Già Adamo e Eva furono condannati alla conoscenza del bene e del male. Progredire in questa conoscenza sembra il nostro mestiere di uomini. Io non credo si possa negare il progresso della conoscenza morale, più di quanto si possa negare che esista un progresso nelle condizioni materiali della vita umana, che appunto sono almeno localmente migliori in virtù della maggior realizzazione di alcuni valori, da quelli relativi al benessere a quelli relativi alla giustizia. Tutta la vita è prendere coscienza e approfondire la conoscenza del bene e del male, dei beni e dei mali. Individueremo dunque tre assi principali lungo i quali abbiamo approfondito e dobbiamo risvegliare e continuare ad approfondire la nostra conoscenza del valore giustizia. La giustizia nel senso più lato e forse più profondo, come norma del dovuto a ogni cosa; la giustizia
come virtù morale specifica; la giustizia come valore del buon ordinamento sociale.
7. Il lessico della giustizia: excursus sulle origini Il greco dikaios, "giusto", presenta la stessa ambiguità che troviamo in italiano e in francese, dove "giusto" può opporsi a "sbagliato" oppure può opporsi a "ingiusto"; e che troviamo meno in inglese e in tedesco, dove il senso lato di "giusto" (right/wrong, richtig/unrichtig) si distingue linguisticamente anche in positivo dal senso stretto (just/unjust, gerecht/ungerecht). (1) Eppure non è affatto detto che ci sia qui semplice ambiguità lessicale accidentale, cioè omonimia. A prima vista sospettiamo una qualche relazione fra right e just, fra giustezza e giustizia. Lo sentivano anche gli antichi, tanto che Aristotele cita all'inizio del V libro dell'Etica Nicomachea il detto di Teognide, secondo cui la giustizia è la somma di tutte le virtù, nel senso che ogni comportamento morale è giusto, e ogni comportamento immorale ingiusto, e quindi giustizia e moralità sono coestensive - ed è per questo che Aristotele qualifica la giustizia come virtù "sovrana". Virtù, nel senso propriamente greco dell'eccellenza o del valore di un uomo. Un uomo dabbene, una "bella" persona, come diremmo noi, possiede questa regalità che è la "giu1. M. Ricciardi, Lideale di giustizia da John Rawls ad oggi, Università Bocconi Editore, Milano 2010. 61 stezza" in ogni aspetto del suo vivere. Ha questa eccellenza (aretè) che ne fa un signore (aristos). Cioè uno per cui vivere vale la pena, la vale senza misura e senza far di conto. Ma già questa espressione dice troppo. La regalità dice l'agio, la rilassatezza di chi neppure sa questo di sé - ma vive volentieri. E non conosce il morso quotidiano dello sconforto sul proprio valore e l'ansia di affermarlo, di esserne rassicurato, di "esistere". Non conosce il listino di borsa, perennemente a rischio crollo, del proprio valore: e non certo per narcisismo, che è anzi la malattia dell'autoriflessione, ma semmai al contrario perché la questione non si pone, ce ne sono troppe altre più interessanti. In questo senso qualcuno ha scritto che proprio l'umiltà è un lusso da signori nati. Quella spontanea e muta, che non sa di esserci però - non quella indotta dalle pratiche di mortificazione. Non per nulla i Greci neppure
conoscevano il nome dell'umiltà. È uno strato profondo e quasi dimenticato dell'esperienza di valore questo, che la nostra tristezza ci aiuta a rivivere, sia pur in negativo. Perché l'etica antica è la scienza della vita buona o piena di valore, come vita felice o riuscita, fioritura dell'uomo, che fa la sua vita degna di essere vissuta. E il valore è colto dal pensiero greco soprattutto nell'esperienza felice che l'uomo eccellente ha della propria vita, o nell'infelicità di una vita priva di valore, che non fiorisce e non 62 realizza l'eccellenza umana. È questo il cosiddetto "eudemonismo" antico. La virtù apporta beneficio alla persona virtuosa, aumenta la bontà della sua vita e la sua felicità. Giustizia è dunque nel suo senso più lato "il tutto della virtù", (2) cioè è coestensiva con il valore o l'eccellenza - noi diremmo con la moralità, con il valore morale delle persone. Coestensiva, ma non identica: giustizia è precisamente quell'aspetto della virtù che nell'eudemonismo moderno - l'edonismo, l'idea della vita buona come vita che porta all'individuo il massimo di soddisfazione innocente - è trascurato. È l'aspetto per cui la moralità fa non solo il bene proprio, ma anche quello degli altri. Per questo Aristotele chiama la giustizia anche virtù "completa". (3) Ed è in questa "completezza" che si esprime la coscienza dello strato più profondo del valore giustizia: il suo essere "ad alterum", il suo essere qualità di azioni rivolte ad altri. Una persona giusta è quella che si comporta bene nei confronti degli altri - e di sé come caso particolare. Questo è uno dei primi testi della nostra storia in cui appare con la massima chiarezza quella tendenza a vedere nella giustizia una virtù squisitamente sociale, che si afferma nella storia dell'etica fino ai nostri giorni. 2. Aristotele, Etica Nicomachea, V, i, 1920. 3. Ibidem, i, 15. 63 È un senso ancora molto generale del termine "giustizia", questo. E vi si sente l'aspetto specificamente aristotelico che prende l'idea condivisa da tutto il mondo antico, che il bene o la felicità comune ha valore superiore a quello individuale. Da qui infatti l'analisi si biforca: il senso più generale di giustizia corrisponde a quella rettitudine che nelle città ben ordinate è indicata e ogarantita dalle buone leggi e dai buoni costumi - e il giusto è quindi il nomimos, il conforme alla norma, compresa quella di legge. Ma l'analisi imbocca l'altro ramo: quello della giustizia come virtù speciale, una delle virtù e non il loro intero, la moralità. E la giustizia come virtù speciale è l'opposto, non di qualunque comportamento scorretto nei confronti degli altri, ma di una certa classe di comportamenti scorretti. Come
spesso succede, sulle pagine di Aristotele i concetti sembrano fiorire dalle intuizioni più semplici, o meglio più limpide, come nell'infanzia del pensiero, che la nostra infanzia in qualche modo riproduce sempre. Basta osservare i giochi dei bambini, e le dispute che quasi subito ne nascono, per fare esperienza di quella specie di comportamento nella sua forma più semplice, nel suo fenomeno più chiaro. Aristotele lo chiama pleonexia, (4) il voler avere più degli altri. Il fenomeno da cui subito sorge il primo grido: "Non è giusto!". È la 4. Ibidem, I, 10-11. 64 situazione in cui emergono le relazioni essenziali del valore giustizia in quanto esigenza instaurata (non stiamo dicendo: soddisfatta) col sorgere stesso di una relazione umana. In primo luogo, che il comportamento degli individui debba essere conforme a un principio che i secoli definiranno concettualmente in molti modi possibili: come eguaglianza, equità, reciprocità... Le civiltà lo codificheranno nelle norme innumerevoli dei loro codici civili e penali. In secondo luogo e inscindibilmente, sorge l'esigenza che non siano le "parti in gioco" a stabilire se un comportamento è giusto o ingiusto, ma debba essere un terzo, e in generale dotato di autorevolezza, a giudicarne. E così la giustizia si rivela essere il solo valore che porta con sé, essenzialmente, la relazione a un ruolo di super partes. Che porta con sé l'esigenza del giudice. Ma allora quello che si poteva dire sul senso più lato di "giustizia", anzi su quello che abbiamo definito lo strato più profondo del valore giustizia, è esaurito con la "virtù completa" di Aristotele, con l'intuizione del comportamento corretto nei confronti degli altri, secondo tutti gli aspetti del bene e del male che possiamo fare agli altri, e a noi stessi come caso particolare? Se lo chiediamo alla nostra sofferenza, se facciamo buon uso del fenomeno da cui siamo partiti l'esplosione del brutto e dell'osceno - dovremo dire che la risposta è: no. C'è qualcosa di 65 più nel nostro non honeste vivere, in questa nostra vita immersa nel disvalore, che il far torto, o patirlo. C'è qualcosa in cui è trascinato anche chi si sforza di neminem laedere. Comprendiamo ormai perfettamente espressioni come "uno stupro del paesaggio", "una violenza fatta all'ambiente". Ma non è una buona idea spiegarcele con una sorta di antropomorfizzazione che avremmo inflitto alla realtà. Antropomorfico è solo il linguaggio: la distruzione della bellezza e del decoro non ci pare un male per la sofferenza che arrecherebbe alle cose deturpate. Non è come nel caso della sofferenza animale. Le cose deturpate suscitano sofferenza in noi, ma è il senso di questa sofferenza
che stiamo cercando di portare a parola. Quale male ci rivela o annuncia?
8. Ciò che dobbiamo al mondo È qui che un'idea dimenticata da secoli - da tutta la modernità -, cioè il concetto platonico di bellezza come ordine del cosmo, ci può di nuovo aiutare. C'è un senso, dicevamo, in cui la bellezza è la forma visibile della giustizia. Indubbiamente c'è un aspetto strettamente platonico che fa della giustizia una figura del cosmo, e per estensione di ogni tutto, di ogni intero, compresa la Città ideale. Come le leggi eterne del cielo, così le leggi ideali della Città... Non è questa la 66 pista che può aver senso per noi. Non sono qui le parole che possono rivivere in noi. È noto che Platone nella Repubblica propone la sua concezione della giustizia come armonia e in questo senso valore o virtù del tutto, la sua buona costituzione, consistente nel fatto che ogni parte svolge la sua funzione nel tutto, conformemente alla sua virtù propria. Che si tratti delle tre caste dello Stato ben ordinato o delle tre parti dell'anima, ciascuna regolata dalla sua virtù, temperanza per il ventre dell'uomo o della società, coraggio per il suo cuore ardente e irascibile, provvidente sapienza per la mente che tutto governa. La giustizia è questa relazione fra le parti e questo accordo delle loro funzioni. In questo aspetto è "totalizzante" come la virtù "sovrana" di Aristotele, eppure lo è in un senso così diverso che suscita in noi fantasmi totalitari. È il modo specifico in cui Platone, stigmatizzato per questo dal pensiero liberale moderno da Karl Popper a Isaiah Berlin, (5) condivide con il mondo greco il principio di supremazia della Città sulla persona, il modo in cui il mondo antico sente la giustizia come virtù "sociale". Non è questo il Platone che può rivivere in noi. Ma c'è un altro filo che si perde in questo in5. K. Popper, La società aperta e i suoi nemici ( 1945 ), tr. it. Armando, Roma 1996; I. Berlin, "Due concetti di libertà (1958)", tr. it. in Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano 1989. 67 treccio. Dicevamo che il secondo termine che più frequentemente compare come sinonimo del giusto, nel i libro della Repubblica, è ofeilomenon, il "dovuto". Sarebbe interessante ricostruire la storia di questa nozione così pervasiva della nostra intera storia intellettuale, morale e civile, il concetto di norma o di obbligazione, a partire dalle sue umilissime
origini: essa compare per esempio nel I libro della Repubblica di Platone nelle parole del vecchio Cefalo in relazione ai depositi ricevuti, o al massimo ai debiti: "giusto" è restituire il dovuto. Ma Socrate subito generalizza, e compare allora la formula più fortunata della meditazione occidentale sulla giustizia, che nel dialogo viene attribuita a un poeta, Simonide: giusto è "dare a ciascuno ciò che gli è dovuto". (6) Da qui Socrate prende l'avvio per generalizzare dunque dalle relazioni debitorie a tutti gli ambiti della vita. Questa idea resta il nucleo delle diverse elaborazioni dello stesso Platone (nell'ultima parte del II e nel III libro della Repubblica). Così la riflessione greca si trasmette al mondo romano attraverso Cicerone, che nel III libro del suo De re publica affronta il tema della giustizia nella città, e l'analisi è preparata, nell'ultima parte del II libro, dal riferimento a Platone e Aristotele e al loro "elogio" della giustizia - ed ecco la 6. Platone, Repubblica, 1,331 e. 68 sintesi ciceroniana - come quella virtù che "dà a ciascuno il suo, perché conserva l'eguaglianza fra tutti" e che è l'unica, fra le virtù, a non starsene "isolata di per sé né nascosta" perché "tutta emerge all'esterno" (cioè si manifesta pubblicamente, socialmente, fra gli altri: è virtù sociale). (7) Questa virtù risulta costitutiva dell'associazione che dà luogo a una res publica: il popolo di cui uno Stato è la "res" "non è qualsivoglia agglomerato di uomini riunito in qualunque modo, ma una riunione di gente associata per accordo nell'osservare la giustizia e per comunanza di interessi". (8) Così la sintesi della lezione ciceroniana compare nei tre principi che sono secondo Ulpiano (III secolo d.C.) alla base dell'intero diritto romano, dove i tre principi sembrano seguire le specificazioni della giustizia da virtù sovrana a virtù "completa" a equità: "Honeste vivere, neminem laedere, suum cuique tribuere." E che sono poi ripresi nel Corpus iuris civilis o nel Digesto giustinianeo, in particolare il terzo per la definizione della giustizia: "Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi" (Dig. 1.1.10.1). Quel filo platonico del "dovuto" dunque sembra esaurirsi nella più classica e duratura, direm7. Cicerone, De re publica, n, 43, 69. 8. Ibidem, i, 25,39; vedi C. De Pascale, Giustizia, il Mulino, Bologna 2010, pp. 37-38. 69 mo nella formula nuda o formale della giustizia. Ma infine, quando sembrava che non ci fosse più nulla da scoprire, ecco che la nostra esperienza ravviva l'antica formula di un senso nuovo. A rigore, era già lì. Il pronome greco o quello latino non è necessariamente personale: varia su qualunque cosa, esseri umani
compresi. E le cose stuprate ci riappaiono davanti. Ecco il male che esse rappresentano. L'ingiustizia, nel senso più lato del termine. Questo è lo strato più profondo del valore che la giustizia è - come esatta misura del dovuto a ogni essere. Allora il significato "specifico" si ha quando gli esseri in questione sono gli umani. Ecco che cosa non vedono gli specialisti della filosofia politica e gli altri scienziati sociali, per non parlare dei politici e della gran parte degli amministratori. Non vedono che la giustizia è l'esatta misura del dovuto a ogni essere. Dunque modernamente possiamo dire: dovuto è il rispetto, e tutto ciò che questo implica, agli umani. Ma dovuto è anche il respiro ai viventi, dovuta è la pietà alla memoria dei padri e alla loro eredità, dovuta è la custodia ai beni comuni, che sono la risorsa del presente e del futuro di una civiltà. E naturalmente, dovuta è la più strenua difesa a tutto ciò che è bello, prezioso e unico, come i paesaggi storici e naturali. Questa nozione dell'esatta misura del dovuto a ciascun essere sembra semplicemente la più 70 generale possibile. Coglie quel senso lato di "giusto", il cui significato è "retto" o conforme al dovuto, e la cui negazione è "scorretto" o non conforme al dovuto. Come in "giusto/sbagliato", "right/wrong , "richtig/unrichtig'. Giusta è la proporzione richiesta per i pilastri di una navata di tale ampiezza e tale forma. E ciò che ampiezza e forma del locale "esigono", dunque giusto è ciò che è "esatto". Giusta o stonata è l'esecuzione di una nota. Una caratteristica normativa del genere attraversa l'intero universo del percepibile: uno dei massimi psicologi del secolo scorso la chiama requiredness. (9) Il termine dice l'essenziale: se entro in una stanza disordinata e sporca mi colpisce subito ciò che le manca per essere come si deve - ordine e pulizia. Non è però la stessa mancanza che mi colpisce quando a dicembre la pianta di gerani 9. W. Köhler, The Place of Value in a World of Facts (1938), Mentor Books, New York 1966. Köhler traduce in questo modo il tedesco Forderung, per il quale il suo allievo, l'americano James Gibson, introdusse il neologismo affordance, l'invito, per così dire, che una cosa presenta in quanto parte dell'ambiente di un vivente, a trattarla in un determinato modo, "come si deve", appunto: dalla forma delle maniglie alla tenerezza dei cuccioli, fino, nel mondo umano, al vasto regno delle qualità estetiche, le affordances caratterizzano l'immenso insieme delle "qualità terziarie", una sottoclasse delle quali sono le qualità di valore, positive e negative, delle cose, che ne fanno sotto qualche rispetto dei beni o dei mali. Vedi
C. Conni, R. De Monticelli, Ontologia del nuovo, Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 95; pp.184 sgg. 71 manca dei suoi fiori, o alle quattro del pomeriggio una tavola appare sparecchiata: fattualmente manca qualcosa, ma non è niente che sia richiesto, "esatto" in quelle circostanze. È legittimo dire che il senso più lato rappresenta lo strato più profondo del valore? Se giustezza in questo senso è l'esatta misura del dovuto a un essere (per esempio la giusta altezza di una nota, la giusta misura di una lezione), la "giustizia" nel senso più proprio o specifico si ha quando l'essere cui è dovuto "il suo" è un essere umano. Ma in tutti i casi giustizia è la norma di un dovuto, di un dovuto indipendente dal volere umano, e al quale il volere umano può non conformarsi, ma dovrebbe farlo: un dovere. Abbiamo dunque doveri nei confronti di ogni cosa, e non soltanto delle altre persone e di noi stessi siamo per così dire responsabili di quella parte di cosmo che abitiamo. È innegabile che questa nuova consapevolezza sia ormai molto diffusa nel resto del mondo occidentale - anche se fatica ancora a farsi udire in Italia. Chi la condivide ha scoperto che esiste in ogni dato una risorsa normativa. La pietra vuol essere usata nelle costruzioni in una certa maniera, diversa da quella appropriata al mattone o al legno. Un teorema geometrico deve esser dimostrato come richiede, e non come vogliamo noi. In un senso questa degli obblighi che stanno nelle cose stesse è una scoperta tardiva, se si pensa all'orgoglio trascendentale del pensiero moderno, che tutto riconduce al "soggetto" e al suo supposto potere di dar forma al "molteplice" neutro e informe dei dati sensoriali. Forse occorre risvegliarsi al dolore per le cose deturpate per riconoscere la profondità dell'esigenza posta dai fragili equilibri di questa terra, esigenza impercettibile nei millenni e che oggi "grida vendetta al cielo". Allora una nuova virtù, nutrita di umiltà, ci appare oggi come l'ultima forma della "virtù sovrana": l'attenzione.
9. La bella sofista Non capita tutti i giorni di incontrare Trasimaco, il sofista, nelle vesti di una bella ragazza un po' spigliata, che non chiameremo per nome nonostante abbia ottenuto recentemente una notevole popolarità mediatica, dopo la diffusione di un'intervista in cui rivendica con orgoglio la sua scelta di vita. (10) È la sua brillante carriera in quel
mondo di satrapi di calibro massimo e minore, dove si trafficano appalti, concessioni, nomine nelle aziende di Stato, nei parlamenti e in altri ruoli pubblici, in cambio di congrui vantaggi sempre più spesso forniti in natura. Fresca natura di belle ragazze disponibili, poverette, agli appetiti porcini e arzilli di chi poi ripagherà lautamente i loro 10. Vedi http://www.youtube.com/watch?v=ehusOyLWgA8 73 prosseneti, se non loro stesse. Ne sappiamo qualcosa noi che in quest'ultimo caso le manteniamo profumatamente in carriera nei parlamenti regionali e nazionale, o almeno europeo, quando non le subiamo come ministri della Repubblica. Non chiameremo dunque col suo nome la nostra bella Trasimachina, per non aggiungere male al male: dato che già la descrizione degli scenari osceni in cui la poverina si aggirava, e del ruolo non esaltante che lei in particolare pare aver ricoperto, dovrebbe muoverci alla pietà e alla speranza sincera che la sua giovinezza le conceda un'altra stagione, più degna del nome di vita umana. Le somiglianze dell'arringa in difesa della giustizia come utile del più forte tenuta dalla Trasimachina nel corso della sua intervista colpiscono, in effetti: "Quando sei onesto non fai grande business, rimani nel piccolo [...] Per avere successo devi passare sopra i cadaveri degli altri, ed è giusto che sia così". Chi lo nega è solo invidioso, parla per risentimento tradotto in moralismo. Tutti potendo farebbero come l'Imperatore, e chi non vorrebbe essere amico dell'Imperatore. Che fa le leggi e usa le risorse di tutti a suo vantaggio, ed è giusto così. Ci si può leggere perfino un lampo di scherno per il platonismo dei filosofi, con una frase prestata alla Trasimachina da un più noto e più sgarbato immoralista di casa nostra: "La bellezza è un valore..." - dunque ha un prezzo, e l'Imperatore, che è un esteta, ben lo conosce. In fondo bisogna essere grati alla Trasimachina. La sua semplicità brutale ci riporta là dove tutto è cominciato, al I libro della Repubblica di Platone. Al luogo dove la scienza politica nacque, proprio prendendo atto di questo dato fondamentale: il male che ci facciamo a vicenda, tentando di prevaricare gli uni sugli altri. Etica, diritto, politica sono discipline normative, propongono e fondano sistemi di norme: nessuna di loro esisterebbe se non ci fosse questo tipo di male, quello che gli umani si fanno gli uni gli altri. Gli angeli non potrebbero fare complicati ragionamenti di teologia senza logica, che è pure una disciplina normativa (anche se la maggior parte dei teologi pensava che non ne avessero bisogno, avendo essi accesso diretto alla visione di Dio). Ma
non si vede cosa potrebbero farsene dell'etica, del diritto e della politica. Della ragione pratica, insomma, visto che non hanno né fra loro né in se stessi quella pleonexia, quella brama di possesso e di dominio sugli altri, fino alla loro distruzione, da cui le norme che disciplinano l'agire dovrebbero difenderci o liberarci. A suo modo Trasimachina è angelica: anche lei non vede proprio cosa possiamo farcene. Se, come vuole il suo più famoso predecessore antico, "giustizia" è semplicemente l'interesse del più forte, e l'interesse del più forte diventa la legge degli Stati, indubbiamente non c'è altra differenza fra il criminale comune e il politico di razza, se non 75 che quest'ultimo si fa la legge a misura del suo interesse, e non è nemmeno più costretto, come il primo, a nascondersi, cioè a parere diverso da quello che è. Se davvero Trasimachina dovesse rappresentare il senso comune di quella maggioranza che ha espresso il governo di un simile "Imperatore", allora è davvero spettacolare l'approdo cui è giunta la nostra giovane democrazia, dopo due millenni e più di storia umana nota, carica di atrocità ma anche di pensiero intorno alle cause di queste atrocità, e ai modi in cui possiamo ordinare le nostre vite e la nostra convivenza per rimuoverle. L'approdo finale è il ritorno al punto di partenza. Che il Trasimaco di allora descrive dando parola a quello che i filosofi avrebbero poi chiamato lo stato di natura. In sintesi estrema, più adatta al nostro supposto senso comune che a quello greco antico, l'espressione di questo stato di natura è "me ne frego". Delle conseguenze che il "vivere da leoni" ha sugli agnelli sbranati. Perché la differenza fra un uomo e un rapace sta nella circostanza che l'uomo può riconoscere quello che fa, per esempio la sofferenza che infligge, come male. Come strazio e scempio delle vite altrui. "Me ne frego" vuol dire: non riconosco un accidente. Si dice a volte che Socrate non riesce a confutare Trasimaco. E questo in un senso è ridicolo, in un altro verissimo. È ridicolo se si accetta di esercitare la sensibilità e la logica, perché allora 76 con la prima ci si accorge che è vero che l'utilità del criminale è un bene di valore inferiore all'incolumità delle sue vittime, checché ne pensi il criminale stesso, e con la seconda si capisce che quando si dice che "è giusto" che sia così, vale a dire che l'uomo-leone sbrani l'uomo-agnello, dopo aver ammesso che quello sbranare è un torto che il primo fa volentieri al secondo in vista del proprio vantaggio, si incorre in una flagrante contraddizione. E Socrate ha tranquillamente la meglio su Trasimaco su questi due punti. Ma che non riesca a
confutarlo è verissimo se Trasimaco si rifiuta di esercitare la sensibilità e la logica, cioè la sua umana ragione: opzione questa che è sempre libera. Anzi, da questo punto di vista è certamente Trasimaco che vince, perché Socrate farebbe in fondo una petizione di principio se gli chiedesse di essere sensibile e razionale per la buona ragione che è meglio esserlo che non esserlo. Vivere da persona insensibile e illogica toglie valore alla mia vita? "E chi se ne frega! " Al fondo di tutta la ragionevolezza umana, di tutta la conoscenza o la ricerca di verità, di ogni nostro sforzo di percezione esatta e di chiarezza di pensiero, c'è una preferenza di valore: la conoscenza è migliore dell'ignoranza. Platone la chiama l'idea del Bene, e resta la sua scoperta fondamentale. Al fondo della logica c'è l'etica. Spettacolare, dunque, l'opzione del senso comune che la Trasimachina rappresenterebbe: 77 tanto peggio per l'etica, tanto peggio per la logica, ma anche tanto peggio per la politica, il diritto, ogni straccio di legittimità delle istituzioni, ogni sogno di civiltà. Tanto peggio per ogni ombra di differenza fra una banda di briganti e uno Stato, per tornare al cruccio di Platone. Possibile? Che rappresenti davvero il senso comune della maggioranza da cui l'"imperatore" fu espresso? Non impossibile. È un dubbio terribile, che dobbiamo approfondire, e che ci mostra quanto avesse ragione Bobbio a considerare l'Italia un Paese tragico. Ne abbiamo un indizio inquietante: il valore che a poco a poco ha da noi assunto la parola "normale". Ce ne occuperemo nell'ultimo capitolo di questa riflessione: è paradossale che questa parola, di cui dovremmo sentire tutto il profondo legame con le norme, sia venuta a significare invece l'ovvietà e la naturalezza della loro violazione. "È normale" è usato da molta gente proprio nello stesso senso in cui la Trasimachina usa "È giusto", vale a dire, tradotto: "È ingiusto, e chi se ne frega. Fanno tutti così". Del resto lo stato di natura altro non è che lo stato di guerra o brigantaggio diffuso in cui in ogni momento rischiano di cadere le civiltà umane, e questo lo sappiamo da un pezzo. Lo sapeva anche Platone, che in definitiva a Trasimaco fa fare la parte di colui che esprime il sordo ribollire degli umori del "grosso animale" celato nella "gente", cioè nel "popolo" blandito e sedotto dai demagoghi. Trasimaco sbotta ascoltando Socrate, e mitraglia certezze più somiglianti a sfide che ad argomenti, un po' come la Trasimachina. Ma quando Socrate si stufa di farsi dare dell'ingenuo o del capzioso, ecco che Platone lo mette a confronto con più raffinati interlocutori. È vero che dal II libro della
Repubblica, e fino alla fine, per mezzo di questi più raffinati interlocutori che danno un po' di sostanza e di logica ai sentimenti di Trasimaco, Platone prova in definitiva a rispondere, col pensiero e il progetto di una società giusta, proprio alle sfide di Trasimaco: alle sue sfide, più che ai suoi inconsistenti argomenti. Con questo tentativo ha gettato le fondamenta della nostra civiltà. La Trasimachina dovrebbe esserne lusingata! Spero proprio che legga queste righe, e poi magari, con i risparmi della vita precedente, si procuri una stanza e i dieci libri della Repubblica, e cominci a studiarli. Anche se la tragedia di Platone e della filosofia è tutta qui: che serve poco aver ragione se i più preferiscono rifiutare di esercitare la loro. E con questi più raffinati interlocutori si arriva finalmente al bivio fra due modi di rispondere alla sfida di Trasimaco, e alla brutalità dei prepotenti. Glaucone e Adimanto, gli eredi di Trasimaco, introducono una soluzione contrattualistica del problema: una teoria convenzionalistica del giusto come ciò che è stabilito dalla legge, la quale risulta dall'accordo degli individui per evitare di subire danno o infelicità dalla reciproca volontà di potenza. Lo stato di natura, che è l'incombente minaccia ferina e guerresca che cova nelle nostre società e in tutte le convivenze umane, si affronta così, convincendo semplicemente lupi e agnelli che alla fin fine conviene a tutti sottomettersi alla legge dello Stato. Si ammette che i lupi sarebbero più contenti, potendo, di violare tutte le leggi o farsene a misura propria, ma si suppone che almeno di fronte all'esperienza che ciascuno è minacciato da tutti gli altri lupi, o magari da potentissime corporazioni di agnelli, si rassegneranno a sopportare la legge. Platone dà così voce al giuspositivismo sofistico, dove il valore della legge è un valore di utilità. La Trasimachina potrebbe trovarcisi bene, perché nessuno le chiederebbe di valutare se sia "giusto", poniamo, farsi dare un seggio in Parlamento in cambio di una prestazione erotica, purché non sia espressamente proibito dalla legge. Ma anche se lo fosse, questo non le suonerebbe che come un invito a farlo in forme che le permettano di farla franca, e se ci riesce buon per lei, non è che l'utilità della legge venga meno per questo. E l'utilità generale non la riguarda più.
10. Lezione di giustizia: l'indignazione Non è però la via che prende Platone. Perché, per mettere la cosa in modo più comprensibile ai 80 nostri giorni, questa soluzione non dà affatto un criterio per distinguere le leggi giuste da quelle ingiuste, dal momento che standard di giustizia è la legge stessa. E allora, fra cittadino e potere, pur legittimo perché basato sul contratto, le cose stanno ancora quasi come prima: una specie di stato di natura istituzionalizzato, simile a quello che viviamo noi oggi qui. La giustizia è trattata come fosse un affare di potere, il potere di fare le leggi. Ma Socrate, che ritiene indegno di un ragazzo per bene assoggettarsi a una particolare norma senza averne chiesto la ragione e capi to il fondamento, dunque il valore, crede invece che vi sia un sapere della giustizia, un'esperienza dei beni e dei mali causati dalle azioni delle persone ad altre persone. E solo un governo che sa di giustizia, non uno qualunque, è un buon governo. Altrimenti la "giustizia" resterà quel flatus vocis che era infine per Trasimaco, e in effetti un terreno di lotta per il potere. Concordo pienamente con le conclusioni attualizzanti che ne trae un commentatore di Platone: "E dunque: o si sostanzia di giustizia la politica, o si sostanzia di politica la giustizia. E la seconda cosa appare decisamente peggiore della prima". (11) Socrate gli avrebbe senz'altro dato ragione. Altra dunque è la via di Platone. In un dialogo rivelatosi spurio troviamo una frase lapidaria, sintesi perfetta di una intuizione profonda che nutre tutto il suo pensiero: "La legge vuol essere scoperta di ciò che è". (12) Questa è la sua risposta alla questione dell'origine delle norme. Una legge traduce in norma di comportamento una (supposta) verità che riguarda un valore, e questo è vero qualunque sia il posto di quel valore nella gerarchia che si adotta. Così anche se alcune norme, poniamo, del Codice della strada sono ovviamente del tutto convenzionali, come il tenere la destra invece che la sinistra, la convenzione è parte di un'opzione indifferente ma subordinata alla verità della tesi che la sicurezza dei cittadini (e l'ordine del traffico) sono più importanti di quell'aspetto minore della loro libertà che è la discrezionalità nella scelta di quale mano tenere col proprio veicolo. Questo è chiaramente un giudizio di valore, fino a prova contraria vero, che afferma la superiorità del valore di alcuni beni su un altro. Se si osserva quanto di convenzionale c'è in generale nelle norme, e non solo in quelle positive ed esplicite, che governano i nostri comportamenti in
società, si è naturalmente tentati di credere che la soluzione contrattualista sia quella che meglio rende conto del fondamento delle leggi. Ma il nerbo del contro-argomento di Platone consisterebbe nel chiedere: potrebbe la supposta utilità generale giustificare una legge ingiusta? Se si risponde di sì, si ammette che quello dell'utilità generale non è un criterio di giustizia delle leggi, e che lo stato civile non si distingue da uno stato di natura istituzionalizzato, dove ogni opzione normativa è convenzionale come quelle sulla destra e la sinistra nella circolazione, e l'opzione del legislatore dipende in definitiva dai rapporti di forza dati indipendentemente dalla legge. Se si risponde di no, si ammette che l'utilità generale non è il criterio ultimo delle buone leggi, e allora quell'idea di contrattualismo andrà di molto modificata e raffinata... Lasciamo che i secoli che ci separano da Platone dibattano questo grande dilemma che fu allora posto. Torniamo a noi, e mettiamo la Trasimachina e l'Imperatore a dialogo con una qualunque ragazza di talento, appassionata magari di scienze politiche o impegnata in qualche battaglia ideale, di quelle che nelle moderne democrazie chiamano i cittadini a esercitare la loro sovranità "nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione". Immaginiamo che Marianna (è il nome di questa ragazza), appena laureata a pieni voti, venga a sa83 pere con assoluta certezza che una ragazza appena nominata in un certo Consiglio o Parlamento è proprio la Trasimachina - o più plausibilmente una sua amica, un poco più smaliziata nel linguaggio, e altrettanto brava nelle arti antiche che l'hanno portata all'intimità con l'Imperatore. Non faremo fatica a metterci nei panni di Marianna. L'indignazione morale, se invece che scienze politiche avesse studiato lettere, potrebbe strapparle un grido dantesco: "Colei che usurpa in terra il loco mio...". La giusta collera le tingerebbe di fuoco l'anima, come infiamma il cielo dantesco. Ma il suo Discorso Marianna non si degnerebbe di rivolgerlo all'usurpatrice, ma all'Imperatore, che non solo ha violato le leggi dello Stato abusando del suo potere, ma ha anche commesso una terribile ingiustizia nei confronti di Marianna, come nei confronti di tutte le cittadine e i cittadini che a giusto titolo aspiravano a quella nomina e avevano seguito le normali (cioè "normate") vie per conseguirla (a supporre che nel Paese fantastico di cui parliamo ci sia ancora qualcosa di normale in questo senso). Ecco, dobbiamo riflettere sulla natura di questa indignazione, o meglio di ciò che essa rivela: un torto, o un'ingiustizia. Le nostre istituzioni sono purtroppo così
screditate che in questo caso particolare si fa un po' di fatica, forse, a capire la natura del disvalore di cui l'indignazione fa esperienza. Lo si capisce meglio nel caso, per esem84 pio, di una cattedra regalata a un servo, e negata a un genio nella disciplina in questione. Benché ci siano ingiustizie ben più odiose di queste, si comincia a percepire il punto. La natura di un torto non è affatto quella di un danno fatto a me, ma della violazione di un obbligo che la persona colpevole di ingiustizia aveva nei miei confronti come di chiunque altro rispondesse a certi requisiti. Lo sguardo dell'indignazione fondata, quella che resiste al vaglio critico, non si appunta affatto su di sé ma sul valore che sta alla base di un obbligo: per esempio, la competenza e l'onestà richieste per esercitare un ufficio pubblico, la conoscenza della propria disciplina che è richiesta per insegnarla, e di conseguenza sul disvalore che grava sull'abuso di chi invece, avendo il potere di farlo, distribuisce questo tipo di uffici a titolo di ricompensa per servizi privati, e peggio ancora se di tutt'altro genere. Quella violazione di un obbligo che chiamiamo torto o ingiustizia non ha (solo) il carattere di una diminuzione dell'utilità di chi la subisce, ma (soprattutto) quello di un disconoscimento pratico di principi che danno senso e valore alla vita di ciascuno. Il torto è una ferita dell'anima di chi lo subisce, non una diminuzione della sua utilità. Tanto è vero che la stessa ferita è subita da chi non lo patisce personalmente, ma lo percepisce come torto. È questo il senso proprio dell'indignazione, che la distingue profondamente dal risentimento. 85 E con questa analisi abbiamo ritrovato il nucleo vivo della tesi di Socrate, tanto stupefacente ancora oggi per i più, che "patire ingiustizia è meglio che farla". È "meglio" nel senso che se anche farla aumenta l'utilità di chi la fa, e subirla la diminuisce, non è in questo che risiede il male di ciò che chiamiamo ingiustizia, ma nel disconoscimento teorico, e nello strazio pratico, che chi agisce ingiustamente fa di ciò senza cui nessuna vita umana ha più valore. Esattamente come scrive Kant. Ma questo qualcosa, Platone lo chiamava il Bene. Ciò che è in quanto non è ancora e non sarà mai completamente realizzato, ciò la cui essenza è di essere "oltre" l'essere, di essere sempre un'esigenza. È in effetti l'esigenza che distingue una vita umana dalle vite di altri animali, come - dice Platone - il Bene si distingue dalla Necessità. Come il "dover essere", che non "costringe" né determina nessuno ma è dato alla libertà di ognuno, si distingue dai determinismi naturali e sociali, ai quali siamo anche soggetti. Platone
per primo pensa come bene in se stesso e non come valore strumentale (o come comando degli dei) la giustizia. Noi diremmo, come valore di virtù o valore morale, che conferisce la caratteristica assolutezza ai relativi doveri. E infatti, chiunque abbia anche solo una volta in vita sua sentito un'azione o una presa di posizione come un dovere, conosce bene il senso di tradimento di se stessi e delle proprie ragioni di vita che l'ipotesi di violarlo significa per lui (o lei). È il senso della propria dignità - dunque del proprio stesso valore, del valore della propria vita che viene meno. E così torniamo alla scoperta fondamentale di Platone. Nessuna vita umana ha più valore se "normale" diventa l'ingiustizia, nel senso che il torto fatto a qualcuno non appare come un torto fatto a ciascuno, un'offesa a quei basilari rapporti di valore su cui si fonda l'esercizio di una vita degna del nome di umana: per esempio, che la conoscenza sia meglio dell'ignoranza, la competenza meglio dell'incompetenza, l'insegnamento di un genio abbia più valore di quello di un cretino, la conservazione del patrimonio artistico comune sia più importante dell'opportunità di arricchirsi di chi può comprarlo e distruggerlo, e così via all'infinito. Tutte le relazioni di valore che abbiamo così esemplificato potrebbero essere espresse in "principi" più o meno generali, che, nella misura in cui sono ritenuti incontestabilmente veri, starebbero a fondamento di regole di comportamento "giusto". Chi per primo si oppose alla schiavitù dovette trovare parole che rendessero palese a ognuno la falsità dei principi fino ad allora taciti e incontestati - su cui le pratiche di schiavitù si basavano. In questo "rendere palese" e quindi effettiva, in quanto iscritta anche nella coscienza degli agenti, qualche fondamentale verità sui valori e quindi qualche "sco87 perta" esigenza nuova, sta l'importanza delle Dichiarazioni, queste profonde matrici razionali di diritto nella modernità. (13) Molte cose dunque ci insegna l'indignazione, se ne facciamo buon uso. Ci fa rivivere di bel nuovo le intuizioni essenziali cui la filosofia ha dato parole, e che ha posto alla base delle nostre civiltà. L'ultima verità che stiamo in definitiva esplorando è l'intuizione di Platone per la quale la giustizia come virtù del singolo non è separabile dalla giustizia come proprietà di una società bene ordinata. Ne abbiamo abbozzato una versione per la quale il valore della giustizia è quello di una condizione sine qua non perché la vita di ciascuno possa fiorire come vita buona, realizzata, felice per quanto a un essere umano è concesso. Dunque una sorta di minimo
etico. Dobbiamo articolare come conviene ai nostri tempi anche questa idea. Ma non c'è forse anche qualcosa di più che l'indignazione oggi ci insegna a proposito dell'ambito morale di realizzazione del valore giustizia - quello che riguarda specificamente gli obblighi reciproci delle persone? Forse sì. Se impariamo ad ascoltare le sfumature della nostra esperienza morale. All'indignazione di Marianna possiamo associarci senza difficoltà - ma fino a che Marianna s'indigna, e noi con 13. L. Hunt, La forza dell'empatia. Una storia dei diritti dell'uomo (2007), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2010. 88 lei, in un certo senso la giustizia è salva. È salva nella sua natura di esigenza - ed è salva quindi la vita di tutti noi che questa esigenza riconosciamo - è una vita piena di senso finché dell'ingiustizia soffriamo. Questa è l'enigmatica natura del bene, che illumina e riscalda anche quando è "lontano", ed è lungi dall'essere realizzato - anzi la sua luce si fa più forte quanto meno l'esigenza è realizzata. Proviamo un senso di solidarietà rispetto a Marianna. Ma la Trasimachina? Quella vera, che continua, poveretta, nel suo triste mestiere: cosa si può provare per lei? Pena per la sua disperata giovinezza, talmente disperata da offrirle come modello di eroe un ruffiano di corte, come protettore un re buffone, e come titolo di gloria la vendita di sé. Il paradosso è proprio questo, che il "rovesciamento dei valori" non ha più nulla di maudit, di ribelle e romantico, come in certe vecchie gioventù nietzscheane. Assomiglia sempre di più a quello che l'Italia sta subendo da se stessa - come da quelle oscene madri, da quegli orrendi padri e fratelli che istigano le ragazzine a vendersi care: il suicidio morale. Come se la perdita completa di valore che ogni vita umana subisce quando l'ingiustizia trionfa senza essere più riconosciuta come tale si fosse incarnata in un corpo, in una faccia, in un grottesco elogio del carnefice, il tutto nel format più appropriato all'immensa bugia dei nostri tempi: un video. Andatelo a vedere, c'è da imparare un plus ultra, sulla via del nulla. 89
11. Un Paese all'incanto L'immagine che chiude il paragrafo precedente rende abbastanza la duplice, sinistra realtà di un Paese all'incanto. Cioè, giocando sul doppio senso, di un Paese dove le risorse comuni e la legalità sono svendute, ossia vendute al miglior offerente in cambio di consenso o
addirittura di vantaggi particolari per i governanti (e gli amministratori), e dove perdura l'incantamento di una rimozione spettacolare del male che facciamo a noi stessi. Spettacolare anche nel senso che vi contribuisce lo spettacolo continuo di tutti i teatrini quotidiani dei media, dove il frastuono del nulla aiuta a stordirsi di scetticismo e rassegnazione. Il Paese all'incanto è ancora quello "tragico" di cui parlava Bobbio: quello dell'equazione tragica, ma del tutto ignorata, fra servi contenti e padroni gabbati. Pensiamo a tutti gli italiani che sopravvivono o prosperano attraverso concessioni di impunità, come evasori, cementificatori, inquinatori di ogni ordine e grado, da quelli che sversano soltanto mercurio e boro nelle foci dei fiumi e sotto le spiagge di Toscana a quelli che trivellano il mare di Lampedusa, già gonfio di cadaveri, alla ricerca del petrolio, dai costruttori di autostrade che spaccano contrade da sogno già servite da reti viarie foltissime, agli sventratori di montagne infinitamente più pre90 ziose dei loro inutili tunnel, dagli appaltatori di smaltimento di rifiuti tossici nei campi e nei pascoli, ai funzionari di protezione civile che tolgono protezione legale ai territori da devastare più in fretta; e poi eserciti forestali incendiari, collocatori di veline nelle reti televisive pubbliche, di spalaneve a Palermo e perché no di consulenti sugli scoiattoli nelle regioni ex industriali, e infine di faccendieri e prosseneti, avvocati, mezzane e giovinette disponibili... ed è solo un piccolo campione della nostra fantasiosa arte di arrangiarsi. Tutti questi italiani in fondo sono contemporaneamente servi appagati e contenti (come fornitori di servigi) e padroni gabbati (come cittadini, in compagnia di tutti noi). Un esempio fra migliaia: quell'edificante delegazione di sindaci campani del partito di maggioranza che nell'estate del 2010 avevamo visto, con la banda tricolore sulla pancia, correre dal loro leader oltre che primo ministro. Dove correvano? A chiedere al capo del governo italiano di fermare tutte le demolizioni di edifici abusivi ordinate dall'autorità giudiziaria. Ecco il doppio incanto: della ragione di questa visita nessuno parlò, l'attenzione nazionale essendo stata distratta da una barzelletta particolarmente greve dell'Imperatore su mele e organi sessuali femminili. Finito l'effetto della barzelletta, nessuno ne ha più parlato. Ma i sindaci 91 campani quello che volevano l'hanno tranquillamente ottenuto, nel silenzio più universale. (14) Dall'indignazione, abbiamo visto, qualcosa si impara. Ma dal disgusto, dalla nausea? Dalla vergogna, dall'umiliazione? C'è un
buon uso anche per questi sentimenti? Calpestato in fondo alla melma che ci è salita fino alla gola, dobbiamo recuperare l'intero contenuto moderno della giustizia come fondamento di civiltà, di polis e di civitas, la giustizia come fondamento della legge, come valore civile e politico. E in quest'opera da palombari forse qualcosa di nuovo, nel fondo di quel fondo, lo troveremo. Avevamo lasciato Socrate mentre, in risposta alla teoria contrattualista e convenzionalista della giustizia, si apprestava ad aprire, coerentemente con la sua razionale fiducia nella ricerca di conoscenze vere a proposito del fondamento assiologico delle leggi, l'immenso cantiere della ricerca sulle proprietà che deve avere una società per essere giusta. Cioè sul terzo dei sensi di "giustizia" che l'approfondimento della nostra 14. M. Travaglio, "Opposizione a sua insaputa" (in il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2011), sulle assenze più o meno casuali dei parlamentari dell'opposizione che non le hanno consentito di bloccare nessuno dei peggiori decreti di impunità, fra cui "la legge porcata su Protezione civile e rifiuti in Campania e la maialata che sospende le demolizioni di case abusive nella stessa regione". 92 coscienza di questo valore attraversa: la giustizia come proprietà del buon ordinamento giuridico di uno Stato. All'inizio di quelle pagine famose Platone abbozza la sua analogia fra l'anima e la Città: la proseguirà con la sua teoria della giustizia come la virtù del tutto - la figura della sua perfezione. La perfezione dell'anima ideale come quella della città ideale: giustizia è l'armonia o buon ordinamento delle parti e delle relative funzioni, corrispondenti ciascuna alla specifica virtù di ciascuna classe della città o di ciascun elemento dell'anima - sapienza (per i governanti e l'elemento razionale), coraggio (per i difensori dell'ordine e l'elemento animoso), temperanza (per tutti, e in particolare per i commercianti e gli artigiani, e per la parte dell'anima che vive di appetiti). Con questa celebre teoria Platone articola nel suo sistema la priorità di valore caratteristica del mondo antico e medievale, secondo la quale il bene della collettività è superiore al bene individuale e la vita della totalità è più importante di quella delle parti. Noi moderni temiamo questa tentazione totalizzante o totalitaria del pensiero platonico, e a ragione. In effetti, è come se Platone volesse incarnare la filosofia socratica nella Città - e questo è certamente il senso di una politica razionale, di una "scienza" politica, alla cui idea restiamo ancora debitori - ma tralasciando il solo "mezzo" 93 in cui può vivere l'esercizio di ragione - cioè l'aria respirabile della libertà degli individui,
dove l'esercizio della ragione si alimenta delle diverse e spesso incomponibili esperienze di valore. Allora fioriscono i dialoghi, e anche gli "urti" dei discorsi, là fra la piazza, il porto, il tribunale ci si esercita alla più desta consapevolezza critica, secondo la domanda socratica fondamentale: perché? Socrate si ferma a conversare con tutti e sembra ignorare le grandi caste del sogno platonico e la loro - per noi temibile "armonia". A chiunque incontra, chiede ragione delle sue azioni e convinzioni, insegnando a sostituire la ricerca di conoscenza e giustificazione alla tradizione e all'abitudine. Lungo la sua via, concludevamo in La questione morale, è cresciuto, nell'anima d'Europa, quasi tutto ciò per cui vale la pena di vivere: la libera ricerca nelle scienze, nelle arti, nell'etica, nel diritto, nella politica, nella religione. Aveva ragione Karl Popper allora, quando in La società aperta e i suoi nemici - annoverò Platone fra questi "nemici", e sostenne che l'allievo aveva tradito il maestro, Socrate? La questione è piuttosto accademica, dato che il Socrate che ci sta a cuore, quello che certamente non bisogna tradire, non è che un personaggio di Platone - o almeno è attraverso Platone che lo conosciamo. Eppure del disgusto, della nausea per ciò che la melma ha sommerso dei fonda94 menti della civiltà italiana faremo miglior uso se accettiamo di soffermarci anche su questo. Su questo aspetto essenziale e profondissimo della giustizia che è la libertà, e in particolare la libertà della ricerca in tutti i campi che abbiamo nominato.
12. Un Paese illiberale? Già, che ne è di quest'anima d'Europa? Il nostro, oggi, non è solo un Paese all'incanto, in cui con la legalità si svende il principio stesso della pari dignità e degli eguali diritti dei cittadini, in particolare quello della loro eguaglianza davanti alla legge. È anche l'unico Paese dell'Occidente in cui sono addirittura in questione la libertà della ricerca scientifica e clinica, il principio di autodeterminazione delle persone, la laicità dello Stato, e financo l'habeas corpus, l'indisponibilità del proprio corpo alle decisioni di altre volontà che la propria. Ma cosa ci è successo? Come abbiamo potuto divenire un Paese non solo ingiusto, ma anche illiberale? C'è una lunghissima tradizione, che si radica in Dante, nutre i pensatori italiani del Rinascimento, attraversa la
spiritualità liberale, universalistica della modernità, ravviva il pensiero dei Padri della Patria laici e cattolici, da Rosmini a Gioberti a Cavour a D'Azeglio a Cattaneo 95 a Mazzini e Garibaldi e molti ancora, si fa a suo modo sistema filosofico nell'idealismo di Bertrando Spaventa, e approda temporaneamente in requisitorie aspre e brillanti come quella recente di Ermanno Rea, o nella profondità di un'appassionata ricerca teologica, come quella di Vito Mancuso. (15) Per questa tradizione il cristianesimo è la religione della libertà in ciò che questa ha di più arduo e prezioso, la relazione dell'individuo umano alla trascendenza, dell'Io a Dio. Questa libertà che a ciascuno chiede che perfino del "massimo valore", il divino, si debba per tutte le vie umane fare personale esperienza e ricerca - dato che "verità" è il primo dei nomi di Dio. Talitha kumi, "Svegliati, ragazza", questo è quello che il Nazareno dice all'anima, mentre il Grande Inquisitore la culla invece nel suo dolce sonno dogmatico, facendosi per lei carico delle decisioni, delle scelte, di tutto l'angoscioso peso della libertà e della responsabilità. Non nell'arbitrio, ma nell'esperienza personale del valore e nel suo vaglio critico si fonda la "libera decisione del cuore". Ricerca del vero e libertà sono inscindibilmente legate - e in questo legame lo spirito d'Europa crebbe vigoroso: Socrate e Cristo non andavano per strade diverse. Per questa venerabile tradizione, senza dub15. E. Rea, La fabbrica dell'obbedienza, Feltrinelli, Milano 2011; V. Mancuso, Io e Dio, cit. 96 bio, è proprio nella nostra lingua che alligna già all'alba della modernità la coscienza moderna già pronta a trovare in se stessa, in questa incessante ricerca del vero e del giusto, anche al cospetto di Dio, l'origine delle norme su cui si reggono le civiltà umane. In se stessa, cioè nella capacità di conoscere e vagliare le verità su cosa sia ingiusto e cosa gridi vendetta al cielo, e non nei comandi del cielo: veritas, non auctoritas facit legem - purché per "verità" si intenda ciò che si conquista parzialmente e fallibilmente solo attraverso la libera ricerca. Tutto era già pronto nel nostro grande Umanesimo, ciò che faticosamente le Riforme protestanti e poi il giusrazionalismo moderno andavano conquistando: ci sono cose che sono dovute agli esseri umani anche se Dio non ci fosse, o non si curasse degli affari umani. Poi venne la Controriforma. E l'Italia, di lì a poco, fu terreno di conquista e di rapina, di servitù e di decadenza civile, di sudditanza morale, spirituale e politica. Mutò, avanzando fino al fondo delle coscienze, il significato del potere temporale della Chiesa. Poiché i grandi panorami
possono produrre un lieve smarrimento, anche per la vastità un po' vuota del loro profilo, ci divertiremo ad affiancare a questa grande visione una piccola e diversa, che non vogliamo necessariamente preferire - lasceremo agli storici di decidere l'intera questione. L'introduciamo anche per alleggerire la riflessione - e indirizzarla verso un tema che l'attualità 97 ha portato alla luce in tutta la sua insospettata profondità. Eccola: non è la Chiesa cattolica che ha rovinato l'Italia. È l'Italia, con la sua a-nomia o insofferenza per le regole, e dunque il rifiuto italiano dell'auto-nomia, della libertà capace di autodisciplina, che ha rovinato la Chiesa cattolica (italiana). (16) Una diagnosi che per certi versi sembrerebbe spiegare il fatto che le conferenze episcopali degli altri Paesi del mondo non hanno in genere alcun proposito liberticida, in particolare sulle questioni di fine vita.
13. Libertà e giustizia Sia come sia, questa cavalcata ci ha permesso di volgere lo sguardo ai secoli che hanno versato contenuti nuovi nell'antica formula della giustizia, suum cuique tribuere. Che cosa, infine, è dovuto a ciascuno? Lungo le vie della modernità e poi dell'Illuminismo questo suum si è riempito di un contenuto in continua evoluzione: i diritti 16. "Non credo che quest'ultima diffidenza per la riforma morale sia da imputarsi alla Chiesa cattolica, la quale ha prodotto solitari moralisti e accoglie nel suo seno l'incitamento di San Francesco, il più forte che abbia dato l'Italia nel campo della moralità. Piuttosto alla società italiana stessa è da imputarsi la Chiesa cattolica quale massima rappresentante di questa diffidenza contro il Pensiero, la Critica, la Riforma" (Vitaliano Brancati, "L'uomo d'ordine", in Il Tempo, 12 dicembre 1946). 98 "soggettivi". I diritti specificano ciò che è dovuto a ogni essere umano come tale - generazioni sempre nuove di diritti: negativi e positivi, civili e politici, sociali e culturali... La giustizia così intesa è l'idea matrice di quella che Bobbio chiamava l'età dei diritti, che comincia con la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789 e dura fino ai nostri giorni. Dove sta il grande salto fra la concezione platonica della giustizia e la nostra? Dato che ci vuole un gigante per rispondere a un altro gigante, lo impareremo da Kant. Vivere al modo umano è una faccenda abbastanza complicata, ma una caratteristica
della nostra umanità è sempre stata chiara e riconosciuta: le norme alle quali ci conformiamo non hanno lo stesso stato delle leggi di natura, perché possiamo violarle (per questo una "naturalizzazione dell'etica" non sarà mai convincente). Sono obblighi e non necessità, "doveri" e non determinismi. La loro esistenza è l'altra faccia della nostra libertà. Così nella figura di Eva o in quella di Antigone riconosciamo paradigmi di questa nostra condizione: un poter disubbidire, appunto, che chiamiamo libertà. Un potere che ci costituisce persone, potenzialmente criminali o anche santi, e che la sapienza poetica mitica e filosofica riconosce caratteristica dell'umano molto ma molto prima che nasca il concetto di libertà come diritto soggettivo, cioè il concetto dei diritti di libertà. 99 E cos'è questa libertà come diritto? Secondo Kant è l'unico "diritto naturale", vale a dire l'unica "legge" che non sia né legge di uno Stato, né "legge di natura" nel senso in cui lo sono quelle di Newton. Precisamente, è il titolo che ogni persona come tale detiene a decidere che cosa fare della sua vita - inclusa ovviamente la possibilità di non farne nulla o di buttarla via - perché possiede lei sola la competenza ultima a giudicare che cosa possa farne una vita felice o riuscita, che cosa sia "chiamata" a fare di se stessa. Attenzione a quel qualificativo, competenza "ultima". Significa che nessun altro - che rappresenti anche l'autorità divina o il potere dello Stato - può essere legittimato a decidere per lui della sua vita in ultima analisi (mentre ovviamente in prima analisi molti altri lo sono, finché non abbiamo raggiunto la "maggiore età"). Questa formulazione negativa - nessun altro può - mostra immediatamente dov'è la differenza con Platone, e dov'è il grande approfondimento della concezione moderna della giustizia rispetto a quella antica. Ammettere il diritto naturale alla libertà è già ammettere la pari dignità morale delle persone, e viceversa, ammettere questa parità comporta riconoscere che ciascuna ha questo titolo a decidere di sé. Non è certamente così nella Repubblica ideale di Platone, dove le gerarchie morali oltre che sociali sono ben chiare. In cosa consiste dunque questa svolta? Na100 turalmente nel riconoscere che ogni individuo umano è persona morale. Vale a dire, detiene la competenza morale ultima, e quindi il titolo a decidere, riguardo all'uso della libertà che lo costituisce (quella libertà riconosciuta come caratteristica della nostra specie ben prima che fosse riconosciuto e giuridicamente protetto il diritto di usarla). Questo riconoscimento è l'individualismo etico. Sulla sua base soltanto è stato possibile
rovesciare la gerarchia antica e medievale, secondo la quale il bene della collettività è superiore al bene individuale e la vita dello Stato più importante di quella delle persone. Un bel progresso cognitivo e morale. Che si fa più evidente al negativo. È impossibile giustificare, a maggior ragione è impossibile legittimare, rendere "legge" positiva, l'usurpazione della coscienza morale altrui. È impossibile non significa che non possa accadere, ma che deve non accadere. Significa che questa usurpazione rappresenta moralmente il massimo disvalore o il male assoluto, perché distrugge il fondamento della vita morale. Cioè della libera, consenziente soggezione al dovere: mi assoggetto perché è giusto, e vedo che è giusto, non perché lo vuole il babbo, o il re, o il papa, o il buon Dio. Forse riconoscere che ogni individuo umano è persona morale significa decretare che non esistono persone perverse, o criminali incalliti? Che ci si chiude gli occhi di fronte al "legno storto" dell'umanità, come 101 vanno predicando ai nostri giorni certi bizzarri immoralisti papalini? Ovviamente no - significa soltanto che si riconosce il principio dell'autonomia, senza cui non c'è morale perché la soggezione al dovere, o la sua violazione, non sono liberi atti della persona, e la persona non può dunque portarne responsabilità morale alcuna. Questa formulazione negativa ci consente anche di vedere meglio come mai questa rifondazione dell'ordinamento giuridico su una giustizia sostanziata di libertà non debba certo diventare giuridicamente permissiva rispetto al crimine. Come invece hanno sostenuto certi fautori ecclesiastici della legittimazione dello Stato a imporre trattamenti medici indesiderati, o a proibire la stessa espressione anticipata della propria volontà sul come essere trattati quando non si sarà più in grado di farlo. Il punto è che nessun altro individuo può decidere per me non solo cosa fare della mia vita, ma anche quali obblighi strettamente morali riconoscere. Ed è perfettamente ovvio che questo non significa che allora sarò "libero" di delinquere: a questo provvederà evidentemente il Codice penale. Ma la clausola precedente è assolutamente necessaria perché in quanto delinquente io sia non soltanto imputabile, ma personalmente responsabile dell'infrazione di leggi dello Stato, e più o meno responsabile, secondo i livelli di colpevolezza più o meno grave riconosciuti da ogni codice. 102 È questo fondamento della validità delle norme giuridiche che sono in vigore nell'ordinamento di un dato Stato, che viene con perfetta chiarezza esplicitato da Kant nella sua celebre definizione del Diritto
(nel senso dell'ordinamento giuridico di uno Stato). La giustizia, anzitutto, è direttamente caratterizzata come l'Idea del Diritto (dunque come il suo valore fondante, il valore interpretato dai suoi principi) - e questo in perfetta continuità con la tradizione antica. Ma ecco come l'approfondimento di questo valore, per il quale la giustizia appare tale solo se è sostanziata di libertà, cambia radicalmente le cose: il Diritto esprime le condizioni alle quali la volontà di ognuno può accordarsi con la volontà di ogni altro secondo una legge universale di libertà, (17) queste condizioni essendo appunto l'eguale trattamento ("legge universale") che ogni persona richiede in quanto persona morale o soggetto di libertà. Un'ultima considerazione su questo "richiede": non vuol dire "rivendica", semmai "rivendica a ragione". Ciò che quella definizione contiene è una caratterizzazione formale della società giusta, che mostra anche il decisivo progresso compiuto dalla filosofia politica di Kant 17. I. Kant, "Introduzione", in Metafisica dei costumi (1797), tr. it. Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 34-35. 103 rispetto a quella della Repubblica platonica. Una società non può essere "giusta" nel senso in cui lo è una persona. Non può essere "virtuosa" nello stesso senso: l'analogia platonica è suggestiva precisamente al prezzo di abolire la differenza fra un soggetto individuale e un soggetto collettivo - ovvero la libertà degli individui. Significa forse, questo, che una società non può essere "ingiusta"? Per niente affatto. Significa soltanto che ci sono ingiustizie le quali non sono necessariamente "torti" compiuti da qualcuno intenzionalmente su qualcun altro. Ingiustizie che sono disvalori di stati di cose più che di atti. Io, per esempio, potrei rivendicare un accesso all'istruzione pari a quello di altri più fortunati, sostenendo che altrimenti non godrei effettivamente di quel pari diritto a esercitare la mia libertà che pure mi è formalmente riconosciuto. Avrei ragione: certamente la società dei tempi di Kant non aveva ancora recepito questa giusta rivendicazione nel suo ordinamento giuridico. Ma certamente questa mia condizione sfavorita non dipenderebbe dalla cattiveria di Tizio o di Caio - non sarebbe un torto che subisco da qualcuno in particolare. Non vedere questa differenza è una terribile fonte di violenza, perché induce a cercare singoli colpevoli dove non ce ne sono. In effetti un valore è un "dover essere" prima che un dover fare: mentre ogni obbligazione pratica personale è fondata su un'esigenza ideale, ci 104 sono esigenze ideali che non sono anche obbligazioni pratiche personali, obbligazioni morali. E queste esigenze
ideali definiscono l'ambito dei progetti politici alternativi, e il campo di battaglia della politica (della politica, non della morale) o, per lo meno, della sua parte migliore. Ci possono essere svariati modi di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione pubblica, economica e sociale del Paese" - come recita l'articolo 3 della nostra Costituzione -, cioè diversi programmi politici. Con questa certamente non platonica ma moderna distinzione di morale e politica, di giustizia come valore di virtù e giustizia come valore di ordinamento giuridico, vediamo in exemplum quale sia la distinzione delle sfere della ragione pratica, e insieme la loro ultima unità. Quella che giustifica l'indignazione di fronte alle palmari violazioni della giustizia rese possibili da certe disposizioni di legge, e rende totalmente inappropriate le accuse - del resto a volte deliranti - di "moralismo", rivolte a chi si indigna. (18) Una cosa è certa: la concezione moderna del18. Un esempio di delirio, benché interessante e approfondito, è un attacco di Marina Valensise a Gustavo Zagrebelsky, "Il principe azzurro dei golpisti", in Il Foglio Quotidiano, 5 ottobre 2011. 105 la giustizia politica non solo non ne fa un valore opposto e conflittuale a quello della libertà, ma anzi un valore essenzialmente inclusivo di quello. L'esposizione così classica - tutta basata su Kant e le acquisizioni definitive dell'Illuminismo, che abbiamo fatto di questo approfondimento della nostra conoscenza del valore giustizia - ha almeno il vantaggio di rendere questo fatto completamente evidente. Del resto il più celebre neocostituzionalista contemporaneo, Ronald Dworkin, ha affermato che sono proprio le nostre intuizioni sulla giustizia a presupporre "non solo che le persone abbiano diritti, ma che fra questi vi sia un diritto fondamentale, addirittura assiomatico [...] [il] diritto all'eguale considerazione e rispetto", che non solo non si oppone, ma addirittura implica i diritti di libertà. (19) Dworkin contraddice "l'idea diffusa e pericolosa secondo cui l'individualismo [affermato dai diritti di libertà] sarebbe nemico dell'eguaglianza": errore comune agli egualitaristi e ai libertarians. Da noi però a quest'ultima categoria va sostituita quella di un "liberalismo" molto sui generis, curiosamente combinato con una perfetta indifferenza alle violazioni della libertà personale in materia di bioetica o addirittura di... tortura! (20) Dato poi
19. R. Dworkin, I diritti presi sul serio (1977), tr. it. il Mulino, Bologna 1982; ed. integrale 2010, pp. 14-15. 20. Vedi per esempio A. Panebianco, "Il compromesso necessario", in Corriere della Sera, 13 agosto 2006, dispo106 che questa specie autoctona di "liberali" ha il vezzo di far lezione di politologia a quei poveretti di neofiti dello "stato di diritto", i quali diventerebbero fondamentalisti per non saper bene di cosa parlano, dedichiamo loro le parole che un "neofita" e fondamentalista di nome Piero Calamandrei rivolge "contro la viltà, il cinismo, lo spirito di accomodamento degli intellettuali che pur di avere una commenda sono pronti a sostenere che si debba ristabilire la tortura". (21) Per non parlare delle ricorrenti tentazioni liberticide nei confronti della stampa o addirittura, ultimo disegno di una maggioranza di governo che non rimpiangeremo, della libera espressione in Rete. Del resto, che non sia affatto vero che questi valori siano "a somma zero", nel senso che promuovendone uno si indebolisce l'altro, ben prima che a Dworkin da noi era noto ai fondatori di Giustizia e Libertà, il movimento politico antifascista formatosi nel 1929 dalla confluenza di gruppi liberali di sinistra, repubblicani e socialisti che erano su posizioni critiche nei confronti dei partiti tradizionali dell'Italia prefascista. Bobbio riconosce, oltre che negli Elementi di un'esperienza religiosa (1937) di Aldo Capitini, nibile on-line: http://www.corriere.it/Primo_Piano/Editoriali/2006/08_Agosto/13/PAN EBIANC. ashtml 21. P. Calamandrei, "Pagine di diario", in Il Ponte, numero straordinario dedicato a Piero Calamandrei, XIV, supplemento al numero di novembre 1958, p. 217. 107 in La scuola dell'uomo (1938) di Guido Calogero un "breviario" di quel liberalsocialismo che nella reciproca implicazione essenziale dei due valori, giustizia e libertà, aveva il suo cuore pulsante. Guido Calogero fu in effetti autore del primo Manifesto del Liberalsocialismo, diffuso nell'estate del 1940, in cui giustizia e libertà appaiono come "specificazioni parallele di un unico principio etico". (22) E dopo che la storia della nostra giovane democrazia ci ha insegnato che tragedia fu la sconfitta politica del Partito d'Azione, il movimento che più limpidamente interpretava la grande tradizione dello studio moderno della giustizia, questa consapevolezza è di nuovo chiarissima nella critica, che un noto giurista e filosofo (da noi già citato a proposito del processo di "decostituzionalizzazione") ha recentemente proposto, della nozione puramente formale o procedurale della democrazia. Questa sarebbe
incapace di contrastare, "in assenza di qualunque limite sostanziale relativo ai contenuti delle decisioni legittime" (giustizia), la possibilità che "con metodi democratici si sopprimano, a maggioranza, gli stessi metodi democratici". (23) Ma su questo dramma, su quello che ci insegna, sulla necessità di procedere ancora oltre gli ultimi fondamenti riconosciuti dalla moder22. N. Bobbio, Autobiografia, cit., p. 45. 23. L. Ferrajoli, Poteri selvaggi, cit., p. 6. 108 nità nello studio della giustizia, abbiamo forse da aprire una prospettiva nuova, in conclusione di queste pagine.
14. A ciascuno il suo Dio È importante capire che la relazione all'assoluto deve essere resa al cuore degli individui, nel rispetto della loro libertà. In questa restituzione di un bene arduo, di cui pochi hanno veramente goduto nei millenni della storia umana, tanto che ogni tradizione li conta sulle dita delle mani, e li chiama "i giusti", è l'ultimo orizzonte che oggi riusciamo a vedere del "rendere a ciascuno il suo" che la giustizia è. Questo ultimo orizzonte l'abbiamo intuito fin dall'inizio della modernità, anzi, al di fuori delle teorie della giustizia, il pensiero teologico più profondo di ogni tradizione spirituale lo ha sempre intuito. Quello che ancora non ci è sufficientemente chiaro è la vastità delle conseguenze che l'effettivo godimento di questo arduo bene da parte di ogni individuo avrebbe sull'insieme della vita associata, materiale, civile e politica. È però fondato il felice sospetto che l'enorme successo di cui sta godendo il pensiero della libertà nella relazione al divino - tema dell'ultimo libro, già citato, di Vito Mancuso - proprio questo significhi: che è in atto, finalmente, una presa di coscienza vera109 mente allargata, "popolare", di questo che è infine l'ultimo fondamento della nostra maggiore età - e dell'intera modernità. Decine, centinaia di migliaia di persone scoprono, in parole piane e sincere, che non c'è altro luogo per Dio se non in loro stessi, né altra possibile "fede" fuori dal loro libero consenso. E questo avviene oggi e qui, nel Paese in cui era più radicato il potere temporale della Chiesa, e un suo riflesso tenace - il potere "spirituale", interiore dei partiti. Un simile rivolgimento interiore, così largamente diffuso, potrebbe avere conseguenze "esterne", civili e politiche, di insospettata vastità. Come
se fosse venuto il tempo di completare il motto di Agostino: la verità abita l'uomo interiore, ma quando i più l'avranno scoperto, essa si riverserà fuori, nel mondo. In realtà, tutte le gloriose rivoluzioni della modernità sono in un certo senso appese al chiodo più alto, l'appello della coscienza personale al cielo. Se Grozio difendeva il dovere di giudicare secondo coscienza, a prescindere da quale religione sia vera o se ne esistano di vere, se Locke descriveva la coscienza come un'intima persuasione della mente, senza la quale nulla può essere accettabile a Dio, (24) quello che anche oggi possia24. J. Locke, Lettera sulla tolleranza (1690), tr. it. in Scritti sulla tolleranza, a cura di R. Sala, La Nuova Italia, Milano 2004, pp. 11-51, p. 15. 110 mo sperimentare in noi stessi è che certe convinzioni di valore, costitutive della nostra stessa vita, ci impegnano (impegnano noi e nessun altro, ci impegnano solo dall'interno) a certi obblighi i quali presentano inconfondibili caratteri di assolutezza: sono obblighi incondizionati. Faccio un esempio solo per rendere evidente ciò che a una lettura superficiale potrebbe suonare dogmatico, o fanatico: se la mia università venisse comprata da una istituzione contraria alla libertà di ricerca e di insegnamento, mi apparirebbe come dovere assoluto il non deflettere, quotidianamente e pubblicamente, di una sola virgola da questo esercizio di libertà, la rinuncia al quale infanga il mestiere e prostituisce la mente; se poi questa istituzione, senza avere un potere legale di farlo, pretendesse il rispetto di certi limiti della ricerca e canoni dell'insegnamento definiti da lei e non da chi ricerca o insegna, dovere assoluto mi apparirebbe quello di opporsi pubblicamente a questa pretesa, oltre che di ignorarla nel lavoro; se infine questa istituzione avesse il potere di rendere legale questa pretesa, riducendo quindi un luogo di ricerca e insegnamento allo statuto di un club privato nel quale si entra solo se si accettano le sue regole, il dovere incondizionato sarebbe di denunciare pubblicamente ogni giorno l'arbitrarietà di questa pretesa quand'anche fosse legalizzata (perché la libertà non si compra), fino a farsene cacciare. Natural111 mente, sono tutte ipotesi fantastiche, meri esperimenti mentali. Ma vorrei fare un altro esempio, l'esperienza del quale è certamente più diffusa: i partiti. Prendiamo un grande partito d'opposizione, magari di nobili tradizioni e storia. Militate in quel partito, e senza dubbio lo fate in ultima analisi per contribuire a promuovere una società più giusta (e perché se no?). Venite a sapere con certezza che nel partito ci sono amministratori della cosa pubblica -
per esempio di regioni, provincie, comuni - che trafficano anche loro con la legalità e le risorse comuni, svendendole in cambio di consensi o altri vantaggi per il partito (lasciamo perdere il caso dell'arricchimento personale). Non sentireste il dovere assoluto di opporvi con trasparenza e forza a questi metodi, affrontando a viso aperto chi, adottandoli, toglie valore e senso al partito stesso e al vostro impegno in esso? E non sarebbe evidente che se tutti facessero così nessun abuso del genere potrebbe più aver luogo? Ma allora perché quasi nessuno fa così, o meglio, non lo fa se non al riparo di fidate consorterie entro quella maggiore del partito, in modo che non c'è mai una battaglia per la questione morale (l'ultimo che la fece non finì molto bene) ma solo conflitti di correnti? Occorrerebbe partire da questo dato per riflettere, senza pregiudizi ed etichette pronte ("qualunquismo"), sulla pa112 gina ardente in cui Simone Weil constatava che "a causa della necessità, che obbliga a entrare in un partito per prendere parte efficacemente agli affari pubblici", e a causa del fine dei partiti stessi, che è "la loro propria crescita, e questo senza alcun limite", e infine del "meccanismo di oppressione spirituale e mentale" che anche i più sgangherati fra loro debbono esercitare per non morire, "i partiti sono un meraviglioso meccanismo in virtù del quale, in tutta l'estensione di un Paese, non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo di discernere, negli affari pubblici, il bene, la giustizia, la verità. Se si affidasse al diavolo l'organizzazione della vita pubblica, non saprebbe immaginare nulla di più ingegnoso". Sembra sentir parlare di un nostro talk show, non della Francia del 1942. E l'impressione si rafforza man mano che si prosegue nella lettura: sembra si parli delle discussioni di oggi, dove lo spirito di parte dilaga ridicolmente sul mondo dei fatti, divorandolo: "Siamo arrivati al punto di non pensare quasi più, in nessun ambito, se non prendendo posizione 'pro' o 'contro' un'opinione e cercando argomenti che, secondo i casi, la confutino o la supportino [...] Significa aver perso completamente il senso stesso del vero e del falso". (25) Invece di dedurne l'auspicio che vengano 25. S. Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici (1942), tr. it. Castelvecchi, Roma 2008, pp. 31-54. 113 soppressi i partiti, però, se ne può ricavare uno sguardo diverso su quella che sopra abbiamo chiamato la tragedia che fu la sconfitta politica del Partito d'Azione. Per lo Stato italiano lo fu ma forse proprio perché, come suggerisce Bobbio, non era nella natura di questo "orientamento della coscienza" di diventare un partito. Per le
esatte ragioni che Simone Weil chiarisce. Non si può servire Dio e Mammona, la ricerca del vero e la forza del consenso organizzato. Tutt'altra cosa sono i circoli, le spontanee associazioni di libero (e gratuito) impegno per le cause civili: le sole che in Italia, negli ultimi anni, abbiano tenuta viva la speranza del riscatto civile. E non è casuale che una fra di esse abbia quasi ereditato il nome di quella sconfitta ("Giustizia e libertà"), e lo abbia trasformato in una speranza ("Libertà e giustizia"). La differenza non sta nell'assenza di organizzazione collettiva. Sta nel non avere altro centro di gravità che gli individui che in prima persona si impegnano, senza carriera né gerarchia. Perché "l'intelligenza è sconfitta dal momento in cui l'espressione del pensiero è preceduta, esplicitamente o implicitamente, dalla paroletta 'noi'. E quando il lume dell'intelligenza si spegne, nel giro di poco l'amore del bene si perde". (26) 26. S. Weil, La prima radice (1943), cit., p. 34. 114
15. L'età dei doveri e la Repubblica L'assolutezza di un'obbligazione non ha dunque alcuna necessaria relazione al fatto di professare o no una qualche fede religiosa, benché indubbiamente abbia a che fare con l'assoluta esigenza che Platone chiamava il Bene, e qualche volta anche dio. Solo che questo dio non c'entra nulla né con Chiese né con Stati. Questa fu l'intuizione irrinunciabile di Kant. Del resto, nei grandi rivolgimenti civili che hanno segnato la storia, fame e sete, cioè l'oppressione dei bisogni materiali, giocano quanto fame e sete di giustizia, cioè la percezione di questo valore come più prezioso della propria stessa vita. Ogni volta che il pensiero pratico si rifonda, si rifonde nel suo culmine. E a conclusione di questa riflessione vorrei fare l'esempio di uno di questi momenti di rifondazione-rifusione, che è ancora troppo poco noto e che vale invece la pena di conoscere meglio, se non altro perché, nascendo dalla più radicale esperienza di "perdita della patria", o "sradicamento", esemplifica la necessità di ripensare i fondamenti di una civiltà nuova dalla stessa profondità di quella radice in noi - ex interiore homine. Si tratta dell'immenso ultimo testo di Simone Weil, scritto a Londra nell'anno della sua morte, il 1943, e pubblicato postumo col titolo di L'enracinement (La prima radice). La sua pri115 ma parte è un Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l'essere umano. Questa prima parte
è esattamente uno studio della giustizia nel senso di Kant: ciò la cui assenza dalla Città provoca la perdita di valore della vita delle persone. È un'analisi serrata precisamente di quell'esperienza di svalorizzazione radicale della nostra vita che noi conosciamo bene, e che equivale a una specie di morte interiore. Eccone l'incipit: La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata. Un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l'obbligo cui corrisponde; l'adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa. (27) Il dovere di rispettare il vincolo di giustizia (riconosciuto per tale) che una costituzione pone all'arbitrio politico del legislatore è per il cittadino, sia egli semplice elettore o rappresentante eletto, fondamento ultimo della vita civile e politica. È dunque non soltanto un dovere di lealtà alla costituzione che nessuna lealtà ad altre associazioni (chiese, partiti) dovrebbe minare, ma è anche il dovere di attuare di persona quel poco o tanto di (maggior) giustizia che è in potere del singolo attuare: leggere nelle circostan27. S. Weil, La prima radice (1943), cit. 116 ze gli obblighi che la presenza degli altri, anche muta, ci pone. (28) Il dovere di rispettare il vincolo costituzionale, in ogni caso, sta all'insieme dei diritti che la costituzione promuove, e la politica dovrebbe realizzare, come il valore intrinseco sta a quello strumentale e l'assoluto dell'obbligazione al relativo dell'esigibile. C'è una tensione fra l'assolutezza di quest'obbligo e la relatività dei beni per i quali si lotta nell'agone politico. Quando si parla di "conflitto di valori" si sta in realtà parlando di conflitto fra beni relativi che soddisfano differenti bisogni umani. E questa è una grande lezione da approfondire per conciliare il pluralismo che vogliamo con il rigetto del relativismo, cioè infine dello scetticismo pratico. Ma che il dovere fondi il diritto (e non stia semplicemente sullo stesso piano) è una conseguenza della natura del valore. Un disvalore esiste in un male che c'è, un valore è un bene che dovrebbe esserci anche se non c'è, dunque un'esigenza - un'esigenza ideale, un dover essere prima che il dovere pratico di qualcuno. "Ideale": il Bene è "al di là dell'essere". Questa è la sua "trascendenza". Nulla è più cieco e stolido allora del linguag28. T. Greco, "Prima il dovere. Una critica della filosofia dei diritti", in S. Matterelli (a cura di), Doveri, Franco Angeli, Milano 2007, p. 27. 117 gio in uso nel dibattito pubblico, che al "non dovrebbe" oppone i fatti, la realtà, il mondo, la storia. Ma niente è più equivoco che opporre
questa "trascendenza", chiamandola Dio e parlando in suo nome, alla nostra ragionevolezza e sensibilità che vedono e soffrono l'ingiustizia. Guai a denigrare l'Illuminismo. Kant è illuminista ed è uno dei grandi ispiratori di Weil insieme a Platone. È uno dei maestri della riflessione sui valori: cioè di ciò che in definitiva è per Weil la filosofia. (29) La riduzione weiliana delle grandi nozioni di libertà, democrazia e diritti dell'uomo alla "zona dei valori di mezzo" non equivale affatto a un atteggiamento di disprezzo nei loro confronti, che opporrebbe un pensiero teopolitico e antiumanistico al grande sforzo illuministico di fondare le civiltà in ragione. Semmai c'è un tentativo di ap29. Così, nel saggio del 1941, Riflessioni sulla nozione di valore, Weil dopo aver introdotto questa tesi - "La nozione di valore è al centro della filosofia. Ogni riflessione che porta sulla nozione di valore, su una gerarchia di valori, è filosofica; ogni sforzo di pensiero che porta su un oggetto altro dal valore è, se lo si esamina da vicino, estraneo alla filosofia" - parla di "una tradizione filosofica verosimilmente antica quanto l'umanità e che, bisogna sperare, durerà quanto questa; a questa tradizione come a una fonte comune si ispirano non tutti quelli che si dicono filosofi, è vero, ma parecchi di essi, tanto che i loro pensieri sono all'incirca equivalenti". E fra questi, oltre a Platone, cita Cartesio e Kant, e fra i contemporanei il suo maestro Alain e Husserl (S. Weil, Oeuvres, Gallimard, Paris 1999, vol. 4, pp. 121-126). 118 profondimento della ragione pratica, proprio nel suo essere chiamata a "fondare una civiltà nuova" sulle rovine della Seconda guerra mondiale. E appunto questo approfondimento sta anzitutto nell'indagine di alcune "esigenze ideali", per dirla in termini fenomenologici, che sono veri e propri "bisogni dell'anima". Perché "dell'anima"? Anzitutto l'autrice non parla solo di bisogni dell'anima, anzi dice che i bisogni, tutti, vanno identificati per analogia rispetto a quelli basilari e universalmente riconosciuti, che in genere identifichiamo con quelli senza i quali è offesa o minacciata la nostra vita fisica: bisogni di nutrimento, di riposo e di attività, di calore e di frescura, di alloggio e vesti ecc. Ma tutti sappiamo che non di solo pane vive l'uomo. E qui abbiamo un altro punto da non banalizzare. Non si tratta di contrapporre l'anima al corpo come l'interno all'esterno. Si tratta finalmente di comprendere il nesso fra valori strumentali e valori intrinseci. Senza pane non si può vivere, ma solo per mangiar pane non vale la pena di vivere. Siamo di nuovo qui, al grande disgusto, alla grande nausea da cui siamo partiti. L'analisi di Simone Weil è
precisa ed empirica, o meglio fenomenologica. Attraversa tutto intero il senso della frase di Kant, ci mostra in tutti gli aspetti che cosa vuol dire il venir meno dell'anima in noi - e che cosa la fa vivere. Di 119 quali valori viviamo. E qui, finalmente - non là, nella trascendenza dei valori, dove abbiamo visto i nessi d'essenza fra giustizia e libertà, fra libertà e (ricerca di) verità, fra giustizia e bellezza, ma in noi, nella nostra natura finita e mortale -, noi ritroviamo le tensioni e le opposizioni di cui siamo fatti (il legno storto), le opposizioni il cui difficile equilibrio costituisce la vita. Qui riscopriamo che abbiamo bisogno di libertà ma anche di obbedienza, di eguaglianza ma anche di gerarchia, di onore ma anche di punizione, di sicurezza ma anche di rischio, di proprietà privata ma anche di proprietà collettiva. Soprattutto riscopriamo "il più sacro" di tutti i bisogni, quello che mai una civiltà degna del nome può trascurare: quello di verità, e quindi di libertà, di ricerca, di conoscenza. Rivediamo Socrate. Qui i giovani progettisti di civiltà nuove, che speriamo veder finalmente venire al mondo, dovrebbero andarsi a studiare la delicatezza estrema degli equilibri e della trama di obbligazioni non conflittuali su cui si regge una democrazia. Anche questo c'entra ancora con la bellezza, l'armonia e l'equilibrio delle forze (l'"ordine" della vita, direbbe Vito Mancuso, forse). Se è l'età dei doveri che Simone Weil annuncia, questa certo non sostituisce, ma semmai approfondisce la coscienza propria dell'età dei diritti. E allora perché rinunciare al piacere di ritrovare questo stesso filo di pensiero che dall'obbli120 gazione personale la più incondizionata perché la più libera, attraverso lo studio della giustizia, arriva a riconoscere una forma di virtù (e di coerente iniziativa personale) indispensabile alle democrazie, nella virtù civica. Che è il sentimento di ciò cui mi obbliga il vincolo di una Costituzione vagliata e riconosciuta "giusta". Ritroviamo questo filo nell'albero genealogico di quell'atteggiamento dell'anima" che fu degli azionisti, e che oggi chiamano "repubblicanesimo". (30) Vi figurano un bel po' di padri della patria, da Giuseppe Mazzini di cui tutto il mondo conosce il trattatello Dei doveri dell'uomo, (31) a Carlo Cat30. P. Pettit, Republicanism - A Theory of Freedom and Government, Oxford University Press, Oxford 1997,2010; M. Viroli, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Laterza, Roma-Bari 1995,2001; La libertà dei servi, Laterza, Roma-Bari 2010; N. Bobbio, M. Viroli, Dialogo intorno alla repubblica, Laterza, Roma-Bari 2001; A. Ferrara, "Il
repubblicanesimo politico e la forza dell'esempio", in La forza dell'esempio, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 130-154. 31. Il busto di Mazzini spicca lungo il West Drive a Central Park, New York City, dove fu collocato nel 1878. Mentre solo nel 1949 fu finalmente eretta una statua a lui dedicata a Roma: benché fosse pronta nel 1929, che però era l'anno del Concordato, e fu rifiutata. Dei doveri dell'uomo (1860), ora pubblicato da Rizzoli, Milano 2010, ispirò e strappò parole d'ammirazione a molti grandi: da Gandhi, che nel 1905 descrisse Mazzini come suo antenato spirituale, a Woodrow Wilson, che nel 1919 dichiarò di essere stato guidato dai principi che Mazzini aveva brillantemente espresso. 121 taneo che i federalisti padani hanno tentato di trascinare nel loro fango, mentre ogni sua pagina vibra dell'idea che "se non hai dei cittadini disposti a essere vigili, a impegnarsi, capaci di resistere contro gli arroganti, di servire il bene pubblico, la repubblica muore, diventa un luogo in cui alcuni dominano e gli altri servono". (32) Vi figurano alcuni grandi antifascisti: filosofi come Aldo Capitini, che certo non avrebbe avuto bisogno di imparare da Simone Weil l'idea dei "bisogni spirituali" come radice ultima di giustizia di una società, (33) come Piero Martinetti, pensatore della libertà e della coscienza che non solo rifiutò di giurare fedeltà al fascismo, ma delineò alcuni tratti della nozione ampliata di giustizia come il dovuto al mondo, in particolare ai viventi sensibili, gli animali; come Guido Calogero, che precisamente nella libertà di coscienza individuò l'esempio basilare di diritto fondato su un obbli32. M. Viroli, Per amore della patria, cit., p. 10. 33. "Bisogna non solo che ciascuno abbia secondo il proprio lavoro, come vuole il socialismo, ma che ciascuno abbia secondo i propri bisogni spirituali. Il che significa mantenere nel mondo sociale quell'organizzazione che ha il compito di facilitare lo svolgimento e l'espressione di tutti. I bisogni spirituali sono attestati dall'espressione (che è il lavoro, considerato, però, in un significato più intimo); ed espressione è soprattutto arte, religione, filosofia, il perché della vita, la ricerca [...] Questo problema involge ricerca e dunque libertà, e dunque responsabilità come attività seria e dominante" (A. Capitini, Liberalsocialismo 1937-1949, Edizioni e/o, Roma 1996, p. 27). 122 go assoluto, e costruì su quel fondamento la sua filosofìa. (34) Vi figurano generosi uomini di pensiero, di legge e di azione, come Piero Gobetti, perseguitato ed esiliato, che pagò non soltanto il suo innovativo pensiero politico, ma anche le sue famose parole: "Che ho a che fare io
con gli schiavi?"; come Piero Calamandrei, con le pagine del suo Diario scritto "tanto per far sapere a me stesso [...] che c'è almeno uno che non vuol essere complice"; (35) come Carlo Rosselli, che pagò con la vita, nel 1937, il suo progetto di fondazione di una civiltà nuova di vera "giustizia e libertà"; come Eugenio Colorni, che insieme con Altiero Spinelli e Ernesto Rossi progettò a Ventotene un'Europa libera e unita, e morì assassinato sulla porta della Liberazione; come Antonio Giuriolo, che sembra si rivolga a noi quando, prima di morire partigiano, parlando del dovere dello scrittore di partecipare alla vita politica senza sostituirsi ai politici aggiunge però: "Anche questo può rendersi talvolta necessario, in certe situazioni estreme, quando cioè si verifica un'insanabile frattura tra lo stato d'animo di una nazione e la classe dirigente e quest'ultima si chiude in caste e monopolizza e sfrutta il potere, al solo fine di coglierne privati vantaggi: l'inizia34. G. Calogero, Filosofia del dialogo, Edizioni di Comunità, Milano 1969. 35. Vedi N. Bobbio, Maestri e compagni, Passigli Editori, Firenze 1994, p. 108. 123 tiva passa allora sempre alle forze morali che si levano compatte a ristabilire le basi della vita sociale su un nuovo e migliore equilibrio". (36) Come tutti i ragazzi che gli credettero, e diedero la vita per questa sognata Repubblica, e molti altri, ai nomi dei quali solo i nostri limiti di memoria e di tempo impediscono di rendere l'onore dovuto. A tutti loro certamente si adatterebbero queste parole di Luigi Meneghello: Così deve essere stato per i primi cristiani quando gli arrivava un apostolo in casa. Antonio non era solo un uomo autorevole, dieci anni più vecchio di noi: era un anello della catena apostolica, quasi un uomo santo [...] Sapevamo appena ripetere qualche nome, Salvemini, Rosselli, Gobetti, Gramsci, ma la virtù della cosa ci investiva. Eravamo catecumeni, apprendisti italiani. (37) 36. Ibidem, p. 199. 37. L. Meneghello, I piccoli maestri (1976), Rizzoli, Milano 2009, p. 85. 124
Filosofia del risveglio
16. Due modelli di normalità Guido Calogero formula in molti modi il problema fondamentale della democrazia. Traiamo questa dal suo testo filosofico forse più importante: Dato che una democrazia è definita dal fatto che debbano essere soddisfatte le preferenze del più gran numero, che cosa avviene se il più gran numero preferisce sopprimere la democrazia? (1) A questa domanda, evidentemente, avevano risposto le "costituzioni rigide" del secondo dopoguerra, con i vincoli imposti alla politica dai diritti costituzionalmente definiti, che delimitano quella che il giurista da noi già citato ha definito la sfera dell'indecidibile. (2) Ma di fronte, dapprima, alla "costituzione inattuata" di cui abbiamo evocato sopra i tristi anni, e al processo di decostituzionalizzazione selvaggia cui stiamo assistendo adesso, cominciamo tutti a vedere che non sono il (sacrosanto) costituzionalismo né la filosofia del diritto né la filosofia politica da soli che possono aiutarci a capire il vero fondo del problema. Questo fondo lo troveremo solo se scaveremo più in profondità alla radice del pensiero pratico, là dove politica, diritto, etica si connettono nell'ultimo e più generale concetto della ragione pratica. Cominciamo a intravedere che cosa, a differenza di quanto i più hanno creduto, occupa quel luogo - e ci accorgiamo di averne parlato fin dall'inizio: il valore, nella sua presenza alla questione "che fare?". Cioè nella sua forma di esigenza e obbligazione. Ma, come dicevamo all'inizio, l'essenza del valore è data solo nei risvegli. E allora, l'ultima cosa che ci resta da fare per contribuire al risveglio necessario oggi e qui è esplorare con più attenzione un dato che è forse una delle scoperte morali della filosofia del Novecento. Ciò che è avvenuto in Germania nell'anima di innumerevoli persone, e che ha consentito, per dirla con Calogero, che il più gran numero si avvalesse della democrazia per sopprimerla, ha trovato un nome: "banalità del male". Ma chi ha studiato la fenomenologia di ciò che è avvenuto in Italia nella stessa epoca? E quella di ciò che può avvenire ancora? Anche il male parla l'una o l'altra lingua, ha connotati culturali e spirituali specifici, come il bene, e come la mescolanza del bene e del male. Inoltre tutto lascia oggi pensare che il fenomeno descritto sotto specie germanica, e più
esemplificato sul personaggio di un gerarca nazista che spiegato, non fosse che la cima dell'iceberg che dobbiamo esplorare nella sua enorme parte sommersa per trovare la giusta profondità per il fondamento possibile del pensiero pratico. Abbiamo appena visto che, qualunque cosa ne pensasse Platone, non può esserci società giusta senza soggetti di libertà, persone morali. Una riprova meravigliosamente evidente e intuitiva di questo fatto la troviamo in quel celebre romanzo di Aldous Huxley, Brave New World, che si può in effetti leggere come una parodia attualizzata di una Repubblica platonica. Scritto nel 1932, ambientato nell'anno 2540, il romanzo descrive una società il cui motto è "Comunità, Identità, Stabilità". Nonostante questa utopia dell'orrore sia modellata dall'idea fordista della produzione in serie, che si applica anche alla produzione extrauterina di embrioni umani, parodia parossistica del comunismo delle donne e dei bambini nella Repubblica platonica, oggi a noi interessa molto più questa fenomenologia dell'uniformazione e del conformismo sociali che la sua forma industrialistica, contingente e caduca. Gli esseri umani in questa società sono divisi in caste, ottenute tramite un ritardo controllato dello 129 sviluppo degli embrioni, e le caste riproducono grosso modo quelle platoniche, salvo che l'ultima è divisa ancora in tre, di grado via via inferiore. All'educazione si sostituisce l'ipnopedia o condizionamento, e il sogno del Grande Inquisitore è pienamente attuato, anche grazie all'uso quotidiano degli antidepressivi. L'umanità è sana, prospera, pacifica e "felice", finalmente e definitivamente sottratta ai tormenti della libertà personale. Sullo sfondo di questa distopia è ora possibile rispondere alla parte non accademica della questione se Platone abbia veramente "tradito" il suo stesso Socrate. O meglio, trasporla in un confronto fra possibilità antropologiche che nell'homo socraticus e nell'"uomo in grande" della città platonica sono prefigurate, per quanto impossibile fosse per Platone prevedere che la sua grande idea avrebbe potuto inverarsi in un male assoluto. Una tesi di La questione morale è che, naturalmente, questa questione non riguarda solo i comportamenti dei politici, e nemmeno soltanto la crisi della rappresentanza dell'interesse pubblico da parte della politica, ma ha a che fare con i nostri mores, con la nostra vita quotidiana, con la qualità della nostra esperienza e della nostra maturità personale. È in questo senso una questione antropologica: dietro i diversi modelli di società che ispirano le diverse volontà politiche 130 in competizione si profilano diversi,
non necessariamente espliciti, modelli di umanità, più esattamente di "normalità" personale. Il modello di normalità personale che abbiamo in mente quando parliamo di "personalità adulta" o "matura", che possiamo caratterizzare mediante le nozioni di autonomia e di responsabilità, è una possibilità, non certo una necessità della nostra natura. Quello che la storia recente ci insegna è che le comunità umane, anche quelle che hanno sviluppato istituzioni come la democrazia, possono facilmente farne a meno, come Aldous Huxley vide assai bene quando prospettò la sua società di ipnotizzati morali. C'è normalità e normalità, nella vita quotidiana degli uomini. La Grecia ha inventato l'etica e la politica. E i nostri modelli educativi mirano a formare esseri umani capaci di libera decisione, di responsabilità, di veglia morale e riflessione critica - detto altrimenti, "capaci di pensare con la propria testa". Questo modello è precisamente quello socratico, che potremmo anche chiamare il modello della veglia morale. L'altro, il modello degli ipnotizzati morali, rivela una fenomenologia che, nella sua declinazione italiana, è ancora tutta da esplorare. Il lettore ci perdonerà se gli chiediamo quest'ultimo sforzo: approfondire le condizioni di possibilità di entrambi i modelli.
17. L'animale normativo e cooperativo L'insofferenza italiana delle regole, meditata a fondo, ci introduce a una questione di profondità prima insospettata, e di portata non sociologica, ma antropologica e filosofica. A cosa servono le regole? L'uomo è essenzialmente animale normativo. Questo vuol dire che, mentre gli altri primati vivono in base agli istinti, tutta la nostra vita è invece soggetta a norme. Bisognerebbe imparare a sentire, nella parola "normalità", proprio il senso pervasivo della normatività radicata nel nostro comportamento quotidiano e nella nostra vita cosciente, quasi nessuno stato escluso, che si tratti di azioni, decisioni, emozioni, pensieri, percezioni. Sorprendentemente, gli attuali studi sulla coscienza - esplosi in quantità e qualità fra i filosofi analitici in seguito alla fioritura delle neuroscienze - non rilevano, o rilevano molto poco, questa componente normativa di qualunque stato cosciente. Eppure è il fenomeno più vivido e cospicuo di tutta la nostra vita cosciente, vista dall'interno ma anche vista dall'esterno: tutti i nostri stati sono per così
dire soggetti alla questione implicita o esplicita sulla loro "giustezza", "adeguatezza" - in qualche rispetto. Una percezione può essere illusoria, e per questo la percezione è tanto fallibile quanto correggibile - in effetti noi costruiamo l'insieme dei nostri comportamenti sul presupposto che le nostre percezioni siano veridiche. I giudizi possono essere erronei. Un'emozione può essere inappropriata, un sentimento per esempio disprezzo o rancore - infondato, una decisione più o meno opportuna, conveniente, giusta. Neppure l'immaginazione si sottrae a questa pressione della norma. Provate a immaginare veramente una scena alla Escher. Non vi riuscirete più di quanto riusciate a ottenere una percezione "coerente" di un suo disegno. Forse solo il sogno si sottrae alla coscienza normativa che attraversa ogni nostro fare, dire, pensare, percepire, sentire. Ognuno di questi stati è potenzialmente soggetto al dubbio. Appare più o meno adeguato, corretto, opportuno, riuscito... Più o meno aggiustato, giusto. Più o meno "come si deve". Più o meno conforme a ciò che è richiesto, a ciò che è "esatto" (da esigenza). E se dal punto di vista interno passiamo a quello esterno l'evidenza del normativo è ancora più schiacciante. Quando vediamo gli altri fare cose, esprimere pensieri, rendersi o no conto delle circostanze, avere o no percezioni corrette, prendere o no decisioni adeguate, parlare come si conviene o no - cosa facciamo se non sollevare tutto il tempo questo interrogativo normativo? In conclusione, l'anima di ogni cultura - a cominciare dalla sua stessa grammatica, la lingua di quella cultura è un'anima normativa, è in qualche modo coscienza di un dovuto. Nell'esempio 133 della lingua lo si vede con la massima chiarezza. Nessuno parla come gli passa per la testa, perché non parlerebbe affatto. Parlare è piegarsi alle norme di senso della lingua in cui si parla... Ma c'è un'altra differenza fra noi e gli altri primati, che è importante mettere a fuoco quando ci interessiamo alla natura delle società umane. È una differenza che sta alla base di questo stesso nostro vivere nelle norme. La scienza ha detto molto su di essa, recentemente. La differenza è minima in termini genetici, eppure enorme all'apparenza. Come mai? Per piccola che sia stata, la mutazione genetica da cui avremmo origine, questa l'ipotesi, ha fatto di noi degli animali cooperativi. (3) Noi abbiamo delle capacità naturali di base, manifeste fin dal nono mese di vita, in cui questa attitudine cooperativa si fonda e sviluppa. Noi sappiamo veramente imitare, cioè non semplicemente copiare le azioni, ma capire le loro intenzioni e
riprodurle: mentre le scimmie, quand'anche scimmiottino, sanno solo "emulare": cioè al massimo sanno imitare l'uso di un mezzo per scopi che già hanno indipendentemente. Non apprendono per imitazione fini e intenzioni nuove. Non imparano le regole di gio3. M. Tomasello, Why We Cooperate, The MIT Press, Cambridge, ma, 2009; Le origini della comunicazione umana (2008), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2009; Le origini culturali della cognizione umana (1999), tr. it. il Mulino, Bologna 2005. 134 chi per loro nuovi, come i bambini anche piccolissimi. Non imparano a scambiarsi il ruolo nei giochi, quindi a relativizzare il proprio punto di vista sulla realtà, a capire che ce ne sono anche altri, a vedere il mondo anche dal punto di vista di questi altri. Non sanno condividere l'attenzione, e quindi il riferimento a un comune contesto: e per questo non capiscono l'atto basilare della comunicazione umana, il puntare il dito. Non sono fatti per condividere un linguaggio, e neppure una cultura materiale. I primati che imparano a lavare le patate prima di mangiarle, o non trasmettono veramente quest'arte ai nipoti oppure la cosa non fa gran differenza perché questa possibilità viene di tanto in tanto riscoperta dalle nuove generazioni ma si riparte sempre da zero: non c'è alcuna accumulazione di conoscenza. Non c'è propriamente crescita tramite accumulo e innovazione, nel mondo animale. Un altro dato è ben noto: siamo gli animali dall'infanzia più lunga, quelli che impiegano più tempo a guadagnare l'indipendenza vitale. Questo non sorprende, data l'immensità del sapere implicito, teorico e pratico, che chiamiamo senso comune, e nell'apprendimento del quale consiste l'apprendistato alla vita umana. Fra l'infinito numero di cose da apprendere ci sono innumerevoli regole implicite, che si assorbono partecipando alla vita della comunità in cui si nasce, insieme con gli abiti, i modi di agire, di sentire, di pensare, le 135 scale di valori e la distribuzione di ruoli, quindi di diritti e doveri, propri di quella comunità: in breve, la sua cultura - insieme con la grammatica profonda di questa cultura, la sua lingua. In questo senso, una sorta di coscienza condivisa o comune - il senso comune, appunto, che non è solo fatto di opinioni, ma anche di modi considerati "giusti" di comportarsi, di reagire emotivamente, di sentire, di giudicare - precede certamente nella formazione di ciascun individuo la coscienza personale - se con questo termine intendiamo la capacità di "farsi carico" delle proprie convinzioni, azioni, decisioni - di "autenticarle", per così dire, in prima persona. La cultura che dobbiamo
assimilare è fatta anche di ruoli, di istituzioni come il denaro o il matrimonio, e relativi poteri, obblighi, privilegi... Tutti gli oggetti, insomma, indagati oggi da quella nuova disciplina filosofica che è detta ontologia sociale. John Searle, uno dei suoi fondatori, ci insegna a discernere la ricchissima trama di regole e istituzioni di cui è fatta la nostra quotidiana "normalità". Da dove viene il potere obbligante delle norme? Da Dio, dalla Natura, dalla Società, dalla Ragione? Possiamo ricostruire la storia della filosofia in base alle risposte che si danno alla questione. Ma se il mondo antico e quello moderno ancora disputano in noi con le loro risposte, c'è una cosa che il nostro sguardo preciso sulla prima infanzia oggi ci insegna, ma di cui la nostra filosofia non 136 trae le conseguenze. Perché da un neonato venga fuori un ragazzo "normale" occorre che l'apprendimento delle regole del gioco umano, qualunque sia la comunità e dunque la cultura in cui si nasce, sia veramente un elementare apprendistato di verità, sia per quanto riguarda i fatti sia per quanto riguarda le loro qualità di valore, positive e negative. La sfera del convenzionale o dell'arbitrario non può che qualificare quella del dovuto, cioè delle risposte giuste, adeguate a ciò che è "esatto" o richiesto dalle cose stesse, ai dati di realtà e di valore: pena l'impossibilità di apprendere a stare al mondo. Che il fuoco scotti e il cibo appaghi, che l'aspettativa di protezione e nutrimento sia fondata, che il cucchiaio e il seggiolone abbiano un loro modo di essere usati, che una casa sia fatta in un certo modo, una porta e una finestra abbiano certe funzioni: dati di realtà e di valore fanno da base normativa, purché l'adulto aiuti a svelare il dovuto, l'ordine del mondo. La centralità della relazione alla verità nella costituzione dei mores umani è forse la tesi centrale di La questione morale. Ora possiamo darle forse uno sviluppo ulteriore.
18. Inno a Socrate I filosofi e gli psicologi sociali contemporanei non sembrano vedere quale sia la controparte 137 della libertà caratteristica dell'animale normativo, che appunto non agisce in base a istinti o programmi interni ma in base a norme, e quindi può trasgredirle. Questa controparte è la misura di verità - cioè di conoscenza, di presa di coscienza, di esperienza veridica - che è necessaria all'individuazione personale, cioè
a divenire persone normali. La relazione alla verità è fondante prima di essere cosciente. Paradossalmente dobbiamo apprendere un gran numero di "risposte giuste" al livello di base, prima di esserci come soggetti coscienti. Questa è la "libertà guidata", l'esperienza compartecipata, le prese di posizioni co-eseguite da chi ha cura di noi che segna tutta la nostra prima infanzia. Esistono purtroppo persone seriamente "a-normali", nel senso di incapacitate in qualche dimensione della normalità primaria: non tutte queste mancate costituzioni di normalità sono effetto di cattivo accudimento, ma certamente una completa deprivazione dell'apprendimento cooperativo di realtà compresa l'esposizione al linguaggio - inibirebbe seriamente il costituirsi di un soggetto personale. Adamo e Eva cacciati dal giardino e condannati all'esercizio personale della libertà sono per noi un'immagine archetipa di uscita dall'infanzia. Adamo e Eva furono condannati all'esperienza del bene e del male: cioè a una vita di conoscenza personale di ciò che può dare fon138 damento alle norme, comprese quelle del miglior ordine di convivenza civile e di governo delle città umane. Eppure ancora maggioritarie, forse, sono nel mondo le culture il cui tipo normativo non prevede affatto che la ricerca di un fondamento di giustificazione delle norme duri tutta la vita adulta, che anzi questa consista essenzialmente in una simile ricerca. Che sia questa la "normalità". Il modello ideale di questa normalità umana (che altrove ho chiamato "secondaria"), la normalità dell'individuo che emerge dalla comunità vitale d'appartenenza e dall'anonimato della normalità primaria (ciò che "si fa", "si pensa", "si deve") prendendo posizione (consenso o dissenso) rispetto alla cultura "tradizionale", ai suoi "si fa" e "si deve", è il modello che vorrei chiamare socratico, o il modello della veglia assiologica, in particolare morale. Fatti non foste a viver come bruti... Il modello socratico della normalità umana è interessante precisamente perché non è un ethos fra gli altri - cioè un dato ordinamento di priorità di valore, da cui discendono certe norme (per esempio: la gerarchia dei ruoli e delle caste nella società della repubblica platonica). È invece la normalità del dubbio rispetto a ogni ethos. Nel modello della veglia morale la normalità umana è chieder ragione delle norme, è l'approfondimento indefinito e in ogni rispetto di ciò che è dovuto, di ciò che la realtà delle cose e delle per139 sone esigono da noi, e quindi è il dubbio sulla fondatezza dei doveri già dati. Ma soprattutto è l'iniziativa di chiedere ragione. La normalità come
veglia, dubbio e ricerca è il contrario esatto della normalità come routine, indifferenza, inerzia. Questa è la via di Socrate, per la quale è pur bello essere qui, in Europa. Ma il modello socratico, lungi dall'essere una necessità, è solo una possibilità della nostra natura. Torniamo alla caratteristica fondamentale che distingue l'animale normativo dall'animale istintivo: il senso della possibile inadeguatezza dei propri comportamenti, o il potere dell'interrogativo. La nostra storia sarebbe decisamente andata meglio se avessimo maggiormente posto mente all'importanza antropologica dell'interrogativo. Di questa miracolosa sospensione dei meccanismi della attualità, delle leggi della necessità naturale, della corsa cieca dei fati e dei destini, che è il potere più straordinario, apparentemente, delle nostre menti. Il più vivo e silenzioso, vivo nella mente del più grande filosofo come nello sguardo di un bambino che non sa ancora parlare. Occorrerebbe scrivere una piccola lirica sulla grazia di quel ricciolo che nelle nostre lingue scritte lo esprime, e sembra mimare il sopracciglio che si solleva, o l'arricciarsi pigro dell'onda che indugia, sospesa, prima di accettare il suo destino e frangersi sulla battigia... Per questa possibilità che abbiamo di stupore e 140 di sdegno, dunque per il potere dell'interrogativo che ne dipende, e solo per questo, ci è possibile anche ogni giorno e ogni ora rinnovare le nostre posizioni, rinnovare l'insieme dei sì e dei no che ci definiscono e definiscono i nostri mores - rinnovare questi stessi mores. L'elemento perennemente innovativo del modello socratico è proprio questo: che qualcosa di simile alle esperienze fondamentali dell'infanzia e dell'adolescenza possa in ogni momento venire vissuto al livello di maturità, conoscenza, esperienza che distingue l'adulto. Se tutta la vita è prendere posizione, noi abbiamo la possibilità di rinnovare - dunque anche rivedere - tutte le nostre posizioni. La normalità socratica è il rinnovamento morale quotidiano, nella quotidiana ricerca e verifica dell'adeguatezza dei propri mores. In un certo senso è l'eterna giovinezza: ma nel senso vero e giusto. (La grottesca, scimmiesca simulazione di questa eterna giovinezza l'abbiamo sotto gli occhi nella viziosa gerontocrazia delle caste di oggi.) Se c'è una cosa che il secondo dopoguerra ci ha mostrato, con il tradimento delle speranze e del progetto di società della generazione uscita dalla guerra, è che, mentre una società ben ordinata, in particolare una democrazia, ha bisogno di un sufficiente numero di persone moralmente, socraticamente "adulte", una società umana purchessia non ne ha affatto bisogno. Al contra141
rio, l'esperienza recente getta la più inquietante e cupa delle luci proprio su quell'innata capacità di cooperazione che ci distingue come specie. La normalità come rinnovamento tende sempre a sclerotizzarsi nella normalità come routine. La veglia del dovuto tende sempre a decadere nel sonno del "si fa così", lo stupore e lo sdegno tendono sempre a spegnersi nell'indifferenza e nella rassegnazione. E questo è possibile precisamente perché le società umane sono organizzate in modo cooperativo.
19. Homo italicus: un aggiornamento sulla banalità del male Un immenso equivoco ha accolto le scoperte sulla nostra natura cooperativa - una specie di neo-roussovianesimo, per il quale noi saremmo "naturalmente" buoni, o almeno "simpatici". Ma la cooperazione funziona tanto nella giustizia quanto nell'ingiustizia quello che cambia non è necessariamente l'efficienza dell'organizzazione, ma la distribuzione equa dei doveri e dei diritti, cioè appunto l'attenzione al dovuto a ciascuno. Da uno zero a un massimo di giustizia. Nel mondo globale, la nostra situazione di oggi è più vicina allo zero. Nelle democrazie, le misure sono diverse. La nostra oggi e qui è ben poco confortante. 142 Il fenomeno più palese della cooperazione senza giustizia è la consorteria, origine di ogni forma di cooperazione ingiusta, dal familismo amorale alla criminalità organizzata, che è oggettivamente la tendenza a co-operare non nel rispetto del dovuto, ma conformemente al vantaggio dei cooperanti qualunque sia lo svantaggio di terzi estranei all'accordo di cooperazione, e quindi della comunità più vasta cui il gruppo dei cooperanti appartiene. Il modello di normalità umana che sembra oggi dominante, almeno qui, è la "normalità" dell'uomo di consorteria. Questa coincide con la soggettività degli ipnotizzati morali nella versione per noi più interessante. Quella dell'uomo che più ci somiglia. Ce n'è una specie temporanea ed effimera, che si manifesta come improvvisa reviviscenza di un modello arcaico di uomo, quella dell'uomo tribale o dell'uomo pre-moderno, che non ha ancora trovato se stesso come qualcosa di distinto dal "noi" collettivo: l'uomo che sembra non aver avuto accesso all'individuazione secondaria. E un fenomeno molto studiato nel Novecento, che ha sperimentato queste
sorprendenti reviviscenze dell'arcaico con l'irruzione delle masse sulla scena della storia, e ha gettato i fondamenti per il moderno studio dell'uomo-massa. È una condizione temporanea benché pericolosa, una trasformazione non durevole di individui evolu143 ti, una condizione che cessa quando la massa si disperde. Una versione lieve e innocua, ancorché spettacolare, di questa condizione è l'onda dinamica e sonora della folla negli stadi. Una fase tribale, è ben noto, la vivono anche le moderne adolescenze, con i loro riti e le loro identità di gruppo. Ma il senso dell'adolescenza è precisamente di opporre questa identità di gruppo a quella familiare di provenienza, e quando va bene vivere la crisi di entrambe: crescere. In La questione morale si analizzava qualche aspetto degli esiti drammatici di blocco della crescita personale e morale che ha il costante peggioramento delle prospettive di indipendenza dei giovani rispetto alla famiglia di provenienza, specie quando si associa alla struttura consortile del mercato del lavoro italiano: allora in molti sensi "non si esce più di casa" - non si parte più per il viaggio più importante della vita, diventare se stessi. Per analizzare con precisione la struttura consortile della società italiana, con l'onnipresenza delle sue organizzazioni, dalle più privilegiate caste agli ordini professionali e corporativi di ogni grado, dai notai ai professori universitari ai tassisti, si trova a disposizione una letteratura ormai vastissima. Sarebbe necessario approfondire anche la natura di quel fenomeno scoraggiante che sono oggi i partiti, dove la logica consortile funziona sistematicamente per la promozione dei mediocri e dei conformisti, in misura direttamen144 te proporzionale alla pochezza di idee, quando non alla promozione di affari vantaggiosi. Ma noi vogliamo soltanto trarre le fila della fenomenologia del male italico che abbiamo inseguito lungo tutto il libro, da quella del "suicidio morale" che è l'indifferenza alla deturpazione del volto del Paese e alla cultura dell'osceno, al supposto senso comune pre-morale che abbiamo trovato nella sfida della bella sofista. Scatteremo dunque l'istantanea di una soggettività-limite, di un modello umano che non sappiamo se sia veramente oggi maggioritario, ma che è certo il tipo di individuo appropriato al progetto politico di società che è stato vincente negli ultimi vent'anni. È un tipo di soggettività caratteristica dei nostri giorni, per la quale non abbiamo ancora una parola, se non la banalizzazione della parola "normale". Questa stessa banalizzazione, del resto, meriterebbe una riflessione. La parola, da noi, è giunta a significare il
contrario di "conforme a norma": l'imbroglio e il brutto a furia di starci sotto gli occhi, impuniti, sono divenuti cose "normali", come convivere con l'immondizia, coi boss che fanno festa per strada, con la malavita di mascalzoni e ricattatori abituati a fare dichiarazioni in tivù. Normale, cioè sottratto all'interrogativo, il loro gergo malavitoso, normale il più piatto turpiloquio o la più violenta aggressività in bocca a capi del governo e ministri della Repubblica, normale che un latitante che si sa benissimo dove sia diffonda messaggi cifrati in mondovisione e poi resti indisturbato dov'è, normale che un capo del governo dichiari che compra i voti dei parlamentari, anzi che è obbligato a ripagarli da precisi accordi scritti. E normale il nostro silenzio. Anche dove non sia brutale abuso di potere che i potenti si concedono, anche dove è costume di capetti minori o di gente qualunque, questa è una normalità incosciente, nel senso letterale di priva di coscienza morale, letteralmente priva di ogni senso di (in)adeguatezza, priva perfino dell'ombra di un interrogativo. È la mentalità dell'esecutore di posizioni prese altrove, che sia poi quella del complice, del servitore o di quel mezzo fra i due che è il moderno servo dei potenti. È dovunque caratterizzata dalla perfetta assenza di una disponibilità personale a rispondere di decisioni, comportamenti o asserzioni. Il tipico rappresentante di questa normalità esiste in una gamma quasi infinita di varianti, a seconda del tipo di consorteria a responsabilità personale limitata di cui si tratta: dalle cordate dei concorsi universitari alle cosche mafiose. Ma in ogni punto della gamma, anche quelli più innocui, c'è una caratteristica di questa soggettività che giustifica l'espressione "ipnotizzati morali". Quella caratteristica assenza di coscienza o di senso di (in)adeguatezza del proprio essere e fare si esten146 de a macchia d'olio, a ogni tipo di esigenza, a ogni aspetto del dovuto. Si estende non soltanto al sentimento del dovuto ad altri, e alle cose tutte che alla nostra coscienza si affidano, dal passato alla cultura, dalla bellezza al paesaggio; ma si estende molto più frequentemente di quanto non si creda anche al sentimento del dovuto a se stessi. Per esempio, il rispetto. Nei casi peggiori al rispetto di sé si sostituisce una compiaciuta complicità con la propria furbizia, che imprime un ghigno volpino alle paffute rotondità di facce ignare di inquietudini. Nei casi più frequenti vi si sostituisce una bronzea indifferenza, che meglio si coniuga con la connivenza nell'uccisione del capro espiatorio - la più comune attività delle consorterie. L'enigmatica inespressività di queste
facce di bronzo, che stanno solitamente ai posti di comando, ha dato una nuova icona al vizio sociale più antico - la viltà. Con questa fenomenologia abbiamo forse identificato la forma che ha preso la banalità del male oggi e qui. La banalità del male, questa scoperta del Novecento, non è come voleva Arendt la semplice assenza di "pensiero" del bene e del male. È piuttosto l'ottundimento della coscienza assiologica e della stessa vita personale - è la routinizzazione dei sì e dei no nella cooperazione amorale. Ma c'è una formula specialmente italiana della banalità del male, cioè dell'ipnosi morale, tutta diversa dalla delirante autoesalta147 zione nel nome del Führer, che distingueva l'ipnosi morale dei nazisti. È la forma autodispregiativa dell'ipnosi, è quel caratteristico, sordo, strisciante disprezzo della propria identità così ben significato nella caratteristica espressione "all'italiana". Possiamo forse ora assaporare meglio, alla fine di questo percorso, la profondità della constatazione kantiana con cui l'abbiamo iniziato: "Se la giustizia scompare, non ha più alcun valore che vivano uomini sulla terra". Il disprezzo di sé è il ritorno del rimosso, che si vendica dell'autoanestesia dell'animale normativo. Il disprezzo di sé è la forma che prende in noi il sentimento di questa perdita di valore. È il risentimento per l'oscura percezione del fatto che letteralmente non vale più la pena di vivere, da "bruto": da animale normativo, senza rispetto per la propria umanità. Ma il suicidio morale che così si produce è indubbiamente un suicidio istigato. Questa istigazione è la forma più subdola di veleno politico, è l'insinuazione di una specie di nichilismo terzista dell'indifferenza, mascherato da disincanto sapiente, nutrito di cinismo, sostenuto dal più inconfessabile degli interessi: la complicità con il tradimento della propria giovinezza - e il risentimento per la mediocrità della vita che ne è sortita. A questi istigatori, che sono legione, dedico l'ultima pagina di questo libro. Chiunque condivida quest'analisi sentirà for148 te il richiamo della domanda socratica: perché? Perché cooperi a questa routine dell'ingiustizia? E cooperi, se non ti fermi, non chiedi ragione, non prendi posizione. Se non ti svegli, se non ascolti il richiamo della giovinezza che hai tradito, se non sei pronto a rinnovare la tua intera vita, i tuoi costumi. Ma per svegliarsi bisogna che si risvegli in noi il dolore, anche per ciò che abbiamo fatto di noi stessi. I Greci avevano una parola per indicare l'eccellenza umana cui mirava la paideia, anche quella socratica. Simile a un dio appare il ragazzo che si sveglia alla coscienza, il kalokagathos. Ma chi ci vuole
mantenere nell'inerzia del sonno e dell'ipnosi, invece? Pensate all'ultimo slogan di quella che è forse la più potente consorteria italiana, quel movimento cattolico che si distingue per la prepotenza, pochissimo cristiana, con cui ha occupato le posizioni chiave di buona parte dei servizi pubblici, in particolare nella sanità, e per la logica consortile con cui blocca, dovunque domini, il libero accesso alle carriere. È la stessa consorteria che schiaccia il dubbio socratico sotto le piazze gremite, all'insegna di una collettiva "immensa certezza". Il suo ultimo slogan, che girava sulle piazze dei suoi raduni, dice: "Dio c'è, ma non sei tu. Rilassati". Indubbiamente efficace. Ma non deve sfuggire l'invito, che è quello esattamente contrario alle parole che un cristiano vero affisse nella sua scuola: "I care". (4) L'invito ad affidarsi a qualcun altro, all'alzata di spalle, al disimpegno, alla delega di responsabilità. E il profondo disprezzo del nostro essere che queste parole (mal)celano. Esprimono una filosofia della minorità morale. Non certo dell'umiltà.
20. Invettiva finale, e razionale La mia invettiva comincia con la riscoperta di un'altra norma. Mario Luzi ha scritto da qualche parte che ci sono versi che hanno il potere di "rinnovare in noi la misura del mondo". Versi la cui sola pronunzia ci sembra, dice il poeta, "legiferante". (5) Ne sono, io credo, esempio queste strofe famose: Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore: fecemi la divina podestate, la somma sapienza e 'l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro. Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate. (Inferno, III, 1-9) 4. L. Milani, "Lettera ai giudici" (1965), cit., p. 8. 5. M. Luzi, Naturalezza del poeta - Saggi critici, Garzanti, Milano 1995. 150 Sapete bene che è la porta stessa dell'Inferno dantesco che parla in questo modo, con "queste parole di colore oscuro" che porta scritte sulla sua sommità. In che modo questi versi possono essere "legiferanti" per il nostro disperato bisogno di giustizia qui e ora, su questa terra e anzi a partire anzitutto da questo angolo di terra? Come possiamo attingere a questo tesoro sepolto per nutrire oggi la nostra speranza di riscatto morale e civile? In che modo, anche se uno non crede né in Dio né tantomeno in
una ricompensa o punizione oltremondana, o almeno, come Origene un tempo e Vito Mancuso oggi, non crede affatto nell'Inferno come esclusione eterna di una gran parte dell'umanità da una qualche forma di salvezza sub specie aeterni? In che modo questa immagine grandiosa può ancora illuminare la nostra mente e scaldare il nostro cuore? Questa pagina ristabilisce la misura del mondo in quanto mostra, con il lampo dell'intuizione poetica, che se noi non rifiutiamo il cammino di conoscenza al quale, nel mezzo della vita, il nostro stesso smarrimento, la nostra angoscia ci invitano, noi ritroviamo per prima cosa un limite, una soglia, un passaggio. Dantescamente e pianamente: una porta. Per quella porta il pellegrino entra, notate bene, non solo nell'Inferno, ma nell'eterno in tutta la sua profondità e la sua altezza, che vanno appunto 151 dall'Inferno a Dio. Dal cuore bacato della terra, dove Satana sta immobile, conficcato nel ghiaccio, all'empireo, al cielo che "non ha altro dove/ che la mente divina, in che s'accende/l'amor che l volge e la virtù ch'ei piove". Importa poco, credo, come vogliate interpretare quella porta. L'intuizione importante è che noi troviamo qui, nella nostra esperienza morale e nei suoi dati, se solo vogliamo fermarci su quei dati e comprenderli così come si danno, come chiedono di essere compresi, un passaggio verso l'assoluto. I dati della nostra esperienza morale richiedono questo passaggio. E Dante ci indirizza subito verso il nome di questo assoluto: Giustizia. Giustizia è l'assoluto di un'Idea, cioè di un valore, di un Dover Essere assoluto, indipendente da ogni considerazione di fattibilità, utilità, interesse, conseguenze ecc. Ricordate l'invettiva di San Pietro, il suo sacrosanto sdegno contro quelli ch'usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio, fatt'ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza; onde 'l perverso che cadde di qua su, là giù si placa. (Paradiso, XXVII, 22-27) E allora tutto il cielo diventa rosso, rosso di vergogna e di sdegno... Dante sa cosa sono le passioni morali. L'esperienza morale è l'esperienza che noi facciamo del bene e del male - e soprattutto del male. Dei torti, dell'"ingiuria", o ingiustizia in tutte le sue forme. Ma naturalmente anche del bene - per esempio nell'ammirazione e nella gratitudine profonda. È prevalsa nella nostra cultura l'idea che i "valori", cioè le qualità positive delle cose, siano proiezioni soggettive, e dunque relative. È passata questa dottrina di Nietzsche, che era anche quella dei sofisti ai tempi di Socrate e Platone: gli stessi per cui la giustizia altro non è che la volontà del più forte.
Invece la nostra esperienza morale rinvia all'assoluto di un valore: il valore della giustizia è precisamente ciò di cui sentiamo l'esigenza assoluta, non solo quando soffriamo torti e ingiustizie noi, ma quando qualcun altro le soffre. È questo il senso morale dell'indignazione. Non ci possono venire a dire: tutto è relativo, oppure: nessuno ha mai realizzato la giustizia in terra. Non è una buona ragione per smettere di giudicare ingiusto ciò che lo è, e vedere che è vero che non dovrebbero esserci simili ingiustizie, e quelle che ci sono dovrebbero essere punite. L'esigenza resta intatta anche se non è soddisfatta. In questo senso la giustizia come valore è un assoluto. L'esigenza di giustizia è indipendente e precedente alle norme in cui in parte si esprime, e alla volontà di chi fa queste norme. "Giustizia mosse il mio alto fattore." Cosa 153 vuol dire? Che "giusta" è qualunque decisione di Dio, in quanto tale, o che una decisione è divina in quanto è motivata dalla giustizia? Il nostro verso "legiferante" lo dice subito, quale è il corno giusto del dilemma. Il termine "giustizia" letteralmente viene prima del termine "Dio". Come per noi, anche per Dio c'è un limite, una soglia, una barriera: non è vero che tutto è permesso. Non è permesso a nessuna volontà ciò che è ingiusto. Non è permesso, in assoluto e in eterno, vale a dire, che in assoluto e in eterno è male l'ingiustizia, anche se gli uomini scoprono solo nel tempo che una data azione, o un dato stato di cose, sono ingiuste, e anche se fra gli uomini alcuni hanno (ingiustamente) più impunità di altri. E questo è il primo punto. Il secondo punto è l'eterno. È anche vero che quando noi diciamo "questo è ingiusto" possiamo bensì ammettere che cento o mille anni fa non si capisse ancora che era ingiusto, ma non possiamo ammettere che non lo fosse "in sé" già allora, se lo è oggi. Non diciamo infatti mai "questo oggi è ingiusto", ma tutt'al più "oggi ci rendiamo conto che è ingiusto". Dunque nella pretesa di assolutezza del valore della giustizia è implicita anche una pretesa di eternità. Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro. Il terzo punto è l'intera Trinità convocata autrice di quella "porta": di quel limite assoluto ed eterno fra inferno e cielo, bene e male, questo riscatto trascendentale dell'impunità che è l'inferno: non nel senso di un effettivo surrogato post mortem della punizione ingiustamente evitata in terra, ma nel senso dell'esistenza in assoluto di una differenza fra il bene e il male, e fra il giusto e l'ingiusto, al di là di tutte le più interessate confusioni, relativizzazioni, omertà, indifferenze, occultamenti, al di là di tutti gli arcana imperii,
dell'oscurità in cui da sempre si muove il crimine e il potere illegittimo, che vive della coscienza ottenebrata o disinformata. Al di là di tutto questo, inferno, purgatorio e paradiso sono i bastioni trascendentali e le immagini delle idee di torto, espiazione, giustizia. Concludo. La cosa terribile che ci era successa è che non vedevamo più quella porta, cioè non eravamo più capaci di prendere sul serio l'esperienza morale, e con essa l'assoluto della distinzione sub specie aeterni fra il giusto e l'ingiusto, o dell'esigenza assoluta di giustizia. Da questo scetticismo pratico sconfinato nel cinismo, forma mentis che già Guicciardini, Leopardi e De Sanctis avevano colto come caratteristica ricorrente degli italiani, e in cui gli ultimi vent'anni ci hanno sprofondati oltre ogni precedente misura, riusciremo a emergere? Un passo indispensabile per riuscirci è identificare chi 155 sono fra noi quelli che continuano a non voler vedere quella porta. Ricordate, sulla soglia dell'Inferno, gli ignavi? La parola non è dantesca. Noi sottolineiamo la pochezza, la viltà. Ma si tratta della gente che in definitiva non ha mai preso sul serio l'esperienza morale. Oggi si chiamano terzisti. "Questi sciaurati, che mai non fur vivi": così, con ben altra forza e ragione, li chiama Dante. Sono quelli che precisamente non vogliono distinguere il giusto dall'ingiusto, la vittima dal carnefice. Quelli che chiamano entrambi "estremisti". Ce ne erano a bizzeffe durante i casi Welby, Englaro. Favoleggiavano di un partito estremista della vita e di un partito estremista della morte. Ce ne sono oggi, a predicare un moderato accordo con chi ha elevato il cinismo ad arte di governo. Cerchiobottisti metafisici, afflitti da un servilismo trascendentale. Credevamo che avessero perduto. Ma nell'oscurità e nell'urlio confuso dell'anti-Inferno prosperano, ancora e sempre. Ma certo ricordate come li tratta Dante: Questi non hanno speranza di morte e la lor cieca vita è tanto bassa, che 'nvid'iosi son d'ogne altra sorte. Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa. (Inferno, III, 46-51)