L'universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere 9788874623280


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Table of contents :
Presentazione - Martinelli, Riccardo ; La Rocca, Claudio ; Besoli, Stefano
Sigle delle opere di Kant -
Antropologia - Martinelli, Riccardo
Biologia - Illetterati, Luca
Estetica - Tomasi, Gabriele
Etica - Fonnesu, Luca
Fisica - Kerszberg, Pierre
Logica - Capozzi, Mirella
Matematica - Moretto, Antonio
Metafisica - Cunico, Gerardo
Politica - Caranti, Luigi
Psicologia - La Rocca, Claudio
Religione - Cantillo, Giuseppe
Storia - Mori, Massimo
Epistemologia - Parrini, Paolo
Ermeneutica - Camera, Francesco
Fenomenologia - Besoli, Stefano
Filosofia analitica - Ferrari, Massimo
Neokantismo - Gigliotti, Gianna
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L'universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere
 9788874623280

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Discipline Filosofiche

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L’universo kantiano Filosofia, scienze, sapere

A cura di Stefano Besoli, Claudio La Rocca, Riccardo Martinelli

Quodlibet

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Prima edizione: dicembre 2010 © Copyright 2010 Quodlibet Quodlibet edizioni Via Santa Maria della Porta 43, 62100 Macerata Tel. 0733-264965. Fax 0733-267358 www.quodlibet.it e-mail: [email protected] Stampa: Grafica Editrice Romana s.r.l., Roma ISBN: 978-88-7462-328-0 Discipline filosofiche Collana fondata da Enzo Melandri Direttore: Stefano Besoli Volume pubblicato con un contributo dai fondi PRIN 2007 cofinanziati dal MIUR e dal Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa e con un contributo del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna (Fondi R.F.O.).

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Indice

7

Presentazione, di Stefano Besoli, Claudio La Rocca, Riccardo Martinelli

9

Sigle delle opere di Kant I. L’universo kantiano

13

Antropologia, di Riccardo Martinelli

53

Biologia, di Luca Illetterati

97

Estetica, di Gabriele Tomasi

147 Etica, di Luca Fonnesu 189 Fisica, di Pierre Kerszberg 229 Logica, di Mirella Capozzi 261 Matematica, di Antonio Moretto 315 Metafisica, di Gerardo Cunico 347 Politica, di Luigi Caranti 391 Psicologia, di Claudio La Rocca 437 Religione, di Giuseppe Cantillo 465 Storia, di Massimo Mori II. Oltre Kant 493 Epistemologia, di Paolo Parrini 529 Ermeneutica, di Francesco Camera 571 Fenomenologia, di Stefano Besoli 647 Filosofia analitica, di Massimo Ferrari 709 Neokantismo, di Gianna Gigliotti

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Stefano Besoli, Claudio La Rocca, Riccardo Martinelli

Presentazione

È persino scontato affermare che il pensiero di Kant rappresenta uno snodo classico, ancora capace a duecento anni dalla sua scomparsa di alimentare diversi aspetti della riflessione filosofica contemporanea. Se però ci si interroga sulle ragioni specifiche e il significato di questo persistere dell’interesse per la figura di Kant, ci si avvede del fatto che gli aspetti del pensiero kantiano che di volta in volta sono stati e sono al centro dell’attenzione, sostanziandone l’immagine, sono mutevoli al punto da risultare contraddittori. Considerato lungo gli assi tematici specifici che ne sostengono l’ossatura, come si è voluto fare nel presente volume, il lascito di Kant mantiene un profilo generale ben definito, che tuttavia non giunge a cristallizzarsi in sistema compiuto, mostrando piuttosto aperture, direttrici, linee di fuga talora solo potenziali. Sotto questo profilo il pensiero kantiano può essere visto come un universo le cui galassie, obbedendo a determinate leggi fondamentali, sono tuttora in espansione e debbono essere considerate nella loro autonomia. Uscendo di metafora, sono i diversi aspetti, temi, ambiti disciplinari e saperi lungo i quali si articola il pensiero kantiano a definire nel modo più chiaro la ricchezza e la complessità del progetto. Più che nella percezione del passaggio storicamente fondamentale di cui si diceva in apertura, è da questo dinamismo e nella correlativa ricchezza e articolazione per quanto attiene alle singole discipline che origina, probabilmente, il persistere dell’attenzione per la figura di Immanuel Kant nella nostra cultura filosofica e scientifica. Alla luce di tutto ciò va inteso il riferimento a “filosofia, scienze, sapere” cui chi scrive ha voluto affidare il compito, per certi aspetti non facile, di offrire una prima specificazione in merito alla direzione lungo la quale ambisce muoversi un’opera di questo genere. Il pensiero di Kant coinvolge un ampio numero di “filosofie speciali” ma investe anche – in un modo che intreccia talvolta la riflessione su una forma di sapere e la partecipazione diretta ad essa – ambiti che oggi sono di pertinenza di un’indagine scientifica che ha trasformato il suo impianto, o di saperi che presentano comunque statuti disciplinari più marcatamente delineati rispetto all’epoca kantiana. L’opera di Kant si offre inoltre come termine di confronto importante per “scuole” di pensiero che vengono dopo di lui, ma che anche sulla base di aspetti del suo lascito teorico si sono definite. È a una riflessione su questo

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PRESENTAZIONE

insieme di questioni, in merito alle quali il lascito kantiano appare fortemente dinamico nella struttura di partenza – e ancor più nelle letture e ibridazioni alle quali è stato in seguito sottoposto – che il presente volume intende contribuire. Le voci che lo compongono non intendono quindi mettere a disposizione del lettore un «dizionario» con intenti didattici o un reading votato alla rapida consultazione, quanto piuttosto indagare i nuclei e i momenti intrinseci al pensare kantiano lungo le direttrici determinate che segnano poi le linee d’influenza delle diverse tesi filosofiche che formano l’eredità del pensiero di Kant. Di qui discende, tra le altre cose, l’ampiezza delle singole voci che sono state chiamate a comprimere una materia – basterà pensare alla relativa letteratura – spesso sterminata. Ma non si fraintenda: l’intento non è quello di offrire una storia delle conseguenze, delle interpretazioni o una Wirkungsgeschichte del pensiero di Kant, bensì di muovere dal cuore stesso della teoria kantiana senza tuttavia perdere la dimensione del peso che essa riveste nel nostro panorama contemporaneo. Una rapida scorsa ai titoli delle voci in questione può offrirne una prima testimonianza e rendere conto al tempo stesso di una duplicità di accostamento che si rivela nelle due sezioni entro le quali si sono organizzati gli interventi. Proprio per fedeltà all’impostazione generale, infatti, non si è voluto rinunciare a considerare l’universo kantiano anche a partire da quegli ambiti del pensiero filosofico la cui definizione e formulazione esplicita è posteriore al tempo di Kant. La prima sezione ospita allora interventi su Antropologia (Riccardo Martinelli), Biologia (Luca Illetterati), Estetica (Gabriele Tomasi), Etica (Luca Fonnesu), Fisica (Pierre Kerszberg), Logica (Mirella Capozzi), Matematica (Antonio Moretto), Metafisica (Gerardo Cunico), Politica (Luigi Caranti), Psicologia (Claudio La Rocca), Religione (Giuseppe Cantillo), Storia (Massimo Mori); la seconda sezione analizza invece questioni relative a Epistemologia (Paolo Parrini), Ermeneutica (Francesco Camera), Fenomenologia (Stefano Besoli), Filosofia analitica (Massimo Ferrari), Neokantismo (Gianna Gigliotti). Si possono chiaramente rilevare possibili lacune o evocare eventuali articolazioni alternative, senza dubbio legittime. Anzi, occorre chiarire che la metodologia e la titolatura adottate non intendono elevare alcuna pretesa di «universalità», e ciò in due sensi diversi: se da un lato all’elenco sopra citato si sarebbero forse potuti aggiungere dei tasselli, dall’altro nessuno dei saggi può avanzare – né tale era il loro scopo – la pretesa di avere esaurito tutto quanto vi è da dire nel proprio ambito. Si è trattato insomma, com’è ovvio, di operare delle scelte, di selezionare e mettere in luce quanto pareva necessario nel contesto dell’impostazione generale del lavoro. Su tutto ciò e sugli esiti relativi è d’obbligo rimettersi al giudizio del lettore, non senza la consapevolezza di avere devoluto non poco sforzo al fine di non omettere, quanto meno, nulla di essenziale.

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Sigle delle opere di Kant

Le opere di Kant sono citate dalla Akademie-Ausgabe: I. Kant, Gesammelte Schriften, Bd. 1-22: Preussische Akademie der Wissenschaften; Bd. 23: Deutsche Akademie der Wissenschaften zu Berlin; ab Bd. 24: Akademie der Wissenschaften zu Göttingen, Berlin 1900 sgg.

AA Anth BDG Br DRTBaum EaD EBJ EEKU EPBaum FEV FM

FRT GMS GSE GUGR HN IaG KpV KrV KU LBlomberg LBusolt LDohna

Akademie-Ausgabe Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (AA VII) Der einzig mögliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes (AA II) Briefe (AA X-XIII) Danziger Rationaltheologie nach Baumbach (AA XXVIII) Das Ende aller Dinge (AA VIII) Einige Bemerkungen zu Ludwig Heinrich Jakob’s Prüfung der Mendelssohn’schen Morgenstunden (AA VIII) Erste Einleitung in die Kritik der Urteilskraft (AA XX) Baumgarten Ethica Philosophica (AA XXVII) Die Frage, ob die Erde veralte, physikalisch erwogen (AA I) Welches sind die wirklichen Fortschritte, die die Metaphysik seit Leibnizens und Wolff’s Zeiten in Deutschland gemacht hat? (AA XX) Fragment einer späteren Rationaltheologie (AA XXVIII) Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (AA IV) Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen (AA II) Von dem ersten Grunde des Unterschiedes der Gegenden im Raume (AA II) Handschriftlicher Nachlass (AA XIV-XXIII) Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (AA VIII) Kritik der praktischen Vernunft (AA V) Kritik der reinen Vernunft (citata secondo le pagine originali A/B) Kritik der Urteilskraft (AA V) Logik Blomberg (AA XXIV) Logik Busolt (AA XXIV) Logik Dohna-Wundlacken (AA XXIV)

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LHerder Log LPhilippi LPölitz LWiener MAM MAN MArnoldt MDohna MHeinze MHerder MK2 MK3 MK3E ML2 MMron MNHerder MP MPCollins MPKaehler MoMron MoMron II MPölitz MpVT MS MSchön MSI MSVigil MVolck NEV NG NTH NTVolck OP Päd PG PhilEnz PND

SIGLE DELLE OPERE DI KANT

Logik Herder (AA XXIV) Logik (AA IX) Logik Philippi (AA XXIV) Logik Pölitz (AA XXIV) Wiener Logik (AA XXIV) Mutmaßlicher Anfang der Menschheitsgeschichte (AA VIII) Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft (AA IV) Metaphysik Arnoldt (K 3) (AA XXIX) Kant Metaphysik Dohna (AA XXVIII) Kant Metaphysik L1 (Heinze) (AA XXVIII) Metaphysik Herder (AA XXVIII) Kant Metaphysik K2 (Heinze, Schlapp) (AA XXVIII) Kant Metaphysik K3 (Arnoldt, Schlapp) (AA XXVIII) Ergänzungen Kant Metaphysik K3 (Arnoldt) (AA XXIX) Kant Metaphysik L2 (Pölitz, Original) (AA XXVIII) Metaphysik Mrongovius (AA XXIX) Nachträge Metaphysik Herder (AA XXVIII) Monadologia physica (AA I) Moralphilosophie Collins (AA XXVII) Immanuel Kant: Vorlesung zur Moralphilosophie (Hrsg. von Werner Stark, Berlin/New York 2004) Moral Mrongovius (AA XXVII) Moral Mrongovius II (AA XXIX) Kant Metaphysik L1 (Pölitz) (AA XXVIII) Über das Mißlingen aller philosophischen Versuche in der Theodicee (AA VIII) Die Metaphysik der Sitten (AA VI) Metaphysik von Schön, Ontologie (AA XXVIII) De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (AA II) Die Metaphysik der Sitten Vigilantius (AA XXVII) Metaphysik Volckmann (AA XXVIII) Nachricht von der Einrichtung seiner Vorlesungen in dem Winterhalbenjahre von 1765-1766 (AA II) Versuch, den Begriff der negativen Größen in die Weltweisheit einzuführen (AA II) Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels (AA I) Natürliche Theologie Volckmann nach Baumbach (AA XXVIII) Opus Postumum (AA XXI e XXII) Pädagogik (AA IX) Physische Geographie (AA IX) Philosophische Enzyklopädie (AA XXIX) Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidatio (AA I)

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SIGLE DELLE OPERE DI KANT

PPHerder PPPowalski PRPölitz Prol Refl RezHerder RezHufeland RezSchulz RezUlrich RGV RL RPölitz SF TG TL TP ÜE

UDG ÜGTP ÜKA VAEaD VAFM VAKpV VAMS VAProl VARGV VARL VASF VATL VATP VAÜGTP

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Praktische Philosophie Herder (AA XXVII) Praktische Philosophie Powalski (AA XXVII) Philosophische Religionslehre nach Pölitz (AA XXVIII) Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik (AA IV) Reflexion (AA XIV-XIX) Recensionen von J. G. Herders Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menscheit (AA VIII) Recension von Gottlieb Hufeland’s Versuch über den Grundsatz des Naturrechts (AA VIII) Recension von Schulz’s Versuch einer Anleitung zur Sittenlehre für alle Menschen (AA VIII) Kraus’ Recension von Ulrich’s Eleutheriologie (AA VIII) Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft (AA VI) Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre (AA VI) Religionslehre Pölitz (AA XXVIII) Der Streit der Fakultäten (AA 07) Träume eines Geistersehers, erläutert durch die Träume der Metaphysik (AA II) Metaphysische Anfangsgründe der Tugendlehre (AA VI) Über den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für diePraxis (AA VIII) Über eine Entdeckung, nach der alle neue Kritik der reinen Vernunft durch eine ältere entbehrlich gemacht werden soll (AA VIII) Untersuchung über die Deutlichkeit der Grundsätze der Natürlichen Theologie und der Moral (AA II) Über den Gebrauch teleologischer Principien in der Philosophie (AA VIII) Über Kästners Abhandlungen Vorarbeit zu Das Ende aller Dinge (AA XXIII) Vorarbeiten zu den Fortschritten der Metaphysik (AA XXIII) Vorarbeit zur Kritik der praktischen Vernunft (AA XXIII) Vorarbeit zur Metaphysik der Sitten (AA XXIII) Vorarbeit zu den Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik (AA XXIII) Vorarbeit zur Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft (AA XXIII) Vorarbeit zur Rechtslehre (AA XXIII) Vorarbeit zum Streit der Fakultäten (AA XXIII) Vorarbeit zur Tugendlehre (AA XXIII) Vorarbeit zu Über den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis (AA XXIII) Vorarbeit zu Über den Gebrauch teleologischer Principien in der Philosophie (AA XXIII)

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VAVT VAZeF VNAEF Vorl VBusolt VCollins VFried VMensch VMron VParow VPhilippi VPillau VRML VT VUB VvRM WA WDO ZeF

SIGLE DELLE OPERE DI KANT

Vorarbeit zu Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie (AA XXIII) Vorarbeiten zu Zum ewigen Frieden (AA XXIII) Verkündigung des nahen Abschlusses eines Tractats zum ewigen Frieden in der Philosophie (AA VIII) Vorlesungen (AA XXIV sgg.) Vorlesungen Wintersemester 1788/1789 Busolt (AA XXV) Vorlesungen Wintersemester 1772/1773 Collins (AA XXV) Vorlesungen Wintersemester 1775/1776 Friedländer (AA XXV) Vorlesungen Wintersemester 1781/1782 Menschenkunde, Petersburg (AA XXV) Vorlesungen Wintersemester 1784/1785 Mrongovius (AA XXV) Vorlesungen Wintersemester 1772/1773 Parow (AA XXV) Vorlesungen Wintersemester 1772/1773 Philippi (AA XXV) Vorlesungen Wintersemester 1777/1778 Pillau (AA XXV) Über ein vermeintes Recht, aus Menschenliebe zu lügen (AA VIII) Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie (AA VIII) Von der Unrechtmäßigkeit des Büchernachdrucks (AA VIII) Von den verschiedenen Racen der Menschen (AA II) Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung? (AA VIII) Was heißt sich im Denken orientiren? (AA VIII) Zum ewigen Frieden (AA VIII)

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Riccardo Martinelli

Antropologia

1. L’antropologia come problema. I testi Gli interessi e gli scritti antropologici di Kant sollevano diversi problemi esegetici. Tra questi, l’origine e la finalità delle considerazioni del Kant «antropologo» alla luce del rapporto con gli scritti precritici e con la psicologia empirica di scuola wolffiana, il significato del carattere pragmatico e «popolare» dell’antropologia, il suo rapporto con le discipline consimili, come la geografia fisica. Sul piano filologico, si tratta poi di comparare il testo dell’Anthropologie in pragmatischer Hinsicht del 1798 (d’ora in poi AP)1, la cui struttura e coerenza interna pongono particolari questioni, con quanto emerge dalle Nachschriften dei corsi di lezione e dalle Reflexionen, e più in generale con l’intero corpus degli scritti kantiani, nel quale alcuni usi del termine non appaiono riconducibili all’antropologia pragmatica: l’antropologia «morale», l’antropologia «trascendentale», e non ultima l’«antropologia» tout court di cui parlano una lettera a Stäudlin e alcune celeberrime pagine della Logik Jäsche. Dopo una premessa sul significato storico dell’antropologia e sui testi kantiani pertinenti (§ 1), nei paragrafi successivi si darà conto della maggioranza di queste questioni, muovendo dal rapporto tra antropologia e filosofia (§ 2) e dal concetto di «pragmatico» (§ 3), per seguire poi nell’esposizione le tre parti di cui si compone l’AP: la Prefazione (§ 4), la Didattica (§ 5) e la Caratteristica (§ 6). Ma la questione capitale, che merita di introdurre l’intero percorso da compiere, riguarda il senso stesso – tutt’altro che scontato – della presenza di un’antropologia in Kant, in particolare alla luce dell’opera critica. L’antropologia sviluppata nei corsi di lezione e poi nel libro del 1798 è compatibile con la filosofia kantiana, e in primo luogo con l’etica? Non contraddice forse alcuni degli assunti fondamentali della critica della ragione, tanto da costituire una sorta di imbarazzante appendice? Oppure, più semplicemente, essa ha poco a che fare con il resto dell’impresa kantiana e si giustifica con contingenti ragioni di opportunità (ad esempio la volontà di offrire

1 Cfr. Anth, AA VII, trad. it. di G. Vidari, riv. da A. Guerra, Antropologia pragmatica, Laterza, Bari 19672.

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RICCARDO MARTINELLI

una lezione «popolare» ben frequentata), comunque estranee alla riflessione filosofica? Per affrontare questi interrogativi servirà anzitutto un riferimento all’insieme, tutt’altro che univoco, dei significati che il rimando all’«antropologia» poteva assumere nel contesto del secondo Settecento. Si deve muovere dalla constatazione che «antropologia», all’epoca, era un titolo disciplinare relativamente infrequente (benché in via di affermazione), comunque estraneo alla trattazione filosofica scolastica e accademica. Kant, per così dire, non era «tenuto» a sviluppare alcuna antropologia, disciplina la cui presenza solleva invece diversi interrogativi sulle ragioni che possono averlo spinto a questa scelta, alla luce della sua concezione filosofica. L’antropologia, ovviamente, è una teoria sull’uomo, ma è importante rilevare sùbito che non ogni teoria sull’uomo è un’«antropologia». Piuttosto, è la duplice crisi della concezione biblica e di quella metafisico-teologica dell’uomo a rappresentare, sotto il profilo storico, la precondizione per lo sviluppo di un’antropologia, fenomeno per questa ragione squisitamente moderno. Quest’impulso centrifugo si realizza dapprima, tra il secolo XVII e il XVIII, nell’ideale di una «scienza dell’uomo» intesa come applicazione delle procedure della nuova scienza al caso dell’uomo. Assai presto però, i limiti intrinseci al sogno di una meccanica del comportamento o del pensiero umani divengono evidenti, al punto da suggerire il ricorso a nuove e più complesse strategie, che si presentano frequentemente sotto le insegne dell’antropologia. Da un lato, questo rimando segnala spesso un approccio medico-fisiologico (come accade in Platner, e per altro verso negli idéologues francesi) al rapporto tra anima e corpo; d’altro lato, e indipendentemente da ciò, iniziano i primi tentativi di avvicinamento se non di identificazione di antropologia e filosofia (si pensi a Herder) destinati a generare sdegnate reazioni, in una dialettica destinata a protrarsi fino al Novecento. Queste due direttrici dell’antropologia, per certi versi opposte, sono comunque spesso accomunate dalla diffidenza per le costruzioni metafisiche e dall’attenzione per gli sviluppi delle più diverse discipline scientifiche, che vanno dalla fisiologia medica all’anatomia comparata e all’etnologia, non di rado passando per linguistica, la storiografia pragmatica, la filologia e in generale le nascenti scienze dell’uomo. A dispetto dell’etimo, lo sviluppo settecentesco delle antropologie congeda dunque la stagione della «scienza dell’uomo»: ne consegue un quadro complesso, che non può essere incasellato – e ciò valga anzitutto per Kant – servendosi di una facile quanto anacronistica dicotomia di antropologia «scientifica» e antropologia «filosofica»2. 2 Sulle tesi qui esposte in forma estremamente sintetica cfr. O. Marquard, Anthropologie (philosophische), in Historisches Wörterbuch der Philosophie, hrsg. von J. Ritter, vol. I, Schwabe, Basel-Stuttgart 1976, coll. 362-372; M. Linden, Untersuchungen zum Anthropologiebegriff

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ANTROPOLOGIA

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Kant iniziò a tenere lezioni di antropologia nel semestre invernale del 1772-73 e tenne il corso in ogni semestre successivo fino al 1795-96, allorché interruppe l’attività didattica. Nell’AP egli afferma di aver tenuto «per circa trent’anni due specie di lezioni riguardanti la conoscenza del mondo, cioè nel semestre invernale di antropologia e nel semestre estivo di geografia fisica alle quali, come letture popolari, anche gente d’altri ceti trovò utile assistere»3. Il computo si riferisce all’insieme, poiché il corso di geografia fisica iniziò nel 1765, ma le lezioni di antropologia si tennero pur sempre per ben ventitré anni. Va sùbito rilevata la stretta correlazione di geografia fisica e antropologia, discipline che nell’insieme compongono la «conoscenza del mondo» nel senso che andrà visto nel seguito; interessante è anche notare che Kant abbia iniziato i corsi di antropologia negli anni Settanta, all’indomani della svolta critica. Istituendo uno dei primi corsi di «antropologia» in Europa4, Kant era consapevole di offrire una novità nel panorama accademico. Nella trattazione egli si avvale in parte della materia precedentemente compresa nell’àmbito della psicologia empirica, in parte di riflessioni di altra provenienza. Il passaggio da una psicologia empirica inserita nel corpo della metafisica così come avviene in Wolff, in Baumgarten e ancora nel Kant precritico, a un’antropologia che invece non ne fa parte, è stato maturato da Kant gradualmente5. Dopo il 1770 è comunque evidente che la conoscenza empirica, inclusa quella psicologica, non fa più parte della metafisica, cosa che genera, nel caso della psicologia, problemi specifici. Si deve segnalare al riguardo il celeberrimo passaggio dell’Architettonica della ragion pura dove Kant osserva che la psicologia empirica dev’essere «completamente bandita dalla metafisica» anche se, seguendo «l’uso scolastico», si dovrà concederle un «posticino». Infatti essa è «troppo importante» per sopprimerla o peggio farla rientrare in altri ambiti ai quali sarebbe ancor meno affine: essa risulta allora simile a «uno straniero, ospitato già da tanto», cui si concede una dilazione di soggiorno, affinché possa trovare dimora «in un’antropologia completamente sviluppata»6. Fuori di metafora, la materia è troppo impordes 18. Jahrhunderts, Lang, Frankfurt a.M. 1976; sul panorama francese, S. Moravia, La scienza dell’uomo nel Settecento, Laterza, Bari 1978; su Platner, A. Košenina, Ernst Platners Anthropologie und Philosophie. Der philosophische Arzt und seine Wirkung auf Johann Karl Wezel und Jean Paul, Königshausen und Neumann, Würzburg 1989; su Herder, J. Zammito, Kant, Herder, and the Birth of Anthropology, University of Chicago Press, Chicago 2002. Per ulteriori riferimenti e una discussione sia infine concesso rinviare a R. Martinelli, Uomo, natura, mondo. Il problema antropologico in filosofia, Il Mulino, Bologna 2004. 3 Anth, AA VII 122, trad. it. cit., p. 6. 4 M. Linden, Untersuchungen zum Anthropologiebegriff des 18. Jahrhunderts, cit., p. 107. 5 R. Brandt, W. Stark, Einleitung der Herausgeber, AA XXV viii sgg. 6 KrV, B 876-877, trad. it. Critica della ragion pura, a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2004, p. 1191. Kant si riferisce qui comunque all’antropologia come «corrispettivo di una

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RICCARDO MARTINELLI

tante per lasciarla semplicemente cadere (cosa non esente da rischi), ma la sua collocazione nel seno della metafisica non è più ammissibile. Di qui l’esigenza di una nuova collocazione nell’antropologia, i cui tratti andranno però ancora precisati7. A più riprese Kant rileva la differenza tra la prospettiva dell’antropologia, nella quale «si prescinde dalla questione se l’uomo abbia o non abbia un’anima (come particolare sostanza incorporea)» e quella della psicologia empirica, nella quale invece «si crede di cogliere una tal cosa in sé»8. Nel primo corso di lezione del 1772-73, dopo un significativo riferimento all’osservazione del secondo discorso di Rousseau sulla trascuratezza della conoscenza dell’uomo9, Kant proseguiva: Ma perché non si è fatta una scienza dell’uomo coerente a partire dalla grande provvista di osservazioni degli scrittori inglesi? Sembra che ciò dipenda dal fatto che la scienza dell’uomo sia stata vista come una parte annessa alla metafisica […]. Ma la metafisica non ha nulla a che fare con le conoscenze d’esperienza10.

Anche trattando dell’origine dell’antropologia, Kant indicava matrici ben distanti dalla metafisica e dalla filosofia scolastica:

scienza empirica della natura»: essa sta alla morale come la fisica sperimentale alla metafisica della natura. Questa concezione, mai sviluppata in concreto da Kant, è quella espressa da Wolff nel Discursus praeliminaris (Cap. III, § 111): «[...] ideo in Psychologia quoque consultum est, ut principia tam momentosa per experientiam constituantur et perinde ac in Physica experimentali eo ordine digerantur, ut sequentiarum ratio per antecedentia pateat. Ea igitur ratio est, cur Psychologiam empiricam philosophiae partem fecerimus [...]». Ch. Wolff, Philosophia rationalis sive logica, in Id., Gesammelte Werke, a cura di J. École, Olms, Hildesheim 1965 sgg., II Abt., vol. I/1, p. 50. 7 Secondo C. Schmidt, Kant’s Transcendental, Empirical, Pragmatic, and Moral Anthropology, «Kant-Studien», 98 (2007), pp. 156-182, invece di caratterizzare «fin da principio ogni scritto come appartenente esclusivamente all’antropologia trascendentale, empirica, pragmatica o morale», sarebbe opportuno rintracciare «gli elementi di ciascuno di questi progetti così come compaiono in ciascun testo» (p. 181). Tuttavia, la presenza di stratificazioni testuali e talora di elementi spuri non può occultare il fatto che l’AP si presenta (dal punto di vista genetico e per i suoi contenuti) quale legittima erede della più che ventennale Vorlesung kantiana e, con questa, quale documento di un’antropologia pragmatica che rappresenta il principale progetto di «antropologia», termine per il quale sono poi certo attestati anche usi diversi, che però Kant non sviluppa concretamente in un corpus testuale o in una dottrina articolati. 8 Anth, AA VII 161, trad. it. cit. (modificata), p. 45. 9 «La più utile e meno progredita fra tutte le conoscenze umane mi pare sia quella dell’uomo»: J.-J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, in Id., Oeuvres complètes, a cura di B. Gagnebin, vol. 3, Gallimard, Paris 1991, trad. it. di M. Garin, Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, in Id., Scritti politici, vol. I, Laterza, Bari 1971, p. 130. 10 VPhilippi, AA XXV 7 sg., trad. it. a cura di H. Hohenegger, Lezioni sulla conoscenza naturale dell’uomo, «Micromega», 4 (1997), pp. 237-270 (p. 247).

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Come nasce l’antropologia? Dalla raccolta di molte osservazioni sugli uomini di quegli autori, che hanno avuto un’acuta conoscenza degli uomini. Per esempio le opere teatrali di Shakespeare, degli osservatori inglesi e i Saggi di Montaigne, insieme con la sua biografia, tutto ciò è un libro per la vita e non per la scuola11.

Trattandosi di cosa tutt’altro che ovvia, vale la pena di osservare che lo sguardo antropologico non si sostanzia in Kant (come accade ancora decisamente in Machiavelli o Montaigne) del riferimento privilegiato agli antichi, in quanto come si vedrà è rivolto a un ideale storico e «plastico» della specie umana più che all’idea classica dell’immutabilità della natura umana. I riferimenti alla letteratura moderna e alla saggistica riemergeranno poi, in forma più sistematica, allorché Kant menzionerà «storia, biografie, persino teatro e romanzi»12 quali di fonti ausiliarie della disciplina. Ancorché immaginari, infatti, i personaggi letterari (Kant cita qui Richardson e Molière) forniscono una base empirica: pur «esagerati nel grado», essi coincidono per qualità con la natura umana. Nel passare dalla psicologia all’antropologia, Kant conseguiva dunque consapevolmente l’importante risultato di uno smarcamento anche lessicale dalla metafisica. Tuttavia, la scelta a vantaggio dell’antropologia profilava un pericolo persino maggiore, benché per così dire di segno opposto rispetto all’ipoteca metafisica che gravava sulla psicologia empirica: la potenziale confusione, cioè, con le diffuse antropologie di stampo medico-fisiologico. In questo senso va letta la lettera del 1773 a Markus Herz, il quale aveva recensito nella Allgemeine Deutsche Bibliothek in termini complessivamente positivi l’Anthropologie für Ärzte und Weltweise (1772) di Ernst Platner13. Dopo aver letto la recensione, Kant scrive a Herz che «il mio piano è tutt’altro»: decade interamente il tentativo platneriano – tanto «sottile» quanto vano per ogni tempo a venire – di spiegare la relazione tra gli organi corporei e la psicologia umana, mentre si tratta di chiarire «le fonti di tutte le scienze, quelle [che trattano] dei costumi, dell’abilità, degli usi sociali [des Umganges], del metodo per formare e governare gli uomini», offrendo così in forma «popolare» e gradevole, un «esercizio preparatorio [Vorübung] all’abilità, alla prudenza e persino alla saggezza»14. Fin dal principio Kant intende stornare il potenziale pericolo di una confusione tra l’antropologia che egli ha in mente e la versione medico-fisiologica della disciplina, allora ben rappresentata in Germania. Tuttavia, chiarito cosa la disci11

VFried, AA XXV 472. Anth, AA VII 121, trad. it. cit. (modificata), p. 5. 13 M. Herz, Rez. von E. Platner, Anthropologie für Ärzte und Weltweise, «Allgemeine Deutsche Bibliothek», 20 (1773), 1. St., pp. 25-51. 14 Br, AA X 145 sg., trad. it. di O. Meo (modificata) in Id., Epistolario filosofico, Il Melangolo, Genova 1990, p. 78 sg. 12

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plina non dev’essere, non è ancora del tutto definito cosa essa sarà. Nella lettera a Herz (dove si parla di una «piacevole dottrina osservativa» [angenehme Beobachtungslehre]), Kant non concepisce ancora l’antropologia in positivo in senso «pragmatico», né questa dizione è attestata nelle Nachschriften del corso del 1772-7315. Questo riferimento si presenta invece nelle lezioni di antropologia a partire dal 1775-76 e successive16, parallelamente nell’annuncio delle lezioni di Geografia fisica del 177517 e successivamente, fino alla Vorrede del testo del 1798: Una dottrina della conoscenza dell’uomo, concepita sistematicamente (antropologia), può esser fatta o da un punto di vista fisiologico o da un punto di vista pragmatico. La conoscenza fisiologica dell’uomo mira a determinare quel che la natura fa dell’uomo, la pragmatica mira invece a determinare quello che l’uomo come essere libero fa oppure può e deve fare di se stesso18.

Quale esempio di prospettiva «fisiologica» l’AP rimanda al trattamento della memoria nel Traité des passions de l’âme di Cartesio19, non dunque a Platner – il quale, peraltro, nella Neue Anthropologie für Ärzte und Weltweise del 1790 aveva dichiarato di discostarsi completamente, a dispetto del titolo, dall’impostazione precedente20. Resta dunque da chiarire (cfr. infra, § 3) quando e perché Kant abbia inteso come «pragmatica» la sua antropologia, trovando in quest’approccio una denominazione adeguata per un progetto, quello della contrapposizione alla prospettiva «fisiologica», che è di fatto precedente a questa scelta lessicale, come si evince dalla citata lettera a Herz. Kant adottava nelle lezioni, come manuale obbligatorio, le parti dedicate alla Psychologia empirica (§§ 504-739) nella Metaphysica di Alexander Gottlieb Baumgarten21. La prassi escludeva che il docente si avvalesse di propri

15

Cfr. VCollins-VParow, AA XXV 7-463. Cfr. VFried, AA XXV 468; in séguito VPillau, AA XXV 773; VMensch, AA XXV 855; VMron, AA XXV 1201. Purtroppo non esistono Nachschriften del secondo corso di antropologia del 1774-1775. Per un quadro più completo (Hamilton, Brauer, Euchel, Dohna) si rinvia alle pagine web Immanuel Kant – Information Online, http://web.uni-marburg.de/kant/ (20 gennaio 2010). 17 VvRM, AA II 443. La trad. it. di G. Solari, Delle diverse razze di uomini, in Id., Scritti politici, di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1965, è condotta sulla versione pubblicata nel 1777 e non include dunque il passaggio in questione. 18 Anth, AA VII 119, trad. it. cit., p. 3. 19 R. Descartes, Oeuvres, Vrin, Paris 1996, vol. XI, pp. 301-490, p. 360 (art. 42); trad. it. a cura di E. Garin, Opere filosofiche, vol. IV, Laterza, Bari 19935, p. 28. 20 E. Platner, Neue Anthropologie für Ärzte und Weltweise, Crusius, Leipzig 1790. 21 A.G. Baumgarten, Metaphysica. Halle 1757 (vierte Aufl.), in Refl, AA XVII 5-226; XV 5-54. 16

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testi in veste di manuali per le lezioni, cosa che favorì lo sviluppo di un autentico mercato delle Vorlesungsnachschriften, appunti di lezione per alcuni dei quali si dispone oggi di un’edizione critica nel vol. XXV dell’AkademieAusgabe. Kant pubblicò il testo dell’Antropologia nel 1798, diversi anni dopo il termine delle lezioni. Assieme al Conflitto delle facoltà, l’opera è notoriamente l’ultima pubblicata da Kant in prima persona. Non entriamo qui nel merito delle modalità che condussero Kant alla stesura del testo e delle sue diverse stratificazioni22. Qualche cenno va però speso sul fatto che ancora nel 1798 Kant rielaborava la materia, anzitutto per quanto riguarda l’organizzazione formale delle parti e le rispettive titolature; cosa che solleva al tempo stesso la questione del rapporto tra il testo pubblicato e le diverse versioni precedenti, desumibili dalle Nachschriften. In sintesi, si può affermare che l’organizzazione in due parti dei contenuti dell’opera sia presente fin dalle origini, benché le Nachschriften relative ai primi corsi non si presentino formalmente, ma pur tuttavia nella materia, come bipartite23. Questa struttura rimane dunque invariata nel corso del tempo, pur recando le due parti di volta in volta differenti titolature24. In quella definitiva del 1798, le due parti sono definite come Didattica antropologica. Del modo di conoscere l’interno e l’esterno dell’uomo e La caratteristica antropologica. Della maniera di conoscere dall’esterno l’interno dell’uomo25. Nelle lezioni Kant oscilla nella scelta delle titolature. In alcune circostanze egli utilizza la coppia concettuale, rinvenibile nelle tre Critiche, tra «dottrina degli elementi» e «dottrina del metodo»26. Analogamente si legge anche a margine dell’unico manoscritto relativo al testo che si sia tramandato: Prima parte dell’antropologia, Didattica antropologica. Che cos’è l’uomo? / Seconda parte dell’antropologia, Caratteristica antropologica. Da dove si riconosce la peculiarità di ciascun uomo? / La prima è per così dire la dottrina degli elementi, la seconda la dottrina del metodo della conoscenza dell’uomo [Menschenkunde]27.

22 Cfr. R. Brandt, Kritischer Kommentar zu Kants Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, Meiner, Hamburg 1999, pp. 20 sgg. 23 Cfr. VCollins, AA XXV 218, VParow, AA XXV 426 per le parti corrispondenti all’inizio della Caratteristica, che recano in entrambi i casi il titolo Vom Charakter des Menschen. 24 R. Brandt, Kritischer Kommentar, cit., p. 94 sg.; Id., Die Leitidee der Kantischen Anthropologie und die Bestimmung des Menschen, in Erfahrung und Urteilskraft, a cura di R. Enskat, Königshausen & Neumann, Würzburg 2000, pp. 27-40 (p. 29). 25 Il primo dei due sottotitoli si deve forse all’ignoto redattore del testo, che l’aggiunse per simmetria con l’altro: R. Brandt, Kritischer Kommentar, cit., p. 124. 26 Cfr. VBusolt, AA XXV 1530; in Dohna ci si riferisce alla Elementarlehre: cfr. R. Brandt, W. Stark, Einleitung der Herausgeber, cit., AA XXV xxx; inoltre http://web.uni-marburg.de/ kant//webseitn/an_doh.htm (20 gennaio 2010). Cfr. anche Refl, AA XV 661. 27 Anth, AA VII 412 (l’osservazione è nell’apparato critico, non presente nella trad. it.).

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Questo approccio alla bipartizione della materia suggerisce una lettura dell’opera, che è la più appropriata e adatta a comprenderne il significato. Come vedremo, gli «elementi» della psicologia umana, che la Didattica registra dall’esperienza, entrano poi nella Methodenlehre che mostra quale uso può essere fatto dell’uomo – da parte dell’uomo stesso – in vista di determinati fini. 2. Antropologia e filosofia Quanto all’unità dell’opera, va rilevata la frequente difficoltà a trovare una matrice comune alle due sezioni. Spesso la critica è stata condotta a negare l’unità dell’antropologia kantiana, bollandola come aggregato di discipline eterogenee28. Secondo Norbert Hinske, la sezione finale sul carattere della specie è «sorprendentemente staccata» dal resto dell’opera29. I curatori delle lezioni di antropologia concludono che la giustapposizione delle due parti dell’opera, sotto il profilo storico, sia un «prodotto del caso»30. In generale, la critica ha alquanto trascurato la Caratteristica, identificando o quasi, di fatto, l’antropologia kantiana con la Didattica31. Una proposta di lettura unitaria è venuta soprattutto da Reinhard Brandt, il quale mostra come gli aspetti negativi della Didattica trovino compensazione nella filosofia della storia della Caratteristica e nel discorso sulla Bestimmung des Menschen32. Di recente, Thomas Sturm ha discusso il problema giungendo 28 Cfr. M. Firla, Untersuchungen zum Verhältnis von Anthropologie und Moralphilosophie bei Kant, Lang, Frankfurt a.M. 1981, che definisce l’AP «ein Konglomerat aus den verschiedensten Disziplinen der Psychologie, Soziologie und Medizin», p. 22. 29 N. Hinske, «Kants Idee der Anthropologie», in Die Frage nach dem Menschen. Aufriss einer philosophischen Anthropologie, hrsg. von H. Rombach, Freiburg 1966, p. 418. Hinske sottolinea il ruolo della psicologia empirica, wolffiana e baumgarteniana, quale fonte e criterio orientativo per l’Antropologia di Kant. Cfr. Id., Wolffs empirische Psychologie und Kants pragmatische Anthropologie. Zur Diskussion über die Anfänge der Anthropologie im 18. Jahrhundert, «Aufklärung», 11/1 (1996), (fasc. monogr. Die Bestimmung des Menschen, a cura di N. Hinske, Hamburg, Meiner 1999), pp. 97-107; Id., Kant und Alexander Gottlieb Baumgarten: ein leider unerledigtes Thema der Anthropologie Kants, «Aufklärung», 14 (2002), pp. 262-276. Sulla stessa linea interpretativa S.B. Kim, Die Entstehung der Kantischen Anthropologie und ihre Beziehung zur empirischen Psychologie der Wolffschen Schule, Lang, Frankfurt a.M. 1994. 30 R. Brandt, W. Stark, «Einleitung der Herausgeber», cit., p. XXX. 31 Cfr. Th. Sturm, Kant und die Wissenschaften vom Menschen, Mentis, Paderborn 2009, p. 509. Sturm segnala l’eccezione di Brandt; a ciò si aggiunga, in Italia, P. Manganaro, L’antropologia di Kant, Guida, Napoli 1983, pp. 257-278. 32 R. Brandt, Kritischer Kommentar, cit., pp. VIII sgg.; Id., Ausgewählte Probleme der Kantischen Anthropologie, in Der ganze Mensch. Anthropologie und Literatur im 18. Jahrhundert, hrsg. von H.J. Schings, Metzler, Stuttgart 1994, pp. 14-32; Id., Die Leitidee der Kantischen Anthropologie und die Bestimmung des Menschen, cit.; Id., Die Bestimmung des Menschen bei Kant, Meiner, Hamburg 2007.

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alla conclusione di una complessiva unitarietà all’insegna di una funzione filosofica indiretta dell’antropologia, la quale toglie una possibile «pietra d’inciampo» alla morale in quanto mostra che gli uomini possono agire moralmente33. In parallelo con l’intensificarsi degli studi, sembra dunque affermarsi l’idea di una certa coerenza del complessivo progetto kantiano di antropologia, benché rimanga discussa la questione del rapporto di questa disciplina con la filosofia. Come si è detto in apertura, questo problema non concerne il solo Kant: dal tardo Settecento fino alla contemporaneità il rapporto tra filosofia e antropologia ricorre frequentemente in forme di conflittualità. In Kant, posto lo slittamento dell’antropologia in quanto «pragmatica» al di fuori dell’àmbito teoretico, il problema va sondato anzitutto a partire dal problematico rapporto tra morale e antropologia che, sia detto fin d’ora, è un rapporto di subordinazione: dal punto di vista genetico e sistematico la seconda è conseguenza della prima. La svolta critica impone cioè – tra le molte cose – anche una revisione del sapere sull’uomo; e alla luce dei risultati ivi conseguiti, questa revisione dà luogo alla nuova concezione dell’antropologia, il cui significato si comprende a partire dalla dicotomia di filosofia in senso scolastico e in senso cosmico34. Del Weltbegriff della filosofia Kant parla in diversi luoghi: nei corsi di lezione di Logica, Metafisica, Enciclopedia filosofica – e nei testi da questi derivati35. Ma soprattutto, il conceptus cosmicus affiora anche nella prima Critica, nell’Architettonica della ragion pura, dove Kant illustra le due forme possibili dell’unità del sapere filosofico: il «concetto scolastico» della filosofia, ossia il «concetto di un sistema della conoscenza, che è cercata solo come scienza, facendo astrazione da qualsiasi scopo che non sia quello dell’unità sistematica del sapere» e il «concetto cosmico»: Esiste però anche un concetto cosmico (conceptus cosmicus) che è sempre stato alla base di questa denominazione, specialmente quando lo si è per così dire personificato, raffigurandolo nel modello ideale del filosofo. Da questo punto di vista la filosofia è la scienza del rapporto di ogni conoscenza con i fini essenziali della ragio-

33

Th. Sturm, Kant und die Wissenschaften vom Menschen, cit., p. 367 e 509. In Kant und das Problem der Metaphysik (1929), trad. it. Kant e il problema della metafisica, a cura di V. Verra, Laterza, Bari 1981, p. 180, Heidegger trascura di rilevare che, diversamente da quanto avviene nel Canone dove si tratta dell’«interesse della mia ragione» in senso speculativo e pratico (KrV, B 832 sg., trad. it. cit., p. 1133), nella Logica la domanda «che cos’è l’uomo?» si aggiunge alle altre in quanto si parla della filosofia «in sensu cosmico». Cfr. Log, AA IX 24 sg., trad. it. a cura di L. Amoroso, Logica, Laterza, Bari 1984, p. 19. 35 Sul tema cfr. B. Bianco, Introduzione, in I. Kant, Logica di Vienna, Angeli, Milano 2000, pp. XI-LXXXII; H. Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla Critica della facoltà di giudizio, Quodlibet, Macerata 2004, pp. 29 sgg. 34

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ne umana (teleologia rationis humanae), e il filosofo non è un tecnico della ragione [Vernunftkünstler] ma è il legislatore della ragione umana36.

In una nota, Kant spiega che il concetto cosmico concerne «ciò che interessa necessariamente chiunque [jedermann]». Il fine di una scienza è invece stabilito secondo concetti scolastici «se essa viene considerata come una delle abilità rivolta a determinati fini arbitrari». L’interesse di ognuno è il fondamento della prospettiva autenticamente cosmica, mentre l’abilità del singolo nel perseguire un fine particolare anima la prospettiva scolastica, mirante alla «perfezione logica». Particolare attenzione, ai fini di una definizione del ruolo dell’antropologia, merita l’articolata definizione dei «fini essenziali» che, come si è visto, definiscono la prospettiva cosmica. I fini essenziali [wesentliche Zwecke] pertanto non coincidono ancora con i fini supremi [die höchsten], dei quali (se si sia raggiunta la perfetta unità sistematica della ragione) non può esservene che uno solo. Di conseguenza quei fini o coincideranno con lo scopo finale [Endzweck] o costituiranno dei fini subalterni [subalterne Zwecke], che appartengono necessariamente ad esso come dei mezzi. Lo scopo finale non è altro che l’intera destinazione dell’uomo, e la filosofia che se ne occupa si chiama morale37.

Kant introduce qui un duplice livello, che rende il quadro più dinamico di quanto possa apparire a una lettura affrettata. I fini essenziali coincidono direttamente con il fine supremo – al singolare – solo nel contesto del raggiungimento della «perfetta unità sistematica della ragione», condizione che tuttavia non si può dare per scontata. È dunque opportuno considerare «essenziali» anche i fini subordinati, intesi come mezzi rispetto al fine supremo. Consideriamo da vicino questo duplice livello. Dello Endzweck, precisa Kant, tratta la filosofia chiamata Moral, chiamata a pronunciarsi sulla destinazione dell’uomo. Il testo lascia invece impregiudicata ogni giurisdizione quanto al dominio dei subalterne Zwecke. Il piano dei fini subordinati, che pur essendo mezzi rispetto alla destinazione dell’uomo partecipano ancora della prospettiva di ciò che è «essenziale» in vista del fine supremo, e dunque, a rigore, della kosmische Betrachtung, individua il terreno sul quale collocare il discorso antropologico: la duplice articolazione indicata consente allora di definire il campo dell’antropologia senza inquinare la morale di considerazioni empiriche38. Non sono questi gli unici passaggi che fanno dell’Architettonica un testo importante per la comprensione dell’antropologia kantiana. Dopo aver me36

KrV, B 866-867, trad. it. cit., p. 1177. KrV, B 868, trad. it. cit. (modif.), p. 1179. 38 Cfr., ad es., KrV, B 869, trad. it. cit., p. 1181. 37

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glio articolato il proprio concetto della metafisica, Kant affronta la questione dell’uso matematico ed empirico della ragione considerati secondo il punto di vista dei fini essenziali. Egli osserva: La matematica, la fisica, la stessa conoscenza empirica dell’uomo, possiedono un alto valore come mezzi, per lo più in vista di fini contingenti [zufällig] ma in ultima istanza anche in vista di fini necessari ed essenziali dell’umanità: in quest’ultimo caso, però, solo con la mediazione di una conoscenza razionale che muova da semplici concetti, e che può essere chiamata come si vuole, ma propriamente non è altro che metafisica39.

Di norma, discipline come la matematica o la fisica sono soggette all’uso scolastico e mirano alla sola «perfezione logica»; tuttavia esse sono anche passibili per Kant di un uso cosmico, rivolto ai fini necessari ed essenziali dell’umanità. Trascureremo qui i problemi riguardanti la matematica e la scienza della natura per concentrare l’attenzione esclusivamente sulle conseguenze che riguardano la «empirische Kenntnis des Menschen», la cui presenza in questo passaggio (non a caso introdotta da Kant con un «selbst») può forse sorprendere. Ma è chiaro che anche la conoscenza empirica dell’uomo può dare il suo contributo al raggiungimento dei «fini essenziali dell’umanità»: stabilita della filosofia morale la Bestimmung des Menschen, la conoscenza empirica deve orientarsi a essa, dedicandosi alla questione – pur tuttavia «essenziale» – dei mezzi in vista di quella. Il quadro che ne risulta è congruente con l’impianto dell’antropologia «pragmatica». Oltre alle pagine dell’AP che si analizzeranno, si possono richiamare altri luoghi paralleli: Persino la conoscenza dell’uomo può dunque essere concepita come conoscenza scolastica oppure come conoscenza del mondo. Quest’ultima è l’antropologia pragmatica. Essa studia che cos’è l’uomo solamente per desumere delle regole in merito a ciò che egli può fare di sé, o a come può servirsi di altri. Non è psicologia, la quale invece è una conoscenza scolastica40.

La conoscenza empirica dell’uomo, nelle forme storiche fin qui date, si è applicata a fini «scolastici»; dopo che la critica ha determinato la destinazione razionale dell’uomo, essa può tuttavia applicarsi a fini «essenziali» collocandosi, in posizione strumentale, entro il quadro della filosofia in senso cosmico.

39 40

KrV, B 878 (corsivo nostro), trad. it. cit., p. 1193. HN, AA XV 800. Il testo riporta «Schulkentnis» e «Weltkentnis» [sic].

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3. Il significato antropologico del «pragmatico» Si è detto che Kant non caratterizza fin da principio l’antropologia come «pragmatica». Quando avviene questo mutamento e cosa comporta per il «piano» kantiano dell’antropologia esposto nella lettera a Herz del 1773? Al riguardo si può partire proprio da una considerazione che chiama nuovamente in causa l’ex allievo berlinese di Kant. Nel 1775, due anni dopo la recensione a Platner che aveva occasionato i passaggi discussi della lettera, Herz recensiva nella stessa Allgemeine Deutsche Bibliothek un altro volume di argomento antropologico: la Geschichte von den Seelen der Menschen und Thieren, pragmatisch entworfen di J.C. Hennings41. Senza lesinare pesante sarcasmo sulle qualità dell’autore, Herz magnifica tuttavia la bontà del progetto generale di una storia «pragmatica» dell’anima, la quale proprio per questo richiederebbe l’applicazione di ben altre menti filosofiche: Gli osservatori in Germania e in Inghilterra hanno raccolto una messe di fenomeni che dovrebbero essere di notevole rilevanza nella costruzione di un sistema psicologico; ora un genio filosofico dovrebbe assumersi il compito di comparare l’una con l’altra queste osservazioni sparse, adattarle a quelle teorie ben stabilite e [offrire (R.M.)] così una storia pragmatica della variabile condotta dell’anima e delle molteplici applicazioni delle sue forze nei diversi rapporti entro cui essa si trova durante la propria esistenza. Questa sarebbe allora una vera storia dell’anima umana42.

Siamo all’epoca della formulazione, da parte di Kant, dell’idea di una trattazione «pragmatica» dell’antropologia43. La recensione di Herz (non il 41 M. Herz, Rez. von J.C. Hennings, Geschichte von den Seelen der Menschen und Thieren, pragmatisch entworfen, «Allgemeine Deutsche Bibliothek», 26, 2. Stück (1775), pp. 326-342. Benché non ci siano prove dirette di una sua ricezione da parte di Kant, l’autore, la sede editoriale e il tema sono i medesimi, cosa che rende l’ipotesi senza dubbio plausibile. La continuità tematica col precedente intervento di Herz emerge allorché lo stesso Hennings dichiara nella Vorrede di aver letto Platner solo dopo il completamento della propria opera, ma di essere tuttavia in perfetta sintonia con lui «su diverse dottrine generali»: cfr. J.C. Hennings, Geschichte von den Seelen der Menschen und Thieren, pragmatisch entworfen, Gebauer, Halle 1774, p. 26. 42 M. Herz, Rez. von J.C. Hennings, cit., p. 328 sg.: «Beobachter haben in Deutschland und England eine Menge Erscheinungen gesammelt, die bey der Errichtung eines psychologischen Systems von ungemeiner Erheblichkeit seyn müßten; nun sollte ein philosophisches Genie das Werk übernehmen, diese zerstreute Beobachtungen mit einander zu vergleichen, jenen festgesetzten [sic.] Theorien anzupassen, und dann eine pragmatische Geschichte von dem verschiedenen Verhalten der Seele und den mannigfaltigen Wendungen ihrer Kräfte in den verschiedenen Verhältnissen, in denen sie während ihres Daseins sich befindet [...]. Dies wäre denn eine wahre Geschichte der menschlichen Seele». 43 È difficile fornire una datazione precisa per la formulazione «pragmatica» dell’antropologia. Nelle lezioni di Geografia fisica Kaehler l’antropologia è presentata da Kant come la disciplina che studia ciò che nell’uomo è pragmatico anziché speculativo, analogamente a quanto riporterà poi la Geografia fisica edita da Rink nel 1800: nell’antropologia «macht man

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volume di Hennings) potrebbe esserne stata una delle fonti di ispirazione44. I riferimenti di Herz ai «rapporti» che l’anima intrattiene «während ihres Daseins» (espressione questa tutt’altro che scontata, a ben vedere45) e all’«applicazione» in essi delle «forze» psichiche corrispondono nelle grandi linee a diversi aspetti di quello che sarà poi effettivamente il modello kantiano. In ogni caso, l’appello nella recensione di Herz – fin qui trascurata in letteratura – testimonia di come poteva essere recepita all’epoca, in alcuni ambienti, la costellazione semantica che si andava prefigurando per l’antropologia. Ciò conferma il ruolo, recentemente messo in risalto in letteratura, della «storiografia pragmatica» in ordine alla questione46. Questo avvicinamento avviene però in un senso chiaramente polemico: è il tentativo improprio di estendere le procedure della storiografia pragmatica alla storia naturale dell’anima – in una parola, il goffo «psicologismo» di cui Hennings è un esempio – a innescare la reazione di Herz e l’appello alla sintesi da parte del «genio filosofico». Nell’opera kantiana il termine «pragmatico» è attestato in accezioni diverse. Ragioni di spazio impediscono qui di discuterne, se non entro i limiti di una ricognizione mirata al problema in esame. Oltre al concetto sopra illustrato per cui l’antropologia in quanto è pragmatica «mira a determinare quello che l’uomo come essere libero fa, oppure può e deve fare di se stesso», il concetto in Kant rimanda alla capacità di servirsi degli altri ai propri fini, talora intesa in correlazione alla «prudenza» (Klugheit), distinta in questo dall’«abilità» tecnica e dalla «bontà» morale; ma a dispetto di quest’ul-

sich mit dem bekannt, was in dem Menschen pragmatisch ist und nicht speculativ» (PG, AA IX 157); di conseguenza, l’uomo non va studiato «fisiologicamente» ma «cosmologicamente». (p. 80). Nell’ipotesi di datazione più accreditata, ossia che la Nachschrift Kaehler risalga al 1774, la recensione di Herz sarebbe successiva e non rappresenterebbe dunque la fonte primaria della «svolta» pragmatica in antropologia da parte di Kant. Essa conserva comunque notevole valore quale testimonianza dell’affermarsi e del diffondersi di una concezione alla quale Kant non avrebbe potuto rimanere insensibile. A Werner Stark, curatore dell’edizione delle Vorlesungen über physische Geographie (cfr. per ora AA XXVI.1) il più sentito ringraziamento per alcune importanti indicazioni sul contenuto e la datazione dell’ancora inedita lezione Kaehler (su cui cfr. anche R. Brandt, Kritischer Kommentar, cit., p. 117). 44 La concezione del «pragmatico» in Hennings si limita all’andamento critico-dossografico di cui si sostanzia la materia del volume: cfr. Geschichte von den Seelen, cit., p. 16. A onor del vero, egli distingue tra «Lehrart der Schule» e «Lehrart der Welt» (p. 19), ma non pare andare oltre un generico sincretismo metodologico. 45 Tanto più che Hennings offriva una dimostrazione dell’immortalità dell’anima e confutava i sostenitori dello Seelenschlaf sostenendo che essa inizia la vita spirituale immediatamente dopo l’abbandono del corpo: Geschichte von den Seelen, cit. p. 336 sgg. e 354 sg. 46 Sull’intera questione, cfr. Th. Sturm, Kant und die Wissenschaften vom Menschen, cit., pp. 309 sgg.; Id., Why did Kant reject physiological explanations in his anthropology?, «Studies in the History and Philosophy of Science», 39 (2008), pp. 495-505.

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tima distinzione, altrove Kant associa invece pragmatico e pratico47. Conviene iniziare la discussione proprio da quest’ultimo problema. Va rilevata, soprattutto nella critica anglosassone, una certa insistenza sul concetto di un’antropologia morale non di rado basata sull’associazione, quando non sull’identificazione, di pratico e pragmatico. Ciò indica per l’antropologia il ruolo di una morale «impura», empirica o applicata: la «seconda parte» della morale48. Tuttavia, occorre rilevare che l’identificazione di pratico e pragmatico va adeguatamente circoscritta. Anche per le prospettive storiografiche che ne derivano, è interessante riportare a tale riguardo un’osservazione del fondatore del «pragmatismo», Charles S. Peirce. Nella polemica che lo oppose a William James quanto alla paternità e al significato del termine, Peirce nota tra l’altro: [...] per chi aveva appreso la filosofia da Kant, come il sottoscritto [...], e pensava ancora molto facilmente in termini kantiani, pratico e pragmatico erano distanti come i due poli: il primo appartiene a una regione del pensiero nella quale la mente di tipo sperimentale non può mai trovare un terreno solido sotto i propri piedi; il secondo esprime la relazione a qualche scopo umano ben preciso49.

La percezione di questa differenza appare oggi assai più sfumata; ad ogni modo, questo sembra configurare per l’antropologia un problema opposto a quello sopra indicato (ossia l’identificazione dell’AP con l’antropologia morale): si aprirebbe allora un insanabile contrasto tra antropologia e filosofia morale, che rischia di rendere in ultima analisi inammissibile la prima. 47 Per una classificazione, cfr. R. Louden, Kant’s impure ethics: from rational beings to human beings, Oxford University Press, New York 2000, p. 69 sg.; P. Frierson, Freedom and anthropology in Kant’s moral philosophy, Cambridge Univ. Press, Cambridge 2003, pp. 50 sgg. 48 Cfr. soprattutto R. Louden, Kant’s impure ethics, cit., p. 71; Id., The second part of morals, in Essays on Kant’s Anthropology, ed. by B. Jacobs and P. Kain, Cambridge University Press, Cambridge 2003, pp. 60-84. Per una critica, cfr. P. Frierson, Freedom and anthropology in Kant’s moral philosophy, cit., p. 54 e passim. Pur sostenendo tesi lontane da quelle di Louden quanto all’identificazione dell’AP con l’antropologia morale, anche Brandt suggerisce la contrapposizione tra un’antropologia «teoretica» e una «pratico-pragmatica» (R. Brandt, Kritischer Kommentar, cit., p. 10). Divergendo in questo da Brandt, il coeditore di AA XXV, W. Stark sottolinea l’intenzione kantiana soggiacente alla regolare coincidenza delle lezioni di morale e antropologia: W. Stark, Historical Notes and Interpretive Questions about Kant’s Lectures on Anthropology, in Essays on Kant’s Anthropology, ed by B. Jacobs, P.P. Kain, cit., pp. 15-37. 49 Ch.S. Peirce, «What pragmatism is» in Id., Collected Papers [5.412], vol. 5/6, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1965, p. 273 sg.: «[...] for the one who had learned philosophy out of Kant, as the writer, [...] and who still thought in Kantian terms most readily, praktisch and pragmatisch were as far apart as the two poles, the former belonging in a region of thought where no mind of the experimentalist type can ever make sure of solid ground under his feet, the latter expressing relation to some definite human purpose».

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Il problema della conciliazione tra questi due «poli» rimanda a una tensione indubbiamente presente nell’AP. Questa si apre con l’affermazione della libertà umana e la conseguente necessità di uno studio pragmatico (vs. fisiologico) dell’uomo, per concludersi con un’analisi delle attitudini della specie umana, dove pragmatica è detta la capacità di «servirsi degli altri uomini per i propri fini»50, cosa che sembra contrastare con l’attitudine morale che imporrebbe invece di trattare gli altri anche sempre come fini51. Se pratico è ciò che è possibile tramite la libertà, pragmatico qui sembra rimandare, all’opposto, a qualcosa che diviene possibile mediante una costrizione. Naturalmente, non si tratta di optare per l’uno o per l’altro significato insistendo sulle occorrenze che lo supportano, ma di chiarire se e in che misura l’AP possa vivere entro i termini di questa tensione concettuale, anziché soccombere in virtù di un uso semantico almeno potenzialmente contraddittorio. In vista di una soluzione potremmo rinviare alle pagine della Logik Jäsche dove Kant pone il problema dell’estensione del sapere. Egli ricorre all’immagine dell’«orizzonte» delle conoscenze, che può essere determinato logicamente (in base alle forze mentali), esteticamente (in base agli interessi e al gusto) o praticamente, vale a dire «in base all’utilità in relazione all’interesse della volontà». A proposito di questo problema (già rousseauiano) Kant osserva: L’orizzonte pratico, in quanto viene determinato in rapporto all’influenza che una conoscenza ha sulla nostra moralità, è pragmatico ed è della più grande importanza52.

Pragmatico rimanda qui al valore delle conoscenze in quanto influiscono sulla moralità. E cioè al problema sollevato dall’Architettonica: quello di indirizzare la conoscenza, e «persino» la conoscenza empirica dell’uomo, a fini non arbitrari bensì necessari ed essenziali. L’influsso benefico del sapere non è però che un aspetto della vicenda. Più in generale, l’AP presenta un percorso nel quale l’uomo, in quanto essere libero, rende se stesso lo strumento dei propri fini. Quest’assoggettamento implica una costrizione squisitamente «pragmatica»: ma nel caso specifico dell’antropologia, la «prudenza» nel servirsi degli altri si rivolge riflessivamente a ciò che l’uomo fa (o può e deve fare) di se stesso. L’«altro» da assoggettare «pragmaticamente», nell’AP, è l’uomo stesso, inteso in tutta la gamma semantica del termine: la persona di «carattere» vincola se stessa 50

Anth, AA VII 322, trad. it. cit., p. 217. GMS, AA IV 428, trad. it. di R. Assunto, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Bari 1988, p. 59. 52 Log, AA IX 41, trad. it. cit., p. 34 sg. 51

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alla moralità e, a livello sovraindividuale, nella storia, l’uomo mette in atto procedure (coercitive o persuasive) che vincolano anche altri a un atteggiamento (almeno esteriormente) conforme a ragione. L’AP è dunque il luogo teorico dove l’uomo – paradossalmente – si vincola alla libertà. Su questi temi si tornerà parlando della Caratteristica (cfr. infra, § 6); si evince fin d’ora, comunque, che la scala storica è consustanziale a questo concetto di pragmatico: in essa si realizza, accumulandosi e quasi «sedimentando» nell’uomo, l’intenzione razionale alla quale egli stesso si assoggetta. Sul piano politico si tratta di un tema ben noto: la paura del castigo giudiziario non rende mai morale una determinata azione, eppure l’attitudine che deriva dalle istituzioni civili, alla lunga, non nuoce ma anzi contribuisce alla moralità. L’antropologia pragmatica generalizza il problema, conducendolo per così dire dal piano dalla polis a quello del kosmos: la civilizzazione, le buone maniere, persino molti aspetti «negativi» come l’insocievolezza e l’ipocrisia sociale, hanno una funzione positiva in quanto avviano alla forma della morale, preparandone la sostanza. Con questi e altri mezzi l’uomo rende se stesso lo strumento dei fini della ragione umana. Vedremo in seguito come su questa scala cosmica l’uomo faccia di se stesso, in fondo, quello che la natura stessa esige da lui, di modo che la coppia oppositiva iniziale pragmatico/fisiologico ha valore metodologico per l’antropologia e non configura invece un’opposizione di merito tra natura e cultura. 4. La Prefazione. Il rimando al «mondo» La Prefazione all’AP contiene alcuni importanti riferimenti programmatici, che meritano attenta analisi. Il testo si apre con il seguente passaggio: Tutti i progressi civili, per mezzo dei quali l’uomo compie la propria educazione [Schule], hanno per fine di applicare le conoscenze e le abilità acquistate all’uso del mondo; ma l’oggetto più importante nel mondo, a cui egli può applicarle, è l’uomo, perché l’uomo è fine a se stesso [sein eigener letzter Zweck]. Il conoscere, dunque, l’uomo nella sua specie come creatura terrestre dotata di ragione merita di essere detto, in modo particolare, conoscenza del mondo, sebbene egli costituisca solo una parte delle creature della terra53.

L’antropologia è intesa come «conoscenza del mondo»: questo sembra paradossale perché l’uomo non è l’unico essere al mondo. In effetti, la Geografia fisica e l’Antropologia costituiscono assieme la Weltkenntnis54. Tuttavia in quanto «fine ultimo per se stesso» l’uomo detiene un primato che

53 54

Anth, AA VII 119, trad. it. cit., p. 3. Cfr. PG, AA IX 157.

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consente di considerare lo studio «pragmatico» del cittadino del mondo come conoscenza del mondo per eccellenza. Infatti: Un’antropologia, considerata come quella conoscenza del mondo, che deve seguire alla scuola [auf die Schule folgen muß], non sarà propriamente chiamata ancora pragmatica, quando essa contenga una conoscenza estesa delle cose del mondo, per esempio degli animali, delle piante e dei minerali nei diversi paesi e climi, ma quando contenga la conoscenza dell’uomo come cittadino del mondo55.

Secondo un uso abbastanza frequente da parte di Kant, il concetto di «mondo» è qui posto in alternativa a quello di «scuola». In generale, il riferimento antropologico al mondo si svolge su piani diversi. Il passaggio dalla «scuola» al «mondo» comporta anzitutto, più banalmente, una tesi pedagogica: l’antropologia prepara lo studente all’uscita dall’àmbito delle conoscenze scolastiche e al suo ingresso nel mondo56, ma esso ha anche il significato di rimandare a una diversa forma di selezione, aggregazione e trattazione del materiale della «conoscenza empirica dell’uomo», in correlazione con il metodo pragmatico57, e infine, di preparare la concezione cosmica del mondo come totalità dell’agire umano, in connessione con la teleologia58. Ciò emerge specialmente nella Caratteristica e giustifica la relazione della disciplina al quadro filosofico del conceptus cosmicus nel senso sopra indicato. Per indicare fino a che punto Kant riesca a far convergere questi usi distinti del Weltbegriff nella sua antropologia, è opportuno contestualizzare i passaggi citati della prefazione. La questione sorgeva, per Kant, dal nuovo ruolo architettonico della disciplina, dal vuoto iniziale che essa era chiamata a riempire. Nella Metaphysica di Baumgarten, la psicologia era incastonata tra le altre due parti della metaphysica specialis, la cosmologia e le teologia; quanto all’articolazione interna, poi, la psicologia empirica precedeva la psicologia razionale. Già nella Nachricht von der Einrichtung seiner Vorlesungen in dem Winterhalbenjahre von 1765-66, però, Kant annunciava una «piccola variante»: egli avrebbe trattato la psicologia empirica all’inizio del55

Anth, AA VII 120, trad. it. cit., p. 4. Di qui il carattere «popolare» e il variegato uditorio: cfr. R. Pozzo, «The Nature of Kant’s Anthropology Lectures in Königsberg», in Kant und die Berliner Aufklärung. Akten des IX. Internationalen Kant-Kongresses, hrsg. von V. Gerhardt, R.-P. Horstmann, R. Schumacher, de Gruyter, Berlin 2001, pp. 416-423. 57 La Weltkenntnis presuppone una certa esperienza empirica (Welterfahrung), ma la supporta e la stimola a sua volta. Cfr. F. Kaulbach: Weltorientierung, Weltkenntnis und pragmatische Vernunft bei Kant, in Kritik und Metaphysik. Studien. Heinz Heimsoeth zum achtzigsten Geburtstag, hrsg. von F. Kaulbach, J. Ritter, de Gruyter, Berlin 1966, pp. 60-75. 58 K. Düsing, Die Teleologie in Kants Weltbegriff, Bouvier, Bonn 1986 («Kant-Studien», Ergänzungshefte, vol. 96), p. 26 sg.: il concetto «cosmologico» di mondo, che rimanda alla totalità dell’agire umano, riconnette l’àmbito dell’antropologia alla concezione teleologica della terza Critica. 56

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la metafisica, dunque prima della cosmologia59. Con questo, Kant tornava per così dire dalla Metafisica di Baumgarten al Wolff della Metafisica tedesca60. Pur riconoscendo che «se si vogliono trattare le discipline approfonditamente secondo il loro ordine, allora all’ontologia segue la cosmologia e a questa la psicologia», nel dare una trattazione elementare Wolff aveva preferito anteporre alla cosmologia la psicologia empirica, in quanto «è più facile e risulta più gradevole ai principianti» dopo la noia (Verdruß) provocata in loro dall’ontologia61. Con questa mossa, motivata pedagogicamente, Wolff inseriva di fatto la disciplina a mo’ di cuscinetto tra la metafisica generale (ontologia) e quella speciale, senza tuttavia voler con questo sovvertirne stabilmente l’ordine (cosmologia-psicologia-teologia). Data la sua importanza nella Vorlesung kantiana, converrà considerare quest’articolazione così come essa emerge in Baumgarten. L’esperienza che l’uomo fa di se stesso è condotta anzitutto dal punto di vista della sua posizione particolare nel mondo: la ragione, tuttavia, consente infine di generalizzare quest’approccio e riflettere su quanto, dell’anima, non possiamo evincere dall’esperienza62. Il confronto tra l’anima umana e le altre anime, inferiori e superiori (§§ 792-799), prepara infine il passaggio dalla psicologia alla teologia. Il peculiare punto di vista della psicologia empirica (nella quale Baumgarten, correttamente, parla per lo più di «anima mea», mentre utilizza in seguito «anima humana») è stabilito «pro positu corporis», ossia secondo la posizione del corpus meum (§ 508), il quale «habet determinatum in hoc mundo positum [...] locum, aetatem, [...] situm [...]» (§ 509). Non si tratta ovviamente di affermazioni prive di conseguenze: il problema del grado di chiarezza delle rappresentazioni dipende direttamente da quest’impostazione, dato che «ex positu corporis mei in hoc universo cognosci potest, cur haec obscurius, illa clarius, alia distinctius percipiam [...]» (§ 512)63. La distanza del corpo dall’oggetto determina il grado di chiarezza delle rappresentazioni, in un mondo concepito principalmente come ordine di sostanze. Non a caso la definizione dell’anima nel § 513 suona: «Anima mea est vis [...] repraesentativa [...] universi [...] pro positu corporis sui». 59

AA II 308. Ch. Wolff, Vernünfftige Gedancken von Gott, der Welt und der Seele des Menschen, auch allen Dingen überhaupt (Deutsche Metaphysik), in Id., Gesammelte Werke, cit., Abt. I, vol. II, trad. it. di R. Ciafardone Metafisica tedesca: pensieri razionali intorno a Dio, al mondo, all’anima dell’uomo e anche a tutti gli enti in generale, Rusconi, Milano 1999. 61 Ch. Wolff, Ausführliche Nachricht von seinen eigenen Schriften die er in deutscher Sprache herausgegeben, in Id. Gesammelte Werke, cit., I. Abt., vol. IX, p. 232; cfr. anche le precisazioni già nella Deutsche Metaphysik, cit., § 540, trad. it. cit., p. 439. 62 A.G. Baumgarten, Metaphysica, cit., §§ 740-791 (natura, commercium cum corpore, origo, immortalitas, status post mortem). 63 Cfr. il commento di Kant in Refl, AA XV 5: «anima in corpore vel (corporis) per corpus in universo / pro statu corporis vel interno vel externo / et constitutione». 60

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L’ordine interno alla metaphysica specialis, la precedenza della cosmologia rispetto alla psicologia empirica, poi il passaggio a quella razionale e di qui alla teologia, risponde dunque in modo coerente a esigenze filosofiche di primaria rilevanza e risulta dunque non sovvertibile. È superfluo ricordare che in Kant quest’ordine non si presenta. La nuova collocazione della psicologia empirica comporta allora, nei fatti, che essa deve rinunciare a spiegazioni fondate sulla posizione e la costituzione corporea (esterna o interna); come pure, ovviamente, essa non potrà trovare lo sbocco naturale per le proprie riflessioni in una psicologia razionale che prelude alla teologia. L’anima dell’uomo non fa più parte integrante di un sistema ordinato di sostanze: essa, per così dire, non può più contare non solo su un dio che l’attende al termine del proprio itinerario, ma neppure su un mondo dal quale prendere le mosse. Non ha dunque torto Martin Heidegger, discutendo del concetto kantiano di orientamento, a osservare (e dal suo punto vista a deplorare) come al soggetto kantiano difetti l’esserenel-mondo64. Sia chiaro, però: anche in Kant il rimando al «mondo» rimane un punto di riferimento essenziale del discorso antropologico. Ma questo riferimento cambia di luogo e per così dire di segno rispetto alla tradizione. Se l’iter della metafisica speciale conduce dal mondo all’anima umana, l’antropologia kantiana conduce all’opposto – anche formalmente – dall’io al mondo. Il mondo non è dato da principio come garanzia metafisica, ma si presenta per l’uomo in veste di orizzonte di possibilità: esso deve sorgere sulla scorta della pur problematica collaborazione tra gli uomini. È un mondo sottoposto a considerazione teleologica, e come tale nobilitato dalla presenza umana, quello del quale l’antropologia si candida a essere la conoscenza65. Bandito dall’eden della metafisica, l’uomo kantiano deve guada64 M. Heidegger, Sein und Zeit, in Id., Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt a.M. 1975 sgg., Abt. I, Bd. 2, p. 146 (§ 23), trad. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Utet, Torino 1969, p. 143. 65 In Vom Wesen des Grundes, in Id. Wegmarken, Gesamtausgabe, cit., Abt. I, Bd. IX, trad. it. di F. Volpi, Dell’essenza del fondamento, in Id., Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 79-131, M. Heidegger discute il mutamento del concetto di mondo in Kant rispetto alla metaphysica specialis di Wolff e Baumgarten: accanto al concetto «cosmologico», egli osserva, Kant riprende nell’Antropologia, «freilich ohne die spezifisch christliche Färbung», il concetto «esistentivo» di mondo come mondo umano (p. 147, trad. it. cit., p. 103) di origine giovannea, paolina e agostiniana (pp. 144 sgg., trad. it. cit., pp. 99 sgg.). Purtroppo Heidegger non sviluppa l’interessante nozione, attribuita all’antropologia kantiana, di un kosmos agostiniano secolarizzato, se non identificando (del tutto arbitrariamente) il Weltbegriff antropologico kantiano nel «conoscere il mondo», o essere «uomini di mondo», e ciò fino al «gran mondo» fatto di Hotel e scuderie (nel quale, invece, l’antropologo si trova a mal partito secondo Kant: Anth, AA VII 120, trad. it. cit., p. 4). In questa identificazione del piano dell’AP con il Weltbegriff più volgare lo seguirà poi molta critica (cfr. ad es. K. Düsing, Die Teleologie in Kants Weltbegriff, cit., p. 26). Non solo la critica del giudizio teleologico, ma anche il concetto di «carattere» che corona la cosmologia della prima Critica e che rimanda (nel modo e con i limiti che vedremo, cfr.

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gnare da sé, con il sudore della fronte, il proprio posto in quel mondo che lo vedrà «cittadino» emerito. Se l’immagine pare azzardata, si ricordi ancora che il processo di affermazione dell’antropologia reca ovunque, sebbene in forme diverse, il duplice sigillo della secolarizzazione e dell’affrancamento dall’ipoteca metafisica. Il rapporto tra uomo e mondo, dunque, rappresentava un problema centrale dell’antropologia ben prima che Max Scheler codificasse la questione, mostrando quanto questa sia radicata nel genoma della disciplina66. Questo cenno parentetico non significa che la prospettiva scheleriana debba essere assunta a pietra di paragone: al contrario, si può affermare che la storia del problema antropologico nell’età moderna non sia così discontinua come molti (a partire dallo stesso Scheler) hanno suggerito. Se in essa a Kant spetta un posto di riguardo, è proprio in virtù nel nuovo rapporto tra cosmologia e antropologia. Dopo la Vernunftkritik, occorre ripensare decisamente la dottrina dell’uomo, dal cui orizzonte fuoriesce ora non solo l’anima, ma anche il suo correlato metafisico corporeo67. Il problema del rapporto anima/corpo, che a tutta prima potrebbe sembrare questione centrale per una dottrina dell’«uomo tutto intero» (der ganze Mensch)68, non rientra più, in Kant, nella prospettiva antropologica, che assume proprio per questo una connotazione pragmatica. Merita di essere qui discusso anche un altro possibile equivoco, in parte dettato dall’etimo: che l’antropologia sia o debba essere la scienza della «natura umana», intesa come qualcosa d’immutabile. Per Kant vi è certo qualcosa del genere: ma è la metafisica dei costumi, non l’antropologia. Se non nella forma, riecheggiante Rousseau, rimane cioè

infra, § 6) alla Caratteristica dell’Antropologia, impongono tuttavia qualche riflessione più approfondita sulle relazioni tra i due concetti di mondo – e dunque, tra mondo e uomo – in Kant. Benché Heidegger dimentichi tutto ciò a vantaggio di una banalizzazione dell’AP, funzionale a un ben preciso programma filosofico, egli riconosce giustamente l’incompatibilità del Weltbegriff di Kant rispetto alla metafisica speciale della scolastica: questo rende l’AP del tutto innovativa rispetto alla psychologia empirica di Wolff e Baumgarten, che è invece pienamente coerente con il concetto di mondo che le è proprio. 66 Cfr. M. Russo, Il posto del mondo nell’uomo. La mundana sapientia di Kant, «Etica e Politica», XII (2010/2): Philosophical Anthropology. Historical Perspectives, ed. by R. Martinelli (http://www2.units.it/etica). 67 Kant rifiuta tanto questo approccio all’antropologia, quanto la parallela questione metafisica della «comunanza dell’anima col corpo organico» ovvero «tra pensiero ed estensione», che si risolve nel compito di spiegare «come in un soggetto pensante in generale sia possibile l’intuizione esterna ossia dello spazio [...]» KrV, A 392-393 (cfr. anche B 427), trad. it. cit., pp. 1301, 621. 68 Ciò viene anche imputato polemicamente all’antropologia che, ad esempio secondo Herbart, mescola inopportunamente psicologia e «somatologia». J.F. Herbart, Rez. von H. Steffens, Anthropologie, in Id., Sämtliche Werke, hrsg. von K. Kehrbach e O. Flügel, Hermann Beyer & Sohne, Langensalza 1887-1915; repr. Scientia, Aalen 1989, vol. XII, pp. 189-211 (p. 190).

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valida nella sostanza anche per il Kant maturo la formulazione della già citata Nachricht: nella dottrina della virtù […] chiarirò il metodo con cui si deve studiare l’uomo, non solo quello sfigurato dalla mutabile forma impressagli dal suo stato contingente […] ma la natura dell’uomo, che rimane sempre69.

Kant parla qui di Tugendlehre: l’antropologia «pragmatica», evidentemente, è ben distante da un simile compito. Ancor meno l’antropologia è una Naturwissenschaft dell’umano: diversamente da Hobbes o dai materialisti francesi, Kant non pensa affatto di applicare le leggi e i metodi della scienza della natura al caso dell’uomo. Nondimeno, sempre nella Prefazione all’opera, Kant ascrive all’antropologia un carattere «scientifico»: La conoscenza generale precede sempre in questo la conoscenza locale, perché quella deve essere ordinata e guidata dalla filosofia; senza di che ogni conoscenza acquistata non può essere che un tentativo discontinuo, né può costituire scienza70.

La questione della «scientificità» dell’antropologia non è di natura epistemologica in senso moderno, quasi si trattasse per Kant di fondare una nuova scienza, o di discuterne i fondamenti: essa riguarda invece il piano dell’organizzazione e dell’accumulo futuro delle conoscenze in quest’àmbito del sapere. Al riguardo, il testo fondamentale è ancora una volta l’Architettonica della ragion pura, dove Kant – è bene ricordarlo – definisce Wissenschaft anche la filosofia. È infatti la disponibilità di un’«idea», in veste di nucleo attorno al quale organizzare il sapere nella sua specifica articolazione, a creare la «scienza»71. L’idea che dona organicità a una certa branca del sapere rende possibile la connessione e l’articolazione delle diverse conoscenze in un tutto organico nel quale, come in un organismo o nella facciata di un edificio, è possibile individuare delle lacune (benché non si sappia in cosa l’elemento mancante debba consistere): ciò fornisce al tempo stesso un piano per inserire le future conoscenze nel complesso. È in questo senso che l’antropologia, secondo Kant, deve organizzarsi scientificamente. Sembra ragionevole ammettere che l’«idea» attorno alla quale organizzare l’antropologia sia l’idea di uomo, ma occorre chiarire in che senso ciò vada inteso: escluso fin dal principio il ricorso alla fisiologia corporea, l’uomo non è neppure inteso come sostanza psicofisica, e neppure quale soggetto morale, bensì come Weltbürger, cittadino del mondo. Tanto più 69

AA II 311. Anth, AA VII 120, trad. it. cit., p. 4. 71 Cfr. KrV, B 860 sgg., trad. it. cit., pp. 1169 sgg.; PG, AA IX 158. 70

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dopo la perdita della relazione mondana come armonia delle sostanze, il rapporto tra uomo e mondo è centrale nell’antropologia pragmatica kantiana, al punto che questa può configurarsi come Weltkenntnis. La presenza di un elemento «popolare», legato alla funzione pedagogica delle lezioni, non inficia dunque, trascinandolo a un livello infra-filosofico, il concetto antropologico di mondo. Questo fa perno invece sul problema dell’applicazione su scala «cosmica», in riferimento dunque alla totalità delle generazioni umane, della ragione umana all’uomo stesso, che diviene così «fine ultimo di stesso». Le riflessioni sul duplice concetto di «natura» nell’AP nel paragrafo dedicato alla Caratteristica (infra, § 6) condurranno a chiarire meglio quest’aspetto. 5. La Didattica. Psicologia e patologia delle facoltà La prima parte del testo, la Didattica, si presenta quale erede diretta, nell’organizzazione tematica, della psicologia di Baumgarten. Ad ogni modo, Kant modifica l’assetto formale delle facoltà in quanto, tra la facoltà di conoscere e quella di desiderare, introduce il «sentimento del piacere e del dispiacere»72. Questo testimonia di un’apertura, già nel cuore della Didattica, a influenze di autori distanti dal wolffismo, come Sulzer, Mendelssohn e Tetens. Accanto a ciò, Kant intraprende poi modifiche di carattere contenutistico, che conferisce agli argomenti trattati un significato conforme al progetto di un’antropologia pragmatica. Consideriamo anzitutto il tema dell’«io» con cui si apre la trattazione. Al § 1 Kant afferma: Il fatto che l’uomo possa rappresentarsi il proprio io lo eleva infinitamente al di sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra. Per questo egli è una persona […]73.

Al periodo successivo Kant introduce un primo elemento di relativizzazione antropologica e osserva come «il bambino che già sa abbastanza parlare, tuttavia incomincia piuttosto tardi (forse dopo un anno) a esprimersi con l’io […]»74. È chiara fin d’ora l’enorme distanza rispetto all’analisi logico-trascendentale (in sede analitica e dialettica) dell’io. Ma è soprattutto il § 2 a sviluppare le implicazioni del riferimento all’io:

72

Anth, AA VII 230, trad. it. cit., p. 119. Anth AA VII 127, trad. it. cit., p. 9. N. Hinske, Kants Idee der Anthropologie, cit., p. 416 sg., rimanda a varianti testuali che mostrano una particolare cura nella formulazione del passaggio. 74 Anth, AA VII 127, trad. it. cit., p. 9. 73

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Dal giorno in cui l’uomo incomincia a parlare in prima persona, egli porta avanti il suo caro io dove può, e l’egoismo progredisce incessantemente, se non apertamente (perché gli si oppone l’egoismo degli altri), almeno nascostamente […]75.

Di qui l’analisi delle diverse forme di egoismo (logico, estetico, morale), dai cui dettagli possiamo prescindere in questa sede. Considerato sotto il profilo antropologico, il tema dell’io rimanda all’uso concreto che gli uomini (da un certo momento nel loro sviluppo biologico) ne fanno nel commercium con gli altri. Quello che scaturisce, invero impietosamente, è un ritratto lontano dalla pomposa affermazione della dignità dell’uomo in quanto soggetto autocosciente. Fin dalle prime pagine, Kant stigmatizza piuttosto l’aspetto egoistico che si ammanta sotto tali paludamenti. Il passaggio dall’io all’egoismo offre sùbito un esempio della differenza di impostazione tra la prospettiva psicologico-empirica e quella antropologico-pragmatica. Il nuovo progetto ha modificato lo sguardo rivolto alle facoltà umane, delle quali Kant tratta formalmente secondo l’ordine scolastico, ma in modo da mettere in risalto aspetti non riconducibili alla dinamica tra facoltà inferiore e superiore. Si avverte già, in queste pagine, un aspetto che accompagna l’intera opera, e riguarda la Stimmung, il tono usato da Kant nell’antropologia. A dispetto dell’escatologia cosmica che vedremo concretizzarsi nella Caratteristica, Kant – invero fortunatamente – è distante dagli afflati filantropici tipici di certe filosofie umanistiche. Al contrario, il tono generale dell’opera è quello di una considerazione distaccata e spesso ironica, che riesce a malapena a celare una sia pur «illuminata» misantropia. Dalle pagine conclusive risulta quanto poco ci sia da inorgoglirsi per l’appartenenza alla specie, come emerge dalla citazione attribuita a Federico II. A Sulzer, che magnificava l’idea rousseauiana che l’uomo sia buono per natura, il sovrano avrebbe risposto: «Ah! Mon cher Sulzer, vous ne connaissez pas assez cette maudite race à laquelle nous appartenons»76. Non si tratta solo di un di un atteggiamento personale da parte di Kant. Vi è un motivo preciso per cui il discorso sull’io conduce immediatamente all’egoismo; se l’analisi delle rappresentazioni degli oggetti esterni (che in certo modo traggono fuori dall’egoismo), fa perno sull’incapacità di astrarre e sulle rappresentazioni oscure77; se dall’apologia della sensibilità siamo condotti all’analisi del gioco illusorio del sensibile78 e, in conclusione, all’inibizione, indebolimento e perdita della 75

Anth, AA VII 128, trad. it. cit., p. 10. Anth, AA VII 332, trad. it. cit., p. 228. 77 Anth, AA VII 131 sgg., trad. it. cit., p. 13 sgg.; cfr. anche Refl, AA XV 63. 78 Anth, AA VII 149 sgg., trad. it. cit., p. 33; fatto salvo che un certo grado di apparenza è invece ammissibile (AA VII 151, trad. it. cit., p. 35) in senso morale, cosa su cui si dovrà tornare analizzando la Caratteristica. 76

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facoltà di sentire (sonno, svenimento, morte)79; se il discorso sul senso interno – dove la differenza tra antropologia e psicologia empirica è sottolineata con forza – ammonisce dalle relative illusioni in tutte le loro forme quali Gemütskrankheiten80; se la sezione sull’immaginazione ne studia gli eccessi di origine artificiale e naturale81, se l’analisi della facultas signatrix sfocia nella canzonatura dei «grilli» numerologici dove è l’immaginazione a «prendersi gioco» dell’uomo82; se dal sintetico «confronto antropologico» tra le facoltà conoscitive, dal quale emerge che la ragione si manifesta molto, forse troppo tardi nella vita umana83, si passa all’ampia analisi delle «debolezze e malattie» mentali84; se l’analisi si conclude con la sintesi delle tre massime dell’illuminismo – pensare da se stesso, mettendosi al posto degli altri, in accordo con se stessi – per le quali l’antropologia può sì offrire esempi, «ma ancora più dei loro opposti»85. Non c’è solo questo, certo, nella Didattica; ma Kant non tralascia l’analisi mai del momento negativo della corrispondente facoltà86. Anche passando, in una disamina necessariamente sintetica, agli altri due Vermögen, questo schema non sembra modificarsi. Seguendo Verri, Kant ritiene che il dolore preceda ogni piacere e s’interponga sempre all’instaurarsi di un piacere ulteriore87; il correlato del sentimento vitale, che gli uomini sostengono talora artificialmente, ha il suo risvolto nella noia: all’horror vacui provocato dall’assenza di sensazioni fa eccezione solo l’indolente «Caraibico» assiso sulla sua amaca88; la successiva analisi del gusto, che stimola positivamente la moralità, termina con la sua esagerazione nel lusso89. Emozioni e passioni sono gli elementi della facoltà di desiderare: le prime simili a ebbrezze momentanee, le seconde a malattie «per intossicazione o per deformazione», che abbisognano di un medico che però può prescrivere solo palliativi90; trovandosi infine impotente di fronte agli inguaribili «cancri della ragion pura pratica»91.

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Anth, AA VII 165, trad. it. cit., p. 50. Anth, AA VII 161, trad. it. cit., p. 46. 81 Anth, AA VII 169 sgg., trad. it. cit., pp. 54 sgg. 82 Anth, AA VII 191, 194, trad. it. cit., pp. 77, 80. 83 Anth, AA VII 201, trad. it. cit., p. 87. 84 Anth, AA VII 202-216, trad. it. cit., pp. 89-108. Cfr. O. Meo, La malattia mentale nel pensiero di Kant, Tilgher, Genova 1982. 85 Anth, AA VII 229, trad. it. cit., p. 118. 86 Cfr. R. Brandt, Kritischer Kommentar, cit., p. 13 sg., che però attribuisce all’elemento negativo una presenza sporadica (p. 14). 87 Anth, AA VII 231 sg., trad. it. cit., p. 120 sg. 88 Anth, AA VII 233, trad. it. cit., p. 122 sg. 89 Anth, AA VII 249, trad. it. cit., p. 139. 90 Anth, AA VII 252, trad. it. cit., p. 142. 91 Anth, AA VII 266, trad. it. cit., p. 157. 80

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Nella Didattica Kant s’interessa sistematicamente a ciò che nel meccanismo delle facoltà non funziona come dovrebbe, alla misura in cui l’uomo non è un animale razionale: non lo è ancora, non in forma compiuta. Lo schema illustrato dal caso del passaggio inaugurale ego-egoismo si ripete quasi inalterato lungo tutta la Didattica. Ciò avviene senza che vi sia condanna morale, ma nel senso dell’ammonimento «pragmatico» a servirsi dell’uomo così com’è per realizzare – in un certo senso malgré lui – i fini della ragione umana. Anche per questo motivo, nel tracciare il quadro complessivo di ciò che l’uomo è, Kant utilizza il tono sopra indicato di una paternalistica misantropia, che però è scevra di condanna moraleggiante. Entro questi limiti ben precisi si può affermare che accanto alla psicologia delle facoltà vi sia nella Didattica antropologica una patologia delle facoltà o più esattamente una Unvermögenspsychologie: una psicologia del sistematico fallimento dell’esercizio delle facoltà nel loro utilizzo concreto durante la vita umana individuale e collettiva. La conoscenza punto per punto di quest’aspetto è però decisiva perché vale a definire, nel senso precisato parlando della Didattica come Elementarlehre, il «materiale» con il quale si ha a che fare, sul quale si deve operare in senso pragmatico. A ulteriore sostegno di questa linea interpretativa è interessante citare alcune delle testimonianze di contemporanei. In generale, va detto, nelle reazioni del tempo (fino a Herbart e Fries), non viene mai rilevata la dipendenza dell’antropologia di Kant dalla psicologia scolastica. Talora accade anzi esplicitamente l’opposto, come in un recensore tutt’altro che tenero come Schleiermacher. A suo dire, l’antropologia dovrebbe fondarsi sul duplice pilastro del riconoscimento dell’identità di natura e libertà nell’uomo, al punto che la libertà nell’uomo è natura, e la natura umana è libertà. Ora, non riconoscendo alcuna «natura» all’io, Kant trascura il secondo teorema, mentre la psicologia di un tempo, «della quale oggi grazie a Dio non si sente più parlare» trascurava il primo92. Per questo motivo Kant fallisce nel fondare l’antropologia, che è piuttosto un documento del «contrario di ogni antropologia», un meschino riverbero delle abitudini e delle piccole miserie dell’uomo Immanuel Kant, una «Kantologia» da consigliare solo ai suoi adoratori più ciechi93. Come si vede, in questo quadro desolante Schleiermacher non nega a Kant almeno l’onore delle armi, mostrando come le ragioni di questo totale fallimento non siano nell’adozione dell’esecrata psicologia scolastica, ma proprio nell’errore teoretico diametralmente opposto.

92 F.D. Schleiermacher, «Rezension von Immanuel Kans Anthropologie», Athenaeum, II, 2 (1799), poi in Kritische Gesamtausgabe, hrsg. von H.-J. Birkner et al., sez. I: Schriften und Entwürfe, vol. II, de Gruyter, Berlin 1984, pp. 365-369 (p. 366). 93 Ivi, p. 369.

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Ancor più interessante per la questione in esame è una lettera di J.W. Goethe a F. Schiller dell’inverno 1798 dove, discorrendo dell’Antropologia kantiana, si afferma tra l’altro: […] da questo punto di vista l’uomo appare sempre in uno stato patologico; e dal momento che – come attesta in prima persona l’anziano Signore – prima del sessantesimo anno non si può essere razionali, non è dunque divertente doversi dichiarare degli sciocchiper il resto del tempo della propria vita94.

Quello stesso 19 dicembre Goethe tocca l’argomento anche in una lettera a C.G. Voigt, rilevando che il testo kantiano andrebbe letto [...] solo in primavera, quando gli alberi fioriscono, in modo da ottenere dall’esterno un contrappeso allo sconforto che regna sulla maggior parte del libro; io l’ho letto mentre dei bambini mi giocavano attorno, cosa che può andare bene, perché discendendo dalle altezze della ragione l’intera vita sembra uguale a una brutta malattia e il mondo a un manicomio95.

L’osservazione goetheana sullo «stato patologico» viene raccolta da Schiller nella sua risposta: [...] Il lato patologico, che Kant tira fuori sempre nell’uomo, e che in un’antropologia potrebbe forse essere appropriato, lo si trova in tutto ciò che scrive, ed è quello che conferisce alla sua filosofia pratica un aspetto così burbero96.

Si tratta naturalmente delle osservazioni incidentali di un epistolario; tuttavia la naturale, quasi spontanea concordanza dei due autori in merito alla rilevanza del «patologico» nel caso dell’antropologia kantiana merita di non essere archiviata troppo frettolosamente. Certo, questo deriva in parte dal concetto di antropologia che i due autori potevano aver sviluppato per vie indipendenti97. Ma è significativo che l’antropologia kantiana riveli ai loro occhi alcuni tratti decisamente «patologici». Questo consente, incidentalmente, di accennare all’ampia diffusione della riflessione antropologica nell’età immediatamente successiva alla scomparsa di Kant, per sottolineare l’opportunità di ulteriori ricerche in questa direzione. Gli effetti dell’antropologia kantiana sugli scrittori dell’età successiva, infatti, sono stati infatti 94 Cit. da Anhang II, a cura di R. Malter, in I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, Meiner, Hamburg 1980, p. 336. Per l’osservazione kantiana sulle facoltà conoscitive in rapporto all’età cfr. Anth, AA VII 201, trad. it. cit., p. 87. 95 Anhang II, cit., p. 337. Poco oltre Goethe lamenta ancora il fatto che «una persona assennata non dovrebbe usare la parola “sciocco” (Narr) così frequentemente», forse in rif. a Anth, AA VII 211, trad. it. cit., p. 98. 96 Anhang II, cit., p. 336. 97 Cfr. sul tema M. Bell, The German Tradition of Psychology in Literature and Thought, 1700-1840, Cambridge University Press, Cambridge 2005; M. Riedel, Die Anthropologie des jungen Schillers, Königshausen und Neumann, Würzburg 1985.

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messi in luce solo molto parzialmente. In generale, Kant agì da stimolo sull’antropologia dell’età romantica: talora direttamente, tramite la sua antropologia (e già prima del 1798 con la circolazione delle Nachschriften), che fu meno negletta di quanto si assuma in genere98; talora in forme più indirette, nelle quali è la filosofia trascendentale a muovere analoghi progetti di revisione antropologica (e qui pensiamo a Fichte)99. In entrambi queste direttrici di ricezione, l’aspetto «negativo» – nel senso sopra illustrato – è destinato a un’importanza crescente. In tal senso, il lato «patologico» della Didattica già individuato da Goethe e Schiller rappresenta un elemento imprescindibile alla comprensione delle successive antropologie della Romantik, non esclusa la corrente medico-psichiatrica100. Caduta la netta distinzione wolffiana tra facoltà inferiore e superiore, nell’AP Kant mostra gli aspetti difettivi della cognizione, del sentimento e della volontà umani quali risvolti negativi dell’utilizzo sociale della corrispondente facoltà: un utilizzo per molti versi inestirpabile dal singolo, ma passibile in certa misura di una correzione «pragmatica», soprattutto su scala storica. Ma occorre considerare il termine «uomo» in tutta la sua pluralità semantica, negli ambiti sovraindividuali (W. von Humboldt li chiama in quegli anni Menschengattungen, «generi» – ma non solo genders – dell’uomo101) entro i quali il singolo si trova ad agire e ad essere agito, in un meccanismo di condizionamento che, se appare anzitutto foriero di effetti deprecabili, può essere infine piegato alle finalità dettate dall’«interesse di ognuno». A questa funzione risponde la Caratteristica antropologica.

98 Per una trattazione condotta sulla scorta dell’esempio di H. Steffens e J.Ch.A. Heinroth cfr. R. Martinelli, Uomo, natura, mondo, cit., pp. 84 sgg. (nonché, per le tracce kantiane nell’Antropologia di Hegel, p. 105 sgg.). A ciò va aggiunto almeno un riferimento al terzo volume, intitolato Pragmatische Anthropologie, dell’opera di J. Hillebrand, Die Anthropologie als Wissenschaft, Kupferberg, Mainz 1822-23 (i cui primi due volumi sono rispettivamente dedicati alla Allgemeine e alla Besondere Naturlehre des Menschen, quest’ultima intesa come «somatologia e psicologia»). Sull’eredità di lungo termine dell’antropologia kantiana sia concesso rimandare a R. Martinelli, Conceptus cosmicus. Conseguenze dell’antropologia kantiana, in Bios e Anthropos. Filosofia, biologia e antropologia, a cura di G.F. Frigo, Guerini, Milano 2007, pp. 111-140. 99 Cfr. L. Fonnesu, Antropologia e idealismo. La destinazione dell’uomo nell’etica di Fichte, Laterza, Roma-Bari 1993; F. Fabbianelli, Antropologia trascendentale e visione morale del mondo. Il primo Fichte e il suo contesto, Guerini e Associati, Milano 2000. 100 Cfr., ad es., U. Benzenhöfer, Psychiatrie und Anthropologie in der ersten Hälfte des 19. Jahrhunderts, Pressler, Hürtgenwald 1993, pp. 20 sgg. 101 W. von Humboldt, Plan einer vergleichenden Anthropologie (1796), in Id., Werke, vol. V: Kleine Schriften, Autobiographisches, Dichtungen, Briefe. Kommentare und Anmerkungen. Anhang, hrsg. von A. Flitner und K. Giel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1960, pp. 337-375, trad. it. di F. Tessitore, Piano di un’antropologia comparata, in Università e umanità, Guida, Napoli 1970, pp. 57-98.

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6. La Caratteristica. Carattere e destinazione dell’uomo La Caratteristica antropologica è suddivisa nelle sezioni dedicate al carattere della persona, del sesso, del popolo, della razza e della specie. Il concetto kantiano di «carattere», fondamento di questa seconda sezione, richiede alcune considerazioni preliminari. Nella Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura Kant introduce il concetto nell’accezione più generale: il carattere è la «legge» della causalità, senza la quale un determinato oggetto «non sarebbe affatto causa»102. Il «carattere» è dunque la regola generale, cui si conforma la causazione nell’occasione determinata. Kant introduce qui la celebre distinzione di carattere «empirico» e carattere «intelligibile», mostrando come non vi sia contraddizione nel riconoscere entrambi all’uomo. In quanto agisce come causa in senso fenomenico, questi è soggetto alle rigorose leggi naturali nella serie temporale, in quanto causa intelligibile non è invece sottoposto all’azione del tempo, ed è dunque causa libera. Kant dimostra così che l’universalità delle leggi di natura, in generale, non è in contraddizione con la libertà. Nella Critica della ragion pratica si affronta la medesima prospettiva: l’azione «appartiene a un unico fenomeno del carattere, che [l’essere razionale] procura a se stesso e secondo il quale attribuisce a sé, come a una causa indipendente da ogni sensibilità, la causalità di quegli stessi fenomeni»103, ed è per questo che un’azione malvagia può essere retrospettivamente vissuta come qualcosa che il soggetto avrebbe potuto non fare, a dispetto del fatto che essendo essa trascorsa, risulta con ciò stesso necessaria. Coerentemente il carattere è definito nella Methodenlehre «modo di pensare pratico coerente secondo massime immutabili»104. Nell’AP Kant utilizza il concetto leggendolo, per così dire, a ritroso: muovendo cioè dal carattere empirico inteso come «segno sensibile (sinnliches Zeichen)» di quello intelligibile105; anzi, partendo dall’intera fenomenologia del carattere empirico dell’uomo, ciò che dà luogo nel suo insieme, per l’appunto appunto, a una «caratteristica». L’uso antropologico del concetto di carattere rende possibili sviluppi che rimarrebbero altrimenti inesplorati: mentre nella discussione della cosmologia razionale della Dialettica trascendentale l’irrompere della libertà nel mondo meccanico (reso non 102 KrV, B 567, trad. it. cit., p. 795. Sul tema cfr. F. Munzel, Kant’s Conception of Moral Character: The «Critical Link» of Morality, Anthropology, and Reflective Judgment, University Press of Chicago, Chicago 1999. 103 KpV, AA V 97, trad. it. di F. Capra riv. da E. Garin, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1955, p. 119. Sull’azione come «fenomeno» del carattere cfr. KpV, AA V 100, trad. it. cit., p. 122. 104 KpV, AA V 152, trad. it. cit., p. 182. 105 KrV, B 574, trad. it. cit., p. 803.

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contraddittorio dal concetto di carattere intelligibile) conduce all’idea dell’essere necessario, nell’antropologia l’analisi del carattere empirico in tutte le sue occorrenze conduce alla Bestimmung des Menschen. Infatti, in ragione della regolarità causale in esso esprimentesi, già individuata nella prima Critica, il «carattere» diviene l’elemento che permette di predire la «destinazione» (Bestimmung) di un determinato essere vivente106. Prima di illustrare la trattazione antropologica del carattere è opportuna una breve digressione storica che prelude all’analisi della questione nel Kant precritico. Benché il termine «carattere» valga spesso come equivalente moderno per ethos, è attestato anche un utilizzo in ambito morale del greco charakter, che designa il risultato di un imprimere (charassein), ad esempio l’effigie sulle monete, ciò che spiega l’uso del termine in accezione tipografica. In Teofrasto il carattere è quanto viene «impresso» all’uomo secondo un meccanismo che tipizza l’agire umano entro schemi reiterati, al 107 limite della caricatura, in una ritrattistica intenzionalmente avalutativa . È nell’agorà, non nel clima o nella legge, che trovano la loro origine questi momenti tipicamente negativi, quasi sindromi di tic comportamentali la cui sanzione è il ridicolo, non la condanna morale. Già nel mondo antico il concetto è dunque fulcro di una semiotica: esso è segno esteriore dell’interiorità, in un modo che verrà poi variamente coniugato ed esteso in epoche successive, nella fisiognomica rinascimentale e poi settecentesca108. Sulla moderna psicologia del carattere ha richiamato l’attenzione soprattutto Dilthey: accanto alla metafisica dell’anima si affacciano nel pensiero rinascimentale tendenze a dare risalto all’individuale, che si manifestano anzitutto nel genere dell’autobiografia (Cardano, Cellini) e della letteratura moralistica109. Ed è proprio entro il genere moralistico che la tradizione teofrastea ritroverà vigore, soprattutto con La Bruyère: il carattere si estrinseca qui in varie maniere, al punto di consistere – perfidamente – nella mancanza di (autentico) carattere degli uomini, in una mutevolezza nella quale sono costanti, se mai lo è qualcosa, malcostume e indifferenza alla virtù110. Ora, secondo la nota osservazione di Borowski, in una recensione anonima alle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime del 1764 Kant fu definito 106

Anth, AA VII 329, trad. it. cit., p. 224. Cfr. Teofrasto, Caratteri, a cura di M. Vilardo, Mondadori, Milano 1989. 108 Per la discussione kantiana della fisiognomica cfr. Anth, AA VII 295 sgg., trad. it. cit., pp. 187 sgg. 109 W. Dilthey, Die Funktion der Anthropologie in der Kultur des 16. und 17. Jahrhunderts (1904), trad. it. La funzione dell’antropologia nella cultura dei secoli decimosesto e decimosettimo, in Id., L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura. Dal rinascimento al secolo XVIII, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 210-302. 110 J. de La Bruyère, Les caractères ou les moeurs de ce siècle (1688), Gallimard, Paris 1975, p. 224. 107

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il «La Bruyère dei tedeschi»111. Naturalmente, l’affermazione va relativizzata. Va però rilevato come Kant, in parte per il tramite della saggistica anglosassone, soprattutto Shaftesbury e lo Hume degli Essays, risenta anche di una tradizione che potremmo a buon diritto definire «antropologica» del concetto di carattere, che costituisce una prima fonte (non l’unica, come vedremo) della Caratteristica dell’AP. Le Osservazioni non possono non richiamare l’attenzione come antecedente della Caratteristica anzitutto per l’omologia formale (almeno parziale), dei due testi. L’opera è suddivisa in quattro capitoli: dopo una descrizione generale del bello e del sublime, Kant organizza secondo questa bipartizione le qualità dell’uomo in generale (II), ne applica il fondamento al caso delle differenze tra i sessi (III) e articola sulla base del diverso sentimento del bello e del sublime una tipologia delle differenze tra i popoli (IV)112. Formalmente parlando, nella Caratteristica a questo schema verranno ad aggiungersi la sezione (ivi peraltro non sviluppata) sul carattere delle razze e quella finale, sul carattere della specie. La Caratteristica dell’AP, ad ogni modo, non è frutto di un semplice ampliamento, bensì di un ripensamento della materia che deriva dalle novità nel frattempo intercorse nella concezione della morale. Dal punto di vista della nozione di carattere, è interessante il riferimento delle Osservazioni alla ritrattistica di Hogarth, che vale al tempo stesso a chiarire lo stile esemplaristico poi usato da Kant anche nelle lezioni di antropologia e nel libro del 1798: Renderò alquanto più comprensibile per mezzo di esempi questo stupefacente quadro delle debolezze umane: poiché colui al quale faccia difetto il bulino di Hogarth dovrà supplire con la descrizione dove gli manchi il disegno113.

Nelle Osservazioni la vera virtù è associata da Kant al sublime, mentre vi sono qualità morali che possono esser dette belle; la virtù può essere inculcata solo in conformità alla «consapevolezza di un sentimento che abita in ogni cuore umano», quello della «bellezza e dignità della natura umana»: questa non dà luogo a principi speculativi, ma fa perno sulla benevolenza universale e sull’universale rispetto. Poste tuttavia la «debolezza della natura umana e l’esigua presa che il sentimento morale generico avrebbe sulla

111 Cfr. Immanuel Kant. Sein Leben in Darstellungen von Zeitgenossen. Die Biogr. von L.E. Borowski, R.B. Jachmann und E.A.Ch. Wasianski, hrsg. von F. Gross, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1993, p. 28, trad. it. di E. Pocar, La vita di Immanuel Kant narrata da tre contemporanei, Laterza, Bari 1969, p. 32. 112 GSE, AA II 205 sgg., trad. it. di R. Assunto e A. Pupi, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, in Id., Scritti precritici, Laterza, Bari 1982. 113 GSE, AA II, 241, trad. it. cit., p. 301.

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maggior parte dei cuori», fortunatamente la provvidenza ha dotato l’uomo di «istinti soccorrevoli [hülfleistende Triebe] come supplementi della virtù»114. Che questo non possa più essere un quadro teorico ammissibile per il Kant maturo ha appena bisogno di essere sottolineato. Il fatto è, però, che il problema illustrato permane in tutta la sua drammaticità, anzi ne risulta forse aggravato. Se il «sentimento morale» delle Osservazioni ha poca presa sulla maggior parte dei cuori, possiamo forse attenderci che la voce dell’imperativo categorico sia invece ascoltata senza eccezioni? Nel nuovo quadro dell’AP, tuttavia, la Vorsehung non affiderà più all’«istinto», bensì a qualche altra istanza o meccanismo – su cui dovremo tornare – il compito di farsi carico di questa questione, una delle più spinose tra quelle di pertinenza dell’antropologia. Allo scopo è necessario anzitutto introdurre il concetto kantiano di carattere così come viene sviluppato nella sezione dedicata al carattere della persona. Kant definisce il «carattere» come concetto che ricorre nella «semeiotica universalis», e precisamente in duplice accezione: vi sono i diversi caratteri in senso fisico e sensibile e «il» carattere in senso morale, al singolare. Entrambe le accezioni vengono accolte nell’antropologia pragmatica, sicché si può distinguere «senza tautologia» il carattere, per quanto attiene alla facoltà di desiderare, in «naturale» o disposizione naturale, «temperamento» o Sinnesart e «carattere» vero o proprio come Denkungsart115. È opportuno segnalare sùbito le molte corrispondenze tra la concezione ora illustrata e alcune idee che emergono nella logica naturalis della tradizione wolffiana. Il pensiero corre anzitutto all’idea del «carattere del dotto» (Charakter eines Gelehrten) esposta da Georg Friedrich Meier nella Vernunftlehre e nel relativo Auszug (1752), utilizzato da Kant come manuale per le lezioni di logica116. Il character eruditi, per Meier, si compone di tre elementi: la natura erudita, l’esercizio e la diligenza. Il primo elemento, il «gelehrte[s] Naturell (natura erudita)» (§ 529) si compone a sua volta di due tratti: il «Mutterwitz» o «gelehrte[r] Kopf (ingenium eruditum)», ossia la giusta proporzione delle facoltà intellettuali (§ 530), e il «gelehrtes Temperament (temperamentum eruditum)», ovvero la giusta proporzione delle forze desiderative in accordo con l’ingegno naturale (§ 531)117. L’articolazione meieriana del Naturell merita particolare attenzione per la sottolineatura del radicamento delle facoltà superiori dell’anima in quelle inferiori e in particolare nella sensibilità; la fonte di Meier, peraltro, può essere indivi114

GSE, AA II 217, trad. it. cit., p. 304. Anth, AA VII 285, trad. it. cit., p. 177. 116 G.F. Meier, Vernunftlehre (1752), Hallescher Verlag, Halle 1992; Id., Auszug aus der Vernunftlehre (1752), in Refl, AA XVI 1-872. 117 G.F. Meier, Auszug, in Refl, AA XVI 866; nella Vernunftlehre le parti corrispondenti stanno ai §§ 583 sgg. (cit., pp. 762 sgg.). 115

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duata nell’estetica, disciplina consorella della logica, in particolare in Baumgarten118. Questi nell’Aesthetica (§§ 27 sgg.) riconosceva diversi livelli nel character felicis aesthetici (natura, exercitatio, disciplina, impetus, correctio); della «natura aesthetica» (§ 28) fanno parte l’«ingenium venustum» (§ 29) e il «temperamentum aestheticum connatum» (§ 44)119. Analogamente argomenta anche Meier negli Anfangsgründe aller schönen Wissenschaften, che propone questa volta uno schema quadripartito (§ 216) nel quale il Naturell (natura aesthetica) coincide con il «Kopf» (poiché «begli spiriti si nasce», § 223), di modo che il «Temperament» (temperamentum aestheticum) risulta maggiormente indipendente (§ 221)120. Lo schema della Caratteristica kantiana risente di questa tradizione, che Kant eredita e riadatta alle mutate esigenze imposte dal contesto. Vi sono certo delle variazioni: il Temperament viene decisamente scorporato dal Naturell, al quale segue poi il «carattere» vero e proprio (sensu strictiori); l’insieme di tutti questi tre elementi definisce poi il carattere in senso lato. Ai secondi due elementi della tripartizione che ne risulta (temperamento e carattere), allora, Kant associa la distinzione tra il carattere come modo sensibile e intelligibile, garantendosi la riconducibilità dello schema conseguente con la concezione sviluppata nelle prime due Critiche. Le potenzialità «naturali» dell’uomo giungono così a costituire il vero «carattere» passando attraverso la mediazione del temperamento. E che la correlazione tra il carattere dell’uomo e quello del dotto sia per Kant un passo breve, sembra testimoniare anche un’osservazione kantiana delle Reflexionen, relativa proprio ai paragrafi citati dello Auszug di Meier: «il giudizio di Hume, che il vero dotto sia come minimo un uomo probo»121. Da questo raffronto, che la letteratura critica non sembra registrare, si evincono diversi risultati. Poiché si tratta, nell’AP, di muovere dal carattere empirico dell’uomo quale segno di quello intelligibile, il dinamismo interno al carattere della persona è modellato sul carattere del dotto (e a monte, del «felix aestheticus»), che Kant universalizza elevando il «carattere» al rango di un concetto centrale dell’antropologia. Quanto è ereditato dalla natura viene reso oggetto, mediante il momento temperamentale, di un’appropria118 Cfr. R. Pozzo, Georg Friedrich Meiers “Vernunftlehre”. Eine historisch-systematische Untersuchung, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstadt 2000, p. 300 e 302. 119 Cfr. A.G. Baumgarten, Aesthetica, 1750, repr. Olms, Hildesheim 1961; trad. it. Estetica, a cura di S. Tedesco, Aesthetica, Palermo 2000. Sul significato antropologico della questione cfr. S. Groß, Felix Aestheticus. Die Ästhetik als Lehre vom Menschen, Königshausen & Neumann, Würzburg 2000, p. 85. 120 Cfr. G.F. Meier, Anfangsgründe aller schönen Wissenschaften (1754), repr. Olms, Hildesheim 1976, pp. 506 sgg. 121 «Humes Urtheil, daß der wahre Gelehrte wenigstens ein ehrlicher Mann sey», in Refl, AA XVI 865.

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zione che conduce a una vera e propria rigenerazione, in un meccanismo di «inveramento» che consente all’uomo di essere l’artefice delle proprie scelte. Si conferma così la grande importanza, per l’AP, della lezione della scuola wolffiana: non però della psicologia empirica, bensì della logica ed estetica, le quali fanno sentire un influsso non soltanto formale (come è invece quello della psicologia empirica per la Didattica), ma ricco di conseguenze di merito, là dove forse meno lo si è cercato: nel cuore della Caratteristica, nel concetto antropologico di «carattere». Come si è detto, non si tratta dell’unica fonte del concetto kantiano di carattere, che risente almeno altrettanto della tradizione humeana e delle proprie elaborazioni della fase precritica. Kant piega tale complessa nozione alle proprie esigenze e riesce, nell’AP, a riconnetterla all’analisi trascendentale del carattere sensibile e intelligibile, così come esposto nelle Critiche. Comprensibilmente, allora, il riferimento al carattere scompagina lo schema binario (bello/sublime) delle Osservazioni e permette l’articolazione della «caratteristica» dell‘antropologia. Nel carattere autentico, dunque, non si tratta di ciò si può fare dell’uomo, ma di ciò che l’uomo «è capace di fare di se stesso»122. È singolare quanto poco frequentemente venga rilevata la palese coincidenza di questa definizione con quella del «pragmatico» offerta nella Prefazione. Ciò non valga a confondere assieme concetti eterogenei, ma a rilevare come il lavoro dell’antropologia consista proprio nel portarli a convergenza. Il «carattere» nell’AP sarà il luogo teorico dove l’astuzia della provvidenza consegna all’uomo la capacità – articolata su diversi stadi – di fare di se stesso lo strumento della propria autorealizzazione. Come l’imperativo categorico, ma ad altro e per così dire «inferiore» livello, quasi ne fosse l’ombra proiettata sul piano empirico dell’antropologia123, il «carattere» non ha contenuto, è pura forma della facoltà di desiderare. Ma soprattutto, ribadisce Kant, il carattere è qualcosa di cui non si è debitori alla natura, ma che si è «conquistato in proprio», qualcosa la cui fondazione è «l’unità assoluta del principio interno della condotta in generale». In tal senso, con significativa metafora: Si può anche ammettere che l’atto che fonda il carattere, simile a una specie di nuova nascita, costituisca per così dire una promessa solenne che l’uomo fa a se stesso, rendendo per lui indimenticabile, come un’epoca nuova, il giuramento e il giorno in cui questa svolta si produsse in lui. Educazione, esempi, insegnamento non possono in genere produrre a poco a poco una tale fermezza e saldezza di princìpi, ma queste possono prodursi solo per mezzo come di un’esplosione, che a un 122

Anth, AA VII 285, trad. it. cit., p. 177. Cfr. F. Munzel, Kant’s Conception of Moral Character, cit., p. 336, che parla di «concrete counterimage» della legge morale. 123

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tratto succede al disgusto per l’instabile condizione dell’istinto. Forse son pochi quelli che hanno tentato questa rivoluzione prima dei trent’anni, e ancor meno quelli che l’hanno stabilmente compiuta prima dei quaranta124.

Al carattere della persona fa seguito la trattazione del carattere del sesso. Poiché la produzione di un certo effetto richiede, quanto minore è la forza applicata, tanta più arte, argomenta Kant, occorre indagare anzitutto il carattere femminile. Nel perseguire il suo fine supremo, la conservazione della specie, la natura mira con tale mezzo a condurre uomo e donna in quanto esseri razionali, allo scopo per essa supremo, la conservazione della specie; e inoltre essa, nella loro qualità di animali razionali, li provvide di tendenze sociali per rendere durevole l’unione sessuale in un vincolo domestico125.

Vi sono, in questi passaggi, elementi di grande interesse. Nell’unione sessuale vi sono un fattore corporeo e uno razionale: la natura impone ai sessi la finalità della conservazione della specie; il vincolo matrimoniale e il legame familiare passano invece attraverso la socievolezza dei «vernünftige Thiere». Con il passaggio alla dimensione sovraindividuale del sesso, si pone allora per la prima volta un problema che è di importanza decisiva ai fini presenti. Posto che qui si tratta esplicitamente di quello che la natura fa degli uomini (in entrambi i generi sessuali), è legittimo parlare di un carattere «intelligibile» dei sessi, nel senso autentico del «modo di pensare», o dovremo qui limitarci ad assumere il carattere in accezione sensibile? Vi è un modo «razionale» di essere esseri sessuati, che possa concepirsi in parallelo con la «nuova nascita» di cui Kant parla nella sezione sul carattere della persona? A prescindere dall’importanza intrinseca del tema del rapporto tra i sessi, centrale per così tanta antropologia del tempo, da Schiller a Wilhelm von Humboldt, la questione è decisiva per comprendere la «tenuta» concettuale della Caratteristica antropologica, e insieme dell’intera antropologia kantiana. Si tratta cioè di stabilire se il concetto di carattere si applichi in senso proprio solamente alla persona e in senso spurio o traslato (comunque diverso) alle entità sovraindividuali, a partire dai sessi, oppure se vi sia un utilizzo coerente da parte di Kant e, nel caso, in cosa si debba ravvisare tale uniformità. Torniamo ora al passaggio citato. In quanto animali gli uomini subiscono l’impulso naturale alla procreazione; ma in quanto razionali gli uomini 124 Anth, AA VII 294 sg., trad. it. cit., p. 186. Si avverte chiaramente, a partire dalla nozione rivelatrice della Wiedergeburt, la parallela influenza del pietismo sulla concezione kantiana del carattere. 125 Anth, AA VII 303, trad. it. cit., p. 196.

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possono far propria quest’istanza della natura, e ciò accade nel momento in cui essi le conferiscono una forma «razionale» tramite le istituzioni della monogamia e del matrimonio. Ma vi è un secondo aspetto. Più avanti nel testo, nel riferirsi al carattere della donna come elemento determinante a definire l’intero tema del carattere dei sessi, Kant precisa comunque che gli scopi della natura sono due: oltre alla conservazione della specie, la «cultura della società e il suo raffinamento per mezzo della femminilità». Volendo ispirare negli uomini sentimenti di «socievolezza e convenienza», la natura ha dato alla donna un predominio legato alla grazia e alla legittima aspirazione a essere trattata con «dolcezza e gentilezza». In tal modo l’uomo in forza della sua propria magnanimità, viene messo invisibilmente in catene da un fanciullo e, se non alla moralità stessa, si sentì almeno portato a ciò che è come l’abito esteriore della moralità, cioè a quel contegno civile che è preparazione e raccomandazione alla vita morale126.

La natura coglie qui due obiettivi in un tempo. La mera conservazione della specie non le basta: difatti, questa avviene regolarmente negli animali (sessuati e no), presso i quali il processo si svolge però in assenza di un secondo movente razionale, che è invece esclusivamente antropologico. Pur servendosi talora anche della «stoltezza umana», la natura mostra così di tenere a «un’intenzione più alta a vantaggio del genere umano». Non è difficile ravvisare in queste pagine una novità che merita adeguata valorizzazione. Fino a questo punto, nell’AP, la «natura» era contrapposta in negativo all’autonoma determinazione umana: ciò avveniva, come si è detto, a due livelli: formalmente, nella definizione del metodo «pragmatico» dell’antropologia (la quale esclude programmaticamente ciò che la «natura» fa dell’uomo); materialmente, nella descrizione del «carattere» della persona, che non è quanto deriva dalla natura ma quanto la persona si dà da sé grazie alla libera volontà. Di qui in avanti, invece, prevale nell’AP una visione diversa della natura: la natura sa quanto l’uomo, anzi meglio dell’uomo (a dispetto della sua occasionale «stoltezza») quanto è bene per lui. Ancor meglio sarebbe dire che la natura sa tutto ciò meglio degli uomini, perché con il carattere del sesso Kant ha ormai introdotto un universo antropologico fatto di entità sovraindividuali, in un mondo che è al tempo stesso biologico e storico, nel quale il progredire delle generazioni non è, come si ora visto, un mero fatto animale, ma assume una forma specificamente e 127 squisitamente umana . Nondimeno, Kant non contrappone – quali forme di «cultura» – le istituzioni familiari (e poi sociali) alla «natura»: all’oppo126

Anth, AA VII 306, trad. it. cit., p. 199. Cfr. Refl, AA XV 522: «L’animalità dell’uomo ha un’altra destinazione rispetto a quella dell’umanità». 127

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sto, ascrive tali istituzioni all’intenzione di una natura ora non più meccanicisticamente ma teleologicamente intesa, concepibile dunque come «provvidenza»128. Ovvio qui il riferimento alla Critica del giudizio teleologico, alle dense pagine dove Kant determina lo scopo dell’edificio della natura proprio nella specie umana. Kant individua nell’uomo anzitutto lo «scopo ultimo» della creazione in quanto unico essere che possa formarsi il concetto di scopi, concepiti in un sistema: l’unico essere, dunque, che può intendere il disegno della natura (§ 82)129. Ciò non va inteso nel senso che tale scopo consista nella felicità dell’uomo, bensì nella cultura, la quale a sua volta non si configura come cultura dell’abilità – ossia come tecnica – ma della volontà. Infine, l’uomo è anche «scopo finale» della creazione, ma in questo caso soltanto come noumeno, come essere morale del quale non può chiedersi quem in finem egli esista – un livello questo, che rinvia ben al di là del piano concettuale dell’antropologia (§ 84)130. Si potrebbe sospettare, per tornare all’AP, che la svolta in direzione di questo nuovo concetto di natura rappresenti una cesura. Ma una netta frattura tra l’agire razionale del singolo (in contrapposizione alla natura meccanicamente intesa) e il decorso storico entro il quale egli si colloca (in accordo con la natura teleologicamente intesa) non si dà. Conviene insistere, invece, sul momento dell’assunzione di una forma esteriore civilizzata dell’agire, che se non è – a rigore – moralità, pur tuttavia la prepara e la favorisce. L’ingentilimento dei costumi che l’uomo apprende e applica durante il corteggiamento della donna, secondo quanto ella richiede, è per Kant frutto di una saggia intenzione che giunge per questa via a introdurre usi civili nel consesso umano in generale: il decoro dei costumi non ostacola ma anzi favorisce nel tempo l’esercizio della vera moralità. Con tali avvertenze si comprende il principio fondamentale della trattazione antropologica del Charakter, che accomuna tutte le sezioni della Caratteristica consentendone una lettura complessivamente unitaria. Occorre, a tal fine, assumere una prospettiva nella quale l’agire del singolo e il suo carattere morale fanno parte del divenire storico generale: la natura non è intesa come insieme degli impulsi neurali (antropologia «fisiologica») o degli istinti (Osservazioni) del singolo, ma come l’istanza che possiamo sperare presieda al divenire degli eventi terreni nel suo complesso e di quelli del mondo biologico in particolare. Su questa scala «cosmica», non si dà più contrasto tra ciò che la natura vuol fare dell’uomo e ciò che l’uomo deve 128 Ossia la natura «nella sua finalità nel corso del mondo»: ZeF, AA VIII 361, trad. it. Per la pace perpetua in Id., Scritti politici, di filosofia della storia e del diritto, cit., p. 306. 129 KU, AA V 426 sgg., trad. it. di E. Garroni e H. Hoenegger, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, pp. 259 sgg. 130 KU, AA V 453, trad. it. cit., p. 268.

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fare di se stesso. La natura lo ha infatti dotato della ragione proprio perché possa darsi da sé cultura e moralità: il carattere consiste nell’appropriarsi di questo «naturale». Questa coincidenza nei fini è il primo passo: quanto ai mezzi, come vedremo parlando del carattere della specie, le vie della provvidenza invece divergono significativamente da quelle della ragione umana. In tal senso si leggono anche le successive sezioni, dedicate al carattere del popolo e della razza. Qui la pluralità dei «caratteri» richiama alla mente il character eruditi specialis di Meier131, inteso come la disposizione a eccellere in un certo campo specifico delle scienze e delle arti. Ciascun popolo svolge infatti una certa funzione nell’àmbito della cultura umana. Né il governo né il clima possono spiegare il carattere di un popolo, e sbaglia lo Hume di On national characters a ritenere che gli inglesi non abbiano un carattere come popolo in quanto ognuno si sforza di averne uno come individuo: l’affettazione del carattere è in realtà il carattere britannico132. Anche qui, come nel caso dei sessi, si tratta di disposizioni naturali che devono svilupparsi in una certa direzione della cultura, differenziazioni che affondano le radici nella natura, animata dall’intenzione civilizzatrice nei riguardi della specie, ma che debbono poi svilupparsi in un autentico «carattere». Analogo è il caso delle razze, per le quali Kant rimanda al lavoro di H.R. Girtanner Über das Kantische Prinzip für die Naturgeschichte133. Kant aggiunge solo che la natura, la quale mira di solito all’assimilazione, nel caso dell’uomo mira invece alla diversificazione, cosicché i tratti individuali, anziché convergere, si diversificano all’infinito – e ciò anche all’interno di una stessa famiglia. Scongiurata sopra ogni cosa è la convergenza dei tratti fisici, che condurrebbe a un mostruoso volto umano unificato, terrifica maschera dell’assenza di carattere. Più che a Girtanner, la cui trattazione imporrebbe un excursus generale sui rapporti tra la scuola di Blumenbach a Göttingen e Kant134, occorre qui far riferimento almeno agli scritti kantiani sulle razze. Kant sostiene che le differenze razziali – a partire dal colore della pelle – derivino dalla compresenza di diversi «germi» (Keime) nell’uomo, i quali si attivano secondo i diversi climi dove i vari gruppi umani si sono insediati. 131 La distinzione tra carattere generale e particolare (la dote in un campo specifico del sapere o delle arti) ricorre in tutti gli scritti citati: G.F. Meier, Vernunftlehre, cit., § 585, p. 764; Id., Auszug, cit., §§ 527-528, pp. 865 sgg.; A.G. Baumgarten, Aestetica, cit., § 27; G.F. Meier, Anfangsgründe, cit., § 215, p. 509. 132 Anth, AA VII 311, trad. it. cit., p. 208. In precedenza Kant sottoscriveva invece la tesi humeana: cfr. Refl, AA XV 496. 133 H.R. Girtanner, Über das Kantische Prinzip für die Naturgeschichte, Rosenbusch, Göttingen 1796; rist. anast. Thoemmes, Bristol 2001. 134 Cfr. T. Lenoir, Kant, Blumenbach, and vital materialism in German biology, in «Isis», 71 (1980), pp. 77-108. Su Girtanner e Kant cfr. J. Zammito, «This inscrutable principle of an original organization»: epigenesis and «looseness of fit» in Kant’s philosophy of science, «Studies in the History and Philosophy of Science», 34 (2003), pp. 73-109, con ampia bibliografia.

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Una volta attivati, però, questi germi danno origine a un tipo che modernamente definiremmo ereditario, tale dunque da non recedere allo stato primigenio in presenza di stimolazioni climatiche diverse135. Kant rifiuta così il poligenismo, ma anche la teoria climatica, così chiaramente smentita dalle osservazioni. Ancora una volta, siamo in presenza di un’intenzione provvidenziale: possa il portatore della ragione diffondersi su tutta la terra a dispetto della varietà dei climi. Nella sezione finale sul carattere della specie, Kant muove dalla considerazione che l’uomo, come essere razionale terrestre, rappresenti un unicum: non abbiamo infatti conoscenza di altri esseri razionali, non terrestri. Questo richiama alla mente alcuni aspetti della Storia universale della natura e teoria del cielo, allorché Kant discuteva della possibilità di esseri razionali abitanti su altri pianeti, interrogandosi sulle differenze che l’effetto della gravità avrebbe potuto avere sulle loro facoltà136. Nell’AP Kant presenta la questione sotto un profilo logico-categoriale: questa unicità fa sì che non si possa determinare il carattere della specie umana. Ma non devono sfuggire il senso generale di questo passaggio e le sue ragioni sotto il profilo antropologico. Nel contesto della psicologia wolffiana una simile affermazione non ha corso: si rende qui particolarmente evidente l’impatto della Vernunftkritik sull’antropologia kantiana. Notoriamente, Kant non ammette differenza di grado tra l’intelletto umano e possibili intelligenze superiori: l’intelletto ectipo umano è diverso per natura, non per grado da un intelletto archetipo, del quale non abbiamo del resto nozione e meno che mai esperienza137. La soluzione kantiana del problema è nota: Per poter, dunque attribuire all’uomo il suo posto nel sistema della natura vivente, e così caratterizzarlo, non rimane altro che dire che ha quel carattere che egli stesso si procura, in quanto sa perfezionarsi secondo fini liberamente assunti; onde egli come animale capace di ragione (animal rationabile) può fare di se stesso un animale razionale (animal rationale)138.

Il confronto che coronava la psicologia razionale wolffiana, quello con angeli e déi, non ha luogo in quanto l’uomo come specie si dà da sé il proprio carattere; così come, d’altra parte, non si dà in senso determinante un confronto con i bruti: si pensi allo Herder delle Idee per una filosofia della storia dell’umanità, criticato da Kant per aver postulato impropriamente che la catena ascendente degli esseri terrestri, culminante nell’uomo, prelu135 Cfr. VvRM, AA II, trad. it. cit., p. 112; AA VIII, trad. it. Determinazione del concetto di razza umana, in Id., Scritti politici, di filosofia della storia e del diritto, pp. 177-194 (p. 185 sg.). 136 NTH, AA I 349 sgg., trad. it. di G. Scarpelli Storia universale della natura e teoria del cielo, Theoria, Roma 1987, p. 159 sgg. Cfr. anche Anth, AA VII 332, trad. it. cit., p. 227. 137 Cfr., ad es., KU, AA V 408 (§ 77), trad. it. cit., p. 241. 138 Anth, AA VII 321, trad. it. cit. (modif.), p. 216.

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desse a una vita ultramondana139. La singolare, consapevole assenza di qualunque metodologia comparativa è affatto tipica dell’antropologia pragmatica: essa è per così dire il correlato antropologico dell’inedita solitudine cosmica dell’uomo kantiano. È invece possibile, per tornare all’AP, un confronto tra la specie umana e un ipotetico altro essere razionale terrestre. Dal confronto ipotetico condotto nell’AP risulta che la natura ha posto e voluto nella specie umana il germe della discordia e che la ragione di cui l’ha fornito ne trae la concordia o almeno il costante avvicinamento ad essa; quest’ultima, nell’idea, è certamente il fine, mentre, nel fatto, la prima (la discordia) è, nei progetti della natura, il mezzo di una suprema e imperscrutabile saggezza: il perfezionamento dell’uomo mediante il progressivo incivilimento, anche a costo di più di un sacrificio nelle gioie della vita140.

Giunge qui a espressione quello scollamento tra mezzi e fini cui si è accennato in precedenza: nell’agire razionale e nell’incivilimento – a tutti i diversi livelli che lo caratterizzano – l’uomo realizza sì un’intenzione provvidenziale; tuttavia, la natura è troppo saggia per affidare alla sola forza di volontà umana un progetto così nobile. Infatti, dalla provvidenza «possiamo aspettarci un risultato che abbracci il tutto e dal tutto discenda alle parti, mentre al contrario gli uomini nei loro disegni muovono dalle parti e solo ad esse si limitano costantemente»: per questa ragione la natura ci costringe «a seguire una via, alla quale noi da soli non sapremmo facilmente adattarci»141. Di qui i temi di «teoria della storia»142, che la sezione finale compendia in una sintesi condotta all’insegna del progetto complessivo dell’opera: l’«insocievole socievolezza»143 e la «radicalità» del male che tuttavia non contrastano con il progresso della specie144, il tema pedagogico rousseauiano145, la questione della «destinazione» dell’uomo146, il progetto cosmopolitico realizzantesi nella costituzione repubblicana147. 139 RezHerder, AA VIII 42 sgg., trad. it. Recensione di: J.G. Herder, «Idee sulla filosofia della storia dell’umanità», parte I e II, in Id., Scritti politici, di filosofia della storia e del diritto, cit. pp. 151-175. 140 Anth, AA VII, trad. it. cit., p. 216. Cfr. anche IaG, AA VIII 21, trad. it. Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Id., Scritti politici, di filosofia della storia e del diritto, cit., p. 128. 141 TP, AA VIII 310, trad. it. Sopra il detto comune: «questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», in Id., Scritti politici, di filosofia della storia e del diritto, cit., p. 277. 142 Cfr. le considerazioni di A. Philonenko, La théorie kantienne de l’histoire, Vrin, Paris 1986 p. 14. 143 Anth, AA VII 324 sg., 331, trad. it. cit., pp. 220, 227; cfr. IaG, AA VIII 20, trad. it. cit., p. 126. 144 Anth, AA VII 324, trad. it. cit., p. 219. Cfr. RGV AA VI 38, trad. it. di A. Poggi, La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Bari 2004, p. 38. 145 Anth, AA VII 325, trad. it. cit., p. 220.

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L’indicata divergenza tra fini e mezzi configura la situazione dell’uomo kantiano e le contraddizioni della storia umana. L’elemento negativo già incontrato nella Didattica, si rivela qui, a conclusione dell’itinerario antropologico, il mezzo di una finalità superiore realizzabile solamente nella specie. Psicologia e storia ci offrono un quadro sconsolante dell’uomo, compendiato nell’immagine kantiana del legno storto: un quadro che l’antropologia ha il difficile compito di riequilibrare, almeno in parte, grazie all’adozione della kosmische Betrachtung che le è propria.

146 Anth, AA VII 329 sg., trad. it. cit., p. 224 sg.; cfr. anche SF, AA VII, trad. it. Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, in Id., Scritti politici, di filosofia della storia e del diritto, cit., pp. 213-234. 147 Anth, AA VII 330 sg., trad. it. cit., p. 225 sg.

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Biologia

0. Introduzione Una delle questioni centrali che attraversa lo sviluppo della biologia fin dal suo primo determinarsi come disciplina scientifica autonoma negli anni a cavallo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo è quella relativa alla giustificazione del proprio statuto scientifico in rapporto soprattutto alle scienze di tipo fisico-chimico. Per molti aspetti sembra cioè che la biologia si muova fin dall’inizio dentro una sorta di polarità per cui essa o si presenta come un’applicazione particolare dei principi della fisica e della chimica (assumendo dunque la scientificità che il sapere fisico-chimico garantisce, ma rinunciando in questo modo a una propria autonomia rispetto al modello di scienza incarnato dalle discipline fisico-chimiche) o d’altro lato, nel caso rivendichi una qualche forma di irriducibilità a quelle discipline, si rivela come un terreno su cui possono far breccia istanze non del tutto coerenti con una concezione radicalmente naturalistica della scienza. Tali istanze hanno trovato e trovano rappresentazione, ad esempio, in tutte quelle diverse forme di vitalismo che tendono a spiegare la peculiarità del vivente rispetto agli altri oggetti della natura attraverso il ricorso a un qualche principio speciale (immateriale, sovrannaturale, ecc.) di cui la scienza della natura, in quanto tale, non riesce a rendere pienamente conto1. Il problema che segna fin da subito tutti i tentativi di fondazione della biologia come scienza autonoma è dunque quello di mostrare che la biologia, per quanto possa implicare il riferimento a un apparato concettuale e categoriale almeno in parte autonomo o comunque non del tutto riducibile a quello delle discipline fisico-chimiche, deve comunque essere considerata una scienza della natura nello stesso senso in cui lo sono la fisica e la chimica. Ovvero, detto diversamente ancora, ciò che tutti i diversi tentativi di fondazione della biologia si trovano nella necessità di giustificare è in che senso la non riducibilità della concettualità che caratterizza l’indagine sul vivente a quella di tipo fisico-chimico non implichi un’esclusione della biologia dall’ambito della scienza della natura. 1 Cfr. su questo E. Mayr, L’unicità della biologia. Sull’autonomia di una disciplina scientifica, trad. it. di C. Serra, con un’introduzione di E. Boncinelli, Cortina, Milano 2005.

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È all’interno di questa problematica generale che è possibile attribuire un ruolo specifico sia dal punto di vista storico, sia dal punto di vista teorico alla filosofia di Kant. Essa sembra infatti offrire una sorta di giustificazione filosofica alle tensioni che caratterizzano la nascente scienza biologica e in generale la struttura epistemologica dell’indagine scientifica sul vivente. L’analisi che Kant svolge delle nostre possibilità di comprensione di quegli enti di natura che sono gli esseri organizzati della natura (e quindi in primo luogo gli organismi viventi) soprattutto all’interno della Critica della Capacità di Giudizio è infatti caratterizzata dalla tensione tra la necessità di un riconoscimento dell’irriducibilità del vivente alla sfera delle discipline che si fondano su un presupposto meccanicistico (per cui per comprendere gli organismi è necessario riferirsi a un modello di causalità diverso rispetto alla causalità efficiente di tipo meccanico) e la radicata convinzione che qualsiasi riferimento a principi o concetti che esulino dai confini di una spiegazione “naturalistica” per spiegare il modo d’essere di quegli enti che sono appunto i viventi implichi una negazione della scientificità del discorso che ad essi si riferisce. Questo carattere insieme antiriduzionistico e naturalistico dell’impostazione kantiana sembra così in grado di proporre alla biologia un modello di scientificità che, senza mettere in discussione il paradigma generale su cui si fonda di fatto la scienza moderna (e di cui il trascendentalismo kantiano soprattutto attraverso i Primi principi metafisici della scienza della natura e la stessa Critica della ragion pura vuole peraltro rappresentare una giustificazione sul piano fondativo2), non pretende di appiattire il modo d’essere del vivente su un modello di tipo meccanico rispetto a cui l’indagine fisico-chimica risulterebbe del tutto esaustiva. Tale impostazione apre anzi uno spazio per una considerazione del vivente fondata sul riconoscimento della necessità di un ricorso – per quanto caratterizzato da peculiari e, come si cercherà di vedere, anche problematiche cautele epistemologiche – a un modello di spiegazione che rimette in gioco la nozione di causa finale, ovvero proprio una di quelle nozioni che la moderna scienza della natura aveva radicalmente messo in discussione ed esplicitamente rifiutato come modello esplicativo della realtà naturale3. 2 Per quanto i Metaphysische Anfangsgründe rappresentino almeno in parte una critica a una filosofia della natura meccanica a favore di una concezione dinamistica della materia essi comunque confermano l’assunzione da parte di Kant della fisica newtoniana come modello della scienza della natura e l’idea, questa sì problematica, non solo per la scienza del vivente, ma anche per la chimica e la psicologia, che una scienza è tale a seconda di quanta matematica contiene: cfr. MAN, AA IV 470, trad. it. di L. Galvani con un’introduzione Di L. Geymonat, Cappelli, Bologna 1959, p. 12. Su questo cfr. M. Friedman, Kant and the Exact Sciences, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)/London 1992. 3 Sulla filosofia kantiana della biologia, cfr. S. Marcucci, Aspetti epistemologici della finalità in Kant, Le Monnier, Firenze 1972, R. Löw, Philosophie des Lebendigen. Der Begriff des Or-

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Nelle pagine che seguono si procederà innanzitutto a una breve contestualizzazione dei problemi principali che caratterizzano il processo di autonomizzazione delle scienze del vivente con riferimento soprattutto all’emergenza di un apparato categoriale che sia ad esse idoneo (§ 1). A partire da questo si cercherà di vedere come si pone Kant all’interno di questa problematica e in particolare perché secondo Kant il confronto con le questioni poste dalle scienze biologiche chiami in causa il problema della teleologia naturale (§§ 2, 3). Una volta poi semplicemente richiamati alcuni argomenti classici della critica moderna alla possibilità di una teleologia naturale ed evidenziato comunque il permanere del problema del riferimento a un linguaggio teleologico nell’epistemologia delle scienze biologiche (§§ 4, 5), si passerà ad analizzare più dettagliatamente, cercando di mettere in luce anche alcune difficoltà teoriche che la caratterizzano, la proposta kantiana sulla teleologia naturale con riferimento soprattutto all’Analitica del giudizio teleologico della Critica della capacità di giudizio (§§ 6-13). In sede conclusiva (§ 14) si cercherà di verificare criticamente la possibilità che la proposta kantiana possa essere letta come un tentativo di fondazione della nascente biologia scientifica.

ganischen bei Kant. Sein Grund und seine Aktualität, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1980, A. Philonenko, Kant et la philosophie biologique, in L’Héritage de Kant. Mélanges philosophiques offerts au P. Marcel Regnier, Beauchesne, Paris 1982, pp. 63-79; C. Zumbach, The Trascendent Science. Kant’s Conception of Biological Methodology, Nijhoff, The Hague 1984; P. McLaughlin, Kants Kritik der teleologischen Urteilskraft, Bouvier, Bonn 1989; Id., Kant’s Critique of Teleology in Biological Explanation: Antinomy and Teleology, Mellem Lewinston, NY 1990; H. Ginsborg, Kant on Understanding Organisms as natural Purposes, in Kant and the Sciences, ed. by E. Watkins, Oxford University Press, Oxford 2001, pp. 231-258, Id., Kant’s Biological Teleology and its Philosophical Significance, in The Blackwell Companion to Kant, ed. by G. Bird, Blackwell Publishing, Oxford 2006, pp. 455-469; G. Töpfer, Zweckbegriff und Organismus. Über die teleologische Beurteilung biologischer Systeme, Königshausen & Neumann, Würzburg 2004; M. Quarfood, Transcendental Idealism and the Organism: Essays on Kant. Acta Universitatis Stockholmiensis – Stockholm Studies in Philosophy 26, Almqvist & Wiksell International, Stockholm 2004; P. Guyer, Purpose in Nature: What is Living, and What Is Dead in Kant’s Teleology?, in Id., Kant’s System of Nature and Freedom, Oxford University Press, Oxford 2005, pp. 343-372; R. Zuckert, Kant on Beauty and Biology. An Interpretation of the Critique of Judgement, Cambridge University Press, Cambridge 2007; AA.VV., Understanding Purpose. Kant and the Philosophy of Biology, ed. by P. Huneman, North American Kant Society Studies in Philosophy, 8, University of Rochester Press, Rochester 2007; P. Huneman, Métaphysique et biologie. Kant et la constitution du concept d’organisme, Kimé, Paris 2008. Si segnala inoltre il numero monografico di «Studies in History and Philosophy of Science, Part C: Studies in History and Philosophy of Biological and Biomedical Sciences», 37 (2006), interamente dedicato al tema Kantian Teleology and the Biological Sciences e il numero monografico di «Kant Yearbook» (2009) interamente dedicato al tema Teleology.

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1. Le scienze del vivente tra meccanicismo e vitalismo La questione relativa all’autonomia delle scienze della vita rispetto alle scienze fisiche a cui Kant cerca di dare una giustificazione aveva attraversato in realtà il dibattito scientifico già del XVII e poi soprattutto del XVIII secolo; dibattito che è però perlopiù caratterizzato da una coabitazione e da un intreccio non sempre consapevole di diversi modelli esplicativi all’interno dei singoli progetti di ricerca4. Per quanto il paradigma generale dentro cui si muove la scienza moderna sia evidentemente di tipo meccanicistico è infatti proprio in relazione a questioni che coinvolgono la fisiologia, la medicina e in generale la comprensione degli esseri viventi che un tale approccio mostra le sue maggiori difficoltà e che si sviluppano, attraverso appunto anche incroci e contaminazioni non facilmente sistematizzabili o catalogabili dentro posizioni chiaramente definite, strategie di ricerca non del tutto assimilabili all’impianto meccanicista. La discussione che si sviluppa, ad esempio, nel corso del XVII secolo intorno al concetto di irritabilità e dunque intorno a quella proprietà che viene intesa come intrinseca e specifica della materia vivente di contrarsi quando stimolata, rimanda a un quadro concettuale che mira a porre la considerazione dei corpi viventi come necessariamente distinta dalla considerazione dei corpi fisici e dunque come caratterizzata da principi irriducibili ad essa. La nozione di irritabilità, centrale nella fisiologia di Albrecht von Haller (che la considera insieme alla sensibilità come una specifica forza vitale, ovvero come un’intrinseca capacità di movimento della materia organica indipendente dall’azione di fattori spirituali) rimanda peraltro a quell’approccio anticartesiano e decisamente antimeccanicista che trova espressione nella teoria fibrillare della materia elaborata circa un secolo prima da Francis Glisson, il quale rintracciava nella fibra, appunto, una sorta di microstruttura della materia caratterizzata da una autonoma capacità di movimento, che si esplica nella “contrazione” e nel “rilassamento” e che è manifestazione di una “vitalità” che secondo Glisson sarebbe presente, per quanto in gradi diversi, in tutte le sostanze materiali5.

4

Cfr. F. Duchesneau, Les modèles du vivant de Descartes à Leibniz, Vrin, Paris 1998; M.D. Grmek, La première révolution biologique. Réflexions sur la physiologie et la médecine du XVIIe siècle, Éditions Payot, Paris 1990. 5 Sui presupposti della fisiologia halleriana nel dibattito scientifico del XVII secolo e sulla straordinaria influenza che la teoria halleriana ha esercitato sulle scienze biomediche, ma anche sulla filosofia della medicina successiva, cfr. H. Steinke, Irritating Experiments. Haller’s Concept and the European Controversy on Irritability and Sensibility, 1750-90, Rodopi, Amsterdam/ New York 2005. Sul metodo halleriano: M.T. Monti, Congettura ed esperienza nella fisiologia di Haller. La riforma dell’“anatomia animata” e il sistema della generazione, Olschki, Firenze 1990.

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In chiave antimeccanicistica e anticartesiana va letto anche l’articolato dibattito sulle cosiddette nature plastiche innestato prima da Henry More e poi soprattutto da Ralph Cudworth e che ha avuto un ruolo importantissimo nella discussione relativa allo statuto ontologico del vivente anche in rapporto, ad esempio, alla disputa che si andrà sviluppando successivamente fra Georg Ernst Stahl e Leibniz6. Nella prospettiva di Cudworth le nature plastiche sono degli agenti immanenti presenti nella materia che producono ordine e organizzazione. Se però da un lato, in quanto agenti, queste nature plastiche sembrano svolgere una funzione simile a quella che svolge un artigiano nel momento in cui conferisce forma a una materia e assegna ad essa uno scopo peculiare, esse non sono, a differenza dell’artigiano, un elemento esterno rispetto al corpo materiale: la loro attività è immanente alla materia stessa, è un principio interno alla stessa materia. In questo modo la finalità di cui le nature plastiche sono portatrici non è il frutto di un qualche processo o di una qualche deliberazione che rimanderebbe a sua volta a un’intelligenza esterna, quanto piuttosto l’attuarsi di una “propensione immanente” alla materia.7 In generale, ciò che sembra fare resistenza per un’applicazione generalizzata del modello meccanicista nei confronti del mondo organico è che esso appare destinato a una sorta di impossibilità tecnica e di principio nel rendere adeguatamente conto dei fenomeni di autoregolazione, auto-organizzazione e autoconservazione che caratterizzano in modo peculiare gli esseri viventi. Questi fenomeni sembrano infatti rimandare a una specifica finalizzazione degli esseri viventi di cui un’interpretazione meccanicistica della natura non riesce a dar conto, se non attraverso il ricorso a un elemento esterno alla natura stessa e dunque attraverso il ricorso a un principio che rischia di inficiare l’autonomia e la coerenza interna del discorso scientifico. È all’interno di questo contesto che si sviluppa in Germania un approccio esplicitamente antimaterialista e antimeccanicista come quello, ad esempio, di Georg Ernst Stahl, il quale, pur ritenendo che la fisiologia degli organi sia spiegabile meccanicamente – come in generale tutta la natura materiale nel suo complesso – ritiene altresì il meccanicismo del tutto insufficiente e inadeguato a spiegare la struttura generale degli esseri viventi. Per Stahl, detto diversamente, la vita in quanto tale resiste alle spiegazioni meccaniche, con le quali si è in grado di spiegare la natura inorganica, perché essa non è riducibile a natura materiale: per comprendere le caratteristiche specifiche dei viventi si deve procedere secondo principi diversi da quelli che presiedono alla comprensione della natura materiale e ad essi non assi6 Cfr. G.W. Leibniz, Osservazioni contro la Teoria medica di G.E. Stahl, trad. it. con testo latino a fronte, introduzione e apparati a cura di A.M. Nunziante, Quodlibet, Roma 2010. 7 Cfr. F. Duchesneau, Les modèles du vivant de Descartes à Leibniz, cit., p. 174.

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milabili. In particolare, secondo Stahl, non si può prescindere, nel considerare il vivente, dall’azione dell’anima, la quale solamente sarebbe in grado di rendere conto di quei fenomeni che una concezione puramente materialistica e meccanicistica si troverebbe nell’impossibilità di spiegare. I corpi viventi sono dunque da un lato “corpi” (e dunque considerabili da un punto di vista meccanico) e dall’altro “viventi” (e cioè animati da un principio vivificatore immateriale e metaempirico che solo rende conto della loro peculiarità in quanto viventi)8. La posizione di Stahl – che sarà fortemente criticata da Leibniz proprio perché presuppone una confusione di livelli fra piano materiale e piano spirituale, pretendendo un influsso diretto dell’uno sull’altro, e che è rintracciabile anche sullo sfondo dell’analisi kantiana del vivente, il quale vedrà nel ricorso all’anima per spiegare la specifica vitalità degli organismi un riferimento che trascende i limiti di una spiegazione scientifica – è comunque una posizione significativamente influente sia perché, per quanto sotterraneamente, sopravvive nella scienza del vivente anche del XIX secolo, sia perché ad essa spesso ci si richiama anche polemicamente, riconoscendo però a un tempo anche la legittimità del problema da cui muove. In questa direzione la posizione di Stahl è particolarmente importante, ad esempio, per quello che viene chiamato il materialismo vitalistico della scuola di Montpellier e in particolare per Paul-Joseph Barthez, alla cui Oratio academica de principio vitali hominis si tende far risalire anche l’origine e la diffusione stessa del termine “vitalismo”. Una nozione questa – quella di vitalismo – che viene utilizzata però da Barthez soprattutto per distinguere i fenomeni biologici da quelli psicologici e quindi non tanto in contrapposizione al materialismo o al meccanicismo, quanto piuttosto all’animismo, ovvero proprio all’impostazione con la quale si tendeva a designare le teorie mediche di Stahl. In questo senso l’intenzione di Barthez, con il suo vitalismo, è piuttosto quella di integrare il punto di vista meccanicistico con quello teleologico cercando di eliminare la connessione che sarebbe proposta da Stahl tra principio teleologico e anima e in questo modo tra biologia e psicologia9. La necessità di elaborare un apparato concettuale adeguato al mondo della vita, distinto tanto da quello utilizzato nelle scienze di tipo fisico, quanto dalle modalità di discorso con le quali viene caratterizzato il mondo spirituale è presente anche in uno scienziato che ha avuto un ruolo decisivo 8 Cfr. F.P. De Ceglia, Introduzione alla fisiologia di Georg Ernst Stahl, Edizioni Pensa Multimedia, Lecce 2000. 9 Sulla peculiarità della posizione di Barthez, spesso confusa con l’animismo di Stahl, cfr. F. Di Trocchio, Vitalismo e metafisica in P.-J. Barthez, in Il problema del vivente tra Settecento e Ottocento. Aspetti filosofici, biologici e medici, a cura di V. Verra, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1992, pp. 101-117.

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nello sviluppo delle scienze del vivente del XIX secolo come Marie François Xavier Bichat, il quale, nelle famose Recherches physiologiques sur la vie et la mort, si impegna in una distinzione tra le leggi che sono relative all’ambito del vivente (lois vitales), dalle leggi di tipo fisico (lois physiques), che hanno invece a che fare con l’inorganico. Anzi, secondo Bichat, questa mancata distinzione di livelli è all’origine non solo di confusione e incoerenza, ma anche del difficile e tormentato sviluppo delle scienze biologiche. La fisiologia, sostiene infatti Bichat, «avrebbe fatto assai più progressi se non fossero state portate in essa delle idee dedotte dalle scienze dette accessorie, ma che ne sono essenzialmente differenti»10. Per questo egli auspica, per le scienze che hanno a che fare con il vivente, la nascita di nuove categorie, e, attraverso queste, l’elaborazione di un nuovo linguaggio. Il linguaggio scientifico tradizionale, infatti, essendo plasmato sul modello delle scienze fisiche, rimanda necessariamente, secondo Bichat, a concetti che non riescono strutturalmente ad essere efficacemente esplicativi dell’ambito del vivente. Fisica e chimica sono infatti, per Bichat, scienze separate «da un immenso spazio dalla scienza dei corpi organizzati, perché esiste fra le leggi loro e quelle della vita un'enorme differenza»11. Dentro questo quadro, e con riferimento specifico alla cultura tedesca, non si può prescindere dall’attenzione che uno scienziato come Johann Friedrich Blumenbach – con il quale peraltro Kant istituisce un significativo e produttivo confronto – porta sul problema della generazione. La sua opposizione alle diverse forme di preformismo che si erano sviluppate soprattutto nel XVII secolo è un’opposizione alla possibilità di pensare i fenomeni generativi in termini di mero accrescimento di parti già esistenti ed è anche, in questo senso, una presa di distanza rispetto al meccanicismo che l’impostazione preformista – per quanto essa si sviluppi attraverso numerose e 10 F.X. Bichat, Recherches physiologique sur la vie e la mort, tomo 4° dell’Encyclopédie des Sciences Médicales, Paris 1835, p. 24. La prima edizione dell’opera di Bichat fu pubblicata a Parigi nel 1800. 11 Ibidem. In questo senso Bichat distingue fra proprietà fisiche come l’elasticità e proprietà invece essenzialmente vitali come la sensibilità e la contrattilità. A proposito ancora del rapporto fra scienze fisiche e scienze del vivente, e in particolare dell’assunzione di termini che generalmente le scienze dei corpi organizzati operano nei confronti delle prime e delle analogie con i fenomeni fisici e chimici attraverso le quali sono spesso interpretati i fenomeni della vita, Bichat osserva: «sarà quindi un’idea estremamente inesatta dire che la fisiologia è la fisica degli animali», perché se così fosse si potrebbe dunque allo stesso modo altrettanto dire, ma ciò verrebbe considerato distorcente dalla fisica stessa, «che l’astronomia è la fisiologia degli astri» (ibidem). La necessità della nascita di una lingua rinnovata per le scienze è un elemento ricorrente nella cultura illuministica francese e trova una sua giustificazione anche all’interno del clima culturale della Rivoluzione. Su questo aspetto, con particolare riferimento al rinnovamento del lessico medico e fisiologico operato da Bichat, cfr. L. di Palo, Le Recherches physiologiques sur la vie et la mort di François Xavier Bichat. Un lessico fisiologico, Cacucci Editore, Bari 2005.

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non sempre conciliabili declinazioni – sembrerebbe presupporre. Il concetto di Bildungstrieb o nisus formativus su cui si concentra l’indagine di Blumenbach è infatti un concetto che cerca di spiegare il costituirsi progressivo della forma nel vivente attraverso una forza o impulso che è appunto specificamente vitale12. Nelle Institutiones phisiologicae, pubblicate a Göttingen nel 1786, Blumenbach riconosce esplicitamente la necessità di pensare accanto alle proprietà che già Haller aveva attribuito alla materia vivente (e cioè la contrattilità, l’irritabilità e la sensibilità) altre due forze che sono appunto la vita propria e il nisus formativus, alle quali viene assegnata una funzione fondamentale nell’organizzazione del vivente nella sua globalità13. In particolare la vita propria presiede a quella capacità che è peculiare degli organismi viventi per cui le sue parti sono finalizzate a determinate funzioni dell’organismo inteso nella sua totalità; capacità che agisce indipendentemente da un qualche dispositivo meccanico che la attivi. Altrettanto il Bildungstrieb si manifesta in generale in tutti i processi riproduttivi come una forza che tende a conservare la struttura formale dell’organismo assumendo dunque la funzione di una sorta di principio architettonico che subordina le parti a una finalità globale. La sua azione si rivela con evidenza – e Blumenbach questo lo mostra soprattutto attraverso una serie di esemplificazioni empiriche – nel potere e nella capacità degli esseri viventi di riparare spontaneamente perdite e mutilazioni, di ricreare i propri organi, di sopperire alle ferite cercando continuamente di riassumere l’assetto che è costituivo di quella determinata forma organica. Il nisus formativus, detto in termini più generali, si manifesta secondo Blumenbach in quella capacità plastica dei corpi organici di ristabilire funzioni vitali danneggiate. Così lo scienziato tedesco riassume i risultati della sua ricerca ed esplicita, con essi, il concetto stesso di Bildungstrieb, sottolineandone la differenza rispetto alle forze che agiscono nella materia inorganica: in tutte le creature viventi, dall’uomo al verme e dal cedro alla muffa è presente un peculiare impulso, innato e attivo per tutta la vita, ad assumere dapprima la propria determinata configurazione, quindi a mantenerla, e, nel caso fosse distrutta, a ristabilirla per quanto possibile. Un impulso (o tendenza o sforzo come lo si voglia chiamare) che è totalmente diverso sia dalle universali qualità dei corpi in generale, sia dalle rimanenti forze peculiari dei corpi organizzati in particolare; impulso che sembra essere una delle cause prime ed originarie di ogni generazione, nutrizione e

12 Cfr. su questo A. De Cieri, Il Bildungstrieb fra filosofia e scienza, saggio introduttivo alla traduzione italiana curata dalla stessa De Cieri di J.F. Blumenbach, Impulso formativo e generazione, Edizioni 10/17, Salerno 1992, pp. 9-102. 13 Cfr. J.F. Blumenbach, Institutiones phisiologicae, Gottingae 1786. Su questo cfr. A. De Cieri, Il Bildungstrieb fra filosofia e scienza, cit.

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riproduzione, e che qui, allo scopo di prevenire false interpretazioni, indico con il nome di Bildungstrieb (nisus formativus)14.

Ciò che è però particolarmente interessante è lo sforzo che caratterizza subito dopo il procedere argomentativo di Blumenbach, tutto teso da un lato a mostrare che questa forza, come si legge nel brano sopra riportato, è diversa dalle universali qualità dei corpi organizzati, e dall’altro a evitare che essa, proprio per la sua diversità rispetto alle forze che agiscono sulla materia in generale, venga intesa come un agente esterno alla natura, come una sorta di principio “metafisico” che dal di fuori agisce sulla natura. In questa prospettiva Blumenbach si impegna a differenziare, in un senso che si potrebbe dire antivitalistico, la sua nozione di Bildungstrieb da quella di vis plastica (che egli non esita a definire un «termine vuoto per definire una qualitas occulta») o anche da quella altrettanto metafisica di vis essentialis già utilizzata da C.F. Wolf15. Da questo punto di vista il percorso di Blumenbach, in un rapporto di significativa prossimità con quello kantiano, si caratterizza come un tentativo di pensare insieme, come strategie epistemologiche non alternative o concorrenziali e dunque reciprocamente escludentisi, meccanicismo e teleologia; nella convinzione che il meccanicismo da solo impedisca di fatto un’autentica comprensione del modo d’essere del vivente e che la teleologia da sola porti questa comprensione fuori dai limiti del discorso scientifico16. Il problema della specifica e problematica posizione dell’indagine sul vivente in rapporto da un lato alle categorie e ai concetti delle discipline fisico-chimiche e dall’altro a nozioni caratteristiche della sfera spirituale è quello che si trova ad affrontare nei primi anni dell’XIX secolo Gottfried Reinhold Treviranus nella sua Biologie, oder Philosophie der lebenden Natur für Naturforscher und Aerzte. Questo testo (con il quale – contemporaneamente e indipendentemente dai lavori di Lamarck – per molti aspetti si impone nel linguaggio scientifico il termine biologia per indicare in generale la scienza del vivente) costituisce, soprattutto nella sua ampia introduzione, un importante tentativo di fondazione della scienza del vivente come scienza autonoma e in qualche modo indipendente rispetto alla fisica. Un tentativo di fondazione che nel determinare la specificità della biologia rispetto ad altri ambiti disciplinari vuole però al contempo evitare derive di tipo vitalistico17. 14

J.F. Blumenbach, Impulso formativo e generazione, cit., pp. 112-113. Ivi, pp. 114-115. 16 Cfr. su questo T. Lenoir, The Strategy of Life. Teleology and Mechanics in NineteenthCentury German Biology, The University of Chicago Press, Chicago/London 1989, in part. del primo capitolo (Vital Materialism), il primo paragrafo intitolato Blumenbach, Kant and the Teleomechanical Approach to Life, pp. 17-35. 17 Il termine biologia viene utilizzato infatti contemporaneamente nel 1802 non solo da G. R. Treviranus (Biologie, oder Philosophie der lebenden Natur für Naturforscher und Aerzte, 6 15

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Se infatti è chiaro, secondo Treviranus, qual è l’ambito di indagine che caratterizza la biologia – «le diverse forme e manifestazioni della vita, le condizioni e le leggi sotto le quali ha luogo questo stato, e le cause attraverso le quali il medesimo viene prodotto»18 – ci si deve però ora impegnare nel mostrare che una tale indagine è in grado di porsi al medesimo livello di scientificità che caratterizza le scienze fisico-chimiche senza per questo poter essere ridotta a fisica o a chimica. Ed è appunto questo lo scopo che si pone Treviranus nella sua imponente opera: «la dottrina della natura vivente merita di essere sollevata con uguale diritto al livello di una propria scienza come quella della natura non vivente»19. L’idea che soggiace al progetto di Treviranus è che la peculiarità dell’oggetto di questa scienza – il mondo della vita – non possa essere compreso attraverso un suo appiattimento sulla dimensione del mondo non vivente e che proprio per questo essa richieda dunque un apparato concettuale specifico e adeguato al suo oggetto. Non si può cioè, secondo Treviranus, semplicemente prendere a prestito il sistema categoriale delle scienze fisicochimiche, applicarlo a un oggetto così specifico e peculiare come è quello delle scienze del vivente, senza con ciò incorrere nel pericolo di appiattire un ambito sull'altro, di ridurre cioè le caratteristiche dell'uno a quelle dell'altro e dunque di non comprendere nella sua peculiarità il vivente in quanto, appunto, vivente. E tuttavia questa operazione, se non si accettano facili e poco scientifiche scorciatoie di tipo puramente speculativo, è carica di difficoltà: se infatti in linea del tutto generale la vita è pensabile come «uno stato di attività» si è chiamati a differenziare questa attività – che è un’attività che ha la sua origine all’interno dell’oggetto stesso – da quella che caratterizza altri fenomeni naturali “attivi” in cui però l’origine dell’attività è

Bände, Göttingen 1802-1822), ma anche da J.B. de Lamarck, presso il quale il neologismo compare nell’Hidrogéologie – opera poco nota del 1802 – ma presumibilmente già in precedenza in un manoscritto non datato, intitolato appunto Biologie (cfr. G. Barsanti, Introduzione a J.B. Lamarck, Filosofia zoologica, La Nuova Italia, Firenze 1976, p. XVI). Il termine appare però già nel 1797 con T.G.A. Roose e nel 1800 con K.F. Burdach e veniva usato anche precedentemente nel senso però di “biografia” (Cfr. K.T. Kanz, Von der ‘biologia’ zur Biologie – Begriffsentwicklung und Disziplingenese von 17. Bis 20. Jahrhundert, in Die Entstehung biologischer Disziplinen II – Beiträge zur 10. Jahrestagung der DGGTB in Berlin 2001, hrsg. von U. Hoßfeld e T. Junker, «Verhandlungen zur Geschichte und Theorie der Biologie», vol. 9, VWB Verlag, Berlin, pp. 9-30). In realtà il termine biologia, come ha rilevato Peter McLaughlin è stato utilizzato anche precedentemente all’interno della scuola wolffiana ad esempio da Michael Christoph Hanov nella sua opera in 4 volumi Philosophia naturalis sive physica dogmatica (Halle 1762-1768): cfr. P. McLaughlin, Naming Biology, «Journal of the History of Biology» 35 (2002), pp. 1-4. 18 G.R. Treviranus, Biologie, oder Philosophie der lebenden Natur für Naturforscher und Aerzte, I, Göttingen 1802, p. 4. 19 Ibid.

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all’esterno rispetto agli oggetti in questione. Ciò che si è dunque chiamati a differenziare sono quelli che possono essere definiti come movimenti meccanici – che sono sempre dovuti a una causa esterna al corpo che è in movimento – da quei movimenti attraverso i quali la vita si manifesta e che sono invece prodotti da fattori interni al corpo stesso20. E tuttavia una tale distinzione, che chiama in causa l’interazione tra esterno ed interno, è estremamente problematica, nella misura in cui essa si presenta sia a livello organico come anche a livello inorganico. Peraltro, oltre alla distinzione fra movimenti meccanici e movimenti vitali è necessario procedere, secondo Treviranus, anche a una distinzione fra movimenti vitali e movimenti di tipo fisico o chimico (come l’attrazione, ad esempio) e cercare di tracciare una linea di confine tra questi ambiti. Linea di confine, anche qui, estremamente problematica e che richiede grande prudenza se non si vuole cadere dentro facili semplificazioni. Accanto infatti a questa necessità di distinguere fra sfera meccanica, e dunque ambito fisico e chimico di spiegazione, e sfera vitale, e quindi ambito biologico di spiegazione, c’è anche, in Treviranus, la consapevolezza che una delle difficoltà connesse a una comprensione della vita in quanto tale e dunque alla fondazione di una disciplina scientifica adeguata rispetto a questo oggetto, è certamente il fatto che il termine “vita” viene utilizzato in generale nel nostro linguaggio non solo per indicare una tipologia specifica e particolare di corpi, ma anche in relazione al mondo dello spirito, per cui si tende spesso a considerare come interscambiabili il termine “vita” e il termine “essere animato”, con un riferimento dunque alla dimensione dell’anima e alla sfera psicologica che rischia di essere fonte di confusione in relazione alla possibilità di fondare una scienza della natura vivente21. 2. Il ruolo della filosofia kantiana Rispetto a un quadro come quello che si è qui a grandi linee tratteggiato il riferimento alla filosofia kantiana – che si rintraccia ad esempio nella Biologie di Treviranus, così come in generale nelle più importanti imprese scientifiche relative al vivente della Goethe-Zeit22 – sembra svolgere piuttosto che una funzione fondante una doppia funzione critica: 1) da un lato contro i più diversi tentativi di esaurire la struttura del vivente dentro un’impostazione puramente meccanicistica essa viene richia-

20

Ivi, pp. 16-17. Cfr. ivi, pp. 20-21. 22 Cfr. su questo. S. Poggi, Il genio e l’unità della natura. La scienza della Germania romantica, Il Mulino, Bologna 2000. 21

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mata per mostrare l’irriducibilità dell’indagine scientifica sul vivente all’ambito esplicativo delle discipline fisico-chimiche; 2) dall’altro, contro tutti i tentativi che, muovendo da una tale irriducibilità, pretendono di dover coinvolgere nella comprensione del vivente dei principi extra o sovra-naturalistici essa viene richiamata per mostrare i limiti dell’uso di una considerazione teleologica che si fondi sulla presupposizione di un artigiano della natura che avrebbe organizzato il mondo della natura o di un’anima che sarebbe all’origine della vitalità di una materia altrimenti inerte o ancora di misteriosi principi interni alla natura come nel caso delle nature plastiche. Con lo stesso intento, attribuendo però a questa funzione critica anche un potere fondativo, alla filosofia di Kant si riferisce esplicitamente nei primi decenni del XX secolo un autore come Emil Ungerer, impegnato in un tentativo di chiarire i concetti fondamentali della biologia – e dunque nel tentativo di produrre una logica della biologia – attraverso una strategia che mira a superare tanto una prospettiva meccanicistica (come quella ad esempio rappresentata in quegli anni da Wilhelm Roux), quanto una prospettiva di tipo neovitalistico (come quella che trova la sua più nota rappresentazione nei lavori di Hans Driesch) intese come posizioni metafisiche che pretendono di dedurre da principi generali i dati che risultano dall’analisi osservativa della totalità organica23. In relazione a questo programma Kant rappresenta per Ungerer, per il suo equilibrio tra esigenza di scientificità e contemporaneamente riconoscimento della peculiarità del modo d’essere del vivente, una sorta di modello: «costantemente ispirato nella sua concezione della natura dalla fisica newtoniana – scrive Ungerer riferendosi appunto a Kant – egli si mantiene fermo, quando affronta il problema della vita nell’ambito dell’indagine naturale, all’impostazione meccanicistica accompagnandola però con l’indispensabile uso regolativo del concetto guida teleologico»24.

23 Cfr. E. Ungerer, Die Teleologie Kants und ihre Bedeutung für die Logik der Biologie, Springer, Berlin 1922. 24 E. Ungerer, Fondamenti teorici delle scienze biologiche, a cura di F. Mondella, Feltrinelli, Milano 1972. Il testo italiano è la raccolta di due diversi testi di Ungerer, il primo dei quali (corrispondente alle pp. 21-141) era stata pubblicato in tedesco con il titolo Die Erkenntnisgrundlagen der Biologie. Ihre Geschichte und ihr gegenwärtiger Stand, come contributo al primo volume dell’opera edita da Ludwig von Bertalanffy, Handbuch der Biologie, Akademische Verlagsgesellschaft Athenaion, Konstanz 1941. Il progetto di Ungerer va cioè contestualizzato all’interno di quel lavoro sul ruolo e sul metodo delle scienze biologiche che è anche connesso all’elaborazione della cosiddetta teoria dei sistemi. Una teoria che dalla biologia trapassa poi in altri ambiti del sapere e che in linea generale si propone di descrivere le leggi della “totalità” in contrasto con il meccanicismo della scienza classica e con il principio di causalità unidirezionale. Per un’introduzione generale alle teorie dei sistemi, cfr. V. De Angelis, La logica della complessità. Introduzione alle teorie dei sistemi, Bruno Mondadori, Milano 1996.

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Il modo d’essere dell’organismo, secondo Ungerer, è caratterizzato dalla peculiarità per cui esso è una struttura auto-organizzata in cui le parti sono possibili solo in relazione al tutto e sono reciprocamente l’una causa ed effetto dell’altra. Un tale modo d’essere non può essere perciò compreso, come vorrebbe un’impostazione di tipo meccanicistico, attraverso un modello causale lineare incapace di tornare circolarmente su se stesso. Questo non implica però, secondo Ungerer, che si debba ammettere un qualche scopo nella natura che agirebbe a partire da un principio vitalistico. Dire cioè che il modo d’essere delle strutture organiche non è riducibile al modello della causalità fisico-chimica non significa in alcun modo giustificare forme di vitalismo che conducono il discorso sul vivente fuori dall’ambito della possibilità di un discorso scientifico. Rifacendosi esplicitamente a Kant, Ungerer sostiene che il giudizio teleologico è sì necessario nella comprensione del modo d’essere dell’organismo inteso come totalità complessa di parti connesse a un tutto che è insieme loro causa ed effetto; ma un tale giudizio vale solo come un principio regolativo che orienta e sostiene la ricerca, la quale, peraltro, nella sua concretezza, non si muove fuori da una causalità di tipo meccanico. Il riferimento a Kant è dunque in generale il riferimento a un approccio che riconosce l’irriducibilità dell’oggetto delle scienze biologiche rispetto agli oggetti delle scienze fisiche e chimiche e che contemporaneamente non intende affatto tale riconoscimento come una delegittimazione di un modello di scienza fondato sul paradigma meccanicistico e che non è conseguentemente disponibile nei confronti della possibilità di una introduzione all’interno della comprensione scientifica del vivente di metodi e strategie estranei alla pratica della ricerca scientifica25. In questo senso emblematico dell’atteggiamento kantiano è quanto egli stesso scrive a Blumenbach in relazione al modo in cui questi ha impostato la sua ricerca sul vivente: i Suoi scritti – scrive Kant in una lettera di ringraziamento indirizzata a Blumenbach nell’agosto del 1790 – mi hanno insegnato molte cose. In particolare, la novità costituita dall’unione di due principi che in precedenza si credevano inconciliabili (quello della spiegazione fisico-meccanica e quello della spiegazione teleologica della natura organizzata) è in una relazione di prossimità con le idee di cui principalmente mi sto occupando e che necessitano di una conferma tratta da fatti come questi26.

25 L’unione dei principi della spiegazione teleologica con quelli della spiegazione fisicomeccanica in vista di una comprensione scientifica degli enti organizzati di natura è ciò che ha reso possibile parlare di un carattere “misto” della filosofia kantiana della biologia: cfr. P. Sustar, La generazione e l’impresa critica. La costituzione della filosofia kantiana della “biologia”, «Verifiche» XXX (2001), pp. 75-136. 26 Br, AA XI 185 (Epistolario filosofico 1761-1800, trad. it. a cura di O. Meo, Il melangolo, Genova 1990, p. 232).

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È infatti del 1788 lo scritto Sull’impiego dei principi teleologici in filosofia con il quale Kant prende posizione all’interno del dibattito sull’indagine del vivente distinguendo quella che chiama una «fisica puramente teoretica» (insufficiente ad esplicare la struttura degli enti organizzati di natura) da una «fisica teleologica»27 che si applica all’indagine della natura organizzata ed è proprio nel 1790 che Kant pubblica la Critica della capacità di giudizio, che dopo una prima parte dedicata alla capacità di giudizio estetica, nella seconda parte si occupa appunto della capacità di giudizio teleologica e affronta sostanzialmente il problema di una possibile legittimazione e giustificazione dell’uso del concetto di finalità (Zweckmässigkeit) all’interno dell’ambito delle indagini relative al mondo naturale senza che questo implichi una contraddizione con la concezione meccanicistica della scienza della natura. Quello che qui ora si intende proporre è appunto un percorso dentro questo tentativo di legittimazione e giustificazione operato da Kant nell’intento di vedere se e in che senso esso possa fungere da modello di base per una fondazione teorica delle scienze biologiche ovvero, per usare l’espressione di Emil Ungerer, per una logica delle scienze biologiche. La domanda che fa dunque da sfondo a questa analisi è quella che si chiede se la strategia kantiana possa davvero essere presentata come un modello per questa fondazione o se essa piuttosto non rifletta lo stato di infondatezza che caratterizza le scienze del vivente perlomeno nella versione che Kant poteva considerare. 3. La posizione del problema Detto in termini molto generali il problema che Kant pone all’interno della seconda parte della Critica della capacità di giudizio muove dalla necessità di rendere conto del nostro bisogno come soggetti finiti che si rivolgono alla conoscenza della natura di riferirci a concetti come quello di scopo e finalità per riuscire a penetrare la struttura di quegli enti di natura che sono essenzialmente gli organismi viventi. Ovvero, per meglio dire, il problema di Kant è quello di rendere conto di una tale necessità senza per questo mettere in discussione l’impossibilità che si è andata affermando all’interno dell’orizzonte della scienza moderna di poter accogliere all’interno del proprio discorso le implicazioni metafisiche che sarebbero connesse a tutta quella famiglia di concetti che rimanda, appunto, alla nozione di causa finale. In relazione al nostro bisogno di riferirci a concetti che rimandano in generale alla nozione di finalità nella nostra considerazione della natura è evidente, secondo Kant, che ci sono modi d’essere che appartengono alla 27 ÜGTP, AA VIII 159, trad. it. in I. Kant, Scritti sul criticismo, a cura di G. de Flaviis, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 33.

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natura, in relazione ai quali, se vogliamo renderceli comprensibili, noi non possiamo non chiamare in causa nozioni di tipo teleologico; modi d’essere, cioè, che possono essere a) identificati, b) riconosciuti e c) spiegati solo attraverso l’utilizzo di un apparato concettuale di tipo teleologico. Gli enti di natura che richiedono un approccio di questo tipo sono sostanzialmente gli esseri viventi, la cui organizzazione delle parti rispetto al tutto risulta comprensibile solo muovendo da una considerazione finalistica delle parti rispetto al tutto e del tutto rispetto alle parti. Un tale riconoscimento, però, per quanto riveli una qualche forma di necessità (non possiamo che fare in questo modo) è comunque per Kant immediatamente problematico, in quanto il ricorso a un apparato concettuale di questo tipo – a un apparato concettuale che chiama in causa la finalità – sembra per molti aspetti portare il discorso sul vivente fuori dalla possibilità di una sua considerazione autenticamente scientifica. Nella misura in cui la moderna scienza della natura (a cui il criticismo kantiano intende peraltro fornire una sorta di fondazione in termini trascendentali) si costituisce come un processo di liberazione dalla necessità di riferirsi a elementi extranaturali e trascendenti per spiegare il funzionamento della natura, il solo richiamo a modalità di discorso di tipo teleologico e dunque a qualcosa come gli scopi o i fini della natura sembra infatti eccedere i confini naturalistici della considerazione scientifica. La scienza moderna della natura si afferma in effetti proprio attraverso una polemica nei confronti dell’impiego di modelli di spiegazione teleologica nell'ambito dei fenomeni naturali, riconoscendo come unico modello di causalità in grado di spiegare tali fenomeni quello della causalità efficiente. In generale gli approcci antifinalistici che costituiscono la base su cui sorge e si sviluppa la scienza moderna considerano infatti l’impiego di modelli di spiegazione teleologica e il ricorso a una nozione come quella di causa finale come un'indebita estensione all'ambito della natura di modelli con cui si tendono a spiegare i comportamenti umani, intesi come comportamenti diretti a uno scopo. 4. Il superamento del pregiudizio finalistico Paradigmatica, anche per la sua radicalità, è in questo senso la posizione di Spinoza28. Per quest’ultimo, infatti, il pregiudizio fondamentale che deve 28 La questione relativa alla posizione di Spinoza nei confronti della teleologia è in realtà molto complessa, soprattutto se ci si sofferma sulla nozione di conatus che potrebbe essere letta persino come un recupero di una forma di finalità che nulla ha però a che vedere con il pregiudizio finalistico verso cui Spinoza rivolge la propria critica. In questa direzione, cfr. D. Garrett, Teleology in Spinoza and Early Modern Rationalism, in New Essays on the Rationalists, ed. by R. Di Gennaro e Ch. Huenemann, Oxford University Press, Oxford 2003, pp. 310-336. In

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essere estirpato se si intende cogliere le cose secondo la loro verità è proprio il pregiudizio finalistico, ovvero l’idea, radicata nel pensiero degli uomini, che le cose naturali siano ed agiscano in vista di un fine. A tal proposito il suo intento, nell’Ethica, è perciò quello di mostrare «che la natura non si è prefissata alcun fine e che tutte le cause finali non sono che finzioni umane»29. L’obiettivo del discorso di Spinoza è dunque quello di mostrare che ciò che appare a noi come uno scopo, non è affatto una causa finale, non è, cioè, ciò che determina l’essere di quella cosa. E questo perché quello scopo, all’interno di una visione non antropocentrica e che guarda alla necessità delle cose, altro non è che l’effetto di una causa che l’ha determinato. Il pregiudizio finalistico nasce, secondo Spinoza, dal fatto che avendo l’uomo la tendenza a cercare l’utile e quindi a considerare le cose a partire dalla loro utilità, egli interpreta anche le cose naturali come mezzi per il proprio utile. E non essendo il produttore di queste cose pensa che esista, alle spalle delle cose, un ente che le ha pensate, progettate e prodotte in vista dell’utile dell’uomo. Ciò che Spinoza critica è dunque la possibilità di pensare alla natura utilizzando un modello che vale invece solo in relazione a quelle forme dell’agire umano che sono strutturate attraverso mezzi atti a soddisfare l’utile; forme aventi appunto l’uomo stesso come causa. Ed è proprio questo, evidentemente, il punto che crea problema nel caso della teleologia naturale. Nell’ambito dell’agire poietico la possibilità di pensare un oggetto come qualcosa che trova la sua ragion d’essere nello scopo per cui esso è stato prodotto è data dal riconoscimento dell’intenzione che è all’origine dell’oggetto e che informa l’azione del produttore che funge da causa efficiente. Il riconoscimento di un’intenzione all’origine dell’oggetto è, infatti, ciò che consente di uscire da quella sorta di backward causation propria della causalità finale, ossia dal problema logico connesso a qualsiasi considerazione che pensi lo scopo come causa di un determinato oggetto (quello che Gregory Bateson chiama l’errore teleologico30), per cui sembrerebbe che qualcosa

questo contesto ci si limita a richiamare la critica a quello che Spinoza definisce il pregiudizio finalistico. 29 B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, trad. it. di S. Giametta, Boringhieri, Torino 1991, p. 61. 30 Cfr. G. Bateson, Mente e natura. Un’unità necessaria, trad. it. di G. Longo, Adelphi, Milano 1984, in part. pp. 84-87. In realtà secondo Bateson l’errore teleologico è prodotto da una sorta di “bisticcio” tra ragionamento logico e ragionamento causale: «quando le sequenze logiche diventano circolari (o più complesse), la descrizione o proiezioni di queste sequenze sulla logica, che è atemporale, diventa contraddittoria» (ivi, p. 85). Secondo Bateson, infatti, la logica, proprio per la sua atemporalità, «è un modello incompleto della causalità» (ivi, p. 86). In questo senso, secondo Bateson, finché ci si muove all’interno del ragionamento lineare, di fronte alla struttura funzionale degli enti biologici o si cade all’interno dell’errore teleologico

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che viene dopo (lo scopo, appunto) sia causa di qualcosa che viene prima (l’oggetto che consente il raggiungimento di quello scopo). Nella misura in cui lo scopo viene anticipato nell’intenzione a partire dalla quale prende forma l’oggetto, l’incoerenza logica della causa finale si scioglie. Dove è evidente che ciò che viene meno, nello sciogliersi dell’incoerenza logica, è la causa finale stessa, la quale, viene tradotta, per poter essere compresa, in una causa di tipo efficiente. Nel momento in cui pensiamo un oggetto naturale come un oggetto il cui statuto appare caratterizzato finalisticamente, sembrano dunque darsi due possibilità: a) o si cade attraverso il ricorso a una nozione come quella di causa finale dentro le aporie sopra evidenziate (per cui appunto un evento che viene dopo sarebbe causa di uno ad esso antecedente); b) oppure lo si connette, proprio come facciamo con i prodotti della tecnica, a un’intenzione che starebbe all’origine di quell’oggetto. Detto diversamente, nel momento in cui parliamo di un ente di natura pensandolo in relazione allo scopo verso cui esso tenderebbe e rintracciamo nello scopo ciò che fa essere quell’oggetto ciò che è, se non vogliamo cadere all’interno dell’aporia di (a), è necessario pensarlo in relazione a un artefice che lo costituisce (b). Il riferimento a qualcosa come una finalità sembra dunque legittimo finché ci si muove all’interno di un discorso che si riferisce all’ambito artefattuale (in questo caso, infatti, l’elemento teleologico è di fatto esplicabile attraverso un modello causale non contraddittorio e l’errore teleologico si scioglie), ma diventa sostanzialmente inaccettabile se si condivide l’idea che una spiegazione scientifica del modo d’essere della natura non debba far riferimento a elementi extranaturali e dunque non possa fondarsi sulla presupposizione di un ente che sta fuori di essa. 5. La “resistenza” del modello teleologico Eppure un argomento pur così potente come quello di Spinoza non ha di fatto eliminato la possibilità di un riferimento a spiegazioni teleologiche in ambito naturalistico e non a caso la discussione intorno alla legittimità delle spiegazioni teleologiche e al valore esplicativo delle nozioni che esse chiamano in gioco ha attraversato non solo alcuni snodi decisivi del pensiero filosofico settecentesco e ottocentesco ma anche momenti niente affatto marginali dell’epistemologia novecentesca31 ed è ancora attiva in relazione

(secondo cui il processo sarebbe determinato dal fine) o in quello che egli definisce «il mito di una qualche entità regolatrice soprannaturale» (ivi, p. 87). 31 Sul dibattito epistemologico novecentesco relativo alla plausibilità o meno delle spiegazioni teleologiche all’interno di un discorso scientifico, dibattito che ha coinvolto ad esempio

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soprattutto ai modi e alle forme di utilizzazione di una nozione, che appare per molti aspetti fondamentale e tuttavia problematica in ambito biologico, come è quella di funzione32. Per quanto infatti la posizione filosofica dominante in ambito epistemologico sia stata perlopiù di tipo riduzionistico, se non addirittura talora di tipo eliminazionistico (intendendo con questa determinazione una posizione secondo cui il ricorso a nozioni implicanti un qualche elemento teleologico potrebbe o dovrebbe essere eliminato attraverso una rigorizzazione del discorso in termini causali), non è difficile vedere come nell’ambito del linguaggio delle scienze della natura (e in particolare nel linguaggio delle scienze biologiche e più in generale dell’ambito bio-medico) il ricorso a nozioni teleologiche, ovvero a una descrizione, identificazione e spiegazione degli oggetti che muove dal loro scopo o dalla loro funzione, sia tutt’altro che un’eccezione. Quando si dice – per fare il classico esempio – che il cuore è l’organo che serve a pompare il sangue producendo così una pressione sufficiente a permettere la circolazione sanguigna, e si ritiene che questa e non altre caratteristiche del cuore sia ciò che rende qualcosa, appunto, un cuore, noi di fatto identifichiamo un oggetto naturale attraverso la funzione che svolge nel sistema di cui fa parte e cioè con un concetto, almeno prima facie, di tipo teleologico. Per alcuni aspetti, dunque, sembra che quando noi parliamo di un ente come il cuore in fondo non usiamo una strategia così diversa da quella che adottiamo quando parliamo di un telefono, di una penna o di un microfono, nel senso che così come identifichiamo il telefono, la penna e il microfono a partire dalla loro funzione (o dal loro scopo), altrettanto facciamo con il cuore. È a partire da considerazioni di questo tipo che ci si sente autorizzati a parlare di quello che è stato chiamato un artefact talk in biology, o, più radicalmente ancora, della biologia come di una scienza che si muove dentro an artefact model of nature33. Il problema, evidentemente, è che mentre l’identificazione dell’artefatto sulla base della sua funzione non crea particolari disagi, in quanto quella

C.G. Hempel, R.B. Braithwaite, E. Nagel, L. Wright, cfr. W.C. Salmon, 40 anni di spiegazione scientifica: scienza e filosofia 1948-1987, Muzzio, Padova 1992. 32 Per una panoramica intorno al dibattito odierno sulle funzioni, cfr. Functions in Biological and Artificial Worlds: Comparative Philosophical Perspectives, ed. by U. Krohs e P. Kroes, The MIT Press, Cambridge (MA) 2009; Functions: New Essays in the Philosophy of Psychology and Biology, ed. by A. Ariew, R. Cummins, M. Perlman, Oxford University Press, Oxford 2002; Function, Selection and Design, ed. by D.J. Buller, State University of New York Press, Albany 1999; Nature’s Purposes: Analyses of Function and Design in Biology, ed. by C. Allen, M. Bekoff, and G. Lauder, The MIT Press, Cambridge (MA)/London 1998. 33 Cfr. T. Lewens, Organisms and Artefacts. Design in Nature and Elsewhere, The MIT Press, Cambridge (MA)/London 2004.

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funzione è anticipata nell’intenzione del Designer, che assume il ruolo di causa efficiente del prodotto, la cosa risulta molto più complicata in relazione all’ente di natura34. Semplificando, è dunque possibile dire che le questioni dentro cui si muove la riflessione epistemologica in relazione alla teleologia riguardano ancora oggi: 1) in primo luogo la necessità o meno del ricorso a parole e concetti che hanno a che fare con una dimensione teleologica all’interno di un discorso scientifico; 2) in secondo luogo l’eventuale sostenibilità o meno, dal punto di vista epistemologico, dell’uso di concetti teleologici all’interno del discorso scientifico. 6. La proposta kantiana sulla teleologia naturale Tali questioni, come si è già accennato, sono quelle che stanno alla base della discussione kantiana del giudizio teleologico nella seconda parte della Critica della capacità di giudizio. L’intero discorso kantiano in relazione all’uso del giudizio teleologico in rapporto agli enti di natura può essere letto come una strategia per tentare di giustificare l’uso del linguaggio teleologico rispetto a essi (e in particolare in relazione agli oggetti biologici)35. Come si è anticipato, la struttura argomentativa kantiana muove sostanzialmente da due considerazioni fra loro apparentemente incompatibili: 1. Esistono degli enti di natura che rivelano evidentemente una struttura teleologica o che perlomeno sono costituiti in un modo tale per cui essi non possono essere riconosciuti, identificati e compresi se non muovendo da elementi di carattere teleologico come la funzione che essi svolgono o lo scopo che essi manifestano – e questi enti sono sostanzialmente gli organismi e le loro parti. 2. Il riconoscimento di una tale struttura (teleologica) degli enti di natura sembra portare necessariamente il discorso che li ha ad oggetto fuori dai limiti che devono caratterizzare un discorso scientifico e in direzione di un impegno teologico-metafisico che il discorso scientifico non può assumere. Impegno teologico-metafisico che deriva da questa considerazione: se ci sono degli scopi della natura devo ammettere qualcosa o qualcuno che è 34 La nozione di Designer è assunta qui in senso molto generale. Designer può essere, in un certo senso, anche l’utente, nella misura in cui egli è colui che attribuisce, nell’uso, una certa funzione a un certo ente. 35 Per una discussione critica della letteratura relativa al concetto kantiano di teleologia si rimanda a W. Henning, An Annoted Bibliography to Kant’s Teleology, «Kant Yearbook» 2009, pp. 249-266. L’intero numero è dedicato al concetto di “teleologia”.

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all’origine di quegli scopi, esattamente come di fronte a un artefatto che serve a qualcosa presuppongo necessariamente l’esistenza di un Designer all’origine della finalità di quell’ente36. È muovendo da queste due considerazioni, che sembrano produrre una sorta di antinomia (I. per spiegare alcuni enti di natura devo far ricorso alla teleologia; II. una spiegazione scientifica di un ente di natura non può essere teleologica), che Kant elabora la propria teoria del giudizio teleologico, la quale vuole salvare entrambi gli assunti e sciogliere l’antinomia. L’intento di Kant è cioè quello di elaborare una teoria che a) riconosca e giustifichi la legittimità del ricorso a nozioni come quelle di scopo e finalità in relazione alla natura, ma b) in un modo tale per cui questo riconoscimento non conduca il discorso scientifico in direzione di un trascendimento dei limiti naturalistici dentro cui esso deve necessariamente muoversi. Una teoria cioè in cui (1) – e cioè l’esigenza di un discorso teleologico in relazione a una certa tipologia di enti di natura – non implichi (2) – e cioè la necessità di dover ammettere un Designer come origine degli scopi. Il punto di partenza dell’argomentazione che viene sviluppata da Kant è del tutto coerente con gli assunti fondamentali della scienza moderna e quindi con l’approccio antifinalistico che la sostiene: non c’è alcun fondamento, sostiene infatti esplicitamente Kant proprio all’inizio della Critica della capacità di giudizio teleologica, che ci consenta di rintracciare una particolare specie di causalità, ossia un tipo di causalità speciale – quella finale, appunto – nella natura intesa «come insieme degli oggetti dei sensi»37. Anzi, Kant su questo punto è molto radicale e afferma che «nemmeno l’esperienza può provarcene la realtà»38. Il fatto cioè che noi si faccia in qualche modo esperienza della presenza di scopi nella natura e che dunque alcuni enti di natura ci appaiano evidentemente come strutturati in modo tale da assolvere una certa funzione e quindi in vista di un certo scopo, non ci autorizza a spiegare il modo d’essere, la costituzione e la struttura di questi enti facendo ricorso al modello della causalità finale. E questo nonostante un tale approccio – quello finalistico, appunto – sembri essere l’unico in grado di spiegarceli. Attribuire un tale modello di causalità al modo d’essere della natura, se non si vuole cadere dentro quella che a Kant coerentemente con la sua teoria della causalità appare come una contraddizione (per cui qualcosa che è temporalmente conseguente – l’effetto – dovrebbe spiegare qualcosa che è antecedente – la causa – trasformando dunque l’effetto in causa della causa) 36 Per un recupero raffinato di questa linea argomentativa che connette la funzionalità al progetto, in termini però di garanzia per le nostre conoscenze sul mondo, cfr. A. Plantinga, Warrant and Proper Function, Oxford University Press, Oxford 1993. 37 KU, AA V § 61, p. 359, trad. it. Critica della capacità di giudizio, a cura di L. Amoroso, Rizzoli, Milano 1998, p. 559. 38 KU, AA V § 61, p. 359, trad. it. cit., p. 561.

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significherebbe infatti, secondo Kant, presupporre un’intelligenza come origine e giustificazione degli scopi. Presupposizione che può articolarsi in due modi per cui: a) o si pensa la natura stessa come un ente intelligente (il che trascende il concetto stesso di natura come insieme degli oggetti dei sensi); b) oppure si assume un’intelligenza che sta alle spalle della natura e si pensa quindi a qualcosa come un architetto intelligente che ordina e organizza la natura (il che altrettanto trascende le nostre possibilità conoscitive). Kant non rimane però chiuso dentro questa alternativa. Dire infatti che non c’è alcun fondamento che consenta di attribuire la causalità finale al modo d’essere della natura non esclude, secondo Kant, che noi si possa fare comunque ricorso a questo tipo di causalità in relazione alla natura. Anzi noi possiamo e per la nostra peculiare costituzione persino dobbiamo ricorrervi, sostiene Kant; solo che – ed è qui che inizia a profilarsi la soluzione che Kant intende articolare – nel momento stesso in cui facciamo ricorso alla causalità finale in relazione a un ente di natura dobbiamo essere consapevoli che lo stiamo facendo solo per analogia con l’unica causalità secondo fini che è possibile pensare senza contraddizione e cioè quella che presuppone un’intelligenza, un’intenzione, una volontà come sua giustificazione. Quando riconosciamo una funzione o uno scopo a un artefatto riconosciamo che il suo concetto svolge un ruolo causale nei suoi confronti: se si vuol definire che cos’è un fine secondo le sue determinazioni trascendentali […] si dirà: esso è l’oggetto di un concetto in quanto il secondo viene considerato come causa del primo (come fondamento reale della sua possibilità), e la causalità di un concetto riguardo al suo oggetto è la finalità (forma finalis)39.

Così, quando attribuiamo un principio teleologico alla natura dobbiamo essere consapevoli del fatto che tale attribuzione implica che noi assegniamo al concetto di un ente naturale una causalità rispetto ad esso, come se il suo concetto – per usare le parole di Kant – appartenesse davvero alla natura e non fosse invece solo in noi che pensiamo la natura: infatti noi adduciamo un fondamento teleologico quando attribuiamo a un concetto di oggetto, come se tal concetto fosse reperibile nella natura (e non in noi), una causalità rispetto a un oggetto40.

Noi attribuiremmo dunque un fondamento alla causalità finale nella natura nel momento in cui pensassimo che alla natura appartenesse quella capacità anticipatoria tramite cui l’uomo può far svolgere un ruolo causale al concetto nei confronti dell’oggetto. Detto diversamente ancora, introdurre 39 40

KU, AA V § 10, pp. 219-220, trad. it. cit., p. 193. KU, AA V § 61, p. 360, trad. it. cit., p. 563.

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un principio teleologico nella natura significa pensare la natura come «tecnica mediante una sua propria facoltà»41, come una tecnica senza artigiano, come una tecnica, cioè, che non risponde a un progetto ad essa esterno e che non implica perciò le intenzioni di un Designer. Tuttavia se nel procedere tecnico la contraddizione connessa a questo tipo di backward causation non si presenta grazie all’anticipazione dello scopo nell’intenzione dell’agente, l’uso analogico della causalità che caratterizza il procedere tecnico della natura implica che l’utilizzazione di questo modello non può avere alcun valore costitutivo in relazione al modo d’essere degli enti naturali: la valutazione teleologica viene fatta entrare a buon diritto, almeno problematicamente, nella ricerca naturale, ma solo per sottomettere la natura, per analogia con la causalità secondo fini, a principi di osservazione e di ricerca, e senza presumere di spiegarla in tal modo42.

Nel momento in cui si pensasse a tale causalità non in termini analogici, ma come struttura costitutiva della natura ci si troverebbe infatti a introdurre in questo modo nella scienza naturale una nuova causalità che in realtà, dice Kant, noi «prendiamo a prestito solo da noi stessi e attribuiamo ad altri enti, senza tuttavia volerli assumere come congeneri a noi»43. Il giudizio teleologico in relazione a un ente di natura è dunque un giudizio che, per quanto non sia in grado di esprimere la costituzione e dunque il modo d’essere dell’oggetto naturale a cui si riferisce, è comunque un giudizio il quale, secondo Kant, è in grado comunque di orientare e guidare la ricerca intorno a quell’oggetto per ricondurre a regole quei fenomeni naturali in relazione ai quali «le leggi della causalità secondo il mero meccanismo di essa (della natura, L.I.) non bastano»44. Ed è appunto per questo che la valutazione teleologica della natura «appartiene alla capacità di giudizio riflettente e non alla determinante»45; è in grado cioè di guidare e orientare la conoscenza degli enti organizzati di natura, ma non dispone di quella capacità di svelare la costituzione di un ente che solo la validità oggettiva determinante delle categorie dell’intelletto è in grado, attraverso appunto i giudizi determinanti, di ricavare.

41

KU, AA V § 61, p. 360, trad. it. cit., p. 563. KU, AA V § 61, p. 360, trad. it. cit., pp. 561-563. 43 KU, AA V § 61, p. 361, trad. it. cit., p. 563. 44 KU, AA V § 61, p. 360, trad. it. cit., p. 563. 45 KU, AA V § 61, p. 360, trad. it. cit., p. 563. 42

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7. Finalità esterna e finalità interna: l’artefatto e il vivente Ma questa non è l’unica mossa che Kant compie nel tentativo di giustificare la possibilità del ricorso a un discorso di tipo teleologico in relazione alla nostra conoscenza della natura. Oltre a legittimare analogicamente la possibilità di un ricorso a una nozione come quella di causa finale e ad attribuire al giudizio teleologico un valore regolativo nell’ambito della capacità di giudizio riflettente per quanto riguarda la sua applicazione agli enti di natura, il secondo e decisivo passo che egli compie è quello di distinguere nettamente due modelli di finalità che possono essere attribuiti alla natura – 1) la finalità esterna e 2) la finalità interna – ascrivendo solo alla seconda – alla finalità interna – un valore conoscitivo in relazione al mondo della natura ed escludendo invece la finalità esterna – adeguata per la considerazione del mondo artefattuale – da ogni considerazione scientifica del mondo naturale. La finalità esterna o relativa (1) si ha quando un ente o un evento naturale appare finalizzato all’utile di un altro46. La finalità in questo caso è esterna47, appunto, in quanto non riguarda le cose in se stesse, ma è finalità solo relativamente ad altro e, quindi, accidentalmente «per la cosa stessa alla quale viene attribuita»48. La finalità interna (2) – che riprende per molti aspetti alcune delle caratteristiche del Bildungstrieb di Blumenbach – si ha invece, secondo Kant, quando una medesima cosa «è causa ed effetto di se stessa»49, quando cioè il fine che la cosa deve realizzare è ciò che essa è fin dall'inizio, quando ciò verso cui la cosa tende non è un altro da sé, ma è invece la realizzazione di ciò che essa stessa è. È da subito evidente che questa distinzione è assolutamente fondamentale per Kant. E’ solo sulla scorta di essa, infatti, che la Rehabilitierung che egli opera del concetto della finalità naturale appare in grado di sfuggire alla critica generalizzata al finalismo che aveva segnato così profondamente la nascita della scienza moderna. Se infatti il discorso relativo agli scopi della natura viene perlopiù letto come il riflesso di una forma di antropomorfizzazione del mondo, tale per cui il mondo viene interpretato nello stesso modo con cui l’uomo interpreta i prodotti di cui egli è la causa, questa critica sembra colpire essenzialmente la considerazione teleologica della natura 46 Più precisamente, secondo Kant la finalità relativa si chiama utilità (Nutzbarkeit) quando è riferita agli uomini e convenienza (Zutraeglichkeit) quando è riferita a ogni altra natura: cfr. KU, AA V § 63, p. 367, trad. it. cit., p. 577. 47 Cfr. KU, AA V § 82, p. 425, trad. it. cit., p. 727: «Per finalità esterna intendo quella di quando una cosa della natura serve ad un’altra come mezzo per un fine». 48 KU, AA V § 63, p. 368, trad. it. cit., p. 581. 49 KU, AA V § 64, p. 370, trad. it. cit., p. 587.

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che si fonda sulla finalità esterna in cui un ente è considerato come scopo per un altro. Non assegnando alcun ruolo esplicativo alla finalità esterna in relazione a una considerazione scientifica del mondo della natura, Kant prende cioè le distanze nei confronti da tutte quelle forme di teleologia antropocentrica denunciate da Spinoza o Hume o anche – si potrebbe dire oggi – nei confronti di tutte quelle forme di teleologia cosmica nel senso in cui Ernst Mayr intende questa nozione riferendosi ad alcune interpretazioni metafisiche della teoria dell’evoluzione come una sorta di progressione verso una perfezione50. Se la finalità interna può invece svolgere una sua funzione nella considerazione scientifica del mondo naturale – per quanto a certe condizioni e cioè attraverso un giudizio riflettente e non mai determinante – ciò è giustificato proprio dal fatto che non rimandando al plesso che intreccia la nozione di scopo con quella di utilità, questo modello di finalità sfugge alla classica critica moderna nei confronti del finalismo. Gli enti nei confronti dei quali siamo perciò legittimati a fare ricorso a una concettualità teleologica sono gli enti che secondo Kant sono descrivibili nella forma della finalità interna e che proprio per questo possono essere considerati dei fini naturali (Naturzwecke)51. Ma quali sono le condizioni a partire dalle quali un ente può essere descritto come un fine naturale? 8. I fini naturali Innanzitutto, per dire che un ente naturale è comprensibile solo come fine, ovvero per poter giustificare il ricorso a qualcosa come la causa finale 50 Cfr. E. Mayr, L’unicità della biologia. Sull’autonomia di una disciplina scientifica, cit., in particolare pp. 63-65. 51 La nozione di fine naturale (Naturzweck) (1) è successivamente distinta da Kant dalla nozione di fine della natura (Zweck der Natur) (2) e da quella di fine definitivo (Endzweck) (3). Il fine naturale (1) è l’ente di natura che per la sua forma interna non può che essere valutato secondo la finalità interna. Enti che sono fini naturali sono in questo senso gli enti organizzati di natura. Perché una cosa sia invece un fine della natura (2), sia cioè un fine per la natura nel suo complesso, si deve necessariamente presupporre un fine definitivo (3), ovvero un riferimento alla dimensione ultrasensibile come manifestazione di questa organizzazione complessiva che trascende quella che invece possiamo legittimamente chiamare la conoscenza teleologica della natura (teleologische Naturerkenntnis). E tuttavia la nozione di fine naturale non è neutra dal punto di vista delle conseguenze a cui essa può condurre sul piano etico e metafisico generale. Per quanto infatti la nozione di fine naturale (1) si regga indipendentemente da quella di fine della natura (2) e soprattutto da quella di fine definitivo (3), la considerazione che qualcosa nella natura è comprensibile come fine naturale (1) conduce necessariamente, dice Kant, verso (2) e dunque (3), ovvero «all’idea di tutta la natura come un sistema secondo la regola dei fini, alla quale idea va poi subordinato tutto il meccanismo della natura secondo principi della ragione» (KU, AA V § 67, p. 379, trad. it. cit., p. 609).

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per pensare un certo tipo di oggetto naturale, è necessario che questo oggetto risulti non del tutto esplicabile muovendo dal solo meccanismo della natura, ovvero che la spiegazione della sua forma non trovi adeguate ragioni all’interno di una spiegazione meccanica, per cui esso, in relazione alla sua forma, da un punto di vista della causalità meccanica potrebbe essere anche in un altro modo dal modo in cui è. Modo che trova invece piena esplicazione muovendo dallo scopo a cui quell’oggetto appare preposto. Ma per dire che qualcosa esiste come fine naturale, ammesso che questa non sia una contraddizione – dice Kant – si richiede qualcosa in più. Non potendo infatti qui fare ricorso a una volontà si deve dire che una cosa esiste come fine naturale, per quanto l’espressione sia poi riconosciuta da Kant come un’espressione «un po’ impropria e indeterminata»52, solo se essa è, appunto, causa ed effetto di se stessa. Un oggetto naturale è dunque un fine naturale, secondo Kant, solo se è caratterizzato da una finalità interna, ovvero solo se quell’oggetto è causa ed effetto di se stesso. Kant articola il modo in cui questi enti sono finalità interna, e dunque causa ed effetto di se stessi, attraverso l’esplicitazione di tre diverse forme di processo che caratterizzano lo stesso modo d’essere degli organismi: a) in primo luogo, dice Kant, gli enti organizzati di natura sono causa ed effetto di se stessi relativamente al genere – nel senso che un organismo producendo un altro organismo «si conserva costantemente in quanto genere»53 (ed è quindi, ad un tempo, causa del mantenimento del genere, ma anche suo effetto); b) in secondo luogo, sono causa ed effetto di se stessi relativamente all’individuo, nel senso che nella crescita (Wachstum) – da considerarsi in maniera «diversa da ogni altro ingrandimento secondo leggi meccaniche [Größenzunahme nach mechanischen Gesetzen]», ma come una forma di produzione generativa (Zeugung) – ogni organismo si sviluppa (ed è quindi causa di sé) «tramite una sostanza che, per la sua composizione, è un suo proprio prodotto» (ovvero qualcosa che è un suo effetto)54; c) in terzo luogo, sono causa ed effetto di se stessi relativamente alla conservazione (Erhaltung) – nel senso che ogni parte «dipende vicendevolmente dalla conservazione delle altre», in modo tale che le parti sono per così dire funzionali al tutto e il tutto è funzionale alle parti, cosicché, ad esempio, le foglie, dice Kant, «sono sì prodotti dell’albero» (e quindi suoi effetti), «ma lo conservano anche a loro volta» (essendo così causa)55. 52

KU, AA V § 65, p. 372, trad. it. cit., p. 591. KU, AA V § 64, p. 371, trad. it. cit., p. 589. 54 KU, AA V § 64, p. 371, trad. it. cit., p. 589. 55 Cfr. KU, AA V § 64, p. 372, trad. it. cit., p. 591. 53

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Questo punto è particolarmente interessante nell’argomentazione kantiana, in quanto la capacità di essere causa ed effetto di se stesso nell’ultimo senso che è stato detto, regge, secondo Kant, quella straordinaria facoltà che è propria solo dei viventi e che li distingue anche dai più complessi artefatti, di soccorrere eventuali proprie mancanze e carenze attraverso una sorta di strategia di self-help, ovvero attraverso una trasformazione delle funzioni delle singole parti in relazione alla conservazione del tutto. Una facoltà, questa, che, come aveva osservato Blumenbach, dandole anzi l’onere di dimostrazione empirica della nozione di Bildungstrieb, può spiegare addirittura la genesi e lo sviluppo di forme del tutto nuove o anche di creature assolutamente anomale e mostruose. 9. Macchine e organismi Si è qui a un punto importante e decisivo dell’argomentazione kantiana. Queste caratteristiche (la capacità di riproduzione, di auto-mantenimento e di auto-regolazione) – ovvero gli elementi che fanno dei sistemi organici delle strutture autopoietiche che sono appunto causa ed effetto di se stesse – sono quelle che determinano la peculiarità del modo d’essere del vivente e sono, conseguentemente, anche le caratteristiche a partire dalle quali diventa possibile, secondo Kant, distinguere la struttura ontologica di un prodotto organizzato della natura, da quella di un prodotto dell’arte. Quest’ultimo, infatti, per quanto sia organizzato e pensato in relazione a uno o più scopi, è sempre costitutivamente un prodotto il cui scopo non è mai per se stesso, ma sempre per qualcosa d’altro da sé ed è perciò considerabile solo sotto la prospettiva della finalità esterna e non della finalità interna. La macchina (assunta come paradigma del prodotto tecnicamente e artificialmente strutturato e organizzato) (a) non può infatti produrre un’altra macchina attraverso l’auto-organizzazione della sua materia, così come (b) non può – da se stessa – rimpiazzare le sue parti o modificare spontaneamente il proprio assetto. Ma, soprattutto, (c) mentre nella macchina una parte è sì lo strumento che serve al movimento delle altre, nell’organismo ogni parte deve essere invece pensata, come si è detto, «come un organo che produce le altri parti in modo tale per cui ogni parte produce vicendevolmente l’altra»56. Ovvero, mentre nella macchina «una parte c’è sì in vista dell’altra, ma non mediante essa»57, nell’organismo, «in quanto ente orga-

56 57

KU, AA V § 65, p. 374, trad. it. cit., p. 595. KU, AA V § 65, p. 374, trad. it. cit., p. 597.

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nizzato e che si organizza da sé»58, ogni sua parte è pensabile «solo mediante tutte le altre», «in vista delle altre e del tutto»59. La macchina è cioè certamente un prodotto organizzato, ma come prodotto di una «causa razionale» differente rispetto alla materia di cui l’ente è composto, per cui è la causa razionale esterna il principio in essa dell’organizzazione delle sue parti in un tutto. Il carattere distintivo di quegli enti organizzati di natura che sono i viventi rispetto alle macchine non è dunque l’organizzazione in quanto tale: gli organismi viventi, infatti, se considerati come gli enti in cui le parti sono quello che sono solo nella relazione con le altre parti e con il tutto, sono un prodotto organizzato nello stesso senso in cui lo sono le macchine. Che le parti siano cioè ciò che sono solo in riferimento al tutto di cui sono parti è infatti caratteristica comune di tutti gli enti organizzati, siano essi artefatti o enti di natura. Altrettanto, che le parti isolate e tolte dal tutto di cui sono parti non siano più ciò che sono (nel senso che non possono più svolgere la funzione che svolgono all’interno della totalità di cui sono parti) è circostanza che può valere tanto per un organismo quanto per una macchina. L’organismo vivente dunque non si distingue dalla macchina in quanto ente organizzato. In quanto organizzato, l’organismo vivente si distingue semmai (al pari di quell’ente organizzato che è la macchina) da quel tipo di oggetti che sono gli aggregati, ovvero, per riprendere una distinzione classica, già platonica e aristotelica, da quel tipo di oggetti che sono descrivibili come delle quantità «nelle quali la posizione delle parti non produce differenza». Rispetto ad esse le strutture organizzate sono invece «quantità nelle quali la posizione delle parti produce differenza»60. In questo secondo caso, dove abbiamo a che fare cioè con strutture organizzate che sono per Aristotele delle totalità nel senso dello holon, la modificazione di una parte implica la modificazione del tutto, al punto che l’assenza di una parte rende quel tutto un alcunché di mutilo (kolobon). Cosa, questa, che non si può dire per il tutto inteso come to pan, in cui la modificazione di una parte non modifica la struttura generale del tutto e l’assenza di una parte può produrre una modificazione di tipo quantitativo, ma non qualitativo. In questo senso l’organizzazione è una caratteristica tanto di quelli che noi chiamiamo oggi gli organismi quanto delle macchine e se si guarda infatti all’origine moderna del concetto di organismo le cose appaiono in tutta la loro complessità61. 58

KU, AA V § 65, p. 374, trad. it. cit., p. 597. KU, AA V § 65, p. 373, trad. it. cit., p. 595. 60 Aristotele, Metaphysica, 1024 a 2-4, trad. it. La Metafisica, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1992, pp. 262-263. 61 Cfr. su questo. T. Cheung, From the Organism of a Body to the Body of an Organism: Occurrence and Meaning of the Word ‘Organism’ from the Seventeenth to the Nineteenth Cen59

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Organismo e macchina, infatti, nel primo pensiero moderno sono spesso sovrapposti o sovrapponibili e indicano entrambi la struttura di una organizzazione che unifica una pluralità di parti che interagiscono fra loro. Per cui se è vero che il concetto di organismo si afferma nel linguaggio scientifico in qualche modo in polemica con la meccanica cartesiana soprattutto con Stahl e con Leibniz, è tuttavia innegabile che esso sorge, comunque, all’interno di un contesto che è tutto dominato, effettivamente, dall’idea della macchina. Machina non indica infatti in Leibniz esclusivamente il prodotto artificiale, ma costituisce il concetto che indica un’unione organizzata di parti distinte, in cui ciascuna parte è strumento (organon) correlato alle altre. La nozione di machina è in questo senso contrapposta, a conferma di quanto detto precedentemente, non tanto a quello di organismo, quanto piuttosto a quello di un’aggregazione confusa e disordinata (come può essere ad esempio un mucchio di pietre o una catasta di legna)62. Certo, Leibniz non passa sopra la differenza che vede strutture organizzate in cui l’origine dell’organizzazione delle parti è esterna – tale per cui essa richiede l’intervento di un produttore che porta a realizzazione il progetto di costruzione – e strutture in cui l’assetto organizzativo delle parti è invece spontaneo. Ma questa differenza non è tanto all’origine in Leibniz della distinzione tra macchina e organismo, quanto piuttosto della differenza tra l’artificiale e il naturale. Tanto è vero che per indicare le strutture orturies, «The British Journal for the History of Science», 39 (2006), pp. 319-339, il quale mostra come la parola organismus per quanto compaia all’interno di alcune fonti medievali viene usata per la prima volta in un contesto scientifico negli scritti di medicina e fisiologia di Stahl. Quello che però sottolinea con forza Cheung è che per tutto il Settecento la parola indica non tanto una tipologia di oggetti, quanto piuttosto una modalità di organizzazione degli oggetti. Sarebbe solo alla fine del Settecento e nei primi anni dell’Ottocento che la parola inizierebbe a indicare quella peculiare tipologia di oggetti che sono i viventi, diventando progressivamente un termine tecnico delle scienze della vita. Per un orientamento generale sulla questione, cfr. anche F. Duchesneau, Les modèles du vivant de Descartes à Leibniz, cit. 62 Cfr., su questo, A. Nunziante, Organismo come armonia. La genesi del concetto di organismo vivente in G.W. Leibniz, Pubblicazioni di Verifiche, Trento 2002. Questo riferimento a Leibniz sembrerebbe per molti aspetti dar ragione di una nota affermazione di Heidegger, il quale, discutendo del concetto greco di physis, osserva: «ci vorrà ancora molto tempo per renderci conto che l’idea di “organismo” e di “organico” è un concetto puramente moderno, meccanico-tecnico, per cui anche ciò che cresce naturalmente da sé è interpretato come un artefatto che fa se stesso»: cfr. M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der Physis. Aristoteles, Physik B, 1, in Id. Wegmarken, Gesamtausgabe, Bd. 9, hrsg. von F.W. von Hermann, Frankfurt a.M. 1976, pp. 239-301, qui p. 255 (Sull’essenza e sul concetto della physis, in Id., Segnavia, ed. it. a cura di F. Volpi, Milano 1987, pp. 193-255, qui p. 209). Una radicale messa in discussione del concetto di organismo appare a Heidegger tanto più necessaria quanto più con l’utilizzazione o l’enfatizzazione della nozione di organismo e dei suoi correlati si pretende di avere in qualche modo già preso le distanze rispetto a un’interpretazione meccanicisticamente orientata del vivente o quanto più addirittura si pretende che il concetto di organismo possa assumere su di sé una funzione normativa di paradigma “alternativo” rispetto al paradigma meccanicistico.

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ganizzate a partire da un intervento esterno Leibniz può usare il termine organica artificialia, mentre per indicare le strutture che si organizzano da sé, che si automantengono e che si riproducono egli può usare l’espressione macchine naturali. Macchina e organismo non sono dunque in Leibniz nozioni reciprocamente escludentisi e contrapposte: entrambe indicano un insieme strutturato e organizzato di parti in cui ciascuna parte è strumento (organo) che serve al funzionamento del tutto. La differenza si gioca semmai, in Leibniz, fra l’artificiale e il naturale, in quanto mentre l’artificiale presuppone sempre un’azione esterna da cui scaturisce, il naturale è invece sponte agens, e dunque, proprio per questo, vivente. Ma l’organismo, in quanto tale, non è un concetto altro rispetto a quello della macchina: i corpi degli animali sono macchine del moto perpetuo, ossia, per esprimersi più chiaramente, predisposte per conservare sempre nell’universo una certa peculiare specie di moto perpetuo organico. Così esisteranno macchine tessitrici finché vi saranno ragni, mellificatrici finché vi saranno api, saltatrici finché vi saranno scoiattoli. Dunque lo scopo della natura nel produrre l’animale è la macchina del moto perpetuo, come d’altra parte lo scopo dei meccanici che, con vana fatica, ricercano il moto perpetuo, è ottenere una specie di animale che non debba essere nutrito63.

Quello che Kant sottolinea attraverso il riferimento alla nozione di finalità interna è dunque il fatto che negli organismi viventi non c’è solo un rapporto di organizzazione tra le parti e il tutto che si può in quanto tale trovare anche nelle macchine e quindi nelle forme di organizzazione artefattuale. In quel tipo di enti che sono i fini naturali le parti sono possibili solo in riferimento al tutto, sia in relazione alla loro esistenza, sia in relazione alla loro forma. Ciò che segna la peculiarità di quegli enti che sono i fini naturali, cioè, è che essi non potendo essere considerati come il prodotto di una causa razionale loro esterna si presentano in modo tale per cui le parti sono connesse al tutto in un rapporto per cui ciascuna è vicendevolmente causa ed effetto dell’esistenza e della forma delle altre parti. Per cui ogni parte nell’organismo è ciò che è solo grazie e mediante le altre parti e il tutto di cui esse sono parti. Il modello di finalità che viene chiamato in gioco nella costituzione degli enti organizzati di natura – quello della finalità interna – sembra dunque trovare la propria legittimità in relazione alla spiegazione degli enti di natura proprio nel suo essere irriducibile al modello della finalità esterna, che sta invece alla base del modo d’essere degli artefatti. Trasposto sul piano del 63 G.W. Leibniz, Corpus hominis, in E. Pasini, Corpo e funzioni cognitive in Leibniz, Angeli, Milano 1996, pp. 217-224, qui p. 218, trad. it. in G.W. Leibniz, Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai e E. Pasini, vol. I, UTET, Torino 2000, pp. 238-245, qui p. 239.

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mondo naturale, il modello della finalità esterna (e dunque il modello artefattuale) implicherebbe infatti delle assunzioni del tutto insostenibili al livello del discorso scientifico e qualsiasi tentativo di spiegare l’organizzazione degli enti naturali che utilizzi un tale modello non potrebbe che cadere sotto la lama dell’argomento di Spinoza. Il modello che Kant propone come finalità interna invece, sfuggendo allo schema che connette lo scopo a un’utilità esterna all’ente, non si espone a tale critica. In questo senso, la distinzione proposta all’interno della Critica della capacità di giudizio fra finalità esterna e finalità interna risponde a due esigenze diverse per quanto convergenti: una di tipo epistemologico (a) e una di tipo ontologico (b). a) Attraverso questa distinzione Kant riconosce l’inutilizzabilità all’interno di una considerazione scientifica della natura di un principio finalistico basato sulla finalità esterna (come avviene invece nelle diverse forme di teleologia antropocentrica e di teleologia cosmica) senza per questo eliminare la plausibilità di un discorso teleologico nell’ambito della comprensione scientifica del mondo. La considerazione scientifica dei prodotti organizzati della natura non può infatti prescindere, secondo Kant, dal concetto di una finalità interna, per quanto il giudizio che essa produce non sia un giudizio determinante in relazione all’oggetto, ma abbia una funzione essenzialmente regolativa ed euristica. b) La distinzione tra finalità esterna e finalità interna è però anche ciò che consente di discriminare tra il prodotto organizzato della natura, da una parte, e il prodotto organizzato dell’arte o della tecnica, dall’altra. In particolare, attraverso questa distinzione emerge il modo differente in cui l’uno e l’altro possono essere visti come strutture organizzate: Un ente organizzato non è dunque una mera macchina: questa, infatti, non ha che forza motrice e quello, invece, possiede in sé forza formante, e tale, invero da comunicarla alle materie che non l’hanno (da organizzarle): dunque una forza formante propagantesi, che non può essere spiegata mediante la facoltà del movimento (il meccanismo) soltanto64.

Mentre la struttura organizzata di quei prodotti della natura che sono i viventi è una struttura autoorganizzata e autoorganizzantesi, e dunque presenta un’attività che si realizza in se stessa (e per questo può essere spiegata attraverso il ricorso al modello della finalità interna), nei prodotti di un’arte il principio dell’organizzazione è sempre esterno al prodotto stesso, e perciò l’artefatto è sempre qualcosa che rimanda nel suo stesso essere ad altro da

64

KU, AA V § 65, p. 374, trad. it. cit., p. 597.

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sé (e per questo può essere spiegato attraverso il ricorso al modello della finalità esterna).65 10. Funzioni e finzioni La distinzione tra finalità esterna e finalità interna sembra dunque essere fondamentale per Kant, perché è su di essa che si fonda sia la giustificazione dell’uso del concetto di finalità all’interno del discorso scientifico senza cadere in quelle forme di antropocentrismo che la critica moderna ha messo in luce, sia perché essa consente di individuare la peculiarità di quelle forme organizzate che sono gli organismi viventi discriminandoli da quelle strutture organizzate che sono invece gli artefatti. Tuttavia, proprio nell’attribuzione alla distinzione fra finalità esterna e finalità interna di una funzione di discriminazione ontologica fra gli artefatti e i prodotti organizzati della natura emerge una difficoltà dell’impostazione kantiana che potrebbe avere delle conseguenze anche in relazione alla domanda che ci siamo posti circa la sua possibilità di fornire un modello fondativo per le scienze del vivente. Se da un lato, infatti, Kant si muove verso l’elaborazione di un modello di finalità che possa essere considerato all’interno del mondo della natura e che non sia più riconducibile a una finalità esterna per la quale vale, anche secondo Kant, l’argomento di Spinoza, a un tempo, la strada che egli percorre sembra svolgersi ancora dentro una considerazione dello scopo che non è così radicalmente diversa rispetto quella che soggiace alla considerazione spinoziana. L’impostazione kantiana del problema conferma, infatti, per molti aspetti, l’idea che sta alle spalle del procedimento argomentativo di Spinoza – ovvero che qualsiasi attribuzione di scopo o di funzione implica come precondizione il pensiero di un’azione intenzionale in grado di legittimarla. Secondo una tale concezione c’è una connessione necessaria tra l’idea di uno scopo (Design) e l’idea di un soggetto che lo pensa o che comunque lo istituisce (Designer). Se da una parte, infatti, Kant considera inammissibile per una considerazione scientifica della natura il ricorso a un modello come quello della finalità esterna e considera invece non solo opportuno, ma anzi necessario per la considerazione scientifica di quegli enti di natura che sono gli enti organizzati di natura il ricorso all’idea di finalità interna, egli tuttavia, come si è detto, con65 Rimando su questo al mio Being-for. Purposes and Functions in Artefacts and Living Beings, in Purposiveness. Teleology between Nature and Mind, ed. by L. Illetterati e F. Michelini Ontos Verlag, Frankfurt a.M. 2008, pp. 135-162. Cfr. anche, G. Toepfer, Teleology in Natural Organized Systems and in Artefacts. Interdependence of Processes versus External Design, in Purposiveness. Teleology between Nature and Mind, cit., pp. 163-181.

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sidera anche il principio che consente una considerazione teleologica di questi enti come «un concetto regolativo per la capacità di giudizio riflettente», ovvero un concetto che ha come scopo di dirigere e guidare «la ricerca relativa a oggetti di questa specie»66 e dunque mai come un concetto costitutivo, come un concetto in grado cioè di dire come è costituito un certo ente. Il principio della finalità non può, cioè, essere considerato come un principio in grado di rivelare la costituzione d’essere degli esseri viventi, ma al più deve essere considerato come un principio che ha valore metodologico nella ricerca intorno al vivente, ovvero come un principio epistemologico che ha una sua valenza euristica nel guidare la ricerca intorno a questo tipo di enti. Il motivo di fondo per cui secondo Kant il giudizio teleologico intorno agli enti di natura, anche là dove è necessario, non può che essere un giudizio riflettente con funzione regolativa e mai un giudizio determinante con funzione costitutiva, è che un tale riconoscimento – il riconoscimento di uno scopo come costitutivo di un oggetto – implicherebbe necessariamente, anche l’ammissione di un’intenzione alle spalle di quell’ente67. In questo senso si potrebbe dire che se la prospettiva generale dentro la quale si può in qualche modo riassumere la posizione di Spinoza è quella secondo la quale gli scopi della natura sono finzioni umane, la prospettiva kantiana non la mette in realtà davvero in discussione. Certo, Kant critica esplicitamente la posizione spinoziana considerandola inadeguata e definendola alla stregua di un idealismo dei fini che in realtà nega qualsiasi considerazione finalistica nella natura e ritiene da parte sua invece il principio della finalità qualcosa non solo di utile, ma addirittura necessario per la ricerca scientifica. E tuttavia la sua posizione non sembra in grado di togliere il carattere finzionale alla nozione di fine naturale. Kant non direbbe certo che gli scopi della natura sono semplicemente finzioni umane e dunque proiezioni di una visione antropocentrica sulla natura come invece sostiene 66

KU, AA V § 65, p. 375, trad. it. cit., p. 599 (corsivo mio). Secondo Hannah Ginsborg il trasferimento sul piano regolativo del giudizio teleologico non è sufficiente a togliere l’intrinseca problematicità della nozione di fine naturale. Attribuire all’uso della nozione di fine naturale un valore solo regolativo o euristico non farebbe che riproporre la conflittualità tra la nozione di scopo connessa alla nozione di Design e la nozione di naturale che è connessa a un’indipendenza dal Design, al livello del nostro atteggiamento riflettente tanto riguardo la nostra considerazione degli enti naturali quanto riguardo i principi del giudizio riflettente nella pratica scientifica. In entrambi i casi li si dovrebbe considerare, al tempo stesso, e come artefatti e come fini naturali: «non c’è un qualcosa come il considerare un oggetto come se fosse prodotto (designed), senza considerarlo come di fatto prodotto (designed), nel qual caso sembra si sia di nuovo impegnati a considerare l’oggetto come avente due caratteristiche contraddittorie, e quindi ad adottare nei suoi confronti un atteggiamento che è apparentemente incoerente». Cfr. H. Ginsborg, Kant’s Biological Teleology and its Philosophical Significance, cit., pp. 455-469. Cfr. anche H. Ginsborg, Kant on Understanding Organisms as Natural Purposes, cit., pp. 231-258. 67

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Spinoza. O perlomeno tali non sono quel tipo di scopi che sono riconducibile alla finalità interna intesa come struttura di fondo degli enti organizzati di natura. Kant direbbe, piuttosto, che ci sono finzioni e finzioni: finzioni che sono del tutto ingiustificate e delle quali è necessario liberarsi per avere una visione scientifica del mondo della natura (e questa è ad esempio la rappresentazione del mondo naturale che si viene a produrre attraverso la trasposizione in esso della finalità esterna) e finzioni che, invece, sono non solo utili ma addirittura necessarie in vista di una nostra comprensione del mondo naturale (ed è questa la comprensione del naturale attraverso la finalità interna come principio di individuazione degli organismi e del rapporto di mutua dipendenza presente negli organismi fra le parti e il tutto). Resta il fatto che l’utilità o anche la necessità di questo secondo modello di finzione, non ne toglie però il carattere di fondo di finzione, se con questo si intende non tanto l’idea che esse siano delle mere invenzioni dell’immaginazione umana (come direbbe appunto Spinoza), ma dei concetti che hanno comunque la loro giustificazione non nelle cose per come esse sono, ma nel soggetto che pensa quelle cose e in particolare, in questo caso, nelle modalità attraverso cui il soggetto si trova “vincolato” nella sua comprensione degli esseri viventi. Il problema, a questo punto, è che, così assunta, la posizione kantiana rischia però di indebolire quello che appariva come uno dei suoi punti di forza, e anzi forse la sua conquista più decisiva, ovvero la distinzione fra finalità esterna e finalità interna. O per meglio dire: il riconoscimento di un carattere comunque finzionale della nozione di finalità interna rischia di indebolire la possibilità che la sua distinzione dalla finalità esterna possa rispondere a quella doppia esigenza (epistemologica e ontologica) alla quale essa sembrava poter rispondere. Nella misura in cui il giudizio teleologico che consente di pensare un certo tipo di enti come caratterizzati da una finalità interna è un giudizio regolativo riconducibile a una massima del soggetto, esso non è infatti realmente in grado di produrre alcuna vera discriminazione sul piano ontologico. All’interno della finzionalità del giudizio teleologico non è possibile infatti dire, in senso proprio, che gli enti organizzati di natura sono organizzati secondo una finalità interna, mentre gli artefatti sono organizzati secondo una finalità esterna. Il giudizio teleologico ha un suo valore costitutivo solo riguardo agli artefatti (nei quali trova giustificazione in una causa razionale esterna), e non riguardo agli esseri viventi, per i quali (non potendo rinviare ad alcuna causa razionale esterna) è solo riflettente. E poiché il giudizio riflettente non è in grado di determinare nulla relativamente alla costituzione d’essere degli enti a cui si riferisce, la distinzione tra finalità interna e finalità esterna non determina, di fatto, alcuna distinzione ontologica tra artefatti ed esseri viventi.

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11. Scopi e intenzioni Il giudizio teleologico, secondo Kant, può avere un suo valore costitutivo, come si è detto, solo riguardo gli artefatti, in quanto in questo caso la circolarità causale che è messa in gioco dalla nozione di fine può essere tradotta all’interno di una catena lineare coerente con la struttura categoriale della causalità. Il prodotto della tecnica nasce infatti da un progetto e quindi da un’intenzione di un soggetto e trova realizzazione attraverso un processo di esecuzione, il quale porta a compimento e concretizza l’intenzione del soggetto, il suo progetto. In questo senso l’intenzione del soggetto – e quindi il fine che il prodotto ha per il soggetto – assume un valore costitutivo per quell’oggetto che è il prodotto. Il giudizio teleologico è in grado perciò di afferrare e comprendere le caratteristiche dell’artefatto, in quanto esso afferra e comprende la sua stessa modalità d’essere, ovvero il suo essere il prodotto e la realizzazione dell’intenzione di un artefice. Ma la possibilità che possiede qui la finalità di avere un valore costitutivo rispetto all’oggetto a cui viene attribuita risiede nel fatto che questa finalità (che è una finalità esterna) è appunto traducibile, o comunque riconducibile, a un modello di causalità che è quello della causalità unidirezionale. Dal che risulta, evidentemente, che se la finalità può avere valore costitutivo nell’ambito dei prodotti della tecnica in quanto è riconducibile attraverso il riconoscimento dell’intenzione dell’artefice a una causalità efficiente (l’azione dell’artefice), l’attribuzione di un valore costitutivo alla finalità della natura rimanderebbe per Kant necessariamente anch’essa all’idea di un artefice a partire dal quale tale finalità assumerebbe senso. Il che però significherebbe comprendere o spiegare la natura a partire da qualcosa di altro ed estraneo rispetto ad essa, ovvero attraverso un principio che si rivelerebbe, per usare l’espressione di Kant, come un alcunché di trascendente rispetto alla natura stessa. In questo senso l’impossibilità di attribuire un qualsivoglia valore costitutivo alla finalità naturale – e di considerarla dunque solo come una massima del giudizio riflettente che non ha alcun valore determinante relativamente al modo d’essere della natura vivente – sembra dipendere dall’impossibilità, secondo Kant, di pensare la finalità indipendentemente dall’intenzione68. Detto in altri termini, nella prospettiva kantiana il problema è che, per quanto i prodotti organizzati della natura manifestino un fine e uno scopo, non è mai possibile cogliere in essi l’idea stessa di un’intenzione a partire dalla quale si sviluppano secondo quel determinato scopo, a meno di non 68 Cfr., per questa linea interpretativa, F. Chiereghin, Finalità e idea della vita: La recezione hegeliana della teleologia di Kant, «Verifiche», XIX (1990), pp. 127-229.

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assumere come dato un intelletto architettonico e perdersi così nel trascendente. Mentre il prodotto della tecnica presuppone sempre l’intenzionalità di un soggetto che progetta e porta ad esecuzione il progetto, nella natura la finalità appare come un alcunché di spontaneo, ovvero come qualcosa che non lascia scorgere quell’intenzione che costituisce un requisito fondamentale per poter assegnare un qualche valore costitutivo alla finalità. Per quanto cioè nella natura sembra emergano dei fini, non si ha tuttavia alcuna possibilità, secondo Kant, di dimostrare che questi fini sono anche delle intenzioni. E se non si riconosce la possibilità stessa di un’intenzione non si può nemmeno parlare, in senso proprio, di fine o di scopo. L’impossibilità, per Kant, di attribuire un valore costitutivo nella natura al principio della finalità sembra perciò reggersi sull’assunzione di fondo della causalità finale che è all’opera nel procedere di tipo tecnico-pratico come unico modello davvero ammissibile di causalità finale. L’impossibilità di attribuire un qualche valore costitutivo al concetto di finalità nella natura si giustifica infatti con il fatto che tale attribuzione implicherebbe in qualche modo l’ammissione di un architetto o di un artigiano a partire dal quale solamente il valore costitutivo della finalità potrebbe assumere senso. Ma questa considerazione è anche quella che rischia di far apparire il concetto stesso di fine naturale come un concetto contraddittorio. Per essere naturale, infatti, il fine non può rimandare ad alcuna intenzione che lo sorregga; dall’altro lato per essere davvero un fine, secondo Kant, esso implica necessariamente il riferimento a un’intenzione che solamente lo giustifica in quanto fine. Per quanto dunque Kant insista in più luoghi nel dire che la finalità nella natura ha solo una lontana analogia con la finalità che è propria dell’operare tecnico-pratico, è evidente che quest’ultima costituisce comunque il modello a partire dal quale viene pensata la finalità interna delle strutture autorganizzantesi. E tuttavia proprio il fatto che la finalità interna sia pensata in analogia con la finalità all’opera nell’ambito tecnico-pratico è ciò che rischia di rendere contraddittorio o vuoto il concetto stesso di finalità interna. Questa finalità – quella interna – è infatti solo un principio regolativo, proprio in quanto non può essere pensata nello stesso modo in cui può essere pensata invece la finalità che regge il modo d’essere dell’artefatto. 12. La tecnica della natura Non a caso il concetto di finalità della natura si sovrappone, in Kant, al concetto di tecnica della natura; concetto, questo, che svolge un ruolo decisivo soprattutto nella cosiddetta Prima introduzione alla Critica della capaci-

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tà di giudizio come fondamento per pensare la materia organizzata e le dinamiche del suo funzionamento. Sono comunque molteplici i luoghi nei quali Kant fa intervenire il concetto di tecnica della natura. In linea generale si può dire che esso sta ad indicare proprio il procedere teleologico della natura, il suo procedere secondo fini: noi diamo infatti il nome di tecnica della natura, dice Kant, «al procedimento (alla causalità) della natura, per ciò che di analogo a un fine troviamo nei suoi prodotti»69. L’espressione tecnica della natura indica perciò quella considerazione in cui «oggetti della natura sono talvolta giudicati solo come se la loro possibilità si fondi sull’arte»70. Il concetto di tecnica della natura e l’idea che la considerazione teleologica della natura si fondi su un approccio di tipo finzionale, per cui gli enti organizzati della natura sono pensati come totalità finalisticamente orientate solo in quanto sono pensati come se fossero prodotti dell’arte fa emergere una delle difficoltà di fondo dell’impostazione kantiana che si esplicita in due assunti che Kant si sforza di tenere insieme. Da un lato, infatti, la riflessione che Kant propone intorno al modo d’essere del vivente appare tutta tesa a mostrare l’impossibilità di comprendere il vivente a partire da un orizzonte esplicativo dominato unicamente da un nesso causale di tipo meccanico e quindi a mostrare anche l’impossibilità, perlomeno in relazione alle nostre capacità conoscitive, di pensare la natura tutta attraverso nessi causali che possono essere ridotti a una causalità di tipo efficiente. Dall’altro lato, nella misura in cui pensa l’operare della natura che è all’opera nell’ambito dei suoi prodotti organizzati nei termini di una tecnica della natura, Kant sembra pensare questo operare della natura in termini di produzione, ovvero attraverso quel fare che è appunto il fare a partire dal quale assume realtà e senso qualcosa come un artefatto, qualcosa come una macchina, qualcosa cioè che è un prodotto di una tecnica – qualcosa a cui, secondo lo stesso Kant, il vivente non è in alcun modo riducibile71. Ma il riconoscimento di una reale irriducibilità del modo d’essere del vivente al modo d’essere della macchina implicherebbe l’impegno nei confronti di una giustificazione di un modello di causalità finale a sua volta non riconducibile alla causalità finale che è all’opera nella produzione degli arte69

KU, AA V 390, trad. it. cit., p. 639. EEKU, AA XX 200, trad. it. Prima introduzione alla Critica del Giudizio, di P. Manganaro, con un’introduzione di L. Anceschi, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 71-72. 71 Il fatto che l’espressione tecnica della natura giochi un ruolo assolutamente fondamentale nella Prima introduzione e sia relativizzata invece, se non altro come ricorrenza dell’espressione, nell’introduzione effettivamente pubblicata, può certamente essere letto come la consapevolezza da parte di Kant della problematicità cui essa rinvia. Tuttavia non solo l’espressione di fatto permane nel testo pubblicato, ma soprattutto permane in modo evidente e ineliminabile l’orizzonte cui essa fa riferimento. 70

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fatti, dove, come si è più volte detto, l’aporeticità logica della causalità finale viene risolta attraverso l’anticipazione dello scopo nell’intenzione dell’agente. Una giustificazione, questa, che Kant non può in alcun modo accettare in relazione agli enti di natura. Il problema che viene qui evidenziato rischia di condurre a sua volta verso una qualche forma di depotenziamento della nozione di finalità interna e tende a giustificare, di conseguenza, quelle letture che vedono nel ricorso kantiano al giudizio teleologico nei confronti degli enti organizzati di natura non tanto la possibilità di fondare una metodologia autonoma per le scienze del vivente rispetto alle scienze fisico-chimiche, quanto piuttosto l’adesione ad una sorta di deflazionismo epistemologico che mirerebbe a mostrare l’impossibilità di principio, per le discipline che si occupano del vivente, di poter essere davvero delle scienze72. Per quanto lo sforzo kantiano sia tutto rivolto alla possibilità di giungere a una netta distinzione di livelli tra il modo d’essere del prodotto organizzato della natura e il modo d’essere del prodotto di un’arte, l’elemento che appare problematico all’interno di questo progetto è che, se la struttura ontologica fondamentale dei prodotti organizzati della natura è il concetto della finalità, tale concetto (quello della finalità) appare poi realmente pensabile, nella sua compiutezza, solo all’interno dell’operare tecnico-pratico e dunque, innanzitutto, in relazione ai prodotti dell’arte. 13. I limiti dell’analogia La posizione di Kant appare in questo senso come una posizione segnata da una peculiare tensione. Da una parte attraverso la distinzione tra finalità interna e finalità esterna, e attraverso dunque l’idea che i prodotti organizzati della natura sono caratterizzati da una finalità che li rende impermeabili rispetto a un modello esplicativo di tipo meccanico fondato esclusivamente sulla causalità efficiente, Kant sembra pensare il modo d’essere del vivente come epistemologicamente irriducibile a una spiegazione di tipo puramente meccanicistico e ontologicamente irriducibile al modo d’essere dell’artefatto. Dall’altra parte, nel riconoscere un valore solo regolativo al principio della finalità interna, egli esplicita come l’unica finalità che abbia un valore autenticamente esplicativo circa il modo d’essere dell’oggetto sia la finalità esterna, ovvero quella finalità che è riconducibile a un modello causale di tipo lineare e che consente così di parlare senza scandalo (ovvero, senza contraddizione) di causa finale in relazione al modo d’essere dell’artefatto. 72 Cfr., per questa linea interpretativa, J.H. Zammito, Teleology Then and Now: the Question of Kant’s Relevance for Contemporary Controversies over Function in Biology, «Studies in History and Philosophy of Biological and Biomedical Sciences», 37 (2006), pp. 748-770.

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Questa tensione emerge in modo evidente nel momento in cui Kant mette a tema il rapporto fra la causalità secondo fini di cui è possibile parlare in ambito pratico e il concetto della finalità della natura. In questo contesto, infatti, Kant stesso tende a mettere in questione quella via analogica che pure si era presentata all’inizio del percorso dell’Analitica del giudizio teleologico come l’unica giustificazione in grado di legittimare il ricorso alle spiegazioni teleologiche nell’ambito dell’indagine sulla natura. Nell’introduzione generale alla Critica della capacità di giudizio Kant infatti afferma: questo concetto [quello della finalità della natura, L.I.] è del tutto differente dalla finalità pratica (dell’arte umana o anche dei costumi), sebbene sia senz’altro pensato secondo un’analogia con essa73.

La finalità pratica, infatti, presuppone l’idea di una volontà libera e poiché una tale presupposizione nell’ambito della natura è illegittima, la finalità della natura non può che essere del tutto differente dalla finalità pratica. E tuttavia, contemporaneamente, la finalità della natura non può che essere pensata secondo un’analogia con la finalità pratica, in quanto essa è l’unico modello di causalità secondo fini di cui noi possiamo legittimamente parlare e a cui noi ci possiamo legittimamente riferire. Non a caso – a sottolineare la necessità dell’analogia – nel paragrafo introduttivo alla critica della capacità di giudizio teleologica, Kant sostiene esplicitamente, come si è visto, di poter considerare la valutazione teleologica legittima nella ricerca naturale a condizione che essa venga assunta analogicamente rispetto alla causalità secondo fini74. E tuttavia poco dopo, a sottolineare la differenza tra la finalità naturale e la finalità tecnico-pratica, nel § 65, dove discute esplicitamente di quei fini naturali che sono gli enti organizzati di natura, Kant evidenzia tutte le difficoltà di un’interpretazione anche solo analogica dell’essere vivente in riferimento al modo d’essere dell’artefatto: si dice di gran lunga troppo poco della natura e dei suoi prodotti organizzati chiamandola un analogo dell’arte [Analogon der Kunst])75.

Nel momento stesso in cui si pensasse il modo d’essere dei prodotti organizzati della natura semplicemente in analogia con l’arte e con la tecnica, sostiene infatti Kant, si sarebbe già pensata la natura di questi prodotti non come quella di prodotti auto-organizzantesi, ma necessariamente in relazione a un artefice, a un ente razionale che non potrebbe che essere al di fuori 73

KU, AA V 181, trad. it. cit., p. 99. Cfr. KU, AA V § 61, p. 360, trad. it. cit., pp. 561-563. 75 KU, AA V § 65, p. 374, trad. it. cit., p. 597. 74

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di questi prodotti e da cui essi riceverebbero l’organizzazione che li caratterizza. Pensare cioè la natura dei prodotti organizzati della natura in analogia con i prodotti dell’arte significherebbe, per Kant, togliere a quei prodotti il loro specifico modo d’essere, ciò che li fa essere, appunto, ciò che sono, ovvero strutture autorganizzate, enti che sono causa ed effetto di se stessi, che si organizzano da sé e che, proprio per questo loro modo d’essere, hanno in sé, e non in altro, il fine verso cui tendono. Ci si avvicinerebbe forse di più alla comprensione di questa capacità autostrutturantesi e autopoietica degli enti organizzati di natura (la quale, così come era per Blumenbach, rimane comunque anche per Kant sempre una proprietà insondabile) chiamandola, dice Kant, un analogo della vita (Analogon des Lebens). In questo modo però si ricadrebbe dentro la contraddizione di assumere come principio di spiegazione ciò che in realtà si vorrebbe spiegare. Declinando ulteriormente le conseguenze legate alla possibilità dell’analogia e richiamando implicitamente alcune “soluzioni” classiche alla questione relativa alla spiegazione del vivente che avevano attraversato il dibattito filosofico e scientifico del XVII e del XVIII secolo Kant infatti sostiene che per muoversi verso una tale soluzione si dovrebbero assumere due presupposti che non possono in realtà essere assunti se si vuole restare all’interno dei limiti del discorso scientifico: forse ci si avvicinerebbe di più a questa proprietà insondabile chiamandola un analogo della vita, ma allora bisogna o dotare la materia come mera materia di una proprietà (ilozoismo) che è in contrasto con la sua essenza, oppure associare un principio estraneo che stia in comunione [in Gemeinschaft] con essa (un’anima)76.

Entrambe le strade risultano però impercorribili: nel primo caso, infatti, (che si può probabilmente collegare alla posizione, ad esempio, di Cudworth e in generale a tutte quelle posizioni a cui si è fatto precedentemente cenno che distinguono una mera materia da una materia plastica o una materia vivente in grado di organizzarsi) si presupporrebbe ciò che invece si vuole spiegare, e cioè la materia organizzata (ed è questa evidentemente la contraddizione da un punto di vista kantiano che è attribuibile a qualsiasi forma di vitalismo); nel secondo caso (che richiama la posizione ad esempio di Stahl, contro cui, come si è detto, già aveva polemizzato Leibniz) si farebbe dell’anima l’artista (Künstlerin) di questa costruzione, sottraendo così di fatto l’ente organizzato di natura alla natura stessa (ed è questa evidentemente la contraddizione da un punto di vista kantiano che è attribuibile a qualsiasi forma di animismo)77. 76

KU, AA V § 65, pp. 374-375, trad. it. cit., pp. 597-599. Per la critica kantiana di questa posizione si veda soprattutto il § 73 della dialettica del giudizio teleologico dove vengono discussi i tentativi di rendere conto dei fini naturali all’in77

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Per questo, rigorosamente parlando (genau zu reden), dice Kant, «l’organizzazione della natura non ha dunque alcuna analogia con alcuna causalità da noi conosciuta»78. Dove ciò che è da sottolineare è che se su un piano che si potrebbe dire epistemologico la possibilità di un’utilizzazione del giudizio teleologico nell’ambito naturale si basa sull’analogia con l’utilizzazione di esso nell’ambito tecnico-pratico, questo non implica che noi si possa effettivamente pensare l’organizzazione della natura in analogia con il tipo di organizzazione che rintracciamo ad esempio nel mondo artefattuale. Mentre infatti l’analogia con l’arte può anche reggere, secondo Kant, se ci si riferisce alla considerazione “estetica” della natura, in quanto la bellezza della natura viene attribuita agli oggetti «solo in riferimento alla riflessione sulla loro intuizione esterna», la perfezione naturale interna (innere Naturvollkommenheit) che caratterizza quelli che Kant chiama invece i fini naturali (Naturzwecke) e che sono gli enti organizzati di natura non è riconducibile ad alcuna analogia a noi nota79. Questo è un punto centrale: proprio la considerazione per cui la struttura autopoietica del vivente – se pensata in tutta la sua radicalità – è irriducibile a qualsiasi forma di causalità da noi conosciuta, da un lato è ciò che sembra costringere Kant ad attribuire al concetto della finalità della natura un valore solo regolativo e mai costitutivo, dall’altro è però anche ciò che rende intrinsecamente problematico il concetto stesso di finalità interna che regge l’intera comprensione kantiana di quegli enti naturali non del tutto comprensibili a partire da un modello esplicativo meccanicistico che sono gli organismi viventi. 14. Conclusione Per quanto Kant dunque dichiari esplicitamente l’insufficienza e l’inadeguatezza dell’assunzione di un’analogia con il modo di agire tecnico-pratico per comprendere il modo d’essere degli enti organizzati di natura, tale modello di fatto agisce in modo decisivo nella sua teoria del giudizio teleologico applicata al mondo della natura vivente. Da questo punto di vista sembra che si possa parlare anche in Kant, per quanto questo contrasti con molte terno di una prospettiva idealistica e di una realistica. In particolare i sostenitori del realismo dei fini si trovano costretti secondo Kant a giustificare la loro posizione facendo ricorso a delle cause efficienti intenzionali. In questo contesto Kant osserva: «la possibilità di una materia viva (il cui concetto contiene una contraddizione, perché è l’assenza di vita, inertia, a costituire il carattere essenziale della materia) non si lascia nemmeno pensare»: cfr. KU, AA V § 73, p. 394, trad. it. cit., p. 649. 78 KU, AA V § 65, p. 375, trad. it. cit., p. 599. 79 Cfr. KU, AA V § 65, p. 375, trad. it. cit., p. 599.

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sue affermazioni, di una sorta di assunzione implicita di un modello artefattuale di natura. Dove questo non significa, ovviamente, che secondo Kant la natura sia un artefatto prodotto da qualcuno. Se l’artefact model costituisce per Kant una strategia produttiva ed efficacie da un punto di vista epistemologico, con essa egli non intende affatto impegnarsi a livello ontologico. E tuttavia, l’assunzione del modello artefattuale – l’assunzione cioè della struttura esplicativa che sta alla base dell’ermeneutica degli artefatti come modello metodologico per l’indagine sulla natura – non è indifferente rispetto a ciò che riguarda il modo d’essere stesso della natura, a meno che non si pensi che ciò che tale modello riesce a portare alla luce sia solo una costruzione del soggetto interpretante senza nessun aggancio con la realtà di ciò che viene interpretato. La problematicità della strategia analogica, che da un lato viene chiamata in causa per giustificare l’uso del giudizio teleologico nella comprensione del mondo naturale e in particolare dei prodotti organizzati della natura, e dall’altro viene negata se con essa si pretende di afferrare il modo d’essere degli organismi viventi e in particolare il principio dell’auto-organizzazione (e dunque della finalità interna) che è loro caratteristico, si riflette evidentemente sulla possibilità che il discorso kantiano possa essere pensato come un tentativo di fondazione della scienza del vivente. In realtà l’operazione di Kant piuttosto che fondare una scienza del vivente sembra riflettere in se stessa – e insieme giustificare – le peculiari tensioni e la struttura intimamente problematica delle scienze del vivente del tempo. Se, come dice Kant nei Primi principi metafisici della scienza della natura, «una dottrina della natura conterrà tanta scienza propriamente detta quanta è la matematica che in essa può essere applicata»80, certamente le discipline che si occupano del vivente non possono essere pensate in questo senso come scienze. Ma in termini ancora più generali è l’insistenza kantiana sul valore solamente regolativo di quel principio – quello della finalità – (che è a un tempo quello che garantisce la possibilità di una determinazione dell’oggetto di indagine della biologia) che sembra di fatto impedire una lettura della filosofia kantiana della biologia nella direzione di una fondazione trascendentale della scienza del vivente nello stesso senso in cui si può, pur con tutte le cautele, parlare invece in Kant di una fondazione trascendentale della matematica e della fisica e, conseguentemente, di tutte quelle discipline scientifiche che sono tali in quanto sono matematizzabili. L’impossibilità di una qualsiasi forma di giudizio determinante in relazione al modo d’essere degli enti organizzati di natura e quindi l’impossibilità di attribuire un qualsiasi valore costitutivo ai giudizi che pure consentono di individuare e cogliere quella tipologia di enti che sono appunto gli 80

MAN, AA IV 470, trad. it. cit., p. 12.

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LUCA ILLETTERATI

enti organizzati di natura, sembra invece portare i tentativi di comprensione del vivente fuori dall’ambito specifico del discorso scientifico nel senso classico del termine. In un certo senso si potrebbe dire che Kant nella Critica della capacità di giudizio piuttosto che dare fondazione alla scienza del vivente (come tende a pensare, ad esempio, Emil Ungerer), di fatto neghi (come sostiene invece John Zammito) la possibilità stessa di una scienza del vivente. L’esplicito riconoscimento di Kant dell’impossibilità della nascita di un Newton del filo d’erba («è infatti certissimo che noi non possiamo neppure conoscere, e tanto meno spiegarci, gli enti organizzati e la loro possibilità interna secondo princìpi meccanici della natura […] ovvero sperare che un giorno magari possa nascere un Newton che renda comprensibile anche solo la generazione di un filo d’erba secondo leggi naturali che non sono state ordinate da alcuna intenzione»81) così come il suo esplicito riconoscimento che il principio dell’organizzazione degli enti organizzati di natura non può che rimanere una «proprietà insondabile» (unerforschlichen Eigenschaft)82 per le capacità di comprensione dell’uomo, sarebbero in questo senso un riconoscimento della inconoscibilità per l’uomo della struttura essenziale del vivente e dunque a un tempo un riconoscimento dell’impossibilità di una biologia scientifica. Altrettanto, se al modo d’essere del vivente ci si può avvicinare conoscitivamente solo per via analogica, ma a un tempo negando che questa analogia abbia un qualche valore conoscitivo rispetto alla struttura di quegli enti, questa forma di comprensione sembra qualcosa d’altro rispetto alla possibilità di una scienza. Ma in realtà è proprio su questo punto che il contributo kantiano può rivelare tutta la sua fecondità, ovvero nel mostrare come la biologia e in generale la conoscenza del vivente non possa essere considerata una scienza nello stesso senso in cui lo sono la matematica, la fisica e in generale tutte le discipline scientifiche che possono essere ricondotte nella loro struttura di fondo alla matematica e alla fisica. Ciò che Kant mette in luce, riflettendo nella sua analisi le tensioni e i problemi della scienza del vivente del suo tempo, è la necessità di riconoscere la peculiarità degli oggetti che caratterizzano la scienza del vivente e la necessità di elaborare strumenti di indagine adeguati ad essi. Una necessità che però non giustifica né il ricorso in senso determinante a una causa finale nel senso tradizionale del termine (come se appunto i processi fossero effettivamente determinati dagli scopi cui essi conducono) né il ricorso a una qualche entità regolatrice soprannaturale che presiederebbe a questo rapporto fra processo e suoi scopi. Ciò che secondo Kant è necessario riconoscere è che la scienza del vivente dispone sostanzialmente di due principi esplicativi (il meccanismo e la 81 82

KU, AA V § 75, p. 400, trad. it. cit., p. 663. KU, AA V § 65, p. 374, trad. it. cit., p. 597.

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teleologia) che non devono essere pensati come principi esplicativi che si escludono l’uno rispetto all’altro. Tutta l’argomentazione che Kant propone nella Dialettica del giudizio teleologico è tesa a mostrare che l’antinomia tra questi due principi è solo apparente e che anzi essi non solo possono, ma anzi devono essere combinati e riuniti se si vuole pensare a una qualche forma di conoscenza scientifica in ambito biologico83. Se infatti il principio teleologico consente di individuare l’ente a partire dalla sua funzionalità, sarà poi solo l’analisi secondo il principio del meccanismo che sarà in grado di spiegare come il processo che fa sì che l’ente svolge quella funzione effettivamente si svolga. In questo senso, la cautela epistemologica kantiana, che è disponibile a riconoscere solo un valore regolativo al giudizio di tipo teleologico in relazione agli enti organizzati di natura e che nega la possibilità di conoscere il principio dell’organizzazione del vivente, ha soprattutto una funzione critica sia verso le diverse forme di riduzionismo che sosterrebbero la possibilità di spiegare l’organizzazione del vivente attraverso lo studio fisico e chimico dei suoi componenti, sia nei confronti delle diverse forme di vitalismo che assumono l’antiriduzionismo come giustificazione per un discorso che trascende, nel riferirsi a elementi che sfuggono a una qualsiasi forma di determinazione empirica, i limiti del discorso scientifico.

83 Sull’antinomia del giudizio teleologico e sulle difficoltà che essa mette in evidenza, tenendo anche conto di quel fatto rilevantissimo che è il trasferimento sul piano del giudizio riflettente (e quindi come principio soggettivo o massima) non solo della tesi finalistica, ma anche di quella meccanicistica, cfr. P. Faggiotto, La duplice antinomia tra meccanicismo e finalismo nella Critica del Giudizio, in Id., La metafisica kantiana dell’analogia. Ricerche e discussioni, Pubblicazioni di Verifiche, Trento 1996, pp. 105-112. Secondo Kant, infatti, la tesi che sostiene che tutti gli enti di natura possono essere giudicati possibili secondo leggi puramente meccaniche e l’antitesi che sostiene che alcuni enti di natura non possono invece essere giudicati possibili secondo leggi causali puramente meccaniche, ma il loro giudizio esige un riferimento al principio della finalità, possono convivere e non entrare fra loro in contraddizione solo se e l’una e l’altra vengono assunte come massime, appunto, del Giudizio riflettente. Questo però non significa, come sottolinea opportunamente Faggiotto, che le due prospettive – quella finalistica e quella meccanicistica – siano poste da Kant sullo stesso piano. Il meccanicismo è infatti massima soggettiva solo per il “giudizio”, non per l’intelletto. I principi dell’intelletto (tra i quali vi è appunto il principio della causalità) hanno per Kant un valore costitutivo nella determinazione di leggi scientifiche oggettive e la causalità che costituisce principio dell’intelletto non può che essere quella di tipo meccanico, essendo quella finale ingiustificabile sul piano dello schematismo trascendentale. Più in generale, per un’analisi dell’antinomia del giudizio teleologico, cfr. soprattutto H. Allison, Kant’s Antinomy of Teleological Judgment, «Southern Journal of Philosophy» 30 (1991) (Supplement), pp. 25-42; P. McLaughlin, Kants Kritik der teleologischen Urteilskraft, cit., in particolare pp. 117-162; V. Zanetti, Die Antinomie der teleologischen Urteilskraft, «Kant-Studien» 83 (1993), pp. 341-355; A. Breitenbach, Two Views on Nature: A Solution to Kant’s Antinomy of Mechanism and Teleology, «British Journal for the History of Philosophy», XVI (2008), pp. 351-369.

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LUCA ILLETTERATI

In questa prospettiva la proposta kantiana rappresenta una sorta di superamento della dicotomia tra meccanicismo e vitalismo. La filosofia kantiana della biologia sembra cioè muoversi nella direzione di una comprensione del vivente che, se da una parte riconosce che i singoli processi organici possono essere esaurientemente spiegati in termini fisico-chimici, dall’altra riconosce anche che relativamente alla struttura dei livelli più alti di organizzazione e soprattutto in relazione alla connessione dei diversi processi all’interno di una totalità quale è appunto quella dell’organismo, i meccanismi fisico-chimici risultano insufficienti. In questo senso, per poter rendere conto di quelle che vengono oggi chiamate le caratteristiche emergenti dei sistemi organizzati84 è necessario fare ricorso a un principio diverso rispetto a quello del meccanismo – quello della teleologia naturale – che Kant cerca di giustificare a partire dalla struttura delle nostre capacità conoscitive e quindi senza dover ricorrere a elementi extranaturali che lo fondino.

84 «I sistemi – scrive Ernst Mayr – hanno quasi sempre la particolarità che le caratteristiche del tutto non possono (nemmeno in teoria) essere dedotte dalla più completa conoscenza delle componenti, prese separatamente o in altre combinazioni parziali. Questa comparsa di nuove caratteristiche nel tutto è stata chiamata emergenza» (E. Mayr, Storia del pensiero biologico: diversità, evoluzione, eredità, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 63). Mayr, pur riconoscendo le difficoltà insite in una categoria come quella dell’emergenza, tiene tuttavia a sottolineare come l’emergentismo non sia assimilabile al “vitalismo” o a forme di “olismo” radicale, alla convinzione cioè che gli organismi possano essere studiati solo come totalità e che quindi ogni ulteriore analisi debba essere respinta (cfr. ivi, pp. 63-64). Su questi problemi, e in particolare sulla complessa questione relativa al riduzionismo, cfr. anche G. Corbellini, Le grammatiche del vivente, Laterza, Roma-Bari 1999.

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Gabriele Tomasi

Estetica

In questo saggio mi propongo di delineare l’estetica kantiana della natura. La bellezza naturale sembra rappresentare il caso paradigmatico per la concezione kantiana del gusto quale è formulata nella prima parte della Critica della capacità di giudizio (1790). Kant comprende la valutazione del bello come essenzialmente contemplativa; di per sé ciò non comporta che un oggetto per così dire “trovato”, ovvero non prodotto intenzionalmente per essere ammirato, sia più rilevante di uno creato a tal fine. Kant stesso, tuttavia, nella Prima Introduzione all’opera, afferma che nella critica della capacità di giudizio estetica «non s’indaga il principio della bellezza artistica». Infatti, «si ha da fare col principio della capacità di giudizio riflettente e non determinante (il quale fonda ogni opera d’arte umana)» e dunque con una finalità che «deve essere considerata come non intenzionale, e può quindi spettare solo alla natura». «Giudicare la bellezza artistica – scrive Kant – dovrà essere considerato come semplice conseguenza degli stessi principi che fondano il giudizio sulla bellezza della natura» (EEKU, AA XX, 251/138)1. La priorità teorica del giudizio della bellezza naturale non comporta una priorità della bellezza naturale su quella artistica. Kant propone, di fatto, una concezione unitaria della bellezza; inoltre, la stessa valutazione della bellezza naturale contiene un elemento essenziale della bellezza artistica e cioè il riferimento alla creatività dell’immaginazione. Vi sono tuttavia ragioni interne alla concezione kantiana – e il passo appena citato le lascia intendere – che portano in primo piano il tema della bellezza della natura2. L’ela1 Le opere di Kant sono citate indicando volume e numero di pagina (nel caso della Kritik der Urteilskraft è aggiunto anche il numero del paragrafo) della Akademie-Ausgabe. Per la KrV, come d’abitudine, sono invece indicate le pagine delle edizioni A e B (A per la prima edizione del 1781 e B per la seconda edizione del 1787). Il numero dopo la barra si riferisce alla pagina delle seguenti traduzioni italiane: I. Kant, Critica della ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, revisione, introduzione e glossario a cura di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1977; I. Kant, Critica della ragion pratica, trad. it. di F. Capra con glossario e indice dei nomi a cura di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1974; I. Kant, Critica della capacità di giudizio, trad. it. di L. Amoroso, Rizzoli, Milano 1995; I. Kant, Prima introduzione alla Critica del Giudizio, trad. it. e note di P. Manganaro con introduzione di L. Anceschi, Laterza, Roma-Bari 1979; I. Kant, Epistolario 1761-1800, trad. it. a cura di O. Meo, il melangolo, Genova 1990. 2 Accanto a esse gioca senz’altro un ruolo anche il crescente interesse per l’estetica della natura nella filosofia contemporanea (cfr. P. D’Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale,

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GABRIELE TOMASI

borazione di un’estetica della natura ha due condizioni minimali. Essa presuppone da un lato una delimitazione dell’ambito che si intende come natura, dall’altro una spiegazione di ciò che costituisce l’apprezzamento estetico degli elementi o dei contenuti di quest’ambito. Per quel che riguarda la prima condizione, credo si possa attribuire a Kant l’idea piuttosto intuitiva per cui si chiama natura tutto ciò che non è arte, ossia che non è prodotto di un’attività intenzionale fondata sulla ragione (cfr. KU, § 43). Mi sembra che l’opposizione tra artefattuale e naturale colga il significato base dell’idea di natura cui fa riferimento la valutazione estetica della natura nella concezione kantiana. Della natura così intesa fanno parte oggetti come i cristalli, le montagne, i fiori o le conchiglie, fenomeni come i tramonti o i movimenti delle nubi e prodotti naturali come il canto degli uccelli o i favi delle api. A ciò dovremmo aggiungere le forze secondo cui oggetti e fenomeni si generano, si trasformano e producono effetti. Quanto alla seconda condizione, ne tratterò diffusamente nelle pagine che seguono. Il saggio è diviso in due parti. La prima parte (§§ 1-3) ha un carattere introduttivo e mira a fornire almeno un’idea dello sfondo sistematico e dei concetti fondamentali dell’estetica kantiana. Inizierò richiamando la prospettiva particolare del filosofo trascendentale ovvero il modo in cui Kant guarda all’estetica (§ 1). Come vedremo, si tratta di una prospettiva interessata alle peculiarità logiche dei giudizi di gusto. Per Kant non c’è esperienza del bello se non nel giudizio di gusto. Nella sua concezione l’esperienza del bello è essenzialmente l’esperienza di un piacere disinteressato. Kant pensa però che il giudizio sia interno a tale esperienza, essendo quest’ultima comunque una forma di consapevolezza di uno stato di cose (nel caso specifico, della bellezza di un oggetto). Perciò la sua concezione dell’esperienza estetica fa tutt’uno con la teoria della valutazione estetica (§ 2). Riflettendo sulle peculiarità dei giudizi di gusto, Kant arriva a scoprire un principio a priori di grande portata per la sua filosofia, cioè il principio della finalità formale della natura. Tale principio gli apre una prospettiva nuova sulla conoscenza delle forme particolari della natura (§ 3). Inoltre, gli consente di intravedere la possibilità di integrare in un tutto unitario il dominio del concetto della natura (la filosofia teoretica) e quello del concetto della libertà (la filosofia pratica) ovvero il sensibile e il soprasensibile (§ 3.1). È importante tener presente questo sfondo sistematico perché è a partire da esso che il tema della bellezza della natura acquista rilievo. Alla bellezza della napaesaggio, arte ambientale, Laterza, Roma-Bari 20084, pp. 65-168 e G. Parsons, Aesthetics and Nature, Continuum Press, London 2008). Per il lettore di Kant esso può costituire una ragione esterna d’attenzione a quest’aspetto del pensiero del filosofo. Nel corso del saggio, presentando la concezione kantiana, farò occasionalmente riferimento ad alcune istanze provenienti dal dibattito attuale.

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ESTETICA

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tura è dedicata la seconda parte del saggio (§§ 4-10)3. In essa, riprendendo alcuni elementi della concezione del gusto delineata nella prima parte, presenterò prima di tutto la distinzione cruciale formulata da Kant tra bellezza libera e bellezza aderente (§ 4). Affronterò poi la questione del ruolo della conoscenza nella valutazione estetica della natura (§ 5) e discuterò la tesi di Kant che la natura è bella quando appare come arte. Cercherò di mostrare che la sua concezione non comporta che la natura sia apprezzata per ciò che essa non è; al contrario, per Kant la natura è oggetto del puro giudizio di gusto solo in quanto è colta come ambito di oggetti o fenomeni prodotti da processi causali (§ 6). A questo riguardo vedremo come risulti rilevante la prospettiva suggerita da quello che Kant chiama “idealismo della finalità” (§ 7). Accennerò poi al tentativo kantiano di presentare una concezione unitaria della bellezza in termini di espressione di idee estetiche (§ 8) e alle ragioni per cui il discorso del filosofo verte per lo più su oggetti particolari come i fiori o gli uccelli (§ 9). Infine, nel paragrafo conclusivo del saggio (§ 10), tornerò sul significato che Kant attribuisce all’esperienza della bellezza della natura. 1. Il gusto e il filosofo trascendentale La prospettiva da cui Kant guarda all’estetica è chiaramente formulata nella Prefazione alla Critica della capacità di giudizio: «L’indagine della facoltà del gusto come capacità di giudizio estetica viene qui intrapresa non per formare e coltivare il gusto (cosa che continuerà il suo corso, come è accaduto finora, anche senza tutte queste ricerche), ma solo con intento trascendentale» (KU, Vorrede, AA V 170/71)4. 3 Nella concezione kantiana il giudizio estetico fa riferimento non solo al bello, come giudizio di gusto, ma anche al sublime, in questo caso come giudizio «originato da un sentimento dello spirito» ovvero, in termini che risulteranno chiari più avanti, la valutazione estetica basata su un piacere per la forma delle cose «non designa» soltanto una finalità degli oggetti alla nostra facoltà di conoscere, «bensì anche, viceversa, una finalità del soggetto riguardo agli oggetti, secondo la loro forma, anzi addirittura secondo la loro assenza di forma, in virtù del concetto di libertà». Ne consegue l’articolazione in due parti della critica della capacità di giudizio estetica: una dedicata alla facoltà di valutare il bello, l’altra dedicata alla facoltà di valutare il sublime (KU, Einl. VII, AA 192/127). Se la natura, nelle sue belle forme, ci presenta un mondo adeguato alle nostre capacità conoscitive, negli aspetti per cui ci sovrasta, essa ci porta a scoprire qualcosa di essenziale alla nostra dignità e cioè la libertà per cui non siamo riducibili alla pura dimensione sensibile, naturale. Per ragioni di spazio, nel saggio non mi occuperò di questa parte della concezione kantiana. Ricordo comunque che, per quanto Kant riconosca al concetto del sublime un ruolo non secondario nella concezione di noi stessi, lo considera tuttavia «di gran lunga meno importante e ricco di conseguenze di quello del bello», perché «in ciò che nella natura siamo soliti chiamare sublime, non c’è proprio nulla che potrebbe condurre a particolari principi oggettivi e a forme della natura ad essi adeguate» (KU, § 23, 246/261-263). 4 Il passo richiama un’analoga affermazione contenuta nella Fondazione della metafisica dei costumi. Anche in riferimento al giudizio morale Kant pensa che la coscienza comune non ab-

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GABRIELE TOMASI

L’intento trascendentale ha tipicamente ad oggetto le pretese di validità dei giudizi conoscitivi a priori. Kant non pensa che i giudizi di gusto siano giudizi di conoscenza; egli li considera giudizi estetici, cioè giudizi «il cui fondamento di determinazione» è un sentimento, e poiché ritiene che il sentimento non possa diventare «elemento di conoscenza», che mediante esso non si conosca niente nell’oggetto (KU, Einl. VII, AA V 189/119-121; cfr. anche § 3), sostiene che un giudizio di gusto non ha un contenuto conoscitivo (cfr. KU, § 1, AA V 203-204/149)5. Tuttavia Kant coglie in questi giudizi una peculiarità che ne rende possibile una «discussione trascendentale»: essi sono pluralistici per «natura intrinseca» ovvero pretendono per sé «l’adesione di ciascuno»6. Perciò egli ritiene che a loro fondamento debba esserci «un qualche principio a priori», un principio al quale «non si potrà mai arrivare stando ad osservare le leggi empiriche delle modificazioni dell’animo»: l’indagine psicologica fa conoscere al più «come si giudica, ma non comanda mai come si debba giudicare, e come lo si debba, anzi, in modo tale che il comandamento sia incondizionato». I giudizi di gusto contengono però un comandamento del genere: essi pretendono «che il compiacimento sia connesso immediatamente con una rappresentazione» (KU, AA V 278/349-351). Per Kant è la «necessità pretesa» dei giudizi di gusto che «rende noto in essi un principio a priori e li tira fuori dalla psicologia empirica […] per metterli (e tramite loro la capacità di giudizio) nella classe di quelli che hanno un principio a priori e, in quanto tali, farli allora accedere alla filosofia trascendentale» (KU, § 29, AA V 266/317)7. È interessante che solo pochi anni prima Kant non ritenesse possibile una «discussione trascendentale» del gusto. In una nota della prima edizione della Critica della ragion pura (1781) egli aveva criticato l’uso da parte di A.G. Baumgarten del termine “estetica” con riferimento ai giudizi del bello e bia bisogno «di scienza o di filosofia» per sapere cosa si deve fare per essere onesti e buoni. C’è però una tendenza a sofisticare contro le leggi del dovere in modo da adattarle ai propri desideri. La ragione comune compie allora un passo nella filosofia non per apprendere da essa cosa si debba fare, bensì per avere una chiara indicazione circa la fonte del suo principio e la sua corretta determinazione in contrasto con le massime fondate su bisogni e inclinazioni e dunque per metterne al sicuro la validità (cfr. GMS, AA IV, 404). 5 «Un giudizio estetico […] non dà assolutamente alcuna conoscenza dell’oggetto […]; invece riferisce esclusivamente al soggetto la rappresentazione con cui un oggetto viene dato». Il suo fondamento di determinazione «non è un concetto, ma il sentimento […]» (KU, § 15, AA V 228/215). 6 La peculiarità del giudizio di gusto, scrive Kant, «consiste in questo: benché abbia una validità meramente soggettiva, fa valere tuttavia la sua pretesa nei confronti di tutti i soggetti, come potrebbe accadere soltanto se fosse un giudizio oggettivo, riposante su fondamenti conoscitivi, e potesse venire imposto mediante una prova» (KU, § 33, AA V 285/369). 7 Nella modalità dei giudizi di gusto, scrive Kant, sta «un momento capitale per la critica della capacità di giudizio» (KU, § 29, AA V 266/317).

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ESTETICA

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all’arte. Baumgarten aveva coniato il termine fondamentalmente come nome di una dottrina della conoscenza sensibile. Adottando il neologismo come titolo di una parte della Critica, Kant aveva mantenuto il riferimento del termine alla sensibilità, aggiungendo la qualificazione “trascendentale” ne aveva fatto però l’etichetta per la scienza dei principi a priori della sensibilità, cioè per la dottrina dello spazio e del tempo. Il riferimento alla bellezza, presente nella concezione di Baumgarten, non solo è lasciato cadere, ma, quando vi accenna nella nota in questione, Kant lo fa, appunto, per esprimere le sue riserve. Il suo pensiero al riguardo è chiaro: la critica del gusto non può essere elevata a scienza perché il gusto non ha principi a priori; perciò conviene riservare il termine “estetica” alla dottrina delle forme a priori della sensibilità8. Nella seconda edizione della Critica (1787) la nota presenta dei ritocchi; li ho indicati tra parentesi uncinate nella citazione che segue. Vediamo il testo: I tedeschi sono i soli, che si servono al presente della parola estetica per indicare ciò che gli altri chiamano critica del gusto. La ragione sta nella fallita speranza dell’eccellente analista Baumgarten, il quale credette di ridurre a principi razionali il giudizio critico del bello, e di elevarne le regole a scienza. Ma codesto sforzo è vano. Imperocché le dette regole e i criteri del gusto sono per le loro fonti, empirici, e però non possono mai servire a determinare leggi a priori, sulle quali dovrebbe appoggiarsi il nostro giudizio del bello: piuttosto questo forma la pietra di paragone della validità di quelli. È perciò ragionevole o abbandonare di nuovo questa denominazione, e mantenerla a quella dottrina che è vera scienza […]; . (KrV, A 21/B 35-36; 66-67)

I ritocchi apportati nella seconda edizione sono assai significativi. Kant sembra ora possibilista sul fatto che il gusto possa avere principi a priori; egli ammette che non tutti i suoi criteri sono empirici9. Un documento importante del cambiamento sopravvenuto è la lettera a Carl Leonhard Reinhold del 28 dicembre 1787: Al momento mi sto occupando della critica del gusto. In questa occasione ho scoperto un tipo di principi a priori nuovo rispetto ai precedenti. Le facoltà dell’animo sono infatti tre: facoltà conoscitiva, sentimento di piacere e dispiacere, facoltà di desiderare. Ho trovato principi a priori per la prima nella Critica della ragion pura (teoretica) e per la terza nella Critica della ragion pratica. Li cercavo anche per il 8 Per l’interpretazione e la ricostruzione del contesto di storia delle idee cfr. L. Amoroso, Ratio & aesthetica. La nascita dell’estetica e la filosofia moderna, ETS, Pisa 20082. 9 Restano in ogni caso le riserve sull’uso del termine «estetica (cioè dottrina dei sensi)». Kant non sceglierà “estetica” per la sua analisi delle valutazioni del bello, bensì “critica della capacità di giudizio estetica”, perché – spiega nella Prima Introduzione – «la prima espressione è di significato troppo ampio, potendo anche indicare il carattere sensibile dell’intuizione, che appartiene alla conoscenza teoretica e fornisce la materia ai giudizi logici (oggettivi)» (EEKU, AA XX 247/132-133).

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secondo; e, sebbene prima ritenessi impossibile trovarne, sono stato messo su questa strada dalla sistematicità che l’analisi delle facoltà prima menzionate mi ha fatto scoprire nell’animo umano e che mi ha messo a disposizione una materia sufficiente per il resto della mia vita, perché io abbia di che meravigliarmene e – ove possibile – perché la penetri a fondo. Cosicché ora riconosco tre parti della filosofia, ognuna delle quali ha i propri principi a priori, e li si può enumerare; grazie ad essi, è determinabile con sicurezza l’ambito della conoscenza in tal modo possibile – filosofia teoretica, teleologia e filosofia pratica. L’intermedia risulta essere certamente la più povera di fondamenti di determinazione a priori. (Br, AA X 514-515/164)

Come si vede, Kant afferma di avere scoperto un tipo di principi a priori nuovo. Deve dunque trattarsi di principi diversi da quelli messi in luce nelle due precedenti Critiche. È poi interessante notare che egli non nomina la capacità di giudizio, cioè la facoltà conoscitiva cui sarà dedicata fin dal titolo l’opera annunciata nella lettera come critica del gusto. Ciò fa supporre che l’idea di quella che sarà la seconda parte della terza Critica, cioè la critica della capacità di giudizio teleologica, abbia un’origine posteriore10. L’ipotesi è tanto più plausibile in quanto la lettera prefigura una divisione della filosofia in tre parti. Tale divisione sarà poi ritrattata11. Nella lettera Kant dichiara di essere stato messo sulla strada di un principio a priori del gusto inteso come «facoltà di valutare il bello» dalla sistematicità che l’analisi delle facoltà dell’animo gli ha fatto scoprire nell’animo umano12. Perché cercasse un principio a priori per la facoltà di valutare il bello lo si comprende se si considerano le due caratteristiche che Kant at10 La presenza di questa parte è adombrata in una lettera del 12 maggio 1789, sempre a Reinhold, nella quale si legge che la Critica del gusto «costituisce una parte» della Critica della capacità di giudizio (Br, AA XI 39/188). Evidentemente il progetto originario si è approfondito e ampliato nel corso della sua realizzazione. 11 Nella terza Critica Kant sosterrà che la filosofia è divisa «in due parti […], cioè nella teoretica, la filosofia naturale, e nella pratica, la filosofia morale» (KU, Einl. I, AA V 171/73-75). La teleologia nominata nella lettera non costituirà un ambito dottrinale; la sua posizione mediana forse anticipa però il ruolo di ponte attribuito nell’opera alla critica della capacità di giudizio (cfr. KU, Einl. III). 12 Troviamo un’eco di quest’affermazione anche nella Prefazione alla Critica della capacità di giudizio. La prima Critica, scrive Kant, aveva stabilito i principi costitutivi dell’intelletto, la seconda quelli della ragione, ma le facoltà conoscitive sono tre: tra intelletto e ragione c’è la capacità di giudizio (Urteilskraft), la quale «costituisce un termine medio» fra l’uno e l’altra. Egli sostiene che questa considerazione lo ha portato a chiedersi se anche tale facoltà abbia «suoi principi a priori», se questi principi «siano costitutivi oppure regolativi» e se essa dia forse «la regola al sentimento del piacere e del dispiacere, come termine medio fra la capacità conoscitiva e la facoltà appetitiva (così come l’intelletto prescrive leggi a priori alla prima e la ragione, invece, alla seconda)». La posizione del problema della terza Critica è incardinata in quest’orizzonte sistematico. Le domande citate sono le domande di cui «si occupa» la nuova critica, senza la quale, scrive Kant, «una critica della ragion pura, cioè della nostra facoltà di giudicare secondo principi a priori, sarebbe incompleta» (KU, Vorrede, AA V 168/65-67). Sul ruolo della sistematicità presente nell’animo cfr. anche KU, Einl. III e IX.

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tribuisce ai giudizi di gusto. La prima caratteristica è data dal fatto di avere un fondamento soggettivo, cioè di essere formulati sulla base di un sentimento di piacere o dispiacere. In questo i giudizi di gusto sono simili ai giudizi del gradevole, cioè ai giudizi in cui formuliamo le nostre preferenze, ad esempio in riferimento a cibi e bevande. La seconda caratteristica è di pretendere, nonostante la soggettività del loro fondamento, di valere per tutti. Questa caratteristica li distingue dai giudizi del gradevole e li rende simili agli ordinari giudizi empirici di conoscenza. Nel caso del gradevole fondiamo il nostro giudizio su un piacere che, secondo Kant, si basa «interamente sulla sensazione» (KU, § 4, AA V 207/159) ed è perciò «privato». È un sintomo di questo carattere del sentimento il fatto che il giudizio basato su di esso resta «confinato» alla nostra persona. Se giudichiamo un vino gradevole, osserva Kant, accettiamo che un altro ci corregga e ci ricordi che dobbiamo dire «Per me è gradevole». Se invece dichiariamo bello qualcosa, allora ci aspettiamo dagli altri lo stesso compiacimento; non diciamo: «È bello per me», ma diciamo che la cosa è bella ovvero parliamo «come se la bellezza fosse una proprietà dell’oggetto» e il giudizio fosse un giudizio di conoscenza (cfr. KU, § 7, AA V 212/171-173). La pretesa del giudizio alla validità universale deve però basarsi su un qualche principio a priori (cfr. KU, § 30). Il fatto che il giudizio di gusto sia soggettivo e nondimeno pretenda alla validità universale come un giudizio di conoscenza è un «dato notevole» per il filosofo trascendentale, al quale, scrive Kant, richiede «non poca fatica» scoprirne «l’origine» (KU, § 8, AA V 213/175). L’intento trascendentale con cui Kant guarda al gusto mira alla spiegazione di questo paradosso e la spiegazione che egli ne fornisce contiene la sua concezione dell’esperienza estetica13. 2. Sul piacere per il bello La spiegazione kantiana del paradosso del gusto, cioè di un giudizio soggettivo che avanza pretese di validità universale, è, in breve, la seguente. Kant muove dalla considerazione che se il piacere precedesse il giudizio, esso sarebbe un piacere per la mera sensazione dell’oggetto ovvero dipenderebbe immediatamente dalla rappresentazione con la quale l’oggetto è dato 13 Per Kant la forma tipica del giudizio di gusto è “quest’oggetto è bello”. La singolarità logica del giudizio contiene il riferimento diretto a un oggetto particolare (della natura oppure dell’arte). In un’ideale costellazione (kantiana) dell’estetico questo è il primo elemento. Il secondo elemento emerge considerando che, quando si formula un giudizio di gusto, si esige l’accordo degli altri (cfr. KU, § 7): se si dichiara bello un oggetto, scrive Kant, «si crede di avere per sé una voce universale» (KU, § 8, AA V 216/181). L’universalità del giudizio comporta l’inclusione in esso dell’intera sfera dei giudicanti. Il terzo elemento è rappresentato dal soggetto giudicante ovvero dal suo stato d’animo in quanto è uno stato d’animo partecipabile da ogni altro.

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e perciò non potrebbe avere che una validità privata. Se il piacere per l’oggetto deve essere universale, come si pretende nel caso del piacere suscitato dal bello, allora esso dovrà fondarsi su uno stato mentale diverso dalla sensazione con cui l’oggetto dato. Ora gli unici stati mentali universali sono quelli connessi alla conoscenza e poiché la conoscenza richiede l’attività dell’immaginazione e dell’intelletto, un piacere che si presume universale dovrà avere a che fare con l’attività che queste facoltà svolgono in vista della conoscenza14. Poiché i giudizi di gusto sono estetici e non sono giudizi di conoscenza, le facoltà conoscitive non dovranno però essere impegnate nell’applicazione di concetti determinati. L’ipotesi di Kant è che lo stato d’animo da cui il piacere dipende sia quello «che si riscontra nel rapporto reciproco delle capacità rappresentative in quanto esse riferiscono una rappresentazione data alla conoscenza in generale». Il piacere per il bello, egli sostiene, è un piacere «per l’armonia delle facoltà conoscitive» (KU, § 9, AA V 217218/185-187); esso può essere un piacere universale perché riposa su uno stato d’animo che si può presupporre in tutti gli uomini in quanto concerne le condizioni soggettive della capacità di giudizio in vista della conoscenza15. Kant descrive lo stato d’animo in questione con la (quasi-) metafora del libero gioco delle capacità rappresentative in una rappresentazione data «in vista di una conoscenza in generale»16. L’espressione “libero gioco” allude al fatto che «nessun concetto determinato […] confina» le capacità conoscitive «a una particolare regola conoscitiva» (KU, § 9, AA V 217/185). Usandola Kant mira a evidenziare la diversità dello stato dell’animo costitutivo dell’e14 Nella concezione kantiana la conoscenza richiede l’immaginazione, cioè «la facoltà delle intuizioni», per la composizione del molteplice dell’intuizione, e l’intelletto, cioè «la facoltà dei concetti», per l’unità, in concetti, del molteplice stesso (cfr. KU, §§ 9, 21). 15 Secondo Kant le risorse cognitive mobilitate nell’esperienza del bello sono le stesse da cui sorgono le conoscenze particolari. L’attribuzione di bellezza a un oggetto non è però la formulazione di una conoscenza determinata. Per questo ciò che l’espressione «conoscenza in generale (Erkentnisse überhaupt)» indica non può essere una conoscenza proposizionale particolare. Come suggerisce Wolfgang Wieland essa allude piuttosto allo strato profondo del conoscere concreto, ossia alla condizione genetica delle conoscenze particolari. Questo è il punto in cui, nell’esperienza estetica, sentimento e conoscenza si toccano. Il piacere che costituisce il cuore dell’esperienza estetica per Kant “contiene” e dischiude alla coscienza la struttura di questo strato profondo. Cfr. W. Wieland, Urteil und Gefühl. Kants Theorie der Urteilskraft, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2001, pp. 344-362. 16 Sulla nozione di libero gioco cfr. H. Ginsborg, Interesseloses Wohlgefallen und Allgemeinheit ohne Begriffe (§§ 1-9), in Immanuel Kant. Kritik der Urteilskraft, hrsg. von O. Höffe, Akademie Verlag, Berlin 2008, pp. 59-77, qui pp. 69-77; P. Guyer, The Harmony of the Faculty Revisited, in Aesthetics and Cognition in Kant’s Critical Philosophy, ed. by R. Kukla, Cambridge University Press, New York 2006, pp. 162-193; A. Wachter, Das Spiel in der Ästhetik. Systematische Überlegungen zu Kants ‘Kritik der Urteilskraft’, de Gruyter, Berlin/New York 2006, pp. 88-120; C.H. Wenzel, An Introduction to Kant’s Aesthetics. Core Concepts and Problems, Blackwell, Oxford 2005, pp. 50-52.

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sperienza estetica, del giudizio di gusto, rispetto a quello che caratterizza il giudizio di conoscenza. In quest’ultimo il rapporto delle due facoltà è regolato dall’intelletto: le intuizioni devono essere riportate a un concetto determinato per cui l’immaginazione deve subordinare la propria attività di composizione del molteplice a quella unificatrice dell’intelletto. Nel giudizio di gusto questo non accade perché esso determina l’oggetto, cioè attribuisce a esso un predicato, «indipendentemente da concetti». Propriamente non è anzi un predicato empirico ciò che il giudizio attribuisce. Per Kant, infatti, “è bello” esprime un sentimento; predicare la bellezza non vuol dire tanto attribuire una proprietà a un oggetto – benché sia anche questo –, quanto riferire l’oggetto a un sentimento di piacere in ogni altro. L’oggetto bello, scrive Kant, «piace universalmente senza concetto» (KU, § 9, AA V 219/189-191). L’indipendenza da concetti esprime tuttavia solo il significato negativo della libertà dell’immaginazione. Nella Nota Generale alla Prima Sezione dell’Analitica, Kant fornisce un contenuto positivo a questa libertà. La libertà dell’immaginazione vi è definita come «legalità libera». Che cosa sia una legalità libera non è subito chiaro. Kant stesso vede un controsenso nell’idea «che l’immaginazione sia libera e abbia tuttavia una sua propria legalità» perché «è solo l’intelletto che dà la legge». Se però «l’immaginazione è costretta a procedere secondo una legge determinata», la forma che essa produce è l’esemplificazione di un concetto e il compiacimento, di conseguenza, non sarà quello per il bello. Una legalità libera può dunque essere «solo una legalità senza legge e un accordo soggettivo dell’immaginazione con l’intelletto»: è la libertà di comporre il molteplice dell’intuizione «in accordo con la legalità dell’intelletto in generale», ossia di produrre una forma cui l’intelletto possa applicare dei concetti (KU, All. Anm., AA V 240-241/247-249). Poco prima nel testo, al § 21, Kant aveva introdotto un ulteriore elemento, completando così l’esposizione della sua concezione dell’esperienza estetica. Si tratta dell’idea di una «proporzione» che conviene alla rappresentazione di un oggetto «affinché la trasformiamo in conoscenza». Egli osserva che, avendo la disposizione delle capacità conoscitive «una proporzione diversa» a seconda della diversità degli oggetti, bisogna pure «che ce ne sia una nella quale» il loro rapporto di vivificazione reciproca «sia il più conveniente» in vista della conoscenza. Trattandosi di un accordo soggettivo delle capacità conoscitive, cioè di un accordo che non presuppone un concetto – immaginazione e intelletto non sono uniti da un concetto nella valutazione dell’oggetto in vista della conoscenza – questa disposizione non può venire determinata «altrimenti che mediante il sentimento». Se ne evince che il piacere per il bello è

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il piacere che risulta da (e rende manifesta) una disposizione particolarmente conveniente delle capacità conoscitive per una conoscenza in generale17. Kant sostiene in sostanza una sorta di transitività della comunicabilità, ossia dell’universalità: le conoscenze devono essere comunicabili e «se le conoscenze devono essere comunicabili, dev’essere universalmente comunicabile anche lo stato d’animo, cioè la disposizione delle capacità conoscitive per una conoscenza in generale» e dunque anche «il sentimento della medesima» (KU, § 21, AA V 238-239/241-243). Perciò possiamo attenderci, anzi esigere il consenso degli altri al nostro giudizio di gusto. Quale che sia la validità dell’argomento, esso ha una conseguenza molto importante per l’interpretazione della natura delle attribuzioni di bellezza. Giudicare bello un oggetto è dare espressione al sentimento della «concordia» (KU, § 15, AA V 228/215) nel gioco delle capacità dell’animo nella sua rappresentazione ovvero è affermare che l’oggetto ha, con le nostre capacità conoscitive, una relazione descrivibile nei termini di un accordo soggettivo di immaginazione e intelletto. Ciò che si attribuisce a un oggetto dicendolo bello non è dunque una proprietà determinata, bensì una relazione necessaria al piacere di ciascuno, al sentimento del libero gioco delle facoltà conoscitive (cfr. KU, §§ 18-19)18. 17 Kant sembra pensare che l’immaginazione e l’intelletto siano posti dall’intuizione di certi oggetti – gli oggetti che giudichiamo belli – in un rapporto che, pur non essendo determinato da concetti (da elaborare o applicare), realizza tuttavia in modo eminente la condizione richiesta per la conoscenza in generale. L’esperienza della bellezza è l’esperienza di forme che facilitano il compito dell’immaginazione di fornire all’intelletto una composizione del molteplice adeguata al fine della concettualizzazione. Questa concezione poggia su due presupposti: il primo è l’idea di un compito (o una funzione) di immaginazione e intelletto. Trattandosi di capacità conoscitive esso è definito in relazione alla formazione della conoscenza. Il secondo presupposto è che la soddisfazione di uno scopo o l’assolvimento di una funzione siano sempre accompagnati da piacere (cfr. KU, Einl. VI, AA V 187/115). Ora, l’intuizione di un oggetto mette sempre in azione le capacità conoscitive. Anche se non è presente un’esplicita intenzione conoscitiva, il rapporto in cui immaginazione e intelletto si trovano nell’incontro con gli oggetti è quello stesso da cui procede la formazione della conoscenza perché gli oggetti ci sono dati nell’intuizione sensibile e questa comporta un’attività dell’immaginazione per la composizione del molteplice. L’immaginazione, a sua volta, non può non mettere in azione l’intelletto per la sintesi della coscienza del molteplice nel concetto d’un oggetto (cfr. KU, § 21). Perciò Kant può sostenere che il piacere che proviamo nell’intuizione di certi oggetti registra che la loro forma «è di tal natura che l’apprensione del molteplice» nell’immaginazione «concorda con l’esibizione d’un concetto dell’intelletto (senza precisare di che concetto si tratti)» ovvero segnala che intelletto e immaginazione «s’accordano reciprocamente nella semplice riflessione per l’esecuzione del loro compito» (EEKU, AA XX 220-221/98). 18 Secondo Kant nei giudizi di gusto è pensata anche una necessità del consenso di tutti (cfr. anche KU, § 30): in essi si valuta «a priori» che il piacere che si prova per un oggetto «è inerente alla rappresentazione del medesimo oggetto in ogni altro soggetto» (KU, § 36, AA V 288/377-379), per cui si può «richiedere a ciascuno quel compiacimento come necessario» (KU, § 37, AA V 289/381). Le pretese di universalità e necessità dei giudizi di gusto sono giustificate in due passi. Quello sinteticamente ricostruito nel testo è il primo passo; esso è compiuto in direzione del soggetto, mostrando che il piacere per il bello accompagna il gioco delle

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Il fatto di non intendere “è bello” come un ordinario predicato empirico, concettuale, bensì come l’espressione di un sentimento di piacere (cfr. KU, Einl. VII, AA V 191/125 e § 36, AA V 288/379), è una delle peculiarità della concezione kantiana del giudizio di gusto19. Essa è in linea con l’interpretazione non cognitivista del giudizio estetico sottolineata fin dalle prime battute della Critica della capacità di giudizio, ed è correlata all’idea che solo gli esseri che conoscono mediante sensibilità e intelletto possono provare il piacere per il bello20. Scrive Kant: facoltà conoscitive, cioè una condizione in senso ampio epistemica che si può legittimamente pretendere in ognuno, benché non configuri una conoscenza (cfr. KU §§ 9 e 38). Il secondo passo si compie, invece, verso il soprasensibile. Kant ritiene che il giudizio di gusto contenga una sorta di dovere di approvazione dell’oggetto giudicato bello e dunque una pretesa che può essere giustificata solo da un principio a priori posto nel sovrasensibile cioè, per noi, nella moralità (cfr. KU, § 59). Egli riassume quest’aspetto della sua concezione in una lettera del 15 ottobre 1790 a J. F. Reichardt. Riferendosi alla sua critica del gusto, Kant scrive di essersi limitato a mostrare «che senza un sentimento morale non ci sarebbe per noi nulla di bello o di sublime; che proprio su di esso si fonda, per così dire, la legittima pretesa al consenso riguardo a tutto ciò che può portare il nome di bello o di sublime; che il lato soggettivo della moralità del nostro essere, il quale va sotto il nome di sentimento morale e ci è imperscrutabile, è ciò in relazione a cui si può giudicare del gusto […]. Dunque il gusto non ha affatto a fondamento il contingente della sensazione, ma un principio a priori (ancorché non discorsivo, ma intuitivo)» (Br, AA XI 228/246247). Sui due momenti della deduzione del giudizio di gusto cfr. R. Brandt, The Deductions in the “Critique of Judgment”: Comments on Hampshire and Horstmann”, in Kant’s Transcendental Deductions. The Three “Critiques” and the “Opus Postumum”, ed. by E. Förster, Stanford University Press, Stanford 1989, pp. 177-190 e R. Brandt, Die Bestimmung des Menschen bei Kant, Meiner, Hamburg 2007, pp. 422-434. 19 Cfr. B. Longuenesse, Kant’s Leading Thread in the Analytic of the Beautiful, in Aesthetics and Cognition, cit., pp. 194-219. Per Kant il giudizio di gusto non implica l’esistenza di particolari qualità degli oggetti – le qualità indicate dal predicato “bello” – che sarebbe possibile identificare e descrivere. Questo non cognitivismo lascia tuttavia spazio alla possibilità che il piacere abbia origine in qualità dell’oggetto – qualità formali. Il punto è che il possesso del concetto di bellezza non comporta la disponibilità di un criterio concettuale per la valutazione dei casi particolari. Il tipo di forma che l’oggetto deve avere per essere bello non può essere specificato che in riferimento al sentimento di piacere. 20 Benché la concezione kantiana del gusto sia non cognitivista, non mi sembra appropriato qualificarla come una forma di espressivismo. Se Kant, da un lato, distingue i giudizi di gusto da quelli conoscitivi, dall’altro li radica comunque nelle condizioni della conoscenza, nell’attività delle capacità rappresentative che ha luogo in vista della conoscenza di oggetti. Egli sembra voler ritagliare per la valutazione estetica, e dunque per la bellezza, uno spazio tra soggettivismo e oggettivismo. Forse questo può spiegare alcune oscillazioni nella sua posizione; ad esempio può spiegare perché, pur non concependo i giudizi di gusto come giudizi oggettivi e promuovendo una soggettivizzazione dell’estetica, nel senso di una fondazione della validità dei giudizi di gusto nel soggetto giudicante e non negli oggetti, Kant tenda a conservare al bello un riferimento oggettivo: belli sono gli oggetti che presentano una particolare forma. Sintomatico è proprio il modo in cui interpreta il piacere espresso usando il predicato “è bello”. Come vedremo subito, il piacere che “registra” ovvero rappresenta per noi la consapevolezza dell’accordo «soggettivo reciproco» (KU, § 9, AA V 218/189), del «rapporto interno di vivifi-

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La gradevolezza vale anche per gli animali non razionali; la bellezza solo per gli uomini, cioè per enti animali, ma razionali, ma per l’appunto in quanto non solo razionali (per esempio spiriti), bensì al contempo anche animali; il buono, invece, per ogni essere razionale in generale. (KU, § 5, AA V 210/165; cfr. anche KU, All. Anm., AA V 271/329)

Kant offre anche una formulazione più radicale dell’idea che la bellezza esiste solo per enti animali ma razionali. La bellezza, egli scrive, «senza il riferimento al sentimento del soggetto […] per sé non è niente» (KU, § 9, AA V 218/189). Come si è visto, Kant identifica il piacere che esprimiamo dicendo bello un oggetto con il piacere suscitato dal fatto che l’immaginazione, nell’apprensione di una forma data, si trova messa “inintenzionalmente” in accordo con l’intelletto, ed entrambe le facoltà soddisfano quello che è il loro scopo come facoltà conoscitive. Perciò egli può interpretare tale piacere come un’espressione della “adeguatezza” dell’oggetto alle facoltà conoscitive e vedervi una rappresentazione estetica, non concettuale, della finalità formale dell’oggetto: quando alla mera apprensione della forma di un oggetto è collegato un piacere, «l’oggetto – scrive Kant – deve essere considerato come finalistico per la capacità di giudizio riflettente» (KU, Einl. VII, AA V 189-190/121-123)21. Questo significa che a certi oggetti possiamo guardare come se ci fossero per il nostro compiacimento. Nel caso delle opere d’arte ciò è abbastanza ovvio perché promuovere il piacere estetico, il piacere della “riflessione”, è precisamente l’intento dell’arte bella (cfr. KU, § 44). Lo stesso vale però se a suscitare piacere sono degli oggetti naturali; anche in questo caso si pensa che le loro forme mostrino una finalità per le nostre capacità conoscitive: «la bellezza della natura (quella indipendente) comporta una finalità nella sua forma, per cui l’oggetto sembra per così dire essere predeterminato per la nostra capacità di giudizio, e costituisce di per sé un oggetto di compiacimento» (KU, § 23, AA V 245/259). Diversamente dalle opere d’arte, le bellezze naturali non sono però create da noi in vista del piacere estetico. Perciò la considerazione che certi oggetti naturali sembrano fatti per il nostro compiacimento porta a vedere la natura sotto una luce nuova:

cazione» (KU, § 21, AA V, 238/243) delle facoltà conoscitive, viene anche descritto da Kant come rappresentazione della finalità di un oggetto a queste facoltà «nel loro libero gioco» (KU, § 35, AA V 287/375). 21 Per l’interpretazione di questi passi dell’Introduzione cfr. R. Brandt, Von der ästhetischen und logischen Vorstellung der Zweckmäßigkeit der Natur (Einleitung VI-IX), in Immanuel Kant. Kritik der Urteilskraft, cit., pp. 41-58, qui pp. 44-52. Kant descrive la bellezza anche come «la finalità della forma nel fenomeno» (EEKU, AA XX 249/136), ovvero come la finalità della forma di un oggetto percepita «senza la rappresentazione di un fine» (KU, AA V 236/235).

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La bellezza indipendente della natura ci rivela una tecnica della natura che ce la fa rappresentare come un sistema secondo leggi il cui principio non ritroviamo in tutta la nostra facoltà intellettiva: il principio di una finalità, rispetto all’uso della capacità di giudizio riguardo ai fenomeni, così che questi debbano essere valutati come appartenenti non solo alla natura nel suo meccanismo, ma anche a qualcosa di analogo all’arte. Essa, dunque, estende effettivamente non certo la nostra conoscenza degli oggetti della natura, ma tuttavia il nostro concetto della medesima (da quello, cioè, della natura come mero meccanismo a quello della medesima come arte). (KU, § 23, AA V 246/263)22

A Kant gli oggetti belli appaiono predeterminati per la nostra capacità di giudizio. Nel caso dell’arte questa predeterminazione, benché non sia realizzabile secondo regole, è tuttavia intenzionale. Si capisce allora perché sia quando il gusto si rivolge agli oggetti della natura «che la capacità di giudizio si manifesta come una facoltà che ha un principio peculiare», cioè il principio della finalità. Per Kant è questo il principio grazie al quale essa può porre «la fondata pretesa d’un posto nella critica generale delle facoltà superiori della conoscenza, pretesa che le si sarebbe potuta contestare» (EEKU, AA XX 244/129). Riassumendo, dal punto di vista logico (non genetico) la situazione sembra la seguente23: i giudizi di gusto presentano peculiarità spiegabili solo ammettendo che essi abbiano un principio a priori; Kant si lascia guidare nella scoperta di tale principio dalla sistematicità rinvenuta nell’animo umano; essa lo porta a supporre che la capacità di giudizio contenga un principio a priori per il sentimento del piacere e dispiacere; a dare un contenuto a tale principio ovvero a “occasionare” il concetto di finalità è la considerazione della bellezza della natura. La comprensione del piacere per il bello come rappresentazione estetica della finalità formale, cioè come finalità sentita, percepita, non è, però, priva di conseguenze sul modo in cui si guarda alla natura24. Secondo il passo citato sopra, l’esperienza della bellezza della 22 Tecnica della natura, spiega Kant, può essere chiamata «la causalità della natura, dal punto di vista della forma dei suoi prodotti come fini» (EEKU, AA XX 219/96). Considerare la natura come tecnica vuol dire considerarla «come conforme al fine nei suoi prodotti» il che può avvenire o «soggettivamente, nei riguardi del modo di rappresentazione del soggetto» oppure «oggettivamente, in relazione alla possibilità dell’oggetto stesso» (EEKU, AA XX 249/136). 23 Sugli aspetti genetici cfr. P. Giordanetti, Kants Entdeckung der Apriorität des Geschmacksurteils. Zur Genese der Kritik der Urteilskraft, in Aufklärung und Interpretation. Studien zu Kants Philosophie und ihrem Umkreis, hrsg. von H.F. Klemme, B. Ludwig, M. Pauen und W. Stark, Königshausen & Neumann, Würzburg 1999, pp. 171-196. 24 Dalla rappresentazione estetica della finalità, basata «sul piacere immediato per la forma dell’oggetto nella mera riflessione su di essa», Kant distingue la rappresentazione «logica» ovvero teleologica della finalità, cioè la rappresentazione della finalità in un oggetto «dato nell’esperienza» che si ha a partire da un fondamento «oggettivo», da una conoscenza delle cose (KU, Einl. VIII, AA V 192/129). Su questa distinzione «si fonda la suddivisione della critica

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natura porta a un’estensione del concetto della medesima. È un punto molto importante per Kant. Vediamo brevemente di che si tratta. 3. Bellezza e finalità della natura L’esperienza della bellezza indipendente della natura ci porta – sostiene Kant – a rappresentarci la natura come un sistema secondo leggi sulla base del principio di una finalità rispetto all’uso della capacità di giudizio riguardo ai fenomeni. Kant sottolinea la novità del principio osservando che non lo ritroviamo «in tutta la nostra facoltà intellettiva» (KU, § 23, AA V 246/263). Non si tratta dunque di un principio in qualche modo già messo a disposizione dalla prima Critica. Per comprenderne l’importanza occorre considerare la duplicità di livelli presente nella concezione kantiana della (conoscenza della) natura25. Kant individua prima di tutto il livello costituito dalle leggi universali dell’intelletto. Si tratta delle leggi che l’intelletto dà a priori in riferimento alla «possibilità di una natura in generale (come oggetto dei sensi)». Tali leggi sono determinate mediante le forme dell’intuizione e le categorie della relazione; esse «competono necessariamente alla natura come oggetto della nostra conoscenza in generale» e, sostiene Kant, sono altrettanto «necessarie» per essa «delle leggi del movimento della materia». Ci sono però «molteplici forme della natura» e dunque altrettante modificazioni dei concetti trascendentali della natura che vengono lasciate «indeterminate» da tali leggi, appunto perché esse concernono la possibilità e l’unità di una natura in generale. Accanto al livello nomologico della natura in generale e sul suo fondamento Kant riconosce l’esistenza di un secondo livello, cioè quello delle leggi che riguardano le forme particolari della natura. Queste leggi non sono stabilite sulla base delle condizioni per cui qualcosa può diventare oggetto della nostra esperienza (KU, Einl. IV, AA V 179/95). Il loro status è piuttosto problematico: per il fatto stesso che parliamo di leggi, esse devono essere necessarie; tuttavia non competono necessariamente alla natura: negli aspetti che esse “coprono” la natura avrebbe potuto essere organizzata diversamente. Una conseguenza di questo fatto è che, se i fenomeni naturali hanno necessariamente un ordine causale, tuttavia è contingente che essi abbiano l’ordine che hanno. della capacità di giudizio in critica di quella estetica e di quella teleologica». Kant sottolinea tuttavia che in tale critica rientra come «parte essenziale quella che contiene la capacità di giudizio estetica» perché «essa sola» contiene il principio di una finalità formale della natura secondo le sue leggi particolari per la nostra facoltà conoscitiva. Per Kant «è il giudizio estetico su certi oggetti» a occasionare il principio trascendentale della finalità soggettiva, cioè il principio che «prepara» l’intelletto ad «applicare» alla natura il concetto di fine (KU, Einl. VIII-IX, AA V 193-194/131-133 e 197/141). 25 Su questa duplicità cfr. R. Brandt, Von der ästhetischen und logischen Vorstellung, cit., pp. 45-47.

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La duplicità di livelli nomologici trova espressione anche sul piano delle facoltà conoscitive. Kant ascrive il primo livello all’intelletto e il secondo alla capacità di giudizio riflettente. Egli chiama «capacità giudizio in generale» la «facoltà di pensare il particolare come contenuto sotto l’universale» e individua per la capacità di giudizio riflettente il compito specifico di riportare il particolare costituito dalle molteplici forme della natura all’universalità di leggi che lo connettano unitariamente26. In questa sua funzione la capacità di giudizio ha sostanzialmente un compito di subordinazione sistematica delle leggi empiriche. Per Kant si tratta di un compito che essa può svolgere solo assumendo che la natura sia conoscibile ovvero sia organizzata in modo unitario nelle sue leggi particolari. L’intelletto non consente quest’assunzione. Possiamo pensare senza contraddizione una natura che, pur avendo un ordine causale, sia organizzata secondo leggi del tutto eterogenee. Una natura siffatta non sarebbe però, per noi, una natura compiutamente conoscibile nel suo secondo livello, cioè nelle sue leggi particolari, perché non potremmo riportare tali leggi a principi unitari. La capacità di giudizio ha dunque bisogno di un principio che fondi «l’unità di tutti i principi empirici sotto principi ugualmente empirici ma superiori» (KU, Einl. IV, AA V 179180/93-95). Solo in questa prospettiva possiamo pensare che la natura sia conoscibile e possiamo legittimamente chiamare “leggi” le leggi empiriche27. Il principio in questione, secondo Kant, «non può essere che questo»: siccome le leggi universali della natura hanno il loro fondamento nel nostro intelletto, che le prescrive alla natura (sebbene solo secondo il concetto universale di essa come natura), le leggi empiriche particolari, riguardo a ciò che in esse è lasciato indeterminato da quelle altre, devono venire considerate secondo un’unità siffatta, come se l’avesse data anche in questo caso un intelletto (sia pure non il nostro) in funzione della nostra facoltà conoscitiva, per rendere possibile un sistema dell’esperienza secondo leggi particolari della natura. (KU, Einl. IV, AA V 180/97)

Kant chiama questo principio «la finalità della natura nella sua molteplicità». Formulandolo egli propone la prospettiva di una natura unitaria nelle sue leggi e perciò adeguata alla nostra esigenza conoscitiva di riportare le leggi empiriche particolari a principi esplicativi unitari e universali. In tale prospettiva si considera la natura come se un intelletto diverso dal nostro – 26

Kant distingue questa funzione del giudizio da quella determinante, in cui la capacità di giudizio è soltanto sussuntiva rispetto alle leggi date dall’intelletto. In questo caso, sostiene Kant, ossia per subordinare il «particolare della natura» a queste leggi, la capacità di giudizio non ha bisogno «di pensare da sé una legge», non ha bisogno di un proprio principio (KU, Einl., AA V 179/95). 27 Proprio perché sono empiriche, le leggi che non riguardano la possibilità di una natura in generale sono contingenti per il nostro intelletto; tuttavia, scrive Kant, per chiamarle “leggi”, dobbiamo considerarle necessarie a partire da un principio dell’unità del molteplice (cfr. KU, Einl. IV, AA V 180/95).

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presumibilmente un intelletto creatore – ne avesse configurato le leggi secondo un fondamento unitario in funzione della nostra conoscenza di esse. Questa prospettiva – osserva Reinhard Brandt – è la stessa della nostra appartenenza, come esseri conoscenti, al tutto di una natura organizzata in modo finalistico secondo un’idea di unità28. Per Kant, a condurci a questa prospettiva è, come si è visto, proprio l’esperienza della bellezza indipendente della natura. La presenza di bellezza nella natura ci fa guardare a essa considerandola come arte, cioè come in sé finalistica e sistematica, ci fa pensare che la natura abbia specificato le sue leggi in vista delle nostre esigenze conoscitive. Si comprende allora perché, nella lettera a Reinhold, Kant parli di teleologia descrivendo il principio del gusto29. Quanto alla portata del principio di finalità, Kant sottolinea due cose. La prima è che il principio ha un semplice carattere regolativo: si tratta di un’idea che «serve» alla capacità di giudizio «per riflettere, non per determinare» ovvero di una legge che la capacità di giudizio dà «solo a se stessa, non alla natura» (KU, Einl. IV, AA V 180/97). Secondo Kant, con tale principio non si asserisce qualcosa sulla costituzione del mondo, ma si indica semplicemente un modo di riflettere sul mondo riguardo «a quella connessione» che in esso «è data secondo leggi empiriche» (KU, Einl. IV, AA V 181/99). La seconda cosa che Kant sottolinea è che, per quanto il principio della finalità formale della natura sia un principio che la capacità di giudizio dà a se stessa, esso ha nondimeno un carattere trascendentale. Il principio ha questo carattere perché, se non si attribuisse alla natura un accordo con la nostra facoltà conoscitiva, non si avrebbe alcun «filo conduttore» (KU, Einl. V, AA V 185/109) per un’esperienza da ordinare secondo leggi particolari. Come si è visto, la duplicità di livelli ammessa da Kant nella natura lascia spazio alla possibilità che, nonostante l’uniformità garantita dalle leggi trascendentali, la diversità specifica delle leggi empiriche sia tale «che per il nostro intelletto sarebbe impossibile scoprire nella natura un ordine che esso possa cogliere» (KU, Einl. V, AA V 185/111). Un ordine e perciò l’unità della natura deve dunque «venire necessariamente presupposta e assunta, perché altrimenti non avrebbe luogo un’interconnessione completa di conoscenze in un tutto dell’esperienza» (KU, Einl. V, AA V 183/105). Ciò che il principio di finalità contiene è appunto una rappresentazione della natura come organizzata nelle sue leggi particolari in modo da corrispondere all’esigenza di sistematicità dell’intelletto. Pur avendo un carattere soggettivo e una validità solo regolativa, il principio di finalità rientra dunque tra i principi trascendentali: è un principio secondo cui riflettere sulla natu28

Cfr. R. Brandt, Von der ästhetischen und logischen Vorstellung, cit., p. 47. Così E. Förster, Kant und Strawson über ästhetische Urteile, in Kant in der Gegenwart, hrsg. von J. Stolzenberg, de Gruyter, Berlin/New York 2007, pp. 269-289, qui pp. 273-274. 29

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ra, senza il quale non potremmo, «usando il nostro intelletto, avanzare nell’esperienza e acquistare conoscenza» (KU, Einl. V, AA V 186/113). Radicata nelle condizioni della conoscenza, l’esperienza della bellezza, pur non avendo carattere cognitivo, ha una conseguenza importante sul concetto della natura. La concezione kantiana presenta tuttavia un altro, non meno importante risvolto sistematico, in direzione, questa volta, della morale. Come si è accennato, Kant collega le pretese del gusto non solo alle condizioni di una conoscenza in generale, ma anche all’idea della moralità30. Ciò che egli intravede con la scoperta del nuovo principio è la possibilità di una visione che integri in un tutto i due domini che si esercitano sul «solo e medesimo territorio dell’esperienza» (KU, Einl. II, AA V 175/83), cioè quello dell’intelletto e quello della ragione o, in altri termini, il dominio dei concetti della natura e quello del concetto della libertà. Questa visione è esplicitata nella sezione conclusiva dell’Introduzione, sotto il titolo «Della connessione delle legislazioni dell’intelletto e della ragione mediante la capacità di giudizio». 3.1. La bellezza della natura e il mondo morale Nella concezione kantiana le legislazioni dell’intelletto e della ragione configurano domini separati. Il problema del possibile effetto della legislazione della libertà, cioè della legislazione morale, nel mondo naturale non è però eludibile per Kant perché egli sostiene da un lato che tale effetto, ovvero il «fine definitivo [Endzweck]», «deve esistere», dall’altro che esso può «diventare effettivo solo nella natura e in accordo con le sue leggi» (KU, Einl. XI, AA V 195-196/137-139). Secondo Kant la legge che la ragione dà alla facoltà appetitiva deve procurare al mondo sensibile «la forma di un mondo dell’intelletto» (KpV, AA V 43/54). La riflessione morale fa riferimento da un lato a un contenuto ideale, non empirico – la legge morale –, dall’altro ad azioni che devono essere realizzate nel mondo empirico ma secondo la forma di un mondo diverso da quello empirico31. Perciò la ragione presuppone che quest’ultimo, cioè il mondo in cui le azioni hanno luogo, possa contenere gli effetti possibili di atti la cui causa appartiene al mondo soprasensibile. La condizione della possibilità del fine morale, si legge nell’Introduzione alla terza Critica, «viene presupposta nella natura (del soggetto come ente sensibile, cioè come uomo)». Kant pensa che proprio la capacità di giudizio fornisca, col concetto di una finalità della natura per le nostre capacità conoscitive, «il concetto intermediario fra i concetti della natura e quello della libertà» ovvero mostri la compatibilità della natura col concetto morale del fine definitivo e dunque la possibilità di quest’ultimo 30 31

Cfr. nota 18. Cfr. E. Förster, Kant und Strawson, cit., p. 238.

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(KU, Einl. XI, AA V 196/139). Kant arriva a questa conclusione ricorrendo all’idea del soprasensibile. Egli ricorda che la conoscenza intellettuale è una conoscenza della natura come fenomeno e perciò «rinvia a un sostrato soprasensibile della medesima» che lascia però «del tutto indeterminato». La capacità di giudizio, col suo principio di finalità, cioè con l’idea di una costituzione finalistica del molteplice naturale, procura a quel sostrato «in noi, come pure fuori di noi», una determinabilità32; «la ragione, poi, con la sua legge pratica a priori, dà a quel sostrato la determinazione» (KU, Einl. XI, AA V 196/139). Il ruolo di mediazione della capacità di giudizio si giustifica pertanto a partire da «tre idee». Kant le nomina nella Dialettica della capacità di giudizio estetica: in primo luogo, quella del soprasensibile, senza ulteriore determinazione, come sostrato della natura; in secondo luogo, sempre del medesimo come principio della finalità soggettiva della natura per la nostra facoltà conoscitiva; in terzo luogo, sempre del medesimo come principio dei fini della libertà e principio del suo accordo con quella nella moralità. (KU, § 57, AA V 346/529)

Come si vede, l’ipotesi formulata da Kant, che la capacità di giudizio effettui il passaggio dal dominio dei concetti della natura al dominio del concetto della libertà, risulta incardinata nella “metafisica” della filosofia trascendentale. Sul piano del sistema delle facoltà – della filosofia della mente – essa si regge sulla seguente serie di relazioni: il concetto di una finalità della natura – concetto proprio della capacità di giudizio – è costitutivo nei riguardi del sentimento del piacere e dispiacere; esso “rientra” però nei concetti della natura, anche se, per la facoltà conoscitiva, rappresenta soltanto un principio regolativo. Per la facoltà appetitiva è legislatrice la ragione; ora, benché la ragione sia pratica, ovvero determini la facoltà appetitiva «senza la mediazione di un qualche piacere» (KU, Einl. IX, AA V 197/141), una determinazione del sentimento del piacere o dispiacere è tuttavia «necessariamente» collegata con tale facoltà (cfr. KU, Einl. III, AA V 178/93). Con ciò si intuisce quale potrebbe essere la condizione di una connessione tra i due domini. L’argomento con cui Kant cerca di darle una veste teorica è però piuttosto debole. Egli muove dalla considerazione che a occasionare il concetto di finalità è il giudizio estetico su certi oggetti, ovvero un giudizio basato su un piacere il cui fondamento è contenuto nella “concordanza” delle facoltà conoscitive. Abbiamo così che un concetto della capacità di giudizio, che rientra nei concetti della natura, cioè il principio di finalità, ha un ruolo costitutivo riguardo a un piacere risultante dal gioco delle facoltà conoscitive. Ciò che lo 32 I giudizi estetici, scrive Kant nella Prima Introduzione, «sono d’un tipo così particolare che riferiscono intuizioni sensibili a un’idea della natura, la cui legalità non può essere compresa, senza porre questa natura in relazione con un sostrato soprasensibile» (EEKU, AA XX, 247/132).

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rende «idoneo a mediare la connessione dei domini del concetto della natura e del concetto della libertà nelle sue conseguenze» sembra essere la «spontaneità», ossia la libertà del gioco delle facoltà (KU, Einl. IX, AA V 197/141)33. Su questa base Kant potrà poi interpretare la bellezza naturale come una «traccia [Spur]» o un «cenno [Wink]» che la natura ci dà, «di contenere in sé un qualche fondamento per ammettere un accordo legale dei suoi prodotti col nostro compiacimento, che è indipendente da ogni interesse» (KU, § 42, AA V 300/409) e dunque, nella logica delle “tre idee” ricordate, di accordarsi con i fini della moralità. Forse Kant esagera la portata di questo «cenno». L’esistenza della bellezza naturale rivela al più che la natura si accorda con l’esercizio delle nostre capacità conoscitive. Possiamo da ciò concludere che essa si mostra anche in armonia con la realizzazione dei fini morali34? Il discorso di Kant sembra reggersi su un unico dato e cioè la spontaneità del gioco delle capacità conoscitive o meglio la coesistenza, in questo gioco, di libertà e conformità a una legge. L’analogia tra il piacere per il bello e il sentimento morale appare, però, piuttosto esile. È vero che, in modo simile a quanto accade nel sentimento morale, il quale non contiene un interesse personale, privato, anche nella contemplazione del bello sono messi da parte inclinazioni e desideri legati alla propria persona e c’è una presa di distanza dall’attrattiva dei sensi. Su questa base si può forse affermare che la contemplazione del bello, proprio perché il bello è l’oggetto di un piacere libero, senza interesse, può promuovere la ricettività per il sentimento morale (cfr. KU, Einl. IX, AA V 197/141 e § 59, AA V 354/551). Kant sostiene, infatti, che «il bello ci prepara ad amare qualcosa, anche la natura, senza interesse». Tuttavia non gli sfugge che l’amore disinteressato non è ancora la capacità di agire anche contro il proprio interesse, qualora esso contrasti con le esigenza della moralità. Ovvero non gli sfugge che la libertà presente nell’indipendenza del compiacimento «dal mero godimento sensibile» non è quella «sotto un impegno imposto dalla legge» (KU, All. Anm., AA V 267-269/321-323). Le somiglianze esistenti tra il compiacimento per il bello e il sentimento morale non bastano per costruire un passaggio dall’armonia della natura con le nostre facoltà conoscitive, che si manifesta nel primo, a un’armonia della natura anche con i fini cui fa riferimento il se33

È chiaro che per svolgere tale funzione il “libero gioco” non può essere inteso come un mero dato psicologico del senso interno. Come evento psichico esso appartiene al mondo fenomenico ed è sottoposto al “concetto della natura”. Si deve perciò presumere che, nella concezione di Kant, l’espressione rappresenti uno stato dell’animo – l’accordo reciproco delle facoltà conoscitive – che presenta aspetti sottratti alla determinazione temporale e causale. 34 Cfr. M. Budd, The Aesthetic Appreciation of Nature. Essays on the Aesthetics of Nature, Clarendon Press, Oxford 2002, pp. 56-57 e A. M. Baxley, The Practical Significance of Taste in Kant’s “Critique of Judgment”: Love of Natural Beauty as a Mark of Moral Character, «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», LXIII (2005), pp. 33-45.

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condo. Tuttavia Kant insiste sulle somiglianze tanto da arrivare, alla fine della Dialettica della capacità di giudizio estetica, a presentare la bellezza come simbolo della moralità. Egli propone questa comprensione della bellezza, basandosi sull’esistenza di analogie nel modo in cui riflettiamo sui due oggetti posti in relazione e cioè la bellezza e il bene morale. Il dato fondamentale è, ancora una volta, la libertà: riguardo agli oggetti di «un piacere così puro» qual è quello per il bello, scrive Kant, la capacità di giudizio «dà a se stessa la legge, così come la ragione fa riguardo alla facoltà appetitiva» (KU, § 59, AA V 353/549). Forse il suo pensiero è che quando riflettiamo sul bello, come quando riflettiamo sul bene morale, ci vediamo spinti ad attribuire al mondo una forma che rinvia all’intelligibile o meglio al «fondamento dell’unità di quel soprasensibile che sta a fondamento della natura con quello che il concetto della libertà contiene praticamente» (KU, Einl. II, AA V 176/85). Non è qui possibile seguire nei dettagli le argomentazioni kantiane. Ciò che mi interessava mostrare era la prospettiva da cui la bellezza naturale acquista rilevanza per Kant. Le considerazioni svolte in questo paragrafo e nel paragrafo precedente avevano questo scopo. Abbiamo visto che, agli occhi di Kant, gli oggetti belli esemplificano la conformità della natura alle nostre capacità conoscitive. Per il filosofo, nei giudizi di gusto la capacità di giudizio “si manifesta” come una facoltà che ha un peculiare principio a priori, cioè il principio di finalità. Tale principio, il cui contenuto è suggerito dall’esperienza della bellezza, ha una duplice importanza sistematica: esso è importante per la filosofia teoretica, perché senza di esso non si può assumere che la natura formi un sistema di leggi empiriche; inoltre, esso è importante per la filosofia pratica perché consente di gettare un ponte sul «baratro» che divide «il dominio del concetto della natura, il sensibile, e il dominio del concetto della libertà, il soprasensibile» (KU, Einl. II, AA V 175-176/85) e con ciò consente di pensare la realizzabilità del fine morale dell’uomo «nella natura e in accordo con le sue leggi» (KU, Einl. IX, AA V 196/139). Solo grazie al principio di finalità possiamo dunque comprendere la profonda unità della ragione. Queste considerazioni sistematiche ci portano ai problemi specifici dell’estetica della natura. Come si è visto, per Kant noi siamo condotti dalla bellezza a rappresentarci la natura secondo il principio di finalità; ma quali sono le condizioni dell’esperienza della bellezza naturale? Che parte gioca in essa la conoscenza? Che cosa caratterizza questa bellezza? Quando sottolinea il ruolo della bellezza nella nostra visione della natura, Kant parla di «bellezza indipendente [selbständige] della natura». Che cosa intende con quest’espressione? I prossimi paragrafi sono dedicati a queste domande. Nel paragrafo conclusivo tornerò poi, brevemente, sul significato che il quadro sistematico appena delineato conferisce alla bellezza.

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4. Giudizio di gusto e bellezza della natura Torniamo a uno degli elementi peculiari della concezione kantiana del gusto, e cioè alla tesi che il giudizio di gusto non ha carattere conoscitivo. La tesi presenta due aspetti. Il primo concerne il predicato che il giudizio ascrive. Come si è visto, Kant sottolinea che “è bello” non è un predicato oggettivo, ma è un predicato che «non può mai essere conoscenza (concetto di un oggetto), sebbene possa contenere le condizioni soggettive per una conoscenza in generale» (EEKU, AA XX 224/102). Ovviamente, chiamando “bello” un oggetto lo sussumiamo sotto il concetto di bellezza. Tale concetto ha un contenuto determinato. Kant lo definisce nei quattro momenti del giudizio di gusto35. Tuttavia, esso non fornisce un criterio per la valutazione dei casi particolari, una regola da applicare quando giudichiamo un oggetto. Per Kant non è attraverso l’uso di concetti che possiamo discernere la bellezza di una cosa perché la proprietà della forma, che si indica chiamando bello l’oggetto, non è concettualmente specificabile, non è descrivibile in modo esaustivo. In effetti, dicendo che la bellezza consiste nella «molteplicità e unità» (KU, § 61, AA V 359/559) o nella forma della finalità di un oggetto, non si determina alcunché, non si forniscono informazioni su come siano gli oggetti belli, su quali siano le proprietà che devono avere o su quale sia l’organizzazione di queste proprietà che risulta rilevante per la bellezza. La percezione dell’unità qualitativa del molteplice che costituisce la bellezza di un oggetto è di tipo sentimentale e non di tipo concettuale36. L’asserita indipendenza del giudizio di gusto da concetti ha un secondo aspetto, concernente questa volta il soggetto (grammaticale) del giudizio. In un senso da qualificare, anch’esso ha un carattere non concettuale. L’affermazione può risultare piuttosto singolare. Supponiamo, per riprendere un esempio di Kant, che «la rosa che sto guardando» sia «da me definita bella con un giudizio di gusto» (KU, § 8, AA V 215/179). Se stiamo all’esempio, sembra che un giudizio di gusto, almeno per identificare l’oggetto su cui

35 Componendo i risultati dei primi due momenti e del quarto abbiamo che bello è l’oggetto di un compiacimento «senza alcun interesse» (KU, AA V 211/167) ovvero è ciò che, «senza concetto, piace universalmente» (KU, AA V 219/191) e «viene riconosciuto come oggetto di un compiacimento necessario» (KU, AA V 240/247). Dal terzo momento Kant deriva invece la definizione della bellezza come «la forma della finalità di un oggetto in quanto essa vi viene percepita senza la rappresentazione di un fine» (KU, AA V 236/235). 36 La bellezza, potremmo dire, ha un valore individuale. Non si deve tuttavia dimenticare che, secondo Kant, un oggetto bello esemplifica una regola, che la necessità «pensata in un giudizio estetico» è una necessità del consenso in un giudizio considerato come esempio «di una regola universale che non si può addurre» (KU, § 18, AA V 237/237). La bellezza non è, dunque, un particolare anche se è una proprietà altamente specifica di individui, di particolari, perché dipende da come si realizzano in essi, negli elementi che li costituiscono, unità e molteplicità.

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verte, debba presupporre l’applicazione di concetti37. Tuttavia, il fatto che, in relazione all’oggetto del giudizio (cioè al soggetto grammaticale del giudizio), Kant parli di «rappresentazione empirica singolare data» suggerisce che l’applicazione di concetti sia del tutto secondaria. Ciò non deve sorprendere. Come si è visto, per Kant l’esperienza del bello è fondamentalmente una situazione armonica dell’animo e, nei suoi aspetti fondamentali, è uno stato pre-cognitivo: non è sotto la guida di un concetto che il molteplice dell’intuizione è appreso, riprodotto e riconosciuto. Di conseguenza, nel giudizio con cui esprimiamo tale esperienza, benché rientri «(come in tutti i giudizi) anche l’intelletto, esso vi rientra però non come facoltà della conoscenza di un oggetto, ma come facoltà della determinazione del giudizio e della sua rappresentazione (senza concetto), secondo il rapporto della medesima col soggetto e col suo senso interno» (KU, § 15, AA V 228-229/217 trad. leggermente modificata). In altri termini, l’intelletto non forma l’unità del giudizio fornendo il concetto sotto cui sussumere il soggetto del giudizio. Il fatto che l’intelletto non svolga questo ruolo ha come conseguenza che il giudizio non acquista un genuino contenuto conoscitivo: più che da predicazione oggettiva esso funge da comunicazione agli altri del nostro piacere, del nostro positivo «sentimento vitale» (KU, § 1, AA V 204/151)38. Kant sembra pensare che l’attribuzione della bellezza a un oggetto sia essenzialmente una comunicazione agli altri del piacere che proviamo per l’oggetto, sembra cioè assumere che ciò che affermiamo dicendo bello un oggetto sia fondamentalmente il carattere intersoggettivo dello stato sentimentale in cui ci troviamo39. Tutto ciò concerne la natura del predicato; non è però senza conseguenze sul ruolo dei concetti in relazione al soggetto (grammaticale) del giudizio. Naturalmente, nel momento in cui formuliamo un giudizio, anche se il suo contenuto è semplicemente il nostro piacere per un oggetto, dobbiamo usare dei concetti: senza fare uso di concetti non si può formulare alcun giudizio. In che senso, allora, la determinazione concettuale del soggetto del giudizio non sarebbe rilevante? In fondo non sembra privo di importanza sapere che il fiore che sto valutando è una rosa. Forse il punto è che, se un giudizio di gusto è sempre anche un giudizio su un oggetto il quale, come tale, è un oggetto di un certo tipo, non è però un giudizio su esso in quanto

37

Cfr. P. Guyer, The Harmony of the Faculty, cit., pp. 178-181. Cfr. R. Brandt, Die Bestimmung des Menschen, cit., pp. 418-419. 39 Propriamente il contenuto del giudizio è il pensiero che tale stato d’animo è universale, è uno stato in cui ogni altro dovrebbe trovarsi nell’apprensione dell’oggetto. L’articolazione della condizione dell’animo nella forma di un giudizio è fondamentale perché, come osserva Reinhard Brandt, è l’unico modo per far valere la sua universalità (cfr. R. Brandt, Die Bestimmung des Menschen, cit., pp. 418-419). 38

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oggetto di quel tipo40. L’attribuzione di bellezza a un oggetto non richiede un concetto dell’oggetto, ossia non presuppone un’esperienza dell’oggetto come oggetto che esemplifica un concetto (cfr. KU, § 4, AA V 207/159): un giudizio di gusto puro non definisce bello un oggetto «sotto la condizione di un concetto determinato» (KU, § 16, AA V 229/217); esso, scrive Kant, «non ha altro fondamento di determinazione che la finalità della forma» (KU, § 13, AA V 223/203), ossia il modo in cui unità e molteplicità si danno nell’oggetto e sono percepite come ad esso specifiche. Tuttavia, come vedremo subito, può essere importante per l’appropriatezza del giudizio, che l’oggetto su cui verte sia colto come oggetto di un certo tipo, magari anche solo come oggetto naturale o artistico. Si noti che, nel passo appena citato, Kant non fa riferimento genericamente al giudizio di gusto, ma a un giudizio di gusto puro. Egli precisa che il giudizio di gusto è puro «nella valutazione della bellezza libera». Sembra esserci un rapporto tra il piacere o, più precisamente, lo stato dell’animo articolato nel giudizio e la natura della bellezza predicata dell’oggetto. All’apprensione di un oggetto, che si realizza nel libero gioco delle capacità conoscitive, corrisponde l’attribuzione della bellezza che Kant chiama «libera (pulchritudo vaga)». La bellezza libera è una bellezza secondo la forma, cioè secondo una struttura degli elementi della rappresentazione di un oggetto non determinata in relazione al concetto di ciò che l’oggetto deve essere, non condizionata dalla conformità dell’oggetto al concetto che definisce, in termini qualitativi e quantitativi, le caratteristiche che esso dovrebbe avere come oggetto di un certo tipo41. Quando queste caratteristiche diventano ri40 Kant usa “è bello” in modo predicativo, non in modo attributivo. Per restare all’esempio della rosa: se è la rosa che sto guardano che giudico bella, secondo Kant il mio giudizio riguarda ciò che, in questo caso, è una rosa, ma non è un giudizio sull’oggetto che sto guardando in quanto oggetto di un certo tipo, ovvero non asserisce che esso è una bella rosa. Il giudizio “Questa rosa è bella” potrebbe essere analizzato come la congiunzione di due giudizi e cioè del giudizio “Questo (oggetto) è una rosa” e del giudizio “Questo (oggetto) è bello”, il secondo dei quali è propriamente il giudizio di gusto. Il contenuto di tale giudizio sarebbe lo stesso, se a formularlo fosse qualcuno che non dispone del concetto di rosa o scambia la rosa che ha davanti per un ranuncolo. Il giudizio “questo è un ranuncolo” sarebbe errato e tuttavia il giudizio di gusto “questo è bello”, benché formulato sulla base di un’identificazione non corretta del fiore, potrebbe essere valido. Ho qui rielaborato un esempio di Robert Hanna (cfr. R. Hanna, Kant and Nonconceptual Content, «European Journal of Philosophy», XIII (2005), pp. 247290, qui p. 266). Similmente anche M. Budd, The Aesthetic Appreciation, cit., p. 28. 41 Kant parla al riguardo di perfezione, distinguendo tra la perfezione qualitativa di una cosa, cioè «l’accordo del molteplice in essa» con il concetto di «che cosa essa debba essere», e la perfezione quantitativa, cioè la completezza della cosa rispetto a «tutto ciò che si richiede» per essere una cosa di una data specie. La distinzione tra bellezza e perfezione è molto importante; essa marca la presa di distanza dall’estetica della scuola leibniziano-wolffiana. Secondo Kant, «l’accordo del molteplice in unità» che caratterizza la forma bella non fa riferimento al concetto di ciò che la cosa deve essere. Non è su tale concetto che si fonda il giudizio di gusto, ma su

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levanti, ovvero quando la bellezza è condizionata dal concetto della cosa, Kant parla di bellezza «solo aderente (pulchritudo adhaerens)». Diversamente che nel caso della bellezza libera, nella valutazione della bellezza aderente i concetti hanno un ruolo determinante. In essa, come vedremo, pesa la conoscenza dell’oggetto. Kant parla al riguardo di un giudizio di gusto «applicato» (KU, § 16, AA V 231/223). Il giudizio di gusto applicato non è più «un giudizio di gusto libero e puro» perché è sottoposto alla «restrizione» che la forma dell’oggetto sia compatibile con ciò che esso deve essere (KU, § 16, AA V 230/221). Questa condizione limitativa può essere intesa anche positivamente. Se un oggetto ha «un fine interno determinato» e la bellezza si giudica «solo come una proprietà aderente», cioè «guardando al fine dell’oggetto» (KU, § 16, AA V 231/223), si può pensare che il compiacimento per l’oggetto sia uno speciale tipo di piacere risultante dall’interazione fra il fine (o la funzione) dell’oggetto e la sua forma. È quanto sembra accadere con molti oggetti di design e molte forme naturali. Di fatto, l’uso del concetto di bellezza aderente sembra richiedere l’accordo di «due stati d’animo»: il primo è lo stato d’animo risultante dal confronto della rappresentazione con cui un oggetto è dato con ciò che esso deve essere. Ora, il fatto che un oggetto esemplifica adeguatamente il concetto di ciò che deve essere può dar luogo a un piacere: non a un piacere estetico, bensì a un compiacimento “intellettuale”. Il secondo stato d’animo richiesto per l’uso del concetto di bellezza aderente è quello risultante dalla semplice apprensione nell’animo della rappresentazione dell’oggetto. Kant precisa che i due stati d’animo sono tra loro indipendenti: «propriamente, […] – egli scrive – né la perfezione guadagna con la bellezza né la bellezza con la perfezione; invece […] a guadagnare, se i due stati d’animo s’accordano, è la facoltà della capacità rappresentativa nel suo complesso» (KU, § 16, AA V 231/221-223). In entrambi i casi tale facoltà è impegnata, e la sua attività è promossa se lo stato d’animo estetico si trova in armonia con quello intellettuale. I piaceri che risultano dai due stati possono allora combinarsi e dar luogo a un piacere composto42. Questo non vuol dire che la bellezza aderente abbia maggior valore di quella libera. La distinzione tra i due tipi di bellezza non sembra una distinzione in termini di valore. Una differenza sembra però esserci dal punto di vista del significato o dell’interesse e in questo caso sembra possibile parlare di una priorità della bellezza libera. Come si è visto, Kant assegna alla belun sentimento che indica «una certa finalità dello stato rappresentativo nel soggetto e, in questo stato, il modo agevole con cui il soggetto apprende una forma data». È proprio perché si fonda su un sentimento e non su un concetto, ricorda Kant, che il giudizio di gusto si chiama “estetico” e non va confuso con un giudizio “logico”, di conoscenza (KU, § 15, AA V 227-228/213-215). 42 Per l’interpretazione cfr. P. Guyer, Free and Adherent Beauty: A Modest Proposal, «British Journal of Aesthetics», XLII (2002), pp. 357-366.

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lezza indipendente della natura un ruolo determinante per il modo in cui guardiamo alla natura. L’espressione “bellezza indipendente” sembra avere lo stesso significato di “bellezza libera”. La bellezza libera è una bellezza che «sussiste per sé [für sich bestehende]» (KU, § 16, AA V 229/217), che non dipende dal concetto di ciò che l’oggetto deve essere. In effetti, la bellezza che può farci rappresentare la natura secondo il principio di una finalità rispetto all’uso della capacità di giudizio può essere solo una bellezza libera, cioè una bellezza che si manifesta a prescindere dalla conformità dell’oggetto al concetto che definisce le caratteristiche che esso dovrebbe avere come oggetto di un certo tipo. La bellezza aderente non ha questa capacità perché l’applicazione del concetto di bellezza aderente è condizionata dall’uso del concetto di perfezione ovvero di finalità oggettiva. Entriamo un po’ più nel merito della distinzione kantiana tra i due tipi di bellezza. Cruciale per la sua formulazione appare il ruolo dei concetti: quand’è che essi diventano rilevanti nell’apprezzamento di un oggetto? 4.1. Edifici e colibrì. Sulla distinzione tra bellezza libera e bellezza aderente La distinzione tra bellezza libera e bellezza aderente è abbastanza chiara. Secondo Kant la bellezza che attribuiamo a una cosa è una bellezza libera quando, nella rappresentazione della cosa, consideriamo «l’accordo del molteplice in unità (lasciando indeterminato che cosa essa dev’essere)» (KU, § 15, AA V 227/213) e il compiacimento «è tale da non presupporre alcun concetto, ma da essere immediatamente legato alla rappresentazione con la quale l’oggetto è dato» (KU, § 16, AA V 230/221); è, invece, una bellezza aderente se il giudizio di gusto ha una condizione necessaria nel fatto che la forma dell’oggetto sia adeguata al concetto di ciò che esso deve essere (o alla sua funzione). Come si evince dagli esempi di Kant, la distinzione attraversa tanto il mondo della natura quanto quello dell’arte: I fiori sono bellezze naturali libere […]. Molti uccelli (il pappagallo, il colibrì, l’uccello del paradiso), una quantità di animali marini forniti di conchiglia sono bellezze di per sé, alle quali non corrisponde affatto un oggetto determinato secondo concetti in considerazione del suo fine, ma che piacciono liberamente e di per sé. Allo stesso modo, i disegni alla greca, il fogliame in cornici, o su carte da parati, etc. di per sé non significano niente: non rappresentano niente, alcun oggetto determinato, e sono bellezze libere. Si può annoverare nella medesima specie anche ciò che in musica ha il nome di fantasie (senza tema), anzi tutta la musica senza testo. (KU, § 16, AA V 229/217-219)43

43 Cfr. L. Pareyson, L’estetica di Kant. Lettura della «Critica del Giudizio», Mursia, Milano 19842, pp. 156-215.

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Come esempi di bellezza aderente Kant indica la bellezza «di un essere umano», la bellezza «di un cavallo» o quella di «un edificio (in quanto chiesa, palazzo, arsenale o padiglione di giardino)» (KU, § 16, AA V 229/217219). Secondo Kant, in questi casi l’attribuzione della bellezza è condizionata dal fatto che l’oggetto esemplifica adeguatamente il concetto della cosa che deve essere o della funzione che deve svolgere. Di solito è così che si giudica la bellezza degli artefatti. Se un oggetto – si pensi agli edifici del passo kantiano – è prodotto secondo intenzioni piuttosto precise, è difficile, quando se ne valuta la bellezza, astrarre dalla considerazione del modo in cui la sua forma si accorda con l’uso cui è destinato o con la funzione che deve svolgere. Non per tutti gli artefatti, però, le cose stanno in questi termini. Tra gli esempi di bellezza libera troviamo prodotti come i disegni alla greca, il fogliame nelle cornici o su carta da parati. Kant ricorda anche altre cose che sono possibili «solo con un intento», ma «dove si deve solo intrattenere un libero gioco delle capacità rappresentative»: cose come i «parchi», «l’arredamento delle stanze» o le «suppellettili di gusto» (KU, AA V 242/251). Le opere d’arte sembrano collocarsi in una posizione intermedia tra questi due tipi di artefatti. Per valutare la bellezza dell’arte occorre avere un concetto dell’oggetto che si considera, si deve, cioè, avere una qualche idea del tipo di cosa che esso deve essere perché solitamente un artista opera per realizzare un oggetto con certe caratteristiche: «l’arte – scrive Kant – presuppone sempre un fine nella causa (e nella causalità di questa)» (KU, § 48, AA V 311-312/437-439). Il criterio dell’arte è, però, il piacere della riflessione. Tornando agli esempi kantiani di bellezza aderente, almeno due di essi, e cioè quello della bellezza di un uomo e quello della bellezza di un cavallo, sono piuttosto intriganti. Perché, nella valutazione della bellezza di questi enti, dovremmo procedere come nel caso di un edificio? Non sono forse enti dello stesso tipo di un pappagallo o di un colibrì, ossia enti naturali, cose che non abbiamo fatto noi in vista di un qualche scopo? Perché, allora, la loro bellezza dovrebbe rispondere a criteri diversi? L’impressione è che il dato rilevante nella determinazione del modo di valutazione estetica non sia tanto la storia causale dell’oggetto quanto il background di conoscenze del soggetto giudicante. Ad esempio, nel caso dei fiori, osserva Kant, «è difficile che, a parte il botanico, qualcun altro sappia che cosa dev’essere un fiore». Lo stesso si potrebbe dire di pappagalli, colibrì e crostacei: solo uno zoologo o comunque un appassionato di queste forme di vita animale dispone di conoscenze relative alle funzioni e alle relazioni delle varie parti che compongono questi enti. Forse non è un caso che gli animali nominati da Kant siano un po’ esotici. Normalmente sappiamo molte più cose sui cavalli e gli esseri umani che sui crostacei o i colibrì, semplicemente per la familiarità che abbiamo con essi. Perciò è difficile non apprendere questi enti sullo sfondo di considerazioni concettuali rela-

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tive alla loro “perfezione” ovvero considerando se deformazioni o difetti di qualche tipo impediscano a qualcuna delle loro parti di svolgere la funzione naturale o lo scopo che le è proprio. In questo senso sembra dipendere da noi, dal modo in cui guardiamo a un oggetto, se lo consideriamo una bellezza libera o una bellezza aderente. A determinare la differenza tra bellezza libera e aderente (o condizionata) sembra, infatti, essere il ruolo assunto nella valutazione dell’oggetto dalle credenze del soggetto che giudica. È più facile considerare bellezze libere degli oggetti come i fiori o gli animali un po’ esotici dell’esempio kantiano, che non percepiamo sotto la rappresentazione di uno scopo, piuttosto che un essere umano, un cavallo o un edificio. La valutazione di questi ultimi sembra inevitabilmente avvenire su uno sfondo di credenze sulla loro natura e la loro funzione, sul particolare rapporto che lega le une alle altre le parti che li costituiscono e tutte alla funzione dell’oggetto. Semplicemente perché su oggetti come gli esseri umani, i cavalli o gli edifici, di solito, sappiamo molte cose, essi sono percepiti di default come oggetti con un fine determinato. L’esempio del botanico ha uno sviluppo che sembra confermare l’ipotesi che non dipenda dall’oggetto, ma dal nostro modo di giudicarlo, se lo valutiamo come una bellezza libera o dipendente. Kant osserva, infatti, che anche per il botanico il fiore può essere una bellezza libera: «quando ne giudica mediante il gusto», sostiene Kant, egli non considera che il fiore è «l’organo di fecondazione della pianta» (KU, § 16, AA V 229/217) ovvero astrae dalle conoscenze relative alla funzione del fiore. Che un oggetto presenti bellezza libera o aderente sembra dipendere dal fatto che si giudichi secondo ciò che si ha “nei pensieri” o semplicemente secondo ciò che si ha “davanti ai sensi”. Ma da cosa dipende che si giudichi in un modo piuttosto che nell’altro? L’interpretazione abbozzata conferisce alla distinzione un aspetto di arbitrarietà. Sembra che un esempio di bellezza aderente possa essere considerato anche una bellezza libera, purché si faccia astrazione dai concetti da cui si è fatto dipendere il giudizio di gusto. Non sembra tuttavia plausibile che non vi siano vincoli alla possibilità di astrarre dalla natura o dalla funzione di un oggetto nella valutazione della sua bellezza. Astrarre da esse, in alcuni casi potrebbe dar luogo a un giudizio non appropriato. Veramente l’oggetto non ha parte alcuna nella scelta del modo di considerarlo? In effetti, in alcuni casi i vincoli posti dalla funzione dell’oggetto non sono stretti. Si considerino gli esempi kantiani di «un bell’appartamento, un bell’albero, un bel giardino». Si può riconoscere che, in casi come questi, il fine non è sufficientemente determinato e fissato «mediante il loro concetto e la finalità è dunque quasi altrettanto libera come nel caso della bellezza vaga» (KU, § 17, AA V 233/227). Di conseguenza l’unità del molteplice nella forma può realizzarsi e risultare compatibile con la finalità dell’oggetto in molti più modi rispetto a quanto può accadere nei casi in cui il concetto di

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ciò che l’oggetto deve essere determina più precisamente le forme possibili. Quando il fine è più determinato, gli oggetti sembrano porre dei vincoli. Kant osserva che «si potrebbero applicare a un edificio molte cose che piacciono immediatamente nell’intuizione, se solo non dovesse essere una chiesa» e «si potrebbe abbellire una figura con ghirigori d’ogni tipo e linee frivole ma regolari, come fanno i Neozelandesi coi loro tatuaggi. Se solo non fosse un uomo […]» (KU, § 16, AA V 230/219-221). La situazione immaginata è intrigante. Un ornamento che, considerato per sé, può piacere immediatamente, cioè può risultare bello, potrebbe essere valutato diversamente una volta collocato in un contesto – ad esempio la parete di un edificio – per il quale è difficile astratte da considerazioni funzionali. Immaginiamo di vedere, percorrendo un vicolo, una porzione di un edificio con decorazioni che troviamo belle. Poi sbuchiamo in una piazzetta e vediamo che si tratta di una chiesa. Può accadere che quanto giudicavamo bello, ci appaia ora fuori luogo. Questo non significa che i fregi e le decorazioni perdano la propria bellezza. Essi possono essere sia belli sia inappropriati perché un oggetto può avere la bellezza in diversi modi e cioè come proprietà intrinseca, come proprietà relazionale oppure in entrambi i modi. Nell’esempio immaginato le decorazioni possono essere intrinsecamente belle; esso evidenzia però come il giudizio di certi elementi sia condizionato dal contesto in cui sono inseriti e suggerisce che, se il contesto è marcato da una funzione, la forma di questi elementi deve essere compatibile con tale funzione44. Generalizzando, potremmo dire che a volte la valutazione estetica costituisce solo una parte di una valutazione più complessiva degli oggetti nella quale è condizionata da una considerazione della loro funzione. L’espressione “bellezza aderente” indica appunto che l’attribuzione di bellezza dipende, in questi casi, dalla soddisfazione della condizione posta dal concetto di ciò che gli oggetti devono essere (cfr. KU, § 16, AA V 229/217). Questo sembra indicare che l’oggetto ha un ruolo nella determinazione del modo in cui deve essere giudicato; se però l’oggetto ha un ruolo, allora la distinzione tra bellezza libera e aderente non è soltanto – o non è sempre – una distinzione dipendente dal soggetto giudicante, dal modo di giudicare che egli (o ella) adotta. In alcuni casi, ma non in altri, un oggetto può trovarsi ora da un lato ora dall’altro della distinzione ovvero può essere considerato ora una bellezza libera ora una bellezza aderente. Il caso del fiore e quello della chiesa sono emblematici di queste due situazioni. Nel caso della valutazione della bellezza della facciata di una chiesa non sembra soltanto difficile astrarre dalla funzione che essa ha come edificio, sembra poco appropriato. Ciò che si ha “nei pensieri” ovvero il concetto 44 Cfr. H.E. Allison, Kant’s Theory of Taste. A Reading of the ‘Critique of Aesthetic Judgment’, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 140-142.

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della natura e della funzione di un oggetto a volte pone dei vincoli piuttosto forti alla forma dell’oggetto: essa non può contrastare con quanto richiesto dalla perfezione ovvero dal fine dell’oggetto. In questi casi la libertà dell’immaginazione, che nella valutazione di una bellezza libera «per così dire gioca nell’osservazione della figura» (KU, § 16, AA V 230/219), viene “ristretta” alla considerazione di forme compatibili con la funzione dell’oggetto. Gli oggetti che hanno bellezza aderente sono solitamente oggetti con un fine, una funzione. Naturalmente, perché si possa parlare di bellezza, occorre che la forma di tali oggetti, nel conformarsi alla loro funzione e dunque nei limiti posti da questa, consenta un libero gioco delle capacità conoscitive45. D’altra parte, proprio perché la bellezza, in questi casi, è connessa alla funzione degli oggetti, un giudizio accurato di essa deve sussumere gli oggetti sotto concetti che distinguano la funzione che essi hanno. A dispetto del suo non cognitivismo, può sembrare allora che, almeno in riferimento ai giudizi di bellezza aderente e fatta salva la natura estetica dei giudizi di gusto, Kant adotti una forma di cognitivismo estetico. Nel prossimo paragrafo, e limitatamente alla bellezza naturale, affronterò questa questione. Cercherò di chiarire la posizione di Kant, stilizzando una concezione cognitivista dell’estetica della natura46. Come vedremo, per alcuni aspetti la concezione kantiana della bellezza aderente sembra interpretabile nei termini di tale concezione. Rispetto al cognitivismo (e ai limiti che tale approccio presenta), la concezione kantiana, considerata nel suo insieme, sembra tuttavia avere risorse concettuali per dar conto in modo più soddisfacente della complessità dell’esperienza della bellezza della natura. 5. Excursus: bellezza naturale e conoscenza della natura Una concezione cognitivista dell’estetica della natura deve avanzare almeno le due seguenti tesi. La prima tesi è che per giudicare della bellezza degli oggetti naturali occorre percepirli nelle giuste categorie; la seconda tesi è che, per fare questo, si deve sapere qualcosa su cosa sono. Le conoscenze rilevanti possono essere quelle fornite dalle scienze naturali o dai loro an45 Alexander Rueger osserva al riguardo che la costrizione posta dalla compatibilità della forma con ciò che l’oggetto deve essere ha un carattere controfattuale. Se l’oggetto è giudicato bello, la sua forma deve comunque coincidere con una delle forme che l’immaginazione avrebbe potuto progettare se fosse stata lasciata libera. A. Rueger, Beautiful Surfaces: Kant on Free and Adherent Beauty in Nature and Art, «British Journal for the History of Philosophy», XVI (2008), pp. 535-557, qui p. 541. 46 Lo farò ispirandomi a quella che è forse l’espressione più chiara di un simile approccio e cioè il cognitivismo scientifico di Allen Carlson. Va da sé che i riferimenti alla posizione di Carlson sono piuttosto strumentali; essi vanno intesi considerando che lo scopo è di caratterizzare un approccio cognitivista all’estetica della natura.

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tecedenti e analoghi nel senso comune47. Una concezione che adotta queste tesi è cognitivista perché prevede che le conoscenze relative al tipo d’oggetto che percepiamo possano cambiare il modo in cui esso ci appare da un punto di vista estetico. Essa può, inoltre, essere normativa se comporta che la considerazione estetica adeguata degli oggetti naturali sia quella permeata da una comprensione scientifica di tali oggetti48. L’idea che per giudicare della bellezza degli oggetti naturali occorra percepirli nelle giuste categorie può essere difesa richiamando la tesi di Kendall Walton che le proprietà estetiche di un’opera sono quelle che troviamo in essa quando è percepita nelle categorie corrette. Secondo Walton l’apprezzamento estetico delle opere d’arte non può avvenire sulla base della semplice percezione delle loro proprietà sensibili; esso richiede piuttosto un’organizzazione di tali proprietà secondo appropriate categorie storicostilistiche. In realtà Walton aveva affermato che, mentre ci sono categorie giuste e sbagliate sotto cui sussumere le opere d’arte, questa distinzione non si dà nel caso della natura49. Benché non manchino argomenti contrari, si può tuttavia pensare che un’esigenza simile valga anche per la natura. Si può cioè pensare che, come la conoscenza delle tradizioni artistiche e degli stili è importante nell’apprezzamento estetico dell’arte, così le conoscenze riguardanti il genere cui un oggetto naturale appartiene, la sua storia e il contesto in cui si colloca abbiano un’influenza sulla sua percezione estetica e siano rilevanti per la sua valutazione50. Certo, nel caso della natura manca 47 Cfr. A. Carlson, Nature, Aesthetic Judgment, and Objectivity, «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», XL (1981), pp. 15-27 e A. Carlson, Nature, Aesthetic Appreciation, and Knowledge, «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», LIII (1995), pp. 393-400. 48 Carlson, ad esempio, non sembra tanto sostenere che una considerazione della natura scientificamente informata sia necessaria e sufficiente per un apprezzamento estetico appropriato. Egli sembra piuttosto assumere che considerare esteticamente la natura alla luce delle conoscenze scientifiche rilevanti sia necessario e sufficiente per il suo apprezzamento estetico appropriato. Un approccio cognitivista all’estetica della natura è difeso anche da G. Parsons, The Aesthetics of Nature, «Philosophy Compass», II (2007), pp. 358-372. Per una valutazione critica del cognitivismo scientifico cfr. invece P. D’Angelo, Estetica della natura, cit., pp. 93-103. 49 Cfr. K. Walton, Categories of Art, «The Philosophical Review», LXXIX (1979), pp. 334-367. 50 Questa è, appunto, la considerazione da cui muove Carlson. Un aspetto cruciale della sua concezione è, infatti, l’affermazione dell’esistenza di categorie corrette sotto cui percepire gli oggetti naturali, categorie che sarebbero suggerite dalla conoscenza scientifica. La sua concezione è descritta come “cognitivismo scientifico” appunto perché prevede che la conoscenza scientifica possa modellare la nostra risposta estetica agli oggetti naturali (cfr. G. Parsons, Freedom and Objectivity in the Aesthetic Appreciation of Nature, «British Journal of Aesthetics», XLVI (2006), pp. 17-37, qui pp. 21-22). Si potrebbe tuttavia osservare che gli enti naturali cadono sotto una molteplicità di categorie diverse, alcune più generali, altre più specifiche. Come si determina quale sia la categoria rilevante? La bellezza di un gatto si valuta in quanto esso è un gatto e in quanto è un felino e in quanto è membro dell’ordine dei carnivori e in quanto è un mammifero, ecc.? In ogni caso, nessuna delle categorie particolari sotto cui si può sussume-

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il riferimento a convenzioni e pratiche consolidate di valutazione che caratterizza invece l’arte; tuttavia, sembra ragionevole assumere che anche nella valutazione estetica di una cosa della natura non ci si possa limitare alla considerazione delle sue proprietà sensibili, ma si debbano organizzare queste proprietà sulla base di categorie appropriate. Si pensi alla flora di un prato di alta montagna. Essa può apparire visivamente poco interessante finché non si considerano le condizioni che limitano, in quell’ambiente, le possibilità delle erbe e dei fiori. Se non disponiamo di conoscenze al riguardo, non ci è possibile osservare il modo in cui erbe e fiori si adeguano alla situazione, né ci è possibile apprezzare i loro colori e le loro fragranze51. Alla luce di una conoscenza dell’ambiente “vediamo” però le cose in modo diverso. Perciò una valutazione estetica della flora d’alta montagna, non informata da una qualche conoscenza scientifica delle condizioni ambientali, appare meno appropriata. Non è necessario andar oltre nella stilizzazione di un approccio cognitivista all’estetica della natura. Ciò che lo caratterizza dovrebbe essere sufficientemente chiaro. Esso poggia essenzialmente sulla duplice convinzione che la conoscenza modelli l’esperienza estetica degli oggetti e che una percezione estetica permeata dalle conoscenze rilevanti sia condizione di un apprezzamento adeguato della natura. Possiamo considerare il botanico di Kant un cognitivista? Il giudizio di gusto applicato rispecchia gli assunti del cognitivismo estetico? Almeno superficialmente qualche analogia sembra esserci. Anche in Kant si incontrano casi in cui una valutazione che non tiene conto della “natura” dell’oggetto sembra essere meno appropriata rispetto a una valutazione permeata dalla consapevolezza di ciò che l’oggetto deve essere. Il pensiero che, per valutare la bellezza di certi oggetti, sia importante ricondurli a un concetto che specifichi cosa sono o distingua la funzione che essi hanno, appartiene all’estetica di Kant. Per gli artefatti quasi sempre è così perché si tratta di ogre l’oggetto sembra indicare un modo di percepire così come fanno invece molte categorie artistiche. Sussumere un animale sotto il concetto di felino non sembra avere lo stesso effetto che ha il riportare un dipinto al concetto di cubismo; in quest’ultimo caso, ma non nel primo, si indica anche un modo di guardare l’oggetto. Inoltre, un oggetto naturale può presentarsi in una molteplicità di modi a seconda di come lo osserviamo. Diversamente da quanto accade per l’arte, dove sono presenti restrizioni convenzionali sul modo di percepire un’opera quando la si considera esteticamente (ad esempio, non si guarda un dipinto da un centinaio di metri di distanza o al buio), non sembra però possibile indicare dei vincoli per determinare quale sia il modo di percepire adeguato. Se si considera bella una vallata alpina, il giudizio è tacitamente relativizzato a uno specifico modo di percepirla, ma non si possono invocare condizioni normative relativamente a ciò che vale come una visione corretta. Guardare la vallata da punti di vista diversi o in condizioni meteorologiche diverse spesso equivale, però, a giudicare stati di cose diversi. Cfr. per questi e altri rilievi M. Budd, The Aesthetic Appreciation, cit., pp. 96-109 e, per una replica cognitivista, G. Parsons, Freedom and Objectivity, cit. 51 L’esempio (di Carlson) è in G. Parsons, The Aesthetics of Nature, cit., pp. 359-360.

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getti che devono la loro forma al fine pensato da chi li ha realizzati (cfr. KU, § 43); ma anche «nella valutazione specialmente degli oggetti viventi – osserva Kant – […] viene ordinariamente presa in considerazione la finalità oggettiva, per giudicare della loro bellezza». Quando sostiene che nella valutazione dei viventi «il giudizio teleologico serve all’estetico da fondamento e condizione di cui esso deve tener conto», Kant non sembra molto lontano da una forma di cognitivismo. Il suo commento al carattere condizionante del giudizio teleologico porta in luce la complessità del modo di considerare la natura: […] in un tal caso non si pensa di fatto, per es. dicendo: “Ecco una bella donna”, altro che questo: la natura rappresenta [stellt … vor] in modo bello, nella sua figura, i fini della complessione femminile; infatti, occorre che si guardi oltre la mera forma, ad un concetto, per poter così pensare l’oggetto mediante un giudizio estetico condizionato logicamente. (KU, § 48, AA V 312/439)52

Poco prima nel testo, Kant aveva introdotto la distinzione tra bellezza naturale e bellezza artistica con queste parole: «Una bellezza naturale è una cosa bella; la bellezza artistica è una bella rappresentazione [eine schöne Vorstellung] di una cosa» (KU, § 48, AA V 311/437). È curioso che il passo citato induca a pensare la figura di una bella donna come l’opera di un artista che ha rappresentato in essa ciò che una donna in quanto ente naturale deve essere. È così che Kant considera la natura, cioè come un artista? In effetti, egli sostiene che quando, nella valutazione della bellezza di un oggetto vivente, si considera anche la finalità oggettiva, allora «la natura non viene più valutata per il suo apparire arte, bensì in quanto è effettivamente arte (sebbene sovrumana)» (KU, § 48, AA V 311/439). Il cognitivismo estetico attribuibile a Kant, ossia l’assunzione del carattere condizionante del giudizio teleologico rispetto a quello estetico sembra comportare la conseguenza paradossale che allora valutiamo la natura come arte, e dunque che la consideriamo in fondo come qualcosa che essa non è. Proprio una percezione estetica permeata dalla conoscenza sembrerebbe la meno adeguata alla valutazione della natura. Sarà allora nel giudizio di gusto puro, cioè nella valutazione della bellezza libera che noi apprezziamo la natura per ciò che essa è, ossia, appunto, natura? La conclusione s’imporrebbe da sé, se non 52 Kant sembra pensare che vi sia qualcosa come la bellezza di una donna e che essa sia distinta dalla bellezza di un uomo. Si tratta di un’idea molto comune. Nonostante le variazioni nella concezione della bellezza maschile e femminile, che esse siano distinte è un dato considerato ovvio. La base su cui la distinzione poggia è però discutibile. Per molti si tratta di un dato culturale. Dal canto suo Kant sembra dare una base funzionale alla distinzione, sembra cioè pensare che essa poggi su una diversità di funzioni dei sessi. Questo è però solo un aspetto della sua concezione. In essa la bellezza degli esseri umani in relazione al genere è connessa a quella che possono avere come persone. Per questa bellezza ciò che conta non è la finalità della figura in riferimento alla funzione di un ente appartenente a una particolare specie animale, bensì in riferimento all’espressione della moralità (cfr. KU, § 17).

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fosse che Kant sostiene che nelle sue bellezze libere la natura appare arte. Il confronto con il cognitivismo estetico conduce a questa cruciale domanda: che cosa significa considerare la natura come arte e cosa potrebbe significare considerarla, invece, come natura? 6. Le bellezze naturali come cose belle Per rispondere alla domanda posta, vediamo, prima di tutto, come Kant formula la distinzione tra arte e natura. «L’arte – egli scrive – si distingue dalla natura come il fare (facere) dall’agire o effettuare in generale (agere) e il prodotto o la conseguenza della prima si distingue, in quanto opera (opus), dalla seconda, in quanto effetto (effectus)». Kant sembra considerare arte e natura come modi di produzione diversi. Nelle righe immediatamente successive a quelle citate egli chiarisce che a caratterizzare l’arte e a distinguerla dalla natura è la presenza di intenzionalità, ossia il fatto di essere un’attività fondata sulla ragione (KU, § 43, AA V 303/415-417). Se ne evince che valutare la natura come arte vuol dire valutarla come un processo intenzionale; ma cosa vuol dire valutare esteticamente la natura come natura ovvero un oggetto naturale come natura? È possibile dare una lettura forte e una debole della clausola “come natura”53. In una lettura debole dell’espressione, valutare esteticamente la natura come natura vuol dire valutarla senza assumerla sotto il concetto di artefatto o di arte, cioè – nei termini di Kant – di una produzione fondata in una riflessione razionale che pone la rappresentazione di un fine a base della forma dell’oggetto. Una lettura forte dell’espressione “come natura” esige, invece, che la natura ovvero l’oggetto naturale siano valutati sussumendoli sotto il concetto di natura o di qualche tipo particolare di fenomeno naturale. Secondo questa lettura, la descrizione di un oggetto condiziona l’esperienza che ne abbiamo: la consapevolezza che un oggetto è naturale ovvero è un processo causale o l’effetto di un processo causale permea la percezione. Non solo; per la lettura forte dell’espressione “come natura” il fatto che un oggetto sia naturale costituisce un elemento di ciò che si apprezza: fare esperienza di un oggetto come natura è parte integrante del sentimento che esso suscita. Ciò è del tutto plausibile. L’idea può essere considerata una versione debole della tesi cognitivista secondo cui la valutazione estetica di un oggetto è tanto più appropriata quanto più è informata da una conoscenza (scientifica) di che cosa esso sia. Come si è visto, la concezione kantiana della bellezza aderente presenta qualche somiglianza con questa tesi. La somiglianza ha, però, un limite preciso. Il cognitivismo (scientifico) comporta che una 53 Per la formulazione della distinzione mi sono ispirato a M. Budd, The Aesthetic Appreciation, cit., pp. 9-10.

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valutazione non informata da conoscenze, quale può essere quella delle proprietà formali degli oggetti, è meno profonda e appropriata. Kant non accetterebbe questa generalizzazione. Una cosa è ammettere che in certi casi la valutazione estetica sia condizionata dalla conoscenza della natura dell’oggetto, un’altra, ben diversa, è sostenere che questa sia la condizione di ogni valutazione estetica. Non appare plausibile generalizzare la tesi cognitivista. Già nella sua versione debole, cioè nella variante secondo cui la conoscenza che una cosa è natura (e non arte) ne permeerebbe la percezione e l’apprezzamento estetico, essa presta il fianco ad alcune obiezioni. I due seguenti argomenti che riprendo da Nick Zangwill aiutano a chiarire il punto54. Immaginiamo di ammirare dei fiori e che essi siano di plastica o di seta di buona qualità (magari infusi delle giuste fragranze e con le adeguate proprietà tattili). Sarebbero diversi, da un punto di vista estetico, da dei fiori reali? O meglio: il nostro apprezzamento sarebbe diverso? È lecito dubitarne. Ciò non impedisce, tuttavia, di riconoscere che parte del nostro piacere per i fiori deriva dal pensiero che si tratta di enti naturali. Il punto importante è che forse il piacere che si ricava da questo pensiero non è un piacere estetico. Un caso immaginato da Kant conduce a una conclusione simile. Supponiamo che si inganni un amante della bellezza naturale «piantando in terra fiori artificiali […]»; se questi scoprisse l’inganno, scrive Kant, «l’interesse immediato» che egli aveva per quelli che credeva prodotti della natura «sparirebbe subito», ossia sparirebbe il piacere rivolto non solo alla forma, ma anche all’esistenza di quei fiori. Kant sembra scomporre il piacere per la bellezza dei fiori e distinguere in esso una componente connessa al pensiero che «è stata la natura a produrre quella bellezza». È questo pensiero a fondare un interesse immediato per la bellezza ovvero il desiderio che la natura non manchi di essa. Con la scoperta dell’inganno quest’interesse scompare. Kant riconosce però che può restare il «mero giudizio di gusto senza alcun interesse», cioè il puro, libero piacere estetico (KU, § 42, AA V 299/407). Il caso immaginato porta a concludere che il piacere per la bellezza dei fiori non è per i fiori come enti naturali, ma semplicemente per essi come cose belle. Il piacere derivante dal pensiero che si tratta di enti naturali è di altro tipo: potrebbe essere un piacere intellettuale o un piacere per l’esistenza di questi enti55. 54 Cfr. N. Zangwill, Formal Natural Beauty, «Proceedings of the Aristotelian Society», XXI (2001), pp. 209-224, qui pp. 212-213. 55 La discussione di un secondo caso di simulazione – quello del canto di un usignolo – è più complessa (e ambigua). Kant sostiene che, non appena ci si rende conto «che si tratta di un inganno», che tra i cespugli non c’è un usignolo ma un imitatore, «non c’è più nessuno che sopporti di ascoltare quel canto prima ritenuto tanto attraente» e anche il gusto «non può più trovarvi niente di bello». «Deve trattarsi di natura, o noi dobbiamo crederlo, – commenta Kant – perché possiamo prendere un interesse immediato per il bello in quanto tale». Sembra però

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Il secondo argomento di Zangwill invita a considerare il punto di vista di un teista. Per chi crede in un Dio creatore, la natura è un artefatto o un’opera d’arte. Tuttavia non sembra che l’esperienza estetica che della natura ha un credente sia diversa da quella che ne ha un ateo. Se così fosse, l’esperienza del credente dovrebbe cambiare, se egli perdesse la fede e similmente dovrebbe cambiare quella dell’ateo se la acquistasse. Ciò non sembra però plausibile. Non sembra ragionevole pensare che per l’ateo cambierebbe qualcosa, se cominciasse a credere che gli oggetti che giudica belli sono stati intenzionalmente prodotti per il nostro compiacimento da un Creatore; o che cambierebbe qualcosa per il credente, se cominciasse a guardare a quelle che riteneva opere di Dio come ai risultati di una storia naturale in cui, sulla base di caratteristiche pre-esistenti, si sono prodotte strutture funzionalmente adattate all’ambiente56. Ovviamente non intendo dire che per l’uno o per l’altro nulla cambi, ma semplicemente che nulla cambia sul piano estetico. Queste considerazioni danno un minimo di articolazione a un’intuizione di base che molti possono condividere. Mi riferisco alla convinzione che il nostro apprezzamento estetico è diretto agli oggetti semplicemente come cose, non in quanto cose di un certo tipo (esseri viventi, artefatti, ecc.). Che il fiore sia di seta o sia un fiore reale, che sia considerato come ente naturale o come opera di Dio in fondo non fa alcuna differenza esteticamente perché noi lo apprezziamo semplicemente come una cosa bella ovvero per come appare ai sensi. Kant offre un’articolazione teorica a quest’intuizione nell’idea che la bellezza si manifesta nella percezione della forma delle cose, ossia ha a che fare con il modo in cui le proprietà sensibili delle cose sono strutturate in una forma percettiva. È vero che spesso la descrizione che diamo delle cose condiziona la percezione che ne abbiamo. Questo non vuol dire, però, che esse non abbiano proprietà estetiche indipendentemente dal modo in cui le descriviamo. Possiamo considerare i prodotti della natura come che, in questo caso, con l’interesse venga meno anche ogni margine di valutazione estetica. Probabilmente ciò ha a che fare con il fatto che nel canto l’attrattiva si confonde con la forma bella. Nella concezione di Kant le modificazioni della vibrazione acustica, assieme a quelle della luce nel produrre i colori, sono le sole sensazioni che consentano «non solo un sentimento dei sensi, ma anche una riflessione sulla forma di queste modificazioni dei sensi e che contengano così in sé come un linguaggio in cui la natura ci parla e che sembra avere un senso superiore». In questa prospettiva più complessa il canto degli uccelli è visto come un canto che «rivela gioia e contentezza della propria esistenza»; perciò la scoperta che esso è semplicemente imitato lo rende insopportabile (KU, § 42, AA V 302/413-415). 56 Un credente può considerare la natura come un’opera divina senza pensare che essa debba essere spiegata considerando le intenzioni di un Creatore. In fondo gli scopi di Dio sono misteriosi. Forse il credente è però vincolato a una forma piuttosto forte di estetica positiva della natura. Appunto perché considera la natura come un’opera divina, deve ammettere la possibilità di un punto vista da cui essa appaia bella nel suo insieme e nelle sue parti.

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semplici cose, come enti naturali, come viventi, come viventi di una certa specie, ecc. Guardando la natura da punti di vista differenti possiamo cogliere aspetti diversi della sua bellezza. La bellezza di un fiore può essere la bellezza di una mera configurazione formale di elementi visivi così come può essere una bellezza che si manifesta considerando che esso è l’organo di fecondazione della pianta o magari, se è un fiore d’alta montagna, che si tratta di una forma di vita che si sviluppa in un ambiente ostile. Non c’è però alcun motivo per pensare che l’apprezzamento estetico di un ente naturale (o della natura) debba essere di esso come natura (o come un tipo particolare di ente naturale): «una bellezza naturale – scrive Kant – è una cosa bella [ein schönes Ding]» (KU, § 48, AA V 311/437). Credo si possa mantenere quest’intuizione e, nello stesso tempo, ammettere, come fa Kant, che in molti casi la valutazione della bellezza di un particolare naturale possa richiedere che lo si concettualizzi nel modo appropriato. La concezione kantiana mostra di poter conciliare l’esigenza di rispettare l’intuizione del carattere formale della bellezza con quella di riconoscere che a volte la conoscenza gioca un ruolo di condizione nell’apprezzamento di un oggetto. L’idea che si debba categorizzare la natura (scientificamente o come natura) per apprezzarne in modo adeguato la bellezza appare una forzatura. Un’idea del genere non dà conto di quello che sembra il tipo più comune di esperienza estetica della natura, cioè l’esperienza consistente nella semplice risposta emotiva, preteoretica, alla natura come qualcosa di cui si può godere, qualcosa che può suscitare piacere anche in assenza di dati conoscitivi57. A chi sostiene che la bellezza degli enti naturali è condizionata dalle categorie cui li riportiamo sfugge, inoltre, un dato piuttosto importante nell’estetica della natura, sul quale attira l’attenzione Zangwill, e cioè che la natura è ricca di sorprese, presenta forme e processi inattesi che mostrano una bellezza che non ha a che fare con ciò che sappiamo di essi58. Di questo dato si può dar conto solo ammettendo che la natura possa avere una bellezza libera, indipendente da concetti. Sembra tuttavia esserci un elemento di tensione nella concezione kantiana. Essa prevede che, nel momento in cui consideriamo bello un oggetto naturale, esso debba apparirci al contempo come arte (cfr. KU, § 45, AA V 306/425). Sembra così che, mentre non è rilevante, per l’apprezzamento estetico di un oggetto, che esso sia naturale o artistico, una volta che sappiamo che si tratta di natura, esso debba apparirci, nella valutazione estetica, 57 Secondo Paolo D’Angelo il limite saliente del cognitivismo scientifico è dato proprio dal fatto di dissolvere l’estetica della natura nella scienza: venendo a coincidere con un’esperienza di tipo scientifico, non si capisce più cosa sia un’esperienza estetica della natura (cfr. P. D’Angelo, Estetica della natura, cit., pp. 101-102). 58 N. Zangwill, Formal Natural Beauty, cit., pp. 215-216.

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come qualcosa che non è, ossia come arte. Se ne evince che una bellezza naturale non è semplicemente una cosa bella: è una cosa che appare in un certo modo e cioè come arte. Oltre a mettere in discussione la conclusione cui si era giunti, ciò sembra incorporare nella valutazione estetica un fraintendimento della natura della cosa considerata. È un punto da esaminare con attenzione. La mia impressione è che, esprimendosi in questo modo, Kant si limiti a esplicitare una conseguenza della sua concezione della bellezza in termini di finalità. Sostenere che la natura è bella quando appare come arte equivale a dire che i suoi bei prodotti presentano una forma finalistica, che nella loro percezione si riscontra una certa finalità. Dire che una cosa appare come arte non è però considerarla come arte. Considerare un oggetto come arte comporta il riferimento della sua forma a una qualche intenzione, a un fine determinato. Invece, la finalità che si riscontra ad esempio nella percezione di un fiore, per come la valutiamo esteticamente, non è riferita ad alcun fine. Tra questi due modi di considerare la finalità di un oggetto c’è la stessa distinzione che c’è tra un’interpretazione realista e una idealista della finalità. Si tratta di una distinzione cruciale per la concezione kantiana della bellezza naturale. Nel prossimo paragrafo la esporrò brevemente e cercherò di mostrare che l’idealismo adottato da Kant implica che le bellezze naturali siano valutate per quello che sono, cioè come le cose belle che ci circondano. 7. L’idealismo della finalità e la “superficialità” dell’esperienza estetica A caratterizzare l’arte è, come si è accennato, la presenza di un fine nella causa di un prodotto. Chi considera la natura come arte (e gli oggetti naturali belli come oggetti artistici assimilabili ai prodotti dell’arte bella) interpreta realisticamente la finalità che essa esibisce. Adottare un’interpretazione realista della finalità significa appunto pensare che «alla produzione del bello sia stata posta a fondamento un’idea del medesimo nella causa produttrice, cioè un fine in funzione della nostra capacità di giudizio». Kant riconosce che «in favore del realismo della finalità estetica della natura […] parlano a gran voce le belle formazioni nel regno della natura organizzata»: I fiori e le loro corolle, anzi le forme di intere piante, la leggiadria delle formazioni animali di tutti i generi, inutile per il loro proprio uso, ma che pare scelta apposta per il nostro gusto, soprattutto la (per i nostri occhi tanto piacevole e attraente) molteplicità e armoniosa composizione dei colori (nel fagiano, in animali forniti di conchiglia, insetti, fino ai fiori più comuni), i quali, riguardando solo la superficie (e in questa, anzi, neanche la figura delle creature, che magari potrebbe ancor essere richiesta per i fini interni), sembrano essere finalizzati interamente alla contemplazione esterna: tutto ciò dà un gran peso alla maniera di spiegazione che ammette fini effettivi della natura per la nostra capacità di giudizio estetica. (KU, § 58, AA V 347-348/531-533)

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Pur ammettendo che l’interpretazione realista della finalità non manca di una certa plausibilità, Kant la respinge perché non la considera compatibile con il carattere estetico della valutazione del bello. Accettare un realismo della finalità vorrebbe dire assoggettare il giudizio di gusto a principi empirici, a una comprensione di che cos’è la natura; di conseguenza esso non avrebbe a fondamento l’autonomia, «non sarebbe libero», come invece, secondo Kant, «conviene» a tale giudizio (KU, § 58, AA V 350/540). Se il giudizio di gusto è ciò che egli ha descritto, il realismo non è un’opzione disponibile. La “metafisica” del gusto non può essere che un idealismo della finalità. Diversamente dal realismo, l’idealismo ammette la finalità soggettiva «solo come un accordo che si presenta da sé e in modo contingente, senza un fine, in funzione dell’esigenza della capacità di giudizio, riguardo alla natura e alle sue forme prodotte secondo leggi particolari» (KU, § 58, AA V 347/531). Il problema è come opporsi all’appeal del realismo, alla sua plausibilità prima facie. La mossa di Kant merita attenzione. Egli cerca di fornire un contrappeso alla propensione a spiegare in termini teleologici le forme naturali che sembrano scelte apposta per il nostro gusto, indicando dei casi in cui l’origine di forme che giudichiamo belle è spiegabile in termini meccanici. Kant richiama la «notevole tendenza meccanica» che la natura «mostra dappertutto, nelle sue libere formazioni, […] alla generazione di forme che sembrano quasi esser fatte per l’uso estetico della nostra capacità di giudizio» (KU, § 58, AA V 347-348/531-533). Quelle che il filosofo chiama «libere formazioni» sono appunto formazioni non prodotte sulla base di uno scopo. Egli pensa in particolare alla formazione dei cristalli. Molte cristallizzazioni minerali «danno spesso figure straordinariamente belle quali solo l’arte potrebbe inventare» (KU, § 58, AA V 349/537) e tuttavia, osserva Kant, non offrono «il minimo fondamento» per supporre che occorra qualcosa di più del meccanismo della natura, «semplicemente come natura, perché esse possano essere finalistiche per la nostra valutazione» (KU, § 58, AA V 348/533). Le libere formazioni della natura sembrano così fornire un punto d’appoggio oggettivo per l’idealismo della finalità59. L’esempio scelto da Kant riguarda la natura inorganica e ciò conferisce una certa plausibilità all’idea della produzione “meccanica” di forme belle. Inoltre, i cristalli sembrano esemplificare in modo ottimale il formalismo implicito nell’idea di bellezza libera. Kant cerca, però, di estendere la sua 59 Sull’importanza del § 58 attirano l’attenzione R. Brandt, Die Schönheit der Kristalle und das Spiel der Erkenntniskräfte, in Kant-Forschungen, vol. V, hrsg. von R. Brandt und W. Stark, Meiner, Hamburg 1994, pp. 19-57; A. Rueger, Kant and the Aesthetics of Nature, «British Journal of Aesthetics», XLVII (2007), pp. 138-155, qui pp. 149-155 e Id., Beautiful Surfaces, cit., pp. 544-548.

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concezione della finalità anche agli organismi viventi, cioè agli enti organizzati che dobbiamo valutare teleologicamente come fini naturali. Come si è visto, egli sottolinea che, riguardo a questi enti, la natura non è semplicemente valutata per il suo apparire arte, bensì come una forma (sovrumana) di arte (cfr. KU, § 48, AA V 311/439) perché nella conoscenza degli organismi assumiamo che essi siano formati «secondo una certa disposizione originaria tendente a fini»60. Tuttavia, anche in questo caso sembra che la nozione di libera formazione possa trovare applicazione perché, quando giudichiamo la bellezza di un organismo, ciò che consideriamo è semplicemente la superficie che offre alla vista (cfr. KU, § 65, AA V 375/599). Scrive al riguardo Kant: senza togliere niente al principio teleologico della valutazione dell’organizzazione, si può ben pensare che, per quel che concerne la bellezza dei fiori, delle piume degli uccelli, delle conchiglie, sia per la loro forma sia per il loro colore, essa possa venire attribuita alla natura in quanto essa, nella sua libertà, senza fini particolari tendenti a ciò, è capace, secondo leggi chimiche, togliendo della materia richiesta per l’organizzazione, di formarsi anche in modo esteticamente finalistico. (KU, § 58, AA V 349-350/537-539)

Il passo lascia intendere che gli aspetti esterni degli organismi possono formarsi in modo «esteticamente finalistico» secondo il semplice meccanismo naturale. Forse non è un caso che gli esempi addotti siano gli stessi usati per illustrare la nozione di bellezza libera. Come si è visto, quando valutiamo un oggetto come bellezza libera, giudichiamo secondo ciò che abbiamo «davanti ai sensi». Kant offre ora una base sostanziale a un modo di giudicare che potrebbe apparire non appropriato in relazione a prodotti della natura come i fiori e gli uccelli, che sono compresi mediante il concetto di fine61. Egli sottolinea che, quando consideriamo la bellezza di un or60

Benché, quando si guarda agli organismi, si sia portati a considerare la natura «un analogo dell’arte», l’analogia, osserva Kant, non coglie la «proprietà insondabile», che la natura mostra in questi suoi prodotti, di organizzarsi «da sé» perché fa pensare «all’artista (un ente razionale) al di fuori di essa» (KU, § 65, AA V 374/597). 61 Formulando la distinzione tra bellezza libera e aderente, Kant mette anche in luce il motivo di certe difformità di giudizio. Egli mostra che in certi casi – ad esempio quelli di oggetti con un fine determinato – non c’è un genuino contrasto perché i giudizi opposti sono l’uno un giudizio di gusto puro e l’altro un giudizio di gusto applicato e dunque uno concerne la bellezza libera, l’altro la bellezza aderente (cfr. KU, § 16, AA V 231/223). In effetti, per come Kant concepisce il giudizio di gusto, non sembra esserci spazio per genuini contrasti. Oltre a quello appena ricordato, vi è un altro caso in cui un apparente conflitto tra giudizi di gusto è in realtà un contrasto tra giudizi di tipo diverso. Si tratta del caso in cui uno dei giudizi in conflitto non è un giudizio di gusto bensì un giudizio del gradevole o del buono. Può accadere che una delle parti in conflitto creda di valutare l’oggetto sulla base di un piacere senza interesse, mentre in realtà non è così. Una volta escluso che un disaccordo di valutazione dipenda da differenze nella rappresentazione dell’oggetto dovute a difetti percettivi di uno dei giudicanti o a diversità nelle condizioni di osservazione, possono, dunque, darsi solo due ragioni di contrasto: o i giudizi in conflit-

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ganismo, ciò che consideriamo è la superficie che esso presenta alla vista, ossia focalizziamo l’attenzione su una parte dell’ente i cui aspetti esteticamente rilevanti sono spiegabili in termini di causalità meccanica. Per restare all’esempio kantiano, se guardiamo agli uccelli come a degli organismi non possiamo non porre un giudizio teleologico a fondamento di quello estetico e perciò la bellezza che attribuiremo sarà una bellezza aderente. Se però guardiamo alle loro piume ovvero alla loro superficie esterna, la nostra attenzione è rivolta ad aspetti della forma «diversi dall’organizzazione “interna” dell’organismo e dunque separati dalle caratteristiche che qualificano l’oggetto come un fine naturale»62. È esattamente quanto fa il botanico di Kant, quando formula un giudizio di gusto puro: egli si attiene alla “superficie” del fiore, a ciò che esso offre alla vista, e astrae dal concetto dell’oggetto come fine naturale, ossia astrae dalla funzione del fiore. Rimarcando che la nostra attenzione spesso va alla superficie dei prodotti naturali, Kant coglie un aspetto fondamentale della comune esperienza estetica della natura ovvero il fatto che essa è prima di tutto esperienza di ciò che semplicemente si presenta ai sensi. Ordinariamente attribuiamo bellezza agli oggetti naturali «solo in riferimento alla riflessione sulla loro intuizione esterna, e dunque solo per la forma della superficie» (KU, § 65, AA V 375/599). La natura, considerata esteticamente, è lo spettacolo che si mostra agli occhi e l’esperienza della sua bellezza è l’esperienza del modo in cui essa ci appare nel sul suo “esser-lì”, davanti a noi (o intorno a noi). La cosa curiosa è che, proprio quando giudichiamo gli oggetti naturali per la forma che presentano all’intuizione esterna, magari senza esserne consapevoli consideriamo realmente la natura per ciò che essa è, cioè natura e non arte, perché tale forma è un mero prodotto “meccanico”63. to sono entrambi giudizi di gusto, ma la bellezza che considerano è di tipo diverso; oppure uno dei giudizi è formulato su una base illegittima, cosicché il disaccordo è solo apparente. Kant non sembra ammettere altre fonti di conflitto oltre a queste. I contrasti cui esse danno luogo non sono però genuini contrasti di giudizio, cioè contrasti in cui una delle parti è in errore. Possiamo sbagliarci sulla natura del nostro giudizio, ma non formulare un giudizio di gusto sbagliato. Per una discussione della questione cfr. W. Wieland, Urteil und Gefühl, cit., pp. 240-257. 62 A. Rueger, Beautiful Surfaces, cit., p. 546. 63 L’apprezzamento estetico, potremmo dire, è per le apparenze. Quando valutiamo un organismo come una bellezza libera, ne consideriamo soltanto una parte, ossia la sua superficie, ciò che esso offre alla vista. Se invece lo consideriamo come un tutto, la valutazione estetica è sottoposta alla restrizione dell’accordo con un giudizio teleologico, cioè con una valutazione del modo in cui la cosa, come fine, realizza il concetto che «deve determinare a priori tutto ciò che dev’essere contenuto in essa» (KU, § 65, AA V 373/593). In questo caso l’attribuzione della bellezza è condizionata da una conoscenza dell’oggetto. Se poi fossimo condotti a pensare al processo di formazione che in qualche modo spiega l’ente, e da ciò sorgesse in noi un piacere, probabilmente non si tratterebbe più di un piacere estetico. L’oggetto di questo piacere, non semplicemente condizionato, ma derivante dalla conoscenza, non sembra più essere la bellezza della cosa.

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Riassumiamo. Abbiamo sostenuto che la tesi di Kant che la natura è bella quando appare come arte è un modo per affermare la finalità che si riscontra nella percezione delle forme belle. Secondo Kant il piacere per il bello è una rappresentazione estetica della finalità (cfr. KU, Einl. VIII, AA V 192/129). Come si è visto, è per questo che l’esperienza della bellezza indipendente della natura ci porta a considerare la natura come «qualcosa di analogo all’arte» (KU, § 23, AA V 246/261-263). A volte la natura è però considerata realmente arte. Ciò accade in particolare quando si guarda alla forma e alla struttura dei suoi prodotti secondo il concetto di un fine. In questi casi un giudizio teleologico «serve all’estetico da fondamento e condizione di cui esso deve tener conto». Ciò che conferisce a un oggetto la natura di fine non è, però, sempre manifesto a chi considera semplicemente le apparenze dell’oggetto. Questo non vuol dire che un giudizio di gusto diretto alla forma esterna delle cose non sia appropriato. Per attribuire bellezza a un fiore o a un uccello non occorre categorizzarli come enti naturali o come viventi o in qualche altro modo. Lo stesso può dirsi degli artefatti. In molti casi essi possono essere considerati sia come bellezze libere sia come bellezze aderenti. Il modo di considerare le cose non è, tuttavia, arbitrario. Spesso gli oggetti pongono dei vincoli. La possibilità dell’operazione di “astrazione” adombrata nel passo del botanico dipende dalla misura in cui l’esterno e l’interno sono collegati ovvero dalla misura in cui lo scopo o la funzione del tutto è connesso alla natura della superficie. In alcuni casi tale connessione è più stretta che in altri e dove è più stretta risulta più difficile, nella valutazione della bellezza, separare forma e funzione. Perciò a volte è importante che una conoscenza delle cose permei la percezione che ne abbiamo. Kant sembra, tuttavia, assegnare un significato primario all’esperienza della bellezza che si ha nel rapporto immediato, “ingenuo” alle cose. È, infatti, allora che il senso che la penetra si fa più trasparente. Di un senso, infatti, facciamo esperienza nella bellezza delle cose. 8. La bellezza come espressione di idee estetiche Più volte si è sottolineato che, per Kant, l’esperienza della bellezza naturale è l’esperienza di forme che presentano una finalità soggettiva, ossia di forme che si accordano col libero gioco delle nostre facoltà conoscitive. Anche le opere dell’arte hanno questa caratteristica, ma l’arte bella è un’attività intenzionale (cfr. KU, § 44), ossia è una produzione di oggetti con il fine di suscitare un piacere nella mera valutazione della forma. Nel caso della natura la predeterminazione alla capacità di giudizio non è intenzionalità. La concordanza dell’oggetto con la capacità di giudizio è «contingente» e appunto per questo essa ha «come effetto» la rappresentazione di una finalità dell’oggetto riguardo alle nostre facoltà (KU, Einl. VII, AA V 190/123). È il

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motivo per cui Kant sostiene che la natura è bella quando ci appare «al contempo» come arte. Curiosamente, per quanto riguarda l’arte egli inverte in qualche modo il rapporto e sostiene che l’arte «può essere detta bella soltanto quando noi siamo consapevoli che è arte, ma essa ci appare come natura» (KU, § 45, AA V 306/425). I dettagli della tesi kantiana sono assai intriganti, ma non occorre occuparcene. In questa sede essa interessa perché aiuta a portare in luce il dato teorico rilevante del valore espressivo della bellezza. È importante cogliere l’idea che Kant intende esprimere con la tesi ricordata. Si tratta dell’idea che la finalità della forma in un oggetto artistico deve apparire «libera da ogni costrizione di regole» (KU § 45, AA V 306/425). Sostenendo che l’arte per essere bella deve apparire come natura, egli cerca di rendere compatibili due ordini di condizioni contrastanti: quelle della produzione artistica e quelle del giudizio di gusto. L’arte presuppone regole sul fondamento delle quali possono essere rappresentati come possibili i suoi prodotti, ma il giudizio sulla bellezza di questi ultimi non può essere derivato da tali regole. L’arte bella mira al sentimento di piacere, produce secondo un fine preciso e in base a regole i suoi oggetti, tuttavia la finalità della forma degli oggetti d’arte deve apparirci come se essi fossero «un prodotto della mera natura». Ogni intenzionalità deve essere, per così dire, cancellata dalla loro superficie: «la finalità nel prodotto dell’arte bella, benché sia intenzionale, deve sembrare non intenzionale; vale a dire, l’arte bella deve poter essere guardata come natura, benché si sia consapevoli che è arte» (KU, § 45, AA V 306-307/425). Kant affida al concetto del genio il compito di mediare queste opposte esigenze. Ora, nella sua concezione, il genio, più che nella realizzazione di un oggetto conforme al concetto di ciò che esso deve essere, si rivela nell’espressione di «idee estetiche» (KU, § 49, AA V 317/455). Così Kant chiama le rappresentazioni dell’immaginazione che, pur essendo associate a un concetto, eccedono quanto è richiesto per la sua esibizione (cfr. KU, § 49). Grazie a tali idee, in quello che è un prodotto secondo regole si ricreano le condizioni della libertà dell’immaginazione. Kant sostiene che nell’espressione di idee estetiche il genio «dà rappresentazione all’immaginazione nella sua libertà da ogni direttiva mediante regole e tuttavia nella sua finalità per l’esibizione del concetto dato» (KU, § 49, AA V 317/455). La situazione è speculare a quella dell’apprensione di un oggetto naturale. Nell’intuizione l’immaginazione risulta legata non al concetto dell’oggetto da realizzare, bensì alla forma determinata dell’oggetto dato. Essa non è, dunque, libera come quando crea forme di intuizioni possibili; tuttavia, sostiene Kant, l’oggetto può presentare una forma, una configurazione dei sui aspetti sensibili, quale essa stessa «progetterebbe, in accordo con la legalità dell’intelletto in generale, qualora venisse lasciata libera a se stessa» (KU, All. Anm., AA V 241/247). Sempre, quando un oggetto è dato, l’immaginazione è messa in a-

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zione per la composizione del molteplice intuito. Kant sembra pensare che vi siano però casi in cui l’immaginazione riceve una forma che avrebbe potuto progettare spontaneamente essa stessa in vista dell’esibizione di un concetto dell’intelletto non ancora determinato e dunque senza essere «sotto la costrizione» di un concetto, ma solo in accordo con il compito dell’intelletto di dare unità sintetica, nel concetto di un oggetto, al molteplice appreso. In questi casi, secondo una suggestiva espressione di Kant, «l’immaginazione nella sua libertà risveglia l’intelletto e questo senza concetti traspone l’immaginazione in un gioco regolare» (KU, § 40, AA V 296/397). Tanto nel caso dell’apprensione di un oggetto, dove l’immaginazione è legata a una forma data, quanto in quello della produzione, dove è invece legata a un concetto determinato, Kant mostra che può realizzarsi la libertà dell’immaginazione richiesta per il libero gioco delle capacità conoscitive. Nel caso dell’arte ciò avviene se la rappresentazione che l’immaginazione fornisce per il concetto dato è tale che «l’intelletto, mediante i suoi concetti, non raggiunge mai l’intera intuizione interna dell’immaginazione» (KU, § 57 Anm. I, AA V 343/521): quest’ultima allora, scrive Kant, fa pensare, «in aggiunta a un concetto, molto d’ineffabile, il cui sentimento vivifica le facoltà conoscitive» (KU, § 49, AA V 316/451). Nel caso di un oggetto naturale, invece, la libertà dell’immaginazione si realizza, se la forma data è percepita come una forma che essa stessa avrebbe potuto creare in accordo con l’intelletto. La bellezza della natura e quella dell’arte hanno entrambe una condizione base nella libertà dell’immaginazione. Kant appare impegnato a conservare l’intuizione che una cosa bella e la bella rappresentazione di una cosa (ad esempio un dipinto) possono essere giudicate belle nello stesso modo: «possiamo dire, con una formula universale, valida sia per la bellezza della natura sia per quella dell’arte: bello è ciò che piace nella mera valutazione» (KU, § 45, AA V 306/425)64. 64 L’affermazione sembra confermare che per il giudizio di gusto non conta la natura dell’oggetto, ma semplicemente ciò che si ha davanti, che si presenta ai sensi. Con ciò non è tuttavia cancellata ogni differenza tra la bellezza naturale e quella artistica. Kant sostiene che mentre la valutazione della bellezza naturale «richiede solo il gusto», nella valutazione della bellezza artistica bisogna invece tener conto che la sua possibilità «richiede il genio» (KU, § 48, AA V 311/437). La bellezza artistica sembra risultare da due fattori: la conformità al gusto e l’espressione di idee estetiche (cfr. C. Janaway, Beauty in Nature, Beauty in Art, «British Journal of Aesthetics», XXXIII (1993), pp. 321-332). L’osservazione di Kant che un’opera, in cui non si trova «niente da biasimare per quanto riguarda il gusto», può tuttavia non essere soddisfacente (KU, § 49, AA V 313/443), attesta appunto che la valutazione di un oggetto come opera d’arte può richiedere la considerazione di elementi ulteriori rispetto alla piacevolezza della forma. Il passo citato nel testo non si concilia facilmente con l’ammissione che la valutazione della bellezza artistica richiede la considerazione di fattori che la valutazione di quella naturale non contempla. Probabilmente esso fa riferimento alla pura valutazione estetica, la quale ha nella semplice riflessione sulla forma dell’oggetto appreso il momento fondamentale. E forse Kant

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Ora, la prospettiva di una concezione unitaria della bellezza è riproposta anche alla luce della nozione di idea estetica: Si può chiamare in generale la bellezza (sia poi bellezza naturale o artistica) l’espressione di idee estetiche: solo che nell’arte bella quest’idea deve venire occasionata da un concetto dell’oggetto, mentre nella natura bella la mera riflessione su un’intuizione data, senza concetto di ciò che l’oggetto dev’essere, è sufficiente per risvegliare e comunicare l’idea di cui quell’oggetto è considerato come espressione. (KU, § 51, AA V 320/461)

Kant presenta le idee estetiche come rappresentazioni dell’immaginazione che «tendono a qualcosa che si trova al di là del limite dell’esperienza» e così si avvicinano «a un’esibizione dei concetti della ragione» (KU, § 49, AA V 314/445). Per questo, pur trattandosi di intuizioni, egli parla di idee. Nella concezione di Kant le opere d’arte – soprattutto le opere della poesia e della pittura – danno «forma sensibile a idee della ragione» (KU, § 49, AA V 314/445), riguardano temi significativi per la nostra vita morale e il nostro destino. Secondo il passo appena citato, anche un oggetto naturale può, però, esprimere un’idea estetica. Non è semplice capire come ciò avvenga. Kant sostiene che le bellezze libere della natura «di per sé non significano niente: non rappresentano niente» (KU, § 16, AA V 229/219). Come può la bellezza non rappresentare niente ed esprimere idee estetiche? Una bellezza libera – la bellezza di un colibrì poniamo – non rappresenta niente nel senso che ad essa non corrisponde «alcun oggetto sotto un concetto determinato» (KU, § 16, AA V 229/219). Possiamo pensare che questa indeterminatezza basti per riconoscere in un’intuizione l’espressione di un’idea estetica? In effetti, l’indeterminatezza concettuale della bellezza è piuttosto particolare. Come si è visto, la bella forma di un oggetto dato è una forma che l’immaginazione stessa avrebbe potuto creare in accordo con l’esibizione di un concetto, senza che sia però determinato di che concetto si tratti (cfr. EEKU, VII, AA XX 220-221/98). Ciò significa che l’oggetto bello è appreso come caratterizzato da una forma che presenta una finalità non tanto (o non solo) all’esibizione di un concetto determinato quanto al compito dell’intelletto di dare unità sintetica al molteplice nel concetto d’un oggetto. Si potrebbe pertanto dire che la bellezza naturale suscita l’idea della predeterminazione delle cose per la nostra contemplazione. Kant lo afferma esplicitamente: «possiamo considerare la bellezza della natura come esibizione [Darstellung] del concetto della finalità formale (solo soggettiva)» (KU, Einl. VIII, AA V 193/131). Ora, tale concetto non è un concetto

pensa che difficilmente un’opera risulti esteticamente significativa se non corrisponde anche al gusto, benché questa corrispondenza possa non bastare (cfr. KU, §§ 47-48). La bellezza può avere gradi e l’esperienza estetica livelli diversi di ricchezza e complessità.

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determinato dell’intelletto; è, invece, un aspetto della nostra idea razionale del soprasensibile (cfr. KU, § 57 Anm. II, AA V 346/529). E dato che la resa sensibile di idee della ragione avviene grazie ai processi dell’immaginazione che danno luogo a idee estetiche, si può capire perché Kant consideri anche la bellezza naturale espressione di idee estetiche. È banale osservare che nella natura l’esibizione di contenuti ideali non avviene con la ricchezza, la complessità, e la varietà di temi che sono proprie dell’arte. Nondimeno, appunto perché non si realizza sulla base di un’attività intenzionale, la potenzialità “espressiva” della natura ha un’importanza fondamentale per Kant. Egli pensa che la natura ci parli figurativamente nelle sue belle forme. Vorrei dire qualcosa, conclusivamente, su quest’aspetto piuttosto speculativo della concezione kantiana. Prima, però, accennerò a un’ultima peculiarità che la caratterizza. 9. Fiori e vedute È curioso che, quando considera la bellezza della natura, Kant parli, per lo più, di singoli prodotti naturali; raramente egli parla di paesaggi o vedute. Se si escludono i cristalli, gli esempi di bellezza naturale preferiti da Kant sono enti appartenenti al mondo organico: piante, fiori, uccelli e le creature del mare. Ciò è perfettamente comprensibile data la natura singolare del giudizio di gusto. Essa implica che la bellezza sia una qualità degli individui. I giudizi di gusto, scrive Kant, sono singolari, «perché essi collegano il loro predicato del compiacimento non con un concetto, ma con una rappresentazione empirica singolare data» (KU, § 37, AA V 289/381). Come si è detto, il riconoscimento dell’oggetto non è importante. Immaginiamo che a una persona priva di conoscenze nel campo della botanica capiti di vedere, nel corso di una passeggiata, un oggetto colorato tra l’erba di un prato. Potrebbe trattarsi di un fiore o di qualcos’altro. Ella cerca di mettere a fuoco l’oggetto senza arrivare però a identificarlo come un fiore, un fiore di un certo tipo o magari un artefatto. Supponiamo che mentre è impegnata nell’attenta osservazione dell’oggetto, si trovi però a provare piacere per le sue apparenze, un piacere che la porta a dire: «Qualunque cosa sia, questo è bello»65. Un giudizio di gusto non richiede un’identificazione concettuale; basta che l’oggetto su cui verte sia almeno distinto in termini dimostrativi66. 65

L’esempio è ispirato a C. Janaway, Beauty in Nature, cit., p. 329. Va da sé che il carattere non concettuale del giudizio di gusto non comporta che si faccia astrazione dal riconoscimento del tipo di cosa che giudichiamo bella. L’idea è che il riconoscimento non sia determinante. Tuttavia, esso può essere importante almeno nella misura in cui la natura dell’oggetto è rilevante per la riflessione da cui sorge il sentimento di piacere. Può essere importante, ad esempio, che un oggetto sia riconosciuto come prodotto naturale o come opera d’arte. 66

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Perché ciò sia possibile, l’oggetto deve però avere un’individualità. Alberi, uccelli e fiori hanno un’individualità perché hanno confini posti dalla loro stessa natura: essi possono essere isolati da ciò che li circonda ed essere percepiti come tali. Lo stesso si può forse dire dei giardini, che pure rientrano fra gli esempi di Kant, e del prato «intorno al quale gli alberi stanno in cerchio» che egli immagina di trovare nella foresta (KU, § 15, AA V 227/213). Una veduta presenta, invece, criteri d’identità incerti67. Questo non vuol dire che non possa essere considerata bella, anche se quel accade nella contemplazione di una veduta è del tutto particolare. Kant lo descrive nel modo seguente: Si devono distinguere gli oggetti belli dalle belle vedute di oggetti (che assai spesso non sono più riconoscibili distintamente per la lontananza). In queste ultime il gusto sembra preso non tanto da ciò che l’immaginazione in questo campo apprende, quanto piuttosto da ciò che essa è qui stimolata a figurarsi, ossia dalle vere e proprie fantasie con cui l’animo s’intrattiene, venendo risvegliato continuamente dalla varietà su cui cade l’occhio. (KU, All. Anm., AA V 243/255)

Le cose che compongono una veduta possono anche non essere belle e tuttavia la veduta risulta bella se nel loro insieme esse sono attraenti per l’immaginazione perché intrattengono il suo libero gioco. Ma che cosa definisce una veduta? Un albero, come (per lo più) un’opera d’arte, è un ente discreto, fisicamente limitato, cosicché è abbastanza chiaro che cosa sia parte di esso e che cosa non lo sia. Se però consideriamo un gruppo di alberi – ad esempio dei larici –, la situazione si complica. Possiamo considerarli singolarmente, ognuno per sé, oppure in qualche combinazione. Magari possiamo anche estendere il raggruppamento alle rocce che si vedono poco sopra i larici o al laghetto nel prato poco più a valle. La natura non sembra indicare un modo intrinsecamente corretto di “incorniciare” i suoi elementi, perciò, in modo un po’ arbitrario, raggruppiamo noi stessi le cose individuali, selezioniamo un loro insieme come oggetto di valutazione. Secondo il passo appena citato la bellezza di una veduta non ha a che fare con quanto l’immaginazione apprende, cioè con la forma degli oggetti, ma con ciò che essa si figura, con la varietà «su cui cade l’occhio». Sembra difficile ricondurre una veduta a una forma determinata. In una veduta la natura è considerata piuttosto come una fonte di scene differenti: l’occhio cade ora su certi oggetti, ora su altri, “incornicia” di volta in volta diverse porzioni di mondo e ciò intrattiene l’immaginazione in un libero gioco. Poiché l’attribuzione di bellezza alla veduta dipende fondamentalmente da quest’attività soggettiva, l’apprezzamento estetico non è in senso stretto degli oggetti. La bellezza di una veduta sembra in qualche modo “imposta” dal soggetto. Certo la nozione di paesaggio è più sostanziale di quella di veduta (o di panorama); essa allude al 67

Cfr. R. Scruton, Beauty, Oxford University Press, Oxford 2009, p. 60.

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costituirsi in immagine – in un’immagine apprezzabile da parte di un osservatore – di una porzione di territorio68. Kant non sembra aver presente questa nozione. Il suo discorso oscilla tra la considerazione della bellezza della natura nella sua totalità e quella della bellezza del singolo ente naturale69. Tornando al passo citato, Kant sembra intuire che una parte importante del valore estetico della natura è dato dalla ricchezza percettiva che essa offre. Esso stimola, però, anche una riflessione su un problema piuttosto serio per l’estetica della natura. Ne è un sintomo il riferimento alla «varietà su cui cade l’occhio». Come si è detto, in una veduta possiamo raggruppare in modi diversi ciò che si offre alla vista. Il problema è che, se la bellezza di una porzione di mondo dipende dal modo in cui raggruppiamo le cose, essa non può essere che una proprietà molto volatile. Immaginiamo che poco più in là del gruppo di larici vi sia uno smottamento del terreno. Che cosa accade se lo integriamo nella veduta? La veduta perderà la sua bellezza? Sembra ragionevole supporre che, se la natura ha proprietà estetiche, le abbia comunque la si incornici. Mutando la cornice, possono però variare le proprietà da cui la bellezza dipende. Può darsi che anche il complesso costituito dal gruppo di larici e dalla frana abbia una sua bellezza; ma se è bello, lo è in virtù di proprietà diverse da quelle per cui è bello il complesso costituito dai larici e dal laghetto. Secondo Nick Zangwill dobbiamo accettare che la natura sia esteticamente complessa, che le proprietà dei vari insiemi di cose si combinino organicamente per generare quella che può essere la bellezza del tutto. Questa considerazione può trasmettere un senso di arbitrarietà. Non è chiaro se, quando vediamo un angolo di mondo, un insieme di elementi naturali come un individuo, siamo noi a isolarlo, a tracciare per esso dei contorni che lo definiscano, oppure se semplicemente isoliamo nel pensiero una certa combinazione di cose che esiste indipendentemente dalla nostra scelta. Se si ammette che le combinazioni di cose esistono per sé, allora, sostiene Zangwill, esistono anche le proprietà estetiche che esse determinano e ci si può aspettare che le variazioni nel modo in cui incorniciamo una porzione di natura non determinino una fluttuazione della sua bellezza70. 68

Cfr. P. D’Angelo, Estetica della natura, cit., pp. 115-168. Si potrebbe tuttavia osservare che, nella misura in cui si comprende il paesaggio come una porzione di natura percepibile unitariamente e dunque come un’individualità, la concezione kantiana della valutazione estetica risulta applicabile anche a esso. 70 Cfr. N. Zangwill, Formal Natural Beauty, cit., pp. 219-220. In modo ben diverso interpretano la questione della cornice Allen Carlson e Glenn Parsons. Essi ritengono che essa comporti un riconoscimento della scarsa rilevanza, nella valutazione estetica della natura, delle proprietà formali (cioè della bellezza libera). Secondo la loro concezione tali proprietà sono in sé indeterminate, perché dipendono dal modo in cui si incornicia una porzione dell’ambiente naturale. Cfr. G. Parsons and A. Carlson, New Formalism and the Aesthetic Appreciation of Nature, «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», LXII (2004), pp. 363-376. 69

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Questa convinzione può essere rinforzata dall’adozione di una moderata estetica positiva, ossia della tesi che la natura è, nel suo insieme, bella. Forse una tesi del genere appartiene alle intuizioni profonde di molti noi71. Spesso parliamo della bellezza della natura o del creato, benché la nostra esperienza sia per lo più limitata a parti del mondo e benché non tutti gli enti naturali, e comunque non in ogni fase della loro esistenza, o a qualsiasi livello di osservazione, siano esteticamente apprezzabili. Anche Kant sembra aver fatta propria quest’idea. Nella teleologia egli parla dello «splendido palcoscenico» (KU, § 67, AA V 380/613) della natura72, suggerendo che la natura sia bella non solo in alcuni dei suoi prodotti, bensì nel suo complesso. Che cosa lo porta a sostenere che la natura è, nel suo insieme, bella, pur ammettendo che gli oggetti naturali non hanno tutti lo stesso valore estetico, che la natura può presentare anche cose brutte o che suscitano disgusto (cfr. KU, § 48)? Non c’è qui un trasferimento arbitrario di un predicato dalle parti al tutto? Forse il salto è almeno parzialmente giustificato dal corso di pensieri che l’esperienza della bellezza di un particolare fiore, di un monte o di un uccello occasiona ovvero dal significato che, secondo Kant, possiamo attribuire alla bellezza naturale. 10. La bellezza della natura e i fini della ragione L’esperienza della bellezza della natura è essenzialmente l’esperienza di una particolare corrispondenza del contenuto di un’intuizione sensibile con l’esigenza di unificarlo nel concetto di un oggetto. Si tratta di una corrispondenza inattesa, del tutto contingente; essa non ha il carattere della casualità, ma neppure quello dell’intenzionalità: «nei suoi prodotti belli», sostiene Kant, la natura «si manifesta come arte […] e come finalità senza un fine» (KU, § 42, AA V 301/411). Essi sembrano preordinati per il libero gioco delle nostre capacità conoscitive. L’esperienza della bellezza ci offre così una particolare prospettiva sulla natura, quella, cioè, della sua conformità a tali capacità. Si potrebbe dire che la bellezza di fiori, uccelli, montagne, ecc. esemplifica l’idea che la natura è ordinata in vista di noi, delle nostre esigenze conoscitive.73 Kant stesso autorizza questa interpretazione. Si legge in una Reflexion dal tono molto oggettivistico: «Le cose belle indicano che l’uomo si accorda col mondo» (Refl 1820, AA XVI 127). Le cose belle sembrano attestare il vigere di una sorta di principium convenientiae tra la natura e la ragione; esse fanno 71 Le difficoltà di un’estetica positiva della natura sono messe in luce da M. Budd, The Aesthetic Appreciation, cit., pp. 97-106. 72 Cfr. R. Brandt, Die Bestimmung des Menschen, cit., pp. 412-413 al quale devo questa citazione. 73 Cfr. A. Savile, Aesthetic Reconstructions: The Seminal Writings of Lessing, Kant and Schiller, Blackwell, Oxford 1987, pp. 182-184.

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apparire comprensibile il mondo, la natura in generale, rendendo quasi sensibile un principio – quello di finalità – senza il quale «l’intelletto non potrebbe ritrovarsi» nella natura (KU, Einl. VIII, AA V 193/131). Nella concezione di Kant l’esperienza della bellezza naturale concerne fondamentalmente l’incontro dell’uomo con la natura che lo circonda. La percezione della forma bella, osserva Reinhard Brandt, trasporta l’animo in una situazione armonica che notifica al contempo un’armonia con la natura, ovvero la presenza di una natura che si accorda con le nostre capacità conoscitive74. Scrive al riguardo Kant: Si ha, secondo principi trascendentali, un valido fondamento per supporre una finalità soggettiva della natura, nelle sue leggi particolari, rispetto a quanto può cogliere l’umana capacità di giudizio e rispetto alla possibilità della connessione delle esperienze particolari in un sistema della natura stessa; e così possiamo poi aspettarci come possibili, fra i tanti suoi prodotti, anche quelli che, come se fossero fatti apposta per la nostra capacità di giudizio, contengono una forma specifica (ad essa adeguata) tale che essi, con la loro molteplicità e unità, quasi servono a rafforzare e a intrattenere le capacità dell’animo (che sono in gioco nell’uso di queste facoltà): prodotti ai quali si attribuisce pertanto il nome di forme belle. (KU, § 61, AA V 359/559)

Il discorso di Kant, come sappiamo, non si ferma qui. Egli assume che la bellezza valga solo per gli uomini. Perciò non può non chiedersi quale sia il significato di questo apparire della natura, nelle sue belle forme, ordinata in vista di noi75. La risposta non può venire che dalla morale. Kant pensa che, quando osserviamo negli oggetti una finalità della forma, tendiamo a dare un contenuto a tale finalità, ossia tendiamo a porle a fondamento un fine e poiché «esteriormente non lo troviamo da nessuna parte lo cerchiamo naturalmente in noi stessi, e precisamente in ciò che costituisce il fine ultimo della nostra esistenza, cioè nella destinazione morale» (KU, § 42, AA V 310/411). Che cosa può voler dire questo? Kant muove dal fatto che dobbiamo realizzare nella natura il fine della nostra esistenza e perciò abbiamo un legittimo interesse per la realtà oggettiva delle idee morali. Come si è visto, egli suggerisce che alla luce di quest’interesse possiamo interpretare la bellezza come un «cenno» che la natura ci dà di contenere un «fondamento» per ammettere un accordo dei suoi prodotti col nostro piacere libero (KU, § 42, AA V 300/409-411). Potremmo allora considerare le cose belle come una sorta di pegno dell’accordo della natura 74

Cfr. R. Brandt, Die Bestimmung des Menschen, cit., pp. 418-419. L’esperienza della bellezza della natura stimola la ricerca di significato per ciò che ci circonda. Proprio perché le forme belle mostrano di accordarsi al compito delle nostre capacità conoscitive, osserva Kant, «si possono sollevare, riguardo al bello della natura, diverse questioni concernenti la causa di questa finalità». Ad esempio, ci si può chiedere perché la natura «sia stata così prodiga nel diffondere dappertutto bellezza» (KU, § 30, AA V 279/353). 75

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con le nostre esigenze conoscitive e morali. Per Kant il significato della bellezza delle cose è in fondo questo: essa ci porta a vedere il mondo come un luogo in cui le nostre capacità e le nostre aspirazioni possono trovare conferma e incoraggiamento76. La bellezza ci riconduce nella natura di cui siamo parte, ci trasmette un senso di appartenenza alla natura, ci rassicura nel nostro bisogno di sentire che la natura è il luogo in cui siamo “a casa”77. L’importanza di questa prospettiva è difficilmente sopravvalutabile. Infatti, è arduo pensare alla realizzazione della nostra destinazione morale se ci sentiamo separati, alienati dal mondo naturale in cui dobbiamo vivere. L’esperienza della bellezza accresce il nostro senso d’integrazione nel mondo; inoltre, essa ci porta ad amare la natura e poiché amando la natura amiamo qualcosa che è distinto da noi, è promossa, in modo indiretto, anche la nostra disposizione morale, l’interesse per le cose e le persone che ci circondano78. Tutto ciò è molto importante per Kant; soprattutto è importante l’indizio che la bellezza offre della possibilità di pensare la natura in modo «che la legalità della sua forma si accordi per lo meno con la possibilità di quei fini secondo leggi della libertà che vanno effettuati in essa» (KU, Einl. II, AA V 176/85). Il fatto che il mondo ospiti fiori, conchiglie e un’infinità di esseri che sembrano fatti per destare in noi un piacere del tutto libero, sembra offrire a Kant una ragione per pensare che possa far posto anche al fine morale che dobbiamo realizzare in esso.

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In questa direzione vanno anche le osservazioni di Scruton, Beauty, cit., pp. 65-66. Così anche A. Savile, Aesthetic Reconstructions, cit., p. 183; cfr. inoltre Id., Kant’s Aesthetic Theory, in A Companion to Kant, ed. by G. Bird, Wiley-Blackwell, Oxford 2010, pp. 441-454, qui pp. 451-453. 78 Nella prospettiva teleologica «di un grande sistema dei fini della natura», anche la bellezza della natura, osserva Kant, può essere considerata «come finalità oggettiva della natura, nella sua totalità, in quanto sistema di cui l’uomo è un membro». Possiamo allora considerare «come un favore che la natura ci ha elargito il fatto che essa abbia dispensato così abbondantemente, oltre all’utile, anche la bellezza e le attrattive, e possiamo amarla per questo» (KU, § 67, AA V 380/613). 77

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Etica

1. Introduzione A partire dagli anni Sessanta del secolo diciottesimo Kant amplia la sfera dei suoi interessi includendovi la filosofia pratica, dopo essersi dedicato prevalentemente a questioni di metafisica e di filosofia della natura1. Nell’annuncio delle lezioni per il semestre invernale 1765-1766 il filosofo dichiara che tratterà la filosofia pratica “secondo Baumgarten”, ma ricorda anche esplicitamente quei «tentativi che si sono spinti maggiormente in avanti nell’indagine sui primi fondamenti di ogni moralità» (AA II 311) ovvero quelli di Shaftesbury, Hutcheson e Hume2, i teorici del moral sense. La duplicità di ispirazione dichiarata nell’annuncio del 1765 è già presente nei maggiori documenti dell’etica kantiana in questi anni, ovvero le lezioni trascritte da Herder negli anni 1762-17643 e lo scritto sull’Evidenza

1 Per la vita di Kant si deve ora far riferimento alla monumentale biografia di M. Kühn, Kant. A Biography, Cambridge University Press, Cambridge 2001; l’edizione italiana, curata da S. Bacin, è in corso di stampa presso la casa editrice Il Mulino. Per l’etica kantiana nel periodo precritico si può rimandare, dopo il saggio di P. Menzer, Der Entwicklungsgang der Kantischen Ethik in den Jahren 1760 bis 1785, «Kant-Studien», II (1899), pp. 41-104, a: P.A. Schilpp, Kant’s Precritical Ethics, Northwestern University Press, Evanston 1938; J. Schmucker, Die Ursprünge der Ethik Kants in seinen vorkritischen Schriften und Reflexionen, Hain, Meisenheim am Glan 1961; D. Henrich, Über Kants früheste Ethik. Versuch einer Rekonstruktion, «KantStudien», LIV (1963), pp. 404-431; C. Schwaiger, Kategorische und andere Imperative. Zur Entwicklung von Kants praktischer Philosophie bis 1785, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1999; S. Bacin, Il senso dell’etica. Kant e la costruzione della teoria morale, Il Mulino, Bologna 2006, capp. I e II. Tra le monografie complessive è ingiustamente dimenticato l’eccellente libro di V. Delbos, La philosophie pratique de Kant (1905), Alcan, Paris 19262. 2 Per Hutcheson è da ricordare il lavoro di D. Henrich, Hutcheson und Kant, «KantStudien», XLIX (1957), pp. 49-69. Per la presenza di Hume nel Settecento tedesco, v. G. Gawlick, L. Kreimendal, Hume in der deutschen Aufklärung. Umrisse einer Rezeptionsgeschichte, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1987. Non frequentatissimo, per quanto sempre assunto a modello di un’opposizione, il rapporto tra l’etica di Hume e quella di Kant. Si veda ora, anche per le indicazioni bibliografiche, S. Bacin, Tra Hume e Kant: il rapporto tra ragione e passioni e il carattere pratico della morale, in Id. (a cura di), Etiche antiche, etiche moderne. Temi in discussione, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 193-220. 3 Per un’analisi di queste lezioni v. S. Bacin, Il senso dell’etica, cit., pp. 13 sgg.

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dei princìpi della teologia naturale e della morale, pubblicato nel 17644. Kant è lungi dall’essere soddisfatto dello stato delle cose: l’annuncio delle lezioni afferma, tra l’altro, che anche l’etica contemporanea, come la metafisica, ha solo un’apparenza di scienza e di profondità (AA II 311). Un’analoga insoddisfazione la si ritrova nello scritto sull’evidenza: i princìpi della morale, scrive Kant, «non sono ancora capaci di tutta l’evidenza richiesta» (AA II 298). Ed è qui che indica nel concetto di obbligatorietà o obbligo (Verbindlichkeit, che traduce il latino obligatio, ovvero “obbligo”, ma anche il più astratto “obbligatorietà”) il concetto centrale dell’etica, sulla scia di Baumgarten e della tradizione della doctrina officiorum (cfr. infra, § 5), sottolineando però quanto poco perfino questo concetto “primo” sia conosciuto e quanto i concetti fondamentali che ne costituiscono l’analisi attendano ancora di essere determinati, proprio a partire dal dubbio istillato dalla scuola del moral sense, ovvero se «decida di questi primi princìpi la sola facoltà conoscitiva, oppure il sentimento» (AA II 298-300). Kant esplicita così, ancora senza prendere posizione, quel contrasto sui fondamenti dell’etica che aveva fino allora trovato la maggiore e più efficace trattazione, con una netta opzione sentimentalistica, nel Trattato sulla natura umana e nella Ricerca sui princìpi della morale di Hume. Non si tratta di fonti esclusive, evidentemente – di questi anni è anche l’intenso interesse kantiano per Rousseau –, ma sono state tracciate le coordinate che segnano il percorso dell’etica kantiana, il che non significa intendere in continuità – come pure si è fatto5 – il periodo precritico di Kant e le sue opere maggiori. Sono stati cioè individuati due ordini di problemi che saranno al centro della sua attenzione negli anni successivi: da un lato, l’idea di obbligo morale, o di dovere, dall’altro, il problema della giustificazione del principio della moralità, ovvero il problema dello statuto della sfera morale. Per quel che riguarda la sfera normativa e il concetto di dovere, Kant verrà occupato innanzitutto dal problema della sua struttura, e dei princìpi sui quali si fonda, prima di potere formulare una teoria sistematica dei do4 Il saggio kantiano, presentato al concorso promosso dall’Accademia delle Scienze di Berlino per l’anno 1763, rientra nella discussione sul metodo matematico che caratterizza il Settecento tedesco e per la quale va sempre ricordato il saggio di G. Tonelli, Der Streit über die mathematische Methode in der Philosophie in der ersten Hälfte des 18. Jahrhunderts und die Entstehung von Kants Schrift über die ‘Deutlichkeit’ (1959), trad. it. di B. Centrone e S. Tiberi in Id., Da Leibniz a Kant. Saggi sul pensiero del Settecento, a cura di C. Cesa, Napoli, Prismi 1987, pp. 81-107; cfr. anche C. Borghero, L’analisi da Descartes a Kant, «Giornale critico della filosofia italiana», 84 (2005), pp. 433-469. Su tutta la questione v. P. Basso, Il secolo geometrico. La questione del metodo matematico in filosofia da Spinoza a Kant, Le Lettere, Firenze 2004; la Basso ha curato anche la raccolta dei testi della Preisfrage in un volume in corso di stampa: Über die Deutlichkeit. Die Preisfrage der Preußischen Akademie für 1763, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt. 5 Cfr. J. Schmucker, Die Ursprünge der Ethik Kants, cit.

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veri: l’impegno in questa direzione lo occuperà ben più di quanto potesse prevedere. Per quel che riguarda lo statuto della sfera morale, nel volgere di poco tempo la scelta razionalistica di Kant diverrà esplicita e definitiva (anche se fino alla seconda Critica rimarrà aperto il problema del modo in cui ciò avvenga), e condurrà alla posizione enunciata nella Dissertatio del 1770: «La filosofia morale, in quanto procura i princìpi primi del giudicare, non è conosciuta se non per mezzo dell’intelletto puro» (AA II 396). Lo sviluppo delle opere critiche costituirà l’alternativa più rilevante al sentimentalismo etico di Hutcheson e Hume, e l’opposizione si prolungherà, nella storia della filosofia morale, fino al pensiero contemporaneo, in questo davvero erede del dibattito illuministico e dei suoi maggiori rappresentanti. L’esplicito intento di stendere un lavoro dedicato alla “metafisica” della filosofia pratica è testimoniato da una lettera del 31 dicembre 1765 a Lambert nella quale si trova già il parallelismo tra gli «elementi metafisici della filosofia naturale e gli elementi metafisici della filosofia pratica» (AA X 56), ed è di pochi anni dopo la dichiarazione di stare lavorando ad una “metafisica dei costumi” (lettera a Herder del 9 maggio 1768: AA X 74). Lo scritto che almeno terminologicamente richiama questo progetto – la Metafisica dei costumi – uscirà soltanto nel 1797, e costituirà la terza opera esplicitamente dedicata alla filosofia pratica6. Prima d’allora, il tema morale verrà prima accennato nella Critica della ragion pura (nel Canone7), poi affrontato sistematicamente nei cosiddetti “scritti di fondazione” ovvero la Fondazione della metafisica dei costumi e la Critica della ragion pratica, dedicati, entrambi, innanzitutto al problema del principio della moralità. Restando ai meri dati estrinseci, e alle opere maggiori, non si può non ricordare che quando stende la Critica della ragion pura Kant non pensa di doversi occupare del problema morale in altre opere “di fondazione”, e quando pubblica la Fondazione non pensa di scrivere una seconda Critica dedicata alla ragione pratica: è un percorso articolato, depositato anche in cicli di lezioni, lavori preliminari e riflessioni che costituiscono una preziosa integrazione delle opere a stampa. Si vuole così ricordare un aspetto dell’etica di Kant non sempre considerato con la dovuta attenzione: la costruzione dell’etica, e nella sua parte fondazionale e nella sua parte sistematica, va 6

Sulla storia dell’idea di “metafisica dei costumi” in Kant cfr. C. Cesa, Una metafisica della morale?, in Kant e la morale. A duecento anni da «La Metafisica dei costumi», Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1999, pp. 17-40, e S. Bacin, Sulla genesi della Metafisica dei costumi di Kant, «Studi settecenteschi», 25-26 (2005-2006), pp. 253-279. 7 Da ricordare, sul Canone della prima Critica, il saggio di M. Guéroult, Canon de la Raison pure et Critique de la Raison pratique (1954), trad. it. in Introduzione alla morale di Kant. Guida alla critica, a cura di G. Tognini, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993, pp. 23-45. Sulla nozione di “pratico” nella Critica della ragion pura v. C. Bertani, Il concetto di ‘pratico’ nella ‘Kritik der reinen Vernunft’, «Studi kantiani», X (1997), pp. 27-79.

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incontro a ripensamenti e approfondimenti che sono sì il frutto delle osservazioni che nel frattempo gli giungono (si pensi alla prefazione alla seconda Critica, dove questo tratto è esplicito), ma costituiscono anche il risultato di una genuina insoddisfazione per i risultati ottenuti, e della ricerca di nuove strade. Tutto questo per dire che Kant non è un pensatore pedante, ma un filosofo che si confronta costantemente con i problemi che sorgono nel suo orizzonte teorico cercando, quando ne ritiene il caso, soluzioni più convincenti. La questione appena accennata è strettamente collegata con quella del rapporto tra i diversi scritti nei quali Kant affronta il problema morale. Anche a volersi limitare all’essenziale, va detto che la letteratura kantiana ha assunto posizioni differenziate su quali siano le opere sull’etica più significative, a partire dal confronto tra Fondazione e seconda Critica e dalla questione se le due opere siano in continuità, o se invece tra la prima e la seconda non intervengano cambiamenti sostanziali, e se l’una o l’altra contenga la versione più rilevante dell’etica kantiana. La stessa fondazione dell’etica, insomma, può essere vista come un’impresa che incontra nel primo scritto tali difficoltà da imporre non solo una profonda revisione, ma la scrittura di una seconda opera8. Altrettanto, se non più problematica è la relazione tra gli scritti degli anni Ottanta e quella che è stata chiamata la Final Form of Kant’s Practical Philosophy, cioè la Metafisica dei costumi9, il vero e proprio sistema kantiano della filosofia pratica, che pone anche problemi non indifferenti riguardanti la disposizione del testo10. 8 Come sostenuto da D. Henrich, Der Begriff der sittlichen Einsicht und Kants Lehre vom Faktum der Vernunft, in Id. (hrsg. von), Die Gegenwart der Griechen im neueren Denken, Mohr, Tübingen 1960, pp. 77-115 (trad. it. parziale in Introduzione alla morale di Kant, cit., pp. 69-94) e da S. Landucci, Sull’etica di Kant, cit., pp. 96-97 (cui si rimanda anche per le indicazioni bibliografiche). Un generale riorientamento della seconda Critica rispetto alla Fondazione è sostenuto anche da S. Bacin, Il senso dell’etica, cit., pp. 165 sgg. Di recente, ha invece ribadito una continuità tra le due opere A. Wood, Preface and Introduction, in Kritik der praktischen Vernunft, hrsg. von O. Höffe, Akademie Verlag, Berlin 2002, pp. 25-41, in particolare p. 35. 9 A. Wood, The Final Form of Kant’s Practical Philosophy, in Kant’s Metaphysics of Morals. Interpretative Essays, ed. by M. Timmons, Oxford University Press, Oxford 2002, pp. 1-21. 10 Tanto che si è pensato di offrirne una versione diversa da quella pubblicata dallo stesso Kant: si vedano le nuove edizioni del testo nella Philosophische Bibliothek dell’editore Meiner: I. Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, neu hrsg. von B. Ludwig, Meiner, Hamburg 1986; I. Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Tugendlehre, neu hrsg. von B. Ludwig, mit einer Einleitung von M. Gregor, Meiner, Hamburg 1990. Oltre al vecchio saggio di F. Tenbruck, Ueber eine notwendige Textkorrektur in Kants Metaphysik der Sitten, «Archiv für Philosophie», 3 (1949), pp. 216-220, cfr. B. Ludwig, Kants Rechtslehre, Meiner, Hamburg 1988; G. Tognini, Recenti proposte sul testo della ‘Metafisica dei costumi’, in Kant e la morale. A duecento anni dalla ‘Metafisica dei costumi’, Istituti Editoriali Poligrafici Internazionali, Pisa 1999, pp. 123-132; V. Parma, «Es war einmal eine Metaphysik der Sitten...», in Zustand und

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2. Natura e libertà: ragione teoretica e ragione pratica L’intera impresa filosofica di Kant è segnata dalla distinzione tra due usi della ragione, la ragione teoretica o conoscitiva e la ragione pratica o morale. Lo spazio per una considerazione filosofica della ragione nel suo uso pratico è aperto, nella Critica della ragion pura, attraverso la strategia argomentativa delle antinomie contenute nella Dialettica trascendentale. È in questo contesto che si pone il problema di pensare il fondamentale predicato che distingue gli esseri razionali come soggetti agenti dagli altri enti della natura, ovvero la libertà. La considerazione della realtà dal punto di vista conoscitivo, teoretico, scientifico (teso, tra le altre cose, a dare una giustificazione filosofica della fisica newtoniana), non sembra lasciare spazio per enti che non siano come tutti gli altri sottoposti soltanto alla catena della causalità naturale, con la conseguenza di un’inevitabile posizione deterministica per quel che riguarda l’unico possibile oggetto della conoscenza scientifica, ovvero ciò che Kant chiama il fenomeno (Erscheinung). È qui che Kant si pone il problema «se la libertà sia in generale possibile e, nel caso che lo sia, se possa coesistere con la legge naturale di causalità». La soluzione kantiana, com’è noto, consiste nell’idealismo trascendentale, ovvero nell’idealità dello spazio e del tempo, con la conseguente distinzione tra fenomeni e “cose in sé”: nel caso che i fenomeni fossero considerati cose in sé non si potrebbe parlare di libertà (poiché tutti i fenomeni sono sottoposti alla legge della causalità meccanica). Soltanto se è possibile pensare alla menzionata distinzione e ad una peculiare forma di causalità che non sia inserita nella catena del meccanismo naturale, quindi nel fenomeno, è possibile non affermare la realtà della libertà, ma sostenerne la pensabilità e quindi la compatibilità con il meccanismo della natura. Se è possibile pensare ad enti che non siano completamente immersi nel meccanismo della natura, allora la libertà è almeno posZukunft der Akademie-Ausgabe von Immanuel Kants Gesammelten Schriften, hrsg. von R. Brandt, W. Stark, de Gruyter, Berlin-New York 2000, pp. 42-65; S. Bacin – D. Schöneker, Zwei Konjekturvorschläge zu ‚Tugendlehre‘ § 9, «Kant-Studien», CI (2010), pp. 247-252. Per quanto riguarda il rapporto tra la Metafisica dei costumi e gli scritti precedenti si vedano: G. Anderson, Die ‘Materie’ in Kants Tugendlehre und der Formalismus der kritischen Ethik, «Kant-Studien», XXVI (1921), pp. 289-311; J. Schmucker, Der Formalismus und die materialen Zweckprinzipien in der Ethik Kants (1955), in Kant. Analysen-Probleme-Kritik, hrsg. von H. Oberer, G. Seel, Königshausen und Neumann, Würzburg 1997, pp. 99-157; R. Langthaler, Kants Ethik als System der Zwecke. Perspektiven einer modifizierten Idee der «moralischen Teleologie» und Ethikoteleologie, de Gruyter, Berlin/New York 1991; D. Tafani, Virtù e felicità in Kant, Olschki, Firenze 2006; Ead., Il fine della volontà buona in Kant, in Etica e mondo in Kant, a cura di L. Fonnesu, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 145-163; A. Esser, Eine Ethik für Endliche. Kants Tugendlehre in der Gegenwart, Frommann-Holzboog, Stuttgart/Bad Cannstatt 2004, pp. 249 sgg.

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sibile e ciò in nulla modifica la coerenza e la necessità dei processi naturali, rigorosamente determinati e studiabili dalla scienza della natura. In questo modo Kant ha aperto la strada, per più rispetti, al famigerato “dualismo” che fin dal suo tempo, e poi nel nostro, gli è stato rimproverato11. Il tratto caratteristico di questo dualismo consiste nella considerazione di alcuni enti – gli esseri razionali, compresi quei peculiari esseri razionali che appartengono anche alla natura (gli uomini) – come non sottoposti soltanto alle leggi della natura. L’universo umano è allora l’oggetto di due diverse considerazioni – di due diverse prospettive –, l’una, della conoscenza teoretica, scientifica, fondata sul principio di causalità meccanica, l’altra, della conoscenza pratica, che permette di accettare una particolare forma di causalità costituita dalla libertà e dalla moralità che da essa dipende; ed è chiaro che questa diversa considerazione è rivolta soprattutto alle azioni. Si tratta di un’osservazione del comportamento umano che adottando due diverse prospettive individua due diversi generi di condizioni: per gli eventi della natura, sottoposti alla necessità naturale, e per le azioni degli uomini, che nella loro genesi causale possono essere considerate anche il frutto di una causalità razionale e libera. In questa direzione, sostiene Kant, la ragione non si accontenta della semplice presentazione fenomenica degli enti del mondo, ma si costruisce “un ordine proprio” (KrV, A 548/B 576): Se prendiamo in esame le medesime azioni in rapporto alla ragione – non già in quanto ragione speculativa, al fine di spiegare la loro origine, ma esclusivamente in quanto la ragione è la causa che le produce –, cioè, in una parola, se conduciamo il loro raffronto con la ragione dal punto di vista pratico [praktischer Absicht], troviamo allora una regola e un ordine ben diversi da quelli della natura (KrV, A 551/B 579).

La coppia epistemologica punto di vista teoretico-conoscitivo/punto di vista pratico corrisponde a una coppia di tipo ontologico e che ha una lunga tradizione dietro di sé, ovvero quella di mundus sensibilis e mundus intelligibilis, che dà anche il titolo alla Dissertatio kantiana del 1770. Il lontano padre di questa tradizione è naturalmente Platone, non a caso esplicitamente richiamato da Kant proprio a proposito delle idee della ragione (cfr. KrV, A 317-18/B 374-75); ma non c’è bisogno di risalire così indietro nel tempo. Nella stessa prima Critica la coppia leibniziana regno della natura/regno della grazia viene esplicitamente richiamata, a proposito della distinzione tra i due mondi (cfr. KrV, A 812/B 840). La tesi dei due punti di vista o dei due mondi non è rilevante soltanto per quel che riguarda la questione delle fonti kantiane: si tratta infatti di va11 Un’indagine di intento non solo esegetico che mette in discussione questo topos della letteratura kantiana è quella di A. Nuzzo, Ideal Embodiment. Kant’s Theory of Sensibility, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 2008, con una ricostruzione originale dell’intera “teoria della sensibilità” di Kant.

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lutare se sia una tesi che ha uno sfondo ontologico – l’esistenza di due “mondi” – o se non debba prevalere una interpretazione, appunto, epistemologica, nella quale l’accento verrebbe a cadere sul “punto di vista” o “prospettiva”, ovvero su due diversi atteggiamenti da assumere nella considerazione scientifico-descrittiva del mondo e nella considerazione del mondo umano. E cioè: se lo sguardo scientifico sul mondo naturale possa essere esteso al mondo umano ed essere ritenuto esaustivo, o se il nostro modo di considerare il mondo umano non possa fare appello a un’altra prospettiva. La scelta tra interpretazione ontologica e interpretazione epistemologica ha naturalmente qualche conseguenza sul giudizio riguardante la maggiore o minore “modernità” di Kant. Chi non ha accettato l’interpretazione epistemologica della distinzione kantiana ha suggerito che questo tentativo di modernizzare Kant condurrebbe ad una sorta di interpretazione “pragmatistica” della sua posizione, trasformando, appunto, il platonismo in pragmatismo12. Nella filosofia contemporanea, però, con qualche precedente illustre13, proprio l’interpretazione “epistemologica” risulta dominante, anche con l’esplicito intento – legittimo o meno che sia sul piano storiografico – di rendere Kant un interlocutore del dibattito etico odierno14. La tesi dei due punti di vista costituisce quindi la strategia che si fa avanti, nell’interpretazione di Kant, di fronte allo spettro della interpretazione dei “due mondi”, costituendo una sorta di messa tra parentesi degli aspetti ritenuti metafisicamente aggressivi della teoria kantiana, ai fini di una neutralizzazione di tesi ritenute inattuali15. Un passo in questa direzione viene fatto già da un illustre interprete di Kant come Lewis White Beck, con la sua distinzione tra prospettiva dell’osservatore, o dello spettatore, e prospettiva dell’agente16. E un’attitudine affine è presente, del resto, nelle discussioni odierne sul “naturalismo” in una delle sue molteplici accezioni, e non solo in ambito etico, ma addirittura per quel che riguarda un piano metafilosofico, concernente cioè lo statuto dell’indagine filosofica nel suo rapporto con l’indagine scientifica. Anche tra chi accetti una relazione costitutiva, o comunque molto stretta, tra indagine fi12 S. Landucci, La Critica della ragion pratica di Kant, cit., p. 109; ma cfr. anche id., Sull’etica di Kant, cit., pp. 213-14, n. 1 e 232 n. 39. 13 Come Wilhelm Windelband o Ernst Cassirer (cfr. M. Mori, Libertà, necessità, determinismo, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 46-51) 14 Un esempio per tutti: O. O’Neill, Constructions of Reason. Esplorations of Kant’s Practical Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge/New York 1989, pp. 68-69. 15 Cfr. G. Tognini, Azione e fenomeno. La dottrina kantiana della libertà in alcune interpretazioni anglosassoni, Pantograf, Genova 1999, e in generale e, in particolare, per quanto ricordato qui, p. 185. 16 Già nel suo fortunato commentario alla seconda Critica (L.W. Beck, A Commentary on Kant’s ‘Critique of Practical Reason’, The University of Chicago Press, Chicago-London 1960), poi in The Actor and the Spectator, Yale University Press, New Haven 1975.

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losofica e indagine scientifica (i “naturalisti” in senso ampio) c’è oggi un confronto serrato tra chi ritenga che la stessa prospettiva “pratica” – o dell’agente – sia riducibile a quella dell’osservazione scientifica, e chi invece ritenga che si abbia bisogno, nei due casi, dell’adozione di due diverse prospettive, l’una irriducibile all’altra. Questa seconda posizione, non a caso, emerge in filosofi che si ispirano esplicitamente a Kant, o comunque che sembrano fare propria la prospettiva di due punti di vista distinti che troverebbe nella concezione kantiana del punto di vista pratico una nobile progenitura teorica. In questa direzione va per esempio la riflessione di Roderick Chisholm sulla libertà del volere, e con ancora maggior forza la teoria etica di Thomas Nagel o di Christine Korsgaard17. Conoscenza teoretica e conoscenza pratica sarebbero due diversi ambiti con specifiche caratteristiche che li distinguono. Comunque li si interpreti, i due punti di vista hanno innanzitutto, vi torneremo più avanti, diversi oggetti. La conoscenza teoretica è conoscenza della natura e delle sue leggi, mentre la conoscenza pratica, che nasce dall’assunzione del diverso punto di vista che si è detto, ha per oggetto la libertà attraverso le sue leggi, e in particolare la legge morale. Si tratta di due diversi tipi di conoscenza con diversa validità ed estensione. La conoscenza teoretica della natura – degli eventi – rimane naturalmente valida anche sul piano pratico, che non può non servirsene, mentre ciò che viene assunto e riconosciuto valido dal punto di vista pratico non può essere esteso alla conoscenza e alla spiegazione della natura. Ma questo, che sembra essere un privilegio del punto di vista conoscitivo, si ribalta in Kant, in realtà, nel primato della ragion pratica, che emerge già da questo punto di vista epistemologico: dal punto di vista pratico, infatti, è possibile una qualche forma di conoscenza che vada al di là dei limiti severi posti dalla critica della ragione pura sul piano conoscitivo, ovvero l’ambito dei possibili oggetti di un’esperienza empirica. La conoscenza pratica, cioè morale, è più estesa della conoscenza della natura, pur non pretendendo per sé una validità tout court, come viene tematizzato in vari luoghi dei testi kantiani ed esplicitato nel titolo di un importante paragrafo della Critica della ragion pratica (dedi17 Cfr. R. Chisholm, Human Freedom and the Self (1964), trad. it. in La logica della libertà, a cura di M. De Caro, Meltemi, Roma 2002, pp. 55-74; T. Nagel, A View from Nowhere (1986), trad. it. di A. Besussi, Il Saggiatore, Milano 1988, pp. 137-170; C. Korsgaard, The Sources of Normativity, Cambridge University Press, Cambridge 1996. Per la questione del “naturalismo” così inteso cfr. ora M. De Caro, Naturalismo e normatività. Prospettiva scientifica e prospettiva agentiva, in Etiche antiche, etiche moderne. Temi di discussione, cit., pp. 101118. Sulla presenza di Kant nella riflessione anglosassone v. anche G. Tognini, Azione e fenomeno, cit., e, per gli indirizzi più recenti, R. Mordacci, Kant-Renaissance. La riscoperta dell’etica normativa di Kant, in I. Kant, Metafisica dei costumi, a cura di G. Landolfi Petrone, Rusconi, Milano 2006, pp. 743-798.

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cato al «diritto che la ragion pura ha, nell’uso pratico, ad una estensione che le è impossibile dal punto di vista speculativo»: KpV, AA V 50). Il primato epistemologico è poi anche un primato assiologico, perché il valore supremo, per Kant, è proprio il valore morale. Un secondo aspetto riguarda la questione squisitamente kantiana dei “limiti della ragione”, un vero e proprio topos della cultura filosofica del Settecento18: in questo senso, o anche in questo senso, l’opera di Kant costituisce davvero il culmine del secolo diciottesimo. Anche per questo aspetto, però, la questione dei “limiti” della ragione è scandita in modo diverso se la si considera dal punto di vista teoretico o dal punto di vista pratico. La natura dei limiti della ragione teoretica è esclusivamente epistemologica (seppure con implicazioni di tipo ontologico): una conoscenza oggettiva è possibile, dal punto di vista teoretico, soltanto per gli oggetti di un’esperienza possibile, data la distinzione tra il mondo dei fenomeni e le cose come sono in se stesse. Questo tipo di limite persiste per più versi anche dal punto di vista pratico, dove non si può affermare di “conoscere” la libertà (né le altre idee della ragione, l’immortalità e l’esistenza di Dio), ma è possibile affermarne la realtà a partire dalla consapevolezza della legge morale. Il punto di vista pratico ha in sé però un’ulteriore limitazione estremamente significativa, riguardante la possibilità dell’argomentazione discorsiva in ambito etico. Questa è per Kant, a partire dalla seconda Critica – nella Fondazione Kant aveva sondato altre strade – rigorosamente limitata dall’impossibilità di una genuina “deduzione”, ovvero, appunto, di una giustificazione di tipo discorsivo19. Il tema è di grande rilevanza, e giunge anch’esso alle discussioni etiche contemporanee, perché coinvolge la questione dello statuto dell’etica. Nel paragrafo della Critica della ragion pratica intitolato Della deduzione dei princìpi della ragion pura pratica (KpV, AA V 42) la tesi kantiana che emerge, in realtà, è quella dell’impossibilità di una deduzione, al contrario di quello che, sostiene Kant, si era potuto fare nella Critica della ragion pura. Che la ragion pura possa essere pratica, ovvero la consapevolezza e la conoscenza della legge morale in noi, lo si è provato, scrive Kant, attraverso la datità di un fatto (Faktum, KpV, AA V 42) di carattere immediato e non ulteriormente argomentabile. In questo caso ci si deve piuttosto accontentare di una mera Exposition: «nella deduzione […] non si può sperare di procedere bene come quando si trattava dei princìpi dell’intelletto puro teoretico […]. […] non posso adottare questo procedi18 Cfr. G. Tonelli, La question des bornes de l’entendement humain au XVIIIe siècle et la genèse du criticisme kantien, particulièrement par rapport au problème de l’infini (1959) e The «Weakness» of Reason in the Age of Enlightenment (1971), entrambi tradotti in Id., Da Leibniz a Kant, cit., rispettivamente pp. 45-78 e 21-41. 19 Accetto qui la tesi di una discontinuità tra Fondazione e seconda Critica: v. sopra, n. 8.

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mento per la deduzione della legge morale. […] Di conseguenza, nessuna deduzione può dimostrare la realtà oggettiva della legge morale» (KpV, AA V 46-47). Dal punto di vista pratico, quindi, siamo di fronte ad un peculiare aspetto del tema dei limiti della ragione umana: l’indagine si deve arrestare di fronte ai limiti argomentativi, discorsivi, dovendo piuttosto rimandare all’immediatezza del Faktum der Vernunft (KpV, AA V 31). La tesi kantiana del “fatto della ragione” è estremamente controversa, e ampiamente dibattuta tra gli interpreti di Kant, inclusi coloro che ne vogliano fare un uso specificamente teorico20; certo è che Kant offre così la sua risposta definitiva alla questione dei fondamenti della moralità e quindi alla possibilità della giustificazione dei suoi princìpi, che lo occupa fin dalle prime riflessioni sull’etica e che lo ha spinto, anni prima, a guardare con attenzione e con qualche simpatia ai teorici del sentimento morale. Nel tempo la posizione kantiana si è sviluppata in modo diverso, conservando, di quella prima impostazione, il carattere immediato della consapevolezza della moralità, ora inserita in un impianto teorico che ne fa uno dei maggiori e più rilevanti esempi di posizione razionalistica in etica. La consapevolezza immediata espressa nel Faktum der Vernunft permette a Kant anche di definire il rapporto della legge morale con la realtà – non solo con la possibilità teoretica – della libertà: quest’ultima è la condizione di possibilità (ratio essendi) della moralità, perché solo un essere libero può essere moralmente responsabile21, ma l’accesso alla libertà è possibile solo attraverso la consapevolezza della moralità, che è quindi la ratio cognoscendi di essa (KpV, AA V 4 n., cfr. 47). Il carattere immediato della conoscenza del principio della moralità permette di segnalare un ulteriore aspetto che caratterizza la concezione kantiana della ragione pratica, e quindi della morale, rispetto alla teoria della conoscenza: il rapporto con la coscienza comune. Questo rapporto è diverso dal punto di vista conoscitivo e dal punto di vista morale. Sin dalla prefazione alla Fondazione della metafisica dei costumi, Kant fa una chiara distinzione tra problema conoscitivo e problema morale proprio per quanto riguarda il rapporto dell’indagine filosofica con la coscienza comune. Posto che la ragione umana è, naturalmente, una e una sola, «in sede morale la ragione umana può essere facilmente portata, anche nell’in20 V. almeno D. Henrich, Der Begriff der sittlichen Einsicht, cit.; P. Łukow, The Fact of Reason. Kant’s Passage to Ordinary Moral Knowledge, «Kant-Studien», LXXXIV (1993), pp. 204-221; S. Landucci, Sull’etica di Kant, cit., pp. 15 sgg.; O. O’Neill, Autonomy and the Fact of Reason in the ‘Kritik der praktischen Vernunft’, in Kritik der praktischen Vernunft, hrsg. von O. Höffe, cit., pp. 81-97; S. Bacin, Il senso dell’etica, cit., pp. 205 sgg. 21 Sullo stretto nesso tra concezione della libertà e responsabilità morale, anche per le fonti kantiane e le opzioni in gioco rispetto alla tradizione, v. S. Landucci, Sull’etica di Kant, cit., pp. 213 sgg.

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telletto più comune, a grande esattezza e perfezione, a differenza dell’uso teoretico puro, in cui essa è del tutto dialettica» (GMS, AA IV 391). E il tema torna costantemente nella Critica della ragion pratica per giungere alla Metafisica dei costumi, dove Kant scrive che ogni uomo ha in sé una “metafisica dei costumi”, anche se magari soltanto in modo oscuro (AA VI 216). Mentre nel caso dell’indagine teoretica la verità è qualcosa che non può essere accessibile a tutti, ma è privilegio del filosofo (critico), nel caso dell’etica questo privilegio del filosofo viene meno. L’uomo comune è perfettamente in grado di diventare consapevole del proprio dovere, una volta che davvero lo voglia, e ciò conferma una volta di più quale debba essere il compito della filosofia, sul piano etico: fornire, del pensiero morale comune, la giustificazione, ovvero, per usare i termini kantiani della prefazione alla Critica della ragion pratica, la “formula”: Un recensore, volendo dire qualcosa in biasimo di questo scritto [la Fondazione], ci è riuscito meglio di quanto lui stesso può aver inteso, poiché dice che qui non è stato stabilito alcun nuovo principio della moralità, ma soltanto una nuova formula. Ma chi vorrebbe anche introdurre un nuovo principio di tutta l’eticità, e per primo per così dire inventarla? Come se prima di lui il mondo avesse ignorato in che cosa consista il dovere, o fosse stato in un errore universale (KpV, AA V 8).

Ciò non significa, come talvolta si tende a credere, che non si pongano per Kant problemi nell’azione morale, difficoltà e complessità dei processi deliberativi, o che l’agire morale sia la semplice, meccanica o “rigida” applicazione di un principio. Significa piuttosto che l’indagine kantiana sull’etica vuole essere la giustificazione di una morale oggettiva, come dimostrano le caratteristiche dei princìpi morali (oggettività, necessità, universalità). Kant è insomma, dal punto di vista dell’odierno dibattito sullo statuto dell’etica, un realista morale. Il che significa anche che l’idea di un principio morale che possa essere “costruito” può certo essere proposta come tesi teorica che magari si serva ampiamente di strumenti kantiani – come è avvenuto negli ultimi decenni, soprattutto sulla scia di John Rawls e dei suoi allievi – ma non è sostenibile dal punto di vista esegetico22. Nel delineare i tratti essenziali della praktische Absicht nel confronto con il punto di vista teoretico si deve tenere presente che la prospettiva kantiana viene così sottoposta a una semplificazione: lo stesso punto di vista teoretico non può essere ridotto in Kant alla considerazione di un mondo sottoposto al meccanicismo della natura – pur se è innanzitutto in questo contesto che si pone il problema della possibilità della libertà –: le idee della ragione 22 Per la questione del cosiddetto “costruttivismo” kantiano v. A. Falduto, Il ‘costruttivismo kantiano’ in teoria morale, «Studi kantiani», XX (2007), pp. 53-72, e, ora, la ricostruzione complessiva di G. Verrucci, Ragion pratica e normatività. Il costruttivismo kantiano di Rawls, Korsgaard e O’Neill, Mimesis, Milano-Udine 2010.

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svolgono una funzione anche in questa prospettiva, e basti pensare a tutta la riflessione sulla teleologia che, presente già nella prima Critica, diverrà l’argomento della Critica della facoltà del giudizio, dove proprio del principio del meccanicismo viene asserita l’insufficienza nella stessa considerazione della natura. L’idea che determinati princìpi di orientamento nella considerazione della natura – al di là del principio di causalità e delle leggi della fisica meccanica – svolgano un ruolo è già chiarissima fin dalla Critica della ragion pura, e già qui l’idea dei princìpi della conoscenza come princìpi costitutivi è accompagnata da princìpi di orientamento, detti regolativi, che costituiscono il primo germe di ciò che diverrà, nella terza Critica, la facoltà del giudizio detta da Kant riflettente. E di altri problemi ancora si dovrebbe trattare23. Esaminate la natura e le caratteristiche dei due “punti di vista” occorre ora prenderne in esame gli specifici oggetti, ovvero la natura, da un lato, e la libertà, dall’altro: La legislazione della ragione umana (filosofia) ha due oggetti, la natura e la libertà, e comprende dunque così la legge naturale come la legge morale, in un primo tempo entro sistemi filosofici separati, che confluiscono alla fine in uno solo. La filosofia della natura si indirizza a tutto ciò che è; la filosofia morale esclusivamente a ciò che deve essere (KrV, A 841/B 868).

La distinzione tra natura e libertà24 produce, lo si è visto, diverse prospettive dalle quali guardare alla natura e al mondo delle azioni degli uomini. La relazione tra i due termini non si esaurisce certo in una opposizione, come vedremo subito, ma vale la pena di segnalare che un’ulteriore distinzione concerne il modo in cui i due diversi oggetti, o “mondi”, quello della natura e quello della libertà, sono ordinati. Entrambi sono forme di ordine, appunto, in quanto sottoposte a leggi, ma si tratta di un ordinamento secondo leggi che ha carattere profondamente diverso, fondato su due diverse accezioni del termine “legge”: da un lato, la legge della natura, e la “legislazione” della ragione che la sorregge attraverso i princìpi costitutivi dell’intelletto25, è la legge che regge e descrive il funzionamento della natura, dall’altro, la legge della libertà, cioè la legge morale, se riferita all’uomo, non è 23

È ancora di grande utilità il lavoro di K. Düsing, Die Teleologie in Kants Weltbegriff, Bouvier, Bonn 1968, 19862. Per la terza Critica si veda almeno il recente commentario a più mani: Kritik der Urteilskraft, hrsg. von O. Höffe, Akademie Verlag, Berlin 2008, e la guida di F. Menegoni, La Critica del Giudizio di Kant. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 20082. 24 Cfr., sul tema, H. Krings, Natur und Freiheit. Zwei konkurrierende Traditionen, «Zeitschrift für philosophische Forschung», 39 (1975), pp. 3-20. 25 Com’è noto il termine “ragione” ha in Kant due usi: il primo, più ampio, che include entrambe le sue dimensioni o funzioni – intelletto e ragione – il secondo, specifico, rilevante da un punto di vista teoretico, ma fondativo dal punto di vista pratico.

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più una legge descrittiva di qualcosa che è, che accade, ma la legge prescrittiva di qualcosa che deve essere, che deve accadere, «anche se non accade» (KrV A 802/B 830); con il che, tra l’altro, Kant prende esplicitamente posizione sul carattere normativo dell’etica nella sua autonomia, anche per questo aspetto, dal mondo naturale, e quindi prende posizione per una netta distinzione tra essere e dover essere, che a partire dal noto passo del Trattato sulla natura umana di Hume passa attraverso i Principia Ethica di Moore e giunge al contemporaneo dibattito sulla distinzione tra fatti e valori, ovvero sulla cosiddetta “legge di Hume”26. Ma a questo proposito va ricordato anche un altro elemento: per Kant il mondo non è in sé dotato di valore ma ad esso può essere attribuito, il valore, dalla razionalità pratica, ovvero dal punto di vista morale degli esseri razionali. È uno squisito tratto “moderno” che differenzia Kant, o anche Kant, dalla tradizione antica27. Si è detto che il rapporto tra natura e libertà non si risolve in un’opposizione. Oltre a questa, infatti, si dà tra mondo della natura e mondo della libertà l’analogia già ricordata di costituire due modelli di ordine, entrambi sottoposti a leggi: è questo il senso della considerazione finale, spesso citata e talvolta banalizzata, contenuta nella Critica della ragion pratica, per cui si dà una sorta di corrispondenza tra cielo stellato e legge morale. Si tratta della coesistenza e del rispecchiamento di due forme di ordine. Ma non solo: il parallelismo si spinge ben più avanti, tanto che il mondo naturale, proprio per la sua caratteristica di costituire un universo ordinato, costituisce un modello ideale che diventa addirittura il “tipo” della legge morale, come viene esplicitamente tematizzato nella Critica della ragion pratica (KpV, AA V 67 sgg.)28 sulla scia di una delle formulazioni dell’imperativo categorico già contenute nella Fondazione: «agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua volontà a legge universale della natura» (GMS, AA IV 421). L’opposizione tra natura e moralità, o libertà, costituisce insomma anche un rapporto di analogia e di corrispondenza, una volta 26 D. Hume, Treatise on Human Nature, III.I.i. Per tutta la questione rimane utile la raccolta curata da W.D. Hudson, The Is-Ought Question, Macmillan, London 1969. Il lavoro più completo è quello di B. Celano, Dialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla legge di Hume, Giappichelli, Torino 1994. Rilevante, tra i lavori recenti, soprattutto il lavoro di H. Putnam, The Collapse of the Fact/Value Dichotomy and other Essays (2002), trad. it. a cura di M. De Caro, Fazi, Roma 2004. Che anche Kant sia caduto nella “fallacia naturalistica” è stato sostenuto dallo stesso Moore (Principia Ethica, §§ 75-76) e poi, per la Fondazione, da K.-H. Ilting, Der naturalistiche Fehlschluß bei Kant (1972), in Id., Grundfragen der praktischen Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1994, pp. 277-295; contra: S. Landucci, Sull’etica di Kant, cit., p. 20 e n. 9, e pp. 60-62. 27 Cfr. C. Korsgaard, The Sources of Normativity, cit., pp. 1-5, e cfr. A. Ferrarin, Saggezza, immaginazione e giudizio pratico. Studio su Aristotele e Kant, ETS, Pisa 2004, p. 78: «al mondo è in sé estraneo qualunque significato, che può solo derivare dal nostro conferimento». 28 Sulla questione v. A. Ferrarin, Saggezza, immaginazione e giudizio pratico, cit.

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che si sia chiarita la distinzione dei due piani, quello sensibile-naturale e quello “intelligibile”, ovvero l’oggetto della conoscenza teoretica e quello della conoscenza pratica29. Opposizione e analogia, dunque. Ma c’è un terzo, problematico aspetto del rapporto tra natura e libertà, che qui può essere solo accennato ma che certo non può essere ignorato. L’uomo, infatti, con le sue azioni, può essere preso in considerazione da entrambi i punti di vista, quello teoretico e quello, specificamente suo, pratico. E l’uomo agisce nel mondo. Lo stesso primo presentarsi, nella Critica della ragion pura, del problema della libertà ha luogo nel contesto di una discussione del principio di causalità e dell’ipotesi (per l’esattezza: la tesi della terza antinomia) di una causalità diversa dalle leggi della natura, ovvero di una causalità per libertà. Si pone, allora, il problema della relazione tra i due “mondi”, ovvero della sorte dell’azione libera nel mondo, che costituisce uno dei temi più spinosi dell’etica kantiana, proprio per il preliminare assunto di una distinzione tra piano della libertà e piano della natura. Kant era lungi dal non esserne consapevole, e cercò progressivamente di affrontare il problema, affinché l’azione dell’uomo nel mondo, anche nei suoi risultati, non fosse semplicemente affidata o al meccanismo naturale – strutturalmente, verrebbe da dire, indifferente al problema del valore – o a un meccanismo provvidenziale. Si tratta allora di vedere se un punto di vista diverso dalla considerazione “scientifica” – cioè: fisica – del mondo, non possa essere esteso anche alla natura e a quel particolare svolgimento della natura, nella sua relazione con la libertà, che è costituito dalla storia degli uomini30. Per quanto riguarda le caratteristiche specifiche della ragione pratica ne va messa infine in rilievo, sia sul piano storiografico sia sul piano teorico, quella di essere appunto ragione pratica: l’etica kantiana ritiene infatti che possano e debbano essere criteri razionali a sovrintendere al giudizio morale, alla deliberazione e alla conseguente motivazione. In ciò consiste il significato dell’affermazione che apre la seconda Critica per la quale «si dà una ragione pura pratica» (KpV, AA V 3). Il ruolo della razionalità non si esaurisce cioè nella sua funzione conoscitiva, ma è in grado di individuare fini (e 29 Il che rimanda a un’osservazione di H. Heimsoeth, ripresa e sottolineata di recente da C. Cesa, per cui l’acquisizione, da datarsi dalla Dissertatio, della distinzione tra diversi piani permette al Kant del periodo critico un accostamento che non rischia di offuscare la distinzione stessa (cfr. C. Cesa, Natura e mondo in Kant, in Etica e mondo in Kant, cit., p. 24 n. 29, e H. Heimsoeth, Studien zur Philosophie I. Kants, Bouvier, Bonn 1971, vol. I, p. 218). 30 Mi permetto a questo proposito di ricordare il mio lavoro su La filosofia pratica di Kant e la realizzazione della morale (2004), ora in Per una moralità concreta. Studi sulla filosofia classica tedesca, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 39-56. Per l’inquadramento della filosofia della storia nel complesso della riflessione kantiana v. P. Kleingeld, Fortschritt und Vernunft: Zur Geschichtsphilosophie Kants, Königshausen & Neumann, Würzburg 1995.

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non soltanto mezzi in vista di fini dati), di offrire criteri razionali del giudizio morale e di costituire elemento motivante nei confronti della volontà. Questo ruolo pratico della razionalità non è soltanto un ruolo di organizzazione delle proprie inclinazioni – anzi, in questo senso la ragione non sarebbe neppure propriamente “pratica”, secondo le note enunciazioni delle due introduzioni alla Critica della facoltà del giudizio – ma al contrario un ruolo specificamente pratico di una razionalità che è in grado di contrapporsi alle proprie inclinazioni egoistiche in nome di fini universali oggettivi e, di conseguenza, condivisibili. Sullo sfondo di questa posizione c’è, naturalmente come obiettivo polemico, la tesi humeana presentata nel Trattato e poi ribadita nella Ricerca sui princìpi della morale, ovvero la tesi che la ragione ha esclusivamente funzione logica e conoscitiva e, di conseguenza, non è né all’origine delle distinzioni morali, sorrette dal moral sense, né, tantomeno, in grado di muovere la volontà, che può essere mossa soltanto dalle passioni. La ragione è “inerte”, nella prospettiva di Hume. A questo “scetticismo sulla ragione pratica” che ha gran peso nella tradizione etica dopo Hume e Kant e che continua ad esercitare una notevole influenza nel dibattito etico di oggi31, Kant contrappone un ruolo produttivo della ragione come specificamente pratica. 3. Agire secondo princìpi: massime e imperativi La concezione kantiana della ragione pratica – intesa in generale, non necessariamente come ragione pura pratica – è fondata su due tesi principali. La prima consiste anche in un assunto metodologico, ovvero nell’idea che la razionalità pratica debba essere indagata a parte subiecti, vale a dire attraverso l’esame del funzionamento della volontà. In questo senso, il volere e l’agire sono distinti32, poiché il volere può non riuscire a realizzare fisicamente la sua funzione produttiva, consistente nella realizzazione di certi effetti. La ragione infatti, nel suo uso pratico, si occupa dei princìpi di determinazione della volontà, e della volontà Kant sottolinea due diversi aspetti: essa è la facoltà o «di produrre oggetti corrispondenti alle rappresentazioni» ovvero, dato che essa non è sempre in grado di realizzare ciò che si propone, «di determinare se stessa a realizzare questi oggetti (sia o no sufficiente il potere fisico), cioè a determinare la propria causalità. Poiché qui la ragione può almeno giungere a determinare la volontà, e ha quindi sempre 31 Mi riferisco al titolo del saggio di C. Korsgaard, Skepticism about Practical Reason, «Journal of Philosophy», 83 (1986), pp. 5-25, che usa l’espressione polemicamente per difendere, invece, una prospettiva kantiana. 32 Come è tornato a sottolineare O. Höffe, Einführung in die Kritik der praktischen Vernunft, in Id. (hrsg. von), Kritik der praktischen Vernunft, cit., pp. 1-23, in particolare p. 4.

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realtà oggettiva, in quanto non si tratta che di volere» (KpV, AA V 15). Questa tesi esprime un tratto centrale della concezione kantiana dell’agire, ovvero la sua attenzione per il soggetto e per il suo processo deliberativo, dove naturalmente per “volere qualcosa”, nel caso che non lo si riesca a realizzare, non deve essere inteso – Kant, probabilmente, lo ritiene ovvio – un mero desiderio o auspicio (ein blosser Wunsch), ma piuttosto il «ricorso a tutti i mezzi che sono in nostro potere», scrive nella Fondazione (GMS, AA IV 394). Va da sé che la posizione kantiana non implica indifferenza per l’azione reale, o per ciò che accade nel mondo, ma soltanto che l’agire deve essere esaminato a partire dal funzionamento della volontà e che – lo vedremo – è proprio il funzionamento della volontà che è particolarmente rilevante per l’analisi dell’agire morale e per la sua valutazione. La caratterizzazione della volontà contiene in modo implicito la seconda tesi centrale della teoria kantiana della razionalità pratica, ovvero che gli esseri razionali agiscono sempre secondo princìpi – anche qui, in tutte le loro azioni volontarie, di qualsivoglia genere esse siano33: l’agire volontario è sempre un agire razionale e non un agire irriflesso guidato dalla natura, nemmeno dalla natura umana. La ragione può certo determinare la volontà a servire “le inclinazioni”, ma non saranno anche in questo caso le inclinazioni a volere, e di conseguenza ad agire, ma la volontà stessa, che seguirà princìpi suoi propri. L’essere razionale, insomma, è sempre in grado di negare spazio a una propria inclinazione sensibile e di determinare la volontà contro di essa, proprio in grazia della sua caratteristica di agire secondo princìpi, cioè guidato dalla ragione. La capacità di agire secondo princìpi è ciò che distingue l’agire umano da tutte le altre cose della natura, secondo una nota enunciazione della Fondazione: «Ogni cosa della natura opera secondo leggi. Soltanto un essere razionale ha la facoltà di agire secondo la rappresentazione delle leggi, ossia secondo princìpi, cioè può avere una volontà» (GMS, AA IV 412)34. Ci si sta muovendo su un piano meramente descrittivo che riguarda l’agire in generale e non specificamente, o soltanto, l’agire morale. L’acquisizione che l’agire è sempre caratterizzato dalla razionalità, dalla determinazione della ragione, ha un’altra importante conseguenza che riguarda un caso specifico di essere razionale, cioè l’uomo. L’arbitrio umano è sempre li33 «La ragione costituisce pertanto la condizione permanente di ogni azione volontaria» (KrV, A 454/B 582). 34 Dove vale la pena di notare ancora una volta il duplice rapporto tra natura e ragione, distinzione, da un lato, analogia dovuta all’idea di conformità a un ordine, dall’altro. I problemi contenuti nella formulazione kantiana sono esplicitati da P. Laberge, La definition de la volonté comme faculté d’agir selon la répresentation de lois, in Grundlegung zur Metaphysik der Sitten. Ein kooperativer Kommentar, hrsg. von O. Höffe, Klostermann, Frankfurt a.M. 1989, pp. 83-96.

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bero, a differenza dell’arbitrio degli animali: l’arbitrio umano è sì un arbitrium sensitivum, ma non brutum, bensì liberum, poiché è affetto, cioè condizionato, patologicamente (dagli impulsi della sensibilità), e non necessitato come quello degli animali, come mostra, anche rimanendo sul piano generale, extramorale, la capacità degli uomini di andare al di là dei desideri immediati dando un’organizzazione razionale alla propria vita sensibile (KrV, A 803/B 831 e A 534/B 562). L’azione razionale – quindi qualunque azione, dato che quella compiuta dagli animali non potrebbe nemmeno essere chiamata tale – ha quindi luogo sempre secondo princìpi. Ma la volontà razionale può avere un diverso rapporto con i princìpi della ragione. Un essere pienamente razionale – come, per esempio, Dio – agisce sempre in modo compiutamente razionale, e segue princìpi razionali oggettivi, in quanto non si dà alcuna possibilità di scarto tra il principio oggettivo della ragione e il principio soggettivo assunto dalla volontà. In questo caso principio soggettivo e principio oggettivo coincidono, il che è dal punto di vista kantiano come dire che non si dà nessuna distanza tra il principio soggettivo secondo il quale il soggetto razionale realmente agisce e il principio oggettivo della volontà compiutamente razionale. I princìpi oggettivi della ragione sono, per una volontà compiutamente razionale, semplici princìpi descrittivi della sua struttura, e non si pone nemmeno il problema di un principio genuinamente soggettivo che se ne possa discostare, ciò che invece si pone nel caso dell’uomo. Nel caso dell’uomo, infatti, il principio soggettivo dell’agire è costantemente sottoposto alla possibilità, o al rischio, di non seguire il principio oggettivo della ragione. È proprio per questo che un principio oggettivo della ragione è per l’uomo un principio prescrittivo. Va ricordato che per Kant si dà un importante aspetto normativo – in sé non necessario – della tesi che l’agire degli esseri razionali è sempre un agire secondo princìpi. L’oggetto della valutazione morale, infatti, ciò che decide della moralità e del valore morale, è per Kant il principio soggettivo dell’azione, il quale, per avere genuino valore morale, deve adeguarsi in un modo determinato al principio oggettivo della ragione. È per questo che l’etica kantiana è stata considerata – più di recente con qualche riserva35 – un modello di etica deontologica, secondo la distinzione tra etiche deontologiche ed etiche teleologiche suggerita da C.D. Broad negli anni Trenta del XX secolo36. Si tratta di una posizione che vede nel rispetto di un principio 35 Cfr. ad esempio il saggio di B. Herman, Leaving Deontology behind, che chiude il volume The Practice of Moral Judgment, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1993, pp. 208-240. 36 «Le teorie deontologiche sostengono che ci sono proposizioni etiche della forma “Questo e quest’altro tipo di azione sarebbe sempre giusta (o sbagliata) in queste e queste altre circostanze, indipendentemente da quali possano essere le sue conseguenze” [...] Le teorie teleo-

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(qui oggettivo) l’elemento essenziale dell’agire morale, in polemica contro chi ritenga che il criterio della valutazione morale delle azioni consista esclusivamente nella valutazione delle conseguenze a cui le azioni danno luogo. Uno dei passaggi principali dell’etica kantiana, in entrambe le opere destinate alla fondazione dell’etica, è costituito dalla trattazione dei princìpi dell’agire e in particolare dalla relazione tra princìpi oggettivi e princìpi soggettivi. Si è visto che nel caso di una volontà perfetta dal punto razionale i due princìpi coincidono, mentre nel caso di una volontà che non sia meramente razionale, ma finita e quindi condizionata dagli impulsi sensibili, questa coincidenza non si dà di per sé, ed è questa mancata adeguazione strutturale che fa sì che per gli uomini i princìpi oggettivi della ragione costituiscano princìpi che esprimono una prescrizione: Se la ragione determina immancabilmente la volontà, le azioni di un essere del genere, che vengono riconosciute come oggettivamente necessarie, sono necessarie anche soggettivamente, ossia la volontà è una facoltà di scegliere soltanto ciò che la ragione indipendentemente dall’inclinazione riconosce come praticamente necessario, quindi come buono. Ma se la ragione non determina sufficientemente la volontà questa continua a sottostare a certe condizioni soggettive (certi moventi) che non sempre si accordano con le condizioni oggettive; in una parola, la volontà non è in se stessa pienamente conforme alla ragione (come avviene effettivamente negli uomini): le azioni che vengono riconosciute come oggettivamente necessarie sono allora soggettivamente contingenti, e la determinazione di una tale volontà conformemente a leggi oggettive è necessitazione [Nötigung] (GMS, AA IV 412-13).

La necessitazione o costrizione esercitata dalla ragione su una volontà che non ne segua immancabilmente i princìpi esprime per Kant la normatività della ragione. L’oggetto di questa normatività dei princìpi oggettivi, che sta al centro della prospettiva kantiana, è il principio soggettivo del soggetto agente, ovvero il principio secondo cui il soggetto realmente agisce, ciò che Kant chiama la massima (GMS, AA IV 399, 400 n.; KpV, AA V 35 sgg.)37. La massima è cioè quel principio dell’agente che esprime al tempo stesso la logiche sostengono che la correttezza (rightness) o l’erratezza di un’azione è sempre determinata dalla sua tendenza a produrre certe conseguenze che sono intrinsecamente buone o cattive» (C.D. Broad, Five Types of Ethical Theory, Routledge, London 1930, pp. 206-207). In realtà, per Kant non si tratta di valutare le azioni, almeno dal punto di vista etico, ma i princìpi soggettivi che ne stanno alla base. L’etica di Kant è quindi un’etica dei princìpi, ma ciò su cui i princìpi morali oggettivi esercitano la loro pressione normativa sono i princìpi soggettivi adottati dagli agenti, ovvero le massime: è quindi un’etica delle massime. Un confronto teorico tra le opzioni disponibili nell’etica normativa contemporanea che prende in esame etica kantiana, utilitarismo ed etica della virtù è offerto in M.Baron, P. Pettit, M. Slote, Three Methods of Ehics, Blackwell, Oxford 1997. 37 Si vedano le indicazioni di S. Bacin, Massime e princìpi pratici in Kant, «Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici», XVI (1999), pp. 323-362, e Id., Il senso dell’etica, cit., pp. 180 sgg., che discutono ampiamente la letteratura sull’argomento.

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forma e il contenuto dell’azione del soggetto, ma può avere anche validità oggettiva (in senso pratico, naturalmente, poiché ciò non avviene nel suo uso teoretico38), se si adegua in modo determinato ai princìpi oggettivi della ragione. In sé, però, la massima dell’agire non è un principio che prescriva di comportarsi in un certo modo, né di volere qualcosa, ma è soltanto una descrizione adeguata dell’azione dal punto di vista del soggetto, nella quale il soggetto chiarisce a se stesso cosa (contenuto) intende fare e perché (forma). La massima dell’azione esprime quindi come il soggetto intende e interpreta il significato della propria azione, cioè quale significato il soggetto attribuisca ad essa39. La possibilità della mancata coincidenza tra principio oggettivo e la massima come principio soggettivo dell’agire fa quindi sì che per l’uomo i princìpi oggettivi della ragione siano prescrizioni, comandi, cioè imperativi, poiché l’uomo può determinare la propria volontà anche in modo diverso da ciò che viene espresso dal principio oggettivo40. Questa caratteristica della volontà umana non è una peculiarità della sfera morale: l’uomo può comportarsi in modo irrazionale in tutte le situazioni, per esempio, dissipando il proprio patrimonio (secondo la massima di godersela finché si può, non essendo per nulla certo di raggiungere la vecchiaia) e comportandosi in modo imprudente. Tra la moralità e le altre sfere della prescrizione Kant pone però una differenza essenziale: la caratteristica specifica dell’imperativo della moralità è quella di non essere sottoposto a condizioni soggettive, ma universale e necessario, e quindi incondizionato, contrapposto a imperativi che non possano essere nello stesso senso universali e necessari, in quanto sottoposti a quelle condizioni. Questa strategia argomentativa è diversa nella Fondazione e nella seconda Critica, per quanto persegua il medesimo intento: mentre nella Fondazione l’opposizione principale è costituita dalla coppia imperativi categorici/imperativi ipotetici (GMS, AA IV 413 sgg.), nella Critica della ragion pratica, con un’accentuazione della coppia forma/materia, Kant tratta con molta minore attenzione la distinzione tra gli imperativi (cfr. KpV, AA V 20) e si fonda piuttosto sulla opposizione tra leggi e massime, la cui 38 La nozione ha infatti in Kant anche un uso teoretico, per cui si danno massime dell’uso speculativo della ragione, della facoltà del giudizio e del pensiero in generale: cfr. KrV, A 471 n./B 499 n., A 666-667/B 694-695; KdU, AA V 181 sgg., 294 (cfr. K. Steigleder, Kants Moralphilosophie. Die Selbstbezüglichkeit der reinen praktischen Vernunft, Metzler, Stuttgart 2002, p. 121 e S. Bacin, Massime e princìpi pratici in Kant, cit., in particolare pp. 335-336). 39 Il carattere riflessivo del soggetto morale kantiano viene sottolineato dalla nozione di “adozione riflessiva” (reflective endorsement) utilizzata da C. Korsgaard, The Sources of Normativity, cit., pp. 49 sgg. 40 Tant’è che lo stesso concetto di massima è uno di quelli che «possono essere applicati soltanto ad esseri finiti» (KpV, AA V 79).

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definizione come, entrambi, princìpi apre il primo paragrafo: «I princìpi pratici […] sono soggettivi, o massime, se la condizione viene guardata dal soggetto come valida soltanto per la sua volontà; sono invece oggettivi, o leggi pratiche, se la condizione è riconosciuta come oggettiva, ossia valida per la volontà di ogni essere razionale» (KpV, AA V 19). In realtà l’opposizione riguarda due diversi ambiti di validità della massima come princìpio soggettivo: nel caso di princìpi di determinazione della volontà – ovvero condizioni – validi soltanto per il soggetto, o per una pluralità di soggetti, la massima soggettiva prodotta avrà soltanto una validità soggettiva (potremmo dire: resterà meramente soggettiva), se invece il princìpio di determinazione della volontà – la condizione – è oggettivo, la massima soggettiva potrà avere una validità oggettiva e universale – farsi, quindi, essa stessa legge. A questa distinzione corrisponde la distinzione tra imperativi ipotetici e imperativi categorici41: entrambi sono oggettivi di fronte alle massime, perché il soggetto non pienamente razionale potrebbe non seguire sia gli uni sia gli altri, ma l’oggettività dei primi muove da un fine dato (una condizione soggettiva) per il quale si cercano i mezzi, e si tratterà quindi di imperativi dell’abilità o della prudenza42, mentre l’oggettività dei secondi consiste nella determinazione della volontà per se stessa, senza riguardo per il fine soggettivo, ed è quindi fondata su una condizione universale, valida per ogni essere razionale. Per quanto riguarda gli imperativi ipotetici, poi, Kant mette in dubbio già nella Critica della ragion pratica – prima dell’esplicitazione del tema nelle introduzioni alla Critica della facoltà del giudizio – il loro carattere genuinamente pratico, perché l’individuazione dei 41 Per la formazione e lo sviluppo degli imperativi in Kant fino al 1785 è eccellente il libro di C. Schwaiger, Kategorische und andere Imperative, cit. Impossibile ricordare la letteratura sul tema; ricordo soltanto O. Höffe, Kants kategorischer Imperativ als Kriterium des Sittlichen (1977), in Id., Ethik und Politik. Grundmodelle und -probleme der praktischen Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1979, pp. 84-119, e il trascurato lavoro di M. Moritz, Kants Einteilung der Imperative, Gleerup/Munksgaard, Lund/Copenhagen 1960. Dubbi sulla pertinenza della distinzione grammaticale tra gli imperativi rispetto agli intenti kantiani sono stati sollevati già da L.W. Beck, Apodictic Imperatives, «Kant-Studien», XLIX (1957-58), pp. 7-24; cfr. anche G. Patzig, Die logischen Formen praktischer Sätze in Kants Ethik (1966), in Id., Ethik ohne Metaphysik, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1983, pp. 101-126. Sul piano teorico, va ricordata la decisa posizione antikantiana, ispirata a Hume, espressa da P. Foot, Morality as a System of Hypothetical Imperatives (1972), trad. it. di L. Ceri in P. Foot, Virtù e vizi, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 89-106. Per una ricognizione complessiva sulla nozione di imperativo v. ora la monografia di S. Bacin, Imperativo, Guida, Napoli, in corso di stampa. 42 Non affronto qui il complesso tema della prudenza, per il quale rimando innanzitutto a P. Aubenque, La prudence chez Kant, «Revue de Métaphysique et de Morale», LXXX (1975), pp. 156-182 e N. Hinske, Die Ratschläge der Klugheit im Ganzen der Grundlegung, in Grundlegung zur Metaphysik der Sitten. Ein kooperativer Kommentar, hrsg. von O. Höffe, cit., pp. 131147. Più di recente, v. C. Schwaiger, Klugheit bei Kant. Metamorphosen eines Schlüsselbegriffs der praktischen Philosophie, «Aufklärung», 14 (2002), pp. 147-159.

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mezzi adatti a un fine si basa su «princìpi meramente teoretici» (KpV, AA V 26) che vengono applicati a una situazione data. La tesi kantiana è che si possa individuare un principio di determinazione della volontà – una condizione della massima – che abbia oggettività e universalità e che non sia sottoposto a condizioni soggettive di determinazione. Ma è qui che emerge il tratto peculiare dell’etica kantiana nel suo carattere formale (oggetto di tante critiche, da Hegel in avanti): tutti i princìpi materiali di determinazione della volontà, ovvero tutte le massime prodotte sulla base di una materia, di un oggetto, di un fine della volontà (in questo contesto i termini sono per Kant sinonimi) come principio di determinazione, sono strutturalmente condizionati soggettivamente, perché sono determinati dal loro contenuto empirico: se il fine dell’azione è il principio di determinazione della volontà, questo è dipendente dalla rappresentazione di un oggetto che si voglia produrre (di qualsivoglia genere), ovvero dalla rappresentazione del fine stesso, nella sua relazione con il soggetto che agisce. Ma ciò significa per Kant che il principio di determinazione della volontà è legato alla prospettiva del piacere per la realtà dell’oggetto, e quindi è necessariamente empirico e intrinsecamente legato all’esperienza soggettiva. Esso non può essere un principio universale, ma piuttosto particolaristico e sostanzialmente egoistico, essendo legato alla prospettiva del proprio piacere: è per questo che «tutti i princìpi pratici materiali sono, in quanto tali, di una sola e medesima specie, e cadono sotto il principio universale dell’amore di sé o della propria felicità» (KpV, AA V 22). Il concetto di felicità43, Kant lo afferma in molte occasioni, è inevitabilmente il desiderio (legittimo) di tutti gli uomini, ma essendo un concetto di cui non è possibile determinare la natura – costituisce soltanto un “titolo generale dei motivi soggettivi di determinazione” – esso non determina nulla, ovvero: da un lato è la semplice moltiplicazione della nostra prospettiva di singoli piaceri, e quindi irriducibilmente soggettivo (poiché ciascuno cerca la felicità in piaceri diversi), dall’altro, come “titolo generale”, è una nozione vuota che non siamo in grado di definire e caratterizzare adeguatamente. La nozione di felicità è quindi per un verso irriducibilmente vincolata alla dimensione edonistica ed egoistica del singolo, per l’altro è indeterminata, e a maggior ragione incapace di determinare la volontà. L’ottica eudemonistica, caratteristica di buona parte del pensiero settecentesco, è uno dei grandi obiettivi polemici di Kant ed è ritenuta del tutto inadeguata a costituire il principio della moralità. 43 Per una caratterizzazione generale del problema v. C. Cesa, Armonia e felicità. Dall’illuminismo all’idealismo, in Piacere e felicità. Fortuna e declino, a cura di R. Crippa, Liviana, Padova 1982, pp. 79-104; inoltre: D. Tafani, Virtù e felicità in Kant, cit., in particolare pp. 142.

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Naturalmente qualunque azione, e quindi qualunque massima, hanno una materia, ovvero un fine, un contenuto (KpV, AA V 34), ma questo fine non può costituire di per sé il principio di determinazione della volontà perché in quanto sempre empirico è sempre dipendente da una condizione soggettiva, e non può quindi farsi legge, ovvero essere universale e necessario. Si badi: il contenuto della massima (ciò che si intende fare) non è indifferente – tutt’altro – ma non è il principio di determinazione della volontà; se ne prende in esame piuttosto un altro aspetto, ovvero la sua forma come forma di quel determinato contenuto, la quale, non essendo dipendente da nulla di empirico, può essere universale e necessaria. La massima di “non mentire al mio prossimo” include certamente un fine giusto, un contenuto giusto, ma non è questo contenuto che può costituire il principio di determinazione della volontà, mentre è piuttosto il suo aspetto formale che costituisce questa massima come moralmente corretta. Questa caratteristica formale è individuata da Kant nel suo ambito di validità, ovvero nella forma di una legislazione universale: «la semplice forma di quelle massime, in virtù della quale esse risultano idonee a una legislazione universale, ne fa, da sé sola, leggi pratiche» (KpV, AA V 27). Come si vede, ad essere universalizzabile è naturalmente un dato contenuto, la descrizione di un’azione concreta, che acquisisce così la validità di una legge. E se il principio di determinazione della volontà deve essere questa dimensione formale, allora avremo anche dimostrato che il principio è un principio a priori frutto della razionalità, e non di qualcosa di empirico, perché la semplice forma della legge «può essere rappresentata solo dalla ragione» (KpV, AA V 28). Sulla base di quanto descritto, Kant può infine formulare la legge fondamentale della ragione pura pratica, ovvero quel principio formale che chiarisca in che cosa consista la determinazione della volontà di una volontà morale: «agisci in modo tale che la massima della tua volontà possa sempre, nello stesso tempo, valere come principio di una legislazione universale» (KpV, AA V 30). Se la ragione pura può essere per se stessa pratica, il principio della moralità deve essere una legge, che per l’uomo si esprime in un imperativo, e avere un carattere formale. Si propone però di nuovo, nella seconda Critica, il problema della realtà della legge morale che già si era posto nella Fondazione, e qui interviene la nuova soluzione kantiana individuata nella tesi del fatto della ragione: la coscienza della legge morale è un dato immediato, non ulteriormente derivabile né – lo si è accennato sopra – deducibile da altro. Essa è presente alla coscienza e sovrintende alla stessa formazione delle massime, un concetto, questo di “massima”, sul quale vale ora la pena di tornare. La nozione di massima è estremamente complessa, e va detto che Kant non la problematizza esplicitamente: la sua idea è che si diano princìpi soggettivi razionali dell’agire, le massime, e che questi princìpi svolgano un

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ruolo essenziale per considerare la razionalità delle scelte dell’agente e, in determinate condizioni, la loro moralità. Ciò attribuisce alla nozione di massima una collocazione centrale che mostra come essa non si risolva, per quanto riguarda la sua valutazione e la sua adozione, in un semplice processo di applicazione meccanica. In realtà, infatti, essa pone numerosi problemi. Come è stato fatto notare, il rapporto tra massima e azione non è una corrispondenza che abbia un significato univoco: un’azione può essere descritta da diverse massime e una stessa massima può descrivere diverse azioni44, anche per il diverso grado di generalità che una massima che descrive un’azione può avere. La massima utilizzata da Kant per esprimere un atteggiamento prudente nel senso tecnico del termine, fare economie in gioventù per avere una serena vecchiaia (KpV, AA V 20), può essere la descrizione ad un alto livello di generalità di molte azioni45, e anche un’azione può essere descritta da molte massime. Ma la questione è più complicata: la massima che il soggetto adotta come descrizione adeguata del proprio agire, cioè la massima che egli stesso produce, presuppone una molteplicità di elementi, teoretici e pratici, che entrano in gioco: una considerazione delle circostanze in cui si agisce, i princìpi pertinenti (cioè quali siano i princìpi che riguardano l’azione), i diversi fini che sono implicati in quell’agire (fini specifici dell’azione, ma anche fini più generali), uno o alcuni dei quali possono entrare a far parte della genuina descrizione del senso dell’azione. La produzione della massima è cioè l’effettivo momento centrale del processo di deliberazione del soggetto. Di frequente si è inteso il rapporto tra la massima e l’imperativo categorico come un semplice test, volto a verificare, quando la massima non sia universalizzabile, l’illiceità morale della massima. In questo senso, l’esperimento mentale contenuto nella formulazione generale dell’imperativo categorico già ricordata – «agisci in modo tale che la massima della tua volontà possa sempre, nello stesso tempo, valere come principio di una legislazione universale» (KpV, AA V 30) – starebbe a significare che la massima che sta alla base dell’agire, ovvero la descrizione adeguata di esso dal punto di vista dell’adozione di un principio, possa essere valutata come universalizzabile o meno e, nel caso che non lo sia, mostrarsi come una massima immorale. L’operazione kantiana avrebbe cioè prevalentemente un significato negati-

44 Cfr. O. O’Neill (Nell), Acting on Principle. An Essay in Kantian Ethics, Columbia University Press, New York 1975, pp. 13 sgg. 45 La problematica questione del diverso grado di generalità delle massime è stata sollevata di recente anche da C. La Rocca, Kant e il problema della deliberazione morale, in Etica e mondo in Kant, cit., pp. 123-143. In questo contesto vale la pena di ricordare il carattere intrinsecamente problematico della descrizione di un’azione segnalato da E. Anscombe nel suo classico lavoro Intention, Basil Blackwell, Oxford 1957, § 23.

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vo46, il cui significato fondamentale consisterebbe in un’idea insita in qualunque esperienza morale, se non altro dal punto di vista psicologico, e cioè il rifiuto di fare un’eccezione per noi stessi quando volessimo trasgredire un principio che continuiamo a ritenere valido47. È una prospettiva che ha qualche peso, nella concezione di Kant, ma non è tutto qui, anche a non voler tenere conto dello sviluppo kantiano di una dottrina dei doveri nella Metafisica dei costumi48 (v. infra, § 5). L’interpretazione della massima sottoposta all’imperativo categorico come un semplice test non è sembrata del tutto convincente49: la produzione della massima ha infatti un ruolo essenziale nel processo deliberativo del soggetto agente che fa pensare a un percorso ben più complesso della semplice esecuzione di un test. La formazione della massima è cioè essa stessa un processo in cui i princìpi oggettivi della moralità svolgono un ruolo costitutivo, per usare un termine kantiano. E non solo perché la stessa considerazione di una situazione data presuppone l’individuazione delle caratteristiche che in essa siano moralmente rilevanti50, ma anche perché la formazione della massima ha luogo attraverso una considerazione determinata di cosa si vuole fare e del perché si vuole farlo. Tanto il contenuto della massima, quindi, quanto la sua forma, sono sottoposte al principio oggettivo della moralità che è dato, perché oggettivo, attraverso il “fatto” della ragione. La formazione della massima è quindi un processo segnato nel suo svolgersi dall’atteggiamento morale del soggetto, che dà senso al proprio agire attraverso il perseguimento di un fine sulla base di un determinato principio e al tempo stesso attraverso una certa motivazione a perseguire quel fine. La legge morale richiede infatti che si persegua un fine giusto ma che al tempo stesso, e in ciò consiste il valore morale dell’azione, che lo si persegua semplicemente perché la legge morale lo comanda, e non sulla base di un’altra motivazione. La formulazione di una massima dell’agire costituisce insomma già di per sé un’operazione di tipo morale. La massima è sì descrittiva, ma è la conseguenza di una scelta di tipo morale: in quanto si sceglie di agire in un modo determinato, si è in grado di esprimere il senso dell’azione 46 I doveri sarebbero le azioni contrarie a quelle vietate dal test (cfr. S. Landucci, La Critica della ragion pratica di Kant, cit., p. 64). 47 S. Landucci, La Critica della ragion pratica di Kant, cit., pp. 175-76. 48 Come ricorda A. Ferrarin, Saggezza, immaginazione e giudizio pratico, cit., p. 41. 49 Cfr. per esempio già O. O’Neill, Acting on Principle, cit., ma più di recente B. Herman, The Practice of Moral Judgment, cit., che dichiara esplicitamente di essersi mossa dall’interpretazione dell’imperativo categorico come model of maxim testing a quella di model of establishing deliberative presumptions (cfr. p. XI). Cfr. anche S. Bacin, Massime e princìpi pratici in Kant, cit.; C. La Rocca, Kant e il problema della deliberazione morale, cit. 50 Come ha osservato B. Herman, The Practice of Moral Judgment, nel volume omonimo, cit., pp. 73-93, in particolare p. 77, che parla di rules of moral salience.

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attraverso una descrizione di essa che implica l’assunzione di determinate ragioni per agire – come oggi è invalso di dire – come valide, in quanto possibili princìpi di una legislazione universale, e che contiene una determinata motivazione riguardante quell’assunzione. Si è visto che la massima conforme alla legge morale deve essere, secondo l’enunciato kantiano, universalizzabile, “principio di una legislazione universale”. Alcune massime sono universalizzabili e altre non lo sono, evidentemente. Kant presenta però esplicitamente – nella Fondazione – le proprie diverse formulazioni dell’imperativo categorico (universalità, la prerogativa degli esseri razionali come fini in sé, la volontà di ogni essere razionale come universalmente legislatrice) come «altrettante formule della medesima legge» (GMS, AA IV 436). È in questo contesto che torna il riferimento alle massime, e al modo in cui esse vengono costituite per quanto riguarda il loro contenuto. Qui ci interessano le prime due formulazioni, perché è possibile così esplicitare un elemento dell’etica kantiana di grande rilevanza e che ha sempre costituito un notevole elemento di attrazione51: l’idea dell’umanità come fine in sé52. Le due formulazioni sono per Kant strettamente connesse. Tutte le massime di rilevanza morale hanno infatti nell’universalità la loro forma, ma sono vincolate anche per quanto riguarda il loro contenuto, ossia il fine che si propongono, esse cioè hanno «una materia, ossia un fine, per cui la formula dice: l’essere ragionevole, che è fine per sua propria natura, quindi fine in se stesso, deve servire per ogni massima come condizione limitativa di tutti i fini meramente relativi ed arbitrari» (GMS, AA IV 436). L’idea che gli esseri razionali siano fini in sé è in Kant l’espressione – ellittica – di due tesi, l’una negativa, di non trattare gli esseri razionali soltanto come mezzi, l’altra positiva, di essere soltanto essi capaci di porsi fini. E la formazione della massima subisce da questa tesi una limitazione, ovvero quella di non produrre massime che includano il trattamento degli altri esseri razionali come semplici mezzi. E la connessione tra i due lati della massima – forma e contenuto, ovvero universalità e autofinalità, ovvero le due formulazioni principali dell’imperativo categorico – è ancora più stretta. L’universalità della massima implica che non sia possibile adottare massime che gli altri non possano a loro volta adottare, ovvero indivi51

Per esempio nell’ambito del cosiddetto “socialismo neokantiano” nelle sue diverse versioni, da Hermann Cohen a Karl Vorländer. Per il dibattito recente nel mondo anglosassone v. L. Denis, Kant’s formula of the end in itself: Some recent debates «Philosophy Compass», 2 (2007), 2, pp. 244-257. 52 «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo» (GMS, AA IV 429). Il tema, ben presente nella Fondazione, trova minore spazio nella Critica della ragion pratica (cfr. per esempio KpV, AA V 87, 131), mentre non è chiaro il suo ruolo sistematico nella Metafisica dei costumi.

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duare fini dell’azione che non possano essere anche fini altrui: «Infatti colui che […] mi propongo di usare per i miei fini è nell’impossibilità di essere d’accordo con il mio modo di trattarlo e di assumere così in se stesso il fine di questa azione» (GMS, AA IV 429). Usare un altro essere razionale come mero mezzo significa agire in base a una massima che non può essere adottata anche da un altro essere razionale53. 4. Agire per dovere: la motivazione morale Abbiamo visto che il movente morale è parte integrante della costituzione della massima, e ci si è quindi già accostati al problema della motivazione. Ciò che motiva alla formazione della massima e quindi all’azione è infatti per Kant il vero e proprio depositario del valore morale, la cui autonomia e specificità viene sottolineata da Kant nella notissima apertura della Fondazione: nulla si dà nel mondo, e anche al di fuori di esso, che abbia valore in sé, se non una volontà buona (ossia una volontà che produca massime corrette sulla base della corretta motivazione, GMS, AA IV 393). Kant è sempre esplicito su questo tema: ciò in cui consiste il valore morale non è il fine dell’azione, o il risultato conseguito, ma la natura stessa della volontà, ovvero la formazione delle sue massime e la connessa spinta all’agire. Naturalmente ciò non significa che ciò che si fa sia indifferente, o che siano indifferenti i fini o le conseguenze – lo si vede anche dalla formazione della massima, nella quale un qualche fine dell’azione entra di diritto – ma non sono le conseguenze o il raggiungimento del fine a costituire il valore morale dell’azione: «La volontà buona non è tale per ciò che essa fa e ottiene, e neppure per la sua capacità di raggiungere i fini che si propone, ma solo per il volere, cioè in se stessa» (GMS, AA IV 394). È noto quanto Kant sia stato accusato di essere un teorico dell’interiorità, della pura Gesinnung, della disposizione d’animo54, talvolta riportando una versione caricaturale delle sue asserzioni, talvolta tralasciando quanto una posizione fondata sui “motivi” non sia davvero invenzione kantiana, ma trovi, pur con altre differenze, significativi esempi nella tradizione, fino ad autori come Hume e Rousseau55. Certo è che in Kant l’attenzione per il giudizio morale è programmaticamente attenta ai princìpi adottati dal soggetto 53

O. O’Neill, Constructions of Reason, cit., p. 138. Interamente dedicata al tema è l’indagine di H. Köhl, Kants Gesinnungsethik, de Gruyter, Berlin 1990. 55 Si vedano a questo proposito le pagine di S. Landucci, Sull’etica di Kant, cit., pp. 172 sgg. Landucci ricorda anche una sorta di classificazione delle etiche fondate rispettivamente sulle azioni (etica ebraica), sui motivi (etica cristiana) e sui caratteri (etica classica): cfr. ivi, p. 167, anche per la radice del tema kantiano nella lotta contro l’ipocrisia morale tra sei e settecento. 54

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e al loro valore peculiarmente morale. L’autonomia di quest’ultimo è una tesi essenziale in Kant, che pure si guarda bene dal considerare il valore morale l’unico valore, pur essendo, questo sì, l’unico valore incondizionato. E a proposito dell’apertura della Fondazione vale la pena di soffermarsi sul significato di quella famosa asserzione (nulla esiste nel mondo, e anche al di fuori di esso, che abbia valore in sé, se non la volontà buona). Si è vista la distinzione kantiana tra volere e agire, e proprio in questa distinzione, dal punto di vista sistematico, può essere rintracciato il significato che si è detto. Kant riconosce il valore di molti altri beni – minuziosamente elencati nello stesso luogo della Fondazione – ma ritiene che tutti questi beni non siano buoni in qualunque contesto, e possano al contrario essere visti in una luce negativa quando siano collegati all’immoralità, né fa eccezione il valore più rilevante accanto a quello della moralità, ovvero la felicità (GMS, AA IV 393-394). In secondo luogo, l’intera questione sembra essere considerata da Kant alla luce di quanto possa essere sotto il controllo del soggetto agente e quanto invece sia inevitabilmente sottratto al suo potere, o almeno rischi di esserlo. Il processo di determinazione della volontà appare a Kant come qualcosa che è strutturalmente nel potere dell’agente – nel senso accennato di impegno reale nell’azione, e non del mero “desiderio” – e che quindi può essere valutato anche indipendentemente dal suo risultato concreto, effettivo, poiché quest’ultimo è sottoposto a variabili che sono indipendenti dalle possibilità di controllo. La valutazione specificamente morale, quindi, non potrà rivolgersi agli stati di cose, ma alla disposizione d’animo che sta a fondamento della massima dell’azione. Molti anni dopo Kant, nel XX secolo, un filosofo critico dell’utilitarismo, commentatore di Kant56 e autore della più rilevante teoria del dovere post-kantiana, William David Ross, avrà in mente la stessa problematica (pur prendendo un’altra direzione rispetto a Kant) quando scriverà che l’atto moralmente giusto è un atto “fortunato” proprio per l’impossibilità di controllare la catena delle conseguenze a cui un determinato atto dà luogo57 (mentre le azioni buone, che Ross distingue dagli atti giusti perché le prime includono una buona motivazione, non lo sono58). E a questo proposito si può ricordare anche una discussione avutasi negli ultimi trent’anni a proposito della cosiddetta “sorte morale” (moral luck), sollevata da Bernard Wil-

56 W. D. Ross, Kant’s Ethical Theory. A Commentary on the ‘Grundlegung zur Metaphysik der Sitten’, Clarendon, Oxford 1954. 57 W. D. Ross, The Right and the Good (1930), ed. it. a cura di R. Mordacci, Bompiani, Milano 2000, p. 40. 58 Ivi, pp. 11-12.

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liams e poi affrontata da Thomas Nagel e, successivamente, da altri59. La questione che si pone è proprio quella che si è posto Kant: il ruolo della “sorte” o “fortuna” in atti che si giudicano moralmente giusti o sbagliati anche a causa di quanto non può essere in controllo dell’agente (per esempio una stessa azione mossa da uno stesso motivo che ha in un caso conseguenze rilevanti – per esempio un omicidio – nell’altro – casualmente – nessuna conseguenza). L’idea di Kant, giusta o sbagliata che sia60, è proprio che la determinazione della volontà è qualcosa che è sempre in potere del soggetto, anche se può mancare la capacità fisica di realizzarla, e in quella determinazione consiste il genuino valore morale dell’azione. Con più esitazioni nella Fondazione, più esplicitamente – ma non senza problemi – nella Critica della ragion pratica, Kant affronta il problema della motivazione morale, che abbiamo visto comparire nella presenza di un movente morale già nella formazione della massima61. Il valore morale dell’azione consiste nel derivare da una volontà buona, e questa è la volontà nella quale la legge morale determina immediatamente la volontà. L’analisi kantiana vuole mostrare il carattere razionale della motivazione, e anche quando parla di sentimento, lo interpreta come «la moralità stessa, vista soggettivamente come movente» (KpV, AA V 76). Il rispetto per la legge non sarebbe quindi un elemento ulteriore, ma soltanto l’effetto che la legge esercita sulla sensibilità dell’uomo, il suo aspetto soggettivo, ovvero la presenza della legge stessa come principio razionale. Per Kant, quindi, la motivazione all’agire è interna all’obbligo; il soggetto, per essere motivato ad agire moralmente, viene mosso a sufficienza dal riconoscimento della validità della legge morale: questo riconoscimento, espresso dalla massima stessa, è l’assunzione consapevole di un principio razionale di determinazione della volontà che è per se stesso sufficiente all’azione pur se nel soggetto ciò si esprime attraverso un peculiare sentimento – l’unico che possiamo conoscere a priori – chiamato da Kant il sentimento del rispetto per la legge (GMS, AA IV 400-401 e n.; KpV, AA V 71 sgg.)62. 59 B. Williams, Moral Luck (1976), tradotto nella raccolta che ne prende il titolo in Id. Sorte morale, trad. it. di R. Rini, Introduzione di S. Veca, Il Saggiatore, Milano 1987, pp. 33-57; T. Nagel, Moral Luck (1976), trad. in Id., Questioni mortali, trad. it. di A. Besussi, Il Saggiatore Milano 1988, pp. 30-43. Per la discussione successiva v. Moral Luck, ed. by D. Statman, State University of New York Press, Albany 1993. 60 J. Feinberg (Problematic Responsibility in Law and Morals, in Id., Doing and Deserving, Princeton University Press, Princeton 1970) ritiene che nemmeno la determinazione della volontà sia in controllo dell’agente. 61 Su tutta la questione segnalo soltanto Moralische Motivation. Kant und die Alternativen, hrsg. von H. Klemme et al., Meiner, Hamburg 2006. 62 Nella Critica della ragion pura la teoria kantiana della motivazione si fonda sulla prospettiva – poi esplicitamente rifiutata, della punizione e dei premi divini (cfr. KrV, A 811812/B 839-840; cfr. A 588-589/ B 616-617).

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Nel lessico dell’etica contemporanea, Kant è quindi sul piano della motivazione un sostenitore di una posizione internalistica – la motivazione è interna all’obbligo. La posizione in generale opposta a Kant, quella di Hume, è anch’essa internalistica, ma fondata sulla capacità motivazionale della dimensione passionale e non della dimensione razionale dell’uomo, come si è detto. Naturalmente, l’internalismo non presuppone che la sufficienza della spinta motivazionale dia sempre effettivamente luogo all’azione moralmente giusta, ma afferma soltanto che lo può fare, cioè che è in grado di farlo (indipendentemente dalla questione se poi lo faccia davvero e se questa capacità venga dalla ragione o dalle passioni). La questione della motivazione, a lungo trascurata, ha avuto nel XX secolo una notevole ripresa di interesse, fino a diventare un tema centrale. Se già Prichard aveva sollevato il problema in una conferenza del 192863, è William Falk (1948) che introduce la coppia internalismo/esternalismo64, mentre W.K. Frankena ne propone una prima messa a punto una decina d’anni dopo65. E gli ultimi decenni ne hanno visto una notevole intensificazione. Nel campo degli “internalisti”, l’assunzione humeana dell’inerzia della ragione è stata di frequente presa per buona, anche perché l’argomento humeano costituiva uno degli aspetti utilizzati in funzione antirazionalistica da parte dei noncognitivisti e da chi comunque si sia posto, o si ponga, sulla loro scia. Ma le cose sono molto cambiate negli ultimi anni, e ciò è avvenuto proprio ispirandosi a Kant, a partire dalla posizione espressa da Thomas Nagel in un importante libro del 197066, e poi in chi esplicitamente si sia ripromesso di formulare un’etica “kantiana”, come, per esempio, Christine Korsgaard: l’inerzia della ragione non può affatto essere data per scontata, e la posizione di Hume e di chi a Hume si sia ispirato è vista come il frutto di un pregiudizio sulle funzioni stesse della ragione che avrebbe per conseguenza uno “scetticismo motivazionale”. Quest’ultimo, cioè, sarebbe piuttosto il frutto di una concezione della razionalità che di un’analisi della motivazione67. E la questione è oggi tutta aperta68. 63

H. Prichard, Duty and Interest, Clarendon Press, Oxford 1928. W.D. Falk, Ought and Motivation, «Proceedings of the Aristotelian Society», 48 (194748), pp. 492-510. 65 W.K. Frankena, Obligation and Motivation in Recent Moral Philosophy, in Essays in Moral Philosophy, ed. by A.I. Melden, University of Washington Press, Seattle 1958, pp. 40-81. 66 T. Nagel, The Possibility of Altruism (1970), trad. it. di R. Scognamiglio, presentazione di C. Galli, Il Mulino, Bologna 1994. 67 C. Korsgaard, Skepticism about Practical Reason, cit. 68 Un’ottima indagine sulle posizioni in gioco, svolta esplicitamente da una prospettiva humeana, è offerta da L. Ceri, Ragione e desideri. La teoria della motivazione nell’etica contemporanea, Il Mulino, Bologna 2008. 64

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Per Kant la semplice conformità al dovere non è sufficiente perché un’azione sia dotata di valore morale: «Il concetto del dovere esige dunque oggettivamente, nell’azione, l’accordo con la legge, soggettivamente invece, nella sua massima, il rispetto per la legge come unico modo di determinazione della volontà mediante la legge» (KpV, AA V 81). Le diverse forme di comportamento conformi al dovere necessitano allora di un’analisi, sulla base del presupposto che i comportamenti contrari al dovere non siano concettualmente problematici in quanto senza dubbio moralmente sbagliati (GMS, AA IV 397 sgg.). Ciò chiarisce – se ce ne fosse bisogno – che la legalità – la semplice conformità al dovere senza un’adeguata motivazione, ovvero senza che si fondi su una volontà buona – costituisce di fronte alle azioni contrarie al dovere un valore, anche se la stessa, mera legalità è vista negativamente a confronto con la moralità genuina, ovvero con l’agire conforme al dovere sorretto da una volontà buona69. L’agire conforme al dovere può avere luogo sia per uno scopo interessato (il commerciante onesto che non vuole perdere i clienti), sia per un’inclinazione naturale immediata, che è il caso che Kant giudica più problematico (sia per quanto riguarda il dovere verso se stessi, sia per quanto riguarda il dovere verso gli altri; cfr. GMS, AA IV 397-98), sia, infine, per dovere (aus Pflicht), che costituisce l’unica motivazione genuinamente dotata di valore morale, ovvero fondata sul rispetto della legge. La situazione che Kant giudica interessante è quella in cui l’assunzione della legge morale coincide con l’inclinazione, perché ciò dà modo di chiarire analiticamente la genuina natura del valore morale dell’azione, in particolare nel caso del dovere verso gli altri. Questo tema è sempre costato a Kant molte accuse, per l’esplicita opposizione che Kant instaurerebbe tra dovere e inclinazione70, a partire dalla polemica condotta da Schiller in Su grazia e dignità. La trattazione kantiana (GMS, AA IV 397 sgg.) è infatti volta a mostrare che soltanto l’azione compiuta per dovere, e non sulla base di un’altra motivazione, ha genuino valore morale, e l’esempio rilevante scelto da Kant a questo proposito è l’idea di un filantropo che sia spinto naturalmente – per “simpatia” – a comportarsi in modo conforme al dovere e pro69 «Se la determinazione della volontà ha luogo sì in conformità alla legge morale, ma soltanto tramite un sentimento, di qualunque specie sia, che debba essere presupposto perché la legge divenga un principio sufficiente di determinazione della volontà, se quindi la determinazione della volontà non ha luogo in vista della legge: allora l’azione avrà sì legalità, ma non moralità» (KpV, AA V 71). La coppia legalità/moralità non corrisponde alla distinzione tra etica e diritto, anche se la riguarda. La distinzione kantiana tra legalità e moralità è innanzitutto una distinzione interna all’etica e che ha qui la sua origine. 70 Cfr. il classico lavoro, da una prospettiva fenomenologica, di Hans Reiner, originariamente intitolato Pflicht und Neigung (1951), poi ampliato in una seconda edizione con il titolo Grundlagen der Sittlichkeit, Hain, Meisenheim am Glan 1974.

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duca una massima di questo tipo (“aiutare gli altri”) e un comportamento conseguente. L’azione compiuta non per dovere ma sulla base dell’inclinazione non è per Kant priva di valore, ma non ha in sé valore morale: «Io affermo che in tal caso un’azione del genere, per quanto sia conforme al dovere e lodevole, non ha ciononostante nessun vero valore morale […]; infatti alla massima manca il contenuto morale, cioè compiere tali azioni non per inclinazione, ma per dovere» (GMS, AA IV 398). La specificità del valore morale consiste infatti nella motivazione che sovrintende all’azione, non nel suo essere semplicemente conforme al dovere, ossia nel suo essere moralmente corretta: l’assunzione della massima buona dipende direttamente dal motivo per cui la si assume come propria, se deve avere valore morale. Cosa vuole dire Kant, ed è davvero così paradossale che l’agire per essere dotato di valore morale debba essere compiuto in base all’esclusiva motivazione che quella determinata azione, e la massima che lo sorregge, è un dovere? Ancora, non è solo un problema storiografico: l’ultima appendice delle critiche a Kant, per questo aspetto, emerge in chi ritenga che l’impostazione kantiana sia preda di una sorta di “schizofrenia” tra i princìpi della moralità e la motivazione. L’opposizione tra dovere e inclinazione esprimerebbe cioè una posizione che rifiuta valore morale alle azioni compiute per benevolenza “immediata”, o per sentimenti di inclinazione immediata come la simpatia o l’amicizia, per privilegiare l’astratta o “rigoristica” opzione fondata sul dovere71. Innanzitutto, Kant ritiene che il comportamento morale debba essere razionale, debba cioè fondarsi sulla consapevolezza della correttezza morale dell’azione, e non su una spinta immediata: chi agisca sulla base di un’inclinazione immediata non si pone il problema morale della correttezza morale dell’azione, mostra cioè una sorta di indifferenza per la moralità, e segue la propria inclinazione72. Per Kant, al contrario, il problema morale deve essere assunto consapevolmente come tale. La tesi kantiana intende infatti sottolineare che la determinazione della volontà sulla base del principio morale non può avvenire in modo contingente, come sarebbe se affidato all’inclinazione, ma in seguito a un processo riflessivo e razionale che renda la decisione fondata non sulle proprie specifiche inclinazioni, ma sul valore universale, e necessario (opposto a contingente) del principio razionale. La stessa formazione della massima richiede, lo si è visto, un confronto del 71 Cfr. M. Stocker, The Schizophrenia of Modern Ethical Theories (1976), trad. it. in L’etica delle virtù e i suoi critici, a cura di M. Mangini, Napoli, La Città del Sole 1996, pp. 67-88. 72 Una “minima pretesa” per rivendicare il valore morale di un’azione dovrebbe invece essere che un movente morale, per essere tale, preveda nell’agente un interesse per la correttezza morale dell’azione (cfr. B. Herman, On The Value of Acting from the Motive of Duty, in Ead., The Practice of Moral Judgment, cit., pp. 1-22, p. 6).

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soggetto con se stesso e quindi l’assunzione consapevole di una certa massima dell’agire. Ancora: la tesi kantiana non esclude la presenza della simpatia o di altri elementi come il rapporto di amicizia o altri legami con l’eventuale destinatario del dovere. Vuole dire piuttosto, tra le altre cose, che anche in assenza di determinate inclinazioni il soggetto è ugualmente tenuto a seguire il principio della moralità e a formare una certa massima del proprio agire perché quell’azione è la cosa giusta da fare, cioè perché è un dovere. Kant non nega che ci possano essere altri fattori che conducono alla formazione di una determinata massima conforme al dovere, ma ciò che è rilevante è che il motivo per cui la massima viene prodotta, e l’azione possibilmente compiuta, non consista in quei fattori contingenti e lasciati alle inclinazioni del singolo (sulle quali quello stesso singolo non ha nessun controllo), ma sulla comprensione razionale del senso morale della propria azione. E Kant offre il suo controesempio: se il filantropo perdesse la sua natura filantropica (per esempio in seguito a una grave disgrazia che lo colpisse, per cui fosse completamente concentrato sul proprio dolore), e continuasse a formare massime buone per rispetto del proprio dovere, le sue azioni avrebbero un genuino valore morale (cfr. GMS, AA IV 398). Sul piano della teoria della motivazione si conferma quindi la rilevanza del confronto critico con i propri princìpi da parte del soggetto agente. Ciò non deve indurre a concludere che il soggetto sia per questo del tutto trasparente a se stesso: un secolo prima di Freud, Kant mette in guardia dalle insidie e dalla presunzione del “caro io”: Nei fatti attraverso l’esperienza è assolutamente impossibile stabilire con piena certezza anche un solo caso in cui la massima dell’azione per altri versi conforme al dovere poggi esclusivamente su fondamenti morali e sulla rappresentazione del proprio dovere. Perché certo si dà talvolta il caso che nel più acuto esame di noi stessi non troviamo proprio nulla, al di fuori del fondamento morale del dovere, che avrebbe potuto essere abbastanza potente da muoverci a questa o quella buona azione, e a un così grande sacrificio; ma non se ne può affatto concludere con sicurezza che davvero nessun segreto impulso dell’amore di sé, sotto la mera simulazione di quella idea, sia stata l’autentica causa determinante della volontà, poiché ci lusinghiamo volentieri con la falsa pretesa di un motivo più nobile (GMS, AA IV 407)73.

73 Per il tema dell’autoinganno in Kant come violazione del dovere verso se stessi v. P. Gamberini, Mentire a se stessi: Kant e il problema della menzogna interiore, «Dianoia», 11 (2006), pp. 205-242. L’argomento del “caro io” è stato ripreso di recente con fini contrari a quelli kantiani, cioè per criticare la sfera morale, da H. Frankfurt, The Reasons of Love (2004), trad. it. di M. Monterisi, Donzelli, Roma 2005, pp. 77 sgg.

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5. Dovere e doveri Sin dai primi interessi per la filosofia pratica Kant colloca al centro dell’orizzonte la nozione di obbligo o di dovere. In sé, questo fatto non ha nulla di originale, tantomeno alla fine del XVIII secolo74. La nozione di dovere ha già una lunga storia dietro di sé quando diventa la chiave per interpretare l’etica, ovvero nel giusnaturalismo moderno, con Hobbes e Pufendorf. Il primo grande trattato sui doveri, il De officiis di Cicerone (44 a.C.), appare quando si sta per aprire l’era cristiana, e anche in ambito cristiano si ritiene opportuno, nel volgere di qualche secolo, tradurre nel linguaggio della Scrittura la dottrina dei doveri, con l’opera del vescovo Ambrogio che porta lo stesso titolo del testo ciceroniano (389-390). È però solo con l’inizio del pensiero moderno, nel corso del XVII secolo, che matura la convinzione che l’etica vada affrontata secundum officia e non più, aristotelicamente, secundum virtutes, come ha occasione di scrivere, in una lettera a Thomasius del 1688, Samuel Pufendorf75. L’opzione suggerita da Hobbes e Pufendorf è dominante per circa un secolo e mezzo, e la tradizione degli officia intesa come una vera e propria dottrina, o teoria, dei doveri trova la sua ultima trattazione sistematica proprio nella Metafisica dei costumi, dopo che gli scritti di fondazione hanno approfondito la natura del dovere e la sua giustificazione. L’idea di una centralità del dovere come orizzonte di una sfera di obblighi che prendano le mosse da un soggetto visto come origine di un tessuto di relazioni entra infatti in crisi, nella filosofia classica tedesca, già con Fichte e poi, in modo più netto, con Hegel76. La svolta, se così si può dire, non riguarda soltanto la nozione di dovere, ma in generale la considerazione dell’individuo e della stessa moralità: questa viene considerata di frequente, nel corso dell’Ottocento, come una prospettiva limitata, o se non altro derivata da altre forme 74 Cfr. innanzitutto W. Kersting, Pflichtenlehre, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, hrsg. von J. Ritter et al., Schwabe, Basel, Bd. 7, Sp. 456-458. Inoltre: G. Hartung, Die Naturrechtsdebatte. Geschichte der Obligatio vom 17. bis. 20. Jahrhundert, Alber, Freiburg/München 19992, la prima parte, che prende in esame il giusnaturalismo tedesco tra Pufendorf e Kant. Per l’essenziale punto di svolta rappresentato da Thomasius v. ora G. Dioni, Dalla stultitia alla sapientia. Il concetto di ‘dovere’ nel giusnaturalismo di Christian Thomasius, pref. di V. Fiorillo, Pensa Multimedia Lecce, 2010. Per una trattazione generale del concetto di dovere, v. innanzitutto la voce di W. Kersting, Pflicht, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, cit., Bd. 7, Sp. 405-433; mi permetto di ricordare anche il mio volumetto Dovere, La Nuova Italia, Scandicci 1998. La declinazione politica della Pflichtenlehre settecentesca è affrontata da V. Fiorillo, Autolimitazione razionale e desiderio. Il ‘dovere’ nei progetti di riorganizzazione politica dell’illuminismo tedesco, Giappichelli, Torino 2000. 75 S. Pufendorf, Briefwechsel, hrsg. von D. Döring, Akademie Verlag, Berlin 1996, p. 197. 76 Ho cercato di argomentare questa tesi in Dovere e dottrina dei doveri tra illuminismo e idealismo (2004), ora raccolto nel volume Per una moralità concreta, cit., pp. 207-222.

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di considerazione dell’agire umano, privilegino queste un tessuto sociale e istituzionale (come è il caso di Hegel), un universo economico-sociale (Marx), o una radice naturalistica della coscienza morale (come avviene nella prospettiva evoluzionistica). Fatto sta che la nozione di dovere non ha, nelle riflessioni del XIX secolo, il peso e l’importanza che aveva avuto nei due secoli precedenti, e viene piuttosto sottoposta a critica, come nel caso di Schopenhauer o, nel modo più radicale, nella riflessione di Nietzsche. La stessa riflessione di maggior peso che apre il secolo XX – con i Principia Ethica di George Edward Moore – non è affatto immune, almeno inizialmente, da una certa diffidenza per la nozione, collocando piuttosto al centro dell’orizzonte dell’indagine la “bontà”, intesa, pur essendo il concetto centrale dell’etica, in senso non morale (come mostrano le considerazioni di Moore sui valori intrinseci). Per assistere a un deciso ritorno della nozione di dovere come termine centrale dell’etica bisognerà attendere gli anni Trenta, quando William David Ross formula, in The Right and the Good, la teoria dei cosiddetti doveri prima facie, oggetto negli anni più recenti, anche sulla scia del recente, ennesimo “ritorno a Kant”, di una ripresa di interesse significativa. Il XX secolo, e ancora i nostri giorni, conoscono però anche posizioni critiche nei confronti del concetto di dovere, e addirittura della sua utilizzabilità in un contesto “secolarizzato”, ovvero non sottoposto a una norma di origine divina (Elizabeth Anscombe77), per non dire del convolgimento della nozione in una più complessiva critica della legittimità della teoria morale e del suo apparato concettuale (Bernard Williams78), o della sottolineatura di quanto una teoria pur fondata su princìpi meglio farebbe a concentrarsi sui diritti, piuttosto che sui doveri (Mackie79). La limitatezza della prospettiva del dovere, infine, è stata individuata anche nella rivendicazione di uno spazio per la supererogazione, ovvero per il valore morale delle azioni che vanno – o andrebbero – al di là del dovere, come nel caso dei santi e degli eroi80: il

77 Cfr. E. Anscombe, Modern moral philosophy (1958), trad. it. di M. Falomi, nota introduttiva di P. Donatelli, «Iride», XXI (2008), n. 53, pp. 48-67. 78 Cfr. B. Williams, Ethics and the Limits of Philosophy (1985), trad. it. di R. Rini, Laterza, Roma-Bari 1987. 79 Cfr. J.L. Mackie, Can There Be a Right-Based Moral Theory? (1978), trad. it. di P. Donatelli, in Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni, a cura di P. Donatelli, E. Lecaldano, LED, Milano 1996, pp. 373-390. 80 Saints and Heroes è il titolo del saggio di J.O. Urmson (1958) che solleva il problema, poi ripubblicato in Moral concepts, ed. by J. Feinberg, Oxford University Press, Oxford 1969, pp. 60-73. Sulla questione v. D. Heyd, Supererogation. Its status in ethical theory, Cambridge University Press, Cambridge, 1982; J. Janiaud, Au-delà du devoir. L’acte surérogatoire, Presses Univ. de Rennes, Rennes 2007. Mi permetto di ricordare anche il mio Comandi e consigli nella filosofia pratica moderna, in Per una moralità concreta, cit., pp. 57-84.

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concetto di dovere non sarebbe quindi esaustivo per l’analisi della sfera delle azioni moralmente significative. L’immagine della nozione di dovere, e di conseguenza della filosofia kantiana che ne costituisce l’analisi più acuta, ha sofferto a lungo di un’interpretazione che ne privilegia il carattere “ristretto”81 e tende a interpretare la nozione esclusivamente nel senso del “divieto” (si pensi, per fare un esempio di larga diffusione, a Freud), anche rinunciando, fino a tempi molto recenti, a prendere in considerazione il pensiero etico kantiano nel suo complesso che include, proprio per lo svolgimento sistematico di una teoria dei doveri, la Metafisica dei costumi82. Con la Metafisica dei costumi Kant pubblica infine il sistema della filosofia pratica così come era stato annunciato – da ultimo – nelle due introduzioni alla Critica della facoltà del giudizio e come viene ripetuto sommariamente anche nell’opera del 1797 (cfr. MS, AA VI 205). Il sistema della filosofia è suddiviso in due parti, delle quali l’una affronta le leggi della natura, l’altra le leggi della libertà: quest’ultima soltanto può essere detta filosofia pratica, e in essa non rientrano né l’ambito dell’abilità né quello della prudenza (i cui princìpi sono nel loro complesso pratico-tecnici) ma soltanto la moralità (i cui princìpi sono, appunto, pratico-morali) (KdU, AA V 172). L’esclusione dei princìpi della prudenza che guidano nella ricerca della felicità non significa espellere la felicità dall’ambito della filosofia pratica, ma soltanto estromettere da essa l’ambito dei princìpi tecnici e di quelli prudenziali; la felicità svolge piuttosto un proprio ruolo nella costruzione del sistema dei doveri, e addirittura sovrintende alla classe dei doveri verso gli altri. Che l’elaborazione della Metafisica dei costumi sia stata complessa non è dimostrato soltanto dal lungo tempo trascorso tra l’enunciazione del progetto e la sua realizzazione: tra i non pochi segni che fanno pensare a ripensamenti kantiani, basti qui ricordare che lo stesso termine “etica” ha cambiato di significato rispetto almeno alla Fondazione: con un riferimento al passato che suona come una palinodia, nella Metafisica dei costumi il termine è riservato ad una sola parte della filosofia pratica come metafisica dei 81 M. Baron, Kantian Ethics almost without Apology, Cornell University Press, Ithaca and London 1999, pp. 21 sgg. 82 Nella letteratura recente, dopo il volume di M. Gregor, Laws of Freedom. A Study of Applying the Categorical Imperative in the “Metaphysik der Sitten”, Blackwell, Oxford 1963, v. Etica y antropologia: un dilema kantiano, ed. by F. Oncina Coves, R. Rodriguez Aramayo, Comares, Granada 1999; Kant e la morale. A duecento anni dalla ‘Metafisica dei costumi’, cit.; L’année 1797. Kant: La métaphysique des moeurs, éd. par S. Goyard-Fabre, J. Ferrari, Vrin, Paris 2000; Kant’s Metaphysics of Morals, ed. by M. Timmons, cit. È in corso di stampa: Kant’s “Tugendlehre”. A Commentary, ed. by A. Trampota, O. Sensen, J. Timmermann, de Gruyter, Berlin-New York 2010.

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costumi. La filosofia pratica come metafisica dei costumi include sia l’etica propriamente detta sia il diritto, ovvero l’intero ambito della morale: «Etica significava nei tempi antichi la dottrina morale (philosophia moralis) in generale, che si chiamava anche la dottrina dei doveri. In seguito si è trovato opportuno riservare questo nome soltanto a una parte della dottrina morale, cioè alla dottrina dei doveri che non stanno sotto leggi esterne» (MS, AA VI 379)83. L’opera del 1797 è infatti suddivisa in due parti, la dottrina del diritto e l’etica, detta dottrina della virtù. Su quanto, e se, la dottrina del diritto possa essere fatta rientrare nella prospettiva della morale kantiana è questione da tempo dibattuta, che non può essere affrontata qui84. Certo è che Kant ritiene di proporre, con la Metafisica dei costumi, una teoria generale dei doveri che copra sia l’ambito giuridico sia l’ambito etico in senso stretto. Sono ambiti distinti, ma ben lungi dall’essere privi di relazioni reciproche: è un tema, questo, che nella tradizione giusnaturalistica come doctrina officiorum si era imposto con Thomasius, e con la distinzione tra la sfera dello justum (diritto) e quella dello honestum (etica), che si fonda anch’essa sulla coppia sfera esterna/sfera interna. Per quanto riguarda i doveri, Kant distingue infatti diversi tipi di doveri, ma la distinzione non corrisponde alla semplice dicotomia etica/diritto. Certo, la coppia sfera interna/sfera esterna sovrintende alla distinzione, ma non esaurisce l’articolazione dei doveri. Di una dottrina dei doveri Kant parla già sia nella Fondazione sia nella Critica della ragion pratica, rimandando però proprio al “sistema”, cioè alla metafisica dei costumi, per la trattazione di essa (GMS, AA IV 421 e n.; cfr. KpV, AA V 8). Sulla maggiore o minore novità del “sistema” kantiano si è molto discusso, come anche, lo si è detto, sulla compatibilità di esso con gli scritti morali precedenti85. Certo è che Kant utilizza la struttura di una dottrina dei doveri come scheletro del sistema della filosofia pratica, e in questo egli si colloca nel solco della tradizione. Al tempo stesso, questa struttura generale non porta necessariamente con sé la conseguenza che il testo 83 La parte materiale della filosofia (distinta dalla logica come parte formale) ha per oggetto anche nella Fondazione i due ambiti delle leggi della natura e delle leggi della libertà, ma lì l’etica viene identificata con la dottrina morale: «La scienza delle prime si chiama fisica, quella delle seconde è etica; quella viene chiamata anche dottrina della natura, questa dottrina morale» (GMS, AA VI 387). 84 Cfr. W. Kersting, Wohlgeordnete Freiheit. Immanuel Kants Rechts- und Staatsphilosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1993, pp. 136-142, con le indicazioni di M. Mori, La pace e la ragione. Kant e le relazioni internazionali: diritto, politica, storia, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 63-64 e M. Willaschek, Right and Coercion. Can Kant’s Conception of Right be derived from his Moral Theory?, «International Journal of Philosophical Studies», 17 (2009), pp. 49-70. 85 Cfr., per i riferimenti bibliografici, supra, n. 10. V. anche, in particolare: S. Bacin, Una nuova dottrina dei doveri. Sull’etica della «Metafisica dei costumi» e il significato dei doveri verso se stessi, in Etica e mondo in Kant, cit., pp. 189-208.

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kantiano manchi di novità: il problema, eventualmente, che si pone a Kant nel lungo tempo in cui il progetto lo occupa, è proprio riformulare una dottrina dei doveri in un quadro teorico ormai segnato dalla rivoluzione del criticismo. La riflessione kantiana sulla teoria dei doveri non può quindi che essere una contaminazione di tradizione e di innovazione, a partire dalla struttura stessa della classificazione dei doveri, ovvero dalla partizione di essi secondo i possibili destinatari: in modo del tutto esplicito, che suona come una rivendicazione di novità, Kant conclude la Metafisica dei costumi con un capitoletto che porta il titolo La dottrina della religione, come dottrina dei doveri verso Dio, sta al di là dei confini della filosofia morale pura (MS, AA VI 486). Alla tripartizione tradizionale in doveri verso se stessi, verso gli altri e verso Dio, Kant sostituisce una bipartizione in doveri verso se stessi e doveri verso gli altri: «nell’etica, come filosofia pratica pura della legislazione interna, sono comprensibili per noi soltanto i rapporti morali dell’uomo verso l’uomo» (MS, AA VI 491), essendo del tutto scontato che nell’ambito giuridico i doveri riguardino soltanto i rapporti intersoggettivi tra uomini. Così facendo, evidentemente, Kant vuole sottolineare una volta di più la rivendicazione dell’autonomia dell’etica dalla religione, e il suo fondare la seconda sulla prima; ciò che qui interessa maggiormente è però mostrare come la teoria dei doveri esplicitata da Kant nella Metafisica dei costumi ampli e approfondisca il concetto di dovere, offrendone un’interpretazione non riduttiva. La distinzione principale tra diritto ed etica viene presentata da Kant come una differenza tra diverse forme di legislazione morale, ovvero della legislazione che rende un’azione un dovere, di qualsivoglia genere (giuridico o etico) esso sia (MS, AA VI 218). La distinzione tra la legislazione giuridica e la legislazione etica si fonda su diversi caratteri, il primo dei quali è la connessione con la motivazione, ovvero con ciò che Kant chiama il movente: la legislazione «che fa di un’azione un dovere, e nello stesso tempo di questo dovere un movente è etica» (MS, AA VI 219), mentre nel caso che la legislazione richieda soltanto il compimento o il non compimento di un’azione, indipendentemente dalla motivazione, essa è giuridica. La legislazione giuridica è quindi esterna, e quella etica interna. Ciò non significa però una semplice distinzione di sfere tale che l’etica riguardi soltanto la sfera interna, ovvero la sfera della motivazione: l’ambito di applicazione delle due legislazioni non è simmetrico, ma diverso nel caso della legislazione etica e di quella giuridica. Quest’ultima riguarda soltanto l’ambito delle azioni esterne, o la libertà esterna, mentre la legislazione etica riguarda sia l’ambito interno sia l’ambito esterno. La legislazione giuridica è allora quella che prevede leggi esterne e quindi la possibilità di una coazione esterna: si può essere costretti al compimento o al non compimento di determinate azioni at-

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traverso una legislazione appropriata, qualunque sia la disposizione morale dei singoli, semplicemente attraverso un meccanismo di sanzioni nel quale appunto consiste la coazione, donde la famosa espressione kantiana che il diritto dovrebbe essere adeguato anche ad una società di diavoli (ZeF, AA VIII 366): l’ambito giuridico possiede una relativa autonomia, anche se dipende comunque dalla legge morale, perché non si cura della motivazione con cui le azioni vengono compiute. La peculiarità dei doveri giuridici è corrispondere al diritto da parte di qualcuno di pretenderne l’adempimento anche attraverso la coazione (MS, AA VI 383). Diverso il caso della legislazione etica, che riguarda tutti i doveri, inclusi i doveri giuridici, il cui adempimento deve avvenire con la giusta motivazione, e non semplicemente per l’esistenza della coazione esterna. La legislazione etica è quindi onnicomprensiva: I doveri secondo la legislazione giuridica possono essere soltanto doveri esterni, perché questa legislazione non richiede che l’idea di questo dovere, che è interna, sia per se stessa principio di determinazione dell’arbitrio dell’agente [...]. La legislazione etica, invece, rende certo doveri anche le azioni interne, ma non escludendo le azioni esterne, bensì riguarda in generale tutto ciò che è dovere (MS, AA VI 219).

Tutti i doveri rientrano nell’etica e sotto il dominio della sua legislazione, proprio a partire dal modo di adempimento dei doveri giuridici: «L’etica comprende quindi tutti i doveri, il diritto invece non tutti» (AA XXVII 2.2 1338). La coppia interno/esterno presentata in questi termini non è una novità kantiana, ma la si ritrova nella tradizione giusnaturalistica precedente, almeno a partire dalla prima distinzione tra etica e diritto, proposta da Thomasius. La distinzione prevede una dimensione esterna, coercibile attraverso la minaccia di sanzioni, e una dimensione interna, strutturalmente sottratta all’autorità esterna (nel che si realizzava, tra l’altro, il tentativo di sottrarre la coscienza individuale all’autorità). Il modello generale è quello di doveri coercibili e più cogenti perché condizione della convivenza pacifica: una cornice all’interno della quale sia possibile il perseguimento di una moralità più profonda, comunque intesa. Né Kant né la tradizione si limitano, per quel che riguarda la sfera del dovere, alla previsione di un comportamento corretto che per l’uomo giusto (o per il saggio – sapiens – come in Thomasius) non sia frutto di una coazione esterna ma di consapevolezza interiore86. Al contrario. In Kant, la Dottrina della virtù è dedicata ad una sfera specifica, quella dei doveri di virtù, che non consiste nell’adempimento motivazionalmente adeguato dei doveri giuridici, ma in doveri peculiari dell’etica cui non corrispondono diritti, se non come ovvia liceità (MS, AA VI 86

Al giusto non è data alcuna legge esterna, aveva scritto Lutero.

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383). I doveri etici, quindi, sono un insieme composto da un lato dai doveri giuridici, che sono adempiuti con la motivazione corretta (per il rispetto della legge, e non per la costrizione esterna), dall’altro dai doveri di virtù, che sono doveri sottratti alla legislazione esterna e costituiscono un campo specifico dell’etica, non coercibile87. Si tratta di doveri positivi, mentre il diritto è composto prevalentemente di doveri negativi, ovvero di divieti, e si tratta di doveri positivi ai quali non si può essere costretti, ovvero ad essi non corrisponde una facoltà di costringere da parte di un soggetto esterno (MS, AA VI 383). La maggiore originalità di Kant consiste nella sua caratterizzazione di questo ambito peculiarmente etico dei doveri non coercibili, i doveri di virtù; anch’essi sono presenti nella tradizione come doveri non coercibili – officia humanitatis seu charitatis, aveva scritto Pufendorf – ma in Kant essi assumono un carattere particolare dovuto ad alcuni tratti: essi sono rivolti a fini; la legislazione che li caratterizza riguarda – al contrario del diritto – non le azioni ma le massime delle azioni (MS, AA VI 388); essi sono indeterminati quanto al loro adempimento. L’etica come dottrina dei doveri è una dottrina di fini (Zwecke) che sono al tempo stesso doveri. La teoria del dovere acquisisce così esplicitamente un contenuto che va ad aggiungersi al “principio formale dell’imperativo categorico” consistente nell’universalizzazione della massima, e che è naturalmente condizionato da quella “idoneità”: i fini specifici comandati dall’etica devono essere universalizzabili, e costituiscono un orizzonte normativo proprio nella formazione delle massime. Che le massime abbiano un contenuto è – lo si è visto precedentemente (§ 3) – insito nella stessa nozione di massima: questa deve essere una descrizione adeguata del principio che sovrintende all’azione. Ciò che Kant cerca ora di fornire – con non poche difficoltà – è la determinazione dei fini delle massime, ovvero quel particolare genere di fini oggettivi che è in grado di rendere i fini soggettivi delle azioni validi universalmente. Il tratto peculiare di questi fini che sono nello stesso tempo doveri è che al contrario dei doveri giuridici essi sono non soltanto non coercibili88, ma indeterminati quanto al modo concreto del loro adempimento, ciò che Kant ritiene di esprimere con l’idea che essi siano di obbligazione larga:

87 Sullo specifico tema della coppia doveri perfetti/doveri imperfetti, e nella tradizione e in Kant, si rimanda ai lavori di W. Kersting, Pflichten, unvollkommene/vollkommene, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, cit., Bd. 7, Sp. 433-439; Id., Das starke Gesetz der Schuldigkeit und das schwächere der Gütigkeit (1982), in Id., Recht, Gerechtigkeit und demokratische Tugend. Abhandlungen zur praktischen Philosophie der Gegenwart, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997, pp. 74-120. 88 Non si può essere costretti a porsi dei fini (cfr. MS, AA VI, 381).

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se la legge può esprimere soltanto la massima delle azioni, non le azioni stesse, allora questo è un segno che essa lascia, per il suo adempimento (osservanza) un margine (latitudo) per il libero arbitrio, cioè non può indicare in modo determinato in che modo e quanto tramite l’azione debba essere prodotto il fine che è nello stesso tempo un dovere (MS, AA VI 390).

I fini che sono nello stesso tempo doveri non sono un elemento aproblematico dell’etica kantiana89. Indicano però la strada per approfondire l’idea del dovere. Innanzitutto, Kant esplicita qui – in sede non più di fondazione del dovere, ma di vera e propria teoria dei doveri – come l’etica che pure si fonda su un principio formale possa essere un’etica ricca di contenuti, dei quali il principio formale costituisce la condizione. In secondo luogo, la riflessione kantiana mostra sì l’esaustività del concetto di “dovere” in etica, ma ne mostra al tempo stesso il carattere non rigido, ben al di là di una semplice indicazione di doveri positivi, in direzione di un uso che costituisca un orientamento dell’azione dotato di latitudo. In questa prospettiva, è probabilmente vero che Kant non lascia spazio alla cosiddetta supererogazione, ma ciò non costituisce necessariamente un limite, specialmente se si pensa al fastidio kantiano per, appunto, l’azione morale intesa come azione del santo e dell’eroe (cfr. KpV, AA V 155, 157). Si tratta di uno spazio che anche per Kant è possibile ricomprendere nell’ottica del dovere, correttamente inteso90. Il concetto di dovere non è insomma per Kant un concetto monolitico, a meno di non intenderlo in una forma semplicistica, e disegna una cornice teorica del tutto meritevole di considerazione anche per chi abbia interessi teorici, a patto che, naturalmente, ritenga che la nozione abbia qualche significato nell’analisi dell’etica. Che la nozione di dovere sia esaustiva per la vita etica non significa, naturalmente, che l’etica sia per questo pervasiva nei confronti della vita degli individui, nonostante che ne costituisca, ovviamente, il valore “supremo”. All’ipotesi di chi, “virtuoso fanatico” (Phantastisch-tugendhaft), non lasci spazio per azioni moralmente indifferenti, Kant replica con ironia, o meglio, con preoccupata ironia, rimandando al pericolo di una «micrologia che, se accolta nella dottrina della virtù, renderebbe il suo dominio una tirannia» (MS, AA VI 409). Dopo averla affrontata criticamente nella Fondazione e nella Critica della ragion pratica, e dopo averla ripresa nell’esposizione della tormentata teoria del sommo bene che dalla prima Critica attraversa le due Critiche successi-

89 Come mostrano, tra l’altro, le incertezze di Kant fin sulla soglia della stesura della Metafisica dei costumi: cfr. il mio Comandi e consigli nella filosofia pratica moderna, cit., pp. 74-75. 90 Come sostiene M. Baron, Kantian Ethics Almost Without Apology, cit., tutta la prima parte e in particolare, per la polemica nei confronti di M.J. Gregor e T. Hill, che cercano di ricostruire uno spazio della supererogazione in Kant, pp. 88 sgg.

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ve, per poi perdere di peso91, la nozione di felicità non manca di ripresentarsi anche all’altezza della teoria dei doveri. Certo, Kant ribadisce l’idea che una dottrina morale non può essere confusa con una dottrina della felicità (MS, AA VI 215), ma può addirittura colpire il fatto che la nozione di felicità costituisca una delle nozioni fondamentali della dottrina dei doveri di virtù. Per quanto riguarda la bipartizione già menzionata dei doveri di virtù in doveri verso se stessi e doveri verso gli altri, le classi generali di questi doveri, dotati di latitudo per quanto riguarda il loro adempimento, sono il dovere del proprio perfezionamento morale e il dovere di promuovere la felicità altrui, la cui trattazione specifica costituisce il contenuto della dottrina della virtù. Senza potersi soffermare, varrà però la pena di sottolineare questo ritorno della nozione di felicità nel sistema della filosofia pratica kantiana, anche perché la critica del paternalismo statale – lo Stato si deve occupare del diritto, non della felicità dei cittadini – si riflette (o viceversa) su altre forme di paternalismo: che cosa può rendere ciascuno felice è questione che può essere lasciata soltanto al giudizio dei singoli (MS, AA VI 388). Del resto, quando prende in considerazione l’idea di limitare la trattazione della moralità ai soli doveri giuridici, seppure accompagnati dalla giusta motivazione, Kant fa riferimento, ripetutamente, proprio alla prospettiva della felicità degli uomini: Non sarebbe meglio per il bene [Wohl] del mondo in generale se tutta la moralità degli uomini fosse limitata ai doveri giuridici, beninteso però osservati con la massima coscienziosità, e che la benevolenza fosse relegata tra le cose indifferenti? Non è tanto facile calcolare quali conseguenze ciò potrebbe avere sulla felicità degli uomini. In tal caso, però, verrebbe certo a mancare almeno un grande ornamento morale del mondo, l’amore tra gli uomini, che già per se stesso, anche senza contarne i vantaggi (di felicità), è indispensabile per rappresentare il mondo come un bell’insieme morale in tutta la sua perfezione (MS, AA VI 458).

91 Sulla nozione di “sommo bene” cfr. J.R. Silber, Kant’s Conception of the Highest Good as Immanent and Transcendent (1959), e K. Düsing, Das Problem des höchsten Gutes in Kants praktischer Philosophie (1971), entrambi tradotti in Introduzione alla morale di Kant. Guida alla critica, a cura di G. Tognini, cit., pp. 47-67 e pp. 115-140. V. inoltre: M. Albrecht, Kants Antinomie der praktischen Vernunft, Olms, Hildesheim-New York 1978; D. Tafani, Virtù e felicità in Kant, cit., in particolare pp. 79 sgg.

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Pierre Kerszberg

Fisica*

1. Kant e la «prima idea di Copernico» Alla questione, da egli stesso posta, di sapere come la natura sia possibile, Kant ha fornito una risposta che, per sua stessa ammissione, potrebbe apparite «esagerata», e anche «assurda»1. Più di recente, il sociologo Simmel ha caratterizzato questa risposta in modo al contempo acuto e profondo: questa risposta sarebbe, secondo lui, «il più singolare dei paradossi»2. In effetti, per arrivare a dimostrare che l’intelletto è esso stesso fonte delle leggi di natura, Kant è costretto a sostenere simultaneamente due tesi. Da una parte, (i) «le nostre impressioni sensibili sono […] puramente soggettive […] ed esse diventano “oggetti” quando vengono accolte dalle forme del nostro intelletto»; grazie a questo intervento dell’intelletto, «un’immagine coerente della “natura”» diventa possibile; ma, d’altra parte, (ii) «quelle sensazioni sono pur sempre il dato reale […] e la garanzia di un essere indipendente da noi, cosicché ora proprio quelle elaborazioni intellettuali delle sensazioni in forma di oggetti, di connessioni, di regolarità causali appaiono come soggettive, come qualcosa di aggiunto da noi in antitesi a ciò 3 che riceviamo dall’esistenza» . È così che le forme dell’intelletto agiscono simultaneamente in due maniere che sembrano l’inverso l’una dell’altra: (i) esse oggettivizzano un dato soggettivo, ed esse (ii) soggettivizzano un dato oggettivo (concreto). Tutto avviene come se Oggetto e Soggetto non avessero un posto fisso: nel primo caso il soggettivo è dato (ricevuto) per essere in séguito trasformato in oggetto, nel secondo caso è fabbricato (prodotto) per presentarsi in séguito come dato. Kant ci vuole forse dire che un processo è suppo*

[Tutto ciò che in nota compare tra parentesi quadre è opera del traduttore]. KrV, A 127 [trad. it. con introduzione, note e apparati, di C. Esposito, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2004, p. 1243]. 2 G. Simmel, Le Problème de la Sociologie, in Id., Sociologie. Etudes sur les formes de la socialisation, trad. fr. di L. Deroche-Gurcel e S. Muller, Presses Universitaires de France, Paris 1999, p. 63, [G. Simmel, Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung, Duncker & Humblot, Berlin 1908, 19836, p. 21: «So wächst das Kantische Weltbild in dem eigentümlichsten Widerspiel». Nella traduzione italiana il passo in questione è reso con «contrappunto quanto mai caratteristico», trad. it. di G. Giordano in Id., Sociologia, Edizioni di Comunità, Milano 1989, p. 2]. 3 G. Simmel, Sociologia, cit., p. 27. 1

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PIERRE KERSZBERG

sto sostenere l’altro? Se così fosse, il punto di partenza della filosofia trascendentale della conoscenza non sarebbe veramente differente da una circolarità; se questa circolarità fosse ammessa chiaramente, forse essa annuncerebbe già la dottrina hegeliana dell’essenza, in cui la mutua dipendenza delle categorie del pensiero impone a ogni termine (una forma) di ricevere la sua determinazione propria (un contenuto) nel suo rapporto oppositivo con l’altro. Tuttavia gli strumenti di cui Kant si munisce al fine di risolvere la sua questione non autorizzano certo tale scivolamento interpretativo. Kant annuncia una grande decisione inaugurale (comunemente, ma impropriamente, chiamata «rivoluzione copernicana»): contro la minaccia di una sparizione nella circolarità di ciò che costituisce la specificità dell’a priori, questa decisione afferma la priorità assoluta dell’a priori, al quale tutto è subordinato, e il cui detentore è il soggetto. Decisione inaugurale perché, prima dell’intelletto, essa concerne le forme dell’intuizione: «Se l’intuizione dovesse regolarsi sulla natura degli oggetti, non vedo in che modo se ne potrebbe sapere qualcosa a priori; se invece è l’oggetto (inteso come oggetto dei sensi) a regolarsi sulla natura della nostra facoltà intuitiva, posso benissimo rappresentarmi questa possibilità»4. Ma è una decisione che ha una ragione d’essere soltanto se posta in evidenza due volte. In effetti, come per l’intuizione, il rapporto del concetto con l’oggetto si presta a queste due ipotesi: o il concetto si regola sull’oggetto o, inversamente, l’oggetto si regola sul concetto. Nel primo caso l’a priori acquisito al livello dell’intuizione ha già fatto tutto il suo lavoro e si ritira; nel secondo caso l’intuizione impone al concetto di seguirlo sulla via dell’a priori. Kant considera che quest’ultimo caso rappresenti la soluzione del suo problema. Perché l’a priori al livello intuitivo impone in tal modo la sua impronta all’a priori al livello del concetto? L’a priori intuitivo sarebbe dunque portatore di un senso eminente che si trasmette per così dire al concetto, e che quest’ultimo raccoglie? Questa risposta sembra andare da sé, e tuttavia essa perde di plausibilità alla luce di ciò che Kant ci dirà in seguito a proposito di quelle intuizioni che, secondo la celebre espressione, sono cieche quando sono prive di concetto5. Cieche, e cioè prive di senso, al contrario dei concetti che, privi delle loro intuizioni, sono semplicemente svuotati del loro contenuto. Tutto avviene come se l’estensione dell’a priori intuitivo al concetto facesse capovolgere il senso a vantaggio di quest’ultimo. Del resto, la stessa cosa si verifica in rapporto alla «prima idea» di Copernico: la rivoluzione della terra sul suo asse in ventiquattr’ore. Quest’idea annuncia la rivoluzione annuale della terra attorno al sole nel sistema eliocentrico, che si potrebbe considerare la seconda idea di Copernico. Ma 4 5

KrV, B XVII [trad. it. cit., p. 35]. Cfr. KrV, A 51/B 75 [trad. it. cit., p. 169].

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perché quest’accoppiamento? La prima idea di Copernico non è veramente sua: l’equivalenza cinematica tra due sistemi – uno in cui la terra, in quiete, è circondata di stelle in rotazione attorno ad essa e, l’altra, in cui la terra in rotazione sul suo asse è immersa in un universo di stelle in riposo – era conosciuta fin dall’antichità; ma si trattava di un’equivalenza semplicemente constatata, da cui gli antichi non hanno ricavato nulla riguardo agli altri fenomeni di cui si occupa la teoria astronomica. La necessaria articolazione del sistema eliocentrico con la rotazione assiale della terra rappresenta invece la teoria copernicana in senso pieno. La prima ipotesi copernicana è certo «contro quello che gli attestavano i sensi», come dice Kant6, ma essa non è ancora altro che un gioco coi sensi; il sistema eliocentrico annuncia la presa di potere attraverso il concetto, che non è altro che la legge newtoniana dell’attrazione universale. La legge rende inoffensivo il gioco dell’intuizione sensibile col suo contrario, poiché la forza che connette tutte le parti dell’universo le une con le altre è ormai «invisibile». Nello stesso modo Kant afferma che non può fermarsi all’intuizione: se essa deve diventare una conoscenza, l’intuizione non si limita a forzare l’oggetto a regolarsi su di essa, ma bisogna in più che essa si rapporti a un «qualcosa» proprio di quest’oggetto (così come dalla rotazione assiale, non rapportandosi a nulla di determinato, non si può trarre qualcosa di significativo, finché essa non è completata dalla rotazione annuale); il concetto (la legge) gli fornisce ciò grazie a cui determinare questo qualcosa. In ultima istanza, la prima idea di Copernico è dunque ciò da cui tutto dipende, perché, passata dagli antichi a Copernico, essa fa sorgere al livello dell’intuizione un ordine di concatenamento più che una semplice equivalenza. Dire che l’intuizione si regola sull’oggetto non è affatto un’ipotesi, ma la traduzione della prima intuizione, assolutamente schiacciante, delle stelle in movimento attorno a noi; un’intuizione sensibile così esemplare e sprezzante nei confronti di ogni alternativa che lo scopo dell’astronomia, secondo l’espressione di Simplicio, non è altro che quello di «salvare i fenomeni», che sono i movimenti singolari («erranti») dei pianeti, per integrarli alla meglio come una concatenazione, che non appare (combinazione di movimenti circolari uniformi), nella sola concatenazione che appare (il movimento circolare uniforme). Ora, questo salvataggio dei fenomeni è un lavoro del concetto al servizio dell’intuizione, e perviene a un miscuglio tra una concatenazione che appare e una concatenazione che non appare. Da questo lavoro, fino a Copernico, gli astronomi non sono mai riusciti a trarre un’intuizione determinata, perché numerose costruzioni intellettuali differenti restavano compatibili con i fenomeni osservati. La rivoluzione copernicana scopre che, prima del lavoro del concetto, l’intuizione induce già un 6

KrV, B XXII [trad. it. cit., p. 41].

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PIERRE KERSZBERG

concatenamento di fenomeni al servizio esclusivo di ciò che appare: anche se il movimento della terra non è percepito, esso dovrebbe esserlo o potrebbe esserlo, perlomeno se l’oggetto si regola su un’intuizione che non appare, pur assicurando la possibilità d’apparire. Quando si oppongono in questo modo, ciascuno dei due punti di vista diventa un’ipotesi che si oppone contraddittoriamente all’altra. Ma poiché il secondo punto di vista fa appello a un’intuizione sensibile che non sente nulla, non annuncia esso a sua volta una nuova contraddizione, non più questa volta sull’oggetto dell’intuizione, ma sulla sua stessa natura? Con la duplice decisione inaugurale, Kant assegna all’intelletto la prerogativa insigne di alleviare l’intuizione non sensibile dalla sua contraddizione, che non è più che un’apparenza di contraddizione. Esigere l’intelletto per rendere conto dell’esperienza e pensarla, è in effetti «una regola che devo presupporre in me»7 prima di ogni esperienza. La regola è il movimento del nostro spirito che permette di concatenare delle percezioni (enunciare una legge) prima che esse si concatenino da sole a partire dalla nostra stazione in quiete. Io non penso alla terra in movimento sul suo asse, non la vedo spostarsi attorno al sole, ma questo riposo non può servire da regola per ordinare i movimenti celesti. Solo delle regole in movimento per l’intelletto (concetti a priori) sono conformi alle regole del movimento per gli oggetti dell’esperienza. A queste regole corrispondono dunque delle intuizioni esse stesse a priori, ultime garanti della loro validità. Le forme della sensibilità che non sono in se stesse sentite, ma che danno ai concetti la possibilità di rapportarsi a un’intuizione determinata, sono lo spazio e il tempo. Per dare ragione a Copernico, Kant non sceglie veramente tra le due ipotesi. L’ipotesi di Tolomeo non può essere invalidata in senso assoluto, ma si potrà sempre salvarla al prezzo di complicazioni enormi. Ma al prezzo dell’intuizione essa stessa a priori, Kant fa agire solo la sua doppia decisione inaugurale per togliere i dubbi dell’intuizione sull’ipotesi di Copernico. Ora, delegando il potere del senso al concetto, l’a priori intuitivo ha affermato la sua priorità solo per acconsentire a una perdita. Si tratta di una sorta di transfert di capitale, la «natura», che non lascia il capitale intatto. In effetti, le ipotesi non sono simmetriche. È innanzitutto respinta l’ipotesi secondo cui l’intuizione si regola sulla natura dell’oggetto; è convalidata in séguito l’altra ipotesi secondo cui l’oggetto come oggetto dei sensi si regola sulla natura della facoltà dell’intuizione. Parlando propriamente, nelle due ipotesi non si tratta della stessa cosa: innanzitutto, della natura dell’oggetto; in séguito, dell’oggetto per una facoltà d’intuizione, la cui natura lo converte in oggetto dei sensi, come se non avesse esso stesso più una «natura». E al livello dell’a priori cognitivo, non si tratta più affatto di «natura», come se 7

KrV, B XVII [trad. it. cit., p. 37].

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l’affare fosse esteso al profitto delle facoltà cognitive. Ciò significa che, sotto l’effetto della rivoluzione scientifica (Galilei, Torricelli, Stahl, ecc.) la grande e misteriosa «Natura» (nel senso dell’antica physis) si è rifugiata in ciò che bisogna ben chiamare la «natura umana»? Nel secolo ventesimo, si è potuto effettivamente caratterizzare il destino della fisica moderna in una maniera apparentata a questo rovesciamento. Sotto l’impulso di teorie come la relatività e la meccanica quantistica, Heisenberg ha così affermato che l’osservatore che effettua una misura è diventato inseparabile da ciò che è osservato: «Il soggetto della ricerca non è più la natura in sé, ma la natura sottoposta all’interrogazione umana»8, in maniera tale che l’uomo non incontrerebbe altro che se stesso pur credendo di incontrare la natura di fronte a lui. Annunciare le prerogative inalienabili e irriducibili del soggetto nel resoconto dei fenomeni naturali, è veramente questa la lezione da apprendere da coloro che si attengono più o meno direttamente all’eredità kantiana? È veramente questa la lezione di Kant? Il dibattito tradizionale in filosofia della scienza oppone il realismo scientifico all’empirismo costruttivo sotto la forma di un dilemma da cui sembra difficile, se non impossibile, uscire9. Da un lato, si vuole dimostrare che la scienza offre una descrizione letteralmente vera del modo in cui le cose sono nella natura (i concetti della fisica sono veri poiché noi siamo obbligati a credervi per spiegare i loro successi pratici); da un altro lato, si scava un fossato insuperabile tra ciò che noi crediamo e ciò che è, essendo il compito della scienza limitato all’ideologia consistente nel «salvare i fenomeni» per mezzo di modelli teorici che rendono conto di ciò che è solo osservabile. In ragione dell’asimmetria deliberata tra le ipotesi, la doppia decisione inaugurale di Kant consiste precisamente nell’uscire da questo dilemma, evitando di scegliere, non per difetto o per agnosticismo, ma in base alla convinzione che la scienza non ha da rendere conto alla filosofia che nel suo punto di partenza.

8 W. Heisenberg, La Nature dans la physique contemporaine, trad. fr. di U. Karvelis e A.E. Leroy, Gallimard, Paris 2000, p. 137. [Più fedele all’originale tedesco, la traduzione italiana è sostanzialmente diversa: «Anche nella scienza oggetto della ricerca non è quindi più la natura in sé, ma la natura subordinata al modo umano di porre il problema» (W. Heisenberg, Natura e fisica moderna, trad. it. di E. Casari, Garzanti, Milano 1957, p. 20); «Auch in der Naturwissenschaft ist also der Gegenstand der Forschung nicht mehr die Natur an sich, sondern die der menschlichen Fragestellung ausgesetzte Natur» (W. Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Rowohlt, Hamburg 1955, 19575)]. 9 Cfr. la discussione di M. Massimi: Why there are no ready-made phenomena: What philosophers of science should learn from Kant, in Kant and the Philosophy of Science Today, ed. by M. Massimi, Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 1-35.

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2. Un punto di partenza per la scienza della natura Consideriamo quel punto di partenza che per la fisica moderna è il luogo di conflitto da cui emergono teorie così opposte le une alle altre come quelle di Descartes o di Newton: la possibilità per uno spazio d’essere riempito di materia, presupponendo che questo riempimento coincida con la possibilità di avere una sensazione del reale. L’estensione e la materia non fanno che un’unica cosa, o viceversa la materia si aggiunge all’estensione come due cose che coabitano, pur essendo essenzialmente differenti l’una dall’altra? Secondo il principio kantiano delle Anticipazioni della percezione, lo spazio è sempre pieno, anche se questo riempimento dello spazio per mezzo della materia non raggiunge il grado a partire da cui comincia la sensazione. La realtà nel fenomeno è sempre suscettibile di un grado più piccolo di un grado dato, rivelando delle percezioni possibili sempre più piccole di quelle che corrispondono alla sensazione attuale. Così come sono scelti da Kant, gli esempi di fenomeni che mostrano dei gradi che non arrivano mai al più piccolo illustrano una gradazione dall’esperienza comune all’esperienza scientifica: il colore rosso, il calore, il momento della pesantezza10. Secondo questo principio puro dell’intelletto, tutti i livelli dell’esperienza, che si tratti dell’esperienza ordinaria o dell’esperienza scientifica, sono così rinviati a un presupposto di tutto il pensiero, che è anche il livello dell’esperienza in generale; la stessa cosa sarebbe del resto valida per gli altri principi dell’intelletto puro. Ma guardando da vicino la spiegazione del riempimento dello spazio offerta dalla teoria fisica, ci si accorge che quest’ultima non può evitare un’ipotesi di tipo metafisico11, in cui essa contravviene all’imperativo newtoniano: «hypotheses non fingo». Come spiega il fisico, le differenze di quantità di materia in corpi che hanno lo stesso volume? Affinché essa si presti al linguaggio matematico, la spiegazione si basa sulla supposizione che il reale nello spazio sia ovunque omogeneo, ma che esso comporti del vuoto in proporzioni variabili. Suo malgrado o inconsciamente, il fisico formula una supposizione metafisica: che il reale appartenga ovunque a una sola specie, è infatti un’ipotesi impossibile da verificare empiricamente; inoltre, la prova in favore dello spazio vuoto non ha un fondamento nell’esperienza. Ma il fisico si persuaderà facilmente che questa ipotesi non è più arrischiata di una concezione ordinaria del reale; ragion per cui, senza rendersene conto, egli ha ipostatizzato questa concezione in una cosa situata al fondamento della possibilità di tutte le cose.

10 11

Cfr. KrV, A 169/B 211 [trad. it. cit., p. 345]. Cfr. KrV, A 174/B 215 sg. [trad. it. cit., pp. 351 sgg.].

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Una prova trascendentale, invece, si situa a un livello d’emergenza del dato così profondo che essa «non deve spiegare». Certo, una prova trascendentale non spiega, ma essa «ha il merito di lasciare almeno lo spirito libero» per pensare il fenomeno di riempimento dello spazio in maniera non metafisica. Il carattere metafisico della supposizione emessa dal fisico è riconosciuto nell’istante in cui «lo spirito libero», promosso dalla filosofia trascendentale, gli oppone un’altra supposizione, quella cioè in cui la materia riempie lo spazio in maniera continua, per gradi e all’infinito: non c’è alcun punto dello spazio in cui la materia non sia presente, perlomeno nel grado più piccolo. La prova trascendentale non è dogmatica precisamente in questo senso: essa offre una spiegazione alternativa a quella che il fisico produce nella misura in cui ignora di essere metafisico. Kant conduce così la metafisica verso una nuova direzione, chiamata «metafisica generale» o filosofia trascendentale, nella misura in cui è ben cosciente del fatto che quest’ultima spiegazione non mira a farci comprendere ciò che si produce effettivamente nei corpi che differiscono gli uni dagli altri attraverso la loro gravità specifica. La prova trascendentale non ha come vocazione di oltrepassare i limiti della scienza della natura per completarla, ma di liberare l’intelletto dispensando la fisica dal carico che essa s’impone provando le proprie presupposizioni metafisiche. Non si tratta del fatto che la fisica tragga eventualmente profitto dalla supposizione che emana dalla critica; del resto, le risorse inventive della fisica sono sufficientemente degne di fiducia. La strategia consiste qui nel mostrare che, confrontata con la necessità di spingere sempre più in profondità la sua spiegazione del reale, la ragione si sdoppia in una ragione scientifica e in una ragione critica, senza tuttavia cadere in un’antinomia che la condannerebbe alla paralisi; al contrario l’una può appropriarsi il titolo dell’altra, di modo che la ragione si apre così alla sua libertà propria. Ma se un bisogno illusorio è evitato, la libertà è forse dimenticata troppo rapidamente; e quando essa non lo è, essa è anche sviata. Lo sdoppiamento della ragione può cadere in confusione, ed è addirittura una caratteristica generale della fisica moderna di cadervi. Che il compito della prova dei presupposti metafisici della fisica si riveli in definitiva troppo pesante per essa, è in effetti ciò che Kant dimostra a proposito della scienza più avanzata del suo tempo: la fisica newtoniana12. Questa teoria è in disaccordo con se stessa riguardo alle conseguenze metafisiche che Newton stesso ne traeva. Questo disaccordo con se stessa oltrepassa anche l’interpretazione personale di Newton, poiché essa rivela la difficoltà, se non l’impossibilità, d’accordare 12 Cfr. I. Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft, [d’ora in poi MAN] AA IV 515, [trad. it. di P. Pecere, Id., Principi metafisici della scienza della natura, Bompiani, Milano 2003, p. 227].

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la metodologia della scienza fisica con una metafisica. Newton è in disaccordo con se stesso allorché lascia ai fisici troppa libertà per spiegare il meccanismo della forza attrattiva. Così, per Newton, secondo un argomento presentato in una celebre lettera a Bentley (1692), l’attrazione potrebbe spiegarsi meccanicamente attraverso l’azione corpuscolare di forze repulsive, per esempio la pressione esercitata da un etere. Ma l’agente responsabile della trasmissione della forza potrebbe altrettanto bene essere immateriale, o potrebbe addirittura trattarsi ancora di un’azione divina immediata. Newton ripeterà pubblicamente quest’irresoluzione, per esempio nella sezione 11 dello Scolio nel libro I dei Principia; nel Questione 21 dell’Ottica ritornerà sull’etere per escluderne questa volta definitivamente un processo per impatto meccanico; il rifiuto di una causa meccanica per la forza d’attrazione è ancora affermato nella seconda edizione dei Principia. Ora, per accordare la metafisica con la metodologia della scienza, è richiesta una risoluzione perfettamente chiara. Per sciogliere questa indecisione, Kant dichiara, contro il parere di Newton, che la gravità è una forza essenziale alla materia, che agisce universalmente e immediatamente, senza l’intervento di un ambiente fisico o altro. Inoltre, la piena universalità della fisica è compiuta per mezzo di un’altra forza universale, la repulsione, la cui azione era confinata da Newton entro le interazioni di piccola portata tra le particelle dell’ipotetico etere. Di fatto, l’azione universale e immediata della gravità gioca un ruolo fondamentale nel processo operazionale utilizzato da Newton per misurare le masse dei corpi celesti, e dunque nella costruzione di un sistema di riferimento privilegiato che permette di distinguere a sua volta i movimenti veri dai movimenti apparenti. Dire che la gravitazione è essenziale alla materia equivale semplicemente a dire che i corpi si attirano in quanto sono delle materie: null’altro è richiesto per far sì che le forze attrattive tra due corpi celesti siano proporzionali alla loro quantità di materia. Il disaccordo di Newton con se stesso non è dunque assunto liberamente; esso è piuttosto conseguenza della sua indecisione sulla questione della causa della gravità, di cui pensa che la soluzione fisica finirà un giorno per regolare il fondamento metafisico della fisica. La gravità come proprietà essenziale della materia non è comparabile con la scoperta di una proprietà inerente alla materia: questa proposizione di Kant formula solo la condizione di una metafisica della scienza della natura che sarebbe naturalista da un’estremità all’altra, assicurando alla fisica la sua coerenza con se stessa allorché essa persegue il tipo di spiegazione naturale che l’ha già condotta alla teoria della gravitazione universale. Il compito della filosofia trascendentale non è dunque di determinare le conseguenze metafisiche della scienza che andrebbero al di là di essa; la decisione metafisica concerne piuttosto i principi con i quali la scienza comincia. I procedimenti operazionali della fisica risultano forse da questo inizio? E se sì, come?

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Non bisogna andare tanto lontano quanto la teoria universale della gravitazione per accorgersi che una metafisica naturalista nasconde non solo un disaccordo o un’indecisione temporanei, ma una vera incomprensione. In generale, per ciò che concerne già le proposizioni della geometria, è solo considerando lo spazio come una forma pura della sensibilità, più che come qualcosa d’inerente agli oggetti, che si potrà comprendere come sia possibile conoscere qualcosa a priori. Ora, aggiunge Kant, «in riguardo cioè ad ogni esperienza possibile tutto rimane come se io non avessi abbandonato l’opinione volgare»13. È certo illusorio cogliere gli oggetti come delle cose in sé, poiché essi non possono esserlo che come fenomeni. Ma questa illusione ha pertinenza solo nel quadro di una procedura riflessiva riguardante le condizioni di possibilità della conoscenza. Orientandosi piuttosto verso il contenuto dell’esperienza, la teoria fisica s’esprime come se le variabili spazio-cinematiche fossero delle determinazioni intrinseche della materia. Per la teoria, nei limiti di questo «come se», la sostituzione di proprietà inerenti a dei fenomeni relativi alla nostra sensibilità è per principio inoffensiva. Partendo da certe rappresentazioni ordinarie che essa prende per ultime, la fisica sovraccarica la natura d’ipotesi implicitamente metafisiche, cosa che essa voleva giustamente evitare. Si tratta dunque di attribuirle un punto di partenza che non sia l’esperienza ordinaria, identificando i principi riconosciuti come metafisici che le spettano di diritto fin dall’inizio. Finché essa non avrà oltrepassato le nozioni comune che le servono falsamente da principi ultimi, la scienza non si riconoscerà nei suoi propri principi metafisici. 3. Che cos’è una riflessione critica sulla scienza della natura? Si pone dunque la questione di sapere se Kant rifletta semplicemente il modo di pensare scientifico, lui che pretenderebbe d’ispirarsi alla «rivoluzione del modo di pensare» in scienza per mettere la metafisica sulla via sicura di una scienza14. Nel solco scavato da Copernico, Galilei stesso dichiara che non ha realmente dimostrato il movimento della terra, ma solo che l’ipotesi di questo movimento non è in contraddizione con la natura delle cose. Kant non fa forse qualcosa di simile quando afferma che le forme pure della sensibilità, sulla possibilità delle quali riposa la doppia decisione inaugurale della ragion critica, non sono in contraddizione con l’esperienza sensibile? 13 I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, [d’ora in poi Prol] AA IV 291 [trad. it. con introduzione, note e allegati di P. Martinetti, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza, postfazione e apparati di M. Roncoroni, Rusconi, Milano 1995, p. 101]. 14 Cfr. le analisi di F. Capeillères, Kant philosophe newtonien, Editions du Cerf, Paris 2004.

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La scienza, a partire da Galilei, inizia in maniera ancor più oscura della critica kantiana: non una circolarità tra le forme dell’intelletto e le impressioni sensibili, ma una perturbazione del rapporto tra intuizione e concetto. Si tratta di prendere l’ordine spontaneo dell’esperienza all’inverso. Per descrivere la traiettoria accelerata di un corpo in caduta libera, Galilei comincia con l’astrarsi dalle circostanze dell’esperienza concreta (la resistenza dell’aria). Egli dimostra le leggi sopprimendo questa resistenza, e «dopo aver scoperto e dimostrato le leggi sopprimendo ogni resistenza, [è necessario completarle], al momento di utilizzarle concretamente, attraverso quelle limitazioni che l’esperienza ci segnalerà»15. Si è ben dovuto cominciare con l’esperienza concreta, ma la legge di Galilei ha di particolare che essa si affranca in un primo tempo dall’esperienza, per ritrovarla in séguito, candidamente, come una limitazione del concetto. Ciò che l’intuizione c’insegna effettivamente è lasciato inizialmente da parte, come se la sua evidenza la rendesse trasparente. L’intuizione è ritrovata alla fine del percorso, nel momento in cui si ristabilisce il contatto con il concreto, alla maniera di un materiale disponibile e malleabile a volontà. Che cosa garantisce che il materiale iniziale agisca solo al termine di un’operazione che ha cominciato con l’idealizzare l’oggetto per mezzo di un concetto appropriato? La prima apertura al fenomeno fornisce soltanto un impulso al concetto per permettergli di lanciarsi da solo alla conquista della legge della natura? Questa perturbazione del posto dell’intuizione diventerà talmente imbarazzante che Newton preferirà cominciare con un tutto al contempo ideale e sensibile, da cui i principi necessari alla fisica matematica scaturiscono come per magia: avendo fin da sempre presa sul mondo naturale (essa è una branca della meccanica che tratta dell’arte pratica della misura), la geometria può inorgoglirsi di produrre tante cose con così pochi principi che non provengono da alcun luogo («brought from without», come dice Newton)16. Il Nulla iniziale potrebbe non essere altro che una comodità della ragione, ma anche a questo titolo resta un’opera della ragione: il successo pratico della fisica, ovvero il fatto che essa abbia effettivamente una presa sul mon15 Galilée, Discours concernant deux sciences nouvelles, IVème Journée, trad. fr. di M. Clavelin, Presses Universitaires de France, Paris 1995, p. 212. [Il passo in questione è il seguente: «[…] e però, per poter scientificamente trattare cotal materia, bisogna astrar da essi [dagli infiniti accidenti di gravità, di velocità, ed anco di figura derivanti dall’impedimento dell’aria], e ritrovate e dimostrate le conclusioni astratte da gl’impedimenti, servircene, nel praticarle, con quelle limitazioni che l’esperienza ci verrà insegnando», G. Galilei, Discorsi intorno a due nuove scienze (1638), Giornata quarta, in Id., Opere, a cura di F. Brunetti, vol. II, Utet, Torino 1964, 19963, p. 779]. 16 I. Newton, Mathematical Principles of Natural Philosophy, trad. ingl. di A. Motte e F. Cajori, University of California Press, Berkeley 1934, p. XVII [trad. it. a cura di A. Pala, Principi matematici della Filosofia naturale, Utet, Torino 1965, p. 56: «E la geometria si gloria del fatto che con così pochi principi presi altrove produca tante cose»].

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do empirico, giustifica, secondo Kant, che la scienza della natura sia una conoscenza razionale applicata. Come liberare la ragione scientifica dalla sua timidezza filosofica, e come trarre le conseguenze di questa liberazione per una metafisica della scienza della natura? Poiché il punto di partenza della scienza è una sorta di punto zero che è tuttavia sovraccaricato di tutte le determinazioni che fanno d’una cosa ciò che essa è in quanto cosa naturale, Kant chiede anzitutto di pensare alla «natura» come semplice «parola»: un modo di designare ciò di cui la fisica s’interessa, e cioè l’interno di una cosa da cui derivano per principio «tutte le determinazioni che appartengono all’esistenza di una cosa»17. La scienza della natura è certo incapace d’entrare immediatamente nella comprensione dell’esistenza di una cosa secondo questo principio interiore. Ciononostante essa si avvicina al principio grazie all’intermediario delle leggi che regolano la connessione tra cose, grazie alle quali tutte le determinazioni di una cosa sono comprese nel quadro di una necessità che la connette ad altre cose. Benché la legge fissi dei rapporti esterni tra cose, bisogna chiedersi in che misura questa necessità apportata dal concetto di legge non cada nel vuoto, e proceda comunque dal principio all’interno delle cose. Nei termini di Kant: come e a quali condizioni una scienza della natura, in quanto conoscenza razionale applicata, trae la sua legittimità da una scienza «propriamente detta»18, cioè una conoscenza razionale pura la cui certezza apodittica è tale che tutte le altre spiegazioni possibili della natura derivino da principi a priori della ragione? Nella stessa maniera in cui Galilei inverte l’ordine spontaneo dell’intuizione e del concetto, si tratta di invertire la conoscenza scientifica già stabilita, per ricondurla al punto in cui appare una corrispondenza tra il principio interno di una cosa e il principio proprio della ragione. La critica comincia con una riflessione su queste limitazioni che, dal punto di vista della ragione scientifica, giungono per ultime. Che cos’è il potere della ragione sulla natura quando queste limitazioni sono considerate come costitutive della ragione? L’a priori all’opera in una teoria scientifica è, secondo Kant, un «progetto», un «piano prestabilito»19. La ragione scientifica interpella la natura per mezzo dei suoi principi propri, che sono dapprima pensati problematicamente, prima d’essere pensati apoditticamente per mezzo di una sperimentazione che giunge a convalidare le ipotesi. Nella scienza, la ragione dispone di principi e di un metodo sperimentale pianificato a partire da un’anticipazione razionale dell’esperienza; essa si procura così i mezzi per apprendere dalla natura tutto quello che essa cerca conformemente a ciò che essa

17

MAN, AA IV 468 [trad. it. cit., p. 99]. MAN, AA IV 469 [trad. it. cit., p. 101]. 19 KrV, B XIII [trad. it. cit., p. 31]. 18

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stessa vi ha posto20. Senza mettere in dubbio questo processo, la riflessione critica sulla ragione all’opera nella scienza sviluppa in due fasi un processo ancora ripiegato su di sé: ci s’interroga sul momento a partire dal quale la ragione consegnata a se stessa deve sorreggersi sulla messa in ordine razionale dell’esperienza (sperimentazione). Porre tale questione è già riconoscere all’esperienza un ruolo più forte di quello di un materiale bruto interamente sottomesso al piano della ragione: è concedere all’esperienza che da essa provengono anche dei principi, a fianco dei principi scaturiti dalla ragion pura. L’incontro di questi principi scaturiti da due fonti differenti è quel momento in cui il pensiero problematico si trasforma in pensiero apodittico. I principi metafisici con i quali la scienza comincia devono permettere d’identificare questo momento, e renderlo intelligibile. In che modo questi principi rinviino a loro volta a questo momento insigne della primissima apertura all’esperienza, e come permettano di comprendere l’esperienza conformemente alla sua origine, questa è la questione da risolvere. Prima della scienza, la primissima apertura all’esperienza è già una manipolazione del fenomeno. Secondo la prima idea di Copernico21, prima che la teoria della gravitazione universale lo provi, gli oggetti non sono semplicemente dati, giacché i concetti a priori li forzano a darsi nell’esperienza conformemente a questi concetti. Per tal ragione l’oggetto, dal punto di vista dei principi dell’intelletto puro nel loro uso empirico, è l’oggetto problematico, a proposito del quale non si è ancora deciso se esso sia qualcosa oppure nulla22. Ora, l’oggetto indeterminato di un’intuizione empirica non è altro che il fenomeno23; è il fenomeno che non presenta ancora tutto il suo spessore fenomenale proprio, ma solo quella parte di se stesso che si presta alla manipolazione tramite il concetto senza danno per la sua integrità. Il diverso dal fenomeno è allora ordinabile secondo certi rapporti grazie alle regole che sono gli schemi dell’immaginazione trascendentale. Gli schemi rifanno per così dire nel pensiero ciò che il diverso sensibile ha già fatto da parte sua; essi sono dunque delle determinazioni trascendentali del tempo. Utilizzare queste regole non significa trasformare l’oggetto indeterminato in oggetto determinato, ma piuttosto trovare il senso, per ogni situazione empirica possibile, di ciò che significa avere un «oggetto in generale» per questa situazione. Ora, dopo avere riconosciuto il suo potere su di sé, che è anche un potere sulla natura in generale (finché essa resta indeterminata), il pensiero deve immediatamente fare atto d’umiltà e ammettere che gli oggetti della cono-

20

Cfr. KrV, B XIV [trad. it. cit., p. 33]. Cfr. KrV, B XVIII [trad. it. cit., p. 37]. 22 Cfr. KrV, A 290/B 346 [trad. it. cit., p. 521]. 23 Cfr. KrV, A 20/B 34 [trad. it. cit., p. 113]. 21

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scenza empirica restino «determinabili in varie maniere»24 differenti e nuove, senza che l’intelletto possa riconoscere una necessità tanto evidente quanto quella di un piano razionale generale. In ogni caso, per questo diverso sensibile più ricco di una semplice generalità, non vi è alcuna garanzia che l’intelletto vi riconosca una necessità che riflette la sua struttura a priori propria. Partendo dal corpo materiale nella percezione sensibile, Kant scopre che il movimento di questo corpo è la prima di quelle determinazioni che sfuggono al piano di controllo generale: esso presuppone sempre qualcosa di empirico, ovvero la percezione di qualcosa di mobile. Benché non sia un concetto a priori, il movimento si rapporta ciononostante allo spazio e al tempo, poiché li unifica in una certa maniera. Ora, lo spazio e il tempo sono delle intuizioni a priori. Il corpo materiale in movimento è dunque un curioso ibrido di empirico e di a priori. Siccome resiste fino a un certo punto al potere dell’a priori, si può dire del movimento che esso sia il primo spessore del fenomeno che si manifesta per conto suo proprio. Fino a che punto questa resistenza si esercita? Rispondere a tale questione significherà rispondere alla questione concernente il momento in cui la ragione si affida all’esperienza. Kant affronterà tale questione dell’incontro tra l’empirico e l’a priori dividendola in due questioni complementari l’una all’altra, ciascuna provvedendo per una parte del cammino che conduce al punto d’incontro: (i) formalizzare e relativizzare il movimento, di modo che lo spazio divenga sistema di riferimento relativo al corpo mobile (Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft); (ii) materializzare e assolutizzare il movimento, di sorta che una materia prima sia posta come causa del suo proprio movimento (Opus Postumum). 4. La Natura e il suo linguaggio privilegiato, la matematica Che cosa ne è finalmente della Natura che, non essendo conoscibile in sé, è dapprima affrontata nella sua potenza nascosta come semplice parola? Kant distingue perlomeno tre sensi di natura. 1) In senso formale, la natura designa l’unità necessaria e universale nella concatenazione dei fenomeni (Prol, § 36); tale è la conformità delle cose alle condizioni a priori dell’intelletto nel suo uso empirico. È la natura tale e quale è compresa da e nelle scienze matematiche della natura, ovvero la totalità delle regole sotto cui i fenomeni devono essere sussunti per essere pensati. 2) Benché sempre formale, vi è un altro senso della natura che non è più trascendentale ma metafisico: «il primo principio interno di tutto ciò che appartiene all’esistenza di

24 Cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, [d’ora in poi KU], AA V 183 [trad. it. con introduzione, note e apparati di M. Marassi, Critica del giudizio, Bompiani, Milano 2004, p. 37].

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una cosa»25. Non vi è più una regola universale, ma tante scienze della natura quante cose specificamente differenti esistono. 3) La natura nel senso materiale: non più la totalità delle regole, ma «il complesso di tutte le cose 26 nella misura in cui possono essere oggetti dei nostri sensi» ; è la totalità dei fenomeni sensibili. I sensi (1) e (3) sono condensati nel § 17 dei Prolegomeni, in cui regole e cose sono pensate insieme sotto l’egida della totalità: «la con27 formità a leggi di tutti gli oggetti dell’esperienza» . Detto altrimenti, sotto l’egida della totalità, la scienza matematica della natura ha per vocazione di fare coincidere l’elemento formale e l’elemento materiale della natura. La definizione (2) della natura risponde all’incompletezza della prima (1), poiché nessuno può dire a priori che la conformità delle cose al nostro intelletto esaurisca il senso della natura totale. Non può essere vero a priori che ogni esperienza conduca a un concatenamento dei fenomeni riconoscibile in essa. Se il senso totale della natura è definibile a priori, nulla garantirà mai che esso ricopra perfettamente il senso della natura totale. La definizione della natura secondo il principio interiore all’esistenza di una cosa prevede giustamente una riserva per questo eccesso. Ora, sempre nella prefazione dei Principi metafisici, Kant osserva finalmente che il primo principio interiore di una cosa non rinvia esclusivamente alla sua esistenza (la sua natura); esso può anche rinviare alla sua essenza, come nel caso delle figure geometriche che hanno un’essenza ma non una natura. Una scienza matematica della natura è dunque rivelatrice della possibilità della natura. Essa vi arriva ribaltando sull’essenza il principio primo dell’esistenza. Questo rovesciamento capta la forma di questo momento che interessa la ragione critica sopra ogni altra cosa, e cioè il momento in cui il principio a priori della ragione, sebbene forzi la natura a rispondere alle sue domande, si appoggia a sua volta sulla forza dell’esperienza sensibile. Si comprende perché la matematica goda fin da sempre del prestigio di modello per ogni conoscenza, ivi compresa la metafisica, che parte alla ricerca dell’incondizionato per la ragione che oltrepassa ogni esperienza possibile. Mentre una conoscenza di un oggetto appartenente alla natura esige, per essere possibile, che l’elemento oggettivo delle nostre rappresentazioni sia sostituibile all’elemento soggettivo, l’oggetto matematico non è altro che il soggetto considerato come forma dell’intuizione sensibile. Appartiene così alla natura della matematica il confondere le condizioni soggettive del pensiero con le condizioni dell’oggetto (la forma e la materia). Questa confusione, quando è realizzata effettivamente, è la costruzione del concetto nell’intuizione pura. In effetti, la figura tracciata dal matematico, benché sia 25

MAN, AA IV 467 [trad. it. cit., p. 95].

26 [Ibid.] 27

[Cfr. Prol, trad. it. cit., p. 111, trad. in parte modificata].

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la sua creatura propria, è costruita precisamente come un oggetto che gli sta di fronte, con le sue proprietà oggettive che restano da scoprire. Quando è lo spazio ad essere compreso come rappresentazione soggettiva, la figura tracciata nello spazio la porta al di là del soggetto solo per permettere al soggetto di riconoscersi in essa, non di staccarsene. Ciononostante, benché esso sia costruito nel e per mezzo delle forme pure dell’esperienza, e anche se ne ha l’apparenza, l’oggetto matematico non è ancora l’incondizionato ricercato dalla ragione. Esso non è neppure un vero oggetto, poiché è pensato arbitrariamente: «il concetto dell’oggetto è stato dato nella definizione originariamente, cioè senza che tale definizione derivasse da qualcos’altro»28. Nonostante questo avvertimento critico, la scienza della natura si affida sempre di più all’affidabilità delle matematiche per scoprire l’essere ultimo delle cose. Ignorando i limiti assegnati alla ragione dalla critica, la matematica, così com’è praticata dal matematico, s’interpreta come un realismo trascendentale. La critica non può farvi nulla: un giudizio intuitivo non si deduce. Quali conseguenze ne derivano per un esame critico della scienza? Le categorie scaturiscono dalle funzioni logiche dell’unità in un giudizio; esse sono dunque troppo generali per rendere conto della sintesi necessaria delle cose determinate. Trasposta dalla natura in generale alle cose determinate, la possibilità trascendentale del pensiero si converte in una condizione semplicemente analitica (la non-contraddizione), ciò che essa era prima della scoperta dell’a priori sintetico. Ma qual è la sintesi a priori che conviene per le cose determinate? Essa è fornita dalla stessa matematica pura. In effetti, la matematica procede sinteticamente secondo la maniera precisa richiesta dal concetto di materia, poiché «solo nell’intuizione pura le può essere data la materia per giudizi sintetici a priori»29. Certo, per la conoscenza trascendentale della natura in generale, la realtà obiettiva delle categorie deve essere verificata (darzutun), cosa che è possibile solo per mezzo delle intuizioni esterne. Così, «per fornire al concetto di sostanza qualcosa di permanente nell’intuizione che gli corrisponda [...] abbiamo bisogno di un’intuizione nello spazio (della materia)»30. Ma l’esigenza di verifica non è la stessa cosa che la presentazione d’una possibilità inerente al concetto, che appartiene solo al concetto matematico. Vi sarà dunque perlomeno una corrispondenza tra la costruzione (sintesi matematica), il cui il concetto si ritrova interamente nell’intuizione, e la necessità che appartiene all’esistenza di una cosa (sintesi metafisica), anche se l’esistenza non può evidentemente essere costruita31. Questa corrispondenza significa che la scienza della natura 28

KrV, A 730/B 758 [trad. it. cit., p. 1037]. Prol, AA IV 283 [trad. it. cit., p. 85, trad. in parte modificata]. 30 KrV, B 291 [trad. it. cit., p. 447]. 31 Cfr. MAN, AA IV 469 [trad. it. cit., p. 101]. 29

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(physica generalis) comporta delle proposizioni al contempo matematiche e metafisiche. Essa giustifica, almeno a titolo di programma la cui realizzazione resta da eseguire, che la scienza della natura (più specialmente la materia in movimento) possa al contempo avanzare senza limite nella conoscenza empirica e preservare il carattere puro e necessario del suo fondamento. I fenomeni non sono delle cose in sé. Ma essi possono diventare degli oggetti d’esperienza solo a condizione che dei concetti a priori (le categorie dell’intelletto) siano a fondamento dell’esperienza, in quanto concetti di un oggetto in generale. L’oggetto in generale è la proiezione sul diverso sensibile dell’unità della coscienza, e assicura che i concetti in generale avranno sempre un rapporto con un oggetto. Siccome non può essere intuito alla maniera di un fenomeno, questo oggetto in generale è sempre lo stesso (oggetto trascendentale = X). Nel caso della conoscenza delle cose determinate, il fatto che l’oggetto matematico sia assorbito nelle sue condizioni di possibilità proprie non significa tuttavia l’eliminazione di questo X. In effetti, se nella sintesi matematica la forma è confusa con la materia ed è presa per essa, questa confusione non si produce senza ricordare l’idea della ragione, che ha la particolarità di schematizzare un diverso anche quando l’oggetto non è per nulla dato nell’esperienza32. La ragione vi giunge per mezzo di una sintesi regressiva delle condizioni verso un incondizionato, che è sia il tutto del sensibile, sia una prima condizione separata dalla catena dei sensibili che essa genera. Dal canto suo, la sintesi matematica è essa stessa incondizionata nella misura in cui il materiale sul quale essa poggia può essere una cosa qualsiasi (un X che è questo o quello), ed essa compie dunque istantaneamente ciò che la ragione compie nel tempo (in una sintesi che prende del tempo). Se la sintesi della natura determinata è dunque al contempo metafisica e matematica, essa appartiene alla ragione che si è sbarazzata del tempo. È per questo che la scienza matematica della natura è vittima del dogmatismo metafisico allorché, adottando questo o quel dato come dato primo, essa afferma in seguito che questo dato non è più suscettibile di alcuna costruzione33. Facendo ciò, essa confonde il dato primo, che è sempre arbitrario (nel senso in cui già lo è una sintesi matematica), con l’incondizionato richiesto dalla metafisica. Contro questo dogmatismo, bisogna ammettere che nulla si oppone al processo della costruzione nell’intuizione, che può continuare al di là di ogni sedicente dato primo alla maniera di una sintesi regressiva senza termine fisso. Che cosa differenzia l’incondizionato nel senso della metafisica da un dato primo nel senso della matematica? Il problema è ben posto da Kant nella Prefazione dei Primi principi, laddove spiega che egli presenterà in maniera sistematica le condi32 33

Cfr. Prol, AA IV 328 [trad. it. cit., p. 173]. Cfr. MAN, AA IV 498 [trad. it. cit., p. 177].

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zioni generali della rappresentabilità di questi oggetti, dati nell’intuizione, che sono le materie in movimento. Per questi oggetti, dunque, i principi di ogni costruzione (grazie ai quali dei concetti sono presentati a priori) devono essi stessi essere presentati, cioè costruiti. Attraverso l’intermediario della loro costruibilità, le condizioni trascendentali di possibilità della conoscenza sono ora identificate con l’esteriorità pura, in modo che esse perdano ogni riferimento al tempo e che esse divengano tanto anonime quanto le proposizioni della matematica. I principi metafisici con cui comincia la scienza della natura sono queste condizioni interiori al soggetto, così esteriorizzate senza essere ipostatizzate. Ma siccome questa costruibilità è un ideale della ragione, essa pone un’esigenza che non può realizzarsi, che può solo essere spinta il più lontano possibile. Così, progredendo nei Principi metafisici, si vedono apparire i limiti della costruzione. A partire dalla Foronomia, la costruzione è presentata, contrariamente all’evidenza matematica, come una composizione indiretta e non immediata34. 5. Prolegomeni a una metafisica della scienza della natura Durante tutto il suo itinerario intellettuale Kant è stato cosciente del bisogno di fondare la filosofia della natura su una metafisica. Ben presto, nel suo periodo pre-critico, Kant identifica quest’ultima con le nozioni leibniziane di sostanza e di forza attiva. Metafisicamente la realtà consisterebbe dunque in sostanze non estese, semplici, senza interazione con le altre, determinate soltanto da principi interni. Questa concezione della realtà entra però in conflitto con gli insegnamenti della meccanica newtoniana, che Kant ha sempre accettato come una sorta di paradigma intoccabile: ora, secondo questa teoria la realtà materiale è piuttosto spazio-temporale ed essenzialmente interattiva. Kant si prefigge il compito di riconciliare Leibniz (la realtà è dedotta dai primi principi generali concernenti i corpi naturali) con Newton e la sua deduzione delle forze a partire dai fenomeni del movimento. I Principi metafisici rappresentano la tappa critica sul cammino di questa vasta sintesi. A partire dalla fine del diciassettesimo secolo, la questione dello statuto della fisica matematica si pone in modo acuto, particolarmente nei tentativi di sintesi dei sistemi cartesiani e newtoniani (uno dei più singolari è quello di Huyghens, che mira a conciliare le equazioni newtoniane della gravitazione con la teoria dei vortici). Quali che siano i loro meriti e i loro fallimenti, questi tentativi s’inscrivono in un quadro di pensiero che oppone fisica e matematica pur riconoscendo la necessità di un’unità. In pratica, anziché dedurre la verità di una teoria dalla sua coerenza logica, si richiede 34

Cfr. MAN, AA IV 494 [trad. it. cit., p. 165].

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all’esperienza di confermare il suo carattere ben fondato; reciprocamente, quando certe relazioni matematiche sono verificate sperimentalmente, si attribuisce questa matematicità a una causalità materiale soggiacente. Questo rapporto reciproco traduce l’efficacia della matematica applicata al reale. Ma quest’efficacia su cosa riposa? Fin dall’inizio del suo itinerario intellettuale, Kant ha tentato di pensare la matematizzazione del reale al livello della sua possibilità, che precede la sua efficacia. La relazione della matematica con il reale si traduce dapprima nel rapporto, apparentemente incompatibile, tra una proprietà matematica dello spazio (la sua divisibilità all’infinito) e le sostanze semplici che si considerano costitutive del mondo materiale. Kant apporterà la sua soluzione teorica peculiare a questo problema nella Monadologia fisica del 1758, in cui concepirà delle sostanze inestese dotate di una sfera d’attività (equivalente all’impenetrabilità della materia), la cui divisibilità all’infinito non impedisce l’esistenza di sostanze semplici. In effetti, questa soluzione teorica trova dapprima modo di esprimersi in un modello concreto dell’universo in formazione a partire da un’origine (la Teoria del Cielo del 1755). Secondo Descartes, essendo lo spazio necessariamente identico alla materia, una volta che esso è dato, è sufficiente introdurvi il movimento e gli urti affinché l’evoluzione del mondo cominci. Ma questo movimento poteva essere soltanto vorticoso e, come ha mostrato Newton, i vortici non rendono conto dell’attrazione: in che modo le comete potrebbero muoversi liberamente, così come esse fanno senza tenere conto del piano dell’ellittica, se gli spazi fossero pieni? Bisognava dunque fare dell’attrazione un dato primitivo allo stesso titolo della materia, con la sua diversità d’elementi, congiungendo la repulsione sensibile alle piccole distanze, inerenti quindi a tutta la materia, così come testimonia l’espansibilità dei gas. L’ambiziosa teoria di Kant è costruita grazie a tre dati empirici elevati al rango di principi: diversità degli elementi, attrazione e repulsione. Distanze, densità, masse, orbite, eccentricità, rotazione dei pianeti, vie lattee e altri sistemi siderali saranno ricondotti a queste cause generali, che non sono delle cause esterne di movimento; esse non esigono neppure un colpetto iniziale nel senso di Pascal. Mentre in Descartes il movimento primitivo era destinato a rendere conto della forza in generale e della pesantezza in particolare, qui, conformemente allo spirito del dinamismo, sono le due forze elementari e opposte della gravitazione e della repulsione che spiegheranno l’apparizione del movimento in seno a un ambiente primitivamente immobile e pieno. Queste forze sono una sorta d’energia potenziale iniziale che disegna attorno a ogni massa una sfera d’attività, cioè un luogo per l’azione fisica in quanto essa diviene azione a distanza. La diffusione estrema della materia all’origine, una specie di nulla fisico, sembra avere come solo scopo di pervenire alla nozione di spazio, e Kant la offre lui stesso come una sorta d’intermediario tra il cosmo differenziato e il nulla. Nella

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Teoria del cielo, lo spazio (estensione infinita o viluppo, Umfang) è sia l’effetto della coesistenza delle materie dotate di forze (Leibniz), sia la manifestazione della presenza divina all’origine delle cose (Newton). Nei Principi metafisici Kant fornisce quattro definizioni del concetto di materia, che corrispondono ai quattro gruppi di categorie nella Critica della ragion pura. La definizione fornita dalla Foronomia stipula che la materia è ciò che è mobile nello spazio che occupa; si tratta dell’aspetto puramente geometrico del suo movimento. La definizione fornita dalla Dinamica afferma che la materia è ciò che è mobile in quanto riempie lo spazio: esso è dotato della qualità d’una potenza originaria del movimento, poiché questo riempimento è il fondamento delle forze fondamentali che risiedono nella materia. Nella Meccanica, la materia è dotata di una forza motrice che è la conseguenza del movimento dei corpi e delle loro interazioni reciproche: le interazioni tra i corpi materiali trovano la loro origine nelle forze di questo genere. Infine, la Fenomenologia riflette le tre determinazioni insieme, e definisce la materia come il «mobile» che è sia in movimento, sia in riposo relativamente a un modo di rappresentazione; è dunque il «mobile» in quanto può essere un oggetto d’esperienza. In tutte queste definizioni lo stato di movimento è fondamentale, e tutti gli altri predicati della materia trovano il loro fondamento in esso. Das Bewegliche significa qualcosa che è capace di muovere o di essere mosso; ciò include dunque, al contempo, il fatto del movimento e ciò che muove. In effetti, Kant pensa che il concetto di materia riceva un’«analisi completa»35 quando è così trattato secondo i quattro gruppi di categorie. La completezza dell’analisi giustifica in ultima istanza la legittimità dell’applicazione delle matematiche alla fisica. I principi metafisici della scienza sono quelli con i quali essa comincia, cosa ben indicata dal termine Anfang. Non è del tutto la stessa cosa offrire una giustificazione a priori di questi principi. Mentre secondo la Critica della ragion pura le categorie dell’intelletto sono vuote allorché sono prive di contenuto intuitivo, e le intuizioni senza concetti sono cieche, la Prefazione dei Principi metafisici afferma che «una distinta metafisica della natura corporea reca a quella generale [e cioè alla filosofia trascendentale] un servizio eccellente e indispensabile, procurando esempi (casi in concreto) per realizzare i concetti e i teoremi di quest’ultima […], cioè per procurare senso e significato a una semplice forma del pensiero»36. Nella metafisica speciale della natura, le occorrenze concrete realizzano i concetti dell’intelletto offrendogli simultaneamente un senso e un contenuto.

35 MAN, AA IV 472 [trad. it. cit., p. 172; l’edizione italiana reca però la seguente traduzione: «una compiuta scomposizione del concetto di una materia in generale»]. 36 MAN, AA IV 478 [trad. it. cit., p. 123].

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6. Foronomia Guardiamo da dove proviene la legge di gravitazione universale (Libro III dei Principia di Newton). A partire dalle leggi di Keplero, che specificano le proprietà geometriche delle traiettorie dei pianeti attorno al sole, Newton trova la forza – cosa che gli permette di spiegare queste proprietà per mezzo di una causa efficace, la forza d’attrazione. Questa forza, proporzionale alla massa, è in ragione inversa al quadrato della distanza dal centro del sole. In questa maniera, le proprietà geometriche e le proprietà dinamiche s’intrecciano per produrre una meccanica analitica. Per ragioni che riguardano le condizioni di possibilità della fisica, Kant separa radicalmente l’ambito geometrico (cinematico o foronomico) dall’ambito dinamico. Per ciò che concerne il primo ambito, Kant cerca il principio dell’applicazione della categoria di quantità alla materia in movimento. Ci si chiede a quali condizioni la materia in movimento risponda alle esigenze della grandezza estensiva, secondo le quali le parti di un tutto possono essere giustapposte una all’altra per formare questo tutto. La giustapposizione è il principio sintetico dell’intelletto puro che definisce la grandezza estensiva negli Assiomi dell’intuizione. Il procedimento che permette una rappresentazione della grandezza estensiva è il medesimo per lo spazio e il tempo. Così la linea che traccio col pensiero produce tutte le parti, a partire da un punto, secondo la successione dell’una dopo l’altra, tanto che l’intuizione del tempo è prodotta quando penso in esso la progressione successiva di un momento all’altro37. A titolo di quantità, il movimento include il concetto di direzione, che è spaziale, e quello di velocità, che è al contempo spaziale e temporale. Ma Kant dice che utilizzerà il concetto di velocità essenzialmente nel suo significato spaziale38. La dottrina pura del movimento come quantum è stabilita conformemente ai tre elementi forniti dallo spazio per una linea e una direzione, e cioè l’unità, la pluralità e la totalità39. La sintesi metafisica del concetto di materia tiene conto del tempo solo come intermediario tra lo spazio e la velocità40. Ogni materia in movimento dovrà essere composta d’altri movimenti, omogenei gli uni agli altri. In maniera più generale: quali sono le condizioni di possibilità per la composizione di due movimenti? Per risolvere questa questione, Kant fa leva sul principio (Grundsatz) secondo cui il movimento di un corpo nello spazio è sempre interscambiabile con un movimento dello spazio (ovvero del sistema di riferimento) nella direzione opposta41. Solo se 37

Cfr. KrV, A 162 sg./B 203 [trad. it. cit., pp. 331 sgg.]. Cfr. MAN, AA IV 484 [trad. it. cit., p. 139]. 39 Cfr. MAN, AA IV 495 [trad. it. cit., p. 171]. 40 Cfr. MAN, AA IV 489 [trad. it. cit., p. 153]. 41 Cfr. MAN, AA IV 487 [trad. it. cit., p. 147]. 38

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il movimento è ricurvo, si distingue il corpo dallo spazio circostante. Si tratta del principio classico della relatività, interpretato come condizione di possibilità per l’esperienza della materia in movimento. A partire dall’istante in cui l’oggetto è stato specificato come corpo materiale in movimento, lo spazio empirico o materiale aggiunto a questo corpo («relativo» al corpo) gli permette di diventare un oggetto d’esperienza possibile. Ma se lo spazio empirico è la condizione grazie a cui la materia in movimento diviene oggetto d’esperienza, da dove viene lo spazio empirico stesso, di cosa esso è una specificazione? La fisica newtoniana comincia effettivamente con degli spazi e dei movimenti relativi, ma essa non si limita a ciò. Solo gli spazi e i movimenti relativi vengono intuiti, e benché questi siano variati all’infinito (l’inglese dice «innumerable»), è tuttavia possibile distinguere il movimento assoluto dal movimento relativo a partire dalle forze di allontanamento dall’asse del movimento circolare. Per esempio si distingue con i sensi la differenza tra la superficie piana dell’acqua nel secchio in riposo, e la superficie concava dell’acqua in un secchio in rotazione, benché ogni volta vi sia riposo relativo tra l’acqua e il secchio. Per spiegare questa differenza per mezzo di una causa, bisogna postulare uno spazio assoluto che non è affatto sensibile. Indipendentemente dall’azione causale supposta di questo spazio assoluto, ci si domanda innanzitutto che cosa sia questo spazio. Esso è costituito, dice Newton, dai luoghi che, oltre ad essere assoluti, sono immobili. Quest’affermazione non va da sé, perché nulla impedisce a priori ai luoghi dello spazio di conformarsi al principio di relatività. Ma secondo lo stesso argomento, sarebbe assurdo, aggiunge Newton, che le sedi primarie delle cose siano mobili come le cose, cioè che dei luoghi si spostino dentro dei luoghi. Non esiste nessun argomento fisico per dimostrare che le parti dello spazio assoluto sfuggano alla relatività; è disponibile solo un argomento di pura intelligibilità. Per questo fatto, spazio e movimento non sono trattati in modo eguale. Il movimento è l’elemento irriducibile dell’esperienza, ma nell’esperienza ordinaria noi viviamo già delle situazioni in cui la relatività del movimento e del riposo è patente (come la cabina in riposo in rapporto alla nave che si muove secondo un movimento uniforme a velocità costante). Galilei aveva utilizzato questo esempio per designare l’essenza del movimento, che è «come un nulla». Nella teoria di Newton, tutto ciò che il movimento perde in realtà ontologica è recuperato per mezzo dello spazio assoluto, che esce dalla rete dell’esperienza sensibile relativa al fine di differenziare in assoluto movimento e riposo. Kant pone la questione nella sua grande generalità: qual è la condizione di pensiero che ci permette di porre un sistema di riferimento per la descrizione del movimento di un corpo? A proposito dello spazio relativo, egli scrive: «Questo spazio, però, essendo materiale, è a sua volta mobile. Uno spazio mobile, però, se il suo movimento deve poter essere percepito, pre-

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suppone un altro spazio materiale più esteso in cui potersi muovere, ma questo a sua volta ne presuppone un altro e così via all’infinito»42. Lo scambio del movimento di un corpo materiale con quello dello spazio che gli è relativo non istituisce una sorta di mobilità universale, come se dal principio di relatività conseguisse che l’idea stessa di una sede primaria per le cose non abbia finalmente alcuna ragione d’essere. Al contrario, gli spazi relativi tendono tanto più verso il riposo quanto più essi sono estesi e inglobanti gli uni in rapporto agli altri. Al limite questi spazi sempre più estesi corrispondono allo spazio assoluto. Ma poiché formalmente nulla impedisce allo spazio assoluto, o a porzioni di esso, di essere in movimento, bisogna che come limite lo spazio assoluto sia un nulla per l’esperienza possibile: parlando propriamente, né in movimento, né in riposo. Come il movimento, anche lo spazio è «come nulla». In termini kantiani: esso è un’Idea della ragione. Se Newton utilizza l’argomento d’intelligibilità per le parti dello spazio, Kant l’utilizza per tutto lo spazio. La possibilità sempre rinnovata d’allargare la classe dei sistemi di riferimento al di là di ogni limite dato è la condizione senza la quale lo spazio nel senso della teoria fisica non sarebbe intelligibile. Le parti di questo spazio sfuggono in effetti alla relatività, non in virtù dell’equivalenza del movimento e del riposo secondo il principio di relatività, ma perché il loro movimento tende verso il riposo. Quando Newton assolutizza lo spazio, sostiene Kant, ignora la ragione nel senso critico e confonde in definitiva «l’universalità logica di uno spazio qualsiasi, con cui posso confrontare ogni spazio empirico in quanto racchiuso al suo interno, con un’universalità fisica dell’estensione vera e propria»43. Ora, quando si tratta di utilizzare il principio di relatività per effettuare delle costruzioni (composizioni) di movimento per un solo punto, lo spazio assoluto non è più un niente per l’esperienza possibile. Variando certe condizioni di quest’esperienza, esso può passare per uno spazio relativo. Così, la composizione di due movimenti per uno stesso punto è possibile intuitivamente grazie a due spazi equivalenti, uno rappresentato nello spazio assoluto e l’altro nello spazio relativo, che si muovono in due direzioni opposte. Tale è il teorema (Lehrsatz) della Foronomia44. Quale dei due spazi sia relativo e quale assoluto, ciò resta arbitrario poiché la costruzione non dipende da questa specificazione. Tutto avviene come se uno dei due spazi non fosse intuito per permettere all’altro di esserlo, cosa che preserva ciò che è arbitrario della sintesi matematica. Anziché passare, così come fa Newton, dal relativo all’assoluto attraverso una sorta di salto all’interno del relativo, 42

MAN, AA IV 481 [trad. it. cit., p. 129]. MAN, AA IV 482 [trad. it. cit., p. 131]. 44 Cfr. MAN, AA IV 490 [trad. it. cit., p. 155]. 43

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Kant ha appena mostrato che il relativo e l’assoluto sono con noi in ogni momento. Come idea, lo spazio assoluto è certo un’ipostasi della ragione, ma siccome quest’ipostasi è sempre controbilanciata da un’intuizione che le ricorda la sua origine nell’esperienza, essa rende conto dell’operatività della fisica a partire da un «nulla» per l’esperienza possibile. Per passare dalla conoscenza della natura in generale a quella delle cose naturali determinate secondo il loro movimento, lo spazio come forma pura della sensibilità è stato trattato alla maniera di un concetto che bisognava sensibilizzare (come spazio materiale) per dargli il senso che esso ha nella teoria fisica. È così che l’aggiunta dello spazio materiale allo spazio a priori produce un equivoco dell’intuizione: che un corpo si muova in uno spazio a riposo o che questo corpo sia in riposo in uno spazio che si muove nella direzione opposta con una velocità uguale, si tratta là di due concetti equivalenti che nessuna intuizione potrebbe separare. Questo equivoco arricchisce l’intuizione, perché l’intuizione è ora in rapporto con l’assoluto della ragione nella sua idea, e non più soltanto con l’a priori della forma del sensibile. L’intuizione riceve così lo spessore fenomenico che gli spetta. La solidarietà del movimento e dello spazio, relativamente alle loro condizioni di possibilità, era necessaria per permettere d’identificare quel momento in cui la ragione, munita del suo piano a priori, si affida allo spessore empirico proprio della materia in movimento. Diventando principio metafisico, il principio di relatività non esce più dai limiti dell’esperienza in cui il movimento è solidale col suo spazio. Esso si trova dotato al contempo di un contenuto (spazio materiale) e di un senso (libera scelta del sistema di riferimento). La Foronomia è così la prima tappa nella soluzione del problema dell’incontro tra l’a priori e l’empirico. Essa trasforma il principio di relatività in principio metafisico, enunciando le condizioni per mezzo delle quali il movimento è liberamente scambiato con il riposo. Ora, questo principio metafisico della Foronomia è in definitiva il solo principio metafisico in tutta la scienza della natura. Passando alla Dinamica e alla Meccanica (in cui la fisica non è più strettamente geometrica), ci si accorge che i loro fondamenti sono presenti come dei teoremi. È notevole che il solo principio metafisico col quale comincia tutta la scienza della natura corrisponda al caso singolare in cui si fa astrazione per gli oggetti fisici dalle loro qualità dinamiche, in modo tale che le loro traiettorie siano studiate secondo la maniera dello spostamento di punti non estesi nello spazio geometrico. È il caso in cui vi è trasparenza assoluta della fisica e della matematica, che è anche (secondo un processo di pensiero che la storia della fisica moderna e contemporanea non ha fatto che accentuare) quello che corrisponde al compimento ideale di una fisica matematica giunta al termine del suo percorso: tutto è matematizzato, il reale è interamente subordinato ai mezzi che permettono ad un oggetto di diventare oggetto d’esperienza ma-

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tematizzabile. Come dirà Hertz alla fine del diciannovesimo secolo, i principi della fisica non sono altro che le sue equazioni. Ma la ragione critica ci avverte che, così come il movimento è solidale con lo spazio, la sintesi matematica si giustappone alla sintesi metafisica senza assorbirla. 7. Dinamica La matematizzazione della natura ha fatto capovolgere il principio interiore di una cosa dalla sua esistenza verso la sua essenza. Ora, la forza di gravitazione nella fisica newtoniana è al cuore di questo capovolgimento. In effetti, essa agisce al contempo all’interno della materia (per assicurare il riempimento dello spazio) e all’esterno (tra le parti di materia). Aggiungendo alla rappresentazione foronomica una proprietà della materia a titolo di sua qualità, il fatto cioè di resistere a un movimento all’interno di uno spazio, la Dinamica tratta volta a volta di questi due aspetti. Ci si trova così immersi nel cuore della difficoltà fondamentale di conciliare due sintesi, matematica e metafisica, senza annientare la specificità di ciascuna di esse. A proposito del concetto di materia, Kant comincia col fare una distinzione tra due generi di impenetrabilità, che rinviano in effetti a due concetti differenti di materia. Vi è innanzitutto il concetto matematico affermante che la materia resiste a ogni penetrazione del suo interno con una necessità assoluta45, ovvero che l’impenetrabilità è sempre più grande di qualsiasi grado finito, e le variazioni nelle densità dei corpi sono spiegate in termini di quantità relative di spazio riempito o vuoto che esse contengono. Tale è la spiegazione di tipo matematico-meccanico della materia, secondo cui solo gli atomi e il vuoto sono richiesti per rendere conto per composizione della costituzione della materia. La meccanica s’interessa alle azioni della natura che risultano dalla forma degli atomi concepiti come delle macchine. La virtù di questa spiegazione è soltanto utilitaria. Essa aderisce strettamente al modo operativo della fisica, e traduce fedelmente le finalità pratiche della scienza della natura. Ora, siccome essa postula al suo fondamento un concetto vuoto (la solidità assoluta) che non può mai essere dato in un’esperienza sensibile, essa cade nella trappola di questo vecchio tormento dello spirito che, ignorando l’allerta critica, trascende i limiti dell’esperienza possibile; da questo punto di vista l’impenetrabilità si apparenta a una qualità occulta. Per contrasto, seguendo il concetto dinamico d’impenetrabilità, il modo metafisico/dinamico di spiegazione tiene conto di una forza d’espansione che rende innanzitutto la materia possibile. Kant oppone il modo meccanico e il modo dinamico di spiegazione della materia così come oppone la matematica (conoscenza attraverso costruzione di concetti) alla me45

Cfr. MAN, AA IV 502 [trad. it. cit., p. 187].

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tafisica (conoscenza attraverso concetti). In cosa tale metafisica non cade a sua volta nella trappola delle qualità occulte? Il principio dell’intelletto puro che corrisponde alla dinamica nella scienza pura della natura è quello delle Anticipazioni della percezione. Questo principio enuncia che il reale in un oggetto della sensazione è una qualità intensiva. L’oggetto della sensazione è dato in un istante, cioè come uno choc che è ricevuto con maggiore o minore intensità, e non secondo una sintesi successiva delle parti come sarebbe il caso per una grandezza estensiva. Questo choc più o meno intenso non è null’altro che il primo momento della qualità, ovvero la sua realtà. Ora, l’intensità può essere diminuita col pensiero fino a sparire gradualmente dal grado X al grado 0, cosa che equivale ad anticipare la continuità della percezione dalla sua negazione (assenza completa di reale) fino alla sua intensità data. Con assenza completa di reale, Kant non designa i gradi non percettibili da 0 a X, bensì lo spazio e il tempo completamente vuoti, cioè la negazione = 0. In quanto categorie, realtà e negazione si oppongono come l’essere al non-essere, cosa che da un punto di vista trascendentale significa la distinzione di uno stesso tempo, sia pieno che vuoto. Grazie al tempo riempito, il concetto di realtà è suscettibile d’essere schematizzato, cioè applicato ai fenomeni. In effetti, lo schema della realtà (qualcosa che riempie un tempo) è questa produzione continua che riempie un tempo, sia discendente dal grado dato fino alla sparizione della sensazione, sia ascendente dalla negazione della sensazione fino alla grandezza determinata. Kant non specifica esplicitamente lo schema che dovrebbe corrispondere al concetto di negazione, come se la negazione non avesse alcuno schema. Senza dubbio essa non è applicabile ai fenomeni, poiché essa si rapporta all’assenza completa di fenomeni (lo spazio e il tempo vuoti). Ora, secondo la spiegazione dinamica della materia in movimento, quest’ultima riempie uno spazio e non un tempo. Riempire uno spazio significa che la materia è capace di resistere a una penetrazione del suo spazio attraverso un’altra materia. Kant mostra dapprima che una tale impenetrabilità è costituita dalla forza motrice della materia che è causa del suo movimento. Egli prova in séguito che vi sono soltanto due forze motrici possibili, la repulsione e l’attrazione, che corrispondono in effetti ai momenti della realtà e della negazione. Difatti, se la materia consiste nel tenersi al riparo d’altre forze repulsive grazie all’azione delle sue forze repulsive proprie, in assenza d’attrazione essa non avrebbe tuttavia alcuna coesione; essa si disperderebbe infinitamente nello spazio, e il fatto che essa occupi uno spazio determinato non potrebbe mai essere spiegato. Considerate insieme come il limite dell’una e dell’altra, le forze di repulsione e d’attrazione costituiscono così la qualità della materia in movimento.

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I predecessori di Kant hanno esplicitamente distinto l’impenetrabilità (proprietà della materia di riempire uno spazio) da quest’altra proprietà che, per un corpo, consiste nell’essere dotato di una forza. Per Eulero l’impenetrabilità è fondamentale, poiché tutte le altre proprietà della materia, come per esempio una forza, sono da essa derivate; per Boscovitch l’essenza della materia è la forza, così che l’impenetrabilità non ne è che un effetto. Ma per Kant la materia riempie uno spazio in virtù del fatto che essa è dotata di una forza di repulsione. Così, anche nel caso dell’impenetrabilità, che è sempre stata una pedina centrale dell’interpretazione meccanicista della materia, Kant ha dato la preferenza alla spiegazione di tipo dinamico. Pertanto, da una forza espansiva in una direzione data può sempre essere trovata una forza espansiva emanante da un altro corpo, più forte della prima forza e in direzione opposta a quest’ultima. Per mezzo di un cambiamento di direzione e d’intensità, la forza originale d’espansione si commuta in forza compressiva. Senza la più grande forza compressiva, la materia non eviterebbe la dispersione e finalmente la dissoluzione completa nello spazio vuoto. Ma perché non identificare la forza attrattiva con una forza compressiva più grande di ogni forza espansiva nella direzione opposta? Kant rifiuta l’idea che una forza possa essere dedotta da un’altra. Le due forze sono fondamentali nel senso in cui ciascuna è incondizionata, qualitativamente differente dall’altra. L’attrazione vera, che appartiene all’essenza o alla possibilità della materia, non dev’essere confusa con l’attrazione apparente, che è soltanto un epifenomeno dell’impatto46. Per l’esperienza della materia in movimento questi due incondizionati non sono gli stessi. In effetti, se la proprietà di riempire uno spazio è immediatamente appresa come un fenomeno di superficie (un’azione per contatto), l’attrazione, benché essa sia effettivamente sperimentabile (per esempio nel fenomeno della caduta dei corpi), non lo è come immediatamente sensibile, poiché il centro attrattivo è sempre nascosto all’interno del corpo, il cui punto centrale è come un punto zero d’equilibrio. Il concetto di negazione si trova così determinato (schematizzato) dalla forza attrattiva, la cui azione come forza universale di gravitazione si esercita istantaneamente in ogni materia e tra tutte le materie. Tutto avviene insomma come se in fisica la negazione fosse intuibile mediatamente, per mezzo di un’inferenza che riconduce fino al punto zero47. La relazione tra le due forze fondamentali dà problema, poiché l’attrazione è immediatamente infinita, mentre la repulsione è sempre confinata nei limiti di un solido. Secondo Kant, un grado determinato di riempimento dello spazio risulta da una limitazione di forze originarie della materia (la 46 47

Cfr. MAN, AA IV 514 [trad. it. cit., p. 223]. Cfr. MAN, AA IV 513 [trad. it. cit., p. 219].

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limitazione è infatti il terzo momento della qualità). Non si tratta più di una limitazione reciproca tra due termini uguali, ma di una limitazione della repulsione per mezzo dell’attrazione. Il legame tra le due forze è assicurato da 48 ciò che Kant chiama le forze derivate . Una forza derivata particolarmente importante è la coesione, che non è altro che l’attrazione considerata come attiva solo per delle particelle in contatto le une con le altre (una forza superficiale). In quanto forza derivata, la coesione non è collegata al concetto di materia per mezzo di una sintesi a priori; essa può essere conosciuta solo per mezzo dell’esperienza. Essa identifica dunque il secondo momento in cui la ragione si affida alla potenza dell’esperienza empirica. In definitiva, l’attrazione sembra più fondamentale della repulsione: l’azione per contatto tra i corpi dev’essere pensata come un modo dell’attrazione a distanza, perché due corpi in contatto, se devono agire l’uno sull’altro, occupano ancora degli spazi differenti semplicemente perché sono distinti. Mostrare come l’azione a distanza sia possibile resterà sempre un problema per la filosofia critica, poiché dal punto di vista dinamico la sua vera determinazione resta nascosta nell’esperienza sensibile per via di quest’esperienza; il punto zero dell’esperienza sensibile è come un al di là dell’esperienza possibile in virtù di quest’esperienza. È per questo che nulla impedisce alla filosofia meccanicista di perseguire dal canto suo la ricerca del meccanismo della gravità secondo i suoi principi matematici. Sulla scorta della Foronomia, l’ideale di una fisica interamente matematica, rappresentato nella spiegazione matematico-meccanica, è libero di continuare il suo cammino. Ma Newton sosteneva che, in quanto ne ignoriamo la causa, l’attrazione è una forza matematica. Ora, afferma Kant, ben lungi dall’essere un semplice nome per una cosa sconosciuta, è esattamente la differenza dei modi d’azione dell’attrazione e della repulsione che giustifica questa maniera di pensare. Come l’attrazione agisce immediatamente a distanza su tutte le parti della materia, essa è fondata in effetti sulla quantità, cioè la quantità di materia contenuta in uno spazio dato; è per questo che l’attrazione comporta una sintesi della quantità e della qualità. Invece, come la forza espansiva agisce sulla superficie di contatto tra le materie, essa è indifferente alla quantità di materia e riposa essenzialmente sull’intensità con la quale essa riempie il suo spazio. Da un lato, la schematizzazione della negazione prende dunque a prestito dalla quantità ciò di cui essa ha bisogno per arrivare ai suoi fini. Ma da un altro lato, la qualità dal punto di vista dinamico è inconcepibile al di fuori delle categorie di relazione, poiché un corpo vi è caratterizzato in relazione agli effetti possibili su altri corpi. Dal punto di vista meccanico, il rapporto alla relazione è altrettanto vietato del rapporto alla 48

Cfr. MAN, AA IV 526-527 [trad. it. cit., pp. 257-263].

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quantità. In effetti, da questo punto di vista, il riempimento dello spazio (solidità) è la proprietà di un corpo indipendentemente dalla sua relazione con gli altri: l’impenetrabilità assoluta non ha nulla a che vedere con una relazione causale con dei corpi circostanti. 8. Meccanica In corrispondenza con le tre Analogie dell’esperienza (categorie della relazione) Kant considera tre leggi della Meccanica, che paiono assomigliare da vicino alle tre leggi newtoniane del movimento. La prima legge (Teorema II) non è tuttavia quella di Newton, e rinvia all’intuizione degli atomisti antichi, secondo cui nulla può nascere da nulla. Essa afferma che la quantità di materia presa come un tutto non è suscettibile d’alcun cambiamento, né accrescimento, né diminuzione. La legge rinvia al movimento soltanto in una maniera da ultimo secondaria, poiché quest’ultimo interviene solo nella misura della quantità di movimento. In effetti, la quantità di materia per un corpo dato non può essere determinata ignorando gli altri corpi, come si nota per esempio nel procedimento di Newton per misurare la densità e il volume. Pur rinviando in maniera indiretta al movimento, Kant ha bisogno di questa legge per smarcare la Meccanica dalla qualità, in cui prevalgono accrescimento e diminuzione per gradi. La seconda legge (Teorema III) ricorda la legge newtoniana dell’inerzia, salvo che essa parla del cambiamento di materia piuttosto che di movimento: essa enuncia che ogni cambiamento di materia ha una causa esterna. Non è chiaro se Kant abbia potuto concepire la seconda legge di Newton come derivabile dalla sua, anche se di fatto egli potrebbe aver ritenuto che fosse effettivamente così. Bisogna ricordarsi che la seconda legge di Newton utilizza il concetto d’accelerazione, ed essa include dunque un riferimento al tempo, mentre Kant ha annunciato fin dall’inizio che il movimento nella sintesi matematico-metafisica conserva, del movimento, solo il suo significato spaziale. Soltanto la terza legge (Teorema IV) della Meccanica kantiana è perfettamente simile alla terza legge di Newton, che stipula l’eguaglianza dell’azione e della reazione. In ogni comunicazione di movimento, azione e reazione, designando uno stesso genere di forza, sono sempre eguali l’una all’altra. Ma mentre Newton fonda sull’esperienza per dimostrare questa legge, Kant vuole offrirne una giustificazione a priori. Relegando il movimento a un’operazione indiretta, e parlando di cambiamento di materia piuttosto che di movimento, Kant dissocia nelle due prime leggi materia e movimento, che aveva considerato fino a qui come un solo concetto. In Meccanica, il momento in cui la ragione si affida al potere dell’esperienza è identificato con questa separazione della materia e del movimento nelle due prime leggi. Che Kant e Newton si accordino sull’enun-

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ciato della terza legge, benché le prove allegate non siano identiche, ciò accade precisamente perché la ragione critica non identifica questo momento là dove lo fa la ragione scientifica. Kant vuole offrire una prova a priori della legge dell’azione e della reazione, appoggiandosi sul fatto che l’azione e la reazione sono eguali nell’istante in cui avviene la comunicazione del movimento. La comunicazione del movimento non è intelligibile se un corpo è considerato in movimento e l’altro completamente in riposo fino al momento dell’impatto. Bisogna considerare al contrario i due corpi in movimento, di modo che l’uno sia la causa dell’altro (azione e reazione sono tutti due richiesti affinché la comunicazione del movimento abbia luogo). È solo a questa condizione che la terza legge fornisce una regola per costruire la comunicazione del movimento nell’intuizione. Ma siccome la prova di Kant è basata sull’impatto, essa sembra difficilmente generalizzabile all’azione a distanza. Sembra impossibile d’estendere lo schema delle due biglie, di cui una urta l’altra e la respinge, al calcolo delle deflessioni o accelerazioni in rapporto a una traiettoria inerziale sotto l’azione di una forza centrale, come nella meccanica celeste di Newton49. Kant sembra credere che il caso dello choc sia sufficiente per produrre la giustificazione a priori che egli ricerca per la terza legge. Egli ci ricorda che già nella Dinamica egli aveva mostrato che l’azione per contatto esigeva che due corpi agiscano l’uno sull’altro a distanza, anche perché essi sono separati da un punto che non è la parte di nessuno dei due. Esigendo il contatto, egli si ricorda senza dubbio della terza Analogia dell’esperienza. Se la permanenza della sostanza è già assicurata nella prima Analogia per il fatto che la sostanza indica solo che qualcosa di permanente è «l’oggetto stesso»50, la terza dimostra che uno spazio pieno è necessario per pensare la simultaneità delle sostanze come una vera azione reciproca tra loro. Tutto avviene dunque come se la prova della terza legge della Meccanica per mezzo dello choc potesse essere allargata all’azione a distanza, o perlomeno come se quest’ultima fosse ricostituibile come una serie di choc tra gli ipotetici corpuscoli dello spazio pieno. Ma passando dalla giustificazione a priori della legge alla legge come strumento di calcolo, lo spazio pieno va incontro a una difficoltà. Nel libro III dei Principia, Newton mostra come le masse dei pianeti situate nel sistema solare siano determinate a partire dalle accelerazioni gravitazionali prodotte dai loro satelliti. Prendiamo per esempio il sistema costituito da Giove, Saturno e i due loro satelliti rispettivi. Per condurre il calcolo a buon fine, Newton prende ugualmente in conto tanto l’accelerazione gravitazionale su Saturno prodotta da Giove, quanto l’accelerazione inversa di Saturno su Giove. La tappa cruciale nel ragionamento di Newton è l’applica49 50

Cfr. MAN, AA IV 537 [trad. it. cit., p. 289]. KrV, A 182 [trad. it. cit., p. 363 n.].

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zione della legge dell’azione e della reazione direttamente su queste due applicazioni, di modo che l’accelerazione di Giove su Saturno, moltiplicata per la massa di Giove, sia eguale e opposta all’accelerazione di Saturno verso Giove, moltiplicata per la massa di Saturno. È così che Newton considera l’attrazione reciproca tra due pianeti ignorando le altre materie che eventualmente si trovano tra loro. Egli applica la conservazione del momento direttamente a questo sistema di due masse. Kant interpreta questa strategia di Newton dicendo che la conservazione del momento è necessaria e sufficiente per comprendere qui una vera interazione causale; di fatto nessun’altra materia è implicata. Significa allora che una concezione metafisica della causa è diventata inutile? Come abbiamo già notato, dicendo che la gravità è essenziale alla materia e agisce immediatamente a distanza, si tratta solo di accordare Newton con la sua metodologia e basarsi su una versione integralmente naturalista dei principi metafisici della fisica. Che cosa avviene quando si tiene conto effettivamente di tutte le altre materie, anziché limitarsi per delle ragioni metodologiche alla relazione diretta tra due masse del sistema solare? Lo spazio vuoto assoluto, che non è un oggetto d’esperienza in Dinamica, lo è forse in Meccanica? Vi è qui una tensione che viene esaminata nella Fenomenologia. 9. Fenomenologia Nella Foronomia, lo spazio assoluto è un’idea regolatrice della ragione e non una realtà fisica che possa servire da riferimento in una sperimentazione. L’ultimo balzo verso lo spazio di riferimento più inglobante resta fino alla fine un atto di puro pensiero, senza correlato in una realtà o anche in una costruzione matematica corrispondente. Lo spazio assoluto, dice Kant, è un concetto strano51, poiché, pur non essendo oggetto d’esperienza, resta il fondamento al di fuori del quale il movimento non è affatto intelligibile, dato che il movimento in quanto tale è cambiamento dei rapporti esterni nello spazio. La stranezza del concetto potrà essere eliminata solo se il legame tra il movimento di un corpo e lo spazio in cui questo movimento ha luogo è compreso nei termini di un’esperienza possibile. Chi dice sperimentazione, dice un rapporto attivo coi fenomeni, che li concatena secondo una certa regola. Secondo la definizione kantiana, il concatenamento dei fenomeni non è altro che l’esperienza. Ora, il principio di relatività nella Foronomia non propone una regola per concatenare i fenomeni di movimento in una maniera obbiettiva. In effetti, è indifferente che il corpo sia in movimento con una direzione opposta. Siccome il movimento rettilineo non è attribuito obiettivamente all’uno o all’altro (la mate51

Cfr. MAN, AA IV 559 [trad. it. cit., p. 347].

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ria o lo spazio), il movimento secondo il principio non è dunque che un predicato semplicemente possibile del corpo. È il Teorema I della Fenomenologia, o modalità del movimento dal punto di vista della Foronomia. Il predicato del movimento circolare di un corpo è invece un predicato reale nella misura in cui esso manifesta le forze motrici originali della materia (Teorema II, modalità secondo la Dinamica). Per un tale movimento, se la scelta tra la materia e il suo spazio materiale associato resta indifferente al livello del fenomeno, non lo è più al livello dell’esperienza. Per dimostrarlo, Kant si basa ora sul principio d’inerzia, tale quale esso appare esplicitamente nelle due prime leggi del movimento di Newton: ovvero che «un movimento deve avere, per il fatto che nasce, una causa esterna»52. Secondo queste leggi, bisogna distinguere un movimento dato da un movimento generato. Un corpo persevera nel suo stato di riposo o di movimento rettilineo che trascina passivamente con sé, e dunque per così dire fin da sempre; un movimento è invece generato se delle forze esterne intervengono per forzarlo a cambiare di stato. Questo cambiamento è proporzionale alla forza motrice impressa. Nel caso del movimento circolare di cu tratta Kant, il concatenamento dei fenomeni appare come un cambiamento di cambiamento: se il movimento rettilineo è già un cambiamento continuo di relazioni nei confronti dello spazio, nel movimento circolare questo cambiamento cambia lui stesso di direzione ad ogni istante. La nascita continua di movimenti nuovi deve provenire da una causa motrice esterna, cosa che rende il movimento un predicato reale, obbiettivamente distinto dal movimento semplicemente possibile, poiché il movimento dello spazio in direzione opposta non è certamente imputabile a una forza motrice. È dunque necessario che il concatenamento dei fenomeni (il movimento rettilineo che cambia continuamente) contraddica il fenomeno da cui si è partiti (il movimento che perdura inalterato). Tra i fenomeni e il loro concatenamento secondo l’esperienza, non vi è continuità ma rottura: per esempio, il cambiamento della terra nel suo rapporto col cielo stellato è un fenomeno che non indica alcun concatenamento, poiché proviene «da due fondamenti opposti nei fatti»53, e cioè la terra in quiete e il cielo stellato, da una parte, e la terra in movimento e il cielo in quiete, dall’altra parte. Si conclude che tra il fenomeno e l’esperienza esiste una sorta d’antinomia fenomenologica. Al fine di risolvere questa contraddizione, il Teorema III (modalità del movimento dal punto di vista della Meccanica) invoca la facoltà della ragione e le sue idee regolatrici.

52 MAN, AA IV 557 [trad. it. cit., p. 341; la traduzione italiana citata è in realtà la seguente: «Ora, secondo la legge d’inerzia, la generazione di un movimento deve avere una causa esterna»]. 53 MAN, AA IV 561 [trad. it. cit., p. 355].

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Dal punto di vista dinamico, si comincia con un concatenamento di fenomeni di movimento che è già paradossale in sé: «un movimento, pur essendo un cambiamento delle relazioni esterne dello spazio, può essere dato empiricamente, anche se questo spazio non è dato empiricamente e non è in generale un oggetto dell’esperienza»54. Così, nonostante l’equivalenza cinematica tra le ipotesi di Tolomeo e di Copernico, il movimento di rotazione della terra può essere provato per mezzo di un certo numero di sperimentazioni che non fanno per nulla appello a uno spazio vuoto esterno o alle stelle fisse. Infatti, la terra ci sembra dapprima in quiete. Di primo acchito non vi è alcun fenomeno di movimento: gli oggetti sulla superficie della terra non prendono il volo da soli, le parti della terra restano attaccate le une alle altre. Tuttavia, nella nostra vicinanza immediata, noi abbiamo la capacità di sperimentare attivamente e mettere in evidenza la rotazione della terra sul suo asse. Kant cita il fenomeno della diminuzione costante dell’attrazione; egli immagina una pietra che cade verso il centro della terra in un’apertura scavata da parte a parte, ma la cui caduta è continuamene derivata da ovest a est. Questi esempi rinviano alle piccole deviazioni della legge galileiana della caduta dei corpi conosciuti oggi con il nome di forze di Coriolis. Essi indicano che, partendo dalla nostra terra come zoccolo ultimo del sapere, tutto ciò che può essere conosciuto è un cambiamento continuo nelle relazioni tra materie, e il movimento conosciuto in questo modo è un movimento vero (reale) poiché non è contraddittorio rispetto a un altro. Così, nel caso del movimento di rotazione, non è necessario avere un sistema di riferimento esterno al fine di distinguere tra movimento apparente (un’apparenza ingannevole nel senso di Schein) e movimento reale. Il movimento reale in senso dinamico designa la relazione delle parti del corpo mobile tra loro nel suo spazio: esso è relativo a questo spazio, e non assoluto nello spazio assoluto. Il solo movimento assoluto in una teoria newtoniana coerente con se stessa sarebbe il movimento di tutto l’universo nello spazio vuoto, poiché allora il movimento reale sarebbe indipendente da tutte le altre materie; ma questo caso equivale alla dimostrazione di un’assurdità, poiché lo spazio vuoto non può mai divenire un oggetto d’esperienza55. Ora, aggiunge Kant, il movimento reale è tuttavia rappresentato nello spazio assoluto. Per dimostrarlo, egli si appoggia sull’esempio immaginato da Newton del movimento di rotazione dei due globi attorno al loro centro di gravità in un universo vuoto. Il movimento circolare può essere determinato come vera grandezza per mezzo della sola tensione nella corda che li congiunge, e ciò è possibile, dice Newton, «in qualunque vuoto immenso, ove non esiste alcunché di esterno e sensibile con cui i globi potrebbero es54 55

MAN, AA IV 558 [trad. it. cit., p. 343]. Cfr. MAN, AA IV 562 sg. [trad. it. cit., pp. 359 sgg.].

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sere confrontati»56. Kant adatta questa esperienza nel pensiero alla rotazione della terra sul suo asse, in cui gli effetti centrifughi sono equivalenti alla tensione nella corda. Ma mentre in Newton l’esempio permette d’illustrare come sia possibile ottenere la prova di movimenti assoluti per corpi individuali, anche quando lo spazio assoluto nel quale si muovono non sia percettibile, Kant conclude piuttosto con l’accettazione del movimento reale nello spazio assoluto, a condizione che quest’ultimo non sia compreso come esterno. Questo spazio assoluto non è lo spazio esterno, ma piuttosto «lo spazio interno rinchiuso nella materia in movimento». È così che lo spazio assoluto, considerato come spazio interno e non esterno alla materia, gioca il suo ruolo di fondamento che permette di considerare ogni movimento (od ogni riposo) come relativo a questo spazio. Le ultime pagine dei Principi metafisici riflettono sulle implicazioni ultime di questa rappresentazione dello spazio e della materia. La conoscenza della natura secondo l’ideale d’esattezza della fisica matematica non comincia con la percezione immediata di concatenamenti al livello sensibile, come se l’accumulazione tranquilla dei dati dei sensi fosse sufficiente per pervenire gradualmente alla loro organizzazione in un sistema coerente della natura. L’intervento attivo tramite sperimentazione opera il legame tra fenomeno ed esperienza, che altrimenti resterebbe contraddittorio. La ragione assicura dunque la possibilità di costruire un sistema coerente della natura solo integrando dei dati impossibili da comprendere, e tuttavia manipolabili. È per tale ragione che essa è obbligata ad ammettere e a rifiutare al contempo la possibilità di uno spazio assoluto. Per esempio, ammettendo un etere, la legge newtoniana dell’azione e della reazione sarebbe inutilizzabile, poiché essa dovrebbe applicarsi non solo a due pianeti ma anche all’ambiente che li separa. Tuttavia, al fine di preservare il movimento libero dei corpi celesti, la resistenza degli spazi riempiti potrebbe essere piccola quanto si vuole. In definitiva, lo spazio vuoto è nella sua possibilità qualcosa d’inconcepibile, così come le forze originali della materia; ma questa inconcepibilità assicura perlomeno la possibilità dell’esperienza, mentre quella delle forze assicura la possibilità di pensare un incondizionato nell’esperienza. Se la versione integralmente naturalista della metafisica della natura funziona solo ignorando la totalità della natura, la risoluzione metafisica proposta da Kant perviene a sua volta a un’impasse: il momento in cui la ragione si affida all’esperienza è incapace di decidere tra la possibilità o l’impossibilità di uno spazio cosmico vuoto. Il mistero ultimo della natura è la questione di sapere come la materia stessa ponga dei limiti alla sua propria estensione. La metafisica della natura non è sufficientemente armata per impegnarsi in tale questione. Da cui la necessità di un passaggio (Übergang) 56

I. Newton, Mathematical Principles, cit., p. 12 [trad. it. cit., p. 111].

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dai fondamenti metafisici della fisica ai fondamenti fisici di questa fisica. Come realizzare questo passaggio senza ricadere nell’ideologia ingenua della fisica, che spera di dare una soluzione fisica ai suoi fondamenti metafisici propri? 10. Opus Postumum Se Newton è in disaccordo con se stesso per ciò che riguarda l’interpretazione dello spazio assoluto e della gravità universale, Kant solleva delle obiezioni ancora più radicali nella sua ultima grande opera post-critica rimasta in cantiere. Newton vi è presente come un rivale: il titolo stesso dell’opera di Newton è dichiarato contraddittorio, poiché non vi possono essere dei principi filosofici delle matematiche più di quanto possano esservi dei principi matematici della filosofia57. Quando la conoscenza diviene conoscenza scientifica nel senso della ragione scientifica, filosofia e matematica sono tuttavia associate in un certo modo. Effettuando un uso filosofico delle matematiche, Newton è riuscito a fare qualcosa di straordinario per mezzo di un inedito colpo di genio58. La natura nel senso materiale è l’insieme degli oggetti sensibili. Se l’oggetto non è in ultima istanza del tutto annientato dal soggetto che ha posto in esso le sue proprie forme, è per il fatto che esso gli resiste in un certo modo. Questa parte di resistenza non può venire dall’oggetto considerato come cosa in sé, poiché quest’ultimo è indipendente dai sensi e sfugge completamente al soggetto della natura. La resistenza viene da un altro aspetto dell’oggetto considerato come fenomeno: è l’aspetto «che ci è dato empiricamente (a posteriori)»59. Newton ha compiuto un passo decisivo quando, a partire dal movimento apparente, ha dedotto la forza come causa di movimento. Siccome la materia in movimento di cui si occupa la meccanica newtoniana è già un ibrido di forme a priori e di contenuto empirico, i punti d’incontro tra la ragione e la natura sono identificabili. Ma vi sono anche delle forze motrici nella natura che si possono scoprire solo empiricamente. Kant pensa qui alla fisica sperimentale del diciottesimo secolo: le forze implicate nei fenomeni fisici, la coesione dei fluidi e dei solidi, il magnetismo ecc. Nel caso di queste altre forze, lo spirito accoglie la materia senza che nulla in esso prepari a riceverla: esso incorre in un contenuto as-

57 Cfr. I. Kant, Opus Postumum [d’ora in poi OP], AA XXI 208; AA XXII 512 [trad. it. a cura e con introduzione di V. Mathieu, Opus Postumum. Passaggio dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica, Zanichelli, Bologna 1963, p. 141 e 239]. 58 Cfr. OP, AA XXII 522 [trad. it. cit., p. 247]. 59 OP, AA XXII 340 [trad. it. cit., p. 182].

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FISICA

solutamente irriducibile della percezione. Esiste tuttavia un punto di contatto tra la ragione e questo contenuto? La fisica s’interessa esattamente a una teoria del contenuto della percezione, che è «la cosa stessa». Essa è definita come il sistema delle forze motrici della materia nella misura in cui questo sistema può essere esibito nell’esperienza60. La forza motrice è il fondamento del movimento, il movimento è derivato dalla forza, e non l’inverso com’era il caso nei Primi Principi. Ciò significa che Kant renderà infine giustizia a Newton e alla sua concezione della forza come causa del movimento? Anche se ciò si rivela corretto, lo scopo di Kant è sempre quello di rivelare la parte filosofica dell’opera di Newton che Newton non ha riconosciuto o che ha compreso erroneamente. Così come per la metafisica della scienza della natura si trattava di captare il momento in cui, in questa scienza, la ragione si basa sull’esperienza, ora si tratta di aprire per la fisica un cammino, un passaggio che condurrà fino al contenuto della percezione. Il cammino è suggerito dalla metafisica della natura, in cui la corrispondenza tra la sintesi matematica e le categorie dell’intelletto si è prestato a una conoscenza sistematica. Detto altrimenti, così come l’esperienza è il concatenamento dei fenomeni, bisogna trovare il concatenamento dell’esperienza basandosi sul criterio fondamentale della scientificità, e cioè la conoscenza sistematica. Ora, le altre forze motrici fornite nell’esperienza non sembrano prestarsi a un piano sistematico. La donazione a posteriori della materia fa correre il rischio a questa di essere consegnata come un aggregato di percezioni assemblate in modo frammentario e sporadico. Inoltre, i molteplici «buchi» che caratterizzano così la materia e che impediscono di costituirla in sistema potrebbero essere ben occupati da degli aspetti sensibili dell’oggetto al di là della nostra capacità sensibile, senza tuttavia essere al di là di ogni capacità sensibile. Del resto, Kant ammette perfettamente questa possibilità: la natura è la somma degli oggetti dati alla forma umana della sensibilità o ad ogni altra specie di intuizione61. Il progetto di Kant nell’Opus Postumum è di mostrare che esiste una transizione continua dalla matematica alla metafisica, e dalla metafisica alla fisica empirica, a dispetto del fatto che quest’ultima sembri mancare di piano sistematico. La via considerata per la forma non è più praticabile per la materia. Riunire i fenomeni non può effettuarsi qui sotto il rapporto dell’unità, come nel caso di una legge della natura, ma secondo ciò che Kant designa come « il formale dell’essere insieme (coexistentiae) nello spazio e nel tempo». Questo essere insieme è «il pensabile (cogitabile) del modo della composizione

60 61

Cfr. OP, AA XXII 511 [trad. it. cit., p. 238]. Cfr. KrV, A 845/B 874 [trad. it. cit., pp. 1185 sgg.].

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PIERRE KERSZBERG

(modus compositionis) di ciò che è empiricamente dato»62. Qual è questo essere considerato come «pensabile» che permette a Kant di aprire in tal modo il cammino verso la fisica? Per giungere a renderlo intelligibile a partire dai fenomeni che appartengono ancora al campo dell’esperienza possibile, Kant considererà che l’esibizione a posteriori della materia equivale a un’esibizione indiretta del fenomeno, mentre la sua forma si dava direttamente. Dato indirettamente, il fenomeno è fenomeno del fenomeno. Il cammino che conduce dall’uno all’altro non comporta dunque un abbandono o una modificazione della prospettiva copernicana. Esso conduce piuttosto per concatenazione a captare uno stato del nostro rapporto col mondo che è più fondamentale ancora della prima idea di Copernico, poiché la precede. Infatti: «L’oggetto di un fenomeno indiretto è la cosa stessa, cioè un [oggetto] tale che noi lo traiamo dall’intuizione solo in quanto noi stessi ve lo abbiamo posto, cioè in quanto esso è un nostro proprio prodotto conoscitivo»63. La materia che provo nella sensazione è modellata su una certa struttura che intuisce (le forme dell’intuizione pura), ma siccome quest’ultima mobilita a sua volta una struttura pensante (le categorie) che si proietta sull’oggetto, il fenomeno indiretto sarà il prodotto dello stesso pensiero del fenomeno diretto. La proprietà della materia che si lascia pensare nella stessa maniera della sua forma, senza che essa sia una forma, è precisamente il sistema delle sue forze motrici. È per questo che la deduzione delle forze motrici è perseguita seguendo la tavola delle categorie. Una tale deduzione pone la questione di sapere se esiste una Natura dei fenomeni di fenomeni, come esiste una Natura dei fenomeni. È una questione alla quale Kant ha potuto rispondere solo molto imperfettamente; ma il suo itinerario di pensiero è più significativo della risposta fornita. Se essa esiste, questa Natura sarebbe la natura nel quarto senso – la si potrebbe chiamare natura empirica. Essa esige dei principi fisici che s’aggiungano ai principi matematicometafisici della scienza della natura. Questi principi non sono le forze motrici stesse, che restano dipendenti dall’esistenza del movimento. Essi designano piuttosto le forze che non sarebbero mai presenti nella materia senza una causa motrice esterna64. La causa esterna non è altro che l’etere, che è una materia compressa di tale sorta da generare il fenomeno d’attrazione. A partire da ciò, è permesso dedurre le due forze motrici conosciute metafisicamente da questa sola forza fondamentale che è l’etere. Per assicurare una tale deduzione, i concetti della fisica non sono semplicemente dati dalla ragione o dall’esperienza (nel senso di conceptus dati), ma fabbricati (concep62

OP, AA XXII 335 [trad. it. cit., p. 177 sg.]. OP, AA XXII 340 sg. [trad. it. cit., p. 182]. 64 Cfr. OP, AA XXI 536 [questo passo non è contenuto nell’edizione italiana]. 63

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tus factitii)65 con lo scopo esplicito di rendere possibile la ricerca dei principi fisici della natura. I concetti fabbricati oltrepassano tutte le divisioni che erano ancora i punti di riferimento per il pensiero immerso nel mezzo dell’esperienza: come principi essi sono al contempo costitutivi e regolatori66; essi giustificano un riempimento dello spazio che è tanto estensivo quanto intensivo. In ogni caso, senza pregiudicare della riuscita o dello scacco di una tale deduzione, studiare la materia secondo un sistema di forze motrici traduce un’intenzione costitutiva della conoscenza fisica, senza cui essa sarebbe interamente consegnata all’oscurità e ai tentativi casuali67. L’esigenza di una descrizione coerente delle forze motrici scoperte empiricamente designa per lo meno una pretesa68 inerente a questo genere di sapere che è la scienza fisica. Questa pretesa di conoscere il tutto delle forze motrici della natura, benché superiore a un semplice presentimento, non va altrettanto lontano di una riflessione. La riflessione cerca l’universale a partire dagli elementi singolari dati dapprima in maniera dispersa, e finisce per farne l’eco dell’ammirazione che suscita l’accordo del pensiero con i disegni segreti della natura69. Vi è piuttosto un fenomeno che corrisponde all’essere insieme: è il fenomeno che, senza essere dato direttamente, e senza coincidere neppure con un’esperienza, tende al principio del legame sistematico delle forze motrici. La pretesa di sistematicità è dunque più fondamentale della «prima idea» con la quale la scienza ha cominciato (quella di Copernico), poiché essa ci rinvia a una forma che è più primitiva di ogni forma. Grazie a nuovi principi a priori, che traducono la tendenza al sapere a partire dai suoi inizi, la fisica è così provvista del «disegno della forma»70. Ma che cos’è un tale disegno? Fondamentalmente la scienza della natura ha due oggetti: i corpi, che sono delimitati dalla loro struttura e dalla loro figura, e la materia «in generale», cioè senza forma, ma che deve ben essere «onnipenetrante rispetto ai corpi, sussistente per sé, e agitante incessantemente e uniformemente tutte le parti dei corpi»71, senza la quale non vi sarebbe alcuna esperienza «di ciò, né positiva né negativa»72. Ma quale rapporto c’è tra il «senza forma» e la «forma», se il «senza forma» precede i corpi fisici da cui essi traggono la lo65

Cfr. OP, AA XXI 358 [trad. it. cit., p. 105]. Cfr. OP, AA XXII 241 [trad. it. cit., p. 113]. 67 Cfr. OP, AA XXII 338 [trad. it. cit., p. 179 sg.]. 68 Cfr. Tendenz (OP, AA XXII 166), Aufforderung (OP, AA XXI 635) [tali passi non sono contenuti nell’edizione italiana]. 69 Cfr. KU, AA V § 62 [trad. it. cit., pp. 421 sgg.]. 70 OP, AA XXI 360 [trad. it. cit., p. 107]. 71 OP, AA XXI 216 [trad. it. cit., p. 147]. 72 OP, AA XXI 219 [trad. it. cit., p. 150]. 66

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PIERRE KERSZBERG

ro possibilità? Senza essere semplicemente un’idea regolatrice, l’etere è sostanza nel pensiero. Ciò vuol dire che esso sensibilizza lo spazio, in modo tale che la forma della sensibilità si vede investita di un contenuto che le è ormai inerente (anziché esserle semplicemente associato in séguito alla presenza in essa d’oggetti in movimento). È così che tutti i principi a priori della fisica, in quanto traducono la tendenza più fondamentale al sapere, dovrebbero convergere in un principio materiale dell’origine del movimento, che si trova ora all’interno dell’esperienza possibile stessa. Questo principio è l’etere, identificato talvolta col calorico, o «materia prima» (erste Materie), o ancora «materia elementare» (Elementarstoff) definita come «un elemento che designa, semplicemente e pertanto universalmente, l’esistenza di una materia, senza sue forze particolari»73. Causa del suo proprio movimento, questa materia designa la persistenza uniforme e costante del movimento. Essa è dunque l’incarnazione di una sorta di principio d’inerzia generalizzato, in cui la coscienza compie il suo rapporto più intimo con la natura. In questa maniera appare per la ragione critica una sorta di legame organico tra la dimensione esterna e la dimensione interna della natura; nella scienza della natura propriamente detta, questo legame s’esprime ancora sotto forma d’una dualità di principi – il principio di relatività e il principio d’inerzia. 11. Conclusione. Kant e la fisica contemporanea La riflessione critica sulla scienza della natura ha reso necessari due «passaggi» o «transizioni»: dalla matematica alla metafisica, e dalla metafisica alla fisica empirica. Ciascuno dei due passaggi richiede d’identificare un «momento» in cui la ragione munita dei suoi principi a priori incontra il dominio empirico prima di capovolgersi in esso. Vi è dapprima il momento della materia in movimento, da cui la ragione deduce le forze motrici; vi è in séguito il momento inverso delle forze motrici stesse, da cui la ragione deduce i movimenti che non entrano a priori nel quadro della meccanica newtoniana. Il risultato netto è che, man mano che lo spirito affonda nel dettaglio della natura empirica, è ricondotto al suo potere originale. Un’interpretazione ormai corrente dei Principi metafisici consiste nel dire che essi specificano la natura generale nei termini delle proprietà empiriche della natura, di modo che le esplorazioni post-critiche degli aspetti della natura diversi dalla gravitazione (come il calore e l’elettricità) sarebbero delle specificazioni dello stesso genere, ma più spinte. Kant s’espone così all’obiezione sollevata da Hegel contro tutte le filosofie idealiste della natura, 73 OP, AA XXI 312, 217 [trad. it. cit., p. 148]; XXII 610 [questo passo non è contenuto nell’edizione italiana].

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ovvero che l’applicazione di una stessa matrice o formula (una struttura categoriale dell’intelletto/ragione) alla più grande diversità dei fenomeni condanna l’idea da cui si è partiti a permanere nello stato di una condizione primitiva74. La fisica dopo Kant ne costituirebbe addirittura una prova eclatante, poiché se i principi trascendentali dell’intelletto comprendono uno stretto principio di conservazione della sostanza, uno stretto determinismo, una stretta definizione dell’intuizione esterna secondo la geometria euclidea, allora il cammino tracciato da Kant è evidentemente falso. Poiché Kant tratta la questione dello spazio e delle forze nella fisica newtoniana basandosi sulla facoltà della ragione più che sull’intelletto, vi si è potuto vedere una possibilità per emancipare tutta la concezione kantiana della scienza dal suo attaccamento sospetto a delle teorie utili nella loro epoca, ma oggi superate, come quella di Newton sulle forze o quella di Euclide sullo spazio. Le teorie matematico-fisiche in generale dipenderebbero dall’uso regolatore della ragione, mentre l’intelletto si limita a costituire l’esperienza, sia come esperienza della vita ordinaria, sia come esperienza in generale75. La salvezza della filosofia trascendentale passa forse attraverso una strategia destinata a immunizzarla contro le trasformazioni ulteriori della scienza (Riemann, Einstein), che la renderebbero caduca? Recentemente, in risposta a questa interpretazione, è stato avanzato l’argomento esattamente inverso76. La maniera kantiana di rendere conto della possibilità dell’esperienza in termini di giudizi sintetici a priori sarebbe al contrario strettamente dipendente dagli esempi particolari forniti dalle scienze esatte del suo tempo. Per cui, nello stesso modo in cui i principi dell’intelletto puro sono già stati esposti alla loro confutazione da delle considerazioni puramente filosofiche, la fondazione metafisica dello spazio assoluto nella dottrina della scienza pura della natura sarebbe l’esempio privilegiato che dimostra come tutto il sistema kantiano si sottometta al progresso della scienza empirica della natura. Mentre l’uso regolatore della ragione è compatibile con differenti modelli teorici, la netta confutazione del sistema kantiano nella sua totalità lo lascerebbe davanti a noi come un esempio di ciò che si tratterebbe di fare oggi, e cioè trovare i principi costitutivi a priori della relatività e della meccanica quantistica, in modo da assicurare i primi principi

74 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes [1807], Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1970, Bd. 3, p. 21 [trad. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1963, nuova edizione con introduzione di G. Cantillo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008, Tomo I, p. 11 sg.]. 75 Cfr. G. Buchdahl, Gravity and Intelligibility: Newton to Kant, in The Methodological Heritage of Newton, ed by R. Butts – J. Davis, Blackwell, Oxford 1970, pp. 74-102. 76 Cfr. M. Friedman, Kant and the Exact Sciences, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1992.

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PIERRE KERSZBERG

per queste teorie. Essenzialmente matematici, questi principi si confonderebbero con la metafisica della natura. Le due interpretazioni, per quanto siano esse differenti, s’accordano perlomeno su un punto: che i primi principi siano matematici e mantengano la loro funzione costitutiva, o che essi si elevino al di sopra della conoscenza empirica per regolarne il sistema, ciò non cambia nulla quanto al poter essere generalizzati, relativizzati e storicizzati in funzione dello sviluppo delle scienze matematiche e fisiche stesse. Ora, Kant riconosce finalmente come solo principio metafisico della natura il principio della Foronomia, che designa la parte interamente matematizzabile della fisica. Nel ventesimo secolo la fisica segue a ruota la metafisica della natura così definita, poiché la teoria della relatività generale non è altro che una cinematica generalizzata. Essa rinvia dunque a Galilei prima di Newton: per stabilire la legge del movimento in caduta libera, Galilei inferisce l’esistenza di una forza causalmente responsabile del movimento uniformemente accelerato; egli confessa di non conoscere la natura di questa forza, ma la pone a priori in modo tale che i fenomeni osservati siano conformi a un’accelerazione costante. Bisognerà attendere Newton per identificare la forza e fornirne un’analisi dinamica completa. Ma questa teoria fraintende il suo fondamento metafisico allorché confonde il reale e l’assoluto. Dal punto di vista kantiano, essa è una buona teoria solo perché senza di essa noi non avremmo approvato definitivamente la cinematica del movimento uniformemente accelerato che Galilei ha costruito. Il ritorno a Galilei rimanda al principio con cui la scienza comincia, non solo intuitivamente e concettualmente, ma anche storicamente. Il rapporto della ragione critica con la scienza della natura non consiste dunque in una specificazione sempre più spinta degli a priori della ragione in funzione dell’intuizione e dell’esperienza empiriche. Attraverso l’intermediario di un contatto con le proposizioni della scienza, le strutture della ragione si aprono a una rappresentazione esterna di ciò che esse sono come idee pure. È per questo che la metafisica kantiana delle scienze della natura s’interessa alla fertilità dell’idea originale, che è tanto più visibile ed effettiva quanto essa resta confinata ai suoi inizi malgrado i progressi della fisica. Al limite, dispiegandosi come primo principio metafisico e come materia prima, l’idea originale esprime in tutta la sua ampiezza ciò su cui tutte le teorie fisiche fino ad oggi dipendono, ovvero la prima idea di Copernico. (Traduzione dal francese di Alberto Gualandi)

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Mirella Capozzi

Logica

Negli studi ha dominato a lungo l’opinione che Kant abbia tratto la sua concezione della logica da una vaga “tradizione” di per sé poco interessante e con la quale, per di più, non avrebbe avuto grande dimestichezza1. Questa opinione è divenuta obsoleta. Innanzitutto è tramontata la teoria del “letargo” della logica che sarebbe durato dall’Umanesimo all’Ottocento, a parte eccezioni come Leibniz e pochi altri precursori di futuri sviluppi. Gli studi di settore hanno posto in risalto la vivacità del dibattito e la pluralità di proposte specialmente fra i logici dell’illuminismo tedesco2. Quanto a Kant, non solo è ormai accertata la sua buona formazione logica di base, arricchita negli anni dalla lettura di testi logici non solo di area tedesca, ma soprattutto è ormai comprovata l’importanza che ha avuto per la sua filosofia l’insegnamento della disciplina. Le testimonianze di tale insegnamento sono numerose. Si tratta, a parte gli annunci di lezioni, di: 1) annotazioni al manuale di Meier adottato per i corsi3, 2) trascrizioni delle lezioni da parte di uditori, e 3) la Logik, un libro pubblicato nel 1800 da G.B. Jäsche che raccoglieva, su invito di Kant, una selezione delle sue annotazioni al manuale. Anche un esame superficiale del corpus logico dimostra che Kant non ricalca pedissequamente una specifica concezione preesistente. Inoltre, poiché questo materiale testuale si riferisce a periodi diversi della sua attività didattica, si può constatare (nel costante confronto con le opere a stampa), che egli ha modificato la sua concezione della logica in parallelo con la riflessione sul suo sistema filosofico in fieri4. Per dare un’idea di questo per1 Molti argomenti trattati in questo saggio sono sviluppati in dettaglio e con ampia bibliografia in M. Capozzi, Kant e la logica, vol. I, Bibliopolis, Napoli 2002; altri sono anticipazioni dal vol. II, Bibliopolis, Napoli (in corso di pubblicazione). 2 Cfr. W. Risse, Die Logik der Neuzeit, 2 voll., Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1964-1970, G. Nuchelmans, Judgment and Proposition. From Descartes to Kant, NorthHolland, Amsterdam-Oxford-New York 1983. Cfr. pure M. Capozzi-G. Roncaglia, Logic and Philosophy of Logic from Humanism to Kant, in The Development of Modern Logic, ed. by L. Haaparanta, Oxford U.P., New York 2009, pp. 142-148. 3 Cfr. G.F. Meier, Auszug aus der Vernunftlehre, Gebauer, Halle 1752, ristampato in AA XVI. Sulla logica meieriana, cfr. R. Pozzo, Georg Friedrich Meiers “Vernunftlehre”. Eine historisch-systematische Untersuchung, Frommann-Hozboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2000. 4 È difficile comprendere la scelta di M. Tiles, Kant: From General to Transcendental Logic, in Handbook of the History of Logic, ed. by D.M Gabbay-J. Woods, vol. III, Elsevier, Am-

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MIRELLA CAPOZZI

corso, l’esposizione che segue è divisa in tre parti. Nella prima parte sarà esaminata la concezione kantiana di epoca precritica e le ragioni che hanno portato Kant a cambiarla. Nella seconda parte sarà esposta la sua nuova concezione della logica alla luce dei mutati rapporti che essa intrattiene con la metafisica e con il modo di pensare e conoscere degli esseri umani. Nella terza parte saranno poste in luce alcune delle conseguenze che la nuova concezione della logica comporta per lo stesso dettato della disciplina e per la filosofia di Kant. 1. La concezione precritica della logica 1.1. La logica intorno al 1770: la fondazione sulla psicologia empirica e sull’ontologia Quando si esaminano le lezioni kantiane di logica è necessario fare riferimento al manuale di Meier. A proposito delle regole logiche Meier sostiene che esse vanno tratte: «1) dalle esperienze delle azioni [Würkungen] della ragione umana, 2) dalla natura della ragione umana, 3) dalle verità fondamentali universali su cui poggia l’intera conoscenza umana»5. Le Vorlesungen kantiane databili intorno al 1770 commentano questo passo. A proposito dei primi due punti, la LBlomberg osserva, con evidente approvazione, che le regole logiche vanno connesse al modo umano di ragionare: non abbiamo bisogno una logica valida per gli angeli6. Anche la LPhilippi lega la logica alla costituzione umana con l’argomento che, mentre la metafisica è la «scienza delle leggi della ragione pura» e quindi «tratta le nostre conoscenze come le avremmo se non avessimo corpi»7, la logica non può dimenticare che abbiamo corpi, ed è per questo che essa «trae i suoi principi in parte dalla ragione, in parte dalle esperienze»8, cioè dall’osservazione del comportamento razionale di noi esseri razionali incarnati. Quanto al terzo punto, che riporta la logica alle «verità fondamentali universali su cui poggia l’intera conoscenza umana»9, l’interpretazione della LBlomberg è perentoria: si tratta delle «verità fondamentali universali della conoscenza umana che sono trattate dall’ontologia», poiché tali verità sono

sterdam, 2004, p. 86 nota, di «not focusing» sul materiale delle lezioni con la giustificazione che Kant era obbligato a tenere lezioni un anno dopo l’altro in ossequio a una tradizione universitaria per la quale doveva provare scarso entusiasmo. 5 G.F. Meier, Auszug, § 2, AA XVI 5. 6 LBlomberg, AA XXIV 28: «Sarebbe sciocco istituire la logica per esseri razionali in generale o per gli angeli e, nel farlo, pensare che potrebbe essere utile anche per noi». 7 LPhilippi, AA XXIV 313. 8 LPhilippi, AA XXIV 314. 9 G.F. Meier, Auszug, § 2, AA XVI 5.

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«i principi di tutte le scienze, quindi anche della logica»10. Pertanto intorno al 1770 Kant, sulla scorta di Meier, concorda con Wolff il quale, pur affidando alla logica un ruolo propedeutico negli studi filosofici, ritiene che essa presupponga tanto l’ontologia, quanto la psicologia empirica, dalle quali trae i suoi principi11. Il collegamento della logica con la psicologia empirica va incontro alle istanze dei trattati «concepiti come opere di logica»12, che si concentravano sullo studio delle facoltà conoscitive in quanto facoltà produttrici di idee. L’attenzione alla «facultative logic»13, che era fiorita anche in seguito alla diffusione della filosofia di Locke, non è prerogativa di Wolff o di Meier14, ma è riscontrabile presso i tanti estimatori del saggio lockiano Of the Conduct of the Understanding, al quale fra l’altro era molto interessato l’ambiente di Königsberg15. Wolff però sente l’esigenza di legare la logica anche all’ontologia. Questa esigenza nasce dal modo in cui tratta il problema della verità. Infatti Wolff (come molti altri) chiama «verità logica» il «consenso del nostro giudizio con l’oggetto o con la cosa rappresentata»16. Sulla base di tale consenso potremmo dire veritieramente “Tizio scrive” nell’istante che Tizio è rap10

LBlomberg, AA XXIV 28. Cfr. pure LPhilippi, AA XXIV 316. C. Wolff, Philosophia rationalis sive Logica methodo scientifica pertractata et ad usum scientiarum atque vitae aptata, Francofurti-Lipsiae (17281), 1740 (in seguito Logica latina), in Id., Gesammelte Werke, hrsg. von J. École et al., Olms, Hildesheim 1965 sgg., sez. II, vol. I, Discursus praeliminaris, § 89: «La logica tratta delle regole che dirigono l’intelletto nella conoscenza di ogni essere […] Ora tutto ciò che pertiene la conoscenza generale dell’essere è derivato dall’ontologia. Quindi è chiaro che, per dimostrare le regole della logica, i principi devono essere tratti dall’ontologia. Quindi è anche chiaro che, per poter dimostrare le regole della logica, i principi debbono essere tratti dalla psicologia». 12 S. Auroux, La logique des idées, Bellarmin-Vrin, Montréal-Paris 1993, p. 49. 13 Cfr. J.G Buickerood, The Natural History of the Understanding: Locke and the Rise of Facultative Logic in the Eighteenth Century, «History and Philosophy of Logic», VI (1985), pp. 157-190. 14 Meier aveva tenuto lezioni sull’Essay di Locke, cfr. J. Sonderling, Die Beziehungen der Kant-Jäscheschen Logik zu George Friedrich Meiers “Auszug aus der Vernunftlehre”, A. Scholem, Berlin 1903, p. 9. 15 L’interesse suscitato a Königsberg dal testo lockeano (pubblicato in Posthumous Works, London 1706) è testimoniato dall’annuncio della sua traduzione da parte di M. Knutzen, Elementa philosophiae rationalis seu Logicae cum generalis tum specialioris mathematica methodo in usum auditorum suorum demonstrata, Hartung, Regiomonti-Lipsiae 1747, § 353. A causa della morte di Knutzen, la traduzione fu poi eseguita da un altro studioso di Königsberg, cfr. Johann Lockens Anleitung des menschlichen Verstandes zur Erkäntniß der Wahrheit nebst desselben Abhandlung von den Wunderwerken. Aus dem Englischen übersetzt von George David Kypke, Hartung, Königsberg 1755, rist. anast., hrsg. von T. Boswell – R. Pozzo – C. Schwaiger, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1996. 16 C. Wolff, Logica latina, § 505. Per la diffusione di questa dottrina cfr. A.G. Baumgarten, Aesthetica, Impensis Ioannes Christiani Kleyb, Traiecti cis Viadrum 1750-58, rist. anast. Olms, Hildesheim 1986, § 423. 11

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presentato nell’atto della scrittura. Tuttavia chi ci assicura che non ci troviamo «nel sogno e nel mondo favoloso che equivale ad esso»? Wolff non si riferisce al sogno fisiologico, ma al sogno obiective sumptum e argomenta che, poiché in tale dimensione «qualsiasi cosa nel mentre che è, è», accade che, se ci basiamo solo sul consenso fra il nostro giudizio e l’oggetto o cosa rappresentata, «la proposizione singolare non è vera se non nell’istante, così che mentre la dichiari, già cessa di essere vera»: nel sogno «qualsivoglia cosa può nascere da qualsiasi cosa e al medesimo soggetto può convenire un qualunque predicato. Quindi non si può formare nessuna proposizione universale e nessuna proposizione singolare costante [corsivo mio]»17. Per essere garantiti che: a) la verità delle proposizioni singolari duri al di là dell’istante, e che potremo identificare Tizio in stati temporali diversi e, ad esempio, essere in grado di dire che Tizio prima scriveva e ora non scrive più, o che il medesimo Tizio ha una certa proprietà, e b) che possiamo cogliere somiglianze fra le cose, onde formare concetti generali, la verità logica non basta. Deve darsi una verità metafisica o trascendentale, definita come segue: la verità, che è detta trascendentale e si intende inerire alle cose stesse, è l’ordine nella varietà delle cose che sono simultaneamente e si susseguono fra loro [ordo in varietate eorum, quae simul sunt ac se invicem consequuntur] o, se preferisci, è l’ordine di quelle cose che convengono all’ente18.

Wolff conclude: «se non si dà una verità trascendentale nelle cose, non si dà nemmeno la verità logica delle proposizioni universali. Né quella delle proposizioni singolari se non nell’istante»19. Diversamente dalla verità logica, la verità trascendentale è attendibile perché discende in ultima analisi dall’esistenza di Dio20. Data questa concezione, si comprende perché Wolff voglia ancorare le regole della logica, oltre che alla psicologia empirica, che indaga il nostro modo di pensare al quale le regole logiche sono “naturalmente” legate, anche all’ontologia: solo così la logica può essere strumento affidabile nei confronti dei contenuti della conoscenza. Tornando a Kant, la visione della logica presente nella LBlomberg e nella LPhilippi ben si concilia con la vicinanza temporale di questi corsi alla 17 C. Wolff, Philosophia prima sive Ontologia, methodo scientifica pertractata, qua omnis cognitionis humanae principia continentur, Francofurti-Lipsiae (17301) 17362, in Id., Gesammelte Werke, cit., Sez. II, vol. 3, § 493, cfr. pure ivi, § 499 n. In merito cfr. S. Carboncini, Transzendentale Wahrheit und Traum. Christian Wolffs Antwort auf die Herausforderung durch den Cartesianischen Zweifel, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1991, pp. 85-89. 18 C. Wolff, Philosophia prima sive Ontologia, cit., § 495. 19 Ivi, § 499. 20 Cfr. M. Capozzi, Biangoli rettilinei e centauri: l’ontologia di Wolff e Meinong, in Le ragioni del conoscere e dell’agire. Scritti in onore di Rosaria Egidi, a cura di R.M. Calcaterra, Angeli, Milano 2006, pp. 44-56.

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Dissertazione del 177021, in cui, pur proponendo una concezione dello spazio e del tempo come forme della sensibilità che lo allontana da Wolff, egli ancora contempla principi del mondo intelligibile accanto ai principi del mondo sensibile. 1.2. L’abbandono della posizione precritica Ben presto questa posizione teorica sarà abbandonata. Non che Kant rinunci a una teoria della verità che renda sostenibili i nostri giudizi singolari al di là dell’istante e consenta la formazione di concetti generali. Anche lui dice che la verità è l’accordo del nostro giudizio con l’oggetto, ma poiché questa è solo la definizione del nome “verità”22, anche lui crede che occorra una teoria della verità che spieghi tale accordo e ci renda certi che si tratta di un accordo non soggettivo e durevole. Come dirà nei Prolegomena, il problema che intende risolvere è esattamente quello di Wolff: come può un giudizio di percezione, vero in instanti, essere valido «per noi sempre e perciò per ogni uomo», qualificandosi così come un giudizio d’esperienza stabile e condiviso23? Inoltre, proprio come Wolff, Kant ritiene che questo problema possa considerarsi risolto solo se si riesce a giustificare l’esistenza di «un certo ordine nella connessione temporale»24, perché altrimenti, come osserva nella KrV, «dovrei considerare la mia percezione come un gioco soggettivo di immagini; e se pretendessi tuttavia di rappresentarmi in tal modo qualcosa di oggettivo, dovrei considerarlo un mero sogno»25. Solo un certo ordine nella connessione temporale può rassicurarci di non stare partecipando al «somnium objective sumptum di Wolff»26. Kant riconosce persino che l’ordine e la connessione di quel che ci rappresentiamo debba riposare su una «verità trascendentale» che «precede e rende possibile ogni verità empirica»27, come accade con la verità metafisica o trascendentale di Wolff. Ciò che Kant giudicherà insostenibile è che la verità trascendentale sia garantita dall’esistenza di Dio, e quindi si risolva, alla lettera, in un appello a

21 La MSI è citata in LBlomberg, AA XXIV 279; riferimenti impliciti sono stati individuati anche in AA XXIV 239, 254. Un richiamo esplicito è in LPhilippi, AA XXIV 453. 22 Cfr. KrV, A59/B83. 23 Prol, AA IV 298, trad. it. di P. Carabellese, rivista da R. Assunto, con Introduzione e revisione di H. Hohenegger, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, Laterza, Bari 1996 (la traduzione reca sul margine la paginazione di AA). 24 KrV, A197/B243-44 (corsivo mio), trad. it. di P. Chiodi, Critica della ragion pura, UTET, Torino 1967 (la traduzione reca sul margine la paginazione di A e B). 25 KrV, A201-2/B247. 26 Prol, AA IV 376 nota. 27 KrV, A146/B185.

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un deus ex machina28. Di qui l’assunzione di un nuovo punto di vista, secondo cui: a) si ha conoscenza solo di fenomeni e non delle cose in se stesse, b) «siamo […] noi stessi che introduciamo quell’ordine e quella regolarità nei fenomeni che chiamiamo natura»29, fornendo una connessione oggettiva a dati ai quali altrimenti potremmo attribuire solo un collegamento istantaneo e precario. Pertanto: «ogni esperienza, e la sua stessa possibilità, richiede l’intelletto [...] ciò ha luogo in quanto esso conferisce l’ordine temporale ai fenomeni e alla loro esistenza, assegnando a ciascuno di essi [...] una posizione nel tempo»30. In definitiva, la verità trascendentale di Kant risiede in un insieme di principi dell’intelletto puro che sono «la sorgente di ogni verità, ossia dell’accordo della nostra conoscenza con gli oggetti»31. Si tratta di «regole dell’intelletto» enunciate con proposizioni sintetiche a priori, le quali sono sostenute da prove filosofiche che fanno capo all’apriori sensibile, presentato nell’Estetica trascendentale, e all’apriori intellettivo, presentato nell’Analitica trascendentale della KrV. Queste dottrine presumono il completamento della rivoluzione copernicana che Kant effettua quando affianca all’indagine sulle forme della sensibilità, già in gran parte compiuta nella Dissertazione del 1770, l’indagine sulla «fonte della conoscenza intellettuale», un’indagine che, scrivendo a Herz, egli annuncia come un’indagine sulle categorie32. 2. La concezione della logica di epoca critica 2.1. La questione delle categorie e il filo conduttore della logica Proporsi in Germania un’indagine sulle categorie significava contestare l’autorità del padre del primo illuminismo tedesco, Christian Thomasius, il quale aveva ripreso tacitamente una nota tesi dei logici di Port-Royal: «illae categoriae non in rei veritate fundatae sunt, sed sunt classes arbitrariae a viribus imaginationis dependentes»33. Anche Baumgarten aveva trattato con 28

Cfr. lettera a M. Herz (21.2.1772), AA X 131. KrV, A125. 30 KrV, A199/B244-245. 31 KrV, A237/B296. Cfr. pure KrV, A191/B236: «Dato che l’accordo della conoscenza con l’oggetto costituisce la verità [...]». 32 Lettera del 21.2.1772, Br, AA X 132. 33 Cfr. C. Thomasius, Introductio ad philosophiam aulicam, Officina Libraria Rengeriana, Halae 17032, VII, § 25. Cfr. A. Arnauld-P. Nicole, La logique ou l’art de penser, Paris 1662, éd. critique par P. Clair et P. Girbal de l’éd. 16835, P.U.F., Paris 1981, I Parte, cap. III, p. 51: le categorie sono «une chose toute arbitraire» fondata sull’immaginazione di un uomo «qui n’a eu aucune autorité de préscrire une loi aux autres, qui ont autant de droit que lui d’arranger d’une autre sorte les objets de leur pensées, chacun selon sa maniere de philosopher». 29

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sufficienza le «dieci categorie, o che Aristotele le abbia coordinate per primo o che, già costruite da altri, le abbia solo rese più celebri», riducendone l’elenco al rango di una delle formule in uso nella topica, che nel complesso egli bollava con il verso di Marziale «Turpe est difficiles habere nugas, Et stultus labor est ineptiarum»34. Kant non considera le categorie delle mere classi arbitrarie, e certo non le pone fra le nugae difficiles, perché è convinto che esse siano effettivamente usate nella conoscenza. Nondimeno un’indagine che le individui in maniera inequivocabile gli sembra necessaria poiché non è disposto ad accogliere indiscriminatamente l’elenco di Aristotele35, né a seguire quest’ultimo ricercando le categorie nella conoscenza comune, con un procedimento strettamente affine a quello con cui si ricavano le regole grammaticali da un lingua36. Kant non contesta l’affinità fra la ricerca delle categorie e la ricerca della grammatica perché tale affinità è contemplata da un assunto fondamentale della sua filosofia: pensiero e linguaggio sono inscindibili37. Tuttavia sostiene che indagare le categorie con un procedimento a posteriori, analogo a quello usato per rintracciare le regole della grammatica nell’uso linguistico, conduce a un insieme di categorie che non possiede un grado di necessità e una garanzia di completezza maggiori di quelli spettanti alle regole grammaticali. Sappiamo che Kant dichiara di avere superato questa difficoltà affidando la ricerca delle categorie alla logica. Non che la logica contenga le categorie. Affinché non sorgano dubbi in proposito Kant evita di definire la logica come dottrina universale dell’intelletto (allgemeine Verstandeslehre): la logica, definita come dottrina universale dell’intelletto, potrebbe […] sembrare contenere anche i concetti intellettuali (puri) degli oggetti (categorie); dunque

34 A.G.

Baumgarten, Aesthetica, cit., § 133. In Prol, AA IV 323, Kant procede innanzitutto a separare «i concetti puri elementari della sensitività (spazio e tempo) da quelli dell’intelletto». 36 Prol, AA IV 322-23: «Scernere, traendoli dalla conoscenza comune, i concetti che non hanno affatto a fondamento una speciale esperienza e nondimeno si presentano in ogni conoscenza di esperienza [Erfahrungserkenntniß], di cui costituiscono, per così dire, la semplice forma di connessione, non presupponeva maggiore riflessione o perspicacia, di quella richiesta dallo scernere da una lingua le regole dell’uso effettivo delle parole in generale, e così compilare gli elementi di una grammatica (di fatto le due ricerche sono anche molto affini fra loro), senza pur poter addurre la ragione per cui ogni lingua abbia proprio questa e non un’altra costituzione formale, e ancor meno la ragione per cui di tali determinazioni formali di essa si possa trovare in generale solo quel tanto, né più né meno. Aristotele aveva raccolto dieci di tali concetti puri elementari sotto il nome di categorie». 37 Cfr. M. Capozzi, Pensare, parlare e udire in Kant, in Scienza e coscienza tra parola e silenzio, a cura di P. Ciaravolo, Aracne, Roma 2006, pp. 183-210. 35

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essa non astrarrebbe da ogni contenuto del pensare. Perciò è migliore la sua definizione quale scienza che contiene semplicemente le regole formali del pensare38.

Contro l’inclusione delle categorie nella logica milita, a mio parere, anche il pericolo di considerarle dei generi sommi, come voleva Crusius il quale, riprendendo un argomento di ascendenza thomasiana, sosteneva che, essendo le categorie dei generi sommi ottenuti per astrazione, il loro numero è variabile essendo disponibili più tipi di astrazione39. La tesi universalmente nota di Kant è che si può usare la logica nella ricerca delle categorie solo come un filo conduttore40. Ma la logica che deve svolgere questa funzione è molto cambiata rispetto a quella che egli presentava ai suoi uditori fin verso il 1770. 2.2. La nuova concezione: la logica giustifica se stessa Nelle sue lezioni Kant introduceva la logica mediante un’analogia con la grammatica: così come parliamo secondo regole grammaticali prima di avere imparato la grammatica, così pure pensiamo secondo regole logiche prima di avere imparato la logica41, perciò la consapevolezza delle regole che governano le sfere parallele del linguaggio e del pensiero appartiene a una fase successiva42. In breve: La logica è ricavata necessariamente dall’uso, perché contiene le prime operazioni dell’intelletto, e non la possiamo pensare senza usare in queste l’intelletto (in concreto, in esempi); e non avremmo imparato ciò senza l’esercizio, così come senza esercizio non avremmo imparato la lingua43. 38

Refl 1624, AA XVI 42 (1780) (le aggiunte in parentesi tonde sono nel testo e la prima aggiunta «(puri)» è successiva alla prima redazione della Reflexion). 39 Cfr. C. Crusius, Weg zur Gewißheit und Zuverlässigkeit der menschlichen Erkenntniß, Leipzig 1747, rist. anast. in Id., Die philosophischen Hauptwerke, hrsg. von G. Tonelli, vol. III, Olms, Hildesheim 1965, § 137 nota. 40 Cfr. KrV, A66/B91. 41 Cfr. Refl 1620, AA XVI 39 (circa 1780): «Voi avete parlato per molti anni, ma non avete riflettuto sul linguaggio. […] Poi, nell’imparare una lingua morta, avete trovato che siete legati a certe regole costanti, senza le quali non potrebbe esservi linguaggio, cioè comunicazione dei propri pensieri. (Dunque voi avete seguito le regole di una lingua senza saper nominare proprio queste regole. (Molière – borghese gentiluomo – parlare in prosa – dunque parlare grammaticalmente)). Ma il linguaggio è comunicazione dei pensieri. Dunque il pensiero in tutti gli uomini sarà legato a certe regole. (Che egli non sa nemmeno nominare, sebbene le abbia seguite a lungo)». 42 Cfr. Log, AA IX 11, trad. it. e cura di M. Capozzi, Logica. Un manuale per lezioni, Bibliopolis, Napoli 1990 (la traduzione reca sul margine la paginazione di AA): «Così, per esempio, la grammatica generale è la forma di una lingua in generale. Tuttavia si parla anche senza conoscere la grammatica; e colui che parla senza conoscerla possiede in realtà una grammatica e parla secondo regole, di cui però non è cosciente». 43 Refl 1602, AA XVI 31-32 (1773-75).

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Kant rilevava che la grammatica e la logica sono simili anche nella loro indifferenza al contenuto: da un lato, «con la mera grammatica non si può imparare alcuna lingua»44, dal momento che essa «non contiene vocaboli, non copia vocabularum [sic], ma solo la forma della lingua»45; dall’altro lato, la logica non concerne il contenuto del pensiero. Logica e grammatica sono solo formali. Per chi conosca il passo dei Prolegomena, sopra richiamato, che evidenzia gli svantaggi derivanti alle categorie quando sono ricercate alla stessa maniera della grammatica, è legittimo pensare che, a causa delle analogie con la grammatica, tali svantaggi debbano affliggere anche la logica. Il Kant critico però spiega che, sebbene la logica non preceda l’uso, le regole logiche, «che contengono il fondamento di tutti i giudizi, cioè la loro forma», vengono riconosciute come «regole a priori»46. Osserva la LHechsel: la logica ha questo di particolare in sé, che quando prendiamo l’universale di essa, le regole soggettive e oggettive coincidono. Qui le leggi universali soggettive sono contemporaneamente le leggi oggettive del pensiero; infatti poiché queste sono le condizioni alle quali si deve pensare, esse sono anche oggettive, il che non ha luogo in nessuna altra scienza47.

In logica, a differenza che in tutte le altre scienze, le regole universali («l’universale»), nel momento in cui ne acquistiamo consapevolezza, sono accolte come condizioni indispensabili del pensiero, perché riconosciamo che, in loro mancanza, noi non penseremmo con un’altra logica (mentre potremmo parlare con un’altra grammatica): semplicemente «non penseremmo affatto»48, nel senso che non si darebbe un’attività qualificabile come “pensiero” in senso proprio. Kant sostiene perciò che la logica «ist vom empirischen Gebrauch des Verstandes abstrahirt, aber nicht derivirt»49. Pertanto, nonostante le analogie, lo statuto scientifico della logica è ben diverso da quello della grammatica. Ciò va chiarito perché alcuni hanno interpretato la somiglianza della logica con la grammatica come se si trattasse di un’identità. Ad esempio, Linnebo fonda parte della sua lettura di Frege sul rifiuto di quest’ultimo, espresso nei Grundgesetze, di avallare la somiglianza (“kantiana”) fra logica e grammatica perché se ne dovrebbe dedurre che

44

Cfr. Refl 1628, AA XVI 45 (anni Ottanta). LDohna, AA XXIV 693. Cfr. pure LHechsel, in I. Kant, Logik-Vorlesung: unveröffentlichte Nachschriften II Logik Hechsel; Warschauer Logik, hrsg. von T. Pinder, Meiner, Hamburg 1998, ms. 4, p. 274. 46 Refl 1602, AA XVI 32 (1773-75). 47 LHechsel, ms. 6, p. 276 (corsivo mio). 48 Cfr. Log, AA IX 12. 49 Refl 1612, AA XVI 36 (1773-75 o forse successiva). 45

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anche la logica è contingente e variabile50. Ammesso che questo rifiuto riveli un cambiamento di opinione di Frege, la cosa non concerne il Kant critico che non ha mai cambiato opinione in proposito: sebbene presenti somiglianze con la grammatica, la logica è diversa da essa perché non è contingente e variabile. In alcune Vorlesungen proprio la contingenza delle leggi della grammatica le impedisce, a differenza della logica, di essere una scienza51. In altri testi tanto la logica quanto la grammatica sono ritenute scienze, ma di genere diverso: la grammatica è solo una disciplina, la logica è una scienza; dottrina. La differenza fra disciplina e scienza o dottrina è che, nell’una non si può sapere perché qualcosa è così e non altrimenti, nell’altra se ne ha una prova interna. Con la prima consultiamo l’esperienza, con la seconda solo l’intelletto, la prima è particolare, la seconda è universale, la prima si chiama Scientia empirica, la seconda Scientia scientifica52.

In definitiva, la scientia scientifica detta “logica” è una «scienza delle leggi necessarie dell’intelletto e della ragione in generale»53. A conferirle questa natura contribuiscono: 1) lo status peculiare dell’intelletto, il quale è sì sottoposto a regole, ma si trova anche nella straordinaria condizione di essere la facoltà che stabilisce «che cosa occorre perché qualcosa sia una

50 Cfr. Ø. Linnebo, Frege’s Conception of Logic: From Kant to Grundgesetze, «Manuscrito», XXVI, 2 (2003), pp. 235-252 (http://seis.bris.ac.uk/~plxol/FregesConception.pdf). 51 Cfr. LDohna, AA XXIV 694: «La logica deve contenere principi a priori [Perciò la logica è un scienza e la grammatica no. Perché le sue regole sono contingenti]». La frase in parentesi quadre è un’aggiunta marginale al testo. 52 Cfr. LBusolt, AA XXIV 609. La differenza fra la logica e le grammatiche empiriche pone la questione se per Kant tale differenza sussista anche rispetto alla grammatica universale o generale alla quale fa cenno la LDohna, AA XXIV 693, che parla di «regole universali del linguaggio»; cfr. anche LWiener, AA XXIV 790-91; Log, AA IX 12. La questione è rilevante perché Kant, al pari di molti logici dell’epoca, non prescinde da una certa struttura grammaticale, evidentemente ritenuta comune a tutte le lingue, astratta quanto si vuole, però pur sempre riconducibile alla grammatica del latino. Kant infatti fa operare la logica su “soggetti”, “predicati”, “copule”, ecc. Un chiarimento viene dalla Refl 1620, AA XVI 40: «Una dottrina universale del pensiero è [...] possibile, e da essa segue [corsivo mio] anche una dottrina universale del linguaggio. Grammatica Universalis». Dunque, almeno in questo luogo, Kant afferma che, sebbene, secondo la Refl 1622, AA XVI 42 (anni Ottanta), «i grammatici furono i primi logici», una grammatica universale può nascere solo dopo il costituirsi della logica come scienza. Questa affermazione non elimina tutte le difficoltà, ma chiarisce almeno la sua intenzione di anteporre la logica, per grado di scientificità, non solo alle grammatiche storiche, ma persino alla grammatica universale, cfr. M. Capozzi, Kant on Logic, Language and Thought, in, Speculative Grammar, Universal Grammar, and Philosophical Analysis of Language, ed. by D. Buzzetti-M. Ferriani, Benjamins, Amsterdam 1987, pp. 104-106. 53 Log, AA IX 19.

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regola»54; 2) la capacità dell’intelletto speculativo di contemplare l’universale in abstracto55; 3) la peculiarità delle regole logiche le quali, «una volta che vengano conosciute, sono chiare di per sé [aus sich selbst klar]»56. Infatti, mentre le regole provabili attraverso la logica richiedono un fondamento, un principio logico come quello di contraddizione non è passibile né bisognoso di prova: Tutte le regole provabili logicamente in generale sono però sempre bisognose di un fondamento da cui esser derivate. Molti principi (ad es. quello di contraddizione) non si lasciano provare né a priori né empiricamente57.

Poiché possiede principi non passibili né bisognosi di prova, la logica può fare a meno di una fondazione: la logica giustifica se stessa. La conseguenza inevitabile di questa capacità di auto-fondazione è che Kant rinnega completamente la sua precedente tesi, rinnega cioè che la logica si fondi sulla psicologia empirica e sull’ontologia. 2.3. Contro la fondazione della logica sulla psicologia empirica e sull’ontologia Diversamente da quanto sosteneva intorno al 1770, il Kant critico afferma che la logica non tiene conto della complessa psicologia umana, ma stabilisce solo lo standard al quale attenerci per pensare secondo una forma logica corretta58. Per questo motivo la logica non trae i suoi principi dalla psicologia empirica. Se lo facesse, sarebbe a sua volta empirica e perderebbe la sua funzione normativa: fondare la logica sulla psicologia empirica «è tanto assurdo quanto desumere la morale dalla vita»59. Se prendessimo i principi della logica dalla psicologia: vedremmo semplicemente come si svolge il pensiero e come esso è sottoposto alle diverse difficoltà e condizioni soggettive; ciò condurrebbe alla conoscenza di leggi

54 Refl 1628, AA XVI 44. Cfr. Log, AA IX 11: «l’intelletto deve essere considerato come la fonte e la facoltà di pensare regole in generale». 55 Cfr. LPölitz, AA XXIV 508: «l’intelletto speculativo è la facoltà di cogliere le regole in abstracto». Cfr. pure LBusolt, AA XXIV 611-612, LDohna, AA XXIV 697, Refl 1614, AA XVI 37 (circa 1775-77). 56 Refl 1602, AA XVI 32. 57 LDohna, AA XXIV 694. Cfr. Prol, AA IV 370, dove Kant contro i «falsi amici del senso comune», per i quali «devono pur esserci delle proposizioni che sian certe immediatamente, e di cui non si ha bisogno non solo di dare alcuna prova ma neppure di addurre affatto una ragione», argomenta che «a prova di questo diritto essi non possono mai addurre, all’infuori del principio di contraddizione [...] qualcosa di indubitato». Evidentemente Kant ammette che del principio di contraddizione non si ha bisogno di dare «alcuna prova» e neppure di «addurre una ragione». 58 P. Kitcher, Kant’s Transcendental Psychology, Oxford U.P., New York-Oxford 1991, p. 13. 59 Log, AA IX 14.

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puramente contingenti. In logica però non si tratta di leggi contingenti ma necessarie, non di come pensiamo ma di come dobbiamo pensare60.

A fronte delle enfatiche dichiarazioni contro la fondazione della logica sulla psicologia empirica, quelle contro la fondazione sull’ontologia sono più sommesse e anche meno note. Tuttavia non c’è dubbio che il Kant critico intenda separare la logica dalle «verità fondamentali universali di cui tratta l’ontologia», di cui parlava ai tempi della LBlomberg. Il distacco della logica dall’ontologia passa attraverso l’accentuazione di una caratteristica che Kant ha sempre riconosciuto alla logica, cioè la sua dimensione totalmente concettuale. Così, già nella Refl 1599 scrive che in logica non trattiamo «della relazione e della determinazione delle cose, ma della relazione dei concetti»61. Quando poi giunge alla sua concezione definitiva, Kant accentua questa caratteristica e svuota la logica di qualsiasi riferimento a cose. Se poi si pensa che la logica, a differenza che nel periodo precritico, può e deve fare a meno della psicologia empirica, allora una fondazione della logica sull’ontologia diventa superflua: non solo non si ha bisogno delle verità fondamentali dell’ontologia per connettere la logica alla conoscenza delle cose, visto che non è questo che interessa alla logica, ma non se ne ha bisogno nemmeno per compensare la soggettività e la contingenza della fondazione sulla psicologia empirica, che ora viene respinta. Tutto ciò è rilevante per la questione della ricerca delle categorie. Solo una logica non fondata sull’ontologia può rintracciarle senza collegarle alla dottrina dell’ente, ma solo una logica non fondata sulla psicologia può rintracciarle senza collegarle alla costituzione psicologica degli umani. Quest’ultima cosa sarebbe molto pregiudizievole per il progetto filosofico kantiano perché porterebbe a considerare le categorie delle «disposizioni soggettive del pensiero, piantate dentro di noi con la nostra esistenza e ordinate dal nostro creatore in modo che il loro uso risulti in stretto accordo con le leggi della natura in base alle quali si svolge l’esperienza»62. Categorie ridotte a disposizioni soggettive innate o ci riporterebbero, come chiarisce il passo appena citato, alla necessità di fare risalire l’accordo fra il loro uso e le leggi della natura a un essere divino (il creatore), oppure, se non ci si vuole appellare alla divinità, ci ridurrebbero alla condizione di non poter dire: «l’effetto è congiunto con la causa nell’oggetto (cioè necessariamente)», ma solo: «io sono fatto in guisa tale da non poter pensare questa rappresentazione che congiunta in questo modo». E dunque «le categorie risulterebbero prive di quella necessità che è invece essenziale al loro stesso concetto»63. 60

Log, AA IX 12. AA XVI 29-30 (non prima del 1769 e molto probabilmente dopo). 62 KrV, B167. 63 KrV, B168. 61

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2.4. Formalità, generalità, purezza e completezza della logica Una logica necessaria e auto-fondativa è formale perché relativa alla sola forma del pensiero. Questa non è la formalità che Kant ha sempre riconosciuto anche alla grammatica, ma è ora associata alle due caratteristiche della logica di essere generale e pura64. La logica è generale perché «comprende le leggi assolutamente necessarie del pensiero, senza le quali non si dà alcun uso dell’intelletto», e da ciò discende che essa «concerne […] l’intelletto a prescindere dalla varietà degli oggetti a cui può essere rivolto»65. La logica generale è anche pura se, oltre ad astrarre da qualsiasi contenuto della conoscenza, «non ospita alcun principio empirico e (a differenza di quanto si è talora creduto) non desume nulla dalla psicologia»66. Generalità e purezza sono i nuovi requisiti della logica perché rispecchiano, rispettivamente, l’indipendenza dalle cose, ottenuta con il rifiuto di una fondazione ontologica, e l’indipendenza dalla psiche umana, ottenuta con il rifiuto della fondazione sulla psicologia empirica. L’impresa di trarre da questa logica il filo che conduce alle categorie, e da queste ultime a un sistema di principi dell’intelletto puro che abbia non solo la funzione, ma anche la stabilità della verità metafisica o trascendentale wolffiana, sarebbe fallimentare se questo sistema fosse soggetto a incertezze o variazioni. Non è perciò casuale che Kant presenti il sistema dei principi dell’intelletto puro come il «territorio dell’intelletto puro», un territorio descritto con un’immagine che dà il senso della chiusura e della completezza, l’immagine di un’«isola che la natura ha racchiuso in confini immutabili»67. I principi dell’intelletto puro devono appartenere a un sistema completo, e poiché questi principi nei loro stessi enunciati contengono le categorie (connesse sinteticamente e a priori con determinazioni di tempo), il sistema delle categorie deve essere completo. Parlando delle categorie Kant richiede che: 1) i concetti siano puri e non empirici; 2) che siano propri non dell’intuizione e della sensibilità, ma del pensiero e dell’intelletto; 3) che si tratti di concetti elementari e siano tenuti ben distinti dai derivati e da quelli risultanti per composizione; 4) che la loro tavola sia completa e copra senza residuo l’intero campo dell’intelletto puro68.

In una nota dei MAN Kant insiste su questo punto: bisogna dare per ammesso che «la tavola delle categorie contenga tutti i concetti puri dell’in64 Cfr. J. MacFarlane, Frege, Kant, ant the Logic in Logicism, «The Philosophical Review», CXI (2002), p. 46 sgg. 65 KrV, A52/B76. 66 KrV, A54/B78. 67 KrV, A235/B295-6. 68 KrV, A64/B89 (corsivo mio).

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telletto»69. Ciò esige che anche la logica, che deve condurre alle categorie, sia completa. Kant lo afferma con decisione: è vero che la logica «da Aristotele in poi [...] non ha dovuto fare alcun passo indietro»70, ma è vero pure che in logica «non abbiamo bisogno» di nuove invenzioni71, giacché essa non è «né bisognosa, né capace di accrescimento»72. La logica «secondo ogni apparenza, è da considerarsi conclusa e completa»73. Possiamo qui trarre una conclusione parziale: Kant ha modificato la sua concezione della logica a tal punto che essa è diventata capace di fare da filo conduttore alla ricerca delle categorie, strappandole all’empiria in cui resta la grammatica, perché è diventata una scienza necessaria che può fare a meno del sostegno della dottrina dell’ente armonizzata da un essere divino con la costituzione del pensiero degli umani. Prima di esaminare come questa concezione si riversi sullo stesso dettato della logica e come incida sulla filosofia di Kant, è il caso di discutere alcune reazioni che essa ha provocato fra gli interpreti. 2.5. Psicologia, ontologia, algebra, completezza: Kant davanti ai suoi interpreti Che Kant avesse sconvolto il delicato equilibrio fra psicologia empirica e metafisica su cui si reggeva la logica wolffiana fu perfettamente compreso dai suoi contemporanei, anche quando non approvavano del tutto la concezione che ne era emersa. Nel 1799 von Eberstein affermava che Kant aveva depurato la logica dalla psicologia, e questo andava a suo merito perché aveva posto un freno alla tendenza, cui avevano ceduto «persino buoni logici scientifici […] (Platner, Schulze ecc.)», a legare la logica «con la psicologia empirica», procurandole «la triste sorte di essere molto spesso cambiata in una storia» (cioè in una scienza empirica)74. Von Eberstein affermava anche che Kant aveva separato la logica dalla metafisica, e questo era un suo demerito perché aveva esposto la logica a un arido “formalismo”. Gli interpreti successivi si sono lasciati orientare più dalla loro filosofia della logica che dall’analisi dei testi, come dimostrano le interpretazioni divergenti del rapporto della concezione kantiana della logica con la psico69 MAN, AA IV 475 nota, trad. it. di P. Pecere, Principi metafisici della scienza della natura, Bompiani, Milano 2003 (la traduzione reca sul margine la paginazione di AA). 70 KrV, BVIII. 71 Log, AA IX 21. 72 FM, AA XX 310, trad. it. di P. Manganaro, I progressi della metafisica, Bibliopolis, Napoli 1977, p. 123. 73 KrV, BVIII. 74 Cfr. W.L.G. von Eberstein, Versuch einer Geschichte der Logik und Metaphysik bey den Deutschen von Leibniz bis auf den gegenwärtige Zeit, 2 voll., Ruff, Halle 1794-99, rist. anast. Culture et Civilisation, Bruxelles 1970, vol. II, pp. 422-23.

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logia. Sebbene Kant sostenga che le regole logiche non descrivono quel che facciamo quando pensiamo, al punto che gli si potrebbe attribuire il monito di Frege di «separare nettamente lo psicologico dal logico»75, ciò non gli ha risparmiato l’accusa di psicologismo76. Tale accusa, che ha avuto credito a lungo, è ora sostituita da quella opposta: Kant è ritenuto fautore dell’antipsicologismo perché non tiene conto del fatto che, anche ammessa una concezione normativa della logica quale è la sua, le norme logiche quanto meno descrivono ciò che qualcuno pensa mentre insegna la logica o scrive testi di logica77. A questi rilievi critici si possono contrapporre i testi esaminati sopra nel § 2.2, aggiungendo che Kant non dice mai che le regole logiche risplendono come norme in un cielo platonico. La separazione della logica dalla psicologia consegue dalla decisione di restringere la logica all’indagine della forma dell’intelletto e della ragione, trascurando le condizioni empiriche in cui pensiamo, e in cui è coinvolta la complessa psicologia empirica degli umani. Regole come il principio di contraddizione non derivano dalla psicologia non perché nessuno le pensi, ma perché, fatta astrazione dall’uso empirico che se ne fa, sono riconosciute dall’intelletto, che è la facoltà delle regole, come le proprie regole (quelle e non altre), e dunque come le conditiones sine quibus non del funzionamento della facoltà medesima, qualunque cosa pensi. Ciò non avviene per nessun’altra scienza e comporta che tali regole siano da ritenersi assolutamente necessarie e a priori, nel senso che, in quanto condizioni indispensabili, “precedono” e rendono possibile ogni attività di pensiero compiuta dall’intelletto. Anche sulla questione dei rapporti fra la concezione kantiana della logica e la metafisica gli interpreti si sono divisi, a seconda delle loro inclinazioni filosofiche. Qualcuno ritiene che nella logica di Kant ci sia troppa metafisica. Ad esempio, i Kneale individuano nel «trascendentalismo» di Kant l’inizio della «curiosa mistura di metafisica ed epistemologia che era presentata come logica da Hegel e dagli altri idealisti del diciannovesimo secolo»78. In questo modo però i Kneale confondono Kant con i suoi oppositori idealisti che reclamavano il ricongiungimento della logica con la metafisica e, in particolare, confondono Kant con Hegel facendo torto a entrambi. Hegel, come spiega limpidamente Barone, propone contro Kant una nuova logica che «si identifichi con la metafisica e che – come la vecchia metafisica – muova dall’ammissione che il pensiero (con le sue determinazioni imma75 Cfr. G. Frege, Die Grundlagen der Arithmetik, Eine logisch-mathematische Untersuchung über den Begriff der Zahl, Koebner, Breslau 1884, p. X. 76 Cfr. J.A. Coffa, The Semantic Tradition from Kant to Carnap, Cambridge U. P., Cambridge 1991, pp. 7-21. 77 D. Jacquette, Psychologism Revisited in Logic, Metaphysics, and Epistemology, in Philosophy, Psychology, and Psychologism, ed. by D. Jacquette, Kluwer, New York 2003, p. 249. 78 W.C. Kneale-M. Kneale, The Development of Logic, cit., p. 355.

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nenti) e la vera natura delle cose sono un solo e medesimo contenuto»79. Ma che la logica di Kant difetti in metafisica è affermato, oltre che dagli idealisti (e da von Eberstein), anche da un autore non idealista come Scholz, il quale agli inizi del Novecento diagnosticava una decelerazione nel progresso della logica che si sarebbe potuta evitare purché i logici avessero dato retta «un po’ più a Leibniz e un po’ meno a Kant, la cui critica all’idea di una metafisica matesizzata in senso leibniziano […], divenuta quasi canonica, costituisce uno dei più pesanti rovesci che Kant ci ha fatto subire»80. Se sulla questione dei rapporti della logica con la psicologia e l’ontologia Kant è stato talora frainteso, è difficile attribuire a un fraintendimento le perplessità suscitate dalla sua tesi che la storia della logica sia una sorta di secolare durata senza progresso. I critici di Kant hanno motivo di lamentare la sua visione parziale della logica antica e l’incapacità di cogliere l’evoluzione delle dottrine logiche nel medioevo81. Si deve rilevare però che nei corsi e nelle Reflexionen, specialmente quelli precritici, Kant dà una versione più articolata, di quanto non si evinca dalla KrV, dello sviluppo della logica dall’antichità ai suoi tempi, e che i toni riduttivi usati per la logica medievale erano comuni alle fonti storiografiche dell’epoca, dalle quali Kant trae gran parte delle sue informazioni al riguardo82. Non si possono, tuttavia, invocare fonti secondarie non troppo affidabili per spiegare il giudizio negativo di Kant sui tentativi di «alcuni moderni» di ampliare la logica aggiungendole capitoli «o psicologici, sulle diverse facoltà conoscitive (l’immaginazione, l’ingegno), o metafisici, sull’origine della conoscenza e sulle diverse specie di certezza a seconda della differenza degli oggetti (idealismo, scetticismo, ecc.), o antropologici, sui pregiudizi (e le loro relative cause e rimedi)»83. Questo giudizio nasce da conoscenze personali e rispecchia la sua concezione della logica successiva al taglio dei rapporti con la psicologia, la metafisica e l’antropologia. Lo conferma il fatto che intorno al 1770, quando ancora riteneva che tali rapporti sussistessero, Kant elogiava la logica di Locke e parlava di Wolff come del campione del dogmatismo84. È solo nelle sue lezioni di epoca critica che Locke viene presentato come un brillante metafisico che però non è un logico85, mentre 79 F. Barone, Logica formale e logica trascendentale, vol. I, Edizioni di Filosofia, Torino 1957, p. 202. 80 H. Scholz, Abriss der Geschichte der Logik (1931), trad. it. di E. Melandri, Storia della logica, con Introduzione e aggiornamento bibliografico di C. Cellucci, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 72. 81 Cfr. W.C. Kneale-M. Kneale, The Development of Logic, cit., p. 355. 82 Questo aspetto della questione è colto da J. M. Bocheński, Formale Logik (1956), trad. it. di A. Conte, La logica formale, vol. I, Einaudi, Torino 1972, p. 18. 83 KrV, BVIII. 84 Cfr. LPhilippi, AA XXIV 338. 85 Cfr. LDohna, AA XXIV 701.

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la logica di Wolff è menzionata come «la migliore che abbiamo»86, ovviamente per quanto riguarda lo scheletro dottrinale, perché abbiamo visto quanto se ne allontani nella concezione filosofica. Molti si sono domandati perché il quadro della logica recente disegnato da Kant non menzioni i calcoli logici improntati all’algebra, nei quali si era distinta proprio l’area culturale tedesca. La domanda concerne lavori importanti della cui esistenza Kant deve aver avuto notizia, se non altro indiretta, ad esempio, attraverso il dibattito, pubblicato nel 1766, sui meriti dei diagrammi di Lambert nel Neues Organon (opera ben nota a Kant) in confronto con la Methodus calculandi di Ploucquet e anche con l’opera logica di Segner87. Ma è difficile credere che Kant mancasse di qualsiasi informazione diretta sull’opera logica segneriana88, o sulla disquisizione intorno all’idea di un calcolo universale di Lambert89, o sui saggi di calcolo giovanili di quest’ultimo pubblicati in edizione postuma90. L’indizio per cercare una risposta sta nell’affermazione che la logica non è «un’algebra con il cui aiuto si possano scoprire verità nascoste»91. Kant infatti rivendica la capacità inventiva dell’algebra: l’aritmetica universale (algebra) è una scienza che amplia se stessa in misura tale che non si è in grado di fare il nome di nessuna delle scienze razionali che le sia equiparabile in ciò, al punto che le restanti parti della mathesis pura in gran parte basano le loro aspettative di crescita sull’ampliamento di quella dottrina universale della quantità. Ora, se questa fosse costituita da meri giudizi analitici, sarebbe quanto meno sbagliata la definizione di questi ultimi, cioè che essi sarebbero giudizi meramente esplicativi, e allora si avrebbe un problema importante e di difficile soluzione: come è possibile l’ampliamento della conoscenza mediante giudizi meramente analitici?92

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Log, AA XXIV 21. Cfr. Sammlung der Schriften welche den logischen Calcul Herrn Prof. Ploucquets betreffen, mit neuen Zusätzen, hrsg. von A.F. Bök, Frankfurt-Leipzig 1766, rist. anast., hrsg. von A. Menne, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1970. 88 Cfr. J.A. Segner, Specimen logicae universaliter demonstratae, Sumptibus Viduae Croekerianae, Jenae 1740, rist. anast., ed. by M. Capozzi, CLUEB, Bologna 1990; per i riferimenti fatti da Kant all’opera matematica e fisica di Segner, cfr. ivi, Editor’s Introduction, p. xx. 89 Cfr. J.H. Lambert, De universaliori calculi idea disquisitio, una cum adnexo specimine, «Nova Acta Eruditorum», Nov.-Dic. 1765 (in realtà 1767), pp. 441-73. 90 Cfr. J.H. Lambert, Sechs Versuche einer Zeichenkunst in der Vernunftlehre, in Id., Logische und philosophische Abhandlungen, 2 voll., Berlin 1782 e 1787, rist. anast. in Id., Philosophische Schriften, voll. VI-VII, Olms, Hildesheim 1967-69. La raccolta contiene anche l’epistolario che Kant aveva collaborato a costituire, cfr. la sua lettera (16.11.1781) a Johann Bernoulli, Br, AA X 276-79, e anche Anzeige des Lambert’schen Briefwechsel, 1782, AA VIII 1-4. 91 Log, AA IX 20. 92 Cfr. la lettera a J. Schultz (25.11.1788), Br, AA X 555. 87

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I giudizi dell’algebra sono sintetici (a priori) e ampliativi perché l’algebra è una scienza matematica. Già questo basterebbe a differenziarla dalla logica perché, come Kant afferma in testi precritici, la logica è «una filosofia»93, e in particolare «è una filosofia sulle leggi universali (regole) dell’uso corretto dei nostri intelletto e ragione»94. Questa qualificazione permane in epoca critica con l’aggiunta di una precisazione: la logica è «filosofia formale»95. L’impossibilità di equiparare la logica all’algebra consegue perciò da uno dei punti fermi del pensiero di Kant: la netta separazione della matematica dalla filosofia. Sullo specifico della diversità della logica dall’algebra la LHechsel aggiunge: Alcuni credono che la logica sia un’euristica (arte della scoperta) cioè un organo di nuova conoscenza, col quale si fanno nuove scoperte, così per es. l’algebra è euristica; ma la logica non può essere un’euristica, poiché fa astrazione da ogni contenuto della conoscenza96.

La ragione per cui l’algebra è inventiva è che non fa astrazione da ogni contenuto. L’algebra usa un calcolo letterale (Buchstabenrechnung), ma richiede che se ne dia un’interpretazione relativa a quantità e a “oggetti matematici”. Pertanto l’algebra indirettamente rimanda alla costruzione di concetti che caratterizza la matematica, dove «costruire un concetto significa esibire a priori la corrispondente intuizione»97. Con questa clausola sull’interpretazione, l’algebra può operare sui segni poiché questi sono «vicaria»98, perfetti sostituti degli “oggetti” che ne costituiscono il “contenuto” inteso, ma che l’algebrista può ignorare nel suo procedimento, evitando così errori e ottenendo nuove verità rispetto a tale “contenuto”. La ragione per cui la logica generale pura non è inventiva è che non ha capacità né interesse per il riferimento oggettivo dei concetti su cui opera. Per questo motivo non può di per sé evitare sofismi come il seguente: «Una volpe è un animale a 4 zampe. Erode era una volpe Ergo ... In prima propositione proprie, in secunda improprie»99. Questo sillogismo, preso face value, conclude correttamente: “Erode era un animale a 4 zampe”. Solo con un’analisi del contenuto, che la logica non può offrire, emergono i due sensi del termine “volpe”. Naturalmente, una volta che i due sensi di “volpe” siano stati scoperti, il sillogismo si rivela viziato da una quaternio terminorum e l’inflessibile canone logico lo respinge come formalmente scorretto. 93

LPhilippi, AA XXIV 319. Refl 1579 AA XVI 20. 95 Cfr. GMS, AA IV 387. 96 LHechsel, ms. 9, p. 279. 97 KrV, A713/B741. 98 Cfr. Refl, AA XV 818. 99 Refl 3241, AA XVI 729. 94

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Certo, l’uso di segni sull’esempio dell’algebra potrebbe rendere più perspicua la struttura dei sillogismi ma, dal momento che Kant non vede la possibilità di una lingua artificiale che esprima in maniera inequivocabile i singoli pensieri100, l’uso di segni letterali non gli sembra un mezzo né per evitare i sofismi in cui cadiamo usando il linguaggio ordinario101, né per scoprire verità. Se le cose stanno così, mentre i capitoli psicologici, metafisici e antropologici che si è cercato di aggiungerle non solo non hanno ampliato la logica, ma ne hanno falsato la vera natura di scienza generale e pura, i calcoli logici non sono contrari alla natura della logica: semplicemente non la ampliano perché loro stessi non sono ampliativi. Non potrebbe la logica progredire in futuro? Kant contempla la possibilità che un sistema chiuso cresca «dall’interno», al pari degli organismi che crescono senza aggiunte di nuove parti102. Applicando questa concezione alla logica, si potrebbe dire che una certa crescita in logica è possibile, purché nei confini di una struttura sistematica. Ma qui sta la vera difficoltà: le caratteristiche della necessità, autonomia, e formalità, che Kant ha argomentato essere proprie della logica generale pura, prive come sono di un ancoraggio alla dottrina degli enti e alla psiche predeterminata degli esseri umani, non comportano necessariamente che nulla le si possa aggiungere103. Nel mutato clima degli studi sul rapporto fra logica e psicologia, R. Hanna che, sia pure con molti distinguo, dice di essersi ispirato a Kant, sostiene che la logica «è il risultato di operazioni costruttive di una capacità cognitiva protologica innata che è necessariamente condivisa da tutti gli animali umani razionali, ed è governata da principi categoricamente normativi»104. Perciò non esita ad affermare ciò che solo qualche tempo fa sarebbe stato considerato stravagante: «Kant sosteneva del tutto correttamente che la logica dai tempi di Aristotele non aveva fatto progressi in alcuna delle sue caratteristiche essenziali»105. Tuttavia, nonostante alcune somiglianze, le 100 Cfr. PND, I, p. 390, dove Kant manifesta i suoi dubbi sulla realizzabilità dell’ars characteristica combinatoria di Leibniz, pur ritenendone pragmaticamente utile la ricerca. Cfr. pure, ibidem, lo sferzante giudizio sul tentativo di Darjes di simbolizzare il principio di contraddizione. 101 Cfr. KrV, A424-5/B452: in matematica «non si dà la possibilità che una falsa asserzione si occulti o si renda invisibile, dovendo le dimostrazioni procedere sempre sul filo dell’intuizione pura e mediante una sintesi evidente in ogni caso». 102 KrV, A832/B860 103 Non tratterò della questione della completezza della tavola dei giudizi di cui si è occupata un’importante sezione degli studi kantiani, sia perché ciò richiederebbe un’analisi puntuale dei testi impossibile in questo saggio, sia perché stiamo focalizzando l’attenzione sulla completezza della logica in generale, a iniziare dai suoi principi formali. 104 R. Hanna, Rationality and Logic, MIT Press, Cambridge MA 2006, p. ix. 105 Ivi, p. 31.

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dottrine di Kant che abbiamo esaminato impediscono di giustificare la completezza della logica con un simile appello all’innatismo. Ma soprattutto tali testi non consentono di accogliere la teoria di Hanna secondo cui si accede consciamente alla protologica attraverso l’«intuizione logica», che «è parte intrinseca della facoltà logica innata»106. Per quanto Hanna cerchi di qualificare questa intuizione in maniera che sia intesa come un’attività mentale, nessuna torsione del significato kantiano di “intuizione” può sostituirla all’intelletto speculativo nell’indispensabile funzione di acquisire e contemplare in abstracto le regole logiche. Comunque il fatto che la concezione di Kant sia seriamente presa in considerazione dopo che per decenni il dibattito sulla filosofia della logica si è svolto all’insegna di “de Kantio nihil nisi male”, produce un certo sollievo. Ciò non tanto perché la concezione di Kant sia senza difetti, ma perché le si deve riconoscere il coraggio, di cui tutti si sono poi avvantaggiati, di uno strappo rispetto alla tradizione compiuto nell’inseguire l’ambizioso progetto di sostituire la verità trascendentale di Wolff con una nuova verità trascendentale svincolata dalla dimensione del trascendente, progetto che ha prodotto proprio quella, allora inedita, concezione della logica. 3. L’incidenza della concezione di epoca critica sul dettato della logica e sulla filosofia di Kant Date le caratteristiche che le competono, la logica generale pura è il canone che, sotto il profilo della forma, «deve contenere soltanto leggi generali a priori che sono necessarie e riguardano l’intelletto in generale»107. Ciò esclude che la logica possa essere uno strumento, un organo108, che permetta per sua sola virtù di «formulare giudizi su oggetti»: ciò non è consentito a nessuno, «salvo che non abbia prima proceduto, al di fuori della logica, a procurarsi una precisa informazione intorno agli oggetti stessi»109. Secondo Kant il canone logico è stabilito scomponendo, cioè analizzando, l’«intera opera formale dell’intelletto e della ragione nei suoi elementi»110: in questo senso la logica canonica è analitica e trova la sua collocazione nella Dottrina degli elementi. Kant però prevede, a complemento della 106

Ivi, p. 167. Log, AA IX 13-14, cfr. KrV, A53/B77. 108 Sulla comparsa del termine canone nelle Reflexionen logiche e sulla contrapposizione canone/organo, cfr. S. Carboncini-R. Finster, Das Begriffspaar Kanon-Organon. Seine Bedeutung für die Entstehung der kritischen Philosophie Kants, «Archiv für Begriffsgeschichte», XXVI (1982), pp. 46 sgg. 109 KrV, A60/B85. 110 KrV, A60/B84. Cfr. Refl 1602, AA XVI 32 (1773-75): «non ogni analysis dà un canon, ma solo quella delle operazioni essenziali e elementari dell’intelletto e della ragione». 107

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Dottrina degli elementi, anche una Dottrina del metodo. Questa sistemazione della trattazione – definitivamente stabilita in epoca critica, come dimostra la presenza dei termini Elementarlehre e Methodenlehre negli scritti a stampa di Kant solo a partire dalla prima edizione della KrV111 – procura una sede ad argomenti che non sono di competenza del canone formale112. Il vantaggio di questa sistemazione è che così, fuori della Dottrina degli elementi, Kant può dedicarsi a temi di filosofia della logica, di epistemologia e, in generale, del vasto ambito della logica applicata. Questa è una parte della logica generale, e dunque non concerne oggetti, ma non è soggetta al divieto di evitare contatti con psicologia: «una logica generale si dice [...] applicata allorché ha in vista le regole dell’uso dell’intelletto sotto le condizioni empiriche soggettive insegnateci dalla psicologia»113. Nell’ambito della logica applicata Kant è libero di occuparsi delle interazioni dell’intelletto con altre facoltà dell’animo, con la consapevolezza di non stare lavorando a una scientia scientifica, ma di contribuire a chiarire, ad esempio, il tema degli errori e dei pregiudizi, soffermandosi persino, soprattutto nelle fasi tarde del suo insegnamento, sulla questione di una metodica euristica, ovviamente privata della pretesa di essere strumento infallibile di scoperta avanzata dai fautori dell’algebra della logica114. Di ciò non è possibile parlare qui, come non è possibile intrattenersi sullo specifico della Dottrina degli elementi, in cui è racchiuso il canone logico. Si può solo accennare al fatto che anche in questo ambito Kant non si limita a raccogliere passivamente teorie acquisite. Basti pensare alla scomparsa delle specie infime nella dottrina dei concetti115, alla nuova classificazione delle inferenze in inferenze dell’intelletto (consequentiae immediatae), inferenze della ragione (sillogismi) e, in epoca vicina alla KU, inferenze della facoltà di giudizio riflettente (induzione e analogia)116. Tratteremo invece, restando nell’ambito della concezione della logica generale pura di cui ci stiamo occupando, di alcuni notevoli cambiamenti che tale concezione introduce nel dettato della disciplina (§§ 3.1. e 3.2.), e

111 Cfr. N. Hinske, Kant-Index, vol. 14: Personenindex zum Logikcorpus, in collab. con H. P. Delfosse e E. Reinardt, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1991, p. LII. 112 Di fatto tali argomenti vengono affrontati non solo nell’ambito della Dottrina del metodo, ma soprattutto nelle amplissime introduzioni alla Dottrina degli elementi nelle quali Kant si intratteneva a lungo, assecondando così anche le peculiarità del manuale meieriano. 113 KrV, A53/B77. 114 Cfr. M. Capozzi, Kant on Heuristics as a Desirable Addition to Logic, in Demonstrative and Non-Demostrative Reasoning in Mathematics and Natural Science, ed. by C. Cellucci-P. Pecere, Edizioni dell’Università degli Studi di Cassino, Cassino 2006, pp. 123-181. 115 Cfr. Log, AA IX 97, § 11, Oss. Cfr. anche, ad esempio, LPölitz, AA XXIV 570, KrV, A655/B683-4. 116 Cfr. Log, AA IX 115 sgg., 120 sgg., 131 sgg.

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di alcuni punti nodali della filosofia di Kant sui quali tale concezione incide in maniera determinante (§§ 3.3. e 3.4.). 3.1. L’esclusione della dialettica dalla logica Un notevole cambiamento del contenuto dottrinale della logica nasce dalla decisione di Kant di escluderne la dialettica. La ragione più nota di tale decisione è la connessione della dialettica con la retorica: una dialettica retorica è un’arte volta ad ingannare gli avversari nelle controversie, non solo senza preoccuparsi della verità, ma proponendosi di produrre la parvenza [Schein] della verità, al solo fine di conquistare il consenso. Quest’arte, moralmente deprecabile117, è ingannevole perché si presenta sotto le mentite spoglie di una logica avente un valore strumentale (che alla logica come scienza canonica è vietato), traendo profitto dal fatto che «è possibile parlare in forma logica di una cosa di cui non si capisce nulla, cioè ammassando inferenze su inferenze ecc. – e con ciò chi ascolta è ingannato. Così la logica è mal usata come arte, e diviene organo, ma non della verità»118. Kant però ha anche un’altra ragione per escludere la dialettica dalla logica, una ragione che s’impone quando approda alla sua concezione definitiva della logica, e che fa capo alla distinzione tra analitica, quale parte della logica che si occupa della verità e della certezza, e dialettica, quale parte della logica che si occupa di ciò che è probabile. L’associazione della dialettica con la probabilità ha radici nel sillogismo dialettico di Aristotele, un sillogismo con premesse fondate su éndoxa, dove éndoxa sono le cose «che appaiono accettabili a tutti, oppure alla grande maggioranza, oppure ai sapienti, e tra questi o a tutti, o alla grande maggioranza, o a quelli oltremodo noti e illustri»119. Il termine greco éndoxos venne tradotto da Boezio con il latino probabile, in ragione del fatto che i sillogismi basati su éndoxa sono argomentazioni che non possono contare sull’evidenza, e dunque richiedono una probatio120. Era dunque naturale per la logica, in quanto dialettica o

117 Cfr. Log, AA IX 17. Cfr. KU, AA V 327, trad. it. di E. Garroni e H. Hohenegger, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino, pp. 162-63: «l’oratoria, in quanto s’intende con essa l’arte di persuadere, cioè di abbindolare mediante la bella apparenza (in quanto ars oratoria) [...] è una dialettica che prende in prestito dall’arte della poesia solo quel tanto che è necessario per guadagnare gli animi all’oratore, a suo vantaggio, prima che essi giudichino, e sottrarre loro la libertà; e quindi non può essere consigliata né per i banchi dei tribunali, né per i pulpiti». 118 LWiener, AA XXIV 793. 119 Cfr. Aristotelis, Topica et Sophistici Elenchi, ed. by W.D. Ross, Clarendon Press, Oxford 1958, Top., I, 1, 100 b 21-23. 120 Cfr. A. Maierù, Terminologia logica della tarda scolastica, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1972, pp. 398 sgg.

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avente una parte dialettica, occuparsi della probabilità di cui era stata depositaria per secoli121. Anche Meier divide la logica in analitica o «logica dell’erudizione completamente certa», e dialettica o logica probabilium, definita come la logica «della conoscenza erudita probabile»122. Tuttavia Meier sostiene che quest’ultima «deve essere ancora scoperta»123, riprendendo l’auspicio di molti che si costituisse una nuova logica della probabilità, capace di superare la dottrina aristotelica (e quelle degli umanisti che connettevano la probabilità alle arti della parola) e di avvantaggiarsi dei risultati ottenuti nel calcolo delle probabilità a iniziare dalla fine del XVII secolo124. Una tale logica sarebbe stata di grande utilità nella misura in cui non si fosse limitata alle pur importanti applicazioni alle teorie dei giochi e ai rilievi statistici, ma fosse stata in grado di trattare tutti i casi di incertezza, per esempio nei campi della giustizia, della politica, o in generale della vita pratica. Nella LBlomberg la connessione della probabilità con la dialettica non è esplicitata, ma è certamente accolta in quanto, da un lato, si dice che «la logica tratta o delle regole della conoscenza erudita certa o di quella probabile, quest’ultima si chiama Logica probabilium»125, dall’altro lato, viene fatta una distinzione fra un modo di conoscenza dogmatico, relativo a ciò che è apoditticamente certo, e un modo di conoscenza dialettico, relativo a tutto quanto non è apoditticamente certo (e che quindi include il probabile)126. Tuttavia la LBlomberg presenta la logica probabilium come un desideratum, poiché afferma che «Bernoulli ne ha scritta una, certamente, ma questa non è altro che una matematica applicata a casi di fortuna [Glücks-

121

Cfr. per tutte la sistemazione di J.J. Brucker, Historia critica philosophiae a mundi incunabulis ad nostram usque aetatem deducta, 6 voll., Lipsiae 1766-672, rist. anast., Historia philosophiae, hrsg. von R. H. Popkin-G. Tonelli, 5 voll., Olms, Hildesheim-New York 1975, I, p. 805: alla logica aristotelica sono attribuiti due fini e due parti: «verisimile ac verum, sive veritas probabilis et certa. Ad illam tendit dialectica, quae probabilibus ratiocinibus de veritate disserit; ad hanc analytica, quae certis demostrationibus nititur». 122 G.F. Meier, Auszug, § 6, AA XVI 72. 123 G.F. Meier Vernunftlehre, Gebauer, Halle 1752, § 12. 124 Nel 1765 l’auspicio sarà amplificato dalla publicazione dei Nouveaux Essais, dove Leibniz critica la nozione di éndoxos e invita a ricavare il probabile dalla natura delle cose, ispirandosi alle rilevazioni statistiche, alle medie nelle misurazioni e ai calcoli nei giochi d’azzardo. Si sarebbe così reperita «une balance necessaire pour peser les apparances et pour former là dessus un jugement solide», e di sarebbe costituita «une nouvelle espece de Logique», cfr. Die philosophischen Schriften von Gottfried Wilhelm Leibniz, hrsg. von C.I. Gerhardt, 7 voll., Berlin 1875-90, rist. anast. Olms, Hildesheim 1960-61, vol. V, lib. iv, cap. ii, § 14. 125 LBlomberg, AA XXIV 38. 126 Ivi, AA XXIV 206-07.

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Fälle]»127. Ciò significa che per il Kant di questo periodo la logica probabilium avrebbe dovuto estendersi oltre la matematica dei casi trattata da Bernoulli per diventare uno strumento utile «all’esperire di tutti gli uomini», proprio come sperava Meier. Le lezioni più tarde presentano un cambiamento radicale: «una logica della probabilità (logica probabilium) [...] non è possibile»128. È avvenuto che la nuova concezione della logica porta Kant a limitare la probabilità a ciò che ha caratteri omogenei (o considerabili come tali) e perciò numerabili (le facce di un dado, le ripetizioni di eventi su base statistica), perché solo questi consentono un calcolo. Vanno invece eliminati dall’ambito della probabilità i casi di incertezza basati sulla valutazione di questioni eterogenee che non possono essere numerate, ma solo ponderate: Ogni probabilità la troviamo numerando mediante numerazione oppure ponderando. La prima via richiede l’omogeneità, ad esempio lancio dei dadi […] Ma per risolvere qualcosa, ad esempio una testimonianza, vanno ponderate le ragioni, ad esempio, il testimone è un uomo di buona educazione ecc. Dove le ragioni vengono numerate, posso dire: è probabile, ma dove sono ponderate, posso dire solo: è probabile per me129.

La ponderazione di ragioni eterogenee antagoniste – per esempio una testimonianza, da un lato, e l’attendibilità del teste, dall’altro – non può che essere soggettiva, mentre la caratteristica del calcolo della probabilità è l’oggettività. Anzi, poiché il calcolo opera su elementi omogenei e numerabili, si può rappresentare la probabilità come una frazione esprimente l’esatto rapporto fra il numero dei casi favorevoli e il numero totale dei casi possibili, una frazione il cui valore nulla ha di soggettivo. Perciò, ai fini della chiarezza, Kant vieta di usare per le questioni solo soggettivamente ponderabili il termine «probabilità» (Wahrscheinlichkeit, Probabilität, probabilitas), sostenendo che per esse il termine adeguato è «verosimiglianza» (Scheinbarkeit, verisimilitudo)130. Ciò conferma l’importanza del calcolo delle probabilità, ma chiude ogni possibilità a una logica probabilium, il vagheggiato “strumento logico” da usarsi proprio per questioni solo ponderabili, e chiude anche la possibilità 127 Ivi, AA XXIV 38. Il riferimento è a J. Bernoulli, Ars conjectandi, Impensis Thurnisiorum Fratrum, Basileae 1713, libro che Kant possedeva, cfr. A. Warda, Immanuel Kants Bücher, Breslauer, Berlin 1922, p. 38, n. 1. 128 Log, AA IX 82; LWiener, AA XXIV 880. 129 LDohna, AA XXIV 742. 130 La nozione di verosimiglianza ha radici nelle teorie estetiche, cfr. A.G. Baumgarten, Aesthetica, cit, § 483, che connette la verosimiglianza alla nozione di “verità estetica” e al termine greco eikos. Sulla differenza che per Kant intercorre fa verosimiglianza e probabilità, cfr. M. Capozzi Dialectic, Probability and Verisimilitude in Kant’s Logic, in Atti del Convegno triennale della S.I.L.F.S., Rubbettino, Soveria Mannelli 2001, pp. 31-44.

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di avere una parte speciale della logica denominata “dialettica”. Kant sostiene infatti che, se la probabilità calcolabile determina una verità parziale che differisce dalla verità come una parte dal tutto, e se l’analitica si occupa della verità, allora la probabilità rientra nell’analitica: «Il nostro Autore crede che la dialettica sia logica della probabilità. Questa però è un giudizio sulla verità secondo ragioni corrette, ma insufficienti. Ma se le ragioni sono corrette, essa appartiene all’analitica»131. La critica investe anche gli aristotelici: Presso gli aristotelici la logica veniva distinta in analitica e dialettica, cioè secondo la definizione dell’Autore in logica 1. della conoscenza certa e 2. della conoscenza probabile. Ma non la si può distinguere così in maniera sufficientemente completa: infatti entrambe hanno con questa forma per oggetto la verità e differiscono solo in vista della certezza, in quanto si è esibita l’una mediante ragioni insufficienti, l’altra mediante ragioni sufficienti. La definizione appropriata dell’analitica e della dialettica deve essere questa: l’analitica è la logica della verità la dialettica è la logica della parvenza132.

Questo passo ha il pregio di chiarire che la dialettica in quanto logica probabilium è una logica della parvenza proprio come lo è la dialettica in quanto arte oratoria usata nelle dispute. Si pensi al processo indiziario dove le ragioni eterogenee antagoniste sono sostenute dagli artifici dialettici degli avvocati delle parti che, con l’arte oratoria ricca di argomenti verosimili ammantati di forma logica, cercano di ottenere una parvenza di verità che faccia pendere a proprio favore la bilancia di chi giudica. Per converso se, in casi come questi, chi giudica crede di possedere un organon logico (la presunta logica probabilium), che gli permette di stabilire che una delle parti possiede una verità, certo parziale, ma misurabilmente maggiore della parte avversa, e dunque oggettivamente più probabile, allora costui è vittima della parvenza: costui non riconosce che dovrebbe dire “è probabile per me”, ammettendo l’elemento soggettivo (pur in buona fede) di quella che è solo una ponderazione, o che dovrebbe, come sarebbe preferibile, astenersi dall’uso improprio del termine “probabilità”. Kant paventa i rischi che una dialettica male intesa come dottrina della probabilità fa correre alla filosofia, visto che «nelle conoscenze filosofiche, a causa dell’eterogeneità delle ragioni, non si può valutare la probabilità»133. Perciò pone un’avvertenza nella pagina iniziale della Dialettica trascendentale della KrV: Sopra abbiamo chiamato la dialettica in generale logica della parvenza. Ciò non sta a significare che essa sia una dottrina della probabilità [Wahrscheinlichkeit]; 131

Cfr. LWiener, AA XXIV 794. Cfr. LBusolt, AA XXIV 612, cfr. pure LHechsel, ms.14, p. 284. 133 Log, AA IX 82. 132

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questa è difatti una verità conosciuta senza ragioni sufficienti, la cui conoscenza, pur essendo difettosa, non è per questo erronea, e risulta quindi inscindibile dalla parte analitica della logica134.

La collocazione di questo testo è significativa: nell’introdurre la parte dell’opera che discute i contrasti in cui viene coinvolta la ragione quando affronta l’oceano della parvenza che circonda l’isola della verità, Kant sbarra subito la via di fuga che si potrebbe percorrere se si potesse stabilire, almeno in via di principio, che una fra le tesi contrapposte possa essere “più probabile” dell’altra, in base agli insegnamenti dell’arte dialettica applicata all’incerto nelle dispute135. Per Kant il filosofo quando si occupa delle idee di ragione, alle quali nulla corrisponde nell’intuizione a priori o a posteriori, deve affrontare e risolvere direttamente le difficoltà e gli inganni che ciò comporta. Ma in tanto può imporre questo difficile compito, in quanto, con un mutamento sostanziale della sua concezione precritica, ha spezzato il legame esistente nella tradizione logica fra la dialettica e la probabilità, ridefinendo quest’ultima nozione e affidandola all’analitica. 3.2. La revisione dell’enunciato del principio di contraddizione Un altro cambiamento del dettato della logica ha luogo quando Kant contesta addirittura l’enunciato aristotelico del principio di contraddizione: «È impossibile che qualcosa sia e non sia nello stesso tempo»136, sostituendolo con: «A nessuna cosa si addice un predicato che le contraddica». Il motivo di Kant per eliminare dall’antica formula la determinazione temporale è che essa fa intendere il principio come se dicesse: “Una cosa (A), che è qualcosa (B), non può essere nello stesso tempo non B, ma può tuttavia essere l’una e l’altra cosa (tanto B quanto non B), successivamente” [...] Ora, il principio di contraddizione, quale principio semplicemente logico, non deve a nessun titolo circoscrivere le sue enunciazioni a rapporti di tempo; e perciò una formulazione del genere è contraria alla natura di esso137.

Che in tempi diversi un certo soggetto – inteso come qualcosa di esistente – abbia e non abbia un certo predicato è circostanza che non solo non è 134 KrV, A293/B349. Non posso seguire la traduzione di Chiodi che rende Wahrscheinlichkeit con “verosimiglianza”, invece che con “probabilità”, facendo perdere totalmente il senso della tesi di Kant su questa decisiva questione. 135 Cfr. Prol, AA IV 369: non vi è «nulla di più assurdo che volere in una metafisica, cioè in una filosofia tratta dalla pura ragione, fondare i propri giudizi sulla probabilità [Wahrscheinlichkeit]». 136 KrV, A151/B190. 137 KrV, A152-53/B191-92. Cfr. F. Volpi, Kants Elision der Zeit aus dem Satz vom Widerspruch, Akten des 5. Internationalen Kant-Kongresses. Mainz 4-8 April 1981, Teil I.1: Sektionen I-VII, hrsg. von G. Funke, Bouvier, Bonn 1981, pp. 179-185.

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accertabile, ma non è nemmeno contemplabile ad un livello puramente formale: Il mutamento è il raccoglimento, nell’esistenza di una medesima cosa, di determinazioni opposte contraddittorie. Ma in qual modo sia possibile che ad uno stato faccia sèguito nella medesima cosa lo stato opposto, la ragione non soltanto non è in grado di comprenderlo senza un esempio, ma neppure di renderselo intelligibile senza intuizione138.

Solo un principio di contraddizione privo di una determinazione temporale può essere «la condizione universale, benché soltanto negativa, di tutti i nostri giudizi in generale»139, e solo un principio di contraddizione così riformulato può entrare a pieno titolo nella terna dei principi logici che Kant considera criteri formali di verità. 3.3. Tutti i principi logici sono criteri solo formali di verità. La differenza fra Urtheil e Satz Kant contempla tre principi logici quali criteri formali di verità. Tuttavia egli li presenta anche come criteri formali della modalità dei giudizi: 1) il principio di contraddizione (per giudizi problematici); 2) il principio di ragione sufficiente (per giudizi assertori); 3) il principio del terzo escluso (per giudizi apodittici)140. Per apprezzare pienamente questa presentazione e per vedere in concreto come Kant preservi il carattere formale di tutti e tre i principi, dobbiamo preliminarmente accennare alla distinzione istituita da Kant fra giudizio (Urtheil) e proposizione (Satz), in aperto contrasto con la tradizione logica tedesca. Infatti, per Wolff la differenza fra iudicium e propositio è la differenza fra l’atto mentale e la sua espressione linguistica: «judicium est actus mentis […] propositiones […] non sunt nisi combinationes terminorum»141. Questa concezione era molto diffusa all’epoca. Non stupisce perciò che fosse adottata da Meier: «Un giudizio [Urtheil] che è designato mediante termini si chiama proposizione [Satz] (propositio, enunciatio)»142. Kant respinge questa concezione con un esplicito richiamo a quella imprescindibile connessione di pensiero e linguaggio emersa quando paragona la logica con la grammatica: «I logici definiscono una proposizione per iudicium verbis 138

KrV, B298. KrV, A151/B190. 140 Cfr. Log, AA IX 52-53. 141 C. Wolff, Logica latina, § 42. Cfr. pure ivi, § 41: «siamo soliti anche esprimere il giudizio con le parole e ciò allora lo chiamiamo enunciare [enunciare] ossia proporre [proponere]. Pertanto l’enunciazione [enunciatio] o la proposizione [propositio] è il discorso [oratio] con cui indichiamo ad un altro ciò che conviene alla cosa oppure non le conviene». 142 G.F. Meier, Auszug, § 462, AA XVI 828. 139

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prolatum, il che però è falso, noi non giudicheremmo affatto se non avessimo parole»143. Kant istituisce una nuova distinzione: usa Urtheil/iudicium come termine generico per qualsiasi tipo di giudizio, ovviamente espresso linguisticamente, e riserva Satz/propositio al giudizio modalmente assertorio (e al giudizio modalmente apodittico). La LDohna dichiara: «Proposizione – judicium verbis prolatum – no – proposizioni solo assertori»144. Perciò è possibile avere giudizi che non sono proposizioni, cosa che avviene con i giudizi problematici: la Critica ha fatto rilevare la differenza tra giudizi problematici e giudizi assertori. Un giudizio assertorio è una proposizione. I logici non fanno affatto bene a definire una proposizione come un giudizio espresso con parole; infatti, anche per i giudizi che non facciamo valere come proposizioni dobbiamo servirci, nei pensieri, delle parole145.

Alla luce di queste considerazioni, esaminiamo i principi logici nella loro duplice funzione di criteri formali di verità e di modalità dei giudizi. Il primo criterio richiede che fra i termini di un dato giudizio (categorico) non vi sia contraddizione, nel qual caso il giudizio è logicamente possibile e può essere espresso come giudizio problematico, perché i giudizi problematici non pretendono di determinare il valore di verità del proprio enunciato146. Il secondo criterio si applica a qualsiasi giudizio abbia soddisfatto il principio di contraddizione e richiede che ci sia una ragione (Grund) sufficiente per determinarne il valore di verità. Se questa ragione esiste (o si ritiene di averne una), si può esprimere un giudizio assertorio, cioè un Satz o proposizione. Il terzo criterio si applica quando, essendo stati soddisfatti i due precedenti, si è anche in grado di sapere che l’opposto del giudizio esaminato è falso. Il tal caso, in virtù del principio del terzo escluso, il giudizio potrà essere espresso non solo come un Satz, ma come Satz apodittico147.

143 LPölitz, AA XXIV 580. Cfr. pure Log, AA IX 109, § 30, Oss. 3: la distinzione usuale fra giudizio e proposizione è scorretta poiché «senza parole noi non giudicheremmo affatto»; LWiener, AA XXIV 934: «quando […] i logici dicono: un giudizio è una proposizione [se è] rivestito di parole: ciò non vuol dire nulla e questa definizione non serve a nulla. Infatti come potete pensare giudizi senza parole?». 144 LDohna, AA XXIV 781 (fra i segni < > c’è un’aggiunta sopra il rigo). 145 ÜE, AA VIII 193-94 nota, trad. it. di C. La Rocca, Su una scoperta secondo la quale ogni nuova critica della ragion pura sarebbe resa superflua da una più antica, Giardini, Pisa 1994, pp. 67-68 nota. 146 Cfr. KrV, A 77/B101. 147 Cfr. Refl 2167, AA XVI 257 (1778-80): principium contradictionis: possibilità dei giudizi; rationis: verità; assertoriamente; disjunctionis: necessità; apoditticamente, perché l’opposto è impossibile».

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Qui si apre un’interessante questione. Kant sostiene nella KrV che il principio di contraddizione è condizione di verità sufficiente nel caso dei giudizi analitici: «se il giudizio è analitico, affermativo o negativo, la sua verità deve in ogni caso poter essere sufficientemente conosciuta in virtù del principio di contraddizione»148. Ciò significa forse che la differenza fra i giudizi analitici e i giudizi sintetici è riducibile al fatto che ai giudizi analitici è sufficiente il rispetto del principio di contraddizione, mentre i giudizi sintetici devono soddisfare anche il principio di ragione inteso come il principio leibniziano delle verità di fatto? Kant risponde negativamente attraverso l’esame del giudizio analitico “ogni corpo è divisibile”. Questo giudizio non è contraddittorio perché il predicato della divisibilità è contenuto nel concetto del soggetto. Ma se lo possiamo asserire come un Satz è perché possediamo una ragione sufficiente per farlo: «la proposizione “ogni corpo è divisibile” ha senza dubbio un fondamento in se stessa, cioè essa può essere considerata come conseguenza del predicato a partire dal concetto del soggetto»149. Dunque, sebbene la ragione consista nell’essere il predicato contenuto nel concetto del soggetto, “ogni corpo è divisibile” soddisfa il principio di ragione. Di più: “Ogni corpo è divisibile” non solo è una proposizione, ma è una proposizione apodittica. È vero che nella KrV Kant lega anche l’apoditticità dei giudizi analitici al principio di contraddizione, sostenendo che in un giudizio analitico, posseggo a priori tutte le condizioni del giudizio già nel concetto del soggetto, «dal quale non ho che da ricavare il predicato secondo il principio di contraddizione, e così acquistare coscienza delle necessità del giudizio»150. Tuttavia egli afferma pure che in qualsiasi giudizio analitico «l’opposto verrà sempre giustamente negato, mentre il concetto [il predicato] stesso verrà necessariamente affermato [...] perché il suo opposto contraddirebbe l’oggetto [il soggetto]»151. Dunque “ogni corpo è divisibile” è una proposizione apodittica perché soddisfa anche il principio exclusi medii inter duo contradictoria. Donde la critica di Kant ai metafisici d’avere omesso il principio del terzo escluso dall’elenco dei principi logici, col risultato di non riuscire a dare conto compiutamente delle tre modalità dei giudizi152. Con questa spiegazione Kant dissipa il sospetto di un’imbarazzante disparità fra i principi logici confermando che essi «astraggono interamente da tutto ciò che riguarda la possibilità dell’oggetto»153, e dunque tutti e tre valgono per giudizi qualsivoglia. Sotto questo profilo, non solo non è rile148

KrV, A151/B190. Cfr. FM, AA XX 278, trad. it. cit., p. 86. 150 KrV, B12. 151 KrV, A151/B190-91. 152 Cfr. FM, AA XX 278, trad. it. cit., p. 87. 153 Cfr. ÜE, AA VIII 194, trad. it. cit., p. 68. 149

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vante la distinzione fra giudizi analitici e sintetici, ma dei giudizi sintetici «la logica neppure ha bisogno di conoscere il nome»154. 3.4. La formalità della logica generale come un suo limite La rassicurazione che i principi logici si applicano senza distinzione di oggetti, e dunque vengono tutti invocati e soddisfatti dai giudizi analitici, solleva un quesito quasi speculare, e cioè che i giudizi analitici, proprio perché sono Sätze apoditticamente veri in base ai tre principi logici, siano da considerarsi svincolati dalle condizioni di validità oggettiva, alle quali perciò sarebbero sottoposti solo i giudizi sintetici. Troviamo la risposta di Kant a questo quesito in un’osservazione della KrV apparentemente dedicata a tutt’altro. L’osservazione riguarda infatti la libertà che abbiamo, da un punto di vista logico, di stabilire i ruoli del soggetto e del predicato in un giudizio categorico: si può passare da “Tutti gli A sono B” a “Qualche B è A” con una conversio per accidens, cioè un Verstandesschluß che opera un mero cambiamento di forma logica155. Tuttavia, Kant avverte che ai fini della conoscenza occorre stabilire quale dei concetti debba essere considerato come soggetto e quale come predicato: la funzione del giudizio categorico era quella del rapporto del soggetto col predicato, ad esempio: tutti i corpi sono divisibili. Ma, rispetto all’uso puramente logico dell’intelletto, non risulta determinato a quale dei due concetti si voglia attribuire la funzione di soggetto e a quale quella del predicato; si può infatti dire egualmente: qualche divisibile è un corpo. Ma con la categoria di sostanza, se io sottopongo ad essa il concetto di un corpo, resta determinato che l’intuizione empirica di questo corpo nell’esperienza deve venir sempre considerata soltanto come soggetto e giammai come semplice predicato156.

Questo passo spiega innanzitutto che, quando parla di qualcosa che deve esistere solo come soggetto, Kant parla di qualcosa che sia sottoponibile alla categoria di sostanza, e quindi sia considerabile come sostanza/soggetto che sussiste nel mutare degli accidenti/predicati. L’interesse di questo passo risiede però negli esempi scelti da Kant: «tutti i corpi sono divisibili» e il suo converso per accidens «Qualche divisibile è un corpo», cioè due giudizi analitici, che sappiamo essere proposizioni apodittiche in virtù della loro ottemperanza ai tre principi logici157. Que154

KrV, A154/B193. Cfr. Log, AA IX 114-120. 156 KrV, B129. 157 “Qualche divisibile è corpo” soddisfa i tre criteri formali di verità: è non contraddittorio; c’è un Grund logico consistente nel rapporto di contenimento completo fra “corpo” e divisibile; il suo contraddittorio, “Nessun divisibile è corpo”, è falso. Cfr. Refl 4280, AA XVIII 494 (primi anni Settanta o 1776-84): «Tutte le proposizioni particolari sono sintetiche, ma non 155

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sta scelta rende palese che per predicare di un certo corpo persino la divisibilità (un predicato che tutti sanno appartenere analiticamente al concetto di “corpo’) occorre rifarsi alle medesime condizioni alle quali devono sottostare le proposizioni sintetiche per avere validità oggettiva158. In particolare, occorre coinvolgere la categoria di sostanza e accidente o, più precisamente, un principio dell’intelletto puro (la prima analogia dell’esperienza) che, grazie a un’apposita determinazione temporale (lo schema trascendentale della permanenza di ciò che sussiste mentre gli accidenti mutano), consenta di applicare la categoria di sostanza e, viceversa, di sussumere ad essa il “soggetto” in questione. Possiamo ora concludere. Abbiamo visto come Kant plasmi la sua concezione della logica in accordo con le sue tesi filosofiche di fondo, introducendo cambiamenti sostanziali nei rapporti accreditati fra la logica, l’ontologia e la psicologia, e modificando aspetti qualificanti della disciplina, come sono l’esclusione della dialettica e la riformulazione dell’enunciato del principio di contraddizione. Il caso dei giudizi analitici, da ultimo, ha posto in luce, da un lato, l’autonomia della logica generale pura, dall’altro lato ne ha mostrato i limiti nel momento in cui vogliamo servirci della conoscenza analitica contenuta in “tutti i corpi sono divisibili” per applicarla a qualche oggetto di esperienza, per poter dire, ad esempio, che questo corpo che intuiamo è divisibile. Qui non solo dobbiamo procurarci un’informazione «fuori della logica»159, ma dobbiamo tener conto delle condizioni imposte dalla logica trascendentale160. Condizioni che non avrebbero potuto sussistere se Kant non avesse sottoposto la logica al cambiamento profondo di cui abbiamo cercato di seguire i passi, e dei cui esiti i filosofi della logica non hanno mai smesso di interessarsi.

tutte le universali sono perciò analitiche. Se una proposizione particolare è analitica, allora la particolarità è una vuota limitazione», e quest’ultimo è il caso di “Qualche divisibile è corpo”. 158 Nei MAN, AA IV 475 nota, Kant svolge considerazioni analoghe a proposito del giudizio sintetico “la pietra è dura”. 159 KrV, A60/B85. 160 Cfr. B. Longuenesse, Kant and the Capacity to Judge. Sensibility and Discursivity in the Transcendental Analytic of the “Critique of Pure Reason”, Princeton U.P., Princeton-Oxford 1998, pp. 78-79: «i giudizi possono non avere una relazione con l’intuizione sensibile. In tal caso non è coinvolta alcuna categoria», e un tal caso è fornito dai giudizi analitici. A mio parere è più corretto dire che i giudizi analitici non coinvolgono le categorie schematizzate e rese applicabili con un riferimento alla forma dell’intuizione.

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Antonio Moretto

Matematica*

0. Introduzione In questo saggio si esamina la fondazione della geometria e dell’aritmetica in Kant, avendo come riferimento principale la proposta presentata nella Critica della ragion pura, ma tenendo in considerazione anche altri contributi kantiani1. La prima parte è dedicata a una valutazione della concezione kantiana delle definizioni, degli assiomi e postulati, infine delle dimostrazioni, nozioni che caratterizzano il metodo matematico. Seguono due parti, scelte per il rilievo e per la compattezza del tema affrontato, nelle quali si confronta la concezione di base della matematica proposta da Kant con due importanti temi che su questa si innestano. La prima è dedicata al problema della sistemazione della teoria delle parallele, motivata da proposte alternative rispetto all’impostazione euclidea; l’altra è dedicata al problema della fondazione della teoria dei numeri: numeri naturali, numeri razionali e numeri irrazionali2. Com’è noto la sistemazione della geometria in modo sufficientemente rigoroso risale alla matematica antica. Per questo motivo nel valutare il punto di vista kantiano sulla geometria terremo conto in modo particolare dell’esposizione di questa scienza fatta da Euclide negli Elementi3, confrontandola con quella esposta da Hilbert nelle Grundlagen der Geometrie per ciò che riguarda un punto di vista a noi vicino sul rigore

* Dedico questo lavoro sulla matematica in Kant alla memoria di Imre Toth, maestro ed amico. 1 In questo saggio rielaboro, rivedendo, correggendo, integrando e sviluppando nuove

osservazioni, precedenti contributi apparsi nei saggi: A. Moretto, La grandezza infinita e la teoria euclidea delle rette parallele. Osservazioni sul punto di vista di Johann Schultz e di Kant, in Metafisica e modernità. Studi in onore di P. Faggiotto, a cura di F. Chiereghin e F.L. Marcolungo, Antenore, Padova 1993, pp. 113-133; A. Moretto, Dottrina delle grandezze e filosofia trascendentale in Kant, Il Poligrafo, Padova 1999; Id., Tempo e memoria nella fondazione kantiana della matematica, in Scienza e conoscenza secondo Kant. Influssi, temi e prospettive, a cura di A. Moretto, Il Poligrafo, Padova 2004, pp. 527-551; Id., Philosophie transcendantale et géométrie non-euclidienne, in Kant et les Mathématiques, éd. par F. de Buzon et M. Le Du, «Les cahiers philosophiques de Strasbourg», 26, Second Semestre 2009, pp. 117-139. 2 In questa sede non mi soffermo sulla proposta kantiana per i numeri relativi, rinviando a quanto ho espresso a tale riguardo nel mio saggio Dottrina delle grandezze, cit., pp. 220-224. 3 Euclides, Elementa, post. I.L. Heiberg edidit E.S. Stamatis, Teubner, Leipzig 1969-77, trad. it. Euclide, Gli elementi, a cura di A. Frajese e L. Maccioni, UTET, Torino 1970.

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espositivo4. L’aritmetica raggiunge uno standard soddisfacente per ciò che riguarda il rigore solo alla fine dell’Ottocento, e tra i contributi più significativi ricordiamo quello di Peano (Arithmetices principia)5, che terremo presente nel valutare la proposta kantiana. 1. La fondazione della matematica e il suo metodo secondo Kant La fondazione della matematica secondo Kant esige il concorso di diverse facoltà: la sensibilità, che fornisce le intuizioni, l’immaginazione, che sotto la forma dell’immaginazione riproduttiva (memoria) permette la registrazione delle fasi del processo matematico, e sotto quella dell’immaginazione produttiva permette la costruzione delle figure, e l’intelletto, che fornisce i concetti puri, o categorie. La sola intuizione, che come forma pura si restringe alle rappresentazioni generali dello spazio e del tempo, non permette l’edificazione della matematica; così pure, secondo Kant, non lo permettono da sole le categorie. Essenziale è l’intervento dell’immaginazione produttiva, che realizza il collegamento, secondo Kant necessario, tra la sensibilità e l’intelletto. A questo collegamento si deve la dottrina dello schematismo dei concetti e, subordinata a questa, la dottrina dei princìpi dell’intelletto puro; l’edificazione della matematica si appoggia effettivamente sullo schematismo e sui princìpi dell’intelletto puro. In particolare la geometria ha il suo presupposto trascendentale negli assiomi dell’intuizione. Nella Dottrina trascendentale del metodo della Critica della ragion pura egli afferma che la matematica è conoscenza razionale «per costruzione di concetti», a differenza di quella filosofica, che lo è semplicemente «per concetti». Egli precisa poi che per costruzione di un concetto, ad esempio un triangolo, si intende «la costruzione d’un oggetto corrispondente a questo concetto mercé la semplice immaginazione nella intuizione pura, o, secondo questa, anche sulla carta, nell’intuizione empirica, ma ambedue le volte del tutto a priori, senza averne tolto il modello da nessuna esperienza»6. Egli osserva anche che «determinare nello spazio una intui4 D. Hilbert, Grundlagen der Geometrie, mit Supplementen v. P. Bernays, 12. Auflage, Teubner, Stuttgart 1977. 5 G. Peano, Arithmetices principia, nova methodo exposita, Bocca, Torino 1889. 6 KrV, B 741, trad. it. I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, rev. a cura di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 19853, p. 551. Sul concetto di costruzione in Kant, cfr. W.S. Peters, Widerspruchsfreiheit und Konstruierbarkeit als Kriterien für die mathematische Existenz in Kants Wissenschaftstheorie, «Kant-Studien», 57 (1966), pp. 178-185; W.S. Peters, Zum Begriff der Konstruierbarkeit bei I. Kant, «Archive for History of Exact Sciences», 2 (1963), pp. 153-167; W. Breidert, Geometrische und Symbolische Konstruktion bei Kant, in Akten des 5. internationalen Kant-Kongress, Mainz 4. – 8. April 1981, hrsg. von G. Funke, Bouvier, Bonn 1981, pp. 103-111.

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zione a priori (forma [Gestalt]), dividere il tempo (durata [Dauer]), o semplicemente conoscere l’universale della sintesi di una e medesima cosa nel tempo e nello spazio e la grandezza [Größe] che ne risulta di una intuizione in generale (numero [Zahl]), questo è opera della ragione per costruzione di concetti e si dice [conoscenza] matematica»7. La concezione della costruzione conforme a un concetto la troviamo ancora nello scritto polemico contro Eberhard Su una scoperta secondo la quale ogni nuova critica della ragion pura sarebbe resa superflua da una più antica (1790), in cui Kant dice che la costruzione è pura se avviene «per mezzo della mera immaginazione conformemente ad un concetto a priori»8. Nello stesso saggio egli afferma, come si vedrà, che Archimede «conosceva la regola di costruzione» del concetto di poligono regolare di 96 lati, e la sua capacità di «dare quest’ultimo nell’intuizione in conformità al concetto; e così dimostrava pure la realtà della stessa regola, e dunque anche dello stesso concetto»9. Nello scritto redatto nel 1790 Über Kästners Abhandlungen, egli osserva che la costruzione è la descrizione «che ha luogo a priori tramite l’immaginazione, secondo una regola»10, e che le costruzioni vanno intese come «esibizioni nell’intuizione a priori determinate secondo una regola»11; e utilizzando come esempio la figura solida dell’icosaedro precisa che «ad una regola che l’intelletto pensa viene data, in conformità di quel concetto, una corrispondente intuizione a priori (nell’immaginazione)»12. Il concetto sembra così specificato secondo una regola, alla quale deve conformarsi l’immaginazione13. Questo appare in sintonia con l’illustrazione della nozione di regola che viene data nella prima edizione della Critica della ragion pura: si dice regola la rappresentazione di una condizione universale, secondo cui può essere posto [gesetzt werden kann] (in un unico modo) un certo molteplice; si chiama invece legge se deve esser posto [gesetzt werden muß] così14. Tenendo conto anche dello sviluppo del pensiero di Kant dopo la Critica della ragion pura, la nozione di costruzione è oltremodo complessa, poiché coinvolge le nozioni di intuizione, immaginazione, concetto a priori e re7

KrV, B 752, trad. it. cit., p. 558. ÜE, AA VIII 192 An., trad. it. in I. Kant, Contro Eberhard. La polemica sulla Critica della ragion pura, a cura di C. La Rocca, Giardini, Pisa 1994, p. 65 nota. 9 ÜE, AA VIII 212, trad. it. cit., p. 90. 10 ÜKA, AA XX 411, trad. it. in Kant, Contro Eberhard, cit., pp. 157-158. 11 ÜKA, AA XX 411, trad. it. cit., p. 158. 12 ÜKA, AA XX 414, trad. it. cit., pp. 158, 159. 13 A patto che la costruzione sia possibile. Infatti essa potrebbe risultare impossibile, come accade nel caso della determinazione della distanza minima tra i punti di un’iperbole e del suo asintoto. Su ciò cfr. infra. 14 KrV, A 113. 8

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gola. Egli afferma inoltre che «la solidità della matematica poggia su definizioni, assiomi e dimostrazioni», cosa che vedremo non essere possibile per la filosofia, e anticipa che, a differenza della filosofia, la matematica «è capace di assiomi»15. La costruzione è un elemento necessario secondo Kant sia per le definizioni, sia per gli assiomi, sia per le dimostrazioni della matematica, e per questo motivo sarà opportuno esaminare in che modo i princìpi della matematica vengano intesi da Kant in connessione con la sua nozione di costruzione e confrontandoli con le principali sistemazioni della matematica. Con queste premesse esaminiamo il punto di vista di Kant sulle definizioni, gli assiomi e i postulati. 1.1. Il significato del definire secondo Kant Nella Critica della ragion pura egli sostiene che «definire [definiren]» un concetto ha questo significato: «esporre originariamente [ursprünglich] il concetto esauriente [ausführlichen] di una cosa dentro i suoi limiti [Grenzen]». Kant tiene presente l’etimologia del latino “definire”, da “fines”, limite, e, commentando, osserva che a) l’essere esauriente (Ausführlichkeit) significa la chiarezza (Klarheit) e sufficienza (Zulänglichkeit) delle note (Merkmale) del concetto; b) i limiti (Grenzen) significano la precisione (Präcision), per cui non ce ne sono di più di quelli che convengono al concetto; c) originariamente (ursprünglich) significa che la determinazione del limite (Grenzbestimmung) non deriva (abgeleitet sei) da qualche altra cosa, abbisognando pertanto di una prova16. Kant prende in considerazione tre tipi di concetti: empirici (empirische), dati a priori (a priori gegebene), arbitrariamente pensati (willkürlich gedachte), e ritiene che solo gli ultimi possano essere definiti nel senso da lui specificato, essendo esclusi da questa operazione sia i concetti empirici (ad esempio l’oro), sia quelli dati a priori (ad esempio quelli di sostanza, causa, diritto, equità)17. In conclusione gli unici concetti che si lasciano definire sono «quelli che contengono una sintesi arbitraria, che possa essere costruita a 15

KrV, B 754, 760, trad. it. cit., pp. 560, 564. KrV, B 755, 755 An., trad. it. cit., p. 560 e nota (trad. modificata). Kant tiene presente l’illustrazione del concetto proposta da D’Alembert nell’articolo Élémens des sciences dell’Encyclopédie: «definire è indicare i limiti e i confini di una cosa; così definire un termine significa determinarne e circoscriverne, per così dire, il senso, in modo che non si possano avere dubbi su tale senso, né estenderlo né restringerlo né infine, attribuirlo ad alcun altro termine» (J.-B. D’Alembert, Élémens des sciences, in Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, Chez Briasson, David, Le Breton, Durand, Paris 1755, tome cinquième, p. 493, trad. it. J.-B. D’Alembert, Elementi delle scienze, in Id., Il discorso preliminare all’Enciclopedia, a cura di M. Renzoni, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1978, p. 113. 17 KrV, B 755-757, trad. it. cit., pp. 560-561. 16

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priori; e però soltanto la matematica ha definizioni»18. Si richiede pertanto una sintesi arbitraria, che possa essere costruita a priori (quindi, oltre che arbitraria, intuitiva). Secondo Kant «le definizioni filosofiche non sono se non esposizioni [Expositionen] di concetti dati, le definizioni matematiche invece costruzioni [Constructionen] di concetti originariamente foggiati; e quelle son fatte soltanto analiticamente per scomposizione [Zergliederung] (la cui compiutezza non è apoditticamente certa), queste sinteticamente e fanno [machen] quindi il concetto stesso, laddove le prime soltanto lo spiegano [erklären]». La filosofia non deve imitare la matematica premettendo nel suo procedere le definizioni, proprio perché la filosofia prende le mosse da concetti dati, che sono ancora confusi, e non permettono l’individuazione immediata di tutte le loro note. Le definizioni semmai possono «piuttosto conchiuder l’opera, che iniziarla»19. 1.1.1. Le definizioni in matematica Prima di valutare le osservazioni che vengono proposte da Kant con riferimento ad alcune definizioni matematiche, prendo in esame le definizioni del cerchio e della circonferenza proposte da Euclide e da Wolff. Osservo a questo proposito che la definizione euclidea è la seguente: il cerchio è una figura piana compresa da un’unica linea, la circonferenza, tale che tutti i segmenti di retta condotti da un punto interno [il centro] alla figura fino alla circonferenza sono uguali tra loro20. E Wolff, in Elementa Geometriae, dice: «Circulus est figura plana, linea in se redeunte terminata, ex cujus singulis punctis ad punctum intermedium C, quod Centrum vocari solet, ductae rectae sunt inter se aequales». Come si vede la definizione euclidea e quella wolffiana utilizzano nella definizione la nozione di linea chiusa21. Con riferimento a Kant può esser utile richiamare brevemente la distinzione leibniziana tra le definizioni nominali e quelle reali: le prime contengono soltanto le note della cosa sufficienti a distinguerla da tutte le altre, e le seconde mostrano che la cosa è possibile22. La questione viene ripresa da

18

KrV, B 757, trad. it. cit., p. 562. KrV, B 758-759, trad. it. cit., p. 562. 20 Euclides, Elementa, I, Deff. XV, XVI: la prima definizione riguarda il cerchio e la circonferenza, la seconda il centro. 21 Chr. Wolff, Elementa Geometriae, Cap. I, § 37 (Def. 17), in Id., Gesammelte Werke, II Abteilung, Elementa matheseos universae, Band 29, Tomus I, p. 124. Nei testi di geometria elementare il circolo viene usualmente definito come il luogo geometrico dei punti che hanno uguale distanza da un punto fisso detto centro, vale a dire: tutti i punti che hanno tale distanza appartengono al circolo, e tutti i punti che appartengono al circolo hanno tale distanza. 22 G.W. Leibniz, Meditationes de cognitione, veritate et ideis, in Id., Sämtliche Schriften und Briefe, Reihe VI, Philosophische Schriften, Bd. 4, Teil A, Akademie Verlag, Berlin 1999, 19

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Wolff nella De methodo mathematica brevis commentatio. In questo saggio egli illustra le due tipologie di definizione, quella nominale, che consiste nell’enumerazione delle note sufficienti a distinguere la cosa “mostrata” dalle altre, e quella reale, che è la nozione distinta della genesi della cosa (definizione genetica), ossia in che modo essa può esistere (fieri), ed esemplifica la prima con la definizione del quadrato, come figura quadrilatera, equilatera e rettangolare; la seconda con la definizione del cerchio (circuli) se viene inteso descritto dal moto, nel piano, di un segmento di retta attorno ad un punto fisso23. Nella Logica, al § 191, Wolff chiama nominale la definizione da cui non risulta che la cosa definita è possibile, mentre chiama reale la definizione da cui risulta che la cosa definita è possibile. Oltre a ciò dai §§ 194 e 195 si evince che la definizione reale, sopra data, di circolo, originato dalla rotazione completa di un segmento attorno ad un suo estremo, è anche una definizione genetica, ossia mostra il modo in cui la cosa può sorgere (fieri potest)24. Al § 198 precisa che la definizione nominale consiste nell’elenco distinto delle note sufficienti per distinguere la cosa definita dalle altre, mentre quella reale o genetica è la nozione distinta della possibilità della cosa.25 Nella Nota al § 191 esemplifica questa distinzione considerando nominale la definizione del circolo come figura piana limitata da una linea chiusa, i cui punti sono equidistanti da un punto che sta dentro, da cui non risulta ancora che la figura descritta sia possibile26; e reale la definizione del circolo come la figura generata da un segmento che ruota nel piano attorno ad un suo estremo, da cui risulta già la possibilità del cerchio. Con queste premesse esaminiamo il punto di vista di Kant. Nella Dottrina del metodo egli osserva che, pur non potendo esserci nulla di falso nella definizione, pure può «esservi difetto nella forma (nella veste), ossia rispetto alla precisione», ed esemplifica questo difetto nella definizione della circonferenza come «linea curva di cui tutti i punti sono equidistanti da uno stesso punto (centro)», osservando che in questa definizione «è inclusa senza nepp. 587-589, trad. it. in G.W. Leibniz, Scritti di logica, a cura di F. Barone, Zanichelli, Bologna [s.d.; data di stampa 1968], pp. 227-230. 23 Chr. Wolff, De methodo mathematica brevis commentatio, §§ 17-18, in Chr. Wolff, Gesammelte Werke, II Abteilung, Elementa matheseos universae, Band 29, Tomus I, p. 7. 24 Chr. Wolff, Philosophia rationalis sive Logica, methodo scientifica pertractata, in Chr. Wolff, Gesammelte Werke, II Abteilung, Bd. 1.2, § 191. Sulla definizione nominale e reale / genetica si vedano anche le Note di commento di Bruno Bianco, in Immanuel Kant. Logica di Vienna, a cura di B. Bianco, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 200-203. 25 Chr. Wolff, Philosophia rationalis sive Logica, cit., Bd. 1.2, §§ 191, 198 nota. 26 Ivi, Bd. 1.2, § 191 nota: «Circulus definitur per figuram planam, linea in se redeunte cujus terminatam singula puncta a puncto quodam intermedio aequaliter distant» contiene a mio avviso una svista tipografica, e diventa comprensibile sostituendo «Circulus definitur per figuram planam, linea in se redeunte cujus terminatam singula puncta [...]» con «Circulus definitur per figuram planam, linea in se redeunte terminatam, cujus singula puncta [...]».

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cessità la determinazione [Bestimmung] di curva». Come si vede Kant utilizza il termine “linea curva” al posto di quello euclideo e wolffiano di “linea chiusa”. Da questa osservazione si potrebbe ricavare una definizione di circonferenza secondo Kant, che però non viene esplicitata: la circonferenza è una linea, tutti i punti della quale sono equidistanti da uno stesso punto (il centro)27. Si aggiunga che, stando alle Vorlesungen, per ciò che riguarda la distinzione delle definizioni in reali, genetiche e nominali, Kant si discosta dal punto di vista di Wolff: infatti, nella Wiener Logik viene affermato che «la definizione reale non ha niente a che fare con la genesi, ma soltanto con la possibilità interna della cosa». Nella Logik Pölitz viene considerata invece reale la definizione del circolo come linea i cui punti sono equidistanti dal centro, e si ritiene che la definizione genetica sia invece una conseguenza della prima28. Altre definizioni di figure geometriche risultano implicitamente presenti nel già citato saggio contro Eberhard, in cui Kant prende in esame i poligoni regolari di 96 lati utilizzati da Archimede per giungere alla valutazione approssimata della misura del rapporto tra la circonferenza ed il raggio,29 sulla quale è opportuno dare alcune indicazioni per comprendere meglio il punto di vista kantiano. Se indichiamo con C la misura della circonferenza, e con π il rapporto tra la circonferenza e il diametro (C = πd), vediamo che Archimede, date le successioni l6, l12, l24, l48, l96, …, L6, L12, L24, L48, L96 …, dei perimetri dei poligoni regolari inscritti e circoscritti con numero di lati n = 6, 12, 24, 48, 96, …, dalle limitazioni l6 < l12 < l24 < l48 0, se esiste, tale che x2 = a (x è la soluzione positiva dell’equazione scritta)179. Nell’esempio numerico si considera a = 2, quindi √2 è la soluzione positiva dell'equazione x2 = 2. Kant rileva che è «possibile pensare [denken] un tale numero». 180 Infatti, affinché un numero possa essere pensato, è sufficiente che nel suo concetto non sia contenuta contraddizione, ma la pensabilità non implica ancora l'esistenza del numero nella sua “effettività”181, quindi non implica la 177

Osserva G. Martin che la memoria di Lambert non era stata oggetto di molta attenzione da parte dei matematici dell’epoca, e fu presa in considerazione solo a partire da Gauss; in questo modo risulta degna di nota l’attenzione di Kant per la questione: G. Martin, Arithmetik und Kombinatorik bei Kant, cit., pp.71-73; su ciò cfr. anche G. Büchel, Geometrie und Philosophie. Zum Verhältnis beider Vernunftwissenschaften im Fortgang von der Kritik der reinen Vernunft zum Opus postumum, Berlin-New York 1987, pp. 352-355; entrambi gli autori riprendono le considerazioni sulla recezione del contributo lambertiano esposte da A. von Braunmühl, Trigonometrie, Poligonometrie und Tafeln, in M. Cantor, Vorlesungen über Geschichte der Mathematik, 4 voll., Teubner, Leipzig 1894-1908, qui Band IV, hrsg. v. M. Cantor, p. 448. 178 Rehberg An Kant, in Br, AA XI 205-206. Kant risponde con una lettera, che scrive prima del 25 settembre 1790: Br, AA XI 207-210; trad. it. cit., pp. 236-241. Di questa lettera esistono due abbozzi (Refl, AA XIV 53-59, trad. it. I. Kant, Epistolario filosofico, cit., pp. 242245). Per ulteriori informazioni sulla lettera di Rehberg, sulla risposta di Kant e sugli abbozzi cfr. A. Moretto, Dottrina delle grandezze, cit., pp. 230-241; sugli abbozzi si veda A. Pelletier, Les Réflexions mathématiques de Kant (1764-1800), in Kant et les Mathématiques, cit., pp. 111114; Id., Les Réflexions mathématiques de Kant, in Kant et les Mathématiques, cit., pp. 283-288. 179 Kant aveva considerato preliminarmente il problema di determinare due fattori, x, y il cui prodotto sia uguale ad a, ossia le soluzioni dell’equazione indeterminata xy = a, in cui se a e y sono razionali, anche x = a/y è razionale. Gli esempi kantiani sono numerici: posto a = 15 e y = 3, si ha x = 5; posto a = 15 e y = 2, si ha x = 15/2; posto a = 15 e y = 1/7, si ha x = 105 (in quest'ultimo caso Kant scrive, per una svista nel calcolo, 105/7; cfr. O. Meo, [Nota], in Kant, Epistolario filosofico, cit., p. 237). Egli osserva quindi che, ponendo y = x nell'equazione precedente, xy = a, con a > 0, il problema della risoluzione della equazione indeterminata si muta in quello della ricerca della soluzione dell'equazione di II grado in una sola incognita x2 = a, che può venire espressa anche con l'equazione equivalente, 1 : x = x : a (con x > 0), ossia mediante una proporzione continua in cui x è il medio proporzionale tra 1 e a. In questo modo il problema algebrico di determinare la soluzione dell’equazione equivale in veste “geometrica” alla determinazione della media proporzionale tra due grandezze, e com’è noto è possibile costruire per via elementare la grandezza richiesta. 180 «Es ist also auch möglich eine solche Zahl zu denken». Br, AA XI 208. 181 Per esprimere l’esistenza effettiva di un numero (grandezza numerica) o di una grandezza geometrica, nel senso che il numero, o la grandezza, è effettivamente dato, assegnato,

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sua conoscibilità, ossia la specificazione di come esso viene generato a partire dallo schema del numero secondo una sintesi nel tempo. La scrittura √a è solo «il segno [das Zeichen]» per contrassegnare (bezeichnen) la grandezza «radice quadrata di a», sostiene Kant. Se però si sostituisce ad a il numero 2, allora non si tratta più solo di designare una grandezza “possibile”, ma anche di trovarla (finden)182. La distinzione tra algebra ed aritmetica sembra così consistere nel fatto che nell'aritmetica i numeri vengono effettivamente dati, mentre nell'algebra essi sono solo argomenti, indicati mediante lettere, di possibili operazioni183. √2 non è però un numero razionale, come risulta da classiche dimostrazioni; esso non è pertanto ottenibile mediante lo schema del numero, il quale rende conto della generazione dei numeri naturali e, al più dei numeri frazionari (se si dispone delle frazioni 1/n)184. Però in geometria si riesce ad interpretare √2 con una grandezza (segmento) il cui quadrato misura 2. Questa grandezza è la diagonale di un quadrato il cui lato misura 1. Altre dimostrazioni sono a disposizione traducendo geometricamente la proporzione 1 : x = x : a, ossia con la determinazione della grandezza x media proporzionale tra 1 e la grandezza positiva a, in particolare tra 1 e 2185. Riguardo a √2 le cose vanno pertanto diversamente a seconda che il problema venga affrontato geometricamente, oppure aritmeticamente: geometricamente viene trovata (gefunden) una simile grandezza √2u media proporzionale tra 1u e 2u. Quindi è un concetto cui corrisponde un oggetto, determinabile geometricamente. Però aritmeticamente mediante i numeri razionali non è possibile trovare alcun numero adeguato a rappresentare Kant utilizza il termine «reale [wirklich]» e «dare realmente [wirklich geben]». A questo proposito si vedano la Refl 13 e la Refl 14, in HN, AA XIV 55, 57 (trad. it. in Kant, Epistolario filosofico, cit., pp. 242-243, 244), i due scritti preparatori, che ci sono pervenuti, per la risposta alla citata lettera a Rehberg. Nella prima egli, riferendosi alla determinazione algebrica di √2, osserva che in questo modo si riconduce «sotto una regola la produzione di una grandezza sconosciuta calcolandola, indipendentemente da ogni numero reale [unabhängig von jeder wirklichen Zahl], solo tramite i rapporti dati fra i numeri». Nella seconda egli osserva che l’intelletto, oltre che pensare √2, «può anche darla realmente [wirklich] (nell’oggetto [im Objekt]), per esempio nella diagonale di un quadrato». 182 Br, AA XI 209, 2-5. Dal testo kantiano si vede che il numero è inteso come una grandezza: «so ist x = √a d. i. die Quadratwürzel aus einer gegebenen Größe z.B. √2 ist durche die mittlere Proportionalzahl zwischen 1 und der gegebenen Zahl = 2 ausgedrückt»: Br, AA XI 207, 32 – 208, 2. 183 Dal momento che Kant stesso esemplifica questi problemi con equazioni (a questo infatti conduceva la complessa domanda di Rehberg), sarebbe forse possibile esprimersi in questo modo: nell’algebra vengono prese in considerazione le soluzioni delle equazioni a coefficienti letterali, nell'aritmetica le soluzioni delle equazioni a coefficienti numerici. 184 Cfr. supra. 185 Per la determinazione di x sono a disposizione le note costruzioni della geometria elementare.

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MATEMATICA

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questo concetto: «la domanda è solo: perché per questo quantum non si può trovare alcun numero che rappresenti in modo chiaro e completo la quantità [Quantität] (in rapporto all’unità) nel concetto?»186. Esaminando la questione secondo il punto di vista della filosofia trascendentale, Kant osserva che provoca sorpresa all'intelletto questo fatto: √2 è un concetto geometricamente costruibile, che può essere indicato in modo adeguato nell’intuizione; invece mediante l'aritmetica razionale questo concetto non può essere esibito in modo adeguato nell'intuizione numerica187. Questo problema è equivalente a quello proposto nel Menone di Platone, di trovare la misura del lato del quadrato di area doppia di quella di un quadrato dato: si tratta in definitiva di risolvere l’equazione x2 = 2, trovandone le soluzioni positive. Anche nel dialogo platonico si evidenzia l’asimmetria tra la possibilità di soluzione geometrica, e l’impossibilità di una soluzione aritmetica se si dispone solo dei numeri razionali. Il fatto che non sia possibile ottenere un valore razionale esatto per √2 non comporta che sia una questione trascurabile la ricerca delle sue radici approssimate. Per ottenere le varie cifre della radice quadrata di un numero razionale, esatta o approssimata che essa sia, Kant si sofferma sull’algoritmo della determinazione della radice quadrata di un numero positivo. Riferendosi alla rappresentazione nel sistema decimale e avendo presente la trattazione dell’argomento nei manuali di aritmetica188, Kant osserva che l’algoritmo utilizza la conoscenza dei quadrati dei numeri interi dall’1 al 10, e del teorema dello sviluppo del quadrato del binomio, e che le cifre successive vengono trovate mediante procedimenti di «decisione condizionata» (Kant dice «dobbiamo necessariamente procedere per tentativi [versuchen]»)189. I valori razionali approssimati per difetto a meno di 1, 1/10, 1/100, 1/1000, 1/10000, ... della grandezza √2 sono 1, 1 + 4/10, 1 + 4/10 + 1/100, 1 + 4/10 + 1/100 + 4/1000, 1 + 4/10 + 1/100 + 4/1000 + 2/10000, ... . Sinteticamente possono venire espressi con la serie infinita, 1 + 4/10 + 1/100 + 4/1000 + 2/10000 + ..., della quale i precedenti valori approssimati costituiscono le somme parziali. Secondo Kant la serie infinita non può essere data nella sua completezza, ossia l’espressione √2 = 1 + 4/10 + 1/100 + 4/1000 + 2/10000 + ..., è una rappresentazione impropria per un soggetto umano, se è considerata 186

Br, AA XI 208 (trad. it. cit. p. 238). Br, AA XI 210 (trad. it. cit. p. 241). 188 Si veda J.A. von Segner, Anfangsgründe der Arithmetik, Geometrie und der Geometrischen Berechnungen, Zweite Auflage, zu finden in der Rengerschen Buchhandlung, Halle im Magdeburgische, 1773, § 140 (estrazione della radice di un numero quadrato). Al § 141 si ha il teorema, utilizzato da Kant: «Se la radice quadrata di un numero intero non si trova tra i numeri interi, allora non si trova nemmeno tra le frazioni». 189 Br, AA XI 209. 187

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sotto il punto di vista dell'infinito attuale. Se però la consideriamo nel suo “divenire”, ossia nel suo significato dell’infinito potenziale, allora essa è accettabile come l'espressione di una regola per la approssimazione all’infinito del numero stesso. In questo modo al numero √2 è associato un processo nel tempo, che però non può mai essere completato. La differenza tra i numeri naturali e razionali da un lato, irrazionali dall'altro, consiste così nel fatto che i primi sono esprimibili con una somma finita, quindi effettuabile dal soggetto, mentre i secondi necessiterebbero di una somma infinita, che non può mai venire compiuta da un soggetto umano190. A differenza dell’espressione dell’algebra √a, che non richiede alcuna sintesi del tempo, l’espressione aritmetica √2 richiede per la sua determinazione una sintesi nel tempo: una sintesi finita, nel caso in cui la radice individui un numero intero, oppure un numero razionale esprimibile come decimale limitato, ad esempio √9 = 3, oppure √1,21 = 1,1; una sintesi che non può mai essere completata, nel caso in cui la radice esprima un numero irrazionale191. Rispondendo a Rehberg, Kant precisa pertanto che quando si tratta di determinare i numeri, razionali o irrazionali, in ogni caso «è posta a fondamento la condizione di ogni produzione di numeri: il tempo», che è posto «come intuizione pura, nella quale possiamo apprendere non solo la grandezza numerica data, ma anche si può trovare che la radice è un numero intero, oppure, qualora ciò non sia possibile, se essa può essere trovata solo tramite una serie di frazioni che diminuiscono all’infinito, e perciò come numero irrazionale»192. Tuttavia va rilevato che, mentre la generazione di un numero è un processo che avviene in un tempo determinato, la rappresentazione numerica di un numero irrazionale richiederebbe un tempo indefinito. 3.3.1. Le considerazioni dei matematici sull’irrazionale e il punto di vista kantiano È interessante notare che Schultz nella Prüfung collega queste considerazioni sugli irrazionali al concetto di Grenze visto non solo nella sua connotazione euclidea come limite di una figura, ma anche nella connotazione analitica legata al concetto di limite dell’analisi newtoniana e settecentesca. 190 Ad esempio 4 = 1 + 1 + 1 + 1; 3/4 = 1/4 + 1/4 + 1/4. Beninteso 2/3 è esprimibile con il numero periodico 0,(6), vale a dire con lo sviluppo infinito 0 + 6/10 + 6/100 + 6/1000 + ... (algoritmo infinito); però vale anche 2/3 = 1/3 + 1/3 (algoritmo finito). 191 Br, AA XI 208-209, trad. it. cit. p. 238-239. 192 Br, AA XI 209, trad. it. cit. p. 239. Osserva O. Meo, [Nota], in I. Kant, Epistolario filosofico, cit., p. 240, che Kant trascura il caso in cui la radice dia luogo a un numero decimale finito. Ma dovrebbe trattarsi di una dimenticanza, poiché l’algoritmo cui Kant fa riferimento contempla anche questo caso.

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MATEMATICA

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Infatti, in sintonia con le considerazioni di Kant espresse nella citata lettera di risposta a Rehberg, egli prende in considerazione le serie convergenti, ossia quelle in cui i termini «diventano sempre più piccoli secondo una determinata regola»193. In base al comportamento di queste serie, osserva Schultz, è chiaro che «deve esistere necessariamente un limite [Grenze] al quale la somma si avvicina costantemente» all’aumentare del numero dei termini che vengono sommati, ma «che non lo possono mai superare», con un evidente riferimento alla nozione newtoniana di limite (e verosimilmente della sua riproposizione da parte di D’Alembert, Kästner, L’Huilier)194. Però «la somma ideale [die ideale Summe] di ogni serie infinita convergente», deve poter essere espressa completamente, e pertanto essere realizzata, sebbene non possa mai esserlo mediante un’addizione portata a termine, tuttavia in un altro modo – aritmetico o geometrico. E come esempi porta la somma della serie 1/2 + 1/4 + 1/8 + 1/16 + ..., la cui somma è il numero intero 1, e la somma 1 + 7/10 + 3/100 + 2/1000 + ..., i cui termini successivi sono ottenuti con l’estrazione della radice quadrata di 3 e la cui somma è la radice quadrata di 3. Poiché √3 è un numero irrazionale, essa non si lascia esprimere come un numero finito intero o frazionario, ma si lascia esprimere completamente con un segmento di retta, che è l’altezza di un triangolo rettangolo di base 1 e di ipotenusa 2195. L’osservazione che le somme delle serie infinite sono in certi casi delle “somme ideali” documenta la penetrante analisi del pensiero di Kant eseguita da Schultz a questo riguardo. Oltre a ciò, tenendo conto del legame sussistente tra le serie e le successioni, nonché il ricorso da parte di Schultz alla nozione di limite, osservo che G. Cantor proporrà di rappresentare ogni numero reale (razionale o irrazionale) come una successione di numeri razionali in cui le differenze dei termini successivi diventano piccole a piacere (Fundamentalfolge); in questo modo ogni numero reale si può considerare limite di una successione fondamentale196. La riflessione sull’irrazionale di Kant e Schultz si colloca pertanto in un filone di ricerca che troverà significativi sviluppi matematici.

193 J. Schultz, Prüfung, II, cit., p. 206. La definizione di Schultz è peraltro formulata in modo troppo vago, e andrebbe precisata fornendo dei criteri di convergenza delle serie; per fare solo un esempio, la serie armonica, 1 + 1/2 + 1/3 + ... + 1/n + ... , che soddisfa alla condizione richiesta da Schultz, è divergente. 194 J. Schultz, Prüfung, II, cit., p. 206. 195 Ivi, pp. 206-207. 196 La proposta di Cantor può venire ulteriormente precisata sul piano del rigore: cfr. K. Mainzer, Reelle Zahlen, in Zahlen, hrsg. von K. Lamotke, WBG, Darmstadt 1985, pp. 33-36.

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Gerardo Cunico

Metafisica

1. Distruzione o trasformazione? La problematica evocata dal titolo è ovviamente troppo vasta per essere trattata esaustivamente anche in un volume monografico, perché viene ad investire direttamente o indirettamente tutta la riflessione e la produzione di Kant, teoretica e pratica. Devo circoscrivere al massimo la portata del mio contributo, che certo non potrà affrontare direttamente la morale come «metafisica dei costumi», ma neppure discuterà la trasformazione della «metafisica generale» (ontologia) in filosofia trascendentale, né esporrà in dettaglio la critica della metafisica speciale condotta da Kant nella Dialettica trascendentale. Partirò piuttosto da un interrogativo elementare, posto in forma di alternativa secca. Kant è stato il demolitore della metafisica, come aveva denunciato Mendelssohn1? O ne è stato il riformatore o trasformatore, come lui stesso si è presentato2 ed è stato recepito dai suoi seguaci? Si potrebbe dire in prima approssimazione che Kant è stato l’uno e l’altro, sia pure in sensi diversi: ha smantellato la concezione tradizionale della metafisica come scienza e ne ha rilanciato la problematica in una direzione diversa. Il punto preciso su cui vorrei soffermarmi è proprio questo: in quale direzione Kant ha trasformato la metafisica? Per riassumere anticipatamente in poche sintetiche battute il risultato delle complicate ricerche kantiane in campo metafisico, riporterei l’essenziale del suo contributo a questi punti: (1) Restrizione della metafisica come scienza al campo degli oggetti di esperienza possibile; ossia riduzione della metafisica come scienza all’ontologia e limitazione di questa al campo dell’ente in quanto fenomeno: non può essere scienza dell’ente in quanto ente, e quindi non può essere scienza

1 M. Mendelssohn, Morgenstunde oder Vorlesungen über das Dasein Gottes (1785), in Id., Schriften zur Philosophie, Ästhetik und Apologetik, Olms, Hildesheim 1968, vol. I, p. 299. Nei Prolegomeni (AA IV 258) Kant prende nettamente le distanze da Hume proprio per la sua «filosofia distruttiva» nei confronti della metafisica. [Le traduzioni che compaiono nel testo sono o liberamente rifatte da chi scrive o tratte con modificazioni da versioni italiane esistenti]. 2 Prol, AA IV 257 sg.; cfr. KrV, B XV-XXII, XXXI-XXXIII.

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GERARDO CUNICO

in quel senso che era stato introdotto da Aristotele e sostanzialmente invalso fino ad allora. (2) Confutazione della pretesa di conoscere oggettivamente entità soprasensibili o comunque al di là dell’esperienza possibile; confutazione delle tesi principali della metafisica speciale tradizionale (nella forma elaborata col massimo rigore argomentativo nella modernità). (3) Spostamento della trattazione delle questioni teoreticamente trascendenti nell’ambito pratico, o meglio sul piano della riflessione critica sulle condizioni dell’esercizio effettivo della moralità, e quindi nel campo della riflessione teleologico-pratica: quella che è stata chiamata «metafisica morale»(o «metafisica della morale») in senso diverso dalla «metafisica dei costumi» (termine kantiano) e che si potrebbe anche battezzare «metafisica etica» o «eticometafisica» (sulla falsariga di un altro termine kantiano, «etico-teologia», che, accanto a «teologia morale», Kant utilizza per designare la metafisica speciale critica); in concreto è una ricostruzione e giustificazione argomentativa, partendo dalle premesse della morale autonoma, della dottrina dei postulati ovvero della fede pratica o morale. È soltanto su quest’ultimo punto che la mia rilettura può aspirare a portare qualche apporto originale, anzitutto accentuando il carattere espressamente «riflettente» di questa ricostruzione critica della metafisica speciale e quindi la sua appartenenza essenziale alla «critica del Giudizio», in particolare alla sfera dell’applicazione del giudizio teleologico, così come si evidenzia dall’ultima parte della Kritik der Urteilskraft, che tratta la questione principale non solo della teleologia, bensì di tutta la filosofia «in senso cosmico»3: la questione chiave dello scopo finale. Va ovviamente rimarcata la differenza tra il carattere «riflessivo» della filosofia trascendentale nella sua funzione costitutiva di ricostruzione e deduzione delle condizioni di possibilità della conoscenza di oggetti come oggetti di esperienza possibile e di giudizi determinanti (che fonda la possibilità di un’ontologia critica) e quello «riflettente» della giustificazione critica della teleologia, dell’idea dello scopo finale e delle sue condizioni di possibilità, come oggetti di giudizi appunto «riflettenti»; anche questa seconda è una teoria indiretta (oratio obliqua) e una riflessione «critica», che però si applica a oggetti già costituiti e anzi dati in esperienze determinate, che nel caso cruciale chiamano in causa il punto di vista pratico del dover-essere (la coscienza e l’esperienza morale) e che quindi possono essere comprese solo come condizionate dall’idea pratica di scopo finale; una riflessione che fonda la nuova possibilità di una metafisica speciale (pratico-postulatoria anziché speculativa) indagando le implicazioni teleologiche dell’orientamento morale come condizioni di possibilità di quella totalità incondizionata (del3

KrV, B 866 sg.; Log, AA IX 23-25; cfr. ML2 (1790/91), AA XXVIII 533 sg.

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METAFISICA

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l’essere del mondo conforme al dover-essere assoluto) che è richiesta dallo scopo finale e ad esso subordinata. Questo vale ovviamente per la teologia e la psicologia, e in generale anche per la cosmologia, come riflessione sul concetto di mondo, legata all’idea dello scopo finale; certo quest’ultima idea, e quindi tutta la trattazione di Dio e della vita futura, dipende dalla soluzione critica del problema della libertà; e questa va considerata precedente e presupposta, come riflessione interna, non tanto teleologica, quanto costitutivo-essenziale, alla ricostruzione dei principi della morale, come si vede dalla Analitica della Critica della ragion pratica (e dal fatto che la libertà, pur essendo annoverata fra i postulati, non viene qui trattata nella Dialettica e anzi nella Prefazione viene indicata come oggetto di «sapere» da parte della ragione, in quanto ragione pratica)4. Si potrebbe così definire la metafisica critica (riguardo all’essere in sé) abbozzata da Kant come «metafisica etico-teleologica» (o teleologico-morale). Nei Progressi della metafisica Kant la chiama «dogmatico-pratica» (FM, AA XX 311), piuttosto che «critica», perché vuole mettere in risalto il carattere costruttivo, positivo, contenutisticamente dottrinale5 di questo momento (finale o risolutivo) della fase «critica» della metafisica e dei suoi «progressi» storici. 2. I diversi significati di metafisica Per prima cosa è opportuno guardare come Kant stesso definisca esplicitamente la metafisica. È vero che questi testi non sono decisivi, e in fondo risultano anche deludenti, per chi vi cerchi una definizione completa ed esauriente. Da un lato, infatti, decisiva è la problematica concretamente trattata e il modo in cui viene effettivamente sviluppata. Dall’altro Kant stesso sosteneva, almeno fin dal 1764, che la prima regola in filosofia è che non si deve partire da definizioni come in matematica, ma dai concetti dati e dalla loro comprensione ordinaria, che occorre chiarificare6, senza darne definizioni reali complete, che possono risultare, nei limiti in cui sono possibili, solo dall’insieme dell’indagine7. Tuttavia proprio dalla varietà e parzialità delle definizioni esplicite si possono ricavare significative indicazioni preliminari. 4 Su questa questione spinosa ho trovato spunti illuminanti in: P. König, Autonomie und Autokratie. Über Kants Metaphysik der Sitten, de Gruyter, Berlin 1994; F. Chiereghin, Il problema della libertà in Kant, Pubblicazioni di Verifiche, Trento 1991, spec. pp. 112 sg. 5 Cfr. Refl 3818, AA XVII 303, dove «conoscenza dogmatica» è sinonimo di «positiva», proprio in riferimento alla teologia morale. 6 UDG, AA II 285, 283. 7 Cfr. FM, AA XX 315, 344; KrV, A 241 sg., B 755-760, 862.

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GERARDO CUNICO

Kant doveva dunque prendere le mosse dalle definizioni correnti nella filosofia moderna8 e nella manualistica contemporanea9. Di fatto si trovano vari passi che si ricollegano espressamente a queste definizioni, dette da lui stesso «scolastiche» (FM, AA XX 261), e come tali in parte accolte (nel loro significato generico) e in parte criticate (appunto per la loro genericità). Quando si diceva: la metafisica è la scienza dei principi primi della conoscenza umana, non si denotava con ciò un tipo di scienza del tutto particolare, bensì soltanto un rango a riguardo dell’universalità, col che dunque non la si poteva distinguere in modo riconoscibile dall’empirico10.

I numerosi passi degli scritti kantiani in cui sono rinvenibili definizioni della metafisica si possono anzitutto dividere in due gruppi: quelli interessati a una caratterizzazione generale e in certo senso neutrale e quelli miranti a una specificazione particolare (differenziante al suo interno); i primi prescindono in larga misura non solo dalle articolazioni interne della metafisica, ma anche proprio dal discrimine introdotto da Kant stesso tra impostazione dogmatica e impostazione critica; i secondi si differenziano a loro volta a seconda che mirino semplicemente a distinguere e caratterizzare branche diverse della metafisica oppure invece a demarcare la metafisica critica da quella dogmatica e a precisarne gli obiettivi, i percorsi, i limiti. Il gruppo delle definizioni dalla portata generale non solo è ben nutrito, ma è tutt’altro che irrilevante o privo di indicazioni interessanti. Per orientarsi in questa selva di testi si può partire da un passo dei Prolegomeni, in cui Kant stesso dice che si possono definire le peculiarità distintive della conoscenza metafisica sotto tre aspetti: l’oggetto, le fonti e il tipo di conoscenza (Prol, § 1, AA IV 265). Dell’oggetto propriamente non parla; forse per oggetto potrebbe qui intendere lo scopo (cfr. FM, AA XX 280), ma neppure di questo tratta propriamente, a parte un accenno al fatto che «lo scopo preminente di questa scienza» è «la conoscenza di un ente supremo e di un mondo futuro» (Prol, § 4, AA IV 271). Quanto alle fonti, dice che non possono essere empiriche (ivi, 265), ma solo razionali, e che quindi la metafisica deve essere una «conoscenza a priori, ovvero basata sull’intelletto 8 R. Descartes, Principia philosophiae, Parisii 1644, Pars I: De principiis cognitionis humanae; Ch. Wolff, Philosophia prima seu Ontologia, methodo scientifica pertractata, qua omnis cognitionis humanae principia continentur, Francofurti et Lipsiae 1730; ed. nova 1736. 9 A.G. Baumgarten, Metaphysica, Halae Magd. 1740, ed. IV 1757, § 1: Metaphysica est scientia primorum in humana cognitione principiorum. 10 KrV, B 871; cfr. TG, AA II 283; Refl 3917 (1764-1769), AA XVII 342 sg.; Refl 3946 (1769-1772), AA XVII 359-360; Refl 5674 (1780-1789), AA XVIII 325. Va osservato subito che quando Kant parla di «principi della conoscenza», li intende nel senso di «proposizioni fondamentali» (Grundsätze), oppure anche nel senso di elementi costitutivi del conoscere, non nel senso di elementi costitutivi degli enti o di enti che sono cause di tutti gli altri (come nella tradizione aristotelica).

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puro e sulla ragione pura» (ivi, 266); aggiunge che deve distinguersi dalla conoscenza matematica e dunque essere una «conoscenza pura filosofica», ma senza altre precisazioni oltre a un rinvio alla Critica della ragion pura11. Sul tipo di conoscenza proprio della metafisica il testo è invece più esauriente e chiarisce che deve trattarsi di conoscenza sintetica a priori, costituita primariamente e fondamentalmente da giudizi sintetici a priori (Prol, AA IV 273 sg.). Come si vede facilmente, però, né le fonti né il tipo di conoscenza sono prerogativa esclusiva della metafisica, giacché sono in comune con la matematica pura e con la fisica pura. La peculiarità specifica della metafisica potrebbe dunque risultare solo da un esame del suo oggetto e/o del suo scopo peculiare, ma il passo in pratica non ne parla. Per questo è opportuno rifarsi a un passo dei Progressi della metafisica che chiarisce i criteri con cui Kant distingue diversi modi di caratterizzare in generale la metafisica: Già l’antico nome di questa scienza met£ t¦ fusik£, dà un’indicazione circa il genere di conoscenza a cui mirava. Per mezzo di essa si vuole andare al di là di tutti gli oggetti di esperienza possibile (trans physicam), per conoscere, se possibile, ciò che non può essere assolutamente un oggetto di esperienza; e la definizione della metafisica, secondo l’intento che contiene il fondamento dell’aspirazione ad una tale scienza, sarebbe dunque: La metafisica è una scienza del progredire dalla conoscenza del sensibile a quella del soprasensibile [...]. Ora, poiché questo non può accadere in virtù di fondamenti conoscitivi empirici, la metafisica conterrà principi a priori e, sebbene anche la matematica ne abbia, [...] la metafisica si distinguerà da essa per il fatto di essere caratterizzata come una scienza filosofica che è un complesso della conoscenza razionale basata su concetti a priori (senza costruzione di concetti ). Infine, poiché per estendere la conoscenza al di là dei confini del sensibile si richiede prima una conoscenza completa di tutti i principi a priori applicati al sensibile, la metafisica, se non la si vuole tanto definire secondo il suo scopo, quanto piuttosto secondo i mezzi per giungere ad una conoscenza in generale mediante principi a priori, cioè secondo la mera forma del suo procedimento, deve essere definita come il sistema di tutta la conoscenza razionale pura degli enti mediante concetti (FM, AA XX 316 sg.).

Dall’ultima frase si evince che Kant assume due prospettive per definire la metafisica come tipo speciale di conoscenza: lo scopo di tale conoscenza e i suoi mezzi, o meglio la «forma del suo procedimento». Se qui dunque si trova l’indicazione effettivamente essenziale dell’obiettivo conoscitivo della metafisica, va notato però che manca almeno un’altra prospettiva, che era stata almeno evocata, seppure non chiarita, nei Prolegomeni, e che era invece essenziale e primaria nelle definizioni classiche di metafisica, a partire da 11 KrV, A 712 sgg. = B 740 sgg., dove il procedimento di conoscenza a priori della matematica, basato sulla costruzione di concetti nell’intuizione, viene distinto da quello della filosofia, che deve svolgersi discorsivamente in base a meri concetti.

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Aristotele: quella del campo di oggetti cui si applica12; si vedrà che è un’omissione non casuale, anche se la questione almeno implicitamente e tangenzialmente è sfiorata in entrambe le prospettive indicate (là dove si parla di «oggetti di esperienza possibile», di «sensibile» e «soprasensibile», ovvero di «enti» senza specificazione). Quanto alla forma del procedimento, trattandosi di caratterizzazione generale e «neutra», non è in questione propriamente la via, il metodo o l’impostazione. Kant si limita a indicare tre elementi: la metafisica deve essere una scienza razionale che non si basa su dati empirici, ma contiene principi a priori; deve distinguersi dalla matematica in quanto si basa su concetti puri (a priori), e non sulla costruzione di concetti nell’intuizione; infine deve contenere una conoscenza completa dei principi, cioè deve essere un sistema (e qui indirettamente si dice che deve essere un sistema dei principi a priori della conoscenza degli enti in generale, anche se non è precisato che si tratti solo di enti «sensibili», ossia di oggetti di esperienza possibile). In fondo Kant, sotto la prospettiva della forma, caratterizza soltanto i «materiali» (Prol, AA IV 273) conoscitivi (concetti e proposizioni fondamentali) che la metafisica deve contenere, l’estensione (completa) della loro individuazione e il modo (sistematico) della loro connessione (che deve costituire una totalità unitaria e articolata in modo giustificato a priori dall’idea stessa della scienza). Prendendo come riferimento il § 1 dei Prolegomeni, nel passo dei Fortschritte il secondo punto potrebbe essere inteso come chiarimento delle «fonti» (Prol, AA IV 265) della conoscenza metafisica (la ragione e i suoi concetti a priori) e il terzo punto (che di per sé sarebbe più semplicemente interpretabile come variante o precisazione del secondo) potrebbe essere inteso come indicazione del «tipo» (Prol, AA IV 273) o «forma» (FM, AA XX 317) di conoscenza (sistema di principi a priori)13. In tal modo, a partire da questi testi, si possono estrapolare tre punti di vista che servono a distin12 Questa prospettiva emerge anche in MAN, AA IV 477, dove Kant, usando una formula intermedia tra quelle di Prol e FM, distingue in modo più convincente ed esauriente i tre aspetti caratterizzanti, proponendo di «tracciare i confini di una scienza non solo secondo la natura dell’oggetto e lo specifico modo di conoscerlo, ma anche secondo lo scopo cui si mira», anche se poi sorvola sui primi due per sottolineare lo scopo, ossia per osservare che la metafisica è stata ed è coltivata non per conoscere meglio la natura sensibile, ma per elevare la conoscenza a ciò che è al di là dei confini dell’esperienza (cioè Dio, libertà e immortalità). 13 Le «fonti», se intese come concetti, possono essere interpretate come (provenienze dei) «mezzi» (FM, AA XX 317) o «materiali» (Prol, AA IV 273) della conoscenza. Certo i «principi a priori» di FM, AA XX 317 possono essere anche considerati, dal lato oggettivo della realtà conosciuta (ovvero del contenuto delle proposizioni), come l’oggetto formale (sub quo) della metafisica, tanto che Kant designa addirittura i principi nel senso delle proposizioni fondamentali sintetiche a priori come «scopi» della scienza (Prol, AA IV 273, 274). Di queste dice anche che costituiscono il «contenuto» della metafisica (AA IV 274).

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guere in tre gruppi le molte definizioni generali della metafisica ricavabili dagli scritti kantiani. (1) Lo scopo (ultimamente) perseguito dalla metafisica è generalmente indicabile come la «conoscenza del soprasensibile» (FM, AA XX 260, 263 e passim), che corrisponde al significato della metafisica come «filosofia del soprasensibile» (VATP, AA XXIII 134) o «teoria del soprasensibile» (FM, AA XX 305), ovvero alla designazione aristotelica della filosofia prima come scienza teologica14; questo scopo da un lato è ovvio (ed è implicito o affiora ripetutamente in tutti gli scritti kantiani), ma dall’altro non è a rigore giustificato come indicazione preliminare15: entrambe le considerazioni possono spiegare perché siano pochi i passi espliciti che lo includono nella definizione della metafisica: oltre ai Progressi della metafisica, le attestazioni principali sono una nota degli anni ’70 (Refl 2680, AA XVI 467) e un abbozzo degli anni ’90 (VATP, AA XXIII 134). Nella Critica della ragion pura non si trovano definizioni esplicite della metafisica in generale in base al riferimento a questo scopo (anche perché il termine «soprasensibile» vi è quasi totalmente evitato, al contrario delle opere successive); vi si avvicina (quasi alla lettera) KrV, B 7, che però lo connette da una lato alla ragione come tale, dall’altro alla metafisica «dogmatica» come scienza «presunta»; più forte KrV, B 395 («La metafisica ha come scopo vero e proprio della sua ricerca soltanto le idee di Dio, libertà e immortalità»), anche se non dà una definizione16. (2) La caratteristica dei materiali che la metafisica utilizza e contiene (almeno fin dove è possibile, ovvero che dovrebbe contenere se fosse possibile), ossia concetti (e proposizioni) a priori, è quella che caratterizza la metafisica come scienza teoretica pura a priori ovvero come conoscenza razionale pura, indipendente dell’esperienza (anche quando verte su oggetti di esperienza possibile). La formulazione dei Fortschritte segue la scia di passi come KrV, B 878 (conoscenza razionale basata su meri concetti) o MAN, AA IV 469 (conoscenza razionale pura basata su meri concetti, non sulla costruzione di concetti), testi che a loro volta hanno precedenti importanti in annotazioni de-

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Tenendo conto del fatto che gli altri oggetti, anima e mondo, per Aristotele sono oggetto della filosofia seconda e anche per Kant sono ovviamente soprasensibili solo nel loro substrato intelligibile unitario ovvero totale. 15 Per questo la definizione aristotelica esplicita si limitava a dire che questa scienza indaga «i principi e le cause supreme», ovvero «le cause prime dell’ente in quanto ente» (Metaph. IV 1; VI 1). 16 Cfr. KrV, B 23 dove attribuisce alla «metafisica in senso proprio» lo scopo di «estendere sinteticamente a priori la conoscenza»; il che è formula equivalente, ma non una definizione esplicita.

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gli anni ’7017. Tutte queste formule restano certo molto più generiche rispetto a quella caratterizzazione della metafisica che risulta chiaramente dall’Introduzione alla prima Critica18 e dai Prolegomeni: ossia che la metafisica deve contenere primariamente e fondamentalmente giudizi sintetici a priori (Prol, AA IV 273 sg.). Tuttavia, poiché questa è la sua tesi di fondo, Kant non può premetterla come definizione di partenza, ma deve giustificarla, anche se già in fase introduttiva. (3) La forma del suo procedimento, o meglio la tendenza formale unitaria del suo procedimento, che caratterizza la metafisica come sistema di tutta la conoscenza pura. Su questo punto le attestazioni principali provengono invece proprio dalla prima Critica (seguita da passi della Metafisica dei costumi e da note manoscritte): «sistema della ragion pura come scienza», «conoscenza filosofica basata sulla ragion pura in connessione sistematica» (KrV, B 869), filosofia che espone ogni conoscenza pura a priori in unità sistematica (KrV, B 873). Una formula delle Lezioni di metafisica del 1790/91 unifica ancora più sinteticamente il secondo e in terzo aspetto della definizione: «sistema della filosofia pura» (ML2, AA XXVIII 540). Si tratta fin qui di definizioni generali, che valgono sia per la pretesa scienza della tradizione dogmatica, sia per la scienza indagata dalla critica, sia per quella ricostruita in base alla critica e all’interesse pratico (teleologico-morale) della ragione. Altre definizioni di Kant sono invece di carattere «demarcatorio», cioè servono a demarcare i tratti caratteristici della «metafisica dogmatica» (o «pseudometafisica», Refl 4910, AA XVIII 26) dalla «metafisica critica». La demarcazione esplicita si trova in un appunto degli anni ’70: «Metaphysica est logica intellectus puri, [...] perciò la metafisica o è dogmatica o critica» (Refl 4360, AA XVII 519). Sia la «metafisica dogmatica» che la «metafisica critica» sono inserite nel quadro della «metafisica naturale», ossia della metafisica intesa come «disposizione naturale» della ragione umana come tendenza inevitabile a porsi il problema del «perché» ultimo di tutte le cose, ossia domande che non possono trovare risposta in base all’esperienza (KrV, B 20-22), e quindi a spingersi oltre il mondo sensibile e a servirsi di concetti trascendenti (Prol, § 5, AA IV 279 sg.), fonti di inganno dialettico (AA IV 365). La «metafisica dogmatica» è definita come una presunta scienza mirante a risolvere i problemi inevitabili della ragion pura (riguardanti Dio, libertà e immortalità) senza previo esame della capacità della ragione (KrV, B 7), anzi come mero vaneggiamento di una presunta conoscenza di ciò che oltre17

Refl 4362, AA XVII 520: Metaphysica est philosophia theoretica [pura] intellectualis. Alla lettera nelle aggiunte del 1787, come KrV, B 18 sgg., ma nella sostanza già nel 1781, come in KrV, A 9-12. 18

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passa ogni esperienza possibile (KrV, B 19 sg.), che col suo raziocinare finisce per impigliarsi in inferenze dialettiche antinomiche 19. Di qui si ricava per contrasto la caratterizzazione della «metafisica critica»20, come scienza fondamentale che si basa su un esame preliminare della nostra capacità di conoscere a priori anche al di là dell’esperienza. La demarcazione della «metafisica critica» viene precisata da una serie di definizioni più specifiche, che riguardano ora la sua dimensione di indagine preliminare (gnoseologica) del soggetto conoscente, ovvero come «scienza delle leggi della pura ragione umana» (Refl 3952 (1769), AA XVII 362), ora la sua dimensione restrittiva o disciplinare di «scienza dei confini della ragione umana»21, ora la sua dimensione (o compito) di «canone dell’intelletto»22 e di scienza dei principi dell’intelletto e dei principi formali della ragione, ora la sua dimensione di «conoscenza dogmatico-pratica» del soprasensibile sulla base della teleologia morale23. Dato che la declinazione della metafisica critica in prospettiva teleologico-pratica è l’obiettivo principale di questo lavoro, mi limito per ora a indicare i passi principali in cui essa emerge più esplicitamente. In un’annotazione della fine degli anni Settanta Kant scrive che «scopo della metafisica» è, da ultimo, «mostrare la condizione dell’unità assoluta della ragione, affinché essa possa essere un principio completo di unità pratica, cioè concordanza con la somma di tutti gli scopi»24. Un appunto di poco posteriore precisa: «Sotto l’aspetto pratico, in cui la libertà è la condizione dell’uso dei concetti, possono aver luogo conoscenze dogmatico-pratiche» del soprasensibile (Refl 5552, AA XVIII 220-221). La Prefazione del 1787 alla Critica della ragion pura (KrV, B XXI) prospetta il compito di «saggiare se nella conoscenza pratica della ragione non si trovino dati per determinare quel concetto trascendente dell’incondizionato e per giungere in tal modo, conformemente all’auspicio della metafisica, al di là di ogni esperienza possibile con la nostra conoscenza possibile a priori, ma soltanto in intento pratico». Gli altri testi, ricavabili dal saggio sulla teleologia del 1788, dalla Critica del Giudizio e dai Progressi della metafisica, saranno esaminati più avanti. 19 Dogmatische Metaphysik: Prol, § 60, AA IV 362, cfr. 367, 379; RezHerder, AA VIII 54; MAN, AA IV 506; EBJ, AA VIII 153; KpV, AA V 103; ÜE, AA XX 381, 412; Refl 5027, AA XVIII 65; Refl 5689, AA XVIII 327. 20 Il termine ricorre letteralmente nelle Refl 4360, AA XVII 519 (1769-1775), e 5675, AA XVIII 325 (1780-1789); il concetto (sostanzialmente) è espresso anche in passi come Refl 4457, AA XVII 558 (1772), Refl 5649, AA XVIII 296 sg. (1785-1789); Br, AA X 346 (1783); AA XI 48 (1789). 21 TG, AA II 368; cfr. Refl 3918 (1764-1769), AA XVII 343 sg. 22 Refl 4865, 5039 (1777-1778), AA XVIII 14, 70; cfr. KrV, B 26. 23 FM, AA XX 280, 293-297, 311; cfr. Refl 5552 (1778-1783), AA XVIII 220 sg. 24 Refl 4849, AA XVIII 5 sg. [= AA XXIII 471].

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Un’altra serie di definizioni della metafisica possono esser dette «particolari», in quanto riguardano di volta in volta una delle sue parti o applicazioni: la metafisica generale25 o ontologia, anche nel senso di filosofia trascendentale; la metafisica speciale26, o (presunta) dottrina del soprasensibile27, e, in senso specificamente kantiano, la metafisica della natura e la metafisica dei costumi28. L’ontologia, intesa in senso scolastico tradizionale, viene definita come «scienza delle proprietà universali di tutti gli enti»29, ovvero anche «scienza degli enti in generale»30. Nel senso di filosofia trascendentale31 è descritta come «sistema di tutti i concetti e i principi che si riferiscono a oggetti in generale» (KrV, B 873) ovvero come «sistema di tutte le nostre conoscenze pure a priori» dell’intelletto32. Una definizione di metafisica che si trova nelle Lezioni (ML2, AA XXVIII 540 sg.: «filosofia circa la natura in quanto dipende da principi a priori) è propriamente una buona definizione di «metafisica della natura» in senso critico. Le altre indicazioni che si trovano nella prima Critica (KrV, B 873 sgg.), nella Fondazione della metafisica dei costumi (GMS, AA IV 388) e nei Principi metafisici della scienza della natura (MAN, AA IV 469 sg.) precisano che qui si tratta specificamente della parte razionale della fisica, che applica i principi trascendentali da un lato alle condizioni di una natura in ge-

25 Metaphysica universalis: Refl 4168 (1769-1770), AA XVII 441 sg.; Refl 5644 (17851788), AA XVIII 284; Metaphysica generalis: Refl 4851, 4852, 4855 (1776-1778), AA XVIII 911; allgemeine Metaphysik: MAN, AA IV 478. 26 Metaphysica specialis: Refl 4851, 4852, 4855 (1776-1778), AA XVIII 9-11; Refl 5644 (1785-1788), AA XVIII 284. 27 VT, AA VIII 393, 399; FM, AA XX 260, 305, 316; VATP, AA XXIII 134; cfr. KrV, B XXI; Refl 6315, 6343, 6358, 6414, AA XVIII 619, 667, 685, 709. 28 Queste ultime definizioni presuppongono una definizione dei principi metafisici che Kant formula soltanto nella KU, § V, AA V 181, B XXIX (da confrontare con KrV, B 875 sg.; ML1, AA XXVIII 222 sg.), dove precisa che, mentre un «principio trascendentale è quello che stabilisce la condizione a priori che fa sì che enti qualunque possano diventare oggetti della nostra conoscenza in generale», invece «un principio si dice metafisico se rappresenta la condizione a priori che rende possibile determinare ulteriormente concetti di oggetti basati su qualcosa di empirico». Concetti come quelli di materia, movimento, gravità ecc., ovvero di arbitrio, relazioni esterne, scopi soggettivi, inclinazioni sensibili ecc., che pure sono basati su dati empirici, possono dunque essere oggetto di principi metafisici. 29 NEV, AA II 309. 30 Refl 5936 (1780-1789), AA XVIII 394; ML2, AA XXVIII 541 sg. Nel primo testo il termine usato è Dinge (nel linguaggio filosofico Ding è di regola l’equivalente tedesco di ens), nel secondo è Wesen. 31 Termine impiegato già nel 1756 come sinonimo di metafisica (MP, AA I 475 sg.). 32 ML2, AA XXVIII 541 sg.; cfr. per esempio Refl 3930 (1769), AA XVII 353. KrV, B 303 caratterizza in termini «critici» l’ontologia nella sua pretesa dogmatica di fornire «conoscenze sintetiche a priori di enti in generale».

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nerale e dall’altro, in quanto «metafisica della natura corporea», a un genere particolare di natura. La metafisica dei costumi è caratterizzata nella prima Critica come «morale pura», non fondata su alcuna condizione empirica (antropologica), ovvero come «dottrina pura dei costumi», appartenente alla conoscenza filosofica basata sulla ragione pura, che contiene «i principi che determinano a priori il fare e il non-fare», ossia «la legalità delle azioni deducibile a priori da principi» (KrV, B 869 sg.). Nella Fondazione è presentata come «la parte razionale» dell’etica, che deve stabilirne i principi puri a priori (GMS, AA IV 388 sgg.). Una buona definizione sintetica si trova in un abbozzo della Metafisica dei costumi, che la formula come «sistema della ragione pratica pura basata su concetti» (VATL, AA XXIII 416-417). Come si vede, è difficile ritrovare in Kant l’idea aristotelica della filosofia prima come «scienza dell’ente in quanto ente», o più precisamente «scienza dei principi e delle cause prime dell’ente in quanto ente» (Metaph. IV 1; cfr. VI 1, XI 3, 7). Questa definizione tiene insieme sia il campo di oggetti indagato (l’ente in quanto ente) sia ciò che si mira a conoscerne (i principi e le cause prime)33. Ora, se nelle definizioni kantiane della metafisica, sulla scia delle formule degli autori moderni di riferimento, i principi sono spesso richiamati34, sia pure riferiti più alla conoscenza che agli enti, delle cause non si parla quasi mai35 (anche perché la causalità è un concetto diventato problematico dopo le analisi scettiche di Hume, e che dunque deve essere legittimato proprio nel corso della ricerca), e i riferimenti agli «enti in generale» o agli «oggetti in generale» sono riservati, come si è visto, alla parte generale della metafisica, cioè all’ontologia, sulla scia di Wolff36. Tuttavia in un appunto del 1769-1770 Kant prospetta addirittura, come parte della metafisica, una theologia generalis quale scienza che «considera il principio supremo di tutti gli enti, conoscibile attraverso la ragione pura» (Refl 4168, AA XVII 441-442). In un altro appunto dello stesso periodo e33 L’esplicita distinzione del subiectum dall’obiectum di una scienza, e in particolare della «filosofia prima», si trova, credo per la prima volta, in Avicenna (Metafisica, ed. italiana con testo arabo e trad. latina a cura di O. Lizzini e P. Porro, Bompiani, Milano 2002, pp. 21, 23, 29, 31, 37, 39): per lui il subiectum (il campo oggettuale) della filosofia prima è l’ente in quanto ente, mentre l’obiectum (ciò che va ricercato) è la conoscenza di Dio e del soprasensibile. 34 A partire da testi relativamente giovanili come UDG, AA II 283; Refl 3917 [1765-1769], AA XVII 342 sg. 35 A parte la Nachricht citata (AA II 309) che annuncia come «considerazione delle cause di tutti gli enti» quella parte della metafisica che contiene la «scienza di Dio e del mondo». 36 Ch. Wolff, op. cit., § 1: «Ontologia seu Philosophia prima est scientia entis in genere, quatenus ens est». Questo trattato però si limita a stabilire i principi dell’ente in quanto ente, i suoi predicati principali, e le specie fondamentali di enti. Non si pone la questione delle cause prime dell’ente, che peraltro anche per Aristotele, almeno rispetto alla causa motrice e finale, andavano esaminate in un’altra parte della filosofia prima.

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gli osserva, analogamente, che la prima parte della metafisica tratta «dei principi primi della nostra conoscenza razionale pura di tutti gli enti», ossia «del supremo principium cognoscendi», mentre la seconda parte tratta «del primo principio degli enti», ossia «del supremo principium essendi» (Refl 4166, AA XVII 441). Ci sono dunque non poche tracce della nozione aristotelica, ma Kant, soprattutto a partire dalla svolta critica, non può riproporla come tale. Il motivo sostanziale, che è poi lo stesso per cui nei testi canonici glissa sull’oggetto della metafisica, è anzitutto che questa è diventata problematica nella sua pretesa di scientificità e che anzi Kant si è convinto che essa non è possibile come scienza dei principi degli oggetti in generale (ossia dell’ente in quanto ente), ma semmai solo come «analitica dei principi» riferiti agli oggetti di esperienza possibile (ossia dell’ente in quanto fenomeno). Inoltre per Kant analizzare gli enti come tali e indagare gli enti soprasensibili è volgersi a due campi di oggetti diversi, anche se strettamente connessi (tanto che l’esito della prima analisi pregiudica inesorabilmente la possibilità della seconda ricerca). Del resto il nesso tra i due momenti era problematico fin da Aristotele, che pur li univa nella «filosofia prima», ma chiamandola «scienza teologica» non poteva nasconderne la tensione (Metaph. VI 1; XI 7). Va notato poi che la distinzione tra metafisica come ricerca o dottrina dell’essere in generale e metafisica come ricerca o dottrina del soprasensibile non corrisponde ai due momenti della definizione (subiectum e obiectum), bensì a due (o tre) livelli dell’articolazione dell’obiectum, dello scopo dell’indagine e del suo perseguimento. La conoscenza dei principi primi può infatti essere intesa come chiarificazione dei significati o come messa in chiaro dei principi interni e di quelli esterni (o non necessariamente interni) degli enti che ci risultano dati. In ogni caso Kant non segue lo schema aristotelico, nella misura in cui non si propone di stabilire preventivamente il subiectum nel senso dell’ambito oggettuale, del campo di oggetti cui deve applicarsi la ricerca, ma semmai, quanto al lato «materiale» del contenuto della scienza in questione, preferisce puntare l’attenzione sugli elementi costitutivi (logici o noetici) che devono caratterizzare questa scienza, sul tipo di conoscenza che essa deve contenere, anche se non è peculiare di questa (presunta) scienza soltanto: quella che è costituita da concetti puri e da proposizioni sintetiche a priori. 3. L’oceano tenebroso: tra dogmatismo e scetticismo Kant affronta il tema della metafisica con un atteggiamento ben diverso da quello pacatamente fiero con cui Aristotele aveva enunciato (e annuncia-

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to insieme) il sorgere di questa «scienza prima» come un passo o un fatto ormai compiuto: «Esiste una scienza che considera l’ente in quanto ente» (Metaph. IV 1). Kant invece non può più dare per scontato che esista come scienza, e neppure addirittura che sia una scienza possibile. Se per Aristotele era stata la «scienza cercata», per Kant dunque la metafisica torna ad essere oggetto di indagine in un senso più problematico, più radicale, e anzi vertiginoso, perché al suo tempo la metafisica, dopo duemila anni di storia e di apparenti progressi, pur nell’apparente continuità di un insegnamento accademico imperturbato, appare travolta da una crisi scettica che rischia di farla cadere nel disprezzo e nell’indifferenza (KrV, A VIII-X). Sono due le immagini principali con cui Kant ha illustrato vividamente la situazione del pensiero umano alle prese con la questione della metafisica. La Prefazione alla prima edizione della Critica della ragion pura si apre con una drammatica descrizione della metafisica come «il campo di combattimento di contese senza fine» (KrV, A VIII). A questa situazione di «guerra di tutti contro tutti» Kant risponde presentando la Critica come offerta di una pacificazione delimitante e disciplinante garantita dal tribunale della ragione stessa, come viene chiarito espressamente nella Dottrina trascendentale del metodo: Si può considerare la critica della ragion pura come il vero tribunale per tutte le controversie della ragione [...]. Senza la critica la ragione è per così dire nello stato di natura e non può far valere le sue affermazioni e le sue pretese se non attraverso la guerra. La critica invece, derivando tutte le decisioni dalle regole fondamentali della propria istituzione, ci procura la quiete di uno stato legale, nel quale non abbiamo da condurre le nostre controversie altrimenti che attraverso un processo (KrV, B 779 sg.).

Se questa prima immagine è tratta dal mondo della storia (dal rapporto conflittuale tra gli uomini) e conduce a un modello giuridico di ragione (come tribunale imparziale ed equanime, ma inflessibile), la seconda immagine, più plastica e impressionante, è ricavata da un’analogia con la natura (o meglio col rapporto precario dell’uomo con la natura) e allude alla inevitabilità e insieme all’irriducibile problematicità dell’avventura della metafisica nel campo del soprasensibile come «disposizione naturale» legata all’essenza e alla destinazione della ragione umana; tale immagine, impiegata già in uno scritto giovanile, ritorna sia nelle opere della maturità sia in uno scritto dell’ultimo decennio dell’attività di Kant; qui la metafisica è descritta come «abisso», come «oceano tenebroso», come «mare senza sponde», in cui si inizia a navigare senza poter contare su punti di riferimento e orientamento sicuri: Per giungere a questo scopo [la dimostrazione dell’esistenza di Dio], bisogna avventurarsi sull’abisso senza fondo della metafisica. Un oceano tenebroso senza

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sponde e senza fari, in cui si deve iniziare come il marinaio che, percorrendo un mare deserto di navi, non appena tocca terra in qualche punto, verifica la sua rotta ed esamina se essa per caso non sia stata deviata da correnti marine inosservate, malgrado tutte le accortezze fornibili dall’arte della navigazione (BDG, AA II 65 sg.). Ma questa scienza [...] la metafisica, [...] è un mare senza sponde, nel quale l’avanzare non lascia alcuna traccia, e il cui orizzonte non contiene alcun punto di arrivo rispetto al quale si possa percepire di quanto vi si sia avvicinati (FM, AA XX 259).

Anche nella Critica Kant ricorre a questa metafora per indicare il campo della «parvenza» dialettica, ossia della pretesa conoscenza del soprasensibile, rispetto ai quali la sua dottrina dei principi rappresenta la mappa della terra o meglio dell’isola della verità, ristretta al solido suolo della natura: Adesso noi non abbiamo soltanto attraversato la terra dell’intelletto puro e percorso attentamente col nostro sguardo ogni sua parte, ma l’abbiamo anche misurata destinandovi ogni cosa al suo posto. Questa terra però è un’isola, racchiusa dalla natura stessa entro confini immutabili. È la terra della verità [...], circondata da un vasto oceano tempestoso, che è la vera e propria sede della parvenza , in cui diversi banchi di nebbia e blocchi di ghiaccio sul punto di sciogliersi danno l’illusione di nuove terre, ingannando incessantemente con vane speranze il navigante errabondo nelle sue esplorazioni, e invischiandolo in avventure da cui egli non può mai desistere, pur non potendole mai neppure portare a termine (KrV, A 235 sg., B 294 sg.).

Più avanti, nella versione del 1781 del capitolo sui Paralogismi, Kant prospetta più nettamente una rinuncia definitiva ad affrontare la navigazione nel mare immenso del soprasensibile, per limitarsi al «piccolo cabotaggio» dell’uso immanente della ragione: Nulla come la sobrietà di una critica rigorosa ma giusta può liberare da questo inganno dogmatico, che seduce tante persone con l’immaginaria felicità di teorie e sistemi, e può limitare tutte le nostre pretese speculative solamente al campo dell’esperienza possibile, non già mediante un insipido scherno sui tentativi tanto spesso falliti, né mediante pii sospiri deprecanti i limiti della nostra ragione, bensì per mezzo di una demarcazione dei suoi confini condotta secondo principi sicuri, che con la massima affidabilità àncora il suo nihil ulterius alle colonne d’Ercole piantate dalla natura stessa, per proseguire la navigazione della nostra ragione soltanto fin dove giungono le coste ininterrotte della nostra esperienza, che noi non possiamo abbandonare senza avventurarci su un oceano senza sponde che alla fine, pur tra miraggi sempre ingannevoli, ci costringe a rinunciare, senza speranza, a ogni sforzo tanto penoso e lungo (KrV, A 395 sg.).

Nei Prolegomeni Kant rievoca questa descrizione presentando la Critica nel suo insieme come scienza della ragione capace invece di offrire i princi-

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pi, la mappa e la bussola per orientarsi nel viaggio filosofico sul mare della metafisica, anche se evita di riferirsi direttamente al soprasensibile: Senonché questi Prolegomeni condurranno il lettore a capire che è una scienza del tutto nuova, di cui in precedenza nessuno aveva avuto neppure soltanto l’idea, anzi la cui stessa semplice idea era sconosciuta, e per la quale di tutto ciò che era dato finora non poteva essere utilizzato nulla se non i cenni che potevano dare i dubbi di Hume, il quale del pari non sognava neppure di una possibile scienza rigorosa del genere, bensì, per portare al sicuro la sua nave, la puntava verso la spiaggia (lo scetticismo), dove poi potrà giacere e imputridire, mentre per me invece si tratta di darle un pilota che, seguendo i principi sicuri dell’arte del pilotaggio, tratti dalla conoscenza del globo, e provvisto di una carta nautica completa e di una bussola, possa condurre in sicurezza la nave là dove gli pare bene condurla (Prol, AA IV 261 sg.).

Nel saggio del 1786, Che cosa significa orientarsi nel pensare?, Kant riprende più sistematicamente la questione di principio evocata da quella descrizione metaforica, riguardante in particolare la conoscenza del soprasensibile, offrendo una soluzione che va oltre la scienza stessa: quella (cui la stessa prima Critica era approdata) tratta dall’appoggio che l’autocertezza morale dà all’uomo pensante con la bussola della fede: È dunque una fede razionale pura il segnavia o la bussola con cui il pensatore speculativo può orientarsi durante le scorribande della sua ragione nel campo degli oggetti soprasensibili, mentre l’uomo dalla ragione comune, ma (moralmente) sana, può tracciare in anticipo il proprio cammino, sia in intento teoretico che pratico, in modo del tutto adeguato allo scopo totale della sua destinazione; ed è ancora questa fede razionale che va posta a fondamento di ogni altra fede, anzi di ogni rivelazione (WDO, AA VIII 142).

L’analisi critica della ragione e della facoltà conoscitiva in generale, con i suoi elementi, i suoi principi e i suoi confini, non è dunque di per sé sufficiente per rendere possibile (in positivo) una risposta alle domande che sono all’origine della ricerca metafisica. Al suo limitare, la scienza della ragione rinvia alla fede. Si tratta però, come si dovrà poi in qualche misura precisare, di una fede della ragione stessa, una fede che non rompe i ponti con la ragione, ma anzi si accredita con argomenti capaci di appagare un fondamentale interesse della ragione (la quale, anche quando crede, non può cessare di essere ragionante, pensiero mediato e riflettente)37, sebbene non possano risultare oggettivamente cogenti: si tratta anzitutto di inferenze implicite o spontanee della ragione comune, che la filosofia deve solo cercare

37 Cfr. Thomas Aq., Summa theologiae, II-II, q. 1, art. 4, ad 2: «qui credit, non enim crederet nisi videret ea esse credenda»; resp.: «fides importat assensum intellectus ad id quod creditur».

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di esplicitare, rendere coerenti, libere da presupposti inammissibili e passaggi contraddittori. Questa linea prospettica è riconducibile al superamento del paradigma della metafisica come scienza, almeno in quanto appartiene alla filosofia in senso scolastico. Quest’ultima mira soltanto al sistema complessivo del sapere, di tutta la conoscenza (KrV, B 866). Kant la subordina, la mette al servizio della filosofia in senso cosmico. Anche questa è scienza, comporta un atteggiamento scientifico e contenuti scientifici, ma non più come fini a se stessi, bensì rivolti agli scopi essenziali dell’uomo. Nel capoverso precedente Kant aveva detto che la filosofia, più che una scienza, è l’idea di una scienza, che non può mai essere attuata completamente, ma solo per approssimazioni. Questo è detto solo della filosofia in senso cosmico o anche di quella in senso scolastico? E ancora: quella metafisica come scienza sistematica, che Kant dice di poter portare a compimento in poco tempo, e di cui in realtà pubblica almeno i «principi iniziali» (MAN) cinque anni dopo, non è un sapere compiuto, che contrasta col compito infinito del filosofare di cui qui sta parlando? E allora, se la critica è ormai compiuta, se la filosofia trascendentale ha solo bisogno di qualche integrazione e completamento38, se la metafisica della natura è alla vigilia della composizione, tutto questo corpus di conoscenze metafisiche critiche fa parte della filosofia in senso scolastico? Ne farebbe parte, se non fosse ordinato a qualcos’altro, se non fosse la premessa per un ripensamento globale della metafisica che da scienza teoretica pura diventa riflessione teleologica-pratica raccordata alla destinazione finalistico-morale dell’uomo nell’orizzonte del suo mondo, come mondo comune che rimanda alla causa trascendente e ordinante della sua unità dinamicamente ordinata, ossia internamente concordante nel convergere di essere e dover-essere. Di che si tratta? Alla fine della Critica Kant propone l’idea della filosofia come ricerca di «saggezza», di una conoscenza dell’essenziale che è capace di orientare nelle grandi questioni dell’esistenza personale e collettiva proprio perché non si riduce ai problemi risolvibili «oggettivamente» (che sono quelli che cadono nel cerchio dell’esperienza), ma neppure si sottrae alle domande e agli argomenti critici della ragione (anche quando questa si muove in direzione scettica): La metafisica, tanto della natura quanto dei costumi, e specialmente la critica della ragione [...] che le precede come propedeutica, costituiscono esse sole propriamente ciò che in senso genuino possiamo chiamare filosofia. Questa riferisce

38 Anzi nella Erklärung in Beziehung auf Fichtes Wissenschaftslehre del 7.8.1799 Kant dichiara addirittura che nella KrV si trova «il tutto compiuto della filosofia pura» (Br, AA XII 371).

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ogni cosa alla saggezza, ma attraverso la via della scienza, la sola via che, una volta aperta, non è mai ingombra e non porta a errare (KrV, B 878).

La saggezza va concepita come concordanza con i fini ultimi, anzi con lo scopo finale dell’uomo e del tutto. È un concetto pratico-normativo, con implicazioni teoretiche: la considerazione di tutte le cose dal punto di vista della teleologia rationis humanae (KrV, B 867), che è pratico-morale. Emerge così un’idea della filosofia come saggezza teoretica subordinata alla saggezza pratica: è in questo quadro che la considerazione teleologico-morale del mondo delinea appunto un nuovo paradigma della metafisica come (ricerca di) saggezza39. 4. La metafisica al vaglio della critica Kant pensa di poter por fine alle «oscillazioni» millenarie (ma soprattutto moderne) della metafisica introducendo e fissando la distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici e condensando il problema della possibilità e della validità conoscitiva della metafisica nella questione delle condizioni di possibilità di giudizi sintetici a priori: Ora, l’autentico problema della ragione pura è contenuto nella domanda: Come sono possibili giudizi sintetici a priori? Che finora la metafisica sia rimasta in uno stato così oscillante di incertezza e di contraddizioni va ascritto unicamente al fatto che non ci si era fatti venire in mente prima questo problema e forse persino la distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici (KrV, B 19).

Non posso qui soffermarmi sulle analisi della Critica della ragion pura, né tanto meno approfondirne le complicate questioni gnoseologiche, epistemologiche e ontologiche. Mi limito a richiamare quanto Kant stesso, nei Progressi della metafisica, riassume come i risultati principali e irrinunciabili della Critica, riguardo alla metafisica: Sono infatti due i cardini su cui essa ruota: in primo luogo, la dottrina dell’idealità dello spazio e del tempo, la quale, a riguardo dei principi teoretici, si limita ad additare al soprasensibile, per noi inconoscibile, mentre è dogmatico-teoretica sulla via che porta a questa meta, lungo la quale ha a che fare con la conoscenza a priori degli oggetti dei sensi; in secondo luogo, la dottrina della realtà del concetto di libertà, come concetto di un soprasensibile conoscibile, là dove la metafisica però è soltanto dogmatico-pratica. Entrambi i cardini, però, sono per così dire fissati allo stipite del concetto razionale dell’incondizionato nella totalità di tutte le condizioni subordinate l’una all’altra, là dove si deve eliminare la parvenza che produce un’antinomia della ragione pura, mediante la confusione dei fenomeni con gli 39

FM, AA XX 261, 273, 301; cfr. TG, AA II 368 sg.; Refl 4459 (1772), AA XVII 559 sg.

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enti in se stessi, e che in questa stessa dialettica contiene una guida al trapasso dal sensibile al soprasensibile40.

La prima osservazione rimanda alla distinzione tra fenomeni e noumeni, con la conseguente riduzione del campo del conoscibile (e anche della conoscenza sintetica a priori) ai primi (in quanto oggetti di possibile esperienza sensibile) e alla riduzione delle cose in sé alla mera pensabilità (in quanto sottratte alle condizioni a priori della sensibilità). Distinzione che conduce direttamente alla soluzione del problema preliminare della possibilità della metafisica nei termini che si vedranno nel paragrafo seguente. La seconda osservazione corrisponde pienamente a quanto Kant afferma nella lettera a Garve del 21.9.1798 circa la questione o l’aporia da cui era partita la riflessione che l’aveva portato a ripensare e ristrutturare a fondo l’intera impresa della metafisica: la scandalosa situazione antinomica di proposizioni contraddittorie in apparenza legittimamente dimostrabili dalla ragione pura e il suo culminare nel nodo della libertà umana, che era stata fin dall’inizio la croce della metafisica moderna, a partire da Cartesio. Non è l’indagine sull’esistenza di Dio, sull’immortalità ecc., il punto da cui sono partito, bensì l’antinomia della ragion pura: «Il mondo ha un inizio – il mondo non ha alcun inizio» ecc. fino alla quarta [scil.: terza]: «Vi è libertà nell’uomo – non vi è alcuna libertà, bensì tutto nell’uomo è necessità naturale»; è stato anzitutto questo a ridestarmi dal sonno dogmatico e a spingermi alla critica della ragione, per togliere lo scandalo della contraddizione della ragione con se stessa (Br, AA XIII 257 sg.).

5. L’ontologia come scienza Una dominante linea interpretativa, idealistica e neoidealistica, ma anche neokantiana e positivistica, ha voluto vedere nella filosofia trascendentale anzitutto un’anti-ontologia. Questa visione unilaterale ha suscitato, almeno a partire da Heidegger41, una reazione che ha puntato a reinserire la critica kantiana in una linea di continuità con la precedente storia dell’ontologia, sia pure con una certa originalità nei confronti della scolastica cartesiano-leibniziana. È vero che Kant evita più che può, negli scritti editi, il termine ontologia, ma non al punto da celare quel che appare evidente: la filosofia trascendentale (nella sua formulazione critica) è una trasformazione innovati40 FM, AA XX 311. Lo stesso pensiero è espresso in alcune Reflexionen, che però sono datate al 1797, e quindi potrebbero essere posteriori al passo dei Progressi: Refl 6344, AA XVIII 668 sg.; Refl 6348, AA XVIII 672; Refl 6349, AA XVIII 673. 41 M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik (1929), Klostermann, Frankfurt a.M. 1991, trad. it. di M.E. Reina, rev. di V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Bari 1981, 20065.

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va, anzi «rivoluzionaria» (come suggerisce lui stesso), dell’ontologia come parte generale della metafisica, l’unica che, entro confini rideterminati, possa legittimamente presentarsi come scienza (come sapere oggettivo). La critica della ragion pura è sì un esame della possibilità di una conoscenza (sintetica) a priori, e quindi in buona parte una teoria della conoscenza scientifica e anzi della conoscenza in generale (delle facoltà conoscitive, delle loro condizioni di possibilità, del loro rispettivo ambito di competenza, dei loro confini e delle loro relazioni reciproche). Ma lo scopo dichiarato ed effettivamente perseguito è quello di stabilire anzitutto se (ed eventualmente come) la metafisica sia possibile come scienza. E il risultato della ricerca (esposto nella Critica) è noto: la metafisica non è possibile come scienza del soprasensibile (Dio), e neppure come scienza di ciò che gli enti dati nell’esperienza (uomini ed enti naturali) sono in se stessi (nel fondamento essenziale intelligibile del loro essere così come sono), cioè non è possibile come scienza nelle tre parti in cui la scolastica settecentesca suddivideva la metaphysica specialis, ma è possibile come scienza nella sua parte generale (cioè l’ontologia appunto), purché questa venga ristretta a scienza (conoscenza sintetica a priori) dell’ente in quanto fenomeno (cioè oggetto di esperienza possibile) e non venga più concepita e perseguita come presunta scienza dell’ente in quanto ente (come aveva proclamato Aristotele). Ora, da qui deriva incontestabilmente che i concetti puri dell’intelletto non sono mai di uso trascendentale, ma sempre solo di uso empirico e che soltanto in relazione alle condizioni universali di una esperienza possibile i principi dell’intelletto puro possono essere riferiti a oggetti dei sensi, mai invece a enti in generale (senza avere riguardo al modo in cui noi possiamo intuirli). (KrV, B 303)

«Ente in generale» equivale qui a «ente in quanto ente», ossia a ente (conosciuto o almeno considerato) senza restrizioni42: e questo è appunto quello che Kant chiama Ding an sich (cosa in sé)43 o anche noumenon (KrV, B 310), che significa appunto ente pensato senza la limitazione alle condizioni della sensibilità (KrV, A 251), ossia «ente intelligibile» (puramente

42

Cfr. KrV, A 34 sg. = B 51 sg., B 178, 186. Termine equiparato espressamente al latino ens per se (OP, AA XXII 26, 44, 409, 410). Certo non sempre Ding an sich equivale a Ding überhaupt (sono distinti p.es. in KrV, B 114, 178, 298, 410, 644). Ding überhaupt (ente in generale) vuol dire spesso ens qua phaenomenon, cui si applicano le categorie (cfr. KrV, A 246, B 748); qualche volta vuol dire proprio ente in generale senza specificazioni (come in RPolitz, AA XXVIII 1020; Refl 5812, 6390, AA XVIII 361, 703); altre volte indica invece la «cosa in sé» (in senso tecnico kantiano, per cui mantengo la traduzione tradizionale: KrV, A 24 sg., 34 sg., B XXI, XXVII, 39, 443, 608, 610, 809; AA XXIII 47). 43

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pensabile, anche se non conoscibile) ovvero «oggetto del pensare in generale» (KrV, B 391). Va anche precisato, rispetto a quanto enunciato sopra, che l’ontologia come scienza (critica) culmina e sfocia (ha il suo esito conclusivo) nella dottrina («Analitica») dei principi, basata sull’analisi delle forme a priori della sensibilità (tempo e spazio), dell’intelletto (categorie) e dell’immaginazione (schemi), e che costituisce un complesso di proposizioni sintetiche a priori che valgono per la totalità degli oggetti dell’esperienza possibile. Kant peraltro considera questa parte della metafisica (ontologia come filosofia trascendentale) sì come l’unica possibile come scienza entro i limiti precisati, ma anche soltanto come una propedeutica alla vera e propria metafisica44, che per lui rimane la (presunta e comunque cercata) conoscenza del soprasensibile, dell’incondizionato, come chiarisce soprattutto nei Progressi della metafisica45. Va aggiunto che su questa base è possibile anche una metafisica della natura in generale (una parte della cosmologia razionale) ristretta alle leggi universali della natura fisica in quanto realtà fenomenica corporea (estesa, sensibile, soggetta al movimento) (Principi metafisici della scienza della natura). Rispetto alla realtà dell’uomo, invece, quanto al suo lato fenomenico Kant non propone analisi e principi a priori, al di là di quelli della conoscenza, ma soltanto una «antropologia», di impianto dichiaratamente empirico e pratico-pragmatico. Quanto al lato noumenico, Kant, oltre a confutare le pretese scientifiche della psicologia razionale, costruisce una «metafisica dei costumi», che però non si presenta come una parte della metafisica teoretica, basata sull’ontologia generale, bensì come parte (dottrinale) della filosofia pratica, basata sulla coscienza dell’obbligazione morale, che è un «fatto della ragione» tale da imporre una distinzione ontologica tra mero «essere» (di fatto) e «dover-essere», che non solo non poteva rientrare nel quadro dell’ontologia teoretica, ma altresì apre alla filosofia il campo di una nuova considerazione della realtà (anzitutto umana, e secondariamente anche naturale) sotto un profilo non riducibile al fenomenico, e che trova parziale corrispondenza nella (soggettivamente necessaria) interpretazione teleologica di alcuni rilevanti fenomeni naturali (quelli della vita organica). Nella Critica del Giudizio (KU, § 89, AA V 460 sg.) Kant riduce la psicologia teoretica a scienza empirica («mera antropologia del senso interno, cioè conoscenza del nostro sé pensante nella vita»), mentre i problemi caratterizzanti la psicologia razionale sono demandati a una «inferenza della 44 Eigentliche Metaphysik: KrV, B 23 (cfr. B 395, 881); Prol, AA IV 364 (cfr. 362); FM, AA XX 260, 265, 277 (cfr. 292, 309, 315, 316, 317, 318); Refl 5356, 5644, 6414, 6415, AA XVIII 160, 285, 709, 710. 45 FM, AA XX 260; per la critica come propedeutica cfr. anche KrV, A 11, B XLIII, 25.

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teleologia morale». Nella KrV (B 875 sg.) Kant prevede uno schema diverso, in cui accanto alla metafisica della natura corporea compare anche una metafisica della natura pensante (che non sono scienze empiriche, ma pur sempre teoretiche). Quanto alla teologia razionale, Kant confuta puntigliosamente le sue pretese di offrire conoscenze oggettive su Dio e in primis di dimostrarne l’esistenza. Tuttavia non demolisce, e lascia valere come preambolo ad ogni possibile discorso o discussione su Dio, la parte iniziale della «teologia trascendentale» in quanto analisi del concetto di Dio a priori in base al principio della omnimoda determinatio, che però non ha validità scientifica oggettiva, essendo soltanto un principio regolativo, o meglio un presupposto soggettivo della nostra ragione, che può pensare la determinabilità di qualsiasi ente soltanto presupponendo un insieme di determinazioni positive (realitates) insito in un ente originario (KrV, B 599-611). Questa analisi concettuale, che riconduce a un ente sommo contenente ogni realtà il fondamento o il substrato di ogni possibilità, non offre neppure il concetto adeguato di Dio, ma solo il concetto ontologico minimale, che è però una condizione che deve essere rispettata e soddisfatta da ogni ulteriore determinazione del concetto di Dio. Ma, se così è dell’ente, che ne è dell’essere, che pure era diventato, grazie ad Avicenna, un tema ineludibile della metafisica, e anzi ne era stato a lungo (nel Medio Evo) il tema principale? In Kant si tratta di un concetto di Sein in senso forte, esplicitamente identificato con Dasein o Existenz e con Wirklichkeit (effettività, realtà effettiva)46, ricondotto però a una categoria modale47 che trova applicazione in uno dei «postulati del pensiero empirico in generale»48. Wirklichkeit (ben distinta da Realität) corrisponde al termine scolastico actualitas, e ci riporta così alla tradizione aristotelica della correlazione-opposizione tra atto e potenza, attualità e possibilità. Certo Kant appare da un lato legato alla tradizione scotista-suareziana dell’univocità dell’essere, dall’altro all’equiparazione moderna (non solo empiristica) tra esse e percipi49. Egli non si mostra sensibile direttamente alla tradizione avicenniana e tomista dell’essere come actus essendi e dell’analogia dell’essere. Tuttavia ne rimane qualche eco che forse gli ispira una visione originale, seppure non del tutto sviluppata50.

46

BDG, AA II 72-75, cfr. 81-83, 155-157; KrV, B 625-628. KrV, B 106, 184; Prol, §§ 21, 25, AA IV 303, 307. 48 KrV, B 265 sg., 272 sg; Prol, §§ 21, 27, AA IV 303, 309 sg. 49 KrV, B 272; ML2, AA XXVIII 556 sg. 50 Per approfondimenti più accurati delle questioni ontologiche in Kant si raccomandano in particolare gli studi di C. La Rocca, Esistenza e Giudizio. Linguaggio e ontologia in Kant, ETS, Pisa 1999; Id., Soggetto e mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia 2003. 47

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Per lui infatti essere è «posizione (Setzung) assoluta dell’ente», cioè soggettivamente (in quanto «porre») è affermazione basata su qualche percezione (direttamente o indirettamente), oggettivamente (in quanto «esser posto») è esser-dato, datità empirica51. Questo modo di concepire l’essere diventa rilevante in sostanza soltanto nella questione di Dio, nella critica alla «teologia trascendentale» come «ontoteologia». Qui se ne vede però la fecondità e anche i suoi limiti. Si vede cioè che l’essere in senso esistenziale può essere attribuito a Dio solo in senso analogico, che rispetto a Dio (che è per definizione soprasensibile) non si può equiparare essere ed essere percepito, ma che tuttavia anche il concetto della sua essenza va distinto, come quello degli altri enti finiti, tanto dal pensiero della sua esistenza quanto dalla sua esistenza effettiva52. Kant fa dell’essere una categoria della modalità, correlata dunque non solo al suo opposto (non-essere), ma anche alle altre modalità: possibilitàimpossibilità, necessità-contingenza. Le modalità non sono predicati (determinazioni dirette) degli enti, ma determinazioni riflessive sulla datità degli enti e delle loro relazioni. Si trova qui un’eco, in versione moderna, dello sviluppo medioevale della dottrina di Aristotele sul significato dell’essere in quanto essere in atto o in potenza, che da Avicenna in poi diventa una teoria della correlazione di esistenza ed essenza. Se l’essenza è atto, e anzi «atto primo»53, l’esistenza può essere considerata come «atto secondo»; ciò significa che l’essenza va considerata come potenza rispetto all’esistenza, ma costituisce il contenuto determinante di ciò che esiste; l’esistenza è il venire in atto di quel contenuto, un attuarsi che è necessario perché vi sia un singolo ente determinato, e che va inteso come compimento o perfezione della possibilità; ma l’esistenza è anche l’esserci fattuale e contingente di tale ente, che si pone e si dà nell’esperienza, o comunque nel mondo dei fatti. Kant non segue il primo punto di vista, perché critica la formula wolffiana dell’existentia o actualitas come complementum possibilitatis54 (che formalmente è aristotelica, ma tendenzialmente essenzialista, cioè orientata a considerare l’esistenza solo entro il quadro delle essenze); la critica proprio perché il complementum viene visto come un’aggiunta che si colloca sulla stessa linea (delle determinazioni essenziali). Kant segue dunque il secondo 51

KrV, B 58, 272, 278; ML2, AA XXVIII 557. Va notato che questa distinzione veniva avanzata e sostenuta proprio da chi, come Tommaso, identificava in Dio essenza ed essere e anzi identificava Dio con l’essere stesso in quanto sussistente; posizione certo non condivisa da Kant, e forse da nessuna altra corrente filosofica. 53 Entelecheia he prote, come Aristotele diceva dell’anima come forma del corpo organico (De anima II 1), basandosi sulla differenza analogica tra il possesso della scienza (episteme) e il suo esercizio attuale effettivo (theorein). 54 Ch. Wolff, op. cit., § 174. 52

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punto di vista, e comprende l’esserci come «porsi» (Position, Setzung) e come «darsi» nell’esperienza55. Tuttavia questo può valere solo per i fenomeni. Le realtà noumeniche sono affermate in generale come «esistenze», sia pure magari soltanto come problematiche; in realtà vanno «assunte» come «necessarie», almeno nell’indeterminatezza del substrato e del fondamento intelligibile di ogni datità empirica. Per le realtà noumeniche l’esistenza può essere affermata, o anche soltanto ipotizzata, in un senso diverso da quello di un dato empirico56. In conclusione: considerata questa reimpostazione e ricostruzione dell’ontologia, la metafisica così intesa (e costituita possibile) come scienza pura a priori non sarebbe più quanto preteso da Aristotele in poi; sarebbe una scienza filosofica particolare, relativa a un certo tipo di ente; il che è vero: Kant «limita», restringe la portata della metafisica come scienza (dottrinale), il suo campo o ambito oggettuale, o meglio il suo territorio (quello conoscibile del fenomenico) in quanto giurisdizione della ragion pura, o meglio dell’intelletto puro; tuttavia la metafisica come (scienza) critica apre (senza de-terminarlo) il campo del pensabile, ossia del noumenico, e quindi stabilisce (Prol, § 59, AA IV 361) pur qualcosa sull’ente in quanto ente, che va pensato come campo insieme del fondato e del suo fondamento ultimo; la metafisica come critica è scienza del limite e del confine, ma appunto per questo deve aprire anche il campo di ciò che è oltre il confine e stabilirne la relazione con l’aldiqua57. 6. La svolta della metafisica teleologico-morale Non posso qui soffermarmi sulla critica sviluppata da Kant nella Dialettica trascendentale rispetto alle pretese conoscitive della metafisica speciale in ordine alle tre idee trascendenti della ragione (anima, mondo e Dio). Vorrei puntare l’attenzione invece sulla ricostruzione positiva della metafisica rispetto alla conoscenza del soprasensibile. Qui la svolta è segnata indubbiamente da un nuovo punto di partenza fissato nell’ambito pratico, nella coscienza insopprimibile di una legge incondizionata della ragione che diventa la chiave che apre il mondo noumenico come «regno della libertà». Non si è certo potuto fare a meno di registrare come «via morale» questo 55 Il che non equivale a una tesi puramente soggettivistica, come in fondo sostiene M. Heidegger, Kants These über das Sein, Klostermann, Frankfurt a.M. 1963, trad. it. a cura di F. Volpi in Id., Segnavia, Adephi, Milano 1987, pp. 393-427, sia pure in modo estremamente raffinato, che andrebbe discusso in altra sede. 56 Nella Refl 4349, AA XVII 515 sg., alla libertà viene attribuito un «esser data a priori», anzi un «dare a priori», che probabilmente indica un «darsi» (Geben nel senso di sich Geben). 57 C. Esposito, I limiti del mondo e i confini della ragione. La teologia morale di Kant, in Etica e mondo, a cura di L. Fonnesu, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 237-269.

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recupero argomentativo delle tesi tradizionali relative alla libertà del volere, all’immortalità dell’anima e all’esistenza di Dio, tanto più che Kant stesso ha parlato di «prova morale» (KU, § 87-88). Non abbastanza invece si è dato peso al fatto che si trattava di una ricostruzione basata su una specifica riflessione teleologica, che Kant chiama teleologia morale. In particolare non si è dato adeguata importanza all’esplicita asserzione di Kant, nel saggio Sull’uso di principi teleologici nella filosofia, che per lui si trattava di tentare di rispondere alle grandi questioni della metafisica per la via della teleologia, certo non tanto quella della teleologia teoretica (cioè fisica), bensì quella della teleologia pratica pura (ossia morale)58. Se per natura si intende l’insieme di tutto ciò che esiste in modo determinato secondo leggi, comprendendovi insieme il mondo (in quanto cosiddetta natura in senso proprio) con la sua causa suprema, l’indagine della natura (che nel primo caso si chiama fisica, nel secondo metafisica) può tentare di procedere in due modi: o per la via meramente teoretica, oppure per la via teleologica; per quest’ultima via, però, può, in quanto fisica, usare soltanto scopi tali che possono esserci noti attraverso l’esperienza; in quanto metafisica, invece, può usare al proprio intento, in modo adeguato alla sua vocazione, soltanto uno scopo che è stabilito dalla ragione pura. Ho mostrato altrove che nella metafisica la ragione non può raggiungere, come auspica, il suo intero intento (a riguardo della conoscenza di Dio) per la via teoretica della natura, e che dunque le rimane soltanto la via teleologica; in modo tale, però, che a integrare la manchevolezza dell’insufficiente teoria non possono essere gli scopi naturali, che poggiano soltanto su fondamenti probatori dell’esperienza, bensì deve essere uno scopo dato a priori in modo determinato dalla ragione pratica pura (nell’idea del sommo bene) (ÜGTP, AA VIII 159).

Se si mettono in riga questa affermazione programmatica, le enunciazioni dell’ultima sezione della Critica del Giudizio e le successive formulazioni riepilogative dei Progressi della metafisica, si possono ritracciare i contorni di una metafisica teleologico-critica, che Kant chiama «dogmatico-pratica»59. Il terzo stadio della metafisica: trapasso dogmatico-pratico al soprasensibile (FM, AA XX 293). È ormai possibile disegnare il terzo stadio della metafisica nei progressi della ragion pura verso il suo scopo finale. Esso costituisce un cerchio, la cui linea di contorno ritorna in se stessa [...]. Dopo essersi liberata da ogni elemento empirico, infatti, [...] la ragione descrive il proprio orizzonte, il quale, partendo in modo dogma58

ÜGTP, AA VIII 182 sgg.: «reine Zweckslehre», «reine praktische Teleologie». FM, AA XX 311. Ricostruzioni comparabili a quella abbozzata qui si trovano in F. Portmann, Einheit aus der Metaphysik. Eine alternative Rekonstruktion der Kantischen Lehre, Alber, Freiburg-München 2000, che però presenta risvolti alquanto discutibili, e soprattutto, con maggiore equilibrio e penetrazione, in F. Fraisopi, Adamo sulla sponda del Rubicone. Analogia e dimensione speculativa in Kant, Armando, Roma 2005. 59

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tico-teoretico dalla libertà, come facoltà soprasensibile, ma conoscibile in forza del canone della morale, alla stessa libertà ritorna anche in intento dogmatico-pratico, cioè rivolto allo scopo finale, il sommo bene da promuovere nel mondo; la cui possibilità viene integrata attraverso le idee di Dio, dell’immortalità e la fiducia dettata dalla moralità stessa, nella riuscita di questo intento, procurando così a questo concetto una realtà oggettiva, ma pratica (FM, AA XX 300). Ciò che è dunque impossibile sotto il profilo teoretico, ossia il progresso della ragione verso il soprasensibile del mondo in cui viviamo (mundus noumenon), cioè verso il sommo bene derivato, è invece effettivo sotto il profilo pratico [...]; vale a dire: si può e si deve, in analogia con la teleologia fisica [...], ammettere a priori [...] il mondo come destinato a incontrarsi con l’oggetto della teleologia morale, ossia con lo scopo finale di tutte le cose secondo le leggi della libertà, per tendere all’idea del sommo bene [...] (FM, AA XX 307).

Questo percorso rifondativo inizia dal Canone della prima Critica, che dalla realtà della libertà pratica e della legge morale ricava l’idea indispensabile di un «mondo morale» come «sistema di tutti gli scopi», la cui possibilità può essere pensata solo ammettendo un Dio morale e una vita futura (KrV, B 835-847). Prosegue con le Lezioni di teologia razionale del 1783/84, che esplicitano al massimo il perno teleologico del «teismo morale», collegandovi l’argomento dell’absurdum practicum in cui cadrebbe chi non ammettesse l’esistenza di Dio e una vita futura60. Queste lezioni, però, ancora non sono investite dalla scoperta del principio morale nell’autonomia, raggiunta da Kant solo nella Fondazione della metafisica dei costumi, che non a caso contiene un forte nucleo teleologico-morale. Nella Critica della ragion pratica, dove Kant mette a frutto tale principio e porta a un culmine provvisorio la ricostruzione metafisica con la dottrina del sommo bene e dei postulati, egli sembra voler neutralizzare e velare il più possibile questo sfondo teleologico, probabilmente per evitare equivoci e confusioni col principio dell’eteronomia, che egli stesso non aveva del tutto evitato neppure nella prima Critica61. La Dialettica della ragion pratica argomenta che anche la ragione pura pratica, come quella speculativa, cerca la «totalità incondizionata» del suo oggetto, che qui è «l’incondizionato per ciò che è praticamente condizionato» (KpV, A 194), e lo trova nell’idea del sommo bene (come sintesi proporzionale di virtù e felicità) scaturente dalla coscienza della legge morale che ne prescrive l’attuazione come dovere, e per la cui eseguibilità è necessario postulare l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio.

60

RPölitz, AA XXVIII 1002 sg., 1010-1012, 1071-1075, 1083. Non potendo qui chiarire meglio, rimando, anche per i contesti ulteriori, al mio lavoro Il millennio del filosofo: chiliasmo e teleologia morale in Kant, ETS, Pisa 2001, parte III: Morale e teleologia. 61

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GERARDO CUNICO

Con la Critica del Giudizio (KU, §§ 86-89) e la Religione (Prefazione del 1793) la cornice, anzi la struttura teleologica dell’argomentazione ritorna in evidenza e così nei Progressi della metafisica. Soprattutto nel § 88 della terza Critica Kant espone con maggiore accuratezza i distinti passaggi di questa complessa inferenza, distinguendo in particolare il passaggio dallo scopo finale dell’uomo allo scopo finale della creazione e poi da quest’ultimo all’esistenza di un autore morale del mondo, e chiarisce sia pure rapidamente il presupposto (o fondamento) di tutta la prova, che è appunto l’idea morale (teleologico-pratica) di scopo finale62, con una limpidità che sarà superata solo dal passo altrettanto sintetico della Religione. Un’annotazione manoscritta ci restituisce forse meglio di altri passi più spesso citati il nocciolo dell’argomentazione con cui Kant raccorda la morale autonoma alla telelologia (morale) e attraverso di questa alla teologia (morale): La ragione non può imporci la condizione suprema dei nostri scopi (nella legge morale), senza al contempo prescriverci lo scopo finale della nostra esistenza come uno scopo tale da dover essere al contempo il nostro scopo . Ora, questo scopo è sempre la felicità; ma la morale comanda che esso possa essere lo scopo finale nostro, e in generale degli enti razionali nel mondo, soltanto a condizione di essere degni di essere felici. Ora, come la ragione interiormente disposta in senso morale non può pensare felicità senza buona condotta, così non può pensare neppure la buona condotta senza la felicità, se si considera come legislatrice persino per la natura. Dunque, se cerca la necessità delle leggi morali nel substrato soprasensibile degli enti razionali del mondo, essa deve pensare in questo substrato anche il principio della felicità di tali enti, quindi una divinità che congiunga i due elementi dello scopo finale (Refl 6317a [1790], AA XVIII 632).

Occorre però puntualizzare che la riflessione teleologica che viene così a sostituire l’argomentazione «dogmatico-teoretica» è una forma di conoscenza sui generis, che Kant cerca di descrivere con varie formule, tutte soltanto approssimative: conoscenza in intento pratico, sapere dogmatico-pratico, fede morale, fede pratica ecc. Tale riflessione, essendo l’applicazione suprema e più importante della facoltà del Giudizio riflettente, può essere compresa adeguatamente solo se intesa come «interpretazione» del mondo, ossia della realtà nel suo complesso, a partire dall’autocomprensione morale dell’uomo stesso; un comprendere riflettente, ossia interpretante, che si dif-

62 Ho cercato di precisare meglio questi punti in Erklärungen für das Übersinnliche: physikotheologischer und moralischer Gottesbeweis (§§ 85-89), in AA.VV., Immanuel Kant. Kritik der Urteilskraft, hrsg. von O. Höffe, Akademie Verlag, Berlin 2008, pp. 309-329.

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ferenzia nettamente dal conoscere determinante del sapere teoretico oggettivo63. È qualcosa di soggettivo? Si tratta di «ammissioni», di «presupposizioni» non arbitrarie, ma necessarie, perché, se funzionali all’interesse soggettivo della ragione pratica, risultano giustificate oggettivamente dalla necessità oggettiva dell’interesse pratico-morale, della coscienza morale e quindi dello scopo finale che ne deriva e della visione teleologico-morale del mondo che ne risulta64. Un passo giustamente famoso del saggio sulla teodicea del 1791 (MpVT, AA VIII 264) formula esplicitamente tale considerazione teleologico-morale del mondo come «interpretazione autentica», legittimata dalla voce di Dio stesso che parla nell’unico modo inequivocabile dentro di noi attraverso la coscienza morale, dando così un «senso» alla «lettera» della sua creazione. Questa formulazione diventa esplicitamente possibile solo dal momento in cui Kant ri-assume direttamente la teleologia entro la sua prospettiva morale. Questo era già avvenuto parzialmente (o meglio: per singoli pezzi) nella Fondazione della metafisica dei costumi, che aveva introdotto criticamente concetti teleologico-morali fondamentali come la distinzione tra scopi soggettivi e scopi oggettivi, la nozione dell’uomo come scopo in sé e l’idea del «regno degli scopi». Nella Critica del Giudizio, Kant opera di colpo questa ri-assunzione concludendo l’Introduzione con una tabella riassuntiva delle facoltà e dei loro principi, in cui alla morale assegna come principio non più la legge, e nemmeno la libertà o l’autonomia, bensì proprio lo «scopo finale» (KU, AA V 198). Per spiegare questa inaspettata ripresa si può partire da un’asserzione quasi definitoria: «L’effetto secondo il concetto di libertà è lo scopo finale» (KU, AA V 195 sg.). L’effetto è qui un «essere» (uno stato di cose nel mondo) causato (prodotto) dalla volontà (libera) così come «deve essere» in base alla semplice idea di questo dover essere. Se infatti un effetto prodotto secondo un concetto è uno scopo (KU, AA V 219 sg., 426), scopo finale (cioè incondizionato) è un effetto prodotto secondo la legge morale che comanda incondizionatamente. Ora lo scopo finale può essere inteso qui sia come lo scopo immanente dell’etica, cioè la volontà buona (virtuosa o santa che sia), sia come lo scopo inclusivo. Certo la Prefazione alla prima edizione della Religione puntualiz-

63 Per qualche precisazione rinvio al mio testo Comprensione del senso e Giudizio teleologico. Sulla teoria dell’interpretazione di Kant, in Etica, religione e storia. Studi in memoria di Giovanni Moretto, a cura di D. Venturelli, R. Celada Ballanti e G. Cunico, Il Melangolo, Genova 2006, pp. 359-371. 64 Si veda su questo il mio saggio Il mondo come totalità teleologica, in Etica e mondo in Kant, cit., pp. 209-235.

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za che questo scopo finale sintetico65 è conseguenza e non fondamento dell’obbligazione morale, ossia del dover-essere auto-evidente per ogni essere razionale (RGV, AA VI 3-6). E tuttavia, dal fatto che la Critica del Giudizio dice più volte che tale scopo finale è l’oggetto (supremo), ossia lo scopo della legge morale66 si potrebbe anche ricavare l’interpretazione che lo stesso dover-essere etico è incluso in un dover-essere più ampio coincidente con lo scopo finale, come il massimo scopo che è al contempo dovere67, ossia come il bene sommo onniinclusivo, che a questo punto diventerebbe davvero il principio ultimamente fondante dell’etica e della morale tutta. Certo non potrebbe essere il fondamento in chiave di legittimazione argomentativa, come ratio cognoscendi: la legge morale deve fondarsi sempre su se stessa e valere di per sé, non può essere derivata da altro. Ma essa non è che l’espressione normativa e imperativa dell’idea pratica, e questa implica un dover-essere e un dover-fare che non è indirizzato solo all’uomo, ma anche al mondo e al suo autore: il dover-essere dell’essere stesso. La legge morale stessa si rivela come una condizione del realizzarsi del bene intero dell’essere tutto, ossia dell’essere in senso pieno, dell’essere pieno di senso. Che sia ordinata a tale scopo inclusivo non vuol dire dunque che vi sia subordinata come un semplice mezzo, ma solo che ne è condizione essenziale e necessaria, ma non unica né sufficiente. E ancora, come si vede dalla prospettiva del «regno degli scopi», la legge non è che la condizione indispensabile per l’attuarsi di un perfetto sistema teleologico degli esseri razionali, che ne costituisce lo scopo finale immanente in senso oggettivo, così come deve diventare anche lo scopo finale soggettivo cosciente delle singole persone morali. Riassumendo, si potrebbe dire, riallacciando la teleologia morale all’impostazione della prima Critica, che Kant, con la sua ricostruzione della metafisica in senso teleologico-morale, rovescia il rapporto tradizionale (anche moderno) di fondazione tra metafisica ed etica, operando una vera e propria «rivoluzione copernicana» non solo dal lato dell’etica autonoma (sgan65 Eccedente o ampliante il dover-essere etico, come dirà anche Sopra il detto comune, TP, AA VIII 279 sg. 66 KU, AA V 455: «oggetto della legge morale»; 457: «oggetto della nostra ragione pratica»; 470: «oggetto supremo di tutte le leggi morali»; 470: «oggetto del dovere»; 472: «oggetto della moralità»; il che significa che le leggi morali (i singoli doveri) convergono nel prescrivere il dover-essere del sommo bene. 67 La formula impiegata sistematicamente nella Metafisica dei costumi, sia per definire il dovere etico in senso stretto (MS-RL, AA VI 239; TL, AA VI 380-385), sia per definire la virtù come scopo finale etico dell’esistenza dell’uomo sulla terra (TL, AA VI 405), non solo è usata occasionalmente anche per designare la pace perpetua come supremo scopo giuridico-politico (ZeF, AA VIII 368, 377; MS-RL, AA VI 354 sg.), ma talora traspare anche, sotto termini equivalenti, applicata allo scopo finale di tutte le cose, al sommo bene inclusivo (VT, AA VIII 396; VNAEF, AA VIII 418).

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ciata dalla metafisica nella sua fondazione, almeno per quanto concerne l’obbligatività), ma anche dal lato della metafisica. Di fronte alla critica di Hume al passaggio ingiustificato dall’essere (Is, Sein) al dover-essere (Ought, Sollen), Kant ribalta questo procedimento, proponendo e argomentando la legittimità (non «assertoria», ossia teoretico-oggettiva, ma «assuntoria», ossia ermeneutico-postulatoria) del passaggio dal Sollen al Sein, ossia la legittimità (difendibilità) razionale dell’inferenza di postulati (in se stessi teoretici) da una generale premessa morale onniinclusiva e insfuggibile, che autorizza, in quanto senza alternative praticabili per la riflessione razionale di chi è orientato moralmente, una interpretazione complessiva del mondo (ossia dell’essere dell’uomo e della natura) come ultimamente subordinato, nella sua esistenza e nella legge che la governa, al dover-essere connesso allo scopo finale scoperto in quanto auto-imposto dalla ragione pratica. 7. Metafisica etico-teleologica e religione La metafisica rifondata a partire dalla riflessione teleologico-morale è presentata da Kant come parte integrante, anzi come corpo primario della religione della ragione, ovvero (in quanto ricostruzione riflessiva e giustificazione critica di questa) della dottrina filosofica della religione68. Il libro sulla Religione entro i confini della semplice ragione mostra che questa non è tutta la (filosofia della) religione, ma solo la religione puramente «scaturente dalla semplice ragione» (aus blosser Vernunft)69, e che la religione non è solo la fede (pratica) nel Dio morale garante del sommo bene, bensì anche la fede («riflettente») nel Dio soccorritore e perdonatore delle debolezze umane (RGV, AA VI 52) e la fede (etico-comunitaria, comunicativamente condivisa) nel Dio istitutore della comunità etica degli uomini orientati al bene che sorge e deve svilupparsi nella storia reale dell’umanità (RGV, AA VI 98-124). Tuttavia la metafisica critica è la base portante di questa religione allargata alla riflessione storica e al dialogo con le fedi storiche e i documenti scritturali delle rivelazioni positive70. Kant assicura più volte che questa metafisica, pur non presentando tesi dimostrabili con argomenti oggettivamente cogenti (convincenti) sul piano teoretico, contiene le proposizioni cardinali (congruenti con l’interesse pratico della ragione) provate «in modo sufficiente» in intento pratico, ovvero

68 KpV, AA V 122, 129 sg., 131; KU, AA V 473 sg., 476, 481 sg.; RGV, AA VI 6-8, 10 sg.; SF, AA VII 6. 69 Per usare le formule impiegate da Kant stesso in SF, AA VII 6. 70 Su queste tematiche rimando in particolare a G. Ferretti, Ontologia e teologia in Kant, Rosenberg & Sellier, Torino 1997.

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GERARDO CUNICO

«pienamente soddisfacente» per tale interesse pratico della ragione71. Vi si trovano infatti indicate le condizioni di pensabilità per noi (in base alle nostre capacità conoscitive) dell’attuazione dello scopo finale che è nostro dovere promuovere e avviare a realizzazione. In che senso questa metafisica critica, riflessiva e argomentata, è designabile anche come religione? In quanto l’assenso accordato a determinate proposizione in base a ragioni solo soggettivamente convincenti può e deve esser detto «fede». E se queste ragioni poggiano sulle convinzioni morali e sull’orientamento morale (la decisione fondamentale per il bene morale) e si accordano con l’interesse pratico-morale, allora questa fede non è puramente soggettiva e discrezionale e va detta fede morale (o pratica), ovvero «fede della ragione». Una fede della ragione non può basarsi su una dimostrazione cogente72, ma è pur sempre fede ragionata, fede poggiante su ragioni, su inferenze riguardanti i principi incondizionati della totalità incondizionata di tutte le relazioni causali, finali e comunicative. Certo questa fede non è solo assenso (Fürwahrhalten), nel senso di «credere che ...»; è anche fiducia (Vertrauen), nel senso di «credere in ...», in questo caso nel senso di affidarsi alla promessa della legge morale, o meglio a quella promessa che noi colleghiamo con tale legge interpretandola come fondamento di un mondo teleologicamente ordinato all’attuazione del bene, e anzi del sommo bene73. Assumere (far propria) questa fede significa reinterpretare l’obbligazione morale in relazione alla nostra esistenza nel mondo (ovvero la nostra esistenza nel mondo in relazione alla destinazione morale) come essere liberi di fronte all’Origine incondizionata dell’essere e del bene (Dio come sommo bene originario), ossia significa «riconoscere i nostri doveri morali come comandamenti divini», come suona la definizione peculiare della religione formulata da Kant74. E questo riconoscimento (per fede) comporta una fiducia nell’attuabilità e sensatezza della nostra destinazione al bene, ossia nell’attuazione in ultima istanza del bene integrale inclusivo, e quindi una fiducia fondamentale nella Fonte eterna di ogni essere, di ogni libertà, di ogni bene, e insieme, correlativamente, nella positività del nostro inserimento nelle imperscrutabili interrelazioni cosmiche e dell’apertura alle vicende del mondo e della storia. Così questa metafisica, che si risolve in fede ragionata, implica il nostro rapporto riflessivo (re-ligamen) di esistenti riflettenti finiti (certo qui a parti71

KU, AA V 400, 447, 456, 468, 472, 476. KU, AA V 450 sg., 469. Si veda anche la lettera a Fichte del 2.2.1792 (Br, AA XI 322). 73 KU, § 91, AA V 471 sg.; Log, AA IX 69. Su questo secondo e diverso senso di «fede» ha richiamato l’attenzione F. Menegoni, Fede e religione in Kant 1775-1798, Pubblicazioni di Verifiche, Trento 2005, pp. 66-71. 74 KpV, AA V 129; KU, AA V 481; RGV, AA VI 153; MST, AA VI 443, 487. 72

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re dall’intimità della propria coscienza) con ciò che è più che umano, oltreumano, non solo fuori di noi, ma anche dentro di noi: con gli altri, con la natura (in noi, negli altri uomini, nel mondo organico e nel cosmo inorganico che ci circonda), con l’Origine altrimenti enigmatica, ma ora (alla luce di questa fede) positivamente misteriosa, in quanto impenetrabile, del Bene totale, ossia dell’esistenza e della libertà, della natura e dello spirito, dell’essere e del dover-essere, del tutto.

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Luigi Caranti

Politica*

Premessa Al pensiero politico kantiano è toccato un destino peculiare: la sua fortuna sembra raggiungere il picco all’indomani di grandi tragedie e sconvolgimenti dell’umanità. Il ritorno a Kant dopo periodi di crisi e drammatici momenti di svolta, non solo culturale, dell’era moderna salta agli occhi per la sua regolarità. Terminata la prima guerra mondiale, il pacifismo wilsoniano tentò di ricostruire un ordine internazionale stabile e sicuro sulle macerie di una devastazione che per la prima volta aveva assunto dimensioni globali. Il tentativo del presidente statunitense di irretire le forze nazionali in campo nel primo dopoguerra sarebbe forse apparso a Kant come lo sforzo di un allievo volenteroso ed entusiasta che, nell’applicare i precetti del maestro, avesse partorito un ibrido destinato al fallimento. E la pungente ironia di Rousseau, critico di Saint Pierre e del suo progetto di pace che pretendeva di scongiurare la guerra affidandosi alla buona volontà di chi ne era la principale causa (i tiranni), si sarebbe potuta rivolgere a buon diritto anche alla costruzione istituzionale wilsoniana. Questa, infatti, lasciava all’iniziativa delle grandi potenze nazionali – le responsabili del primo conflitto mondiale appena concluso – il compito di prevenire nuovi conflitti ed eventualmente sanzionare violazioni del nascente diritto internazionale. Al di là dei suoi evidenti limiti, tuttavia, la Società delle Nazioni mosse il primo passo verso una riforma dell’ordine internazionale westfaliano. E questo fu, almeno in spirito, un passo di matrice chiaramente kantiana. Come è noto, la fallimentare esperienza della Società delle Nazioni, l’esplodere di tensioni sociali mal gestite e l’avanzata di un pensiero antiliberale, anti-universalista e ostile ai diritti dell’uomo fermarono subito questa evoluzione e l’umanità ripiombò presto in un disordine di ideali prima che di cose. Dopo l’esperienza dell’Olocausto e del “sonno della ragione” che trascinò l’umanità negli orrori del Nazismo e della seconda guerra mon* Le parti I.1 e II di questo saggio appaiono, con alcune difformità rispetto alla versione presente, all’interno di altri miei scritti. Rispettivamente: Per una teoria kantiana dei diritti umani, in Leggere Kant, a cura di C. La Rocca, ETS, Pisa 2007, pp. 203-226 e Kant e l’agire politico, «Rivista di Filosofia» (in corso di stampa). Ringrazio Alfredo Ferrarin, Angela Taraborrelli, Filippo Gonnelli, Carlo Carleo e Chiara Beghelli per la lettura del manoscritto e per le loro indicazioni.

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LUIGI CARANTI

diale, il pensiero politico di Kant tornò a orientare un’umanità allo sbando e trovò la sua realizzazione istituzionale nelle Nazioni Unite, approssimazione certo migliore all’ideale kantiano di “Federazione di stati liberi”, o addirittura di “Repubblica mondiale”, di quanto non fosse stata la Società delle Nazioni. Ma anche gli altri due pilastri del pacifismo kantiano, il repubblicanesimo e il diritto cosmopolita, sembrarono sul punto di segnare il loro definitivo trionfo. Nonostante tra i vincitori della guerra vi fossero potenze tutt’altro che liberali (URSS e Cina), l’ideale lato sensu democratico si affermò nettamente sul militarismo e sul nazionalismo che avevano infettato l’Europa per tutto il periodo successivo al Congresso di Vienna. La seconda ondata di democratizzazione, in gran parte conseguenza della decolonizzazione, che avrebbe di lì a breve assunto dimensioni massicce sembrò seguire il precetto kantiano di “repubblicanizzare” le istituzioni nazionali come premessa necessaria per la pace. Il diritto cosmopolitico kantiano, poi, trovò una realizzazione e una potente espansione nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 e nei Trattati che, dalla fine degli anni sessanta in poi, attribuirono status giuridico a quella lista di diritti. Senza contare le radici evidentemente kantiane del progetto originario dell’Europa – ad oggi la dimostrazione più stupefacente della bontà della ricetta kantiana per la pace – il pensiero di Kant tornò ad essere il faro ispiratore di riforme istituzionali significative durante gli anni che prepararono, videro e sancirono il crollo dell’ultima grande ideologia illiberale del secolo breve. Alla caduta del muro di Berlino, all’alba cioè della terza ondata di democratizzazione, la maggior parte degli scienziati politici (realisti esclusi) e politici di professione (quattro amministrazioni statunitensi di seguito, tanto per fare un esempio) convenivano sul fatto che il destino dell’umanità e della pace dipendevano dall’avanzata degli ideali liberal-democratici e dalla riuscita traduzione di questi in concrete istituzioni libere (a livello nazionale, regionale e globale). Il progetto scientifico della pace democratica e il parallelo progetto politico della democratizzazione del mondo, pur con le rispettive storture e fraintendimenti, anche di portata gigantesca (vedi la seconda guerra in Iraq) si imposero come la nuova ideologia dominante per la fine del XX secolo. Anche se si vuole dubitare del significato e della portata di questi ricorsi storici, nonché dell’interpretazione che di essi abbiamo dato – Kant come traghettatore dell’umanità al di fuori del ricorrente oscuramento della ragione – pochi obietteranno sul fatto che la riflessione politica kantiana gode oggi di un’influenza e di un credito enormi. Forse nessun altro “settore” della filosofia kantiana può vantare una fortuna tanto significativa ed estesa. Ciò è senz’altro vero se si pensa all’epistemologia di Kant e, specificamente, alla dottrina dell’idealismo trascendentale, entrambi di norma guardati con “rispetto e sospetto” da una filosofia analitica sempre più orientata verso

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una qualche forma di naturalismo. E sebbene in misura minore, ciò è vero anche per l’etica kantiana che di regola suscita poderosi distinguo e tentativi di “attualizzazione”, “de-rigorizzazione”, “rimozione-di-basi-metafisiche”, nonostante la sua enorme influenza. Destino piuttosto singolare se si crede, come la maggior parte degli interpreti continua a fare, che la politica kantiana regga a condizione che reggano altri “settori” del suo pensiero oggi decisamente meno amati. In questa sede vogliamo occuparci proprio di questa questione. Invece di ripercorrere tutti i capisaldi del pensiero politico kantiano (diremo poco sul suo pacifismo, ad esempio), cercheremo di approfondire la relazione che Kant intravede tra morale, diritto e politica, tentando di stabilire i rispettivi confini. Una questione particolarmente importante perché nel sistema kantiano la politica occupa un ruolo ambiguo e di non facile decifrazione: per un verso è secondaria, data la sua subordinazione alla morale e al diritto; per un altro gode di un primato incontestabile ed esplicitamente attribuitole da Kant stesso. Alla politica, infatti, Kant affida il compito di far avanzare il genere umano verso la sua destinazione finale: una condizione di pace stabile regolata dal diritto. Tale progresso non è assicurato dalla morale, nonostante il suo primato “logico” nei confronti della politica, ma appunto da accorgimenti squisitamente politici che stati e popoli devono adottare. La morale rimarrebbe un elenco di giusti principi senza capacità trasformativa dell’esistente ove il suo “braccio esecutivo”, la politica appunto, non facesse la sua parte, e – cosa che dovremo chiarire bene – non la facesse con mezzi, metodi ed esperienze suoi propri. D’altra parte, una tale ambiguità è riflessa nelle opere kantiane. Da un lato, gli scritti politici appaiono secondari e periferici rispetto a quelli teoretici e morali, tanto che si possono intendere i secondi senza i primi, mentre difficilmente vale l’inverso. Dall’altro, poiché Kant sposa l’idea per cui sono le leggi e le istituzioni buone che generano uomini buoni e non viceversa, la politica si trova a giocare nel sistema un ruolo assolutamente primario, oltre che suo proprio e non delegabile ad altro ambito (pedagogico, morale o giuridico)1. «Non possiamo attenderci – dice Kant – che siano le attitudini morali dei popoli a produrre una buona costituzione politica. Al contrario, è attraverso quest’ultima che ci si può attendere che un popolo raggiunga

1 Tale tesi è stata ripresa in una forma diversa da Rawls nella terza parte di Una teoria della giustizia (Harvard University Press, Cambridge 197125) dedicata alla stabilità. Si vedano in particolare le tre leggi di psicologia morale (§ 75) dove si insiste sul fatto che la giustizia delle istituzioni genera un attaccamento dei membri nei confronti dell’istituzione stessa e facilita lo sviluppo di alcune disposizioni morali quali la fiducia e l’amicizia nei confronti di altri membri.

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un buon livello di cultura morale»2. Su questo Kant torna spesso, tanto nella sua filosofia della storia quanto nella concezione della comunità morale (la “chiesa invisibile”), espressa nel suo scritto sulla religione. A sua detta gli uomini non faranno alcun passo in avanti nel loro miglioramento morale se non inseriti in un contesto civile, meglio se regolato da leggi non dispotiche, ma repubblicane. Non sono dunque la morale, l’educazione, la cultura, cui pure Kant attribuisce enorme importanza, ad essere chiamate a cambiare l’esistente. Questo compito, almeno nelle sue battute iniziali, tocca alla politica, che certo prende a prestito i suoi principi ispiratori dalla morale, ma al tempo stesso può e deve tradurli in realizzazioni istituzionali concrete. Compito che deve svolgere con molto giudizio, trovando da sé una via percorribile tra la Scilla dello status quo e la Cariddi dell’estremismo moralistico controproducente. Alla politica tocca dunque compiere il primo passo per innescare un circolo virtuoso che dal miglioramento dell’assetto istituzionale conduca al miglioramento della moralità degli uomini nel tempo, la quale, a sua volta, raffinerà ulteriormente le istituzioni. Nell’ordo idearum la politica viene dopo, in quanto la giustizia politica è in ultima analisi modellata sull’imperativo categorico, ma nell’ordo rerum essa gode di un chiaro primato. Dunque, se uno sforzo di chiarificazione dei confini è importante, occorre tener presente che ricostruire il pensiero kantiano sulla politica, e il rapporto di questa con altri ambiti, può voler dire due cose piuttosto diverse. Parlando di filosofia politica kantiana, sulla scia di Rawls, ci si riferisce di solito alla sua concezione della giustizia, ossia al modo di intendere lo stato, le relazioni tra stati e il diritto cosmopolita. In questa filosofia politica si fanno rientrare anche temi specifici quali la teoria della proprietà privata, il diritto alla ribellione nei confronti del sovrano (o meglio la negazione di questo), la concezione redistributivista della pena, le idee di Kant su ciò che oggi chiameremmo i diritti umani. Tale filosofia politica potrebbe anche chiamarsi la filosofia del diritto, visto che il tema centrale è appunto quello del Recht. Troviamo in essa i principi della giustizia politica, non come questi dovrebbero essere tradotti in riforme concrete. In un senso più ristretto, 2 ZeF, AA VIII 365. Kant torna su questo tema anche negli appunti inediti parlando di costrizione morale (Moralischer Zwang) ossia di meccanismi che inducono l’uomo a un comportamento esteriormente morale, ma che nondimeno facilitano l’adozione del vero movente morale abituando l’uomo a superare i vari ostacoli sensibili che si frappongono al dovere. Si veda a questo proposito Refl 1393, AA XV 607; Refl 1394 e Refl 1396, AA XV 608; Refl 1499, AA XV 783-784; Refl 6864, AA XIX 202; Refl 6992, AA XIX 222. D’altra parte, distinguendo tra cultivieren, civilisieren e moralisieren le tre fasi del progresso dell’uomo, Kant assegna alle prime due, che avvengono grazie a costrizioni di carattere istituzionale-esterno, la funzione di preparare l’uomo all’ultimo stadio di progresso, quello appunto della moralizzazione (vedi AA VII 324). Traggo l’indicazione sul ruolo del Moralischer Zwang e la citazione delle relative Reflexionen da M. Mori, La pace e la ragione, Il Mulino, Bologna 2008, p. 255, nota 30.

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ma terminologicamente più preciso, parlare della concezione kantiana della politica significa ricostruire il ruolo che Kant le assegna nella realizzazione di quei principi di giustizia che un diritto informato dalla morale fissa una volta per tutte, delimitando così il campo specifico della politica in quanto distinta dalla morale e dal diritto. In questa seconda accezione, il pensiero kantiano è riflessione sull’agire politico, su quello che un politico può e deve fare per far avanzare la giustizia e su come deve farlo. All’interno di questa prospettiva più limitata, assume importanza fondamentale quel che Kant dice sulle figure del politico morale e del moralista politico. Distinguere tra questi due sensi di filosofia politica kantiana può apparire questione meramente terminologica, ma è in realtà importante: l’accezione più ristretta di politica kantiana, infatti, viene spesso trascurata dagli interpreti, con l’esito paradossale di ricostruire il pensiero politico di Kant omettendo quanto egli aveva da dire sulla politica nel senso più proprio. In quanto segue adotteremo l’accezione più inclusiva, dando conto delle fondamenta della concezione kantiana della giustizia, non dimenticando però di ricostruire il ruolo proprio e peculiare che Kant assegna all’agire politico, col suo compito di modulare i principi eterni di giustizia alle condizioni storico-materiali che di volta in volta si trova di fronte. A queste due accezioni sono dedicate le due parti in cui il saggio è articolato: nella prima parte mostreremo come la teoria della giustizia kantiana affondi le radici in diritti che, secondo Kant, spettano agli individui indipendentemente dall’autorità statale, che al più può assicurare il loro rispetto, ma certo non li genera, come invece nelle concezioni positiviste e, per certi versi, anche nella concezione discorsiva habermasiana, in cui al più i diritti umani sono co-originari rispetto alla sovranità dello stato. Da questo punto di vista sarà importante chiarire come Kant, pur inserendosi nella tradizione liberale lockeana e giusnaturalista, lo faccia in modo originale e riesca a offrire una base più solida a quei diritti prepolitici che tanto Locke quanto Grozio e Pufendorf avevano difeso. Partendo dall’unico diritto innato e prepolitico che possediamo – la libertà esterna – Kant fa discendere un diritto a “esercitare” tale libertà sugli oggetti, prerogativa che egli presenta come una sorta di deduzione trascendentale del diritto alla proprietà privata. Si vedrà poi che, una volta fondato il diritto alla proprietà privata, per Kant è piuttosto agevole fondare la necessità morale e non meramente prudenziale di lasciare lo stato di natura per entrare in quella condizione civile che assicura a tutti gli individui la libertà e quei beni legittimamente acquisiti esercitandola. Poiché la nostra ricostruzione suggerisce un rapporto di dipendenza della politica dalla morale kantiana, almeno sul piano del contenuto normativo (l’ordo idearum di cui si diceva), dovremo confrontarci con alcune recenti letture di Kant che vanno in direzione opposta e tentano di mostrare come il suo pensiero politico possa stare in piedi da

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solo, libero da quella base, per molti ingombrante, di morale e metafisica. Ciò permetterà anche un’incursione nella contemporaneità per confrontarsi con l’idea rawlsiana secondo la quale le radici morali del liberalismo kantiano lo rendono irrimediabilmente “comprensivo” e quindi incapace di porsi a fondamento di una società caratterizzata dal “fatto del pluralismo”. Ricostruita la teoria della giustizia di Kant (per come oggi la si intende), nella seconda parte ci concentreremo sulla sua concezione della politica in senso stretto, ossia sul ruolo che egli assegna all’azione schiettamente politica. Mostreremo come Kant ritagli per l’azione politica uno spazio autonomo, e fino a che punto egli riesca in questa operazione senza incorrere in paradossi e incoerenze. La seconda parte si collega alla prima nel comune sforzo di fornire una trattazione della specificità della politica rispetto ad altri ambiti normativi (morale e diritto) all’interno del sistema kantiano, contribuendo a una chiarificazione dei rispettivi confini. Parte I 1. Dall’autonomia morale al diritto innato alla libertà esterna Nella Metafisica dei costumi Kant afferma perentoriamente che «il diritto innato è uno solo»3 e che lo abbiamo in virtù della nostra umanità. Tale diritto è la libertà, intesa come «indipendenza dall’arbitrio costrittivo altrui»4, ossia libertà esterna o, per usare un espressione più vicina al gergo filosofico contemporaneo, libertà negativa. Inoltre, Kant aggiunge che la libertà esterna è analiticamente connessa a un ulteriore diritto umano innato, quello all’eguaglianza, intesa in questo contesto come «indipendenza dall’essere vincolato da altri più di quanto a me è dato vincolare gli altri»5. Kant si affretta a chiarire che questo non è un secondo diritto umano innato – «il diritto innato è uno solo», appunto – ma si tratta dello stesso diritto visto da un’angolazione diversa, come se le due formulazioni potessero essere ridotte a una sola, a noi però ignota, capace di abbracciarle entrambe: infatti non posso davvero dirmi libero dall’arbitrio altrui se sono sotto un vincolo a cui altri non sottostanno. E ovviamente non posso dirmi uguale agli altri se la mia sfera di libertà esterna è più ristretta di quella degli altri. Come si giunge all’affermazione di tale diritto innato? Nella sezione dedicata alla Divisione generale dei diritti, Kant accenna a due modi di suddi3 MS, AA VI 237, trad. it. I. Kant, La metafisica dei costumi, a cura di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 44. 4 Ibid. 5 Ibid. (trad. modificata).

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viderli. Secondo una divisione dottrinaria, i diritti possono distinguersi in diritti naturali, basati su principi a priori, e diritti positivi, che sono creazioni di un legislatore. Ma considerandoli come «capacità [Vermögen]»6, ossia titoli che ci legittimano a vincolare altri a un certo comportamento, i diritti possono distinguersi in innati e acquisiti. I primi originano da capacità morali – ovviamente innate – degli uomini «indipendentemente da ogni atto giuridico»7, ossia prima della creazione dello stato, mentre i secondi presuppongono un tale atto. Il nostro diritto innato alla libertà ha quindi tre caratteristiche fondamentali: a) in quanto innato è un diritto naturale che si basa su principi a priori; b) ne disponiamo prima della costituzione dello stato; c) deriva da una capacità morale. Si noti che le caratteristiche (a) e (b) sembrano discendere da (c). Infatti, il diritto sembra innato in quanto innata è la capacità morale che sta a suo fondamento. E sempre perché tale diritto poggia su una capacità innata che, in quanto tale, abbiamo indipendentemente dalla nostra vita associata, ne disponiamo anche prima della costituzione dello stato. Ne segue che per intendere il diritto innato alla libertà, perché lo abbiamo – perché abbiamo proprio questo e non altri – è cruciale capire la natura di questa «capacità morale». Qual è questa capacità morale così cruciale da assicurarci il nostro unico diritto innato? E perché il mero possesso di tale capacità, qualunque essa sia, ci conferisce un diritto innato e prepolitico? Come si è detto, Kant afferma che ciascun uomo ha diritto alla libertà «in forza della sua umanità»8. Sempre nella Metafisica, l’umanità viene definita come la facoltà «che sola rende [l’uomo] capace di proporsi dei fini»9. Più esplicitamente, la «facoltà di proporsi un qualunque fine in generale» viene presentata come «il carattere essenziale dell’umanità (ciò che la distingue dall’animalità)»10. Dunque, avremmo un diritto alla libertà perché siamo capaci di porci dei fini. Che significa questo? Come succede che una presunta capacità tipicamente umana ci conferisce un diritto? Certo, il possesso esclusivo di una capacità non basta a fondare alcunché. Gli umani sono l’unica specie capace di uccidere altri animali solo per diletto (forse! possibile eccezione i gatti), eppure questo difficilmente ci dà il diritto di farlo oppure ci conferisce una qualsiasi altra prerogativa. Più in generale, come è possibile che da una caratteristica degli uomini, quindi potremmo dire da un attributo dell’essere, derivi un’indicazione su come trattarli, ossia un dover-essere? Ci si chiede forse di ignorare la “ghigliottina di Hume” e di ignorare la sua raccomandazione di non compiere l’errore, tanto co6

Ibid. Ibid. 8 Ibid. 9 MS, AA VI 387, trad. it. cit., p. 236. 10 MS, AA VI 392, trad. it. cit., p. 242 (corsivo mio). 7

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mune quanto grave, di passare impercettibilmente da affermazioni su come le cose sono a prescrizioni su come esse dovrebbero essere? Per rispondere a questi interrogativi occorre intendere bene la capacità di proporsi dei fini a cui Kant fa appello, per vedere se e come questa diventi base sufficiente per il possesso di un diritto e in particolare del nostro diritto alla libertà esterna e all’eguaglianza. La capacità di porsi dei fini richiama alla mente due centrali nozioni kantiane: la libertà pratica e l’autonomia. E la prima cosa da fare è evidentemente capire a quale delle due Kant si riferisce quando dice che il nostro diritto innato discende dalla nostra “umanità”. Ricordiamo che con “libertà pratica” Kant intende qualcosa di molto simile alla semplice attività razionale, la quale può riassumersi in due caratteristiche essenziali: a) non essere assoggettati a stimoli sensibili ovvero indipendenza da necessità patologica, b) capacità di agire sulla base di imperativi (regole di azione) nel perseguimento di determinati fini. L’autonomia, invece, per come è definita nella Fondazione e nella Critica della ragione pratica, pretende più dell’indipendenza dalla necessità patologica e della capacità di distanziarsi dalle nostre inclinazioni contingenti per decidere se abbracciarle o rifiutarle. Per il Kant compiutamente critico un individuo dotato solo di tali capacità è certo libero (quindi responsabile), ma irrimediabilmente eteronomo. L’agente è libero poiché le sue inclinazioni (non importa quanto forti) non esauriscono i fattori causali dietro il suo agire (resta indispensabile un libero atto di endorsement, come direbbe Christine Korsgaard), ma è eteronomo poiché le sue inclinazioni giocano un ruolo cruciale nella storia motivazionale del suo agire11. Al contrario, essere autonomo per Kant significa essere completamente libero da inclinazioni sensibili12. In termini positivi, questo significa essere capace di trovare una motivazione sufficientemente forte in un tipo di interesse tutto particolare, di natura non empirica, ma pura. Tale tipo di interesse puro è ovviamente l’interesse suscitato in noi dall’intrinseca validità della legge morale nella forma dell’imperativo categorico. Questo è quanto Kant dichiara, usando un linguaggio leggermente diverso, in una delle definizioni “ufficiali” di autonomia date nella Fondazione: «L’autonomia della volontà è quella sua proprietà per cui essa è legge a se stessa (indipendentemente da qualsiasi natura degli oggetti del volere)»13. 11 C. Korsgaard, The Sources of Normativity, Cambridge University Press, Cambridge/New York, 1996. 12 Questo ovviamente non nel senso che agli uomini è richiesto di diventare esseri razionali puri (come gli angeli), ma nel senso di essere capaci di agire in alcune occasioni avendo come motivo determinante della volontà il rispetto della legge morale e nessun motivazione empirica. Ringrazio Filippo Gonnelli per avermi spinto a chiarire questo punto. 13 GMS, AA IV 440 (trad. mia).

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Ora, sia la libertà pratica che l’autonomia sembrano ottime candidate per il ruolo di fondamenti del nostro diritto alla libertà esterna, in quanto entrambe sono peculiari dell’uomo e entrambe soddisfano la definizione di umanità come capacità di porsi dei fini. Il riferimento a un «qualunque fine in generale» suggerisce che Kant intenda preferire la libertà pratica, in quanto anche fini amorali o perfino immorali sembrano contemplati. Inoltre, Kant a volte usa la nozione di umanità in senso ristretto, a significare la mera capacità razionale, riservando il termine “personalità” per indicare la nostra capacità di agire morale14. Tuttavia, altre considerazioni, di natura sistematica e testuale, spingono nella direzione contraria, e in modo più convincente. Cominciando dalle ragioni sistematiche, il mero fatto che una certa caratteristica sia peculiare dell’uomo non fonda alcun diritto. Come si è detto, basti pensare alla capacità di uccidere per divertimento. Ne segue che il nervo dell’argomento non può essere l’esclusività del possesso di una certa qualità. Questa, piuttosto, deve presentare un valore intrinseco. La libertà come proprietà della volontà umana, quindi, deve avere qualcosa di intrinsecamente buono e che detta rispetto. E questa cosa è proprio l’autonomia, la facoltà data a ciascuna volontà umana di diventare una volontà buona, ossia l’unica cosa nel mondo «che ha il suo pieno valore in sé» e che «pure risplenderebbe come un gioiello»15 anche se nulla di buono risultasse dalle conseguenze delle sue deliberazioni. La libertà pratica al più ci rivela la nostra natura di esseri razionali e quindi il nostro primato sul mondo animale e sull’intero mondo sensibile. Essa ci rende, per così dire, re e regine del mondo sensibile. Poiché però la nostra libera scelta è pur sempre suscitata, e quindi in un certo senso condizionata dai nostri impulsi sensibili, essa non riesce a stabilire nessun valore incondizionato dell’uomo, niente che lo renda intrinsecamente degno di rispetto. Se la libertà pratica ci rende sovrani del mondo sensibile, l’autonomia ci rende semi-dei, abitanti di quel mondo, ma anche membri qualificati di un altro

14 A volte il termine “umanità” è usato da Kant per indicare non solo la generica capacità di porsi dei fini, ma anche la capacità di essere fini in sé. Vale insomma sia per la libertà pratica che per l’autonomia. Si vedano ad esempio i passaggi citati sotto alle note 16 e 17. Altre volte, ad esempio nella Religione, la capacità di comportamento morale viene chiamata “personalità” (MS, AA VI 26-27). D’altra parte, capita che Kant affermi che umanità «è una dignità» (MS, AA VI 462) e solo alcune righe sotto, così come in molti altri passaggi, che la nostra dignità risiede nella nostra personalità. Questo uso terminologico poco coerente e sviante ha condotto alcuni commentatori a credere che “umanità”, intesa come mera capacità razionale (libertà pratica) sia per Kant la fonte del nostro valore assoluto (vedi A.W. Wood, Kantian Ethics, CUP, Cambridge 2008; p. 88). Non possiamo condividere quest’opinione. Quando Kant afferma che l’umanità è la base del nostro valore assoluto, chiaramente egli usa l’accezione più larga del termine che include tanto la libertà pratica che l’autonomia. Come vedremo tra breve, possedendo la mera capacità razionale ma non l’autonomia, per Kant avremmo il valore di una merce. 15 GMS, AA IV 394 (trad. mia).

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mondo o forse, più modestamente, qualificati candidati per l’accesso a quel regno. Passando alle ragioni testuali, troviamo conferme del punto appena evidenziato quando Kant afferma che la mera capacità di darsi dei fini rende gli uomini più abili degli animali, ma non a loro superiori per valore intrinseco, incondizionato. In un passo non molto citato ma cruciale, Kant scrive: L’uomo considerato nel sistema della natura (homo phaenomenon, animal rationale) è un essere di mediocre importanza e ha, come tutti gli altri animali che il suolo produce, un valore comune volgare (pretium vulgare). Persino il fatto che egli si eleva al di sopra di essi per l’intelletto e può proporre a se stesso dei fini, gli dà unicamente un valore esterno relativo alla sua utilità (pretium usus), onde un uomo è preferibile a un altro, vale a dire gli conferisce, secondo il punto di vista animale ovvero come cosa, un prezzo analogo a quello di una merce, dove anzi egli ha un valore perfino inferiore al mezzo generale di scambio, cioè al denaro, il cui valore è per questa ragione considerato come eminente (pretium eminens). Ma l’uomo considerato come persona, vale a dire come soggetto di una ragione moralmente pratica, è elevato al disopra di ogni prezzo, perché come tale (homo noumenon) egli deve essere riguardato non come un mezzo per raggiungere i fini degli altri e nemmeno i suoi propri, ma come un fine in sé; vale a dire egli possiede una dignità (un valore interiore assoluto), per mezzo della quale costringe al rispetto di se stesso tutte le altre creature ragionevoli del mondo, ed è questa dignità che gli permette di misurarsi con ognuna di loro e di stimarsi loro uguale16.

Da notare come Kant escluda esplicitamente che la libertà pratica (capacità di porre a se stesso dei fini) conferisca un valore incondizionato all’uomo. Al più intelletto e libertà pratica gli danno un valore esterno e permettono confronti e gerarchie tra gli uomini a seconda di quanto sono utili, come fossero merci. Al contrario, considerato come soggetto di una ragione moralmente pratica, ossia come soggetto autonomo, l’uomo si eleva al di sopra di ogni prezzo, diventa fine in sé, e legittimamente ambisce, insieme a tutte le creature a lui simili, al rispetto della sua dignità. E a chiarire ulteriormente le cose, Kant aggiunge: «L’umanità nella sua persona è l’oggetto del rispetto, che egli può esigere da ogni altro uomo»17. L’umanità alla base del diritto alla libertà esterna è il nostro essere soggetti alla legge morale, il nostro essere autonomi. Rimane da chiarire in che modo preciso il nostro essere autonomi fondi il diritto alla libertà esterna. Il passaggio logico è meno diretto e chiaro di quanto appaia a prima vista, e infatti gli interpreti hanno trattato la questione in modi opposti.18 Riassumendo i termini del problema, tuttavia, 16

MS, AA VI 434-35, trad. it. cit., p. 294. Ibid. 18 Alcuni, in assenza di un esplicito argomento di Kant, hanno cercato di chiarire il passaggio configurando la libertà esterna come una condizione di possibilità dell’autonomia. Questo l’argo17

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possiamo dire che Kant intende passare dal riconoscimento della nostra autonomia alla fondazione del diritto innato alla libertà esterna attraverso la nozione di rispetto. E più o meno nel seguente modo: 1) Gli uomini hanno la proprietà di esseri autonomi. 2) Tale proprietà conferisce loro un valore incondizionato, ossia tale da renderli indisponibili ad essere usati come meri mezzi. 3) Qualunque limitazione alla libertà esterna di un essere il cui valore è incondizionato può essere giustificata solo in ragione del rispetto dovuto ad un altro essere di pari valore. 4) L’unica limitazione della libertà esterna umana permessa è quella necessaria a rendere la libertà esterna di uno compatibile con quella uguale di tutti19. 5) Ogni uomo ha un diritto (prepolitico ed innato) alla più ampia libertà esterna compatibile con la libertà esterna di tutti gli altri uomini. L’autonomia impone a «tutte le creature ragionevoli del mondo» un certo modo di guardare chi ne è in possesso. Impone il riconoscimento della loro capacità di incarnare l’unica cosa al mondo buona in modo assoluto, la volontà buona, ovvero quel “gioiello” che risplenderebbe anche se dalle sue azioni nulla di buono discendesse. Avere di fronte un uomo, insomma, per Kant significa avere di fronte un potenziale realizzatore della giustizia anche a scapito dei suoi istinti più forti, persino della sua vita. Un potenziale realizzatore, certo, ma la mera capacità qui è sufficiente. Essa basta a escludere qualsiasi comportamento che lo riduca direttamente o indirettamente a mero mezzo per fini altrui. E tra questi ovviamente spicca una limitazione della sua libertà esterna che non serva a renderla compatibile con

mento nella sua essenza: senza libertà esterna non c’è vera autonomia. Ma poiché, da un punto di vista pratico, la realtà dell’autonomia è stata fondata, ne segue che non si può negare ad enti autonomi il diritto alla libertà esterna senza annullare quello che si era concesso, o meglio senza negare quello che si era ammesso essere una loro precipua caratteristica. Altri, invece, hanno posto in questione l’esistenza stessa di un nesso tra autonomia e libertà esterna, negando il ruolo fondativo della prima per la seconda. A loro dire, si rimane autonomi anche se la libertà esterna, o una considerevole parte di essa, viene negata (si pensi a chi è in prigione). Per una discussione di queste posizioni si veda il mio Per una teoria kantiana dei diritti umani, cit., pp. 218-224. 19 Naturalmente questo non esclude quello che la lex permissiva esplicitamente consente, ovvero che si possa prendere possesso di un bene non ancora di nessuno. Se mi approprio di un oggetto, anche se ancora res nullius, in un certo senso limito la libertà altrui e questa limitazione non risponde alla necessità di rendere la libertà esterna di uno compatibile con quella degli altri. Nondimeno, questa mia appropriazione ha dei limiti (devo poter lasciare agli altri la stessa possibilità di acquisizione, secondo la versione kantiana della clausola limitativa lockeana). E nel caso in cui tale appropriazione fosse proibita, non avrei salvato la libertà esterna di tutti. Al contrario, come si vedrà bene tra poco, l’avrei annullata del tutto.

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quella di tutti gli altri. Riconoscere l’umanità di un ente e strumentalizzarlo, mancargli di rispetto in questo senso, sono due proposizioni o forse due attitudini incompatibili. Il rispetto, dunque, si svela come quel traghetto che permette a Kant di passare dal mondo dell’essere (il nostro essere autonomi) a quello del dover essere (il dovere di trattare le persone, inclusi noi stessi, in un certo modo, ossia mai come meri fini). Il rispetto cuce lo strappo tra i due mondi, anche se forse non a sufficienza per soddisfare Hume20. 2. Dal diritto innato alla fondazione della politica Il diritto innato alla libertà esterna gioca un ruolo fondamentale nella fondazione kantiana della politica e in particolare dello stato. Nella definizione, prima ricordata, di tale diritto troviamo tutti gli elementi che secondo Kant devono caratterizzare uno stato giusto. Tanto per cominciare, sebbene sia presentato prima nell’ordine espositivo della Metafisica, il principio universale del diritto lo presuppone. Questo infatti recita: «qualsiasi azione è conforme al diritto quando per mezzo di essa o secondo la sua massima, la libertà dell’arbitrio di ognuno può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale»21. Ma cosa fornisce alla libertà, o meglio alle condizioni che permettono la coesistenza della libertà di tutti, un ruolo tanto importante, di termine di paragone di ogni diritto, non importa se promulgato qui o altrove, in questo tempo, in uno passato o futuro? La risposta è che appunto il nostro diritto innato a tale libertà, a suo volta fondato sulla nostra autonomia, spiega tale ruolo. Senza di esso non si capirebbe perché dobbiamo preoccuparci di tutelare le varie libertà che comporranno un’associazione civile e di trovare un modo per farle coesistere. Le prerogative che spettano agli uomini “prima” della costituzione dello stato informano il principio generale del diritto e dettano la forma che lo stato dovrà assumere.

20 Certo, il ponte creato dal rispetto è di tipo particolare in quanto la caratteristica ontica (l’autonomia), da cui si parte per giungere al dover essere, non è certo rilevata attraverso un’esperienza sensibile. Non si tratta di un fatto empirico, e la descrizione di esso non è una proposizione descrittiva, come la intendeva Hume. Poggiando sul “fatto della ragione”, la prova della realtà dell’autonomia che leggiamo nella Critica della ragione pratica non ci aveva svelato un pezzo di mondo sensibile. Non potendo dar conto del nostro trovarci sotto il comando della legge morale, una legge che comanda senza promettere nulla, se non assumendo la nostra autonomia, quest’ultima si era svelata come una condizione di possibilità della nostra vita pratica, non come un fatto empirico. Il “golfo” che separa l’autonomia, come forma dell’essere, dal rispetto (dover essere) è dunque molto più contenuto di quello paventato da Hume tra proposizioni descrittive e prescrittive. La proposizione “siamo esseri autonomi” ha forma descrittiva, ma in realtà porta con sé una dimensione di prescrittività, in quanto essere autonomi significa ipso facto essere soggetti che incarnano una dignità e richiedono legittimamente rispetto. 21 MS, AA VI 230.

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Ancora più a fondo, nella definizione del diritto innato troviamo racchiuse le tre prerogative che secondo Kant lo stato deve riconoscere ai cittadini: libertà, uguaglianza e indipendenza. Ai cittadini dello stato kantiano dovranno quindi essere riconosciuti, dal potere statale e da altri cittadini, quei diritti che spettano loro prima della costituzione dello stato stesso. Come vedremo, infatti, per Kant è proprio questa normatività pre-politica che giustifica l’esistenza stessa dello stato, che la fonda nella sua necessità non solo prudenziale. Se questa è la via kantiana alla fondazione della politica, possiamo anche apprezzare la sua innovatività rispetto alla tradizione giusnaturalistica, tradizione con la quale Kant, evidentemente, condivide l’idea che esistano diritti naturali che preesistono allo stato e che ne limitano il potere. Come abbiamo visto, in Kant si parte dall’esperienza della normatività intrinseca nella nostra ragione, per poi passare a una conclusione su cosa sono gli esseri umani e su cosa si possa o non possa fare loro nella società. In questo modo la prescrittività della premessa si trasmette alla conclusione, sfuggendo alla ghigliottina di Hume. Argomentando in maniera molto diversa, i teorici del diritto naturale sembrano invece rischiare di far la fine di Luigi XVI. Si parte qui dalla conoscenza empirica dell’essere umano, per esempio, con Grozio, dalla sua socievolezza intesa come intrinseco desiderio e bisogno di vivere in società, per giungere a una conclusione prescrittiva su quello che il potere statale può o non può fare. Tutto viene fatto dipendere dal darsi di un desiderio/bisogno (la socievolezza). Questo rende l’obbligatorietà dell’entrata nello stato civile condizionata alla stabilità di tale desiderio e alla sua maggior forza rispetto ad altri che possiamo avere. E il problema in Grozio è particolarmente acuito dal fatto che egli vuole scindere l’obbligatorietà della legge da qualsiasi possibile sanzione. Per Grozio, come è noto, la legge di natura mantiene la sua validità «anche se dovessimo concedere […] che non ci sia alcun Dio»22. Ma sul perché la legge di natura abbia questa sorprendente caratteristica, appunto, Grozio non dice molto. Affermare che l’uomo, in quanto sociale, necessariamente vuole ciò che contribuisce al benessere della società rende l’obbligo della legge pericolosamente contingente. Usando la terminologia kantiana: Grozio cerca una fonte della normatività al di fuori della volontà e dei suoi principi a priori, per trovarla in un oggetto desiderato (la società). In maniera simile, Pufendorf, distinguendo tra mera coercizione e validità intrinseca di una legge, afferma che il riconoscimento delle “giuste ragioni” sottese alla legge di natura dovrebbe bastare a motivare il soggetto a conformarsi alla legge. In un passaggio che sembra anticipare la nozione kantiana di rispetto per la legge come unica motivazione legittima per l’a22

Grozio, De Jure Belli ac Pacis Libri Tres, vol. 2.

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gire morale, Pufendorf afferma che di fronte alla legge di natura «deve necessariamente sorgere nella facoltà della ragione un timore mischiato a rispetto […], un rispetto nascente da una considerazione delle cause [o ragioni], che dovrebbe essere sufficiente, anche senza paura, a condurre il soggetto ad accettare il comando sulla base di un retto giudizio»23. Ma queste “giuste ragioni” sono di nuovo di natura prudenziale, in quanto per Pufendorf Dio ci ha dato la capacità di vedere che il nostro benessere dipende dal nostro conformarci a quelli leggi che permettono la cooperazione sociale, senza la quale non c’è salvezza [salutem]. Inoltre Pufendorf, contro Grozio, ritiene che, se non l’obbligatorietà, certo l’efficacia della legge sarebbe persa ove la paura delle sanzioni divine fosse rimossa dalla lista degli elementi che ci spingono all’osservanza. La legge di natura, insomma, come opportunamente sintetizza Mary Gregor prendendo a prestito il linguaggio kantiano, è per i campioni del giusnaturalismo nulla più che un consiglio della prudenza, con tutta l’ineliminabile contingenza e precarietà ad esso associata24. Significativamente, la definizione hobbesiana di “legge di natura” intesa come «un precetto o una regola generale, scoperta dalla ragione, con la quale all’uomo è proibito fare ciò che distrugge la sua vita o rimuove i mezzi di preservazione della stessa»25 si adatta perfettamente alla definizione di legge di natura adottata da Grozio e Pufendorf. Tanto per Hobbes quanto per i giusnaturalisti, abbandonare lo stato di natura non è niente altro che “una buona idea” dettata dalla ragione prudenziale. Invece, fondando il diritto innato alla libertà esterna sul rispetto, generato dall’inevitabile riconoscimento dell’autonomia degli uomini, e quindi della loro intrinseca dignità, Kant riesce a gettare le basi normative del suo sistema politico su un terreno, se mi si concede l’ossimoro, al tempo stesso più sottile e più fermo. Il terreno è più sottile in quanto tutto poggia non su una concreta esperienza sensibile o empirica (l’analisi delle tendenze intrinseche nella “natura umana” come per i giusnaturalisti), ma sul “fatto della ragione”, per molti oscuro e sfuggente, e sulla deduzione della nostra autonomia da esso. D’altra parte, se viene accettata la realtà, da un punto di vista pratico, della nostra autonomia – riconoscimento che Kant ritiene inevitabile per qualsiasi persona “ragionevole” – il terreno su cui poggerà l’edificio politico si rivelerà assai più fermo. L’obbligo del sovrano di trattarci in una certa maniera e l’obbligo nostro di conformarci alle leggi di uno stato fondato sul riconoscimento del nostro diritto alla libertà esterna deri23

S. Pufendorf, De Jure Naturae et Gentium Libri Octo, vol. 2. M. Gregor, Kant on ‘Natural Rights’, in Kant & Political Philosophy. The Contemporary Legacy, ed. by R. Beiner, W.J. Booth, Yale University Press, New Haven/London 1993, pp. 50-76, in particolare pp. 56-57, 60. 25 Th. Hobbes, Leviathan, Hackett Publishing Inc., Indianapolis/Cambridge, 1994, p. 79 (trad. mia). 24

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vano non da una contingente fedeltà a una teoria, peraltro fallibile, sul benessere umano o sulla stabilità e forza di un desiderio. Derivano, in ultima analisi, dall’intrinseca validità della legge morale. Naturalmente, insistere sul fatto che per Kant si entra nello stato per un obbligo che in ultima analisi deriva dalla legge morale, non significa affermare che nella sua visione delle cose dobbiamo conformarci alle leggi con una certa motivazione, pena la violazione della legge stessa. Per Kant la conformità esterna è sufficiente per la legalità del comportamento. Basta che si rispettino le leggi, anche se in cuor nostro riteniamo che siano ingiuste e vorremmo sottrarci ad esse. Sebbene al cittadino non si chieda più di questo, a chi ponga la domanda sul perché dovremmo tutti aderire allo stato Kant può rispondere che esso è l’unica cornice all’interno della quale quella normatività pre-esistente (il diritto innato) può essere effettivamente difesa. Lo stato e la sua autorità non riposano più su una convenienza, per quanto generale, come era per Locke, Hobbes e i giusnaturalisti; men che meno, ovviamente, in ragione di un comando a uscire dallo stato di natura proveniente da Dio. Per la prima volta nella storia del pensiero, allo stato si fornisce una fondazione che rimanda in ultima analisi solo alla nostra ragione e alla sua intrinseca normatività e alla politica si fornisce un sistema di limiti, potremmo dire costituzionali, all’interno dei quali le è concesso agire liberamente per perseguire il bene comune. 3. Il diritto privato Ma il passaggio dal diritto innato alla fondazione dello stato repubblicano è mediato da un argomento centrato sulla proprietà privata, o meglio sul possesso giuridicamente fondato degli oggetti26. Qui Kant sfrutta un’intuizione che lega la libertà esterna agli oggetti su cui questa si esercita, mostrando che i secondi sono presupposti irrinunciabili della prima. Poiché non possiamo avere un diritto alla libertà esterna senza poterla in qualche modo esercitare, ovvero senza poter interagire con gli oggetti secondo i nostri fini, questi ultimi finiscono con rivelarsi condizioni di possibilità dell’esercizio del diritto. Avendo un diritto alla libertà esterna, abbiamo quindi un diritto all’uso degli oggetti per i nostri fini. Il primo passo dell’argomento consiste 26 La differenza è significativa in quanto alcuni hanno voluto leggere nel postulato giuridico della ragione pratica (che, come si vedrà, fonda il diritto di ciascuno a possedere oggetti in modo giuridicamente sancito) il tentativo di Kant di offrire al diritto alla proprietà privata, cardine della società borghese, una giustificazione a priori. In verità, quel che Kant sta facendo qui si situa a un livello di generalità molto più alto, che renderebbe il suo postulato compatibile persino con una società comunista. Kant sta mostrando il nesso inscindibile tra diritto alla libertà esterna e diritto ad un possesso non meramente di fatto, ma giuridicamente sancito. Se questo possesso prenda la forma di una proprietà privata o di una sorta di comodato d’uso privato di alcuni oggetti di proprietà della collettività, non ha importanza ai fini dell’argomento.

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dunque nel mostrare come sia «contraria al diritto una massima, secondo la quale (qualora diventasse legge) un oggetto dell’arbitrio dovrebbe essere in sé (oggettivamente) senza padrone (res nullius)»27. Tale idea, tuttavia, è ancora del tutto compatibile con lo stato di natura. Infatti, richiama alla memoria il diritto di natura hobbesiano, ovvero «la libertà che ciascun uomo ha di usare il proprio potere, come egli vorrà, per la preservazione della sua natura, ossia della sua vita»28. Affermare soltanto che agli uomini deve essere permesso di usare gli oggetti, pena la violazione della loro libertà esterna, è compatibile con qualsiasi tipo di scenario sociale, dal bellum omnium contra omnes fino a condizioni associative meno violente ma non meno eslege, data l’indecidibilità di controversie su “ciò che è mio e tuo” in modi che non riposino sulla forza o sull’arbitrio. È a questo punto che Kant specifica il suo “postulato giuridico della ragione pratica”. Attraverso la distinzione tra possesso provvisorio e perentorio, tra titolo empirico e razionale all’acquisizione, Kant chiarisce come, sebbene vi sia un diritto di natura all’acquisizione, è solo all’interno di un contesto di leggi comuni e dell’autorità statale che tale diritto può essere assicurato e aggiudicato a fronte di possibili controversie. Kant espone i passaggi logici che portano a questa conclusione nei §§ 1-15 della parte dedicata al diritto privato e nel cruciale § 44 del diritto pubblico. In estrema sintesi, i passaggi sono i seguenti: 1) Nello stato di natura, in ragione del possesso comune della terra e in ragione del proprio diritto innato alla libertà esterna, ciascuno ha diritto a occupare e usare gli oggetti che servono ai propri fini. 2) Tale diritto non si limita alla detenzione fisica di un oggetto, ma si estende a coprire anche i casi in cui non “tengo in mano” il bene. Non del mero possesso empirico si parla, quindi, ma del possesso intelligibile che solo soddisfa la “definizione reale” di ciò che è mio o tuo. 3) È contraria al diritto ogni massima che neghi la possibilità, non solo di un possesso empirico, ma anche di un possesso razionale. Come Kant spiega nella discussione del suo principio giuridico della ragione pratica: «Se in via assoluta l’uso di un oggetto non fosse giuridicamente in mio potere, ossia non potesse coesistere con la libertà di ognuno secondo una legge generale (cioè fosse ingiusto), allora la libertà si priverebbe essa stessa dell’uso dell’arbitrio relativamente a un suo oggetto, nel senso ch’essa collocherebbe oggetti adoperabili fuori di ogni possibilità d’uso, vale a dire distruggerebbe questi oggetti nel riguardo pratico, e li ridurrebbe a res nullius, e ciò sebbene 27 28

MS, AA VI 230, trad. it. cit., p. 56. Th. Hobbes, Leviathan, cit., p. 79.

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l’arbitrio potesse in via formale accordarsi, nell’uso delle cose, con la libertà esterna di ognuno secondo leggi generali»29. 4) Anche assumendo che tutti i soggetti riconoscano i diritti degli altri, tuttavia, rimane la possibilità di controversie interpretative (in buona fede) sui reciproci diritti – controversie che, in assenza di un terzo super partes, rischieranno sempre di produrre esiti contrari al diritto. È oggettivamente necessario, quindi, per affermare pienamente e difendere i diritti già presenti nello stato di natura, entrare nella costituzione civile. Più di un punto di questo argomento merita attenzione. Innanzitutto, si noti come tutto discenda dal diritto innato alla libertà esterna, che porta con sé il diritto a quelle cose (gli oggetti esterni) che consentono l’esercizio di quel diritto. In secondo luogo, nello stato di natura, a differenza di Hobbes, non ho diritto a tutto quello che riesco a prendere perché «nulla può essere ingiusto». Al contrario, data la comunanza originaria del suolo che, probabilmente contro Grozio, Kant intende distinguere da una presunta comunanza primitiva30, e dato il diritto dei singoli di prendere possesso (privato) di parti di tale bene non ancora diviso, ne deriva che «disturbare il primo detentore di un suolo nell’uso che fa dello stesso costituisce una lesione»31. Inoltre, poiché il mio diritto all’acquisizione discende da un diritto universale alla libertà esterna, ne deriva che non posso non tener presente che altri hanno esattamente la stessa autorizzazione a usare le cose su cui la loro libertà esterna si esercita. Il diritto innato, pre-politico alla libertà esterna permette a Kant di fondare un possesso giuridicamente legittimato prima della fondazione dello stato. Lo stato di natura non solo è già regolato da leggi morali – cosa che vale anche per lo stato di natura hobbesiano (si pensi alla regola di rispettare i patti tra “confederati”)32. Al contrario, tale stato è già regolato da giustizia. Il diritto privato di Kant, insomma, non è una morale per lo stato di natura. È un diritto a tutti gli effetti che è già valido in quella condizione. In esso valgono principi di giustizia che aspettano solo di essere sanciti e protetti e, in caso di controversie, aggiudicati secondo le procedure disponibili in uno stato di diritto. Infine, lo stato serve non per generare tali diritti di proprietà, nemmeno a fondare l’obbligo di ciascuno a rispettare i diritti di proprietà di altri (fondati sulle prime acquisizioni). Il suo compito, come ci informa il § 44, è soprattutto quello di ri-

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Ibid. Kant pensa che, se intesa come effettivo stato di cose, e quindi come “primitiva”, tale comunione sarebbe una “leggenda”, per lo più contraddittoria. MS, AA VI 251. 31 MS, AA VI 250, trad. it. cit., p. 63. 32 Th. Hobbes, Leviathan, cit., pp. 91-92 (trad. mia). 30

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muovere l’inevitabile incertezza applicativa di un diritto già fondato, rendendo così perentoria un’acquisizione prima solo provvisoria: Poiché, secondo la forma, le leggi nello stato di natura contengono intorno al “mio” e al “tuo” le stesse condizioni prescritte dalle leggi nello stato civile […]; tutta la differenza è che nello stato civile sono indicate le condizioni che assicurano l’esecuzione […] delle leggi dello stato di natura. Se dunque non ci fosse nemmeno provvisoriamente un “mio” e un “tuo” esterni nello stato di natura, non ci sarebbero neppure doveri giuridici riguardo ad esso, né quindi ci sarebbe alcun comando che imponesse di uscire da questo stato33.

Dunque non un fatto relativo alla natura umana (come per Hobbes e in modo del tutto analogo per i giusnaturalisti) fonda la necessità dello stato. Questa si rintraccia già a priori riflettendo sull’impossibilità razionale che vi siano diritti sanciti e protetti in una condizione ove i diritti, che pure sono già dati, siano interpretati liberamente da ognuno. Ovvero, anche assumendo volontà buone che sono pronte a rispettarsi a vicenda nelle rispettive prerogative, sempre rimane la possibilità di «prepotenze reciproche, e ciò a causa del diritto di ognuno di fare quanto gli sembra giusto e buono»34. Lo stato di natura, insomma, è per Kant, come per Hobbes, prima di tutto uno stato di incertezza, ma non di incertezza rispetto alla propria sorte in un mondo ove la giustizia è del tutto assente, ma di incertezza sull’estensione e applicazione di diritti già presenti. 4. Lo stato e i “constitutional essentials” kantiani Sulla base delle considerazioni precedenti, nel § 45 Kant definisce lo stato come «riunione di un certo numero di uomini sotto leggi giuridiche» aggiungendo l’importante specificazione che tali leggi, in quanto a priori, sono derivate «spontaneamente (non statutariamente) dai concetti del diritto esterno in generale». Ciò esprime quella che Kersting ha definito un’opzione anti-volontaristica, ovvero l’idea che la normatività dello stato non discende dalla volontaria adesione delle parti (non importa se reale, ove lo stato di natura sia considerato uno stato di cose realmente esistito, o ideale, ove questo sia ritenuto un utile costrutto teorico), ma affonda le sue radici in principi razionali a priori del tutto indipendenti dallo stipularsi (reale o ideale) del contratto sociale. Discendendo dai principi pre-politici del diritto esterno in generale, la necessità normativa dello stato vale a prescindere dal pronunciamento delle volontà singole. Partendo dal diritto innato alla libertà esterna, Kant fonda così una concezione originale dello stato di na-

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MS, AA VI 312-313, trad. it. cit., p. 141. MS, AA VI 312, trad. it. cit., p. 140.

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tura e una concezione altrettanto originale del contratto che fa nascere lo stato civile. Dalla definizione di stato Kant passa alla classica tripartizione dei poteri specificando (§ 46) che la volontà legislativa spetta soltanto alla volontà collettiva del popolo. Echeggiando Rousseau, Kant afferma che questa non può commettere ingiustizia ai singoli perché «ognuno decide la stessa cosa per tutti e tutti la decidono per ognuno». E forse per bloccare qualsiasi interpretazione in senso totalitario (accusa che spesso viene rivolta al ginevrino), Kant prosegue specificando i modi in cui i cittadini devono essere trattati da qualsiasi interprete della volontà generale, sia esso un sovrano o un parlamento. Gli attributi giuridici – scrive Kant – inseparabili dalla natura dei cittadini (come tali) sono: la libertà legale, cioè la facoltà di non obbedire ad altra legge che non sia quella a cui essi hanno dato il loro consenso; l’eguaglianza civile, cioè il non riconoscere altro superiore, nel popolo, se non quello a cui abbiamo il potere morale d’imporre un’obbligazione giuridicamente altrettanto valida di quella ch’egli può imporre a noi; in terzo luogo l’attributo dell’indipendenza civile, che consiste nel dovere la propria esistenza e conservazione non all’arbitrio di un qualsiasi altro membro del popolo, bensì ai propri diritti e alle proprie forze come membro del corpo comune, onde deriva la personalità civile la quale vieta che altri prendano il nostro posto nelle questioni giuridiche35.

Ritroviamo qui, come accennato, i tre elementi contenuti in nuce nella definizione del nostro unico diritto innato. Lì comparivano interconnessi, quasi originassero da un unico nucleo, i tre elementi che ora definiscono la cittadinanza: libertà, uguaglianza e indipendenza. In questo cruciale paragrafo 46 Kant non fa altro che dare una veste politica ad attributi che qualche pagina prima aveva assegnato all’uomo in quanto tale. E questo a dimostrazione ulteriore della centralità della dottrina dei diritti umani innati in tutta la costruzione politica kantiana. Infine occorre segnalare che dal contesto in cui ci troviamo arriva un’indicazione piuttosto precisa sul modo in cui il criterio dell’indipendenza vada inteso. La questione è importante poiché Kant, qualche riga dopo aver affermato che tutti i cittadini sono caratterizzati dall’attributo dell’indipendenza (dall’arbitrio degli altri), distingue tra cittadinanza attiva e passiva e afferma che chi non gode di un’indipendenza economica sufficiente, ma deve il suo sostentamento al capriccio di altri, è sì cittadino indipendente, ma in modo passivo. E in ragione della sua, potremmo dire, imperfetta indipendenza Kant ritiene che tale cittadino non abbia diritto di voto. In questo modo il nostro filosofo lega il criterio dell’indipendenza al censo, o meglio al tipo di mestiere svolto, attirandosi addosso non poche critiche. 35

MS, AA VI 314, trad. it. cit., p. 143.

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Per non condannare sbrigativamente Kant per questo suo “rigurgito conservatore” (come del resto è uso fare per molte tesi controverse della politica kantiana, su tutte la sua negazione del diritto di resistenza), sarebbe però opportuno tenere a mente il contesto in cui tale restrizione cade. Si ricordi che qui si parla di indipendenza come libertà dall’arbitrio altrui, ossia come capacità di agire e prendere decisioni senza essere sottoposti a coercizioni di qualsiasi tipo provenienti da altri soggetti. In prima battuta, quindi, tale negazione sembra originare da una legittima preoccupazione di non avere un mercato dei voti falsato dalla sottomissione di fatto di alcuni cittadini ad altri. Chiaramente si può obiettare che, nonostante le presunte buone intenzioni, negando il diritto di voto, Kant sta qui negando ai cittadini passivi un importante strumento attraverso il quale potrebbero emergere dalla condizione di passività. Ma se anche le cose stessero così – e date le storture populiste di molte democrazie contemporanee e i noti casi di voto di scambio qualche dubbio sarebbe opportuno – al più si può rimproverare a Kant un errore di valutazione politica, piuttosto che di principio. Potremmo dire: gli si può imputare un errore di scienza, e non di filosofia politica, tantomeno un tradimento dei suoi ideali. Di per sé non vi è nulla di particolarmente scandaloso nella negazione del diritto di voto a un gruppo di cittadini che non abbiano i requisiti di indipendenza necessari per decidere sulla cosa pubblica. E infatti, sebbene il criterio di esclusione sia diverso (l’educazione) anche pensatori radicali e progressisti come Mill adottarono criteri restrittivi simili. Se non si è convinti di questo punto, si immagini un caso analogo contemporaneo. Siamo certi che cittadini il cui completo disinteresse per la cosa pubblica possa essere dimostrato (ad esempio attraverso un test che chieda loro il nome del presidente della Repubblica in carica, se il paese è una monarchia o una repubblica, o cose simili) abbiano davvero il diritto di votare? E se lo hanno, siamo certi che il loro voto debba pesare quanto quelli che superano tale test piuttosto elementare? Non serve prendere posizione netta a riguardo. È sufficiente nutrire qualche dubbio sull’opportunità a tutti i costi e in qualsiasi condizione del suffragio universale per restituire ragionevolezza alla tesi kantiana. E a voler essere particolarmente caritatevoli, si potrebbe aggiungere che la stessa distinzione tra cittadinanza attiva e passiva può essere usata come uno strumento critico dell’esistente: laddove si dia un assetto socio-economico che lasci alcune persone preda dell’arbitrio altrui, come secondo Kant è il caso di un certo tipo di lavoratori (che oggi forse definiremmo “precari”), tale assetto andrebbe modificato. La sua negazione del diritto di cittadinanza, e quindi di voto, a tali soggetti, non è necessariamente il prodotto «della paura della classe borghese possidente di fronte a un assetto democratico che lasci a ciascuno la stessa quota di potere poli-

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tico e legislativo»36. La presenza di cittadini passivi, ossia la mancanza di opportunità per alcuni di non dipendere de facto dall’arbitrio altrui, potrebbe essere considerata come un problema da risolvere. In quest’ottica, ove ai cittadini non sia concessa l’opportunità di emergere da una condizione di “passività” subita, si violerebbero le prescrizioni normative contenute nella definizione di stato ideale non meno di quanto farebbe una mancata distinzione dei poteri. 5. Il liberalismo “comprensivo” kantiano. Tra morale e politica La nostra ricostruzione ha fin qui messo in luce che la politica kantiana deve molto al diritto innato alla libertà esterna che, secondo Kant, spetta agli uomini in virtù della loro “umanità”, intesa nel modo chiarito sopra. Questo fa pendere la nostra interpretazione a favore della lettura tradizionale del rapporto tra morale e politica in Kant che vede la politica modellata sulla morale e, da un punto di vista logico, basata su assunti dimostrati da Kant nella Fondazione e nella seconda critica37. Una simile impostazione è stata di recente criticata da Thomas Pogge attraverso una serie di argomenti piuttosto convincenti che dobbiamo discutere38. Tale digressione servirà, del resto, a evidenziare un aspetto del liberalismo kantiano che l’interpretazione tradizionale non sembra aver colto, ma che lo rende particolarmente attraente come opzione filosofica politica per il mondo contemporaneo. Anche se Pogge non articola in questo modo il suo pensiero, egli sembra proporci due tesi, di portata e ambizione diverse: 1) il liberalismo di Kant di fatto non dipende dalla morale kantiana in quanto potrebbe essere sostenuto da premesse diverse; o, per usare le parole di Pogge: «la Rechtslehre non presuppone la filosofia morale di Kant o il suo idealismo trascendentale»39; e 2) Kant stesso intendeva il rapporto tra la sua filosofia morale e la sua filosofia politica in questo modo e quindi voleva che la sua filosofia politica normativa fosse “freestanding” rispetto alla sua morale, 36 W. Kersting, Kant’s Concept of the State, in Essays in Kant’s Political Philosophy, ed by H. Williams, University of Wales Press, Cardiff 1992, p. 153. 37 Tale lettura è stata difesa con particolare forza da Wolfgang Kersting (cfr. W. Kersting, Wohlgeordnete Freiheit, De Gruyter, Berlin 1984). Si veda in particolare il suo attacco alla “tesi dell’indipendenza” alle pp. 37-42, difesa invece da Julius Ebbinghaus (Gesammelte Schriften, II. Philosophie der Freiheit, Bouvier, Bonn 1988) e, sebbene con accenti diversi, da Klaus Reich (Kant and Rousseau, Mohr-Siebeck, Tübingen 1936, p. 17) e Georg Geismann (Ethik und Herrschaftsordnung, Mohr Siebeck, Tübingen 1974, p. 56). 38 T. Pogge, Is Kant’s Rechtslehre a ‘Comprehensive Liberalism’?, in Kant’s Metaphysics of Morals. Interpretative Essays, ed. by M. Timmons, Oxford University Press, Oxford/New York 2002, pp. 133-158. 39 T. Pogge, Is Kant’s Rechtslehre a ‘Comprehensive Liberalism’?, cit., p. 135.

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come il secondo Ralws voleva che il suo liberalismo politico fosse “freestanding” rispetto alle varie concezioni “comprensive” presenti nella società. Possiamo trattare brevemente la prima tesi di Pogge in quanto è chiaramente vera. Uno stato basato sulla separazione dei poteri, nonché sulla libertà, uguaglianza e indipendenza dei cittadini potrebbe essere sostenuto da ragioni prudenziali, religiose, morali (non-deontologiche) le più disparate. E Pogge ha gioco facile nel mostrare che potremmo avere una ragione indipendente per aderire allo stato kantiano, quale ad esempio il nostro desiderio di preservare e assicurare uno spazio di libertà esterna senza azioni ostruttive da parte di altri soggetti. Poiché ci sono ottime ragioni (non deontologiche) per preferire questo stato di cose al suo contrario, e poiché il costo che paghiamo restringendo la nostra libertà per conformarci alle leggi dello stato è molto più basso di quello che pagheremmo in una situazione di incertezza strutturale sulla nostra sfera di azione legittima e sicura, abbiamo una ragione, non necessariamente egoistica o prudenziale (potremmo avere a cuore la libertà dei nostri vicini senza pensare alla nostra), per aderire alla situazione giuridica prospettata da Kant. La seconda tesi è evidentemente più difficile da dimostrare. Pogge tenta di fondarla mostrando che è possibile trovare nel pensiero kantiano materiale per costruire un argomento che parta da una premessa molto generale (evidentemente sposabile da punti di vista filosofici molto diversi) e giunga alla fondazione del liberalismo kantiano. Pogge punta su un argomento, kantiano nello spirito, basato sul nostro inevitabile interesse, in quanto agenti, ad assicurarci uno spazio sicuro e il più esteso possibile di libertà esterna. Se aderiamo allo stato per il nostro inevitabile interesse ad assicurarci uno spazio di azione, in quanto individui agenti, se, detto con altre parole, l’unico interesse che necessariamente abbiamo – l’esercizio al suo massimo della nostra facoltà di agire – ci spinge ad assicurarci le condizioni dell’azione, allora nessuna premessa morale avrà influenzato la nostra adesione. Pogge così conclude: Dal punto di vista di questa ricostruzione, Kant emerge come un liberale “freestanding” par excellence. Invece di presupporre molto di più di quanto fa Rawls – la sua filosofia morale e il suo idealismo trascendentale – in realtà presuppone molto meno. Non fa appello a idee fondamentali prevalenti nella cultura pubblica della sua società, né insiste sul fatto che le persone hanno certi facoltà morali e interessi convergenti di ordine più alto nello sviluppo e nell’esercizio di queste. E nemmeno cerca di identificare quei mezzi per qualsiasi scopo necessari per realizzare le concezioni del bene che i cittadini di una società come la sua probabilmente avranno. Piuttosto, basa la costruzione e il mantenimento del Recht esclusivamente sul fondamentale interesse a priori che le persone hanno per la loro libertà esterna40. 40

Ivi, p. 149.

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A ulteriore sostegno della seconda tesi, secondo la quale anche per Kant stesso il suo liberalismo deve essere inteso come un “modulo” inseribile in sistemi di pensiero tra loro molto diversi, a sostegno cioè dell’idea che Kant non volesse che premesse tratte dalla sua etica fossero intese come le uniche basi valide del suo liberalismo politico, Pogge richiama l’attenzione sulla famosa idea kantiana secondo la quale persino dei “diavoli”, del tutto egoisti e auto-interessati, alla sola condizione che siano dotati di intelletto, giungerebbero a limitare volontariamente la loro libertà per entrare nello stato. Se Kant pensa che persino individui con queste fattezze, per definizione scevri da preoccupazioni morali, aderirebbero al patto sociale, non significa questo che egli vede il suo liberalismo come sposabile anche da chi è agli antipodi della sua morale? La risposta a quest’ultima domanda è senz’altro sì, ma c’è ragione di dubitare che essa ci aiuti a decidere la questione di fronte a noi. Il punto è che Pogge sembra confondere due domande diverse. Una cosa è chiedere se il suo liberalismo di fatto possa essere sostenuto da ragioni profondamente anti-kantiane e persino del tutto immorali (la motivazione dei diavoli intelligenti). Un’altra cosa è chiedere se esista una giustificazione, accettabile anche per Kant, del suo liberalismo scevra da ogni riferimento alla sua morale. Questo equivale a chiedere se Kant sarebbe disposto, in maniera quasi sincretica, a mettere sullo stesso piano la sua “deduzione” della necessità dello stato, la sua risposta alla domanda su cosa ci obbliga a lasciare lo stato di natura, rispetto a quella di altri come Hobbes, i giusnaturalisti, i diavoli e quant’altri. Quest’ultima domanda chiede se per Kant esista un solo argomento filosofico valido per giustificare l’esistenza dello stato o se invece giustificazioni che partono da assunti filosofici molto diversi, ma convergenti nell’indicare la necessità di aderire a uno stato retto secondo i principi kantiani, sarebbero tutte equivalenti. La risposta alla seconda domanda, una volta chiarita, è evidentemente no. Kant dice esplicitamente che per esempio Hobbes fornisce una cattiva giustificazione della necessità di abbandonare lo stato di natura. In un noto paragrafo, significativamente intitolato “Contro Hobbes”, Kant rimprovera al filosofo inglese di aver frainteso la necessità dell’unione civile. Facendo poggiare tale unione sul fine della preservazione (o più in generale della felicità) che tutti di fatto condividono, Hobbes manca di cogliere la natura della necessità che rende l’ingresso nello stato civile un dovere. Tale necessità, come abbiamo visto, e come Kant qui ripete in altra forma, affonda le radici nel diritto alla libertà esterna («nelle reciproche relazioni esterne») che gli uomini possiedono già nello stato di natura. E non ha nulla a che vedere con il fatto che a tutti conviene entrare nello stato per proteggersi e per perseguire la propria feli-

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cità che sarebbe negata dalla vita «solitaria, povera, orribile, brutale e corta»41 che caratterizza lo stato di natura. Cose analoghe Kant direbbe contro la giustificazione lockiana dello stato, sebbene ad essa non dedichi una trattazione altrettanto articolata. I due pensatori sono d’accordo sul fatto che il primo passo sono i diritti innati che gli uomini hanno nello stato di natura, ma la fondazione lockiana di tali diritti non potrebbe soddisfare Kant. Mentre tali diritti innati sono da Locke affermati piuttosto che fondati, abbiamo visto in Kant che essi dipendono dalla dignità dell’uomo, a sua volta dimostrata con la fondazione della realtà (sebbene solo da punto di vista pratico) dell’autonomia. E abbiamo visto quale distanza intercorre tra la tradizione giusnaturalistica e Kant riguardo alle fondamenta normative della politica. Il contrattualismo di Kant, del resto, è un contrattualismo del tutto peculiare, in cui, non solo il contratto è artificio ideale e non fatto storico effettivamente accaduto (punto condiviso da molti altri contrattualisti) ma è ideale anche nel senso che le parti contraenti sembrano porsi domande profondamente diverse. Esse non sono chiamate a massimizzare il loro interesse, ma solo a rendersi conto che, data la loro natura, l’entrata in uno stato retto da separazione di poteri e rispetto per libertà, uguaglianza e indipendenza dei cittadini è l’esito doveroso e imposto necessariamente dalla ragione pura pratica, l’unico che assicuri il rispetto del diritto innato di ciascuno. Certo, come si è visto, si può tentare di trovare un argomento che fondi il liberalismo facendo a meno del ricorso alla dignità dell’uomo ma rimanendo all’interno delle risorse intellettuali messe a nostra disposizione da Kant. Questo è quanto fa Pogge appellandosi all’interesse che necessariamente abbiamo per le condizioni dell’agire. In quanto agenti, non possiamo non essere interessati alla libertà esterna che è ovviamente una pre-condizione dell’azione. E sempre in quanto agenti, desideriamo che le nostre vite siano scelte da noi piuttosto che scelte da qualcun altro. L’argomento ha però solo un’eco kantiana. Sfortunatamente è assai poco convincente ed è forse per questo che Kant non lo usa per fondare il suo liberalismo politico. Infatti, essere genericamente interessati alla propria libertà esterna è del tutto compatibile con esiti politici molto distanti da quelli auspicati da Kant. Anche immaginando una “posizione originaria” di individui liberi e eguali, interessati alla propria libertà esterna, ma senza preoccupazioni per la propria e altrui dignità (in senso kantiano ovviamente), non si vede come si possa escludere che le parti disegnino uno stato molto diverso da quello voluto da Kant. Basterebbe che all’interesse per la propria libertà esterna si affianchino altri interessi (per esempio per certi beni materiali) – la cui trascurabilità rispetto a quello per la libertà esterna non può essere esclusa a 41

Th. Hobbes, Leviathan, cit., p. 76 (trad. mia).

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priori – e lo stato che ne risulterebbe potrebbe facilmente consentire scambi di libertà per beni materiali, fino ai casi-limite di uno stato in cui la schiavitù sia consentita ove fosse volontariamente scelta in cambio di una certa quantità di commodities (il topos dello schiavo felice) o di un popolo di schiavi retti da un tiranno benevolo particolarmente bravo e onesto nell’amministrazione della cosa pubblica. Senza l’appello alla dignità degli individui – la strada che, secondo la nostra ricostruzione, Kant effettivamente percorre per giungere allo stato – si arriva a un assetto politico coincidente con quello voluto da Kant (separazione dei poteri e rispetto delle tre caratteristiche fondamentali della cittadinanza, tra le altre cose), nella migliore delle ipotesi solo per una fortunata coincidenza. Certamente non ci si arriva tramite un argomento a priori, analogo a quello appena discusso. Ci si giunge al limite se si dimostra con argomenti empirici che un qualche soverchiante interesse (diverso dal rispetto per la dignità intrinseca degli uomini) può essere difeso solo aderendo a uno stato retto dai principi liberali kantiani elencati sopra. Non a caso questa è appunto la via battuta dai giusnaturalisti. Avendo un interesse soverchiante alla socievolezza, premessa per la propria sopravvivenza, gli uomini non possono non aderire a un patto che assicura loro la difesa di tale interesse. E analogamente questa è la strada, mutatis mutandis, battuta da Hobbes. Ma è proprio la strada che Kant esplicitamente rifiuta. Da questo punto di vista, appare piuttosto arduo pensare che Kant voglia presentarci il suo liberalismo come capace di inserirsi (quasi fosse un modulo in una cucina componibile) in sistemi filosofici diversi che travisano il tipo di necessità che deve essere messa a fondamento dello stato. Tuttavia rimane vero – e questo è un contributo fondamentale che ci viene da Pogge – che, al di là delle intenzioni kantiane, il suo liberalismo è di fatto “componibile” con premesse e visioni morali e metafisiche del mondo molto diverse dall’etica deontologica. Non solo con quella hobbesiana, come Pogge stesso ricorda, ma anche con qualunque posizione che, per le ragioni più disparate – religiose, prudenziali, empiriche – riconosca l’opportunità di costruire uno stato fondato sulla libertà, eguaglianza e indipendenza dei cittadini. E, si badi, non solo nel caso in cui tali idee siano diffuse nella cultura pubblica di un popolo ma anche laddove esse siano parti integranti di concezioni comprensive tra loro molto diverse. Sebbene per Kant costoro aderirebbero allo stato da lui disegnato “per le ragioni sbagliate” – adattando una famosa espressione rawlsiana – rimane vero che di fatto aderirebbero. E una volta dentro, c’è da attendersi che almeno alcune delle loro dottrine comprensive illiberali virino verso il riconoscimento morale della pari dignità degli individui, secondo il meccanismo di educazione morale dell’umanità attraverso la giustizia delle istituzioni che abbiamo ricordato da principio. Questo infatti è il modo in cui Kant stesso

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vede il progresso dell’umanità verso il suo scopo ultimo, ovvero verso quello stadio di sviluppo in cui non solo una “condizione cosmopolita” sarà di fatto realizzata, ma dove gli individui avranno interiorizzato i principi politici su cui lo stato poggia rendendoli altrettanti principi morali. Chiarito il rapporto tra morale e politica in riferimento alla fondazione dello stato, possiamo passare a un ulteriore aspetto di questa “questione di confini”. In primo piano, stavolta, non è la teoria kantiana della giustizia, ma la sua concezione dell’agire del politico, ossia il modo in cui Kant disegna il compito del politico che voglia far avanzare quei principi di giustizia fissati dalla teoria del diritto. Parte II 1. La politica di fronte alla morale e al diritto: accordo, subordinazione, autonomia Nella prima sezione dell’appendice a Per la pace perpetua intitolata Sulla discordanza tra morale e politica in ordine alla pace perpetua, Kant definisce la politica come “dottrina del diritto messa in pratica” (aüsubende Rechtslehre) e la morale come “dottrina del diritto teoretica” (theoretische Rechtslehre) chiarendo immediatamente due punti essenziali42. Innanzi tutto, la morale di cui si indaga la possibilità dell’accordo con la politica va intesa non solo come morale in senso stretto (l’etica o Tugendlehre), ma anche e soprattutto come diritto (Rechtslehre), ossia come insieme di principi del diritto pubblico, internazionale e cosmopolita, derivati dalla legge morale, ma da essa distinti43. In secondo luogo, la definizione ci allerta sulla differenza che Kant pone tra diritto e politica. Il primo definisce principi razionali astratti e universali, la seconda li mette in pratica, con tutte le difficoltà che questo comporta. Mentre il diritto, come la morale, prescrive principi universali astratti disinteressandosi delle «conseguenze fisiche che ne derivano, qualunque esse siano», la politica, in quanto appunto dottrina del diritto messa in pratica, non può ignorarle del tutto. Anzi, la sua specificità rispetto al diritto si dà appunto nella sua capacità di calare bene le prescrizioni giuridiche nella realtà concreta sulla quale si esercita44. 42

ZeF, AA VIII 370. Nell’Appendice, parlando di morale, Kant il più delle volte intende il diritto, come chiarito dalla definizione appena richiamata. Tuttavia, a volte si riferisce anche alla morale in senso stretto (come quando ad esempio introduce l’essere innocenti come colombe come massima della “morale”). In quanto segue, continueremo a parlare di “morale” lasciando al lettore, ove non specificato, dedurre dal contesto se ci si riferisce all’una accezione o all’altra. 44 Per un’ottima discussione della differenza tra diritto e politica in Kant si veda M. Mori, La pace e la ragione, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 165-170. Riferendosi alla filosofia politica di Kant, tuttavia, è piuttosto comune includere la sua dottrina del diritto. È questo il caso ad 43

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Kant passa poi alla subordinazione della politica al diritto, ma fornisce anche suggerimenti essenziali per capire la residua autonomia di cui la politica gode. Kant si preoccupa innanzi tutto di sgombrare il campo, così come aveva fatto nello scritto Sul detto comune, dall’idea che i precetti della morale non possano applicarsi alla pratica, che a detta di opportunisti, cinici e realisti dovrebbe invece seguire una logica del tutto indipendente. Affermare una cosa simile significherebbe negare la natura pratica della ragione pura che negli scritti morali Kant aveva tanto faticato a fondare. Con le sue parole: «È un’evidente assurdità, dopo che si è riconosciuta l’autorità propria a questo concetto del dovere, voler ancora affermare che però non lo si può attuare». Negli scritti morali il dovere si era configurato come comando di una ragione che si scopriva autonoma proprio grazie alla consapevolezza della propria capacità di sottomettere gli istinti naturali più forti (ad esempio, l’istinto di sopravvivenza) al dovere. Non vi è dunque questione riguardo alla possibilità, per esseri razionali quali noi siamo, di realizzare nella pratica i dettami della morale e a fortiori del diritto. Ciò non significa, tuttavia, che morale e politica si confondano. Citando le due massime della politica e della morale, rispettivamente «siate prudenti come serpenti» e «[siate] senza malizia come le colombe», Kant infatti afferma che le due devono integrarsi in un unico precetto, non che la seconda deve sostituire la prima. La prudenza della politica, insomma, non deve annullarsi nell’innocenza della morale. L’idea, che a questo stadio viene solo accennata, è piuttosto che la prudenza della politica debba essere sì usata, ma al servizio della morale. Fin dall’inizio, quindi, Kant ci mette in guardia sul fatto che la prudenza da serpenti, ossia la furbizia, non sono necessariamente elementi disdicevoli che l’innocenza della morale deve lavar via dal nostro animo. La buona politica, potremmo dire, deve essere capace di manipolare le forze in campo in modo da produrre un risultato conforme a quello dettato dalla morale e dal diritto. Questo del resto si trova nella definizione del politico morale il quale, dice Kant, «intende i principi della prudenza politica in modo che essi possano coesistere con la morale». Ad esso si contrappone il moralista politico che foggia «una morale secondo gli interessi dell’uomo di Stato». In questa prima definizione è da notare che il moralista politico non è un mero opportunista, un serpente senza l’innocenza della colomba, per riprendere le metafore precedenti. Qui Kant sembra piuttosto avere in mente chi in buonafede pensa che ci sia una moralità nel perseguire la ragion di stato, o meglio che la morale natu-

esempio dei seguenti interpreti: P. Riley, Kant’s Political Philosophy, Rowman and Littlefield, Totowa (N.J.) 1983; H. Williams, Kant’s Political Philosophy, St. Martin’s Press, New York 1983; S.M. Shell, The Rights of Reason: A Study of Kant’s Philosophy and Politics, University of Toronto Press, Toronto 1980.

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ralmente si pieghi a nuovi principi se a doverla applicare è l’uomo di stato. Siamo quindi ancora lontani dal caso di chi surrettiziamente «maschera principi politici contrari al diritto col pretesto che la natura umana sarebbe incapace di fare il bene secondo l’idea prescritta dalla ragione». Questo è il caso dei “politici moralizzanti”, figure ben più pericolose in quanto «rendono impossibile, per quanto sta in loro, ogni miglioramento e perpetuano la violazione del diritto»45. Ma noi siamo di fronte a una figura molto più “nobile”: quella di chi in buona coscienza crede che la ragione di stato costituisca una vera morale a sé stante. Una figura che sostiene sinceramente la ragion di stato, un principe machiavellico che non regge lo stato secondo le regole del fiorentino solo perché questo è quanto serve fare, ma che veda nello stato anche un valore morale, per esempio di tutela della stabilità e dell’ordine. Il problema di questo moralista politico non è la sua spregiudicatezza (potrebbe essere benissimo una colomba e infatti più in là Kant gli attribuirà il fine della pace perpetua). Men che meno è la sua astuzia autointeressata. Il problema sta piuttosto nel suo credere che la morale possa davvero essere foggiata a seconda delle necessità della politica, non importa quanto alte. Ma per Kant è inconcepibile una morale flessibile e subordinabile agli interessi di qualcosa al di sopra di sé. La morale non si lascia ridefinire a seconda di nobili necessità. Per questo Kant non dice che tale figura è disdicevole, ma semplicemente “impensabile”. Il moralista politico, quindi, anche se ben intenzionato, inverte quell’ordine gerarchico tra morale e politica che il politico morale intende correttamente. Quest’ultimo non nega affatto che nell’applicare il diritto occorra tenere presenti le condizioni reali in cui questo si cala. Non nega l’autonomia della politica e l’esistenza di un autentico problema di determinazione della corretta condotta politica, anche laddove sia chiaro cosa la morale e il diritto richiedono. È proprio per risolvere quel problema che egli dovrà fare appello alla sua prudenza e, se serve, alla sua astuzia da serpente. 2. La preveggenza del moralista politico e quella del politico morale Ricostruito in questi termini, lo spazio che Kant assegna alla politica sembra chiaro e in linea con il suo pensiero. La morale, oltre a dar forma al diritto, comanda la politica, che si ritaglia un suo spazio come prudente applicazione di principi la cui giustificazione ultima esula dalla politica stessa. Subordinazione, dunque, con uno spazio di relativa autonomia. Al di sotto di questa ricostruzione superficiale, tuttavia, è piuttosto facile mostrare come nel pensiero kantiano si agitino delle tensioni che ci restituiscono 45 ZeF, AA VIII 373. Per una disanima della figura del terrorista morale o anche del nobile immorale si veda G. Cavallar, Kant’s Society of Nations: Free Federation or World Republic?, «Journal of the History of Philosophy» 32 (1994), pp. 461-482, in particolare pp. 477-478.

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un’idea di (buona) politica molto più controversa. Si cominci col considerare la metafora kantiana dei due dei, il dio della violenza (Giove) e il dio della moralità. Il primo è considerato in questo contesto come il dio di quanti adottano una razionalità strumentale, il secondo come il dio di chi agisce avendo il dovere come suprema guida. A leggere bene tra le righe, l’interpretazione superficiale fin qui tracciata comincia a scricchiolare. Il passo recita: Il Dio-termine della morale non la cede a Giove (Dio-termine della forza), poiché questi è ancora soggetto al fato, ossia la ragione non è abbastanza illuminata da abbracciare tutta la serie delle cause predeterminanti, le quali permettono di predire con sicurezza, secondo il meccanismo della natura e sulla base del fare o del non fare degli uomini, l’effetto buono o cattivo (sebbene permettano anche che tale effetto lo si speri conforme al nostro desiderio). Ma su cosa si debba fare per rimanere sul binario del dovere (secondo le regole della saggezza), anche in rapporto allo scopo ultimo, la ragione ci illumina sempre con sufficiente chiarezza46.

Giove rimane un dio limitato nei suoi poteri perché, come nella cosmogonia greca, è ancora soggetto al fato, ossia alla catena delle cause del mondo, così complessa da non essere prevedibile. Il dio della morale, invece, non subisce tali limitazioni in quanto, così sembra intendere Kant, è più potente anche del fato e capace di sfuggire al suo gioco, nel caso in cui questo sia richiesto dalla legge morale. Chi agisce moralmente non si preoccupa di prevedere l’esito dei meccanismi naturali (impresa che sarebbe comunque al di là delle nostre facoltà conoscitive) perché con la sua azione morale influisce sui meccanismi naturali stessi, non essendo ad essi soggetto. Per questo la massima «l’onestà è migliore di ogni politica» non teme smentite dall’esperienza (frequenti invece per la massima in apparenza simile «l’onestà è la migliore politica»). A differenza della seconda, la prima dipende solo dalla libera volontà dell’individuo morale, mentre la seconda, come qualsiasi massima ispirata dalla ricerca della felicità, dipende dalla bontà di previsioni estremamente complesse sullo sviluppo di un numero così alto di variabili che la ragione non riesce a dominare. Mentre nella ricerca della felicità la nostra ragione ci guida in modo insicuro, in quanto è difficile prevedere con esattezza tutte le variabili in campo, essa emette sentenze chiarissime su quello che dobbiamo fare «per rimanere sul binario del dovere (secondo le regole della saggezza), anche in rapporto allo scopo ultimo». Kant qui sembra essere impegnato a ribadire la sua consueta tesi della conoscibilità e praticabilità del dovere per qualsiasi uomo, e della sua indipendenza dalle prospettive di felicità (possiamo assumere la convergenza di virtù e felicità come ideale regolativo, non farne una condizione della nostra 46 ZeF, AA VIII 370. Per una discussione di questo passo si veda D. Ferdori, La saggezza del politico morale, in Acts of the XIth International Kant Congress (in corso di stampa).

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osservanza del dovere). Ma sembra farlo in un contesto in cui ha appena introdotto l’idea che la buona politica, ossia la politica ispirata dalla morale, deve essere scaltra come un serpente, capace di manipolare le forze in campo per produrre lo stato di cose conforme al diritto. Tuttavia questo sembra presupporre proprio quella capacità predittiva che Kant ha appena negato alla nostra ragione. Il quadro diventa ancora più complesso quando, nell’affermare la nostra praticabilità del dovere, Kant si preoccupa di chiarire che non sta parlando di un dovere qualsiasi ma «dello scopo ultimo», ossia della pace perpetua. E, a ulteriore rafforzamento dell’impossibilità di fare politica senza conoscenza, introduce un riferimento alle regole della saggezza quale sfondo necessario dell’agire politico. Come si chiarirà in seguito, il riferimento alla saggezza significa che il politico morale deve calibrare la propria azione riformatrice, il proprio sforzo di rendere le istituzioni più conformi al diritto, assicurandosi che le sue riforme cadano in un contesto maturo ad accoglierle. Ma evidentemente questo significa prevedere una buona parte degli effetti delle nostre azioni. Presuppone molta conoscenza corretta del mondo e delle forze in campo. Se i nostri sforzi riformatrici sono ancora soggetti al fato, come Giove, e quindi esposti all’insuccesso, che senso ha parlare di saggezza e di accorto sforzo riformatore calibrato alla realtà? Se la nostra ragione è davvero poco illuminata, perché Kant la invoca come necessaria consigliera del buon politico? Chiaramente egli non può dire che la stessa ragione è buona consigliera se la usa il politico morale, laddove è inefficace, miope e soggetta al fato nel caso sia il politico tradizionale o il moralista politico a farne uso. Una prima indicazione su come uscire da questa impasse ce la fornisce Kant stesso, affermando che l’errore del moralista politico, che qui è ora più specificamente inteso come chi riduce il problema della pace perpetua a problema tecnico, la ragione per cui la sua sapienza pratica è fallace, consiste nell’assunzione che l’uomo «mai vorrà ciò che è richiesto per conseguire lo scopo della pace perpetua». Insomma, il moralista politico, che ora ci viene presentato nei panni più consueti del realista, nega che gli uomini vorranno mai adottare quelle misure istituzionali che, comprimendo la loro libertà come singoli o come gruppi riuniti in stati, condurranno infine alla pace perpetua47. L’attuazione di queste riforme, infatti, è “difficile”, non solo perché l’uomo ha la nota e radicale tendenza a dare priorità all’amor proprio rispetto al dovere, a preferire una condizione illegittima, purché di comodo, almeno nel breve periodo. È ancor più difficile perché, per passa47 Secondo alcuni interpreti Kant introduce la controversa tesi della “garanzia della pace perpetua” proprio per sottrarre alibi simili ai politici conservatori. Si veda ad esempio B. Ludwig, Condemned to Peace. What does Nature Guarantee in Kant’s Treatise of Eternal Peace? in Kant’s Perpetual Peace. New Interpretative Essays, ed. by L. Caranti, Luiss University Press, Roma 2006, pp. 183-198.

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re dalla volontà di abbracciare quelle riforme da parte di ciascuno alla loro realizzazione come volontà di tutti, occorre un’autorità centrale che, instaurandosi in un primo momento con la forza, rimuova qualcosa di molto simile al dilemma del prigioniero48. Assicuri cioè che se uno (singolo o stato) adotta principi repubblicani, questa decisione non gli si ritorca contro a causa della mancata adesione da parte degli altri attori sociali (siano essi singoli o stati). Lo stato, nazionale o sopranazionale, ha bisogno al suo inizio di un atto di forza che assecondi i volenti e trascini i nolenti. Per questo motivo, nelle sue prime fasi di sviluppo, lo stato può assumere tratti dispotici. Il successivo miglioramento istituzionale è reso ancora più “difficile” dal fatto che non è detto chi si impossessa del potere sia disposto a trasformare le istituzioni in senso repubblicano. E di nuovo questo sembra valere tanto per il caso domestico quanto per quello internazionale. Ma queste difficoltà, e lo scetticismo del moralismo politico, diventano insuperabili solo se «non esiste alcuna libertà e alcuna legge morale su di essa fondata, ma tutto ciò che accade o può accadere si riduce a puro meccanismo della natura». In questo caso la politica si riduce a calcolo e il realismo ha la sua vittoria teorica. Se però si prende sul serio la realtà, da un punto di vista pratico, della libertà umana, e precisamente di quel tipo di libertà che è l’autonomia, allora il quadro cambia radicalmente. Se l’autonomia – e quindi la morale – ha un fondamento, esisteranno o potranno esistere dei politici morali che non si dedicheranno solo al calcolo dell’interesse, proprio o del gruppo che rappresentano, ma che intenderanno i principi della prudenza politica, che pure non rinnegano, «in modo ch’essi possano coesistere con la morale». Il politico morale, grazie alla propria libertà dai meccanismi naturali, saprà superare le difficoltà sopra elencate. Dati i difetti delle costituzioni esistenti, vorrà interrogarsi su come esse si possano «correggere e uniformare al diritto di natura quale ci si presenta come modello nell’idea della ragione, anche se tale operazione eventualmente comporti sacrifici per l’interesse personale e particolare». Il progresso verso la pace perpetua, quindi, riposa sulla buona volontà del politico morale e la sua libera decisione ispirata dal dovere viene considerata una componente fondamentale del processo previsto da Kant.

48

Come è noto, il dilemma del prigioniero rappresenta una situazione di scelta in cui due o più attori perseguirebbero al meglio i propri interessi collaborando, ma non collaborano in quanto non possono, per mancanza di informazione rilevante, essere certi della collaborazione degli altri. Se collabora solo qualcuno, infatti, questi pagherà un costo più alto di quello che pagherebbe non collaborando. La situazione è esemplificata da due prigionieri accusati di un delitto commesso insieme. Interrogati separatamente, e quindi non sapendo se l’altro confesserà, sarà razionale per ciascuno di loro confessare, e quindi ottenere uno sconto di pena, anche se potrebbero evitare del tutto la condanna laddove entrambi si professassero innocenti.

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3. La moralità del politico e la garanzia della pace perpetua. Due problemi L’appello alla moralità dei singoli governanti è molto interessante. Troviamo qui un elemento nuovo rispetto al tema evidenziato nel primo “supplemento alla pace perpetua” dove viene introdotta l’idea della garanzia di una pace durevole e stabile49. Là Kant era impegnato a mostrare che se anche le scelte dei singoli individui o dei singoli stati non saranno mai ispirate dalla giustizia politica, e quindi sempre dall’interesse particolare, nondimeno la pace perpetua si affermerà grazie a una serie di meccanismi naturali che trarrà a sé anche chi con le proprie azioni ostacola il suo affermarsi (fata volentem ducunt, nolentem trahunt). Qui invece scopriamo che la moralità e gli ideali politici hanno un ruolo centrale. Se infatti non fossero seguiti da nessuno, Kant sostiene che «il diritto rimarrebbe privo di contenuto», la politica non si riconcilierebbe mai con esso, e quindi, potremmo concludere, la pace perpetua non sarebbe mai raggiunta. Il progetto kantiano, insomma, si scopre dipendere dalla buona volontà dei singoli e soprattutto dei politici50. Vi è quindi sempre un lavoro da fare per riformare le istituzioni esistenti in modo che diventino più conformi all’ideale posto dal diritto pubblico, o di crearne di nuove, come nel caso del diritto internazionale o cosmopolitico. E per far questo ovviamente serve una disposizione morale, soprattutto da parte dei governanti, favorevole all’adozione delle riforme necessarie. La buona volontà dei governanti fonda dunque la possibilità della politica morale e del progresso verso la pace perpetua. L’appello alla disposizione morale dei politici, tuttavia, genera non pochi problemi a Kant. Innanzitutto rischia di indebolire la novità del suo progetto rispetto alla tradizione pacifista, in gran parte incentrata sulla libera iniziativa dei sovrani (si pensi a Saint Pierre).51 Poi, crea almeno due nuovi problemi di coerenza in49

Per un’interessante discussione di questa parte, tanto controversa quanto centrale, del saggio del 1795 si veda P. Guyer, The Possibility of Perpetual Peace, in Kant’s Perpetual Peace. New Interpretative Essays, cit., pp. 161-182. 50 È vero che il diritto, in quanto comando esterno, può essere seguito anche a prescindere dall’intenzione che si ha, e quindi in modo del tutto a-morale. Ma il diritto di cui si parla non necessariamente è già in vigore, anzi, nella sua idealità, non lo è mai. Quindi a spingere il politico ad istituirlo non può che essere una disposizione morale. 51 Anche se è vero che i prìncipi europei, secondo Saint Pierre, avrebbero dovuto aderire all’Unione europea per interesse e non per dovere, rimane il fatto che a loro viene richiesto di rinunciare alla sovranità assoluta per l’interesse dello stato. Come avrebbe puntualizzato Rousseau nel suo Jugement (Jugement sur le projet de paix perpétuelle, in Œuvres Complètes, éd. par B. Gagnebin, M. Raymond et al., Gallimard, Paris 1980-1996, p. 593) questo presuppone che i principi siano disposti a rompere il nesso che lega il proprio potere assoluto alla guerra, speranza evidentemente vana. Sulla radicale novità introdotta da Kant nel pensiero pacifista si veda A. Burgio, Per una storia dell’idea di pace perpetua, in I. Kant, Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 87-131.

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terna. Da una parte i meccanismi naturali sembrano a volte conoscibili (su questo si fonda la garanzia della pace perpetua) a volte inconoscibili (l’intrinseca miopia della politica come mera tecnica). Dall’altra, ancora non si capisce a cosa serva la moralità per il fine supremo della politica, la pace perpetua, se questa è già garantita dai meccanismi naturali (ammesso che siano conoscibili). Partiamo dal secondo problema. L’apparente contraddizione potrebbe risolversi dicendo che i meccanismi naturali spingono sì verso la pace perpetua, indipendentemente dalle scelte morali degli individui, ma lo fanno in un modo al tempo stesso costoso e lento. Costoso perché si richiede l’esperienza dolorosa di conflitti e guerre, e delle atroci sofferenze che ne derivano. Lento perché, senza aspettare l’ennesima riprova della futilità della guerra espansiva (nel senso che gli stessi vantaggi che con essa si cercano possono essere meglio raggiunti in un contesto di pace e di sviluppo), si potrebbe “accelerare” il corso della storia adottando “volontariamente” le riforme necessarie. Questo elemento dell’accelerazione, d’altra parte, era stato già accennato nell’Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico (1784) dove Kant scriveva che «per la nostra stessa struttura razionale noi potremmo affrettare per i nostri posteri l’avvento di questa età così felice»52. La politica morale con le sue riforme accelererebbe un progresso comunque segnato, laddove la politica tradizionale non farebbe nulla per aiutarlo, e quella morale ma imprudente magari finirebbe per rallentarlo. Scelte individuali e meccanismi naturali non sono quindi in contraddizione, né i secondi rendono le prime superflue. Le scelte morali hanno ancora un ruolo da giocare anche all’interno di una visione della storia fortemente finalistica come quella kantiana. Di conseguenza Kant può coerentemente dire che la pace perpetua è un dovere. Nonostante, verrebbe da dire, la garanzia che essa sarà raggiunta indipendentemente dalle nostre scelte. Il primo problema, più ostico, ci rimanda alla scarsa chiarezza con cui Kant tratta il rapporto tra conoscenza e agire politico e quindi al rapporto tra prudenza e politica morale. A volte egli sembra ritenere la conoscenza, e quindi la prudenza del politico morale, un qualcosa di essenziale alla riuscita della sua azione. Senza conoscenza del contesto in cui le nostre riforme dovrebbero attecchire non vi può essere buona politica, ma solo dilettantismo e/o moralismo dispotico, ossia l’applicazione cieca dei dettami della ragione pratica «con misure affrettatamente prese e approvate» in violazione della «prudenza politica». Altre volte Kant sembra ritenere la conoscenza storica e sociologica del tutto irrilevante, tanto da dare l’impressione di cadere proprio nell’ingenua disposizione del moralista dispotico. Ad esempio, egli nota come la mera prudenza politica non potrà mai risolvere il 52

ZeF, AA VIII 27 (corsivo mio).

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problema di come avanzare verso il fine della pace perpetua, nemmeno se il politico prudente – ma non morale – si propone proprio questo obiettivo. Per la soluzione di questo problema, infatti, «si richiede un’estesa conoscenza della natura per utilizzarne il meccanismo al fine proposto», conoscenza che però non abbiamo. Riguardo al come avvicinarsi meglio alla pace perpetua «tutto è incerto». È incerto se alla prosperità e alla virtù di un popolo giovi di più il governo di uno, di pochi o di molti. E «ancora più incerto è il diritto internazionale, che si pretende di costituire in base a statuti redatti secondo piani ministeriali». E dopo aver svalutato le possibilità della prudenza politica, che prima erano apprezzate, raccomanda agli individui e in particolare agli uomini politici di abbracciare qualcosa che assomiglia molto a un articolo di fede: Si può allora dire: «Mirate anzitutto al regno della ragion pura pratica e alla sua giustizia, e il vostro scopo (il beneficio della pace perpetua) vi sarà dato da sé». La morale in sé, in rapporto ai suoi principi fondamentali del diritto pubblico (quindi in rapporto ad una politica intelligibile a priori), ha infatti questo di caratteristico: che quanto meno essa fa dipendere la condotta dallo scopo proposto, dal vantaggio fisico o morale che si ha di mira, tanto più tuttavia si accorda in generale con esso53.

Dunque, la pace perpetua si ottiene più facilmente se ci si preoccupa di attuare la giustizia (per come è definita universalmente dalla ragione pratica nel diritto pubblico) senza stare molto a pensare a ciò che l’applicazione della giustizia dovrebbe assicurare, appunto la pace perpetua, e ancor meno ai modi più efficienti per raggiungerla54. Anche lasciando da parte l’adesione al motto Fiat iustitia, pereat mundus, che Kant sottoscrive55, egli sembra contraddire quella prudenza che poco prima aveva raccomandato56. Adesso sembra che il politico debba solo preoccuparsi di applicare i dettami della ragione pura pratica, piuttosto che «intendere i principi della prudenza politica in modo ch’essi possano coesistere con la morale». E sebbene Kant ci dica ancora in questo contesto che il cammino verso la pace perpetua va ef53

ZeF, AA VIII 378. Come in precedenza Kant aveva chiarito, anche nella pratica (e quindi in politica), occorre partire dal principio formale «opera in modo che tu possa volere che la tua massima (qualunque sia lo scopo) debba diventare una legge universale» piuttosto che da quello materiale che ha di mira uno scopo ben determinato, anche nel caso in cui questo scopo sia il fine che è al tempo stesso un dovere, ossia la pace perpetua. Questo fine, infatti, è anche un dovere solo perché discende dal principio formale e quindi in ultima analisi dipende da questo. 55 Almeno nel senso di evitare che pietà e commiserazione ci conducano a negare a qualcuno i propri diritti. 56 Su questa famosa massima kantiana e in generale sulla figura del moralista politico, del politico morale si veda anche G. Marini, Per una repubblica federale mondiale, in La filosofia politica di Kant. Seminario perugino per lo studio dei classici, Angeli, Milano 2001, pp. 19-34. Si veda anche F. Sciacca, Il concetto di persona in Kant. Normatività e politica, Giuffré, Milano 2000. 54

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fettuato «senza che venga […] dimenticata la prudenza, la quale consiglia di non attuarlo affrettatamente con la forza, ma di avvicinarsi di continuo ad esso a seconda delle circostanze favorevoli»57, non si capisce bene come questa prudenza può essere applicata, visto che siamo chiamati a preoccuparci solo di «mirare al regno della ragione pura pratica e alla sua giustizia»58. E ancor meno si capisce perché così facendo «il vostro scopo (il beneficio della pace perpetua) vi sarà dato da sé»59. 4. La politica morale: tra prudenza e fede Cerchiamo dunque di ricostruire un senso al di là e al di sopra di queste tensioni e oscillazioni, sperando che questo ci consegni una visione della politica al tempo stesso fedele allo spirito kantiano e in sé coerente. Ricapitoliamo quanto si è detto fin qui alla luce delle difficoltà interpretative già superate: il politico morale è quello che intende correttamente il rapporto gerarchico tra morale/diritto e politica. Lungi dall’essere un fanatico, però, non dimentica che trasformare con la forza le istituzioni in senso repubblicano, oltre ad essere contro il diritto, potrebbe portare l’effetto opposto a quello desiderato. Il buon politico deve essere prudente almeno in questo senso e forse anche in quest’altro: deve conoscere bene la realtà su cui agisce per proporre quelle riforme in senso repubblicano che il contesto sociopolitico è capace di accogliere. La saggezza del politico, tuttavia, non deve diventare l’arroganza di chi crede di poter identificare tutte le variabili in campo e manipolarle per poter giungere al fine desiderato (la pace perpetua), perché la conoscenza necessaria per questo è ben al di là delle possibilità umane. Molte volte, sembra intendere Kant, siamo chiamati ad applicare le riforme senza avere una chiara visione delle loro conseguenze. Non dobbiamo paralizzarci se non riusciamo a dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio come e perché esse avvicinino il fine della pace perpetua, come e perché esse siano opportune. Ancor meno, ovviamente, dovremo ascoltare il politico moralizzante che denigra le nostre riforme in quanto lui sa come vanno le cose del mondo. Come noi, egli non possiede una conoscenza che gli consenta di prevedere con precisione le conseguenze di date riforme, e quindi di escludere la possibilità del progresso. Il criterio primo deve essere l’intrinseca giustizia dei nostri provvedimenti, non un calcolo preventivo sulle loro conseguenze. Ecco perché Kant tiene a sottolineare che se anche il politico morale e il moralista politico avessero lo stesso fine – la pace perpetua – il loro comportamento sarebbe comunque significativamente diverso. Per il secondo il compito è meramente tecnico, ma, in 57

ZeF, AA VIII 378. Ibid. 59 Ibid. 58

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quanto tale, anche irresolubile, data la debolezza delle nostre capacità predittive. Per il primo, il compito è di natura morale e la sua soluzione «si impone per così dire da sé, è chiara ad ognuno, rende vani tutti gli artifici e conduce inoltre direttamente allo scopo». Il politico morale, insomma, deve solo controllare che le riforme non siano chiaramente affrettate e immature. Fatto questo test preliminare, non deve esitare a mettere in pratica solo perché non riesce a leggere tutte le conseguenze a loro legate. La loro intrinseca giustizia è ragione sufficiente per attuarle. Rimane certamente da capire cosa ci assicuri che le nostre riforme, in assenza di una visione esaustiva sui loro effetti, «conducano direttamente allo scopo» come dice Kant, invece che al loro opposto. Certo, come sappiamo, l’Appendice segue direttamente il Primo supplemento dedicato alla garanzia della pace perpetua. Kant si sente autorizzato a identificare quello che altrimenti sembrerebbe un articolo di fede tramite una macroanalisi, appena compiuta, sui meccanismi naturali che imprimono una direzione alla storia. Le nostre riforme si inseriscono quindi in un terreno fertile, accompagnano e accelerano un processo che è comunque già in atto. Ma questo non fa che riproporre, forse al livello più profondo, l’ambiguità sul ruolo della conoscenza per la (buona) politica, conoscenza che qui assume le fattezze di una capacità predittiva sulla storia. Ancora una volta le previsioni sembrano più o meno fattibili e affidabili a seconda che a farle sia il politico morale o il moralista politico. Se è il primo a farle, tutto va bene e il nostro intelletto risulta capace di leggere una tendenza ben precisa nella storia, laddove se è il secondo, allora lo sforzo diventa magicamente vano, in quanto, come dice Kant, la nostra ragione è incapace di abbracciare tutte le cause “predeterminanti”. Si tratta di un semplice doppio standard con cui Kant tenta goffamente di screditare il moralista politico o anche in questo caso c’è un modo per ricostruire un pensiero coerente? L’unica soluzione si intravede nella distinzione tra macro e micropredizioni. La predizione contenuta nel primo supplemento è chiaramente una macro-predizione, per di più fatta volutamente da una prospettiva molto distante, come si trattasse di una fotografia effettuata col grandangolo piuttosto che con il teleobiettivo. Tale visione del futuro, infatti, abbraccia la totalità delle relazioni umane, e si estende almeno dal tempo presente verso un punto indefinito del futuro. Da una prospettiva così distante, sebbene certo non esterna al mondo (nessuna visione dal punto di vista di Dio), Kant crede di intravedere una tendenza, combinando una riflessione antropologica e sistemica sulle istituzioni politiche. Da una parte, egli prende in considerazione le ragioni per cui gli uomini si sono dichiarati e ancora si dichiarano guerre offensive, le quali si possono sommariamente riassumere in motivi materiali - potere, nelle sue varie declinazioni dalla prosperità economica alla sicurezza – e motivi “morali” – onore, in tutte le sue sfaccetta-

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ture, dalla difesa dell’identità etnica o religiosa al semplice desiderio di primeggiare. Poiché gli stessi obiettivi, almeno gran parte di essi, possono essere raggiunti senza la guerra, e quindi senza le sofferenze che da questa discendono, segue, parafrasando il famoso passo sul popolo di diavoli, che una razza di diavoli, a condizione che sia fornita di intelletto, giungerà a quella condizione di benessere che è anche quella richiesta dal dovere, ossia alla pace duratura. Vivendo in un quadro di giustizia, che è quello tratteggiato dai principi del diritto pubblico, internazionale e cosmopolita, gli uomini otterrebbero quei beni che oggi cercano con la via incivile della guerra. Il loro interesse e gli interessi della moralità felicemente coincidono. Questo, in ultima analisi, garantisce la pace, anche se non si può profetizzare quando questa si realizzerà. Al più possiamo riscontrare dei segni, sia tra gli eventi storici, che negli animi umani quando la loro naturale tendenza a preferire la libertà al dispotismo diventa evidente. Kant si appellava alla reazione di entusiasmo che lo “spettacolo” di un popolo che trova la sua libertà (come quello francese) suscitava negli animi di spettatori esterni ed imparziali. Noi potremmo dire che, nonostante il secolo breve, l’Europa unita è un segno, una conferma in realtà piuttosto sorprendente, sia della bontà del progetto kantiano che del suo affermarsi in modo forse non lineare ma complessivamente inarrestabile. Le previsioni del moralista politico, viceversa, riguardano di norma eventi ben determinati e riguardanti il breve periodo. Sono previsioni col teleobiettivo, o forse col microscopio: cosa avverrà se il mio paese applica una politica protezionistica nei confronti di nazioni emergenti? Cosa avverrà se aumento le tasse? Quali conseguenze ci saranno se privilegio questo o quel settore sociale? Naturalmente qui occorre avere una visione esaustiva delle variabili in campo. Se non prendo in considerazione tutte le variabili che il mio provvedimento investe, come potrò essere sicuro di ottenere i risultati sperati? L’intera catena delle “cause predeterminanti” deve essere nota. È l’estensione di questo modello micro, utile per la politica di corto respiro, al problema dell’indirizzo generale della politica che crea il corto circuito per il moralista politico. Non avendo e non potendo avere a disposizione l’intera catena causale, si troverà invischiato in una serie di “giri tortuosi”, nel tentativo di trovare la formula, per lui e per chiunque troppo complessa, che consenta di manipolare le forze in campo verso il proprio fine. Anche se il moralista è ben intenzionato, e persegue come il politico morale il fine della pace perpetua, lo farà sempre concependo il problema come tecnico, cioè come tale da non poter andar oltre la manipolazione delle forze in campo, così come per il realista non c’è altro da fare in politica internazionale se non concepire quali siano gli interessi nell’arena internazionale per poi manipolarli.

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Al contrario, come si è detto, al politico morale è concesso un maggior distacco dal dovere di predire tutte le conseguenze dell’azione. Questo perché egli vede la realtà come non già determinata dalle forze o dagli interessi in campo, ma tale da essere influenzata da libere decisioni di uomini giusti come lui, confortato dalla sua visione “macro” sulla direzione della storia. È il parziale distacco dal mondo assicuratogli dal suo essere un politico morale che genera quell’altrettanto parziale permesso di ignorare la limitazione delle nostre capacità predittive. Il distacco ovviamente non è assoluto ed è qui che la conoscenza (tecnica) gioca un ruolo anche per lui. Essa non lo aiuta solo ad evitare i due sentieri sbarrati descritti prima (violenza e fretta). Concepita nella forma di una visione generale della storia, la conoscenza gli assicura che i suoi tentativi, anche ove fallissero, saranno riconosciuti come giusti dai vari spettatori imparziali che li osserveranno e, solo in virtù del loro darsi, costituiranno delle vittorie contro lo scetticismo, non tanto del moralista politico, ma del molto più pericoloso politico moraleggiante. C’è poi un’ulteriore differenza tra il politico morale e il moralista politico che desidera la pace perpetua. Concependo la pace perpetua come un dovere, il primo tenderà ad essa in modo molto più stabile e costante. Si ricordi che l’adesione al fine della pace perpetua per il secondo è il frutto di un calcolo dei piaceri. Il moralista politico illuminato ha capito che è nell’interesse del suo paese (oltre che degli altri) fare di tutto affinché si raggiunga quella condizione. La sua fedeltà alla causa della pace perpetua dipende così dal sussistere delle condizioni che gli fanno ritenere quel fine nel suo interesse. Qualora sorgessero dubbi sulla bontà del calcolo che lo ha condotto ad abbracciare quella causa, la sua adesione sarebbe in serio pericolo. Analogamente, se l’interesse del gruppo che rappresenta lo spingesse nel breve periodo in direzione opposta a quel fine, non si capisce perché non dovrebbe momentaneamente deviare dalla giusta condotta, per poi eventualmente riabbracciarla quando le condizioni saranno di nuovo favorevoli, ossia quando l’interesse, magari a lungo termine, spingerà di nuovo nella direzione della pace. Per usare il linguaggio introdotto da Rawls, il politico morale tende alla pace perpetua “per le giuste ragioni” laddove il moralista politico lo fa come un mero “modus vivendi”. Nel momento in cui le circostanze o la nostra informata opinione cambiassero, e il nostro interesse sembrasse meglio servito da un fine diverso dalla pace perpetua, il moralista politico non avrebbe difficoltà a cambiar partito. Essendo invece iscritto nella ragione pratica, il fine del politico morale non risente di nessuno scarto cognitivo e calcolo contingente.

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5. Politica e giudizio Abbiamo visto come al politico morale sia chiesto molto di più della mera applicazione dei principi del diritto e della morale. Il politico deve fare il possibile per avvicinare la realtà all’ideale posto dai principi del diritto pubblico, internazionale e cosmopolita. E deve farlo con prudenza, ossia commisurando attentamente i mezzi con i fini, accertandosi che le riforme per le quali si batte non siano immature. Deve farlo, tuttavia, anche con una dose di sana disattenzione rispetto agli effetti, almeno nel senso che la coscienza di essere incapace di prevedere tutte le conseguenze delle sue riforme non deve bloccarlo. Se questo è il compito del politico morale, è evidente come il giudizio abbia un ruolo cruciale nella politica morale. Riprendendo la tripartizione kantiana delle facoltà superiori – intelletto, ragione e giudizio – è interessante notare come la politica sembra richiederle tutte e tre, ma è al giudizio che spetta il compito più specificamente politico. Vediamo perché. L’intelletto, come facoltà depositaria delle leggi, non solo quelle a priori che costituiscono il tessuto dell’esperienza possibile, ma anche quelle empiriche, è cruciale in quanto il politico deve conoscere le leggi sociali e antropologiche che regolano il comportamento degli uomini, pena l’inefficacia delle sue riforme. Egli ha il dovere di conoscere la migliore scienza sociale a disposizione del suo tempo quando prende decisioni. Difficilmente, se no, potrebbe aspirare a quella prudenza, men che meno alla saggezza che Kant da lui si aspetta. Naturalmente, deve anche fare affidamento sulla ragione, sia nel suo aspetto teoretico che pratico. Infatti, almeno come ideale regolativo, ha bisogno di quella visione d’insieme sulla storia che gli fornisce spunto e rassicurazione sul senso del suo agire. La ragione pratica, con la sua legge morale, serve poi come ratio cognoscendi di quella libertà dai meccanismi naturali che, come abbiamo visto sopra, è componente essenziale del progresso a cui è chiamato a contribuire. E la ragione, come fonte della legge morale, ovviamente indirizza le sue azioni sul binario del dovere. Ma la facoltà che davvero sembra caratterizzare la saggezza del politico, quella che lo rende un buon politico, piuttosto che un buono scienziato o “solamente” un uomo buono, è il giudizio, da intendersi sia come giudizio determinante che come giudizio riflettente. A questa facoltà, infatti, egli deve appellarsi nell’applicazione e nell’uso delle leggi dell’intelletto e della ragione. Da una parte, come giudizio determinante, aiuta a ricondurre la realtà su cui occorre agire sotto questo o quel concetto. Ad esempio, nella valutazione delle istituzioni, riporta lo stato in esame sotto il concetto di regime repubblicano o dispotico, ovvero sotto tutti i possibili concetti intermedi. La determinazione del casus legis, così cruciale per la politica (come ovviamente per altre attività), è compito precipuo del giudizio e non può essere

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demandato all’intelletto. Notoriamente per Kant non si può chiedere all’intelletto una regola per l’applicazione delle proprie regole. Per decidere quando una regola intellettuale va usata, l’intelletto dovrebbe fornire una regola applicativa di ordine superiore. Ma, a sua volta, per decidere quando è opportuno usare quest’ultima, avremmo bisogno di un’altra regola ancora e così via all’infinito. Il talento, non riconducibile a regole, per decidere quando una regola (già data) va applicata, è appunto il giudizio (determinante). Come tale non può essere insegnato, come per gli antichi non poteva esserlo la phronesis60. Ma, come riflettente, il giudizio soccorre il politico a un livello più profondo e importante: esso aiuta a costruire una nuova regola a seconda delle peculiarità delle circostanze che ha di fronte61. Più precisamente, aiuta a declinare i principi universali del diritto nel modo più confacente al grado di progresso istituzionale della società, segnando il punto di equilibrio tra idealità e realtà. Chiaramente, di questo “adattare” i principi universali del diritto si possono dare usi scaltri e meramente auto-interessati. Ma vi sono pochi dubbi che la politica poggi sull’inventare la regola del proprio agire a seconda delle circostanze che si trova di fronte, almeno quanto abbia a che fare con la corretta applicazione di leggi (sociali, economiche, antropologiche) già date. Stando così le cose, il giudizio riflettente, con la sua tendenza ad assumere una qualche regolarità in un molteplice empirico ancora non riportato a legge, sembra giocare un ruolo cruciale e insostituibile. La funzione politica del giudizio riflettente ci mette sulla buona strada per capire anche come questa facoltà allontani il pericolo di una meccanica e quindi dogmatica applicazione dei principi giuridici razionali. Sappiamo ormai che il politico prudente per Kant è quello che non adotta mezzi affrettati, violenti e in ultima analisi controproducenti per affermare il giusto. Nell’astenersi da tali mezzi, stante il dovere di far qualcosa per il progresso di quei principi razionali, gli sarà chiesto costantemente uno sforzo di creatività, la ricerca di quella specifica regola che più si approssima all’ideale, senza però chiedere troppo alla realtà. Il giudizio riflettente qui è chiamato a identificare le riforme più ambiziose possibili. Quelle leggi per la società, 60 KrV, A 133/B 172; trad. it. I. Kant, Critica della ragione pura, a cura di G. Colli, Bompiani, Milano 1991, pp. 214-215. 61 Anche Giuliano Marini pensa che il giudizio giochi un ruolo nella politica kantiana. Si veda G. Marini, La filosofia cosmopolitica di Kant, Laterza, Roma Bari 2007. Per una visione diversa del ruolo che il giudizio riflettente può svolgere in politica si veda H. Arendt, Lectures on Kant’s Political Philosophy, Chicago University Press, Chicago 1982, trad. it. di P.P. Portinaro, Teoria del giudizio politico. Lezioni di filosofia politica di Kant, Il melangolo, Genova 1990. Ma anche A. Ferrara, La forza dell’esempio, Feltrinelli, Milano 2008. Per una critica dell’uso arendtiano del giudizio di gusto di Kant si veda A. Ferrarin, Saggezza, immaginazione e giudizio pratico, ETS, Pisa 2004, pp. 43-51.

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insomma, che più si avvicinano all’ideale razionale senza con questo divenire utopiche. Per usare di nuovo la terminologia rawlsiana, in ultima analisi è il giudizio, sulla base della conoscenza intellettuale e delle leggi ideali razionali, a determinare in ogni momento storico i confini dell’utopia realistica. E, più in generale, come per Aristotele la virtù è definita da ciò che fa l’uomo virtuoso, così potremmo dire che per Kant la buona politica è quella decisa dal politico dotato di giudizio. E sebbene il quadro generale fissato dai principi del diritto, e il fine della politica (la pace perpetua), siano già dati, di volta in volta al politico toccherà il compito di trovare la particolare declinazione di quei principi generali più adatta alla realtà da riformare. Conclusione Se l’interpretazione proposta in questo articolo è corretta, la politica per Kant si rivela come un campo di particolare complessità, i cui confini sono meno chiari di quanto possa apparire a prima vista. Fondata sulla morale, essa mantiene una sua indipendenza, sia a livello di contenuto – si può accordare con premesse molto diverse dall’etica deontologica, cosa che le permette di affermarsi storicamente e di far compiere agli uomini i passi necessari verso la loro moralizzazione – sia a livello di metodo – il buon politico non è certo chiamato ad applicare meccanicamente i dettami della morale. Da una parte, quindi, lasciando da parte il modo in cui Kant stesso vedeva il rapporto tra la sua morale e la sua politica, il liberalismo kantiano ha la grande virtù di essere molto poco “comprensivo”, pace Rawls, e di sapersi quindi sposare con concezioni metafisiche, morali e religiose anche molto diverse dalla Weltanschauung kantiana. Dall’altra, abbiamo appena visto che non basta la volontà buona, nemmeno se questa è coadiuvata da estesa e solida scienza, per produrre buona politica. Le virtù intellettuali e morali del politico rimangono nel migliore dei casi inefficaci o diventano pericolose se non sono coadiuvate dal giudizio. La vita del politico, quindi, almeno quella del politico morale, è più ardua di quella dell’uomo onesto. A quest’ultimo basta seguire quel che la sua ragione pratica infallibilmente gli comanda mentre il primo è soggetto ad un onere aggiuntivo, la prudente, “giudiziosa” delimitazione dell’utopia realistica. Certo, anche nella vita etica, nonostante l’insistenza kantiana sull’accessibilità della legge morale per l’intelletto più semplice, il giudizio svolge una parte essenziale. L’identificazione di quale massima portare al test dell’imperativo categorico è di per sé un’operazione tutt’altro che meccanica. Per questa sono necessarie una conoscenza piuttosto approfondita della realtà che si va a influenzare e un atteggiamento molto diverso dal quasi autistico disinteresse per le conseguenze che una certa vulgata attribuisce a Kant. Se dicendo una verità scomoda a una persona la ferisco al punto da farla fallire

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in relazione a un evento cruciale da cui molto della sua vita futura dipende, la mia azione potrà difficilmente essere considerata morale. E questo perché la massima da portare al test dell’universalizzabilità non sarà «in caso debba dire una verità dolorosa per il prossimo, dirò invece una pia bugia, o procrastinerò la confessione sine die» nel qual caso è evidente che un atteggiamento pietoso va cassato. La massima, che solo l’individuo dotato di giudizio potrà ben identificare, è piuttosto «in caso debba dire una verità dolorosa per il prossimo, procrastinerò la confessione, ove possibile, al momento in cui tale la rivelazione produrrà la minima quantità di sofferenza». Già nella vita etica, quindi, l’applicazione dell’imperativo categorico è operazione piuttosto complessa. Nel caso della politica, tuttavia, le difficoltà sembrano aumentare. Mentre per la vita morale la realtà toccata dalla mia azione è spesso piuttosto ristretta, nel caso della politica il numero di variabili da considerare aumenta esponenzialmente insieme al numero di leggi empiriche che vanno conosciute e tenute presenti. Insomma, se è vero che virtù e conoscenza non produrranno mai buona politica senza il giudizio, è anche vero il contrario. Senza conoscenza approfondita della realtà sociale su cui si vuole incidere, oltre che ovviamente senza virtù, il giudizio da solo non produrrà mai una buona decisione politica. Viceversa, nella vita morale, almeno nella maggioranza dei casi, il dovere si rivela abbastanza chiaramente anche all’intelletto meno sofisticato, come Kant del resto ripete continuamente. Ma c’è un ulteriore elemento che spiega la “difficoltà” della politica, che si traduce facilmente nella difficoltà di trovare buoni politici. Il giudizio, a differenza della scienza, non si insegna né si impara. Come dice Kant, si tratta di «un talento particolare […] che può essere solo esercitato». È «l’elemento specifico del cosiddetto ingegno naturale, la cui mancanza non può trovare rimedio in nessuna scuola»62. La scienza, insomma, si può apprendere e la legge morale è chiara a ciascuno nella propria coscienza. Ma la mancanza di giudizio, se Kant ha ragione, non è rimediabile. Non si “fabbricano” uomini politici, il giudizio, come la phronesis, non si insegna perché non è un insieme di norme, ma un talento sul come e quando applicare le norme. Al più, la capacità di giudizio si può “addestrare” esponendo il discente a una serie di esempi di buona applicazione di quella facoltà, nella speranza che il suo naturale talento sia stimolato per imitazione. È interessante come Kant, esponendo questa caratteristica del giudizio nella prima critica, scelga come esempio proprio l’uomo politico: Perciò […] un uomo politico può avere in mente molte belle regole […] politiche, al punto di poter diventare egli stesso un profondo insegnante in proposito, e tuttavia cade facilmente in errore nell’applicazione di esse, o perché manca di capa62

KrV, A 133/B 172; trad. it. cit., p. 215.

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cità naturale di giudizio (sebbene non manchi d’intelletto), ed egli può sì intendere l’universale in abstracto, ma non sa distinguere se un caso in concreto sia subordinato ad esso, o anche per il fatto che egli non è stato sufficientemente addestrato per questo giudizio, medianti esempi e pratica diretta63.

È più facile insomma incontrare un uomo buono che un politico morale, non solo per le tristemente note tendenze della politica di tutti i tempi (e forse dei nostri in particolare), ma proprio perché, se Kant ha ragione, un buon politico deve essere un uomo buono, erudito e saggio. In altri termini, deve aver vinto, in foro interno, la battaglia fondamentale tra l’amor proprio e il dovere, pena l’instabilità della sua adesione ai principi del diritto; acquisito salda conoscenza, non solo degli astratti principi del diritto stesso, ma anche di molte leggi empiriche sulla società e sull’uomo in generale; deve essere dotato di talento naturale nel giudicare sull’applicazione di regole intellettuali e razionali di vario tipo, e deve aver addestrato, raffinato tale talento con la pratica. Non una cosa da poco. Anzi, una cosa per pochi.

63

Ibid.

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Claudio La Rocca

Psicologia

La psicologia è sempre stata una scienza non solo problematica1, ma sintomatica: una disciplina particolarmente adatta a far emergere problemi concettuali di fondo, e dunque un ambito di ricerca intrinsecamente filosofico, qualche volta filosofico suo malgrado. Esso finisce, infatti, per assumere rilevanza filosofica anche quando chi lo indaga pretenda di muoversi esclusivamente in un ambito empirico, o comunque modellato dalle procedure della moderna scienza della natura. Nel caso del pensiero kantiano, questo status problematico e questa funzione sintomatica sono particolarmente evidenti, e ciò per almeno due ordini di ragioni. Il primo è dato dal fatto che la specifica metodologia che Kant sviluppa per la filosofia – il metodo trascendentale – cerca di definirsi per differenza rispetto alla ricerca psicologia empirica, ma al contempo conserva delle affinità o degli intrecci concettuali con essa che sono da sempre stati oggetto di analisi, discussione e controversia. Il secondo ordine di ragioni è dato dal fatto che intorno allo statuto della psicologia, e a quello psicologico della teoria della conoscenza, si giocano, allora come ora, in Kant come in buona parte della discussione contemporanea, partite più vaste e importanti, come quella circa la natura della filosofia e, ancora più radicalmente, circa la natura dell’uomo. Bastano questi pochi cenni alla posta in gioco perché si comprenda come non sia possibile proporre qui una trattazione del tema che investa tutti i suoi aspetti e sufficientemente approfondita. Ci si dovrà limitare, piuttosto, al tentativo di tracciare alcune linee di fondo della problematica, di offrire un punto di vista, tra molti possibili. Si tratta ancora, tuttavia, di uno snodo di tale importanza che la sua riconsiderazione non può essere considerata inutile. Svolgerò, in seguito, le mie osservazioni sottolineando tre aspetti. Cercherò anzitutto di ricapitolare gli aspetti problematici dello stesso concetto di psicologia in Kant e le questioni connesse. Mi riferirò, in particolare, a quella psicologia, la psicologia empirica, che si è sviluppata e trasformata da Kant ad oggi in modi diversi; lascerò in secondo piano, invece, l’altra disciplina filosofica corrente ai tempi di Kant, che in una trattazione esaustiva 1 Cfr. The Problematic Science: Psychology in Nineteenth Century Thought, ed. by W.R. Woodward and M.G. Ash, Paeger, New York 1982.

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del tema dovrebbe avere posto, ossia la psicologia razionale, che non ha conosciuto pari fortuna, e non senza responsabilità o meriti di Kant stesso. Darò, in secondo luogo, qualche cenno sugli effettivi interessi psicologici e le molteplici dimensioni psicologiche d’indagine che sono comunque presenti in Kant – nonostante cioè la sua sostanziale presa di distanza da un approccio psicologico in filosofia e le sue riserve sullo status scientifico della psicologia empirica – e che non sempre sono adeguatamente considerati. Per la vastità del tema, questo avverrà soltanto attraverso alcuni aspetti esemplari. Cercherò, infine, di indicare in quali direzioni si muova una più generale e positiva visione kantiana dell’indagine psicologica, che non può essere ristretta alla sua critica e alla conseguente parziale delegittimazione della psicologia empirica, ma conserva una dimensione più vasta che vale la pena di delineare, per poterla adeguatamente valutare. 1. Kant e la psicologia empirica È un’osservazione ovvia, ma della quale è bene tenere costantemente conto, quella che sottolinea come, tanto ai tempi di Kant (ossia nella variegata tradizione cui egli fa riferimento), quanto poi nella specifica, originale riconcettualizzazione che egli stesso opera, il termine “psicologia” non coincida con ciò che oggi – con tutte le oscillazioni del caso – per suo tramite designiamo; ammesso che, in un panorama concettuale estremamente dinamico, sia identificabile una nozione su cui si possa anche oggi convenire. Com’è noto, l’operazione principale che Kant compie rispetto al quadro concettuale da cui prende le mosse o con cui più immediatamente si confronta – quello della filosofia di Christian Wolff e della scuola wolffiana – è di ridefinire allo stesso tempo lo status delle due discipline che Wolff distingueva e praticava, la psychologia empirica e la psychologia rationalis. Questa ridefinizione assume in entrambi i casi un senso negativo, seppure in modi radicalmente diversi. La seconda, la psicologia razionale, viene sottoposta a una critica dei fondamenti dalla quale credo si possa dire non si è più ripresa; la prima, la psicologia empirica, viene anzitutto sconnessa dal più vasto inquadramento concettuale e disciplinare in cui era inserita, e ridefinita nella sua natura e nei suoi limiti. Nell’ambito della critica alla psicologia razionale emergono una serie di motivi ed argomenti che sono senz’altro di grande interesse in relazione allo sviluppo della filosofia trascendentale in quanto tale, e più in generale in rapporto alle tematiche della filosofia della mente. Ma rispetto alla disciplina oggetto di revisione critica, la psicologia razionale, l’esito è appunto profondamente negativo: dal punto di vista di Kant si tratta di una strada chiusa, per quanto la stessa critica alla psicologia razionale possa produrre, dal punto di vista filosofico, risultati positivi, seppure espressi in termini di «un concetto negativo del nostro

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essere pensante», come la tesi che «non si può spiegare materialisticamente nessuno dei suoi atti e fenomeni del senso interno»2. Ci rivolgeremo pertanto al confronto con la psicologia empirica, i cui sviluppi conducono ad una serie di rielaborazioni concettuali che aprono strade nuove, piuttosto che chiuderle. Nella Critica della ragion pura Kant espelle la psicologia empirica dalla metafisica, nella quale, nel contesto concettuale wolffiano (paradossalmente, possiamo dire, almeno rispetto ai modelli concettuali successivi) era organicamente inserita3, ma lo fa con una certa prudenza, che si accompagna al riconoscimento – che conviene fin da subito sottolineare – della sua importanza. È nota l’espressione con cui Kant nella Dottrina trascendentale del metodo della prima Critica definisce la psicologia empirica: «un estraneo, da lungo tempo ospitato [ein so lange aufgenommener Fremdling]»4. Accanto alla necessità di bandire la psicologia empirica dalla metafisica, Kant afferma però qui l’opportunità di concedere ad essa un supplemento di ospitalità, in attesa che trovi «la sua propria dimora in una antropologia completamente sviluppata»; e questa opportunità è giustificata dal fatto che, scrive, essa «è troppo importante perché la si possa respingere completamente o la si possa connettere a qualcos’altro, dove troverebbe un’affinità ancora minore di quella che trova nella metafisica»5. Sarà opportuno tenere 2 KU, AA V 460, trad. it. di E. Garroni e H. Hohenegger: Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, p. 292 (mantengo il riferimento alle edizioni italiane citate anche quando la traduzione è da me modificata, senza segnalarlo espressamente). Cfr. su questo infra, pp. 424-425 e n. 134. 3 Sul rapporto di Kant con la tradizione che lo precede cfr. soprattutto S.B. Kim, Die Entstehung der kantischen Anthropologie und ihre Beziehung zur empirischen Psychologie der Wolffischen Schule, Lang, Bern/New York 1994; Th. Sturm, Kant und die Wissenschaften vom Menschen, Mentis, Padeborn 2009. 4 Cfr. R. Martinelli, Ein «so lange aufgenommener Fremdling». Kant und die Entwicklung der Psychologie, in Eredità kantiane (1804-2004). Questioni emergenti e problemi irrisolti, a cura di C. Ferrini, Bibliopolis, Napoli 2004, pp. 333-355. 5 KrV, A 849 B 877; trad. it. a cura di C. Esposito: Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 20072 (in questa traduzione sono riportate le pagine delle edizioni A e B; non indicherò pertanto in seguito la pagina della traduzione). Da notare che Kant pensa qui soprattutto ancora a un’ospitalità accademica nell’ambito delle lezioni di metafisica, in mancanza di un corso di lezioni, tra quelli allora in uso, in cui essa potesse essere adeguatamente collocata; un tale corso egli stesso intanto lo offriva con le lezioni sull’antropologia, che non rientravano però, appunto, tra quelli allora comuni. Per un certo tempo, tuttavia, per motivi sostanzialmente didattici, Kant continua a trattare la psicologia empirica anche nelle lezioni di metafisica, pur avendo operato la sua separazione concettuale da questa disciplina (cfr. ad esempio la Metaphysik L1, AA XXVIII 224-262; trad. it. in I. Kant, Lezioni di psicologia, a cura di G.A. De Toni, Laterza, Roma/Bari 1986). Ne riduce però la misura. Si veda la lettera a Marcus Herz del 20 ottobre 1778: «Tratto ora la psicologia empirica in modo più breve, da quando tengo lezioni sull’antropologia» (AA X 242). Sull’«uso universitario» di inserire la psicologia nella metafisica cfr. i cenni nello scritto su I progressi della metafisica (FM, AA XX 281), dove si afferma

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a mente questa chiarissima sottolineatura del rilievo della psicologia empirica quando ricorderemo le critiche di Kant al suo status scientifico. In ambito wolffiano la psychologia empirica può far parte della metafisica grazie al suo impianto sostanzialmente cartesiano o post-cartesiano: è una scienza che si svolge, come afferma Wolff, tramite l’attenzione ad ea facta, quae nobis consciis in anima nostra sunt6, ovvero ex experientia propius, come scrive Baumgarten: in forza dell’«esperienza più vicina», contrapposta ad una serie più lunga di inferenze, di cui fa uso la psicologia razionale7. Il suo punto di partenza è dunque la coscienza della propria esistenza8, che costituisce il punto di snodo, per così dire, tra l’elemento “osservativo” – in un senso peculiare – e quello più propriamente metafisico. Ciò che viene «percepito dell’anima attraverso precisa attenzione» costituisce l’oggetto della psicologia empirica9; essa non si limita però soltanto a constatare fatti, ma intende anche stabilire a posteriori princìpi, i quali, sostiene Wolff, forniscono regole alla logica e alla morale, ma risultano utili anche per il diritto naturale o la teologia naturale e rivelata10. Manca, come si vede, non soltanto la cesura tra psicologia empirica e metafisica, ma anche la separazione netta che Kant vorrà istituire tra psicologia e logica. È quanto consente a Baumgarten di scrivere che la psicologia in generale, considerata cioè prima della sua suddivisione in psicologia empirica e psicologia razionale, «in quanto contiene i primi princìpi della teologia, del-

poi anche che «la psicologia […] non è né può diventare altro che antropologia, cioè conoscenza dell’uomo, soltanto limitata alla condizione che egli si conosce come oggetto del senso interno» (AA XX 308). 6 Ch. Wolff, Psychologia empirica, Frankfurt/Leipzig 1732, in Gesammelte Werke, II. Abt., Bd. 5, Olms, Hildesheim 1968, § 2. Nella Praefatio si dice che la psicologia empirica si rivolge a quae in nobismetipsis observamus (p. 11). 7 A.G. Baumgarten, Metaphysica, Halle 17797, Nachdruck Olms, Hildesheim 1963, § 503. 8 La coscienza di sé è anche dal punto di vista concettuale ciò su cui si basa la definizione dell’“anima”: la Seele è «l’ente [Ding] cosciente di sé e di altri enti fuori di sé» (Ch. Wolff, Vernünfftige Gedancken von Gott, der Welt und der Seele des Menschen, auch allen Dingen überhaupt, Halle 1720, Nachdruck der Ausgabe 175111 in Gesammelte Werke, I. Abt., Bd. 2, Hildesheim/Zürich/New York 1983, § 192; trad. it. di R. Ciafardone: Metafisica tedesca: pensieri razionali intorno a Dio, al mondo, all’anima dell’uomo e anche a tutti gli enti in generale, Rusconi, Milano 1999, p. 185); l’anima è l’«ens istud, quod in nobis sibi sui et aliarum rerum extra nos coscium est» (Psychologia empirica, cit., § 20). Ciò non significa tuttavia che la coscienza di sé costituisca l’essenza dell’anima (Vernünfftige Gedancken, § 193), che è piuttosto da vedere nella vis repraesentativa universi (Psychologia rationalis, Frankfurt/Leipzig 1725, in: Gesammelte Werke, cit., II. Abt., Bd. 6, Hildesheim/New York 1972, § 68; cfr. anche Ch. Wolff, Ausführliche Nachricht von seinen eigenen Schrifften, die er in deutscher Sprache von den verschiedenen Theilen der Welt-Weisheit heraus gegeben, Frankfurt a. M. 17332, § 98). 9 Ausführliche Nachricht, cit., § 89. 10 Cfr. Ch. Wolff, Ausführliche Nachricht, cit., § 89; Psychologia empirica, cit., §§ 1, 6-9; Vernünfftige Gedancken, cit., § 191.

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l’estetica, della logica e delle scienze pratiche, viene compresa a ragione nella metafisica»11. Nonostante i paralleli che Wolff stesso vuole istituire con la fisica, non si deve pensare alla psychologia empirica – la cui istituzione come disciplina in certa misura autonoma si deve proprio a Wolff12 – come ad una scienza sperimentale in senso stretto, più vicino a quello a noi noto. Non si tratta però neanche di una scienza puramente osservativa, “storica”, di mera costatazione di fatti, bensì di una «scienza volta a stabilire princìpi per mezzo dell’esperienza, con i quali si rende ragione delle cose che sono nell’anima umana»13: ne fa parte una teoria delle facoltà e delle disposizioni che stanno alla base di ciò che nell’anima possiamo osservare. Per Wolff essa costituisce un’impresa nuova e non priva di difficoltà: non è certo «opera alla portata di ognuno far uso di tanta attenzione quanta è richiesta per comprendere il fondamento della verità»14. L’obiettivo è quello di identificare una legalità propria dell’ambito mentale: «l’anima ha le sue leggi, secondo le quali accadono le sue modificazioni conformemente alla sua essenza, precisamente come i corpi hanno le leggi del movimento, secondo le quali le loro modificazioni avvengono conformemente alla loro essenza»15. La «prima cosa» che dell’anima conosciamo resta il fatto che essa è cosciente di sé e di altre cose fuori di sé; è questo il dato di “esperienza” fondamentale di cui poi la psychologia rationalis deve spiegare il fondamento. Wolff mostrerà che la materia come tale non può pensare, risalendo così dal dato d’esperienza, la consapevolezza di sé, a ciò che ne costituisce la condizione di possibilità, e giungendo nella psicologia razionale ad una «intelligenza più piena e più esatta» di ciò che viene trattato nella psicologia empirica16. In Baumgarten, il cui capitolo sulla psychologia empirica della Metaphysica costituisce il testo con cui Kant più direttamente si confronta e che

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A.G. Baumgarten, Metaphysica, cit., § 502. Cfr. S.B. Kim, Die Entstehung der kantischen Anthropologie, cit., p. 35; sulla storia del termine cfr. E. Scheerer, Psychologie, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, hrsg. von J. Ritter, Bd. 7, Basel 1989, col. 1599 sgg. Per il parallelo con la fisica cfr. il Discursus praeliminaris in Ch. Wolff, Philosophia rationalis sive logica, Frankfurt/Leipzig, 1728, 17403, in: Gesammelte Werke, hrsg. von J. École, II. Abt., Bd. 1.2, Hildesheim/New York 1973, § 111; Psychologia empirica, cit., § 4-5. 13 Psychologia empirica, cit., § 1. Secondo Kim (op. cit., p. 48 sgg.) vi sono in Wolff oscillazioni circa la natura osservativa o piuttosto “filosofica” della psicologia empirica. Cfr. p. es. Ausführliche Nachricht, cit., p. 231 e Discursus praeliminaris, cit., § 111. 14 Ausführliche Nachricht, cit., § 89. 15 Ausführliche Nachricht, cit., § 93. 16 Psychologia rationalis, cit., § 7. 12

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pone poi alla base delle sue lezioni di antropologia17, la psicologia empirica muove dalla constatazione dell’esistenza dell’anima sulla scorta della capacità di autoconsapevolezza, e raggiunge subito, già in quest’ambito, la nozione di anima come vis repraesentativa universi, quella che, come abbiamo visto, individua già per Wolff l’essenza dell’anima stessa18. Le nozioni di sostanzialità, semplicità, incorporeità, incorruttibilità vengono poi dimostrate nella psicologia razionale. Nei primi anni ’70, nel periodo in cui inizia a svolgere le lezioni di antropologia che seguono la falsariga del testo baumgarteniano, anche Kant presenta, seppure in forme diverse, la coscienza di sé come via di accesso a proprietà metafisiche dell'anima (sostanzialità, semplicità). Pur avendo già criticato l’inserimento della psicologia empirica e della «conoscenza dell’uomo» nella metafisica, Kant vede in particolare l’intuizione di sé nel senso interno come qualcosa da cui si può ricavare, attraverso l’«analisi dell’Io», importanti proprietà metafisiche19. Il fatto di concepire la psicologia empirica come «una specie di dottrina della natura» che procede in modo del tutto analogo alla fisica, non impedisce in questa fase a Kant di ritenere che dalla rappresentazione dell’io sia possibile ricavare – per analisi appunto – la semplicità, la sostanzialità, la razionalità e la stessa libertà dell’anima20. Kant abbandona in seguito, in un processo autocritico e con lo sviluppo dell’ampia critica alla psicologia razionale, queste conclusioni. Conserva, da un lato, nella sua idea di psicologia empirica, la prevalenza del momento auto-osservativo, introspettivo; dall’altro però abbandona il valore ontologico-metafisico dell’argomentazione cartesiana, fatto valere da Wolff, e dunque può interpretare più decisamente la psicologia empirica nella direzione di quella che Tetens, l’autore dei Philosophische Versuche über die menschliche Natur, chiama una erfahrende Seelenlehre e Kant poi chiamerà una empirische Seelenlehre, una dottrina empirica del-

17 Nelle lezioni di antropologia dell’inverno 1781-1782 Menschenkunde Kant giustifica in questo modo la scelta: «Poiché non esiste nessun altro libro sull’antropologia, prederemo come filo conduttore la psicologia metafisica di Baumgarten, un uomo che è molto ricco nella materia e molto breve nello svolgimento» (VMensch, AA XXV 859). Per il corso di antropologia Mrongovius la psicologia empirica di Baumgarten è «per il suo ordine il miglior filo conduttore» (VMron, XXV 1214). 18 A.G. Baumgarten, Metaphysica, cit., §§ 504-507. 19 Cfr. H.F. Klemme, Kants Philosophie des Subjekts. Systematische und entwicklungsgeschichtliche Untersuchungen zum Verhältnis von Selbstbewußtsein und Selbsterkenntnis, Meiner, Hamburg 1996, pp. 76 sgg. Di Beschauung seiner selbst e di analisi dell’Io parla per esempio la Anthropologie Collins, AA XXV 10; la critica all’inserimento della psicologia nella metafisica è nella presentazione dello stesso corso di lezioni, AA XXV 8. 20 VParow, AA XXV 243-245. Nella Anthropologie Friedländer Kant deriva anche la «spontaneità» (VFried, AA XXV 473).

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l’anima21. In altri termini, la psicologia viene intesa in un quadro concettuale più decisamente empirista, che tuttavia conserva il primato metodologico della osservazione introspettiva, di un approccio che si svolge attraverso quello che Kant chiama – come già Locke e lo stesso Baumgarten – il «senso interno». L’idea che l’impianto metodologico fondamentale della psicologia empirica sia quello basato sull’osservazione di ciò che costituisce l’oggetto del “senso interno” sarà mantenuta a lungo; quando riterrà di dover oltrepassare questo approccio, Kant penserà di oltrepassare con ciò l’ambito stesso della psicologica empirica. 2. La psicologia come scienza Concepita come scienza osservativa introspettiva, la psicologia empirica finisce per essere oggetto, nel sistema concettuale delineato dalla Critica della ragion pura, di radicali riserve circa la sua scientificità. Ricapitoliamo le principali. È nei Primi principi metafisici di scienza della natura del 1786 che Kant ritorna, dopo la Critica della ragion pura, con maggiore approfondimento, sullo status della psicologia empirica. Lo fa discutendo del concetto generale di metafisica della natura, all’interno del quale è possibile l’applicazione dei principi trascendentali ai due generi di oggetti dei nostri sensi, quelli del senso esterno e quelli del senso interno: sorgono così rispettivamente una metafisica della natura corporea ed una metafisica della «natura pensante». Alla base di quest’ultima viene posto quello che Kant chiama «il concetto empirico […] di un essere pensante»22. In modo analogo, l’articolazione della metafisica che Kant propone nel capitolo sull’Architettonica della ragion pura della prima Critica sembra lasciare spazio, nell’ambito della «fisiologia della ragion pura», ad una «metafisica della natura pensante»23. La sua possibilità è vista in parallelo con quella della metafisica della natura corporea, e in accordo con il concetto peculiare di “metafisica della natura” che Kant ha sviluppato, intesa come quel tipo di conoscenza a priori che, contrapposta alla filosofia trascendentale, che si riferisce a «oggetti in generale», si riferisce invece ad «oggetti dati». La metafisica della natura contiene un elemento empirico, a posteriori, ma può continuare ad essere conoscenza a priori perché «noi non traia21 Cfr. J.N. Tetens, Philosophische Versuche über die menschliche Natur und ihre Entwickelung (1777), Berlin 1991, p. IV (trad. it. a cura di R. Ciafardone: Saggi filosofici sulla natura umana e il suo sviluppo, Bompiani, Milano 2008, p. 59). Kant parla di empirische Seelenlehre nei Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft, AA IV 471 (trad. it. a cura di S. Marcucci, Primi principi metafisici della scienza della natura, Giardini, Pisa 2003, p. 28). 22 MAN, AA IV 470, trad. it. cit., p. 27. 23 KrV, A 846 B 874.

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mo dall’esperienza nient’altro che quel che è necessario per darci un oggetto, tanto del senso esterno quanto del senso interno»24. Il primo concetto, relativo al senso esterno, è quello di materia, che Kant sviluppa appunto poi nei Primi principi metafisici; il secondo, assai più problematico, è indicato nella Critica della ragion pura come «il concetto di un ente pensante (nella rappresentazione empirica interna: io penso)», o anche come «l’oggetto del senso interno, l’anima»25. Se da questa rappresentazione sia possibile trarre effettivamente una psicologia razionale o metafisica della natura pensante – una «psicologia razionale» che sarebbe immanente, dunque non identica con quella che Kant ha criticato nel capitolo sui paralogismi, che non potrebbe in nessun caso costituire un fondamento a priori per la psicologia empirica26 – è quanto i Primi principi metafisici di scienza della natura discutono più da vicino. Da una lettera di Kant del 13 settembre 1785 a Christian Gottfried Schütz sembrerebbe che tale questione sia stata risolta positivamente. Kant scrive: «prima di dedicarmi a quella metafisica della natura che avevo promesso, dovevo potare a termine ciò che ne è una semplice applicazione, ma presuppone un concetto empirico, ossia i principi metafisici della dottrina dei corpi così come, in un’appendice, quelli della dottrina dell’anima […]. Ho terminato l’opera sotto il titolo Primi principi metafisici di scienza della natura»27. Di questa appendice però non vi è traccia: poco dopo avere introdotto, in quest’opera, la nozione di metafisica della natura pensante Kant esclude – forse un po’ a sorpresa, vista la presentazione in parallelo delle due metafisiche speciali, e anche quanto leggiamo nella lettera – la possibilità di una reine Naturlehre riferita all’anima. Lo fa in forza di una considerazione che manca nella prima Critica: una dottrina pura della natura su determinate cose della natura – non su oggetti in generale, di cui si occupa la filosofia trascendentale – «è possibile solo per mezzo della matematica»28. Questo argomento sembra colpire, si noti, prima della psicologia empirica nel suo status scientifico, anzitutto la metafisica della natura pensante; ma è la presenza di una conoscenza a priori che garantisce la scientificità della disciplina empirica. E Kant passa infatti a mettere in questione la psicologia empirica. Abbiamo così il primo argomento contro di essa: «la dottrina empirica dell’anima deve sempre restare lontana dal rango di una scienza della natura che può essere detta tale in senso proprio, in primo 24

KrV, A 849 B 876. KrV, A 848 B 876; A 846 B 874. 26 Precisa bene questo punto Th. Sturm, Kant und die Wissenschaften vom Menschen, cit., pp. 194 sgg. 27 AA X 406, trad. it. in I. Kant, Epistolario filosofico 1761-1800, a cura di O. Meo, il melangolo, Genova 1990, p. 141. 28 AA IV 470, trad. it. cit., p. 28. 25

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luogo perché la matematica non è applicabile ai fenomeni del senso interno»29. Per non fraintendere il senso di questa critica alla “scientificità” della psicologia empirica va sottolineato che questo argomento va riferito alla nozione forte di scienza della natura propria di quest’opera e diversa da quella oggi di uso comune: «scienza della natura che può essere detta tale in senso proprio» è quella fondata su suoi specifici principi a priori30. La “scienza” in questo senso è connessa direttamente alla possibilità di una metafisica speciale della natura, ossia la metafisica di un ambito particolare di oggetti. Questa si rivela tuttavia, nel caso della «natura pensante»31, particolarmente problematica. Un secondo ordine di argomenti si aggiunge a rendere vacillante la scientificità della psicologia empirica, e riguarda le difficoltà che Kant ravvisa nella procedura dell’osservazione di sé. Anzitutto vi è quello che potremmo chiamare una sorta di “principio di indeterminazione” nell’osservazione di sé: la circostanza cioè che – come Kant scrive – «l’osservazione di sé altera già e contraffà [verstellt] lo stato dell’oggetto osservato»32. Si tratta di una tesi che Kant ribadisce spesso poi in ambito antropologico33 anche in anni tardi. Un’altra argomentazione ricorrente indica un analogo fattore di alterazione che interviene nell’auto-osservazione: Osservare se stessi sembra essere facile, perché si è sempre prossimi a se stessi e in ogni azione si è sempre coscienti nel modo migliore dei moventi; tuttavia è in effetti difficile, perché i moventi dell’anima umana sono o in movimento o in quiete. 29

AA IV 471, trad. it. cit., pp. 28-29. Hatfield interpreta la negazione dell’applicabilità della matematica al senso interno come negazione del fatto che essa possa essere applicata a priori (Empirical Rational, and Transcendental Psychology: Psychology as Science and as Philosophy, in The Cambridge Companion to Kant, ed. by Paul Guyer, CUP, Cambridge 1992, pp. 200-227, in part. p. 221). Sulla questione dell’applicabilità della matematica, più complessa di quanto appare, che non possiamo esaminare qui più da vicino, cfr. Th. Sturm, Kant on Empirical Psychology: How Not to Investigate the Human Mind, in Kant and the Sciences, ed. by E. Watkins, Oxford University Press, New York 2001, pp. 163-184; e Kant und die Wissenschaften vom Menschen, cit., pp. 223-250. 31 Cfr. anche KrV, A 846. 32 MAN, AA IV 471, trad. it. cit., p. 29. 33 Cfr. Anth, AA VII 143, trad. it. cit., p. 25: «La conoscenza dell’uomo secondo l’esperienza interna è di grande importanza, poiché egli in base a ciò valuta anche gli altri, ma è allo stesso tempo di forse ancor più grande difficoltà che la corretta valutazione di altri, in quanto chi studia il proprio interno facilmente, invece di osservare soltanto, inserisce qualcosa nella coscienza di sé». Cfr. la stessa riserva in Anth, AA VII 161, trad. it. cit., p. 44. Si veda anche AA XXV 478, dove l’osservazione di sé è detta «difficile e innaturale» (cfr. anche AA XXV 252, 1218); cfr. inoltre AA XXV 862 dove della coscienza di sé si dice che «ermüdet unsre Kraft sehr, fällt uns beschwerlich». In generale Kant considera in più occasioni sconsigliabile e perfino dannosa una eccessiva osservazione di sé. Cfr. su questo Th. Sturm, Kant und die Wissenschaften vom Menschen, cit., pp. 206 sgg. 30

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Se sono in movimento, non si pensa ad osservarli; se sono invece in quiete, l’occasione è trascorsa e anche la memoria è già un po’ cancellata o incompleta. Per conoscere se stessi è necessaria una serie di osservazioni ed è ancora più difficile34.

Simile è l’argomento nella Prefazione dell’Antropologia dal punto di vista pragmatico: «Se l’uomo vuole indagare solo se stesso si troverà in una situazione critica, particolarmente per quanto riguarda il suo stato emotivo, che abitualmente non consente alcuna simulazione: e cioè se i moventi sono in azione, egli non si osserva; se invece si osserva, i moventi sono inattivi»35. Fuori da presupposti cartesiani, la prevalenza dell’aspetto auto-osservativo nel modo in cui è vista la psicologia empirica si traduce ora in una debolezza particolare della disciplina. Ma la difficoltà non riguarda solo l’osservazione di sé: Kant sottolinea negli stessi Primi principi metafisici di scienza della natura anche alcune difficoltà che la stessa osservazione in terza persona incontrerebbe in ambito psicologico: «un altro soggetto pensante non si lascia sottoporre ai nostri esperimenti in modo conforme all’intento»36. L’alterazione che l’osservazione causa sull’oggetto osservato si dà per l’Antropologia dal punto di vista pragmatico anche in terza persona: «L’uomo che si accorge di essere osservato e studiato o cadrà in imbarazzo, nel qual caso non potrà mostrasi com’è, o si nasconderà e non vorrà essere conosciuto com’è»37. Sono argomenti che oggi, dopo i trionfi della psicologia sperimentale e i fasti odierni di scienze cognitive oggettivanti, possono sembrare obsoleti, ma che perdono la loro apparente ingenuità se ci si riferisce, piuttosto che ad una ricerca psicologica per così dire incentrata sugli “elementi”, a fenomeni psicologici complessi ed alla complessità della vita psichica38. Infine, ed è il quarto argomento che Kant propone, la psicologia non può procedere per scomposizione del suo oggetto in elementi e sua successiva ricomposizione, secondo il modello di una scienza analitica39, a causa dell’arbitrarietà nell’identificazione dei suoi elementi: infatti «il molteplice dell’osservazione interna si lascia separare nei suoi elementi soltanto me-

34

Anthropologie Mrongovius (1784-85), AA XXV 1214; cfr. anche VMensch, AA XXV 857. Anth, AA VII 121, trad. it. cit., p. 5. Cfr. anche Refl 1482, AA XV 660. 36 MAN, AA IV 471, trad. it. cit., p. 29. In AA XXV 1437 Kant esclude del tutto la possibilità di esperimenti in ambito psicologico: «Si possono fare esperimenti con animali e cose; ma non con uomini». Ma cfr. anche Refl 1502a, AA XV 801: «L’individuo esternamente è difficile da indagare, perché si nasconde; internamente, perché attraverso l’osservazione di se stesso modifica in quanto oggetto osservato la propria disposizione d’animo. Non può fare alcun esperimento con se stesso». 37 Anth, AA VII 121, trad. it. cit., p. 5. 38 In realtà la psicologia odierna non manca di occuparsi di queste difficoltà. Cfr. Th. Sturm, Kant und die Wissenschaften vom Menschen, cit., p. 516. 39 Kant parla di systematische Zergliederungskunst (MAN, AA IV 471, trad. it. cit., p. 29). 35

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diante la semplice divisione fatta dal pensiero, ma non si lascia conservare suddivisa e di nuovo riconnettere a piacere»40. Una variante, o piuttosto una estensione di questo argomento si trova nell’Antropologia, dove Kant afferma che «il senso interno vede le relazioni delle proprie determinazioni solo nel tempo, dunque in un flusso; dove non ha luogo una durevolezza della considerazione, che pure è necessaria per l’esperienza»; a differenza delle esperienze esterne di oggetti nello spazio, che «appaiono gli uni accanto agli altri e fissati in modo persistente [bleibend]»41. In altri termini, nulla che resti autenticamente identico a se stesso ha luogo nel tempo, e l’arbitrarietà nella delimitazione di elementi è solo una conseguenza di questa più radicale manchevolezza. Questo argomento era presente già nella prima edizione della Critica della ragion pura, e offriva proprio la spiegazione di quei limiti nel parallelismo tra metafisica dei corpi e metafisica della «natura pensante» che l’opera del 1786 conferma: Se confrontiamo la dottrina dell’anima, in quanto fisiologia del senso interno, con la dottrina dei corpi, in quanto fisiologia degli oggetti esterni, scopriamo, oltre al fatto che in entrambe si possono conoscere molte cose empiricamente, anche questa differenza degna di nota, cioè che nella seconda scienza si può conoscere molto a priori partendo dal semplice concetto di un essere esteso impenetrabile, mentre nella prima scienza, partendo dal concetto di un essere pensante, non si può conoscere nulla sinteticamente a priori. La causa è la seguente. Sebbene in entrambi i casi si tratti di fenomeni, tuttavia il fenomeno relativo al senso esterno possiede qualcosa di stabile o persistente [Stehendes oder Bleibendes] che fornisce un sostrato come fondamento per le determinazioni mutevoli, e quindi un concetto sintetico, cioè quello dello spazio e di un fenomeno nello spazio, mentre il tempo, che è l’unica forma della nostra intuizione interna, non ha nulla di permanente, quindi dà a conoscere soltanto il cambiamento delle determinazioni, ma non l’oggetto determinabile. Infatti, in ciò che chiamiamo anima, tutto è in un flusso continuo e nulla è persistente [Bleibendes]42.

40 Ibid. Thomas Sturm legge questa asserzione anche come la negazione della possibilità di esperimenti ripetibili (Th. Sturm, Kant on Empirical Psychology: How Not to Investigate the Human Mind, cit., p. 178). 41 AA VII 134, trad. it. cit., p. 16. Il trovarsi in flusso costante delle percezioni interne fa sì anche che «accada facilmente che immaginazioni vengano inserite al posto di percezioni» e ciò che è creato dalla mente venga preso per esperienza interna: ossia che i presunti dati vengano creati mentre si pretende di osservarli (cfr. Rostocker Anthropologiehandschrift, in I. Kant, Werkausgabe, hrsg. v. W. Weischedel, Bd. XII, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1977, p. 416). L’argomento della difficoltà dell’osservazione di sé si coniuga qui con quello della mancanza di persistenze nel flusso psichico. 42 KrV, A 381.

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Per quanto interpretato spesso come una negazione dell’applicabilità della categoria di sostanza al senso interno43, l’argomento di Kant sembra piuttosto anticipare già l’inapplicabilità della matematica al senso interno per l’impossibilità di formulare giudizi sintetici a priori basati su qualcosa che – nell’intuizione pura – sia allo stesso tempo discriminabile e sufficientemente stabile. Non mancano in altre opere ulteriori argomenti, che qui non approfondiamo, come quello avanzato nella Prima introduzione alla Critica della facoltà di giudizio, secondo cui le spiegazioni della psicologia empirica sarebbero ohne Ende hypotetisch, consentirebbero cioè un numero indefinito di ipotesi per lo stesso fenomeno, mostrando di conseguenza una notevole debolezza esplicativa; e dunque la psicologia sarebbe adatta soltanto a raccogliere materiale osservativo, «per regole d’esperienza da collegare sistematicamente in futuro, senza volerle comprendere», e non potrebbe aspirare al ragno di una «scienza filosofica»44. La psicologia empirica non può essere, in definitiva, secondo i Primi principi metafisici di scienza della natura, una «scienza dell’anima» e neppure una «dottrina sperimentale psicologica». Essa si configura, piuttosto, come una «dottrina storica», nel senso specifico che Kant attribuisce a questo aggettivo: una dottrina storica si distingue da una «razionale», ex principiis, ossia derivata da principi, in quanto è invece basata su facta. In particolare, essa è una dottrina storica della natura (historische Naturlehre), e più specificamente una Naturbeschreibung der Seele, una descrizione della natura dell’anima: in quanto tale, essa è in grado di classificare fatti ordinandoli in modo sistematico secondo somiglianze45. Tre cose vanno osservate a proposito di questa discussione dello statuto della psicologia, al fine di non confonderla con una sua liquidazione, che starebbe in netto contrasto con l’asserita importanza di questa scienza che 43 Cfr. gli autori citati da S.B. Kim, op. cit., p. 86. Mi sembra mettere in questione questa interpretazione il fatto che Kant, nel prosieguo del testo, dopo aver detto che nulla è permanente aggiunge «eccetto (se proprio si vuole) l’Io», di cui nega però espressamente il carattere di sostanzialità. Nei Prolegomeni d’altro canto (cfr. infra, p. 403) l’applicabilità della categoria di sostanza al senso interno è espressamente affermata. Nella Prima introduzione alla Critica della facoltà di giudizio Kant afferma che un unico principio a priori è applicabile al senso interno, quello della «continuità [Stetigkeit] dei mutamenti nel tempo», che però non è sufficiente a dar luogo ad una «dottrina generale del tempo» parallela alla geometria (come «dottrina generale dello spazio») (EEKU, AA XX 237; trad. it. di A. Bosi in I. Kant, Critica del Giudizio, UTET, Torino 1993, p. 128). La stessa cosa è affermata nei MAN, AA IV 471, trad. it. cit., p. 29. 44 EEKU, AA XX 238, trad. it. cit., p. 129. Kant ha qui adottato probabilmente del tutto la prospettiva dell’antropologia, e vede in essa il lavoro “psicologico“ di connessione sistematica che va al di là delle osservazioni. 45 MAN, AA IV 471, trad. it. cit., p. 29.

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abbiamo visto affermata nella prima Critica. Una valutazione positiva – va ricordato – che precede la Critica della ragion pura: nella Vorlesung über philosophische Enzyklopädie si legge che «la psicologia empirica o antropologia» – si noti qui l’equiparazione – «è di tale utilità che si crederà sicuramente che l’educazione resterà manchevole fin quando questa scienza non sarà trattata ex professo, […] insegnata in accademie per così dire da specialisti [zunftmäßig]»46. Una simile valutazione, presente anche in altri corsi di lezioni47, non è stata certo revocata successivamente, dunque le pagine del 1786 dei Primi principi metafisici di scienza della natura non possono essere intese come uno sviluppo in senso negativo o addirittura un improvviso cambio di opinione48 nella visione kantiana della psicologia empirica. 1) La prima delle osservazioni è la seguente. Se la psicologia empirica non può avere una fondazione pura specifica, che riguardi l’oggetto del senso interno, essa non sfugge però, secondo i Prolegomena, ad una più generica fondazione per così dire aspecifica, che riguarda cioè una scienza della natura in generale, tale da abbracciare indifferentemente senso interno e senso esterno. Scrive Kant: «Si trovano però, tra i princìpi fondamentali di quella fisica generale, alcuni che realmente hanno l’universalità che richiediamo, come la proposizione: che la sostanza rimane e perdura; che tutto ciò che avviene è sempre determinato prima da una causa secondo leggi 46 PhilEnz, AA XXIX 44 (trad. it. I. Kant, Enciclopedia filosofica, a cura di G. Landolfi Petrone e L. Balbiani, testo tedesco a fronte, Bompiani, Milano 2003, p. 195). Sulla datazione (1775-1780) cfr. G. Landolfi Petrone, ivi, pp. 39-40. Kant attribuiva una decisiva importanza al fatto che la psicologia diventasse un insegnamento accademico: «qualora divenga una scienza accademica, essa è in grado di espandersi appieno, perché delle scienze il docente accademico ha più pratica del dotto non professionista. Grazie alla frequente esposizione di esse, il primo scorge meglio le lacune e la mancanza di chiarezza, e in ogni nuova esposizione è portato ad introdurre miglioramenti» (MPölitz, AA XXVIII 224, trad. it. cit., p. 50). Cfr. anche AA XXV 8; XXV 243. 47 Per una valutazione positiva della psicologia, già vista come antropologia, si vedano le lezioni di antropologia Friedländer dell’inverno 1775/76: «Il campo dell’uomo è già molto vasto e merita dunque che esso venga esposto insieme come un tutto e non accanto ad altre scienze; infatti la fisica è la scienza dell’oggetto del senso esterno, e la conoscenza dell’uomo come oggetto del senso interno costituisce un campo analogo [ein eben solches Feld], di conseguenza merita altrettanto impegno e di essere oggetto di trattazione come una scienza nelle accademie, come la fisica» (AA XXV 473). È da notare che Kant qui afferma la maggiore importanza di una scienza dell’uomo rispetto a quella della natura corporea, e considera il fatto che la psicologia empirica veniva fatta rientrare nella metafisica come una limitazione più che come un onore: «Si credeva che ci fosse troppo poco da dire in una scienza di ciò [dell’uomo], perciò lo si inseriva nella metafisica, e in particolare nella psicologia, che costituisce la psicologia empirica» (ibid.). Anche la Metaphysik L1 afferma che la psicologia «merita di essere esposta separatamente proprio come la fisica empirica, perché la conoscenza dell’uomo non è affatto inferiore a quella dei corpi, anzi, quanto a valore, le va anteposta di molto» (AA XXVIII 224, trad. it. cit., p. 50). 48 Cfr. Th. Sturm, Kant on Empirical Psychology, cit., p. 165.

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costanti, ecc. Queste sono realmente leggi universali della natura che sussistono completamente a priori»49. Dunque su tali leggi si può fondare, con ogni evidenza anche una «dottrina empirica dell’anima». Questo è confermato ad esempio là dove Kant – nell’Antropologia dal punto di vista pragmatico – parla della psicologia come dell’«insieme di tutte le percezioni interne secondo regole della natura»50, ossia come di un campo di indagine conforme a leggi naturali. Ma anche nella Critica della ragion pura – nel momento in cui si esclude la psicologia empirica dall’ambito di pertinenza di una psicologia pura o razionale – si parla delle «osservazioni intorno al gioco dei nostri pensieri» e delle «leggi di natura del Sé pensante che se ne possono ricavare»51. Nell’Antropologia stessa Kant delinea il passaggio da quella che sembra una mera disciplina descrittiva, basata sull’osservazione di sé, ad una scienza maggiormente strutturata, che prevede di «iniziare da fenomeni [Erscheinungen] osservati in se stessi e poi soltanto progredire all’affermazione di certe proposizioni che riguardano la natura dell’uomo, cioè all’esperienza interna»52. Qui si delinea un’interessante estensione della prospettiva metodologica basata sull’auto-osservazione, che resta il primo passo dell’indagine, dal quale però si muove per un approccio più vasto. Già nella Vorlesung über philosophische Enzyklopädie Kant estendeva l’osservazione di sé agli altri, facendo leva su un’inferenza basata sull’analogia53. La conoscenza di sé viene considerata dunque metodologicamente propedeutica, ma si individua qui, come anche nelle lezioni di metafisica, nell’analogia un mezzo per passare dall’esperienza di sé alla conoscenza degli altri. Il riferimento agli altri è concepito poi nella lezione di antropologia Menschenkunde come il modo per superare le difficoltà dell’osservazione di sé che abbiamo visto sottolineare54. 2) In secondo luogo, è da ricordare quanto già si è rilevato, e cioè che laddove alla psicologia viene negato lo status di scienza della natura in senso proprio (eigentliche Naturwissenschaft), questo concetto non coincide con i criteri di scientificità empirica oggi comunemente correnti, ma si riferisce ad una scienza fondata su principi a priori, dotata cioè di una parte pura, in forza della quale le sue leggi generali assumono il carattere di necessità, tale da consentire una scienza, come scrive Kant, «la cui certezza è

49 AA VI 295 (trad. it. Prolegomeni ad ogni futura metafisica, a cura di P. Carabellese, riv. da R. Assunto Laterza, Roma/Bari 1982, pp. 52-53). 50 Anth, AA VII 141, trad. it. cit., p. 23. 51 KrV, A 347 B 405. 52 Anth, AA VII 143, trad. it. cit., p. 25. 53 PhilEnz, AA XXIX 44, trad. it. cit. p. 195. 54 MPölitz, AA XXVIII 224, trad. it. cit., p. 50; VMensch, AA XXV 857.

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apodittica»55, pur restando empirica. È rispetto a questo modello che la psicologia per Kant non è propriamente scientifica, pur conservando lo statuto, più debole, di «dottrina storica dell’anima». 3) In terzo luogo, l’intersezione tra ciò che noi oggi potremmo chiamare psicologia e ciò che Kant considera una legittima indagine della «natura pensante» non coincide affatto, come potremo vedere meglio, con la Naturbeschreibung der Seele che qui Kant delinea insieme ai suoi limiti. Considerare da questo punto di vista, dunque, come talvolta è successo, la congiunzione “Kant e la psicologia” conduce a un’indebita restrizione dello sguardo. La questione di un’adeguata comprensione di un denkendes Wesen, di un essere pensante – e del «concetto empirico di un essere pensante», come si dice nei Primi principi metafisici di scienza della natura56 – resta per Kant aperta ed eccede questi confini. Riconoscendo l’importanza della psicologia empirica e criticandone al contempo lo status scientifico Kant non sta escludendo la possibilità della psicologia così come possiamo, pur con tutte le incertezze nella sua definizione, intenderla oggi. Sta piuttosto trasformando la prospettiva in un modo che – senza un’esplicita etichettatura che ci faciliti il compito interpretativo – non soltanto riconosce un ambito all’indagine psicologica, ma ne ridisegna metodi e sistema concettuale, in un senso senz’altro degno di considerazione. 3. La psicologia oltre la psicologia Credo si possa dire che le considerazioni epistemologiche di Kant relative alla psicologia empirica stanno in un certo modo strette all’indagine psicologica che Kant in più luoghi, in modo non sistematico, effettivamente sviluppa: esse risultano, cioè, inadeguate a coprire pienamente i caratteri e anche il ruolo che assumono le trattazioni che in quest’ambito – oltrepassando la griglia definitoria kantiana – si possono far rientrare. La psicologia empirica teorizzata su un piano epistemologico non corrisponde in effetti sempre a quella praticata. Più che di una contraddizione, tuttavia, credo che questa circostanza possa segnalare una tensione inevitabile in un processo di transizione e trasformazione, ossia nel percorso segnato da Kant stesso indicando nella prima Critica per «l’estraneo da lungo tempo ospitato», come abbiamo ricordato, da un lato la provvisoria e ora procrastinata ospitalità, ma dall’altro la necessità di muoversi verso una nuova e più adeguata dimora, con il suo confluire almeno parziale in una antropologia, che prenderà poi le forme di «antropologia dal punto di vita pragmatico». Allo 55 56

AA IV 468, trad. it. cit., p. 26. MAN, AA IV 471, trad. it. cit., p. 27.

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stesso tempo, questo percorso non esaurisce tutto ciò che in qualche modo, nell’universo kantiano, può legittimamente esser visto come un indagine di tipo psicologico. 3.1. Logica e psicologia La psicologia che Kant pratica e utilizza eccede per molti aspetti i confini dell’angusta e difficoltosa osservazione di sé che abbiamo visto descritta. Un versante importante di questa ricerca è indicato da Kant quando definisce, nella prima Critica, la «logica applicata» come quella che «è diretta alle regole dell’uso dell’intelletto sotto quelle condizioni empiriche soggettive che ci vengono insegnate dalla psicologia»57. Questa “logica” è nettamente distinta dalla logica intesa in un senso più proprio, la «logica pura», che è – sostiene Kant – «propriamente essa sola una scienza»58; lungi dal trarre elementi dalla psicologia, la logica pura si definisce invece in contrapposizione ad essa. Per lo status della psicologia empirica che Kant cerca di ripensare e riformulare è decisiva infatti non soltanto la sua esclusione dalla metafisica, ma anche la sua netta separazione dalla logica. Si tratta di un’acquisizione teorica fondamentale per la filosofia critica, che risulta di importanza decisiva tanto per quella che Kant chiama appunto «logica generale pura»59 quanto per la stessa «logica trascendentale» che costituisce il cuore della critica della ragion pura. Il ruolo di questo nuovo quadro disciplinare – che intende mettere ordine però in una tradizione antica – è ricordato in termini espliciti nella prefazione alla seconda edizione della Critica: Il confine della logica è determinato con la massima precisione, per il fatto che si tratta di una scienza che espone dettagliatamente, e dimostra rigorosamente, nient’altro che le regole formali di tutto il pensiero (sia esso a priori o empirico, abbia un’origine e un oggetto qualsiasi, trovi esso nel nostro animo degli impedimenti casuali oppure naturali). Che la logica sia riuscita così bene è un vantaggio che essa deve unicamente alla sua delimitazione, in virtù della quale è autorizzata – anzi, è obbligata – ad astrarre da tutti gli oggetti della conoscenza e dalle loro differenze, di modo che in essa l’intelletto non abbia a che fare con nient’altro che non sia se stesso e la sua forma60.

La precisa delimitazione della logica generale così richiamata è vista in contrapposizione con i tentativi di «alcuni moderni» di estendere invece la 57 KrV, A 52 B 77. più esattamente, Kant divide la logica in logica dell’uso particolare e logica dell’uso generale dell’intelletto. La logica generale si suddivide in logica generale pura e logica generale applicata. 58 KrV, A 54 B 78. 59 KrV, A 53 B 77. 60 KrV, B VIII-IX.

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disciplina, «introducendo in essa dei capitoli psicologici, riguardanti le diverse capacità conoscitive (l’immaginazione, l’ingegno); oppure dei capitoli metafisici, riguardanti l’origine della conoscenza e delle diverse specie di certezza, a seconda della diversità degli oggetti (l’idealismo, lo scetticismo, ecc.); o ancora dei capitoli antropologici, riguardanti i pregiudizi (considerati nelle loro cause e negli antidoti contro di essi)»61. Come vedremo, le attribuzioni qui accennate di diversi contenuti a discipline diverse – in particolare psicologia e antropologia – non vengono mantenute rigorosamente da Kant; ma rigorosa è invece l’esclusione della psicologia dalla logica, che viene giustificata anche, e non secondariamente, oltre che dal carattere formale della logica, dalla sua natura normativa e non descrittiva: È vero che alcuni logici presuppongono nella logica princìpi psicologici. Ma introdurre princìpi del genere in logica è altrettanto assurdo quanto derivare la morale dalla vita. Se prendessimo i princìpi dalla psicologia, cioè dalle osservazioni relative al nostro intelletto, vedremmo soltanto come funziona il pensiero e come esso è sotto impedimenti e condizioni soggettive di vario genere; ciò condurrebbe pertanto alla conoscenza di leggi solo contingenti. Ma nella logica la questione non verte su regole contingenti, ma su regole necessarie; non su come pensiamo, ma su come dobbiamo pensare62.

L’esclusione della psicologia dalla logica non si traduce però, in un certo senso, in un’esclusione della logica dalla psicologia: ossia, detto in modo più preciso, essa non comporta la conseguenza inversa che la psicologia non si possa occupare di processi cognitivi. Se non è legittimo affrontare le regole del pensiero in relazione alla loro origine e al loro decorso fattuale, resta legittimo indagare in che misura e in che modo «condizioni soggettive di vario genere» possano avere influenza sui processi di pensiero, deviarli, ostacolarli o anche promuoverli. Se la logica pura – che «non attinge nulla (come pure talvolta si è creduto) dalla psicologia»63 – non può occuparsi di questo senza tradire la propria natura, la psicologia può invece occuparsi dello svolgersi degli stessi processi cui la logica pura offre i fondamenti normativi, e dà luogo in questo modo ad una disciplina – la logica applicata, appunto – che può avere un’utilità anche in ambito conoscitivo, in quanto «strumento catartico [Katharktikon] dell’intelletto comune», ovvero come disciplina volta purificare da errori il processo della conoscenza. Le regole necessarie della logica pura vengono viste in concreto, «sotto quelle condizioni accidentali del soggetto che possono impedire o favorire quest’uso»64, condizioni studiate, abbiamo visto, dalla psicologia empirica. 61

KrV, B VIII. Log, AA IX 14, trad. it. di L. Amoroso: Logica, Laterza, Roma/Bari 1984, p. 8. 63 KrV, A 54 B 78. 64 KrV, A 54 B 78-79. 62

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CLAUDIO LA ROCCA

È una porzione di psicologia empirica quella che Kant indica quando elenca le tematiche proprie della logica applicata: «essa tratta dell’attenzione, dei suoi impedimenti e delle sue conseguenze, dell’origine dell’errore, dello stato di dubbio, di scrupolo, di convinzione e così via»65. Nella Logik si arriva a sostenere che la logica applicata «non dovrebbe propriamente chiamarsi logica. È una psicologia, nella quale consideriamo come vanno di solito le cose quando noi pensiamo, non come devono andare»66. In riflessioni degli anni 1773-1775 Kant sostiene che la logica non può trarre dall’esperienza – e dunque neanche dalla psicologia – dei principia theoretica, ossia principi tali da essere criteri di validità (principi der diiudication, scrive Kant), ma può trarne principia practica, appunto nel senso di una disciplina “pratica” qual è logica applicata. Dall’esperienza si possono ricavare, in altri termini, «principi della costruzione» della conoscenza, regole euristiche, oppure «principi dell’uso empirico dell’intelletto», utili a «purificare l’intelletto comune», ad evitare errori e distorsioni della conoscenza67. All’aspetto catartico si aggiunge dunque anche quello euristico, nel quale il contributo della componente psicologica è di grande importanza. Se si guarda alla teoria della conoscenza di Kant, che non va identificata, come troppo spesso è successo, con l’impianto trascendentale della Critica della ragion pura, le considerazioni epistemologiche basate su dati psicologici o intrecciate con essi che rientrano nella logica applicata68 o comunque sviluppate nel corpus logico – le annotazioni in tema di logica che Kant usava per le sue lezioni e le trascrizioni di queste lezioni stesse – sono numerose ed assumono un rilievo fondamentale. Lo studio di «come l’intelletto pensa», contrapposto a quello di come esso deve pensare69, proprio della logica pura, non è una base giustificativa per la ricerca trascendentale, 65

KrV, A 54 B 79. Ibid. Mirella Capozzi, chiedendosi «perché allora non chiamare direttamente ‘psicologia’ la logica applicata?» e notando che Kant qui effettivamente lo fa, ricorda però che nella Critica della ragion pura questa identificazione non c’è, perché in quest’opera «Kant assegna alla logica applicata il compito di “catartico”, un compito che difficilmente attribuirebbe a una scienza puramente descrittiva e non normativa qual è la psicologia» (M. Capozzi, Kant e la logica, vol. 1, Bibliopolis, Napoli 2002, p. 266). Ciò non toglie però che la funzione di catartico, ossia di purificazione da errori, se limitato ad errori riguardanti lo svolgimento di fatto della conoscenza, possa essere svolta anche da una disciplina empirica. Sembra confermarlo la Refl 1605: «La psicologia non può fornire altri principia che per l’uso empirico dell’intelletto, quindi princìpi per purificare l’intelletto comune» (AA XVI 34). 67 Refl 1604, AA XVI 33: «Die Logik kan keine principia theoretica (der diiudication) aus der Erfahrung entlehnen, also auch nicht aus der psychologie, aber wohl die principia practica (der construction)». 68 Cfr. la Log, A IX 18, trad. it. cit., p. 12: «La psicologia, dalla quale nella logica applicata bisogna prendere tutto, è una parte delle scienze filosofiche, la cui propedeutica dev’essere la logica». 69 Cfr. Refl 1628, AA XVI 46. 66

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ma resta di grande rilievo per la teoria della conoscenza e in particolar modo per la sua componente euristica. In generale – va sottolineato – è notevole il peso esercitato delle considerazioni di ordine psicologico se non sulla fondazione, certamente sullo sviluppo e la configurazione anche argomentativa delle teorie kantiane, anche in ambito specificamente trascendentale. Valga come esempio il richiamo alla natura psicologico-empirica della immaginazione riproduttiva70, che diventa strumento per la definizione più precisa di natura e funzioni dell’immaginazione propriamente trascendentale, quella produttiva. O il noto richiamo che Kant fa nella Critica della ragion pura al fatto che «nessuno psicologo aveva mai pensato fin ad ora che la facoltà di immaginazione fosse un ingrediente necessario della percezione stessa»71 – con questo creando un intreccio bidirezionale con la prospettiva psicologica, che da un lato fornisce per così dire materiale alla riflessione trascendentale, dall’altro può esserne a sua volta nutrita e orientata. Del resto Kant osserva più in generale, nei Prolegomena, che la stessa ricerca «fisiologica» – come in quella sede la chiama – sul «sorgere dell’esperienza», propria della «psicologia empirica», ossia l’indagine sul prodursi di fatto della conoscenza empirica, non avrebbe «mai potuto essere sviluppata in modo adeguato» senza un secondo elemento, l’esame di ciò che nell’esperienza «è contenuto» (was in ihr liegt), affidata alla «critica della conoscenza e in particolare dell’intelletto»72. 3.2. Psicologia e logica trascendentale Sembra presentarsi dunque un nesso tra indagine psicologica e logica trascendentale che si muove in due direzioni. Nella direzione che va dall’indagine trascendentale a quella empirica questa relazione non si esaurisce in quella generica di fondazione che abbiamo visto, legata all’idea di una «metafisica della natura pensante», con tutte le sue difficoltà; non consiste cioè solo nell’idea secondo cui la filosofia trascendentale fornirebbe i principi a priori che consentono poi lo svolgersi della ricerca empirica. L’indagine trascendentale sembra guidare invece in senso più diretto ed euristico, non semplicemente fondativo, la ricerca psicologico-empirica, al di là del caso paradigmatico, che pure conviene ricordare, della funzione regolativa dell’idea psicologica per l'unificazione del soggetto, in forza della quale noi connettiamo i fenomeni, le operazioni, gli atti ricettivi dell’animo come se deri-

70 Cfr. soprattutto KrV, A 100-102 ove Kant parla della sintesi della riproduzione nell’immaginazione, dell’associazione come «legge empirica», e della «immaginazione empirica». 71 KrV, A 120. 72 AA IV 304, trad. it. cit., p. 62.

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vassero da una sostanza pensante, acquisendo un «filo conduttore dell’esperienza interna»73. In realtà credo che la collaborazione tra indagine psicologica e indagine trascendentale – prima ancora di porre, come è stato fatto a partire dagli anni ’90, la questione di una “psicologia trascendentale” in Kant, e di riproporre l'annosa questione del rapporto tra ambito psicologico e dimensione trascendentale74 – non possa essere vista in concreto come una netta separazione di campo, così come essa si presenta dal punto di vista delle distinzioni di principio e delle questioni, per così dire, di validità. Se infatti nessun enunciato trascendentale – in cui sia in questione una qualche forma di quid iuris – può esser fondato facendo ricorso a considerazioni che abbiano una base, in ultima analisi, psicologico-empirica, in concreto tuttavia le due forme di analisi della soggettività non si svolgono su terreni separati. Questo è evidente dal procedere effettivo della ricerca in Kant, ma viene anche esplicitamente affermato, ad esempio nell’Antropologia dal punto di vista pragmatico, proprio dove Kant distingue tra logica e psicologia, e dunque tra un Io «meramente riflettente» inteso come «soggetto del pensiero» e un io inteso come «oggetto della percezione»75. Nello stesso contesto Kant non soltanto ricorda – come è già chiaro dalla prima Critica – che la coscienza delle diverse modificazioni dell’animo è possibile soltanto sulla base della rappresentazione di sé come soggetto, dunque dell’appercezione trascendentale, ma sottolinea come l’«l’io dell’uomo» sia duplice soltanto in base alla forma, ossia relativamente alla Vorstellungsart, al modo di rappresentarlo, ma non lo sia quanto alla materia o al «contenuto»: in altri termini, quella empirico-psicologica e quella trascendentale costituiscono due prospettive sullo stesso oggetto, non una scissione di campi di ricerca con oggetti differenti. In realtà la stessa dicotomia tra Io-soggetto e Io-oggetto è indebolita o complicata da quanto Kant in più occasioni, e anche in questa, scrive76. Nel paragrafo sulla «osservazione di se stessi» dell’Antropologia cui ci stiamo riferendo egli sottolinea come «osservare in me i diversi atti della facoltà rappresentativa, se io li richiamo, è cosa degna di divenire oggetto di riflessione, necessaria e utile per la logica e la metafisica». Da questo tipo di rivolgimento riflessivo si distingue un’osservazione incontrollata di sé – un sich belauschen, un “origliarsi”, lo chiama qui Kant – nella quale gli atti del73

KrV, A 672 B 700. Cfr. soprattutto P. Kitcher, Kant’s Transcendental Psychology, Oxford University Press, New York/Oxford 1990. Vedi infra, § 4. 75 Anth, AA VII 134, trad. it., p. 17. 76 L’io pensante (als denkend), dunque non passivo, viene detto da Kant in KrV, A 342 B 400 «un oggetto del senso interno»; così come l’io come ente pensante (Ich als ein denkendes Wesen) «oggetto della psicologia», intesa qui come psicologia razionale. Sulle difficoltà riguardo all’oggetto della psicologia cfr. R. Martinelli, Ein «so lange aufgenommener Fremdling», cit. 74

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la mente si presentano appunto incontrollati, in modo non intenzionale, e nella quale, «i principi del pensiero non precedono, ma seguono»77. La stessa osservazione di sé metodica, se limitata a ciò che in noi semplicemente avviene – la «coscienza di ciò che l’uomo patisce, in quanto è colpito dal gioco del suo stesso pensiero»78 – non è come tale garanzia di un approccio scientificamente affidabile, ma anzi comporta rischi: «L’auto-osservazione implica che componiamo con metodo le percezioni che abbiamo di noi stessi, il che offre materiale per il diario di un osservatore di se stesso, cosa che conduce facilmente all’esaltazione e al vaneggiamento»79. Ma nelle lezioni sull’antropologia si precisa che è «l’auto-osservazione delle proprie sensazioni e non quella dei propri concetti che fa di qualcuno un fantasticatore»80. Emerge qui dunque quella che possiamo chiamare un’osservazione controllata e regolata di sé, che non sembra potersi identificare con la passiva percezione di eventi del senso interno, e dunque con quell'approccio conoscitivo che sembrava definire la psicologia empirica, tanto più che l’autoosservazione, come abbiamo sentito, si riferisce in questo caso a atti, non a dati della mente, e in questo modo si rivela necessaria e utile a «logica e metafisica». Kant sembra pensare qui a quello studio della mente che è propedeutico e funzionale alla filosofia trascendentale e che non trova uno status preciso o una precisa collocazione tra le categorie che egli esplicitamente elabora per l'indagine sul mentale. Dal passo citato dell’Antropologia sembra di capire che questo studio è necessario perché, essendo gli atti coscienti governati da principi che li precedono, è possibile dall'osservazione risalire a tali principi, cosa che non è possibile, invece, seguendo il presentarsi arbitrario delle rappresentazioni. Rispetto a questa indagine psicologica, funzionale all'indagine trascendentale, quest’ultima conserva, prima che uno status, un obiettivo teorico diverso: ossia quello dell'identificazione di regole che abbiano un carattere di necessità. Questo non esclude, però, che il modo per pervenire a quelle regole possa seguire una via che non è immediatamente “logica”, ossia un percorso che include un aspetto di autoosservazione, seppure di natura del tutto peculiare – l'osservazione rivolta agli atti spontanei dell'intelletto, piuttosto che al decorso empirico delle rappresentazioni81. 77

AA VII 133, trad. it. cit., p. 16. AA VII 161, trad. it. cit., p. 43. 79 AA VII 132, trad. it. cit., p. 14. 80 VFried, AA XXV 478. 81 Cfr. il passo, interessante e problematico, di KrV, A 546-47 B 574-75, dove si parla della conoscenza di sé dell’uomo tramite «azioni e determinazioni interne», che non possono essere contate tra le impressioni dei sensi, e del fatto che può presentarsi a se stesso «in relazione a certe facoltà», come «un oggetto meramente intelligibile». Hatfield, che sottolinea questo pas78

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Del resto, Kant riconosce esplicitamente che un aspetto molto importante che si ritrova ripreso e trattato in prospettiva trascendentale, ossia la teoria delle facoltà dell’animo, non può svilupparsi che a partire dall’esperienza. La realtà o meno di una facoltà fondamentale può essere confermata soltanto empiricamente: «Ogni comprensione umana giunge alla fine quando perveniamo a forze fondamentali o facoltà fondamentali, poiché la loro possibilità non può essere compresa tramite nulla, ma non può neppure essere inventata ed ammessa arbitrariamente. Quindi nell’uso teoretico della ragione soltanto l’esperienza ci può autorizzare ad ammetterla»82. In fin dei conti, la dicotomia tra una psicologia empirica dotata di statuto scientifico assai debole e una psicologia razionale criticata e smontata come scienza immaginaria dell’anima risulta nei fatti stretta allo stesso Kant; ma risulta inadeguata anche la tripartizione segnata da queste due psicologie con l'aggiunta del terzo incomodo costituito dalla filosofia trascendentale, che mette in gioco un’appercezione trascendentale che non è propriamente un oggetto conoscibile83. 3.3. La nuova mappa dello psichico I temi che abbiamo visto indicare da Kant esplicitamente come propri della logica applicata in quanto indagine psicologica sono molteplici: l’attenzione, l’origine dell’errore, lo stato di dubbio, di scrupolo, di convinzione. Ma il corpus logico di Kant segue da vicino la traccia dell’Auszug aus der Vernunftlehre (e poi della Vernunflehre) di Georg Friederich Meier84, su cui si basavano le lezioni di logica, e svolge anzitutto una teoria della rappresentazione, che si trova pertanto a ridefinire la natura stessa dello psichico. L’anima è infatti, nella tradizione wolffiana, come abbiamo accennato, nella sua essenza vis repraesentativa: definire la natura della rappresentazione è pertanto definire lo psichico in quanto tale. so, va però a mio avviso troppo in là nell’interpretare come «una sorta di introspezione riflessiva» diversi passi della prima Critica; ma mostra bene come vi sia un’indagine con rilevanza psicologica che si muove in uno spazio intermedio tra psicologia empirica e psicologia razionale (cfr. G. Hatfield, op. cit., pp. 211 sgg.). 82 KpV, AA V 46-47; trad. it. di F. Capra: Critica della ragion pratica, Laterza, Roma/Bari 1979, p. 58. Dà particolare rilievo a questo passo P. Kitcher (cfr. Discovering the Forms of Intuition, «The Philosophical Review», XCVI (1987), n. 2, pp. 205-248, in part. pp. 213; Kant’s Dedicated Cognitivist System, in Historical Foundations of Cognitive Science, ed. by J.C. Smith, Reidel, Dordrecht 1989, p. 193). 83 Su «una zona di confine, una zona “in più”» nel rapporto tra psicologia empirica e filosofia trascendentale e su una contiguità tra psicologia e logica insiste B. Centi, Coscienza, etica e architettonica in Kant, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa/Roma 2002, p. 39; v. in particolare pp. 35 sgg. 84 G.F. Meier, Auszug aus der Vernunftlehre, Halle 1752 (ristampato in AA XVI); Vernunftlehre, Halle 1752 (ristampa a cura di G. Schenk, Hallescher Verlag, Halle 1997).

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Rispetto alla scuola wollfiana, la riformulazione che Kant compie della mappa dello psichico ha due aspetti fondamentali: da un lato, la teoria delle facoltà viene modificata rifiutando l’idea di un’unica «forza» fondamentale dell’animo, la forza rappresentativa appunto, cui le diverse facoltà possono essere ricondotte e in base alla quale posso essere comprese85. Dall’altro, la relazione delle diverse rappresentazioni e dunque delle facoltà con la coscienza viene concepita in un modo del tutto diverso, contribuendo a fornire basi rinnovate non soltanto alla teoria dell’attività cognitiva, ma all’indagine della vita psichica in generale. Ricapitoliamo per tratti essenziali il modo in cui Kant ridisegna il territorio della coscienza e dell’inconscio. Abbiamo accennato al fatto che Wolff definisce l’anima nell’ambito della psicologia empirica «l’ente [Ding] cosciente di sé e di altri enti fuori di sé», riconoscendo nella coscienza, e dunque in un tratto di origine cartesiana, ciò che di essa si manifesta in modo immediato, se assumiamo la prospettiva basta su «ciò che percepiamo di noi». Tuttavia Wolff tiene a precisare che questo tratto non identifica l’essenza dell’anima, quale la psicologia razionale è in grado di identificare, e ciò proprio in contrapposizione con la tradizione cartesiana. Lo psichico è forza rappresentativa, e rappresentazione non si identifica con coscienza: Nessuno pensi che io cerchi l’essenza dell’anima nella coscienza di noi stessi e di altri enti come esterni a noi, e che, con i cartesiani, voglia sostenere che nell’anima non vi possa essere nulla di cui essa non sia cosciente; infatti si mostrerà più avanti il contrario. Adesso non posso badare a nient’altro se non a ciò di cui siamo coscienti da noi, poiché sono deciso a riferire quello che percepiamo di noi; ma non possiamo percepire nient’altro che ciò di cui siamo coscienti. Qualora, infatti, si trovi in noi più di quanto siamo coscienti, dovremo ricavarlo mediante ragionamenti, e precisamente partendo da ciò di cui siamo coscienti, perché altrimenti non abbiamo alcuna ragione per farlo86.

Se la psicologia resta dunque prevalentemente in Wolff una “psicologia della coscienza”87, egli riconosce la presenza e l’importanza di quelle che chiama – come faranno anche i suoi seguaci e lo stesso Kant – «rappresentazioni oscure»; e identifica nell’inferenza a partire dai dati coscienti il modo per asserirne l’esistenza e indagarne la natura. Kant segue su questo punto la posizione wolffiana: le rappresentazioni non consapevoli sono conoscibili tramite inferenza. Con questo è di fatto oltrepassato l’approccio 85 Kant assume com’è noto, in luogo della bipartizione wolffiana delle facoltà superiori in appetitiva e razionale, una tripartizione delle facoltà dell’animo, anticipata già da Sulzer e Mendelssohn. Cfr. N. Hinske, Wolffs empirische Psychologie und Kants pragmatische Anthropologie. Zur Diskussion über die Anfänge der Anthropologie im 18. Jahrhundert, «Aufklärung», XI (1999), pp. 97-107; cfr. p. 106. 86 Ch. Wolff, Vernünfftige Gedancken, cit., § 193, trad. it. cit., pp. 185-187. 87 Cfr. S.B. Kim, op. cit., p. 98.

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metodologico proprio della “psicologia empirica” quale l’abbiamo vista teorizzata, ossia come disciplina basata essenzialmente sull’osservazione introspettiva. Un capitolo importante di teoria dello psichico, la sua mappatura più generale, oltrepassa questa metodologia. A differenza di Wolff, questo ambito non è residuale né caratterizzato prevalentemente in negativo. La metafora della carta geografica è usata da Kant nell’Antropologia dal punto di vista pragmatico: Il campo delle intuizioni sensibili e delle sensazioni di cui non siamo coscienti e che tuttavia possiamo senza dubbi inferire, cioè il campo delle rappresentazioni oscure nell’uomo (e anche negli animali) è immenso; invece le rappresentazioni chiare non sono che infinitamente pochi punti aperti alla coscienza; su quella che può essere detta la grande carta del nostro animo non esistono che poche zone illuminate88.

Immenso, «il più vasto», come Kant dice poco dopo, il campo delle rappresentazioni oscure sembra qui riferito soprattutto alle rappresentazioni sensibili; e per questo motivo – perché «può essere percepito solo in forma passiva come gioco di sensazioni» – lo studio di questo campo viene attribuito in questo contesto «all’antropologia fisiologica, non alla pragmatica, che abbiamo qui di mira»89. L’“antropologia fisiologica” è nella sostanza la psicologia empirica, alla quale infatti nel corpus logico viene esplicitamente attribuito lo studio dei «concetti oscuri»90. Ma tuttavia, come emerge più chiaramente in altri contesti, la teoria delle rappresentazioni oscure non si limita a quelle sensibili; è anzi un tratto fondamentale dell’elaborazione kantiana il superamento di questa limitazione, che era propria invece della scuola wolffiana. Rispetto alla tradizione con cui si confronta, Kant ridefinisce la mappa concettuale dello psichico non soltanto o non tanto tramite la vastità che attribuisce al non cosciente, ma riformulandolo al suo interno: facendo rientrare in esso l'intera gamma delle modalità rappresentativa della mente, ossia ogni livello cognitivo, da quello sensibile, per il quale nel leibnizianesimo era già aperto uno spazio, per quanto incerto, fino a quello intellettuale e perfino razionale, o a rappresentazioni di ordine e con funzione morale, o di ambito estetico. È particolarmente evidente in questa teoria del non cosciente quanto si accennava, ossia che i confini tracciati da una psicologia empirica basata sull'osservazione di sé e sul «senso interno» sono saltati: da un lato, la dimensione delle rappresentazioni oscure o fundus animae – la «profondità

88 Anth, AA VII 135, trad. it. cit., p. 18. Già nella Refl 176, AA XV 64, databile tra il 1764 e il 1769, Kant scrive: «Obscurarum perceptionum campus est amplissimus». 89 Anth, AA VII 136, trad. it. cit., p. 18 90 Cfr. LWiener, AAXXIV 840, trad. it. I. Kant, Logica di Vienna, a cura di B. Bianco, Angeli, Milano 2000, p. 74: «dei concetti oscuri parla la psicologia».

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dell’animo [Tieffe des Gemüths]»91, come Kant anche la chiama – è per definizione sottratta all'osservazione di sé, e risulta dunque indagabile soltanto su base inferenziale, come Kant esplicitamente teorizza, anche contro i suoi negatori di principio92; dall’altro, Kant opera una ridefinizione concettuale degli ambiti del mentale che se non costituisce direttamente un capitolo di ricerca psicologia empirica, finisce per fornire una metapsicologia, una riorganizzazione dei dati dell'esperienza psicologica in senso ampio che non è propriamente filosofia trascendentale, ma rappresenta piuttosto un lavoro concettuale propedeutico che alla ricerca psicologica applicata fa riferimento e che è in grado di trasformarla radicalmente93. Nella prima Critica, dominata dalla prospettiva trascendentale, le rappresentazioni non coscienti non hanno uno spazio esplicito. Ma nel corpus logico e in quello antropologico il loro ruolo è importante. Per la Anthropologie Friedländer «le rappresentazioni oscure contengono le molle segrete di ciò che avviene alla luce»94. Il primato quantitativo del non cosciente riguarda anche, nello specifico, l’intelletto, come si afferma in modo netto in un appunto degli anni 1764-1769: «la maggior parte di ciò che fa l'intelletto avviene nell'oscurità»; «tutti gli actus dell'intelletto e della ragione possono avvenire nell'oscurità»; si cade dunque in inganno quando «molte cose che 91 AA XXV 252. L’espressione fundus animae è in Baumgarten, Metaphysica, cit., §§ 511, 514. 92 «Noi possiamo essere coscienti mediatamente di avere una rappresentazione, anche se non siamo coscienti di essa immediatamente», sostiene Kant contro Locke (Anth, AA VII 135, trad. it. cit., p. 18). L’idea di una ricerca empirica non basata sull’osservazione diretta, il senso interno, ma sull’inferenza, è presente già nel Kant precritico, ad esempio nel Versuch den Begriff der negativen Größen in die Weltweisheit einzuführen (1763), dove si afferma che «bisogna giudicare che il giuoco delle rappresentazioni, ed anzi tutte le attività del nostro animo (Seele), in quanto le conseguenze dopo essere state reali tornano a svanire, presuppone delle azioni opposte, di cui l’una è la negativa dell’altra;e ciò per quelle ragioni che abbiamo addotte, anche se non sempre l’esperienza può informarci su questo» (AA II 191; trad. it. Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative, in I. Kant, Scritti precritici, a cura di P. Carabellese, nuova edizione riveduta e accresciuta a cura di R. Assunto, R. Hohenhemser, A. Pupi, Laterza, Roma/Bari 1990, p. 275). Nello stesso testo si parla di «differenti leggi» tra mondo corporeo e mente (Geist): la materia non può essere modificata che da cause esterne, mentre «lo stato di una mente può essere modificato anche da una causa interna» (AA II 191-192, trad. it. cit., p. 276). 93 Su questo e quanto segue cfr. C. La Rocca, L’intelletto oscuro. Inconscio e autocoscienza in Kant, in Leggere Kant. Dimensioni della filosofia critica, a cura di C. La Rocca, Edizioni ETS, Pisa 2007, pp. 63-116; Unbewußtes und Bewußtsein bei Kant, in Kant-Lektionen. Zur Philosophie Kants und zu Aspekten ihrer Wirkungsgschichte, hrsg. von M. Kugelstadt, Königshausen & Neumann, Würzburg 2008, pp. 47-68; Das Schöne und der Schatten. Dunkle Vorstellungen und ästhetische Erfahrung zwischen Baumgarten und Kant, in Im Schatten des Schönen. Die Ästhetik des Hässlichen in historischen Ansätzen und aktuellen Debatten, hrsg. von H. Klemme, M.L. Raters, M. Pauen, Aisthesis-Verlag, Bielefeld 2006, pp. 19-64. 94 AA XXV 479.

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sono un giudizio costituito da rappresentazioni oscure vengono attribuite alla sensazione»95. Il campo dell'inconscio viene trasformato dunque in un luogo di operazioni molteplici, il cui livello non è limitato. Non soltanto non si tratta più di una caratteristica negativa, una manchevolezza, ma neanche di un livello basso, per quanto ricco, della vita mentale. Le rappresentazioni oscure definiscono un campo di complessi atti rappresentativi ai quali manca solo la supplementare proprietà della coscienza (riflessiva), senza che la qualità degli atti (anche se in certi casi la loro portata)96 ne venga compromessa. Così il concetto di coscienza viene sciolto presto dal legame con la contrapposizione sensibilità-intelletto: «Le rappresentazioni sensibili restano sempre sensibili, anche se si è coscienti di esse, e quelle intellettuali, anche se avviene il contrario. La coscienza non va confusa con queste due facoltà»97. L’ambito del non cosciente si estende a ciò che è latente nella memoria, o a sensazioni che chiameremmo “subliminali”, ma anche a concetti morali o metafisici, a motivazioni inconsapevoli dell'azione, e in generale ad attività inconsce di ogni tipo98. Se volessimo provare a raggruppare le rappresentazioni inconsce potremmo indicare i seguenti tipi principali. 1) Sono possibili rappresentazioni oscure di tipo sensibile, come ad esempio la percezione di innumerevole piccole parti di un oggetto che può esser colto solo nel suo complesso, come la Via Lattea; qui è più diretto il riferimento al modello delle petites perceptiones di Leibniz99. 2) Vi sono apparenti sentimenti, come il sentimento morale, o sentimenti di tipo estetico, o pretese “sensazioni” come il «presentimento», che in realtà consistono in atti inconsci di riflessione100. 3) C'è anche una attività oscura di riflessione,

95

Refl 177, AA XV 65. Perfino «una gran parte dei pensieri filosofici è stata già preparata prima nell'oscurità» (VFried, AA XXV 479). 96 Il controllo cosciente in particolare degli atti conoscitivi ha per Kant una funzione indispensabile, come mostra l’esempio dei «giudizi provvisori» (che fanno parte anche delle rappresentazioni oscure, cfr. AA XXV 481): essi possono aver luogo senza il processo che Kant chiama «riflessione», ma degenerano in questo caso necessariamente in pregiudizi. Cfr. infra, § 3.4. 97 Anthropologie Collins, inverno 1772/73, AA XXV 31-32. 98 Sulle diverse rappresentazioni oscure cfr. anche V. Satura, Kants Erkenntnispsychologie in den Nachschriften seiner Vorlesungen über empirische Psychologie, Bouvier, Bonn 1971; P. Manganaro, L’antropologia di Kant, Guida, Napoli 1983. 99 Si veda ad. es. Anth, AA VII 135-136, it. p. 18. 100 Cfr. per esempio VCollins, AA XXV 22: «Se però molte cose che vengono chiamate “sentire” non sono altro che riflessioni oscure, è aperto al filosofo un grande campo di lavoro per esplicitare queste riflessioni oscure» (qui Kant fa l’esempio della bellezza e dell' elemento umoristico di uno scherzo). Cfr. VMensch, AA XXV 869, dove si parla a proposito dei «cosiddetti sentimenti» di «fondamento sconosciuto in noi».

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non solo nascosta in pretesi sentimenti, che può assumere diverse forme101. 4) Vi sono inoltre rappresentazioni oscure di tipo complesso, come i concetti morali o metafisici, che ogni uomo possiede in sé e che possono venire chiariti attraverso il procedimento che Kant negli anni ’70 chiama «filosofia analitica»: «I princìpi della moralità e della metafisica giacciono nell’oscuro e il filosofo li rende chiari, li sviluppa. Egli getta per così dire un raggio di luce negli angoli oscuri della nostra anima»102. 5) Vi sono inoltre processi rappresentativi inconsci di tipo immaginativo che svolgono un ruolo importante a livello dell'immaginazione o della fantasia involontaria, cosa che porta Kant a dire che noi siamo spesso «un gioco di rappresentazioni oscure»: che sono le immagini a giocare con noi e non viceversa103. 6) Alle rappresentazioni oscure appartengono infine anche rappresentazioni dell'intelletto (e persino della ragione) di tipo diverso. È da notare che il campo di ciò che è di pertinenza dell'intelletto viene anche esteso al di là di quanto solitamente riconosciuto, poiché spesso rappresentazioni che venivano interpretate come di tipo sensibile o sentimentale vengono ricondotte invece da Kant ad un’attività intellettuale che si svolge in modo non consapevole. Nella Antropologia il «presentimento» di qualcosa di futuro, spacciato appunto per un sentimento, nasconde in realtà «giudizi tratti da concetti oscuri concernenti rapporti causali» (cioè «riflessione sulla legge di successione degli eventi»), che possono essere in linea di principio esplicitati104. Nella stessa opera la «decisione» rimessa «ai princìpi di determinazione del giudizio che si nascondono nell'oscurità dell’animo» viene rappresentata come qualcosa la cui efficacia nel conoscere supera di gran lunga quella dei «princìpi elaborati artificiosamente», e ciò in forza di un’operazione non consapevole nella quale «la riflessione si rappresenta l'oggetto in molti aspetti e giunge ad un risultato esatto senza consapevolezza degli atti che hanno luogo all'interno dell'animo»105.

101 «[…] senza consapevolezza degli atti che hanno luogo all'interno dell’animo» (Anth, AA VII 140, trad. it. cit., p 22; cfr. Anth, AA VII 145, trad. it. cit., p. 27, dove si parla di «oscure riflessioni dell’intelletto»). 102 AA XXV 23. Cfr. Metaphysik L : «Tutto ciò che si insegna nella metafisica e nella mo1 rale, ogni uomo già lo sa; soltanto che non ne era cosciente; e chi ce lo spiega ed espone cose non ci dice propriamente nulla di nuovo che ancora non sapessimo, ma egli fa sì soltanto che io prenda coscienza di quanto era già in me» (AA XXVIII 227, trad. it. cit., p. 54). 103 Anth, AA VII 136-137, trad. it. cit., p. 19. Su questo cfr. C. La Rocca, Das Schöne und der Schatten, cit. 104 Anth, AA VII 187, trad. it. cit., p. 70 105 AA VII 140, trad. it. cit., 22.

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3.4. Psicologia della conoscenza. I giudizi provvisori come «procedimento segreto dell’anima» Quanto detto sopra circa i rapporti tra logica applicata e psicologia, come anche la ridefinizione del rappresentare inconscio mostrano che la psicologia empirica non è limitata all’ambito della conoscenza sensibile, come talvolta può apparire e come qualche volta è stato sostenuto. L’intreccio tra logica applicata e antropologia che costituisce parte della ricerca “psicologica” di Kant, volta a descrivere come di fatto pensiamo, dà luogo a quella che oggi chiameremmo una psicologia cognitiva. Essa comprende molti aspetti, che vanno ricercati appunto tanto nel corpus psicologicoantropologico quanto in tematiche importanti di quello logico106. Ci limitiamo ad indicarne uno che può mostrare di quale tipo di indagini possa trattarsi e che può risultare di particolare interesse. La teoria dei pregiudizi con la sua articolazione nei «giudizi provvisori» è per certi versi uno sviluppo della teoria delle rappresentazioni oscure: «delle rappresentazioni oscure fanno parte anche i giudizi provvisori. Prima che l’uomo formuli un giudizio, che è determinato, formula già preliminarmente [im voraus] un giudizio provvisorio. Questo lo guida a cercare qualcosa. Ad esempio chi cerca terre sconosciute, non si dirige direttamente al mare, ma giudica prima. Ogni giudizio determinato ha dunque un giudizio provvisorio»107. L’operazione di orientamento cognitivo preliminare che guida la ricerca dei giudizi appropriati è spesso qualcosa che ha luogo al di sotto del livello della consapevolezza: «Talvolta abbiamo un oscuro presentimento [ein dunkles Vorgefühl] della verità; una cosa ci sembra contenere note della verità; abbiamo già un presagio della sua verità ancora prima di conoscerla con certezza determinata»108. È il situarsi di questi processi ad un livello piuttosto profondo dell’attività psichica a costituire una delle difficoltà maggiori per una loro teoria completa, che Kant considererebbe molto utile sotto il profilo appunto di una logica applicata: «Attraverso la dottrina dei giudizi provvisori la logica potrebbe arricchirsi

106 Un limite dell’utile volume di V. Satura, Kants Erkenntnispsychologie, cit., al quale rimando per un approfondimento di altri aspetti, sta appunto nel fatto di focalizzarsi principalmente sull’ambito individuato dalle lezioni di metafisica e da quelle di antropologia allora disponibili (non era stato pubblicato ancora il vol. XXV dell’Akademie-Ausgabe), ed in particolare sulla teoria delle facoltà che viene così in primo piano. Ne consegue anche la tesi, che quanto stiamo per dire mostrerà errata, secondo cui Kant escluderebbe «dalla psicologia empirica quei temi che si riferiscono alla formazione dei concetti, al giudizio e al pensiero» (p. 154). 107 AA XXV 481. Su questa tematica, che qui solo richiamo per sommi capi, cfr. il capitolo Giudizi provvisori. Sulla logica euristica del processo conoscitivo nel mio Soggetto e mondo, Marsilio, Venezia 2003, pp. 79-153. 108 Log, AA IX 66, it. 60.

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molto, se ciò non fosse per lei troppo profondo»109. Di nuovo una lezione di antropologia sottolinea l’importanza di questa indagine: dal momento che ogni giudizio determinante è preceduto da giudizi provvisori che lo orientano, «lo studio dell’animo in relazione al procedimento segreto dell’anima dell’uomo è molto importante»; questo studio è contrapposto, in modo interessante, ai casi in cui notiamo che «l’uomo stesso è un gioco dell’oscurità»110: sembra poterne dedurre che una indagine del procedimento nascosto costituito dai giudizi provvisori si distingue in linea di principio da quella osservazione di sé passiva, in cui mettiamo insieme solo «la storia interna del corso involontario dei nostri pensieri e sentimenti», che Kant condanna a più riprese111. Essa costituirebbe, piuttosto, parte di quella «osservazione dei diversi atti della nostra facoltà potere rappresentativa» che abbiamo visto essere considerata «utile per la logica e la metafisica»112. La teoria dei giudizi provvisori che Kant abbozza è un buon esempio di quella doppia funzione, descrittiva ma anche indirettamente normativa, almeno nei limiti della funzione “catartica”, che costituisce l’essenza delle indagini psicologiche nella logica applicata. Consentendo la conoscenza di alcuni dati di fatto che intervengono nel processo conoscitivo, essa consente anche di tenerne conto e di correggerli: «alla fine essa dice ciò che si deve fare per usare correttamente l’intelletto in quanto sottoposto a vari impedimenti e limitazioni soggettive; e da essa possiamo anche apprendere ciò che promuove il corretto uso dell’intelletto, i suoi mezzi ausiliari o i rimedi contro errori e difetti logici»113. È quanto avviene nell’indagine sui giudizi provvisori. Anzitutto se ne individua la presenza di fatto nel processo conoscitivo, ossia il fatto che «non giudichiamo mai subito in modo determinante»114. Sulla base di questa consapevolezza, può essere definita una regola per così dire di accortezza metodologica, ossia quella di ricercare in casi particolare se non vi sia all’opera un fondamento di giudizio non riconosciuto nella sua natura e che dia luogo a massime generali errate: «Se qualcosa è scaturito non da fondamenti oggettivi ma soggettivi, non da fondamenti dell’intelletto e della ragione ma della sensibilità eccetera, e lo si considera comunque come scaturito dalle leggi dell’intelletto, in questo caso si ha un pregiudizio»115. Il pregiudizio nasce quando un giudizio provvisorio non è riconosciuto nella 109

Logik Hechsel, in I. Kant, Logik-Vorlesung. Unveröffentlichte Nachschriften, bearb. von T. Pinder, Meiner, Hamburg 1998, p. 359. Cfr. anche LPölitz, AA XXIV 546. 110 AA XXV 481. 111 AA VII 133, trad. it. cit., 15. 112 Ibid. 113 Log, AA IX 14, trad. it. cit., p. 12. 114 PhilEnz, AA XXIX 24, trad. it. cit., p. 145. 115 Ibid., AA XXIX 25, trad. it. cit., p. 147.

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sua natura di orientamento preliminare; questo può derivare da una mancata indagine sulla natura dei suoi fondamenti, ovvero dal non riconoscere l’assenza di un fondamento vero e proprio, di carattere razionale. È evidente come in questo casi vi sia un intreccio particolare tra indagini di tipo più strettamente psicologico e analisi di tipo epistemologico: la scoperta dell’esistenza e della natura dei giudizi provvisori è compito della psicologia, che deve metterli in rilievo come componenti di una dimensione nascosta dell’operare psichico e in ogni caso – perché Kant non sembra ritenere che tutti i giudizi provvisori siano inconsci, ma possono essere più semplicemente ignote le loro motivazioni o frainteso il loro status epistemico – come una componente operante nel processo conoscitivo; su questo si innestano però operazioni, quali la «indagine» e la «riflessione» (l’esame dei fondamenti del giudizio e la sua riconduzione alla facoltà ed ai princìpi di questa il «confrontare una conoscenza con la facoltà conoscitiva dalla quale essa deve avere origine» e dunque con i suoi princìpi)116, che sono più propriamente operazioni “logiche” o metacognitive, e che intervengono – o devono intervenire, secondo la teoria kantiana – come correttivo nella costruzione della conoscenza. La stessa analisi può individuare al di là dei dati di fatto psicologici degli aspetti della vita mentale con una maggiore necessità strutturale: è interessante notare come l’indagine psicologica trapassa in un’individuazione di princìpi conoscitivi, cosa che sembra spiegare la natura “anfibia” delle trattazioni di questo tema, presenti sia nel corpus antropologico che in quello logico. Il pregiudizio non è un singolo giudizio, ma «significa una regola, un certo canone di giudicare senza riflessione», «una legge generale che è un fondamento di giudizi senza riflessione»117. Ciò vale – aggiunta la riflessione che impedisce loro di diventare pregiudizi – anche per i giudizi provvisori, o almeno per una buona parte di essi. Questi sono, precisamente, non giudizi veri e propri, nemmeno giudizi su oggetti generali, ma massime del giudicare: «massime per l’indagine preliminare [zur vorläufige Untersuchung] di una cosa»118. Essi rappresentano, in altri termini, princìpi regolativi e riflessivi del processo giudicativo (dunque operazioni metacognitive) e non atti di giudizio riferiti direttamente ad oggetti. I pregiudizi sono, dal canto loro, giudizi preliminari che non vengono riconosciuti nella loro natura e non vengono mantenuti nel quadro e nei limiti di questa loro funzione; princìpi d’orientamento che diventano fondamenti di determinazione: «se li si prende per fondamenti di un giudizio determinante, ne deriva una illusio-

116

Log, AA IX 76, trad. it. cit., p. 69. Cfr. C. La Rocca, Soggetto e mondo, cit., pp. 104 sgg. LPhilippi, AA XXIV 425. 118 LWiener, AA XXIV 862. Cfr. anche Log, AA IX 75, trad. it. cit., p. 68. 117

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ne»119. La Reflexion 2530 definisce il pregiudizio come «un principio (principium) soggettivo di giudicare che viene ritenuto erroneamente un principio oggettivo»120, confermando sia il carattere di principio dei pregiudizi sia la logica della loro derivazione dai giudizi provvisori (appunto «princìpi soggettivi del giudicare»). Lo sviluppo della teoria dei giudizi provvisori, con la sua analogia con lo stesso procedimento critico121, mostra bene come l’indagine psicologica possa coniugarsi con – e eventualmente trapassare in – un’indagine di tipo più prettamente epistemologico, e da questa ad un’indagine propriamente trascendentale. Non è il prescindere da qualsiasi assunzione di fatto, ma l’individuazione di una normatività con carattere di necessità a caratterizzare l’analisi trascendentale. L’indagine empirica può condurre, in altri termini, ad individuare, partendo da dati empirici, vincoli strutturali122, che sono in qualche misura “dati di fatto”123, la cui necessità normativa deve essere dimostrata in modo non empirico. 3.5. Psicologia morale Kant esclude, nella Prima introduzione alla Critica della facoltà di giudizio, la possibilità di una «psicologia pratica», intesa come insieme di «norme pratiche relative alla creazione in noi di un certo stato d’animo»124. Allo stesso tempo, sempre nella Prima introduzione, Kant riconosce un uso della psicologia in ambito morale: «Così i moralisti chiedono agli psicologi di spiegare loro lo strano fenomeno dell’avarizia, che annette un valore assoluto al semplice possesso di mezzi per il benessere (o per ogni altro intento), e tuttavia con il proposito di non farne mai uso; oppure dell’ambizione, che identifica l’onore con la pura fama, senza fini ulteriori; questo al fine di regolare di conseguenza i loro precetti, non in considerazione delle leggi mo119

AA XXIX 24. AA XVI 406 (1775-1783). 121 Si può rilevare infatti l’affinità della logica del pregiudizio con quella propria della teoria kantiana relativa alle idee della ragione: pur possedendo uno statuto di esigenze necessarie della ragione, che naturalmente i giudizi provvisori in quanto tali non hanno (necessaria è forse, ma in altro senso, la funzione), le idee sono come i giudizi provvisori princìpi regolativi d’orientamento che non devono essere assunti come princìpi costituivi, ossia come fondamenti di determinazione: se ciò avviene, il fraintendimento causa illusioni – le illusioni necssarie della ragione svelate dalla Dialettica trascendentale. 122 Cfr. infra, il § 4 su Filosofia della mente e psicologia trascendentale. 123 Paul Guyer osserva con ragione che non ogni assunzione che può essere considerata a matter of fact è necessariamente empirica, ma può indicare un vincolo di base per ogni sistema che debba svolgere un determinato compito. Cfr. P. Guyer, Psychology and the Transcendental Deduction, in Kant’s Trascendental Deductions, ed. by E. Förster, Stanford University Press, Stanford 1989, pp. 47-68; v. in part. pp. 65 sgg. 124 Cfr. EEKU, § I, AA XX 199, trad. it. cit., p. 94. 120

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rali come tali, ma degli ostacoli che si oppongono al loro influsso»;125 aggiunge però qui subito le riserve che abbiamo ricordato sulla sua capacità esplicativa e ne limita il ruolo ad una funzione solo descrittiva. La possibilità di una psicologia in ambito morale era in ogni caso riconosciuta nella Fondazione della metafisica di costumi, che le attribuiva lo studio degli «atti e le condizioni del volere umano in generale» contrapposto all’indagine dell’«idea e i principi di una possibile volontà pura»126. Anche qui, tuttavia, il ruolo della prospettiva psicologica in ambito morale non va valutato soltanto in considerazione del livello di scientificità, diciamo della potenza esplicativa della disciplina. Da un lato, la psicologia sembra essere presupposta per la definizione dei concetti con cui si opera in campo morale. In particolare è la teoria delle facoltà ad essere considerata un presupposto che rimanda a un’indagine propriamente psicologica: «Mi si potrebbe ancora obiettare per quale ragione non ho definito prima il concetto della facoltà di desiderare o del sentimento di piacere; questa obiezione però sarebbe ingiusta perché si doveva ragionevolmente poter presupporre questa definizione come data nella psicologia»127. Dall’altro lato, lo stesso rinvio ai limiti di una conoscenza propriamente psicologica di motivazioni e valutazioni morali può costituire un elemento che contribuisce alla definizione più adeguata di ciò che invece in ambito morale è propriamente in gioco. Anche per questo aspetto dell’indagine psicologia che si intreccia con il versante etico della filosofia critica, e che riguarda anche molti aspetti della “erede” della psicologia empirica, l’antropologia pragmatica che Kant svilupperà, si può indicare un tema in cui la prospettiva psicologica incrocia piuttosto da vicino la riflessione “pura”, e non sembra essere indifferente per quanto in essa viene elaborato. Il lavorio kantiano sul non cosciente, di cui abbiamo visto i tratti principali, costituisce un sottofondo, direi un basso continuo, sulla cui linea si lasciano intendere più propriamente alcuni aspetti della filosofia critica trascendentale, come la stessa nozione di Io o appercezione trascendentale, che solo tenendo in considerazione la possibilità di un rappresentare intellettuale inconscio può essere intesa nel suo senso di pura possibilità struttu-

125

AA XX 237-38, trad. it cit., p. 128. GMS, AA IV 390, trad. it. di F. Gonnelli: Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Roma/Bari 20033, p. 11. Sui complessi rapporti tra sviluppo di una teoria etica pura e antropologia cfr. S. Bacin, Il senso dell’etica. Kant e la costruzione di una teoria morale, Il Mulino, Bologna 2006, in particolare le pp. 152 sgg. 127 Cfr. KpV, AA V 9, trad. it. cit., p. 10. Sulle facoltà (Vermögen) cfr. però l’interessante Refl 5864, AA XVIII 371-72, che distingue tra logica ed etica, che presuppongono soltanto Vermögen, e la psicologia, che si occupa di Gemutskräften. 126

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rale128, e appunto colta nel suo senso non psicologico, eppure in grado di fornire strumenti ad una più complessa psicologia. Nello stesso senso, non meno rilevante è un risvolto in ambito morale di questo lavorio psicologico, che finisce per svolgere analoga funzione rispetto allo status non psicologico di concetti quali la Gesinnung, la disposizione d’animo morale. Mi riferisco alla tesi, ricorrente e non trascurabile nell'ambito di un’attenta considerazione dei processi di valutazione e deliberazione morale, della non trasparenza della coscienza motivazionale; in altri termini, all'idea kantiana secondo la quale lo stesso agente non può essere mai in linea di principio sicuro se nelle motivazioni delle scelte di cui è consapevole non siano contenuti geheime Triebfeder, moventi segreti, che si insinuano nel processo interiore e lo determinano, portando all’autoinganno129. Questa tesi, importante per la metafisica dei costumi, sembra nascere anch’essa in ambito antropologico-psicologico, con lo sviluppo dell’idea che il fondo dell’anima ospiti ogni genere di facoltà, e anche la stessa autonoma spontaneità dell’intelletto: L’animo, con il quale si intende la spontaneità [Selbstthätigkeit], in quanto si oppone alle impressioni del corpo, ha anch’esso per l’uomo profondità inesplorabili. Su ciò si fonda la giustezza del comando di non giudicare se stesso e neanche gli altri. Chi sa quante delle migliori azioni sorgono in noi occasionate da qualcosa di causale e non intenzionale, o sono conseguenze del temperamento o giochi della sorte; sono invece soltanto molto poche quelle che accadono per un puro atto di arbitrio. Siamo pertanto molto inclini ad ingannare noi stessi e a convincerci, in caso di buone azioni, di avere sempre i motivi più puri. Se si cerca di conoscere se stessi si scopriranno cose che difficilmente ci avrebbero persuaso a credere130.

Una tesi del genere non appartiene propriamente alla teoria morale – alla “metafisica dei costumi” – ed è piuttosto di genere psicologico-empirico, e tuttavia teoria morale e osservazione psicologica qui convergono e per così dire cooperano alla reciproca definizione. Non soltanto i moventi possono essere non trasparenti, ma anche i giudizi morali che pronunciamo possono nascondere i fondamenti reali su cui si basano. La psicologia morale può per un verso contribuire a portarli alla luce, per un altro anche semplicemente definire la loro tipologia, ad esempio se si tratta di sentimenti o giudizi. Si veda un esempio riportato nel corso di lezioni sull’antropologia detto Menschenkunde: I nostri cosiddetti sentimenti (infatti il linguaggio di moda comporta che si abbiano sentimenti morali di moralità, onore, ecc. – ma come possiamo sentire [fühlen] 128

Cfr. C. La Rocca, L’intelletto oscuro. Inconscio e autocoscienza in Kant, cit. GMS, AA IV 407, trad. it. cit., p. 45. 130 VCollins, AA XXV 24. Cfr. anche VParow, XXV 252, dove vi è un esplicito richiamo al Vangelo. 129

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l’onore?) non sono altro che il fondamento sconosciuto in noi, che è sì in noi, ma che noi non sappiamo esplicitare, a causa del quale succede che i giudizi su di noi ci attirano tanto. In tali sentimenti sono presenti motivi [Gründe] del perché li consideriamo un oggetto importante, motivi del fatto che il giudizio degli altri su di noi è importante. La filosofia cerca di scoprire queste rappresentazioni oscure. Ad esempio si ritiene che un uomo, che è stato offeso pesantemente, agisca più correttamente se si procura da sé soddisfazione piuttosto che rivolgersi ad un giudice. Qui vi è una rappresentazione oscura che vi sarebbero casi che non vanno portati ad un tribunale pubblico, forse perché mere opinioni, espressioni del viso, insulti ecc. non sono proprietà che io possa descrivere al giudice. Qui sembriamo dunque pretendere che queste cose debbano rientrare in una vendetta privata, per quanto la ragione la rifiuti subito. Che motivo può avere l’animo di pretendere una vendetta privata? Ognuno troverà che ciò abbia un nesso con la giustizia pubblica, ma è difficile da indagare. Una causa potrebbe essere, forse, che si crede che gli uomini devono difendere il loro valore personale. Ma è difficile stabilirlo e il chiarimento di queste rappresentazioni oscure tramite la filosofia richiede molto acume131.

Il fatto che Kant parli qui di “filosofia” è certamente un residuo della visione di essa come «filosofia analitica», volta appunto alla chiarificazione di concetti oscuramente posseduti, per cui «il moralista non ha altro da fare che ricercare nelle profondità dell’intelletto umano e trasformare le rappresentazioni oscure in chiare»132; ma è anche la spia di una collaborazione ed un intreccio tra una indagine propriamente psicologica e dei risultati di chiarificazione filosofica che non ha luogo soltanto per questo aspetto, e che abbiamo visto già all’opera nei rapporti tra logica trascendentale e ricerca psicologica. 4. Filosofia della mente e psicologia trascendentale L’eccedenza dell’effettiva ricerca psicologica rispetto alla teorizzazione epistemologica di Kant è stata per più versi percepita dagli interpreti, ed emerge tanto più in anni relativamente recenti, in presenza di un ridefinirsi dello stesso orizzonte delle discipline della mente. I nuovi paradigmi della ricerca psicologica, le scienze cognitive e il confronto serrato delle loro ricerche con elaborazioni della filosofia della mente hanno riportato l’attenzione su aspetti del pensiero di Kant che con queste dimensioni si intrecciano. Un versante è dato dal fatto – segnalato in particolare da Karl Ameriks133 – che il carattere puramente negativo del confronto di Kant con la psicolo131

AA XXV 869-870. AA XXV 871. Secondo S.B. Kim, op. cit., pp. 115 sg., la riflessione in ambito antropologico resta fedele al programma analitico che caratterizzava la prima filosofia di Kant. 133 K. Ameriks, Kant’s Theory of Mind. An Analysis of the Paralogisms of Pure Reason, new edition, Oxford University Press, New York 2000. 132

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gia razionale può almeno essere messo in questione se si prendono in esame testi quali le lezioni di metafisica Pölitz, alla cui luce i paralogismi della ragion pura possono essere letti come contenenti anche asserzioni positive sulla natura del mentale. Queste possono essere intese come contributi se non alla ricerca psicologica, alla discussione contemporanea di filosofia della mente: ad esempio mettendo in rilievo la tesi (appunto positivamente affermata) circa l’“immaterialismo” del sé, che si colloca tra quei due estremi che Kant chiama «materialismo senz’anima» (seelenloser Materialism) e «spiritualismo senza fondamento» (grundloser Spiritualism)134. Ma più in generale, la constatazione di Peter Strawson negli anni ’60 che «la terminologia della Critica è una terminologia interamente psicologica», osservazione che preludeva ad una condanna ormai celebre della «disciplina immaginaria della psicologia trascendentale»135, è stata in seguito non più un ostacolo, ma la premessa per una diversa e rinnovata attenzione – in un nuovo quadro di riferimento disciplinare e epistemologico – alle conseguenze psicologiche, se vogliamo chiamarle così, della filosofia critica. Infatti, se la psicologia diventa qualcosa di diverso non soltanto da quanto concepiva Kant o quanto era allora corrente, ma anche da quanto Strawson stesso aveva presente136, l’utilizzo del termine “psicologia” in riferimento alla filosofia critica può arrivare a coprire aspetti prima non sussumibili sotto tale etichetta, ossia a considerare “psicologici” argomenti e indagini che né per Kant né per i suoi lettori avevano tale natura. È in particolare l’interazione tra ricerche di tipo “empirico” e procedure di ragionamento che si muovono in un ambito non osservativo e in qualche senso “aprioriche” ciò che caratterizza questo orizzonte di ricerca. Rispetto ad una strategia bottom up, che parte da elementi semplici per cercare di ricompor134 Cfr. KrV, B 421. L’idea di Kant è – cfr. KrV, B 420 – che risulta impossibile applicare alla natura del nostro sé tanto il materialismo quanto lo spiritualismo, e che questo «rifiuto della nostra ragione» sia da intendere come «un cenno» ad rivolgere la conoscenza di sé all’ambito pratico: l’uso pratico della ragione «sebbene si indirizzi sempre agli oggetti dell’esperienza, trae comunque i suoi principi da un livello superiore e determina il nostro comportamento come se la nostra destinazione conducesse infinitamente al di là dell’esperienza, e dunque al di là di questa vita» (KrV, B 421). Che soltanto «l’immaterialità della sostanza pensante» e «il concetto della sua modificazione e dell’identità della persona nelle modificazioni» siano princìpi a priori della psicologia razionale, e «tutto il resto è psicologia empirica o piuttosto antropologia» è sostenuto in FM, AA XX 286. 135 P.F. Strawson, The Bounds of Sense, Methuen, London 1966, pp. 19, 32; trad. it. di M. Palumbo, Saggio sulla «Critica della ragion pura», Laterza, Roma/Bari 1985, pp. 9, 21. 136 P. Kitcher (Kant’s Dedicated Cognitivist System, cit., p. 190) sottolinea come Strawson scriva giusto un anno prima della pubblicazione del manifesto della psicologia cognitiva di Ulric Neisser, il cui sviluppo negli anni successivi lasciava l’approccio a Kant di Strawson stesso privo di contatti con le esigenze delle discipline psicologiche. Cfr. U. Neisser, Cognitive Psychology, Appleton-Century-Crofts, New York 1967; tr. it. di G.B. Vicario: Psicologia cognitivistica, Martello Giunti, Milano 1976.

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li in sistemi più complessi e adeguati ai fenomeni da comprendere (analoga a quella procedura di una scienza analitica, che Kant riteneva inapplicabile in psicologia empirica), nell’orizzonte cognitivista prevale o comunque svolge un ruolo fondamentale una procedura top down, che elude le difficoltà relative all’osservazione diretta procedendo ad una scomposizione di fenomeni complessi, che vengono analizzati in processi più specifici, e postulando quindi compiti determinati e condizioni per la loro realizzazione, svolgendo in altri termini l’analisi astratta di capacità determinate. Le domande che così vengono poste sono del genere: «Un qualunque sistema (che presenta le caratteristiche A, B, C, … come potrebbe compiere X?»137; sono cioè domande che identificano alcuni vincoli necessari, il cui concreto funzionamento empirico non viene indagato, in questa fase e a questo livello, e che potrebbe in linea di principio essere svolto, posti quei vincoli, in più modi e da diversi sistemi empirici. Si tratta di domande su come sia possibile una certa prestazione cognitiva, che, pur nella loro polivocità e ambiguità, presentano analogie innegabili con le argomentazioni trascendentali che Kant fa valere, al punto che è legittimo affermare, come sostiene Dennett, che l’«epistemologia pura» – quella che si pone la domanda come sia possibile in generale che qualcosa abbia esperienza o conoscenza di qualcosa – «diventa allora semplicemente il caso limite della ricerca psicologica, e non è a prima vista meno utile alla psicologia per la sua neutralità rispetto ai particolari empirici»138. In questa mutata situazione, le difficoltà di alcuni interpreti di distinguere la prospettiva trascendentale da quella psicologica, o comunque la presenza indubbia di un linguaggio psicologico nel cuore trascendentale della filosofia critica possono essere rovesciate di segno e intese come punti di forza per un possibile dialogo con un’indagine cognitivista in psicologia. È stata in particolare Patricia Kitcher ad aver sottolineato – contro una tradizione di sottovalutazione dell’apparato mentale delle facoltà – come in Kant sia presente una psicologia come scienza delle facoltà superiori che si configura come una sorta di “psicologia cognitiva” che non è riducibile alla logica applicata con i suoi prestiti dalla psicologia empirica, di cui abbiamo visto alcuni aspetti, ma ha forme argomentative sue proprie. Kant starebbe, per così dire, «facendo psicologia malgrado se stesso», un tipo di psicologia che sarebbe legittimo chiamare (con una terminologia forse alla fine più ambigua delle tesi sostenute) transcendental psychology139. 137 D. Dennett, L’intelligenza artificiale come filosofia e come psicologia, in Id., Brainstorms, Adelphi, Milano 1991, p. 193. 138 Ibid., p. 194. 139 P. Kitcher, Discovering the Forms of Intuition, cit., p. 214. Kitcher sviluppa ampiamente questa impostazione nel volume Kant’s Transcendental Psychology, cit. Sul carattere equivoco della dizione «psicologia trascendentale» cfr. B. Centi, op. cit., p. 40. In Kant nella metà de-

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In generale le scienze cognitive e l’impostazione funzionalista in esse predominante hanno portato – con l'estensione della prospettiva su cosa possa essere una scienza della mente – ad una riconsiderazione dei contributi “psicologici” (in senso lato) kantiani, che ha mostrato ancora come l'intersezione “Kant e la psicologia” possa variamente riconfigurarsi al di là degli schemi. Si apre così il capitolo del “Kant funzionalista”, ossia di letture di Kant in rapporto con una concezione funzionalista della mente, nel cui ambito alcuni apparenti limiti nel rapporto di Kant con una psicologia come scienza – il suo scarso entusiasmo per l’osservazione introspettiva, ad esempio – si capovolgono in una vicinanza strutturale con tesi funzionaliste140. In generale, l’approccio alla mente incentrato sulle funzioni, ossia su come un sistema opera, piuttosto che su come esso possa essere fisicamente costruito, diventa un punto di contatto con la ricerca empirica, in particolare con quel tipo di ricerca empirica che cerca un punto di appoggio per oltrepassare la frattura tra comportamento osservabile – e, aggiungeremmo, dati psicologici introspettivamente constatabili – e quanto lo precede come struttura mentale non osservabile. L’argomentazione trascendentale – un’argomentazione trascendentale certamente riletta in alcuni suoi tratti di fondo anche fuori dagli intenti teorici di Kant – si presenta in queste letture come una procedura che consente di inferire le condizioni necessarie perché si dia un certo tipo di fenomeno (un determinato atto cognitivo, in questo caso) e quindi procede chiedendosi cosa debba essere considerato necessariamente vero in rapporto ad un sistema che deve operare una certa prestazione cognitiva ovvero produrre un determinato risultato141. Ne viene messo però particolarmente in risalto il versante empirico: è l’esperienza a mostrare la presenza di una certa capacità o una determinata operazione conoscitiva. È indubbio che in questo tipo di approccio, in modo analogo alla prospettiva trascendentale, l’analisi è rivolta in misura maggiore ad una caratterizzazione strutturale del compito cognitivo piuttosto che alla natura particolare del soggetto che lo svolge, al soggetto empirico. La griglia concettuale usata può essere utilizzata però per cercare di ridefinire i rapporti tra psi-

gli anni ’70 è rintracciabile una «psicologia trascendentale» intesa come «la parte trascendentale della psicologia razionale» (MPölitz, AA XXVIII 263, trad. it. cit., p. 99); cfr. P. Rumore, La concezione kantiana della psicologia razionale, in Kant und die Philosophie in weltbürgerlicher Absicht. Akten des XI. Internationalen Kant-Kongresses, hrsg. von S. Bacin, A. Ferrarin, C. La Rocca, M. Ruffing, de Gruyter, Berlin/New York, in corso di stampa. 140 Su questo e quanto segue cfr. A. Brook, Kant and Cognitive Science, «Teleskop, The Electronic Journal», online, 2003. Per un’interpretazione funzionalista di Kant cfr., oltre al volume e ai saggi citati di Kitcher, R. Meerbote, Kant’s Functionalism, in Historical Foundations of Cognitive Science, cit., pp. 161-187; A. Brook, Kant and the Mind, CUP, Cambridge 1994. 141 A. Brook, Kant and Cognitive Science, cit.

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cologia empirica e quella che viene chiamata psicologia trascendentale. La psicologia trascendentale si presenta come una dimensione interamente funzionalista e anche teleologica, mentre la psicologia empirica si rivolgerebbe ad operazioni di livello inferiore, passive, determinate in modo causale, di cui non si potrebbe dare una lettura funzionalista142. Le interpretazioni di questo genere, alcune delle quali costituiscono una rinnovata psicologizzazione del trascendentale, offrono naturalmente analisi con prospettive ed esiti differenti, che non possono essere discusse in questa sede143; esse ritrovano in ogni caso quel nesso più stretto tra ricerca psicologica empirica e individuazione di necessarie strutture trascendentali che ho cercato di mostrare come emergente nello stesso Kant, e che può presentarsi come una terza via tra logica e psicologismo. Come si esprime Andrew Brook, la terza alternativa consiste un approccio «che esplori sia le condizioni necessarie delle operazioni della mente sia la psicologia effettiva di tali operazioni e che faccia la seconda cosa precisamente facendo la prima»144. 5. Psicologia e antropologia. La psicologia e la vita dell’uomo Anche queste letture mostrano dunque come una considerazione dei rapporti tra Kant e l’indagine scientifica della mente non possa assumere il punto di vista offerto soltanto da ciò che Kant chiama “psicologia empirica” e dallo statuto epistemologico che da un certo momento in poi attribuisce a questa disciplina. Tutto ciò che è maggiormente rilevante nella vita psichica umana sfuggirebbe in questo modo dal campo visivo, conseguenza che Kant non ha mai perseguito. Quanto finora abbiamo visto mostra però anche che neppure prendendo in considerazione la “dimora” in cui la psicologia finisce per essere “ospitata”, come Kant prefigurava nella prima Critica, l’antropologia, si rende conto in modo adeguato di tutto ciò che investe il campo dell’indagine psicologica nell’opera di Kant. Bisogna, in altri termini, guardarsi da alcune semplificazioni che non rendono giustizia alla magmatica complessità della materia: l’antropologia non è semplicemente la psicologia trasformata – lo è in parte, ma è anche qualcosa di più e di diverso – e la “psicologia” di Kant non è soltanto quella componente del lavoro 142

È la tesi di R. Meerbote, Kant’s Functionalism, cit., p. 165. Per alcuni aspetti della discussione cfr. L. Forgione, L’io nella mente. Linguaggio e autocoscienza in Kant, Bonanno, Acireale/Roma 2006, pp. 115 sgg. Kitcher riconosce in Kant – e difende – uno «psicologismo debole», consapevole dell’importanza dei fatti per asserzioni normative e al contempo della loro impossibilità di fondare tali asserzioni (Kant’s Transcendental Psychology, cit., p. 9). Per una prospettiva che considera anche l’alternativa connessionista al funzionalismo cfr. M. Barale, Kant e le filosofie della mente, in Kant und die Philosophie in weltbürgerlicher Absicht, cit. 144 A. Brook, Kant and the Mind, cit., p. 6. 143

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antropologico che Kant sembra conservare all’interno della nuova disciplina antropologica. Ma è l’orizzonte antropologico che bisogna comunque considerare per esaminare cosa dovesse diventare, per Kant, la psicologia. Nelle prime lezioni di antropologia, nell’inverno 1772-73, l’antropologia sembra essere semplicemente l’erede – cioè una riformulazione, con nuova denominazione – della psicologia empirica: la «scienza dell’uomo» o antropologia è presentata come basata su «osservazione e esperienza» così come la «fisiologia del senso esterno»145. E tuttavia si registra da subito una concezione più vasta delle sue fonti, che oltrepassa l’auto-osservazione – comprendendo ora romanzi e giornali, ogni genere di scritti e l’Umgang, il contatto quotidiano con gli uomini – e si profila una visione piuttosto ampia del suo oggetto146: Considereremo l’animo umano in tutti i suoi stati, in quello sano e in quello malato, in uno stato privo di ordine e grezzo; stabiliremo i primi princìpi del gusto e della valutazione del bello, i princìpi della patologia, della sensibilità e delle inclinazioni. Indicheremo i caratteri delle diverse età e in particolare dei diversi generi, cercando di ricavarli dalle loro fonti. Se ne potrà derivare cosa dell’uomo è naturale e cosa in lui artificiale o frutto d’abitudine; questo sarà il nostro oggetto principale e più difficile: distinguere l’uomo in quanto è naturale dall’uomo trasformato dall’educazione e da altri influssi; considerare l’animo separato dal corpo e cercare di stabilire tramite osservazioni se l’influsso del corpo è necessariamente richiesto per il pensiero147.

Pur con l’estensione metodologica e di tematiche che comporta, e l’accenno alla «conoscenza del mondo» intesa come capacità di applicare le

145

VCollins, AA XXV 7. Tra le fonti dell’antropologia Kant aggiungerà pezzi teatrali, romanzi, narrazioni storiche, biografie, libri di viaggio. Cfr. p. es. Anth, AA VII 120-121, trad. it. cit., pp. 4-5; AA XXV 734; 857 sgg. Non entriamo qui in dettaglio sulla natura e la peculiarità dell’antropologia, per la quale, e in particolare per il suo carattere “pragmatico”, rimandiamo al contributo di Riccardo Martinelli in questo volume (in particolare al § 3), ai volumi citati di S.B. Kim e Th. Sturm (di cui cfr. in particolare pp. 470 sgg.), come anche a R. Brandt, Kritischer Kommentar zu Kants «Anhtropologie in pragmatischer Hinsicht», Meiner, Hamburg 1998 (disponibile anche su http://web.uni-marburg.de/kant/webseitn/kommentar/kommentar.html); P. Manganaro, op. cit.; F. Battaglia, Il sistema antropologico. La posizione dell’uomo nella filosofia critica di Kant, Plus, Pisa 2010. Ci limitiamo ad alcuni elementi per precisare il rapporto tra antropologia e psicologia. 147 VCollins, AA XXV 8-9. Kant esclude dall’ambito di interessi della psicologia e dell’antropologia la questione del rapporto mente-corpo e in genere le questioni della realizzazione fisiologica cerebrale dei processi psichici. Cfr. su questo Th. Sturm, Kant und die Wissenschaften vom Meschen, cit., pp. 265-290, e, in generale sul problema mente corpo, C. Fabbrizi, Mente e corpo in Kant, Arcane, Roma 2008; più in riferimento all’antropologia e poi alla filosofia della mente contemporanea cfr. P.J. Teruel, Mente, cerebro y antropología en Kant, Tecnos, Madrid 2008. 146

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scienze148, l’antropologia sembra comunque, nelle lezioni di questo anno, per così dire la prosecuzione della psicologia empirica con (anche) altri mezzi149. Nelle lezioni del 1775-76 però il riferimento alla «conoscenza del mondo» viene in primo piano, e con essa si sviluppa la nozione di antropologia pragmatica. Il concetto di mondo viene precisato come quello dell’«insieme di tutte le relazioni in cui può entrare l’uomo, dove egli può esercitare le sue conoscenze e abilità»: se come oggetto del senso esterno il mondo è natura, «il mondo come oggetto del senso interno è l’uomo»150. Il riferimento al senso interno però ora non basta più a segnare la continuità con la psicologia empirica: da un lato, la conoscenza del mondo pone ora maggiormente in primo piano il carattere sistematico del sapere in gioco, la conoscenza del tutto che esso richiede151; dall’altro, la prospettiva pragmatica dell’antropologia diventa ciò che la divide dalla psicologia empirica, che sembra dunque non tanto trapassare nel’antropologia, ma conservarsi come un residuo con impostazione e finalità differenti, ossia come conoscenza «fisiologica» e meramente «teoretica». L’Antropologia dal punto di vista pragmatico del 1798 presenterà così la differenza: «La conoscenza fisiologica dell’uomo si propone di indagare ciò che la natura fa dell’uomo, la pragmatica ciò che l’uomo, in quanto essere che agisce liberamente, fa di se stesso»152 e questo, si può aggiungere, nella prospettiva di un uso attivo, basato sulla «prudenza», di questa conoscenza stessa: «per trarne regole circa 148

VCollins, AA XXV 9. L’idea che la psicologia dovesse avere un carattere “interessante” era già nella Nachricht von der Einrichtung seiner Vorlesungen in dem Winterhalbenjahre von 1765-1766, dove Kant spigava perché preferisse partire dalla psicologia empirica nei suoi corsi universitari, in modo da offrire qualcosa che fosse «per la sua leggerezza comprensibile, per la sua componente interessante piacevole, e per i frequenti casi di applicazione nella vita utile» (AA II 309-310). 149 Si veda anche VParow. In un passo della prima Critica l’antropologia sembra identica alla psicologia empirica: cfr. KrV, A 550, dove si parla di indagine «fisiologica» del carattere empirico come compito dell’antropologia. 150 VFried, AA XXV 469. 151 VFried, AA XXV 470. Si ricorderà che la psicologia empirica anche come dottrina “storica” puramente osservativa, come descrizione della natura dell’anima doveva, secondo i MAN, essere in grado di classificare fatti ordinandoli in modo sistematico secondo somiglianze (cfr. sopra pag. 402). Questo tipo di sistematicità è tuttavia debole e estrinseco; ne è una prova il fatto che per la Erste Einleitung della Kritik der Urteilskraft il compito della psicologia empirica è «raccogliere materiale per regole d’esperienza da collegare sistematicamente in futuro, senza volerle comprendere » (AA XX 238; cfr. supra, p. 402). Già nello scritto Sulle diverse razze degli uomini l’antropologia doveva essere «considerata in modo cosmologico», e questo la differenziava dalla «dottrina empirica dell’anima»: ossia non doveva essere svolta secondo «ciò che i suoi oggetti contengono di notevole nelle loro parti», come appunto la «dottrina empirica dell’anima», ma secondo la relazione con il tutto e il posto che ogni suo elemento assume in esso (VvRM, AA II 443). 152 Anth, AA VII 119, trad. it cit., p. 3. Sul nesso tra physiologisch e psychologisch cfr. l’analisi di questa pagina in R. Brandt, Kommentar, cit.

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ciò che egli può fare di sé o [come] può utilizzare altri»153. L’uomo non è visto dunque come ente puramente naturale e il suo studio non è meramente «teoretico» o, come dice Kant, «speculativo». Lo chiarisce bene il testo delle lezioni dell’Anthropologie Friedländer: «La seconda parte della conoscenza del mondo è la conoscenza dell’uomo, che viene considerato nella misura in cui la sua conoscenza interessa nella vita. Dunque l’uomo viene studiato non in modo speculativo, ma pragmatico, secondo regole della prudenza, per applicare la propria conoscenza, e questa è l’antropologia»154. È da notare però che finalità e impostazione anche metodologica non sono aspetti slegati: dalla finalità «pragmatica» consegue anche una modifica metodologica che va nel senso di una maggiore tendenza alla generalizzazione, al di là della mera descrizione. L’antropologia intende essere «generale» e studiare non tanto «lo stato dell’uomo ma la natura dell’umanità»; essere dunque non «una descrizione dell’uomo, ma della natura dell’uomo», anche e proprio perché questo le consente – come «conoscenza pragmatica di ciò che scaturisce dalla sua natura»155 – di perseguire i suoi fini applicativi: Pertanto dobbiamo studiare noi stessi, e poiché vogliamo applicare ciò ad altri, allora dobbiamo studiare l’umanità, però non in modo psicologico o speculativo, ma pragmatico, perché tutte le dottrine pragmatiche sono dottrine della prudenza, dove noi, riguardo a tutte le nostre abilità, abbiamo anche i mezzi per fare di ogni cosa un uso adeguato156.

In quest’ambito, come si vede, emerge per la prima volta un’esplicita differenziazione con la psicologia: essa sembra non assorbita nell’antropologia, ma mantenuta come una disciplina empirica e «speculativa», ossia con intenti essenzialmente teoretici. Un appunto degli anni 1790-91 conferma questa differenziazione e la relativa impostazione: «L’antropologia pragmatica non deve essere psicologia: volta a indagare se l’uomo abbia un’anima o cosa derivi dal principio pensante e senziente in noi (non dal corpo), e neppure fisiologia del medico, per spiegare la memoria sulla base del cervello, bensì conoscenza dell’uomo»157. Nello stesso testo, la psicologia è vista come Schulkenntnis, conoscenza di scuola, opposta alla Weltkenntnis, conoscenza del mondo. È importante però, giova ripeterlo, non considerare questa differenziazione come una finalizzazione per così dire estrinseca della conoscenza, che la organizza in modo applicativo, con un

153

Refl 1502a, AA XV 800. VFried, AA XXV 470. 155 VFried, AA XXV 471. 156 Ibid. 157 Refl 1502a, AA XV 801. 154

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intento appunto pragmatico158: l’impostazione pragmatica è da subito legata ad una prospettiva sull’uomo e la sua vita psichica che vuole essere il più possibile ampia e complessa. Questo sguardo più ampio è espresso nella Anthropologievorlesung Reichel insistendo sul fatto che «l’antropologia non è psicologia», dal momento che quest’ultima «guarda solo all’anima», mentre l’antropologia è «quando considero l’uomo così come lo vedo, animato, davanti a me [so wie ich ihn vor mir beseelt sehe]»159. L’uomo «animato» – e non la mera psiche – è l’uomo considerato nella pienezza del suo modo di essere, e dunque anche nella possibilità di progettarsi liberamente ed autonomamente: questo aspetto Kant non ritiene possa essere colto dalla psicologia, almeno fin quando essa viene vista nel modo riduttivo che è indicato ancora nel § VII dell’Antropologia, dove è considerata come «insieme di tutte le percezioni interne che stanno sotto leggi naturali», ma che si riferirebbero soltanto alla passività del senso interno160, dunque alla facoltà conoscitiva inferiore. L’«applicazione» di una conoscenza all’uomo, il suo uso, non è di per sé ciò che rende pragmatica la prospettiva, perché può consistere in mera «abilità», traduzione tecnica di un sapere. Ciò che conta è l’orizzonte di considerazione in cui l’“oggetto” dell’indagine viene visto. Lo spiega bene la trascrizione delle lezioni Menschenkunde, di nuovo tracciando per questo verso confini con la psicologia: La conoscenza dell’uomo è duplice. La conoscenza speculativa dell’uomo ci rende abili e viene trattata nella psicologia e nella fisiologia, ma la conoscenza pratica ci rende prudenti; essa è una conoscenza del modo in cui un uomo può avere influsso su un altro e guidarlo secondo i propri intenti161.

Nelle lezioni si trova talora anche il riferimento ad una «antropologia scolastica» che viene esemplificata nell’opera di Ernst Platner, o anche ad una «antropologia teoretica […], che contiene in sé solo ricerche psicologi-

158 A una simile relazione sembra alludere – ma in modo fuorviante – VMron, AA XXV 1210, dove l’anthropologia pragmatica viene indicata come «l’applicazione in società» della anthropologia scholastica. 159 Cfr. Th. Sturm, Kant und die Wissenschaften vom Menschen, cit., p. 190; (il testo della Anthropologie Reichel è su internet, insieme ad altre trascrizioni di lezioni non pubblicate vol. XXV della Akademie-Ausgabe, nella documentazione elettronica che accompagna questa edizione: http://web.uni-marburg.de/kant//webseitn/gt_ho304.htm). Nell’opera del 1798 si differenzia una percezione del senso interno «antropologica, in cui si prescinde dal problema se l’uomo abbia o non abbia un’anima (come particolare sostanza incorporea)», da una «psicologica, in cui si crede di percepire una tale anima, e in cui l’animo [Gemüth], che è rappresentato come mera facoltà di sentire e di pensare, viene considerato come una particolare sostanza residente nell’uomo» (AA VII 161, trad. it. cit., p. 44). Qui il riferimento sembra però alla psicologia razionale, non a quella empirica. 160 Anth, AA VII 141, trad. it. cit., p. 23. 161 VMensch, AA XXV 855.

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che»162; così come nella Antropologia dal punto di vista pragmatico si trova il riferimento ad una «antropologia fisiologica»163. L’uso delle etichettature per le discipline è dunque piuttosto in movimento e non perfettamente definito: nella Critica della facoltà di giudizio Kant sembra schizzare anche una figura intermedia, nel momento in cui, negando la possibilità di una positiva «dottrina dell’anima» nel senso di una psicologia razionale vista come estensione della conoscenza e non mera critica – una «pneumatologia» – dice che la psicologia «è piuttosto meramente antropologia del senso interno, cioè conoscenza del nostro sé pensante nella vita, e come conoscenza teoretica resta anche solo empirica»164. Ma il punto di fondo è la concezione più ampia della psiche che si profila fuori dell’etichetta “psicologia” e all’interno di quella dell’«antropologia pragmatica», che ne riformula metodi e compiti – dunque la forma che la “psicologia oltre la psicologia” prende in questo ambito. Non possiamo seguirne qui tutti gli aspetti, ma solo indicarne qualche tratto sintomatico. Uno è presente già nella Anthropologie Parow, e poco dopo l’introduzione della prospettiva pragmatica dell’antropologia. Il mero «senso interno» lascia posto ad un’articolazione complessa di livelli dello psichico, che risulta probabilmente, agli occhi di Kant, più adeguata ad una comprensione dell’uomo nei diversi aspetti che un’antropologia pragmatica deve tenere in conto. L’ambito “psichico” viene distinto in Seele, Gemüth e Geist (anima, animo, e mente o spirito, si potrebbe tradurre), rendendo possibile una corrispondente articolazione di dimensioni di fenomeni psicologici. Questa articolazione mostra una notevole finezza: per suo tramite viene concessa alla complessità e alla peculiarità della vita psichica umana un’attenzione che è difficile registrare in un’altra “psicologia empirica” contemporanea a Kant. Una delle sue conseguenze, ad esempio, è un’analisi del fenomeno del dolore che si trova già in un appunto dei primi anni ’70, dove Kant scrive: «Anima. Animo. Spirito. Un dolore colpisce l’anima attraverso la sensazione, è nell’animo (sorge in esso) mediante la riflessione e nello spirito mediante la disapprovazione di sé. Ad uno dispiace la sensazione, ad un secondo l’intero stato, ad un terzo la persona, se stesso»165. È un passo che 162 Cfr. AA XXV 856, 1211; 1436. Ernst Platner aveva pubblicato una Anthropologie für Aerzte und Weltweise, Leipzig 1772, alla quale Kant si riferisce probabilmente anche quando parla, come abbia visto sopra, di «fisiologia del medico». Su questo tipo di antropologia Kant è subito critico: cfr. la lettera a Marcus Herz in Briefe, AA X 145, e S.B. Kim, op. cit., pp. 95 sgg.; R. Martinelli, Antropologia, cit.; Th. Sturm, Kant und die Wissenschaften vom Menschen, cit., pp. 265 sgg. 163 Anth, AA VII 136, trad. it. cit., p. 18. Cfr. supra, n. 89. 164 KU, § 89, AA V 461, trad. it. cit., pp. 292-293 (primo corsivo mio). 165 AA XVII 469. Sul concetto di Geist cfr. H. Hohenegger, Geist, mens, nous. Teleologia della filosofia e sistema teleologico delle facoltà in Kant, in Per una storia del concetto di mente, a cura di E. Canone, Olschki, Firenze 2007, pp. 327-368

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trova una corrispondenza piena nella Anthropologie Parow, e una formulazione interessante nella coeva Anthropologie Philippi: «In quanto l’anima [Seele] è capace di impressioni che il corpo subisce si chiama anima. In quanto essa è capace di agire spontaneamente si chiama mens. In quanto entrambe queste capacità sono unite, e la prima sta sotto la moderazione dell’altra, l’anima si chiama allora animus. Anima si chiama anima [Seele], animus animo [Gemüth], mens spirito. Non sono tre sostanze, ma tre modi di come ci comportiamo vivendo. Rispetto al primo siamo passivi, rispetto al secondo pure, ma anche nello stesso tempo reattivi, rispetto al terzo modo siamo interamente spontanei»166. Questa distinzione di livelli nella vita psichica – Kant sottolinea con molta chiarezza e con parole assai pertinenti che «non sono tre sostanze, ma tre modi di come ci comportiamo vivendo [Arten, wie wir uns lebend verhalten]» – è quella che ci permette di parlare, ad esempio, di una Traurigkeit des Geistes, di una tristezza dello spirito come diversa da quella dell’animo: la tristezza dovuta alla consapevolezza di una colpa non è quella causata dalla riflessione sul proprio stato presente o futuro, e può agire, osserva Kant, «con forze raddoppiate sul corpo»167. Kant non sviluppa questa articolazione, della quale anzi nell’Antropologia dal punto di vista pragmatico non vi è traccia168. Ma essa mostra bene come la prospettiva antropologica, la sua ricchezza di fonti e la stessa finalità pragmatica rendano necessaria un’immagine assai differenziata delle vita psichica dell’uomo, in cui corporeità, passività, riflessione, spontaneità si intrecciano in modi diversi: un’immagine assai diversa da quella di un flusso del senso interno da osservare, come diversa era quella che metteva in luce la “psicologia cognitiva” di cui abbiamo mostrato alcuni elementi. In generale, l’antropologia integra al suo interno non soltanto gli elementi di una psicologia «fisiologica» o «scolastica» – assumendo interamente, ad esempio, l’impostazione di una psicologia delle facoltà che era già di Wolff e dei suoi seguaci, e che Kant coniuga con l’indagine propriamente trascendentale, ma anche una psicopatologia delle facoltà169 – ma 166 VParow, AA XXV 247-248; il testo della Anthropologie Philippi è su internet, nella documentazione elettronica per l’edizione del vol. XXV della Akademie-Ausgabe (http:// web.uni-marburg.de/kant//webseitn/gt_ho304.htm). È tradotto in italiano da H. Hohenegger in Lezioni sulla conoscenza naturale dell’uomo di I. Kant, «Micromega», 4 (1997), pp. 253-254. 167 VParow, AA XXV 247-48. 168 Nella Anthropologie Friedländer la distinzione tra Seele, Gemuth e Geist sembra diversa e per la verità confusa e incoerente. Cfr. AA XXV 474. Kant forse l’abbandona per un uso più specifico e diverso di Geist, di cui già nella Anthropologie Pillau si dice che «non è una facoltà particolare, ma ciò che dà unità a tutte le facoltà» (AA XXV 782; cfr. anche VMron, AA XXV 1313;) e che nella Antropologia è detto «il principio animatore [das belebende Princip] nell’uomo» (Anth, AA VII 225, trad. it. cit., p. 108; cfr. VBusolt, AA XXV 1494). 169 Tutta la dimensione delle «malattie della testa», di cui non è stato possibile occuparci in questa sede, ha un rilievo in Kant che precede lo sviluppo dell’antropologia pragmatica e

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quelli di una considerazione della vita psichica che è rivolta sostanzialmente, nel contesto antropologico-pragmatico che, più che “ospitarla”, la include in sé, all’uomo come agente libero. Così, per richiamare un altro esempio, fenomeni come le «passioni», tema spesso prediletto di analisi empiriche e meccaniche, vengono ricondotti ad una realtà psichica nella quale le componenti razionali e spontanee hanno un ruolo decisivo: al punto, che nella definizione stessa di passione è implicita la sua commistione con la razionalità, rendendo impossibile considerarla soltanto una dimensione empirica: «La passione richiede sempre da parte del soggetto la massima di agire in vista dello scopo fornito dall’inclinazione. Essa è perciò sempre congiunta con la ragione, quindi non è possibile attribuire la passione ai semplici animali o ai puri esseri razionali»170. Il progettarsi attivo dell’uomo ed il suo concepirsi in relazione ad istanze morali non può restare fuori da un’analisi dell’umano. Kant estende questa analisi, svolgendo un’antropologia che comprende questioni – il carattere di un popolo, un sesso, una razza, e la specie umana come tale, la sua «destinazione» – che oltrepassano l’ambito della psicologia anche nelle accezioni odierne più vaste. Ma la particolare psicologia che la abita e la pervade anche senza averne sempre il nome è una disciplina per un verso attraversata da un paradosso, quello di essere una indagine empirica di un ente non solo empirico; ma per un altro verso una disciplina i cui fini cognitivi non sono più inchiodati, come nella originaria psicologia empirica, a quelli di un uomo ridotto, non visto come soggetto di azione spontanea e personalità autodeterminantesi. È proprio quest’uomo invece, secondo Kant, quello che l’indagine psicologica, in qualunque ambito venga praticata, deve porre al centro della sua attenzione.

che questa conferma. Cfr. su questo O. Meo, La malattia mentale nel pensiero di Kant, Tilgher, Genova 1982. 170 Anth, AA VII 266, trad. it. cit., p. 150.

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Giuseppe Cantillo

Religione

1. La filosofia della religione è una disciplina moderna, caratteristica del pensiero moderno. Come ha osservato Ernst Troeltsch, l’idea stessa della religione come «una regione della vita autonoma nel proprio nucleo centrale, e che si configura e si sviluppa secondo una propria forza»1, nasce nel mondo moderno ed è «un prodotto del movimento scientifico moderno»2. Questa idea non si ritrova nel mondo antico, che ha considerato la religione soprattutto nel suo legame con le condizioni naturali e politiche, concependola come «religione popolare» o tutt’al più – come nella sua crisi finale – una «miscela» di varie religioni popolari. Né essa appartiene alla tradizione ecclesiastica del Cristianesimo, sia cattolica che protestante, dove la religione non è considerata ancora come una esperienza che si situa dentro l’orizzonte della coscienza, ma come una «comunicazione» divina di verità religiose: «comunicazione unica e soprannaturale», dotata di assoluta ed esclusiva validità3. Soltanto nel mondo moderno da un lato le terribili conseguenze delle guerre di religione, dall’altro la nascita e lo sviluppo delle scienze naturali e del metodo storico-critico hanno messo in crisi il soprannaturalismo e la pretesa di assolutezza delle singole confessioni religiose, e hanno suscitato, come ha osservato Dilthey, «l’aspirazione alla pace religiosa, all’accordo su un nucleo originario del Cristianesimo» sottratto alle lotte confessionali e alle posizioni settarie. Così – scrive Dilthey – dai bisogni vitali della società europea è scaturito il problema che Herbert of Cherbury e Locke, Wolff e Kant, il deismo e l’illuminismo tedesco hanno cercato di risolvere: di indicare, cioè, il nucleo del Cristianesimo in una fede razionale universalmente valida e di unificare in questa fede i dotti di tutte le chiese4.

1

E. Troeltsch, Die Selbständigkeit der Religion, «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 5 (1895), p. 361, trad. it. L’autonomia della religione, a cura di F. Ghia, presentazione di G. Cantillo, Loffredo, Napoli 1996, p. 55. 2 Ivi, p. 365, trad. it. cit., p. 62. 3 Ibid. 4 Cfr. W. Dilthey, Der Streit Kants mit der Zensur über das Recht freier Religionsforschung, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. IV, hrsg. von H. Nohl, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1968, p. 295.

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Si sono create, quindi, le condizioni per un’indagine che intende descrivere e determinare concettualmente il fenomeno religioso nel suo insieme, risalendo, com’è proprio del metodo scientifico, dal singolare al generale, dalla singola religione alla religione in generale, dalla rivelazione soprannaturale, che è storica, particolare, positiva, alla rivelazione naturale, che è insita nella stessa ragione umana e perciò è universale5. E in questo orientamento Dilthey scorge anche l’origine di quella che egli presenta come «l’idea fondamentale della filosofia della religione tedesca» e che certamente è un elemento centrale del pensiero religioso di Kant, vale a dire l’idea secondo cui «l’elemento storico nella fede religiosa è il linguaggio simbolico di una vicenda etica intemporale»6. È soprattutto con il pensiero di Kant che si compie il passo decisivo per la nascita della filosofia della religione e, al tempo stesso, per il riconoscimento dell’autonomia della religione. Kant ha spostato «il punto di partenza di ogni indagine scientifica nell’analisi della coscienza umana e nella critica dei suoi poteri conoscitivi». Con ciò ha reso possibile «una maggiore autonomia della religione dalla metafisica», aprendo la via verso «una più penetrante analisi psicologica», e soprattutto riconoscendone il «carattere eminentemente pratico»7. Come ha messo in rilievo Dilthey, nella lotta contro la censura Kant ha rivendicato un’autonoma interpretazione della Bibbia alla competenza del filosofo della religione, che «al fine di ricondurre la fede ecclesiastica statutaria al pensiero religioso universalmente umano», ha bisogno di applicare «la fede razionale morale» alla «interpretazione in senso morale» anche dei testi cristiani8. Nell’opposizione tra pensiero scientifico e religione razionale da una parte e fede ecclesiastica dall’altra, Kant tenta di imboccare una via su cui è possibile stabilire la loro «convivenza», e questo è possibile, osserva Dilthey, perché in fondo, anche al di là della sua consapevolezza, Kant delineava la sua religione razionale morale muovendo dall’esperienza storica della religione cristiana, allo stesso modo in cui i maestri del diritto naturale prendevano le mosse dal diritto romano9. Ragione e storia, in effetti, si intersecano, nei due principi su cui, secondo Dilthey, si fonda l’«interpretazione morale» della religione in Kant, principi che rinviano a Lessing, alle dottrine delle sette, a Leibniz: vale a dire il principio, si potrebbe dire, della «vitalità» storica interiore, per cui l’«attestazione» del valore divino della 5

Cfr. E. Troeltsch, Die Selbständigkeit der Religion, cit., p. 366, trad. it. cit., p. 62. W. Dilthey, Der Streit Kants mit der Zensur über das Recht freier Religionsforschung, cit., p. 295. 7 E. Troeltsch, Die Selbständigkeit der Religion, cit., p. 366, trad. it. cit., pp. 62-63. 8 W. Dilthey, Der Streit Kants mit der Zensur über das Recht freier Religionsforschung, cit., p. 292. 9 Ivi, p. 297. 6

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tradizione di una religione positiva affidata ai suoi testi sacri, nel caso del Cristianesimo alla Bibbia, non dipende da «una narrazione storica» e dalla sua fondazione scientifica, ma «dalla sua provata capacità di fondare la religione nel cuore dell’uomo» – come Kant scrive ne Il conflitto delle facoltà10; e il principio, preparato da Leibniz e parimenti formulato da Lessing, per cui la fede storica rivelata è «un semplice veicolo» per la «fede religiosa pura», nella quale un giorno dovrebbe risolversi come nel suo «vero fine», ma per la quale continua ad essere indispensabile, finché vige la condizione sensibile-razionale della natura umana – come Kant suggerisce ne La religione nei limiti della semplice ragione11. 2. La religione ha per Kant uno statuto essenzialmente pratico; essa è posta in stretta relazione con la morale, costituendo, in certo senso, un rafforzamento pratico di quest’ultima. Ne La religione nei limiti della semplice ragione Kant prende l’avvio proprio dall’affermazione che la morale, di per sé, non ha bisogno di appoggiarsi sulla religione; essa è infatti fondata sull’idea dell’uomo come «essere libero» che «mediante la ragione» avverte il dovere di sottoporsi a leggi incondizionate, e perciò «non ha bisogno né dell’idea di un altro essere superiore all’uomo per conoscere il proprio dovere, né di un altro movente oltre la legge stessa per adempierlo»12. Tuttavia, Kant ritiene anche che senza il riferimento a un fine non può aver luogo nell’uomo una determinazione della volontà, dal momento che la volontà non può determinarsi e agire, senza avere un effetto. Per quanto il fine non possa essere «inteso […] come principio, ma [solo]come conseguenza necessaria delle massime adottate in conformità alle leggi»13, sarebbe non conforme alla ragione restare «indifferente» di fronte alla domanda su quale risultato possa scaturire dal rispetto della legge, dalla «buona condotta», e quale possa essere lo scopo del nostro agire. Quindi l’autodeterminarsi in base al dovere ha come conseguenza necessaria la posizione di un fine, che, per concordare con la legge morale, con la massima che si conforma alla legge morale, non può che essere «un oggetto tale da riunire in sé […] il dovere e […] la felicità corrispondente al compimento del dovere»14. La morale, nel suo attuarsi, comporta quindi «l’idea di un sommo bene nel mondo, la cui possibilità esige un essere morale supremo, santissimo e onnipotente, il solo capace di riunire in sé questi due elementi [dovere e felici10 Cfr. SF, AA VII 64, trad. it. I. Kant, Il conflitto delle facoltà, a cura di D. Venturelli, Morcelliana, Brescia 1994, p. 134. 11 Cfr. RGV, AA VI 116, 118, 121-124, trad. it. I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, in Id., Scritti morali, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1970, pp. 443, 445, 448-451. 12 RGV, AA VI 3, trad. it. cit., p. 323. 13 RGV, AA VI 3-4, trad. it. cit., pp. 323-324. 14 RGV, AA VI 5, trad. it. cit., p. 325.

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tà]»15. Resta però il fatto che l’idea di un Oggetto assoluto, di un sommo bene, e di un Essere supremo che lo fonda «deriva dalla morale e non ne è il fondamento»16. Per Kant vi è una finalità naturale nell’uomo, legata alla sua natura biologica e psicologica che è la felicità, e vi è una finalità libera legata alla sua natura razionale: l’idea del sommo bene e l’idea di Dio come fondamento di questo corrispondono al bisogno razionale di unire le due finalità17. Il presupposto su cui si fonda la concezione kantiana dell’intima connessione di morale e religione è la convinzione che è insito nell’uomo il bisogno di concepire un fine ultimo che scaturisca dall’adempimento dei doveri come sua conseguenza, cioè la creazione di un mondo conforme alla legge morale, come attuazione del bene supremo (cioè dell’adempimento del dovere morale). Proprio per questa convinzione si può affermare che la morale conduce quindi inevitabilmente alla religione, innalzandosi così all’idea di un legislatore morale onnipotente, al di là dell’uomo, nella volontà del quale consiste quel fine ultimo (della creazione di un mondo), che può e deve essere, al tempo stesso, il fine ultimo dell’uomo18.

Nascendo dalla ragione nel suo uso pratico, come transito della legge morale nella determinazione empirica della volontà, e garanzia dell’unificazione futura di felicità e virtù, la religione, in quanto naturale o razionale, è una sola, mentre sono diverse «le forme di fede nella rivelazione divina», vale a dire le forme di «raffigurazione sensibile della volontà divina», in grado di agire sull’anima, sulla coscienza empirica degli uomini. E tra le religioni positive o le forme di fede storiche «il Cristianesimo – scrive Kant – per quanto ne sappiamo, è la forma più adeguata»19. Questa tesi della possibile «coalizione» tra religione razionale e fede storica o rivelata sostenuta ne Il conflitto delle facoltà e che costituisce il filo conduttore anche de La religione nei limiti della semplice ragione, è stata delineata chiaramente da Kant nella lettera a Fichte del 2 febbraio del 1792, dove afferma che «una religione in generale non può contenere alcun altro articolo di fede se non quelli che lo sono anche per la sola ragione», ma, al tempo stesso, sostiene che questa tesi non contrasta con il riconoscimento della «necessità soggettiva di una rivelazione» e neppure con la fede nei miracoli, perché si può riconoscere che di fatto la rivelazione, anche mediante 15

Ibid. Ibid. 17 «Non può essere indifferente per la morale farsi o non farsi il concetto di un fine ultimo di tutte le cose»: «questo è l’unico mezzo per dare all’unione, per noi indispensabile, della finalità fondata sulla libertà e della finalità della natura una realtà oggettivamente pratica» (Ibid.). 18 RGV, AA VI 6, trad. it. cit., pp. 326-327. 19 SF, AA VII 36, trad. it. cit., p. 96. 16

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i miracoli, ha introdotto nella storia quei principi e quelle verità, che di per sé, anche da sola la ragione può acquisire»20. Altrettanto, già nella Risposta alla domanda: cos’è illuminismo? del 1784, applicando, per formulare un esempio, all’ecclesiastico la distinzione tra uso pubblico e uso privato della ragione, Kant implicitamente tocca il tema della distinzione tra religione storica (o rivelata o positiva) e religione razionale (o naturale o interiore) e, soprattutto, osserva che la religione rivelata, le sue dottrine, le sue pratiche religiose possono essere accolte in quanto non contrastano con la religione interiore, ma anzi possono giovarle, possono rafforzarne l’incidenza21. Un esempio della possibilità di armonizzare religione cristiana e religione razionale è offerto dalla riflessione sulla storia della caduta e della redenzione. Kant riprende la storia narrata dalla Sacra Scrittura della caduta ad opera dell’intervento del diavolo, di un essere superiore divenuto cattivo, che in quanto di natura spirituale vuole instaurare il suo dominio sulle anime e perciò spinge i progenitori degli uomini a ribellarsi al loro Signore, al principio del bene, stabilendo in questo modo il suo dominio su tutta la terra, trasformata nel «regno del male». Alla domanda sul perché Dio non sia a sua volta intervenuto contro l’angelo traditore Kant risponde: il dominio e il governo della suprema saggezza nei confronti di esseri ragionevoli ubbidisce al principio della libertà di questi esseri che debbono quindi imputare a se stessi ciò che accade loro di bene o di male22.

Tuttavia il principio del bene non scompare dal mondo, ma si manifesta solo attraverso un sistema di leggi che si impongono estrinsecamente, non intaccando l’intenzione interiore, sicché riemerge sempre il dominio del principio del male. Finché nel popolo ebraico, dove si era anche diffusa la dottrina della libertà della filosofia greca, non comparve «all’improvviso un personaggio la cui saggezza, più pura di quella dei filosofi anteriori, pareva discesa dal cielo»23, un uomo che appariva essere stato sottratto al patto che il genere umano, attraverso Adamo, aveva stipulato con il principio cattivo: Gesù come l’«uomo gradito a Dio» che seppe resistere «alle tentazioni del principio cattivo»24, e raccolse intorno a sé altri uomini che condividevano i suoi sentimenti. Si attirò l’odio del principio del male che lo fece perseguitare e condurre a morte. Ma la lotta tra i due principi aveva due lati: per un 20 Br, AA XI 321, trad. it. in I. Kant, Epistolario filosofico 1761-1800, a cura di O. Meo, il melangolo, Genova 1990, pp. 279-280. 21 Cfr. WA, AA VIII 40-41, trad. it. I. Kant, Risposta alla domanda: cos’è illuminismo?, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 47-48. 22 RGV, AA VI 79, trad. it. cit., p. 403. 23 RGV, AA VI 80, trad. it. cit., p. 404. 24 RGV, AA VI 80-81, trad. it. cit., p. 405.

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lato, quello reale, fattuale, il principio del bene viene sconfitto (fino alla morte in croce di Gesù); per l’altro lato, quello di diritto, il principio del bene ha la meglio: quel principio aveva preso dimora e affermato il suo diritto fin dall’origine dell’umanità, per cui quando è apparso in un uomo, in Gesù, si è proposto come modello a tutti gli uomini perché imitandolo si rendessero liberi, liberi dalla schiavitù del peccato; e Gesù, con il suo esempio, ha raccolto intorno a sé «un popolo interamente suo dedito alle buone opere»25. La morte di Gesù ha costituito «la manifestazione (Darstellung) del principio buono, ossia dell’umanità, nel pieno della sua perfezione morale, come un esempio da imitare per tutti»26. Tuttavia la vittoria non è completa, né definitiva; perché il principio del male continua a essere presente nel mondo. Ma lo si può contrastare imitando il modello di Gesù, cioè il modello dell’umanità nel pieno della sua perfezione morale. Il significato razionale della storia della salvezza è che l’uomo può riscattarsi dal male solo accettando intimamente, nella propria intenzione, i principi morali. A questa accettazione – osserva Kant – non si oppone la sensibilità, ma «una certa perversità», che, come ha chiarito precedentemente definendo il male radicale, consiste nell’inversione della subordinazione tra l’inclinazione all’amore di sé e la legge morale. Quanto ai miracoli che accompagnano l’introduzione della religione rivelata, Kant osserva che proprio la messa in evidenza della religione razionale e morale inclusa nella religione rivelata rende superflua la fede nei miracoli: la religione morale consiste, infatti, nella disposizione interiore a sottostare a tutti i doveri umani come a «comandamenti divini», che sono impressi dalla ragione nel cuore dell’uomo, sicché di fronte a questa consapevolezza non vi è più bisogno di credere nei miracoli. La religione razionale comporta che l’uomo agisca seguendo i precetti della ragione e ritenga che «ogni conversione e ogni miglioramento [dipendono] dai propri sforzi». Kant, quindi, non accoglie tra le massime del suo agire morale la fede nei miracoli e tuttavia non contesta «né la possibilità, né la realtà dei miracoli»27. 3. Restando ancora nell’ambito del concetto di religione, certamente la religione presuppone il concetto di Dio, che trova la sua definizione già nella Critica della ragione pura come oggetto della «teologia trascendentale». Qui Kant muove dal riconoscimento dell’«ideale» della ragione consistente nell’«idea di un totale della realtà (omnitudo realitatis)»28 che si rappresenta 25

RGV, AA VI 82, trad. it. cit., p. 407. Ibid., trad. it. cit., p. 406. 27 RGV, AA VI 88, trad. it. cit., p. 414. 28 KrV, B 604, trad. it. I. Kant, Critica della ragione pura, a cura, con Introduzione e note di G. Colli, Einaudi, Torino 1957, p. 606. 26

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nel concetto di un «ens realissimum», «condizione materiale suprema e compiuta della possibilità di tutto ciò che esiste, condizione cui dev’essere ricondotto ogni pensiero riguardante il contenuto degli oggetti in generale»29. Tuttavia, presupponendo questo «fondamento»30 della possibilità di tutte le cose, la ragione – avverte Kant – presuppone non già l’esistenza di un ente conforme all’ideale, bensì soltanto l’idea di esso, per poter dedurre da una totalità incondizionata della determinazione completa la totalità condizionata, cioè quella di ciò che è limitato31.

L’ipostatizzazione dell’ideale porta al concetto di un ente singolo come ens originarium, ens summum, ens entium, cioè al «concetto di Dio inteso in senso trascendentale», «oggetto di una teologia trascendentale»32. Questo concetto si rivela essere il prodotto di «un’illusione naturale», cioè di un’estensione che la ragione è portata a compiere naturalmente – oltre i limiti dell’esperienza – del «principio empirico dei nostri concetti della possibilità delle cose in quanto apparenze [Erscheinungen]» in «un principio trascendentale della possibilità delle cose in generale»33. Non si tratta di un’estensione arbitraria, ma di «una tendenza naturale», insita nell’intelletto e nella ragione stessa, a compiere il cammino che da un fenomeno contingente porta a un altro fenomeno che ne è la causa e prosegue fino a trovare una causa in sé necessaria e incondizionata34. E di questa tendenza a trovare «quell’ente, che contiene originariamente in sé la ragione sufficiente per ogni effetto possibile», Kant dà anche una prova antropologico-culturale, osservando che presso tutti i popoli […] noi vediamo mostrarsi, attraverso il loro più cieco politeismo, qualche scintilla tuttavia di monoteismo: a questo ultimo essi sono stati condotti, non già dalla riflessione e da una profonda speculazione, bensì soltanto da una tendenza naturale […] dell’intelletto comune35.

Sul piano speculativo questa tendenza naturale si esprime nelle prove dell’esistenza di Dio di natura empirica o puramente trascendentale: la prova fisico-teologica, la prova cosmologica, la prova ontologica. Prove, che Kant sottopone a critica, mostrando che tanto per la strada empirica, quanto per la strada trascendentale, la ragione non riesce a dimostrare l’esistenza di Dio, perché «invano essa spiega le sue ali, per librarsi sopra il mondo 29

Ibid., trad. it. cit., pp. 606-607. KrV, B 607, trad. it. cit., p. 609. 31 KrV, B 606, trad. it. cit., p. 608. 32 KrV, B 608, trad. it. cit., p. 609. 33 KrV, B 610, trad. it. cit., p. 611. 34 KrV, B 612, trad. it. cit., p. 613. 35 KrV, B 618, trad. it. cit., p. 617. 30

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sensibile semplicemente con la potenza della speculazione»36. Il concetto di Dio come suprema realtà non comporta secondo Kant la sua esistenza; il giudizio di esistenza infatti non è analitico, ma sintetico: Il nostro concetto di un oggetto può dunque avere un contenuto qualsiasi, ed esteso quanto si voglia, ma noi dobbiamo uscir fuori di tale concetto, per poter attribuire l’esistenza a questo oggetto37.

Certo, non si può escluderne l’esistenza come possibilità, tuttavia non c’è mezzo per dimostrarla nella sua realtà38. Ma non è solo «l’infelice prova ontologica»39 a cadere sotto la critica kantiana; essa investe parimenti la prova cosmologica, che nel suo nucleo argomentativo si riconduce alla prima. Tuttavia, «l’ideale dell’ente supremo», di cui non è possibile dimostrare l’esistenza, assume la funzione di principio regolativo della ragione, in base a cui si considera ogni congiunzione nel mondo come se provenisse da una causa necessaria, sufficiente per ogni cosa, allo scopo di fondare su tale causa la regola di un’unità sistematica, e necessaria secondo leggi universali, nella spiegazione del mondo40.

Altrettanto insostenibile si dimostra per Kant la prova fisico-teologica, che pure si pone su un sentiero diverso dalle altre due, cioè sul sentiero dell’«esperienza determinata», dell’esperienza «delle cose del mondo presente» o fenomenico, considerandone la «costituzione» e l’«ordinamento»41. Il mondo presente si presenta come una scena amplissima di realtà diverse, di ordinamenti, di armonie, di bellezze; «una catena di effetti e di cause, di fini e di mezzi, di regolarità nel nascere e nel perire»42. Nel risalire questa catena infinita, la ragione vedrebbe l’universo «sprofondare nell’abisso del nulla», se non ammettesse un ente originario, sussistente per se stesso, che non solo sia pensato come causa prima, ma anche come l’ente dotato della massima perfezione possibile: poiché riguardo alla causalità, noi abbiamo bisogno di un ente ultimo e supremo, che cosa ci impedisce allora di porre al tempo stesso tale ente, riguardo al grado di perfezione, al di sopra di ogni altra cosa possibile?43.

Si tratta della prova più antica, insita nel procedere naturale della ragione, una prova che – riconosce Kant – «merita sempre di essere nominata 36

KrV, B 619, trad. it. cit., p. 618. KrV, B 629, trad. it. cit., p. 625. 38 Ibid., trad. it. cit., pp. 625-626. 39 KrV, B 632, trad. it. cit., p. 627. 40 KrV, B 647, trad. it. cit., p. 639. 41 KrV, B 648, trad. it. cit., p. 640. 42 KrV, B 650, trad. it. cit., p. 642. 43 KrV, B 651, trad. it. cit., p. 642. 37

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con rispetto». Essa conduce alla fede in un supremo creatore ed «estende le nostre conoscenze della natura», lasciando scorgere nella natura una finalità, che l’osservazione scientifica non riuscirebbe a cogliere: alla ragione basta gettare uno sguardo alle meraviglie della natura, e basta ammirare la maestà dell’universo, per sollevarsi da grandezza a grandezza sino alla più alta di tutte, e dal condizionato alla condizione sino al creatore supremo e incondizionato44.

Ma nel compiere questo passaggio dalla grandezza del mondo fenomenico all’onnipotenza dell’ente supremo, dall’ordine del mondo alla sapienza divina, dall’unità del mondo all’unità assoluta e all’unicità del creatore, la prova fisico-teologica «abbandona l’argomentazione condotta mediante ragioni dimostrative empiriche», e ritorna ad adoperare «concetti trascendentali». L’inferenza – scrive Kant – procede dall’ordine e dalla finalità universalmente osservabili nel mondo, e intesi come una istituzione totalmente contingente, all’esistenza di una causa proporzionata a tutto ciò. Il concetto di questa causa, peraltro, deve farci conoscere riguardo ad essa qualcosa di completamente determinato; tale concetto non può quindi essere altro se non il concetto di un ente, che possiede – in quanto ente sufficiente a tutto – ogni potenza, ogni sapienza ecc., e in una parola ogni perfezione45.

Ma questo passaggio non può essere condotto per via empirica, e la prova fisico-teologica può raggiungere il suo scopo solo ricorrendo alla «ragione pura» e alla «prova ontologica dell’esistenza di un unico ente originario, inteso come ente supremo»46. Kant, quindi, riprendendo il risultato a cui era già pervenuto nello scritto del 1763, L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, conclude che la prova ontologica, che si svolge sulla via trascendentale operando con concetti puri della ragione, è l’unica prova possibile dell’esistenza di Dio sul piano teoretico o speculativo, ammesso che si possa ritenere possibile «una qualche dimostrazione di una proposizione sovrastante in tale misura ogni uso empirico dell’intelletto»47. Anche nello scritto del 1763 Kant aveva riconosciuto il valore pratico della prova fisico-teologica, allora identificata con quella cosmologica. Egli aveva affermato che la presenza nel mondo di «un’ammirevole comunione che domina tra gli esseri di tutto il creato», di una «varia armonia» che connette nature diverse, produce vantaggi e benefici che possono essere 44

KrV, B 652, trad. it. cit., p. 643. KrV, B 655-656, trad. it. cit., p. 646. 46 KrV, B 658, trad. it. cit., p. 648. 47 Ibid. 45

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considerati come «prove di un sommo autore saggio»48 e che dalla costatazione che nel mondo vi è molta perfezione, molta grandezza e molto ordine non possiamo non concludere che vi debba essere una causa dotata di «molta intelligenza, potenza, bontà»49. Tuttavia questo non consente di dimostrare in modo apodittico che questa causa abbia le proprietà dell’ente supremo, che sia, cioè, onnisciente, onnipotente e così via. Partendo dalla visione d’insieme dell’universo quale si dà nell’esperienza, possiamo ragionevolmente presumere che vi sia un autore unico, ma dal momento che noi conosciamo solo parzialmente la realtà, non possiamo dimostrare con assoluto rigore logico che anche la parte della realtà che ci è sconosciuta giustificherebbe questo risultato, che cioè vi sia un unico autore, creatore supremo del mondo, e soprattutto non si possono desumere con assoluto rigore logico le sue proprietà. Perciò Kant concludeva che la prova ontologica – che dall’idea di un ente possibile passa in modo assolutamente logico, puramente razionale, all’idea di un ente necessario che lo fonda, e quindi dalla totalità degli enti possibili all’ente necessario supremo, originario, autosufficiente, fondamento di tutto il possibile – fosse l’unica prova «capace del rigore richiesto in una dimostrazione»50. Altrettanto nella Critica della ragione pura Kant sostiene che la fisicoteologia non è in grado di definire «un concetto determinato della suprema causa del mondo» e quindi di fornire «un principio della teologia» che dovrebbe costituire il fondamento della religione51. E, come si è già accennato, Kant fa vedere come la prova fisico-teologica fa ricorso in ultima istanza alla prova ontologica. Senonché, lo scritto del 1763, pur sostenendo la superiorità della prova ontologica, come l’unico argomento per dimostrare l’esistenza di Dio, richiamava l’attenzione sul fatto che dal punto di vista dell’agire pratico dell’uomo, del suo comportamento morale, o, come pur si potrebbe dire dal punto di vista esistenziale, appariva preferibile la prova cosmologica, che includeva anche quella fisico-teologica. Infatti non vi è dubbio – affermava Kant – che è di maggiore importanza il ravvivare l’uomo con alti sensi fecondi di nobile attività, persuadendo nel tempo stesso il senso comune, anziché ammaestrare con ragionamenti accuratamente ponderati, soddisfacendo la più fine speculazione [, sic-

48 BDG, AA II 131, trad. it. I. Kant, L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, in Id., Scritti precritici, nuova ed. it. a cura di A. Pupi, Introduzione di R. Assunto, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 175-176. 49 BDG, AA II 160, trad. it. cit., 206. 50 BDG, AA II 161, trad. it. cit., p. 207. 51 KrV, B 656, trad. it. cit., p. 647.

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ché,] ad esser sinceri, non si può privare la […] prova cosmologica del vantaggio di una più universale utilità52.

Posizione questa, che Kant, suggerendo un primato dell’etica sulla speculazione, conferma nella conclusione del saggio, dove si dice che quel che è necessario è essere persuasi dell’esistenza di Dio, mentre «non è proprio così necessario» che questa esistenza venga dimostrata53. Nella Critica della ragione pura Kant, pur riprendendo molte argomentazioni dello scritto del 1763, porta alle estreme conseguenze la discussione delle prove dell’esistenza di Dio nella «critica di ogni teologia fondata su principi speculativi della ragione». Qui Kant distingue in primo luogo la teologia razionale da quella rivelata e poi suddivide la teologia razionale in teologia trascendentale e in teologia naturale. La teologia trascendentale fa riferimento a puri concetti della ragione, determinando il proprio oggetto, il concetto di Dio, come ens originarium, realissimum, ens entium. Per essa si può parlare di deismo. La teologia naturale si appiglia invece a concetti tratti dalla natura umana, come quelli di intelligenza e volontà, e per essa si può quindi parlare di teismo, che implica nella determinazione del concetto di Dio non solo il carattere dell’ente supremo, originario, causa del mondo, ma anche il carattere della personalità, del «Dio vivente»54: di essere intelletto e libertà e tramite questi caratteri di essere «il fondamento originario di tutte le altre cose», il «creatore del mondo». Ulteriori distinzioni significative vengono qui introdotte da Kant: la teologia trascendentale si presenta come cosmoteologia, che è fondata su concetti della ragione suscitati dalla considerazione di un’esperienza in generale di enti contingenti, condizionati, che rinviano in ultima istanza a un supremo ente necessario, incondizionato, oppure come ontoteologia, che opera soltanto con puri concetti della ragione senza far ricorso neppure all’idea di una esperienza in generale; la teologia naturale, a sua volta, si suddivide in teologia fisica, che risale «dall’ordine e dall’unità» presenti nel mondo a un supremo ente intelligente come «principio di ogni ordine e di ogni perfezione naturale», e teologia morale, che risale «dall’ordine e dall’unità» presenti nel mondo a un supremo ente intelligente come «principio di ogni ordine e di ogni perfezione morale» e fonda la convinzione dell’esistenza di Dio «su leggi morali»55.

52

BDG, AA II 161, trad. it. cit., p. 207. BDG, AA II 162, trad. it. cit., p. 209. 54 KrV, B 661, trad. it. cit., p. 650. 55 Ibid., nota, trad. it. cit., p. 650 nota 1. Per un approfondimento del contenuto della teologia trascendentale e della teologia morale sono da tenere presenti le due parti in cui si articolano le Lezioni di filosofia della religione pubblicate da Pölitz nel 1817 (I. Kant, Vorlesungen über die philosophische Religionslehre, hrsg. von K.H.L. Pölitz, Verlag der Taubert’schen Buchhandlung, Leipzig 1817, 18302) su cui è da vedere l’ampia e documentata Introduzione di Co53

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Ma ancor più rilevante è l’introduzione della distinzione tra conoscenza teoretica – conoscenza di ciò che esiste – e conoscenza pratica – conoscenza di ciò che deve esistere. Ora, per Kant, sul piano della conoscenza teoretica, su cui si muovono tanto la teologia trascendentale quanto la teologia naturale come teologia fisica, non vi è nessun modo di dimostrare l’esistenza di Dio, perché l’esistenza (non essendo un predicato, ma una posizione assoluta come Kant aveva ben chiarito nello scritto del 1763), non può essere ricavata analiticamente dal pensiero, e quindi può essere accertata soltanto nell’ambito dell’esperienza, in riferimento ad oggetti che si presentano nell’esperienza, cioè ad oggetti naturali, e non ad oggetti puramente ideali o soprannaturali; così come soltanto agli oggetti dell’esperienza, cioè ad oggetti naturali, è possibile applicare il principio di causalità. Nessuna esperienza è possibile dell’esistenza di un oggetto pensato come trascendente rispetto all’esperienza e all’intera connessione fenomenica che costituisce la natura: Comunque l’intelletto possa essere giunto a questo concetto [di un ente soprannaturale, di un ente originario, realissimo etc.], l’esistenza tuttavia dell’oggetto del concetto non può venir ritrovata analiticamente in questo ultimo, poiché la conoscenza dell’esistenza dell’oggetto consiste appunto nel fatto che esso viene posto per se stesso al di fuori del pensiero56.

Invece, l’esistenza di Dio viene postulata dalla ragione nel suo uso pratico, perché le leggi morali, conosciute a priori, e che risultano essere assolutamente necessarie, esigono necessariamente, per poter esplicare la loro forza vincolante, il presupposto dell’esistenza di un ente supremo57. Nella Critica della ragion pratica viene riconosciuto come «moralmente necessario» ammettere l’esistenza di Dio58. Infatti, il dovere, insito nella nostra ragione pratica, di promuovere il sommo bene nel mondo esige che il sommo bene sia possibile. Ma l’accordo di moralità e felicità non può essestantino Esposito alla traduzione italiana (I. Kant, Lezioni di filosofia della religione, a cura di C. Esposito, Bibliopolis, Napoli 1988, pp. 11-91). 56 KrV, B 667, trad. it. cit., p. 655. 57 Da questo punto di vista la teologia speculativa conserva il proprio valore, delineando l’ente supremo come «un semplice ideale»: «un concetto, questo, che conclude e corona tutta quanta la conoscenza umana, e la cui realtà oggettiva non può certo venir dimostrata per questa via, ma neppure può essere confutata» (KrV, B 669, trad. it. cit., p. 657); un concetto elaborato dalla teologia trascendentale che è indispensabile per la teologia morale. Cfr. in questo senso l’Introduzione alla filosofia della religione nelle Lezioni di filosofia della religione: «L’oggetto [della teologia] è troppo elevato per poterci speculare sopra, ed anzi, attraverso la speculazione possiamo essere indotti all’errore. Ma la nostra moralità ha bisogno di questa idea [di un essere supremo], che le dia vigore» (I. Kant, Vorlesungen über die philosophische Religionslehre, cit., p. 6, trad. it. cit., p. 103). 58 KpV, AA V 125, trad. it. I. Kant, Critica della ragion pratica, a cura di F. Capra, riveduta da E. Garin, Laterza, Bari 1955, p. 155.

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re realizzato dall’uomo in quanto soggetto appartenente alla natura, che non si lascia plasmare secondo i suoi desideri e le sue volontà. Per cui la possibilità del sommo bene esige che venga postulata «l’esistenza di una causa di tutta la natura, differente dalla natura, la quale contenga il principio […] dell’accordo esatto della felicità con la moralità»59. Questa causa suprema – dovendo assicurare la corrispondenza tra l’agire conforme alla legge morale e la felicità – deve esistere come un essere che è intelligenza e volontà: «un essere che, mediante l’intelletto e la volontà, è la causa (perciò l’autore) della natura, cioè Dio»60. Quindi il postulato dell’esistenza di Dio corrisponde a un bisogno del soggetto razionale che scaturisce dal suo agire conforme alla legge morale61. Tuttavia, l’ammissione dell’esistenza di Dio è un atto della ragione pura nel suo uso teoretico, rispetto al quale essa si pone come un’ipotesi. Mentre, in quanto si riferisce all’intelligibilità del sommo bene, di un oggetto, cioè, che ci è dato con la legge morale, questo postulato è il contenuto di una «fede razionale pura», ossia di una fede che scaturisce dalla semplice ragione62. Nella prospettiva etico-religiosa della fede razionale nell’esistenza di Dio si arricchisce anche il concetto di Dio, che non solo è pensato come l’ens realissimum, originarium, summum, o come causa prima, ma si presenta alla coscienza morale come il sommo bene originario, con gli attributi morali della santità, della saggezza, della beatitudine, della giustizia. Si può dire che la fede razionale nell’esistenza di Dio congiunge l’etica alla religione. Di per sé la legge morale non comporta la felicità, essa si attua nel semplice adempimento del dovere per il dovere. Ma il sommo bene a cui aspira la ragion pratica esige che alla virtù si unisca una corrispondente felicità, unione che non si raggiunge in questo mondo, dove il perseguimento della felicità, attraverso la soddisfazione delle inclinazioni e dei bisogni, spesso

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Ibid., trad. it. cit., p. 154. Ibid., trad. it. cit., p. 155. 61 L’insostenibilità delle prove teoretiche e la validità della prova morale vengono argomentate da Kant nei §§ 85-91 della Critica del giudizio; in particolare cfr. KU, AA V 450, 456, 466-474, trad. it. I. Kant, Critica del giudizio, a cura di A. Gargiulo, riveduta da V. Verra, Laterza, Bari 1963, pp. 334-335, 341-342, 354-363. Sulla rilevanza della dottrina dei postulati, si veda il saggio di M. Sriet, «Erkenntnis aller Pflichten als göttlicher Gebote». Bleibende Relevanz und Grenzen von Kants Religionsphilosophie, in Kant und die Theologie, hrsg. von G. Essen und M. Striet, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2005, pp. 162-186, in particolare pp. 178-182. 62 KpV, AA V 126, trad. it. cit., pp. 155-156. Come ha osservato acutamente Domenico Venturelli, «il concetto di Dio cui la teologia razionale conduce […] non soltanto conserva intatta la propria possibilità logica, ma acquista una necessità più alta ed il suo senso vero solo dal punto di vista della filosofia pratica» (D. Venturelli, Critica delle prove di Dio e teologia autentica in Kant, in Testi e studi di storia e filosofia del linguaggio religioso, a cura di C. Angelino e E. Salvaneschi, il melangolo, Genova 1984, p. 121). 60

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GIUSEPPE CANTILLO

contrasta con il perseguimento della virtù. Se è vero che quest’ultima è la condizione che rende possibile il bene sommo, è altrettanto vero che Kant – come dimostra la sua critica all’etica stoica63 – ritiene indispensabile per il conseguimento dello scopo della ragion pura pratica (il sommo bene), l’aggiungersi della felicità alla virtù. Sicché nella moralità stessa è insita l’aspettativa di una felicità ad essa proporzionata. Nasce di qui il postulato dell’immortalità dell’anima, che, assieme al postulato dell’esistenza di Dio, apre la possibilità di sperare in un futuro raggiungimento del sommo bene. In questo stesso luogo della Critica della ragion pratica troviamo espresso il nucleo della concezione kantiana della religione. La religione scaturisce dalla morale in quanto è la «conoscenza di tutti i doveri come comandamenti divini»64. Questi comandamenti però non sono prescrizioni imposte dall’esterno da una volontà estranea, ma sono autodeterminazioni di ogni volontà libera, che però, in vista del conseguimento del sommo bene, devono venire accolti come comandamenti dell’essere supremo. Infatti, nella situazione di questo mondo terreno e della natura umana finita e affetta dal male radicale, solo accordando le nostre volizioni con la volontà dell’essere supremo – con la sua «volontà moralmente perfetta (santa e buona), e nello stesso tempo anche onnipotente» – «possiamo sperare [di conseguire] il sommo bene, che la legge morale ci fa un dovere di porre come oggetto dei nostri sforzi»65. 4. Nella Tugendlehre del 1797 Kant precisa ulteriormente il rapporto tra religione e morale, in modo tale però che la religione razionale appare coincidente con l’elemento formale della religione e, in quanto tale, entra a far parte della «morale filosofica». L’elemento formale della religione consiste nel riconoscimento che essa è «l’insieme di tutti i doveri in quanto comandamenti divini»66. Con ciò viene espressa la relazione dei doveri umani «a una volontà divina, data a priori», all’idea di Dio, di cui però non si determina ancora l’esistenza al di fuori della coscienza dell’uomo. Per cui la relazione dei doveri verso Dio si rivela essere una relazione verso l’uomo stesso, verso la sua essenza, un’obbligazione non oggettiva, ma «soltanto soggettiva e in grado di rafforzare la disposizione morale all’interno della ragione legislatrice»67. Quanto al contenuto della religione, cioè «l’insieme dei doveri verso Dio o il servizio che gli deve essere prestato (ad praestandum)», non può essere dedotto dalla ragione, non ci è dato a priori, ma solo nell’espe63

KpV, AA V 127, trad. it. cit., pp. 156-157. KpV, AA V 129, trad. it. cit., p. 159. 65 Ibid. 66 MS, AA VI (Zweiter Theil. Metaphysische Anfangsgründe der Tugendlehre) 487. 67 Ibid. 64

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rienza, attraverso la rivelazione, che è un evento storico. Questi doveri come comandamenti divini presuppongono non solo l’idea di Dio e il postulato della sua esistenza da parte della ragion pratica, ma altrettanto l’esistenza (Dasein) di Dio che si presenta unicamente nell’esperienza della fede religiosa come un dato della rivelazione. Perciò, per quanto connessa con la morale filosofica, e in continuità con essa quanto al suo concetto, al suo «elemento formale», la religione – afferma Kant – «come dottrina dei doveri verso Dio si situa al di là dei limiti dell’etica puramente filosofica»68. La trattazione della religione, non solo dal punto di vista del suo concetto, in quanto idea della ragione, ma ad un tempo dal punto di vista del contenuto, travalica «l’atmosfera rarefatta» del trascendentale e implica necessariamente il ricorso all’esperienza e alla storia. E in questo spazio tra apriori e storia Kant – in modo molto chiaro alla fine della Tugendlehre – situa La religione nei limiti della semplice ragione. Essa costituisce appunto il luogo specifico di una trattazione scientifica della religione, che però non può essere dedotta dalla semplice ragione, ma ad un tempo è fondata su dottrine storiche e rivelate, e contiene soltanto l’accordo della pura ragione pratica con queste dottrine (o implica almeno che queste ultime non siano contrastanti con la ragione pratica)69.

Non si tratta quindi di una dottrina pura della religione, come svolgimento analitico a partire dal concetto razionale di religione, ma di una dottrina della religione applicata ad una storia determinata da cui il concetto di religione assume il suo contenuto. In altri termini si tratta, come ha ben suggerito Costantino Esposito, «del passaggio da una pura idea “pratica” della religione ad una sua applicazione “critica” alla religione positiva, il cui contenuto è ridotto entro i limiti della sola ragione»70. L’obiettivo e i confini della ricerca condotta da Kant ne La religione nei limiti della semplice ragione sono precisati dallo stesso Kant nella lettera a Carl Friedrich Stäudlin del 4 maggio 1793. Qui egli definisce il posto de La religione dal punto di vista sistematico. La «filosofia pura», nel suo insieme, deve rispondere a tre domande: «1) Che cosa posso sapere? (metafisica); 2) Che cosa debbo fare? (morale); 3) Che cosa mi è lecito sperare? (religione)». E l’intero percorso sistematico, sulla base delle risposte date alle pri68 MS, AA VI 487-488. Come Kant spiega nell’annotazione conclusiva, questa impossibilità di inserire la trattazione della religione nell’etica filosofica si conferma se noi consideriamo l’impossibilità di comprendere concettualmente dal punto di vista morale la relazione tra Dio e gli uomini. Infatti se è vero che le relazioni morali tra enti razionali si possono riportare fondamentalmente all’amore e alla giustizia, le modalità di queste relazioni si impigliano in contraddizioni quando il rapporto non è tra uomini, ma tra Dio e gli uomini (cfr. ivi, pp. 488491). 69 Ivi, p. 488. 70 C. Esposito, Introduzione a I. Kant, Lezioni di filosofia della religione, cit., p. 37, nota 39.

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me tre domande dovrebbe poi concludersi nella risposta alla quarta domanda: «Che cosa è l’uomo? (antropologia, sulla quale ormai da più di vent’anni faccio annualmente un corso)»71. Alla terza domanda intende rispondere La religione, il cui obiettivo è quello di «esporre apertamente», in modo assolutamente trasparente, senza infingimenti e sotterfugi («con acconcia franchezza», senza «celare nulla») «il modo in cui credo di intendere la possibilità dell’unione della religione cristiana con la più pura ragione pratica»72. Un ulteriore approfondimento Kant fornisce nella lettera di tre giorni dopo (7 maggio 1793) al teologo cattolico, Matern Reuss. In essa Kant appare in primo luogo preoccupato di distinguere nettamente la riflessione filosofica sulla religione dalla teologia ecclesiale. Kant dichiara, infatti, che il suo scritto è «un trattato di contenuto teologico, dal punto di vista filosofico, e non propriamente biblico» e precisa che l’obiettivo è quello di mostrare non già quale fede debba avere «l’uomo in generale», ma soltanto di definire «quale fede debba e possa avere colui che, in materia di religione, si fonda puramente sulla ragione». Quindi l’obiettivo è la definizione della fede razionale pura: «essa dunque poggia interamente su principi a priori»73. Rispetto a questo contenuto puramente razionale e apriorico della fede, è «lasciato agli uomini che vogliono unirsi in una Chiesa indagare i mezzi per la realizzazione di questa idea», che vuol dire riferirsi alla fede storica in una rivelazione, in cui Dio ha mostrato nell’esperienza storica il suo «reggimento morale del mondo»74. Ma anche questa più netta distinzione di livelli su cui si dispongono teologia filosofica e teologia ecclesiastica, sia pure con un ragionamento più complesso, confluisce nella tesi di una possibile coalizione tra esse. «Proprio per questo – scrive Kant – il teologo che sia puramente filosofo non ha preclusioni nei confronti di ciò [dei mezzi adottati da Dio nel suo reggimento del mondo] e della rivelazione, purché quanto la rivelazione prescrive non pregiudichi ciò che la ragione esige con forza, in quanto è inerente all’intenzione morale pura»75, cioè non pregiudichi il rispetto della legge morale con tutto quanto è richiesto dal suo adempimento. Certo, la realizzazione del disegno della salvezza proposto dalla rivelazione può esigere «mezzi» che non sono insiti nella ragione pratica e nell’adempimento della legge morale che è oggetto dell’intenzione umana. Sembrerebbe quindi inevitabile una divaricazione tra fede razionale 71

Br, AA XI 429, trad. it. in I. Kant, Epistolario filosofico, cit., p. 319. Il testo della lettera a Stäudlin sopra citato rinvia chiaramente alla Critica della ragione pura, seconda sezione del secondo capitolo della Dottrina trascendentale del metodo, KrV, B 832-834, trad. it. cit., pp. 785-787. 72 Ibid., trad. it. in I. Kant, Epistolario filosofico, cit., p. 320. 73 Br, AA XXIII 497, trad. it. in I. Kant, Epistolario filosofico, cit., p. 322. 74 Ibid. 75 Ibid., trad. it. in I. Kant, Epistolario filosofico, cit., pp. 322-323.

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e religione rivelata; senonché, conclude Kant, «una volta presupposto quell’accordo della rivelazione con la ragione», è possibile utilizzare quei mezzi anche da parte del teologo che si fonda sulla pura filosofia76. In un primo frammento di una bozza della lettera Kant afferma in modo netto che la religione, fondata sulla ragione, la fede razionale, ha una «validità» universale nei confronti di tutte le possibili configurazioni storiche della religione. Ma osserva poi che, per quanto concerne l’attuazione dell’idea della religione, essa accade in forme differenti, sicché sul piano storico-empirico l’uomo con il suo sentimento – con il «cuore» – può rivolgersi alla «fede empirica in una qualsiasi rivelazione», anche se, «quando si trova che la rivelazione è in accordo [con la fede fondata sulla ragione], esso [il cuore] è conservato aperto per quella…[la bozza si interrompe]», cioè – credo che questo voglia suggerire Kant – per quella rivelazione o religione positiva che è in accordo con la fede razionale, e che è il Cristianesimo, sul cui simbolismo religioso si esercita la riflessione di Kant specialmente nella quarta parte de La religione, al fine di fare emergere proprio questo accordo. Molto significativo è il secondo frammento della bozza della lettera a Matern Reuss. Qui Kant accenna molto chiaramente a un territorio della fede posto oltre il potere della ragione, per accedere al quale non si può fare altro che attendere «l’assistenza soprannaturale del Cielo». In questo senso appaiono confermate le osservazioni di Jean- Louis Bruch, secondo cui [la ragione] resta muta sull’esistenza e la natura del contributo che Dio può dare all’uomo in vista della sua salvezza. La ragione non può fare altro che delimitare un’area di credenze possibili dal punto di vista morale e distinguerle dalle credenze superstiziose. Il che significa che, se la ragione interviene per definire e ratificare una religione entro i suoi limiti, e nello stesso tempo condannare ogni forma di fede incompatibile con le sue esigenze, essa interviene parimenti per autorizzare delle credenze che non riuscirebbe direttamente a giustificare, e dare ad esse indirettamente un senso77.

A rigore, la religione vera, per Kant, è una sola, ed è la religione fondata sulla ragione; anzi si può dire che il termine religione dovrebbe indicare propriamente soltanto la religione razionale o naturale, nel senso di insita nell’uomo in quanto ente di ragione: quella rivelazione interiore, cioè, che Dio ha offerto in modo non empirico, ma trascendentale, a tutti gli uomini, in quanto soggetti razionali in grado grazie alla libertà di distaccarsi dal determinismo naturale78. Le religioni positive o meglio le fedi storiche, legate a una determinata rivelazione, ad un determinato culto, ad una determinata chiesa, in ciò che 76

Ibid., trad. it. in I. Kant, Epistolario filosofico, cit., p. 323. J.-L. Bruch, La philosophie religieuse de Kant, Aubier, Paris 1968, pp. 34-35. 78 Cfr. RGV, AA VI 122, 154, trad. it. cit., pp. 449, 483. 77

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hanno di universalmente valido confluiscono nell’unica religione razionale pura, e la loro validità dipende proprio dal grado di purificazione dagli elementi naturali, storici, accidentali, particolaristici, e di partecipazione al contenuto della «religione universale». 5. Nella riflessione sul rapporto tra religione rivelata e religione razionale, e nel suo esito nell’indicazione della possibilità che la religione rivelata si disciolga per dir così nella religione razionale, domina senza dubbio un atteggiamento illuministico di fiducia nelle potenzialità dell’umanità. O, come forse è preferibile dire, l’oscillazione del pendolo tra il riconoscimento dell’originaria disposizione al bene e quello della presenza nella natura umana di un male radicale cade di più sul lato della disposizione al bene, in modo da dar vita alla speranza in «un ordine di cose nuovo»79. Ma la visione antropologica kantiana resta fondamentalmente legata a quella oscillazione, cioè alla convinzione della compresenza nella natura umana del principio del bene e del principio del male e della qualificazione dell’esistenza umana come terreno di lotta tra i due principi, tanto nella coscienza di ogni uomo, quanto anche nella storia. Se il transito dalla morale alla religione ha come suo fondamentale motivo l’esigenza della ragion pratica di pervenire al sommo bene, il transito dalla disposizione alla religione naturale o razionale alla religione rivelata (che in un certo senso può configurarsi egualmente come il transito dalla morale alla religione) è legato essenzialmente alla domanda che Kant si pone a proposito dell’attuazione dell’«idea sublime» della «comunità etica» concepita come «un popolo di Dio, retto secondo le leggi della virtù»: «Com’è possibile – si chiede Kant – sperare di ricavare da un legno così nodoso qualcosa di perfettamente diritto?»80. La vera e propria attuazione della comunità etica non può essere opera degli uomini, ma soltanto opera di Dio, e si lascia pensare come una «chiesa invisibile», cioè come la semplice idea dell’«unione di tutti i giusti sotto il governo immediato ma morale di Dio». Essa costituisce l’archetipo, il modello della «chiesa visibile» che è «l’unione effettiva degli uomini in un tutto che concordi con questo ideale»81. L’adesione della chiesa visibile alla chiesa invisibile resta anch’essa un ideale, perché l’attuazione della fede razionale pura inciampa inevitabilmente nel limite «della debolezza particolare della natura umana»82. Sicché alla base della religione rivelata e della sua rilevanza nella storia umana e nella vita degli uomini vi è l’avvertimento dell’impotenza dell’uomo a rea79

Ibid. RGV, AA VI 100, trad. it. cit., p. 426. 81 RGV, AA VI 101, trad. it. cit., p. 426. 82 RGV, AA VI 103, trad. it. cit., p. 428. 80

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lizzare la sua disposizione originaria al bene, la consapevolezza della presenza nella natura umana di un principio del male. La dottrina del male radicale assume perciò un rilievo particolare ne La religione nei limiti della semplice ragione83. Karl Jaspers ha affermato che il concetto di male radicale introdotto da Kant nel libro del 1793, ne costituisce «la pietra d’angolo»84. Certamente, la dottrina del male radicale e quelle ad essa collegate della redenzione, della grazia, della chiesa, della figura di Gesù, risultano centrali nei quattro saggi confluiti ne La religione e, molto al di là di estrinseci avvicinamenti che sa-

83 Un rilievo particolare, su cui si è ampiamente esercitata la Kant-Forschung, che si è spesso posta la questione della discontinuità, chiedendosi se l’ampia riflessione dedicata al male radicale ne La religione, sia il segno di un mutamento, se non di una svolta, nello sviluppo del pensiero kantiano, della sua concezione dell’uomo, con il prevalere di un’antropologia decisamente pessimistica di matrice luterana, e della recezione della dottrina cristiana del peccato originario, la cui critica si restringerebbe soltanto al rifiuto della dottrina della ereditarietà. Si veda su questo tema – anche per gli opportuni riferimenti bibliografici – l’eccellente saggio di G. Ferretti, Il male radicale e la sua redenzione, in Immanuel Kant. Filosofia e religione, a cura di D. Venturelli e A. Pirni, Editrice Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2003, pp. 93-128. Su differenze e convergenze tra le Lezioni di filosofia della religione e La religione nella concezione del male si vedano le considerazioni di C. Esposito nella citata Introduzione alla traduzione italiana delle Lezioni (I. Kant, Lezioni di filosofia della religione, cit., pp. 84-91). Su libertà e male radicale cfr. M. Ravera, Itinerari kantiani. Riflessioni su libertà e natura fra la terza antinomia e il male radicale, in «Annuario Filosofico», 13, Mursia, Milano 1997, pp. 59-87, in particolare pp. 73-82. 84 K. Jaspers, Das radikale Böse bei Kant, in Id., Rechenschaft und Ausblick. Reden und Aufsätze (1951), Piper, München 1958, p. 107. Jaspers ricorda l’aspra critica di Goethe alla dottrina del male radicale. «Quando nel 1793 – scrive Jaspers – apparve “Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft” di Kant […] Goethe scrisse a Herder la ben nota frase secondo cui Kant avrebbe “imbrattato il suo mantello filosofico ignominiosamente con la macchia del male radicale”»; e ricorda che anche «Schiller definì “vergognoso” l’assunto kantiano di una tendenza al male radicale». Del resto non potevano non risultare inaccettabili per l’umanismo della cultura illuministica e dello Sturm und Drang le «apparentemente strette relazioni» della dottrina del male radicale con le dottrine cristiane del peccato originario, della grazia, della redenzione (rinascita). Senonché – osserva Jaspers – Kant non intendeva porsi né dalla parte della religione cristiana, dal momento che il suo pensiero si sviluppava indipendentemente da ogni rivelazione, né dalla parte del pensiero umanistico («Humanität»), «perché egli gettava lo sguardo in un abisso [Abgrund], dal quale la mentalità dell’umanismo estetico era solito ritrarsi» (ibid.). Tuttavia non si può negare una oggettiva prossimità con la dottrina cristiana del peccato originale e quindi – come ha osservato Ferretti – l’allontanamento «dall’ottimismo razionalistico dei lumi», che era ancora predominante nella interpretazione che della dottrina del peccato originale Kant aveva dato nello scritto del 1786, Inizio congetturale della storia degli uomini: il peccato originale ne La Religione «non coinciderà più con la nascita allo stato di ragione, e correlativa possibilità di abusarne, ma consisterà in una vera e propria scelta malvagia positiva, che tocca pervertendolo il fondamento stesso dell’agire morale» (G. Ferretti, Il male radicale e la sua redenzione, cit., p. 105, ma cfr. pp. 101-105).

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rebbero stati dettati da preoccupazioni rispetto alla censura85, accentuano in modo decisivo il confronto della riflessione kantiana con la religione cristiana e il significato che quest’ultima ha per la stessa concezione kantiana della religione. Come è stato osservato da Ernst Troeltsch, Kant non intendeva proporsi un’interpretazione allegorica del cristianesimo, arbitraria e applicata dall’esterno, bensì un’interpretazione in base alle idee di fondo essenziali e autentiche del cristianesimo, che appunto costituisce l’irruzione della religione pura nella storia, e ha bisogno solo che vengano eliminati i resti di soprannaturalismo antropomorfico nel dogma e nel culto che ancora ineriscono al cristianesimo86.

Nello svolgimento di questa ermeneutica della religione rivelata rivolta a trovare gli elementi di accordo con la religione razionale, Kant arricchisce e perfeziona la sua stessa filosofia della religione, in particolare attraverso la dottrina del male radicale e quella della comunità etico-religiosa. Al tempo stesso si viene precisando la sua concezione dell’uomo, fortemente segnata dalla consapevolezza della finitezza della natura umana e della stessa ragione87, e dalla convinzione della «compresenza» nell’esistenza umana «del principio del male accanto a quello del bene». Per Kant, alla fine, la natura dell’uomo non è né tutta buona, né tutta cattiva. Certo, sul piano trascendentale, la disposizione al bene e la tendenza al male si contrappongono in modo assoluto; ma sul piano fenomenico, storico-empirico, vige – come ha osservato Troeltsch – «una contiguità conflittuale di bene e male»88. Ne Il conflitto delle facoltà lo stesso Kant richiama l’attenzione sul fatto che «il bene e il male sono mescolati nella costituzione [umana]», e lo sono in una misura che la ragione umana non conosce, sicché non può prevederne gli effetti89. Questa mescolanza deriva da un dualismo ontologico che le cautele critiche non possono nascondere: nell’Inizio congetturale della storia degli uomini Kant lo esplicita, affermando che «la natura ha posto in noi due disposizioni per due differenti fini, ossia la disposizione dell’umanità come genere animale e della medesima come genere morale»90. In questa costitu85 Cfr. E. Troeltsch, Das Historische in Kants Religionsphilophie. Zugleich ein Beitrag zu den Untersuchungen über Kants Philosophie der Geschichte, «Kantstudien», 9 (1904), pp. 6774, trad. it. L’elemento storico nella filosofia della religione di Kant. Contributo alle ricerche sulla filosofia della storia di Kant, in E. Troeltsch, Religione, storia, metafisica, a cura di S. Sorrentino, Presentazione di G. Cantillo, Libreria Dante & Descartes, Napoli 1997, pp. 235-244. 86 E. Troeltsch, Das Historische in Kants Religionsphilophie, cit., p. 78, trad. it. cit., p. 250. 87 Cfr. K. Jaspers, Das radikale Böse bei Kant, cit., pp. 127, 129-130. 88 E. Troeltsch, Das Historische in Kants Religionsphilophie, cit., p. 83, trad. it. cit., p. 255; RGV, AA VI 19-25, trad. it. cit., pp. 337-344. 89 SF, p. 84, trad. it. cit., p. 163. 90 MAM, p. 116, Anm., trad. it. I. Kant, Inizio congetturale della storia degli uomini, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, cit., p. 110, nota.

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zione ontologica, ciò che rende la natura «umana» è il «principio soggettivo» – il principio che è insito nel soggetto, nell’uomo in quanto soggetto razionale. In quanto è ragione, riflessione, l’uomo si distanzia dall’immediata vita naturale animale, regolata dalle inclinazioni e dai bisogni vitali, prende congedo dallo stato di natura91, dominato dalla necessità e perciò moralmente indifferente, e acquista la libertà, il potere di scegliere e quindi la responsabilità delle proprie azioni. Il principio secondo cui il soggetto agisce liberamente è un principio a priori. Un principio che è esso stesso “un atto di libertà”: se non fosse così, non si potrebbe imputare al soggetto l’uso o l’abuso della propria libertà, del proprio libero arbitrio, e quindi il conformarsi o meno alla legge morale; sicché si può dire che per Kant «natura umana» vuol dire essenzialmente «essere libero». In quanto imputabile all’uomo, il male proviene dalla libertà, dallo stesso principio da cui si effonde anche il bene. Il principio del male, quindi, non può trovarsi in un impulso naturale, sensibile, che determini il libero arbitrio dall’esterno, ma proprio in una modificazione del libero arbitrio, in una regola che il libero arbitrio dà a se stesso, in un principio soggettivo dell’agire. Se ci chiediamo che cosa spinge l’uomo a scegliere una massima anziché un’altra, una massima buona o una massima cattiva, non possiamo far ricorso a cause oggettive, naturali, esterne, perché negheremmo la libertà,e quindi dovremmo risalire a un’altra massima, a un altro atto di libertà, e così via all’infinito. In questo senso si dice che bene e male sono “innati” nell’uomo: perché «egli porta in sé un principio primo (per noi impenetrabile) in virtù del quale adotta massime buone o cattive (contrarie alla legge)»92. Il male radicale è la tendenza – insita nella radice stessa dell’essere uomo, nella libertà – ad essere un atto che produce un agire difforme dalla legge, anche se non si riesce a spiegare come insorga nella volontà che è in sé buona questa tendenza ad agire contro la legge morale, cioè a subordinarla ad altri moventi della volontà. Nella fenomenologia della tendenza al male Kant enumera tre gradi: la «fragilità [Gebrechlichkeit] (fragilitas) della natura umana», per cui la volontà si mostra debole nel met91 Ne La religione Kant fa vedere come nello stato di natura, da vari filosofi ritenuto come attestazione della bontà dell’uomo, si diano «scene di ferocia crudele […], massacri continui», violenze inaudite e gratuite («senza che nessuno ne tragga il minimo utile»), «vizi e brutalità» in misura molto maggiore di quella che servirebbe a smentire la tesi della bontà naturale. Altrettanto il male è presente nello stato di civiltà, dove tanti vizi si celano anche dietro le virtù, «vizi della cultura e della civiltà», e dove sul piano internazionale continua a dominare lo stato di natura, che si configura come una guerra perpetua tra gli Stati: «sicché il chiliasmo filosofico che spera in uno stato di pace perpetua, fondato su una lega dei popoli come repubblica mondiale, è deriso da tutti come stravaganza, non diversamente dal chiliasmo teologico che aspetta il miglioramento morale totale dell’intero genere umano» (RGV, AA VI, pp. 33-34, trad. it. cit., pp. 353-355). 92 RGV, AA VI 21, trad. it. cit., pp. 339-340.

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tere in pratica le buone massime, i buoni principi adottati; «l’impurità [Unlauterkeit] (impuritas, improbitas) del cuore umano», che porta a mescolare moventi morali e immorali o ad agire conformemente alla legge, ma non rispettando il dovere esclusivamente per il dovere; la vera e propria «malvagità [Bösertigkeit (vitiositas, pravitas)] della natura o del cuore umano», cioè «la tendenza del libero arbitrio [ad assumere] massime che pospongono i moventi tratti dalla legge morale ad altri moventi (non morali)»93. Lo stoicismo aveva identificato il principio cattivo, contro cui la virtù deve lottare, con le inclinazioni naturali, indisciplinate. In realtà, per Kant si tratta di un «principio cattivo», di «un nemico in certo modo invisibile, nascosto dietro la ragione, quindi più pericoloso». Il nemico agisce parimenti come una decisione della volontà, un atto del libero arbitrio; è «la cattiveria [Bosheit] (del cuore umano) che manda in rovina nascostamente l’intenzione mediante principi corruttori dell’intenzione»94. Dal momento che la morale si impone all’uomo immediatamente, per la disposizione che gli è propria in quanto soggetto razionale, l’altro elemento che compone la natura umana, cioè la sensibilità e i moventi che da essa provengono, accolti nel principio soggettivo dell’amor di sé, deve subordinarsi alla legge morale, al principio dell’universalizzazione della massima; l’amore di sé deve subordinarsi all’amore di Dio. La bontà o la cattiveria non dipendono dall’assumere l’uno o l’altro principio, perché la natura umana non può fare a meno di nessuno dei due, ma dipendono da come si ordinano: se i moventi della sensibilità, le inclinazioni, le passioni, si lasciano subordinare alla legge morale, se prevale l’amore di Dio, l’uomo è buono; se invece si verifica l’inversione dell’immediata disposizione al bene, per 93

RGV, AA VI 29-30, trad. it. cit., p. 349. RGV, AA VI 57, trad. it. cit., pp. 377-378. Più precisamente il male sta in ciò che determina la volontà, intesa come libero arbitrio, spingendola a cedere alle inclinazioni indisciplinate: «il vero male consiste […] nel non volere resistere alle inclinazioni quando spingono alla trasgressione, ed è questa intenzione il vero nemico» (RGV, AA VI 58 Anm., trad. it. cit., p. 378 nota). Kant a questo proposito fa riferimento alle parole di «un apostolo»: «Non dobbiamo lottare contro la carne e il sangue (cioè contro le inclinazioni naturali) ma contro prìncipi e potenze, contro gli spiriti malvagi»» (RGV, AA VI 59, trad. it. cit., p. 380; Paolo, Lettera agli Efesini, 6, 11-12: «Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celeste»). E in nota osserva che l’opposizione nell’etica cristiana non è tra cielo e terra, ma tra cielo e inferno: e, malgrado si possa contestare questa figura, dal punto di vista filosofico essa esprime una giusta considerazione secondo cui non vi è contatto, partecipazione tra bene e male, ma, piuttosto, li separa «un abisso incommensurabile» (RGV, AA VI 59, Anm., trad. it. cit., p. 380, nota). Con questo ricorso al principio del male – avverte Kant – non si estende la conoscenza oltre l’esperienza, ma si rende «intuitivo per l’uso pratico il concetto di una cosa per noi impenetrabile», qual è il fatto che la disposizione originaria alla legge morale viene rovesciata e la legge morale viene subordinata alle inclinazioni sensibili. 94

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cui prevalgono i moventi della sensibilità, se prevale in modo assoluto l’amore di sé, fino all’egoismo, subordinando a sé i comandamenti morali e divini, allora l’uomo è cattivo. Ora se nella natura umana, per quanto in modo incomprensibile, vi è una tendenza a capovolgere la subordinazione tra il movente della legge morale e i moventi provenienti dalla sensibilità, allora si deve ammettere che v’è un male radicale, perché corrompe la radice, il fondamento di tutte le massime (cioè la legge morale, la disposizione al bene) e perché, di conseguenza, non può essere sradicato dall’uomo stesso95. Kant afferma però che questa tendenza al male dev’essere vinta, anzi «deve poter essere vinta, perché opera nell’uomo in quanto essere che agisce liberamente»96. Ma se la tendenza al male non può essere sradicata, come è possibile proporsi la redenzione degli uomini, la restaurazione del rispetto della legge morale? Nel tentare di dare una risposta a questo interrogativo, si deve tener conto della distinzione che Kant fa tra disposizione e tendenza, per cui solo la disposizione è originaria e data immediatamente con l’essere stesso del soggetto a cui si riferisce. La tendenza invece non è originaria ma si instaura a partire da un evento97. Perciò, pur essendo la tendenza al male radicale insita nella natura umana, poiché l’uomo è un essere libero, può anche non sottostare alla tendenza stessa, e seguire invece la disposizione originaria al bene, cioè obbedire alla legge morale, rispettare il dovere. In questo senso mi sembra condurre l’affermazione di Kant: «Qui ci troviamo in pieno accordo col metodo seguito dalla Scrittura che rappresenta l’origine del male come un inizio del male nella specie umana»98. Non c’è una tendenza verso il male già in atto a suo fondamento; se fosse così il male non sarebbe il risultato di un atto libero e quindi non sarebbe imputabile, esso nasce invece dal peccato, cioè dalla trasgressione del comando divino che sta qui per la legge morale; l’uomo è dapprima in uno stato di innocenza, poi insorge il peccato e con esso ha inizio il male. Poiché la nostra coscienza morale non è più incorrotta, il primo atto morale dell’uomo, 95 Cfr. RGV, AA VI 36-37, trad. it. cit., pp. 356-357. Già nella lettera a Lavater del 28 aprile 1775 si può rintracciare il germe della dottrina del male radicale, là dove Kant contrappone alla santità della legge divina – che coincide con la legge morale – «il male insuperabile del nostro cuore» e spiega tutta la storia degli interventi da parte di Dio narrati nel Vangelo come il necessario aiuto che Dio ha dato «alla nostra fragilità in vista della nostra giustificazione». (Br, AA X 176, trad. it. in I. Kant, Scritti di filosofia della religione, a cura di G. Riconda, Mursia, Milano 1994, p. 48). Sull’importanza della lettera a Lavater, più in generale, per la concezione kantiana della religione e del rapporto tra religione razionale e religione cristiana ha richiamato l’attenzione Giuseppe Riconda nella sua introduzione al volume citato (pp. 5-7). 96 RGV, AA VI 37, trad. it. cit., p. 357-358. 97 Cfr. RGV, AA VI 28-29, trad. it. cit., p. 348. Sulla nozione di “tendenza” cfr. M.A. Pranteda, Il legno storto. I significati del male in Kant, Olschki, Firenze 2002, pp. 111-116; per un’ampia discussione della problematica del “male radicale” si veda l’intero capitolo quinto. 98 RGV, AA VI 41, trad. it. cit., p. 362.

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il primo bene che può compiere è per Kant «la liberazione dal male». Muovendo dall’originaria disposizione al bene, Kant può delineare l’idea di un uomo moralmente gradito a Dio, l’idea dell’umanità in tutta la sua perfezione morale e nell’unificazione di virtù e felicità, che si può pensare come fine della creazione e termine del decreto di Dio. Elevarsi a questo ideale di perfezione morale, di umanità, è «il dovere umano universale»99. Questo ideale è insediato nell’uomo, ma dal momento che non si riesce a comprendere come la natura umana abbia potuto non certo produrlo, ma nemmeno riceverlo, «è meglio dire – afferma Kant – che quel modello è disceso dal cielo fino a noi, assumendo la natura umana»100. Gesù, il Figlio di Dio è la realtà oggettiva di questa idea di un uomo che incarna l’ideale dell’umanità gradita a Dio. La kenosi ha per Kant un valore morale, essa infatti «non può non far nascere in noi sentimenti di ammirazione, di amore e di gratitudine verso di lui»101. Soltanto se gli uomini fanno riferimento al Figlio di Dio, in cui Dio ha amato il mondo, se adottano le sue intenzioni, possono sperare «di diventare figli di Dio», cioè ristabilire l’originaria disposizione al bene. Attraverso la fede (il credere in Lui, nel Figlio di Dio) noi siamo destinatari della grazia che ci esonera dalla responsabilità del peccato dell’uomo vecchio, e questo esonero non contrasta con la giustizia divina, perché Dio penetrando nei nostri cuori conosce il nostro atto di «riparazione che consiste […] nell’idea dell’intenzione migliorata», o, detto in altri termini, nella fiducia di perseverare nell’intenzione di aderire alla legge morale e di rafforzarla progressivamente. Questa deduzione della giustificazione dell’uomo ha un risvolto importante per la religione e per la morale, nel far vedere come l’assunzione dell’intenzione morale sia comunque una condizione indispensabile anche per ricevere il dono della grazia, cioè della redenzione. Essa «fa vedere che soltanto sul presupposto di una conversione totale si può pensare l’assoluzione, in cospetto della giustizia celeste, dell’uomo pieno di colpe». Sicché preghiere e atti di culto, anche le invocazioni rivolte al Figlio di Dio, di per sé non sono sufficienti a meritare i doni della redenzione, ma c’è bisogno appunto dell’intenzione buona102. 6. Il confronto ermeneutico con la religione cristiana è fondato sul fatto storico dell’irruzione nel mondo di una religione rivelata che include nel proprio cerchio più ampio il cerchio più ristretto della fede razionale. Ne viene confermata la peculiare collocazione della concezione della religione tra la dimensione puramente razionale, a priori, e la dimensione storica. Da questo 99

RGV, AA VI 61, trad. it. cit., p. 381. Ibid. 101 RGV, AA VI 64, trad. it. cit., p. 385. 102 Cfr. RGV, AA VI 76, trad. it. cit., pp. 399-400. 100

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punto di vista è particolarmente significativa l’osservazione di Troeltsch (che riprende un’indicazione di Schweitzer) secondo cui la dottrina della libertà, che accompagna la dottrina del male radicale e della rigenerazione, trascende di molto i principi del trascendentalismo originario, in quanto tematizza, nonostante tutte le pretese di Kant, un mutamento, e quindi una storia, nell’ambito dell’intellegibile, la cui intemporalità Kant non riesce a conciliare con il peccato originale e la rigenerazione, così come, malgrado tutte le assicurazioni, non riesce a conciliare la semplicità dell’intelligibile con la conversione empirica, che si presenta come un’evoluzione103.

Parimenti l’idea della comunità etico-religiosa quale popolo di Dio spezza il principio dell’immanenza della coscienza come luogo della deduzione dei principi della religione (o dell’esperienza religiosa)104. Quindi, per quanto la filosofia della religione rivendichi in linea di principio come propria dimensione la pura ragione, di fatto «essa ha dei rapporti positivi e negativi con la storia della religione»105, dal momento che, per la natura sensibile dell’uomo, non si dà mai una pura religione razionale e c’è sempre bisogno di un «involucro», di un «veicolo» sensibile, empirico, in cui devono essere calate le idee religiose. Il problema diventa, allora, quello di mostrare la possibilità di conciliare la religione razionale con quella positiva, di far emergere cioè il contenuto razionale, morale, insito nella religione cristiana, che, come Kant afferma, si presenta come l’unica «religione morale» e non «di semplice culto»106. Questo compito si impone tanto più nell’epoca nuova caratterizzata dall’illuminismo e dall’uscita dell’uomo dallo «stato di minorità», nella quale, quindi, si avvia a terminare il predominio dell’elemento positivo, empirico, autoritario. La presenza nella coscienza degli uomini del principio della religione razionale pura costituisce il fondamento della possibilità che gradualmente la religione positiva, anche nella sua forma più prossima alla religione razionale, vale a dire la religione cristiana, si liberi 103 E. Troeltsch, Das Historische in Kants Religionsphilosophie, cit., p. 79, trad. it. cit., p. 251. Troeltsch si riferisce alla monografia di Albert Schweitzer del 1899, Die Religionsphilosophie Kants (Olms, Hildesheim 1990). 104 Ibid. Sul tema della comunità etica, del regno di Dio e della chiesa cfr. R. Wimmer, Kants kritische Religionsphilosophie, de Gruyter, Berlin-New York 1990, pp. 186-206; G. Cunico, Comunità etico-religiosa e chiliasmo teologico in Kant, in Immanuel Kant. Filosofia e religione, cit., pp. 187-234; J. Habermas, Il confine tra scienza e fede. Storia dell’influsso e attuale importanza della religione di Kant, in Id., Tra scienza e fede (2005), trad. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 126-128; Ch. de Luzenberger, Male radicale e pluralità umana ne La religione nei limiti della semplice ragione di Kant, in Etica antropologia religione. Studi in onore di Giuseppe Cantillo, a cura di R. Bonito Oliva, A. Donise, E. Mazzarella, F. Miano, Guida, Napoli 2010, pp. 349-352. 105 E. Troeltsch, Das Historische in Kants Religionsphilosophie, cit., p. 56, trad. it. cit., p. 222. 106 RGV, AA VI 51-52, trad. it. cit., p. 374.

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da ogni principio empirico di determinazione, da tutti gli statuti fondati sulla storia, i quali attraverso la fede ecclesiastica, riuniscono provvisoriamente gli uomini per promuovere il bene, affinché la religione pura della ragione giunga a dominare su ogni altra religione, “affinché Dio sia tutto in tutto [damit Gott sei alles in allem]”107.

Questo passaggio dalla religione ecclesiastica alla religione universale deve costituire la meta verso cui l’umanità divenuta matura deve tendere: ma non il termine di una rivoluzione, che non si attua mai «senza recar danno alla libertà», bensì il telos di un processo graduale di perfezionamento dell’umanità realizzato attraverso «riforme progressive»108. E tuttavia si può già dire che «il Regno di Dio è giunto in mezzo a noi», dal momento che si è affermato «pubblicamente» questo «principio del trapasso graduale dalla fede ecclesiastica alla religione universale razionale»109. Si mostra così l’ambivalenza dell’elemento storico: da un lato esso va progressivamente ridotto a vantaggio della religione pura della ragione; dall’altro lato quest’ultima non può manifestarsi che in una religione positiva, fondendosi con essa. La religione razionale non è solo un canone critico con cui valutare le religioni positive e orientarsi nella storia delle religioni, ma diviene anche un principio che si realizza progressivamente nella storia e attraverso la storia, sul fondamento, in ultima istanza, metafisico, di una comune radice nascosta di razionale ed empirico. 7. Che la polarità ragione-storia costituisca un nodo problematico della filosofia della religione di Kant, e in particolare dello scritto su La religione nei limiti della semplice ragione, è indicato nella Prefazione alla seconda edizione. A chiarimento del titolo Kant scrive: potendo la rivelazione almeno comprendere in sé anche la religione razionale pura, mentre questa non può comprendere in sé l’elemento storico della rivelazione, sarà possibile considerare la rivelazione come una sfera più vasta della fede, includente in sé, come sfera più ristretta, la religione razionale pura (non come due cerchi esterni l’uno all’altro, ma come due cerchi concentrici)110.

107 RGV, AA VI 121, trad. it. cit., pp. 448-449. Il passo riportato da Kant è tratto da Paolo, Prima Lettera ai Corinzi, 15, 28 («Quando poi avrà assoggettato a lui tutte le cose, allora anch’egli, il Figlio, si assoggetterà a colui che gli ha assoggettato tutto, affinché Dio sia tutto in tutti»). 108 RGV, AA VI 122, trad. it. cit., p. 449. 109 Ibid., trad. it. cit., p. 450. 110 RGV, AA VI 10, trad. it. cit., p. 333. J.-L. Bruch osserva che «se i due circoli della ragione e della fede sono concentrici, la ragione è al cuore della rivelazione»: perciò «la religione nei limiti della ragione non è affatto una specie particolare o artificiale di religione, ma il nucleo stesso di ogni autentica religione» (La philosophie religieuse de Kant, cit., p. 39).

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Certo il filosofo, in quanto «maestro di ragion pura», cioè vincolato alla funzione dell’analisi critico-trascendentale, non «dovrà varcare i limiti» della sfera più ristretta, per dedurre dalla semplice ragione i concetti della religione naturale, cioè la religione morale della buona condotta. Ma d’altra parte non potrà non tener conto del fenomeno religioso nel suo insieme, dell’esperienza individuale e comunitaria della religione che è contrassegnata in primo luogo dall’elemento storico della rivelazione, e perciò sarà indotto a compiere «un secondo tentativo», consistente nel verificare se nella religione rivelata, nei concetti morali che vi sono insiti, non si ritrovi una coincidenza con il sistema razionale puro della religione: insomma nel verificare se nel Cristianesimo non sia insito lo stesso contenuto di verità della religione naturale razionale. Un tentativo che, nel conflitto tra le facoltà filosofica e teologica sull’esercizio della censura, Kant rivendica come di competenza del filosofo della religione. E un tentativo che Kant, nella quarta parte de La religione nei limiti della semplice ragione mostra di ritenere sostanzialmente destinato a riuscire, verificando non solo la compatibilità, ma anche l’«unione» tra la religione scritta nel cuore di tutti gli uomini e le dottrine del fondatore della prima vera chiesa in cui ci troviamo di fronte a una religione completa che ogni uomo può riconoscere, grazie alla sua ragione, comprensibile e convincente, e che, per di più, si è resa visibile in un esempio che può, o meglio deve, servirci da modello (nei limiti in cui l’uomo è in grado di imitarlo)111.

La rilevanza del dato storico-positivo della religione si conferma sulla base di un appunto kantiano riportato in Lose Blätter riguardante il titolo dello scritto del 1793, dove è detto che nel riferimento alla semplice ragione non si tratta della fonte dalla quale potrebbe essere sorta qualsiasi religione positiva statutaria (e di portare quest’ultima sinteticamente a puri concetti razionali), bensì in ogni caso secondo un metodo analitico si tratta solo di astrarre da lei [cioè dalla religione positiva] ciò che la semplice ragione può conoscere da se stessa112.

«Il metodo analitico – commenta Josef Bohatec – vuole appunto “trovare una religione data (positiva) all’interno dei limiti della pura ragione, non produrla sinteticamente mediante la ragione”», e significativamente aggiunge: Poiché la religione all’interno della semplice ragione non è dedotta dalla semplice ragione, ma ad un tempo è fondata su dottrine storiche e rivelate, e contiene solo l’“accordo della pura ragione pratica con queste stesse dottrine (nel senso che queste ultime non contrastino con la ragione)”, allora la dottrina religiosa presentata 111 RGV, AA VI 162, trad. it. cit., p. 491; ma si vedano le pp. 157-162, trad. it. cit., pp. 486-492. 112 VARGV, AA XXIII 94.

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nello scritto su La religione nei limiti della semplice ragione “non [è] una dottrina pura, ma una dottrina applicata alla storia esistente”113.

Come ha scritto lo stesso Kant nel secondo abbozzo di Vorrede riportato da Dilthey in Der Streit Kants mit der Zensur, La religione nei limiti della semplice ragione costituisce il luogo teorico in cui la filosofia riflette sul «passaggio dall’ambito delle pure idee pratiche al terreno su cui devono [sollen] essere attuate», e, nel far questo, non supera i propri confini, se prende in considerazione quella «religione positiva», in cui ritiene che si presentino «nel modo migliore […] le condizioni sotto le quali soltanto può essere realizzata l’idea di una religione»114. Il che comporta l’apertura alla dimensione della storia, rispetto a cui la filosofia non teme di arrischiarsi ad indicarle un senso e una meta, di delineare, cioè, per essa una sorta di utopia concreta: La filosofia può anche avere il suo millenarismo; ma esso è così fatto che la sua idea, sebbene molto da lontano, può aiutare anch’essa ad avvicinare la meta, è dunque un millenarismo tutt’altro che chimerico115.

113 Cfr. J. Bohatec, Die Religionsphilosphie Kants in der „Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft“, Hoffmann und Campe, Hamburg 1938, Olms, Hildesheim 19662, pp. 36-37. 114 Cfr. W. Dilthey, Der Streit Kants mit der Zensur über das Recht freier Religionsforschung, cit., p. 306. 115 Cfr. IaG, AA VIII 27, trad. it. I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di G. Solari e G. Vidari, UTET, Torino 1965, p. 134. Cfr. G. Marini, Kant e il diritto cosmopolitico, «Iride», gennaio-aprile 1996, pp. 126-140, in particolare pp. 132-134. Il nesso morale-religione-storia nella produzione dell’ultimo Kant è l’oggetto dello stimolante saggio, ampiamente condivisibile, di F. Menegoni, Problemi kantiani. Morale, religione, storia, in Logica e dialettica. In ricordo di Livio Sichirollo, a cura di R. Bordoli, Bibliopolis, Napoli 2006, pp. 37-59.

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1. L’eredità illuministica: la finalità della storia Nella seconda metà del Settecento il dibattito sulla storia era molto vivace. La filosofia della storia era uno dei temi centrali dell’illuminismo, soprattutto francese. Esso aveva individuato nella progressiva affermazione della ragione il criterio per ritrovare un principio di ordine e di sviluppo nel processo storico, che altrimenti si sarebbe risolto in una casuale successione di eventi. In questo modo alla storia si restituivano una direzione e un significato complessivi, svincolandoli tuttavia dal provvidenzialismo cristiano, di matrice agostiniana, che aveva caratterizzato ad esempio, ancora nel 1681, il Discours sur l’histoire universelle di Jacques-Bénigne Bossuet. Il modello indiscusso del nuovo razionalismo storiografico settecentesco era l’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (1756) di Voltaire, in cui la storia veniva concepita come un graduale processo di perfezionamento della ragione e di diffusione dei Lumi. Il nuovo orientamento aveva avuto grande influenza anche nell’area culturale tedesca: il miglior esempio è costituito da Über die Geschichte der Menschheit (1768) dello svizzero tedesco Isaak Iselin, in cui si ritrova una puntuale influenza dell’Essai voltairiano. Pur condividendone le finalità critiche, l’Aufklärung tedesca era tuttavia meno radicale dell’illuminismo francese: soprattutto in relazione ai problemi religiosi, cercava di conciliare l’esigenza di sottoporre la tradizione all’esame della ragione con quella di conservare, in forma rinnovata e depurata, i contenuti essenziali della fede. Questo vale anche per la riflessione filosofica sulla storia, come dimostra l’Erziehung des Menschengeschlechts (1780) di Gotthold Ephraim Lessing: da un lato trova conferma la profonda fiducia illuministica nel progresso storico, inteso come esplicazione progressiva della ragione umana; dall’altro il processo di sviluppo razionale viene a coincidere con il magistero della rivelazione divina, la quale svolge per il genere umano nel suo insieme la stessa funzione che l’educazione ha per il singolo individuo. Ma neppure in questa forma più conciliante la teoria del progresso storico conquista ogni provincia della cultura tedesca. Nello stesso ambiente della Popularphilosophie, che rappresenta la punta di diamante della penetrazione illuministica in Germania, vengono avanzati dubbi in proposito. Il caso più clamoroso è quello di Moses Mendelssohn, il quale in Jerusalem, oder über religiöse Macht und Judenthum (1783)

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afferma che la tesi del progresso può essere sostenuta per il singolo individuo, ma non per l’intero genere umano: considerata nel suo insieme l’umanità fa costantemente piccoli passi avanti e altrettanti passi indietro, mantenendosi in una posizione sostanzialmente stazionaria. Entro questo quadro concettuale deve essere collocata la filosofia della storia di Kant. Non solo perché le opere sopra citate facevano parte delle sue conoscenze (in gran parte esse figurano nell’elenco della sua biblioteca personale), ma soprattutto perché egli si pronunciò espressamente a favore di una concezione progressiva della storia di chiaro stampo illuministico1. In un saggio relativamente tardo, Über den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, Taugt aber nicht für die Praxis del 1793, egli prende posizione nella disputa tra Lessing e Mendelssohn: non tanto esprimendosi a favore del primo, quanto criticando apertamente il secondo. La prospettiva mendelssohniana ridurrebbe infatti l’azione dell’uomo nella storia a un’interminabile fatica di Sisifo priva di significato: sarebbe uno «spettacolo altamente indegno» non solo di una divinità, ma anche dell’uomo più comune, «vedere la specie umana fare di periodo in periodo progressi verso la virtù e tosto ricadere nuovamente nel vizio e nella miseria». Malgrado gli ostacoli che possono intervenire, il progresso «può essere a volte interrotto, ma mai arrestato» (AA VIII 308-309). In che cosa consistesse il progresso storico Kant aveva già chiarito nove anni avanti, nel primo scritto edito dedicato alla storia: la Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784). Nel caso dell’uomo, che è «l’unica creatura razionale della terra», la finalità storica consiste nella piena realizzazione delle «naturali disposizioni dirette all’uso della ragione». La ragione consiste infatti nella capacità «di estendere oltre i naturali istinti le regole e i fini dell’uso di tutte le sue attività» (AA VIII 18). Analogamente, nella Kritik der Urteilskraft (1790) Kant vedrà nella «capacità e abilità a ogni genere di fine, in vista del quale la natura possa essere usata dall’uomo (inter1 Che la filosofia della storia di Kant sia in stretta continuità con il pensiero illuministico che lo precede è stato sostenuto già da K. Weyand, Kants Geschichtsphilosophie. Ihre Entwicklung und ihr Verhältnis zur Aufklärung, Kölner Universitäts-Verkag, Köln 1964, anche se la connessione è esaminata più in chiave teorica che nella forma della ricostruzione storiografica. La più completa discussione del problema del progresso e dell’intera filosofia della storia di Kant è tuttavia sviluppata in P. Kleingeld, Fortschritt und Vernunft: Zur Geschichtsphilosophie Kants, Königshausen & Neumann, Würzburg 1995. Uno dei meriti del lavoro della Kleingeld è di aver mostrato come l’impianto teleologico (e progressistico) della filosofia kantiana della storia obbedisce a una duplice esigenza unitaria della ragione: da un lato l’istanza morale di affermare la possibilità di una realizzazione progressiva del sommo bene inteso come ordine morale nel mondo storico, dall’altra – cosa spesso trascurata dalla critica – l’esigenza teoretica di ritrovare nella storia un’unità di significato, anche se solo in forma regolativa e non come sapere costitutivamente valido. Di qualche utilità può essere anche L. Dupré, Kant’s Theory of History and Progress, «The Review of Metaphysics. A philosophical Quarterly», LI (1998), pp. 813-828.

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namente o esternamente)» (AA V 430) la definizione della «cultura», considerata insieme come il «fine ultimo» della natura e l’obiettivo finale della storia. Lo sviluppo di queste potenzialità razionali dell’uomo è possibile in base a un presupposto teleologico, che costituisce la prima delle nove «tesi» in cui Kant articola la Idee: «Tutte le disposizioni naturali di una creatura sono destinate un giorno a svilupparsi in modo completo e conforme al loro scopo» (AA VIII 18). Come nel mondo animale le diverse predisposizioni organiche devono progressivamente tradursi nell’esercizio di determinate funzioni, nello stesso modo la disposizione specifica fondamentale dell’uomo deve poter condurre all’esercizio effettivo di un’attività libera dall’istinto e in grado di determinare autonomamente i propri obiettivi. La teleologia di cui qui si parla non è eterodiretta da una forza esterna, ma nasce dallo sviluppo di un principio implicito, seppure in una forma non necessitata. Questo principio è l’uomo stesso che, considerato nelle sue espressioni razionali, crea la propria storia e consegue la propria «destinazione» – Bestimmung è termine comune nella cultura del tempo – semplicemente obbedendo alla propria natura. «La natura – recita la terza «tesi» – ha voluto che l’uomo traesse interamente da se stesso tutto ciò che va oltre la costituzione meccanica della sua esistenza animale e che non partecipasse ad altra felicità o perfezione se non a quella che egli stesso, libero da istinti, si crea con la propria ragione» (AA VIII 19). Con ciò Kant ripeteva un movimento di pensiero ampiamente diffuso nella koiné illuministica e richiamato da Lessing quando, in Die Erziehung des Menschengeschlechts (§ 4), ricordava che né l’educazione, sul piano individuale, né la rivelazione, sul piano della specie, insegnano all’uomo alcunché che egli non possa trarre dalla propria ragione, ma si limitano ad anticiparne la manifestazione. Il processo storico, cioè lo sviluppo progressivo delle disposizioni dell’uomo alla ragione, è lento e precario, poiché procede per tentativi ed errori. Questa attività laboriosa può quindi conseguire risultati soltanto attraverso il succedersi delle generazioni: la finalità storica trova il suo compimento «solo nella specie, non nell’individuo» (AA VIII 18). Kant accoglie quindi la concezione – teorizzata da Anne-Robert-Jacques Turgot nel Tableau philosophique des progrès successifs de l’esprit humain del 1750 e ampiamente diffusa nella cultura illuministica – del progresso come accumulazione meccanica. Il vantaggio di questo concetto è che, come già si è osservato, il corso progressivo della storia può conoscere momenti di rallentamento o di interruzione, ma non può in ogni caso arretrare: le acquisizioni delle generazioni precedenti, anche se non sono continuamente arricchite, non vanno mai perdute. Viceversa, la concezione cumulativa del progresso presenta lo svantaggio che la finalità storica (e la condizione di gratificazione ad esso connessa, cioè la felicità) è conseguita soltanto al termine del processo o almeno quando esso sia

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sufficientemente avanzato. Di conseguenza gli illuministi interpretavano le epoche passate esclusivamente in funzione del contributo che avevano dato alla realizzazione della civiltà presente, o vedendo in esse tappe fondamentali del progresso, come nel caso dell’antichità classica, o considerandole momenti di assenza della ragione e quindi di arresto del movimento storico, come nel caso del Medioevo. Contro questa posizione – che la cultura romantica respingerà come espressione di antistoricismo – si era già pronunciato sin dal 1774, in pieno Sturm und Drang, Johann Gottfried Herder, un allievo del giovane Kant a Königsberg che era stato tuttavia influenzato più dalla filosofia misticheggiante di Johann Georg Hamann che dal razionalismo illuministico kantiano. In Auch eine Philosophie der Geschichte Herder, rifiutando nettamente la filosofia della storia illuministica, polemizza contro i vari «Hume, Voltaire, Robertson», che «modellano tutti i secoli in base all’unica forma della loro epoca (spesso meschina e debole)»2. Seppure più contenuta, la critica di Herder alla storiografia e alla filosofia della storia dell’Illuminismo continua nella sua opera maggiore, le Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1784-91), che costituiscono la prima manifestazione dello storicismo tedesco protoromantico. In esse Herder delinea un ampio affresco storico-filosofico, in cui il carattere progressivo e teleologico della storia viene affidato non all’unico criterio dello sviluppo della ragione, ma alla graduale manifestazione di un complesso di forze, fisiche e spirituali, che operano all’interno della realtà in un processo in cui la storia della natura trapassa senza soluzione di continuità in quella della cultura: il progresso che ne consegue non è univoco, come quello degli illuministi, ma conduce alla manifestazione di una pluralità di realizzazioni storiche – le diverse epoche e le diverse culture – ciascuna delle quali rappresenta una specifica espressione dell’umanità e detiene un valore autonomo e incomparabile. Recensendo la prima parte delle Ideen, pubblicata nel 1784 e quindi contemporanea al proprio scritto sulla storia, Kant usò parole severe nel confronti di una ricostruzione storica che ai suoi occhi appariva fondata più sulla forza evocativa delle parole e delle metafore che su concetti, più sulla «immaginazione, resa alata dalla metafisica e dal sentimento», che sulla «ragione, aperta ai progetti, ma cauta nell’esecuzione» (AA VIII 55). Ma, soprattutto, Herder faceva troppe concessioni al naturalismo: lungi dallo scaturire da condizioni naturali, la ragione umana è per Kant una facoltà che si contrappone alla natura e serve all’uomo per affermare il proprio distacco da essa e il proprio dominio su di essa. Chi vuol impiegare le conoscenze antropologiche per la costruzione di una storia dell’umanità – 2 J.G. Herder, Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit, in Id., Werke in zehn Bänden, hrsg. von J. Brummack – M. Bollacher, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am Main 1989-1994, IV, p. 38.

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preciserà Kant rispondendo alla difesa che di Herder fece Karl Leonhard Reinhold – non deve cercarli «né nella metafisica, né nel gabinetto delle scienze naturali mediante il confronto dello scheletro dell’uomo con quello di altre specie animali», ma «nelle azioni dell’uomo, attraverso le quali egli manifesta il proprio carattere» (AA VIII 56). Herder, per parte sua, non prese bene la stroncatura del vecchio maestro. Nella seconda parte delle Ideen riavviò la polemica contro la concezione unilineare della storia che già aveva criticato in Auch eine Philosophie: «che cosa vorrebbe mai dire [...] che tutte le generazioni sono fatte solo per l’ultima, che troneggia sull’impalcatura crollata di tutte le generazioni precedenti?»3. Anche se non nominato in maniera esplicita, oggetto della critica è qui chiaramente Kant. A lui Herder fa invece riferimento nominale in una lettera a Hamann, in cui la concezione kantiana del progresso viene definita un «piano infantile»4. Rispondendo all’attacco implicito di Herder, nella recensione alla seconda parte delle Ideen, Kant ribadisce che «nessun membro di tutte le generazioni umane, ma soltanto la specie, raggiunge pienamente la sua destinazione» (AA VIII 65). La disputa tra i due termina qui, né aveva senso continuarla. Era un dialogo tra sordi, tra due generazioni che concepivano la storia in modo molto diverso. Kant, malgrado le proiezioni trascendentali di cui si dirà, rimaneva un significativo esponente della concezione illuministica del progresso. Herder apriva invece la strada a quella concezione storicistica che nella sua piena maturità saprà ricuperare l’illuminismo come uno dei momenti fondamentali dello sviluppo della coscienza umana, ma, appunto, come una soltanto delle molteplici manifestazioni in cui la storia dell’uomo si è concretata. 2. Rousseau capovolto: l’origine della storia Alla ricostruzione dell’origine della storia Kant dedica una breve opera, posteriore di due anni all’Idee: Muthmasslicher Anfang der Menschengeschichte (1796). Questa ricerca non può che essere «congetturale», poiché non si dispone di testimonianze storiche che possano documentare l’origine dell’uomo. Kant decide pertanto di affidarsi all’esegesi dei primi libri del Genesi biblico, come già aveva fatto anni prima Herder in Die älteste Urkunde des Menschengeschlechts (1774), di cui sicuramente egli era a conoscenza. Ma mentre Herder considerava la Scrittura una fonte autentica, la cui forma poetica era indizio dell’originario contatto con la divinità, Kant – con un atteggiamento simile a quello con cui, anni dopo, nella Religion innerhalb der 3 J.G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, libro VIII, cap. V, in Id., Werke, cit., VI, p. 332. 4 Cfr. J.G. Hamann, Briefwechsel, hrsg. von W. Ziesemer – A. Henkel, 7 voll., Insel Verlag, Wiesbaden 1955-79, V, p. 363 (14.02.1785).

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Grenzen der bloßen Vernunft (1793), analizzerà il Nuovo Testamento – assume un atteggiamento decisamente razionalistico. La Bibbia è usata soltanto come ipotesi euristica, da interpretare alla luce della ragione, per avanzare «congetture» filosofiche su ciò che non è testimoniato da alcun documento. La condizione edenica, la cacciata dal giardino, le successive sofferenze dell’uomo, il conflitto tra Caino ed Abele diventano quindi espressioni metaforiche di una vicenda che deve essere ricostruita in maniera razionale, con il solo ausilio delle conoscenze antropologiche che l’esperienza, comune e storica, pone a disposizione. La definizione dell’origine della storia è strettamente connessa con quella del suo termine finale. Se il processo storico muove nella direzione di una sempre maggiore realizzazione della ragione, progressivamente purificata dalle componenti istintive del comportamento umano, il suo punto di partenza è dato dalla condizione in cui la ragione deve ancora emergere: «soltanto l’istinto, questa voce di Dio cui tutti gli animali obbediscono, dovette guidare inizialmente l’uomo primitivo» (AA VIII 111). La graduale sostituzione della ragione all’istinto coincide con un processo di artificializzazione. Con l’aiuto del racconto biblico Kant individua quattro momenti di questo processo. Il primo riguarda i mezzi con cui l’uomo primitivo provvede alla sua nutrizione: i sensi dell’olfatto e del gusto, strumenti del tutto istintivi per distinguere ciò che è commestibile da ciò che non lo è, sono sostituiti dalla vista, che implica una componente di valutazione intellettuale e di libera scelta (la consumazione del frutto proibito). La seconda fase consiste nel ritardare artificialmente la soddisfazione sessuale (la foglia di fico), ricercando dapprima soltanto un prolungamento del piacere, per poi sublimarlo, con successivi allontanamenti dalla sfera naturale, in amore spirituale, in godimento della bellezza e infine in costumatezza, prima pietra per la costruzione dell’edificio sociale. Il terzo passo fu «la consapevole attesa dell’avvenire», che da un lato consente all’uomo di guardare a orizzonti lontani e di determinare il proprio destino, ma d’altro lato introduce una fonte di preoccupazione per l’incertezza del futuro del tutto ignota agli animali (Gen., III, 13-19). Infine, con l’atto attraverso cui l’uomo spogliò la pecora della sua lana per ricoprire se stesso (Gen. III, 21), l’essere umano acquisì contemporaneamente la coscienza della propria signoria sugli animali, ridotti a suoi strumenti, e quella dell’eguaglianza rispetto a tutti gli altri uomini. In conseguenza di questi quattro gradi di artificializzazione l’uomo esce dalla condizione naturale (dal giardino terrestre). Ma tale processo rappresenta soltanto la prima epoca della storia: quella in cui l’uomo è considerato nella sua individualità isolata (o come coppia umana, comunque considerata individualmente). La seconda epoca riguarda invece la nascita delle relazioni sociali tra gli uomini, soprattutto quelle che sorgono dalla nuova condizione conseguente alla cacciata dall’Eden: il lavoro. All’attività lavorativa è infatti

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strettamente congiunto l’elemento della discordia, poiché le diverse occupazioni implicano necessità e interessi conflittuali. Il pastore (Abele) conduce una vita nomade, perché ha bisogno di trasferire le sue mandrie in pascoli sempre freschi. Ma con ciò danneggia l’agricoltore (Caino), il quale vive in modo sedentario essendo impegnato nella difesa dei campi che coltiva. Tuttavia, poiché la guerra tra pastori ed agricoltori non ha termine, questi ultimi si vedono infine costretti ad allontanarsi il più possibile per fondare una comunità in cui tutti contribuiscano alla difesa comune contro pastori e cacciatori. Nascono così i primi villaggi, nucleo incoativo delle prime città, e si passa dalla seconda alla terza epoca. Con le prime forme di società civile si sviluppano i commerci, le arti, la giustizia dei magistrati e, soprattutto, l’istituzione di un potere politico dotato di forza coercitiva. Ma contemporaneamente la convivenza di più individui di condizioni molto diverse tra loro fa sentire in misura crescente «la disuguaglianza tra gli uomini, questa copiosa fonte di tanti mali, ma anche di ogni bene» (AA VIII 119). Nella ricostruzione dell’origine della storia che Kant sviluppa nel Muthmaßlicher Anfang non è difficile riconoscere sotto più riguardi l’influenza del Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalitè parmi les hommes (1755) di Rousseau5. In entrambi i casi si rinuncia a ricostruire la storia naturale dell’uomo, come aveva fatto Herder: Kant inizia del presupposto di un uomo «nella sua configurazione adulta» (AA VIII 110), in grado di stare, camminare, parlare e pensare, e Rousseau lo immagina «uguale in tutti i tempi a come lo vedo oggi, che cammina su due piedi, si serve delle mani come facciamo noi con le nostre, estende la sua vita su tutta la natura e misura con gli occhi la vasta distesa del cielo»6. La condizione originaria è ricostruita mediante un’astrazione della ragione, che consente «congetture» filosofiche in virtù dell’assunto che la natura «agli inizi non era né peggiore né migliore di quella che noi incontriamo oggi» (AA VIII 109) ovvero, secondo Rousseau, «ragionamenti ipotetici e funzionali, più adatti a chiarire la natura delle cose che a mostrarne l’effettiva origine, e simili a quelli che i nostri fisici fanno quotidianamente sulla formazione del mondo»7. Anche la ripartizione della storia originaria in tre epoche è probabilmente il risultato dell’esplicitazione in Kant di una divisione rintracciabile idealmente anche in Rousseau: una prima epoca in cui l’uomo è considerato individualmente nel suo isolamento dagli altri (anche dalla donna, a parte le unioni sessuali temporanee); una seconda in cui si verificano le prime società naturali con la divisione delle diverse attività 5 Sul rapporto tra le filosofie della storia di Kant e di Rousseau cfr. W.A. Galston, Kant and the Problem of History, The University of Chicago Press, Chicago-London 1975, pp. 93-102 e il cap. III; A. Philonenko, La théorie kantienne de l’histoire, Vrin, Paris 1986, pp. 62 sgg. 6 J.-J. Rousseau, Œuvres complètes, éd. par B. Gagnebin – M. Raymond, Gallimard, Paris 1959-1995, vol. III, p. 134. 7 J.-J. Rousseau, Œuvres complètes, cit., p. 133.

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produttive (Kant segue la Bibbia, e Herder, nel distinguere tra pastori ed agricoltori; Rousseau contrappone invece l’agricoltura alla metallurgia); infine una terza epoca contrassegnata dalla nascita della società civile. Ma soprattutto i resoconti di Rousseau e Kant concordano su un punto: la storia originaria degli uomini è la storia del passaggio dall’istinto alla ragione o, meglio, dalla condizione naturale a quella artificiale e, di conseguenza, dall’eguaglianza alla disuguaglianza. Ma è su questo punto di convergenza che Kant ribalta la valutazione di Rousseau. La perdita dell’eguaglianza, che va di pari passo con l’artificializzazione dei bisogni, è per Rousseau sinonimo di «dipendenza» dell’uomo dall’uomo, e configura quindi una serie di rapporti di dominio che diventano vieppiù onerosi quanto più ci si allontana dalla natura originaria (del ricco sul povero fino alla costituzione della società civile, del potente sul debole con l’istituzione del potere politico, del padrone sullo schiavo con la degenerazione dispotica delle forme di governo). L’uscita dallo stato di natura e l’avvio del processo storico che rende sempre più artificiali i bisogni, e sempre più dipendenti e meno liberi gli uomini, rappresenta per Rousseau una «caduta». Anche per Kant questo processo implica una caduta. Ma, forte di quella distinzione tra il destino degli individui e quello della specie che tanto dispiaceva a Herder, egli ritiene che la perdita riguardi soltanto l’individuo (il cui fine naturale è la felicità personale, garantita molto meglio dall’infallibile istinto naturale che da una ragione libera di scegliere e di sbagliare). Dal punto di vista della specie invece l’uscita dallo stato naturale significa l’avvio del processo di perfezionamento della ragione, dell’introduzione del lavoro da cui nascono tutte le scienze e le arti, del sorgere dell’ineguaglianza e della discordia, che attraverso i loro meccanismi emulativi sono condizione dell’avanzamento della cultura. L’uscita dallo stato di natura è l’origine della storia perché dà inizio a un processo che tende a concludersi idealmente soltanto con il compimento della finalità del genere umano. Ciò che per l’individuo è un male è un bene per il progresso della specie e forse tornerà ad essere un bene anche per l’individuo quando l’aspetto costrittivo del meccanismo storico sarà interiorizzato dall’uomo, ormai consapevole che il fine della storia è anche il fine individuale, e l’artificio tornerà a essere natura. In questo modo Kant immunizza la critica storica e sociale di Rousseau, ribaltando in positivo ciò che in lui era negativo. Ed egli può permettersi anche di dare un’interpretazione conciliante dell’intera opera rousseauiana, sostenendo che i primi lavori (i due Discours) mostrano sì la necessaria contraddizione della civiltà con la natura dell’uomo, ma soltanto nella misura in cui quest’ultimo è considerato come una specie animale che si risolve nei suoi singoli individui. Viceversa nell’Emilio e nel Contrat social Rousseau mostrerebbe in che modo si debba procedere per realizzare la destinazione dell’uomo come specie morale, che non può più essere in contraddizione con la natura. Era un tentativo genero-

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so (e insieme interessato) di interpretare Rousseau. La ferita da lui aperta nel tessuto del progressismo illuministico era lavata, suturata e risanata. 3. La provvidenza della natura e la «insocievole socievolezza» Immaginare che la storia abbia una direzione che le consente di muovere da una determinata condizione originaria a una meta finale significa presupporre l’esistenza di un ordine storico. Malgrado la polemica contro il provvidenzialismo religioso, è una costante delle concezioni illuministiche della storia il presupposto di una sorta di eterogenesi dei fini, in base alla quale gli individui concorrono alla realizzazione di uno scopo generale – la promozione della ragione, della cultura, della civiltà, a volte anche della libertà politica o della ricchezza economica – che va al di là delle loro intenzioni consapevoli. Anche Kant condivide questo modo di sentire. «Singoli uomini ed anche interi popoli non pensano che, mentre perseguono i propri fini, ognuno a suo modo e spesso in contrasto con gli altri, assumono in realtà inavvertitamente come filo conduttore il disegno della natura, che è loro sconosciuto, e lavorano alla sua promozione, per quanto non si interesserebbero molto ad esso, anche se lo conoscessero» (IaG, AA VIII 17). Per indicare il principio unitario della storia, accanto al concetto di «natura» Kant utilizza talvolta anche quello di «provvidenza»: e in questo uso è difficile determinare se i due termini siano del tutto sinonimi o se invece il secondo aggiunga un’effettiva valenza religiosa. Quest’ultima ipotesi sembra suffragata da un passo di Zum ewigen Frieden, in cui la «grande artefice natura (natura daedala rerum)» viene articolata in «destino», quando è considerata «come azione necessitante di una causa le cui leggi ci sono sconosciute» e in «provvidenza», quando si consideri invece «la finalità della sua azione nel corso del mondo, come saggezza profonda di una causa superiore, rivolta all’oggettivo scopo finale del genere umano e predeterminante il corso di questo mondo» (AA VIII 360-361)8. Ma in molti casi i due termini appaiono, e sono stati considerati dalla critica, sostanzialmente interscambiabili. Ancora più incerta appare la questione della reale rappresentatività di queste due nozioni: che esse abbiano una componente metaforica è indubbio, ma rimane incerto – e probabilmente ciò varia a seconda dei contesti e del momento dell’evoluzione del pensiero kantiano – se la metafora assorba completamente il significato dei termini o se lasci spazio a una residuale realtà sostanziale del concetto. Ciò che conta è in ogni caso che Kant attribuisce alla «natura-provvidenza» l’allestimento del «mezzo» di cui la storia si serve per conseguire i 8 Per un’interpretazione differenziata dei due termini cfr. P. Kleingeld, Nature or Providence? On the Theoretical and Moral Importance of Kant’s Philosophy of History, «American Catholic Philosophical Quarterly», LXXV (2001), pp. 201-219.

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suoi fini. Esso consiste nell’«antagonismo» (Antagonismus) sociale, ulteriormente definito come la «insocievole socievolezza» (ungesellige Geselligkeit) degli uomini9. L’uomo da un lato ha la tendenza a entrare in società, poiché soltanto in essa può realizzare pienamente le sue naturali disposizioni; dall’altro ha comportamenti antisociali, poiché vuole utilizzare l’organizzazione sociale per i propri scopi personali e si pone in rapporto antagonistico con gli altri individui. Ma è proprio questa tensione tra le due tendenze a generare una condizione di generale competizione che costringe gli uomini a esplicare le loro energie, dando avvio a un processo di crescita materiale e culturale in cui ciascuno, cercando il proprio interesse, promuove il bene generale e l’avanzamento della specie. Se gli uomini avessero un carattere esclusivamente socievole, «tutti i talenti sarebbero rimasti per sempre nascosti nei loro germi in un’arcadica vita pastorale, fatta di perfetta armonia, frugalità e amore reciproco». La compresenza dell’inclinazione antisociale ha invece imposto a ciascuno di sviluppare progressivamente le proprie disposizioni naturali, impegnandolo in un faticoso processo di emulazione con gli altri. Ritorna, ancora una volta, la contrapposizione tra i fini dell’individuo e quelli della specie. «L’uomo vuole la concordia, ma la natura sa meglio di lui ciò che è bene per la sua specie; essa vuole la discordia» (IaG, AA VIII 21). L’idea di un processo conflittuale, nel quale l’insorgenza del nuovo è subordinata al sacrificio di una parte del vecchio, era già stata espressa da Kant in un contesto molto più ampio nell’Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels del 1755. In base ai princìpi della fisica newtoniana, egli aveva ipotizzato un processo di organizzazione della materia verso le regioni centrali dell’universo; a questa fase, una volta conseguita la massima densità possibile, sarebbe però seguito un opposto processo di disgregazione per consentire lo spostamento delle regioni organizzate verso la periferia e la formazione di nuovi sistemi cosmici (AA I 306-316). Il principio generale – nel processo di trasformazione naturale ogni essere finito presuppone il proprio annientamento come condizione dell’emergenza di nuove realtà – era fondato sull’analogia con quella parte della natura che cade sotto l’osservazione empirica. Considerevoli porzioni del suolo terrestre sono gradualmente assorbite dal mare per consentire l’emergenza da esso di altri territori; un infinito numero di piante e di animali sono quotidianamente distrutte per far posto a nuovi esseri; e, per quanto riguarda la specie umana, interi popoli periscono a causa delle calamità naturali senza che ciò ostacoli il progresso demografico dell’umanità (AA I 317-318): tutti questi rivolgimenti non sono altro che «le vie 9 Tra le molte indicazioni che si possono dare in proposito cfr. A. Wood, Ungesellige Geselligkeit: Die anthropologischen Grundlagen der Kantischen Ethik, in Recht, Staat und Völkerrecht bei Immanuel Kant, hrsg. von D. Hüning – B. Tusching, Duncker & Humblot, Berlin 1998, pp. 36-52.

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ordinarie della provvidenza» (AA I 319). La legge dell’alternanza della distruzione e riproduzione investe infatti ogni cosa: e «l’uomo, che sembra essere il capolavoro della creazione, non è escluso da questa legge» (AA I 318)10. Rispetto al piano delle trasformazioni cosmiche il corso della storia umana ha tuttavia caratteristiche specifiche. In primo luogo, nella storia il conflitto, l’antagonismo sociale non investe soltanto la continua trasformazione e rigenerazione della realtà, ma ha una funzione esplicitamente progressiva. In secondo luogo, la dimensione progressiva implica una valutazione morale, ancorché considerata qui soltanto sul piano antropologico e non espressamente etico: si tratta di passare dal male al bene. Per un verso infatti, come si è visto, l’impulso al male (l’egoismo connesso alla componente «insocievole» della socievolezza) è indispensabile. Sin da uno scritto sulla razza del 1775 Kant critica il progetto di eugenismo morale elaborato da Maupertuis, che aveva considerato la possibilità di selezionare geneticamente una generazione di uomini, in modo da rendere ereditarie le capacità intellettuali e la disposizione morale: la natura impedisce l’attuazione del progetto, «poiché proprio nelle mescolanze del bene e del male si trovano le molle più robuste per mettere in gioco le forze dormienti dell’umanità, costringendola a sviluppare tutti i suoi talenti e ad avvicinarsi alla perfezione della sua destinazione» (VvRM, AA II 431). Per altro verso, il male è soltanto il punto di partenza per giungere al bene. L’educazione impartita dalla provvidenza – scrive Kant nell’Anthropologie (AA VII 328) – mira «a produrre il bene – che l’uomo non si è proposto, ma che una volta prodotto si mantiene e dura – a partire dal male, che è sempre in conflitto interno con se stesso». Non si tratta (ancora) di una correzione morale del male: piuttosto si mette in moto un meccanismo automatico per cui la condizione di instabilità connessa al conflitto (al male) si traduce in una condizione di relativo equilibrio (il bene), seppure provvisorio e gravido di nuove forme di conflittualità. Il male esercita quindi una funzione dinamica di mediazione verso una condizione più avanzata, cioè una funzione di promozione del progresso. «Il male – si legge nella Refl 1391, AA XV 605 – deve fungere da causa intermedia per rendere necessaria l’unione degli uomini e la costrizione che li coarta a sviluppare i loro talenti». Il male antropologico di cui si parla negli scritti di filosofia della storia ha dunque poca attinenza con il male morale di cui si tratta nelle opere di filosofia prati10 H. Saner, Kants Weg vom Krieg zum Frieden, I: Wiederstreit und Einheit: Wege zu Kants politischen Denken, Piper, München 1967, sostiene che in Kant l’analogia tra la nozione di antagonismo esposta nella Idee e quella di conflitto nel mondo naturale sia documentabile attraverso il confronto anche con la Monadologia physica, oltreché con l’Allgemeine Naturgeschichte: la tesi generale è che Kant riprenda in forme diverse – tanto nell’ambito naturale quanto in quello umano – l’idea del passaggio dal caos all’ordine, dalla distruzione alla costruzione, dalla differenza all’identità, dalla guerra alla pace.

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ca, soprattutto con quel «male radicale» che verrà illustrato nella Religion innerhalb der Grenzen der reinen Vernunft. È vero che in entrambi i casi il male non è che un capovolgimento del bene: come il male radicale consiste in un’inversione dell’ordine di priorità dei moventi, per cui il movente sensibile viene anteposto al motivo autenticamente morale, così l’insocievolezza viene a turbare la funzione della socievolezza, che dovrebbe svolgere una funzione primaria (anche grammaticalmente, l’aggettivo «insocievole» è solo un elemento di determinazione del sostantivo «socievolezza»). Ma il male morale non ha nessuna funzione positiva nell’esperienza individuale del progresso verso la moralità: esso dev’essere semplicemente combattuto e limitato nella direzione di un asintotico conseguimento della santità. Nel caso della storia, invece, il male antropologico è un’essenziale componente del progresso, senza la quale la disposizione al bene (la tendenza a realizzare le finalità razionali dell’uomo) rimarrebbe necessariamente inefficace. Questa nascita del bene dal male o, più in generale, del positivo dal negativo può far pensare a un movimento dialettico. E in effetti non è infrequente nella critica il richiamo al Versuch den Begriff der negativen Größen in die Weltweisheit einzuführen del 1763, nel quale Kant sviluppa il concetto di opposizione reale11: diversamente dall’opposizione logica, nella quale gli opposti si elidono a vicenda, nell’opposizione reale le quantità opposte danno luogo a una risultante che rappresenta una realtà terza, in quanto comporta non la loro negazione ma la loro composizione reciproca12. Tuttavia questo riferimento non può essere sopravvalutato. In Kant manca ancora completamente, almeno sul piano della concezione della storia, quel movimento di pensiero dialettico che si può forse già riscontrare in nuce nella filosofia della storia di Herder e che troverà piena espressione in quelle di Fichte e di Hegel. In lui agisce piuttosto il modello concettuale della composizione meccanica delle forze, che egli aveva probabilmente ritrovato nelle analisi sociali di Bernard de Mandeville e di Adam Smith. Nella teoria mandevilliana del private vices, public benefits, ad esempio, si ritrova chiaramente l’idea che la generazione del positivo dal negativo sia il risultato di una combinazione meccanica di interessi che muta la natura del tutto rispetto a quella delle parti. La filosofia pratica di Mandeville – osserva Kant – è fondata su «inclinazioni puramente egoistiche»13: tuttavia nella rete di condizionamenti che provengono dal «governo civile» queste inclinazioni si traducono nei moventi che determinano il principio della moralità14. In Adam Smith – che Markus Herz annovera tra 11

Cfr. ad esempio H. Saner, Kants Weg vom Krieg zum Frieden, cit., pp. 51-56. AA II 171-174. 13 Refl 6637, AA XIX 122; cfr. anche Refl 6631, AA XIX 118. 14 Cfr. KpV, AA V 40, dove Mandeville figura come sostenitore dei «motivi soggettivi esterni relativi al governo civile, cioè di un’azione che trova il proprio fondamento – dichiaratamente eteronomo – negli stimoli provenienti da una determinata struttura sociale. 12

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gli autori preferiti di Kant15 – la composizione meccanica degli interessi, di per sé potenzialmente divergenti, in un insieme armonico funzionale alla dinamica economico-sociale è chiara sin dalla famosa apertura dell’Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations16. Negli scritti di filosofia della storia e della politica Kant usa più volte l’espressione «meccanismo della natura» o termini analoghi17. In realtà, nei testi kantiani termini come «meccanismo», «meccanico», «macchina», «apparato meccanico» hanno solitamente un’accezione negativa quando sono riferiti all’uomo che, essendo espressione di autonomia, deve essere considerato «più che una macchina» (WA, AA VIII 42). Tuttavia ci sono situazioni nelle quali la meccanicità facilita la funzione ed è miglior garanzia di un esito felice. Soprattutto l’elemento meccanico è importante in quei processi in cui produce effetti che vanno al di là del meccanismo stesso. Ad esempio, la vita delle società politiche nasce, si sviluppa e si mantiene sulla base dell’imposizione e dell’esercizio «meccanico» della forza, in maniera sostanzialmente illiberale e in qualche caso esplicitamente dispotica: tuttavia questi meccanismi non solo consentono la formazione dello stato, ma promuovono – come si vedrà tra poco – il graduale realizzarsi di sempre più elevate condizioni di diritto e di libertà politica. La maggior parte dei meccanismi della naturaprovvidenza sono di questo tipo e conservano l’ambivalenza di ciò che è negativo in sé, ma positivo per gli esiti cui conduce. Il meccanismo può quindi rivestire una funzione pedagogica nel condurre gli uomini da una condizione di incoscienza e condizionamento necessario (il cui limite estremo è l’istinto animale posto all’origine della storia) a uno stato di consapevolezza e di libertà (esemplificato nella forma più piena dal completo sviluppo delle facoltà razionali). Del resto, pur non intaccando la purezza dell’autonomia morale, Kant riconosce che i meccanismi rappresentati dal desiderio del premio o dal timore del castigo sono mezzi utili per istradare un animo rozzo sul cammino della moralità, anche se essi devono essere sostituiti dalla pura rappresentazione del movente morale, non appena hanno sortito il loro effetto incoativo18. È probabile dunque che egli pensasse negli stessi termini per quanto riguarda quella «salutare, ma rude e severa» educazione del genere umano che «viene dall’alto» della provvidenza» (Anth, AA VII 328). A volte traspare la preoccupazione che l’istinto attraverso cui si esplica il meccanismo della natura-provvidenza sia «mitigato» e talora «sostituito» dalle massime della ra-

15

Brief an Kant (09.07.1771), AA X 126. «Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse»: The Works of Adam Smith, Zeller, Aalen 1963 (= ed. 1811-12), 5 voll., II, pp. 21-22. 17 Cfr., ad esempio, AA VIII 364. 18 Cfr. KpV, AA V 152. 16

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gione19. L’intervento della ragione può perfino avere una funzione correttiva del meccanismo naturale. Il passo sopra citato della Idee, secondo cui l’uomo vuole la concordia ma la più saggia natura cerca la discordia, viene corretto da una delle pagine finali dell’Anthropologie, in cui si dice che «la natura ha posto e voluto nella specie umana il germe della discordia e la ragione ne trae la concordia o almeno il costante avvicinamento ad essa» (AA VII 322). In questo modo da un lato la natura educa rudemente l’uomo con il «mezzo» meccanico della discordia, dall’altro la ragione mitiga la natura usando la discordia in funzione del «fine» razionale della concordia. Si realizza così una sinergia tra la natura (con i suoi meccanismi) e la ragione che, pure essendo essa stessa una disposizione naturale, opera in vista dell’emancipazione dalla natura (e dai suoi meccanismi). Ma ciò vale solo fino a che l’uomo non abbia più bisogno della ruvida pedagogia della natura-provvidenza. «A poco a poco tutte le macchine, che servono come impalcatura, devono cadere, quando sia eretto l’edificio della ragione» (Refl 1415, AA XV 616). 4. La storia e il diritto Affinché l’antagonismo sociale sortisca i suoi effetti positivi occorre tuttavia che la componente insocievole della natura umana non prevalga su quella socievole. In caso contrario il conflitto ha un esito esclusivamente distruttivo, come avviene nello stato di natura, che Kant seguendo Hobbes assimila allo stato di guerra. La prima condizione del progresso è quindi il passaggio dallo stato di natura alla società civile. Soltanto «nel recinto della società civile» gli impulsi alla competizione, che rendono impossibile la convivenza nello stato di natura, producono viceversa un effetto positivo, «così come gli alberi in un bosco, proprio perché ciascuno cerca di togliere aria e sole all’altro, si costringono reciprocamente a cercare l’una e l’altro sopra di sé e perciò crescono belli e diritti, mentre quelli che in libertà e separati gli uni dagli altri mettono rami a piacere, crescono storpi, inclinati e storti» (IaG, AA VIII 22). L’elemento costrittivo che impedisce all’antagonismo umano di degenerare nella violenza e nella distruzione è il diritto che viene garantito coercitivamente dallo stato. Continuando la tradizione giusnaturalistica Kant definisce infatti il diritto come «l’insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno si può accordare con l’arbitrio dell’altro secondo una legge universale della libertà» (MS, AA VI 230). Rispetto alle diverse scuole di diritto naturale egli introduce tuttavia due correzioni. In primo luogo la ragione che definisce il diritto naturale è concepita come ragion pura a priori, cosicché il diritto riceve un fondamento trascendentale. In secondo luogo, e di conseguenza, il diritto naturale (o razionale) ha soltanto valore ideale: in altri termini es19

Cfr. Refl 1499, AA XV 783; Refl 1353, AA XV 591.

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so è soltanto un diritto «provvisorio» che, per diventare «perentorio», cioè ultimativo, deve tradursi in diritto pubblico garantito dal potere coercitivo dello stato. Ogni stato costituito rappresenta una realizzazione del diritto ed ogni azione contro di esso comporta il rischio di un ritorno allo stato di natura: per questa ragione Kant esclude ogni diritto di resistenza contro il potere costituito, indipendentemente dal modo in cui è stato instaurato e dalle forme in cui gestisce il comando. Al di là di questo riconoscimento del diritto nella sua fattualità la ragione pura pratica richiede tuttavia che esso sia realizzato nella forma più piena, in modo che lo stato non sia soltanto una sua qualsivoglia manifestazione (che è comunque sempre meglio dell’assenza di diritto), ma diventi un’istituzione politica conforme all’idea stessa del diritto, quale viene definita dalla ragione. Obiettivo del progresso storico deve quindi essere una «costituzione civile perfettamente giusta» (IaG, AA VIII 22), cioè una società civile in cui all’esercizio irresistibile del potere, condizione indispensabile della statualità, vada congiunto il massimo grado di libertà possibile. Sarà questa la costituzione «repubblicana», in cui ciascun cittadino esprime la sua autonomia politica ubbidendo soltanto alle leggi che egli stesso si è dato, sulla base di un «contratto originario» di derivazione rousseauiana, ancorché inteso non come condizione effettiva del consorzio sociale, ma semplicemente come idea normativa della ragione, cui si deve ricorrere per valutare il grado di conformità della costituzione reale al diritto ideale. La realizzazione del diritto non può tuttavia considerarsi conclusa con la sola costituzione internamente perfetta. Il diritto deve essere esteso anche alle relazioni tra i diversi stati. All’istituzione della costituzione repubblicana deve quindi andare congiunta la realizzazione di una «federazione di popoli» che garantisca la pace, risolvendo le vertenze internazionali in maniera pacifica. Sulla natura di questa istituzione internazionale per la pace Kant non ha mai assunto una posizione univoca. Da un lato la ragion pura, che pone il suo indefettibile veto contro la guerra, raccomanderebbe di istituire uno «stato di popoli» che rappresenti l’analogo perfetto della società civile: disponendo di un potere centrale coercitivo, esso sarebbe l’unica istituzione in grado di bandire definitivamente la guerra. D’altro lato considerazioni di realismo politico – soprattutto la difficoltà di superare il concetto tradizionale di sovranità assoluta degli stati – inducono Kant a preferire la soluzione di una «federazione di popoli» intesa come una semplice confederazione (o alleanza) per la pace, che lascia ai singoli stati la loro sovranità ma, con essa, anche la decisione ultima sulla pace e sulla guerra. Dopo una riflessione che sembrava oscilla-

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re tra le due soluzioni, a partire dal 1793 Kant si pronuncia sempre più decisamente a favore della seconda20. La realizzazione della costituzione repubblicana (la costituzione internamente perfetta) e quella della federazione dei popoli (la costituzione esternamente perfetta) sono strettamente interconnesse. Nella Idee Kant fa dipendere la prima dalla seconda; successivamente, indebolendosi la sua fiducia nella possibilità di realizzare una istituzione giuridica internazionale per la pace, egli tenderà a considerare la stessa federazione dei popoli come una conseguenza della costituzione repubblicana la quale, lasciando la decisione sulla guerra almeno in linea di principio al popolo che la deve sostenere, ha una tendenza intrinsecamente pacifica. Kant tende comunque a pensare che non è possibile realizzare la pace e il diritto sul piano internazionale se gli stati non si sono dati anche internamente costituzioni politiche garanti della libertà e della legalità. Costituzione repubblicana e federazione dei popoli sono quindi due obiettivi egualmente essenziali all’interno del processo storico. Tuttavia, bisogna anche ricordare che esse svolgono una funzione soltanto strumentale rispetto alla finalità ultima della storia, che rimane la completa esplicazione delle facoltà razionali dell’uomo. Kant stesso sente il bisogno di scrivere l’Idee per correggere l’opinione, che era stata manifestata l’11 febbraio 1784 sulle «Gothaischen Gelehrten Zeitungen», secondo cui «il conseguimento della perfetta costituzione politica» sarebbe stato da lui considerato «lo scopo finale del genere umano»21. Costituzione repubblicana e federazione dei popoli sono dunque soltanto due tappe, per quanto essenziali, nel processo che conduce alla realizzazione della destinazione umana. Il fatto che obiettivo dello sviluppo storico non sia soltanto la perfetta costituzione interna, ma anche l’instaurazione di una federazione internazionale per la pace, contribuisce inoltre a definire la funzione progressiva del conflitto. L’antagonismo che muove la storia non è soltanto quello sociale, che agisce tra gli individui all’interno della società civile, ma anche quello internazionale, che opera tra i popoli nei loro rapporti reciproci. Le diversità culturali tra le nazioni, ma anche gli odi reciproci che queste generano, esplicano la stessa funzione di stimolo del progresso esercitata sul piano individuale dalla «Erbsucht, Herrschsucht, Habsucht», la triade che definisce la tipologia

20

Sul problema delle relazioni internazionali in Kant cfr. G. Cavallar, Pax kantiana. Systematisch-historische Untersuchung des Entwurfs «Zum ewigen Frieden» (1795) von Immanuel Kant, Böhlau, Wien-Köln-Weimar 1992; G. Marini, Tre studi sul cosmopolitismo kantiano, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa 1998; M. Mori, La pace e la ragione. Kant e le relazioni internazionali: diritto, politica, storia, Il Mulino, Bologna 2008. Per un’introduzione ai problemi relativi allo scritto sulla pace perpetua, cfr. Immanuel Kant. Zum ewigen Frieden, hrsg. von O. Höffe, Akademie Verlag, Berlin 2004 (serie Klassiker Auslegen). 21 Cfr. AA VIII 468 (Anmerkungen).

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fondamentale dei vizi dell’uomo22. Ma la forma estrema di conflittualità tra i popoli è la guerra. E anche alla guerra Kant assegna un’indispensabile funzione nella promozione del progresso umano. È la guerra, o meglio la necessità di uscire da uno stato di guerra perpetuo – ancora una volta secondo un modello hobbesiano – a costringere gli uomini a entrare nella società civile. È la guerra a distribuire la popolazione umana su tutto il globo, cacciando alcuni popoli dalle loro terre e costringendoli ad abitare le lande più lontane e inospitali23. È la guerra a proteggere gli uomini dal dispotismo, impedendo la formazione di stati troppo vasti e preservando l’amore per la libertà e l’indipendenza24. Ma paradossalmente è anche la guerra che provvede alla sua propria limitazione e, almeno tendenzialmente, eliminazione. La sua progressiva complicazione – i sempre più costosi armamenti, la sempre maggiore dipendenza dal debito pubblico, la sempre maggiore interdipendenza tra le nazioni con il conseguente interesse della maggior parte dei popoli a impedire lo scoppio di conflitti che li coinvolgerebbero senza vantaggio – renderà la guerra sempre più difficile e, quindi, sempre più rara. Ma, soprattutto, attraverso le guerre l’assetto internazionale va continuamente modificandosi nella direzione di una maggiore stabilità e legalità, tendendo infine a «una condizione di cose che, in analogia alla società civile, possa conservarsi da sé come un meccanismo automatico» (IaG, AA VIII 24-25). Attraverso la guerra si realizza anche sul piano internazionale quel processo di autodisciplinamento dell’antagonismo che già ha condotto all’uscita dallo stato di natura sul piano interindividuale: il conflitto che distrugge si autoriduce a conflitto che costruisce. La guerra quindi – certo non nelle intenzioni degli uomini, ma secondo il «filo conduttore» della natura-provvidenza – è «uno strumento indispensabile per far proceder ulteriormente la cultura», per cui «soltanto dopo il perfezionamento della cultura (Dio sa quando) potrebbe esserci salutare una pace perpetua» (MAM, AA VIII 121). 5. La storia come sapere regolativo Per esprimere la sua certezza nel progresso Kant attribuisce talvolta alla natura il carattere di una forza necessitante. «Quando io della natura dico che vuole che questa o quella cosa avvenga, ciò non significa che essa imponga a noi un dovere di farla (poiché questo lo può fare solo la ragion pratica libera da coazione), ma che essa la fa da sé, sia che noi lo vogliamo, sia che non lo

22

Cfr. IaG, AA VIII 21; KU, AA V 433; Päd, AA IX 492. Cfr. ZeF, AA VIII 362-365. 24 MAM, AA VIII 120. 23

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vogliamo (fata volentem ducunt, nolentem trahunt)»25. I fatti storici – era stato precisato sin dalla Idee – sono assimilabili a qualsiasi altro fatto della natura e soggiacciono pertanto all’azione di leggi naturali universali26. Kant riteneva di dimostrare ciò facendo riferimento alle uniformità legali che si riscontrano quando determinati fenomeni sociali – ad esempio la costanza numerica delle nascite, dei matrimoni o delle morti – siano esaminati su vasta scala o per lunghi periodi (confondendo in realtà la necessità della legge fisica con la regolarità statistica). Per questo, almeno nell’Idee, egli si sbilancia ipotizzando per il futuro anche la possibilità di un uso predittivo delle leggi storiche, allorché nascesse uno scienziato in grado di scoprirle, così come Keplero o Newton ricondussero a una spiegazione unitaria fenomeni naturali che sembravano disparati. Queste affermazioni hanno messo in imbarazzo gli interpreti, poiché esse sono di per sé incompatibili con le premesse della filosofia critica, in base alla quale non si può dare un sapere costitutivo, cioè avente carattere di conoscenza oggettiva, per oggetti che, come la storia, rappresentino totalità incondizionate al di là di ogni esperienza possibile. Il piano della natura kantiano è stato pertanto accostato non solo all’ottimismo dogmatico delle filosofie della storia illuministiche, ma talvolta anche alla dottrina hegeliana dell’«astuzia della ragione»27. D’altra parte, pur riconoscendo l’influenza sulla filosofia della storia di Kant di esigenze tipiche della cultura illuministica (e quindi di per sé «dogmatiche» da un punto di vista trascendentale), non si può pensare che la Idee, scritta tre anni dopo la prima edizione della Critica della ragion pura, non tenesse conto della prospettiva critica elaborata in quell’opera28. Bisogna quindi presumere che l’uso kantiano del termine 25 ZeF, AA VIII 365. Cfr. anche VAZeF, AA XXIII 171, 179 e 192. Sul tema cfr. R. Brandt, Quem fata non ducunt, trahunt. Der Staat, die Staaten und der friedliche Handel, in Der Vernunftfrieden, in Kants Entwurf im Widerstreit, hrsg von K.-M. Kodalle, Königshausen & Neumann, Würzburg 1996 («Kritisches Jahrbuch der Philosophie», I (1990)), pp. 61-86, dove si sostiene la convergenza tra morale e provvidenza storica: «La ragion pura pratica dell’uomo e la ragione della provvidenza o della natura sono fondamentalmente identiche» (p. 68). 26 Cfr. IaG, AA VIII 17. 27 W.A. Galston, Kant and the Problem of History, cit., accentua fortemente la dimensione della Natura-Provvidenza, in consapevole contrapposizione all’elemento della normatività morale, e interpreta la filosofia della storia kantiana come superamento del liberalismo classico nella direzione della filosofia della storia hegeliana. 28 In Italia, questa osservazione, ormai generalmente accettata, è stata avanzata negli anni Sessanta da P. Chiodi, La filosofia kantiana della storia, «Rivista di filosofia», LVIII (1967), pp. 263-287 in aperta polemica con famoso articolo di E.L. Fackenheim, Kant’s Concept of History, «Kant-Studien», XLVIII (1956-57), pp. 381-398, in cui si sosteneva l’opposizione tra MAM, in cui Kant fonda correttamente la nozione di storicità sull’autodeterminazione della libertà culturale, e la IaG, in cui egli cerca di costruire il processo storico reale sulla base di una concezione teleologica sostanzialmente dogmatica, nella quale dalla libertà culturale si sarebbe dovuto passare a una finale libertà morale. La tesi di una frattura all’interno del sistema kantiano, tra una dottrina critica della conoscenza e della morale e una filosofia sostanzialmente

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«idea», che compare fin dal titolo dello scritto del 1784, abbia una valenza genuinamente trascendentale e debba essere rapportato alle idee della ragion pura, di cui si tratta nella Dialettica trascendentale della prima Critica. Qui l’idea esprime la «forma di un tutto della conoscenza» (B 673), in modo da poter assegnare alle parti la posizione che esse occupano organicamente rispetto alla totalità. L’idea si riferisce dunque ad un’«unità razionale» che non è mai conosciuta oggettivamente, perché non è mai data dall’esperienza e non può quindi essere oggetto di sintesi a priori, ma che serve come concetto euristico per procedere sistematicamente nell’ampliamento della conoscenza. Notoriamente Kant considera questa forma di sapere razionale puramente «regolativa», in contrapposizione alla conoscenza «costitutiva» basata sulla sintesi a priori dell’oggetto. Anche il «disegno della natura» delineato dalla filosofia della storia non costituisce quindi una conoscenza oggettiva, ma rappresenta un sapere regolativo che serve per imprimere un orientamento sistematico ai fatti storici via via considerati: in questo modo l’idea del processo storico nella sua totalità può conferire un significato complessivo ai singoli fatti e anche favorire l’avanzamento della loro conoscenza costitutiva, che si avvale della categoria della causalità necessaria. Quest’ultima tuttavia non riguarderà mai la storia nel suo complesso, ma sempre soltanto serie parziali di fatti, nella misura in cui essi cadono sotto l’esperienza e sono sintetizzabili in base alle forme a priori dell’intelletto. Conoscenza costitutiva e sapere regolativo possono quindi coesistere nella costruzione della filosofia della storia (o meglio nel rapporto organico tra filosofia della storia e storiografia empirica), purché si attribuiscano ad essi ambiti e funzioni ben distinte, esattamente come all’interno della filosofia della natura il ricorso regolativo a idee incondizionate (per esempio l’idea di mondo) non solo non ostacola, ma favorisce l’estensione di una conoscenza oggettiva delle relazioni causali che riguardano porzioni anche vaste, ma sempre limitate, di oggetti naturali. Le idee della ragion pura – e di conseguenza anche l’«idea» di un «disegno della natura» – esprimono la nozione di ordine finale complessivo entro il quale si inseriscono le singole conoscenze causali. La finalità di cui qui si tratta, tuttavia, ha soltanto un carattere logico-sistematico. Si tratta cioè di una finalità che non è intrinseca alla natura (o alla storia), ma è relativa alla modalità conoscitiva con cui il soggetto può rappresentarsi la natura (o la storia) come totalità complessiva. Nella Kritik der Urteilskraft del 1790 Kant e-

«dogmatica» della storia non era comunque nuova: Essa era stata ampiamente diffusa nella cultura europea fino ai primi decenni del Novecento, rafforzata anche dal carattere almeno apparentemente occasionale degli scritti kantiani sulla storia. Forse il primo a richiamare l’attenzione su di essi fu K. Vorländer, nell’Einleitung a I. Kant, Kleinere Schriften zur Geschichtsphilosophie, Ethik und Politik, Meiner, Leipzig 1913.

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labora invece la teoria di un’autentica teleologia naturale29. Anche in questo caso, ovviamente, la finalità può essere oggetto esclusivamente di un sapere regolativo (qui rubricato come «giudizio riflettente»), poiché la nozione di fine è pur sempre un concetto puro della ragione e non dell’intelletto (cioè non è una categoria). Tuttavia nella terza Critica la finalità – cui si riconosce ora la dignità di «principio trascendentale» – appare intrinseca alla natura perché è l’unico principio di spiegazione di quel fenomeno specificamente naturale che è l’organismo: non importa poi se essa si riferisca, nell’uso più proprio, al singolo essere vivente oppure, in un uso analogico, all’intera natura considerata come un solo organismo (o «sistema secondo la regola dei fini»). Anche qui spiegazione causale (giudizio determinante) e interpretazione finalistica (giudizio riflettente) sono perfettamente compatibili. Sebbene l’unità tra meccanismo e finalismo sia rinviata al «sostrato sovrasensibile della natura» (AA V 422), la causalità meccanica opera in funzione della finalità naturale complessiva e, viceversa, l’interpretazione finalistica non preclude mai la necessità di ricercare contemporaneamente la spiegazione meccanica. Soltanto nella Critica del giudizio il principio teleologico consegue pertanto la sua completa fondazione. Ciò si riverbera ovviamente anche sulla filosofia della storia, il cui problema fondamentale era appunto la compatibilità tra causalità meccanica e finalismo. Solo mediante l’apparato teorico elaborato nella terza Critica viene pienamente giustificata la convergenza tra una connessione causale e necessaria dei fatti da un lato (di cui i «meccanismi» della natura-provvidenza sono l’espressione più chiara) e la presenza di una finalità complessiva della storia. Non è un caso infatti che in quest’opera Kant abbia inserito, al § 83, la più sintetica (e per certi aspetti più chiara) esposizione della sua concezione della storia, collocandola all’interno dell’ormai compiuto sistema trascendentale: la storia è infatti assimilabile alla natura, essendo entrambe date dalla totalità dei fatti (naturali o storici), considerata tuttavia nel primo caso nella sua dimensione diacronica e nel secondo in quella sincronica. In questa prospettiva teleologica il «meccanismo» della natura, con il suo carattere antagonistico, svolge una funzione meramente strumentale in vista della realizzazione della cultura, termine finale della storia, nonché delle sue 29 Riguardo al tema della teleologia nel pensiero di Kant ha costituito una pietra miliare il lavoro di K. Düsing, Die Teleologie in Kants Weltbegriff, Bouvier, Bonn 1968, il cui cap. V è espressamente dedicato all’estensione del modello teleologico dall’ambito della natura a quello della cultura e della storia. Da allora in poi sono stati numerosi gli studi del rapporto tra teleologia e storia o teleologia e politica. Cfr. in particolare: J.D. McFarland, Kant’s concept of teleology, University of Edinburgh Press, Edinburgh 1970; L. Krasnoff, The Fact of Politics: History and Teleology in Kant, «European Journal of Philosophy», II (1994), pp. 23-40; T. Mertens, Zweckmäßigkeit der Natur und politische Philosophie bei Kant, «Zeitschrift für philosophische Forschung», XLIX (1995), pp. 220-240; H. Wittwer, Transzendentale Eschatologie und kritische Geschichtsbetrachtung bei Kant, «Politisches Denken», Jahrbuch 1995/96, pp. 179-196.

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due condizioni, la società civile e la federazione dei popoli. Salvo restando, ovviamente, che l’interpretazione della storia nei termini di processo unitario, dalla quale ridonda sui singoli eventi una valenza teleologica che va al di là della loro connessione causale, è soltanto l’effetto di un «giudizio riflettente». D’altra parte, la ricerca sia delle singole connessioni causali sia dei «meccanismi» generali – cioè delle uniformità storiche, sempre di natura causale, che si ripetono in più situazioni diverse, fornendo la stessa spiegazione per una pluralità di fattispecie differenti – non solo non è disincentivata, ma anzi riceve nuovo impulso dalla possibilità di inserire le spiegazioni causali specifiche (costitutive) all’interno di una prospettiva finalistica generale (regolativa). Conoscenza costitutiva e sapere regolativo trovano quindi una conciliazione. Ciò non toglie che questi due elementi ricevano un’accentuazione differente nelle diverse fasi del pensiero kantiano. Nell’Idee, come si è visto, Kant nutre ancora la speranza nella possibilità di un rafforzamento futuro delle capacità predittive della conoscenza storica. Negli ultimi anni, invece, questa aspirazione teoretica viene meno. Nell’ultimo scritto dedicato alla filosofia della storia, Ob das menschliche Geschlecht in beständigen Fortschreiten zum Besseren sei, che occupa la seconda parte di Der Streit der Fakultäten (1798), viene del tutto esclusa la possibilità di una conoscenza del corso complessivo dei fatti storici che si modelli su quella del corso degli astri. Prevedere l’intero processo della storia significherebbe porsi dal punto di vista della provvidenza: ma questa conoscenza è preclusa all’uomo che, a differenza di Dio (per il quale prevedere e vedere sono identici), può fare previsioni solo ricorrendo a quella «connessione secondo leggi naturali» che è inapplicabile ai fatti storici – riconosce ora Kant – nella misura in cui sono risultato di azioni libere degli uomini. Tuttavia la conoscenza costitutiva, se non può essere estesa alla determinazione dell’intero corso storico, continua a essere utilmente applicata a settori circoscritti, già disponibili come dati di esperienza. Infatti è vero che, da un lato, non è possibile una conoscenza empirica dell’intera storia: di conseguenza non possiamo decidere in base all’esperienza se il corso storico abbia carattere progressivo, regressivo o stazionario. Ma, d’altra parte, soltanto attraverso l’esperienza, seppure limitata a singoli casi, possiamo trovare conferma oggettiva – cioè anche costitutivamente valida – di quella prospettiva teleologica che è ipotizzabile sul piano regolativo. Per questo la tesi fondamentale dello scritto consisterà nell’indicare un determinato fatto storico (notoriamente, l’entusiasmo del pubblico per la Rivoluzione francese), con tutte le connessioni causali che esso comporta a monte e a valle, come prova empirica del progresso morale, sulla base dell’assunto che «è pur necessario riconnettere a qualche esperienza la storia profetica del genere umano» (AA VII 84).

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MASSIMO MORI

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6. La storia e la morale La spiegazione causale (costitutiva) e l’interpretazione teleologica (regolativa) sono due forme di considerazione teoretica della storia: esse riguardano, in diversa forma, il problema della conoscenza dello sviluppo storico. Accanto a questo aspetto espressamente teoretico, la storia presenta però in Kant una rilevante connessione anche con il problema morale30. Quest’ultimo rapporto si articola in due questioni che, seppure strettamente interconnesse, devono rimanere distinte. La prima di esse riguarda il carattere del progresso storico: se esso sia puramente culturale o anche espressamente morale. Si tratta cioè di sapere se l’esito ultimo della storia riguardi soltanto il diritto e la cultura, o anche una moralità riferita non all’individuo (il che dipende dal comportamento virtuoso, e quindi dalla libertà, del singolo), ma al genere umano nel suo complesso. La seconda questione è invece se lo sviluppo storico dipenda dall’impegno morale dell’individuo e se quindi la sua promozione costituisca un contenuto dell’imperativo categorico. Al primo problema Kant sembra dare risposte diverse. Nella misura in cui il progresso storico è affidato ai meccanismi della natura-provvidenza, ancorché essi vengano inseriti in una prospettiva finalistica, non è possibile approdare alla moralità, che deve essere il risultato di una scelta autonoma e non di un effetto causale. Alla domanda «qual vantaggio apporterà all’umanità il progresso verso il meglio» Kant risponde nella seconda parte di Der Streit der Fakultäten: «non una quantità sempre crescente della moralità dell’intenzione, ma un aumento degli effetti della sua legalità negli atti doverosi, quale che sia il movente che li determina» (AA VII 91). Aumenteranno dunque le azioni esteriormente conformi alla legge morale (cioè le azioni legali), ma esse non saranno determinate dal puro rispetto razionale del dovere, bensì da moventi eteronomi dipendenti dal contesto sociale. Il progresso sarà l’effetto di 30

Che la filosofia della storia di Kant debba essere interpretata nel quadro della filosofia pratica (pratico-politica o espressamente etico-pratica) è posizione molto diffusa. Essa è tuttavia particolarmente presente nella critica di lingua francese, dove è stata difesa, in termini ormai classici, da V. Delbos, La philosophie pratique de Kant, Alcan, Paris 1905 (poi Presses Universitaires de France, Paris 1969), pp. 264-299 ed E. Weil, Problèmes kantiens, Vrin, Paris 1963, 19702, pp. 109-141. Recentemente questa tesi è stata radicalizzata, in direzione della teleologia morale, da J.-M. Muglioni, La philosophie de l’histoire de Kant. Qu’est-ce que l’homme?, Presses Universitaires de France, Paris 1993, che vede nella filosofia della storia di Kant, e nella fiducia nel progresso che essa difende, il prolungamento dei postulati pratici, in modo da concretare nell’esperienza storica quell’accordo tra libertà e necessità che l’idea del sommo bene presuppone in linea generale: la filosofia della storia di Kant sarebbe quindi la risposta più completa al problema dell’antropologia filosofica kantiana, intesa però nella sua dimensione metafisica e intelligibile. Si veda anche P.-E. Druet, La philosophie de l’histoire chez Kant, Harmattan, Paris 2002. Il carattere pratico della filosofia della storia kantiana viene invece piegato in senso culturale (Kant propugnatore del multiculturalismo) da M. Castillo, Kant et l’avenir de la culture, Presses Universitaires de France, Paris 1990.

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una «costrizione morale», in forza della quale «non è affatto richiesto che tutti gli uomini siano virtuosi, ma è necessario soltanto che prenda il sopravvento l’abitudine a mostrare semplicemente un rispetto pubblico per la moralità» (Refl 1394, AA XV 607). Il miglioramento del genere umano sarà quindi la conseguenza pressoché automatica dei meccanismi sociali che rientrano nella funzione di autodisciplinamento della natura-provvidenza. Del resto, anche nella parte della Kritik der Urteilskraft dedicata alla storia Kant fa distinzione tra la cultura, che è la destinazione umana nella storia, e la moralità, che cade al di fuori di essa. La cultura, per lo più risultato dei meccanismi che regolano la storia, è lo «scopo ultimo» (letzter Zweck) della natura, della quale fa ancora parte come momento apicale di quel sistema dei fini in cui essa consiste. Lo scopo finale (Endzweck), che è indipendente da ogni condizionamento naturale, cade invece al di fuori della natura: esso è rappresentato dall’uomo non come soggetto antropologico della natura e della storia, ma come soggetto noumenico della moralità. La finalità intrinseca della storia (che non è altro che natura considerata diacronicamente anziché sincronicamente) non va al di là della cultura, della piena realizzazione delle disposizioni razionali dell’uomo, senza poter attingere la moralità, lo scopo finale, che richiede il passaggio alla sfera noumenica. Rispetto al fine morale il processo storico può avere soltanto una funzione propedeutica, in quanto la cultura, sotto forma di «disciplina» delle passioni umane, rende abituali quei comportamenti esteriormente legali che possono favorire l’adesione interiore alla legge morale, la quale è comunque lasciata all’autonomia del singolo soggetto. Tuttavia Kant afferma in più luoghi che la storia ha anche un fine essenzialmente morale. Già nella Idee egli esprime la fiducia che con il progresso le «rozze disposizioni naturali alla distinzione morale» diventino «princìpi pratici» e che la società da «accordo estorto patologicamente» si trasformi in un «tutto morale» (AA VII 21). Analogamente la polemica con Mendelssohn, di cui si è detto, è mossa dalla convinzione che la specie umana sia in continuo progresso non solo in vista del suo «fine naturale», che è la cultura, ma anche del suo «fine morale» (AA VIII 308-309). Nell’Anthropologie Kant prospetta la moralità come fase ultima dell’avanzamento dell’uomo, dopo la cultura e la civilizzazione (AA VII 324). Seppure ancora lontana, la moralità rientra nelle finalità dello sviluppo umano. In questa prospettiva la convergenza tra causalità e finalità che, come si è visto, costituisce uno degli aspetti centrali della filosofia kantiana della storia, riveste un più ampio significato, che del resto era già emerso come uno dei problemi fondamentali della terza Critica. Non si tratta semplicemente di conciliare due forme di spiegazione teoretica – quella causale e quella finale – ma di mostrare come un corso storico regolato in gran parte da meccanismi automatici possa essere compatibile con la realizzazione di una finalità che,

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MASSIMO MORI

come la moralità, presuppone la libertà e autonomia dei soggetti agenti. Anche il carattere regolativo della spiegazione finalistica assume un significato diverso. Non si tratta soltanto, come nel caso dell’organismo nella Critica del giudizio, di fornire una giustificazione teoretica, seppure cognitivamente più debole (regolativa anziché costitutiva), di un fenomeno che non può essere spiegato con la categoria della causalità; ma di rappresentarsi un insieme di eventi, le cui connessioni specifiche sono di natura causale, in modo che, considerato nella sua totalità complessiva, sia tale da non solo non impedire, ma favorire lo sviluppo della moralità (di cui rimangono ovviamente responsabili esclusivamente i singoli soggetti morali). Il progresso del genere umano può così apparire come un «principio» che, se non è dimostrabile teoricamente, è tuttavia lecito «assumere» come fondamento pratico dell’azione (TP, AA VIII 27). L’azione della provvidenza nella storia, con la relativa funzionalizzazione della causalità meccanica a una finalità ultima, non può essere dimostrata come conoscenza oggettiva: ma questa prospettiva, che appare «eccessiva» sotto l’aspetto teoretico, dove la ragione umana «deve tenersi nei limiti dell’esperienza possibile» (ZeF, AA VIII 362), acquisisce realtà pratica come criterio per indirizzare l’uomo verso il suo fine morale. Con ciò arriviamo alla seconda questione, relativa all’influenza della legge morale sullo sviluppo storico31. Per delineare il corso della storia nell’interezza delle sue finalità, compresa quella pratica, accanto ai saperi teoretici (costitutivo e regolativo) occorre una terza forma di conoscenza, espressamente morale32. È la moralità infatti che deve esprimere l’orientamento finale della storia e, di conseguenza, il criterio fondamentale sulla base del quale quest’ultimo può essere individuato teleologicamente con un sapere di tipo regolativo. La direzione della storia non può essere compresa senza il riferimento al giudizio morale e all’imperativo categorico che esso esprime. «Infatti io mi 31 La duplice tesi, che 1) ci sia convergenza tra processo storico e sviluppo della moralità e che 2) ciò dipenda dal fatto che l’obiettivo della storia coincida con un imperativo categorico, seppure inteso non soltanto in senso formale ma riempito di contenuti (il sommo bene nel mondo come unione della finalità morale con quella fisica), è stata esemplarmente sostenuta da Y. Yovel, Kant and the Philosophy of History, Princeton University Press, Princeton 1980. Sensibile a suggestioni hegeliane, Yovel non limita tuttavia il discorso alla dimensione normativa che investe il soggetto morale agente nel mondo storico, ma vede nella storia e nelle istituzioni in essa realizzate (apparati giuridici, stati, chiese) altrettante «oggettivazioni» della moralità, la quale si realizza nell’elemento spazio-temporale e trova nel mondo storico-empirico la sua externalization o il suo embodiment. 32 Cfr. M. Mori, Conoscenza e mondo storico in Kant, in Etica e mondo in Kant, a cura di L. Fonnesu, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 273-96. Che la conoscenza teoretica della storia, puramente regolativa nella misura in cui riguarda la totalità del processo, richieda l’apporto di una prospettiva morale che fondi il valore assoluto della finalità storica è sostenuto da W.J. Booth, Interpreting the World: Kant’s philosophy of history and politics, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 1986, tuttavia attraverso una ricostruzione a carattere prevalentemente teorico e poco rispondente ai testi kantiani.

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baso sul mio dovere innato di agire sulla posteriorità, in ogni membro delle generazioni, [...] in modo che essa diventi migliore (della qual cosa si deve ammettere anche la possibilità) e in modo che questo dovere possa tramandarsi regolarmente dall’uno all’altro membro delle generazioni» (TP, AA VIII 309). Nella Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785) e nella Kritik der praktischen Vernunft (1788) questo imperativo è descritto in termini puramente formali. Ma a partire dagli anni Novanta Kant mostra un interesse crescente anche per la definizione degli aspetti contenutistici della virtù33. Die Metaphysik der Sitten del 1798 indicherà espressamente due di questi imperativi contenutistici: la ricerca della perfezione propria e della felicità altrui. Ma imperativi contenutistici sono anche l’uscita dallo stato di natura internazionale oltreché interindividuale, la realizzazione della pace perpetua, la realizzazione completa del diritto. Questi ultimi sono imperativi della ragion pura pratica nel suo uso giuridico, come i primi sono imperativi della ragion pura pratica nel suo uso etico. Ma essi sono anche obiettivi fondamentali del processo storico. Il che vuol dire che nella motivazione morale risiede una delle molle fondamentali della storia. È presupponendo questa motivazione morale che si può costruire, come ipotesi euristica fondata sull’«interesse» della ragione, un’interpretazione regolativa della storia finalizzata in primo luogo alla realizzazione della cultura, come finalità interna al corso storico, e in secondo luogo, al perfezionamento morale dell’umanità, come direzione escatologica della storia che va al di là dei suoi meccanismi causali. Questa motivazione pratica non è altro che quella «disposizione morale» o quel «carattere morale» dell’umanità la cui esistenza è dimostrata – come si legge nel Der Streit der Fakultäten – da un particolare «avvenimento del nostro tempo», cioè dall’entusiasmo disinteressato dimostrato dai contemporanei per la Rivoluzione francese e per la libertà che essa ha promosso (SF, AA VII 85). Ma questo entusiasmo è un dato dell’«esperienza», cioè è un fenomeno che ha le sue cause e i suoi effetti empirici. In questo modo si chiude il cerchio che connette i tre saperi che entrano nella storia. L’imperativo categorico che scaturisce dalla ragion pura pratica indica quale deve essere la meta finale della storia (sapere morale). Sulla base di questo interesse morale il corso storico può essere interpretato come un sistema di fini, al quale è subordinato ogni meccanismo causale (sapere regolativo). Sebbene questa totalità storica cada al di fuori dell’esperienza possibile (e quindi della conoscenza oggettiva), è possibile avere alcuni frammenti di esperienza che ne confermano la tendenza sul piano della conoscenza fenomenica (sapere costitutivo). 33 Sul crescente interesse di Kant per i contenuti della morale e la possibilità di una sua applicazione concreta ha giustamente insistito Luca Fonnesu, in particolare nell’importante saggio La filosofia pratica di Kant e la realizzazione della morale, in L. Fonnesu, Per una moralità concreta. Studi sulla filosofia classica tedesca, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 39-56.

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7. Storia ed escatologia Nella misura in cui è plausibile la tesi che la finalità ultima della storia non sia soltanto la cultura, ma anche la moralità del genere umano, la meta dello sviluppo storico viene a cadere al di là del corso fenomenico degli eventi. La storia assume pertanto una valenza escatologica34. Questa è la visione prospettata da un tardo scritto kantiano, la Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft del 179335. La tesi fondamentale dell’opera, come noto, è la convergenza tra religione e morale: i contenuti prescrittivi della religione sono gli stessi imperativi etici, considerati tuttavia come espressione del comando di Dio anziché della semplice ragione. Questa tesi generale si sviluppa nei due nuclei teorici in cui si articola la Religion. Attraverso la dottrina del «male radicale» la prima parte dell’opera elabora una definizione positiva del male, in conformità con le esigenze di un’autentica concezione religiosa, a fronte della concezione meramente negativa che esso aveva finora ricevuto sul piano etico, come mancata determinazione della volontà da parte della ragione a causa delle interferenze sensibili. D’altra parte la «radicalità» del male viene ricondotta alla naturale tendenza dell’uomo a invertire il corretto ordine dei moventi, anteponendo la motivazione eteronoma a quella autonoma anche quando sceglie il bene – e quindi di nuovo a una spiegazione di tipo etico. Il secondo nucleo, diversamente sviluppato nelle parti seguenti, riguarda principalmente la «lotta» fra il principio buono e quello cattivo e la conseguente «vittoria» del primo sul secondo. Secondo la lettera scritturale il principio cattivo è incarnato da Satana e quello buono da Cristo ma, nell’interpretazione razionalistica che Kant ne dà, la lotta tra i due princìpi riflette il contrasto tra la volontà dell’uomo di rispettare la legge morale e la radice perversa che tende incessantemente a distoglierlo da essa. La stessa cristologia è reinterpretata nei termini della morale kantiana: il valore esemplare della figura di Cristo deriva dal fatto che egli ha realizzato l’ideale razionale della perfezione morale e quindi dell’«umanità gradita a Dio» (AA VI 61). La prospettiva escatologica aperta dalla Religion ha di per sé un’implicita valenza storica. A causa di due specifici aspetti della concezione religiosa kantiana l’incidenza dell’escatologia sulla filosofia della storia non è tuttavia sol34

Per questo aspetto in generale rimane fondamentale G. Cunico, Il millennio del filosofo: chiliasmo e teleologia morale in Kant, Edizioni ETS, Pisa 2001. 35 Il fatto che lo scritto sulla religione sia da connettersi non solo con quelli di filosofia pratica, ma anche e soprattutto con quelli di filosofia della storia è stato sostenuto, tra i primi, da M. Despland, Kant on History and Religion, McGill-Queen’s University Press, MontrealLondon 1973: l’operazione di Despland è tuttavia quella di legare la filosofia della religione, e quindi della storia, al problema della teodicea, sulla quale si incentra in particolare la sua attenzione.

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tanto generica. In primo luogo, il processo di progressiva salvazione dell’uomo non riguarda il singolo, ma investe l’umanità intera36. In quanto tale esso presenta un carattere collettivo che Kant delinea riferendosi al modello della società civile. L’uomo, come è uscito dallo «stato di natura giuridico» che comportava la guerra di tutti contro tutti, nello stesso modo deve uscire dallo «stato di natura etico», in cui persiste l’ostilità del principio cattivo contro quello buono. E, come sul piano giuridico questa uscita è possibile soltanto attraverso l’istituzione di una società politica sotto il potere delle leggi civili, nello stesso modo sul piano morale gli uomini debbono costituire una «comunità etica» sotto le leggi della sola virtù. L’unica personificazione possibile dell’autorità sovrana che presiede alla società etica – e qui avviene il trapasso dall’etica alla religione – è «Dio in quanto sovrano morale del mondo» (AA VI 99). La comunità etica degli uomini si configura pertanto come una «chiesa invisibile», intesa come «semplice idea dell’unione di tutti i giusti sotto il governo immediato ma morale di Dio» (AA VI 101). In secondo luogo, il processo di realizzazione della comunità etica, e quindi della chiesa universale, comporta uno stretto rapporto dialettico tra intelligibile e sensibile, tra noumenico e fenomenico o, più semplicemente, tra il piano della normatività extra-storica e quello della realizzazione storico-temporale. La chiesa universale, che si fonda sulla «fede razionale pura», si deve realizzare attraverso manifestazioni storiche, che costituiscono per così dire lo «schema» sensibile di ciò che è meramente intelligibile. All’unità della chiesa invisibile fa quindi riscontro nel mondo storico una pluralità di «chiese visibili», che si fondano sull’autorità positiva di un libro sacro e su una fede a carattere statutario. La prospettiva insieme storica ed escatologica aperta dalla Religion è quella di una progressiva, asintotica risoluzione degli «schemi» sensibili rappresentati dalle chiese visibili nella sostanza spirituale della chiesa invisibile e della fede razionale pura. Questa prospettiva storica implica pertanto un radicale spostamento d’accento per quanto riguarda il rapporto tra causazione meccanica e motivazione morale del progresso. Nella prospettiva storico-religiosa della Religion, paradossalmente, viene ridotta al minimo la funzione provvidenziale, in senso causale, di Dio (limitata esclusivamente all’intervento della «grazia» come complemento necessario all’uomo per superare la radicalità del male che affligge la sua natura). La sovranità morale di Dio sul mondo esprime una dimensione essenzialmente normativa, che indica agli uomini qual è il telos finale della destinazione umana, anche al di là degli obiettivi specificamente 36 Che il superamento del male radicale costituisca un «compito collettivo» e investa quindi non soltanto l’ambito della morale individuale, ma anche quello della storia è una delle tesi fondamentali di S. Anderson-Gold, Unnecessary Evil. History and Moral Progress in the Philosophy of Immanuel Kant, State University of New York Press, Albany (N.Y.) 2001.

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MASSIMO MORI

culturali della storia in senso proprio. Affinché la storia, nel senso più ampio del termine, che investe anche i suoi esiti escatologici, possa conseguire, o almeno avvicinarsi asintoticamente alle sue finalità – ovvero affinché le chiese visibili (ancora militanti) si trasformino progressivamente in una chiesa universale invisibile (progressivamente trionfante) – non servono le «dande» della natura-provvidenza: occorre invece la progressiva conversione morale dell’uomo, che si traduce in una graduale realizzazione del sommo bene nel mondo. Ciò a ulteriore conferma del fatto che, almeno per il Kant più avanti negli anni, la comprensione della storia non si appella solo al sapere teoretico (sia esso costitutivo o regolativo), ma poggia essenzialmente su un sapere normativo. Essa presuppone una conoscenza morale che, se delineata in generale dai criteri universali dell’imperativo categorico, richiede sempre più pressantemente la definizione di contenuti morali specifici, che si sostanzino nella concretezza dell’esperienza storica37.

37 Secondo la presentazione che abbiamo dato si possono avvertire nella filosofia della storia di Kant due componenti: da un lato l’esigenza prevalentemente teorica di riconoscere nel processo storico una totalità che obbedisce a una finalità unitaria, dall’altro l’istanza prevalentemente etica di vedere in essa il teatro della realizzazione concreta della morale e del diritto da parte del soggetto agente. Sicuramente i due aspetti sono strettamente connessi poiché è la prospettiva finalistica della storia a conferire senso al fatto che l’uomo si impegni moralmente in essa. Tuttavia esse hanno anche caratteri distinti: nella prima il progresso riposa su meccanismi finalizzati a uno scopo che sono indipendenti dall’uomo (la natura-provvidenza), nella seconda invece la realizzazione del progresso è affidata soprattutto all’elemento normativo e all’intraprendenza morale dell’individuo. Questa esigenza di distinguere, nella filosofia kantiana della storia, il duplice obiettivo di un finalismo oggettivo da un lato e di un impegno soggettivo dall’altro è giustamente sottolineata in A. Honneth, Die Unhintergehbarkeit des Fortschritts. Kants Bestimmung des Verhältnisses von Moral und Geschichte, in Recht – Geschichte – Religion. Die Bedeutung Kants für die Gegenwart, a cura di H. Nagl-Docekal e R. Langthaler, Akademie Verlag, Berlin 2004 («Deutsche Zeitschrift für Philosophie», Sonderband 9), pp. 85-98. Honneth tuttavia fa convergere nel primo momento l’interpretazione teoretica e quella pratica (sulla base della giusta osservazione che l’imperativo morale nella storia presuppone la concezione teoretica della finalità) e riserva l’aspetto dell’impegno individuale e soggettivo all’elemento – definito «alternativo» – dell’attività pubblica, sul piano culturale e politico, a favore degli ideali dell’illuminismo e della libertà (in questo senso diventano significativi soprattutto la Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung? e la seconda parte dello Streit der Fakultäten, dove si parla degli effetti dell’entusiasmo per la Rivoluzione francese). Questa prospettiva è affascinante perché, obbedendo all’esigenza habermasiana della «detrascendentalizzazione» del pensiero di Kant, avvicina la sua filosofia della storia alle esigenze del mondo contemporaneo. In quanto tale appare pienamente condivisibile, ma non si può fare a meno di osservare che, proprio per questo, è lontana dal testo kantiano.

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Paolo Parrini

Epistemologia

0. “Rivoluzione copernicana” ed epistemologia In queste pagine userò il termine “epistemologia” per indicare quell’area di intersezione fra due discipline specialistiche (la filosofia della conoscenza, o gnoseologia, e la filosofia della scienza) la quale si occupa in modo specifico della validità/verità delle nostre pretese conoscitive, comuni e scientifiche. A tali pretese conoscitive si è soliti riferirsi tanto in termini mentalistici, parlando per esempio di giudizi (apofantici), quanto in termini semantico-linguistici. In quest’ultimo caso si parla vuoi di proposizioni e di enunciati (sempre apofantici) vuoi di asserzioni, ove per “enunciato” si intende per lo più una forma linguistica significante di tipo dichiarativo, per “proposizione” il significato di quella forma linguistica e per “asserzione” l’unione di un enunciato con il suo contenuto semantico. Questo peculiare uso del termine “epistemologia” non appartiene al vocabolario kantiano. E tuttavia esiste un rapporto privilegiato fra l’indagine epistemologica così intesa e alcune fondamentali idee che Kant ha sviluppato nel periodo critico a partire dalla Dissertazione del 1770 attraverso la Critica della ragion pura, i Prolegomeni ad ogni futura metafisica, i Principi metafisici della scienza della natura e la Critica del giudizio fino ai materiali sul “passaggio” dalla metafisica alla fisica confluiti nell’Opus postumum. Sia ben chiaro: dicendo questo, non intendo prendere posizione sul vecchio contrasto fra l’interpretazione neokantiana e quella heideggeriana; non intendo cioè sostenere che nella monografia del 1929 Kant und das Problem der Metaphysik Heidegger abbia avuto torto a considerare la Critica della ragion pura più una fondazione su basi diverse della metafisica che l’elaborazione di una nuova teoria della conoscenza (in particolare della conoscenza scientifica). In realtà, quel contrasto non aveva molta ragion d’essere perché Kant non avrebbe potuto conseguire il risultato privilegiato da Heidegger senza la costruzione di una gnoseologia caratterizzata dalla “rivoluzione copernicana” (una denominazione la cui appropriatezza non è andata esente da problemi). Le due letture, heideggeriana e neokantiana, andrebbero considerate piuttosto complementari che contrapposte: entrambe hanno il merito di mettere in evidenza aspetti indispensabili e di pari peso del tentativo kantiano di

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PAOLO PARRINI

rinnovare l’indagine filosofica su basi critico-trascendentali. Approfondire questo discorso comporterebbe naturalmente un esame – qui impossibile – della dimensione della temporalità e della facoltà dell’immaginazione; si tenga comunque presente che già lo storico commentario di Herbert James Paton, il quale fin dal titolo portava in primo piano il tema della Kant’s Metaphysic of Experience (1936), coniugava i due argomenti contenendo al tempo stesso una dettagliata ricostruzione della gnoseologia critica. Nel pronunciarmi per un rapporto privilegiato fra approccio epistemologico e progetto critico-trascendentale ciò che mi preme mettere in risalto è il tipo d’impostazione adottato da Kant. Il nocciolo della questione è stato ben colto da Cassirer. A suo parere, la caratteristica distintiva di quell’impostazione è che essa si svincola da preliminari opzioni ontologico-metafisiche riguardanti la polarità soggetto conoscente/oggetto conosciuto. Prima di Kant «le cose e l’io erano stati sempre proiettati, per poter venir compresi nella loro connessione, su di un comune sfondo metafisico»; adesso, viceversa, si va alla ricerca della «forma logica, fondamentale e universalmente valida, dell’esperienza in genere, che dovrà essere vincolante in egual misura sia per l’esperienza “interna” che per quella “esterna”». In questo senso si possono applicare alla filosofia critica «le parole del famoso epigramma di Schiller: essa non sa nulla sulle cose e nulla dell’anima». L’indagine cessa di guardare alle «cose» per volgersi ai «giudizi sulle cose»1. Secondo il significato genuino e più profondo della rivoluzione copernicana, «non è perché esiste un mondo di cose che ci si dà un mondo di nozioni e di verità come sua riproduzione e copia»; al contrario, per noi vi è «un ordine» di oggetti e non semplicemente di «impressioni e rappresentazioni» proprio perché vi sono «giudizi incondizionatamente certi» la cui validità/verità «non dipende né dal singolo argomento empirico su cui vertono, né dalle particolari circostanze empiriche e temporali in cui vengono pronunziati». Entro la prospettiva kantiana, «giudizio e oggetto sono concetti strettamente correlati»: nel suo significato critico, «la verità [= realtà] dell’oggetto si può cogliere e fondare sempre solo movendo dalla verità del giudizio»2. La nozione di “oggettività” va di pari passo con l’attribuzione di un valore di verità alle asserzioni che riguardano l’esistenza e le proprietà degli oggetti, sia “interni” che “esterni”. Nel corso del Novecento la ricerca di un’impostazione “de-ontologicizzata” del problema della conoscenza ha trovato un’ulteriore formulazio1 E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, vol. 2 (1906, 1910-19112), trad. it. Storia della filosofia moderna, vol. 2, Einaudi, Torino 1955, pp. 718-9. 2 E. Cassirer, Kants Leben und Lehre (1918), trad. it. Vita e dottrina di Kant, La Nuova Italia, Firenze 1984, pp. 177 e 339 (traduzione leggermente modificata; ma l’inserimento dell’espressione tra parentesi quadre è nel testo).

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ne nella fenomenologia, e in particolare nella critica di Husserl all’“atteggiamento naturale”. Ma a prescindere da queste diramazioni dell’approccio kantiano – le quali, sia detto per inciso, si estendono anche ad alcuni aspetti dell’empirismo logico – il punto che qui occorre mettere in evidenza è il seguente: la prospettiva delle condizioni di validità dei giudizi è quella che consente di far emergere al meglio il senso della rivoluzione copernicana, sebbene questo non implichi né la priorità dello scopo gnoseologico rispetto allo scopo metafisico, né tanto meno l’idea – in verità piuttosto peregrina – che Kant sia rimasto impigliato in una confusione fallace fra epistemologia e ontologia. La rivoluzione kantiana, infatti, si basa sulla distinzione (non sulla confusione) tra l’essere in sé delle cose e la conoscenza che ne abbiamo; ciò che essa fa ruotare intorno al soggetto conoscente sono gli oggetti in quanto oggetti conosciuti, non in quanto cose in sé. Di più. Affrontare il rapporto fra epistemologia e “svolta critico-trascendentale” dal punto di vista aletico, può essere utile, oltre che per dare risalto al motivo della “de-ontologizzazione”, anche per altre due ragioni. Anzitutto, per poter condurre il discorso su un piano di massima generalità e astrazione teorica. La teoria della verità, infatti, non fa che esplicitare il significato della tesi per l’appunto più generale e astratta che Kant ha sostenuto circa la natura della conoscenza, ossia che essa è sintesi di forma e materia. In secondo luogo, proprio la generalità e l’astrattezza dell’impostazione consentono di individuare una sorta di “minimo comun denominatore” fra interpretazioni assai diverse fra loro, quali quelle che intendono la gnoseologia critica in modo più sbilanciato verso il soggettivismo e l’idealismo e quelle che la intendono in modo più sbilanciato verso l’oggettivismo e il realismo. Purtroppo ancor’oggi, nonostante il vasto e pregevole lavoro svolto dai commentatori, non si è riusciti a formulare un’interpretazione complessiva del testo kantiano che non sia costretta a sacrificarne questa o quella particolarità. Prendere le mosse dalla concezione della verità significa invece partire da un tratto della teoria critico-trascendentale che è in se stesso meno controvertibile di altri. E ciò risulterà particolarmente utile nel discutere il rapporto idealismo/realismo (§ 2) e il nesso fondazionalismo/razionalismo (§ 3). Essenziale per entrare in tema è la distinzione che Kant introduce in via preliminare fra definizione della verità e criterio della verità3. Sul piano defi3 Kant affronta in modo specifico il problema della verità nelle Sezioni III e IV dell’Introduzione alla Logica trascendentale (A 57/B 82 – A 65/B 88, trad. it. cit., pp. 177-185). Le indicazioni dei luoghi citati della Critica della ragion pura verranno date direttamente nel testo seguendo la procedura standard che fa riferimento alla prima (A) e alla seconda (B) versione dell’opera come riprodotte nell’edizione dell’Accademia. Verrà utilizzata la traduzione italiana a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2004, con testo tedesco a fronte. Nel caso dei Prolegomena, invece, si farà uso della trad. it. curata da P. Martinetti, con Postfazione e apparati di

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nizionale egli dà per «acquisita e presupposta» la caratterizzazione tradizionale di essa come «accordo della conoscenza con il suo oggetto» (A 58/B 82, trad. it. cit., p. 177). Al tempo stesso, però, precisa che tale definizione è puramente «nominale» e non costituisce una risposta all’ulteriore problema di «sapere quale sia il criterio generale e sicuro della verità di una qualsiasi conoscenza» (A 58/B 82, trad. it. cit., ibid.). Ed è appunto per affrontare questo secondo problema – il vero nocciolo epistemologico della questione – che fa riferimento alla distinzione fra componenti formali e componenti materiali del processo conoscitivo. Per Kant non è ragionevole andare alla ricerca di un criterio generale della verità se si intende tale criterio in senso materiale. Siccome la definizione nominale ci dice che la verità consiste nell’accordo di una conoscenza con il suo oggetto, da ciò segue che questo oggetto deve essere distinto «dagli altri oggetti»; infatti «una conoscenza è falsa se non si conforma all’oggetto cui viene riferita» (A 58/B 83, trad. it. cit., ibid.) (per esempio, quando diciamo “La neve è nera”), pur contenendo «qualcosa che magari potrebbe valere per altri oggetti» (A 58/B 83, trad. it. cit., ibid.) (per esempio, quando attribuiamo il nero al carbone con il giudizio “Il carbone è nero”). Viceversa, un criterio generale della verità dovrebbe essere «valido per tutte le conoscenze, a prescindere dalla diversità dei loro oggetti» (A 58/B 83, trad. it. cit., ibid.). E poiché Kant chiama «materia» il contenuto oggettuale di una conoscenza, egli conclude che non si può richiedere un «contrassegno» generale della verità rispetto alla materia, poiché una simile richiesta è in se stessa «contraddittoria» (A 59/B 83, trad. it. cit., p. 179). Tuttavia, l’impossibilità di formulare un criterio generale della verità di tipo materiale non implica che non se ne possa formulare uno di tipo formale, il quale assommi in sé generalità e capacità di prescindere dagli specifici contenuti o oggetti dei giudizi. Ecco che entra in gioco il riferimento alle componenti formali oltre che materiali della conoscenza. Per Kant, infatti, una pretesa conoscitiva, per poter aspirare alla verità, deve soddisfare a due diversi ordini di requisiti, entrambi di natura formale. Nel primo ordine rientrano le condizioni caratterizzabili come logicoanalitiche, le quali dipendono dalla concezione che egli ha della logica generale (deduttiva) e dell’analiticità. Secondo Kant possono aspirare alla verità solo quelle pretese conoscitive il cui contenuto concettuale non sia logicamente contraddittorio, ossia quei giudizi che non contengano una violazione né esplicita (“I corpi non sono corpi”) né implicita (“I corpi non sono estesi”) del principio di identità o di non contraddizione.

M. Roncoroni, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza, Rusconi, Milano 1995.

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Il secondo ordine di requisiti formali riguarda, invece, le condizioni caratterizzabili come logico-trascendentali. A stretto rigore, tali condizioni non possono dirsi simili in tutto e per tutto alle leggi puramente formali della logica generale deduttiva. Esse, infatti, non prescindono da ogni contenuto della conoscenza. Tuttavia, possiamo ugualmente considerarle formali perché il loro contenuto è puro a priori in quanto dipende da quelle che Kant stesso chiama forme della (nostra) sensibilità e del (nostro) intelletto. Assai opportunamente Henry E. Allison le ha denominate condizioni epistemiche per distinguerle dalle condizioni di natura logica, psicologica e ontologica4. Perché una pretesa conoscitiva possa aspirare alla verità, il giudizio, oltre a non essere contraddittorio, deve conformarsi al reticolato dei principi sintetici a priori che riguardano la possibilità degli oggetti d’esperienza. Per Kant, questa possibilità è delimitata tanto dalle forme dell’intelletto, senza le quali nessun oggetto può essere pensato, quanto dalle forme della sensibilità, senza le quali nessun oggetto può essere intuito. Le condizioni logicotrascendentali includono, dunque, lo spazio e il tempo, le categorie, gli schemi e le asserzioni fondamentali dell’intelletto puro, prime fra tutte le analogie dell’esperienza a cominciare dal principio di causalità. Come Kant dice a proposito delle «regole dell’intelletto», tali condizioni non sono «soltanto vere a priori», ma costituiscono addirittura «la fonte di ogni verità, cioè dell’accordo della nostra conoscenza con gli oggetti» in quanto «contengono in sé il fondamento della possibilità dell’esperienza come fondamento dell’insieme di ogni conoscenza in cui degli oggetti possano esserci dati» (A 237/B 296, trad. it. cit., p. 453, corsivo aggiunto)5. Un criterio della verità di tipo formale è quindi possibile, ma va subito aggiunto che nel caso della maggior parte dei giudizi – ossia quelli sintetici a posteriori – esso può avere un valore esclusivamente negativo, e non anche positivo. Per Kant, infatti, la conformità alle condizioni sia logico-analitiche sia logico-trascendentali, è una condizione necessaria, ma non sufficiente (A 59-61/B 83-85, trad. it. cit., pp. 177-181) della verità di questi giudizi, riguardando tali condizioni soltanto la forma a priori della conoscenza e non i suoi specifici contenuti a posteriori. Solo nel caso dei giudizi a priori, sia analitici sia sintetici, il criterio formale trasforma il suo valore puramente negativo in uno positivo. Si può sempre conoscere la verità di un giudizio analitico sulla base del suo «principio supremo», ossia il principio di non contraddizione, perché «l’opposto di ciò che si trova già nella conoscenza dell’oggetto, e che viene pensato 4 H.E. Allison, Kant’s Transcendental Idealism. An Interpretation and Defense, Yale University Press, New Haven 1983, 20042. 5 Volendo potremmo chiamare la concezione kantiana “teoria della verità come conformità a una norma” per distinguerla tanto dalle dottrine coerentiste quanto da quelle corrispondentiste. Ma non intendo qui entrare in questioni di natura terminologica.

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come concetto, verrà sempre giustamente negato; ma il concetto stesso dovrà esservi necessariamente affermato, per il motivo che il suo opposto contraddirebbe l’oggetto» (A 151/B 190 sg., trad. it. cit., pp. 317-319). La validità dei giudizi analitici (per esempio, “I corpi sono estesi”) è garantita a priori dal rispetto delle condizioni logico-analitiche in quanto, se non vogliamo incorrere in una contraddizione, e quindi in un giudizio di cui si può affermare a priori la falsità (“I corpi non sono estesi”), dobbiamo riconoscere all’oggetto del giudizio che cade sotto le notae costituenti il concetto del soggetto anche le notae costituenti il concetto del predicato; infatti queste ultime sono incluse tra le notae in ragione delle quali abbiamo sussunto l’oggetto su cui il giudizio verte sotto il concetto del soggetto. Qualcosa di analogo si può dire dei giudizi sintetici a priori, i quali non fanno che esprimere il contenuto delle condizioni logico-trascendentali. Anche in questo caso, il criterio formale della verità da un valore esclusivamente negativo ne acquisisce uno positivo. È possibile, infatti, stabilire a priori la falsità dei giudizi che violino quelle condizioni (per esempio, la proposizione matematica “Sette più cinque non fa dodici”, o l’asserzione “L’evento x è incausato”) e, correlativamente, la verità dei giudizi che si limitino ad enunciarne il contenuto esplicito od implicito (per esempio, la proposizione “Sette più cinque è uguale a dodici” o l’asserzione “Tutti gli eventi sono causati, ossia effetti di un qualche evento che li precede nel tempo”). Occorre ribadire, però, che per i giudizi sintetici a posteriori il rispetto delle condizioni formali nel loro complesso resta solo una condizione necessaria, ma non sufficiente. Perché si possa parlare di una loro verità se ne deve valutare la conformità non solo alle condizioni formali, ma anche alle condizioni materiali della conoscenza, ossia a ciò che possiamo apprendere dall’esperienza. A conti fatti, il “distillato” della teoria della verità contenuta nella Critica della ragion pura può essere ricavato dai Postulati del pensiero empirico in generale, con i quali Kant formula i principi dell’intelletto puro relativi all’impiego delle categorie modali (possibilità, necessità e realtà nel senso di Wirklichkeit). Da tali Postulati emerge che per la categoria di realtà valgono le stesse due caratteristiche che costituiscono il criterio della verità. E cioè: (i) come la categoria di realtà (al pari degli altri concetti modali) ha la proprietà «di non accrescere minimamente, in quanto determinazion[e] dell’oggetto, il concetto» al quale si connette quale predicato, limitandosi a fissare «soltanto la [sua] relazione con la facoltà conoscitiva» (A 219/B 266, trad. it. cit., p. 417), così la nozione di verità ha la proprietà di non accrescere il contenuto del giudizio cui viene connessa come predicato, limitandosi ad esprimere la relazione del contenuto giudicativo con la facoltà conoscitiva; (ii) come può essere considerato reale solo ciò che è conforme al tempo stesso alle «condizioni formali […] (secondo l’intuizione e secondo i

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concetti)» e alle «condizioni materiali dell’esperienza (della sensazione)» (A 218/B 265 sg., trad. it. cit., p. 415), così tra i giudizi sintetici a posteriori possono essere considerati veri solo quelli che siano in accordo con le condizioni sia formali sia materiali dell’esperienza. Su questo sfondo si stagliano con evidenza tre temi salienti dell’epistemologia kantiana su cui anche nel corso del Novecento, e fino ad oggi, si è sviluppato un incessante dibattito interpretativo e teorico. Si tratta di argomenti interconnessi, scorporabili solo per comodità espositiva, che riguardano: (1) l’a priori (e quindi il rapporto tra empirismo e razionalismo); (2) la contrapposizione idealismo/realismo; (3) la giustificazione razionale e, in genere, la razionalità. 1. Il problema dell’a priori Per molto tempo la discussione epistemologica si è concentrata sui giudizi sintetici a priori. Un aspetto importante del dibattito ha riguardato il loro rapporto con l’a priori materiale husserliano. Vi è o non vi è sovrapposizione, parziale o totale, tra i due concetti? E se sì, si possono applicare all’a priori materiale di Husserl le critiche che sono state rivolte al sintetico a priori di Kant? Queste questioni fanno parte di un più ampio argomento costituito dalla relazione complessiva fra kantismo e fenomenologia e, nonostante abbiano suscitato l’attenzione pure di neoempiristi quali Schlick, non sono state però dibattute con la stessa intensità riservata all’idea kantiana che tanto le scienze matematiche e naturali quanto le conoscenze di senso comune sono intessute, appunto, di giudizi sintetici a priori6. La discussione si è sviluppata soprattutto nel Novecento all’interno della filosofia analitica e della filosofia della scienza di matrice neopositivista e postpositivista. In essa sono tuttavia confluiti numerosi temi derivanti dal pensiero ottocentesco, in particolare dalla concezione di Helmholtz, dal convenzionalismo di Poincaré e dal logicismo di Frege. A partire proprio da Frege – il quale per altro assume sulla geometria una posizione diversa da quella che sostiene sull’aritmetica – una parte cospicua del lavoro fondazionale nel campo della filosofia della matematica ha avuto tra i suoi scopi principali la smentita del carattere sintetico a priori dei giudizi matematici. Russell ha presentato una volta la propria prosecuzione del programma logicista fregeano come una confutazione di quel «fi-

6 Per una raccolta di saggi riguardante l’a priori materiale, con riferimenti anche ai rapporti con il sintetico a priori kantiano, si può vedere A priori materiale. Uno studio fenomenologico, a cura di R. Lanfredini, Guerini e Associati, Milano 2006.

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listeo sofista […] il quale conosceva così poco la matematica»7. E questa avversione per la concezione di Kant è stata ereditata dagli empiristi logici, i quali l’hanno per così dire sviluppata fino alle estreme conseguenze. Tenendo conto sia del tentativo russelliano di mostrare che le matematiche sono uno sviluppo definizionale e teorematico della logica sia dei mutamenti intervenuti nelle scienze naturali, in particolare nella fisica, con la teoria della relatività e con la meccanica quantistica, essi sono giunti a negare recisamente l’esistenza di giudizi al tempo stesso sintetici ed a priori. In un suo celebre scritto del 1935/1936, Reichenbach parlerà di una «disgregazione» del sintetico a priori8. Nella sostanza, gli empiristi logici hanno cercato di estendere all’intero dominio del sintetico a priori ciò che Einstein aveva dichiarato della matematica nella celebre conferenza del 1921 Geometrie und Erfahrung: «nella misura in cui le asserzioni matematiche si riferiscono alla realtà [ossia sono sintetiche], esse non sono certe [ossia a priori]; e nella misura in cui esse sono certe, non si riferiscono alla realtà»9. Così, i pretesi giudizi sintetici a priori sarebbero in effetti o delle asserzioni analitiche (e allora sono certi, ma non dicono nulla sulla realtà), o delle asserzioni sintetiche a posteriori di natura assai generale (e allora sono informativi, ma non sono certi), oppure ancora delle regole del metodo “sotto mentite spoglie” che, come tali, non possono essere considerate né vere né false. In ogni caso, non si tratta di principi che siano, al tempo stesso, provvisti di contenuto conoscitivo ed apoditticamente certi. Quanto al procedimento trascendentale con cui Kant aveva ritenuto di fondarne l’oggettiva validità universale e necessaria, si tratterebbe di un metodo fallace basato su assunzioni insostenibili o comunque non dimostrabili. Proprio in questa tesi – che il sintetico a priori non esiste – i neopositivisti hanno fatto consistere il nucleo essenziale della loro presa di posizione empirista. Ciò non significa, però, che abbiano contestato in blocco l’epistemologia di Kant. Al contrario, essi hanno dichiarato più volte di non voler negare che nella conoscenza svolgano una funzione primaria, oltre ai principi logici e matematici, «forme di pensiero [...] prodotte dalla mente che osserva»10. E anche quando hanno assunto posizioni marcatamente riduzio7

B. Russell, My Philosophical Development (1959), trad. it. La mia vita in filosofia, Longanesi, Milano 1962, p. 126. 8 H. Reichenbach, L’empirisme logistique et la désagrégation de l’a priori, in Actes du Congrès International de Philosophie Scientifique, Sorbonne, Paris 1935, Hermann, Paris 1936, vol. I: Philosophie scientifique et empirisme logique, pp. 28-35, in particolare pp. 31-32. 9 A. Einstein, Geometrie und Erfahrung (1921), trad. it. in A. Einstein, Idee e opinioni, Schwarz, Milano 19582, p. 220. 10 P. Frank, Modern Science and Its Philosophy (1941, 19492), trad. it. La scienza moderna e la sua filosofia, il Mulino, Bologna, 1973, p. 21.

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niste, neppure allora hanno sconfessato quella dichiarazione; si sono limitati a reinterpretarla alla luce del loro modo di realizzare la “svolta linguistica” della filosofia. Pur continuando ad ammettere il ruolo conoscitivo di componenti concettuali soggettive, autori quali Schlick, Carnap e Reichenbach si sono a un certo punto convinti, sotto l’influsso convergente di Poincaré e di Wittgenstein, di poter ricondurre quelle componenti alle strutture convenzional-linguistiche o alle regole metodologiche che presiedono alla formulazione e all’accettazione delle ipotesi e delle teorie scientifiche. È in tal modo che, appoggiandosi al principio di verificazione e alla teoria linguistica dell’a priori, gli empiristi logici sono pervenuti ad una visione del rapporto teoria/esperienza secondo la quale il valore di verità degli enunciati sintetici dipende dalle due sole componenti dell’esperienza e del linguaggio. Come si è espresso una volta Reichenbach, tutto ciò che sappiamo del mondo, principio di induzione a parte, «è derivato dall’esperienza, e le trasformazioni dei dati empirici sono puramente tautologiche, analitiche»11. Sono certamente possibili più teorie diverse capaci di dar conto del medesimo materiale d’esperienza, ma se tra i sistemi teorici in competizione non è possibile indicare differenze nelle conseguenze osservative deducibili da essi, ci si potrà appellare al principio di verificazione per dire che ci troviamo di fronte non ad effettive alternative teoriche, ma a formulazioni linguistiche diverse di uno stesso contenuto empirico tra le quali si potrà effettuare una scelta sulla base delle regole metodologiche comunemente impiegate (semplicità, familiarità, compattezza, eleganza, ecc.). Dunque nessun relativismo aletico: la verità è una sola, sebbene si possano dare più forme linguistiche mediante le quali enunciarla. Il relativismo non va riferito alla verità, ma soltanto ai “rivestimenti” linguistici di essa12. Una parte cospicua degli scienziati e degli epistemologi contemporanei non ha accettato questa negazione forte (riduzionista) del sintetico a priori, anche se spesso e volentieri le critiche rivolte agli empiristi logici sono nate da fraintendimenti anche gravi delle loro tesi. Tanto per fare un esempio, Einstein – il quale inizialmente era stato molto vicino all’atteggiamento neoempirista nei confronti di Kant e del neokantismo di Cassirer – in seguito 11 H. Reichenbach, L’empirisme logistique et la désagrégation de l’a priori, cit., p. 32. Nelle pagine successive Reichenbach sostiene inoltre che un «empirismo conseguente» può superare lo scoglio costituito dal principio d’induzione ricorrendo alla “giustificazione pragmatica” da lui stesso escogitata. 12 Tracce di questa idea tipicamente neoempirista si possono trovare anche nel modo in cui Quine presenta il principio di indeterminatezza sistematica della traduzione nel penultimo capoverso del § 16 di Word and Object, The M.I.T. Press, Cambridge, Mass. 1960. Per la giustificazione dell’interpretazione dell’empirismo logico avanzata nel testo, si vedano i miei lavori sull’argomento, l’ultimo dei quali è L’empirismo logico. Aspetti storici e prospettive teoriche, Carocci, Roma 2002, in particolare i capp. 1 e 6.

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ha preso le distanze da esso. Ha continuato, sì, a rifiutare gli «errori» dei difensori del sintetico a priori nella sua versione originaria, ma più di una volta ha sottolineato la validità della tesi kantiana che non è possibile capire il dato empirico senza far uso di concetti e di principi assai generali; errato sarebbe solo il ritenere quei concetti e principi assolutamente validi e non rivedibili13. Ma, come dicevo, gli empiristi logici non hanno mai contestato questa idea in se stessa; e ciò può contribuire a spiegare perché nel dibattito postpositivista le cose si siano svolte in modo un po’ più complicato di quanto suppongono coloro che, senza porsi troppi problemi, hanno imboccato la scorciatoia della valutazione einsteiniana. Entro il campo della filosofia della matematica, gli sviluppi del lavoro “fondazionale” hanno indotto alcuni a guardare con rinnovata attenzione alla concezione kantiana. Si sono così approfondite le ragioni per cui Kant aveva considerato i giudizi della geometria e dell’aritmetica sintetici a priori anziché analitici, e ci si è appoggiati a tale migliore comprensione storica per ripensare il giudizio teorico sulla sua tesi. In particolare, secondo certi interpreti essa sarebbe stata motivata dal fatto che nelle matematiche si fa uso di inferenze non riconducibili alla struttura deduttiva della logica, allora costituita sostanzialmente dalla sillogistica aristotelica. Per altri, invece, Kant vedeva le dimostrazioni della matematica come inferenze di tipo logico-analitico; si sarebbe però pronunciato sulla natura sintetica a priori dei giudizi matematici perché avrebbe considerato, appunto, sintetici a priori quegli asserti primitivi (per esempio, i postulati della sistemazione euclidea) dai quali gli altri asserti possono venir logicamente derivati nella forma di teoremi. A entrambe queste ipotesi – che altri studiosi ancora ritengono non inconciliabili o mutuamente esclusive – si sono accompagnati apprezzamenti diversi sulla validità della tesi kantiana. Alcuni hanno ritenuto che vada considerata superata nella misura in cui oggi disponiamo di una logica capace di far rientrare nel proprio alveo anche le inferenze matematiche non dominabili con la sillogistica aristotelica. Altri, invece, hanno tentato di rivalutarla basandosi vuoi su alcuni particolari aspetti delle dimostrazioni logico-matematiche, vuoi sulle difficoltà incontrate dalla tesi logicista. A questo scopo sono state utilizzate soprattutto le idee intuizioniste e tutte quelle concezioni che sottolineano l’importo esistenziale della teoria delle classi (o insiemi) utilizzate per la ricostruzione del discorso matematico14. 13 Cfr. A. Einstein, Remarks to the Essays Appearing in this Collective Volume, trad. it. in Albert Einstein, scienziato e filosofo, a cura di P.A. Schilpp, Einaudi, Torino 1958, p. 624. 14 Tra i protagonisti di tale dibattito mi limiterò a fare i nomi di Evert Beth, Jaakko Hintikka, Gordon Brittan jr., Charles Parsons, Michael Friedman e per certi versi Per Martin-Löf. Nelle rassegne sul tema viene talvolta trascurato il saggio di Beth, Over Kant’s onderscheiding van syntetische en analitische oordeelen, “recuperato” nel 1991 in trad. it. Sulla distinzione kan-

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Gli sviluppi più significativi della discussione sul sintetico a priori si sono avuti, però, nell’area della filosofia delle scienze naturali, in particolare in filosofia della fisica e della biologia. È venuto in evidenza come questa problematica presenti due aspetti distinti i quali, quando vengano vagliati alla luce dell’alternativa naturalismo/antinaturalismo, spingono in direzioni divergenti. La sostanza del contrasto può essere illustrata prendendo in considerazione gli esiti dell’“epistemologia evoluzionistica” della linea Helmholtz-Lorenz, poi confluita nel più ampio filone dell’“epistemologia naturalizzata” di ascendenza quineana. Già nell’Ottocento Helmholtz, trattando dell’origine e del significato degli assiomi geometrici in relazione alla nascita delle geometrie noneuclidee, aveva fatto notare la dipendenza dall’esperienza del complesso . Secondo lui, gli assiomi «parlano non soltanto dei rapporti spaziali, ma nello stesso tempo anche del comportamento meccanico dei corpi affatto rigidi durante il moto». Se quindi a tali assiomi aggiungiamo delle «proposizioni riferentisi alle proprietà meccaniche dei corpi naturali», allora un simile sistema assume «un contenuto reale, che può essere confermato o confutato dall’esperienza, ma proprio perciò acquisito, anche, con l’esperienza». Questa considerazione conduce Helmholtz alla convinzione che i principi a priori di cui parlano i «metafisici» siano soltanto il risultato di un complesso processo evolutivo. Con ciò egli non intende affermare «che l’umanità abbia acquisito intuizioni dello spazio corrispondenti agli assiomi euclidei soprattutto attraverso sistemi accuratamente elaborati di precise misure geometriche». Una tesi del genere sarebbe palesemente assurda e certo non corroborata dai dati storici a nostra disposizione. Helmholtz vuole dire, piuttosto, che «una serie di esperienze quotidiane, e soprattutto l’intuizione di quell’affinità geometrica tra corpi più o meno grandi, che è possibile soltanto nello spazio piano [euclideo], dovette far sì che fosse respinta come impossibile ogni intuizione geometrica contraddittoria a tale circostanza». Il tipo di «intuizione» con cui abbiamo a che fare rappresenta quindi una forma di «conoscenza empirica, che la nostra memoria acquisisce mediante accumulo e rafforzamento di successive impressioni omogenee», non «una forma trascendentale dell’intuizione […] data prima di ogni esperienza». E ciò sebbene si possa certo comprendere come «tali intuizioni d’un comportamento tipico, regolare, ottenute per via empirica e non ancotiana tra giudizi sintetici e giudizi analitici, in «Iride», 7, pp. 177-187. Sul rapporto fra le idee kantiane e alcuni sviluppi delle matematiche e della fisica matematica si possono vedere M. Potter, Reason’s Nearest Kin. Philosophies of Arithmetic from Kant to Carnap, Oxford University Press, Oxford 2000, e la raccolta di saggi Constituting Objectivity. Transcendental Perspectives on Modern Physics, ed. by M. Bitbol, P. Kerszberg e J. Petitot, Springer, Springer Science + Business Media B.V., 2009.

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ra portate alla chiara determinatezza del concetto» possano essersi «abbastanza spesso imposte ai metafisici come principi dati a priori»15. Nel corso del Novecento, dopo la messa in discussione del sintetico a priori, l’idea di Helmholtz ha trovato una prosecuzione all’interno della cosiddetta “epistemologia evoluzionistica”. In particolare, fin dagli anni Quaranta Konrad Lorenz ha riesaminato la concezione kantiana alla luce delle acquisizioni dell’etologia e ha sostenuto che le strutture conoscitive a priori dovrebbero essere considerate il prodotto di un processo di adattamento filogenetico, ossia una sorta di “ipotesi di lavoro” passibile di ulteriori mutamenti e miglioramenti. Non è l’apparato categoriale a prescrivere le sue leggi alla natura, come Kant riteneva, bensì è questa, la natura, a modellare in maniera più o meno articolata quello, ossia l’apparato categoriale. Si darebbe dunque una certa corrispondenza fra le strutture del pensiero e le strutture ontologiche della realtà in sé, corrispondenza “cumulativamente” tanto maggiore quanto più complesse e perfezionate sono le forme soggettive ontogeneticamente innate16. Non è certo il caso di seguire qui tutto il dibattito sulla dicotomia innato/acquisito che questa tesi di Lorenz ha provocato. È importante notare, piuttosto, che posizioni simili sono emerse in campo “analitico” con la “svolta naturalistica” impressa da Quine all’epistemologia come coerente completamento della sua critica ai due dogmi dell’empirismo (analiticità e riduzionismo). A dire il vero, più che di “svolta”, meglio sarebbe parlare di ripresa del naturalismo evoluzionista, di quel naturalismo, cioè, che aveva caratterizzato il positivismo ottocentesco e protonovecentesco e dal quale gli empiristi logici avevano inteso prendere le distanze quando avevano mirato a un’impostazione dei problemi filosofici al tempo stesso empirista e logico-linguistica, basata sull’analisi della struttura logica delle teorie. In realtà, il tipo di impostazione neoempirista non è mai scomparso del tutto, neppure negli anni in cui sono fioriti i programmi di “epistemologia naturalizzata”, e ha dato i suoi frutti proprio nella discussione sull’a priori. Sebbene ad un certo punto gli interessi epistemologici si siano concentrati su temi come il processo di formazione e trasformazione delle nostre credenze olisticamente e naturalisticamente considerato, una parte cospicua 15

Le citazioni di questi due ultimi capoversi sono tratte da H. von Helmholtz, Über den Ursprung und die Bedeutung der geometrischen Axiome (1870), trad. it. in H. von Helmholtz, Opere, a cura di V. Cappelletti, Utet, Torino 1967, pp. 529-531. 16 V. K. Lorenz, Kants Lehre vom Apriorischen im Lichte der gegenwärtigen Biologie (1941), trad. it. in K. Lorenz, Lorenz allo specchio, Armando, Roma 1977, pp. 148-174; Id., Die Rückseite des Spiegels (1973), trad. it. L’altra faccia dello specchio, Adelphi, Milano 1974. Per l’idea di un’epistemologia evoluzionistica e per il legame di essa con la filosofia di Popper va ricordato il classico saggio di D.T. Campbell, Evolutionary Epistemology, in The Philosophy of Karl Popper, a cura di P.A. Schilpp, Open Court, La Salle, Ill. 1974, pp. 413-463.

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della ricerca postpositivista ha seguitato a scavare nell’ossatura logica della giustificazione empirico-razionale di queste stesse credenze. E – abbastanza singolarmente – proprio la riflessione sulle credenziali delle teorie fisiche che avevano condotto gli empiristi logici (e Popper) a contestare l’esistenza di giudizi sintetici a priori nel senso di Kant ha finito per sfociare in una certa rivalutazione del suo pensiero epistemologico. Alcuni filosofi della scienza hanno affermato la necessità di distinguere tra la dottrina che esistono giudizi sintetici assolutamente ed eternamente validi e il metodo applicato da Kant nell’esaminare la fisica del proprio tempo (soprattutto nei Principi metafisici e nell’Opus postumum). La dottrina non ha retto alla prova degli sviluppi successivi della scienza, ma il metodo conserverebbe la sua validità e potrebbe essere impiegato con profitto in una disamina delle teorie scientifiche postkantiane, per esempio della teoria della relatività. Pure nel caso di queste ultime, infatti, se ne potrebbe comprendere il rapporto con l’esperienza solo distinguendo tra componenti sintetiche a posteriori in senso per così dire “pieno” e componenti sintetiche le quali, pur dipendendo dall’esperienza globalmente presa, non possono essere connesse, come le precedenti, a questa o quella esperienza specifica. L’idea, per certi versi, era già stata intravista da Reichenbach in un’opera giovanile del 1920, Relativitätstheorie und Erkenntnis a priori. Nonostante la critica al sintetico a priori nella sua accezione originaria, egli riconosceva alla gnoseologia kantiana una certa validità e sosteneva che si doveva far differenza, all’interno di una teoria, fra le asserzioni che, pur non essendo eterne e assolutamente indipendenti dall’esperienza, svolgono la funzione di principi di coordinazione (o di costituzione) e quelle che esprimono le usuali connessioni empiriche di tipo nomologico. Scrive Reichenbach con parole che converrà citare per esteso ancora una volta: Al contrario delle leggi singole, [i principî costitutivi o coordinativi] non dicono cosa viene conosciuto nel caso individuale, bensì come viene conosciuto; essi definiscono il conoscibile, dicono cosa significa la conoscenza secondo il suo senso logico. [...] E noi comprendiamo che le condizioni odierne della conoscenza non possono essere più le stesse del tempo di Kant: giacché il concetto di conoscenza si è modificato ed il mutato oggetto della conoscenza fisica presuppone anche altre condizioni logiche. Questo mutamento poteva avvenire solo in connessione con l’esperienza, e perciò anche i principî della conoscenza sono determinati attraverso l’esperienza. Ma la loro validità si fonda non soltanto sul giudizio di singole esperienze, bensì sulla possibilità dell’intero [corsivo aggiunto] sistema della conoscenza: questo è il senso dell’a priori. […] A priori significa: prima della conoscenza, ma non: per ogni tempo, e neanche: indipendente dall’esperienza17.

17 H. Reichenbach, Relativitätstheorie und Erkenntnis a priori (1920), trad. it. Relatività e conoscenza a priori, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 152.

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Negli ultimi decenni – già lo dicevo – si è ritornati a concezioni del genere e proprio in reazione a forme di empirismo radicale come l’olismo di Quine il quale, negando ogni legittimità alle distinzioni fra l’analitico e il sintetico e fra l’a priori e l’a posteriori, mirava a descrivere formazione e mutamento delle credenze in termini puramente naturalistici (considerati gli unici scientificamente accettabili). In sostanza si è divenuti consapevoli, per così dire, della doppia faccia della concezione olistica: valida, per un verso, dal punto di vista strettamente logico, perché ciò che l’esperienza conferma o sconferma non sono in effetti le ipotesi singolarmente considerate, bensì complessi più o meno ampi e strutturati di asserzioni; inadeguata, per un altro verso, dal punto vista della pratica sperimentale, perché in genere sono proprio ipotesi singole e pezzi di teoria – compresi quelli utilizzati a supporto della naturalizzazione dell’epistemologia – ad essere sottoposti al controllo empirico. Per dar conto di questo secondo aspetto della questione sono state avanzate, sotto varie forme e denominazioni, teorie “funzionali” e “dinamicizzate” dell’a priori “relativizzato” o “contestualizzato” che hanno trovato una qualche rispondenza anche in posizioni emerse nel dibattito sulla teoreticità dell’osservazione. Ciò è avvenuto con un diverso grado di compromissione con le posizioni kantiane e neokantiane. Alcuni si sono associati al trascendentalismo di Kant e/o a quello di Cassirer (basato sulla nozione degli “ultimi invarianti logici dell’esperienza”); altri, viceversa, hanno respinto come troppo impegnativo, e quindi insostenibile, ogni genere di rimando al trascendentale sia nella sua forma originaria sia nella sua veste cassireriana, ma hanno mantenuto la necessità di distinguere tra enunciati propriamente empirici (o sintetici a posteriori) ed enunciati contestualmente (o relativamente) a priori (di tipo sia analitico sia sintetico). In quest’ultima prospettiva gli enunciati contestualmente a priori non rappresentano più condizioni date una volta per tutte che delimitano il dominio delle teorie trascendentalmente possibili (Kant), e neppure presupposizioni iscriventisi in un ideale processo di crescita razionale del conoscere guidato dall’idea regolativa di una sistemazione fondata su presunti, definitivi invarianti logici dell’esperienza (Cassirer); in modo assai meno “esigente”, tali enunciati vengono considerati assunzioni di natura teorica e linguistico-concettuale che, nei vari contesti storici (più o meno stabili e logicamente strutturati) fissano i parametri in base ai quali è possibile vagliare l’adeguatezza empirica di ipotesi e teorie opportunamente specificate18. 18 Per le posizioni legate al dibattito sulla teoreticità dell’osservazione si possono fare i nomi di Carl R. Kordig, The Justification of Scientific Change, Reidel, Dordrecht 1971; Israel Scheffler, Science and Subjectivity (1976), trad. it. Scienza e soggettività, Armando, Roma, 1983, e, per l’Italia, Marcello Pera, Apologia del metodo, Laterza, Roma-Bari 1982. Per le teorie dell’a priori relativizzato sono da vedere: P. Parrini, Linguaggio e teoria. Due saggi di analisi filosofica,

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Di queste idee si può trovare traccia pure in alcuni recenti studi specialistici su Kant. Per esempio, in un vastissimo commentario uscito nel 2006 Graham Bird sostiene che nel modello epistemologico delineato nella Critica in opposizione all’empirismo del tempo «la totalità complessiva (the whole) dell’esperienza presuppone certi concetti e le regole ad essi associate». Egli aggiunge inoltre che la relazione fra le strutture a priori e la pratica conoscitiva che tali strutture rendono possibile non viene intesa da Kant così come la intende la «rozza dottrina della “mente che fa la natura” (mind making nature)» ossia come una relazione «causale o psicologica». I principi a priori dell’intelletto, in modo simile alle regole del gioco degli scacchi, hanno «nell’esperienza un ruolo immanente anziché un ruolo trascendente che vada al di là di essa»; anche questi principi «funzionano solo in relazione alla pratica e non hanno un ruolo costitutivo o designativo che la oltrepassi». L’unica differenza è che mentre le regole degli scacchi disciplinano «solo un frammento particolare dell’esperienza umana», le «regole globali che governano l’esperienza» di cui Kant parla sono «“relative”» a tutto il complesso della «nostra esperienza umana, adulta»19. La Nuova Italia, Firenze 1976; Id., Conoscenza e realtà. Saggio di filosofia positiva, Laterza, Roma-Bari 1995, ediz. ingl. riv., Knowledge and Reality. An Essay in Positive Philosophy, Kluwer, Dordrecht 1998; M. Friedman, Reconsidering Logical Positivism, Cambridge University Press, Cambridge 1999; Id., Dynamics of Reason (2001), trad. it. Dinamiche della ragione. Le rivoluzioni scientifiche e il problema della razionalità, Guerini e Associati, Milano 2006. L’espressione “a priori relativizzato” è di Friedman; nel libro del 1976 io parlavo di principi relativamente o contestualmente a priori (pp. 283, 285 sgg.). La mia tesi si inquadra in una visione della razionalità e del mutamento scientifico meno “rigida” o “forte” di quella di Friedman (che si richiama a Cassirer) e in una concezione generale del rapporto teoria/esperienza (il modello reticolare) che contesta anche la versione debole della teoreticità dell’osservazione sostenuta da autori quali Kordig e Scheffler (sul quale ultimo si fa sentire l’influsso della teoria pragmatica dell’a priori di Clarence Irving Lewis). Sempre a proposito dell’a priori relativizzato sono interessanti le idee avanzate a suo tempo da Arthur Pap in The A Priori in Physical Theory (1946). Il rapporto fra olismo e pratica scientifica è stato portato al centro dell’attenzione, per quel che riguarda il caso specifico della geometria, prima da Adolf Grünbaum, Philosophical Problems of Space and Time, Knopf, New York 1963, seconda edizione rivista e ampliata, Reidel, Dordrecht 1973, e poi, nella sua generalità, da Clark Glymour, Theory and Evidence, Princeton University Press, Princeton, NJ 1980. Il già citato volume Constituting Objectivity contiene una serie di saggi sulla costituzione dell’oggettività dal punto di vista della fisica moderna e contemporanea tra i quali quelli di M. Bitbol, M. Friedman, P. Kerszberg, C. SchmitzRigal, C. Bonnet, P. Parrini, R. Harré, G. Brittan jr., P. Mittelstaedt, M. Stöltzner, G. Boniolo, B. Falkenburg, Y. Balashov, T. Ryckman, J. Petitot, B. van Fraassen, B. d’Espagnat, P. Teller. Non mancano inoltre lavori che, in modo più o meno felice, estendono l’analisi in termini di a priori relativizzato ad aspetti della meccanica quantistica. 19 G. Bird, The Revolutionary Kant. A Commentary on the “Critique of Pure Reason”, Open Court, Chicago and La Salle (Ill.) 2006, pp. 75-76. Naturalmente alcuni potrebbero sostenere che le regole degli scacchi definiscono un reticolato di relazioni analitiche riguardanti, per esempio, il valore assunto nel gioco dagli oggetti che fungono da “pedine”, laddove per Kant la possibilità dell’esperienza richiede, oltre a condizioni istituenti relazioni definitorio-

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La possibilità di guardare al problema dell’a priori dalla duplice angolatura del naturalismo e della struttura logica del controllo empirico mostra che la prospettiva kantiana – la quale pone in primo piano la quaestio juris della validità delle nostre pretese conoscitive – non può essere facilmente accantonata. Proprio una quaestio juris, infatti, può essere sollevata anche riguardo alla validità delle asserzioni inglobate nelle teorie scientifiche che costituiscono il punto di appoggio della naturalizzazione. In un celebre saggio del 1968, Quine ha motivato il suo progetto di un’epistemologia naturalizzata facendo riferimento, anzitutto, alla crisi del fondazionalismo, ossia alla crisi di quella concezione che nasce, a suo dire, con la ricerca cartesiana della certezza e naufraga con il fallimento del programma riduzionistico-fenomenista del carnapiano Der logiche Aufbau der Welt (1928). Una volta tramontata la speranza di individuare fondamenti sicuri della conoscenza in pretesi principi autoevidenti della ragione e/o in enunciati inemendabili in quanto basati sull’esperienza sensibile diretta – ha sostenuto Quine – nulla può più impedire di fare uso delle nostre teorie scientifiche per capire come le costruzioni conoscitive che edifichiamo si connettano al complesso delle stimolazioni sensoriali che abbiamo a disposizione. Se si parte dall’idea che la meta dell’epistemologo è la convalidazione dei fondamenti della scienza empirica, egli fa fallire il suo scopo usando la psicologia o un’altra scienza empirica nella convalidazione. Tuttavia tali scrupoli nei confronti della circolarità hanno poca importanza una volta che abbiamo smesso di sognare di dedurre la scienza dalle osservazioni. Se il nostro compito è semplicemente quello di comprendere il legame tra l’osservazione e la scienza, siamo giudiziosi a usare qualunque informazione disponibile, inclusa quella fornita da quella stessa scienza il cui legame con l’osservazione stiamo cercando di comprendere […] Questa interazione [fra scienza e epistemologia] richiama alla mente di nuovo la vecchia minaccia di circolarità, ma tutto è a posto ora che abbiamo smesso di sognare di dedurre la scienza dai dati sensoriali20.

Secondo Quine, la situazione in cui finiamo per muoverci è quella prefigurata da Neurath negli anni del Circolo di Vienna con la sua famosa metafora della barca e dei marinai. «Miriamo alla comprensione della scienza come istituzione o processo nel mondo senza pretendere che questa comprensione sia migliore di quella scienza che è il suo oggetto»21. Il punto è, però, che la crisi del fondazionalismo non sembra essere sufficiente per suconcettuali che danno luogo a giudizi analitici, condizioni aggiuntive di natura sintetica ed a priori. 20 W.V.O. Quine, Epistemology Naturalized, in Id., Ontological Relativity and Other Essays, trad. it. La relatività ontologica e altri saggi, Armando, Roma 1986, pp. 95-113; le citazioni sono tratte dalle pp. 100 e 107. 21 W.V.O. Quine, Epistemology Naturalized, trad. it. cit., p. 107.

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perare ogni scrupolo sulla possibilità di una naturalizzazione. Anche dopo quella crisi, la questione della validità delle teorie (sia pure solo ipotetica e congetturale) e della scelta fra esse chiama in causa gli aspetti logici e metodologici del rapporto teoria/esperienza e del mutamento scientifico; e di questi aspetti è ancora difficile dare conto appieno in termini puramente naturalistici, prescindendo cioè da analisi epistemologiche presupposizionali e valutative come quella di cui Kant ha dato un esempio sia pure agganciandola ad una discutibile concezione assoluta dell’a priori. La questione del quid juris, cui si connette la problematica del sintetico a priori in entrambe le sue varianti (assoluta, e relativizzata o contestualizzata), continua a rappresentare uno scoglio per i programmi di naturalizzazione, se non altro per quelli d’impronta più radicale. 2. Idealismo e realismo Nel caso del rapporto idealismo/realismo le maggiori divergenze interpretative riguardano gli “impegni ontologici” fatti gravare sulla rivoluzione copernicana. Si tratta di divergenze favorite dallo stesso Kant sia per le connessioni che egli istituisce con i problemi morali e religiosi, sia per la sua ambivalenza nei confronti di questo specifico argomento. Kant, infatti, si è definito un “realista empirico” e un “idealista trascendentale”; al tempo stesso ha respinto l’accusa di essere un idealista nel senso usuale della parola giungendo anzi a criticare tanto l’idealismo «dogmatico» o fenomenistico alla Berkeley (secondo il quale «le cose nello spazio» verrebbero ridotte «a semplici immaginazioni»), quanto l’idealismo «problematico» alla Cartesio (secondo il quale vi sarebbe una sola asserzione empirica «indubitabile», ossia l’«affermazione “Io sono”») (B 274, trad. it. cit., pp. 425 sgg.). Per far emergere quello che pare ancor oggi uno dei più importanti insegnamenti del criticismo è utile muovere da una presentazione seppure schematica dell’oggetto del contendere. Le alternative esegetiche alle quali mi riferirò – raccolte sotto due categorie fondamentali, prescindendo dalle letture intermedie e dalla segnalazione delle varianti interne – hanno alle spalle una lunga storia cominciata con le prime reazioni alla Critica della ragion pura. Nella letteratura più recente, però, hanno dovuto entrambe tener conto delle tesi avanzate da Peter F. Strawson nel libro del 1966, The Bounds of Sense. An Essay on Kant’s “Critique of Pure Reason” – una tappa fondamentale nel dibattito epistemologico che si è sviluppato sull’argomento nella seconda metà del secolo scorso (e non solo in campo teorico e analitico). In The Bounds of Sense, Strawson cercava di valorizzare alcuni aspetti del pensiero kantiano mentre ne scartava altri inficiati, a suo avviso, da una forma di idealismo assai poco persuasiva. Il suo scopo era far leva sulla Cri-

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tica della ragion pura per perfezionare la concezione empirista. In particolare, egli mirava a giustificare la tesi anti-scettica che ogni concetto di esperienza per noi intelligibile presuppone il riferimento a modi di caratterizzazione e discriminazione dell’esperienza stessa i quali implicano, tra le altre cose, la distinzione tra stati soggettivi e realtà oggettiva. Strawson finiva così per dare il massimo risalto a quelle componenti della filosofia di Kant che erano funzionali alla confutazione dell’idealismo e ne faceva cadere, invece, gli elementi soggettivistici “berkleyani” viziati, per giunta, da una «fantasmagorica» psicologia della mente umana. La sua rilettura puntava a ricavare dalla Critica delle “argomentazioni trascendentali” che potessero dare sostegno a «una vera e propria filosofia empirista», non più gravata dall’«ossessione dei contenuti privati della coscienza» e affrancata non soltanto dalle «illusioni della metafisica trascendente», già criticata da Kant, ma anche dall’assolutismo delle forme di esperienza. Queste forme, per lui, cessavano di essere «schemi statici» per divenire complessi di presupposizioni «soggetti a quell’infinito processo di raffinamento, correzione, ed estensione che accompagna il progresso della scienza e lo sviluppo delle istituzioni sociali»22. In un primo momento il dibattito provocato dalle tesi di Strawson ha soprattutto riguardato la capacità delle argomentazioni trascendentali di far fronte all’istanza scettica (capacità contestata in modo particolare da Barry Stroud); ma pian piano esso ha finito per riaccendere l’antica questione del posto da attribuire alla filosofia critico-trascendentale nell’opposizione fra idealismo e realismo. Le interpretazioni più tradizionali erano in genere sbilanciate verso l’idealismo. Esse possono essere fatte risalire alla famosa recensione della Critica della ragion pura di Christian Garve (e J. G. H. Feder) in cui si accusava la posizione kantiana di essere una variante (terminologicamente “ostica”) dell’idealismo fenomenistico berkeleyano. Secondo queste interpretazioni, Kant sosterrebbe l’esistenza di due differenti domini di oggetti: (i) il dominio delle cose in sé che cadono al di fuori delle possibilità conoscitive della ragione umana o di “noi” esseri umani; (ii) il dominio degli oggetti empirici (o “apparenze” sensibili), intesi come aggregati di rappresentazioni sensoriali concettualmente strutturati. Tali oggetti empirici costituiscono gli unici enti accessibili alla nostra mente, che su di essi può pronunciare giudizi sintetici non solo a posteriori, ma anche a priori. Le relazioni fra il primo tipo di entità, le cose in sé, e i comuni oggetti fenomenici dell’esperienza, inclusi i soggetti empirici, sono piuttosto intricate. Da un lato, la duplicazione ontologica sembra comportare una dupli22 P.F. Strawson, The Bounds of Sense, trad. it. Saggio sulla “Critica della ragion pura”, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 9, 33 e 223.

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cazione dell’io in soggetto empirico e soggetto in sé con relativa teoria della «doppia affezione» (come suona il titolo di una famosa opera di Eric Adickes); dall’altro, il principio di “restrizione”, il quale limita l’uso legittimo delle categorie (tra cui la causalità) al dominio dell’esperienza possibile, rende illecito considerare le cose in sé cause nascoste e inconoscibili degli oggetti fenomenici23. Le critiche rivolte da Strawson a Kant erano certamente motivate da, o comunque compromesse con, il tipo di lettura della Critica appena descritto. Ciò ha sollecitato altri studiosi, tra i quali spicca Henry E. Allison, a interpretare l’opera in modo da svincolarla, invece, sia dal fenomenismo berkeleyano sia, più in generale, da una concezione crudamente “materiale” del rapporto fra soggetto e oggetto della conoscenza, fra mente e natura. In particolare, nel suo già citato libro del 1983 Kant’s Transcendental Idealism, l’aspetto “idealistico” della posizione kantiana viene visto come un idealismo non materiale, ma formale il quale non può essere ricondotto a un modo ontologicamente e psicologicamente rozzo di intendere la formula della “mente che fa la natura”24. Si è venuta così progressivamente rafforzando una seconda e diversa linea interpretativa che mira a depotenziare al massimo l’importo ontologico soggettivistico e fenomenistico da riconoscere alla rivoluzione copernicana. Servendosi di tutto lo strumentario analitico messo a punto nella Critica, essa attribuisce a Kant un idealismo trascendentale assai temperato che è in effetti, al tempo stesso, un realismo empirico, e per giunta un realismo empirico il quale, con la Confutazione dell’idealismo aggiunta alla seconda edizione (B 274-279, trad. it. cit., pp. 425-433), può avanzare la pretesa di provare l’esistenza degli oggetti esterni. Nella letteratura sull’argomento questa corrente esegetica viene talvolta definita “innovatrice” o addirittura “rivoluzionaria”. In realtà, essa è meno rivoluzionaria di quanto qualche suo acceso sostenitore voglia far credere25. Per certi aspetti, infatti, risale almeno all’opera di Cassirer, nella quale, come ho ricordato nel paragrafo iniziale, possiamo già trovare due delle tesi 23 Per una puntigliosa riconsiderazione critica delle posizioni interpretative di Adickes, si veda G. Bird, The Revolutionary Kant, cit., pp. 555-580. Di questa medesima opera si vedano anche le pp. 535 sgg. e 555 sgg. per il rapporto fra le nozioni di cosa in sé e di noumeno. 24 Per l’approfondimento della dimensione psicologico-trascendentale sarà poi importante il libro di Patricia Kitcher, Kant’s Transcendental Psychology, Oxford University Press, Oxford 1990. 25 Mi riferisco in particolare al già ricordato commentario di Bird che fin dal titolo, Revolutionary Kant, vuole alludere sia alla “rivoluzione copernicana” sia all’interpretazione “rivoluzionaria” di tale rivoluzione. Bird vi sviluppa un tipo di lettura che aveva cominciato a delineare nel libro del 1962, Kant’s Theory of Knowledge, Routledge & Kegan Paul, London, in cui contestava l’interpretazione fenomenista di Harold Arthur Prichard, Kant’s Theory of Knowledge, Oxford University Press, Oxford 1909.

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che la contraddistinguono e cioè: (i) che la conoscenza dei propri stati interni non gode di uno statuto epistemicamente prioritario e privilegiato rispetto alla conoscenza delle cose materiali esterne; e (ii) che il problema gnoseologico concerne primariamente l’attività del giudicare e la giustificazione della validità/verità dei nostri giudizi (conoscitivi), sia di quelli riguardanti gli oggetti del “senso interno” sia di quelli riguardanti gli oggetti del “senso esterno”. Per gli autori che, nonostante le differenze tra loro, possono essere inquadrati in questa tendenza interpretativa l’epistemologia critico-trascendentale non si trova “impigliata” nella duplicazione delle entità. La contrapposizione fra cose in sé e oggetti fenomenici di esperienza (o “apparenze”) va intesa in senso non ontologico, bensì epistemico, ossia come riferentesi non a due domini di enti, ma a due differenti modi di accesso a un medesimo dominio di enti: il modo noumenico non condizionato, e il modo empirico-fenomenico condizionato dalle forme della sensibilità e dell’intelletto puro. Uno stesso dominio di entità può essere cioè considerato o di per se stesso oppure sulla base di certe condizioni di conoscibilità date a priori. Il riferimento alle cose in sé e ai noumeni ha il solo scopo di limitare le pretese della sensibilità e dell’intelletto configurando la possibilità di altre modalità di conoscenza del tutto differenti (per esempio, un’intuizione intellettuale capace, al pari di quella divina, di produrre l’oggetto conosciuto). In termini ontologici ciò significa che Kant è impegnato ad ammettere la necessaria concepibilità delle cose in sé senza che questa ammissione lo vincoli a riconoscerne pure l’esistenza effettiva26. Come si può evincere dal famoso incipit del § 14 della deduzione trascendentale delle categorie nella sua versione rivista, la «rappresentazione» determina o costituisce a priori l’oggetto nel senso non già di produrlo «secondo l’esistenza», visto che qui non si tratta affatto di un potere causale della mente «per mezzo del volere», ma nel senso di rendere possibile «conoscere qualcosa come un oggetto» (B 124 sg., trad. it. cit., p. 231). In consonanza con la lettura di Cassirer (e in qualche modo con quella di Allison), l’idealismo trascendentale è inteso come un idealismo non materiale, ma lo-

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Questo tipo di interpretazioni deve molto alle risultanze delle indagini di Gerold Prauss. Per una difesa dell’interpretazione epistemica contro un’obiezione di James Van Cleve, v. G. Bird, The Revolutionary Kant, cit., pp. 621-623. Tra le opere recenti in cui si dibatte la questione idealismo/realismo si possono citare: P. Abela, Kant’s Empirical Realism, Clarendon Press, Oxford 2002; G. Dicker, Kant’s Theory of Knowledge. An Analytical Introduction, Oxford University Press, Oxford 2004; A.B. Dickerson, Kant on Representation and Objectivity, Cambridge University Press, Cambridge 2004; K.R. Westphal, Transcendental Proof of Realism, Cambridge University Press, Cambridge 2004. Naturalmente anche fra le interpretazioni di tipo realista, alcune lo sono di più, altre di meno.

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gico o formale in quanto asserisce la soggettività della sola forma dell’oggetto della conoscenza, non della sua materia. La componente idealista del kantismo viene così fatta consistere non in una sorta di riduzionismo (o costruttivismo) fenomenista, bensì nell’idea molto meno “forte” che alcuni degli aspetti più generali attribuiti agli oggetti di esperienza dipendono dalle condizioni soggettive ed a priori (spazialità, temporalità, causalità, ecc.) che strutturano o regolano la nostra conoscenza. In tal modo, la dipendenza dell’oggetto conosciuto dal soggetto conoscente cessa di essere considerata una dipendenza materiale, sia questa di tipo nomologico o causale (come se l’oggetto conosciuto fosse prodotto dal soggetto conoscente), sia di tipo mentalistico-psicologico (come se l’oggetto, sia pure solo l’oggetto conosciuto, fosse un complesso di rappresentazioni nella testa o nella mente dei soggetti conoscenti, organizzato secondo certe modalità soggettive valide a priori). Tale dipendenza è invece una dipendenza logico-formale che riguarda solo certe proprietà dell’oggetto della conoscenza. A dipendere dalla ragione, oppure, come si esprimono altri, dalla mente o dalla nostra “natura epistemica”27, è non l’esistenza materiale degli oggetti come i pianeti o le «montagne in Africa», bensì il concepirli e il riconoscerli «come “sostanze”» inserite in un «sistema spaziotemporal-causale» strutturalmente condizionato dagli «aspetti formali a priori del nostro pensiero e della nostra intuizione»28. Riassumendo: la relazione del “rendere possibile”, che pervade tutti gli scritti critici di Kant, è una relazione trascendentale la quale – giusta la più volte ricordata interpretazione di Allison – va intesa (i) in senso epistemico e non causale; e (ii) come concernente le sole componenti formali della conoscenza e quindi dell’oggetto conosciuto: le componenti materiali possono venir desunte soltanto dall’esperienza. Per questo l’esito ultimo della rivoluzione copernicana sarebbe da vedere nel progetto di una metafisica (critica) dell’esperienza il cui scopo è l’«inventario» dei presupposti trascendentali della nostra conoscenza e la giustificazione della loro validità a priori per gli oggetti empirico-fenomenici29. 27 Quest’ultima espressione è ripresa da E. Watkins, Kant on Transcendental Laws, in Thinking about Causes. From Greek Philosophy to Modern Physics, ed. by P. Machamer e G. Wolters, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 2007, p. 115. 28 G. Bird, The Revolutionary Kant, cit., pp. 292 e 353. Come già aveva puntualizzato Robert Paul Wolff, che per altro non può essere inserito del tutto in questa linea interpretativa, «l’insegnamento della Critica non è che i fenomeni sono semplicemente nella testa, o che in qualsiasi senso ordinario gli oggetti materiali non sono reali» (Kant’s Theory of Mental Activity. A Commentary on the Transcendental Analytic of the “Critique of Pure Reason”, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1963, p. 322). 29 G. Bird, The Revolutionary Kant, cit., pp. 125-126, 286, 328-329. Ciò ha delle ricadute teoriche pure su alcune obiezioni mosse alla forza delle argomentazioni trascendentali kantiane sia nella forma in cui esse vengono sviluppate nella Critica, sia nella rielaborazione cui sono

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Questo tipo di interpretazione ha il duplice merito di evitare le “bizzarrie” della duplicazione ontologica30 e di dare il giusto rilievo alla componente empirista dell’epistemologia critica, ossia al fondamentale interesse di Kant per la «feconda bassura (bathos) dell’esperienza» (Prolegomena, p. 373, trad. it. cit., p. 299 n. 27). La costituzione dei concetti, degli oggetti e delle leggi della scienza naturale risulta impossibile senza il contributo di un materiale sensibile (la materia del conoscere) che non dipende in alcun modo dalla soggettività conoscente. Tanto per fare un celebre esempio, il «fatto che la luce del sole che illumina la cera, al tempo stesso la sciolga, mentre indurisce l’argilla» (A 765 sg./B 793 sg., trad. it. cit., p. 1083) non può essere stabilito a priori senza avvalersi dei dati empirici. Ciò che l’intelletto può stabilire a priori è solo l’elemento formale (il principio di causalità) che sta dietro alle due diverse generalizzazioni a posteriori secondo le quali la luce del sole scioglie la cera e indurisce l’argilla: sia l’una che l’altra sono delle particolari determinazioni, o specificazioni, o esemplificazioni, o istanziazioni del principio di causa e tali sono anche tutte le altre leggi scientifiche o di senso comune che affermano l’esistenza di nessi causali fra fenomeni di tipo A e fenomeni di tipo B. La mente può prefigurare la natura in generale, ossia la natura «formaliter spectata», ma non la natura come insieme di tutti i fenomeni e delle loro leggi particolari, ossia la natura «materialiter spectata». Solo dal punto di vista formale si può dire che l’intelletto è il «legislatore» del mondo fenomenico, la «fonte» delle sue leggi (A 126-128, trad. it. cit., pp. 1241 sgg.; B 163-165, trad. it. cit., pp. 283 sgg.); Prolegomena, §§ 16-17, trad. it. cit., pp. 109-112). Proprio per questa imprescindibilità dell’esperienza al fine di conoscere la natura nelle sue componenti materiali alcuni interpreti hanno potuto segnalare una certa similarità, pur nella divergenza del quadro filosofico di fondo, fra le posizioni sulle leggi naturali assunte dall’antiempirista Kant e quelle assunte dai neoempiristi Carnap e Reichenbach. Esattamente come per Kant le leggi causali dipendono da componenti materiali di tipo empirico, ipotetico e a posteriori oltre che da «leggi trascendentali» di tipo formastate sottoposte da Strawson. A parere di Bird, per esempio, una delle ragioni che hanno spinto Barry Stroud a criticare l’antropocentrismo relativistico di Kant in nome di una concezione assoluta della realtà è la sua incapacità di tenere pienamente conto del carattere formale e non materiale della dipendenza della realtà conosciuta dal soggetto conoscente (The Revolutionary Kant, cit., pp. 348-356). 30 Bizzarrie che, per quanto bizzarre, si contengono, in genere, pur sempre entro certi limiti. Anche sulla scorta delle letture più smaccatamente fenomenistiche e idealistiche non si potrebbero attribuire a Kant idee perlomeno singolari come la confusione fra scienza ed esperienza o la dipendenza della stabilità di quest’ultima dalle proprietà del soggetto conoscente (questo non può essere imputato neppure a Berkeley!). Per i poveri soggetti empirici quali noi siamo l’esperienza è quella che è e ci si offre con la stessa datità che offre la “realtà in sé” al realista metafisico.

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le e a priori, così per Carnap – e soprattutto per il Reichenbach degli anni ’20 – le leggi empiriche dipendono dalle relazioni fra le «intelaiature linguistiche» (Carnap) o i «principi di coordinazione», da una parte, e «gli oggetti e le proprietà definite per mezzo di essi» dall’altra31. L’interpretazione “rivoluzionaria” di Kant appare dunque quella più in sintonia con aspetti cruciali del dibattito epistemologico attuale. Anzitutto, si allinea ai diffusi antiriduzionismi e antifenomenismi che hanno occupato la scena dopo la crisi del progetto perseguito da Carnap in Der logiche Aufbau der Welt (1928). Nel paragrafo precedente abbiamo già visto come essa trovi una forte consonanza con la teoria di un a priori relativizzato la quale fa cadere l’assolutismo kantiano delle forme trascendentali, ma contesta la possibilità di una “rendicontazione” della conoscenza di tipo puramente empiristico. In secondo luogo, tale interpretazione incide in modo interessante sul contrasto – così vivo nella filosofia di oggi – fra realismo e antirealismo. Chi la sostiene, infatti, sembra accogliere l’invito a guardare a quel contrasto dall’angolatura della contrapposizione fra concezioni immanenti e concezioni trascendenti dell’oggetto della conoscenza. Ossia, da un’angolatura che mi pare costituire una percorribile alternativa filosofica all’impostazione logico-semantica emersa con Michael Dummett e sviluppata da Crispin Wright, la quale invece fa dipendere l’accettazione o il rifiuto del realismo da approcci alla teoria del significato basati sulle condizioni di asseribilità anziché sulle condizioni di verità e da una diversa presa di posizione sui principi della bivalenza e del terzo escluso32. Come già nel caso del sintetico a priori, pure su questi temi il commentario di Bird è l’opera che più riflette le problematiche emerse in ambito epistemologico, compresa la riproposta del contrasto immanenza/trascendenza. In polemica con Stroud, egli sottolinea che Kant «respinge una concezione trascendente» o «assoluta» di «una realtà “indipendente”» – concezione che legittimava le critiche stroudiane alle argomentazioni trascendentali – e di conseguenza rifiuta «come ozioso uno scetticismo che deriva dalla nostra incapacità di accedere ad essa». La concezione critica non fa consi31 V. E. Watkins, art. cit., p. 115. Istituendo questa analogia bisognerebbe però tener conto della differenza per me fondamentale (trascurata da Friedman e sulla sua scia da Watkins) fra le intelaiature linguistiche di Carnap e i principi costitutivi di Reichenbach ’20: le prime rimandano a connessioni di tipo linguistico-analitico, i secondi a connessioni di tipo teoricosintetico. Solo rispetto a un a priori relativizzato alla Reichenbach si può mantenere una tricotomia (analoga a quella formulata in termini assoluti da Kant) fra la necessità ipotetica, congetturale e comparativa delle specifiche leggi di natura stabilite a posteriori, la necessità trascendentale dei principi sintetici a priori come il principio di causalità e la necessità formale delle leggi logico-analitiche (v. G. Bird, The Revolutionary Kant, cit., p. 504). 32 Per la contrapposizione immanenza/trascendenza vedi P. Parrini, Conoscenza e realtà, cit., e in particolare la Foreword to the English Edition, in Knowledge and Reality, cit., pp. XIII-XVII.

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stere la validità oggettiva della conoscenza nella corrispondenza con una realtà trascendente (assoluta), ma ne mostra l’immanenza rispetto alle nostre strutture a priori e la correla sia alla valutazione aletica dei giudizi sia alla «nostra comprensione delle situazioni oggettive» che rendono quei giudizi veri o falsi. A detta di Bird, per Kant «la nostra concezione di una realtà immanente» è quella che si concretizza «nelle credenze che riteniamo vere (o false) della nostra esperienza»; e questo insieme di credenze (vere o false) presuppone un complesso di regole a priori che le rendano possibili e che diano una direzione determinata alla nostra intenzionalità conoscitiva33. A questo punto, tuttavia, nasce spontanea una domanda: in simili interpretazioni qual è il ruolo riservato alla nozione di verità e alla trattazione che Kant ne dà nelle pagine della Critica ad essa dedicate? Paul Abela, per esempio, di contro agli interpreti influenzati dall’impostazione logicosemantica sopra citata, ha sostenuto che «nonostante le somiglianze» della concezione kantiana con gli approcci antirealisti imperniati sulle condizioni di asseribilità, il modo migliore di dar conto di essa è quello che resta invece «all’interno di una posizione realista basata sul ricorso alle condizioni di verità»34. Bird, dal canto suo, coerentemente con la sua scelta di campo antidummettiana, si associa a questa valutazione di Abela, ma, quanto al problema della verità si limita ad aggiungere che Kant, al pari di Donald Davidson, «sembra assumere» tale idea «come primitiva», ossia come un concetto chiaro quanto basta perché si possa procedere con esso per fare altre cose, anziché sforzarsi di elucidarne la natura mediante l’uso di idee diverse35. Si dovrebbe quindi “resistere” alla tentazione di ascrivere a Kant una teoria della verità – affermazione, quest’ultima, per certi versi sorprendente visto il ruolo fondamentale che il riferimento alle valutazioni aletiche gioca nella ricostruzione che Bird stesso offre della dottrina critica di una realtà e di un’oggettività immanenti anziché trascendenti36. Cosa diversa, naturalmen33 G. Bird, The Revolutionary Kant, cit., pp. 345, 347 sgg. (oltre che a Stroud, Bird fa riferimento ad alcune tesi di Bernard Williams). Vedi sotto la n. 43 per la connessione tra questa interpretazione e “le tesi Kant-Sellars”. 34 P. Abela, op. cit., p. 232. Nel libro vengono discussi diversi punti di vista, tra i quali quelli di tono generale di H. Putnam, M. Dummett, C. Wright, B. van Fraassen, N. Jardine e A. Misak, e quelli più direttamente legati al testo kantiano di L. Stevenson e C. Posy (cfr. pp. 12-13, 211-212, 230, 233-249). 35 Che è quanto Davidson ha effettivamente fatto servendosi del concetto di verità per gli scopi della filosofia del linguaggio. Purtroppo, però, gli usi linguistici non esauriscono le dimensioni di tale concetto, che accanto alla valenza semantica ne possiede anche una epistemologica! 36 G. Bird, The Revolutionary Kant, cit., p. 258 (per il rapporto con P. Abela, v. le pp. 12, 642, 802 n. 7, 813 n. 15, 832 n. 7). Alle pp. 255-258 Bird dice che i passi dell’Introduzione all’Analitica interessati mostrano il «desiderio evidente» di criticare le «teorie tradizionali della

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te, è l’importanza dell’altra idea cui anche Bird sembra essere pervenuto, ossia l’idea del carattere primitivo, categoriale, del concetto di verità. La messa a fuoco di questo carattere costituisce, io credo, un passo essenziale verso una concezione della conoscenza che, rifacendosi alla “tensione” immanenza/trascendenza, possa proporsi come una posizione diversa tanto dall’idealismo quanto dal realismo metafisici37. Una delle assi portanti della concezione critica è costituita dalla distinzione fra esperienza e realtà e per conseguenza dall’idea che, sulla base della sola esperienza sensibile, non sia possibile giudicare cosa vale o non vale come realtà oggettiva. Per questo, data l’inattingibilità epistemica di una realtà in sé, assoluta, trascendente, possiamo discriminare tra esperienze (veridiche) che hanno validità oggettiva ed esperienze (illusorie) che non hanno tale validità solo attraverso «le particolari determinazioni» dell’esperienza in giudicato e l’appello ai «criteri di ogni esperienza reale» (B 279, trad. it. cit., p. 433), ossia alle forme trascendentali della conoscenza. E ciò nel caso dell’esperienza comune e in quello dell’esperienza scientifica, nel caso delle esperienze che riguardano gli oggetti del senso interno e in quello delle esperienze che riguardano gli oggetti del senso esterno. Come si dice sia nella Nota 3 della Confutazione dell’idealismo (B 278 sg., trad. it. cit., pp. 431 sgg.) sia nell’Osservazione III dei Prolegomeni, la distinzione fra la verità e il sogno non viene decisa in base alla natura delle rappresentazioni che sono riferite all’oggetto, perché queste sono uguali nell’uno e nell’altra, ma in base alla connessione delle stesse secondo le norme che regolano il collegamento delle rappresentazioni nel concetto d’un oggetto, bisogna vedere se

verità», piuttosto che il tentativo di elaborare e proporre una propria teoria. Egli non sembra negare che Kant – pur considerando la formula corrispondentista una «definizione nominale» concessa e presupposta – mostri, poi, una «ostilità potenziale verso una teoria della verità come corrispondenza» (p. 258). Non per niente, aggiungerei, i neokantiani, e in particolare Cassirer, hanno visto nel trascendentalismo il superamento di una concezione ingenua della verità come copia (suscitando proprio per questo una reazione critica – secondo me ingiustificata – da parte di Heidegger). Tuttavia Bird ritiene che, ad onta di quella potenziale ostilità verso il corrispondentismo, «il testo [di Kant] indichi più plausibilmente un rifiuto della richiesta stessa [di una teoria della verità] piuttosto che una preferenza per qualche particolare risposta teorica ad essa». Ma, come si è visto, egli stesso riconosce che «la concezione kantiana dell’“oggettività”» ha molto a che fare «con l’ascrizione della verità e falsità» alle nostre credenze e ai nostri giudizi; sembra quindi singolare che concluda (per quanto in modo un po’ dubitativo) che mentre possiamo attribuire a Kant una teoria dell’oggettività, non gli possiamo attribuire una teoria della verità. Del resto, non è inoppugnabile che esiste un legame inscindibile fra verità e realtà ben espresso dalla “ovvia” definizione nominale della verità come accordo fra la conoscenza e il suo oggetto, ossia fra una pretesa conoscitiva e la realtà su cui quella pretesa verte? 37 Per le ragioni a sostegno di quanto dico qui e nei capoversi immediatamente successivi rinvio al mio già citato libro del ’95/’98, Knowledge and Reality.

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esse possono, o no, venir collegate insieme in un’esperienza (Prolegomena, p. 290, trad. it. cit., p. 99)38.

Certo, per garantire l’uso legittimo delle due nozioni categoriali e interdefinibili di realtà oggettiva e verità la concezione kantiana ci costringe a sottoporle a delle restrizioni che non si riscontrano nelle nozioni comuni corrispondenti, intuitive e intrise di trascendenza. Da una parte le vincola a un complesso di principi logico-analitici e logico-trascendentali che ne disciplinano l’impiego; dall’altra, ne consente un’applicazione esclusivamente “immanente”, il che significa rigidamente limitata all’esperienza possibile, ovvero a quei casi empirici in cui dobbiamo distinguere, come prima si diceva, fra sogno e realtà, fra percezioni veridiche e percezioni illusorie, fra ciò che ha una validità meramente soggettiva e ciò che ha una validità oggettiva. Cautelarsi con la doppia limitazione di Kant è divenuto oggi assai problematico data l’impossibilità di far scattare il primo vincolo a causa della crisi del sintetico a priori e della sua sostituzione con un a priori funzionale relativizzato o contestualizzato. In mancanza di un complesso di generalissime assunzioni di sfondo fissate una volta per tutte, l’unica strada per opporre resistenza ad una relativizzazione anche delle nozioni di verità e realtà sembra essere quella di rinunciare a vederle come categorie immanenti a un sistema concettuale per così dire eterno e trasformarle invece in ideali regolativi vuoti i quali, pur essendo trascendenti (sempre in senso regolativo, non metafisico) rispetto a ogni sistema concettuale particolare, continuano ad essere suscettibili, come le vecchie categorie kantiane, di un uso esclusivamente empirico. Ecco dunque quella che in precedenza ho chiamato una delle più importanti e durature lezioni epistemologiche di Kant: la verità perde ogni efficacia e direi ogni operatività se la concepiamo come una relazione tra i nostri pensieri e le cose in sé. Se non vogliamo (né possiamo) rinunciare completamente ad essa, dobbiamo nuovamente rivolgerci a Kant e poi “oltrepassarlo” intendendo la verità come un ideale regolativo che 38 Bird, coerente con la sua interpretazione, puntualizza che l’«interesse di Kant è rivolto» non alla «distinzione fra percezione veridica e percezione illusoria ma all’identificazione di un’intelaiatura di sfondo che renda una simile distinzione realizzabile» (The Revolutionary Kant, cit., p. 459). Nel caso del rapporto tra principio causale e nozione di evento, per esempio, la «domanda che Kant si pone non è: Come distinguiamo fra eventi reali e eventi illusori meramente apparenti?, ma: Come possiamo introdurre il concetto di un evento oggettivo nell’esperienza sia esso reale o apparente?» (The Revolutionary Kant, cit., p. 489; v. anche p. 463). A questo tipo di lettura Bird associa l’idea che per Kant «il contrasto illusorio/veridico sorge entro la nostra esperienza e lo schema a priori che la rende possibile» (The Revolutionary Kant, cit., p. 434). Il che significa che, sviluppando e giustificando il suo progetto di una metafisica critico-trascendentale, egli finisce per dare i criteri di una distinzione fra apparenza e realtà proprio come dice nei passi dei Prolegomeni e della Confutazione dell’idealismo citati nel testo.

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guida e sorregge nel suo procedere quella sintesi di esperienza, teoria e linguaggio che è la nostra conoscenza. 3. Fondazionalismo e razionalità Divergenze interpretative e teoriche hanno investito anche le due importanti questioni del fondazionalismo e della razionalità. Il punto controverso – pure questo messo in evidenza dal libro di Strawson del ’66 – è costituito dallo scopo da attribuire, e dalla forza da riconoscere, alle argomentazioni trascendentali messe in campo da Kant. Per alcuni autori, esse hanno di mira un obbiettivo fondazionale “forte” e “ad ampio raggio”: sconfiggere due ordini di scetticismo radicale, e cioè uno scetticismo di tipo idealistico e fenomenistico che getta dubbi sull’esistenza degli oggetti esterni e uno scetticismo che potremmo dire globale in quanto riguarda la possibilità stessa della conoscenza. Di conseguenza, le argomentazioni kantiane dovrebbero essere vagliate tenendo conto della loro efficacia nei confronti di entrambi questi bersagli39. Per altri interpreti, invece, l’obbiettivo di Kant sarebbe assai meno ambizioso. Secondo Bird, per esempio, quanto al primo tipo di scetticismo (quello riguardante l’esistenza degli oggetti esterni) Kant non avrebbe cercato di confutarlo, o perlomeno di confutarlo mantenendo fermo il privilegiamento in termini di certezza degli stati mentali interni. Avrebbe solo rivendicato il diritto della filosofia ad occuparsi della relazione fra «pensiero ed esperienza» (non di quella «fra rappresentazione interna e oggetti esterni») con l’intento di individuare le componenti a priori che svolgono una funzione nella nostra conoscenza empirica e la rendono possibile40. Quanto al secondo tipo di scetticismo, Kant non soltanto non avrebbe inteso «offrire una garanzia generale [general guarantee]» della «verità delle nostre credenze sugli oggetti esterni»41, ma neppure si sarebbe preoccupato di avallare la possibilità della conoscenza empirica; anche in questo caso, 39 Tra i lavori di coloro che hanno contestato l’efficacia delle argomentazioni trascendentali per conseguire risultati più o meno simili a quelli indicati nel testo meritano una particolare segnalazione gli scritti di Barry Stroud. Nelle sue opere egli affronta questa problematica facendo riferimento sia a formulazioni di carattere generale influenzate dalle posizioni di Strawson (si veda per esempio, The Significance of Philosophical Scepticism, Clarendon Press, Oxford 1984, e The Quest for Reality, Oxford University Press, Oxford 2000), sia alle originarie formulazioni kantiane (Kantian Arguments, Conceptual Capacities, and Invulnerability, in Kant and Contemporary Epistemology, ed. by P. Parrini, Kluwer, Dordrecht 1944, pp. 231-251). 40 G. Bird, The Revolutionary Kant, cit., p. 345; a p. 513 si aggiunge che per Kant «una forma di scetticismo “ozioso”» è presente anche nell’idea, contemplata nella Confutazione dell’idealismo, che «delle cose esterne noi abbiamo» solo «immaginazione» e non «anche esperienza» (B 275, trad. it. cit., p. 427). 41 Ivi, p. 345.

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suo principale interesse sarebbe stato quello di contrastare lo scetticismo humeano non nei suoi paventati esiti di scetticismo globale, ma nella sua specifica applicazione alla validità dei concetti a priori. Le argomentazioni trascendentali avrebbero dunque il più «modesto» scopo di spiegare come sia possibile che il nostro armamentario a priori esplichi una funzione nell’esperienza a posteriori. Nella sostanza, Kant si propone di “districare” le diverse componenti coinvolte nella percezione sensibile al fine di compilare un inventario metafisico dei vari tipi di elementi che intervengono nell’esperienza – elementi sensibili e intellettuali, a priori e a posteriori, formali e materiali ove a quelli a priori e formali (individuabili esclusivamente con il metodo dell’isolamento e dell’astrazione) è assegnato un ruolo immanente all’esperienza stessa. L’obbiettivo primario della Critica – sostiene Bird – non è «garantire le nostre credenze contro lo scettico», ma «identificare una struttura a priori necessaria per tali credenze»42. In un passo importante dell’opera Kant contempla la possibilità «di altre forme dell’intuizione (oltre allo spazio e al tempo)» e pure di «altre forme dell’intelletto (oltre a quella discorsiva del pensiero o della conoscenza mediante concetti)»; ciò che nega è solo che da parte nostra si possano «in alcun modo» escogitare e rendere «comprensibili» tali forme diverse oppure, nel caso riuscissimo a fare questo, che le si possano rendere parte dell’«esperienza quale unica conoscenza in cui ci vengono dati gli oggetti» (A 230/B 283, trad. it. cit., p. 437). Le enunciazioni kantiane andrebbero intese dunque in senso condizionato e non assoluto. Esse asseriscono «non che ogni possibile esperienza deve conformarsi ai nostri principi, ma che la nostra esperienza deve conformarsi ad essi». La conclusione della deduzione trascendentale delle categorie, per esempio, «non afferma che la nostra conoscenza è assolutamente certa o garantita dalle condizioni trascendentali, ma soltanto che se la conoscenza deve essere possibile, allora quelle condizioni devono valere». Di più. Perfino nel caso della nostra esperienza le «condizioni dell’esperienza possibile sono condizioni necessarie capacitanti [enabling] e non condizioni sufficienti garantenti [guaranteeing]». Questa conclusione può soddisfare o non soddisfare i sostenitori dell’istanza scettica, ma certamente essa non pretende di costituire «una garanzia assoluta o non condizionata di conoscenza». È dunque ancora una volta sbagliato leggere nella deduzione trascendentale «un’epistemologia normativa» di stampo idealistico anziché una semplice «metafisica descrittiva»43. 42

Ivi, p. 250. Ivi, pp. 250, 290, 328. Esiste una certa consonanza fra questo giudizio e quelle che Robert Brandom chiama «le “tesi Kant-Sellars” sui vocabolari normativi aletici, modali e deontici». La risposta di Kant a Hume – dice Brandom – consiste nell’affermazione che la difficoltà humeana «non è una difficoltà reale. Di fatto non si può comprendere pienamente l’impiego 43

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Le letture più o meno simili a quella di Bird stigmatizzano anche certe interpretazioni “estreme” della risposta di Kant a Hume. Con la dimostrazione delle Analogie, e della Seconda in particolare, Kant non pretenderebbe di giustificare l’induzione e di garantire la validità della «credenza in un futuro stabile» nel quale le leggi causali continueranno a valere perché sono necessarie e a priori. Egli si limiterebbe a rifiutare la tesi empirista che l’esperienza non contiene elementi a priori, facendo venir meno la principale motivazione del dubbio scettico. In altri termini: i principi sintetici a priori che rendono possibili le caratteristiche strutturali oggettive dell’esperienza (cose, proprietà, eventi, coesistenza) non sono anche garanti della durevole stabilità del mondo; ma con la loro semplice esistenza l’argomento in favore dello scetticismo «viene bypassato». Quanto alle garanzie, «per Kant non vi è alcuna buona ragione per prendere sul serio uno scetticismo empirista» che le richieda. La mappa delle strutture della nostra esperienza che la metafisica critico-trascendentale ci mette davanti è più accurata e sofisticata di quella offerta dall’empirismo; è di per sé, dunque, che essa costituisce «un correttivo» della dottrina empirista «da cui i dubbi scettici scaturiscono»44. Uno dei grossi problemi teorici, oltre che interpretativi, che simili “ridimensionamenti” della risposta di Kant a Hume devono affrontare è quello di determinare se Kant faccia o no uso di una premessa che, pur non valendo per ogni tipo di esperienza possibile ma solo per la nostra, non presuppone già la validità oggettiva di qualcosa di cui Hume aveva implicitamente dubitato con la sua messa in discussione del principio causale. Qui però potrò prescindere dalla questione45 perché la teoria della verità fissa un punto con cui tanto le interpretazioni “ambiziose” quanto quelle più o meno “modeste” devono comunque fare i conti46. Tale teoria non esige di descrittivo, empirico di concetti ordinari determinati come gatto senza comprendere almeno implicitamente ciò che è reso esplicito dai concetti modali che articolano le leggi». In generale, si può affermare che i vocabolari normativi aletici, modali e deontici «hanno il ruolo espressivo di rendere esplicito qualcosa che è già implicito nell’uso del vocabolario descrittivo ordinario» (R. Brandom, Between Saying & Doing. Towards an Analytic Pragmatism, Oxford University Press, Oxford 2008, pp. XIV sgg. e 110 con il corsivo al posto della sottolineatura). 44 G. Bird, The Revolutionary Kant, cit., p. 498 (v. anche p. 290). 45 Mi limiterò a rinviare a P. Parrini, A due secoli da Kant: conoscenza, esperienza, metafisica della natura, in Itinerari del criticismo. Due secoli di eredità kantiana, a cura di C. Ferrini, Bibliopolis, Napoli 2005, pp. 17-54, in particolare pp. 26-39, ove vengono presentate le tesi di Popper, R.P. Wolff, G. Buchdahl, J.D. McFarland, M. Pera e S.L. de C. Fernandes. 46 Ciò vale anche per le alternative interpretative che riguardano specificamente il principio causale del quale Kant nella Critica dà due differenti formulazioni, una nella prima (A 189) e l’altra nella seconda edizione (B 232). Per esempio, la teoria della verità non ha implicazioni sul problema se gli sforzi dimostrativi di Kant vadano visti come tentativi di giustificare: (i) l’esistenza di una causa in corrispondenza di ciascun evento (every-event-some-cause) o di una medesima causa in corrispondenza di un medesimo effetto (same-cause-same-effect); oppure, (ii) la necessità

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PAOLO PARRINI

asserire (o negare) l’esistenza di un mondo di sostanze che interagiscono causalmente fra di loro, governato da leggi stabili; esige però di riconoscere che se nella nostra esperienza si danno eventi (una questione da decidersi sulla base dell’esperienza), allora tali eventi sono causati. E lo stesso può dirsi per le sostanze in relazione alla Prima analogia e per la simultaneità/comunanza in relazione alla Terza. In altre parole, la teoria della verità ci vincola ad un’affermazione sola: la presenza in Kant di un intento antiscettico e fondazionale se non altro in quanto egli inserisce i principi sintetici a priori, a cominciare dal principio causale, fra le condizioni formali logico-trascendentali della verità. Da ciò consegue infatti che nessun giudizio può essere considerato vero, ossia conforme al suo oggetto, se afferma o implica l’ammissione di oggetti o accadimenti non conformi a quei principi (per esempio di uno o più eventi incausati)47. Questa teoria, quindi, enuclea quell’aspetto del discorso kantiano sul principio di causalità e sugli altri giudizi sintetici a priori che è connesso alla formulazione stessa del problema della Critica: l’esistenza e la spiegazione della possibilità di forme della conoscenza che, pur non derivando dall’esperienza, avanzano la pretesa di essere valide a priori degli oggetti di esperienza. In quanto condizione logico-trascendentale della verità, il principio causale è un elemento dell’intelaiatura di strutture a priori che rende possibile il rapportarsi ad oggetti empirici e la formulazione delle questioni e delle risposte di natura empirica che li riguardano. In questo senso far riferimento alla teoria della verità – nonostante la neutralità di essa rispetto alle divergenze interpretative sugli intenti antiscettici di Kant – milita a favore di una tesi precisa: e cioè, che le dimostrazioni dell’Analitica, ed in particolare la dimostrazione della Seconda Analogia, concernono non, come ha ritenuto Strawson, «le condizioni sufficienti per dare senso al concetto dell’oggettivo o il contrasto generale fra soggetto e oggetto», bensì le presuppo-

stessa delle sequenze causali; oppure ancora, (iii) la conformità delle sequenze causali a leggi configuranti non semplicemente una natura in generale, ma un’organizzazione sistematica della natura (un tema che è stato proficuamente discusso da Gerd Buchdahl). 47 Mi pare che questo punto non sia toccato da quanto Bird dice sul modo in cui Kant concepisce il principio causale. A suo dire, i «resoconti popolari» formulano tale principio «come “Ogni evento ha una causa”»; si tratta però di una formulazione «fuorviante» perché essa «pone Kant in linea con gli empiristi che parlano di relazioni causali fra eventi» laddove per lui «sono i rapporti entro gli eventi, fra stati di un oggetto, a fornire il locus fondamentale dei nessi di causalità» (The Revolutionary Kant, cit., p. 455 sg.). La puntualizzazione di Bird, per certi versi rilevante, non scalfisce il fatto che il principio causale sia tra le condizioni logicotrascendentali della verità dei giudizi in quanto esso nega la possibilità che nella nostra esperienza si diano eventi incausati.

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EPISTEMOLOGIA

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sizioni che entrano in gioco «per confermare effettivamente giudizi particolari o pretese di conoscenza empirica» (Paul Guyer)48. Che sia “ambiziosa” o “modesta” l’interpretazione prescelta, la teoria della verità di Kant mostra che in ogni caso egli avanza una pretesa antiscettica e fondazionale49 in quanto afferma la validità oggettiva a priori, e quindi universale e necessaria, di certi principi della conoscenza di natura non solo logico-analitica, ma anche logico-trascendentale. Per giunta Kant ritiene che tale validità oggettiva universale e necessaria debba e possa essere dimostrata secondo modalità che presuppongono anch’esse una razionalità “forte” – una razionalità che si muove sul piano del quid juris, non del quid facti e la cui cogenza è essenziale per il progetto di costituire un argine (per quanto lo si voglia “immodestire”) contro lo scetticismo di Hume. Del resto è Kant stesso a stabilire una connessione fra la sua difesa del sintetico a priori e un certo assolutismo. In primo luogo, egli distingue esplicitamente fra giudizi assolutamente a priori e giudizi relativamente a priori e circoscrive il suo problema ai primi (B 2 sg., trad. it. cit., p. 71). È per giustificare i giudizi assolutamente a priori che cerca argomentazioni in grado di muoversi sul piano del trascendentale, ossia non sul piano dell’esperienza, ma su quello delle condizioni di possibilità dell’esperienza, o se vogliamo della possibilità della nostra esperienza in generale. In secondo luogo, è sempre Kant a sviluppare la deduzione trascendentale delle categorie attenendosi alla caratterizzazione del concetto di “trascendentale” più rigorosa e stringente che egli abbia dato (A 56 sg./B 80 sg., trad. it. cit., p. 175). A suo dire, «come lo spazio e il tempo forniscono il fondamento a quelle proposizioni che si riferiscono solo alla forma della semplice intuizione», così «il fondamento per proposizioni sintetiche a priori che riguardano il pensiero puro» consiste nell’affermazione che «ogni coscienza empirica diversa deve [poter] essere connessa in un’unica autocoscienza»; e questa affermazione viene considerata il principio «assolutamente necessario» e «assolutamente primo e sintetico del nostro pensiero in generale» (A 177 nota, trad. it. cit., p. 355 nota a)50. 48 P. Guyer, Kant and the Claims of Knowledge, Cambridge University Press, Cambridge 1987, p. 231. 49 In The Revolutionary Kant, cit., p. 261, G. Bird distingue tra «fondamentale» (fundamental) e «fondazionale» (foundational); ma le sue considerazioni non toccano il senso in cui io sostengo che in Kant vi è una compromissione con il fondazionalismo. 50 L’aggiunta tra parentesi quadre della modalità del «potere» tiene conto di quanto Kant dice subito dopo, ossia che «non importa affatto se questa rappresentazione sia chiara (coscienza empirica) o oscura, e non conta neppure la sua realtà effettiva [corsivo aggiunto]: quel che importa è che la possibilità [corsivo aggiunto] della forma logica di tutta la conoscenza si basi necessariamente sulla relazione a questa appercezione come ad una facoltà». Su ciò vedi anche G. Bird, The Revolutionary Kant, cit., pp. 292-297. Per la centralità della nozione di “connessione” si veda la discussione in proposito di Roberto Torretti in relazione alle tesi di

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PAOLO PARRINI

Certamente non tutte le argomentazioni trascendentali disseminate nelle opere del Kant critico, e in particolare nella Ragion pura, hanno la stessa struttura, si prefiggono lo stesso tipo di obbiettivi e pretendono di avere la stessa cogenza dimostrativa. Il dibattito che si è svolto su di esse ha messo in luce sia queste differenze, sia i non pochi problemi posti dal loro statuto epistemologico e dalla loro validità logica51. Non si può negare, però, che almeno alcune, al di là della loro effettiva riuscita, mirino a realizzare una razionalità che pretende di giustificare, anzi direi proprio di “fondare”, una serie di principi universalmente e necessariamente validi degli oggetti di esperienza (della “nostra” esperienza). Proprio per questo la filosofia kantiana è entrata in rotta di collisione con i già ricordati sviluppi scientifici verficatisi nel corso dell’Ottocento e del Novecento. E sebbene ciò non significhi che anche il metodo di analisi delle teorie scientifiche impiegato da Kant sia caduto sotto quei medesimi colpi, la sua visione della ragione ne ha certamente sofferto52. Queste considerazioni in negativo non esauriscono, però, i rapporti fra la concezione kantiana della razionalità e l’epistemologia successiva, soprattutto quella degli ultimi decenni. Le tesi sostenute a proposito della logica generale e della logica trascendentale costituiscono infatti solo una parte, sia pure una parte cruciale, di tale concezione. Altri aspetti vi sono in essa che configurano un’idea di ragione meno “forte” o più “tenue” e che proprio per questo possono costituire punti di riferimento importanti per il dibattito attuale caratterizzato da robuste spinte antifondazionaliste e per certi versi irrazionaliste. A me sembra di vederne soprattutto tre. Il primo emerge dal cosiddetto Opus postumum, in particolare dalle osservazioni riguardanti il “passaggio” dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica vera e propria. Qui Kant mostra di aver intravisto – e temuto – una qualche possibilità per la ragione di trascendere i principi sintetici a priori da lui considerati immutabili e insostituibili. In una serie di annotazioni egli sembra riconoscere alla mente umana una sorta di “plasticità” o “duttilità” la quale le consentirebbe di “inventare” liberamente dei Klaus Reich e Béatrice Longuenesse (Objectivity: a Kantian Perspective, in Kant and Philosophy of Science Today, ed. by M. Massimi, Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 81-94, in particolare pp. 87-90). 51 Tra le opere sull’argomento mi limiterò a segnalare due raccolte, una di taglio più storico l’altra di taglio più teorico, curate, rispettivamente, da Eckart Förster, Kant’s Transcendental Deductions. The Three “Critiques” and the “Opus postumum”, Stanford University Press, Stanford (CA) 1989, e da Robert Stern, Transcendental Arguments. Problems and Prospects, Clarendon Press, Oxford 1999. Di Stern è da ricordare anche la monografia Transcendental Arguments and Scepticism. Answering the Question of Justification, Clarendon Press, Oxford 2000. 52 Elementi che hanno una certa affinità con quelli “forti” del trascendentalismo kantiano si possono rinvenire nelle forme di trascendentalismo alla Karl-Otto Apel basate sull’idea delle contraddizioni performative.

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EPISTEMOLOGIA

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costrutti concettuali. In tal modo, essa anticiperebbe a priori caratteri degli oggetti di esperienza che le argomentazioni trascendentali della Critica della ragion pura avevano lasciato fuori in quanto “empirici” (ossia in quanto non determinati dalle forme della soggettività trascendentale: spazio, tempo e apparato categoriale). Anzi, proprio in tale capacità della ragione viene individuato il mezzo attraverso cui essa può realizzare il desiderato passaggio dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica. Al tempo stesso, però, Kant pare rendersi conto che i costrutti concettuali così inventati potrebbero condurre a una messa in discussione della distinzione fra a priori e a posteriori, e quindi a qualcosa di analogo a quanto circa un secolo e mezzo dopo verrà effettivamente “decretato” da Quine. Il tema del passaggio dalla metafisica alla fisica gli sembra allora importante anche perché consente di delimitare bene gli ambiti delle due discipline e di stabilire fra questi la giusta connessione. Si potrà evitare, così, che il «mescolarsi o l’insinuarsi dell’uno nell’altro, quale di solito pure si verifica» risulti dannoso dal punto di vista non solo dell’«eleganza» del sistema, ma anche della sua «fondatezza», perché «i principi a priori ed empirici potrebbero contaminarsi, o elevare pretese gli uni contro gli altri»53. Con straordinaria lungimiranza, egli sembra dunque presagire la possibilità di mettere in questione la validità di un giudizio sintetico a priori facendo leva su qualche principio liberamente creato dalla ragione. Il secondo aspetto che mostra l’esistenza in Kant di una concezione anche “allargata” della razionalità è presente già nella prima Critica, e più precisamente nell’Appendice alla Dialettica trascendentale intitolata Dell’uso regolativo delle idee della ragion pura. Qui egli, dopo aver stabilito che «tutte le nostre inferenze, le quali vogliono condurci al di là del campo dell’esperienza possibile, sono ingannevoli e prive di fondamento» (A 642/B 670, trad. it. cit., p. 925), legittima l’uso delle tre idee della ragione (Anima, Mondo, Dio) quando si attribuisca loro un valore non costitutivo (come quello proprio dei concetti e dei principi dell’intelletto puro), ma meramente regolativo; ossia quando esse vengano impiegate sotto forma di presupposizioni soggettive esprimenti certe esigenze della pura ragione. La tesi è ben nota e non ha bisogno di particolari illustrazioni. Qui importa sottolineare, piuttosto, che alla facoltà della ragione e alla sua aspirazione regolativa verso l’unificazione Kant riconduce non solo idee come «terra pura, acqua pura, aria pura ecc.» (A 646/B 674, trad. it. cit., p. 929) o come «forza fondamentale» (A 649/B 677, trad. it. cit., p. 933), ma anche, e soprattutto, alcune basilari regole metodologiche o principi del metodo il 53 I. Kant, Opus postumum, edizione dell’Accademia, vol. XXI, p. 526 (corsivo aggiunto); la trad. it. è quella di V. Mathieu, La filosofia trascendentale e l’“Opus postumum” di Kant, Edizioni di “Filosofia”, Torino 1958, p. 110.

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PAOLO PARRINI

cui compito è indirizzare la conoscenza scientifica verso sintesi empiriche di ampiezza, sistematicità e unitarietà sempre maggiori. Per esempio, la «nota regola scolastica secondo cui gli elementi (principi) non devono essere moltiplicati senza necessità» (A 652/B 680, trad. it. cit., p. 939) viene da lui considerata un presupposto trascendentale della ragione esprimente un’esigenza soggettiva di tipo regolativo e non costitutivo. Regole come quella appena citata, che sono il portato delle idee della ragione, spingono la ragione stessa alla ricerca del «carattere sistematico della conoscenza», vale a dire alla «connessione di essa in base ad un principio» (A 645/B 673, trad. it. cit., p. 929). E l’ordine cercato è quello in cui un complesso di concetti e di leggi che presentano il massimo della varietà viene subordinato ad un complesso di concetti e di leggi che presentano il massimo dell’unità. Il terzo aspetto, infine, è legato alla Critica del giudizio ove Kant introduce la famosa distinzione fra giudizio determinante e giudizio riflettente. L’attività giudicatrice non si esaurisce nei casi in cui il concetto generale o generalissimo (universale) è già dato all’intelletto che ha il compito di applicarlo al molteplice sensibile (giudizio determinante); essa si esplica anche attraverso i giudizi riflettenti in cui ad essere date sono le intuizioni o le molteplicità sensibili e si va alla ricerca dell’universale cui sottoporre il particolare. Questo secondo tipo di giudizi sta alla base – oltre che dell’indagine guidata dall’«universale e pur indeterminato principio di un ordinamento finale della natura in un sistema»54 – di una modalità di discussione diversa dalla modalità più tipica che si trova nelle discipline logiche, matematiche e fisiche. Kant, infatti, distingue fra disputare e discutere e dice che mentre il disputare «si fonda» su concetti determinati, e quindi su giudizi determinanti, il discutere «si fonda» sui concetti indeterminati, e quindi su giudizi riflettenti55. Pure il discutere, però, può essere considerato razionale. Esso, infatti, si appoggia a principi o a massime della ragione, sebbene la sua forza non sia pari a quella della logica deduttiva e delle deduzioni trascendentali discusse nella prima Critica. In questo modo Kant finisce per delineare una vera e propria “seconda” visione della razionalità e questa seconda visione ha assunto una particolare rilevanza proprio a seguito della crisi della pretesa validità assoluta dei suoi principi sintetici a priori. A quella crisi si è accompagnata l’idea che siano possibili più sistemazioni teorico-concettuali dei dati di esperienza. E ciò ha comportato il progressivo consolidarsi di due tesi via via più centrali nel dibattito epistemologico attuale. 54 I. Kant, Prima Introduzione alla “Critica del giudizio”, trad. it. a cura di P. Manganaro, Laterza, Roma-Bari, 1979, p. 89. 55 I. Kant, Critica del giudizio, trad. it. con testo tedesco a fronte a cura di M. Marassi, Bompiani, Milano 2004, p. 375 e 377.

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EPISTEMOLOGIA

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La prima è che non si possono comprendere le scelte e i mutamenti della scienza senza fare riferimento ai valori epistemici (semplicità, eleganza, potere unificante, familiarità, ecc.) e alle regole metodologiche che la guidano. La valutazione di sistemazioni linguistico-teoriche alternative viene a dipendere proprio da considerazioni del tipo appena citato, le quali talvolta assumono un peso tale da contrastare perfino il valore costituito dalla adeguatezza empirica. Si può accettare, o mantenere, anche una teoria che al momento non risolva tutti i problemi posti dall’esperienza (le cosiddette “anomalie empiriche”) se le sue altre virtù epistemico-metodologiche sono assai spiccate e molto promettenti dal punto di vista dei possibili sviluppi futuri. Di più: tanto grande è divenuta la rilevanza di queste virtù che proprio nel crescente potere unificante delle teorie e nel loro disporsi in un processo evolutivo di sempre maggiore organicità, sistematicità, eleganza, semplicità e generalità si sono viste delle ragioni importanti per attribuire all’impresa scientifica un valore genuinamente conoscitivo, comunque tale valore venga inteso (realismo metafisico, idealismo logico-formale, realismo empirico); e ciò anche quando si rinunci alla pretesa che quel processo evolutivo debba snodarsi, almeno idealmente, secondo una linea di sviluppo compiutamente cumulativa, nella quale cioè tutti gli aspetti considerati validi in uno stadio precedente si conservino in un modo o nell’altro nello stadio successivo. La seconda tesi emersa con forza dal dibattito epistemologico odierno è che i giudizi deliberativi alla base delle scelte fra teorie alternative – giudizi che caratterizzano le fasi di mutamento scientifico più o meno tumultuoso e “rivoluzionario” – non possono essere tutti considerati di tipo determinante. Specie dopo la crisi del neoempirismo (che operava per altro con una concezione della discussione razionale più variegata di quanto non si pensi56), la nozione di ragione si è progressivamente ampliata e questo ampliamento ha messo in evidenza tutti i limiti di una visione di essa angustamente logico-formale e criteriale. Si è così imposta l’idea che la razionalità, lungi dall’esaurirsi nella conformità a regole date, si estrinsechi anche nell’attività del giudizio e della deliberazione, ossia in processi discorsivi che non sono guidati da principi generali previamente fissati e i cui esiti non sono il risultato o di un’inferenza puramente deduttiva, o di un “calcolo”, o della sus-

56 Per dirla con le parole di Herbert Feigl, gli empiristi logici riconoscevano un ruolo alle tecniche argomentative non solo della justification, ma anche della validation. Le loro «tecniche della ragione», come si esprimeva felicemente Nicola Abbagnano, erano dunque meno monolitiche di quanto si ritenga comunemente.

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PAOLO PARRINI

sunzione di un particolare sotto un concetto in base al soddisfacimento di certi criteri57. Per dirla in termini kantiani, una parte rilevante delle nostre valutazioni e deliberazioni nasce non dalla «disputa», ma dalla «discussione» criticorazionale. E ciò implica una rinnovata attenzione per modalità del giudicare basate su analogie, metafore, casistiche, riferimenti a casi esemplari e paradigmatici, ecc. che sono assai vicine alle forme del giudizio che Kant chiamava riflettente.

57 A questo tipo di argomentazioni si è prestata sempre maggiore attenzione non solo nel campo dell’epistemologia di derivazione analitica, ma anche nel postmodernismo (Jean-François Lyotard) e nella filosofia politica (con particolare riferimento al tema dell’esemplarità).

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Francesco Camera

Ermeneutica

Nello sviluppo storico del problema ermeneutico nell’età dell’Illuminismo Kant sembra rappresentare «un’inversione di rotta, una frattura»1. Egli infatti non pone esplicitamente a tema delle sue riflessioni il problema generale dell’interpretazione in quanto tale, ma sembra concentrare i suoi interessi all’ambito dell’interpretazione dei testi biblici nel quadro delle sue ricerche di filosofia morale e di filosofia della religione2. Questo rapporto circoscritto, ma niente affatto secondario, della filosofia trascendentale kantiana nei confronti delle problematiche ermeneutiche era già stato rilevato con autorevolezza da Dilthey nella sua approfondita ricostruzione delle origini della «scienza ermeneutica»3. Venendo a esaminare il complesso e articolato contesto delle ricerche settecentesche in ambito ermeneutico (con particolare attenzione alle innovative tesi di Michaelis, Semler ed Ernesti), Dilthey dedica alcune dense pagine a Kant, sottolineando come egli non occupi affatto una posizione episodica o marginale, ma rappresenti anzi un autentico «punto di svolta»4. La novità consiste nell’aver proposto una teoria ermeneutica basata su un preciso principio, che mira a rintracciare nei contenuti delle religioni positive, nelle loro narrazioni, nei loro dogmi e articoli di fede un significato morale universale o razionale. Nel campo dell’esegesi la specificità di questo approccio consiste nel fatto che per la prima 1

F. Bianco, Introduzione all’ermeneutica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 68. Com’è stato sostenuto, con diverse argomentazioni, da G. Cunico, Comprensione del senso e giudizio teleologico. Sulla teoria dell’interpretazione di Kant, in Etica, Religione e Storia. Studi in onore di Giovanni Moretto, a cura di D. Venturelli, R. Celada Ballanti, G. Cunico, il melangolo, Genova 2007, pp. 359-371, e da L. Cataldi Madonna, L’ermeneutica antilluministica di Kant tra accomodazione e allegorizzazione, in Kant e il conflitto delle facoltà. Ermeneutica, progresso storico, medicina, a cura di C. Bertani, M.A. Pranteda, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 53-73. 3 Ci riferiamo al copioso materiale pubblicato postumo: W. Dilthey, Leben Schleiermachers, Bd. II/2, Schleiermachers System als Theologie, hrsg. von M. Redecker, de Gruyter, Berlin 1966, pp. 595-677. Questo materiale costituisce la base della sintetica ricostruzione storica delineata nel saggio Die Entstehung der Hermeneutik, in Gesammelte Schriften, Bd. V, hrsg. von G. Misch, Teubner, Berlin 1924, pp. 317-338, in cui però non viene esaminata la posizione di Kant. 4 W. Dilthey, Leben Schleiermachers, Bd. II/2, cit., pp. 651-656. Il capitolo è intitolato Anfänge einer auf die Einheit der Heiligen Schriften gerichteten hermeneutischen Methode bei Kant. 2

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FRANCESCO CAMERA

volta tutti i libri della Scrittura possono essere interpretati a partire da un principio unitario. Secondo Dilthey si tratta di un risultato importante che integra le acquisizioni del metodo storico-critico, il quale aveva sottoposto ad accurate analisi filologiche i singoli libri del canone insistendo sulle specifiche caratteristiche di ciascuno ma aveva lasciato in secondo piano il significato complessivo dell’intera Scrittura. Da questo punto di vista, conclude Dilthey, «l’interpretazione morale ha una posizione epocale nella storia dell’ermeneutica» in generale5, oltre che dell’esegesi scritturale. È interessante rilevare come Dilthey si preoccupi anche di vedere in che misura l’«idealismo morale» kantiano, applicato all’interpretazione scritturale, si ricolleghi al contesto più generale del pensiero trascendentale. A questo proposito viene richiamato il ruolo fondamentale che per Kant assume la nozione universale di idea in contrapposizione alla rapsodia dei dati empirici, tra i quali rientrano anche i fatti storici. Si tratta di un’indicazione importante, che non limita gli interessi kantiani per l’ermeneutica esclusivamente all’esegesi scritturale, ma cerca di collocarli più in generale nel contesto della svolta trascendentale. Prendendo le mosse da questa articolata valutazione di Dilthey, nelle pagine che seguono cercheremo di esaminare innanzitutto alcune affermazioni kantiane in cui è possibile rintracciare, seppur in una forma implicita o appena accennata, considerazioni di carattere generale sul problema dell’interpretazione di testi o messaggi scritti (§ 1); in secondo luogo prenderemo in considerazioni alcuni testi in cui Kant sviluppa una particolare interpretazione di passi scritturali, oppure accenna ad alcune linee teoriche di approccio al testo biblico, nei quali vengono abbozzate le linee di fondo dell’interpretazione razionale (§§ 2-4). Successivamente concentreremo la nostra attenzione su due opere assai conosciute – la Religion e lo Streit – che riguardano esplicitamente l’ermeneutica biblica, i suoi principi e le sue regole, e nei quali è più evidente il riferimento alle tematiche di carattere religioso ed etico (§§ 5-8). Nel corso della nostra esposizione cercheremo di mettere in luce come gli interessi kantiani per l’ermeneutica scritturale sia5 Ivi, p. 652. Secondo Dilthey, Kant avrebbe integrato e completato le ricerche di Semler sull’unità del canone biblico e questo suo contributo avrebbe influito in misura determinante anche sulle successive ricerche di Schleiermacher, aiutando quest’ultimo a considerare il Nuovo Testamento come una «totalità di concetti e di dottrine unitarie» (ivi, p. 656). Questo giudizio positivo andrebbe integrato con l’esame della concezione kantiana del rapporto tra religione e morale in Leben Schleiermachers, Bd. I/1, pp. 78 sgg., 130 sgg., e con quanto si legge nel saggio Der Streit Kants mit der Zensur über das Recht freier Religionsforschung, in Gesammelte Schriften, Bd. IV, hrsg. von H. Nohl, Teubner, Berlin 1925, pp. 285-309. Per un approfondimento del confronto diltheyano con la filosofia della religione kantiana rimandiamo al sintetico e lucido saggio di G. Cacciatore, Kant, Dilthey e il problema della religione, in Kant e la filosofia della religione, a cura di N. Pirillo, Morcelliana, Brescia 1996, vol. II, pp. 563-571.

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no parte integrante non solo della riflessione sulla religione e sull’etica, ma rientrino anche a pieno titolo nel progetto generale del criticismo, se è vero che «nell’epoca della critica tutto deve essere sottomesso alla ragione», compreso «il carattere sacro della religione» stessa6. 1. La rivoluzione copernicana e il problema dell’interpretazione Sebbene il problema dell’interpretazione e la riflessione sull’atto del comprendere non siano esplicitamente al centro del pensiero kantiano, seguendo la via aperta da alcuni studi recenti possiamo rintracciare nella prima Critica alcuni spunti che dimostrano come le problematiche ermeneutiche non siano estranee all’orizzonte del criticismo7. Certamente si tratta di considerazioni che non intendono elaborare una teoria ermeneutica generale, ma che in ogni caso dimostrano come la svolta trascendentale della rivoluzione copernicana possa avere un riflesso anche sul problema dell’interpretazione. La prima indicazione in questo senso può essere vista nel celebre annuncio, contenuto nella seconda Prefazione della Critica, del «mutato metodo nel modo di pensare», che Kant formula con queste parole:

6 KrV, A XI, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, riv. da V. Mathieu, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 7. Questo accenno va integrato con la più precisa affermazione, che si legge in WA, AA VIII 41, trad. it. di F. Gonnelli, Risposta alla domanda cos’è illuminismo, in Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 50: «Ho posto segnatamente nelle cose di religione [Religionssachen] il punto decisivo dell’Illuminismo, cioè dell’uscita degli uomini dallo stato di minorità di cui essi sono responsabili […]; per di più questa forma di minorità [sc. quella religiosa] è, fra tutte, la più dannosa, nonché la più umiliante». 7 Ci riferiamo in particolare all’articolo di H.-G. Gadamer, Kant und die philosophische Hermeneutik, «Kant-Studien», LVI (1975), pp. 395-403, che ha avuto il merito di richiamare l’attenzione degli studiosi sull’argomento, anche se non sviluppa un’analisi dettagliata dei testi kantiani. In Italia segnaliamo il libro di G. Giannetto, Kant e l’interpretazione, Giannini, Napoli 1978, che ha proposto una lettura d’insieme del criticismo con alcuni riferimenti alle problematiche ermeneutiche, spesso tuttavia estrinseci e poco convincenti. Successivamente G. Micheli, Il problema dell’interpretazione secondo Kant, in AA.VV, Filosofia, politica e altri saggi, Antenore, Padova 1983, pp. 85-98, ha tentato di delineare l’approccio ermeneutico kantiano ai testi della tradizione filosofica. Infine C. La Rocca, Il conflitto delle interpretazioni: Kant, Meier, Eberhard e l’ermeneutica filosofica, in Id., Soggetto e mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia 2003, pp. 155-182, ha rintracciato in molti testi kantiani la presenza di alcuni principi che guidano l’interpretazione dei testi filosofici e ha anche documentato la conoscenza da parte kantiana del dibattito settecentesco su questi temi. Di recente il possibile rapporto tra la svolta trascendentale della prima Critica e le problematiche ermeneutiche è stato indagato da R. Rovira, Kant y las reglas de la herméneutica filosófica, «Studi kantiani», XX (2007), pp. 23-34.

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Sinora si è ammesso che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi di stabilire intorno ad essi qualche cosa a priori, per mezzo dei concetti, coi quali si sarebbe potuto allargare la nostra conoscenza […] non riuscirono a nulla. Si faccia, dunque, finalmente la prova di vedere se saremo più fortunati […] facendo l’ipotesi che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza8.

Com’è noto, la «rivoluzione copernicana» presuppone un complesso rapporto sintetico tra gli oggetti di esperienza e i concetti a priori, secondo cui i primi devono necessariamente regolarsi e accordarsi con i secondi. L’impostazione generale del metodo trascendentale si può dunque riassumere con la seguente affermazione: «Noi delle cose non conosciamo a priori, se non quello stesso che noi stessi vi mettiamo [daß wir nämlich von den Dingen nur das a priori erkennen, was wir selbst in sie legen]»9. Di solito si è dato a queste affermazioni kantiane un significato prevalentemente gnoseologico, epistemologico o metafisico. Se però proviamo ad applicare questo schema costruttivistico dell’immissione del senso all’esperienza della lettura di testi o di messaggi scritti, le parole kantiane possono risultare rilevanti anche per il problema ermeneutico in generale. Infatti, applicando questo schema all’esperienza della lettura, non si tratta in primo luogo di fare in modo che l’interprete si regoli sul significato oggettivo o letterale delle parole che compongono i testi, riproducendo o rispecchiando il senso in essi contenuto. Come nel caso del pensare anche nel caso della lettura e dell’interpretazione occorre mutare metodo: occorre fare in modo che siano i testi (le loro parole e i loro significati) a regolarsi e accordarsi con il senso che «noi stessi (i lettori) vi mettiamo» (in sie legen). Questa trasposizione dell’affermazione kantiana da un contesto gnoseologico ad uno ermeneutico ha come prima conseguenza la messa in discussione del principio dell’intenzione autorale quale criterio guida nella lettura e nell’interpretazione di testi. Il principio della mens auctoris, erede della tradizione letteralista delle scuole filologiche antiche (prima fra tutte la scuola di Alessandria), si era venuto affermando a partire dall’età moderna nell’hermeneutica sacra ed era stato accolto anche dalle prime ermeneutiche generali settecentesche10, anche se in modo non uniforme. Infatti, già «il celebre Wolff» aveva riformulato questo principio e successivamente il leibniziano Chladenius aveva affermato che, quando il significato di un testo non 8

KrV, B XVI, trad. it. cit., p.17. KrV, B XVIII, trad. it. cit., p. 18. 10 Per la teorizzazione del principio autorale nell’ermeneutica settecentesca paradigmatica è la posizione di G.Fr. Meier, Versuch einer allgemeinen Auslegungskunst (1756), hrsg. von A. Bühler und L. Cataldi Madonna, Meiner, Hamburg 1996, § 128, p. 50. Tra i numerosi studi sulle ermeneutiche generali settecentesche ci limitiamo a segnalare la sintesi di L. Cataldi Madonna, L’ermeneutica filosofica dell’Illuminismo tedesco: due prospettive a confronto, «Rivista di Filosofia», LXXXV (1994), pp. 185-212. 9

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è chiaramente decifrabile, è lecito al lettore proporre un’autonoma interpretazione sulla base del proprio «punto di vista»11. Seppur con intenzioni diverse, che si collegano all’esercizio della critica della ragione, anche per Kant l’interprete non deve limitarsi a constatare come stanno le cose, riproducendo il senso altrui, ma deve impegnarsi a pensare e ad interpretare in modo autonomo. L’invito a usare la propria ragione e a «pensare da sé» – a costruire un’esperienza sensata regolata da principi a priori, secondo il modello costruttivistico dell’immissione del senso – comporta in campo ermeneutico una revisione del principio dell’intenzione autorale, basato sulla corrispondenza dell’interpretazione col senso introdotto nel testo dal suo autore. Sulla base di queste sintetiche osservazioni non è affatto casuale che, nelle pagine iniziali del Libro I della Dialettica trascendentale della prima Critica, Kant rifiuti il principio autorale e si schieri esplicitamente a favore della tesi del comprendere meglio (Besserverstehen). Facendo riferimento alla concezione dell’idea propria di Platone, il «sublime filosofo», Kant scrive: Noto soltanto, che non è niente insolito, tanto nella conversazione comune quanto negli scritti, mediante il confronto dei pensieri che un autore espone sul suo oggetto, comprenderlo magari meglio di quanto egli non comprendesse se medesimo [den Verfasser sogar besser zu verstehen, als er sich selbst verstand], in quanto egli non determinava abbastanza il suo concetto, e però talvolta parlava o anche pensava contrariamente alla sua propria intenzione [seiner eigenen Absicht entgegen]12.

Secondo questo passo, che nel contesto della Dialettica trascendentale sembra essere del tutto marginale, Kant sostiene esplicitamente che occorre comprendere un autore «meglio di quanto egli non comprendesse se medesimo». Come già fece notare Bollnow13, si tratta di una considerazione importante per la storia dell’ermeneutica, che presuppone da parte di Kant la 11 Chr. Wolff, Philosophia rationalis sive logica, in Gesammelte Werke, Bd. II. 3, hrsg. von J. École, Hildesheim, Olms 1983, § 929, p. 660, in cui si afferma che, quando chi legge è in grado di sostituire un’espressione confusa del testo con una nozione distinta, «lector mentem auctoris intelligit et melius explicat»; J.M. Chladenius, Einleitung zur richtigen Auslegung vernünfftiger Reden und Schriften, Leipzig 1742, rist. anast. a cura di L. Geldsetzer, Jansen, Düsseldorf 1968, § 156, p. 98: «Gli uomini non possono prevedere tutto, parole, discorsi e scritti loro possono significare qualche cosa che essi non avevano avuto l’intenzione di dire o scrivere: da ciò consegue che, cercando di intendere i loro scritti, si possono con buon motivo pensare cose che gli autori non hanno avuto in mente». Quest’affermazione è una diretta conseguenza della concezione dei «punti di vista», proposta da Chladenius con riferimento alla concezione leibniziana della monade. 12 KrV, A 314/B 370, trad. it. cit., p. 247. 13 O.Fr. Bollnow, Was heisst einen Schriftsteller besser verstehen, als er sich selber verstanden hat?, «Deutsche Vierteljahresschrift», XVIII (1940), pp. 117-138, ora in Id., Studien zur Hermeneutik, Alber, Freiburg/München 1982, Bd. I, pp. 48-72 (spec. p. 51).

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conoscenza del dibattito settecentesco intorno ai problemi dell’interpretazione, ma che soprattutto si accorda con l’impostazione costruttivistica del criticismo nei termini in cui essa è delineata nei passi precedentemente richiamati della prima Critica. Infatti, non si tratta di riprodurre pedissequamente la nozione platonica di idea secondo il significato che il «sublime filosofo» le aveva assegnato, bensì di attuare un «confronto di pensieri» (Vergleichung der Gedanken) che riformuli tale nozione, esplicitando in meglio, ovvero completando, integrando o addirittura correggendo il pensiero dell’autore, al fine di eliminare oscurità ed incongruenze. Questo significa «comprendere meglio l’autore» (den Verfasser sogar besser zu verstehen), un approccio necessario in questo caso «in quanto Platone non determinava abbastanza il suo concetto e […] talvolta parlava, o anche pensava, contrariamente alla sua propria intenzione». Quanto Kant fosse convinto dell’importanza e della fecondità di questo principio ermeneutico generale è dimostrato dal fatto che esso viene richiamato nella conclusione del suo scritto contro Eberhard. Difendendosi dalla scorretta interpretazione che questi aveva fornito della sua svolta trascendentale, Kant critica esplicitamente quei lettori superficiali (insieme a «qualche storico della filosofia») che trascurano di andare al di là della ricerca del senso letterale14. Al miope letteralismo occorre invece sostituire il libero giudizio critico della ragione, cogliendo l’idea che l’autore voleva comunicare, ma che spesso si trova espressa solo in modo parziale, oppure eccede la consapevolezza dello stesso autore15. Accanto ai passi esaminati, altri elementi significativi della riflessione intorno alle problematiche ermeneutiche possono essere ricavati dall’esame della terza Critica. Non potendo in questa sede sviluppare un’analisi dettagliata, ci limitiamo a richiamare l’attenzione sul valore ermeneutico che 14 ÜE, AA VIII 25, trad. it. di C. La Rocca, Contro Eberhard: la polemica sulla Critica della ragion pura, Giardini, Pisa 1994, p. 137. Qui Kant critica l’atteggiamento del lettore che nell’interpretazione dei filosofi del passato attribuisce loro «una serie di assurdità, non afferrando l’intenzione presente nelle loro parole […] e per via della ricerca sulle parole [über dem Wortforschen] che quei filosofi hanno detto non è in grado di vedere che cosa hanno voluto dire» (ÜE, AA VIII 25, trad. it. cit., p. 137). Cfr. anche Refl 3476, AA XVI 861; 4992, AA XVIII 53. 15 Questi spunti, qui appena accennati, sono approfonditi in modo dettagliato e documentato da C. La Rocca, Il conflitto delle interpretazioni, cit. Egli sostiene che nella filosofia kantiana è presente un’ermeneutica del testo filosofico, che trova la sua principale applicazione proprio nello scritto contro Eberhard. I principi di questa ermeneutica si possono riassumere in due punti: 1) oltrepassare la lettera del testo in direzione dell’idea generale intenzionata, ossia in direzione dell’idea di ciò che gli autori volevano dire, al di là di quello che hanno effettivamente detto e del modo in cui lo hanno espresso; 2) cogliere le singole enunciazioni del testo filosofico in relazione alla totalità sistematica dei pensieri, secondo le indicazioni sul rapporto tra le parti e il tutto esposte nell’Architettonica della ragion pura (KrV, A 834/B 862, trad. it. cit., p. 510 sg.).

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possono assumere le massime del sensus communis, enunciate nell’ambito della trattazione della teoria del gusto16. Le tre massime possono essere intese come altrettanti principi che orientano correttamente sia il pensiero sia l’interpretazione di testi o messaggi scritti. Inoltre nel suo complesso la concezione kantiana del giudizio riflettente può essere considerata un modello per sviluppare una prospettiva ermeneutica che consideri l’atto interpretativo non come riproduzione dell’intenzione autorale, ma come introduzione o attribuzione produttiva di un senso autonomo, criticamente ripensato17. Com’è noto, il giudizio riflettente viene distinto dal giudizio determinante in quanto esso si limita a riflettere su di una natura già costituita secondo le forme a priori dell’intuizione e secondo le categorie dell’intelletto. Mentre nel caso del giudizio determinante l’universale o il concetto è già dato dalle forme a priori, sotto le quali vengono sussunti i contenuti particolari dell’esperienza, nel caso del giudizio riflettente invece l’universale deve essere trovato partendo dal particolare18. Si tratta di saper leggere il particolare della natura, al fine di interpretare quest’ultima non più in chiave meccanicistica, bensì sotto l’aspetto estetico e teleologico, secondo le nostre esigenze di finalità e armonia. In questo modo, come afferma Kant nel 16 Le massime sono le seguenti: «1) pensare da sé [Selbstdenken]; 2) pensare mettendosi al posto degli altri; pensare in modo da essere sempre d’accordo con se stesso. La prima è la massima del modo di pensare libero dai pregiudizi, la seconda del modo di pensare largo, la terza del modo di pensare conseguente» (KU, AA V 294, trad. it. di A. Gargiulo, riv. da V. Verra, Critica del Giudizio, Laterza, Bari 1970, p. 151. A proposito della prima massima Kant sottolinea che essa non presuppone «mai una ragione passiva» o eteronoma, vale a dire una ragione irretita nei pregiudizi della superstizione che proprio l’Illuminismo intende combattere. Nella seconda massima si può intravedere probabilmente un riferimento al principio della hermeneutische Billigkeit (o aequitas hermeneutica), teorizzata da G.Fr. Meier, Versuch einer allgemeinen Auslegungskunst, cit., § 39, p. 17. 17 R. Makkreel, Imagination and Interpretation in Kant. The Hermeneutical Import of the Critique of Judgment, Chicago University Press, Chicago/London 1990, ha tentato di esplicitare le implicazioni ermeneutiche della filosofia kantiana partendo proprio dalla terza Critica e approfondendo i nessi esistenti tra la teoria del giudizio riflettente e la concezione dell’immaginazione. Pur ammettendo che Kant non avrebbe elaborato un’esplicita teoria ermeneutica, egli assegna al giudizio riflettente una funzione interpretativa dell’esperienza, attraverso cui diventa possibile leggere nella natura la presenza di un ordine finalistico e sistematico (cfr. in particolare pp. 109-171). Secondo l’autore, in questa concezione ermeneutica dell’«interpretazione riflettente» rientra anche la concezione kantiana dell’ermeneutica biblica, che mira a riflettere nel testo sacro il significato morale o autentico (cfr. in particolare pp. 141 sgg.). Contro questa tesi D. Thouard, Kant e l’herméneutique, «Archives de Philosophie», LXI (1998), pp. 629-658, ha invece sostenuto che nella prospettiva del giudizio riflettente critica ed ermeneutica risultano inconciliabili, in quanto sarebbe completamente assente la dovuta attenzione all’aspetto storico (cfr. spec. pp. 638-640). 18 Kant sostiene infatti che il giudizio riflettente è obbligato a «risalire dal particolare della natura all’universale» (KU, AA V 180, trad. it. cit., p.19).

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§ 62, nella rappresentazione della natura «io introduco la finalità [die Zweckmäßigkeit hineinbringe], senza essere istruito empiricamente e di conseguenza senza avere bisogno di uno scopo particolare esistente fuori di me nell’oggetto»19. Se, seguendo l’analogia tra interpretatio naturae e interpretatio scripturae, trasponiamo questa affermazione nel contesto dei testi scritti, possiamo osservare alcuni interessanti punti di contatto. Lo schema del giudizio teleologico, secondo cui «io introduco la finalità», potrebbe valere come regola dell’atto interpretativo che si progetta secondo il principio del comprendere meglio. Infatti, anche nell’interpretazione dei testi scritti, se s’intende andare al di là dell’intenzione autorale, il senso deve essere «introdotto» (hineingebracht) dall’interprete, ovvero deve essere trovato a partire dal testo particolare ma andando al di là delle sue espressioni letterali. Il riferimento al giudizio teleologico aiuta dunque a precisare lo schema costruttivistico dell’immissione del senso da parte dell’interprete e si accorda pienamente col principio del comprendere meglio. In conclusione, dai passi finora esaminati emergono alcuni elementi che contribuiscono ad abbozzare una riflessione di carattere generale sulle problematiche del comprendere e dell’interpretare. L’idea principale consiste nel ritenere che il senso autentico e profondo di un testo o di un messaggio debba essere costruito o introdotto dall’interprete attraverso un processo sintetico, critico e autonomo di proiezione riflettente. Si tratta di affermazioni generali che preparano la concezione razionale (o morale) dell’interpretazione della Scrittura nella Religion, sulla quale ci soffermeremo più avanti. Prima passiamo però ad esaminare altri testi kantiani in cui vengono condotte specifiche letture bibliche o in cui sono presenti ulteriori spunti sullo statuto dell’interpretazione. 2. Le origini dell’interpretazione razionale Ci sembra importante prendere in considerazione alcuni testi meno noti, al fine di documentare come anche nel caso dell’interpretazione scritturale le tesi kantiane siano state preparate da lunghe riflessioni, sparse in scritti precedenti al trattato sulla religione e sviluppate tenendo conto del «nuovo modo di pensare» proprio della rivoluzione copernicana. Esaminando alcune di queste riflessioni colpisce in particolare la conoscenza da parte di Kant del dibattito settecentesco sui metodi dell’interpretazione scritturale e delle principali acquisizioni della critica biblica dell’epoca. Sorprendentemente alcune riflessioni su questi argomenti si trovano già in alcune lettere che risalgono alla prima metà degli anni Settanta, a un pe19

KU, AA V 365, trad. it. cit., p. 232.

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riodo in cui il professore dell’Albertina era impegnato principalmente a risolvere i numerosi problemi ancora aperti in ambito conoscitivo. In particolare in una lettera a Lavater dell’aprile 1775 Kant delinea sinteticamente la sua posizione nei confronti della religione ed in questo contesto abbozza per la prima volta anche il nucleo teorico essenziale della sua interpretazione della Scrittura20. Sollecitato dal pastore zurighese, che in una precedente lettera gli aveva chiesto se ritenesse le sue opinioni sulla fede e sulla preghiera in accordo con le dottrine della Scrittura e con i suoi dogmi21, Kant risponde introducendo un’importante distinzione che riguarda la nozione generale di religione ma che si rivelerà decisiva anche dal punto di vista della futura concezione dell’ermeneutica biblica. Scrive Kant al riguardo: Io distinguo la dottrina di Cristo [Lehre Christi] dalle informazioni [Nachrichten] che ne abbiamo e per ricavare tale dottrina nella sua purezza cerco innanzitutto di trarne fuori [herausziehen] l’insegnamento morale, isolato da tutti i precetti neotestamentari. Questo è certamente l’insegnamento fondamentale [Grundlehre] del Vangelo; il resto può essere solo l’insegnamento ausiliario [Hülfslehre]22.

In quest’affermazione si è soliti leggere un’anticipazione della futura distinzione tra religione razionale pura (o «religione nei limiti della sola ragione», basata sulla fede morale) e religioni positive o rivelate, che si fondano su narrazioni e conoscenze storiche. Questa chiarificazione generale ha però un preciso riflesso anche sull’interpretazione scritturale. Essa comporta che nella lettura del testo biblico (nel caso specifico il Nuovo Testamento) occorre distinguere due piani: in primo luogo il significato fondamentale o puro (la Grundlehre), che è costituito dall’insegnamento morale; in secondo luogo l’«insegnamento ausiliario» (la Hülfslehre), ossia l’insieme delle informazioni (le Nachrichten) e la «commistione di fatti e di misteri rivelati» (detti anche «precetti neotestamentari», «statuti» o «sussidi storici»), che hanno un valore contingente e che devono essere ricondotti all’epoca in cui vennero scritti. In questo senso Kant considera l’insieme delle informazioni e delle narrazioni meri «argomenti kath’anthropon» e dichiara esplicitamente di non essere «abbastanza prossimo ai tempi da cui esse provengono per prendere decisioni» al riguardo23. Infatti, precisa Kant, per quanto riguarda l’elemento storico [das Historische] non possiamo mai concedere ai nostri scritti neotestamentari tanto credito da poter osare di prestare ad ogni loro riga una fiducia smisurata e specialmente di affievolire in tal modo la no-

20 Si tratta della lettera del 28 aprile 1775 e dell’abbozzo posteriore (Br, AA X 175-180, trad. it. di O. Meo, Epistolario filosofico 1761-1800, il melangolo, Genova 1990, pp. 88-94). 21 Nella lettera dell’8 aprile 1774 (Br, AA X 165 sg.). 22 Br, AA X 176, trad. it. cit., p. 89. 23 Br, AA X 177, trad. it. cit., p. 90 sg.

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stra sollecitudine nei confronti dell’unica cosa necessaria, ossia la fede morale nel Vangelo24.

Con queste brevi ma lucide parole Kant abbozza in questa lettera la sua concezione dell’interpretazione morale della Scrittura, proponendo un metodo di lettura che va oltre il significato letterale del testo. Prendendo le distanze da Lavater, che secondo l’ortodossia luterana considerava ancora i libri sacri ispirati da Dio, Kant distingue invece la Lehre Christi dalle testimonianze fornite dagli Apostoli e depositate per iscritto nelle narrazioni evangeliche25. A questo proposito egli afferma anzi che gli Apostoli avrebbero confuso l’insegnamento fondamentale con quello ausiliario e anziché magnificare come l’essenziale l’insegnamento religioso pratico del santo maestro, hanno magnificato la venerazione di questo maestro stesso ed una sorta di richiesta di favori adulandolo e innalzandogli lodi, sebbene egli si fosse così energicamente e così spesso pronunciato contro di esse26.

Tenendo presente i risultati della critica biblica dell’epoca (in particolare la distinzione tra parola di Dio e Scrittura proposta da Semler)27, Kant accenna anche ad una spiegazione storica di questa confusione che sarebbe all’origine del testo dei sinottici e di cui deve tener conto l’interprete. Infat24

Br, AA X 178, trad. it. cit., p. 91 sg. Per segnalare quanto questa distinzione sia contestuale al dibattito settecentesco ci limitiamo ad osservare che una posizione analoga sarà esplicitamente sostenuta da Lessing nei suoi frammenti teologici su Cristo, in cui si afferma che la «Religione di Cristo» e la «Religione cristiana» sono due cose diverse e che è da escludere che gli insegnamenti di entrambe siano confluite in un unico libro. Cfr. G.E. Lessing, La Religione dell’umanità, a cura di N. Merker, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 91 sg. Per un approfondimento dell’approccio illuministico alla religione rivelata rimandiamo a E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, trad. it. di E. Pocar, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 257 sgg.; N. Merker, L’Illuminismo tedesco. L’età di Lessing, Laterza, Bari 1968, pp. 323-433. 26 Br, AA X 178, trad. it. cit., p. 92. 27 Cfr. J.S. Semler, Abhandlung von freien Untersuchung des Canons, 4 voll., Halle 17711775, che prepara la via a una libera ricerca intorno al testo biblico sciolta da pregiudizi dogmatici imposti dall’ortodossia. Come osserva W.G. Kümmel, Il Nuovo Testamento. Storia dell’indagine scientifica sul problema neotestamentario, trad. it. di V. Benassi, Il Mulino, Bologna 1976, p. 83, in quest’opera Semler «afferma che la parola di Dio e la Sacra Scrittura non sono identiche, in quanto la Scrittura contiene anche brani che avevano significato per il loro tempo ormai trascorso, e che “non servono al miglioramento morale dell’uomo d’oggi”; per conseguenza non tutte le parti del Canone possono essere ispirate e quindi normative per il cristiano». Semler sostiene quindi che i libri biblici devono essere indagati da un punto di vista strettamente storico, considerandoli come testimonianze di epoche passate e non come destinati al lettore di oggi. Questa tesi, insieme alla presenza di un significato morale nel testo neotestamentario, costituisce lo sfondo delle opinioni di Kant nella lettera a Lavater. Sull’importanza di Semler per lo sviluppo dell’esegesi scritturale orientata secondo i principi del liberalismo religioso si veda R. Bordoli, L’Illuminismo di Dio. Alle origini della mentalità liberale, Olschki, Firenze 2004. 25

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ti, egli spiega che la scelta di venerare il maestro si adattava meglio «a quei tempi (per i quali essi d’altro canto scrivevano, senza tener conto dei successivi) che ai nostri», in quanto allora «era necessario che agli antichi miracoli se ne contrapponessero di nuovi, che ai precetti ebraici si contrapponessero quelli cristiani»28. In conclusione, il testo neotestamentario è per Kant un documento, un prodotto della conoscenza storica che è sempre cognitio ex datis, mai ex principiis29. In base a questa concezione del testo biblico si definisce anche il suo specifico valore di autorità, che a differenza di quanto pensava Lavater non può essere fondato su «nessuna invocazione di nomi sacri». Infatti, il libro non acquista autorità per il suo carattere ispirato o sacrale, per le testimonianze di devozione in esso narrate o per i suoi contenuti dogmatici; esso è invece un complemento per la perfezione morale «poiché gli statuti possono produrre l’osservanza, ma non le intenzioni del cuore»30. Di conseguenza il testo biblico ha un valore ausiliario; esso «non mi ingiunge dunque niente di nuovo, ma (qualunque sia la natura delle informazioni) può dare alle buone intenzioni una forza e una nuova certezza»31. 3. La disputa con Herder Queste sintetiche considerazioni kantiane sull’interpretazione scritturale erano state preparate da una serrata discussione su tematiche ermeneutiche e religiose con il concittadino Hamann, occasionata dalla lettura del primo volume della herderiana Älteste Urkunde des Menschengeschlechts, pubblicato anonimo a Riga nei primi mesi del 177432. In questo scritto Herder vede nella Genesi (1, 1-31; 2, 1-3) l’origine della storia dell’umanità e della sua cultura; secondo lui la narrazione biblica non sarebbe derivata da miti orientali, ma dal «documento originario» dell’unica rivelazione trasmessa da Dio a tutti i popoli in un linguaggio simbolico (attraverso i «geroglifici della creazione»), contenente il primo insegnamento divino comune a tutti gli uomini. Quest’originale ipotesi coinvolge anche il Pentateuco, la cui redazione mosaica viene considerata derivata dall’antico documento33. 28

Br, AA X 178 sg., trad. it. cit., p. 92. Si tratta dell’importante distinzione tra conoscenza storica e conoscenza razionale, che Kant teorizza nell’Architettonica della ragion pura: KrV A 835 sg./B 863 sg., trad. it. cit., p. 511. 30 Br, AA X 179, trad. it. cit., p. 93. 31 Ibid. 32 J.G. Herder, Älteste Urkunde des Menschengeschlechts, Hartknock, Riga 1774, in Id., Sämtliche Werke, hrsg. von B. Suphan, Weidmann, Berlin 1883, Bd. 6, pp. 193-511. 33 Herder sostiene che Mosè non è l’autore del testo biblico e a sostegno di questa tesi argomenta che i «geroglifici», che si trovano nei primi due capitoli della Genesi e che sostengo29

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Dalla lettera inviata a Hamann il 6 aprile 1774 apprendiamo che Kant si è dedicato alla lettura del libro di Herder seguendo un preciso criterio ermeneutico: l’intento di cogliere «l’intenzione principale dell’autore [Hauptabsicht des Verfassers]»34. Riassumendo il contenuto dello scritto, egli osserva giustamente che Herder considera i primi due capitoli della Genesi «non come una storia della creazione del mondo, ma come un compendio del primo insegnamento impartito al genere umano»35, in cui scrittura e linguaggio si trovano intrecciate e in cui sono contenute tutte le conoscenze successive. Si sofferma poi a discutere la tesi della non originarietà della redazione mosaica36; infine, nella parte finale della lettera, Kant invita Hamann a fornirgli ulteriori chiarificazioni circa il contenuto del libro, ma lo prega ironicamente di usare «la lingua degli uomini, perché io, povero figlio della terra, non sono per niente organizzato per la lingua divina propria della ragione intuente»37. Con questa stoccata finale Kant dimostra di non condividere il contenuto dello scritto herderiano; egli considera l’idea di un antico documento comune a tutti i popoli un parto della «ragione intuente» che non usa «la lingua degli uomini», un modo ironico per ritenerla una mera rappresentazione fantastica o mistica, priva di valore sia storico sia razionale. Queste riserve ritornano anche nella seconda lettera inviata a Hamann l’8 aprile 177438, in cui Kant ritorna sul problema della redazione mosaica in modo più dettagliato. Egli si chiede quale sia la prova in grado di dimostrare che il primo documento sia davvero «il più insospettabile ed autentico». Per rispondere a questo importante interrogativo Kant richiama nuovamente la tesi di Herder: «il primo capitolo della Bibbia non narra la storia della creazione, ma raffigura […] l’insegnamento che Dio ha dato al primo uomo suddividendolo, per così dire, in 7 lezioni»39. Si tratterebbe però di no lo schema di divisione della creazione in 7 giorni, sono presenti anche in altre culture (da quella egiziana a quella fenicia e greca). Secondo lui essi deriverebbero quindi dall’unica rivelazione divina comune a tutti i popoli; le diverse religioni, con le loro teogonie e mitologie, sarebbero varianti (o interpretazioni storiche particolari) dell’unica rivelazione o del «più antico documento». 34 Hamann, dopo aver ricevuto il 2 aprile 1774 il libro di Herder direttamente dall’editore e averlo divorato nella notte, lo invia a Kant per sottoporlo al suo «competente giudizio» (Br, AA XIII 64). Il 6 aprile Kant risponde esponendo le sue impressioni (Br, AA X 153-156, trad. it. cit., pp. 80-83). 35 Br, AA X 154, trad. it. cit., p. 81. 36 Questa tesi, che considera la rappresentazione del numero 7 un’invenzione divina, frutto della rivelazione originaria, è ampiamente discussa da Kant, che con distacco parla di «mistica del numero 7», oppure con accento peggiorativo di simbolo e di allegoria (Br, AA X 154, trad. it. cit., p. 80). 37 Br, AA X 156, trad. it. cit., p. 83. 38 Br, AA X 158-161, trad. it. cit., pp. 84-87, in risposta alla precedente lettera dello stesso Hamann del 7 aprile (Br, AA X 156-158). 39 Br, AA X 159, trad. it. cit., p. 85.

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un insegnamento dato dall’esterno, che presuppone una dipendenza eteronoma. Pertanto la lettura pedagogica del testo biblico corrisponderebbe a un’allegoria soggettiva libera da vincoli razionali, che aprirebbe le porte alla fantasia e all’arbitrio40. Tuttavia è interessante rilevare come Kant non critichi l’argomento herderiano invocando una prova oggettiva, fondata secondo i principi scientifici del metodo storico-critico. Anzi, citando esplicitamente il nome autorevole di Michaelis41, egli afferma che un approccio al testo biblico basato sulla conoscenza critica delle lingue antiche, sull’erudizione filologica e sullo «studio degli archivi dell’antichità» finisce in realtà per legittimare una casta di specialisti che diventano gli esclusivi depositari del vero significato del testo, rafforzando in questo modo l’ortodossia e il dogmatismo religioso42. Per queste ragioni, pur ritenendo la tesi di Herder il frutto di un «armamentario vulcanico» piuttosto sospetto di fronte al tribunale della ragione, Kant dichiara sorprendentemente di temere «molto per la vittoria senza trionfo del restauratore del documento. Infatti contro di lui si erge una falange impenetrabile di maestri di erudizione orientale, i quali non lasciano tanto facilmente che un animale privo di corna rapisca una tale preda dal loro territorio»43. Pur non accettando l’approccio herderiano al testo biblico, Kant non perde occasione per criticare gli eccessi in cui erano caduti i sostenitori del metodo storico-critico, che nella lettura del testo privilegiavano il sensus historicus vel grammaticus e non lasciavano spazio per altre produttive configurazioni del senso, primo fra tutti quello razionale o morale. Com’è stato giustamente osservato44, nelle lettere scambiate con Hamann si delineano con una certa precisione i contorni della posizione kantiana nei 40

Insistendo sul carattere allegorico dell’interpretazione herderiana, Kant si distacca anche dalla lettura di Hamann, che nella precedente lettera del 7 aprile (cfr. Br, AA X 156-158) aveva sostenuto che secondo lui la tesi del documento sarebbe storica non allegorica. 41 Citando il nome di Michaelis, professore di teologia a Göttingen, orientalista, traduttore della Bibbia e sostenitore del metodo storico-critico, Kant dimostra la conoscenza della critica biblica contemporanea. Secondo l’elenco di A. Warda, Immanuel Kants Bücher, Breslauer Verlag, Berlin 1922, Kant possedeva nella sua biblioteca il libro di J.D. Michaelis, Einleitung in die Göttlichen Schriften des neuen Bundes, Göttingen 1750. Come vedremo, anche nella Religion e nello Streit Kant si richiamerà all’insegnamento di Michaelis. 42 Come ha giustamente osservato O. Bayer, Vernunftautorität und Bibelkritik in der Kontroverse zwischen J.G. Hamann und I. Kant, in Historische Kritik und biblischer Kanon in der deutschen Aufklärung, hrsg. von H. Graf von Reventlow, Harrassowitz, Wiesbaden 1988, pp. 21-45 (spec. pp. 33-36), le tesi kantiane esposte nella lettera ad Hamann dell’8 aprile 1774 ritorneranno nella Religion e nello Streit, nel contesto della definizione del compito del teologo biblico. 43 Br, AA X 161, trad. it. cit., p. 87. 44 H.D. Irmscher, Die geschichtsphilosophische Kontroverse zwischen Kant und Herder, in Hamann-Herder-Kant. Acta des vierten Internationalen Hamann-Kolloquium, hrsg. von B. Gajek, Lange, Frankfurt a.M. 1987, pp. 111-192, (spec. pp. 119 sgg.).

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confronti di Herder, che diventeranno pubblici un decennio più tardi nella recensione alle Ideen45. Anche in quest’occasione Kant prende posizione nei confronti dell’interpretazione herderiana della Genesi, contenuta nel Libro X della seconda parte dell’opera46, in cui ritornano, seppur in forma più sintetica, gran parte delle considerazioni già esposte nell’Älteste Urkunde. Anche dieci anni dopo la nuova esposizione herderiana della storia mosaica appare a Kant come una mera ipotesi elaborata sulla base di principi non razionali ma esclusivamente empirici; per questi motivi egli dichiara esplicitamente di «non essere versato […] nella conoscenza e valutazione critica di antichi documenti». Inoltre valuta negativamente (come origine dell’eteronomia) l’idea secondo cui l’uomo, all’inizio del suo sviluppo, sarebbe stato ammaestrato da un’originaria tradizione alla quale «deve attribuire il suo approssimarsi alla saggezza»47. Quest’ulteriore presa di posizione critica nei confronti dell’interpretazione herderiana della narrazione biblica, ritenuta ipotetica o soggettiva, deve aver convinto Kant ad esporre una sua personale lettura della Genesi, secondo un approccio ermeneutico che valorizzasse nel testo la presenza di alcuni elementi di carattere filosofico o razionale. Così nel breve saggio dal titolo Mutmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, pubblicato nel 1786, Kant propone una sua personale lettura di Gen. 2-4, contrapponendo il proprio approccio ermeneutico basato su «congetture» (Mutmaßungen) razionali alle mere «invenzioni» (Erdichtungen) herderiane: Inserire congetture nel corso di una storia per colmare le lacune nei documenti è certo concesso […]. Ma far nascere una storia interamente e soltanto da congetture sembra non molto meglio che tracciare il progetto di un romanzo. Una tale storia potrebbe portare il nome non di storia congetturale, bensì di semplice invenzione48.

Kant è infatti convinto che il primo inizio della storia del genere umano non debba essere «inventato», ma tratto dall’esperienza, ovvero dall’osservazione della natura umana; in questo modo si possono formulare «congetture» che non si basino soltanto sull’immaginazione ma siano anche ac45 Per il nostro tema è particolarmente rilevante la recensione alla seconda parte dell’opera di Herder: RezHerder, AA VIII 58-66, trad. it. di F. Gonnelli, Recensione di J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, in Scritti di storia, politica e diritto, cit., pp. 65-72. 46 Cfr. J.G. Herder, Ideen zu einer Philosophie der Geschichte der Menschheit, parte II, Riga 1785, in Id., Sämtliche Werke, cit., Bd. 13, pp. 213 sgg., trad. it. di V. Verra, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 196 sgg. 47 RezHerder, AA VIII 63, trad. it. cit., p. 70. A questo proposito Kant cita per esteso proprio un brano tratto dal Libro X, capitolo 6, delle Ideen herderiane, che riguarda l’istruzione del genere umano secondo la storia mosaica. 48 MAM, AA VIII 109, trad. it. di F. Gonnelli, Inizio congetturale della storia degli uomini, in Scritti di storia, politica e diritto, cit., p. 103.

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compagnate dalla ragione e si possano quindi «accordare» col contenuto del racconto biblico49. Scrive Kant esplicitamente: […] intraprendendo un puro viaggio di piacere, posso ben chiedere licenza che mi sia concesso di servirmi a tal fine, come mappa, di un documento sacro [heilige Urkunde], e di figurarmi al tempo stesso che l’itinerario che io compio sulle ali dell’immaginazione, sebbene non senza un filo conduttore legato all’esperienza per mezzo della ragione, non trovi proprio quella medesima linea che quel documento contiene, lì tratteggiata in forma di racconto. Il lettore aprirà le pagine di quel documento (Genesi, dal cap. II al IV) e passo dopo passo controllerà se la strada che la filosofia prende secondo concetti non s’accordi [zusammentreffe] con quella che fornisce la storia50.

Attuando un’interpretazione che si richiama ai principi ermeneutici della teoria dell’accomodazione, assai diffusa nella critica biblica dell’epoca51, secondo Kant in Gen. 2-4 viene narrato il «primo inizio» della storia del genere umano e il suo progredire dalla natura istintuale alla libertà morale. Nel testo biblico Kant individua quattro tappe dell’evoluzione dell’umanità attraverso le quali l’uomo, partendo dalla caduta (interpretata come felix culpa), arriva a raggiungere la sua destinazione etica, conoscendosi come creatura morale capace di scegliere e di essere fine a se stesso52. Questi concetti filosofici (razionali e universali) di libertà, di scelta e di responsabilità, che l’interprete trae dal testo quali sue «congetture», si accordano con il contenuto del «sacro documento», anche se non corrispondono alle sue e49 Le «congetture» (Mutmaßungen) fanno parte della struttura della Vernunft e producono una conoscenza ipotetica: cfr. Refl 1667, AA XVI 71. Esse sono analoghe ai giudizi ipotetici. In un appunto databile agli anni Settanta si legge che le Mutmaßungen sono un prodotto dell’Urtheilskraft, perché si sviluppano secondo regole che non sono valide in tutti i casi: Refl 1486, AA XV 712. Questo appunto permette di porre l’interpretazione in relazione col giudizio riflettente. 50 MAM, AA VIII 109 sg., trad. it. cit., p. 104. 51 La dottrina dell’accomodazione (l’idea che per motivi pedagogici l’annuncio divino si sarebbe accordato col linguaggio e la mentalità degli uomini) aveva trovato nella seconda metà del Settecento una vasta applicazione nella critica biblica soprattutto ad opera di Semler. Cfr. G. Hornig, Die Anfänge der historish-kritischen Theologie. J.S. Semler Schriftverständnis und seine Stellung zu Luther, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1961, pp. 225 sgg. 52 Per un esame dettagliato dell’interpretazione kantiana dei versetti di Gen. 2-4 rimandiamo a A.U. Sommer, Felix peccator? Kants geschichtsphilosophische Genesis-Exegese im «Mutmaßlichen Anfang der Menschengeschichte» und die Theologie der Aufklärungszeit, «KantStudien», LXXXVIII (1997) 190-227. Com’è stato evidenziato da D. Venturelli, Interpretazioni kantiane del peccato d’origine, in Kant e la filosofia della Religione, cit., vol. I, pp. 343366, e da G. Ferretti, Immanuel Kant (1724-1804), in Il peccato originale nel pensiero moderno, a cura di G. Riconda, M. Ravera, C. Ciancio, C. Cuozzo, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 543-567 (spec. pp. 549-551), nel saggio del 1786 troviamo una prima interpretazione del peccato d’origine secondo la chiave di lettura della felix culpa; essa è quindi diversa da quella sviluppata nel capitolo I della Religion.

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spressioni letterali. Alla fine dal punto di vista filosofico dalla narrazione biblica «risulta che l’uscita dell’uomo dal paradiso […] non è stata altro che il passaggio dalla selvatichezza di una creatura semplicemente animale all’umanità, dal girello per bambini dell’istinto alla guida della ragione; in una parola: dalla tutela della natura allo stato di libertà»53. Dalla lettura del testo biblico si deve trarre un importante ammonimento: l’uomo non deve dare la colpa dei mali che lo opprimono alla provvidenza o ai suoi progenitori, ma deve «considerare se stesso interamente responsabile di tutti i mali che vengono dal cattivo uso della sua ragione»54. Di conseguenza, conclude Kant, «il risultato della storia più antica degli uomini, tentata per mezzo della filosofia» può essere riassunta nell’insegnamento che le cose progrediscono verso il meglio «e a tale progresso ognuno è allora chiamato dalla stessa natura a contribuire per la sua parte, secondo le sue forze»55. Anche se in questo breve saggio del 1786 Kant non esplicita i presupposti teorici che guidano la sua lettura del testo biblico, risulta evidente che egli applica una metodologia ermeneutica precisa, di cui si era impadronito già da tempo seguendo da vicino il complesso dibattito intorno all’interpretazione della Scrittura, che si era sviluppato in Germania nella seconda metà del Settecento nelle scuole filologiche e che aveva trovato negli scritti di Lessing e di Herder una vasta eco filosofica. Il tratto fondamentale di questa metodologia riguarda in primo luogo il rifiuto dell’interpretazione letterale; in secondo luogo la tendenza a introdurre un senso razionale che renda le narrazioni bibliche universalmente comprensibili e che ponga il loro contenuto in accordo con i concetti universali della ragione. In quest’ottica alla Scrittura viene attribuito prevalentemente un significato non dogmatico o confessionale, ma pedagogico e morale, che come tale può essere condiviso da tutti gli esseri razionali prima ancora che dai singoli credenti56. 4. La critica del letteralismo e lo statuto dell’interpretazione «autentica» Accanto a queste letture del testo biblico, condotte con metodo filosofico o razionale, nel saggio Über das Mißlingen aller philosophischen Versuche 53

MAM, AA VIII 115, trad. it. cit., p. 109. MAM, AA VIII 123, trad. it. cit., p. 116. 55 Ibid. 56 A questo proposito significativa è l’interpretazione razionalizzata del conflitto tra Caino e Abele, narrata in Gen. 4: cfr. MAM, AA VIII 118 sg., trad. it. cit., p. 111 sg. Secondo Kant il conflitto tra Caino e Abele va storicizzato e va letto come il contrasto tra una civiltà di agricoltori e una di pastori; esso testimonia dell’«età della discordia», che avrà un esito positivo in quanto porterà alla riunione degli uomini nelle città, rendendo possibile la costruzione di una società. 54

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in der Theodicee, pubblicato nel 1791, troviamo un’importante riflessione sullo statuto dell’«interpretazione autentica» che ci aiuta a precisare ulteriormente i presupposti teorici kantiani in ambito ermeneutico. Infatti, per definire la teodicea, nella terza parte di questo scritto compaiono i termini Auslegung e Interpretation propri della tradizione dell’ars interpretandi57, stabilendo in questo modo un collegamento tra un concetto che riguarda la religione e le problematiche ermeneutiche. Scrive Kant: «Ogni teodicea deve essere propriamente interpretazione della natura [Auslegung der Natur] in quanto Dio manifesta attraverso di essa l’intenzione [Absicht] della sua volontà»58. In altre parole, la difesa dell’operato divino dalle accuse che gli vengono rivolte sulla base della constatazione che nel mondo vi è qualcosa di contrario alla sua saggezza, può avvenire solo sulla base di una «interpretazione della natura», da cui risulti l’intenzione della volontà divina in essa presente. In questo contesto ermeneutico, in cui ritroviamo il problema dell’intenzione autorale, Kant precisa subito dopo che ci sono due tipi di interpretazione: essa può essere «dottrinale» (doktrinal) o «autentica» (authentisch), ossia diretta o indiretta. La prima cerca di cogliere l’intenzione dell’autore di un messaggio dalle espressioni letterali di cui si è servito; la seconda invece cerca di comprendere il senso direttamente dalla voce dell’autore del messaggio, andando al di là del significato empirico del segno scritto59. Scrive Kant: Noi possiamo anche considerare il mondo, in quanto è opera di Dio, come una manifestazione divina delle intenzioni [Absichten] della sua volontà, ma così considerato esso è per noi spesso un libro chiuso [ein verschlossenes Buch] e lo è anzi

57

Cfr. MpVT, VIII 264-267, trad. it. di G. Riconda, Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea, in Scritti di filosofia della religione, Mursia, Milano 1989, pp. 59-64. Mentre il termine Auslegung e il verbo corrispondente ricorrono frequentemente in molte opere kantiane (soprattutto nella Religion e nello Streit), la parola di derivazione latina Interpretation, oltre che in MpVT, AA VIII 264, trad. it. cit., p. 60, ritorna solo in SF, AA VII 41, trad. it. di D. Venturelli, Il conflitto delle Facoltà, Morcelliana, Brescia 1994, p. 102. Per l’importanza dello scritto sulla teodicea nel contesto della filosofia kantiana della religione, rimandiamo a G. Cunico, Da Lessing a Kant. La storia in prospettiva escatologica, Marietti, Genova 1992, pp. 133-215. Si veda anche V. Dieringer, Kants Lösung des Theodizeeproblems. Eine Rekonstruktion, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2009, pp. 93 sgg. 58 MpVT, AA VIII 264, trad. it. cit., p. 59. 59 «Ogni interpretazione [jede Auslegung] di un legislatore è dottrinale [doktrinal] o autentica [authentisch]. La prima cerca di enucleare per via di argomentazione quella volontà a partire dalle espressioni [aus den Ausdrücken] di cui essa si è servita, riferendole alle intenzioni [Absichten] del legislatore conosciute per altra via; la seconda la dà il legislatore medesimo» (MpVT, AA VIII 264, trad. it. cit., p. 59).

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sempre quando si mira a dedurre da esso, che è semplicemente oggetto di esperienza, l’intenzione finale [Endabsicht] di Dio che è sempre morale60.

La «teodicea propriamente detta», ovvero la «teodicea dottrinale», si basa proprio su un’interpretazione letterale del «libro del mondo». Si tratta di una lettura parziale che tende a considerare il mondo come oggetto di esperienza senza cogliere il significato più profondo, ossia l’intenzione ultima dell’autore del creato: la «intenzione finale di Dio, che è sempre morale». La «teodicea autentica» invece consiste in un’interpretazione della vera intenzione della volontà divina (dell’autore) basata sui decreti della ragione. Essa intende quindi esplicitare l’intenzione del creatore, e lo fa non tanto esaminando il mondo empirico, quanto concentrandosi su ciò che si trova nella ragione e nella coscienza morale di ciascun uomo. In questo modo, precisa Kant, «è Dio stesso che attraverso la nostra ragione diventa l’interprete [der Ausleger] della sua volontà manifesta nella creazione e possiamo chiamare questa interpretazione [Auslegung] teodicea autentica»61. Mentre l’interpretazione dottrinale si basa su un significato esteriore, che rimane a livello empirico, quella autentica è tale perché trova in se stessa il suo senso: si tratta di un senso spirituale, di una parola che parla in interiore homine sotto la veste della ragion pratica. La legge morale razionale diventa così un elemento fondamentale non soltanto nella definizione di ogni atto interpretativo che nel gran libro del mondo intenda cogliere il senso al di là della lettera. Kant precisa che non si tratta dell’interpretazione di una ragione che arzigogola con le sue argomentazioni [speculativa] ma di una ragione pratica sovrana, che comandando in modo assoluto nel suo legiferare, può essere considerata come spiegazione [Erklärung] immediata e voce di Dio attraverso la quale egli dà un senso alla lettera della sua creazione62.

Come la teodicea autentica, anche l’interpretazione autentica è quella in cui l’interprete non si ferma al significato letterale del testo, ma vi introduce un senso ulteriore che attinge dalla coscienza morale: un senso eticoreligioso che – come vedremo tra poco – non è soggettivo ma universale. Nelle pagine che seguono dello scritto che stiamo esaminando Kant ha messo alla prova questa concezione dell’interpretazione attraverso la lettura di uno dei principali libri biblici particolarmente rilevanti per il tema della teodicea: il libro di Giobbe. Senza mezzi termini egli vede in questo libro, «espresso in maniera allegorica [allegorisch ausgedrückt] un’interpretazione autentica [authentische Interpretation]» della volontà divina63. Qui il model60

MpVT, AA VIII 264, trad. it. cit., p. 59. MpVT, AA VIII 264, trad. it. cit., p. 60. 62 Ibid. 63 Ibid. 61

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lo di teodicea autentica, in cui è la morale a fondare e ad alimentare la fede e non viceversa, costituisce la base per definire lo statuto dell’interpretazione autentica, il cui fine consiste nell’esprimere il significato morale o razionale64. In conclusione in questo scritto, nel tentativo di arrivare a definire la nozione di teodicea autentica in contrapposizione a tutti i tentativi dottrinali inevitabilmente destinati al fallimento, Kant fornisce anche una più precisa definizione dell’atto interpretativo. L’interpretazione autentica è quella che coglie le vere intenzioni della volontà dell’autore di un messaggio (di un testo o di un’opera), al di là delle espressioni e dei segni empirici scelti dall’autore stesso. Ciò avviene non attraverso una lettura che mira a rintracciare pedissequamente l’intenzione autorale nella lettera del testo (in questo caso infatti ci scontreremmo con un libro chiuso), bensì attraverso un processo più complesso, che coinvolge attivamente l’interprete. Queste affermazioni kantiane intorno all’interpretazione autentica non sono quindi in contraddizione col principio ermeneutico del comprendere meglio. Infatti, sulla base di quanto siamo venuti dicendo a proposito del nesso tra teodicea autentica ed interpretazione autentica, il principio del comprendere meglio equivale all’invito a seguire l’ispirazione interiore della coscienza morale senza fermarsi alla lettera del testo, conferendo senso a ciò che si sta interpretando. Ancora una volta non si tratta di un atteggiamento ricettivo che richiede adeguazione passiva, ma di un atto produttivo di conferimento o di costruzione di senso, che coinvolge e nobilita ogni uomo in quanto essere razionale. 5. L’ermeneutica al servizio della religione razionale Dopo aver rintracciato nelle opere kantiane alcune riflessioni intorno allo statuto dell’interpretazione e alcuni esempi di esegesi scritturale, passiamo ora ad approfondire la specifica concezione dell’ermeneutica biblica, che Kant espone con una certa sistematicità in due scritti: nella Religion 64 Nell’interpretazione kantiana Giobbe è l’archetipo dell’uomo onesto e moralmente retto, il cui comportamento si distingue nettamente dall’ipocrisia religiosa. Con la disposizione interiore della sua coscienza, dimostra di non fondare «la sua moralità sulla fede, ma la fede sulla moralità; e in questo caso la fede, per debole che sia, è però di un genere schietto e puro, di quel genere cioè che fonda una religione non dell’interesse ma della buona condotta» (MpVT, AA VIII 267, trad. it. cit., p. 61). Un analogo riferimento alla figura di Giobbe, come colui che considera un crimine adulare Dio, si trova nella già citata lettera a Lavater (Br, AA X 176, trad. it. cit., p. 89). Nelle lezioni di teologia naturale del semestre invernale 1783-84 Kant definisce il libro di Giobbe il «più filosofico» di tutto l’Antico Testamento (DRTBaum, AA XXVIII/2-1 1287). Per l’importanza di questa interpretazione kantiana della figura di Giobbe rimandiamo alle acute osservazioni di G. Moretto, Giustificazione e interrogazione. Giobbe nella filosofia, Guida, Napoli 1991, pp. 13-53; 63 sgg.

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(del 1794) e nello Streit (del 1798). Si tratta di un tema ampiamente studiato dalla critica, che lo ha trattato con intenti e metodologie differenti: ricercando le fonti storiche che hanno influenzato l’approccio kantiano al testo biblico65; situando le tesi ermeneutiche nel contesto più generale della concezione kantiana dell’etica e in quello specifico della filosofia della religione66, oppure collegandole a specifiche problematiche teologiche67; infine ricostruendo la contrastata ricezione dei criteri interpretativi kantiani nel dibattito tedesco di fine Settecento che va sotto il nome di Auslegungsstreit68. Tenendo presente i principali risultati di questi diversi filoni di ricerca e le idee kantiane sull’argomento precedentemente abbozzate, ci concentreremo ora sulla Religion69, in cui Kant affronta specificamente il problema dell’interpretazione scritturale secondo l’impostazione generale della sua filosofia trascendentale. In particolare, esamineremo analiticamente il denso paragrafo in cui Kant espone il principio generale dell’interpretazione scritturale nell’ambito della trattazione della «religione entro i limiti della sola ragione»70. Proprio al fine di precisare questo contesto iniziamo il nostro esame da alcuni passi della Religion che precedono il paragrafo in questio-

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A questo proposito è ancora utile la ricerca di J. Bohatec, Die Religionsphilosophie Kants in der «Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft». Mit besonderer Berücksichtigung ihrer theologisch-dogmatischen Quellen, Hoffmann und Campe, Hamburg 1938, rist. anast. Olms, Hildesheim 1966, spec. pp. 19-60; 429-439. 66 Ci riferiamo in particolare ai seguenti studi: H. d’Aviau de Ternay, Traces bibliques dans la lois morale chez Kant, Beauchesne, Paris 1986; B. Stangneth, Kultur der Aufrichtigkeit. Zum systematischen Ort von Kants «Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft», Königshausen & Neumann, Würzburg 2000, (spec. pp. 239-245); G. Cunico, Kant lettore della Bibbia, in Interpretazioni filosofiche della Bibbia, a cura di F. Camera e A. Pirni, Edizioni Impressioni grafiche, Acqui Terme 2006, pp. 61-89; A. Lema-Hincapié, Kant y la Biblia. Principios kantianos de la exégesis bíblica, Anthropos, Barcelona 2006 (spec. pp. 69-188). 67 Si vedano a questo proposito gli studi di K. Barth, La teologia protestante nel secolo XIX, trad. it. di G. Bof, Jaca Book, Milano 1979, vol. I, pp. 311-355, e di E. Hirsch, Geschichte der neueren evangelischen Theologie, Bertelsmann, Gütersloh 1952, Bd. IV, pp. 320-329. 68 Per questa ricostruzione storica rimandiamo al libro di G. D’Alessandro, Kant e l’ermeneutica. La «Religione» kantiana e gli inizi della sua recezione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000. 69 Per una visione d’insieme delle problematiche di questo scritto rimandiamo a D. Venturelli, Un contributo allo studio della «Religione nei limiti della sola ragione», in Filosofi della Religione, a cura di C. Angelino, il melangolo, Genova 1999, pp. 125-163, e alla monografia di J.-L. Bruch, La philosophie religieuse de Kant, Aubier, Paris 1968. Purtroppo in questa sede non possiamo tenere conto anche dei materiali preparatori: VARGV, AA XX 425-440; XXIII 87-124. 70 Ci riferiamo al paragrafo VI del capitolo III: La fede di chiesa ha per suo interprete massimo la fede religiosa pura (Der Kirchenglaube hat zu seinem höchsten Ausleger den reinen Religionsglauben): RGV, AA VI 109-114, trad. it. di A. Poggi, riv. da M.M. Olivetti, La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 118-124.

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ne e che ci aiutano ad introdurci nelle tematiche ermeneutiche in esso trattate. Già nel capitolo I, nel quale si parla dell’origine del male nella natura umana con riferimento al racconto biblico della caduta, Kant si sente in dovere di fare alcune precisazioni a proposito dell’interpretazione della Scrittura. Tali precisazioni si rendono necessarie in quanto egli ha appena sostenuto che l’origine del male non è dovuta al passaggio nel tempo da uno stato di innocenza ad uno di peccato ma alla tendenza costitutiva dell’uomo a pervertire le massime morali. Si pone quindi il problema di «accordare» la narrazione biblica con la sua spiegazione razionale71. Le ragioni specifiche addotte per sostenere tale accordo si ricollegano al metodo generale di lettura razionale della Scrittura, introdotto già nel breve scritto del 1786 sull’inizio congetturale della storia umana. Nella Religion queste ragioni vengono accennate sinteticamente a conclusione del capitolo I, in un passo in cui Kant si schiera a favore della teoria dell’accomodazione72, affermando esplicitamente che «uno sforzo – come quello contemporaneo – di scoprire nella Scrittura quel senso che sia in armonia [in Harmonie steht] con quanto di più santo insegna la ragione, non solo bisogna ritenerlo come permesso ma piuttosto come un dovere»73. Del resto, sempre nello stesso capitolo, Kant aveva già giustificato la sua interpretazione della caduta con riferimento al principio ermeneutico generale del comprendere meglio, sostenendo che dalla «lezione storica» del testo biblico è lecito trarre un significato razionale o morale «senza decidere se questo sia anche il senso attribuitole dallo scrittore o sia solamente quel71 Questo compito presuppone l’accordo tra la rivelazione e la ragione, rivendicato da Kant nelle due Prefazioni di RGV, come ricorda egli stesso nella lettera al benedettino M. Reuss del 7 maggio 1793 (Br, AA XXIII 496 sg., trad. it. cit., pp. 322 sgg.). Come già sappiamo, la ricerca di una spiegazione razionale della narrazione biblica aveva trovato una prima soluzione nello scritto del 1786, precedentemente esaminato. Ora Kant propone una diversa e più ampia trattazione del peccato d’origine, che lo interpreta filosoficamente come «tendenza al male» (Hang zum Bösen) non sradicabile dal cuore dell’uomo. Questa interpretazione è stata ampiamente studiata nella sua rilevanza ermeneutica da G. Ferretti, La ragione ai confini della trascendenza cristiana in Kant, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata», XIX (1986), pp. 171-266, (spec. pp. 203 sgg.), e da P. Ricoeur, Une herméneutique philosophique de la religion: Kant, in Interpréter. Mélanges offerts à Claude Geffré, a cura di J.P. Jossua, N.J. Séd, Cerf, Paris 1992, pp. 25-47. Entrambi considerano la filosofia kantiana della religione un’ermeneutica del cristianesimo. 72 Ricordiamo di sfuggita che il principio dell’accordo è già anticipato in RGV, AA VI 13, trad. it. cit., p. 13 sg., dove Kant dichiara di provare a isolare da una qualsiasi rivelazione storica il «sistema razionale puro della religione». Ora «se questo tentativo riesce, si potrà affermare che vi è non solamente compatibilità [Verträglichkeit], ma unione [Einigkeit] fra la ragione e la Scrittura, di modo che colui il quale segua l’una (sotto la direzione dei concetti morali) non potrà mancare di incontrarsi con l’altra». 73 RGV, AA VI 83 sg., trad. it. cit., p. 91.

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lo che noi vi introduciamo [ob das auch der Sinn des Schriftstellers sei oder wir ihn nur hineinlegen]»74. Leggendo il testo sacro non dobbiamo quindi limitarci a seguire la trama delle narrazioni storiche secondo il loro senso letterale o grammaticale, ma dobbiamo noi stessi «introdurre» (hineinlegen) un senso ulteriore o traslato75. In questo modo viene confermato il ricorso allo schema dell’introduzione, della proiezione e costruzione del senso, che porta l’interprete a comprendere meglio il significato del testo rispetto al senso letterale meramente empirico. Inoltre nello stesso passo viene anche precisato che il senso, che noi introduciamo nel testo, è quel senso dal quale «noi possiamo ricavare qualche vantaggio per il nostro miglioramento», mentre rimanendo fermi al senso letterale otterremmo «solo un aumento infecondo della nostra conoscenza storica». Di conseguenza, in un’importante nota Kant conclude: «la conoscenza storica, che non ha con questo miglioramento un rapporto intimo, valevole per ogni uomo, appartiene agli adiaphora, di fronte ai quali ciascuno può comportarsi come meglio gli sembra per la propria edificazione»76. Con l’intento di arginare gli eccessi di erudizione del metodo storicocritico, la conoscenza delle narrazioni storiche, ovvero il contenuto letterale del messaggio tramandato dal testo scritto, sembra essere per Kant di per se stesso indifferente ai fini dell’individuazione del suo senso principale. Il testo in sé stesso ha un valore soggettivo o personale; ad esso viene conferito valore oggettivo (universale) solo nella misura in cui viene applicato alla situazione concreta dell’interprete e in questo modo in esso viene introdotto (o riflesso) un significato morale77. 74

RGV, AA VI 43, trad., it. cit., p. 46 n. Sulla base di questa conclusione H. d’Aviau de Ternay, Traces bibliques dans la lois morale chez Kant, cit., pp. 217 sgg., ha considerato la concezione del male radicale un esempio di interpretazione morale del peccato d’origine e ha mostrato come Kant metta in atto una traduzione filosofica di Gen. 2, 16-17; 3, 6, che tiene effettivamente conto della narrazione biblica. 75 Coerentemente con questa impostazione, Kant rifiuta la «sentenza dogmatica» che, per sostenere l’autorevolezza dell’interpretazione, dice «sta scritto qui [da steht’s geschrieben]» (RGV, AA VI 107, trad. it. cit., p. 115). In questa affermazione si può intravedere una critica alla rigida esegesi dei teologi luterani e alla loro strenua difesa della lettera. 76 RGV, AA VI 43 sg., trad. it. cit., p. 46 n. 77 Questa impostazione ha portato molti interpreti a discutere il ruolo che la concezione kantiana della religione assegna all’elemento storico. Già E. Troeltsch, Das Historische in Kants Religionsphilosophie, «Kant-Studien», XI (1904), pp. 21-154, trad. it. di S. Sorrentino, L’elemento storico nella filosofia della religione di Kant, in Id., Religione, Storia, Metafisica, Libreria Dante & Descartes, Napoli 1997, pp. 177-345, aveva parlato di «compromesso» tra il piano trascendentale e quello storico. Si tratta di un problema che riguarda più in generale il rapporto tra religione e rivelazione e che si riflette anche in campo ermeneutico. A questo proposito D. Venturelli, Un contributo allo studio della «Religione nei limiti della sola ragione», cit., p. 131, ha opportunamente osservato: «non è intento di Kant screditare la storia in

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Sulla base di queste considerazioni, che riprendono in una forma più precisa le idee già abbozzate nelle lettere ad Hamann e a Lavater precedentemente esaminate, secondo Kant la Scrittura ha una duplice stratificazione: contiene ad un primo livello informazioni storiche, statuti e regole che sono alla base della religione rivelata o della fede cultuale; ad un secondo livello essa contiene «la più pura dottrina morale della religione, che può essere posta nella migliore armonia [in die beste Harmonie] con tali statuti»78. Questi ultimi devono però essere considerati come mezzi o «veicoli» utili all’introduzione della stessa dottrina morale che costituisce la sostanza della religione razionale79. Proprio questa distinzione di due livelli – notizie storiche da un lato e senso metastorico dall’altro, corrispondente alla differenza tra rivelazione e ragione, tra religione cultuale (o Kirchenglaube) e religione razionale (o Vernunftglaube) – permette a Kant di proporre una propria soluzione del problema dell’interpretazione della Scrittura nel paragrafo VI del capitolo III della Religion80, dedicato esplicitamente a quest’argomento. 6. Il principio supremo dell’interpretazione scritturale In questo paragrafo Kant inizia la sua trattazione ponendo un interrogativo preliminare, che richiama una massima ermeneutica del biblista Michaelis81. Questi aveva spiegato in senso letterale il ricorso alla vendetta presente nel Salmo 59 e aveva giustificato questa interpretazione sulla base

nome della ragione, né egli vuole ridurre la Scrittura alla filosofia, quasi che la prima fosse un sistema di pura morale. Ma egli intende mostrare che la ragione morale opera nella rivelazione biblica; anzi essa è il germe nascosto ed il nucleo dinamico della religione in genere, quindi anche di quella rivelata e solo per questo le verità rivelate e le verità di ragione possono accordarsi». 78 RGV, AA VI 107, trad. it. cit., p. 115. 79 Sulla Bibbia come «veicolo» cfr. anche SF, AA VII 44, trad. it. cit., p. 107. Nel linguaggio della farmacologia settecentesca il termine Vehikel (che Kant spesso usa insieme a Hülle, involucro, rivestimento), indica l’eccipiente che contiene il farmaco e ne rende possibile la trasmissione o la somministrazione efficace. Si veda a questo proposito la voce Vehikel in H. Schulz, O. Basler, Deutsches Fremdwörterbuch, de Gruyter, Berlin 1983, Bd. 6, pp. 143-147, che riporta numerosi esempi tratti dalla letteratura scientifica dell’epoca. 80 RGV, AA VI 109-114, trad. it. cit., p. 118-124. 81 Kant non cita qui un’opera esegetica ma un testo di teologia morale: J.D. Michaelis, Moral, hrsg. und mit der Geschichte der christlichen Sittenlehre begleitet von C.Fr. Stäudlin, 2 Tle., Göttingen 1792. La discussione verte su Sal. 59, 11-16: «La grazia del mio Dio mi viene in aiuto, Dio mi farà sfidare i miei nemici […]». In queste espressioni letterali Kant vede una «preghiera di vendetta che giunge fino all’orrore», in contrasto con l’insegnamento evangelico che comanda l’amore nei confronti dei nemici. Un accenno al Sal. 59 si trova anche in Refl 7199, AA XIX 273, mentre il richiamo alla stessa opera di Michaelis ritorna in RGV, AA VI 13, trad. it. cit., p. 14, e in SF, AA VII 8, trad. it. cit., p. 61, a dimostrazione del dialogo a distanza delle tesi ermeneutiche kantiane con la teologia biblica del suo tempo.

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della dottrina dell’ispirazione divina, concludendo che la Bibbia deve essere la base della morale. Tenendo presente l’interpretazione dell’illustre teologo, Kant si chiede «se bisogna interpretare la morale secondo la Bibbia o non piuttosto spiegare la Bibbia secondo la morale»82. Fornendo una risposta a questo interrogativo principale, Kant delinea la propria prospettiva ermeneutica situandola nel contesto più generale dell’accordo tra fede storica e fede filosofica, che costituisce l’obiettivo principale della sua ricerca in ambito religioso. Infatti, l’interpretazione della Scrittura deve avere di mira una «chiarificazione corrente» (durchgängige Deutung) del testo, che metta in luce quel senso che «concordi [zusammenstimmt] con le regole pratiche universali della religione universale pura»83, vale a dire quel senso che si accorda con la religione razionale e che l’interprete introduce nel testo secondo lo schema del comprendere meglio. Sulla base di queste premesse la domanda preliminare risulta meramente retorica e la risposta è quindi scontata: non è la morale che deve essere interpretata secondo la Bibbia, ma è invece la Bibbia che deve essere interpretata secondo la morale. L’«interprete supremo» (höchster Ausleger) della Scrittura è costituito dunque dalla «fede religiosa pura», dalla moralità quale contenuto della religione razionale; questo principio normativo generale, che guida l’ermeneutica kantiana, è dunque di carattere filosofico o eticoreligioso e ad esso deve venir subordinata ogni considerazione di tipo letterale o specialistico. A questo proposito Kant è chiarissimo: Per quanto questa interpretazione riferita al testo [della rivelazione] possa spesso sembrarci forzata [gezwungen] e spesso esserlo anche realmente; se è soltanto possibile che questo testo l’ammetta, bisogna preferire questa interpretazione ad un’interpretazione letterale, che o non contiene assolutamente nulla in sé a prova della moralità, o va addirittura contro i suoi moventi84.

Per giustificare la radicalità di questa affermazione Kant si richiama all’interpretazione allegorica (o simbolica) dei poeti e dei miti religiosi presso Greci e Romani e alla tradizione esegetica dell’ebraismo e del cristianesimo, in cui sono presenti «interpretazioni in parte molto forzate [zum Theil sehr gezwungenen Deutungen], ma […] in vista di fini indubbiamente buoni e necessari per tutti gli uomini»85. Quindi «non si può accusare di slealtà questo genere di interpretazione», perché essa «ammette solo la possibilità» di comprendere in senso morale gli autori dei libri sacri, attribuendo loro 82

RGV, AA VI 110, trad. it. cit., p. 119 n. RGV, AA VI 110, trad. it. cit., p. 118. 84 Ibid. 85 RGV, AA VI 111, trad. it. cit., p. 120. Con una metodologia molto simile ad una sorta di embrionale storia comparata delle religioni, Kant aggiunge che anche «i Maomettani sanno attribuire molto bene […] un senso spirituale alla descrizione del loro Paradiso» (ibid.). 83

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un senso che arriva ad intendere meglio le loro intenzioni proprio perché non si ferma alla lettera86. Kant fornisce un’applicazione di questo principio ermeneutico proponendo una propria spiegazione del Salmo 59; essa traduce le parole del versetto veterotestamentario nel linguaggio morale, sostenendo che nell’imprecazione di vendetta rivolta ai nemici non si deve intendere «i nemici in carne ed ossa ma sotto il loro simbolo [unter dem Symbol], si deve intendere nemici invisibili molto più nocivi per noi, cioè le cattive inclinazioni, che bisogna desiderare di mettere completamente sotto i piedi»87. Questo riferimento al simbolo permette di evidenziare quanto l’accentuazione morale dell’ermeneutica scritturale kantiana non sia affatto generica né tanto meno ingenua. Si tratta di un tipo di interpretazione già nota dai tempi dell’esegesi patristica; essa tende consapevolmente a decifrare «rappresentazioni simboliche» e mira a «porre sotto […] un senso mistico [einen mystischen Sinn unterzulegen]»88. Tuttavia, a differenza della tradizione allegorica dei padri alessandrini, il senso figurato (simbolico o mistico) non è un contenuto misterioso che solo alcuni possono comprendere e rivelare; per l’illuminista Kant il senso metaempirico o pneumatico è il senso razionale, universale e pubblico, accessibile a tutti gli uomini dotati del lume della ragione e non privilegio di alcuni eletti o di caste89. Questo senso si manifesta attraverso la voce della coscienza a chiunque legga i testi biblici riconducendo i contenuti narrativi «alle regole ed ai moventi della fede morale pura»; esso inoltre costituisce il criterio discriminante che permette di accantonare (o addirittura di eliminare) quei racconti che non «ammetto-

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RGV, AA VI 111, trad. it. cit., p. 120. RGV, AA VI 110, trad. it. cit., p. 119. 88 RGV, AA VI 111, trad. it. cit., p. 120. Un riferimento analogo si trova in RGV, AA VI 134-136, trad. it. cit., p. 148-150, in cui Kant cita il libro dell’Apocalisse ed interpreta la narrazione della fine della storia come «rappresentazione simbolica» (symbolische Vorstellung) della meta finale del processo di perfezionamento morale. Sulla lettura del libro dell’Apocalisse si veda anche EaD, AA VIII 325-339, trad. it. cit., pp. 219-228. Sulle problematiche connesse al tema del millenarismo, rimandiamo a G. Cunico, Il millennio del filosofo: chiliasmo e teleologia morale in Kant, Edizioni ETS, Pisa 2001, pp. 25-148. Per il significato del simbolo si veda anche G. Cunico, L’interpretazione simbolica in Kant, in Gli antichi e noi. Scritti in onore di A.M. Battegazzore, a cura di W. Lapini, L. Malusa, L. Mauro, Brigati, Genova 2009, t. II, pp. 655-666. 89 Tuttavia, occorre notare di sfuggita che il riferimento kantiano al «senso simbolico» (o allegorico, già incontrato a proposito della lettura del libro di Giobbe) non è esente da numerose ambiguità. Esse presteranno il fianco alle critiche dei teologi biblici subito dopo la pubblicazione della Religion, come è stato ampiamente documentato da G. D’Alessandro, L’interpretazione kantiana dei testi biblici e i suoi critici, in «Studi kantiani», VIII (1995), pp. 57-85; Id., Allegoria e verità nello «Streit» sull’interpretazione kantiana delle Sacre Scritture, in Kant e la filosofia della Religione, a cura di N. Pirillo, cit., vol. II, pp. 543-561. 87

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no» questa interpretazione90 e di distinguere il contenuto dell’Antico Testamento da quello del Nuovo91. La moralità è dunque un medio spirituale che collega il testo all’interprete e che sollecita quest’ultimo a leggerlo, entrando in un circolo che si dimostra virtuoso sia in senso etico sia in senso ermeneutico. Per difendere questa concezione dell’ermeneutica scritturale secondo lo spirito della moralità, Kant cita un versetto dell’apostolo Paolo da cui posiamo intravedere una presa di posizione nei confronti della classica dottrina dell’ispirazione divina92. Nella razionalizzazione (o universalizzazione) kantiana l’ispirazione divina non sembra essere limitata esclusivamente all’estensore del testo (al profeta o all’apostolo); essa sembra ispirare anche il cuore di ogni interprete che ascolta la voce del comandamento morale. A questo proposito è interessante notare come non sia affatto casuale l’acco-

90 Secondo Kant tra i molti testi biblici che non si accordano con l’interpretazione razionale vi sono tutti quelli che parlano di miracoli. Un testo particolarmente eclatante, che contrasta col senso razionale, è la narrazione del sacrificio di Isacco (Gen. 22), alla quale si accenna in RGV, AA VI 87, trad. it. cit., p. 94 sg.; VI 187, trad. it. cit., p. 208; SF, AA VII 63, trad. it. cit., p. 133. Sulla base di questo esempio alcuni studiosi hanno visto nella lettura morale un utilizzo improprio dei versetti biblici. Tra questi ricordiamo in particolare J.-L. Bruch, La philosophie religieuse de Kant, cit., pp. 179 sgg., che non esita a parlare di «interprétation tendencieuse». Anche per D. Thouard, Kant e l’herméneutique, cit., p. 645, l’ermeneutica morale kantiana sarebbe inficiata da un giudizio preventivo di tipo filosofico e metterebbe in atto un vero e proprio utilizzo del testo biblico. 91 La distinzione tra Antico e Nuovo Testamento è un punto fermo dell’ermeneutica biblica kantiana, che tende a privilegiare il secondo rispetto al primo, proponendo una lettura fortemente selettiva dell’intero canone. Kant intravede una sostanziale concordanza tra i principali precetti evangelici e la sua dottrina morale (cfr. RGV, AA VI 157, trad. it. cit., p. 172), mentre considera l’Antico Testamento come la «legge mosaica», come un insieme di leggi statutarie, che riguardano la costituzione teocratica di uno Stato temporale e mondano. Si tratta di un «Gesetztbuch» da cui non si può imparare nulla per la morale (cfr. Refl 1437, AA XV 628), tanto da avanzare l’ipotesi (che rasenta il marcionismo) di espungerlo dal canone (cfr. VASF, AA XXIII 435). L’atteggiamento kantiano nei confronti dell’Antico Testamento si collega al suo giudizio fortemente critico verso l’ebraismo: cfr. RGV, AA VI 125-128, trad. it. cit., pp. 137-141; SF, AA VII 52 sg., trad. it. cit., p. 118 sg. Non potendo in questa sede affrontare questo spinoso argomento, ci limitiamo a rimandare allo studio di S. Zac, Kant et le problème du judaisme, «Les Nouveaux Cahiers», 1977, n. 49, pp. 32-50, e alle considerazioni svolte da D. Tafani, Religione e diritti civili: la questione ebraica in Kant, «Studi kantiani», XXI (2008), pp. 33-58. 92 In RGV, AA VI 112, trad. it. cit., p. 121, Kant cita 2 Tim. 3, 16, in cui si afferma che «tutta la Scrittura, infatti, è ispirata da Dio e è utile per insegnare, istruire, correggere e conformare alla giustizia». Nell’uso di questo versetto è racchiusa la revisione kantiana della classica dottrina dell’ispirazione. Secondo O. Kaiser, Kants Anweisung zur Auslegung der Bibel. Ein Beitrag zur Geschichte der Hermeneutik, «Neue Zeitschrift für systematische Theologie und Religionsphilosophie», XI (1969), pp. 125-138, Kant avrebbe rifiutato questa dottrina, mentre a nostro avviso ci sembra più corretto parlare di una sua revisione o ampliamento in senso universalistico, che coinvolge anche l’interprete.

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stamento alla citazione paolina di due versetti tratti dal Vangelo giovanneo, in cui si parla dello «Spirito di Dio» che istruisce gli uomini nella corretta interpretazione del testo e anima la morta lettera93. Da queste citazioni risulta evidente che il criterio supremo dell’interpretazione scritturale è costituito dallo spirito, identificato con la pura legislazione morale iscritta nel cuore di tutti gli uomini, condizione indispensabile di ogni autentica religione oltre che di ogni interpretazione ispirata. La lettura e l’interpretazione dei libri biblici, che ogni uomo dotato di ragione può mettere in atto in qualità di semplice Ausleger, è in primo luogo pratica e solo in un secondo momento può avere una finalità conoscitiva specialistica. Ecco le parole con cui Kant sottolinea ancora una volta questo pensiero fondamentale della sua riflessione ermeneutica, che si ricollega più in generale alla rivendicazione della libertà religiosa: La lettura di questi libri sacri, o la riflessione sul loro contenuto, hanno l’intento finale di rendere gli uomini migliori, mentre la parte storica [das Historische], che non serve per nulla a questo fine, è in sé qualche cosa di pienamente indifferente, che si può trattare come si vuole (la fede storica è «morta in sé stessa»; cioè, in sé, considerata come professione di fede, non contiene nulla e non porta ad alcuna cosa che abbia per noi un valore morale)94.

Per caratterizzare la sua specificità, in questo denso paragrafo Kant distingue nettamente l’interpretazione morale da altri due approcci al testo biblico, di cui traccia condizioni e limiti: in primo luogo l’interpretazione condotta dagli esegeti teologi o «dottori biblici» (che vengono chiamati Schriftgelehrten perché depositari di una «scienza della Scrittura» detta Schriftgelehrsamkeit); in secondo luogo l’interpretazione condotta sulla base del sentimento.

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Kant cita Gv. 16, 13, in cui si parla dello spirito di verità quale guida ispiratrice; subito dopo cita anche Gv. 5, 39: «voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene sono proprio esse che mi rendono testimonianza»; Si tratta di due versetti dai quali emerge che la vita eterna non è racchiusa nel testo della Scrittura in quanto tale, ma nel suo principio ispiratore che vive attraverso la testimonianza e l’impegno del singolo. Un richiamo analogo a 2 Tim. 3, 16 e a Gv. 5, 39 era già stato fatto da Lessing nei suoi Axiomata, in difesa dell’interpretazione spirituale della Scrittura contro il pastore luterano ortodosso Goeze: G.E. Lessing, Religione e libertà, a cura di G. Ghia, Morcelliana, Brescia 2000, p. 132. 94 RGV, AA VI 111, trad. it. cit., p. 120 sg. Anche in questo caso, come aveva già fatto in precedenza con il richiamo a Paolo e a Giovanni, Kant argomenta la propria tesi appoggiandola ad un preciso riferimento scritturale: la «fede morta in se stessa» è una citazione da Gc. 2, 17. Il lettore italiano può trovare un elenco completo di tutti i versetti biblici citati nella Religion (esplicitamente o implicitamente) in appendice al volume di I. Mancini, Kant e la teologia, Cittadella, Assisi 1975, pp. 238-240. Sulla personale lettura della Bibbia da parte di Kant cfr. Refl 8112, AA XIX 651-654, e le annotazioni riportate da H. Borkowski, Die Bibel Immanuel Kants, Gräfe und Unzer Verlag, Königsberg 1937.

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Nel primo caso, riprendendo in forma di tesi un pensiero già ampiamente esposto, Kant stabilisce una netta distinzione tra ogni uomo che interpreta la Scrittura (il semplice Ausleger) e il dottore biblico, subordinando il lavoro specialistico di quest’ultimo alla lettura in chiave morale elaborata dal primo. Nei confronti delle metodologie delle scuole esegetiche dell’epoca Kant ribadisce le riserve già espresse nella discussione con Hamann e sostiene che le interpretazioni fornite dai biblisti riguardano principalmente gli elementi storici del testo, la conoscenza delle lingue dell’originale, dei costumi e delle opinioni dominanti dell’epoca alle quali si riferiscono le narrazioni. Nel caso della lettura del Nuovo Testamento in particolare queste conoscenze sono necessarie in quanto «né l’arte umana, né la saggezza umana possono salire fino al cielo per verificarvi le credenziali attestanti la missione del primo maestro»; è quindi auspicabile che «per apprezzare tale missione secondo la sua credibilità storica» possa essere utile venire a conoscenza dei modi in cui tale credenza fu introdotta sulla base di «informazioni umane» ricercate «in tempi molto antichi ed in lingue attualmente morte»95. Certamente queste conoscenze possono essere di aiuto anche per rafforzare la fede morale, in quanto forniscono una «conferma storica» di essa. Tuttavia, precisa Kant, questa conferma serve piuttosto a «mantenere nel suo prestigio la chiesa fondata sulla Scrittura, ma non una religione (perché la religione, per essere universale, deve fondarsi sempre sulla sola ragione)»96. Insomma il lavoro del teologo biblico, con tutte le sue conoscenze scientifiche erudite, è per Kant finalizzato a sostenere l’autorità della Bibbia come parola di Dio, a cementare una «fede ecclesiastica» basata su una rivelazione divina, dal momento che una dottrina fondata sulla semplice ragione non sembra al popolo (ancora) del tutto accettabile. Proprio svolgendo questa sua funzione il teologo biblico fornisce spesso un’interpretazione di tipo «dottrinale» che può aprire la porta al dogmatismo, anche se tanto la religione razionale quanto la scienza scritturale «non possono essere dal braccio secolare in nessun modo impedite nell’uso pubblico delle loro vedute e delle loro scoperte in questo campo, né essere legate a certi dogmi di fede»97. Dopo aver distinto la propria interpretazione morale dai metodi della «scienza della Scrittura», Kant prende nettamente le distanze anche da quel tipo di interpretazione che, per riconoscere il suo «vero senso» e «la sua origine divina», non si basa né sulla ragione né sull’erudizione ma esclusivamente sul sentimento (inneres Gefühl). Prendendo indirettamente posizione nei confronti dell’interpretazione pietistica del testo biblico, che faceva 95

RGV, AA VI 112, trad. it. cit., p. 121 sg. RGV, AA VI 112, trad. it. cit., p. 122. 97 RGV, AA VI 113, trad. it. cit., p. 122. 96

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leva sugli affetti e sul sentimento98, Kant sostiene che quest’ultimo non è originario ma derivato: è un «effetto» del rispetto della legge ed è quindi di origine morale99. Se il sentimento diventa la fonte autonoma dell’interpretazione si produce una lettura soggettiva che finisce per «spalancare interamente ogni porta a tutti i fantasmi e togliere al ben chiaro sentimento morale la sua dignità, unendolo in parentela con tutti gli altri sentimenti fantastici»100. Con questa precisazione Kant non riconosce soltanto il pericolo che la fede storica possa degenerare nel fanatismo religioso o nell’intolleranza; egli riconosce anche la possibilità che essa possa diventare esclusivo appannaggio dei teologi confessionali, imboccando una direzione che la allontanerebbe dalla religione razionale universale riducendola a superstizione, oppure favorirebbe i privilegi delle singole confessioni. Si tratta di un rischio che costituisce una delle principali preoccupazioni dell’ermeneutica biblica kantiana, che sarà energicamente combattuto nello Streit. Nei confronti di questo rischio il denso paragrafo che abbiamo esaminato contrappone ad ogni vincolo «dottrinale» o ad ogni preoccupazione confessionale e dogmatica il principio supremo dell’interpretazione «autentica». Questo principio si basa esclusivamente sul lume della ragione; esso viene attinto in piena libertà di coscienza dal singolo e può essere riassunto con le seguenti parole: Non vi è dunque alcuna regola della fede di Chiesa oltre la Scrittura e non vi è alcun altro suo interprete fuori della religione razionale [Vernunftreligion] e dell’erudizione scritturale [Schriftgelehrsamkeit] (che riguarda l’elemento storico della Scrittura); il primo di questi interpreti è il solo autentico e valevole per tutto il mondo, il secondo è solo dottrinale e serve per convertire la fede di Chiesa, valevole per un certo popolo ed un certo tempo, in un sistema determinato che si conservi durevolmente101.

98

Nella prima metà del Settecento il pietismo (con Franke e Rambach) aveva accentuato il ruolo del sentimento dell’amore nell’interpretazione del Nuovo Testamento e aveva elaborato una vera e propria teoria degli affetti (pathologia sacra) quale strumento necessario per stimolare la fede vivente a contatto col testo. Cfr. R. Osculati, Vero Cristianesimo. Teologia e società moderna nel pietismo luterano, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 220 sgg. Tuttavia, la presa di distanza di Kant non esclude che si possano trovare alcuni punti di contatto tra la sua interpretazione scritturale e quella pietistica, che utilizzava il testo come «reattore» ed accentuava proprio il momento dell’applicatio ad vitam. Del resto, J. Bohatec, Die Religionsphilosophie Kants in der «Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft», cit., pp. 21 sgg., ha ampiamente documentato come il pietismo abbia costituito una delle fonti ispiratrici del pensiero religioso kantiano. 99 Kant riprende qui la dottrina del rispetto quale unico sentimento non patologico a priori, effetto della legge morale, che aveva esposto in KpV, AA V 74 sgg., trad. it. di F. Capra, riv. da E. Garin, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1972, pp. 91 sgg. 100 RGV, AA VI 114, trad. it. cit., p. 123. 101 RGV, AA VI 114, trad. it. cit., p. 124.

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Da questo esame dettagliato del paragrafo in cui Kant ha esposto e difeso il principio supremo della sua ermeneutica risulta ora chiaro con quale approccio ogni lettore debba accostarsi al testo biblico: seguendo la voce della coscienza morale che parla in ogni uomo capace di disporsi al libero ascolto e di seguire il lume della ragione102. Si tratta di una guida interiore di carattere spirituale, che non ha nulla a che vedere con le regole tecniche dell’ars interpretandi. In questo modo l’ermeneutica kantiana si collega alla rivendicazione della libertà religiosa. Per la sua universalità infatti il principio supremo si presenta svincolato da ogni riferimento ad una determinata epoca della storia, ad una esclusiva rivelazione o ad un unico libro. Esso è la diretta conseguenza di quel «modo di pensare liberale [liberale Denkungsart]»103, che rivendica «la necessità per ogni religione di un’illimitata libertà di coscienza»104, sia nelle pratiche cultuali sia nell’interpretazione dei libri canonici. 7. I limiti dell’interpretazione «dotta» e il principio della libertà Nel trattato sulla religione l’esigenza di liberare l’ermeneutica scritturale dalla tutela dei vincoli confessionali o dogmatici, per porla al servizio della libertà religiosa e della religione razionale, porta Kant a ribadire le proprie tesi con numerose precisazioni e integrazioni che vale la pena di esaminare sinteticamente. Nella seconda parte del capitolo III, in cui vengono trattate alcune forme empiriche di fede storica quali l’ebraismo ed il cristianesimo, Kant torna a riflettere sulla funzione del «libro sacro» per le religioni che si basano 102

Come riassume sinteticamente D. Venturelli, Un contributo allo studio della «Religione nei limiti della sola ragione», cit., p. 133: «Con quale principio interpretativo devo avvicinare la Scrittura per coglierne la significazione religiosa? Con quello che autentica l’interpretazione religiosa di ogni altro libro (per esempio di poeti e moralisti antichi e moderni), anzi di ogni umana parola. Solo seguendo la guida della coscienza morale e la luce della pura fede religiosa la verità, che è narrata e testimoniata nei Vangeli, viene riconosciuta, affermata, universalizzata e trascesa: perché l’essenziale non è per Kant questo fatto storico, ma appunto la verità che in esso si rivela. Questa però non è sotto ogni profilo intemporale, ma si manifesta e si dischiude sempre e solo storicamente, sempre e solo alla luce della rivelazione attuale». 103 EaD, AA VIII 338, trad. it. cit., p. 227. 104 Con queste parole Kant si esprime nella lettera a Mendelssohn del 16 agosto 1783 (Br, AA X 347, trad. it. cit., p. 130): «Ella ha esposto al tempo stesso la necessità per ogni religione di un’illimitata libertà di coscienza [eine unbeschränkte Gewissensfreyheit] con tanta profondità e chiarezza, che alla fine anche la nostra Chiesa sarà costretta a pensare come espungere dalla sua religione tutto ciò che può opprimere e conculcare la coscienza; e ciò, alla fine, non può non unire gli uomini riguardo ai punti essenziali della religione, perché tutti i precetti religiosi che opprimono la coscienza ci vengono dalla storia, allorché si fa della fede nella loro verità la condizione della salvezza».

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su una rivelazione. Premettendo che la fede razionale pura non ha bisogno di alcuna documentazione perché «si dimostra da sé stessa», egli sostiene che la fede storica in quanto tale ha invece bisogno sia di scritti che tramandino senza interruzione le proprie testimonianze, sia «di un pubblico colto» che controlli tali scritti. Questi caratteri specifici della fede storica spiegano perché la Scrittura in epoche passate sia stata spesso oggetto di dispute violente, nelle quali «la terribile voce dell’ortodossia [die schreckliche Stimme der Rechtgläubigkeit] si espresse per mezzo di interpreti […], che pretendevano di essere i soli autorizzati, e divise il mondo cristiano in partiti esasperati per causa di opinioni di fede»105. Sulla base dell’esperienza di queste dispute, Kant propone due ulteriori principi ermeneutici improntati alla tolleranza e alla libertà religiosa, che dovrebbero regolare anche il rapporto con il testo biblico. Il primo principio è quello della «giusta moderazione [Grundsatz der billigen Bescheidenheit] nelle pretese intorno a tutto ciò che va sotto il nome di rivelazione»106. Applicato alla Scrittura questo principio invita a usare ulteriormente questo libro, dal momento che c’è, come base [Grundlage] dell’insegnamento ecclesiastico e di non diminuirne il valore con attacchi inutili e animosi, senza tuttavia imporre perciò a nessun uomo la fede in questo libro, intendendolo come necessario [erforderlich] per la salvezza107.

Per l’ermeneutica razionale kantiana la Scrittura rimane la «base» della fede storica positiva, ma per la religione razionale essa non è strettamente necessaria. Questo concetto viene sottolineato dal secondo principio, il quale afferma che «la storia sacra», formata dalle narrazioni bibliche, deve essere «sempre insegnata e spiegata come aspirante al fine morale [auf das Moralische abzweckend] […] senza nessuna erudizione biblica [ohne alle Schriftgelehrsamkeit]»108. Riprendendo un tema caro all’Illuminismo tedesco (in particolare a Lessing), Kant afferma che la lettura e l’interpretazione del testo biblico deve mettere in luce «la vera religione», quella religione che «non consiste nel conoscere o professare ciò che Dio fa o ha fatto per la nostra santificazione, ma nel compiere quel che è necessario che noi facciamo per rendercene degni»109.

105

RGV, AA VI 130, trad. it. cit., p. 143. G. D’Alessandro, Kant e l’ermeneutica. La «Religione» kantiana e gli inizi della sua recezione, cit., p. 126, osserva opportunamente che «nella formulazione della billige Bescheidenheit emerge un’eco della vecchia “equità ermeneutica” (hermeneutische Billigkeit) di origine wolffiana, baumgarteniana e meierana». Ci sembra un’ulteriore conferma della conoscenza da parte di Kant del dibattito settecentesco intorno al problema dell’interpretazione. 107 RGV, AA VI 132, trad. it. cit., p. 145. 108 RGV, AA VI 132, trad. it. cit., p. 146. 109 RGV, AA VI 133, trad. it. cit., p. 146. 106

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Questo secondo principio sembra essere una formulazione più precisa del principio supremo, che aveva posto l’interpretazione biblica in accordo con la religione razionale110. Infatti, esso finalizza la lettura e l’interpretazione della «storia sacra» non tanto alla conoscenza dettagliata dei personaggi o dei fatti narrati, quanto al perfezionamento morale del lettore, al rafforzamento della sua buona intenzione. Ancora una volta viene privilegiata l’applicazione alla situazione dell’interprete (l’applicatio ad vitam), mentre la conoscenza specialistica del testo e del pensiero dell’autore risultano secondari. Anche nel capitolo IV troviamo alcune osservazioni sul ruolo del testo biblico che completano il significato di questo secondo principio nella direzione dell’accordo tra ermeneutica biblica e religione razionale. Riprendendo la tesi della superiorità dell’interpretazione morale del Nuovo Testamento su quella «dotta» o storico-erudita, Kant afferma che tale libro è «intrinsecamente intessuto di dottrine morali imparentate con la ragione»; proprio per questo motivo noi possiamo «usarlo come mezzo [Zwischenmittel] per spiegare la nostra idea di una religione rivelata in generale» e per mettere in luce «quanto può esservi per noi di religione razionale pura e perciò universale»111. Qui emerge ancora più chiaramente come il ricorso alla Scrittura sia finalizzato al miglioramento pratico della vita dell’interprete, attraverso l’ascolto del comandamento morale che parla nella propria coscienza e che si trova riflesso nel testo stesso.

110 Sulla base di questa formulazione del secondo principio E. Katzer, Kants Prinzipien der Bibelauslegung, «Kant-Studien», XVIII (1913), pp. 99-128, (spec. pp. 108 sgg.) ha affermato che esso non è altro che una ripresa del principio generale dell’ermeneutica kantiana, secondo cui l’interpretazione della Scrittura deve servire al miglioramento dell’uomo. 111 RGV, AA VI 156, trad. it. cit., p. 171. Qui Kant, per spiegare concretamente cosa significa «usare la Bibbia come mezzo», fa esplicitamente riferimento al Nuovo Testamento e scrive: «Noi prendiamo allora questo libro – come uno di quei tanti libri che trattano di religione e di virtù sotto l’accrescimento di una rivelazione – ad esempio di quel metodo in sé utile, che consiste nel mettere in evidenza quanto può esservi per noi di religione razionale pura e perciò universale. […] Questo libro può essere, nel nostro caso, il Nuovo Testamento, come la fonte della dottrina di fede cristiana» (ibid.). Kant applica i suoi principi ermeneutici (prevalentemente a Mt. 5, 11-12, 16, 20-48; 6, 16; 7, 13, 21; 13, 31-32; 25, 29, 35-40) e mostra come gli insegnamenti del maestro del Cristianesimo (a differenza delle narrazioni dell’Antico Testamento) contengano un contenuto non legalistico o statutario, ma esclusivamente morale. Da queste pagine traspare anche che l’interpretazione morale riduce la figura di Cristo a tipo ideale, a forma intelligibile o archetipo di uomo virtuoso. Tra la vasta bibliografia sull’argomento, rimandiamo a D. Venturelli, La cristologia filosofica di Kant, in Id., Etica e fede filosofica. Studi sulla filosofia di Kant, Morano, Napoli 1989, pp. 113-145, e a X. Tilliette, Filosofi davanti a Cristo, Queriniana, Brescia 1989, pp. 81-89. Circa il ruolo positivo che il Nuovo Testamento svolge per l’instaurazione della religione razionale (morale) Kant si esprime chiaramente anche nella lettera a Jung-Stilling del 1 marzo 1789 (Br, AA XXIII 494 sg., trad. it. cit., p. 174), e in quella a Jacobi del 30 agosto del 1789 (Br, AA XI 75-77, trad. it. cit., pp. 214-218).

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Sempre in quest’ultimo capitolo, nella sezione in cui vengono sviluppate alcune considerazioni intorno alla religione cristiana come religione «dotta» (gelehrte Religion), Kant ritorna sul ruolo che gli insegnamenti basati su documenti scritti hanno per le religioni positive112. Nel caso specifico del cristianesimo si tratta di una religione «dotta» perché ricorre alle narrazioni fattuali che si appoggiano a testimonianze storiche. Tuttavia questa sua caratteristica la espone al rischio di basare la propria fede su precisi documenti o decreti di carattere empirico, trasformandola in fides statutaria (o fides imperata, detta anche servilis)113. Agli occhi dell’illuminista Kant sembra che l’interpretazione specialistica miri prevalentemente a conoscere il contenuto del testo al fine di enucleare dalle storie dei personaggi e dagli eventi narrati formulazioni dogmatiche fisse da tramandare e custodire nel tempo. Egli denuncia quindi un possibile legame tra l’interpretazione specialistica (praticata a quel tempo da gran parte dei professori di teologia seguaci del metodo storico-critico) ed il principio dogmatico dell’ortodossia. Proprio per limitare questo rischio egli presenta l’interpretazione filosoficomorale (o più genericamente razionale) come la naturale compagna della libertà religiosa114. Si tratta di una tesi provocatoria, che poco tempo dopo giocherà un ruolo di primo piano nel corso della disputa con i rappresentanti della Facoltà teologica. Essa viene sintetizzata in modo netto affermando che l’«erudizione» (Gelehrsamkeit) non deve essere messa al primo posto, legittimando l’esistenza di un piccolo numero di esperti (di chierici) ai quali si dovrebbero accodare «una lunga fila di ignoranti (i laici)»115. L’interpretazione «dotta» deve essere considerata come strumento culturale per rischiarare e spiegare la religione razionale e deve quindi essere ad essa subordinata. Di conseguenza la Scrittura, quale documento storico della rivelazione, deve essere «amata e coltivata quale mero, sebbene infinitamente pregevole mezzo [Mittel] per rendere la religione intelligibile anche agli ignoranti, per darle diffusione e continuità»116.

112

RGV, AA VI 163 sgg., trad. it. cit., p. 179 sgg. Si tratta di un argomento già anticipato in RGV, AA VI 115 sg., trad. it. cit., p. 124 sg., dove Kant disegna un passaggio graduale dalla fede di chiesa alla fede religiosa pura. In questo contesto egli arriva ad affermare che la fede in «una religione di culto è una fede da schiavi e da mercenari (fides mercenaria, servilis), ed essa non può essere considerata come santificante, perché non è affatto morale». A questa fede inautentica Kant contrappone la fede religiosa pura, che consiste nella buona condotta. 114 Questa idea è presente anche nella lettera a Fichte del 2 febbraio 1792 (Br, AA XI 322, trad. it. cit., p. 280), in cui Kant traccia una netta «distinzione tra una fede dogmatica, elevata al di sopra di ogni dubbio, ed una fede meramente morale, costituente nell’accettazione libera, ma poggiante su fondamenti morali». 115 RGV, AA VI 164, trad. it. cit., p. 181. 116 RGV, AA VI 165, trad. it. cit., p. 181. 113

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Da queste ultime affermazioni emerge come l’atteggiamento di Kant nei confronti della Scrittura (in modo particolare verso il Nuovo Testamento) sia molto più articolato di quanto potrebbe sembrare dalla riduzione di molte narrazioni storiche a parti accessorie (adiaphora). Occorre infatti tener sempre presente la duplice composizione del testo biblico, che non contiene solo narrazioni di fatti, statuti o decreti, ma anche la dottrina della pura religione morale. Proprio per questo la Bibbia ha avuto un’importanza decisiva nell’educazione religiosa del genere umano, in quanto ha introdotto per la prima volta nella forma delle rappresentazioni simboliche la pura dottrina morale nella storia, anche se con il crescente perfezionamento dell’umanità il «mezzo» diverrà alla fine superfluo117. In conclusione, anche in queste pagine finali del suo trattato sulla religione Kant sostiene la validità del principio supremo dell’ermeneutica scritturale: solo il lume della ragione è il sovrano interprete della Scrittura e non una ristretta cerchia di interpreti autorizzati da una Chiesa; questi ultimi sono dei semplici funzionari i quali, «dopo aver derubato la religione razionale pura della dignità che le spetta […] e dopo aver imposto l’uso della sola scienza scritturale a sostegno della credenza ecclesiastica»118, finirebbero per imporre una determinata interpretazione funzionale alla fede statutaria, dando luogo ad un dominio sui credenti orientato in senso apologetico, dogmatico o particolaristico119. Kant conclude subordinando all’erudizione la libertà di coscienza: «il lume interiore [inneres Licht] cui ogni laico può

117 Cfr. anche Anth, AA VII 192, trad. it. di P. Chiodi, Antropologia dal punto di vista pragmatico, in Scritti morali, Utet, Torino 1970, p. 612 sg. Sul ruolo positivo della Bibbia, qui appena accennato, D. Venturelli, Un contributo allo studio della «Religione nei limiti della sola ragione», cit., p. 135 sg., ha giustamente osservato che secondo Kant la Scrittura manifesta «anticipatamente, nella forma del mito e della parabola, quella stessa verità etico-soterica che la religione umana poteva e doveva scoprire anche da sé. [Il suo compito] è stato quello di scoprire e di anticipare col suo discorso una verità che era latente nella ragione umana, portandola per la prima volta alla luce, esprimendola nella forma della rappresentazione simbolica, facilitandone per le generazioni future il pieno riconoscimento». 118 RGV, AA VI 165, trad. it. cit., p. 182. 119 «Essi mutano così il servizio della chiesa (ministerium) in un dominio sui credenti della chiesa (imperium), benché per mascherare questa usurpazione, si servano del modesto titolo di servi. Ma questa denominazione, che alla ragione sarebbe stata facile, costa loro cara, in quanto che si mantengono al loro posto con un dispendio di grande erudizione» (RGV, AA VI 165, trad. it. cit., p. 182). In questi passi, particolarmente critici, risulta evidente lo stretto legame tra esegesi specialistica e dogmatica ecclesiale, che Kant vedeva operante nelle confessioni cristiane del suo tempo. Come ha notato G. Vincent, Kant et l’Écriture, «Revue d’histoire et de philosophie religieuses», LV (1975), pp. 55-70, si tratta di una tesi sorprendente se si tiene conto che a partire da Spinoza la critica biblica ha contribuito a ridurre le pretese della dogmatica e dell’ortodossia. Probabilmente agli occhi di Kant un lavoro esegetico completamente autonomo correrebbe il rischio di essere sottratto ad ogni controllo razionale, aprendo le porte a possibili interpretazioni del testo biblico in senso fanatico o superstizioso.

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appellarsi»120. Per ora non è ancora del tutto chiaro se si tratti di una semplice distinzione gerarchica di due livelli di approccio al testo biblico destinati a integrarsi, oppure di una vera e propria contrapposizione tra due metodi che hanno obbiettivi differenti. Sarà lo scritto del 1798 a tentare una composizione del conflitto che coinvolge nell’interpretazione scritturale teologi e filosofi, insieme al ruolo delle rispettive Facoltà universitarie. 8. Alcune conferme e ulteriori sviluppi Subito dopo la pubblicazione della prima edizione del trattato sulla religione molti teologi (tra i quali Eichhorn, il principale rappresentante del metodo storico-critico) presero posizione nei confronti della superiorità dell’interpretazione razionale su quella specialistica e contro il conseguente primato dello spirito sulla lettera121. Sorse una serrata disputa, che rappresenta un singolare capitolo della feconda ricezione dell’opera kantiana e che costituisce al tempo stesso il retroterra delle principali tematiche dello scritto Der Streit der Fakultäten, pubblicato nel 1798122. In esso trovano conferma le principali idee kantiane intorno al problema ermeneutico e vengono riprese con maggior chiarezza e sistematicità alcune delle tesi esposte nel trattato sulla religione. Nello Streit, con l’intento di definire la specificità della Facoltà teologica superiore, Kant delimita innanzitutto il compito del teologo biblico e il suo preciso ambito di influenza. A suo avviso egli può parlare di Dio sulla base 120

RGV, AA VI 167, trad. it. cit., p. 184. In una lettera dell’8 marzo 1794 il teologo protestante Chr.F. Ammon informava Kant da Erlangen che «Eichhorn, Gabler e Rosenmüller hanno preso un’energica posizione contro questa interpretazione morale della Scrittura. Essi affermano che questo senso morale non sarebbe altro che il senso allegorico dei Padri della Chiesa, in particolare di Origene, da tempo deriso; che in questo modo l’esegesi perderebbe ogni sicurezza dogmatica […] e che questa interpretazione condurrà ad una nuova barbarie» (Br, AA XI 474). Nello Streit Kant si difende da queste accuse: cfr. SF, AA VII 45, trad. it. cit., p. 108. Le diverse fasi del dibattito, iniziato nel 1793 con le critiche di Eichhorn che accusa Kant di riportare in auge il metodo allegorico proprio della tradizione cattolica, sono ricostruite in modo documentato e preciso da G. D’Alessandro, Kant e l’ermeneutica. La «Religione» kantiana e gli inizi della sua recezione, cit., pp. 133 sgg.; Id., «Advesus theologos». Kant e la conclusione dell’«Auslegungsstreit», in Kant e il conflitto delle facoltà. Ermeneutica, progresso storico, medicina, a cura di C. Bertani, M.A. Pranteda, cit., pp. 75-100. Per la difesa dei principi ermeneutici da parte dei kantiani Tieftrunk, Kiesewetter e altri, rimane ancora utile il lavoro di M. Casula, L’Illuminismo critico. Contributo allo studio dell’influsso del criticismo kantiano sul pensiero morale e religioso in Germania tra il 1783 e il 1810, Marzorati, Milano 1967, pp. 247 sgg. 122 Per un approfondimento di questo scritto andrebbero esaminati anche i materiali preparatori: VASF, XXIII 421-464. La genesi dell’opra è ricostruita nel libro di G. Landolfi Petrone, L’ancella della ragione. Le origini dello «Streit der Fakultäten» di Kant, La Città del Sole, Napoli 1997, pp. 157 sgg. 121

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di quanto viene detto nella Bibbia; tuttavia quando espone la Scrittura al popolo non deve dilungarsi in analisi specialistiche, «perché il popolo non ha la benché minima cognizione di argomenti che costituiscono materia di conoscenza storica, e sarebbe per essi coinvolto solo in ogni sorta di dubbi e di temerarie sofisticherie»123. Inoltre non può essere di sua competenza «nemmeno attribuire [unterlegen] ai passi della Scrittura un significato che non coincida esattamente con la lettera, per esempio un senso morale»124. In conclusione, la delimitazione kantiana definisce il teologo come «propriamente il dottore della Scrittura [Schriftgelehrter] della fede ecclesiastica» fondata su statuti125. Nell’esercizio delle sue funzioni egli dice: «cercate nella Scrittura dove voi pensate di trovare la vita eterna. Ma poiché la condizione della vita eterna è soltanto il miglioramento morale dell’uomo, nessuno può scoprirla in qualche scritto, a meno di introdurvela [als wenn er sie hineinlegt]»126. Infatti, come già sappiamo, il testo biblico consta di due parti eterogenee, «di cui l’una costituisce il canone, l’altra l’organo o veicolo della religione»127. Sulla base di questa costitutiva eterogeneità, Kant lascia al teologo piena competenza per quanto concerne la lettera, ma assegna al filosofo (come ad ogni essere razionale) il compito di attribuire al testo un significato traslato che egli stesso vi introduce. L’eterogeneità del testo biblico richiede una chiara distinzione di due livelli di senso: quello storico o empirico, che come tale è particolare e contingente, e quello morale che invece è universale. Il lavoro ermeneutico deve innanzitutto distinguere 123

SF, AA VII 23, trad. it. cit., p. 77. SF, AA VII 24, trad. it. cit., p. 77. Kant arriva ad affermare che «se il teologo biblico, riguardo a una qualunque di queste tesi, mette in mezzo la ragione […] egli salta (come il fratello di Romolo) oltre il fosso della fede ecclesiastica […] e si perde nell’aperto, libero campo della filosofia e del giudizio personale, dove, sfuggito al governo della chiesa, è esposto a tutti i pericoli dell’anarchia» (SF, AA VII 24, trad. it. cit., p. 77). Sul ruolo del teologo biblico Kant si era già espresso in RGV, AA VI 9 sgg., trad. it. cit., p. 9. Nella lettera a Stäudlin del 4 maggio 1793, Kant osserva che il teologo biblico «non può contrapporre proprio nient’altro alla ragione se non di nuovo la ragione o la forza. E se non vuole che gli si rimproveri di essersi reso colpevole dell’uso della forza, […], deve privare di forza quegli argomenti razionali […] ricorrendo ad altri argomenti razionali, e non colpendoli con i fulmini della scomunica che fa cadere su di essi dalle nuvole dell’aria di corte» (Br, AA XI 429). A Carl Friedrich Stäudlin, professore di teologia a Göttingen e successore di Michaelis, è dedicato proprio lo Streit (SF, AA VII 3, trad. it. cit., p. 55). 125 SF, AA VII 36, trad. it. cit., p. 95. 126 SF, AA VII 37, trad. it. cit., p. 96. 127 SF, AA VII 36 sg., trad. it. cit., p. 96. Ritorna qui la definizione della Bibbia come «veicolo» (Vehikel); cfr. anche SF, AA VI 44, trad. it. cit., p. 106. Inoltre viene introdotta la distinzione tra «canone» (Kanon), identificato con la fede ecclesiastica, e «organo» (Organon), che invece rimanda alla fede religiosa pura. Su questa distinzione si vedano le osservazioni di F. Ricken, Kanon und Organon. Religion und Offenbarung im «Streit der Fakultäten», in Kant über Religion, hrsg. von F. Ricken und F. Marty, Kohlhammer, Stuttgart 1992, pp. 181-194, (spec. pp. 184-191). 124

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questi due livelli, deve «secernere dal discorso storico i fondamenti razionali [die Vernunftgründe der Gesetzgebung aus dem historischen Vorträge herauszusuchen]»128. Per quanto riguarda l’interpretazione dei fatti è necessaria la conoscenza della storia, della lingua e il ricorso agli strumenti della filologia; per quanto riguarda il senso traslato invece, esso deve essere attribuito (unterlegen) o introdotto (hineinlegen) dall’interprete, seguendo l’impostazione costruttivistica precedentemente evidenziata nell’enunciazione della svolta trascendentale. Dopo aver delimitato il ruolo del teologo biblico, Kant ripropone nuovamente in forma sistematica i «principi filosofici» (philosophische Grundsätze) della sua ermeneutica scritturale129. Nel tentativo di comporre il conflitto con i teologi, egli precisa tuttavia che, nelle sue intenzioni, filosofici devono essere soltanto i principi e non l’interpretazione che deriva dalla loro applicazione. Kant individua quattro principi che regolano la corretta lettura dei testi biblici. Nella loro esposizione ritroviamo le tesi già note, con alcune interessanti integrazioni. Il primo principio riprende il principio supremo teorizzato nella Religion e afferma «che la ragione è, in materia religiosa, l’interprete suprema della Scrittura [die oberste Auslegerin]»130. Di conseguenza i passi biblici che contengono dottrine che oltrepassano l’ambito della ragione «possono [dürfen] essere interpretati a vantaggio della ragion pratica, mentre quelli che contengono proposizioni che la contraddicono, addirittura lo devono [müssen]»131. In entrambi i casi si tratta di introdurre (hineintragen) nel testo il senso traslato, andando al di là della lettera132. È interessante notare come anche in questa occasione – come già aveva fatto nella Religion133 – Kant di128

SF, AA VII 33, trad. it. cit., p. 90. Sulle parti storiche del testo biblico come adiaphora cfr. anche SF, AA VII 40, trad. it. cit., p. 101; VII 47, trad. it. cit., p. 110. Entrambi i passi rimandano a RGV, AA VI 43 n., trad. it. cit., p. 46 n. In SF, AA VII 64, trad. it. cit., p. 134, viene ripresa la tesi della duplice composizione del testo biblico, distinguendo una parte principale ed un accessorium. 129 SF, AA VII 38-44, trad. it. cit., pp. 98-107. Con l’enunciazione di questi principi Kant intende dare il suo contributo alla soluzione del conflitto tra la Facoltà filosofica e quella teologica per quanto riguarda l’interpretazione della Scrittura. Com’è noto, la sua proposta è la seguente: «nel caso di disaccordo sul senso di un passo biblico, la Facoltà inferiore, che ha per fine la verità, la filosofia insomma, rivendica il privilegio di determinarne il significato» (SF, AA VII 38, trad. it., cit., p. 98). 130 SF AA VII 41, trad. it. cit., p. 102. 131 SF, AA VII 38, trad. it. cit., p. 99. 132 Si tratta di un pensiero già espresso in RGV, AA VI 110, trad. it. cit., p. 118 sg., in cui Kant aveva precisato che questo metodo vale anche per le proposizioni di fede, ossia per la dottrina trinitaria, per i dogmi dell’incarnazione, della resurrezione e dell’ascensione, considerati «inutili» sotto il profilo pratico. 133 Cfr. RGV, AA VI 111, trad. it. cit., p. 120. Si tratta di un’argomentazione che si rivolge contro i teologi, affrontandoli sul loro stesso terreno. Essa documenta ancora una volta la

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fenda questo passaggio con un’argomentazione di carattere generale che fa riferimento alla storia dell’esegesi scritturale. Egli osserva infatti che il lettore è «in diritto di interpretare lo scritto dell’autore in modo conforme ai suoi principi, e non secondo la lettera», in quanto si tratta di una pratica ermeneutica che «è sempre avvenuta con l’approvazione dei più lodati teologi»134. Se infatti per secoli essi hanno interpretato l’Antico Testamento come una «tipologia» del Nuovo, non si devono scandalizzare di fronte alla teorizzazione del principio della introduzione del senso morale. Per illustrare il secondo principio, Kant parte dal presupposto che nella religione tutto dipende dal fare; di conseguenza, se il contenuto delle narrazioni e delle dottrine bibliche deve essere conforme alla religione, esso deve avere un significato prevalentemente etico-pratico; nel caso poi di passi in cui la lettera del testo fosse contraria a questa interpretazione, occorre stabilire un «accordo» (Übereinstimmung) col senso morale. Quest’obiettivo di accordare il contenuto della Scrittura alla religione razionale è presente anche nel terzo principio, in cui si insiste sull’applicazione135, mentre il quarto regola l’interpretazione di quei passi che sembrano contenere rivelazioni soprannaturali136. Dopo aver illustrato la formulazione dei quattro principi ermeneutici, ritorniamo ora sulla distinzione tra interpretazione dottrinale e interpretazione autentica, precedentemente incontrata. Da quanto siamo venuti dicendo è ovvio che l’interpretazione letterale è subordinata a quella filosofica o morale e che solo quest’ultima dovrebbe essere qualificata come «autentica». Tuttavia, al fine di sottoscrivere un «accordo di pace» tra la Facoltà teologica e quella filosofica137, Kant utilizza ora la coppia concettuale dottrinale/autentico con un significato diverso da quello precedentemente fissato. Riproponendo la sua concezione della duplicità di livelli del testo biblico, egli chiama interpretazione autentica (authentisch) quella che «dev’essere conoscenza da parte di Kant della storia dell’esegesi scritturale, come risulta dal preciso riferimento alla distinzione tra theoprepos e anthropopathos: SF, AA VII 41, trad. it. cit., p. 102. 134 SF, AA VII 41, trad. it. cit., p. 102. 135 Il terzo principio viene precisato con questa importante integrazione: «I passi, che sembrano contenere una dedizione semplicemente passiva a una forza esterna che susciterebbe in noi la santità, devono quindi essere interpretati in modo da rendere evidente che noi stessi dobbiamo applicarci allo sviluppo della disposizione morale che è in noi» (SF, AA VII 66, trad. it. cit., p. 105). 136 Per un esame dettagliato di questi quattro principi rimandiamo a H. d’Aviau de Ternay, Traces bibliques dans la lois morale chez Kant, cit., pp. 220 sgg., che li valorizza sensibilmente. Invece E. Katzer, Kants Prinzipien der Bibelauslegung, cit., pp. 108 sgg., considera questi principi come derivati rispetto al principio ermeneutico generale enunciato nella Religion, secondo cui la Scrittura serve al miglioramento morale dell’umanità. Secondo lui l’ermeneutica kantiana si basa fondamentalmente su questo unico principio. 137 SF, AA VII 61 sgg., trad. it. cit., pp. 130 sgg.

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letteralmente (filologicamente) conforme al senso dell’autore», mentre definisce dottrinale (doktrinal) quell’interpretazione in cui «lo scrittore è libero d’attribuire [unterzulegen] (filosoficamente) al passo della Scrittura quel senso che l’esegesi gli conferisce dal punto di vista pratico morale (per edificare il popolo)»138. Il campo dell’hermeneutica sacra risulta così suddiviso in due ambiti di influenza chiaramente delimitati: il primo è di competenza del dottore della Scrittura (Schriftgelehrter), il secondo del filosofo laico o di ciascun essere razionale. In questo modo la «ermeneutica dei dottori della Scrittura [Hermeneutik der Schriftgelehrten]»139 si distingue dalla interpretazione dottrinale, che non pretende sapere (empiricamente) quale senso abbia collegato alle sue parole l’autore sacro, ma quale dottrina la ragione può attribuire [unterlegen] (a priori), dal punto di vista morale, ad una sentenza che sia il testo scritturale dell’interpretazione140.

In conclusione, Kant sostiene la superiorità dell’interpretazione morale (detta «dottrinale») – l’unica conforme al principio dell’introduzione del senso e del comprendere meglio – con queste parole: l’orientamento all’insegnamento popolare devono darlo non l’erudizione scritturale [Schriftgelehrtheit] e quanto per suo mezzo si ricava [herauszieht] dalla Bibbia con conoscenze filologiche che spesso sono solo disastrose congetture, ma quanto si immette [hineinträgt] in essa con un modo morale di pensare (quindi secondo lo spirito di Dio), unitamente a dottrine che non ingannano mai e non possono essere mai prive di effetto salutare. Si deve cioè usare il testo solo (o almeno principalmente) come occasione [als Veranlassung] per tutto ciò che […] migliora i costumi senza dover per questo indagare quale mira avessero avuto in mente gli autori sacri141.

Rispetto al trattato sulla religione e agli altri testi esaminati in precedenza, lo Streit si segnala per aver fornito una conferma del principio ermeneutico dell’introduzione del senso al di là della lettera (e della mens auctoris); inoltre la sua peculiarità consiste nello sforzo di chiarire che l’immissione del senso non è un’invenzione esclusivamente soggettivistica. Dalle molte 138

SF, AA VII 66, trad. it. cit., p. 137. Vale la pena segnalare che qui Kant usa la locuzione latina hermeneutica e il neologismo tedesco Hermeneutik (SF, AA VII 66; trad. it. cit., p. 137 sg.), al posto di Auslegungskunst e Interpretation (oppure al posto dei termini più generici Auslegung e Deutung), a conferma della conoscenza della terminologia tecnica in uso nell’ermeneutica settecentesca. Confrontando i numerosi passi della Religion e dello Streit esaminati, siamo ora in grado di precisare lo specifico vocabolario tecnico dell’ermeneutica kantiana. Esso è formato dai termini unterlegen, «porre sotto», «attribuire», hineinlegen, «introdurre», hineintragen, «immettere». Tutti questi verbi definiscono l’interpretazione non come rispecchiamento passivo della mens auctoris, ma come procedimento attivo che coinvolge personalmente l’interprete secondo il principio del comprendere meglio. 140 SF, AA VII 67, trad. it. cit., p. 138. 141 SF, AA VII 68 sg., trad. it. cit., p. 141. 139

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FRANCESCO CAMERA

affermazioni kantiane emerge infatti che il senso può essere introdotto solo in quanto è già presente in ciascun interprete sotto la forma della legge morale che è santa e divina. L’interpretazione morale non è dunque un’operazione che dipende dall’arbitrio dell’interprete, bensì con essa «il Dio in noi è lui stesso l’interprete» (der Gott in uns ist selbst der Ausleger). Si tratta di un’integrazione importante, che evidenzia come alla base della posizione kantiana vi sia un’implicita circolarità ermeneutica tra autore e interprete. Nell’interpretazione orientata al principio della moralità «noi comprendiamo soltanto colui che ci parla per mezzo del nostro intelletto e della nostra propria ragione», ovvero colui che parla nella nostra coscienza142. Infatti: «il Dio che parla tramite la nostra ragione (pratico-morale) è un interprete [Ausleger] infallibile e universalmente intelligibile di questa sua parola, e di essa non può assolutamente esserci un altro interprete accreditato (per esempio in base al metodo storico): perché la religione è un puro fatto di ragione»143. Ancora una volta Kant ripete che non è importante ciò che sta scritto, la morta lettera, ma lo spirito che soffia nel testo e che l’interprete vi immette (hineinträgt) ascoltando la voce della propria coscienza morale che si accorda con l’intenzione dell’autore, arrivando a comprenderla meglio di quanto potesse fare lui stesso perché la realizza praticamente. Solo l’interprete moralmente orientato (ispirato) mette in atto la vera lettura del testo biblico. Questa conclusione rappresenta un’importante sottolineatura dello Streit rispetto alla Religion144. Essa chiarisce che l’interpretazione non è la proiezione di pensieri soggettivi arbitrariamente attribuiti al testo dall’esterno, ma è un’operazione che entra in contatto col pensiero dell’autore, il quale parla nell’intimo della coscienza del singolo attraverso la voce del comandamento morale. L’autore rimane «interprete infallibile e universalmente intelligibile della sua parola»145, ma può essere tale solo attraverso l’esplicitazione personale che il singolo interprete mette liberamente in atto. Ci sembra che questa importante integrazione sia conforme al principio della costruzione o dell’introduzione del senso morale, alla tesi del comprendere meglio e allo schema del giudizio riflettente. Ci sembra infatti che 142

SF, AA VII 48, trad. it. cit., p. 112. SF, AA VII 67, trad. it. cit., p. 139. 144 Questo aspetto è stato opportunamente rilevato da H. d’Aviau de Ternay, Traces bibliques dans la lois morale chez Kant, cit., p. 230, che commentando queste affermazioni kantiane richiama il principio agostiniano del Deus intimior intimo meo. Inoltre, a suo avviso, questa integrazione indicherebbe una rivalutazione in positivo del ruolo svolto dalla rivelazione e getterebbe anche una nuova luce sulla posizione kantiana nei confronti dell’origine ispirata del testo biblico. In effetti in SF, AA VII 63 sgg., trad. it. cit., pp. 133 sgg., troviamo alcune osservazioni sulla «natura divina» della Bibbia o sulla «divinità del suo contenuto morale», che non erano presenti nella Religion. 145 SF, AA VII 67, trad. it. cit., p. 139. 143

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ERMENEUTICA

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nell’atto interpretativo si venga disegnando un movimento che richiama la classica figura del circolo ermeneutico: l’autore, ispiratore del contenuto del libro sacro (pur non essendone l’autore materiale), suggerisce il senso spirituale all’interprete che lo immette nel testo; attraverso il libero ascolto l’interprete recupera l’intenzione dell’autore, ma anziché rispecchiare in modo impersonale la mens auctoris la traduce nella propria situazione e la trasforma in intenzione morale pura. In questo modo l’atto che immette il senso nel testo, che si sforza di comprendere meglio andando al di là della lettera, perde la valenza soggettivistica e antropocentrica. L’atto del comprendere meglio non va inteso come affermazione di superiorità dell’interprete rispetto all’autore del testo, ma come un invito alla traduzione e alla spiegazione del senso implicito in quelle narrazioni che ad una prima lettura sembrerebbero incomprensibili perché distanti dalla situazione vitale di chi legge. Nell’autentico atto interpretativo si disegna un circolo che prevede un originario momento di ascolto ed un successivo momento di esplicitazione o di applicazione pratica del senso, secondo la libertà di coscienza del singolo interprete. Alla luce di queste osservazioni sulla struttura dell’atto interpretativo possiamo cogliere tutta l’importanza del principio supremo dell’ermeneutica kantiana. L’interpretazione morale non solo va al di là di ogni lettera, ma si colloca al di sopra di ogni dettato confessionale e risulta ispirata dal principio della libertà religiosa di respiro universale o ecumenico. Attraverso la difesa di questo principio Kant rivendica per chiunque il diritto di leggere ed interpretare la Bibbia (come qualsiasi altro libro) senza particolari conoscenze tecniche specifiche, senza pregiudizi ideologici o vincoli dogmatici. Dal punto di vista storico si può considerare la tesi kantiana come un coraggioso ampliamento in novitate et identitate spiritus del principio luterano del libero esame, esteso ad ogni essere razionale al di là delle precomprensioni dogmatiche della sola fide. Subordinando l’interpretazione specialistica degli Schriftgelehrten alla libera lettura razionale dei laici, Kant ha insegnato che nel rapporto col testo biblico e più in generale nel dominio del religioso la cosa più importante «non è l’essere cattolici, luterani, genericamente cristiani, buddisti e così via, ma il cercare di essere sempre più e sempre meglio religiosi»146. Ogni uomo, infatti, è tale non in quanto è semplice membro di una chiesa particolare, ma proprio in quanto è originariamente locus revelationis aperto alla trascendenza: in lui si annuncia una pa146 A. Caracciolo, Principio della libertà e principio della confessione nell’itinerario religioso, in Id., Religione ed eticità, Morano, Napoli 1971, p. 107. Per un approfondimento di questa prospettiva rimandiamo a G. Moretto, Rivelazione e universalità della salvezza, in Id., Il principio uguaglianza nella filosofia, ESI, Napoli 1999, pp. 161-213; Id., Principio della libertà e principio della confessione nell’interpretazione filosofica della Bibbia, in Interpretazioni filosofiche della Bibbia, a cura di F. Camera e A. Pirni, cit., pp. 13-31.

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FRANCESCO CAMERA

rola di senso che non è lui a darsi, ma che è lui ad invenire e ad interpretare responsabilmente in libertate spiritus se rimane aperto all’ascolto. È sulla base di questa parola ispirata che egli può comprendere autenticamente sia il testo biblico sia sé stesso, in modo tale che l’atto ermeneutico e la propria destinazione etica si intreccino in modo indissolubile e fecondo nella vita pratica. Ogni uomo diventa interprete non perché in possesso di conoscenze, di tecniche o di strumenti eruditi che gli permettono di spiegare il significato di un versetto biblico che egli ritiene per vero. Piuttosto egli può diventare il più dotto Schriftgelehrter proprio perché è primariamente e costitutivamente umile Ausleger: interprete e uditore della parola di senso che lo interpella nell’intimo della sua coscienza e che secondo la prospettiva kantiana parla nel linguaggio dell’imperativo etico147. Sulla base di queste considerazioni finali ci sembra quindi non azzardato affermare che nell’itinerario del pensiero kantiano la problematica ermeneutica assume un significato strettamente collegato con l’uso pubblico della ragione, con l’esercizio della critica e con la difesa della libertà religiosa. Come abbiamo tentato di mostrare, si tratta di un significato che si accorda con la «rivoluzione copernicana» e che al tempo stesso coinvolge la destinazione del singolo, che nell’esperienza ermeneutica della lettura si apre all’annuncio del senso etico e religioso. Al di là delle periodizzazioni e delle analisi testuali, questa prospettiva ci insegna a coniugare la dimensione ermeneutica dell’ascolto con quella dell’impegno etico: ci invita a collegare l’interpretazione con la testimonianza.

147 Per lo sviluppo di questa prospettiva ermeneutica, basata sull’esperienza dell’annuncio e dell’ascolto, ci sia concesso rinviare a due nostri lavori: L’ermeneutica tra Heidegger e Levinas, Morcelliana, Brescia 2001, e Sotto il segno di Ermes. Pensare in prospettiva ermeneutica, il melangolo, Genova 2011.

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Stefano Besoli

Fenomenologia

0. Si deve forse a un uso reiterato e disinvolto, quando non addirittura irresponsabile, della fraseologia kantiana, se la crescente esibizione d’identità trascendentale da parte della fenomenologia di Husserl è stata spesso scambiata – sia per lo sfruttamento mimetico, non propriamente sorvegliato, del lessico concettuale idealistico, sia per la ricorrente sottolineatura di affinità e anticipazioni sul versante del criticismo – con il tentativo di rifluire e prender posizione nell’alveo della «grande filosofia tedesca» o, ancor più, con l’ambizione di contendere, a un declinante movimento neokantiano, l’eredità di un patrimonio intellettuale così cospicuo. Su questa base, si è infatti di frequente considerato il programma trascendentale della fenomenologia come una sorta di variante dell’idealismo riconducibile a Kant, dando in qualche modo per scontato, con un ricorso sterile alla doppia negazione, che non possiamo non dirci kantiani, giacché in fondo – parafrasando Whitehead su scala più ridotta – la filosofia degli ultimi due secoli non sarebbe altro che il tentativo di ricompitare il pensiero di Kant, certificandone l’assoluta pervasività e preminenza. Tale tendenza prevalente, che prende le mosse dal ritenere la fenomenologia un modo di pensare essenzialmente avverso all’empirismo, coglie dunque nell’incedere della riflessione husserliana, e nell’apparente riorientamento della sua impostazione e delle sue aspirazioni fondamentali, la prova di un progressivo avvicinamento a Kant, riducendo le divergenze riscontrabili a mere accentuazioni stilistiche, al solo fine di proclamare la fenomenologia trascendentale il legittimo erede del trascendentalismo kantiano, e anzi per molti versi d’intravedere in essa il suo effettivo compimento. Tale inclinazione esegetica si è inscritta in una ricostruzione apertamente discontinuista della fenomenologia husserliana, che – accogliendo in maniera pregiudicata la giustapposizione delle fonti del pensiero di Husserl e la conseguente stratificazione interpretativa – non ha saputo impedire a un’ermeneutica improvvisata di accreditare una visione del lavoro filosofico husserliano senza una vera configurazione unitaria, fino a evidenziare nel corso di questa riflessione la presenza di una successione caleidoscopica di posizioni davvero inconciliabili, che ci consegnano un’evoluzione scandita da svolte e rotture, tali da ostacolare l’esigenza di concepire la fenomenologia come ancorata a un preciso disegno teleologico, almeno fino a che la rinascenza degli studi husserliani – in parallelo alla pubblicazione degli scritti inediti e, segnatamente, all’emersione

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STEFANO BESOLI

di quei «manoscritti di ricerca» che rappresentano un precipitato stenografico di «meditazioni monologiche»1 – non ha autorizzato a decretare la profonda unitarietà della fenomenologia husserliana, insieme alla sua autonomia rispetto a molte delle correnti di pensiero alle quali era stata troppo frettolosamente accostata. Nel misurarsi con un’interpretazione costantemente differita, si è giunti quindi a dover prender atto – sulla base d’inequivocabili riferimenti testuali – se non proprio di un’estrema linearità del pensiero di Husserl2, quantomeno di una sua continuità d’ispirazione, dalla quale emerge 1 Cfr. I. Kern, Einleitung des Herausgebers, in E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass. Erster Teil: 1905-1920, Husserliana Bd. XIII, Nijhoff, Den Haag 1973, p. XVIII. Circa il fatto che lo stesso Husserl considerasse i propri manoscritti di ricerca come la «parte più importante» del lavoro della sua vita, proprio perché contenenti una trattazione approfondita di quei problemi che, nelle sue opere edite – stante il loro carattere prevalentemente introduttivo – erano solo abbozzati, si veda la lettera del 5 marzo 1931 indirizzata ad Adolf Grimme, ministro prussiano degli affari ecclesiastici e della pubblica istruzione (cfr. E. Husserl, Briefwechsel, hrsg. von K. Schuhmann in Verbindung mit E. Schuhmann, Bd. III: Die Göttinger Schule, Kluwer, Dordrecht 1994, p. 90). Anche l’autorevole parere di H.L. van Breda conferma che i manoscritti inediti contengono quasi per intero il nucleo della filosofia husserliana: cfr. Maurice Merleau-Ponty et les Archives-Husserl à Louvain, «Revue de Métaphisique et de Morale», 67 (1962), p. 420. 2 Con ciò intendiamo far riferimento alla dispiegata coerenza del progetto di ricerca husserliano, che non contrasta con il tipico movimento «a zig-zag» assunto dal metodo fenomenologico, sia quando esso si applica alla chiarificazione concettuale e ai nessi sistematici propri di ciascuna scienza, sia quando esso svolge le sue funzioni nell’ambito della «considerazione e critica storica». Quest’immagine metaforica relativa all’andamento dell’indagine fenomenologica, che non avviene in linea retta ma appunto in maniera spezzata, è stata evocata per la prima volta da Husserl nelle Logische Untersuchungen (1900-1901), Husserliana, Bd. XVIII, hrsg. von E. Holenstein, Nijhoff, Den Haag 1984; Bde. XIX/1 e XIX/2, hrsg. von U. Panzer, Nijhoff, Den Haag 1984, trad. it. e Introduzione di G. Piana, Ricerche logiche, il Saggiatore, Milano 1968, vol. I, p. 282, ma è poi comparsa ripetutamente in altri luoghi, come ad es. nell’Allgemeine Erkenntnistheorie (Vorlesung 1902/1903) e nella Beilage IX all’Einleitung in die Philosophie del 1922. Tale metafora assume però una particolare pregnanza nel contesto di Krisis, dove – nel mirare a un’«auto-comprensione» in ordine a una problematizzazione del mondo della vita finalizzata all’analisi genetico-costitutiva delle scienze – questo carattere metodico, contrassegnato da un «procedere e retrocedere» a zigzag, finisce per delineare al contempo una «specie di circolo», dal momento che si può giungere a una «piena comprensione degli inizi, solo a partire dalla scienza data nella sua forma attuale e attraverso la considerazione del suo sviluppo. Ma senza una comprensione degli inizi questo sviluppo, in quanto sviluppo di senso, è muto» (Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, Husserliana Bd. VI, hrsg. von W. Biemel, Nijhoff, Den Haag 1954, 19592, trad. it. di E. Filippini, a cura di W. Biemel, con avvertenza e Prefazione di E. Paci, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Introduzione alla filosofia fenomenologica, il Saggiatore, Milano 1961, p. 87). È in tale concezione, non certo ispirata a uno stile architettonico-costruttivo, che si palesa, con la dovuta perspicuità, l’ideale archeologico-decostruttivo che informa la fenomenologia trascendentale husserliana nella sua più pura attitudine ricomprensiva, ovvero in un senso di ricostruzione assai diverso da quello che ha ispirato le varie «metafisiche ricostruttive», volte solo a rendere «razionalmente intelligibile» il valore pre-costituito di ogni scienza obiettiva e, perciò stesso, quello di una metafisica altrettanto ingenua, prigioniera di un manifesto dogmatismo gnoseologico.

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un’esplicitazione graduale dei motivi inerenti a un programma di ricerca che era già ampiamente delineato fin dall’inizio della sua attuazione, per quanto le sue singole istanze non potessero figurarvi ancora in maniera compiutamente tematica, dando così l’impressione di un’eccessiva frammentarietà degli esiti della conduzione fenomenologica e di un’incompatibile convivenza tra anime concettuali divaricate ed esigenze speculative non meno contrastanti. Un’osservazione più ravvicinata delle peculiarità dell’indagine fenomenologica avrebbe però consentito di riconoscere che l’intrinseca unitarietà dello sviluppo della fenomenologia fa apparire come già in larga parte anticipate, in precedenti opere husserliane, quelle variazioni che affiorano di volta in volta nel corso del suo andamento, impedendo con ciò di attribuire a tali approfondimenti dell’analisi intenzionale i tratti di una dirompente anomalia, anche in considerazione del fatto che il tipico lavoro filosofico di Husserl, che ambisce a guadagnarsi lo stile di una «filosofia trascendentale realmente scientifica»3, conferisce «passo passo» ai problemi che si disvelano – seguendo, con singoli riscontri evidenziali, la via von unten aufwärts, nel segno di una Fundierung fenomenologica rispondente al reale processo di costituzione – una formulazione sempre più definita, in virtù di una maturazione di senso per così dire contestuale. In tal modo, nel dipanarsi concettuale della fenomenologia, non si può quindi apparire sorpresi dal progrediente chiarore che riscatta all’improvviso dall’oscurità alcune tematiche, o dall’avventurarsi consapevole di Husserl in territori che, fino a una certa altezza, sembravano interdetti allo sguardo della sua riflessione, poiché tali evenienze rispondono invece a una tendenza di «rifondazione radicale della filosofia»4, inerente a un assetto teleologico che può correttamente definirsi come la «storia della radicalizzazione di un problema»5. Nell’interesse dunque di «salvare la fenomenologia» e non solo i «fenomeni», non ci si può limitare a cogliere la possibile incidenza di Kant sugli sviluppi del pensiero husserliano, o anche solo proporsi di constatare la permanenza, in Husserl, di un’indelebile impronta kantiana, a cui addebitare la riproposizione carsica di alcuni rilevanti aspetti dottrinari, ma occorre evitare di soggiacere alle ambiguità delle sovrapposizioni terminologiche – nelle quali tra l’altro si annidano le più marcate differenze d’impostazione concettuale – per cercare di accedere all’identità della fenomenologia trascendentale, senza preventivamente comprometterla con la messa in risalto di legami del tutto estrinseci tra Husserl e Kant o col solo generico riconoscimento di una pro3

E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 217. E. Fink, Edmund Husserl (1949), ora in E. Husserl, Aufsätze und Vorträge (1922-1937), Husserliana Bd. XXVII, hrsg. von Th. Nenon-H.R. Sepp, Kluwer, Dordrecht 1989, p. 245. Tale articolo costituisce, com’è noto, una sorta di Selbstdarstellung autorizzata. 5 E. Fink, Vorbemerkung des Herausgebers, in E. Husserl, Entwurf einer „Vorrede“ zu den „Logischen Untersuchungen“ (1913), «Tijdschrift voor Philosophie», I (1939), p. 107. 4

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fondità d’ispirazione comune. In ogni caso, se è chiaro che il rapporto tra la fenomenologia husserliana e Kant non può essere derubricato a semplice questione aneddotica o fatto assurgere a problema di ordine esclusivamente storico, anche l’approccio continuista al pensiero di Husserl non appare però a tutta prima facilitato, giacché si tratta di cogliere come possano rientrare, in un’unica cornice filosofica, richiami apparentemente incompatibili, come ad esempio quelli che segnalano il ruolo – per molti aspetti valutato da Husserl in termini tendenzialmente positivi – esercitato da Descartes, Hume e Kant nell’ambito di uno svolgimento peraltro contrastato della filosofia moderna. A questo tipo di argomentazione, che non rimanda certo in Husserl a un eclettismo di fondo, si può nondimeno replicare che l’intero costrutto della filosofia husserliana è l’espressione del tentativo ambizioso di tenere saldamente coniugata la dimensione formale della logica o, detto meglio, della mathesis universalis, in tutta la sua rigorosa esemplarità, con quella della concretezza esperienziale, offerta in prima istanza dall’attualità della psicologia, provocando con ciò la rinascita di una «filosofia prima», che oltre a costituirsi come filosofia nel suo senso più autentico, declina anche le generalità di una scienza fortemente motivata dal punto di vista filosofico, ovvero di una scienza che – nella sua particolarità e autonomia – ha il compito di concernere la «disprezzata dovxa», la quale si trova d’un tratto a dover rivendicare la «dignità di fondamento della scienza, dell’ejpisthvmh»6, riscattandoci da ogni specialismo obiettivato. In Husserl, la congruità dialettica dei due momenti che determinano l’essenza stessa della fenomenologia, quale terreno comune delle diverse filosofie e scienze possibili, trova il suo esercizio in un sempre più marcato atteggiamento trascendentalistico nei riguardi dell’esperienza, alimentato da quel principio della correlazione o «modo di considerazione correlativo»7, che delinea i contorni di una scienza universale di tutte le correlazioni strutturali rilevabili per il tramite dell’intenzionalità, in qualità di filo conduttore dell’analisi fenomenologica, ovvero come concetto non più descrittivamente classificatorio dei modi coscienziali, bensì come concetto operativo che non dota la coscienza di un’ulteriore proprietà naturale essenzialmente qualificante, ma che ne esplicita l’attività costitutiva nella sua più pura funzione teleologica, definendo le condizioni di una problematica di lavoro praticamente sconfinata. Il compito di rilevazione strutturale, che attiene alla fenomenologia come 6 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 183 (traduzione modificata). Per una «giustificazione della doxa», cfr. E. Husserl, Erfahrung und Urteil. Untersuchungen zur Genealogie der Logik (1939), redigiert und hrsg. von L. Landgrebe, Meiner, Hamburg 19997, p. 44. 7 E. Fink, Edmund Husserl, cit., p. 246. In ciò risiede, fin dai suoi esordi, il motivo filosofico fondamentale della filosofia husserliana, giacché «l’unità di tensione» di un «domandare» insieme rivolto in senso oggettivo e soggettivo rappresenta senz’altro l’impostazione più originale e feconda di Husserl, dal cui «crescente approfondimento» si ritiene possa appunto scaturire una «nuova idea di filosofia».

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scienza eidetica materiale, non la vincola infatti alla presunta vocazione giovanile di offrire una registrazione descrittiva del dato fenomenico, ma la espone alla ricostruzione descrittiva della sua costituzione, giacché con lo schema della correlazione – che emerge riflessivamente dall’esperienza stessa – Husserl non compie un’astuzia di ordine speculativo, ma sperimenta sul piano metodologico il primato di una prospettiva trascendentale, che egli aveva promosso assai prima d’impegnarsi in una lettura fenomenologica di Kant. Il privilegio accordato alla correlazione, che elide di principio il problema se qualcosa sia primo o anteriore «secondo natura» o «per noi», assume qui tutta la sua valenza trascendentale nel tematizzare il campo in cui si attuano i nessi operativi che attengono alla problematica costitutiva dell’indagine fenomenologica: ovvero, scoprendo il condizionamento trascendentale cui è sottoposta la stessa «vita» coscienziale «che esperisce il mondo»8, in un processo senza fine nel quale si avvertono – all’interno dell’esperienza costitutiva svolta dalla soggettività – solo i limiti talora imposti dai margini sfuggenti della temporalità e dell’alterità. A partire da qui, l’analisi fenomenologica acquista un dinamismo che deriva non solo dal fatto che l’intenzionalità – per questo non più ridotta staticamente ad «essere», ma abilitata a dirsi a pieno titolo «fungente»9 – realizza un continuo superamento di sé, ma che anche il dato è sempre investito da un’intenzione che lo travalica, in quanto rimanda alle possibilità di una sua esplicitazione da parte della soggettività trascendentale, essendo «relativo» al suo modo di darsi trascendentalmente ad essa10. Con 8 Si può registrare infatti come anche la coscienza riceva un condizionamento trascendentale da parte della sua stessa attività costitutiva, e precisamente dalla «corrente di vita», dalla costituzione della temporalità immanente che impone una «rigida legalità» alla «vita di coscienza», che risulta così pensabile solo come data originariamente in una «forma essenzialmente necessaria di fatticità», ovvero nella forma della «temporalità universale». Come dire che la soggettività trascendentalmente costitutiva subisce il condizionamento di una temporalità che essa stessa produce, posto però che non potrebbe non produrla, potendo essa sussistere solo come attività che costituisce e si costituisce nel tempo. Su ciò si veda ad es. E. Husserl, Formale und transzendentale Logik. Versuch einer Kritik der logischen Vernunft (1929), Husserliana Bd. XVII, hrsg. von P. Janssen, Nijhoff, Den Haag 1974, trad. it. a cura di G.D. Neri, con Prefazione di E. Paci, Logica formale e trascendentale. Saggio di critica della ragione logica, Laterza, Bari, 1966, p. 389. 9 Cfr. G. Brand, Welt, Ich und Zeit. Nach unveröffentlichten Manuskripten Edmund Husserls, Nijhoff, Den Haag 1955, trad. di E. Filippini, con Introduzione di E. Paci, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, Bompiani, Milano 1960, p. 69. 10 Cfr. al riguardo E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 335. Per non alimentare una concezione vagamente assolutistica della soggettività trascendentale, Husserl precisa che benché solo essa sia «in sé e per sé», tale carattere le vada riconosciuto in un «ordine graduale corrispondente alla costituzione che conduce ai diversi gradi dell’intersoggettività trascendentale», la quale è sua volta «in sé e per sé» nel «genere d’essere dell’“assoluto”», come accade del resto per tutto ciò cui appartiene, per essenza, la «possibilità della presa di coscienza» (ivi, p. 335 sg.). Sul fatto che la fenomenologia trascendentale non annulli peraltro il senso del mondo e nemmeno lo relativizzi, ma appunto lo «relazionalizzi», cfr. H. Drüe, Edmund Husserls System der phänomenologischen Psychologie, de Gruyter, Berlin 1963, p. 248 sg.

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ciò, l’analisi intenzionale, nella sua duplice veste costitutiva e genetica, non è che il metodo attraverso cui si esplicita l’operatività insita – in maniera fungente, e quindi non tematica – nelle esperienze di stampo conoscitivo, liberando le implicazioni presenti in ogni datità11, al solo scopo di esplicitare le potenzialità che le ineriscono in forma anonima, quali orizzonti di senso passibili di essere investigati nella duplice prospettiva di una progettualità ancora implicita e di una retrospezione in una «storia sedimentata», da disvelare nell’ordine di un’«immanente teleologia». Dal fungere sotto traccia dell’intenzionalità, che conferma così la propria disposizione a mantenersi nell’anonimia, scaturisce quel monstrum paradossale che fa dell’analisi intenzionale una sorta di «descrizione costitutiva»12, la quale non si limita a calarsi regressivamente in un’unità di senso già compiuta, rispecchiando cioè gli stati presenti nell’attualità coscienziale, ma procede a «mettere in luce» – battendo la via dell’indagine fenomenologica più radicale – i diversi livelli di una «costruzione stratificata» in cui, nel quadro di una «storia» coscienziale «mai interrotta», si sono per l’appunto costituite «formazioni di senso» di grado sempre più elevato13. L’inseguire, con attenzione tematica, tutto ciò che nella costituzione è avvenuto in modo implicito, latente e largamente inconsapevole, non lascia però le cose inalterate, ma produce un «arricchimento di senso» che ha un immediato valore costitutivo, e non solo ricognitivo, nella misura in cui chiarisce la portata operativa di certe attività, dando esplicito riempimento, in termini intenzionali, a un orizzonte destinato altrimenti a restare una cornice del tutto vuota, dalla quale per contro può emergere una sempre più prossima determinazione di ciò che risulta dal 11 Cfr. G. Brand, op. cit., pp. 87 sgg. Sul carattere peculiare dell’analisi intenzionale in Husserl, cfr. Logica formale e trascendentale, cit., p. 258, ma si veda anche p. 14, dove si parla di un’«esplicitazione intenzionale del senso proprio della logica formale» (trad. in parte modificata), lasciando palesare con ciò che anche la logica formale non può prescindere da un retroattivo condizionamento trascendentale che, nell’ambito della più generale impostazione correlativa della fenomenologia, mostra come ogni ejleuqevra qewriva debba in fondo riconoscere l’invalicabile orizzonte empirico del suo stesso contesto di operatività, rinunciando a un distacco dal mondo che comporterebbe una libertà solo negativa, del tutto priva di senso, per prendere invece coscienza della compromissione mondana del lovgo~, la quale si risolve in un ampliamento dell’esperienza, proprio in considerazione che è il senso stesso della logica, o della mathesis che dir si voglia, a richiederne l’essenziale inerenza al mondo. Per una caratterizzazione della logica tradizionale come «logica del mondo», cfr. E. Husserl, Erfahrung und Urteil, cit., p. 36 sg. Sui lineamenti dell’analisi intenzionale si veda anche E. Husserl, Cartesianische Meditationen (1931), Husserliana Bd. I, hrsg. von S. Strasser, Nijhoff, Den Haag 1950, trad. it. di F. Costa, con Presentazione di R. Cristin, Meditazioni cartresiane, con l’aggiunta dei Discorsi Parigini (1929), nuova ed. riveduta, Bompiani, Milano 1989, pp. 75 sgg. 12 Ivi, p. 89. 13 Cfr. E. Husserl, Analysen zur passiven Synthesis. Aus Vorlesungs- und Forschungsmanuskripten 1918-1926, Husserliana Bd. XI, hrsg. von M. Fleischer, Nijhoff, Den Haag 1966, trad. it. di V. Costa, a cura e con Presentazione di P. Spinicci, Lezioni sulla sintesi passiva, Guerini, Milano 1993, p. 286.

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processo costitutivo. Lungi dal rispondere quindi all’ideale costruttivo tipico del trascendentalismo classico, in relazione a cui i «pieni poteri» dell’intelletto svolgono una funzione sintetica di ordine fondamentalmente prescrittivo, il compito costitutivo assunto dall’immane progetto fenomenologico sviluppa semmai un’inclinazione analitica tesa ad esporre, in modo articolato e attraverso una microscopica stratigrafia, tutti gli snodi di una «vita trascendentale» che attende di vedere svelate quelle funzioni costitutive a lungo operanti in condizioni di anonima e passiva intenzionalità, come quelle che ad es. qualificano il costituirsi dell’orizzonte trascendentale del tempo, al cui interno deve necessariamente compiersi la stessa analisi del «senso dell’essere», proprio perché – con il grado di passività e latenza che compete alla genesi del flusso temporale – la coscienza del tempo può ritenersi addirittura il «luogo originario»14 della costituzione in generale, non rappresentando infatti una matrice formale, ma al contrario la matrice stessa della forma, radicata com’è nelle insondabili profondità della materia vivente. Nell’assumere a tema quel genere di operatività recondita che è l’intenzionalità fungente, l’analisi intenzionale ne diviene quindi la «descrizione esplicitante»15 con riguardo alle sue varie modalità d’esecuzione, condannando con ciò la possibilità di ascrivere a qualsiasi dato ontico una connotazione individuale, una conclusività originaria, ovvero una datità assoluta e non eventualmente solo un’originarietà costituita come tale, giacché l’avversione al naturalismo della fenomenologia si esprime anche nel carattere apriorico-materiale delle indagini costitutive, che mirano a rilevare in chiave eidetica la presenza di strutture relazionali o a «leggere» – interpretandole – intere compagini associative di nessi sintattici, stante infatti che per il disegno teorico della fenomenologia il «singolare è eternamente l’¥peiron»16. La scoperta dell’intenzionalità, che rivela la sua carica dirompente con l’iniziale messa a punto del tema della riduzione, nutre però alla base il «problema del fungere dell’intenzionalità» come autentico abbrivo della fenomenologia17. Questo tipo d’intenzionalità precede, nell’ordine delle cose, quella obiettivante o d’atto – che realizza un conferimento di senso del tutto estrinseco – proprio in quanto palesa una funzione latente e di pura passività anche al livello infimo dei dati iletici, che mostrano infatti di essere in qualche modo relazionati da 14

Ivi, p. 180. G. Brand, op. cit., p. 93. Sul senso della «descrizione intenzionale», concepita essa stessa come un «modo del fungere», si veda E. Fink, Das Problem der Phänomenologie (1939), ora in Id., Studien zur Phänomenologie 1930-1939, Nijhoff, Den Haag 1966, p. 22. 16 E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft (1910/1911), ora in Id., Aufsätze und Vorträge (1911-1921), Husserliana Bd. XX, hrsg. von Th. Nenon-H.R. Sepp, Kluwer, Dordrecht 1987, trad. it. di C. Sinigaglia, con Prefazione di G. Semerari, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 62. 17 Cfr. G. Brand, op. cit., p. 86. 15

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uno schema non fortuito, tale da costituire passivamente quelle affezioni che manifestano una direzione in cui si profila il senso d’essere delle cose, prima che ciò risvegli quel carattere di attività o presa d’atto con cui, al termine di un processo connaturato al terreno della passività, la riflessività coscienziale giunge a constatare la propria emergente fisionomia. È in tema, infatti, di genesi dell’io, o d’indagine archeologica della soggettività trascendentale, che Husserl – all’inizio degli anni Venti, ovvero della congiuntura dedicata agli studi genealogico-costitutivi inerenti ai tratti della passività esperienziale – afferma con chiarezza che «il grande tema della filosofia trascendentale è la coscienza in generale in quanto costruzione stratificata delle operazioni costitutive. In queste si costituiscono in livelli o strati sempre nuovi sempre nuove oggettività, si costituiscono oggettività di tipo sempre nuovo, si sviluppano sempre nuovi tipi di datità originali e, relativamente a queste, si preparano sempre nuove vie di un possibile accertamento, di possibili idee dell’essere vero»18. Con tale riconoscimento dei limiti della soggettività, incapace di proporsi nella veste cartesiana di principio assoluto o di cominciamento radicale, la tematizzazione dell’implicito e delle modalità intenzionali operanti in forma per così dire clandestina obbliga la fenomenologia trascendentale a dismettere ogni eventuale pretesa intellettualistica, per prender coscienza, col più alto rigore scientifico, della soggettività trascendentale, disponendosi solo ad attuare l’«autoesplicitazione della soggettività», con cui essa diviene appunto «cosciente delle sue funzioni trascendentali»19, senza che tale compito fenomenologico comporti la velleità di erigere qualcosa di analogo all’edificio di una ragione pura. Se quello dell’intenzionalità fungente è, dunque, l’«autentico problema trascendentale»20, tale forma antepredicativa d’intenzionalità è al tempo stesso il motore della fenomenologia trascendentale, dal momento che il compito di una filosofia in tale accezione non riguarda certo il «tentativo assurdo di passare da una fantastica immanenza a una trascendenza non meno fantastica, di localizzare un qualsiasi essere “in sé”, bensì nel discoprimento dell’intenzionalità fungente e nell’analisi del suo fungere»21: in altri termini, si tratta di svelare l’orizzonte strutturale di ogni esperienza, attraverso un mo18

E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 285. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 336. Tale attuazione comporta, per Husserl, un’autoriflessione o una «presa di coscienza scientifica della soggettività trascendentale», quale luogo d’origine dell’analisi costitutiva. In tal senso anche la «filosofia stessa» sarebbe solo un «autodispiegamento sistematico della soggettività trascendentale sotto forma di coglimento teoretico di sé, sistematico e trascendentale, sulla base dell’esperienza trascendentale di sé e dei suoi derivati» (E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, Husserliana Bd. VIII, hrsg. von R. Boehm, Nijhoff, Den Haag 1959, trad. it. di A. Staiti, con Introduzione e cura di V. Costa, Filosofia prima. Teoria della riduzione fenomenologica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, p. 214. 20 G. Brand, op. cit., p. 101. 21 Ivi, p. 105 sg., ma si veda anche p. 108. 19

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vimento ricostruttivo che tematizzi le implicazioni genetico-costitutive a cui ogni ente è trascendentalmente sottomesso. Su queste basi, il compito della fenomenologia trascendentale – che ha come condizione di possibilità il piano fungente dell’intenzionalità – non può rifugiarsi in un banale atteggiamento copernicano che sancisca il senso soggettivo dell’oggettività, ma deve necessariamente esibire – sotto il profilo delle condizioni costitutive – il valore di tale senso, rintracciando in ogni singolo momento condizionante quei caratteri descrittivi che rinviano all’invarianza di nessi relazionali o all’organicità strutturale evidenziabile nelle sedimentazioni di senso già passivamente costituite. In tale percorso, lungo cui si attua la genesi costitutiva dell’io nella sua piena concretezza trascendentale, l’analisi fenomenologica vuole risalire al «“come” dell’intenzionalità fungente»22, ben sapendo però che questo procedimento a ritroso non potrà mai tradursi nel coglimento di un’evidenza originaria, di un termine definitivo, di una «soggettività» talmente «assoluta» da non poterla nemmeno quasi nominare23, giacché questa soggettività primordiale sfugge a una connotazione idealistica e ai poteri assoluti che questa costitutivamente rivendica, ricevendo un intrinseco condizionamento da una genesi passiva di ordine sintetico che esclude ogni propensione husserliana per un falso idealismo coscienziale24. È la stessa inerenza dei dati sensibili al flusso coscienziale che comporta, infatti, un simmetrico dipendere della coscienza dal flusso temporale, cosicché la sua tendenza estatica vige solo come momento astratto e sussiste quindi unicamente in funzione del vissuto. Nell’esigenza di regredire a un «come», che l’analisi fenomenologica fa propria, investendo su un’intenzionalità che può anche essere non troppo paradossalmente definita come «priva di oggetto»25, non si esprime dunque un orientamento speculativo verso l’assoluto, ma solo il requisito metodico di «tematizzare l’evidenza», legandone lo statuto e i rispettivi modi di datità alle mansioni regolative di una nozione, come quella di idea, che non è indice o segno di trascendenza alcuna, ma che vale come schema descrittivo di tutto ciò a cui ci si può solo potenzialmente avvicinare, configurandosi al riguardo come «un’oggettualità categoriale di particolare grado e dignità»26. Dopo aver demolito il mito della sensazione, ovvero di una materia prima scevra di relazioni e ostile a mostrare in forma analitica ulteriori determina22

Ivi, p. 93. Cfr. E. Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (1893-1917), Husserliana Bd. X, hrsg. von R. Boehm, Nijhoff, Den Haag 1966, trad. it. e cura di A. Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), Angeli, Milano 1981, 19852, p. 102. 24 Sull’impianto di genetica passività che fa da sfondo ad ogni attività costitutiva dell’io, cfr. anche E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., pp. 102 sgg. 25 Cfr. al riguardo R. Bernet, La vie du sujet. Recherches sur l’interprétation de Husserl dans la phénoménologie, P.U.F., Paris 1994, p. 326. 26 E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 122, ma si veda anche pp. 340 sgg. 23

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zioni, la fenomenologia husserliana rende definitivamente impraticabile anche il presupposto dell’assoluta trasparenza coscienziale, che le è stato invece spesso erroneamente accreditato come suggello di un’assidua restaurazione del pensiero cartesiano, trascurando però che tale attribuzione conduce a falsificare l’evidenza come modo soggettivo di presenza, invece di considerarla correttamente come l’ostensivo modo di datità di ogni genere di esperienza cosale. L’ideale che incorpora la fenomenologia trascendentale si risolve quindi in un’«autoesplicitazione della soggettività»27 attraverso cui, con motivazioni non molti distanti da quelle freudiane, la soggettività prende coscienza delle sue funzioni trascendentali, non rinunciando al contempo a prender atto del condizionamento naturale a cui è imputabile una via via crescente dotazione di spiritualità. Tale atteggiamento filosofico non può prescindere, tuttavia, dal rilievo secondo cui «qualunque cosa io mi trovi di fronte, in quanto oggetto esistente [...] ha ricevuto per me tutto il suo senso d’essere dalla mia intenzionalità operante», che occorre interrogare per esplicitarla, al fine di «rendere comprensibile il senso stesso a partire dall’originarietà dell’operazione che costituisce il senso»28. Ma sullo sfondo di tale consapevolezza acquisita resta quello strato d’«intenzionalità vivente» che non necessita ad ogni costo della filosofia, continuando ad assicurare alla «naturale condotta di pensiero» un certo cammino, a prescindere che tale intenzionalità venga svelata o resti a svolgere, in maniera anonima, quelle funzioni che la consacrano come vitale nella sua persistente mondanità29. L’opportunità di procedere filosoficamente non rappresenta dunque un passo obbligato: ci si può infatti continuare a perdere, senza pericoli, nell’ingenua naturalità della vita, con il solo limite di non poterne poi rintracciare il senso nella sua compiuta e autentica finalità. L’esercizio fenomenologico diviene perciò il discrimine essenziale, se si vuole – a séguito di una necessaria epochizzazione che ci allontana provvisoriamente dal mondo come qualcosa di già dato – attuare quella tematizzazione dell’attività trascendentalmente costitutiva, recuperando a livello di strutture operative il senso che ci è donato, in origine, dall’orizzonte trascendentale del mondo, e quindi dal telos immanente alla vita stessa. Ma la fenomenologia non sarebbe davvero trascendentale se si accontentasse di ritrovare il senso della mondanità, divaricandosene con una semplice istanza riflessiva. Su qualsiasi impostazione filosofica di ascendenza trascendentale – che deve costantemente oltrepassare ogni dato, per garantirsi quanto meno l’idea di poter accedere a una fonte costitutiva assoluta peraltro fenomenologicamente inattingibile – incombe sempre il rischio d’incorrere in

27

Ivi, p. 336. Si veda però anche Id., Meditazioni cartesiane, cit., pp. 106 sgg. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 290. 29 Cfr. ivi, p. 290 sg. 28

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ulteriori naturalizzazioni, ovvero in un’«ingenuità di grado superiore»30, come quella ad es. esibita, in epoca moderna, dal metodo delle scienze e dalla loro conseguente autonomizzazione, ma a cui non sfugge di certo per Husserl lo stesso trascendentalismo kantiano, con il suo portato di forme alquanto cristallizzate. Il concreto pericolo di operare una reificazione dello stesso apparato trascendentale può essere però sventato se ci s’impegna a tematizzare lo stesso procedimento in cui ha luogo la riflessione trascendentale. Solo attraverso l’incessante movimento impresso all’analisi intenzionale ci si accorge infatti che l’evidenza non può essere quella datità originaria che renderebbe inutile, da ultimo, la stessa fenomenologia, per cui anche Husserl giunge a riconoscere che l’essersi a suo tempo assestato sul metodo di un corretto «vedere» fenomenologico lo ha portato a confondere la fine di ogni saggezza con ciò che ne rappresentava unicamente l’inizio31. Di conseguenza, seppure con un certo ritardo, egli ammette che anche la possibile attuazione della «critica delle evidenze» – e in particolare, tra quelle logiche, delle «evidenze di giudizio» inerenti all’attività categoriale – vada situata nel quadro della fenomenologia trascendentale, assumendo inoltre che tale critica debba farsi carico di una «critica ultima nella forma di una critica delle evidenze effettuate dalla fenomenologia del primo grado, che in sé è ancora ingenuo. Ma ciò significa che la critica della conoscenza in sé prima, in cui ogni altra ha le sue radici, è l’autocritica trascendentale della conoscenza fenomenologica stessa»32. In questo modo la soggettività trascendentale husserliana assume su di sé l’onere di una responsabilità che la proietta al di là di un’ingenuità inevitabile, ma comunque da riscattare, per chiarire il senso della verità nel quadro di una «metodica di genere interamente nuovo», ovvero di un’«intenzionalità orizzontica» che non si chiude in un’analisi categoriale e statica, pronta ad accogliere il dogmatismo di una datità assoluta in sé definitiva, ma apre – nel segno di una genesi dinamica a guida temporale – all’esplicitazione di rimandi a sempre nuove potenzialità, che nella loro «indeterminatezza» fanno però tutt’uno con il senso dell’analisi costitutiva, rappresentandone per l’appunto l’ideale di «determinazione»33. 1. Come elemento strutturale e originario dell’esperienza fenomenologica, la correlazione diviene dunque il luogo in cui si estrinseca la natura stessa del 30

Ivi, p. 4 (Introduzione). Cfr. ivi, p. 342. 32 Ivi, p. 353 sg. (trad. in parte modificata). In una nota Husserl accenna tra l’altro di aver tentato di attuare tale critica nelle lezioni del semestre invernale 1922-1923 (cfr. Einleitung in die Philosophie. Vorlesungen 1922/23, Husserliana Bd. XXXV, hrsg. von B. Goossens, Kluwer, Dordrecht 2002). 33 Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., pp. 73 sgg. Sulla struttura orizzontica dell’esperienza si veda anche Id., Erfahrung und Urteil, cit., pp. 26 sgg. 31

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trascendentale husserliano, al punto da meritare la qualifica di «a priori universale della correlazione»34. La caratteristica principale della «meravigliosa correlazione»35 – cioè del «fatto» davvero «mirabile»36 che consente di approfondire il costituirsi di un oggetto della conoscenza nella conoscenza, concepito altresì come legame che trattiene il mondo, nella sua qualità di unità intenzionale di tutta l’esperienza, come orizzonte che regola di principio ogni manifestazione costitutiva – è quella di precedere i termini stessi tra i quali la correlazione si stabilisce. Questo aspetto ne fa però qualcosa di diverso da una semplice relazione, trasformandola in una sorta di contenuto che esemplifica il carattere organicistico dell’esperienza fenomenologica. Tutti gli eventuali termini della correlazione devono dunque essere visti come secondari rispetto alla correlazione stessa, cosicché tale logica si orienta anzitutto a superare le opposizioni che hanno puntualmente condizionato la gnoseologia classica, e in particolare quella tra soggetto e oggetto. Sotto questo profilo, anche la riflessione trascendentale, che opera questo reticolo di connessioni, non va più intesa come una proprietà della coscienza singola o come un suo stato privato e come tale soggettivo, ma va vista invece come il tratto auto-relazionale di tutta l’esperienza. In altri termini, si tratta dell’aspetto attraverso cui l’esperienza è in grado di stabilire un rapporto riflessivo, focalizzandosi in diversi poli e all’interno di vari campi di forza finalistici. Tutto ciò spiega anche perché, di volta in volta, possano fungere da telos dell’indagine correlativa l’ego o l’alter-ego, la natura, il mondo o la società, e soprattutto perché il campo dell’esperienza effettiva sia sempre il più complesso da analizzare, in quanto risultante dell’intersezione di poli atteggiati in maniera così diversa. In questo senso, l’io stesso non merita un primato, anche solo relativo, giacché è sempre necessario procedere alla definizione di schemi pluralistici e all’analisi delle relative implicazioni, non facendosi inibire dalla loro apparenza aporetica. Lungo l’asse sul quale scorre l’intenzionalità fungente si attua dunque l’impostazione trascendentale della correlazione, che dà buona prova di sé evitando – nella sua neutralità noetico-noematica – gli eccessi diametrali del platonismo e del naturalismo, ed è soprattutto in tale ambito che si avvia la 34

Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., pp. 186 sgg. E. Husserl, Die Idee der Phänomenologie. Fünf Vorlesungen, Husserliana Bd. II, hrsg. von W. Biemel, Nijhoff, Den Haag 1950, 19732, trad. it. di A. Vasa, a cura di M. Rosso, con Introduzione di A. Vasa, L’idea della fenomenologia. Cinque lezioni, il Saggiatore, Milano 1981, 19882, p. 53, ma anche p. 102. 36 Cfr. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, Husserliana Bd. III/1 e III/2, hrsg. von K. Schuhmann, Nijhoff, Den Haaag 1976, trad. it. e cura di V. Costa, con Introduzione di E. Franzini, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo: Introduzione generale alla fenomenologia pura, vol. I, Einaudi, Torino 2002, p. 401 (si tratta di un’appendice dell’autunno del 1929, relativa al § 46). 35

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tematizzazione dell’operativo37, come espressione del trascendentale nella sua più ampia estensione costitutiva. In questo regime di pura correlazione, la soggettività trascendentale, che non ha nulla di soggettivo nell’accezione comune, né tanto meno presenta tracce di ordine naturalistico o psicologico, si limita a tirare le fila di un insieme strutturato di attività, senza per questo divaricare il rapporto con l’opposta datità fenomenica, di cui ambisce a ricostruire il senso oggettivo. In una trama fatta di reciproci intrecci, essa assume però anche una prerogativa quasi ontologica, che – spettandole in qualità di irrinunciabile condizione di possibilità di darsi dell’essere in quanto tale – conferisce al versante soggettivo della correlazione solo una più dichiarata funzione trascendentalmente costitutiva, benché i termini dello schema correlativo continuino a conservare intatta la loro co-originarietà. In attesa di poter offrire al tema della correlazione un’elaborazione sistematica, l’iterazione che scandisce i risvolti dell’analisi intenzionale – nel suo richiamo costante allo svelamento fondazionale del «come» – delinea però già il campo della fenomenologia trascendentale, che ha perciò le fattezze di una fenomenologia della fenomenologia, in cui non c’è più spazio né margine applicativo per categorie naturalistiche, dal momento che l’intenzionalità, «come potenzialità vivente delle implicazioni della coscienza»38, non mostra più interesse per il semplice oggetto o dato di fatto, bensì s’interroga sui suoi modi di datità, generando un sistema di tutte le sue possibili modalizzazioni, comprensivo di quelle anche solo implicite che incrementano il senso del dato originario, in ragione dell’inerenza a una dimensione esperienziale strutturalmente orizzontica 39. 37 Si deve a Eugen Fink il merito di aver posto all’attenzione il divario esistente tra concetti tematici e concetti operativi, e di aver inoltre problematizzato la presenza di concetti operativi nella fenomenologia husserliana. I concetti tematici sono quelli attraverso cui il pensiero fissa il proprio oggetto, mentre quelli operativi – che rappresentano «l’ombra di una filosofia» – sono quelli di cui il pensiero si serve per formare i concetti tematici e dunque per mettere a punto il proprio tema. La forza chiarificatrice di un pensiero si nutre sempre di ciò che resta in ombra nel pensiero stesso, ma che proprio per questa sua funzione operativamente defilata non è «al di fuori dell’interesse», ma è «l’interesse stesso». La tensione tra tematico e operativo si trasforma però a sua volta, nel pensiero husserliano, in un tema, e ciò si verifica con il metodo della riduzione fenomenologica, nel quale i concetti operativi vengono sottratti alla loro ombreggiatura, riuscendo Husserl a dare a tale distinzione anche una tematizzazione espressiva, con il ricorso a formule linguistiche che oppongono l’ingenuità alla riflessione, l’atteggiamento naturale a quello trascendentale. Fink si sofferma infine sulla natura operativa del concetto di costituzione, sul senso ingenuo e sull’uso speculativo di tale nozione, sostenendo che Husserl non sarebbe riuscito a fare sufficiente chiarezza su di essa, proprio per non aver posto risolutivamente il problema di un «linguaggio trascendentale» (cfr. E. Fink, Operative Begriffe in Husserls Phänomenologie (1957), ora in Id., Nähe und Distanz. Phänomenologische Vorträge und Aufsätze, hrsg. von F.-A. Schwarz, Alber, Freiburg i.Br./München 1976, pp. 180-204). 38 C. Brand, op. cit., p. 69. 39 Cfr. ibid., dove si dice che l’oggetto viene còlto nel suo «a partire da che cosa» e nel suo «verso che cosa», per cui la «coscienza di esso è il confluire di molteplici varietà della coscienza,

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L’investimento sulla problematica della correlazione prelude quindi direttamente a un programma sempre più articolato di fenomenologia trascendentale, per cui in senso stretto non si può più dire né che la fenomenologia sia divenuta trascendentale, né che il naturale decorso del pensiero husserliano sia stato interrotto da una conversione – alla stregua di un’ascesi mistica derivante da una profonda crisi religiosa40 – o che abbia addirittura subito un’inversione di tendenza, giacché il conseguente passaggio a una compiuta realizzazione di una filosofia di stampo autenticamente trascendentale non è imputabile a vicende biografiche o comunque incidentali – quali ad es. lo studio sempre più intensivo di alcune opere di Kant o il proficuo scambio intellettuale avviatosi con Natorp fin dal 1894. Lungi quindi dal poter interpretare la comparsa dell’idealismo trascendentale fenomenologico come un evento estraneo alla natura stessa della fenomenologia – come nella considerazione di coloro che non hanno ritenuto intrinseca tale formazione di pensiero all’adozione del metodo fenomenologico –, l’irruzione a tempo pieno del trascendentale nella prospettiva filosofica husserliana ne sancisce invece l’evoluzione necessaria, oltre che largamente prevista, dato che tale impostazione sistematica va per così dire da sé – matura cioè una sua autonomia dalle influenze che si vuole l’abbiano viceversa indotta – una volta che si sia appunto convenuto sul carattere fondante di certe premesse. Del resto, è lo stesso Husserl a certificare questo tipo di valutazione storiografica, datando al periodo di gestazione delle Logische Untersuchungen la convalida a principio metodico del tema della correlazione. Scegliendo come bersaglio polemico i suoi allievi dei Circoli di Monaco e Gottinga – le cui dottrine sono state etichettate, in maniera derogatoria, come espressione di una sedicente fenomenologia – in una nota di Krisis Husserl conferma infatti che la scoperta dell’a priori universale della correlazione tra l’oggetto dell’esperienza e i suoi modi di datità era avvenuta all’incirca nel 1898, e che da quel momento il suo lavoro di ricerca fu interamente assorbito dal compito di assicurare un’elaborazione sistematica a una novità che era sùbito apparsa così radicale da scuotere il suo pensiero alle fondamenta. Ovviamente, di lì a qualche anno si sarebbe anche preso atto che l’inserimento dei temi riguardanti la soggettività umana nella problematica della correlazione doveva necessariamente apportarvi un ulteriore e radicale mutamento di senso da soddisfare

l’esplicitazione delle quali ci conduce, in definitiva, alla vita della coscienza nella sua totalità», e cioè a quella che Husserl designerà – a partire dalla fase genetica della fenomenologia – come vita trascendentale e costituente. 40 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 166, dove Husserl precisa che l’atteggiamento fenomenologico dell’epoché solo sulle prime potrebbbe essere paragonato a una «conversione religiosa», mentre invece si tratta della «più grande trasformazione esistenziale assegnata all’umanità in quanto umanità» (trad. modificata).

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con la riduzione fenomenologica alla soggettività trascendentale41. Ma a parte gli eventuali fraintendimenti e le incombenti ricadute nell’atteggiamento naturale, era chiaro comunque a Husserl che solo l’idea della correlazione tra il «mondo e i suoi modi soggettivi di datità» – benché già adombrata come motivo nella filosofia presocratica e in certe argomentazioni scettiche della Sofistica – aveva saputo ingenerare un «stupore filosofico», delineando alla svolta del secolo, nell’opera di «rottura» husserliana, un vero e proprio quadro di «fenomenologia trascendentale»42. Tali considerazioni portavano con sé il distacco dal naturalismo psicologico brentaniano, di cui Husserl aveva trasgredito i limiti affidandosi a una diversa nozione d’intenzionalità, non più destinata a rinchiudere la relazione intenzionale nei risvolti di un’immanenza psichica che finiva per sottrarla alla funzione mediatrice tra i termini opposti di ogni correlazione e, più in generale, tra le tematiche reciprocamente complementari della riduzione e della costituzione, dalla cui compenetrazione scaturisce invece il senso del trascendentale fenomenologico, con la bilaterale tematizzazione dell’operativo sia in direzione estetica, sia logica (o analitica). Senza indulgere mai in retrodatazioni strumentali, ma procedendo ad auto-riflessioni che esplicitano il senso delle anticipazioni trascendentali presenti fin dai prodromi della sua avventura filosofica, Husserl chiarisce che l’elemento di novità da attribuirsi alle Ricerche logiche non doveva essere appannaggio solo delle ricerche «meramente ontologiche», ma anche di quelle «orientate soggettivamente» (come la V e la VI Ricerca), nelle quali il metodo dell’analisi intenzionale – svincolato dai rivestimenti naturalistici che l’avevano a lungo condizionato – annuncia nei suoi lineamenti fondamentali quel tema della correlazione, che segna l’«inizio» ancorché «imperfetto» della fenomenologia43. Di certo, Husserl non ha mai rivendicato il carattere realistico delle proprie Ricerche logiche, riconoscendo semmai la presenza in esse di scorci ancora pre-filosofici, dovuti a residui di mondanità, ma si è sempre attenuto con fermezza al giudizio che in tale opera fosse già «frammentariamen41

Cfr. ivi, p. 292 n. 12. Cfr. ivi, p. 192. 43 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 255. Sulla preminenza, dal punto di vista fenomenologico e gnoseologico, di tali ricerche soggettive, Husserl si è espresso chiaramente sia nella Prefazione alla seconda edizione delle Ricerche logiche, sia nell’Entwurf di una nuova prefazione, risalente anch’esso al 1913. Una presa di posizione ancor più netta si ha poi nel discorso celebrativo su Kant del 1924 (Kant und die Idee der Transzendentalphilosophie), in cui si afferma che in tali ricerche «veniva aperta la strada alla fenomenologia della ragione logica [...], erano messi a nudo i principi di una costituzione intenzionale delle oggettualità categoriali nella coscienza pura e veniva elaborato il metodo di un’autentica analisi intenzionale» (E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Erster Teil: Kritische Ideengeschichte, Husserliana Bd. VII, hrsg. von R. Boehm, Nijhoff, Den Haag 1956, trad. it. C. La Rocca, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, in Id., Kant e l’idea della filosofia trascendentale, con Introduzione di G. Funke e Postfazione di M. Barale, il Saggiatore, Milano 1990, p. 122. 42

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te» attuata una «fenomenologia trascendentale», che espone i presupposti di una «fenomenologia della coscienza costituente»44. Peraltro, oltre a essere ben radicate nell’impianto delle Ricerche logiche, analisi di ordine genetico-costitutivo erano già incorporate nel piano concettuale della Filosofia dell’aritmetica, e precisamente laddove la chiarificazione filosofico-esperienziale del concetto di numero richiede di approntare delle analisi logiche e psicologiche che non vengono però ad essere sviluppate su due côtés paralleli, ma che si determinano reciprocamente in ragione della loro correlatività45. Con ciò, nel puntualizzare la presenza di questi motivi trascendentali in un ambito di riflessione solitamente indicato come rivolto a «ricerche neutrali», nel mito di una totale «assenza di presupposti», è come se Husserl avesse voluto al tempo stesso fissare, in forma quasi autocritica, il punto di trapasso in cui la sua filosofia – dapprima assimilata a psicologia descrittiva, fino all’avvenuta revoca di tale identificazione nella recensione a Elsenhans del 1903 – era già però sul punto di diventare fenomenologia trascendentale, e dunque autentica filosofia, non rimanendo cioè un metodo di mera descrizione intuitiva, legata a un correlativismo statico incapace di eccedere gli ambiti della pura datità, per giunta nient’affatto compresa in rapporto all’operatività intenzionale. Di qui l’esigenza di riconoscere a questa nuova filosofia fenomenologica il «diritto di chiamarsi filosofia trascendentale (“fenomenologia trascendentale”), pur con44

Cfr. W. Biemel, Einleitung des Herausgebers, in E. Husserl, Die Idee der Phänomenologie, cit., p. IX sg. (si tratta di una citazione da un manoscritto husserliano, B II 1/27a, del settembre 1908, che in parte consiste nell’elaborazione di un foglio manoscritto dell’anno precedente). Su ciò K. Schuhmann, Die Dialektik der Phänomenologie I: Husserl über Pfänder, Nijhoff, Den Haag 1973, p. 14. Anche in Logica formale e trascendentale, cit., p. 189, Husserl ribadisce come proprio le ricerche così chiacchierate del «secondo volume» abbiano dischiuso la strada «verso una filosofia trascendentale», descrivendo i «passaggi necessari alla posizione e insieme al superamento del problema dello psicologismo trascendentale». 45 Al riguardo, Husserl rileva di aver svolto fin dagli inizi ricerche fenomenologico-costitutive in una lettera a Feuling del 30 marzo 1933 (cfr. E. Husserl, Briefwechsel, cit., Bd. VII: Wissenschaftlerkorrespondenz, in particolare p. 88. sg.) e in Logica formale e trascendentale, cit., p. 105. Tra l’altro, è realizzando come lo psicologismo potesse essere davvero superato solo tematizzando la correlazione tra il momento oggettivo e il momento soggettivo del pensiero, e non certo attraverso un essenzialismo esasperato, fautore – nel segno di una presunta irrelazionalità – di un platonismo o realismo assoluto, che si comprende anche perché il secondo volume delle Ricerche logiche non potesse essere di fatto una ritrattazione dei Prolegomeni. Allo stesso modo, in Logica formale e trascendentale – il testo forse più rivelatore dei compiti e dei destini della fenomenologia – l’esigenza di sottoporre la tematica logica a un’indagine «bilaterale», nella duplice direzione oggettiva e soggettiva, deriva proprio dal tentativo di superare il perpetuarsi di quello «psicologismo trascendentale» che confonde una psicologia della coscienza puramente descrittiva con una fenomenologia trascendentale, ovvero ciò che è costituito con ciò che è costitutivo. Anche in questo caso, il raddoppiamento dell’indagine non è funzionale a una riproposizione surrettizia dello psicologismo, ma svolge fino in fondo una critica delle evidenze logiche, consegnate altrimenti all’ingenuità di un formalismo alquanto problematico, proprio perché sottratto a un’indagine trascendentale orientata alla soggettività costituente.

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trapponendosi a tutte le fenomenologie della cosiddetta scuola fenomenologica, che pure trae la sua motivazione dalle Ricerche logiche. Essa si chiama filosofia “trascendentale” per quanto non costituisca una continuazione, una riplasmazione – un miglioramento o un peggioramento – della filosofia kantiana»46. Accanto a questa presa di posizione così severa nei riguardi di tutti coloro che, all’interno del movimento fenomenologico, usurpavano il titolo di fenomenologia per le proprie concezioni filosofiche, avendo infatti corrotto la calibrata conformazione della filosofia husserliana, fino a farle assumere la forma dimidiata e parziale di un ontologismo realistico47, rispondente solo ai canoni di una fonte intuitiva complice di una palese ingenuità metafisica, Husserl rivolse – con ancora maggiore radicalità – un monito nei confronti della ricezione filosofica più in generale e delle interpretazioni che avevano sconvolto il disegno programmatico della fenomenologia – l’unica filosofia, a suo dire, ad essere autorizzata a chiamarsi trascendentale, anzi «l’unica filosofia trascendentale possibile»48. Con toni sempre più perentori, in cui si registra un senso malinconico ma non vittimistico d’incomprensione, Husserl estende ora la propria requisitoria a quei compagni di strada – Scheler e Heidegger – responsabili più di tutti della generale equivocazione in cui era incorsa la fenomenologia trascendentale, accusata di aver compiuto un tradimento dell’iniziale obiettivismo realistico, un «voltafaccia» idealistico rincarato da una Wendung zum Subjekt viepiù incline a sopprimere i diritti della trascendenza, quando invece i problemi della concretezza esistenziale avrebbero dovuto orientare verso quell’ibrida commistione di richiami ontologici e di assunti empirico naturalistici, che si trova elevata al rango supremo di «antropologismo» o «psicologismo trascendentale»49. Di fronte a uno spettro di frainten46

E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 452 (appendice X, luglio 1936). Com’è noto Husserl non è certo ostile all’ontologia, purché essa non comporti tratti dogmatici. Nell’Erster Entwurf della voce Fenomenologia, scritta nel 1927 per l’Encyclopaedia Britannica – Husserl sottolineava infatti come «la fenomenologia combatta con Kant il vuoto ontologismo delle analisi concettuali, ma come sia essa stessa ontologia, ricavata però dall’“esperienza” trascendentale», ovvero a séguito di una rigorosa neutralizzazione della stessa mondanità psicologica, per porre a tema la trama strutturale dei momenti costitutivi della soggettività operante, in stretta correlazione alle peculiarità essenziali dei modi di manifestazione di cui il mondo, nel suo complesso, è portatore (cfr. Phänomenologische Psychologie, Husserliana Bd. IX, hrsg. von W. Biemel, Nijhoff, Den Haag 1962, 19682, p. 254). 48 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 459 (appendice XIII, forse risalente alla primavera del 1937). 49 Cfr. E. Husserl, Nachwort zu meinen «Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie» (1930), in E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Drittes Buch, Husserliana Bd. V, hrsg. von M. Biemel, Nijhoff, Den Haag 1952, 19712, trad. it. di V. Costa, Postilla alle Idee, in Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, cit., p. 418 sg. Ma si veda anche E. Husserl, Phänomenologie und Anthropologie (1931), in Id., Aufsätze und Vorträge (1922-1937), Husserliana Bd. XXVII, 47

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dimenti così ampio, Husserl passa a raccoglierli per così dire a fattor comune, citando come il «peggiore di tali pregiudizi» quello che «concerne preliminarmente la fenomenologia trascendentale in quanto filosofia che pretende di essere già costituita; si crede cioè di sapere già preliminarmente di che cosa si tratta, quale debba essere la filosofia apoditticamente fondata [...] Qui, all’inizio, esigo soltanto una cosa: che tutti mantengano ben chiusi nel proprio seno i pregiudizi che la riguardano, tutto ciò che si ritiene di sapere preliminarmente sul significato di quei termini a cui io ho attribuito un senso completamente nuovo: fenomenologia, trascendentale, idealismo (idealismo fenomenologico-trascendentale, ecc.); che tutti evitino di ricorrere ad essi, a tutte le argomentazioni che ne fanno uso, che si escluda l’ingerenza di tutto il sapere filosofico già costituito, naturalmente soltanto in via provvisoria. Si stia dapprima a sentire e a vedere ciò che viene proposto, si cerchi di percorrere la stessa via e di vedere dove possa condurre e che cosa ne possa conseguire»50. Malgrado questo estremo tentativo husserliano di dettare le condizioni di un armistizio, basato sull’azzeramento di ogni atteggiamento pregiudiziale, l’invito a non «colpire nel vuoto», ma a confrontarsi con l’effettivo cammino che ha portato la fenomenologia husserliana sulla «vetta del monte», è stato però molto spesso disatteso anche dalle generazioni successive degli studiosi e dei critici. Soprattutto al cospetto del «poema della storia della filosofia»51, composto da Husserl in più occasioni a partire dagli anni Venti, e precisamente nella prima parte di Erste Philosophie e in Krisis, la tentazione di rilevare parentele un po’ troppo ravvicinate, e di fatto nemmeno gradite, è stata fortemente incentivata. Si è infatti molto spesso trascurato che, nel fornire uno spaccato di storia della filosofia – tra l’altro necessariamente costruito a salti – Husserl non intendeva rintracciare, in una mera successione di sistemi filosofici, delle coperture autorevoli per le proprie posizioni dottrinarie, né delineare una sorta di preistoria della fenomenologia, annettendovi tutti quei pensatori in cui era dato evidenziare delle disposizioni fenomenologiche anche solo vaghe. Si trattava invece per lui di mettere a nudo, nella processualità della storia del pensiero, l’«unità della motivazione»52 che permea – in qualità di vettore teleologico indicatore di senso e non come risultato gnoseologicamente accertabile – il divenire storico della filosofia. Recuperare quella motivazione che si era spesso rinunciato a perseguire con la dovuta radicalità o che si era addirittura persa, significava infatti per Husserl rilanciare l’ethos di una «responsabilità di sé» eminentemente filosofica, affidata a scelte operatihrsg. von Th. Nenon-H.R. Sepp, Kluwer, Dordrecht 1988, pp. 164 sg. e 179 sg., dove si replica alle accuse di Scheler definendo la sua posizione una forma di «idealismo ontologico». 50 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 461 sg. (appendice XIII). 51 Cfr. ivi, p. 541 (appendice XXVIII, estate 1935). 52 E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Erster Teil: Kritische Ideengeschichte, cit., trad. it. e Presentazione a cura di G. Piana, Storia critica delle idee, Guerini, Milano 1989, p. 157.

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ve inscritte in una teleologia, che è un’unità intenzionale, e come tale rappresenta un compito infinito. Su questo piano, l’autentica dimensione del trascendentale promossa dalla fenomenologia si candida a liberarci definitivamente dal naturalismo, lasciandosi alle spalle ogni concezione obiettivistica, per coltivare non più in segreto l’«entelechia che è propria dell’umanità»53, risultando infatti da quel decorso filosofico di «umanizzazione dell’uomo»54, che risponde anzitutto a un ideale comunitario. 2. Sotto il profilo dei possibili fraintendimenti, la posizione dei fautori del realismo fenomenologico – ovvero di coloro che hanno predicato la presenza, nel pensiero husserliano, non solo di una discontinuità o di una netta frattura, ma di un’effettiva inversione di rotta – è in realtà più ingenua, e quindi meno insidiosa, rispetto al modo corretto di comprendere l’assetto della fenomenologia trascendentale. Al riguardo, pur ritenendo che Husserl, con la svolta trascendentale esplicitata nelle Ideen, avesse essenzialmente recepito l’influsso del neokantismo natorpiano, i cosiddetti München-Göttinger avallano però il carattere metafisico, e quindi più in stile cartesiano, dell’idealismo fenomenologico, con conseguente riconoscimento di una chiara ipostatizzazione della soggettività e di un primato ontologico della coscienza, a cui demandare la completa risoluzione della «reale trascendenza» nelle trame immanenti della vita intenzionale. Tale convinzione, inerente a un rovesciamento soggettivistico della fenomenologia husserliana, sembra però in qualche modo confliggere (o fors’anche elidersi) con quella espressa da alcuni esponenti del neokantismo, che non davano affatto per scontato e come già avvenuto l’approdo husserliano sulla sponda del criticismo. Kreis e Zocher, appartenenti alla scuola rickertiana, non erano infatti per nulla convinti che la pur discontinua evoluzione della filosofia husserliana avesse portato a un effettivo incontro con la riflessione di matrice kantiana. A giudizio di questi rappresentanti del neocriticismo, già l’attitudine filosofica delle Ricerche logiche era negativamente segnata, dal punto di vista del metodo, da un intuizionismo dominante, che svalutava l’aspetto discorsivo e costruttivo della conoscenza, riponendone l’essenza in una sfera pre-logica e ante-predicativa. Da qui scaturiva poi l’ulteriore difetto dell’impostazione husserliana, tendente a un chiaro ontologismo che, rincarato dall’apporto dell’intuizione categoriale, aveva finito per sancire il carattere oggettuale delle stesse idealità logiche, producendo così sia un’ontologizzazione dell’a priori, sia una reificazione dei valori, come fenomeni viceversa contraddistinti dal senso della validità. Per giunta, questi motivi dogmatici non risultavano estinti neppure nel presunto percorso di avvicinamento al grado di riflessione criticistico, se è vero che essi finivano per essere sempli53 54

Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 44. Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 450 (appendice X, luglio 1936).

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cemente «sublimati». Difatti, l’ostilità ad accettare la funzione costruttiva del pensiero rendeva la fenomenologia incapace d’intendere l’io gnoseologico in termini di «pura forma», prospettando invece una sostanziale coincidenza tra l’ego trascendentale e l’«io individuale ed essente», dalla quale perciò conseguiva l’ambiguità ontica di questo io «pseudo-“trascendentale”». Tale ontologizzazione, che si riverbera nella stessa «sfera fondante», permuta il primato della «forma che vale» con quello dell’«essere» relativo all’esperienza interna, facendo così precipitare l’idealismo trascendentale in prossimità di un «idealismo soggettivistico». Anche l’idea di costituzione, così cruciale per gli esiti della fenomenologia trascendentale, si troverebbe quindi ad essere falsificata all’interno dell’idealismo husserliano, essendo riferita a un io qualificato da tratti ontici, che non ha la generalità per fungere da «presupposto di ogni ente», cosicché il tema costitutivo si esaurisce nel fissare l’entità del rapporto tra gli oggetti della percezione interna e quelli della percezione esterna. L’effetto di tale sublimazione fa sì che la fenomenologia debba in ogni caso accontentarsi di «spiegare l’ente attraverso l’ente», restando quindi a considerevole distanza dal criticismo che, per poter effettuare questo tipo di spiegazione, richiede invece di risalire ai «presupposti trascendentali» dell’ente, alle sue condizioni di possibilità55. In altri termini, mentre sul versante fenomenologico si pensa che il tradimento husserliano si sia consumato nel ritenere inadeguato il solo ricorso a un intuizionismo ontologico-eidetico – che Husserl giudicava peraltro privo di metodo –, da parte neokantiana l’impossibilità della fenomenologia a ricongiungersi con la tradizione del criticismo scaturiva dall’esser rimasta ancorata a un intuizionismo di marca ontologica, non importa se sublimato dall’utilizzo di un linguaggio trascendentale. Con ben altre ambizioni esegetiche, hanno fatto poi in qualche modo epoca due letture della fenomenologia trascendentale, assai più compromettenti per la sua autonomia e originalità. In due saggi costruiti con grande raffinatezza, e in almeno un caso accompagnati anche da dovizia di documentazione, riguardante ad es. gli stessi manoscritti di ricerca al tempo non ancora editi, Iso Kern e Paul Ricoeur hanno sviluppato un’interpretazione dell’andamento della riflessione husserliana, costruita sull’asse preferenziale dei rapporti intessuti col pensiero kantiano. La tesi di fondo sostenuta in questi scritti, che peraltro non esprimono una visione convergente e sintonica, consiste 55 Per l’intera questione si veda il celebre saggio di Eugen Fink, che rappresenta una monumentale difesa “autorizzata” della filosofia fenomenologica, mediante la quale l’autore non solo smonta ad uno ad uno i singoli capi d’imputazione del criticismo, ma provvede a ricostruire in positivo l’identità della fenomenologia, a partire da quei motivi fondamentali (il tema della riduzione in primis) che la separano fin dall’inizio da ogni prospettiva di derivazione kantiana. Cfr. E. Fink, Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik (1933), ora in Id., Studien zur Phänomenologie 1930-1939, cit.; per la querelle in questione si veda soprattutto pp. 82 sgg. e 95 sgg.

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nel dire che se anche la fenomenologia trascendentale husserliana non comporta un suo rientrare nei ranghi del più classico trascendentalismo, l’inesorabile evoluzione attribuibile alla sua impostazione è già ipotecata da un sotterraneo fondamento kantiano, al di là del semplice richiamo a termini così evocativi. In un volume di respiro amplissimo, tanto da costituire ancor oggi un punto di riferimento ineludibile56, Kern sviluppa un confronto sistematico tra fenomenologia e criticismo, offrendo una ricognizione articolata delle diverse fasi in cui è scandita la ricezione del pensiero kantiano operata da Husserl. Nello scandagliare con cura l’opera husserliana nei suoi ripetuti approcci con l’idealismo trascendentale di Kant, Kern rileva che il percorso della filosofia husserliana in direzione della filosofia trascendentale è attraversato da una duplice corrente d’ispirazione idealistica: l’una sospinta da un’idea di riduzione del tutto cartesiana, incentrata sull’apoditticità del soggetto, sul mito dell’assoluta trasparenza coscienziale e sul miraggio di un inizio assoluto; l’altra di marca essenzialmente kantiana, che raccoglie la sfida su come si costituisca per noi il senso dell’oggettività e su come solo la scoperta della problematica trascendentale introduca all’apprensione della soggettività trascendentale nella sua operatività57. Queste due tendenze convivono nel decorso della fenomenologia husserliana, descrivendo una sorta di movimento pendolare, che non trova però una stabile composizione, come se la riflessione husserliana riuscisse di fatto a congiungere i temi cartesiani della riflessività egologica, e del cogito come modello dell’evidenza katæ ejxocevn, con i motivi kantiani dell’io trascendentale, in qualità di subiectum a parte subiecti. In realtà, Descartes e Kant costituiscono, secondo Kern, i due poli diametralmente opposti, nel cui campo di tensione Husserl cerca di rintracciare il senso più autentico della propria riduzione fenomenologica, e conseguentemente della propria filosofia, di modo che l’allontanamento da un polo determina necessariamente l’avvicinamento all’altro. In tale ottica, si potrebbe anche dire che il richiamo a Kant e alla filosofia trascendentale distolga Husserl dalle frequenti ricadute nell’idealismo immanentistico di stampo cartesiano, rappresentandone quindi una sorta di contraltare58. E in effetti, prendendo spunto dalla «via ontologica» percorsa da Husserl in Krisis – che Kern vorrebbe non a caso ribattezzare «Meditazioni kantiane»59 – si evidenzia un approccio teleologico alla storia della filosofia, che testimonia come essa possa comprendersi solo in ragione della sua forma ultima, per cui le vicende stesse della fenomenologia trascendentale vanno inquadrate in una «filosofia della storia della fi56 Cfr. I. Kern, Husserl und Kant. Eine Untersuchung über Husserls Verhältnis zu Kant und zum Neukantianismus, Nijhoff, Den Haag 1964. 57 Su ciò cfr. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 330. 58 Cfr. I. Kern, Husserl und Kant, cit., p. 45. 59 Cfr. ivi, p. 50.

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losofia», che a sua volta contiene la «filosofia dei suoi rapporti con Kant»60. Da questo punto di vista, il fatto che la fenomenologia husserliana sia vista come il tentativo riuscito di esplicitare le più riposte intenzioni del trascendentalismo kantiano, di portarne per così dire a destinazione il potenziale ancora inespresso, attraverso l’attuazione coerente di un’analisi intenzionale che ha posto in evidenza le implicazioni più sottili della vita trascendentale della soggettività, autorizza Kern a sostenere che Husserl abbia davvero «oltrepassato» Kant per il grado di profondità a cui ha saputo spingere la propria riflessione critica, ma che tale «superamento» si sia peraltro realizzato sullo stesso asse, e dunque dalla stessa parte, fin quasi a lasciar ipotizzare che anche Husserl avrebbe potuto suggellare tale inveramento con la formula – a lui del resto congeniale – «siamo noi i veri kantiani»61. Quest’immagine di una fenomenologia trascendentale come realizzazione teleologicamente consecutiva del progetto di pensiero kantiano, come tentativo di spingerne idealmente al limite i presupposti, al fine di «soddisfare per via analitica le intenzioni dei grandi trascendentalisti»62, non si sovrappone però perfettamente a quella ben nota, con cui Husserl celebra la fenomenologia come la «segreta nostalgia di tutta la filosofia moderna»63. Con tale espressione, Husserl non voleva certo includere a viva forza, tra i precursori della fenomenologia, alcuni dei suoi più illustri predecessori – Descartes, Hume e Kant64 – come se si trattasse di valutarne la dignità e la consapevolezza filosofica in ragione del loro progressivo avvicinarsi al termine ad quem, alla feno60 Cfr. ivi, pp. 304 sgg. Malgrado le notevoli affinità riconosciute tra la fenomenologia husserliana e la tradizione filosofica del trascendentalismo kantiano, Kern sostiene però con decisione che la filosofia di Husserl non possa essere designata come una forma di neokantismo (cfr. ivi, p. 422 sg.). 61 Com’è noto, Husserl utilizza tale espressione, nel primo libro delle Ideen, con riferimento ai positivisti, mentre Koyré riferisce che se n’era già servito in una lezione a Gottinga a proposito dei bergsoniani. 62 E. Fink, Vorbemerkung des Herausgebers, cit., p. 107. Tale giudizio viene fatto proprio anche da Kern, Husserl und Kant, cit., p. 320. 63 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, cit., p. 153 (trad. in parte modificata). Tale espressione era stata usata da Husserl anche in un altro contesto, e precisamente in una lettera a Rickert del 20 dicembre 1915 (cfr. E. Husserl, Briefwechsel, cit., Bd. V: Die Neukantianer, p. 177 sg.), in cui si dice che fin dai suoi esordi naturalistici la sua anima era stata però colmata dalla «segreta nostalgia per la vecchia terra dell’idealismo tedesco», a cui era appunto approdato attraverso la lettura degli studi storici di Windelband. 64 Pur non dovendo dunque graduare, in termini di singole carenze metodologiche o di diversa profondità dello sguardo, la maggiore o minore affinità che intercorre tra lo stadio di riflessione di tali pensatori e l’individuazione del campo tematico proprio della fenomenologia, va detto però che nel 1928, anche se solo a livello colloquiale, fu Hume a essere nominato da Husserl «padre della fenomenologia», proprio per aver dato inizio alle indagini a partire dalla coscienza, non presupponendo affatto l’esistenza del mondo, ovvero con una mossa che diremmo inconsciamente riduttiva. Cfr. W.R. Boyce Gibson, From Husserl to Heidegger: Excerpts from a 1928 Freiburg Diary, «Journal of the British Society for Phenomenology», II (1971), p. 64.

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menologia come «forma finale» della filosofia trascendentale65, in cui ci si sarebbe dovuti finalmente acquietare. Non è, infatti, che le dottrine in cui trasparivano, seppure con un diverso grado di radicalità, considerazioni di tipo fenomenologico-trascendentale, fossero fatalmente attratte da un loro annunciato compimento. D’altronde, la nostalgia – sia nella concezione antica, sia in quella romantica – è destinata per principio a rimanere insoddisfatta: non è puro differimento del piacere, ma piacere del differimento. Per Husserl, quindi, si trattava solo di riconoscere in certi motivi, rintracciati in forma non rapsodica, la «profonda aderenza a un senso»66 che, una volta dischiuso, non avrebbe portato tanto alla definizione ultima della filosofia trascendentale, ma all’autentico inizio della filosofia sans phrases, da sottoporre di continuo a verifica in termini di rigorosa autocritica e di un ancor più stringente riscontro intersoggettivo. Malgrado l’intima natura dialettica della fenomenologia, il suo superamento dell’idealismo trascendentale non va visto dunque come una tradizionale Aufhebung, che conserva mediatamente i diritti di ciò che viene ad essere superato, bensì esso svolge – secondo il suggerimento di Landgrebe – la funzione storica di superare l’idealismo tramite l’idealismo stesso, estinguendo dall’interno di tale movimento quei tratti non più ospitabili nella configurazione della fenomenologia come scienza nuova. Per questo, l’idealismo di Husserl, se così vogliamo continuare a definirlo67, non è un idealismo portato a un più alto livello, un idealismo di ordine superiore che sovrasta dall’alto dei suoi principi razionali il regno della temporalità e del divenire storico, ma è una grammatica di pensiero che nutre aspirazioni assai diverse, avendo l’obiettivo primario di procedere all’«esplicitazione dell’ego trascendentale esistente»68. Se anche alla fenomenologia è dato nutrire una «segreta nostalgia», questa non riguarda dunque, a rovescio, la sua possibile genealogia storica, bensì il compito di approntare quella «migliore filosofia immanente»69 che, ben distante dalle speculazioni infondate e dalle invenzioni costruttive tipiche del razionalismo canonico, doveva condurla nei pressi di una «filosofia trascendentale puramente immanente»70, di certo elettivamente appa65

Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 98, ma anche 100. Ivi, p. 98. 67 A proposito della controversa identità della fenomenologia trascendentale e delle varie etichette idealistiche che Husserl le ha conferito, occorre però sottolineare che se in Erste Philosophie II egli continua a definire la fenomenologia come la «prima forma rigorosamente scientifica» di idealismo trascendentale, avendo tuttavia in mente con ciò la «monadologia trascendentale» (cfr. Filosofia prima, cit., 231), in una lettera all’Abbé Émile Baudin del 26 maggio/8 giugno 1934, Husserl dice di aver cessato di definirsi «“idealista” fenomenologico», e in effetti l’espressione idealismo trascendentale in Krisis non compare più (cfr. E. Husserl, Briefwechsel, cit., Bd. VII: Wissenschaftlerkorrespondenz, p. 16). 68 E. Fink, Vorbemerkung des Herausgebers, cit., p. 107 (corsivo nostro). 69 E. Husserl, Storia critica delle idee, cit., p. 197. 70 Ivi, p. 202. 66

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rentata con un empirismo radicale, o quanto meno rigoroso, legato ai dettami di un’unica e inesauribile fonte esperienziale trascendentalmente costituita. Se l’interpretazione complessiva di Kern punta a rilevare una convergente continuità tra l’incedere della riflessione di Husserl e lo spirito della filosofia kantiana, fino a intravedere – a partire dal riconoscimento husserliano della fatticità della costituzione del mondo e dell’irrazionalità del «fatto trascendentale» – l’aprirsi di un comune scenario metafisico, che allude alla presenza di qualcosa di absconditus – peraltro non proprio in linea con la motivazione immanente che impegna il copernicanesimo husserliano a rifuggire da qualsiasi trascendenza assoluta71 – l’attestato che Ricoeur formula circa la natura della vera opposizione tra il criticismo e la fenomenologia husserliana assume a sua volta i contorni di una solo più paradossale continuità. A differenza delle critiche già rivolte a Husserl dai neokantiani di varia estrazione, che tuttavia per Ricoeur scontavano ancora un eccessivo tenore epistemologico, il punto d’osservazione viene ora spostato dal rilievo sul presunto ontologismo a base intuizionistica all’effettiva «deontologizzazione dell’oggetto», ovvero a quella «perdita della misura ontologica dell’oggetto» – forse condivisa da Husserl con i suoi stessi critici neokantiani – che aveva per lui sospinto la filosofia 71 Cfr. I. Kern, Husserl und Kant, cit., pp. 296 sgg. e 424. Per sostenere la presenza in Husserl di una crescente ricerca di un assolutismo metafisico a sfondo teologico, l’autore si avvale non solo di un manoscritto risalente al periodo di Gottinga, ma anche di passi riferiti al 1923-1924 (cfr. E. Husserl, Storia critica delle idee, cit., p. 202 n. 1; Id., Kants kopernikanische Umdrehung und der Sinn einer solchen kopernikanischen Wendung überhaupt (1924), trad. it. di C. La Rocca, La rivoluzione copernicana di Kant e il senso di una tale svolta copernicana in generale, in Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., p. 107). A questi spunti testuali sembra dare sostegno una lettera scritta a Cassirer il 3 aprile del 1925, in cui Husserl prospetta un cambiamento di metodo, rispetto a quello dell’analisi intenzionale, lasciando trasparire che il problema della fondazione metafisica della costituzione del mondo potrebbe essere trattato solo col metodo dei «postulati kantiani» della Critica della ragion pratica, che Husserl giudicava essere la maggiore tra le scoperte di Kant (cfr. E. Husserl, Briefwechsel, cit., Bd. V: Die Neukantianer, p. 5 sg.). A questo tipo di deriva metafisica, che sembra contravvenire al consolidato agnosticismo della fenomenologia, si può ricordare che Husserl – rilevando come il mondo non penetri «quvraqen» nella nostra vita coscienziale – afferma che «l’a priori soggettivo è ciò che antecede l’essere di Dio e del mondo ed ogni e ciascun essere-per-me, cioè me che penso. Anche Dio è per me ciò che è, a partire dall’operazione di coscienza che mi è propria; e anche qui io non posso distogliere il mio sguardo per paura di riuscire blasfemo, ma devo bensì vedere il problema» (Logica formale e trascendentale, cit., p. 309). In ordine al fondamento assoluto trascendente, a cui dovrebbe rispondere la stessa soggettività trascendentale, si può in aggiunta sostenere che il metodo di ripercorrere in modo descrittivo il processo intenzionale in cui un’unità di senso si è costituita, risalendo alla genesi coscienziale che fondazionalmente la legittima (ma non in quanto principio deduttivo), vale non solo per lo «stile» dell’«operatività normale» da cui risulta un’«esperienza concordante», ma anche per le situazioni in cui la concordanza esperienziale entra in «contrasto», tendendo cioè a «spezzarsi», poiché comunque non vi è «luogo pensabile in cui la vita di coscienza sia o debba essere infranta e dove perverremmo a una trascendenza che potrebbe avere altro senso da quello di un’unità intenzionale che si presenta nella stessa soggettività di coscienza» (ivi, p. 291 sg., trad. modificata).

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husserliana verso le secche di un solipsismo non certo attenuato dalla sua qualifica trascendentale, finendo così per dare alla fenomenologia il ruolo anodino di un’«egologia senza ontologia»72. Il rimprovero elevato a Husserl è di aver sacrificato ai requisiti di un’evidenza originaria, all’idea di una presenza leibhaft della cosa stessa, quella problematica noumenica dell’in sé, di cui Kant si era invece servito – in termini di fondazione ontologica – per limitare, in senso critico, il campo esperienziale circoscritto all’ambito fenomenico, senza però annullare quella dimensione dell’essere che – trovando espressione nella funzione di fondamento e di limite esercitata dalla cosa in sé – determinava lo statuto ontologico dei fenomeni stessi. Divaricando quindi il ruolo dell’intenzione da quello dell’intuizione, Kant – secondo la lettura di Ricoeur – affronterebbe il tema della costituzione dell’oggettività non in chiave di mera legittimazione epistemologica, ma come il tentativo di risalire – attraverso la rivoluzione copernicana come equivalente funzionale dell’epoché – alle condizioni costitutive dell’intero campo dell’apparire73. Di qui, la pretesa superiorità kantiana nel conservare la reciprocità e l’intreccio tra due significati di oggettività – quella «costituita “in” noi» e quella «fondatrice “del” fenomeno»74 – che in Husserl lascerebbero invece spazio a un’immediatezza fenomenica, a forte rischio di degradare verso un «realismo ingenuo»75. Utilizzando alternativamente come guida, in perfetto stile apagogico, Husserl e Kant, da un lato Ricoeur critica come addirittura «distruttivo» il tema fondante dell’indagine fenomenologica esteticamente orientata, ovvero il principio dell’assoluta fenomenicità dell’essere, di una considerazione fenomenica che mira ad analizzare il dato nel «come dei suoi modi di datità», attraverso una riflessione trascendentale che non si sottopone ai limiti naturalistici, rifiutando però al contempo ogni ipotesi trascendente; dall’altro, l’esercizio à rebours di certe proiezioni porta Ricoeur a ritrovare in Kant dei veri e propri giacimenti fenomenologici, che prefigurano la scandalosa insorgenza di un’«esperienza trascendentale», così come pare emergere dalle condizioni puramente formali che fissano l’apparire degli enti al Gemüt kantiano (di cui resta peraltro in ombra l’autentica costituzione76), laddove invece l’estetica fenomenologica – che si richiama al «genio di Hume»77 – si assume come noto l’onere di tematizzare l’operatività della sensazione stessa, esplicitandone i vari strati di sintesi passive, di modo che la fondazione husserliana non significa più «elevare all’intellettualità, ma al contrario edificare sul terreno del 72 Cfr. P. Ricoeur, Kant et Husserl (1954-1955), ora in Id., A l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris 1986, pp. 226, 240 e 244. 73 Cfr. ivi, p. 231. 74 Ivi, p. 241. 75 Ivi, p. 242. 76 Cfr. ivi, pp. 231 sg. e 235. 77 Ivi, p. 244.

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primordiale, del pre-dato»78. Il combinato di tali considerazioni giustapposte crea così l’illusione, davvero trascendentale, di una «fenomenologia implicita»79 già in Kant, che avrebbe potuto disciplinare gli sviluppi della fenomenologia husserliana, la quale è andata invece incontro a una fioritura troppo spontanea, arenatasi poi sugli scogli di una «solitudine metafisica»80, vittima di un indefettibile cartesianesimo81. L’apoteosi della fenomenologia, come egologia pura, si condanna quindi per Ricoeur a una definitiva chiusura nei confronti del problema dell’intersoggettività, che la “fenomenologia” kantiana era invece attrezzata ad affrontare. Anche se non perseguita in questo caso sul piano teoretico, la «filosofia dei limiti» – attuata da Kant in senso etico-pratico, soprattutto nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) – implica infatti il riconoscimento della persona come «fine in sé», il «rispetto per l’autonomia dell’altro», a cui si lega l’esistenza assoluta del suo stesso apparire82. La tesi di Ricoeur è dunque che se la fenomenologia husserliana non si fosse dogmaticamente attenuta, fino in fondo, alle proprie esigenze idealisti78

Ibid. Ivi, p. 227, ma si veda anche pp. 236 sg. Ricoeur constata che Kant aveva già annunciato, nella celebre lettera a Marcus Herz del 21 febbraio 1772, di volersi teoreticamente impegnare in una «fenomenologia in generale», trattando dei limiti della sensibilità e della ragione (cfr. ivi, p. 230). Sulle anticipazioni fenomenologiche di Kant, per quanto delineate in una forma solo abbozzata, si veda anche P. Ricoeur, Sur la phénoménologie (1953), ora in Id., A l’école de la phénoménologie, cit., p. 142 sg.; ma di Ricoeur si veda anche Etude sur les «Méditations Cartésiennes» de Husserl (1954), ivi, in particolare p. 162 e 170, dove si dice che la radicalizzazione del cogito operata da Husserl non è che il frutto di una lettura di Descartes fatta da un «neo-kantiano», sostenendo altresì che la fenomenologia sia un «esercizio d’intuizione applicato a ciò che Kant qualificava solamente come condizioni di possibilità». Accenni a una comune presenza di un atteggiamento eidetico nei metodi di Husserl e Kant si trovano anche in uno degli ormai classici confronti istituiti tra questi due autori: cfr. W. Ehrlich, Kant und Husserl. Kritik der transzendentalen und der phänomenologischen Methode, Niemeyer, Halle (Saale) 1923, p. 122. 80 P. Ricoeur, Kant et Husserl, cit., p. 246. 81 In verità era stato lo stesso Husserl, in maniera un po’ incauta, ad asserire – sia nei Discorsi parigini, sia nelle Meditazioni cartesiane – che la fenomenologia, soprattutto nella sua configurazione trascendentale, poteva quasi denominarsi un «nuovo cartesianesimo», un «cartesianesmo del XX secolo», di cui Descartes doveva appunto essere onorato come il «patriarca». Tuttavia, nell’Introduzione alle Meditazioni, egli aveva anche precisato che lo sviluppo radicale impresso dalla fenomenologia ai motivi cartesiani la costringevano a «negare quasi tutto il contenuto dottrinale comunemente noto della filosofia cartesiana» (cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 3 e 37). In séguito, in maniera ancor più risoluta, con riferimento alla «fenomenologia trascendentale», Husserl si oppose al «vezzo di combatterla accusandola di “cartesianesimo”», giacché considera ciò alla stregua di un «equivoco ridicolo, per quanto disgraziatamente abbastanza diffuso: l’“ego cogito” della fenomenologia non è affatto una premessa o una sfera di premesse dalla quale si possono dedurre, con assoluta “garanzia”, tutte le altre nozioni […]. Non importa garantire le nozioni obiettive, quello che conta è comprenderle. Bisogna riuscire finalmente a capire che nessuna scienza esatta e obiettiva spiega seriamente, né può spiegare, qualcosa. Dedurre non equivale a spiegare» (La crisi delle scienze europee, cit., p. 215, trad. in parte modificata). 82 Cfr. P. Ricoeur, Kant et Husserl, cit., pp. 249 sgg. 79

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che anche in rapporto alla costituzione dell’altro, essa sarebbe forse potuta sortire dal solipsismo proprio in virtù di quella traccia kantiana che indirizza alla «determinazione pratica dell’in sé come libertà e come totalità delle persone»83. Diversamente, limitarsi a una tematizzazione dell’ego, pur nella sua piena concrezione monadica, ha finito per sancire il trionfo dell’interiorità e dell’incomunicabilità, rendendo così superfluo il cammino che avrebbe dovuto portare, per lucida ammissione di Husserl, dal «solipsismo trascendentale» alla «fenomenologia dell’intersoggettività trascendentale», come espressione di uno «stadio superiore»84. La costituzione dell’altro, che assicura il passaggio all’intersoggettività, resta dunque il problema su cui si misura la realizzazione della fenomenologia trascendentale, ma ancor più – in base a quanto sostenuto da Ricoeur – la «filosofia implicita della fenomenologia»85, ovvero quel torso di fenomenologia kantiana che fonda l’essere dell’alterità e la sua stessa apparizione in chiave di filosofia pratica, non essendo possibile percorrere a tal fine la via puramente descrittiva, dal momento che occorre kantianamente garantire una fondazione per la descrizione stessa, modulando i diversi usi della ragione in base ai limiti imposti alle pretese fenomeniche. Nel segno di un idealismo che da metodologico si fa sempre più compiutamente dottrinario, la fenomenologia sembra così consegnata alla rigida costituzione del solus ipse, sprecando l’opportunità di aprirsi a quell’unus inter nos che Kant delinea nelle pieghe della sua aurorale fenomenologia. Come dire che se Husserl avesse davvero voluto oltrepassare Kant86, non avrebbe dovuto banalmente inverare l’assetto del trascendentalismo kantiano, ma certo appropriarsi di quella più riposta sensibilità fenomenologica già presente in Kant, 83 Ivi, p. 250. Ricoeur riconosce che nella terza sezione del secondo libro delle Ideen, Husserl ha operato una distinzione descrittiva tra l’annunciarsi della persona e l’apparire della cosa, ma sostiene che essa era stata poi in qualche modo soffocata e dunque riassorbita dal senso stesso della riduzione. 84 Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 11 (Discorsi parigini) e 62. 85 P. Ricoeur, Kant et Husserl, cit., p. 246. Se Ricoeur non riconosce a Kant una precipua vocazione descrittiva, A. Philonenko coglie invece nella natura descrittiva del metodo trascendentale (che non è «né costruttivo, né psicologico») la condizione per considerare Kant più vicino a Husserl di quanto solitamente non si creda, giacché «l’idealismo critico consiste nella descrizione pura dell’essenza della conoscenza in quanto essa rende possibile l’esperienza» (L’oeuvre de Kant. La philosophie critique, Vrin, Paris 1975, vol. I, p. 121). 86 Per un chiarimento su ciò che significa, secondo Husserl, «eo ipso andare oltre Kant», ovvero descrivere quel nuovo atteggiamento di stampo trascendentale, che non si ferma alle ingenuità del livello su cui Kant ha «de facto» condotto le proprie indagini di ordine larvatamente fenomenologico, cfr. E. Husserl, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., p. 126. Malgrado il riconoscimento che Kant e le scuole kantiane abbiano inciso in maniera minima sull’origine della «tendenza fenomenologica», nonché i profondi distinguo che attengono soprattutto agli «aspetti di principio» del metodo, Husserl – forse anche preso dall’occasione celebrativa del saggio – dice di «voler innalzare a verità il senso più profondo del filosofare kantiano», in accordo peraltro con l’eventuale legittimità dell’interpretazione fornita (cfr. ivi, p. 184 sg.).

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che gli avrebbe consentito di andare non solo oltre Kant, ma addirittura oltre se medesimo, in continuità però con la direzione prevista dal criticismo fenomenologico, che – «fondando e limitando»87 l’attuazione della fenomenologia – l’avrebbe sottratta, come nell’ipotesi auspicata da Kern, al rischio di condannarsi a un idealismo metafisico e cartesiano. Ma a ben vedere, il rischio più grande che qui si corre è senz’altro quello di ridurre l’identità della filosofia husserliana a un coacervo di posizioni, tenute insieme da un richiamo costante all’idealismo, nella varietà delle sue inflessioni storiche, trasfigurando la fenomenologia in un vieto trascendentalismo di stampo kantiano, che al contempo non disdegna talvolta di assumere una forma egologica rigidamente solipsistica. Che ciò peraltro non corrisponda alla reale fisionomia del percorso compiuto dalla riflessione husserliana, è qualcosa che si può evincere anche solo dal testo di una lettera a Georg Misch, in cui Husserl afferma che già nel periodo successivo alle Ricerche logiche, e in forma ancor più matura con la comparsa delle Idee, i temi della logica formale e dell’ontologia reale avevano per lui smarrito il loro interesse originario, a fronte della rilevanza assunta da una «fondazione sistematica di una teoria della soggettività trascendentale, e precisamente in quanto intersoggettività»88. Con il dileguarsi, dall’interno dell’egologia trascendentale, dell’apparenza solipsistica, la pienezza della vita intenzionale apre infatti la strada – nella sua assoluta storicità – a una fondazione intersoggettiva dell’oggettività stessa, consentendo di mutare la portata dell’impostazione trascendentale. Sotto tale profilo, Husserl sostiene che solo le indagini sulla costituzione dell’esperienza estranea e sull’intersoggettività vera e propria hanno reso «intelligibile il senso pieno e autentico dell’“idealismo” fenomenologicotrascendentale»89, dato che la «soggettività è ciò che è, ovvero un io costitutivamente fungente, solo nell’intersoggettività»90. Questa riforma della fenomenologia trascendentale all’insegna dell’intersoggettività – preparata sul piano teoretico fin dai Grundprobleme der Phänomenologie91 – non lascia più molti margini di contatto con la classica concezione trascendentalistica, giacché – interpretando la soggettività trascendentale come ego isolato e ignorando, alla maniera della «tradizione kantiana», «l’intero compito di fondazione della comunità di soggetti trascendentale» – non potrebbe infatti che andare 87

Cfr. P. Ricoeur, Kant et Husserl, cit., p. 250. E. Husserl, Brief an Georg Misch (16.XI.1930), in Id., Briefwechsel, cit., Bd. VI: Philosophenbriefe, p. 283. 89 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 166. 90 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 199 (trad. in parte modificata). 91 Cfr. E. Husserl, Aus den Vorlesungen Grundprobleme der Phänomenologie (Wintersemester 1910-1911), in Id., Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass. Erster Teil: 1905-1920, cit., trad. it. e Introduzione di V. Costa, I problemi fondamentali della fenomenologia. Lezioni sul concetto naturale di mondo, Quodlibet, Macerata 2008. 88

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«persa ogni visione panoramica sulla conoscenza trascendentale di sé e del mondo»92. Lo sblocco in senso intersoggettivo della fenomenologia trascendentale le conferisce quindi una conformazione assai diversa, distanziandola sia dagli ingiustificati privilegi che accompagnano la vuota struttura formale dell’«io trascendentale» kantiano, espressione di una sovraindividualità impersonale che difetta di operatività e immediatezza, sia dal ratificare una condizione di «solipsismo» – per quanto «pluralistico» – di cui sarebbe però garante solo il presupposto metafisico di un’«armonia prestabilita»93. Al contrario, pur non abbandonando il terreno egologico, che è il tratto metodologicamente irrinunciabile del solipsismo trascendentale, è solo attraverso quel «geniale aperçu» leibniziano, a cui la fenomenologia si sente in qualche modo ricondotta94, che la riflessione husserliana matura le credenziali per superare i classici dualismi della filosofia moderna (io-mondo, ego-alter ego), approntando una «fenomenologia pura dell’intersoggettività», estesa comunicativamente alla «totalità delle monadi», ma sempre a partire da una ricognizione genetico-costitutiva dell’ego trascendentale, che anche nella sua «singolarità e indeclinabilità personale»95 non sfugge tuttavia agli obblighi di una reciproca costituzione intersoggettiva. 3. Se c’è un’immagine che forse ha contribuito a confondere ulteriormente i profili dell’idealismo trascendentale e della fenomenologia trascendentale, 92 E. Husserl, Die Psychologie in der Krise der europäischen Wissenschaft. Die Prager Vorträge (novembre 1935), in Id., Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Ergänzungsband Texte aus dem Nachlass 1934-1937, Husserliana Bd. XXIX, hrsg. von R.N. Smid, Kluwer, Dordrecht 1993, p. 120, ma si veda anche p. 118, laddove si dice che Kant non ha mai «sollevato il problema paradossale dell’intersoggettività trascendentale». 93 È questo il giudizio sommario con cui Th. Celms, allievo friburghese di Husserl, descrive secondo lui il mancato superamento del solipsismo da parte della fenomenologia trascendentale, che nel complesso viene definita come un «idealismo metafisico» o, in maniera più incisiva, come uno «spiritualismo» dalle molteplici reminiscenze leibniziane. Cfr. Th. Celms, Der Phänomenologische Idealismus Husserls (1928), poi Garland, New York & London 1979, in particolare pp. 387-405 e 427-439. Questo studio, che ebbe un’accoglienza quasi entusiastica presso gli esponenti dei Circoli fenomenologici, ottenendo nel 1929 una recensione molto lusinghiera da parte di Pfänder, è stato anche ristampato in un’edizione ampliata: Der phänomenologische Idealismus Husserls und andere Schriften, hrsg. von J. Rozenvalds, Lang, Frankfurt a. M. 1993. 94 Cfr. E. Husserl, Filosofia prima, cit., p. 241, ma si veda anche Id., Storia critica delle idee, cit., p. 169 e 210. Si veda però soprattutto la Phänomenologische Psychologie. Vorlesungen Sommersemester 1925, cit., p. 216 sg., laddove oltre a chiarire che la monade, come «soggettività pura concreta», non rappresenta affatto un «concetto metafisico», bensì «l’unità del soggettivo» che scaturisce dalla riduzione fenomenologica, Husserl ribadisce l’esigenza dell’analisi genetica e l’estensione della riduzione ai soggetti estranei, rinverdendo così l’idea di ampliare la riduzione all’intersoggettività, già avanzata nei Grundprobleme del 1910, senza che però in quell’occasione si desse luogo anche a una teoria dell’esperienza estranea. 95 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 211 (trad. modificata).

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è quella che compare in cima all’Analitica dei concetti kantiana, laddove si spiega quale debba esser il compito peculiare di una filosofia atteggiata in senso trascendentalistico. Al riguardo, Kant precisa che un’analitica siffatta non va intesa come il procedimento di scomposizione abituale mediante cui si attua un’analisi dei concetti in base al loro contenuto, ma che l’ufficio proprio di una filosofia trascendentale consiste nell’analizzare la facoltà stessa dell’intelletto, per risalire in essa alla genesi dei concetti. Questo apparente tentativo di calarsi nelle profondità più recondite della soggettività trascendentale avviene, per Kant, seguendo i «concetti puri fino ai loro primi germi e alle loro prime disposizioni nell’intelletto umano, lì dove essi stanno pronti, fino a quando non vengano finalmente sviluppati in occasione dell’esperienza e, proprio mediante lo stesso intelletto – una volta liberati dalle condizioni empiriche che vi inerivano –, non vengano presentati nella loro purezza»96. Ciò che in questo contesto è in gioco non è quindi il piano di un’analisi logica dei concetti, in cui si procede a scinderli nelle loro singole note costitutive, ma un’indagine che mira a esaminare la possibile costituzione degli oggetti stessi, in ragione delle condizioni intellettuali pure che fungono da articolazioni necessarie dell’oggettività. Stante che, malgrado l’ambigua terminologia kantiana, tali forme concettuali non partecipano di una natura propriamente innata e che la loro scoperta esula da procedure di ordine psicologico, la possibilità delle categorie o concetti a priori discende da un’analisi trascendentale a cui va sottoposto l’«uso puro dell’intelletto», nel quale è lecito individuare il «luogo di nascita» di tali concetti97, che sono opera infatti di una spontanea produzione intellettuale. In quanto analisi della conoscenza intellettiva pura, l’analitica kantiana restringe l’ambito del proprio intervento, isolando l’intelletto «da tutto ciò che è empirico», nonché da «ogni sensibilità», per cui spetta solo a un’«unità» assoluta di tal genere, «che sussiste di per se stessa, a se stessa sufficiente, e non aumentabile mediante alcun’aggiunta che le sopravvenga dall’esterno»98, indagare la provenienza dei concetti puri nella loro più nitida integrità, priva cioè di qualunque commistione empirica. Se poi si considera che l’intelletto, per reperire tali fonti prime della conoscenza, ha come filo conduttore o principio l’attività giudicativa, e segnatamente quella «funzione dell’unità» che ne costituisce il nucleo portante, va da sé che l’analisi in questione ha l’obbligo di garantire la completezza della propria disamina, per soddisfare quelle esigenze di sistema avanzate dalla struttura formalmente unitaria della conoscenza a priori e della pura facoltà intellettiva, che ne fissa tautologicamente l’estensione. 96 KrV, A 66/B 91, trad. it., con Introduzione, note e apparati, di C. Esposito, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2004, p. 187. 97 Cfr, ibid., ma si veda anche A 88/B 120 e B 144, trad. it. cit., p. 225 e 259. 98 KrV, A 65/B 90, trad. it. cit., p. 187.

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Nell’analitica kantiana non c’è traccia, quindi, di un autentico interesse per la vita di coscienza e per quell’auto-esplicitazione della soggettività trascendentale che, in Husserl, non abbandona mai, in anticipo, il piano descrittivo che compete alle condizioni di manifestatività dell’esperienza fenomenica, disvelando – nei termini di una cogente correlazione – il complesso delle implicazioni intenzionali inerenti all’«equivalente coscienziale»99 di un mondo che, liberato da una dogmatica ingenuità trascendentale, si presenta come «universo di trascendenze costituite»100. A fronte di un’analisi intenzionale che si svolge rigorosamente «sotto l’aspetto noematico»101, avendo come filo conduttore il senso immanente della genesi costitutiva, Kant non pratica il regredire tipico della riduzione husserliana – che getta luce sui nessi operativi in cui si formano i concetti, nel passaggio senza soluzione di continuità dalla sensazione all’intellezione – ma impone un risalire all’unitarietà di una connessione sistematica102, che circoscrive l’«isola» di una coscienza pura in cui sono arroccate le funzioni di una soggettività, che solo misteriosamente potrà assolvere a quei compiti trascendentali che si vede ascritti per mera petizione di principio. In tal senso, la contrapposizione tra l’idealismo trascendentale e il modo di pensare della fenomenologia si evince già dal fatto che la riduzione fenomenologica non è la parodia della rivoluzione copernicana, ossia del tentativo di far rientrare gli oggetti nell’orbita delle forme della conoscenza, ma prende viceversa il posto dell’estetica trascendentale, in quanto le è demandata la funzione ostensiva dei dati originari, che in Kant sono invece sottomessi a forme dell’intuizione, suscettibili di un trattamento intellettuale che prelude all’affermazione di sintesi concettuali garantite, nella loro affidabilità, dall’organo logico del pensiero. Prescindendo dalla dimensione descrittiva dell’esperienza, la soggettività trascendentale kantiana – che certifica con l’assenza di riferimenti empirici il proprio ruolo di fondazione gnoseologica – esclude l’esistenza di legami e modi di strutturazione intrinseci ai contenuti esperienziali, per poter ritrovare così, nei meandri dell’esperienza, tracce rassicuranti del proprio sistema formale, con l’obiettivo di assicurarsi quella funzione ordinatrice che esprime una «conoscenza per concetti» improntata a connessioni discorsive di ele99

E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura, vol. I, cit., p. 378. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 310. 101 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 75. 102 Heidegger dichiara di aver preso spunto per l’«analitica dell’esserci» proprio da questa concezione kantiana dell’analitica, che non comporta una «risoluzione in elementi», ma una «riconduzione» all’«unità originaria» della funzione intellettiva, che è anche «unità di condizioni ontologiche», giacché per Heidegger il trascendentale kantiano significa esattamente ontologico, in tutto il suo divario da ontico (cfr. M. Heidegger, Zollikoner Seminare. Protokolle-GesprächeBriefe, hrsg. von M. Boss, Klostermann, Frankfurt a.M. 1987, trad. it. di A. Giugliano, Seminari di Zollikon. Protocolli seminariali-Colloqui-Lettere, a cura di A. Giugliano e E. Mazzarella, con un saggio introduttivo di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1991, 20003, p. 172). 100

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menti molteplici, sprovvisti di un’autonoma configurazione103. Nel suo ridursi a fenomeno, l’oggetto della conoscenza finisce per prestarsi dunque a quelle determinazioni a priori, che costituiscono l’unico elemento formale rilevante ai fini dell’oggettività conoscitiva, che – fondata su parametri di pura idealità – ricambia in tal modo la conoscenza con un oggetto del tutto alla sua portata. D’altra parte è chiaro che l’atteggiamento kantiano attua solo una restrizione preventiva e non una riduzione vera e propria, giacché le simmetrie estetico-noetiche che imprimono al costrutto teorico di Kant un inconfondibile stile architettonico, sono solo il frutto di un’artificiosa corrispondenza e di una ricercata specularità, la quale tenta di unire estremi giustapposti e discreti tramite il necessario inserimento di un termine medio – lo schema trascendentale104 – che in qualità di costruzione formale può solo produrre l’esito figurato di un’auspicata congruenza tra elementi di fatto eterogenei, preparando la soluzione di una sintesi a priori che deve necessariamente poter unire ciò che per principio va invece tenuto distinto. Senza potersi richiamare alla pregnanza figurale con cui lo schematismo fenomenologico rende percettibile la reciproca inerenza strutturale tra momenti estetici e momenti analitici, il metodo kantiano tenta l’impresa di affermare l’omogeneità di una correlazio103 È stato in particolare Külpe, in netta controtendenza, a notare come Kant – trattando delle analogie dell’esperienza – abbia «implicitamente» ammesso la presenza di un «ordine» e di una «legalità» già nella «materia della percezione», ovvero in ciò che è «dato alla sensibilità», e che come tale non sarebbe quindi più in attesa di un intervento categoriale atto a disciplinarne la natura caotica. È lo stesso Külpe a ridimensionare però la scoperta, dato che tali suggestioni sono in certo modo quasi impercettibili, non avendo la forza sufficiente per poter «limitare la dottrina dell’a priori» e, di conseguenza, «far saltare il fenomenismo», per cui il punto di vista generale espresso in tali teorie non è che il «risultato della logica trascendentale» (Cfr. Immanuel Kant. Darstellung und Würdigung, Teubner, Leipzig 1906, 19123, p. 69). Nondimeno, anche Carl Stumpf – che non ha certo Kant come nume tutelare – con riferimento agli «assiomi dell’intuizione» e alle «anticipazioni della percezione» dice che Kant in un punto (cfr. KrV, A 169/B 211, trad. it. cit., p. 345, ma si veda anche B 218, trad. it. cit., p. 355) sembra assumere già una certa posizione su questioni di cui ci si è occupati poi in séguito, e cioè in ordine al fatto che a tutte le «apparenze sensibili» si possano ascrivere delle «proprietà necessarie a priori» che non coincidono solo con l’estensione temporale o spaziale, ma che hanno a che fare con l’«intensità» o «quantità intensiva» (cfr. Erkenntnislehre, hrsg. von F. Stumpf, 2 Bde., Barth, Leipzig 1939-1940, Bd. I, p. 181 sg.). Al riguardo, tali osservazioni incidentali di Kant non ci paiono però invertire le sorti della sua estetica trascendentale – come se qui Kant fosse giunto inavvertitamente ad attribuire alla sensazione una «forma» propria, sì da renderla un po’ meno empirica o impura e da consentirle quindi un’oggettivazione autonoma dai dettami imposti dalla soggettività trascendentale; né mi pare che in questi luoghi kantiani vi sia un rimando a una sorta di cripto-passività, rispetto a cui l’io dovrebbe solo prender posizione in maniera per così dire attiva, giacché l’estetica kantiana resta comunque vincolata alle forme dell’intuizione (non includendovi, cioè, quelle eventuali della sensazione) e il criterio dell’oggettività, pur in chiave prolettica, resta appannaggio delle «condizioni formali della sensibilità», rinunciando – in tema di strutturazione dell’esperienza – ad ogni considerazione riguardante il fondamento precogitativo o materiale dei nostri pensieri. 104 KrV, A 137/B 176 sgg., trad. it. cit., pp. 301 sgg.

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ne attraverso un’operazione unificante che – nella sua committenza soggettiva – resta sospesa all’ipotesi di poter legare in maniera necessaria ciò che si presume radicalmente separato, quando in fondo l’unica via percorribile sarebbe quella di legittimare un’unione tra ciò che si è solo simulato di distinguere. La considerazione che l’estetica trascendentale kantiana funge solo da mero preludio all’analitica, disponendo una riconduzione ai fenomeni del tutto interessata a stabilire i margini operativi di un compiacente apriorismo, ci fa vedere come in Kant fossero ancora assenti i concetti di «fenomenologia e di riduzione fenomenologica», e come la sua impostazione gnoseologica non riesca interamente a svincolarsi da aspetti psicologistici e antropologistici105, dato che l’oggettività della conoscenza perseguita da Kant stenta comunque ad affrancarsi dalla condizione umana, essendo il riflesso di una soggettività spinta ai limiti della specie che essa rappresenta. La natura difettiva del fenomenismo kantiano postula però anche l’esigenza di restringere il campo d’azione della soggettività conoscitiva, giacché con filosofia trascendentale si deve intendere il «sistema di tutti i principi della ragion pura»106: anzi, la «sapienza filosofica della ragion pura semplicemente speculativa»107, nell’ambito della quale le proposizioni fondamentali dell’«analitica dell’intelletto puro» si traducono solo in «principi dell’esposizione dei fenomeni», di modo che quell’idea di scienza – che è l’idealismo trascendentale – non ritiene più opportuno avvalersi del «nome superbo di ontologia»108, maturando una propensione pressoché univoca di taglio gnoseocritico109. Malgrado alcune promettenti aperture riguardanti il livello coscienziale del Gemüt110, che attengono a una sfera della soggettività assai più dispiegata, è indubbio però che l’essenza della filosofia trascendentale kantiana e del rispettivo metodo inerisca primariamente alla determinazione delle condizioni formali proprie delle funzioni conoscitive rivolte all’oggettivazione dell’esperienza, di cui la critica kantiana si accontenta di esplicitare i presupposti, senza intraprenderne dunque una problematizzazione radicale. È qui che interviene invece, come mutamento di rotta, il nuovo atteggiamento metodico della fenomenologia trascendentale, che non si piega ad accettare il «senso di legittimità» che promana da ogni metodologia ad «evidenza naturale», sottoponendo viceversa a in105

Cfr. E. Husserl, L’idea della fenomenologia, cit., p. 81. KrV, A 13/B 27, trad. it. cit., p. 105. 107 KrV, A 15/B 29, trad. it. cit., p. 107. 108 Cfr. KrV, A 247/B 303, trad. it. cit., p. 465. 109 Cfr. KrV, A 11/B 25, trad. it. cit., p. 103; A 12 sg./B 26 sg., trad. it. cit., p. 105. 110 Cfr. ad esempio Anth, AA VII 135, trad. it. di G. Garelli, Antropologia dal punto di vista pragmatico, con Introduzione e note di M. Foucault tradotte da M. Bertani, Einaudi, Torino 2010, Libro primo, § 5, laddove trattando del campo delle rappresentazioni di cui non si è coscienti si dice appunto che «sulla grande carta del nostro animo i punti illuminati non sono che pochi» (p. 119). 106

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dagine l’«“ovvietà” di ciò che nella conoscenza naturale è fuori questione, ed è valido nella sua evidenza ingenua», ma che per questo dev’essere sostituito dalla «comprensibilità propria della comprensione evidente che risulta dalle problematiche e dalle chiarificazioni più radicali», solo di fronte alla quale ci si potrebbe eventualmente arrestare, rappresentando essa infatti la «suprema indiscutibilità, necessaria in ultima istanza, che non lascia alcuna questione non posta, e perciò irrisolta, tra quelle di principio che appartengono inseparabilmente, perché per essenza, ad ogni tema di conoscenza in generale»111. In luogo di un’attenzione ristretta alle «condizioni di possibilità» della conoscenza, la fenomenologia husserliana rilancia il tema del «conoscere» nella sua interezza, assumendo i contorni di un’«egologia trascendentale»112, che rende quanto meno duplice il problema gnoseologico, rivolto ora anche a quell’io puro della soggettività, in cui – mediante l’esplicitazione del suo fungere intenzionale costitutivo – si svela, a mo’ di «trascendenza immanente»113, il «mondo primordiale» come espressione della piena concretezza monadica dell’ego. Posto dunque che l’ego, considerato in veste oggettuale, non ha più i connotati del subiectum e, tanto meno, della substantia, ma assume invece le sembianze del telos, dell’Ich-Pol, di un polo d’identificazione trascendente che oltrepassa l’esperienza attuale, formandosi geneticamente anche attraverso le abitualità che ne determinano la natura egologica, l’idealismo fenomenologico-trascendentale fa fronte, nel rispetto di una correlatività universale, al compito di «disvelamento sistematico dell’intenzionalità costitutiva stessa»114, ovvero di quel principio che – in maniera solo apparentemente paradossale – esprime la trascendenza anche di ciò che appartiene alla sfera stessa della soggettività costituente. La curvatura egologica assunta dalla fenomenologia 111 E. Husserl, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., p. 138. Sul tema del comprendere l’«ovvietà» cfr. anche Id., La crisi delle scienze europee, cit., pp. 206, 213 e 228 sg. 112 Cfr. E. Husserl, Filosofia prima, cit., pp. 221 sgg., ma si veda pure Id., Phänomenologische Reduktion und absolute Rechtfertigung, in Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil, cit., pp. 497 sgg. (Beil. XXXII, all’incirca del 1921, secondo le supposizioni di Husserl, ma per il curatore forse solo del 1924); Meditazioni cartesiane, cit., p. 61 sg. 113 Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 125 sg., ma si veda anche p. 107. Nella graduazione di piani costitutivi che la fenomenologia trascendentale contempla, si può dire che come il mondo primordiale è una trascendenza immanente rispetto all’ego trascendentale, allo stesso modo il mondo oggettivo lo è rispetto all’intersoggettività trascendentale, a un’esperienza intersoggettivamente comunitaria (cfr. ivi, p. 128). Nella Crisi delle scienze europee, cit., p. 211, Husserl parla infatti di un io originario nella cui vita costitutiva si costituisce, appunto, la «sfera oggettuale “primordiale”», da intendersi come prima sfera oggettuale. Trattando della possibile messa fuori circuito dello stesso io puro, in un contesto che però accoglie ancora il motivo cartesiano del «residuo fenomenologico», Husserl si era già servito dell’espressione «trascendenza nell’immanenza» per significare come l’io puro si presenti alla maniera di una «specie singolarissima di trascendenza» in un certo senso «non costituita» (cfr. Idee per una fenomenologia pura, vol. I, cit., p. 144 e n. 1). 114 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 109 (trad. modificata).

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trascendentale investe quindi in maniera assai moderata sulla generica problematica conoscitiva, che attiene kantianamente alla certificazione dell’oggettività esperienziale attraverso le funzioni unificanti dell’intelletto e l’attività logica dell’«io penso», per tematizzare invece l’accesso diretto al trascendentale sotto forma di apprensione del proprio sé da parte della soggettività, di esplicitazione dell’io tramite l’io stesso, del divenire consapevole di sé e della «più profonda e universale auto-comprensione» dell’io che riflette filosoficamente, di un’«auto-obiettivazione della soggettività trascendentale e del suo essere, della sua vita costitutiva», ma soprattutto di un’«auto-comprensione» dell’uomo nel suo «essere-chiamato a una vita nell’apoditticità», da compiersi nella realizzazione della propria concreta umanità, liberata da un’astratta scientificità apodittica115. Nell’affidare il destino della filosofia trascendentale a un approfondimento radicale della tematica egologica, Husserl non vuole certo appellarsi all’indubitabilità dell’ego cogito come compiuta attualità di una coscienza riflessiva, dato che anche dopo il recedere – a partire dagli anni Venti – della cosiddetta «via cartesiana» alla riduzione116, sopravvive senz’altro il percorso trascendentale incentrato sull’egologia, all’interno del quale Husserl si riappropria di quel profondo terreno coscienziale che il criticismo aveva lasciato sdegnosamente alla psicologia. Il centro di tali ricognizioni non è costituito infatti da una soggettività formalmente vuota, dalla mera struttura categoriale dell’io o dalla forma pura del cogito, che al massimo possono esser sottomesse a una statica ricomprensione essenzialistica. Si tratta invece di andare al cuore dell’attività costitutiva, che spesso sfuma in un campo d’«intenzionalità implicita», il cui disvelamento porta alla progressiva e concreta individuazione dell’io117. È così che la fenomenologia costitutiva dell’ego sfugge all’insidia idealistica di considerarne l’attività operativa come interamente riassorbita nella sua pura forma, per cui invece d’incrementare la distinzione tra io tra115 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 289. Anche in questo estremo richiamo all’apoditticità della vita trascendentale dell’ego, che conferma l’inaggirabile significato metodico del solipsismo trascendentale fenomenologico, Husserl sottolinea però come anche nel suo «apodittico essere-per-se-stesso» tale ego implichi sempre i suoi «co-soggetti», introducendo così alla «scoperta dell’assoluta intersoggettività [...], di ciò in cui la ragione è in continuo progresso [...]» (ibid.). 116 È nei Grundprobleme der Phänomenologie del 1910-1911 che inizia ad allentarsi il legame con Descartes, giacché in queste lezioni si abbozza per la prima volta la riduzione all’intersoggettività. L’ultima occasione in cui Husserl si richiama, pur con qualche divergenza, alla «via cartesiana», è la conferenza del 1931 (cfr. Phänomenologie und Anthropologie, cit., pp. 170 sgg.), nella quale l’autentica analisi coscienziale viene definita come un’«ermeneutica della vita della coscienza», attraverso cui si dovrebbe quasi costringere la coscienza – in stile baconiano – a rivelare quei segreti inerenti alla profonda stratificazione della soggettività, che altrimenti rimarrebbero celati (cfr. ivi, p. 177). 117 Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 108.

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scendentale e io empirico, che aveva reso ancor più equivoca la loro eventuale partecipazione, l’analisi fenomenologica dell’io puro non ne fa una figura stilizzata – «sospesa in aria» – distante da un coinvolgimento operativo, bensì attua una chiarificazione del problema egologico che assume la comune inerenza di tali «lati» dell’io alla sua piena concrezione individuale. Tale identità di appartenenza dà spazio dunque a un campo di lavoro fondamentale, in cui viene portato alla luce ciò che non traspariva nell’ingenua chiusura mondana, disponendo l’io a un’esplicitazione infinita e sistematica, da cui emerge l’ambito dell’«esperienza trascendentale», disatteso tanto da Descartes come da Kant118. In questo spaccato di filosofia trascendentale, per Husserl occorre provvedere a un’esplicitazione fenomenologica di quell’«ego monadico» che, dovendo già affrontare il «problema della sua costituzione per se stesso», racchiude in questa sua funzione trascendentale auto-esplicitante l’intera sfera dei «problemi costitutivi»119. Il richiamo della problematica fenomenologica a un ego puro non equivale quindi a sancire la presenza di un io assoluto, sciolto di principio da ogni attività mondana, ma individua semplicemente nel suo campo operativo una funzionalità diversa da quella esercitata nella comune mondanità esperienziale, e che attende perciò di esser messa in rilievo come costituita da una matrice peculiare120. In tal senso, la fenomenologia husserliana – che conferisce la massima dignità teoretica a sintagmi come «a priori materiale» ed «esperienza fenomenologica», che il criticismo avrebbe stigmatizzato come contraddittori – si sbarazza in un colpo sia della tesi che espropria i materiali esperienziali di una loro intrinseca legalità, sia della concezione che vede nella coscienza – anche in quella trascendentalmente purificata – una sorta di tabula rasa, quando invece si è piuttosto al cospetto di una matrice signata, la cui strutturazione sintetica può esser sempre descrittivamente ricondotta, con singoli riscontri di evidenza intuitiva, alla sua genesi esperienziale, e non presuntivamente acquisita in virtù di un ragionamento regressivo. La ricerca trascendentale disocculta quindi quella componente dell’io che nell’ingenua dimensione umana era sottratta alla vista, arricchendo con ciò di possibili contenuti la vita psichica e la stessa costituzione del mondo mediante il reperimento di una soggettività egologica, priva della statica attualità esperienzale del cogito, proprio nella misura in cui viene restituita al fungere teleologico di un Ich-Pol, che da punto di riferimento intenzionale della sfera della soggettività merita a sua volta l’appellativo di trascendenza immanente121. La 118

Cfr. ivi, p. 62. Cfr. ivi, p. 94. 120 Su ciò cfr. W. Szilasi, Einführung in die Phänomenologie Edmund Husserls, Francke, Bern/München 1969, p. 97. 121 Sulla trascendenza come «carattere immanente d’essere che si costituisce all’interno dell’ego», cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 28 (Discorsi Parigini). 119

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via psicologica alla fenomenologia trascendentale dissolve dunque l’identificazione del polo egologico (o dell’ego puro) con una sostanza animata, nel senso mondano e psicologico del termine, evitando al contempo di conferirgli l’attribuzione residuale di «nuova regione dell’essere»122: si tratta infatti, al riguardo, del principio di ogni operare costitutivo, che nella sua irrealtà esercita una funzione eminentemente regolativa, benché non abbia lo statuto di una vuota istanza formalistica, ma partecipi invece alla costituzione dell’esperienza in ragione di un suo peculiare momento operativo. Se la problematica egologica instaurata da Husserl tiene dunque a distanza il naturalismo delle soluzioni cartesiane, in essa non si assiste nemmeno alla banale ricaduta nella dottrina di un «io formale» di sterile consegna kantiana, giacché l’ego puro esplicita – in senso fenomenologico – il superamento della statica ripartizione descrittiva tra empirico e trascendentale sulla base di un loro rapporto strutturale evidenziabile in termini di genesi passiva. Sotto tale profilo, l’ego trascendentale, oggetto dell’indagine fenomenologica, non manca di una concreta materialità, che gli viene anzi dalla propria attualità esperienziale, testimoniando per questo di un processo di costituzione che – per le condizioni riparate in cui avviene – manifesta un’esemplarità assoluta123. Nel quadro di tale riformulazione egologica della filosofia trascendentale, non è certo dunque casuale che Husserl riporti la concretezza dell’ego all’immagine leibniziana della «monade», riservando il piano nobile del trascendentale a quella «monade puramente in me»124, che opera da principio organizzatore dei molteplici fattori coscienziali125, nonché da trampolino necessario di ogni forma di costituzione allargata, consentendo con ciò di avviare una ricognizione strutturale della soggettività di spettro amplissimo. Al contempo, però – per dirla con Szilasi – l’ego puro ha «vita» solo in quanto «appartiene all’individuo», giacché solo così esso ha il potere di costituire lo strato di fondo rappresentato da un «mondo proprio», assumendo concretezza quando «in qualità di essere vivente lo esperisco come appartenente al mio io» proprio126. In tal senso, la piena apprensione dei modi in cui si realizza quest’appartenenza introduce al tema della «costituzione dell’io nel mio “sono” per mezzo dell’ego puro»127 – il che rappresenta il percorso obbligato lungo cui la fe122

Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura, cit., vol. I, pp. 74 sgg. Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 22 sg. (Discorsi Parigini), laddove si dice che proprio perché l’ego trascendentale può ritrovare se stesso in entrambi i sensi – e cioè nella sua stabilità e permanenza o nella concreta varietà del vivere intenzionale – esso può prendere coscienza del suo «vero e reale essere», in corrispondenza a un «problema costitutivo» che appare quindi senz’altro come il «più radicale». 124 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 117. 125 Per questo Szilasi apparenta l’ego puro all’entelechia aristotelica (cfr. Einführung in die Phänomenologie Edmund Husserls, cit., p. 89 sg.). 126 Cfr. ivi, p. 96, ma si veda anche p. 102. 127 Ivi, p. 100. 123

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nomenologia s’appresta a esibire l’esperibilità dello stesso trascendentale, nel corso di un’«esperienza trascendentale di sé» che è l’antefatto di una «critica dell’esperienza trascendentale» e, perciò stesso, della «conoscenza trascendentale in generale»128. 4. Pur non avendo Husserl affatto sottovalutato il significato dell’impostazione copernicana assunta dall’idealismo trascendentale kantiano129, la mancata attuazione in esso di un’autentica pratica riduttiva continua ad essere un elemento dirimente nel confronto con l’impianto della fenomenologia trascendentale. In questa, infatti, la dimensione operativa del trascendentale non si contrappone, come nel criticismo, a ciò che è empirico, ovvero a ciò che riveste un ruolo prettamente esperienziale, ma va distanziato da tutto ciò che conserva ancora un tratto mondano130. Proprio su questo punto Husserl matura dunque un distacco incolmabile rispetto all’accettazione acritica, da parte di Kant, dei principi della logica formale, per di più ridotta ad apofantica. A Kant non si può certo imputare di aver considerato la logica formale alla stregua di una «sopravvivenza scolastica» priva di alcun valore, o di aver falsificato in senso psicologistico le idealità logiche, e tuttavia egli non ha saputo affrontare il tema della costituzione delle stesse oggettualità logiche, sottraendole così al condizionamento trascendentale che ne porta alla luce l’originario contesto operativo. In conseguenza di questa esclusione dogmatica – favorita, secondo Husserl, dal persistente antiplatonismo settecentesco – del campo della logica formale da una vera problematica trascendentale indirizzata in «senso soggettivo», scaturisce – nella convinzione che essa non intrattenga rapporti con l’esperienza – una sorta di nemesi empiristica. L’«ingenuità trascendentale» con cui Kant postula infatti la «positività aprioristica» della logica formale, esentata dal sottoporre le proprie formazioni oggettuali a un’autentica procedura costitutiva, ovvero a un’istanza logico-trascendentale di stampo fenomenologico, finisce per avallare la presenza nell’analitica pura kantiana di un elemento empirico, introdotto da Kant come inconsapevole motivo psicologico-naturalistico attraverso la deduzione delle categorie dalle 128 Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 61 (trad. modificata); su ciò cfr. anche Id., Erste Philosophie, Zweiter Teil, cit., p. 252 (Abhandlung, dicembre 1925), dove si afferma che l’autentica filosofia prima, e quindi la «critica della conoscenza più radicale», si ottiene attraverso una «critica apodittica dell’esperienza trascendentale». 129 Cfr. E. Husserl, La rivoluzione copernicana di Kant e il senso di una tale svolta copernicana in generale, cit., in particolare pp. 112 sgg., ma sull’incompletezza della problematica kantiana e sul fatto che essa non abbia preso in considerazione «l’intera soggettività operante nella conoscenza», cfr. p. 115 sg. 130 Cfr. E. Fink, Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik, cit., p. 147, laddove tra l’altro l’idealismo fenomenologico, che di principio non incorre nel soggettivismo, viene designato come «idealismo costitutivo».

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forme logiche del giudizio. In definitiva, Kant sembra restare vittima del suo rapporto di «dipendenza reattiva» con Hume, del quale aveva peraltro frainteso il «problema»: difatti, così come Hume rivolge le proprie critiche destabilizzanti solo al mondo esperienziale, dichiarando per contro intangibili le «relations of ideas» – che Kant giudicò erroneamente espressione di un a priori analitico – allo stesso modo a quest’ultimo sfuggì, da una diversa angolatura, il carattere problematico dello stesso «a priori analitico», non cogliendo così la necessità di quel tipo d’indagini che non avrebbero per nulla minato l’autonomia della logica, ma che ne avrebbero viceversa esibito il superiore statuto di natura «bilaterale»131. L’analisi intenzionale mira a stabilire il costituirsi del senso dell’essere trascendente, e cioè del mondo come realtà essente, che non può essere però travalicato dalla stessa soggettività, chiamata ad esplicare solo il valore di tale senso oggettivo. L’impegno trascendentale della fenomenologia fa quindi tutt’uno con una rinnovata «vocazione filosofica», che il filosofo può adempiere solo raggiungendo una chiara «comprensione di sé in quanto soggettività originariamente e sorgivamente fungente», ovvero contrastando l’obiettivismo dominante col ritorno a una «soggettività conoscitiva quale sede originaria di ogni formazione obiettiva di senso e di validità d’essere»132. Tale compito non poteva però venir affrontato da Husserl con gli strumenti dell’idealismo – sempre in bilico tra slanci speculativi e oscure persistenze dogmatiche – che aveva perso di vista la necessità d’indagare, con concretezza analitica, la «soggettività attuale», non figurandosi perciò nemmeno di esercitare quella riduzione fenomenologica, deputata a scandagliare il terreno della soggettività trascendentale da cui la fenomenologia husserliana ha tratto la sua stessa denominazione133. Di conseguenza, è solo mediante la riduzione fenomenologica 131 Per l’intera questione si veda, in particolare, E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., pp. 316 sgg. Secondo Husserl, Kant ha affrontato il problema dell’a priori in termini regionali, senza riuscirne a cogliere l’universalità sul piano della struttura essenziale dei materiali esperienziali; di conseguenza, egli ha finito per svalutare a mera ovvietà o a semplice tautologia anche il giudizio analitico, non realizzando che una chiarificazione dell’a priori analitico non poteva scaturire dal principio di non contraddizione, che è a sua volta un principio evidente del pensiero analitico, anche perché l’a priori formale – per Husserl – va in fondo considerato come l’esito di formalizzazione di un a priori materiale. 132 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 126 sg. 133 Cfr. ivi, p. 286. Ma si veda anche E. Husserl, Zur Auseinandersetzung meiner transzendentalen Phänomenologie mit Kants Transzendentalphilosophie (1908), in Erste Philosophie (1923/24). Erster Teil, cit., trad. it. di C. La Rocca, Per un confronto della mia fenomenologia trascendentale con la filosofia trascendentale di Kant, in Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., p. 27. Oltre che «fenomenologia trascendentale», la filosofia di Husserl può essere senz’altro chiamata «fenomenologia costitutiva» (cfr. E. Fink, Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik, cit., p. 139). Szilasi, a sua volta, definisce la fenomenologia husserliana come un «positivismo trascendentale», proprio perché il «positivo» di cui si occupa non sconta l’ingenuità tipica del positivismo ottocentesco, ma è ciò che è ottenuto mediante le riduzioni», è

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(da concepirsi sempre come comprensiva del suo duplice aspetto trascendentale ed eidetico) che si attua la possibilità di trascendere i vincoli naturalistici di ogni ingenua concezione filosofica, portando con ciò allo scoperto una «tematica conoscitiva di principio non-mondana», inerente infatti alla «dimensione dell’origine del mondo»134, che poi in sostanza coincide con il «regno dell’esperienza di sé fenomenologico-trascendentale»135. Il ritrovamento a cui la riduzione conduce è dunque di fondamentale importanza, in quanto consente di svelare la condizione stessa della filosofia trascendentale, ovvero l’intenzionalità fungente come autentico portatore della soggettività trascendentale. Certo, la riduzione non rappresenta l’atto di nascita dell’intenzionalità, ma – motivata com’è da un interesse ulteriore e per così dire trascendentale – essa ne libera l’operatività da una condizione di puro anonimato e di passività inconsapevole, per restituirla – in forma tematica – a un’esplicita e riconosciuta funzione costitutiva. L’attitudine trascendentale della riduzione si esprime quindi, da un lato, nell’evitare d’incorrere nel paralogismo trascendentale – che interpreta ogni oggettualità alla stregua di una realtà assoluta –, per cui essa concorre a metter definitivamente fuori causa il realismo ontologico136, le assurde cose in sé137; dall’altra, nell’imporre di considerare ogni oggettualità come il risultato di un processo costitutivo che si mostra progressivamente condizionato in senso genetico. Ne consegue che anche il mondo, alla luce di tale visione retrospettiva, cessa di essere qualcosa di già dato – seppur nella forma indiretta dell’unità intenzionale di natura teleologica, ovvero dell’orizzonte entro cui si dispone tutto ciò che si manifesta alla coscienza – per riscattare il senso mondano della sua trascendente «familiarità» a livello di nessi operativi della soggettività trascendentale138. In questo sforzo in«l’oggetto trascendente, reso evidente negli atti della coscienza per la comprensione ricettiva» (W. Szilasi, Werk und Wirkung Husserls (1959), ora in Id., Philosophie und Naturwissenschaft, Francke, Bern/München 1961, p. 129; si veda però anche Einführung in die Phänomenologie Edmund Husserls, cit., p. 1 e 124). 134 E. Fink, Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik, cit., p. 134. 135 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 58 (trad. modificata). 136 Sull’equivalenza tra in sé e obiettività nella prospettiva naturalistica che privilegia il «fenomeno dell’obiettività», senza poter intraprendere un’indagine metodica che – ponendosi nella prospettiva di una «responsabilità definitiva» – valuti invece l’«obiettività del fenomeno», cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, p. 285 sg. 137 Cfr. ad es. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, cit., pp. 103 sgg.; Id., Meditazioni cartesiane, cit., p. 28 (Discorsi Parigini). 138 Su tali problemi fenomenologico-trascendentali cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, p. 285 sg. Ma per un richiamo al «metodo della riduzione fenomenologica» come strumento atto a «delimitare il concreto orizzonte tematico della filosofia trascendentale», vale a dire ad affrontare – attraverso un’indagine che s’innalza da «origini intuitive» – la «soggettività trascendentale» nella sua accezione più autentica, cfr. Id., Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., p. 126 sg.

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tellettuale che qualifica l’atto dell’epoché vi è dunque solo la rinuncia all’atteggiamento dogmatico che vige solitamente nei confronti del reale, con conseguente perdita dell’ingenuità attraverso cui al tempo stesso s’ignora il contributo della soggettività trascendentale nell’istituire anche solo il teatro o la scena originaria della manifestatività dell’ente, dato che non rientra comunque nelle sue disponibilità definire le condizioni strutturali dell’apparire in quanto tale. Nella sua complessità, la procedura riduttiva non introduce né a un’attualità indistinta, promossa da un immanentismo ontico di ascendenza psichica, né comporta un livellamento di segno opposto, con il recupero delle «forme a priori del mondo», ovvero di una soggettività trascendentale che detta – in accezione kantiana – le condizioni della sua assolutezza. Muovendosi al di fuori delle maglie del pensiero discorsivo, la riduzione fenomenologica non porta a rilevare una scontata strutturazione formale della soggettività, ma penetra in un dominio improntato a un’oscurità da rischiarare, nel quale ci si deve attenere a una «fenomenologia della riduzione fenomenologica»139 che mantenga aperto l’orizzonte della sua operatività, neutralizzandone le possibili ipostatizzazioni categoriche. D’altronde, alla riduzione fenomenologica non è richiesto il compito di evidenziare qualcosa di già noto, ma di «far apparire dei fenomeni abitualmente nascosti», conducendo alla «fenomenalizzazione di ciò che, senza di essa, non sarebbe mai divenuto un fenomeno»140. Come «porta d’ingresso» che dischiude il «nuovo mondo della soggettività pura»141, la riduzione fenomenologica non apporta di per sé alcun chiarimento, ma mette in primo piano la «correlazione universale» che innerva il campo dell’esperienza trascendentale142, togliendo dall’anonimato quelle funzioni trascendentali che l’io svolgeva già, in maniera fungente, nella vita naturale, pur non essendo di fatto consapevole della propria struttura operativa egologica. La filosofia trascendentale accede dunque al suo significato più autentico attraverso il «disvelamento sistematico dell’intenzionalità costituti-

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E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 267. R. Bernet, La vie du sujet, cit., p. 5. 141 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 276 (trad. modificata). 142 Cfr. ivi, p. 179. A p. 263 sg., rimarcando il significato eccezionale che spetta alla riduzione fenomenologica, Husserl sottolinea come solo quattro anni dopo la conclusione delle Ricerche Logiche egli fosse giunto a un’«autocoscienza chiara» – ancorché imperfetta – del metodo riduttivo. Il riferimento è ovviamente ai cosiddetti Seefelder Blättern del 1905 (cfr. Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 249 n. 97), in cui fa la sua comparsa il concetto di riduzione fenomenologica, poi sviluppato sempre in un contesto psicologico in Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie. Vorlesungen 1906/1907, Husserliana Bd. XXIV, hrsg. von U. Melle, Nijhoff, Dordrecht 1984, § 35, pp. 201-216), per essere infine insignito di una cruciale centralità nelle lezioni tenute a Göttingen nel 1907 (cfr. L’idea della fenomenologia, cit.), solitamente considerate dagli allievi secessionisti come il manifesto della svolta idealistica della fenomenologia. 140

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va»143, che interroga la soggettività in ordine al ruolo attinente alla «costituzione trascendentale di tutte le trascendenze, anzi di tutte le oggettualità in generale»144. Il tema della costituzione del mondo sostituisce dunque, nell’ambito del programma fenomenologico, quello di una costituzione degli «oggetti della conoscenza mediante il precedente abbozzo (soggettivo-“trascendentale”) dell’oggettività degli oggetti» stessi145, per cui in luogo di consegnare tale problematica al filo rosso delle funzioni giudicative di un io dichiaratamente gnoseologico, esso non si presta alla contrapposizione tra mondo e soggettività trascendentale, ma si lega – in una concezione dell’esperienza che è anzitutto corrente di vita – al «divenire del mondo nella costituzione della soggettività trascendentale»146. Alla luce di questa inscindibile correlazione, l’«enigma del mondo» o della «trascendenza»147, che rende necessaria la stessa possibilità di una fenomenologia trascendentale, si espande fino a convertirsi nel compito improbo di «rivelare il mistero del mondo e il mistero della ragione»148, attraverso un incedere che a qualcuno è apparso però, ingenerosamente, troppo incoativo. L’opzione di campo che la fenomenologia trascendentale esprime non consiste, dunque, nel prender congedo da un mondo a cui la soggettività dovrebbe poi cercare faticosamente di ricongiungersi. La peculiarità dell’idealismo trascendentale husserliano – il suo «senso fondamentalmente nuovo»149 – sta invece nel «portare interamente con sé il realismo naturale»150, rimontando con ciò alle spalle di tutte le opposizioni concettuali che la tradizione filosofica ci ha consegnato151. Per quanto minimale lo si possa ritenere, l’obiet143 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 29 (Discorsi Parigini). Qui Husserl aggiunge che la prova di tale idealismo basato sulla correlazione intenzionale rappresenta l’attuazione della fenomenologia stessa. 144 E. Husserl, Logica formale e rrascendentale, cit., p. 311 (trad. modificata). 145 E. Fink, Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik, cit., p. 145, dove l’autore indica come l’idea criticistica di costituzione manifesti ancora un tratto mondano, proprio per il fatto di costituire l’ente, e cioè il correlato della conoscenza oggettiva, attraverso la «forma a priori di mondo», senza cioè fruire del metodo riduttivo. 146 Ivi, p. 139, ma si veda anche pp. 100 sg. e 105 sg. 147 Si tratta del vero problema di Hume: cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 124, ma si veda anche Id., L’idea della fenomenologia, cit., p. 72 sg. 148 M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, trad. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, il Saggiatore, Milano 1965, Bompiani, Milano 20032, p. 31. 149 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 29 (Discorsi Parigini). 150 E. Husserl, Phänomenologische Psychologie, cit., p. 254 (Erster Entwurf). 151 Cfr. ivi, p. 300 sg. (vierte, letzte Fassung), dove si accenna al fatto che il procedere fenomenologico da datità intuitive abbia consentito di dissolvere opposizioni ben radicate, come quelle ad es. tra «razionalismo (platonismo) ed empirismo, relativismo e assolutismo, soggettivismo e oggettivismo, ontologismo e trascendentalismo, psicologismo e antipsicologismo, positivismo e metafisica», nonché quello tra una concezione del mondo teleologica e una causalistica.

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tivo della fenomenologia non è di «garantire l’obiettività, ma di comprenderla», giacché il paradigma della spiegazione dev’esser revocato al dedurre, per essere invece stabilmente conferito a una comprensione di segno trascendentale152. In questo senso si capisce anche perché la fenomenologia non sopporti la riduzione a -ismo, e cioè l’etichetta di volgare sistema filosofico, in quanto essa si presta – con modestia quasi ancillare – ad «aiutare l’empiria ad ottenere la sua auto-comprensione»153, mettendo in chiaro l’anonima operatività che vi regna implicita. Nel distruggere il modo ingenuo d’intendere la relazione col mondo, liberando con ciò anche l’io da quei limiti naturalistici che lo hanno portato ad alienare il proprio ruolo trascendentale, la coscienza pura riacquista un significato ermeneutico, dal momento che «il mondo trascendente, gli uomini, il loro rapporto reciproco e il loro rapporto con me come uomo, il loro esperire insieme, il loro pensare, agire e creare insieme, non viene eliminato dalla mia presa di coscienza radicale, né svalutato o modificato, bensì solo compreso, e così viene anche compresa la scienza positiva elaborata in comune, che al riguardo si comprende essa stessa come funzione riflessiva nell’intersoggettività trascendentale»154. In parallelo alla riduzione dell’oggetto al puro dato estetico s’impone dunque – come elemento essenziale della processualità dell’esperienza – la ricostruzione descrittiva del senso stesso dell’oggettività, ovvero della sua costituzione attraverso l’intenzionalità operante e i rispettivi nessi. L’andamento «innaturale» della fenomenologia, col suo apparente distacco dal mondo, ha fatto emergere la «correlatività» come tratto trascendentalmente originario dell’esperienza: scaturisce dunque da ciò la reciproca consapevolezza che «l’oggettivo non sia altro che l’unità sintetica dell’intenzionalità attuale e potenziale, che appartiene in modo essenzialmente proprio alla soggettività trascendentale»155. Per questo, la filosofia fenomenologica non può sottrarsi al problema della costituzione, che ne diviene quindi il «concetto fondamentale centrale»156. Ma mentre in Kant, che nella sua riflessione trascendentale aveva preso le mosse dalla validità della conoscenza acquisita dalle scienze oggettive, non si poneva di fatto un problema di costituzione dell’oggettività, poiché egli – dando per scontata l’oggettività conoscitiva – si era accontentato di ricercarne a ritroso, in maniera analitica, le condizioni di possibilità, in via del fatto di presupporre come nota l’opera di una soggettività che non poteva in quanto tale essere descritta, Husserl ritiene invece che il rimando alle condizioni trascendentali non possa essere affidato a una fallacia logica, resa nei 152

Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 215. Ivi, p. 250 (trad. modificata). 154 E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 338 (trad. modificata). 155 Ivi, p. 336 sg. 156 Cfr. E. Fink, Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik, cit., p. 139. 153

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termini di un’affermazione della conseguente, ma debba sempre risolversi sul piano estetico, decretando l’esperienza diretta della dimensione del trascendentale come campo di lavoro sottoposto a una «filosofia metodica»157. Se la ricerca kantiana del fondamento di legittimità – assai prossima a stabilire una mera razionalizzazione regressiva di una credenza – restava dunque in bilico tra un dubbio formalismo e uno psicologismo trascendentale con ampie ricadute metafisiche, la posizione husserliana necessita invece di «un metodo regressivo essenzialmente diverso da quello kantiano, basato su ovvietà ininterrogate, [un metodo cioè] che non concluda in modo mitico e costruttivo, ma che renda accessibile in modo del tutto intuitivo, intuitivo nel suo punto di partenza e in tutto ciò che rende accessibile»158, indagando in maniera approfondita, dal punto di vista delle loro implicazioni di validità e sedimentazioni di senso, tali ovvietà altrimenti solo presupposte. Rispetto all’idealismo trascendentale kantiano, nell’ambito del quale la coscienza assumeva una valenza prescrittiva in ordine alla natura stessa, Husserl distoglie dal concetto di costituzione ogni accento costruttivistico o produttivo, ma al tempo stesso anche di carattere solo ricettivo, completando così l’opera di distanziamento della riduzione – che sancisce il venir meno dell’adesione spontanea ad ogni mondanità dogmatica – con un’attività, dischiusa dal procedimento riduttivo, che si candida a «interpretazione costitutiva dell’a priori mondano»159. Di contro alle equivocazioni a cui è andata spesso soggetta, la costituzione in senso husserliano non è sinonimo di costruzione, né definisce una sorta di messa in forma attraverso cui, alla maniera della logica trascendentale kantiana, l’intelletto getterebbe dall’alto sui dati sensibili una luce necessariamente eteronoma. Il tema fenomenologico della costituzione non rappresenta, dunque, la scandalosa riproposizione di una filosofia dell’immanenza, ma delinea un percorso in cui soggettività e oggettualità procedono per così dire appaiate. Il «costituire dice che le datità immanenti non sono, come sulle prime sembra, semplicemente nella coscienza come in una scatola, ma che si presentano di volta in volta in qualcosa come delle “apparenze”, in apparenze che non sono esse stesse gli oggetti e non li contengono realmente [reell], apparenze che – nella loro mutevole e alquanto strana costruzione – creano in certo modo gli oggetti per l’io, nella misura in cui appunto apparenze di tale natura e formazione sono richieste affinché vi sia ciò che qui si chiama “datità”»160. L’io non si atteggia dunque a fonte creatrice 157

Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 128. Ivi, p. 145 (trad. modificata). 159 E. Fink, Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik, cit., p. 151, ma si veda anche p. 143. 160 E. Husserl, L’idea della fenomenologia, cit., p. 99. Qui, come in molti altri luoghi, l’uso riflessivo del verbo «costituire» ci lascia intendere come non sia la coscienza a costituire gli oggetti a senso unico, ma come siano gli oggetti stessi a «costituirsi» nel corso di un processo operativo. 158

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delle apparenze, tanto più che queste creano solo «in certo modo» gli oggetti, ma espone invece il modo in cui i sensi oggettuali vengono progressivamente ad articolarsi in forma sintetica. Si tratta quindi di una restituzione di senso a partire da ciò che vi è già, la quale ripercorre intuitivamente dal basso il formarsi dell’oggetto, in parallelo alla stratificazione delle operazioni costitutive che ricostruiscono le strutture del dato messo a disposizione dall’opera di disincanto effettuata dalla riduzione. In tal senso, per Husserl non è possibile – come avviene nel modello kantiano – analizzare le funzioni della soggettività prescindendo dalle unità oggettuali da cui prende le mosse il procedimento regressivo tipico della fenomenologia trascendentale, giacché l’analisi intenzionale che mette allo scoperto la trama delle operazioni coscienziali si fa dettare il proprio filo conduttore da tali oggettualità, per cui il processo genetico di cui l’io trascendentale è in qualche modo spettatore non riguarda l’accesso a mitologiche facoltà dell’anima, ma attiene alla chiarificazione dei modi in cui oggettualità e soggettività si costituiscono di pari passo. E se si vuole in ogni caso parlare di una «ricettività trascendentale» della coscienza, che escluda cioè ogni operazione spontanea di legittimazione fondante, si deve appunto far presa su questa capacità di apprendere i «rimandi trascendenti nelle proprie azioni trascendentali», rinviando all’attività costitutiva di quell’io puro che ha la prerogativa di «leggere i testi del mondo», anzi il testo esperienziale continuo e coerente in cui si possono per l’appunto leggere il mondo coi relativi nessi mondani, insieme al complesso operativo della vita intenzionale161. Sotto il profilo di un’analisi fenomenologica riguardante l’essenza del conoscere, Husserl rimprovera costantemente a Kant di essere rimasto nell’alveo del dogmatismo razionalistico di scuola wolffiana, privilegiando – anche a livello di problematica trascendentale – il tema delle «figure ontologiche» che una «realtà oggettiva» deve necessariamente possedere per risultare conoscibile nel quadro di una «scienza rigorosa»162. La persistenza di un interesse ontologico proveniente da Wolff limita alquanto l’indagine kantiana, che è infatti in larga parte devoluta allo studio delle «figure di senso e di verità, e ai momenti di senso che ad esse spettano necessariamente nella validità oggettiTra l’altro, con riferimento al significato del concetto di costituire già nelle Ricerche logiche, in una lettera a Hocking del 25 gennaio 1903, Husserl afferma che con ciò s’intende la «proprietà dell’atto di render presente l’oggetto [den Gegenstand vorstellig zu machen]», ovvero di esporlo e non di costituirlo «in senso proprio» (cfr. E. Husserl, Briefwechsel, cit., Bd. III: Die Göttinger Schule, p. 132). Sul senso di costituzione come «portare a datità», come portare a manifestazione qualcosa per ciò che è, nella sua articolazione, cfr. anche Id., Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass. Zweiter Teil: 1921-1928, Husserliana Bd. XIV, Nijhoff, Den Haag 1973, p. 47 (Beil. II, probabilmente giugno 1921). 161 Cfr. W. Szilasi, Einführung in die Phänomenologie Edmund Husserls, cit., p. 91 e 116. 162 Cfr. E. Husserl, La rivoluzione copernicana di Kant, cit., p. 115 sg.

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va», dal momento che Kant non riteneva «indispensabile per la soluzione della sua problematica lo svolgimento sistematico di un correlativo studio, concretamente intuitivo, della soggettività operante e delle sue funzioni di coscienza, delle sue sintesi attive e passive di coscienza, nelle quali prendono forma ogni genere di senso oggettivo e di legittimità»163. Pur non lesinando a Kant i meriti per aver contribuito, in maniera per certi versi innovativa, a tracciare il solco della filosofia trascendentale, Husserl gli imputa però una duplice limitazione: da un lato, di non esser riuscito a cogliere il fatto che un programma di logica trascendentale si poteva realizzare solo nell’ambito di una «noetica trascendentale», la quale avrebbe considerevolmente «esteso» il concetto stesso di «trascendentale», svincolandolo da una destinazione solo epistemologica; dall’altro, la circostanza di aver ristretto il proprio compito critico – che comunque andrebbe ripreso e spinto a un grado più soddisfacente di profondità – al campo della «scienza matematica della natura», tralasciando quindi di trasferirlo a «tutti i domini del mondo esperito in modo ingenuo-naturale», ovvero non solo a tutte le restanti scienze naturalistiche, ma anche alle «molteplici forme associative umane» e alle «formazioni culturali che nascono nella loro vita comunitaria»164. Tale ampliamento di orizzonti gnoseologici, che investe il «pregiudizio naturalistico» di Kant, si coniuga in Husserl al rifiuto dell’impostazione trascendentale kantiana, che ha operato dissociando il metodo per così dire noematico – che si sviluppa in senso analitico-regressivo a partire da un «dato di fatto», mai peraltro indagato con la dovuta problematicità – da quello noetico che – con andamento sintetico-progressivo – deve reperire, tramite un’evidenziazione intuitiva da realizzarsi sul puro terreno trascendentale, i «presupposti positivi» di cui ogni metodo regressivo necessita165. Utilizzando in prevalenza la metodologia trascendentale regressiva, che il neokantismo ha poi adottato in modo pressoché assoluto166, Kant scioglie il vincolo tra i due versanti dell’analisi intenzionale, finendo per postulare l’esigenza ultima di una soggettività trascendentale, che – in funzione di una regressione puramente logica – appare non meno mitica e campata in aria del residuo psicologistico costituito dai Seelenvermögen167. Per questo, malgrado la critica kantiana della 163

E. Husserl, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., p. 178. Cfr. ivi, 178 sg. 165 Cfr. E. Husserl, Zur Kritik Kants und Leibniz’ (1924, ma il manoscritto iniziale è del 1921), in Erste Philosophie (1923/24). Erster Teil, cit., trad. it. di C. La Rocca, Per una critica a Kant e Leibniz, in Id., Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., p. 82 sg.; su ciò si veda H. Dussort, Husserl juge de Kant, «Revue philosophique de la France et de l’Etranger», 84 (1959), p. 542. 166 Cfr. E. Husserl, Per una critica a Kant e Leibniz, cit., 82. 167 Per una critica del metodo regressivo di Kant, come «procedimento intellettuale costruttivo», cfr. E. Husserl, Storia critica delle idee, cit., p. 211. Sulla critica della «metodica di una costruzione trascendentale» in Kant, cfr. anche Id., Einleitung in die Ethik. Vorlesung Sommerseme164

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ragione avesse «interrotto il sonno dogmatico del razionalismo», il fatto stesso che Kant non fosse però riuscito nemmeno a scalfire l’enigmaticità inerente al «senso d’essere del mondo quotidiano», con la sua pretesa qualifica a mondo della «vera realtà scientifica», orienta la fenomenologia trascendentale verso quella «regressione autentica e radicale», capace d’individuare una «via che, a differenza delle teorie regressive di Kant, portasse a una teoria autentica, che poi non doveva più svolgersi in senso regressivo, ma risalire dai fondamenti ultimi, dunque progressivamente»168. Su questa via sembrava essersi in verità incamminato anche Kant, prima che subentrasse in lui la preoccupazione di sopprimere – in quanto forse troppo esposta in senso psicologico – la Deduzione dei concetti puri dell’intelletto, contenuta nella prima edizione della Critica della ragion pura169. Invece di evitare – come nel caso delle «facoltà dell’anima» – ogni riferimento a ciò che eccedeva la portata della deduzione trascendentale, di ripulire l’analitica da quei residui psicologico-naturalistici che rendevano la sua logica formalmente impura, o sopratutto d’incorrere nello psicologismo trascendentale, come posizione che reifica la stessa soggettività trascendentale, facendo uso del mondo oggettivo nell’indagine che dovrebbe viceversa chiarirne la costituzione170, l’attività riformatrice di Kant si condensò nel rimuovere la cosiddetta deduzione soggettiva, che agli occhi di Husserl appariva significativamente carica di elevati tratti noetici, e come tale già in qualche modo indirizzata a una ricerca di fondazione, che deve di principio comportare una riflessione sugli atti costitutivi dell’oggettività e sulla loro formazione genetica.

ster 1920/1924, Husserliana Bd. XXXVII, hrsg. von H. Peucker, Kluwer, Dordrecht 2004, trad. it. di N. Zippel, a cura e con Introduzione di F.S. Trincia, Introduzione all’etica, Laterza, RomaBari 2009, pp. 193 sgg. Sulla critica husserliana del metodo «regressivo-costruttivo» di Kant, basato su presupposizioni non intuitive meramente escogitate, dal pensiero puro, per fini esplicativi, cfr. I. Kern, Husserl und Kant, cit., pp. 94 sgg. 168 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 479 sg. (trad. modificata, appendice XV, 1936 o 1937). Anche in quest’occasione, Husserl ribadisce che nella ricerca dei suoi compiti trascendentali e del rispettivo metodo di fondazione ultima, la fenomenologia non è stata «determinata criticamente» da Kant, ma semmai in maniera più diretta da Descartes e dall’empirismo inglese, e in modo speciale da Hume. 169 Cfr. KrV, A 95 sgg., trad. it. cit., pp. 1202 sgg. 170 Sulla presenza di «ipotesi metafisiche trascendenti» nella cornice della Critica kantiana e sul mancato riconoscimento di «necessità essenziali» (limitate infatti da Kant al solo ambito analitico) per ciò che riguarda le operatività funzionali della soggettività, cfr. E. Husserl, Per una critica a Kant e Leibniz, cit., p. 80 sg.; Id., Kant und die Philosophie des Deutschen Idealismus (1915), in Erste Philosophie (1923/24). Erster Teil, cit., trad. it. di C. La Rocca, Kant e la filosofia dell’idealismo tedesco, in Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., pp. 50 sgg. Sull’esigenza di superare lo psicologismo trascendentale e sul fatto che la fenomenologia comporti, anche per la psicologia, una «riconfigurazione di principio», cfr. Id., Meditazioni cartesiane, cit. p. 160 (trad. modificata).

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L’approccio psicologico, su cui si regge necessariamente la deduzione soggettiva, venne dunque lasciato cadere da Kant in quanto non rientrava «in maniera essenziale» nel «fine principale» che egli si era proposto, benché mantenesse certo «grande importanza» al riguardo171. A ben vedere, però, tale genere di deduzione sembra possedere un primato rispetto a quella oggettiva, per il fatto stesso di contenere i requisiti metodici che determinano il passaggio – in ordine alle possibilità della conoscenza – da una dimensione metafisica a una propriamente trascendentale, avviando per così dire dall’interno il superamento di un’impostazione ancora psicologica, con l’auspicato approdo a una filosofia senz’altro trascendentale. Cogliendo forse in tale spettro problematico il rapporto di contiguità che ha scandito l’evoluzione dalla psicologia eidetica o fenomenologica alla fenomenologia trascendentale tout court, Husserl ha destinato più volte, a vario titolo, un’attenzione benevola alla deduzione soggettiva di Kant, intravedendovi i lineamenti di un’analisi intenzionale della vita coscienziale, che punta direttamente a ritrovare le «fonti originarie»172. In questo contesto, l’interesse che Husserl mostra per il tema della sintesi sollevato per la prima volta da Kant, e in particolare per la «sintesi trascendentale della facoltà d’immaginazione»173 («sintesi figurata» o «speciosa»174), che con la sua funzione riproduttiva è alla base di ogni possibile sintesi esperienziale, delinea un intreccio esegetico con l’acuta riflessione heideggeriana. Nel suo Kantbuch del 1929, Heidegger aveva infatti richiamato 171 Cfr. KrV, A XVI sg., trad. it. cit., pp. 15 sgg. Kant afferma di voler tralasciare, per quanto rilevante, il secondo lato della trattazione, riguardante la considerazione dell’«intelletto puro in se stesso, secondo le possibilità e le capacità conoscitive sulle quali esso si fonda, e dunque in un rapporto soggettivo». 172 Cfr. ad esempio E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., pp. 122 sg., 133 sg. e 479; Id., Per un confronto della mia fenomenologia trascendentale con la filosofia trascendentale di Kant, cit., p. 29; Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., p. 178 sg.; Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 178, ma anche pp. 275 sg. e 392 sgg. dell’edizione originale; Natur und Geist. Vorlesungen Sommersemester 1927, Husserliana Bd. XXXII, hrsg. von M. Weiler, Kluwer, Dordrecht 2001, pp. 96 sgg. Oltre all’impostazione di fondo della deduzione soggettiva, che prometteva di dischiudere il vero terreno fondativo, Husserl è attratto in particolare dalla dottrina kantiana delle sintesi che vi compare (dell’apprensione nell’intuizione, della riproduzione nell’immaginazione, della ricognizione nel concetto), la quale attiene al lato noetico dell’analisi intenzionale, avendo tra l’altro a che fare più con il concetto di costituzione che con quello di unificazione (cfr. Kant e la filosofia dell’idealismo tedesco, cit., pp. 43 sgg. e 54 sg.; Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., p. 127). Ma non meno suggestiva è, per Husserl, quella «grande scoperta» che non poteva però risultare comprensibile con l’attuazione del metodo regressivo kantiano, e precisamente l’individuazione di un «duplice fungere dell’intelletto rispetto alla natura». Tale verità, nascosta nella teoria kantiana, doveva dunque attendere di essere disoccultata da un metodo capace di riportare le funzioni trascendentali a una «dimensione di vivente spiritualità» (cfr. La crisi delle scienze europee, cit., pp. 122 sg. e 147 sg.). 173 Cfr. KrV, A 100 sgg., trad. it. cit., pp. 1209 sgg. 174 Cfr. KrV, B 151, trad. it. cit., p. 267. Con ciò s’intende la «sintesi del molteplice dell’intuizione sensibile».

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l’attenzione sul cambiamento intervenuto, nel passaggio dalla prima alla seconda edizione della Critica della ragion pura, circa il ruolo attribuito all’immaginazione trascendentale. Anche se solo in una nota della sua copia di lavoro, Kant non definisce infatti più l’immaginazione una «funzione dell’anima» («cieca», e cioè inconscia, ma «indispensabile»), bensì una «funzione dell’intelletto»175, revocandole quindi l’autonomia che ne faceva la terza facoltà o fonte originaria accanto a sensibilità e intelletto176, per ridurla a mero «effetto dell’intelletto sulla sensibilità»177. La posizione di Kant sembra dunque arretrare da quella prima attribuzione all’immaginazione trascendentale di una funzione intermedia nella formazione della conoscenza pura, per reintegrarla a mero strumento ausiliario dell’intelletto, salvaguardando così, in maniera strenua, la supremazia della ragion pura, giacché la conoscenza di un oggetto richiede, al di là delle semplici condizioni formali della sensibilità, quelle condizioni di unità che solo un atto sintetico di natura intellettuale (ovvero, concettuale e giudicativa) è preposto a fornire178. Se nella prima edizione della Critica Kant aveva avvertito il lettore di non «lasciarsi distogliere dall’oscurità» di un cammino «che non era mai stato ancora battuto»179, e che egli sperava di poter rischiarare nel prosieguo della trattazione intrapresa, ora tale ripiegamento che ricaccia nell’ombra il tema della chiarificazione della facoltà dell’immaginazione nel suo aspetto trascendentalmente «sconcertante» annulla di fatto il progetto di compiere una ricognizione che disveli «l’essenza della soggettività del soggetto»180, a cui si lega in maniera indissolubile la questione della trascendenza del conoscere. L’abisso dell’ignoto spalancatosi di fronte a Kant con l’irruzione della problematica dell’immaginazione – vista come facoltà «non solo specificamente umana, ma per di più sensibile»181 – non viene però colmato dal sem175

Cfr. KrV, A 78/B 103, trad. it. cit., p. 203 e 1324 n. 61 (HN, AA XXIII 45). Cfr. KrV, A 94, trad. it. cit., p. 235 nota a. 177 KrV, B 152, trad. it. cit., p. 269. 178 Su ciò si vedano le pagine particolarmente ispirate di M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik (1929), ora Id., Gesamtausgabe, Bd. III, hrsg. von F.-W. von Hermann, Klostermann, Frankfurt a.M. 1991, trad. it. di M.E. Reina rivista da V. Verra, con Introduzione di V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981, 19852, pp. 140 sgg. 179 Cfr. KrV, A 98, trad. it. cit., p. 1207. 180 Cfr. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., in particolare p. 143 sg. Nella consueta alternanza tra elogi per le anticipazioni effettuate e rilievi più negativi per ciò che riguarda il rigore metodico, l’approssimazione tematica e la minore profondità rispetto alle considerazioni di Descartes e di Hume, Husserl riconosce peraltro a Kant di aver avuto sentore, più di tutti coloro che l’hanno preceduto, delle «strutture essenziali» della soggettività trascendentale, ancorché ciò sia stato visto con una «forza intuitiva che non si serve di esempi»: cfr. E. Husserl, Storia critica delle idee, cit., p. 210. 181 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 146. Al riguardo, Heidegger nota che Kant, non volendo dar corso alla deduzione soggettiva, è in qualche modo costretto a carat176

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plice passaggio di consegne da una considerazione psicologica ad una conclusivamente logica, giacché – come osserva Heidegger – proprio l’orientamento esclusivo alla «ragion pura» rende ancora «più psicologico» l’esito del procedimento kantiano182, rischiando di far cadere nel vuoto della sua incompletezza la sua indagine trascendentale. Ma a parte il fraintendimento psicologico della deduzione soggettiva, per Husserl le oscurità della filosofia kantiana e del suo metodo regressivo riguardavano, in primo luogo, un concetto di soggettività trascendentale che – funzionale a un discorso essenzialmente mitico – non poteva esser restituito in termini intuitivi. Da qui invece la legittima convinzione che «il nostro essere umano e la vita di coscienza che gli appartiene, con la sua profondissima problematica concernente il mondo, sia il luogo in cui si decidono in modo risolutivo tutti i problemi dell’essere della vita interiore e della presentazione esteriore»183. Del resto, anche nei grandiosi tentativi compiuti dall’idealismo trascendentale classico restava, da ultimo, un residuo d’inintelligibilità che a lungo andare ne provocò il declino. In particolare – oltre ai tratti costruttivistici, con il rimando a «oscure anticipazioni metafisiche» – uno dei problemi che restò insoluto in tale indirizzo di pensiero fu la differenza tra «soggettività empirica» e «soggettività trascendentale», la quale rimase sempre inesplicabilmente accanto alla loro concreta identità. «L’io di Fichte, che pone se stesso, può essere un io diverso da quello di Fichte?»184. Il mancato riconoscimento di tale «paradosso» e l’incapacità di elevare la «coscienza dell’intersoggettività» a problema trascendentale decretarono lo smarrirsi del trascendentalismo in un’«oscura metafisica» e in una «mitica» (Mythik)185, che evidenziò come nel deficit di approfondimento di questa fondamentale equivocazione i destini della psicologia e della filosofia trascendentale fossero del tutto legati. Pertanto, la connessione tra psicologia e fenomenologia trascendentale è consacrata in Husserl al superamento della falsa antitesi dualistica tra un io empirico e un io trascendentale, con l’obiettivo di mostrare – dipanando il paradosso in cui si era arenata la stessa filosofia trascendentale di derivazione kantiana – che è un unico e medesimo soggetto a «praticare atteggiamenti diversi». In tal modo può infatti risultare palese come l’«io ingenuo» non sia altro che l’«io trascendentale» nelle forme di una «chiusura» ancora passibile di prese di coscienza, tali da esplicitare quindi l’«appartenenza inseparabile » – all’io ingenuo – di un «lato

terizzare la «soggettività del soggetto» con ciò che proveniva dall’«antropologia e dalla psicologia tradizionali» (cfr. ivi, p. 145). 182 Cfr. ivi, p. 147. 183 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 143 (trad. modificata e adattata). 184 Ivi, p. 226. 185 Ivi, p. 227.

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opposto costitutivo», ovvero di una dimensione pressoché infinita di «funzioni trascendentali» intrecciate tra loro186. L’ambizione realizzata dalla fenomenologia, che persegue l’esperibilità diretta del trascendentale e il suo effettivo «auto-disvelamento», è di essere perciò la saldatura definitiva di tale frattura. Per questo, come evento storico, essa s’inscrive nel movimento trascendentalistico, cercando di evitarne pero il limite del soggettivismo mediante il superamento di ogni atteggiamento antropologico e mondano nell’unità intenzionale dell’esperienza – di tutta la vissuta esperienza umana – racchiusa nella nozione di mondo come «concrezione dell’intersoggettività trascendentale»187. E anche per questo, nel medesimo anno in cui Heidegger rimproverava a Kant di essersi ritratto dall’indagare la «radice sconosciuta» legata alla «costituzione essenziale della natura umana», Husserl non abdica invece al compito di penetrare nella fungente operatività intenzionale della soggettività, a partire però da una «necessità insuperabile» che individua nell’«io sono», ovvero nella «soggettività di ciascuno», in tutta la pienezza contenutistica della sua esistenzialità, il terreno originario della fenomenologia intesa come egologia trascendentale, su cui può innestarsi qualsiasi ampliamento problematico che superi l’iniziale, consapevole solipsismo, in considerazione del fatto che per Husserl la trascendentalità dell’io – tema di chiarificazione fenomenologica – coincide con la sua immediata empiricità. «Questo “io sono” è per me […] l’originario fondamento intenzionale del mio mondo […], esso è l’originario dato di fatto, cui devo tener testa, dal quale come filosofo non posso distogliere lo sguardo. Per apprendisti filosofi questo può essere l’angolo oscuro in cui si aggirano gli spettri del solipsismo, o anche dello psicologismo e del relativismo. Il vero filosofo, invece di fuggire di fronte ad essi, preferisce far luce su questo angolo oscuro»188. 5. La distanza che le analisi fenomenologiche maturano rispetto al carattere regressivamente costruttivo del procedere metodico kantiano si riflette sensibilmente nelle rispettive immagini della ragione. A Husserl non era certo congeniale uno stile di pensiero che, in ossequio alla tradizione razionalistica, risaliva in maniera apagogica ai principi del ragionamento trascendentale – ottenuti, come nel caso della soggettività kantiana, col mero ricorso a una costruzione priva di base intuitiva – per poi discendere realizzando quel «capolavoro» deduttivo von oben her, a cui Husserl non poteva che rapportarsi

186 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 234; al riguardo si veda G. Brand, op. cit., pp. 100 sg. e 106 sg. 187 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 281. 188 E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 293 (trad. modificata).

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«scrollando il capo»189. Il campo della coscienza, vero teatro delle indagini fenomenologiche, poteva infatti essere dissodato, per Husserl, solo attraverso una sistematica analisi intenzionale che non smarrisse il filo della propria genesi intuitiva. In tal senso, le «grandi idee» della critica della ragione kantiana – riportate in auge da alcuni esponenti di spicco delle principali scuole neokantiane – non potevano comunque risultare «fondanti in senso autentico, cioè attinte direttamente dalle fonti più originarie e chiare (quelle dell’intuizione pura)», per cui la filosofia trascendentale – non importa se nella forma originale o in quella rinnovata – smarrisce l’obiettivo di essere «filosofia prima»190. A fronte di molteplici difformità sul piano della prospettiva metodologica, incline a naturalizzazioni accentuate e gravata da forme di «cecità» che ne avevano limitato il potenziale, Husserl si sente però in ogni caso più vicino alla tradizione empirista, per via del fatto che coloro che si richiamano a tale indirizzo filosofico si occupano della soluzione di «problemi concretamente afferrabili», di modo che in ciò che essi intraprendono «si vede sempre ciò che essi vedono e che essi vedono qualcosa, che qualcosa si va delineando nello svolgimento del lavoro»191. Di conseguenza, anche l’uso del termine «trascendentale», che ricorre in Husserl a partire dal 1906-1907, e dunque a ridosso della messa a punto del metodo della riduzione, non ha a che fare direttamente con la problematica kantiana192. Derivando la sua pregnanza semantica dalla questione gnoseologica della trascendenza, il trascendentale in fenomenologia viene inizialmente applicato sia in chiave metodologica sia in chiave tematica, per poi contribuire da ultimo alla chiarificazione del problema costitutivo delle trascendenze in generale, designando più propriamente la trascendentalità della coscienza, ovvero la condizione per cui le «cose sono» e si dicono tali solo «in quanto cose dell’esperienza»193. Da questo investimen189 Cfr. E. Husserl, Ms. FI 28 (Sommersemester 1920), p. 281 sg., cit. in I. Kern, Husserl und Kant, cit., p. 104. In questo manoscritto compare, oltre alla contrarietà husserliana nei confronti del tenore deduttivo delle argomentazioni kantiane, anche il richiamo al principio fenomenologico secondo cui ogni concetto filosofico può essere utilizzato solo mostrandone la genesi empirica, per cui anche le proposizioni a priori sono, nel rispetto del loro fondamento materiale, conoscenze dell’a priori, in quanto leggi della necessità essenziale di concetti dati, colte nella pura intuizione. Sotto questo profilo, Husserl riafferma di sentirsi più in sintonia col modo di procedere humeano, malgrado le sue aberrazioni naturalistiche e scettiche. Per una critica al sistema di «deduzioni» kantiano, intendendo tale termine non nel senso usuale ma come sinonimo di un «procedimento intellettuale costruttivo», si veda E. Husserl, Storia critica delle idee, cit., p. 211. 190 Cfr. E. Husserl, Entwurf einer „Vorrede“ zu den „Logischen Untersuchungen“ (1913), cit., trad. it. cit. di V. De Palma, Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche (1913), in E. Husserl, Logica, psicologia e fenomenologia. Gli Oggetti intenzionali e altri scritti, il Melangolo, Genova, 1999, a cura di S. Besoli e V. De Palma, con Introduzione di S. Besoli, p. 188. 191 E. Husserl, Storia critica delle idee, cit., p. 161. 192 Cfr. J. English, Le vocabulaire de Husserl, Ellipses, Paris 2002, pp. 132 sgg. 193 Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, cit., p. 116. Sul duplice senso di trascendentale che Husserl rinviene in Kant, cfr. E. Husserl, Per

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to radicale sul topos della correlazione e sul conseguente contributo dell’analisi costitutiva traspare l’autentica nozione fenomenologica di esperienza, con il suo aspetto di sintesi organicistica, che supera di slancio le alternative tra razionalismo e irrazionalismo o tra vitalismo e formalismo. Il fluire dell’esperienza fenomenologica si configura, infatti, come una corrente di vita, come una dinamica di percezioni in cui i fenomeni tendono a organizzarsi, nella riflessione, in unità sempre più vaste e armoniche, cosicché il logos emergente dal vissuto e immanente a tale flusso – ovvero non importato dall’esterno – è esplicitazione di un senso che la vita deve indirizzare oltre se stessa, trascendendosi verso sempre nuovi orizzonti attraverso apparizioni stratificate che rimandano però, senza eccezione, al senso immanente di un’intenzionalità trascendentalmente costitutiva. Sulla base di tale presupposto, era lecito dunque attendersi che l’egologia trascendentale husserliana potesse arricchirsi di contenuti esperienziali estranei, per rilevanza, al trascendentalismo canonico, ospitando nelle proprie indagini riferimenti a una «psicologia intenzionale della comunità, come dottrina d’essenza sociologica generale dell’umana e possibile vita della comunità in generale e della sua “prestazione” comunitaria»194. Rispetto alla nozione kantiana di trascendentale, ancorata al criterio di una funzione conoscitiva che attiene a un puro soggetto di riflessione rappresentante di un’astratta giurisdizione preterindividuale, Husserl dice quindi di usare il termine trascendentale «in un senso più ampio, per indicare quel motivo originale [...] che, attraverso Cartesio, conferisce senso in tutte le filosofie moderne e nel quale tutte quelle che vogliono ottenere una forma autentica e pura dei propri compiti e un risultato sistematico giungono per così dire a se stesse. È il motivo dell’interrogare a ritroso le fonti ultime di ogni formazione conoscitiva, del riflettere del soggetto conoscitivo su se stesso e sulla sua vita conoscitiva, in cui tutte le formazioni scientifiche che valgono per lui accado-

un confronto della mia fenomenologia trascendentale, cit., pp. 27 sgg.; in Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., p. 119, Husserl afferma – non senza un alone di ambiguità – che la sua ripresa del termine kantiano di «trascendentale» derivava dalla considerazione di poter ricondurre alla «nuova scienza fondamentale» della fenomenologia l’insieme dei «problemi trascendentali» elaborati da Kant e dai suoi successori, anche se sussisteva però una distanza notevole rispetto ai «presupposti di fondo», ai «problemi-guida» e ai metodi del criticismo. 194 E. Husserl, Phänomenologische Psychologie, cit., p. 539 (Beil. XXXII, precedente al 1926, degli Amsterdamer Vorträge, 1926). Anche in Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Ergänzungsband. Texte aus dem Nachlass 1934-1937, cit., p. 120, Husserl riafferma il nesso indissolubile tra psicologia e filosofia trascendentale, dicendo che quell’io che compie un’«auto-riflessione ultima» nel quadro di tale atteggiamento filosofico è «uomo tra uomini», per cui non sfugge a connotati di psicologia sociale. Sulla rilevanza trascendentale che Husserl assegna a certi domini empirici trascurati dal criticismo kantiano, cfr. Id., Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Bd. XV, cit., p. 391.

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no – operando in maniera finalistica – e, custodite come acquisizioni, sono state e sono liberamente disponibili»195. La critica della ragione kantiana s’inscrive in un quadro metaforico contrassegnato dalle idee di ordine, di processo, di funzione giudicante, che nell’insieme sostanziano la visione normativa ed edificante di un «tribunale della ragione». Al cospetto delle elaborazioni precedenti di ugual tenore, che si appalesano agli occhi di Kant come «edifici caduti in rovina»196, la critica è la forma che assume la filosofia – come conoscenza dei «nostri confini» – per riconsegnare la ragione a una sorta di «unificazione civile», venuta meno per la battaglia ingaggiata tra il dominio degenerato di un «dogmatismo» sempre più «dispotico» e le avventure disaggreganti di uno «scetticismo nomade»197. La quaestio iuris, intorno a cui si erige il costrutto della ragione, sostituisce alla gestione della razionalità vigente la determinazione dei limiti dell’uso puro della ragione come un problema di sua esclusiva competenza. D’altronde, anche nei riguardi della natura la ragione kantiana non si pone come uno «scolaro» che voglia essere istruito da essa, ma le si accosta con il proprio bagaglio di principi e con gli esperimenti escogitati in virtù di essi, per cui la ragione ha – come scolara di se stessa – l’atteggiamento di un «giudice che svolga il suo ruolo, costringendo i testimoni a rispondere alle domande che egli pone loro»198, ovvero a fornire quelle risposte che si configurano già come legittime. Avendo a che fare solo con se stessa e col pensiero puro di cui è espressione, la ragione svolge il proprio compito di unificazione razionale fidando – come nel caso della logica comune – su ciò che trova già in sé. La ragione cura dunque in assoluta libertà il suo interesse, esercitando le proprie funzioni di critica sulla base dei «principi della sua originaria istituzione», la cui autorità «nessuno può mettere in dubbio»199. L’istanza critica che deve porre fine alla disputa tra scettici e dogmatici, componendone le controversie, può però solo intervenire riflettendo «sull’origine di questo dissenso della ragione con se stessa», al fine di dare luogo – con decisioni che discendono dalle «regole fondamentali» della propria istituzione competente – a un «durevole e pacifico dominio della ragione sull’intelletto e sui sensi»200. È solo attraverso un «processo» condotto in forza di «leggi eterne e immutabili» che la ragione può liquidare tutte le «presunzioni infondate», ristabilendo – con una «sentenza» radicata nell’essenza profonda dei dissidi manifestatisi – la «pace di uno stato legale» che faccia ritornare la ragione in armonia con se stessa201. 195

E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 125 (trad. modificata). Cfr. KrV, A 852/B 880, trad. it. cit., p. 1195. 197 Cfr- KrV, A IX (Prefazione), trad. it. cit., p. 9. 198 KrV, B XIII (Prefazione), trad. it. cit., p. 31. 199 Cfr, KrV, A 751/B 779, trad. it. cit., p. 1065. 200 Cfr. KrV, A 464 sg./B 492 sg., trad. it. cit., p., 701, ma si veda anche p. 1065. 201 Cfr. KrV, A 751/B 779, trad. it. cit., p. 1065, ma cfr. anche A XI sg., trad. it. cit., p. 11. 196

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Col duplice obiettivo di giungere a «conoscenze rigorose» o a disperdere categorie e forme di giudizio già acquisite, la ragione si sottomette così alla critica, procedendo a istituire un «tribunale che la garantisca nelle sue giuste pretese»202, proprio perché solo essendo filtrata dall’«occhio critico di una più alta ragione giudicante»203, essa può assolvere al «più impegnativo dei suoi compiti», che riguarda appunto la «conoscenza di sé»204. La critica della ragione diviene quindi il «vero e proprio tribunale» a cui compete dirimere le cause della ragion pura205, attraverso un’istanza giudicante monocratica – ovvero a una sorta di tribunale supremo – che risponde allo schema autoreferenziale dell’io kantiano. Il ruolo della ragione giudicante è dunque quello di appianare i contrasti in cui la ragione è entrata con se stessa, ripristinando quella coerenza che è tipica di una rinnovata armonia, non avendo altro mezzo per ottenere tale ordine che ricorrere agli uffici di un tribunale che accorpa in sé le funzioni divaricate dell’accusatore e dell’accusato, della legge e del giudice, senza che da ciò si possano tuttavia trarre, sulla struttura della coscienza trascendentale, quelle indicazioni – in termini di differenziazioni egologiche – che solo il metodo della riduzione e la riflessione trascendentale tendente alla «scissione dell’io» (Ichspaltung)206 sono state in grado di procurare, percorrendo con successo la via che «passa oltre l’ingenuità»207. Per questo, se è vero che la critica kantiana rifiuta il dogmatismo metafisico, che aveva coniugato un uso eccessivo della ragione a pretese smodate in ordine alla sua effettualità, con il suo ripiegamento riflessivo e auto-assolutorio l’indagine di Kant non sfugge alle antinomie della riflessione naturale, mostrando di poter ambire solo alla definizione delle condizioni di possibilità della metafisica – disponendoci cioè a farne un uso legittimo – e non della filosofia trascendentale in senso autentico, per cui – al contrario di ciò che Husserl ha sostenuto nella prospettiva teleologica della fenomenologia – la nostalgia del criticismo può riguardare unicamente la metafisica, alla quale infatti si tornerà «come si torna ad un’amata dalla quale ci si sia separati»208. Nella dimensione progettuale della fenomenologia husserliana, l’idea di una «critica della ragione», per nulla aggettivata come pura, emerge come framework che sorregge, in termini di significato e di portata più generale, 202

KrV, A XI, trad. it. cit., p. 11. KrV, A 739/B 767, trad. it. cit., p. 1049. 204 KrV, A XI, trad. it. cit., p. 11. 205 Cfr. ibid. e A 751/B 779, trad. it. cit., p. 1065. 206 Sul genere di riflessione che si propone di svelare anche i caratteri della vita coscienziale non tematica e come tale anonima, e dunque sulla distinzione che intercorre tra riflessione naturale e riflessione trascendentale, cfr. E. Husserl, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., pp. 152 sgg.; Id., Filosofia prima, cit., pp. 112 sgg. 207 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 350 (si tratta della Conferenza tenuta a Vienna il 7 e 10 maggio 1935); ma cfr. anche ivi, p. 233. 208 KrV, A 850/B 878, trad. it. cit., pp. 1191 sgg. 203

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quella grandiosa «problematica di lavoro» destinata a tradurre il sogno privato della metafisica in un’impresa collettiva affidata a una «fenomenologia della ragione», che – «passo passo» – in maniera sistematica, dà attuazione ai singoli problemi, dapprima incentrati sui temi della «percezione, della fantasia, del tempo, della cosa»209. In tale impostazione è già contenuta, dunque, la distinzione tra una filosofia (o fenomenologia) pura, che definisce la cornice dei presupposti entro cui devono calarsi le indagini fenomenologiche, e una filosofia fenomenologica che – attraverso un atteggiamento di ricerca condotto col metodo trascendentale dell’analisi intenzionale – approda a risultati che nell’insieme stabiliscono, in qualità di «fondazione e tribunale» e non di mero «fondamento neutrale», la «realtà e i limiti» di una filosofia genericamente atteggiata in senso fenomenologico210. Questa pratica di lavoro, che – tramite il richiamo a una fungente e recondita operatività intenzionale – apre alla comprensione di orizzonti così illimitati come quelli attinenti ai percorsi dell’anima eraclitea, deve rispettare il criterio secondo cui «il procedere guardando e ideando all’interno della più rigorosa riduzione fenomenologica è la sua proprietà esclusiva, è il metodo specificamente filosofico, nella misura in cui tale metodo appartiene essenzialmente al senso della critica della conoscenza e così, in generale, ad ogni critica della ragione (e dunque anche alla ragione valutante e pratica)»211. Più che a una visione giuridica, la fenomenologia trascendentale risponde dunque a un compito di ricostruzione della genesi del soggetto, con conseguente discesa nelle profondità più insondabili o veri e propri abissi dell’interiorità trascendentale. L’impronta archeologica che assume la fenomenologia le impedisce quindi di restare alla superficie di una pur esaustiva opera di descrizione, obbligandola a incunearsi nei territori di un’esperienza trascendentale in cui ha luogo ogni genesi costitutiva, con il concorso di un’operatività intenzionale che si scopre appunto produttrice di senso. Sotto questo profilo, la dottrina della «costituzione» fenomenologica, la cui disposizione «analitica» la trattiene dall’essere «costruttiva», si applica dunque all’uomo – nella sua piena concrezione – come sede di una «duplicazione empirico-trascendentale», regredendo dall’assoluta passività dei contenuti mondani dell’esperienza al progressivo disvelamento delle funzioni trascendentali della soggettività, al fine di esplicitarne la primitiva intenzionalità fungente. Per questo, come osserva magistralmente Foucault, la riflessione trascendentale non ha 209 E. Husserl, Persönliche Aufzeichnungen, in Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie. cit., p. 445 (si tratta dell’annotazione husserliana del 26 settembre 1906). 210 Sulla complementarità di fenomenologia pura e filosofia fenomenologica, nonché sul nesso di fondazione bilaterale ravvisabile nel loro rapporto, cfr. K. Schuhmann, Reine Phänomenologie und phänomenologische Philosophie. Historisch-analytische Monographie über Husserls „Ideen I“, Nijhoff, Den Haag 1973, p. 21. 211 E. Husserl, L’idea della fenomenologia, cit., p. 89 sg. (trad. modificata).

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più il suo appiglio necessario nel dato acquisito della scienza della natura e nella sua scontata obiettività, ma «nell’esistenza muta […] di quel non-conosciuto a partire dal quale l’uomo è senza posa chiamato alla conoscenza di sé»212. Il tentativo di restaurare la dimensione obliata del motivo trascendentale, che in Kant e nell’idealismo post-kantiano costituiva ancora un’«oscura forza di propulsione»213, fa dunque della fenomenologia «il verbale […] della grande frattura prodottasi nell’episteme moderna»214 tra la fine del XVIII secolo e l’inizio di quello successivo, ma al tempo stesso il rimedio atto a colmare la cesura prodotta dall’ingenuità di non problematizzare l’evidenza di ciò che è obiettivo, giacché anche la semplice domanda su come sia possibile l’evidenza di un’obiettività – di per sé non concretamente esperibile – avrebbe messo in crisi tale persuasione naturalistica215. L’atteggiamento con il quale Husserl dispone di inoltrarsi nel fondo della vita trascendentale, realizzando con attenzione microscopica e con acribica «sottigliezza di analisi» la scomposizione strutturale delle varie unità di senso oggettuale e dei diversi livelli su cui si organizzano gli atti coscienziali, determina dunque una «gigantesca vivisezione della coscienza»216. Dal filo rosso di tali ricerche, che Husserl rischiò spesso di farsi sfuggire di mano, quasi compromettendo il sogno di conseguire un autentico rigore filosofico, scaturisce la scienza della soggettività trascendentale, che mette a nudo ciò che nella dimensione umana «restava occulto»: e cioè il fatto che l’«io trascendentale» e l’«io umano nella mondanità» sono un unico soggetto217, per cui nell’«io-uomo» è già contenuto l’io puro come aspetto «incancellabile», che va solo riflessivamente scoperto per arricchire con ciò il patrimonio della stessa «anima umana»218, apportandovi il principio che unifica la soggettività anche in presenza delle sue eventuali e molteplici scissioni. In ciò si esemplifica, inoltre, il tratto assai poco kantiano della concezione trascendentale husserliana, che prevede il richiamo a un «io trascendentale» riferito individualmente a ciascuno di noi, giacché «ogni io trascendentale dell’intersoggettività» – via lungo la quale si partecipa alla costituzione del mondo e della sua oggettività – «dev’essere necessariamente co-

212 M. Foucault, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966, trad. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, 19703, p. 347 sg. 213 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 448 (appendice X, luglio 1936). 214 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 350. 215 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., pp. 431 sgg. (appendice VII, forse inverno 1936-1937). 216 E. Fink, Die Spätphilosophie Husserls in der Freiburger Zeit, in AA.VV., Edmund Husserl 1859-1959, Nijhoff, La Haye 1959, p. 110. 217 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 282 sg. 218 Cfr. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil, cit., p. 413 (Beil. XVII, testo del 1924).

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stituito come uomo nel mondo, e dunque ogni io “reca in sé un io trascendentale”»219. L’opera di scavo archeologico che l’indagine genetico-costitutiva compie non riguarda però solo un’esplorazione delle «sintesi passive» – che Husserl peraltro considera l’incipit della costituzione di ogni oggettività – ma si amplia a rinvenire in esse le condizioni che determinano ogni ulteriore costituzione «attiva», considerandole dunque lo sfondo degli accadimenti coscienziali. Lo svelamento della «storia sedimentata» nel complesso d’operazioni incluse, di volta in volta, nell’«unità intenzionale costituita»220 autorizza dunque a parlare di «archeologia» a proposito dell’indagine programmata dalla fenomenologia trascendentale. È a quel nome, infatti, che Husserl stesso si rifà quando – superato di slancio il piano statico dell’analisi descrittiva delle strutture coscienziali, il cui processo di produzione era rimasto fino a quel momento anonimo – egli punta a gettare uno sguardo approfondito nel terreno egologico, per assumere l’«atteggiamento filosofico» che – con andatura a ritroso – consente di accedere ai segreti più profondi della soggettività, fino a scoprire che anche nello «stadio dell’ingenuità», precedente l’epoché, l’io svolge «funzioni trascendentali», pur non essendo ancora «divenuto cosciente» di una tale differenziazione interiore221. L’«archeologia fenomenologica», che intende porsi come «scienza dell’originario e a partire dall’originario»222, sviluppa dunque l’idea teleologica che guida ogni sforzo conoscitivo, con l’obiettivo di operare uno studio sistematico del fondamento ultimo da cui hanno origine verità ed essere, garantendo con ciò a tale ricognizione una «validità definitiva». Nell’interrogare all’indietro l’«io» e il «soggettivo» nella loro trascendentale originarietà, la fenomenologia dissotterra le «costruzioni costitutive nascoste» nei loro elementi di costruzione, ad esempio quelle formate da «operazioni appercettive di senso» che si presentano a noi già ultimate come «mondo di esperienza», per regredire fino alle operazioni costitutive ultime, produttrici di senso, e cioè alle «archai», procedendo poi da queste all’«ovvia unità» – che si vede in tal modo risorgere nello «spirito» – di ciò che acquisisce «validità di senso» a partire da una fondazione così variamente costituita223. Ma il registro dell’identità attribuibile alla fenomenologia trascendentale 219

E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 212 (trad. modificata). Cfr. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 303, ma anche p. 316. 221 Cfr. G. Brand, op. cit., p. 101 sg.; ma si veda anche E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 13 (Discorsi Parigini): «Anche come io che vive naturalmente, io ero trascendentale, ma non ne sapevo niente». 222 E. Husserl, Filosofia prima, cit., p. 36 (trad. modificata). 223 Cfr. E. Husserl, Späte Texte über Zeitkonstitution (1929-1934): die C-Manuskripte, Husserliana, Materialienbände, Bd. VIII, hrsg. von D. Lohmar, Springer, Dordrecht 2006, p. 356 sg.; si tratta di un manoscritto del maggio 1932. Il procedere archeologico della fenomenologia trascendentale è sintetizzato in una formula applicabile alla stessa archeologia: ovvero, «ricostruzione, 220

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non cambia di molto – e ancora una volta con punti di contatto non trascurabili con la concezione freudiana – se al posto della veste archeologica dell’indagine husserliana si sostituisce quella dell’esplorazione geografica, finalizzata a una conquista di territori o a una loro definitiva bonifica. Pur essendo già stati battezzati con un nome, molti dei luoghi attraversati dalla riflessione filosofica non avevano però ancora ricevuto una descrizione rispondente alle loro peculiarità morfologiche, risultando perciò quasi inesplorati224. E così come gli era accaduto di accomunare Descartes a Cristoforo Colombo, per il fatto che anche il primo non si era reso conto di aver scoperto una nuova terra225, ora Husserl – che non è uno sperimentatore, né si limita semplicemente ad osservare, ma indaga con un incessante lavoro sistematico la complessità dei legami strutturali che si esplicitano sul piano trascendentale della «vita che esperisce il mondo» – prende congedo da tutti i suoi oppositori, nell’occorrenza nemmeno nobilitati da una citazione diretta, attraverso un ulteriore richiamo al tema della ricognizione geografica, ritenendo che «chi, per decenni, non è stato a speculare su una nuova Atlantide, ma si è mosso realmente nelle foreste ancora inesplorate di un nuovo continente, chi si è accinto alle prime coltivazioni, non si lascerà confondere dalle obiezioni dei geografi che ne giudicano i resoconti secondo le loro abitudini di esperienza e di pensiero, senza addossarsi la fatica di intraprendere un viaggio nelle nuove terre»226. 6. Il confronto a distanza con Kant diviene per Husserl più serrato negli anni Venti, quando esso trova, in alcuni scritti, un elevato punto di accumulazione o, per così dire, una sua più marcata visibilità. Se, infatti, nei precedenti scritti husserliani pubblicati il rapporto con Kant era spesso racchiuso in indicazioni abbastanza scarne, talvolta di natura solo occasionale, in quel decennio particolarmente significativo per la produzione husserliana lo sfruttamento linguistico di determinate espressioni rende in apparenza più stringente la relazione della fenomenologia con la tradizione del criticismo. All’uso massiccio di fraseologie come «coscienza trascendentale» o «fenomenologia trascendentale», che comparivano già nel primo volume delle Ideen, si aggiungono poi altre forme di designazione (come ad es. «idealismo fenomenocomprensione a zig-zag» (ivi, p. 357). Sul carattere archeologico della ricerca fenomenologica cfr. W. Szilasi, Einführung in die Phänomenologie Edmund Husserls, p. 78 e 140. 224 Sull’attribuzione alla fenomenologia del carattere di viaggio esplorativo, che deve avventurarsi in parti del mondo sconosciute, per descrivere nella maniera più accurata tutto ciò che si presenta su strade spesso non ancora aperte, cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, cit., p. 246. Sulla metafora dell’«infinito materiale geografico» da condurre a sintesi con un’unificazione sistematica, cfr. Id., Brief an D. Mahnke (8.I.1931), in Briefwechsel, Bd. III: Die Göttinger Schule, cit., p. 474. 225 Cfr. E. Husserl, Storia critica delle idee, cit., p. 79. 226 E. Husserl, Postilla alle Idee, cit., p. 429.

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logico»), che preludono all’utilizzo prevalente del titolo di «idealismo trascendentale» per indicare i risultati ottenuti dalla fenomenologia con il metodo adottato. L’insieme di tali occorrenze espressive sembrerebbe dunque testimoniare, senza margini d’incertezza, che Husserl volesse proporsi come interprete autentico del trascendentalismo kantiano, capace cioè di tradurre in un atteggiamento fenomenologico de iure quelle intuizioni concettuali che in Kant rimanevano consegnate de facto a un livello d’ingenuità naturalistica227. A suggello di tale sensazione si può invocare la lapidaria conclusione di Husserl, secondo cui «l’intera fenomenologia» non sarebbe altro che la «prima forma rigorosamente scientifica» di idealismo trascendentale228. Ma che il criticismo non vada visto come necessario termine di transizione verso la «nuova fenomenologia» e che la filosofia husserliana non possa essere considerata, a partire da un certo stadio della sua evoluzione, come una deriva soggettivistica di stampo neokantiano, è qualcosa di assolutamente attestato, poiché così come il secondo volume delle Ricerche logiche non comporta una ritrattazione psicologico-soggettiva di quanto esposto nei Prolegomeni, allo stesso modo si può dire che non c’è una repentina e improvvisa conversione (Umkehrung) alla riduzione fenomenologica, ma che si tratta di prender atto dell’assoluta necessità di un «cambiamento di posizione» (Umstellung) trascendentale229, quale spostamento tematico o mutamento d’attitudine che scongiuri la metabasis alla positività mondana in cui incorre il trascendentalismo classico, al fine di introdurre davvero alla «terza dimensione» di quella «vita profonda» che contrasta in maniera insanabile con l’aspetto bidimensionale della «vita in superficie»230 di stampo obiettivistico, quasi che il piano orizzontale delle relations of ideas humeane potesse così venir trasformato – al riparo delle deformazioni naturalistiche – nella verticale profondità della finora occultata soggettività trascendentale. In tal senso, non va valutata dunque in maniera precipitosa la ricorrente identificazione husserliana della fenomenologia trascendentale con un idealismo trascendentale fenomenologico (o fenomenologico-trascendentale, non importa). Al riguardo, è come se Husserl si fosse ricordato – da buon brentaniano – di servirsi, in maniera allargata, della distinzione di scuola tra aggettivi determinativi e aggettivi modificanti. Nel caso del sintagma in questione, l’enfasi va infatti riposta sulla seconda aggettivazione, che non costituisce tanto la differenza specifica rispetto all’idealismo trascendentale kantiano, ma rappresenta un predicato per così dire “doppiamente modificante”, capace non solo di modificare il significato del nome a cui è apposto, ma addirittura 227 Cfr. E. Husserl, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., pp. 125 sgg.; ma si veda anche, Id., Storia critica delle idee, cit., p. 209 e Kant e la filosofia dell’idealismo tedesco, cit., p. 54. 228 Cfr. E. Husserl, Filosofia prima, cit., p. 231. 229 E. Husserl, Postilla alle Idee, cit., p. 425 (trad. modificata). 230 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., pp. 147 sgg.

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di cambiare segno a un’intera espressione già di per sé qualificata. L’approfondimento della questione trascendentale richiesto dalla fenomenologia husserliana presenta infatti un’impronta apertamente humeana, poiché – pur non volendo certo perseverare nel «positivismo immanente» che espone al fallimento del «finzionalismo» – Husserl medita di analizzare, lungo la stessa direttrice, il senso delle strutture che operano, sul versante della soggettività, in chiave di genesi costitutiva. Senza piegarsi alle distorsioni dello psicologismo sensistico che grava sugli esiti del comune indirizzo empiristico, Husserl rileva tuttavia che il suo metodo fenomenologico-trascendentale «è la realizzazione ultima delle vecchie intenzioni, in particolare della filosofia empiristica inglese, orientate all’esplorazione del senso ultimo della validità della conoscenza attraverso un ritorno alle “origini”»: un metodo, di cui «Kant e l’intero neokantismo che da lui dipende non hanno avuto la minima idea»231. Kant, del resto, per la sua piena appartenenza alla linea di sviluppo del razionalismo e il condizionamento derivante dalla scuola wolffiana, non poteva certo essere visto come il «continuatore di Hume»232, anche per l’incapacità di affrontare l’autentico «problema humeano» e il conseguente «enigma del mondo»233. Quest’ultimo può infatti trovare soluzione solo se l’io prende coscienza della propria attività trascendentale attraverso la riduzione, nella quale la scissione che si compie nell’io consente ad esso – in qualità di «spettatore disinteressato» – di sospendere l’evidenza naturale della propria attualità mondana, per cogliersi responsabilmente – nella differenza che lo istituisce – come soggettività costitutiva del mondo, in quanto cioè interprete di una correlazione trascendentale234. Posto che, per Husserl, è quindi la fenomenologia geneticocostitutiva a poter dare una risposta adeguata al problema di Hume, anche solo uno studio accurato della peculiare caratura scettica espressa nel Treatise – di cui Kant invece si disinteressò – avrebbe potuto evidenziare come impliciti, in tale liberazione da «pregiudizi oggettivistici», quei motivi specificamente trascendentali, legati cioè all’operare di una soggettività pura, che sollecitavano il passaggio da un «empirismo apparente all’empirismo vero e autentico»235. Ancorché già Berkeley, nella sua critica a Locke, avesse aperto la 231 E. Husserl, Per un confronto della mia fenomenologia trascendentale con la filosofia trascendentale di Kant, cit., p. 21 sg. 232 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 119. 233 Cfr. ivi, p. 123 sg.; ma si veda anche Id., Wege und Irrewege der neuzeitlichen Egologie von Descartes bis Hume (1923), in Erste Philosophie (1923/24). Erster Teil, cit., pp. 346 sgg. 234 Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., pp. 64 sgg. Sul ruolo dello «spettatore teoretico puro» (trad. modificata) cfr. Id., La crisi delle scienze europee, cit., p. 356 sg.; sull’epoché come astensione da un interesse determinato, in quanto portatrice di un interesse superiore, cfr. ivi, in particolare pp. 496 sgg. (appendice XX, 20 giugno 1936). Sul raddoppiamento dell’io provocato dalla scissione riflessiva, cfr. Filosofia prima, cit., pp. 113 sgg. 235 Cfr. E. Husserl. Storia critica delle idee, cit., p. 162 sg., ma si veda anche Id., La crisi delle scienze europee, cit., p. 231 sg.

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strada a una «costituzione intenzionale dell’esteriorità nell’interiorità»236, avviando con ciò una teoria che dava conto della «trascendenza sul terreno dell’immanenza» e che s’incaricava di reperire il «senso del mondo esperito»237, gli impulsi trascendentalistici presenti nell’intuizionismo immanente di Hume fanno per Husserl della psicologia humeana il «primo tentativo di un’egologia o fenomenologia pura»238, compromessa peraltro dai caratteri di un empirismo sensistico che ne limitano la visione agli «alberi», precludendogli quella dell’intera «foresta»239. Nondimeno, anche se Hume procede sul terreno della fenomenologia con gli occhi ancora chiusi o, per meglio dire, «accecati»240, le analisi da lui condotte – a prescindere dal naturalismo scettico che le invalida – colgono già la dimensione trascendentale racchiusa nella concretezza dell’ego, per cui Husserl intravede nella traccia lasciata dagli studi humeani le «forme anticipatorie dei principali problemi costitutivi della fenomenologia moderna»241, vale a dire i prodromi di un’autentica fenomenologia trascendentale. In ordine dunque alla stessa genealogia della fenomenologia trascendentale, Husserl propende per ritenere che sul tema della genesi costitutiva dell’oggettività, nonché riguardo all’esibizione dell’operatività intenzionale della soggettività, l’impatto più diretto e determinante non derivi da Kant, ma dall’asse di riflessione su cui si collocano Descartes e l’empirismo inglese (con preminenza humeana)242, a dimostrazione che le sue stesse rivendicazioni idealistiche non vanno concepite in termini selettivamente dottrinari ma di 236

E. Husserl. Storia critica delle idee, cit., p. 128. Cfr. ivi, p. 168. 238 Cfr. ivi, p. 171. 239 Cfr. ivi, p. 179. 240 Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, cit., p. 153. L’accusa di «cecità», che Husserl rivolge indistintamente a tutti gli esponenti dell’empirismo classico, nel caso di Hume riguarda in particolare il fatto di non aver praticato il metodo della riduzione, perdendo con ciò di vista la «peculiarità essenziale» della vita psichica e delle datità coscienziali indagate, senza riuscire quindi a calibrare un «metodo proporzionato alla problematica intenzionale» e, da ultimo, non percependo la «funzione obiettivante della sintesi intenzionale». Su ciò cfr. Id., Logica formale e trascendentale, cit., p. 316. 241 E. Husserl. Storia critica delle idee, cit., p. 187, ma si veda anche Id., Postilla alle Idee, cit., p. 429 e Wege und Irrewege, cit., p. 348 sg. 242 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 460 (appendice XV, forse 1936 o 1937). È la dominante speculativa del tema kantiano inerente alla legittimazione gnoseologica dell’oggettività a far propendere Husserl per l’orientamento problematico dell’idealismo berkeleyano e humeano; cfr. ivi, p. 286 sg. Sull’evoluzione dei rapporti husserliani con Kant e i neokantiani, si veda la Brief an E. Cassirer (3.IV.1925), cit., pp. 3 sgg., dalla quale traspare come non si possa parlare di filiazione kantiana per ciò che attiene alla messa a punto della fenomenologia trascendentale, ma come piuttosto la scienza egologica sviluppata da Husserl includa e abbracci l’intera problematica kantiana, assai più ristretta e sottoposta a un metodo essenzialmente diverso da quello fenomenologico, impostato sulla riduzione come chiave di accesso al «regno delle fonti originarie di ogni conoscenza». 237

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profondità della motivazione adottata. Anche sul piano di una ricognizione attinente agli sviluppi della filosofia trascendentale, Husserl amplia il proprio osservatorio al di là dell’indirizzo di più stretta discendenza kantiana, mostrando come il permanere di motivi trascendentali si avverta – nella cultura tedesca – in presenza di un zurück zu Hume, che nella fattispecie ha luogo nelle forme di empirismo positivistico attuate da Schuppe e da Avenarius, i cui tentativi di giungere a una filosofia trascendentale furono però stornati da una mancanza di radicalità243. Ma se si torna agli abbozzi di filosofia trascendentale, che Husserl ritiene presenti già in alcune concezioni dell’empirismo classico, non c’è in ogni caso possibilità di assimilare l’idealismo trascendentale fenomenologico a qualsiasi forma di idealismo psicologico à la Berkeley, che rischi di trasformare il mondo in una «parvenza soggettiva»244. Lo stesso idealismo soggettivo o «psicologistico», come rappresentato in maniera esemplare da Berkeley e, con non trascurabili difformità, da Hume, non viene criticato solo per il fatto di psicologizzare ogni tipo di oggettualità, negandone cioè di fatto il senso oggettuale, ma perché si tratta al riguardo di un «cattivo “idealismo”», di un «lucus a non lucendo»245, ovvero di un idealismo mancato – senza idee e senza ideali – che non fa alcun rimando all’autentica sfera delle «idealità», per cui non ha nulla a che fare con il significato ben diverso dell’«idealismo fenomenologico», che non rappresenta la revoca di un 243

Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 220. Benché ne avesse criticato, nei Prolegomeni, la fondazione empiristica – su base biologica – della logica e della teoria della conoscenza, è noto come Husserl fosse particolarmente legato al «concetto naturale di mondo» sviluppato da R. Avenarius in Der menschliche Weltbegriff, Reisland, Leipzig 1891, opera che Husserl annotò con cura nel 1902. Husserl si richiama a ciò nei Grundprobleme der Phänomenologie (1910-1911), cit., laddove il tema riguardante tale concetto di mondo si coniuga non già a un arretramento naturalistico della fenomenologia, ma a una sua estensione alla problematica dell’intersoggettività, attraverso cui emerge un primo significativo strappo rispetto all’idea di fenomenologia improntata ancora in senso prevalentemente cartesiano. Su ciò cfr. I. Kern, Einleitung des Herausgebers, in E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Erster Teil, cit., pp. XXXV sgg. Inoltre, in questo stesso scritto, Husserl compie un ulteriore viraggio, considerando la possibilità della fenomenologia non come «dottrina fenomenologica di essenze», ma come «fenomenologia esperienziale» (cfr. E. Husserl, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 3). Per un raffronto più ravvicinato tra la posizione husserliana e quella di Avenarius cfr. ivi, Beilage XX, Immanente Philosophie – Avenarius (presumibilmente del 1915). Il legame di Husserl con la tradizione dell’empirismo e del positivismo tedesco fu molto stretto fin dall’ultimo decennio dell’Ottocento, quando egli si occupò in maniera intensiva degli empiristi inglesi, oltre che di Leibniz. In quegli anni Husserl si cimentò senza costrutto con l’opera di Kant, essendo invece più attratto dalle «Kantkritiken» di Laas, altro esponente di spicco dell’immanentismo positivistico. Su ciò cfr. K. Schuhmann, Husserl-Chronik. Denk- und Lebensweg Edmund Husserls, Nijhoff, Den Haag 1977, p. 25 sg. Sul confronto di E. Laas con la gnoseologia di Kant e della sua scuola, cfr. Idealismus und Positivismus. Eine kritische Auseinandersetzung, Bd. III: Idealistische und positivistische Erkenntnistheorie, Weidmannsche Buchhandlung, Berlin 1884, pp. 312 sgg. 244 Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura, vol. I, cit., pp. 139 sgg. 245 Cfr. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 211 sg.

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precedente realismo, ma costituisce invece un programma di «critica trascendentale della conoscenza» che ha per tema la «soggettività costituente», le proprietà strutturali della coscienza concreta, con l’esplicitazione di quell’operatività nascosta che fa vedere come l’acquisizione di una sempre più adeguata cognizione di tale condizionamento trascendentale delinei un processo analitico destinato a non avere fine. Qui, naturalmente, non è più in gioco quell’attribuzione di idealismo che Husserl conferiva – all’altezza delle Ricerche logiche – alla forma assunta dalla propria «teoria della conoscenza», non certo per avanzare una «dottrina metafisica», ma per contrapporsi alle teorie, come quelle dell’astrazione empiristica, che tendevano a eliminare l’ideale attraverso un’interpretazione psicologistica, quando si trattava viceversa di riconoscere nelle essenze ideali la «condizione di possibilità» della conoscenza obiettiva in genere246; in tale dimensione accresciuta, il carattere del sedicente idealismo husserliano247, che riconduce in senso tematico alla vita coscienziale fluente, si misura con l’analisi genetica della struttura intenzionale dell’io, per esaminarne la costituzione in un peculiare senso storico, facendo di tale soggettività trascendentale non più un vuoto postulato metafisico, ma un’egoità fungente da penetrare in tutti gli strati delle sue operazioni trascendentali. Il tema del trascendentale non rappresenta dunque, per la fenomenologia, una scoperta tardiva, influenzata da scontati richiami kantiani, ma dà corpo a un idealismo trascendentale che non si propone di «dedurre» un mondo sensato da materiali sensibili del tutto amorfi e sprovvisti di un’autonoma strutturazione, né si basa sull’oscura plurivocità operativa della «cosa in sé», che anche come Grenzbegriff è al servizio di una «metafisica senza limiti»248, ma attua una scienza sistematica votata a un’«autoesplicitazione del mio ego»249, riconducendo tutto ciò che ha senso per me in quanto io alla matrice noetica 246

Cfr. E. Husserl, Ricerche logiche, vol. I, cit., p. 378. Sull’autentico significato dell’idealismo trascendentale husserliano, si veda l’originale rimando di J. English a un passo dei Prolegomeni, in cui Husserl – trattando di matematica formale o di «dottrina pura delle varietà» – formula tra l’altro un elogio della teoria dei gruppi di trasformazione di Sophus Lie (E. Husserl, Ricerche logiche, vol. I, cit., p. 255). Proprio tale spia, che richiama ancora una volta l’attenzione sullo stretto legame che intercorre tra i due versanti della correlazione fenomenologica, mostra come l’idealismo husserliano abbia radici che precedono addirittura le Logische Untersuchungen (1900-1901) e come fosse illusoria l’immagine suscitata dalla fenomenologia nelle Ideen (1913), quando poteva sembrare che essa volesse attenersi a uno sterile studio introspettivo dei vissuti coscienziali, rinunciando a occuparsi delle «due teleologie imbricate l’una nell’altra», che fino a quel momento erano rimaste però «nascoste». Cfr. J. English, Pourquoi Husserl a-t-il eu tant de mal à faire admettre que son idéalisme transcendantal n’était pas un idéalisme subjectif?, in Idéalisme et phénoménologie, éd. par M. Maesschalck-R. Brisart, Olms, Hildesheim 2007, p. 78 sg. 248 E. Husserl, Gegen Kants anthropologische Theorie (1908), in Erste Philosophie (1923/24). Erster Teil, cit., trad. it. di C. La Rocca, Contro la teoria antropologica di Kant, in Id., Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., p. 69. 249 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 109 (trad. modificata). 247

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di tale senso, senza che un idealismo siffatto pretenda di contrapporsi in maniera vincente a qualunque forma di realismo. Per questo, la fenomenologia viene vista da Husserl come la «dimostrazione» di un idealismo che non ha le fattezze empiristiche, né tanto meno quelle metafisiche o kantiane, ma che nella sua attitudine trascendentale non può essere disgiunto dalla fenomenologia, la quale soddisfa con ciò lo «stile» della «sola interpretazione possibile del senso» di tutto ciò che ci può essere dato. Infatti, l’equivocità del senso dell’essere è assicurata per Husserl dal principio che non vi è un ente che possa fungere da paradigma di datità assoluta, poiché l’essere stesso si dice sempre in relazione alla modalità trascendentale del suo darsi alla soggettività250. Tra l’altro, questa concezione dell’idealismo fenomenologico, assai meno problematica di quella che pareva comportare, cartesianamente, un primato ontologico della coscienza e una sorta di ipostatizzazione metafisica della soggettività, sancisce solo il divieto – dal punto di vista conoscitivo – di affermare la trascendenza assoluta dell’essere, ed è stata sviluppata con chiarezza in un testo contemporaneo alla pubblicazione del primo volume delle Ideen251. Affermando il carattere strettamente fenomenologico della correlazione che intercorre tra il modo di essere dell’oggetto e il modo di compimento degli atti della coscienza intenzionale intuitiva, Husserl – come rileva molto bene Bernet252 – non propende idealisticamente per un annichilimento del mondo, che porterebbe infatti con sé anche quello della coscienza, né si adegua alle coeve posizioni neokantiane, con conseguente utilizzo della cosa in sé in termini finzionali o di mera «possibilità ideale», ma avanza una concezione dell’idealismo che non assume tonalità fenomenistiche e tanto meno si spinge a rivendicare una qualche indipendenza della coscienza. Al contrario, la coscienza è sempre vista sia nella sua purezza – in quanto sottoposta a riduzione fenomenologica – sia nella sua empiricità, ovvero come collocata al «centro di un’orientazione» spazio-temporale inerente «a colui che determina», di volta in volta, la realtà di una cosa empirica253, assicurandosi di essa attraverso 250

Cfr. ivi, p. 109 sg. Cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Ergänzungsband. Erster Teil. Entwürfe zur Umarbeitung der VI. Untersuchung und zur Vorrede für die Neuauflage der Logischen Untersuchungen (Sommer 1913), Husserliana Bd. XX/1, hrsg. von U. Melle, Kluwer, Dordrecht 2002, in particolare pp. 171-230. Si tratta, segnatamente, del nuovo capitolo (la cui stesura è del luglio 1913) su «possibilità e coscienza della possibilità», che doveva rimpiazzare il quarto capitolo della Sesta ricerca, dedicato a «compatibilità e incompatibilità». Anche solo dal mutamento del titolo si avverte che l’analisi della possibilità ha subito qui una torsione in senso fenomenologico, rispetto al precedente approccio ontologico. Ma ugualmente importante è l’abbozzo (agosto 1913) della nuova versione del quinto capitolo della Sesta ricerca, dedicato a «evidenza e verità» (ivi, pp. 255-271), in cui si definiscono le peculiarità dell’idealismo fenomenologico. 252 Cfr. R. Bernet, Conscience et existence. Perspectives phénoménologiques, P.U.F, Paris 2004, pp. 143-168. 253 Cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Ergänzungsband, cit., p. 271. 251

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un’esperienza percettiva attuale, che comporta una serie infinita di scene percettive concordanti. In altre parole, già a quest’altezza l’idealismo fenomenologico husserliano combacia con i margini della rispettiva gnoseologia, giacché ribadisce non solo la necessità e il primato della «correlazione intenzionale» come superamento metodico di ogni opposizione dogmatica, ma richiede – come ulteriore fonte di legittimazione fenomenologica – che il senso d’essere delle realtà empiriche sia messo in relazione all’esercizio di una coscienza incarnata254, che in progressione – dissipando l’equivoco di una malintesa vocazione solipsistica – contribuisce a una visione intersoggettivamente comunitaria255, senza però mai trasgredire i requisiti dell’egologia trascendentale. Non solo la fenomenologia trascendentale non lede dunque i diritti dell’empirico, ma essa spinge il «disvelamento fenomenologico dell’ego trascendentale»256 a ricomprendere gli altri nella loro funzione trascendentalmente costitutiva di ogni oggettualità, e cioè come partecipi di una comune esperienza trascendentale, confutando così il «presunto solipsismo» con l’esibizione di un’indagine vòlta a un «a priori dell’intenzionalità intersoggettiva»257. Proprio l’«imperterrita consequenzialità»258, da cui scaturisce l’idealismo fenomenologico-trascendentale, ne fa qualcosa di opposto a qualunque forma di idealismo psicologico, motivando anche la sua estraneità rispetto alle speculari contrapposizioni argomentative che hanno connotato il dibattito tra realismo e idealismo comunemente intesi259. Tra i compiti che la fenomenologia trascendentale assume non c’è infatti quello di dover dimostrare l’esistenza del mondo, per cui il problema di cui essa si fa carico esula dall’errore ontologico che ha avviato il «controsenso» del realismo trascendentale cartesiano, 254

Cfr. R. Bernet, Conscience et existence, cit., pp. 163 sgg. Oltre che da molteplici passi contenuti nei tre volumi dell’Husserliana che raccolgono gli scritti sull’intersoggettività (Bd. XIII-XV), tale ampliamento programmatico della fenomenologia trascendentale è testimoniato, ad esempio, anche in uno scritto appartenente al volume che racchiude i testi del Nachlass husserliano in tema di idealismo trascendentale (Transzendentaler Idealismus. Texte aus dem Nachlass (1908-1921), Husserliana Bd. XXXVI, hrsg. von R.D. Rollinger in Verbindung mit R. Sowa, Kluwer, Dordrecht 2003). Al riguardo, si veda Argument für den transzendentalen Idealismus. Die Umfiktion im Zusammenhang mit der Leiblichkeit und der Intersubjektiviät (Text Nr. 9, 1921), dove la tesi dell’idealismo husserliano viene riassunta così: «L’idealismo trascendentale dice: una natura non è pensabile senza soggetti co-esistenti di una possibile esperienza di essa; non bastano soggetti di esperienza possibili» (ivi, p. 156). Sul carattere corporeo, situato e per così dire psico-fisico di tali soggetti costituenti, cfr. anche ivi, p. 160 sg. In un altro scritto probabilmente del 1908 (Esse und percipi), si sostiene inoltre la tesi che l’esistenza delle cose e del mondo reale nel suo complesso non avrebbe alcun senso senza il riferimento a una «coscienza attuale» esperiente (cfr. ivi, p. 64). Ma al riguardo si veda anche il testo n. 7 (1914 o 1915), ivi, pp. 132 sgg. 256 E. Husserl, Postilla alle Idee, cit., p. 428. 257 E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 304. 258 E. Husserl, Postilla alle Idee, cit., p. 426 (trad. modificata e adattata). 259 Cfr. ivi, p. 426 sg. 255

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che affidava le proprie chances di sconfiggere lo scetticismo allo «psicologismo teologico», mentre solo un’analisi intenzionale avrebbe consentito a Descartes di «oltrepassare la soglia della filosofia trascendentale autentica»260. Le indagini costitutive, come analisi del senso noematico, non sono del resto deputate a garantire una sorta di certezza mondana, ma solo a chiarire il senso di tale «indubitabilità», per cui la fenomenologia trascendentale non ambisce a risolvere il «problema storico dell’idealismo», in qualità di «teoria» al pari di altre, ma si propone come «scienza concreta» che dà attuazione a un «idealismo universale», teso a espletare tutti i problemi di ordine costitutivo261. In questa differenza di piano, che rende il trascendentalismo husserliano non commensurabile alle altre declinazioni di un’attitudine filosofica incentrata sul ruolo fondante della soggettività, emerge con nettezza il mutamento qualitativo che rende ingiustificata la critica al programma trascendentale della fenomenologia, la quale utilizzava l’abominevole accusa di «solipsismo» per decretarne appunto il fallimento. Seppur con un ritardo non commendevole262, Husserl spiega che l’incomprensione della sua proposta va messa soprattutto in conto al tenore graduale della sua esposizione e, quindi, all’«incompletezza» che l’ha inevitabilmente limitata in corso d’opera263, sottraendo in qualche modo alla vista la motivazione teleologica intrinseca al suo processo di pensiero. Con l’esplicita messa in rilievo del ruolo di necessario completamento che spetta all’intersoggettività, la fenomenologia husserliana non intende contribuire all’indebolimento pluralistico dell’a priori trascendentale, avanzato in ambito neokantiano senza troppo successo, né collocarsi direttamente sulla scia di Kant attraverso una riformulazione del trascendentale in chiave di mera organizzazione analogica dell’esperienza, ma decretare con trasparenza che con il riferimento alla soggettività trascendentale non bisogna intendere solo: «io in quanto io-stesso trascendentale, concretamente nella mia propria vita trascendentale di coscienza, ma anche: gli altri soggetti [Mitsubjekte] che si rivelano come trascendentali nella mia vita trascendentale, nella comunità trascendentale del noi, che insieme con loro viene alla luce. 260

Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 57; Id., Storia critica delle idee, cit., p. 102. Cfr. E. Husserl, Postilla alle Idee, cit., p. 427 sg. 262 Cfr. ivi, p. 426 n. 2, dove Husserl ripercorre in breve l’emersione del tema dell’intersoggettività trascendentale fin dalle lezioni tenute a Göttingen nel 1910-1911, per poi citare a prova del superamento del solipsismo trascendentale un passo di Logica formale e trascendentale (trad. it. cit., p. 301 n. 27), nonché le Meditazioni cartesiane (in particolar modo la Quinta), che all’epoca della pubblicazione del Nachwort non erano ancora apparse. Sempre sull’incidenza che l’emersione del tema dell’intersoggettività – avvenuta nei Grundprobleme del 1910-1911 – ha avuto sulla definizione della fenomenologia trascendentale in chiave non solipsistica, cfr. anche E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Bd. XIII, cit., p. 245 e n. 1 (Beil. XXXII, intorno al 1912); Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Bd. XIV, cit., p. 307 e n. 1 (Text n. 14, forse inizio 1923); Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil, cit., p. 433 (Beil. XX, 1924). 263 Cfr. E. Husserl, Postilla alle Idee, cit., p. 426 sg. 261

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Nell’intersoggettività trascendentale si costituisce dunque il mondo reale in quanto mondo obiettivo, in quanto esistente per “chiunque”»264. 7. Le divergenze che sottolineano l’alterità della fenomenologia trascendentale rispetto all’idealismo trascendentale kantiano sono state più volte scandite da Husserl con assoluta pertinenza. Nell’insieme, egli critica la presenza nelle varie concezioni kantiane di residui psicologistici e mitologici, che imprimerebbero al criticismo una curvatura di segno antropologico, con relativa caduta del motivo trascendentale. Tali difetti vengono in particolare imputati a un’assenza di radicalismo, a una carenza di rigore metodico e alla mancata estromissione di ogni trascendenza metafisica, con un surplus di disapprovazione per i presupposti naturalistici e psicologici che inquinerebbero l’apparato trascendentale della soggettività kantiana. Inoltre, tutti i concetti kantiani appartenenti a tale sfera sono per così dire affetti da costruttivismo e, in quanto tali, si sottraggono di principio a un chiarimento ultimo. A fronte, dunque, di un’inevitabile oscurità concettuale, Husserl adotta quel metodo regressivo virtuoso che procede ad accertare in modo intuitivo, dischiudendo in forma sistematica l’operatività intenzionale sedimentata nel fondamento della soggettività265. Anche i diversi momenti strutturali della soggettività che in Kant restavano inevitabilmente condannati all’anonimato, le «molteplicità nascoste della coscienza»266 non ancora tematizzate, potevano così risultare oggetto di un’attività riflessiva disvelante esercitata dall’io puro, con la quale matura una scienza egologica attenta alle scissioni dell’io e alla forma plurale – non più singola o impersonale – del soggetto trascendentale267. Ma oltre a disconoscere il carattere di astrazione, generalità o idealità che connota la soggettività trascendentale nella sua consueta veste idealistica, decretandone invece l’appartenenza a una concreta individualità, la fenomenologia husserliana consuma il maggior distacco nei confronti della prospettiva copernicana del criticismo col richiamo alla riduzione fenomenologicotrascendentale, che rappresenta la quintessenza e il motore del suo autentico procedimento regressivo. Se l’epoché, come sospensione dell’atteggiamento 264 Ivi, p. 428. Sulla costituzione dell’«orizzonte degli altri io trascendentali», ovvero dei soggetti appartenenti all’«intersoggettività trascendentale che costituisce il mondo», cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., pp. 210 sgg. 265 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 144 sg. 266 E. Husserl, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., p. 155. 267 Ciò non contrasta però col fatto che ogni processo costitutivo e ogni genere di manifestazione – anche quella riguardante l’altro – rimandi all’io, anzi a un ego originario – sprovvisto di connotazioni speculative – a cui si giunge attraverso l’epoché e che, come polo egologico della vita trascendentale, può essere chiamato io solo «per equivocazione», ancorché tale equivocazione risulti «essenziale», giacché è l’io che attua l’epoché, interrogando il mondo come fenomeno, al pari dell’intera umanità dei co-soggetti. Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 210 sg.

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naturale, rappresenta l’atto d’ingresso nell’esercizio propriamente filosofico, la riduzione in quanto tale funge da tematizzazione della risultante noematica di tale atto operativo, ovvero della correlazione tra la soggettività e il mondo che le si manifesta. Tale dispositivo metodico getta non solo le condizioni per superare, a un tempo, idealismo soggettivo e dogmatismo metafisico, ma soprattutto rende possibile l’accesso al dominio dell’esperienza trascendentale268, che Kant avrebbe considerato alla stregua di un paradosso. Mentre per Kant con «esperienza» si deve intendere, con qualche margine di oscillazione, una forma di conoscenza empirica, e più precisamente l’elaborazione del dato sensibile da parte della spontaneità intellettuale, ovvero quella sintesi conoscitiva che è il prodotto di un’integrazione formale della passività dei materiali sensibili269, al fondo della concezione allargata dell’esperienza husserliana non sopravvive la dicotomia tra sensibilità e intelletto, tra sensibile e intelligibile, in base a cui per Kant l’esperienza poteva assumere solo un indirizzo fenomenico-mondano, ma in essa trova spazio anche l’esperienza costitutiva di sé, che Kant aveva viceversa relegato alla dimensione psicologica del soggetto270. Dal duplice rivolgimento costitutivo che qualifica l’impegno trascendentale della fenomenologia discende che se gli oggetti non sono realtà assolute, l’esperienza non è un evento che accade nell’orizzonte chiuso della soggettività. Essa, infatti, «non è un buco in uno spazio della coscienza, in cui manda luce un mondo esistente prima di ogni esperienza, e neppure un mero accogliere nella coscienza qualcosa che le sia estraneo», bensì «[...] è l’operazione in cui per me, l’esperiente, l’essere esperito “è là”, e nel modo in cui esso è là, con l’intero contenuto e il modo di essere che l’esperienza stessa appunto gli attribuisce per mezzo dell’operazione che si compie nella sua intenzionalità»271. Il metodo regressivo e costruttivo del trascendentalismo kantiano considera dunque in qualche modo l’esperienza come un dato neutro da cui prender 268

Cfr. E. Husserl, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, cit., pp. 140 sgg. Su ciò cfr. ad esempio KrV, B 218, trad. it. cit., p. 355, laddove si indica con esperienza una «sintesi delle percezioni», che però non è presente a sua volta nelle percezioni stesse, ma rinvia all’«unità sintetica del molteplice delle percezioni» contenuta nella coscienza – unità che rappresenta il momento «essenziale» della conoscenza riguardante gli oggetti dei sensi, e quindi anche dell’esperienza in tale accezione. In questo senso l’esperienza viene anche concepita come «conoscenza oggettiva dei fenomeni» (KrV, A 201/B 246, trad. it. cit., p. 391). Diverso è invece il caso in cui l’esperienza non costituisce più un prodotto fornito dall’intelletto, ma piuttosto una delle fonti discrete della conoscenza, ovvero quella che apporta la «materia grezza delle impressioni sensibili», con cui ha inizio ogni nostra conoscenza di oggetti (cfr. KrV, B 1, trad. it. cit., p. 69). 270 Il «brillante artificio» della riduzione fenomenologica – come la definisce Szilasi – dischiude l’immenso campo dell’«esperienza trascendentale di sé» (cfr. E. Husserl, Filosofia prima, cit., p. 102). 271 E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 288 (trad. modificata). 269

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le mosse, acquisendolo al tempo stesso come un fatto indubitabile di cui dover render conto, e cioè di cui mostrare la legittimità in ragione delle relative condizioni di possibilità, ascrivibili alle forme categoriali e alle funzioni di matrice intellettuale che perimetrano il campo di azione di una soggettività trascendentale, a cui compete l’unica attività di sintesi che può imprimere al materiale esperienziale la forma necessaria che ne convalida e ne obiettiva il senso. A questo atto d’imperio di un’enigmatica soggettività kantiana, che – prescindendo dal vero problema humeano – pone il terreno fenomenico dell’esperienza sotto l’égida della propria operatività logico-trascendentale – con l’esito discutibile di raddoppiare il problema metafisico, ora presente anche sul versante della soggettività trascendentale –, l’andamento genetico-costitutivo della fenomenologia, che riconduce all’ego assoluto come «singolo centro funzionale ultimo di ogni costituzione»272, non dischiude un campo di esperienza privata, da cui restano esclusi il mondo e gli altri soggetti, ma – battendo con sempre maggior convinzione la via ontologica alla riduzione273 – esibisce un legame contenutistico e strutturale tra l’esperienza costitutiva del soggetto (ovvero del suo mondo proprio) e quella, ugualmente costitutiva, dei modi di manifestazione del mondo accessibili a tutti. L’analisi dell’intenzionalità costitutiva corregge dunque il tiro del funzionamento soggettivo e intermittente della rivoluzione copernicana di Kant, rendendo innanzitutto tematici tutti quei presupposti che l’indagine kantiana aveva lasciato inindagati – a partire dal «mondo circostante quotidiano della vita», col rilievo che in esso assume l’esperienza percettiva, fino all’intersoggettiva pluralità trascendentale degli altri soggetti egologici274. In particolare, Husserl rimprovera a Kant di esser rimasto troppo aderente, nella sua ricognizione problematica, alla scienza dell’epoca, e cioè alla peculiare «natura scientifica», deviando ancora una volta (come nel caso dell’a priori) dal più corretto tragitto humeano, che gli avrebbe consigliato di porre le questioni trascendentali dapprima con riferimento solo alla «natura prescientifica» e all’ambito dell’«intuizione esperiente», per poi ampliare eventualmente l’osservatorio a quella dimensione di esperienza così spuria, privilegiata appunto dal trascendentalismo kantiano275. Al riguardo, se è vero infatti che l’esperienza trascendentale delinea per Hus272

E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 213. Cfr. ivi, p. 182, laddove Husserl critica gli svantaggi della cosiddetta via cartesiana che, portandosi «con un salto» all’ego trascendentale, rischia di farlo apparire privo di contenuto, e con ciò privo di qualsiasi valore fondante. Ma si veda anche ivi, p. 198 sg.; cfr. Id., Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil, cit., Abhandlungen: Weg in die transzendentale Phänomenologie als absolute und universale Ontologie durch die positiven Wissenschaften und die positive Erste Philosophie (1923), pp. 219-228. 274 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., pp. 134 sgg. e 475 sgg. (appendice XV); Id., Per una critica a Kant e Leibniz, cit., p. 81 sg.; Id., Logica formale e trascendentale, cit., pp. 317 sg. e 324 sgg. 275 Cfr. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 326. 273

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serl un campo per così dire inaggirabile, la sua esplorazione non può peraltro ambire alla conclusività, dato che la stessa soggettività trascendentale subisce un continuo condizionamento dalla sua attività costitutiva; di conseguenza, anche Kant – per rispettare i parametri di una filosofia davvero critica e trascendentale – non avrebbe dovuto pregiudizialmente limitarsi a trattare di un’esperienza già cognitivamente atteggiata in senso scientifico, ma avrebbe dovuto porsi reiteratamente la questione circa le condizioni che deve soddisfare una nozione di esperienza di principio ultima276. In questo modo, Kant avrebbe reso assai meno lacunosa la propria indagine trascendentale e l’avrebbe altresì emendata dai presupposti dogmatici che vi compaiono, dando séguito al principio secondo cui in un programma di ricerca trascendentale tutto dev’essere rigorosamente trascendentale, ovvero deve risentire della medesima «impronta metodologica»277, al fine di scongiurare, nella fattispecie, il cospicuo rimando a contenuti mondani. Dalla constatazione dei vincoli ancora operanti nella filosofia di Kant, spicca dunque il divario messo in mostra dall’elaborazione trascendentale husserliana, che non pratica un atteggiamento idealistico di stampo rigidamente epistemologico, retto da dubbie facoltà coscienziali e incline a una risalita alle condizioni possibilitanti di un fatto peraltro noto, ma attua un’analisi tematica dell’intreccio di articolazioni costitutive che regolano, idealmente, una vita intenzionale già trascendentalmente predisposta ad aprirsi all’intersoggettività. Il cammino che Husserl compie con il richiamo all’ontologia del mondo della vita e al tipo di riduzione che essa richiede, elimina ogni impressione di un cartesianesimo residuale e di una preferenza accordata a una dimensione introspezionistica o anche solo psicologica, rilanciando semmai il legame mondano, con l’attenzione però – in contrapposizione alle ricadute naturalistiche dello stesso idealismo kantiano e alle sue non casuali antinomie – a non svelare l’operatività costitutiva della vita trascendentale ricorrendo a qualsivoglia fattualità. In tal senso, Husserl non introduce alcuna divaricazione, tanto meno metafisica, tra un io trascendentale e un io empirico-mondano, dal momento che non si tratta di due io differenti, né di due io legati o intrecciati tra loro in maniera estrinseca278, bensì di una sorta di immagine sdoppiata derivante da una conversione dell’atteggiamento, ovvero del portato di una riflessione trascendentale che crea – per assolvere a un’esigenza metodica irri-

276 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 460 sg. (appendice XIII); su ciò H. Dussort, op. cit., p. 537. 277 Cfr. E. Husserl, Per una critica a Kant e Leibniz, cit., p. 87. 278 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 226, dove tra i compiti ineludibili della fenomenologia s’indica quello di dover colmare lo scarto tra soggetto empirico e soggetto trascendentale, rendendo così finalmente comprensibile la loro identità, che nel quadro del trascendentalismo classico appariva del tutto enigmatica.

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nunciabile – quella «singolare solitudine filosofica»279 dell’io che, in quanto trascendentale, esercita su di sé la riduzione fenomenologica, non per estraniarsi in una condizione appartata, ma quasi per custodire meglio, in questo suo funzionale distanziamento, la consapevolezza di appartenere alla «comunità degli uomini»280. La fenomenologia trascendentale non si àncora quindi, in modo assoluto, al programma dell’egologia trascendentale, che pur ne rappresenta – in termini d’impostazione – lo snodo cruciale. Così come la costituzione del mondo, del senso di ogni oggettività e della relativa trascendenza si appella, sotto il profilo dell’analisi costitutiva, all’intersoggettività281, come fulcro di una normale convergenza, allo stesso modo anche il completo sviluppo di una dottrina della soggettività trascendentale necessita di attuarsi attraverso il superamento interno di un solipsismo rincarato, che sopravvive solo come traccia argomentativa, dal momento che l’intersoggettività si costituisce pur sempre «a partire dall’io e nell’io» che si rende «trascendentalmente declinabile»282, senza violare cioè il principio di manifestatività. È qui, nel punto in cui la «coscienza dell’intersoggettività» diviene un «problema trascendentale»283, che la fenomenologia husserliana – svolgendo un’indagine che «interroga me stesso»284 – marca la differenza sia dalle inutili scorciatoie della «via cartesiana», sia dalle oscurità metafisiche che ancora popolano l’universo concettuale del trascendentalismo kantiano, con i suoi indistinti richiami a una «coscienza in generale» più che – come avviene nella fenomenologia husserliana – a un’autentica teoria comunitaria retta da una pluralità di soggetti trascendentali. D’altronde, la traversata del deserto solipsistico o egologico non rappresenta, per la fenomenologia trascendentale, un’evenienza improvvisa, ma aveva già 279

Ivi, p. 210. Ibid. 281 Su ciò cfr. ad es. E. Husserl, Späte Texte über Zeitkonstitution (1929-1934), cit., p. 393 (Texte Nr. 90, vacanze natalizie 1930-1931), laddove si dice che la «trascendenza, in cui il mondo [è] costituito, consiste nell’essere costituita mediante gli altri e la co-soggettività generativamente costituita e nell’ottenere così il suo senso d’essere come mondo infinito». Ma si veda anche Id., Erste Philosophie (1923-1924), Zweiter Teil, cit., p. 495 sg. n. 2 (Beil. XXXI, 1923), dove tutto ciò che può dirsi propriamente «trascendenza» si basa sulla «soggettività estranea»; Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Bd. XV, cit., p. 45 (Text Nr. 3, fine ottobre fino a 4 novembre 1929); ivi, p. 560 (Beil. XXVIII, inizio degli anni Trenta); cfr. inoltre La crisi delle scienze europee, cit., p. 206. 282 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 211 (trad. adattata), ma si veda anche p. 212. In Phänomenologische Psychologie, cit., p. 233, Husserl dice che il dischiudere o il portare allo scoperto la «pura soggettività: l’attuazione effettiva delle indicazioni che si è iniziato a tracciare nel corso includerebbe in sé l’intera dottrina della costituzione, ma – appoggiandosi a questa e distaccandosene gradualmente – anche una dottrina generale delle strutture della soggettività individuale e dell’intersoggettività». 283 Cfr. ivi, p. 226 sg. 284 Ibid. 280

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mosso i suoi primi passi – con la consueta gradualità – nei Problemi fondamentali della fenomenologia (1910-1911), laddove il delinearsi della problematica dell’empatia285, nell’ambito di un programma fenomenologico di esclusiva matrice esperienziale, imponeva di estendere la riduzione all’intersoggettività senza che ciò comportasse un ricadere immediato nell’atteggiamento naturale, ma anzi proprio per prevenire una tale impasse, in cui l’esercizio della riduzione all’ego trascendentale – nella sua difettiva provvisorietà – si sarebbe inevitabilmente imbattuto. Sebbene, dal punto di vista metodico, il tema dell’intersoggettività trascendentale possa dunque scaturire solo da un approfondimento radicale del campo dell’ego, e più precisamente da un’analisi sistematica della sua portata operativa, con inclusione non secondaria della sfera funzionale anonima e fungente, la fenomenologia husserliana mostra tuttavia di non perseguire finalità solipsistiche, ma di realizzare – proprio col senso acquisito attraverso la riduzione all’intersoggettività – un grado di riflessione tale da conferire alla fenomenologia trascendentale, e alla filosofia trascendentale in genere, una maggiore compiutezza, frutto di un intervento critico reiterato286. Con l’emersione della problematica intersoggettiva e la sempre più infittita presenza di un’esperienza estranea, sfuma fino ad estinguersi ogni risvolto inerente alla funzione individualizzatrice della coscienza, per lasciare il campo a una concezione della soggettività di marcata ascendenza leibniziana, in cui la natura monadica dell’ego comporta non solo il riferimento alla concretezza e varietà della sua «vita intenzionale», a contrassegno di un personale sostrato di abitualità, ma contempla anche il rimando agli «oggetti» che «si costituiscono per essa» e attraverso essa287. La stessa clausola secondo cui nell’esperire il mondo il soggetto, «in quanto figlio del mondo [...] è sempre, senza saperlo, presso di sé», restando cioè in qualche modo rinchiuso nella «propria soggettività trascendentale»288, non è la plastica attestazione di un solipsismo ine285 Oltre a trattare di tale tema nello scritto in questione, Husserl si occupa principalmente dell’empatia nei testi dal n. 8 al n. 13 (e nelle rispettive appendici) pubblicati in E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Bd. XIV, cit. 286 Al riguardo cfr. E. Husserl, Filosofia prima, cit., p. 222 sg. n. 1; ma si veda anche Erste Philosophie, Zweiter Teil, cit., p. 478, dove la fenomenologia dell’ego puro viene articolata in una «fenomenologia propriamente ingenua» e in una fenomenologia riflessiva di livello superiore che funge da «teoria e critica della ragione fenomenologica» (Beil., XXIX, 1923). Sui necessari approfondimenti del metodo fenomenologico, le cui estensioni – determinate dal manifestarsi di qualcosa di «spritualmente nuovo» – ne sanciscono la natura affatto ultimativa, cfr. Id., Phänomenologische Psychologie, cit., p. 366 (Beil. IV agli Amsterdamer Vorträge, 1926). 287 Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 23 (Discorsi Parigini, trad. in parte modificata), ma si veda anche ivi, pp. 93 e 125 sg. 288 E. Husserl, Filosofia prima, cit., p. 230 (trad. in parte modificata). Al di là delle possibili equivocazioni idealisiche, anche l’opposizione intransigente all’obiettivismo naturalistico che Husserl esprime nella Conferenza di Vienna, appellandosi a uno spirito che può render ragione di

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mendabile, ma il punto fermo di una fenomenologia costitutiva dell’intersoggettività di chiara impronta monadologica, per quanto non disponibile a riconoscere i dettami di un’armonia prestabilita. Tale condizione-limite non contrasta, infatti, con la progressiva declinazione intersoggettiva della fenomenologia trascendentale, ma inibisce invece un regresso a una dimensione preegologica, che farebbe sprofondare l’impianto della riflessione husserliana negli abissi di un assoluto metafisico, quale fondamento prossimo ai lineamenti speculativi di una filosofia dell’identità289. Il carattere di universalità che spetta a una riduzione fenomenologica non più ristretta ai margini del fluire della singola vita coscienziale, determina non solo una comprensione più adeguata della stessa soggettività trascendentale290, ma chiarisce in maniera dispiegata il senso della fenomenologia costitutiva e del contesto comunitario della costituzione in quanto tale. Con l’affacciarsi, nella sfera primordiale propria – in tema di condizioni costitutive della trascendenza – del «fatto dell’esperienza dell’estraneo (del non-io)», ovvero di ciò che si presenta – nella costituzione del mondo oggettivo e del suo senso d’essere – come «il primo estraneo in sé (il primo “non-io”)»291, Husserl evidenzia ancora una volta non solo che l’oggettività del mondo e ogni ambito di validità ha un fondamento intersoggettivo, ovvero che essa passa attraverso l’esperienza dell’altro, ma che la struttura dell’intersoggettività partecipa di un radicamento egologico, al pari di come la struttura intenzionale dell’ego si nutre, mediatamente, della soggettività dell’altro e delle sue prerogative trascendentali. Per questo, ogni apparenza solipsistica si dilegua considerando che l’ego trascendentale – nella sua operatività costitutiva – non produce o crea la datità originaria dell’altro, ma che, alla stregua di un a priori, vige piuttosto la circostanza per cui «coscienza di sé e coscienza dell’estraneo sono inseparabili»292. In altri termini, la reciproca dipendenza trascendentale tra ego e alter-ego elimina ogni tratto paradossale dall’occorrenza che l’ego tenta di attuare la costituzione di tale alterità nella sfera che gli è propria, pur costituendola però in quanto «altro», giacché l’alter-ego esprime sempre una «pos-

sé solo se «ritorna a sé e rimane presso di sé», va ascritta a un’impostazione egologica della fenomenologia di stampo leibniziano (cfr. La crisi delle scienze europee, cit., p. 356). 289 Anche l’accenno di Husserl a una soggettività primordiale, a un Ur-Ich, non è scisso da un riferimento all’orizzonte degli altri io trascendentali, che fungono da co-soggetti dell’intersoggettività trascendentale costitutiva del mondo (cfr. La crisi delle scienze europee, cit., p. 210). 290 Cfr. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Bd. XV, cit., p. 17 (Text Nr. 1, fine marzo/inizio aprile 1929). 291 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 127 (trad. modificata); ma cfr. anche Id., Logica formale e trascendentale, cit., p. 298. 292 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 272 (trad. modificata). Si veda anche ivi, p. 285: «Esperendo, vivendo in generale come io (pensando, valutando, agendo), io sono necessariamente un io, che ha un suo tu, un suo noi e un suo voi: l’io dei pronomi personali».

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sibilità del mio esser-altro»293, per cui è solo l’intima unione tra ego e alter-ego e la loro appartenenza a una «comunità di vita» a esibire come la soggettività trascendentale maturi la sua piena concrezione in rapporto all’«estraneo»294, configurando con ciò la propria universale vocazione intersoggettiva295. Se è vero, quindi, che l’io fa esperienza di un mondo oggettivo comune, che non è però tale in funzione di una sua presupposta inseità, ma solo di sintesi intersoggettivamente costituite, emerge con altrettanta evidenza il senso di un’interscambialità trascendentale dei singoli io, che porta a vedere in «ciascuno» il portatore inclusivo di un «io» e di un «noi»296, facendone dunque il «socius di una socialità»297, l’esponente di una «comunità globale». Ma al riguardo, la novità più dirompente della fenomenologia trascendentale non riguarda tanto che nella struttura di ogni ego monadologico sia «predelineata [...] un’intersoggettività egologica», in qualità di «struttura apodittica universale»298, bensì il fatto che solo nella relazione con l’altro – ovvero in una costituzione dell’altro che non ne sacrifica tuttavia l’alterità – ha luogo in senso trascendentale la stessa auto-costituzione dell’io, che solo così può dispiegare il suo infinito potere costitutivo, da esercitarsi in primis nello strato di un mondo per così dire proprio. A ben vedere, il soggetto può dirsi dunque a buon diritto presso di sé, nell’unità di una concrezione genetica, solo quando realizza per intero il suo poter essere costitutivo, accogliendo l’altro nel proprio campo d’esperienza, nel segno cioè di riconoscere all’intersoggettività trascendentale il ruolo di condizione costitutiva dell’ego e, perciò stesso, di «fatto “assoluto”»299. Con la «scoperta dell’intersoggettività assoluta», ovvero della struttura inerente al «modo d’essere necessariamente concreto» della stessa soggettività egologica, che si «auto-obiettiva» – nella sua vita costituente – assolvendo a una responsabilità filosofica chiamata a esercitare il compito infinito di 293 E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Bd. XIV, cit., p. 155 (Beil. XX, 7 e 8 gennaio 1922). 294 Su ciò cfr. ad es. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Bd. XIV, cit., p. 219 (Beil. XXVII, autunno 1922); Id., Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Bd. XV, cit., p. 75 (Text Nr. 5, probabilmente 1930); ma sul rapporto tra ego e alter-ego si veda soprattutto ivi, pp. 593 sgg. (Text Nr. 34, settembre 1933), dove Husserl sembra correggere il tiro rispetto a quanto espresso, al riguardo, nelle Meditazioni cartesiane. 295 Sulla «piena universalità» della soggettività trascendentale, da intendersi come «Intersoggettività», cfr. E. Husserl, Erste Philosohpie (1923-1924), Zweiter Teil, cit., p. 480 (Beil. XXX, all’incirca 1924). 296 Cfr. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 294. 297 E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Bd. XV, cit., p. 193 (Text Nr. 13, 16 luglio 1931). 298 Cfr. ivi, p. 192. 299 E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Bd. XV, cit., p. 403 (Beil. XXIII, all’incirca 13 novembre 1931).

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STEFANO BESOLI

un’«assoluta conoscenza del noi» che persegua teleologicamente il disegno di un’autentica umanità300, Husserl sconfessa la consueta immagine della fenomenologia come visione essenzialistico-descrittiva, estranea alla storia e incapace di fuoriuscire dalle ristrettezze di un solipsismo coscienziale. Difatti, l’impegno con cui Husserl riconduce la stessa costituzione dell’ego puro al senso di una coincidenza tra empirico e trascendentale che non eccede il piano della storicità illustra l’assetto monadologico e la destinazione comunitaria della sua riflessione. Dalla «monadizzazione» personale dell’ego e dalla conseguente «pluralizzazione monadica» scaturisce dunque quell’apertura comunicativa e sociale della trascendentalità, che fa della «comunità egologica», in cui ogni io è incarnato, la «soggettività costantemente fungente»301. E se la connotazione intersoggettiva della soggettività trascendentale non lascia intatto nemmeno il mondo oggettivo, che viene a costituirsi e a realizzarsi, «come essenza animale e in particolare come essenza umana», in un orizzonte spazio-temporale strettamente connesso alla correlazione intersoggettiva e plurale delle monadi302, il piano inclinato della fenomenologia slitta inarrestabilmente da un’analisi genetico-costitutiva delle strutture egologiche, con rilevanza trascendentale essenzialmente biografica, all’esplicita considerazione di un’«intersoggettività generativa»303 cui partecipa ogni uomo nella sua singolarità, giacché «io sono di fatto in un presente co-umano e in un aperto orizzonte umano, io mi so di fatto in un legame generativo, nel flusso unitario di una storicità, in cui questo presente, il presente umano e il mondo di cui esso è cosciente, è il presente storico di un passato storico e di un futuro storico»304.

300

Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 289, ma si veda anche ivi, p. 498 (Beil. XX, 20 giugno 1936). 301 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 436 sg. (trad. modificata, appendice VIII, forse maggio 1937); cfr. anche Id., Meditazioni cartesiane, cit., p. 156 sg. 302 Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 156. 303 E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Bd. XV, cit., p. 199 (Text Nr. 14, metà agosto 1931); ma cfr. anche Id., Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Bd. XIV, cit., p. 223 (Beil. XXVIII, anni Venti). 304 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 272 (trad. modificata).

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Massimo Ferrari

Filosofia analitica

1. La storia della filosofia analitica e la questione kantiana Tra le grandi correnti di pensiero del Novecento la filosofia analitica è l’unica che per lungo tempo ha rinunciato a interrogarsi da un punto di vista storico sul rapporto con la tradizione (ivi compresa la sua stessa tradizione). L’idea che il movimento analitico sia anche un fatto storico, contrassegnato non solo da fasi diverse e da posizioni molto divergenti, ma pure legato alle filosofie del passato da complessi rapporti di filiazione, ibridazione, critica e ovviamente anche superamento, si è affermata solo in tempi recenti (grosso modo a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso): non tanto per un tardivo sussulto di consapevolezza storica, quanto perché il venir meno di certe convinzioni prima largamente condivise o addirittura – secondo alcuni – il timore di aver coltivato generose «illusioni» ha alimentato una crisi d’identità, dalla quale è sorta a sua volta una più spiccata tendenza a rendere conto in termini storici delle vicende concettuali originate da Frege, Russell, Moore, Wittgenstein e il Circolo di Vienna1. Come ha scritto Georg Henrik von Wright, «nella confusa situazione di crisi della sua identità è opportuno sottoporre la filosofia analitica a un’indagine storico-critica»2. Tuttavia proprio il problema di partenza – il problema dell’identità – ha reso decisamente complicato un simile lavoro d’indagine, dal momento che l’oggetto stesso dell’auspicata rivisitazione storica si è rivelato, se non proprio sfuggente, sicuramente di non semplice determinazione e la domanda “che cosa è stata la filosofia analitica?” ha rinviato a una domanda preliminare ancora più cruciale: “che cos’è la filosofia analitica” e quali sono i criteri atti a identificarla? Anzi, a ben vedere è stata proprio questa seconda domanda a generare la prima, anche se il dibattito intorno a simili quesiti (e intorno alla vexata quaestio degli “analitici” e dei “continentali”) ha spesso chiamato in causa un proficuo

1 Cfr. P. Dews, Die Historisierung der analytischen Philosophie, «Philosophische Rundschau», XLI (1994), pp. 1-17 (qui pp. 1-2). 2 G.H. von Wright, Analytical Philosophy. A Historico-Critical Survey, in The Tree of Knowledge and other Essays, Brill, Leiden/New York/Köln 1993, p. 26.

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MASSIMO FERRARI

circolo virtuoso tra criteri di identificazione storica e criteri di identificazione teorica3. È tuttavia un dato di fatto ormai acquisito che l’historical turn delineatosi chiaramente già nell’ambito della filosofia della scienza si è esteso, o ha caratterizzato contestualmente, anche la filosofia analitica: come è stato osservato alcuni anni fa dai curatori di un illuminante volume sulle alterne vicende dell’empirismo logico nella filosofia americana, «persino le rivoluzioni filosofiche più radicali devono trovare un modo per connettere la loro opera a qualche tradizione filosofica»4. La filosofia analitica, che certamente ha inteso presentarsi come una “rivoluzione filosofica”, si è mostrata così, dopo una lunga parabola, come il possibile oggetto di un’indagine storiografica, da condursi conformemente ai canoni più accreditati della storiografia filosofica (e di cui, nell’ambiente italiano, si è spesso parlato con eccessivo disprezzo come di una forma di fragile “storicismo”). La storicizzazione, la contestualizzazione, la perlustrazione del passato al di fuori di schemi precostituiti, la lettura dei testi ricondotti alla loro originaria collocazione in un preciso momento storico, l’intreccio delle tradizioni di pensiero, le vie impreviste attraverso le quali le “rivoluzioni” muovono da ciò che non era rivoluzionario: questi, e altri motivi che sono tipici del “fare storia della filosofia”, non sono certo estranei al processo di storicizzazione della filosofia analitica (e in modo particolarmente rilevante dell’empirismo logico) che nell’ultimo quarto di secolo si è imposto con forza sempre maggiore nella discussione filosofica e nella ricerca storiografica internazionali: un evento che suona in parte come una postuma rivincita – al di là di molte e sin troppo evidenti differenze – del modo in cui Eugenio Garin proponeva, nel 1978, di «ritmare il processo della discussione [filosofica] secondo i momenti di un travagliato momento storico», istituendo un «legame reale fra corso delle idee e vicende storiche»5. Espresso nel vocabolario più con3

Per la discussione di tali criteri si veda il saggio di F. D’Agostini, Che cosa è la filosofia analitica?, in Storia della filosofia analitica, a cura di F. D’Agostini e N. Vassallo, Einaudi, Torino 2002, pp. 3-76. A questo genere di considerazioni conviene aggiungere la proposta di von Wright di definire almeno con chiarezza – data la difficoltà di circoscrivere in maniera rigida il profilo del filosofo analitico oggi – che cosa sicuramente non può essere considerato come filosofia analitica: vale a dire l’ermeneutica da un lato e il marxismo dall’altro (ivi compresa la teoria critica della società della scuola di Francoforte) (cfr. Analytical Philosophy. A HistoricoCritical Survey, cit., p. 47). 4 Cfr. Logical Empiricism in North America, ed. by G.L. Hardcastle and A.W. Richardson, University of Minnesota Press, Minneapolis-London 2003, p. X. 5 E. Garin, Filosofia e scienze nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1978, p. X. Oggi, del resto, è divenuta pressoché moneta corrente una convinzione che sino a tempi non lontanissimi sarebbe parsa eresia a molti esponenti della filosofia analitica: vale a dire che per indagare un filosofo come Carnap o come Frege o come Schlick occorre innanzi tutto collocarlo nel proprio preciso contesto storico. «Se vogliamo capire Carnap – ha scritto ad esempio Gottfried Gabriel – dobbiamo esaminare la situazione storica nella quale il suo pensiero si è sviluppato»

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FILOSOFIA ANALITICA

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sono alla filosofia analitica, questo significa che occorre coniugare una buona dose di vigore argomentativo con l’indispensabile «sensibilità» per le ricerche sui testi e sulle fonti, superando la vecchia idea secondo la quale «la filosofia è una cosa e la storia della filosofia un’altra»6. Un impulso importante a dibattere in termini di ricostruzione storica l’identità della filosofia analitica è venuto dalla definizione standard proposta a suo tempo da Michael Dummett, per il quale il filosofo analitico è un filosofo convinto che «una spiegazione filosofica del pensiero sia conseguibile attraverso una spiegazione filosofica del linguaggio»7. Secondo Dummett è stato Gottlob Frege a inaugurare un simile stile di pensiero ed è appunto per questa ragione che Frege può essere considerato «il “nonno” della filosofia analitica»8. Ma un album di famiglia concepito in questo modo, in cui si può riconoscere a Russell e a Moore il ruolo di «zii» e, se si vuole, a Bernard Bolzano quello di «bisnonno»9, non è stato unanimemente condiviso: non si tratta solo di una questione di genealogie, o di luoghi e tempi che hanno a che fare con la «nascita del movimento [analitico]»10, ma soprattutto di una questione teorica. Se la filosofia analitica deve veramente essere identificata con la tesi secondo cui una spiegazione filosofica del pensiero è conseguibile solo attraverso una spiegazione filosofica del linguaggio, occorrerebbe sostenere – come ha affermato Ray Monk formulando l’obiezione più paradossale a Dummett – che Russell non è un filosofo analitico, dal momento che egli non ha mai nutrito la convinzione che lo studio del linguaggio costituisca il fondamento della ricerca filosofica in quanto tale11. Inoltre, come ha osservato giustamente Hans Sluga, la filoso(G. Gabriel, Carnap and Frege, in The Cambridge Companion to Rudolf Carnap, ed. by M. Friedman and R. Creath, Cambridge University Press, Cambridge 2007, p. 65; ma non diversamente si esprime A.W. Carus, Carnap and Twentieth-Century Thought. Explication as Enlightenment, Cambridge University Press, Cambridge 2007, p. 37). 6 Non a caso su questo aspetto insiste anche una figura eminente come Hilary Putnam: cfr. Mezzo secolo di filosofia americana. Uno sguardo dal di dentro, «Iride», X (1997), n. 22, pp. 407-437 (qui p. 435). Ma si veda pure l’auspicio (e la convinzione) a cui dà voce Hans-Johann Glock: «i filosofi analitici sono in grado di trattare la loro propria tradizione in una maniera che combina il vigore argomentativo con la ricerca accurata e una buona sensibilità nei confronti degli intrecci storici» (Introduction a The Rise of Analytical Philosophy, ed. by H.-J. Glock, Blackwell, Oxford 1997, p. XIV). 7 M. Dummett, The Origins of Analytical Philosophy, Duckworth, London 1993, p. 4, trad. it. di E. Picardi, Origini della filosofia analitica, Einaudi, Torino 2001, p. 13. 8 Ivi, p. 14, trad. it. cit., p. 23. 9 Ivi, p. 171, trad. it. cit., p. 190. 10 Von Wright per esempio non dubita che la nascita della filosofia analitica debba essere collocata nella Cambridge di Russell e di Moore agli inizi del Novecento (cfr. Analytical Philosophy. A Historico-Critical Survey, cit., p. 27). 11 Cfr. R. Monk, Was Russell an Analytical Philosopher?, in The Rise of Analytical Philosophy, cit., p. 35-50. Per una critica della tesi di Monk si veda E. Picardi, Introduzione a M. Dummett, Origini della filosofia analitica, cit., pp. X-XI.

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MASSIMO FERRARI

fia analitica non è affatto l’oggetto essenzialmente «monolitico» che si immagina Dummett; al contrario si tratta del risultato di numerosi «negoziazioni tra una gran quantità di possibili discorsi molto differenti» e dunque, come nel caso di altre tradizioni filosofiche, la stessa filosofia analitica è costituita da una molteplicità di prospettive che non sono riducibili a un denominatore comune12. D’altra parte proprio a partire dalle tesi di Dummett è sorta l’esigenza di precisare il ruolo, nella fase iniziale della filosofia analitica, di una tradizione di pensiero di tipo “anglo-austriaco” che rappresenta un’alternativa radicale alla tradizione filosofica tedesca, alle cui origini vi è Kant e che ha condotto alle aberrazioni dell’idealismo speculativo di Fichte, Schelling e Hegel. Secondo Barry Smith, ad esempio, le prerogative precipue di questo stile filosofico – già delineate con forza dalle ricerche di Rudolf Haller – sono la connessione della filosofia con le scienze empiriche; una sostanziale simpatia per le posizioni dell'empirismo britannico “classico”; l'interesse per il linguaggio come oggetto privilegiato della critica filosofica; il rifiuto della “rivoluzione copernicana” di Kant, del relativismo e dello storicismo; l'elaborazione di una nozione di a priori diversa da quella kantiana, connessa alla fenomenologia husserliana e alla psicologia della forma; l'attenzione per le strutture ontologiche e le differenze ontologiche tra i vari livelli delle cose; infine una peculiare visione delle relazioni tra il fenomenico e il mentale, senza alcuna concessione riduzionistica13. Eppure lo stesso Smith ha dovuto riconoscere che le eccezioni che mettono in questione la genealogia “austriaca” sono di non poco conto e rispondono a nomi illustri della filosofia scientifica a cavallo del primo Novecento non già in Austria, bensì nella Germania patria dell’idealismo (Frege e Hilbert, ma pure Schlick e Carnap, per non dire del nesso inscindibile tra filosofia e scienze empiriche sostenuto dagli stessi neokantiani): lo stile analitico, insomma, si presenta sin dalle sue origini, anche per Smith, come un fenomeno europeo, che ha molte radici nella cultura austriaca ma che ciò nonostante non si lascia «spiegare» in chiave nazionale14.

12 Cfr. H. Sluga, Frege on Meaning, in The Rise of Analytical Philosophy, cit., p. 19. Si veda anche H. Sluga, Macht und Ohnmacht der analytischen Philosophie, in Bausteine wissenschaftlicher Weltauffassung. Vorträge des Instituts Wiener Kreis 1992-1995, hrsg. von F. Stadler, Springer, Wien-New York 1997, pp. 11-33. 13 Cfr. B. Smith, Austrian Philosophy. The Legacy of Franz Brentano, Open Court, Chicago and La Salle (Illinois) 1994, pp. 2-3. Si veda inoltre R. Haller, Studien zur Österreichischen Philosophie. Variationen über ein Thema, Rodopi, Amsterdam 1979. 14 Cfr. B. Smith, The Neurath-Haller Thesis: Austria and the Rise of Scientific Philosophy, in Austrian Philosophy Past and Present. Essays in Honor of Rudolf Haller, ed. by K. Lehrer and J.Ch. Marek, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London 1997, pp. 1-20 (specie p. 14).

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FILOSOFIA ANALITICA

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Non vogliamo entrare ulteriormente nel merito delle tesi di Smith (o di Haller), ma è opportuno averle presenti perché esse hanno rappresentato una delle possibilità di ricostruzione storico-teorica delle origini della filosofia analitica. L’altro programma di ricerca antagonista, e che potrebbe riconoscersi nell’esigenza – come ha scritto Sandra Laugier – di opporsi a «una concezione della filosofia contemporanea settaria e cieca nei confronti delle complessità, delle somiglianze e delle differenze»15, è stato invece contrassegnato dalla convinzione che si debba partire dalle intricate vicende che legano le origini della filosofia analitica al confronto con Kant e, in larga parte, con il neokantismo. Questo confronto non è stato rilevante solo sotto il profilo storico, ma ha condizionato buona parte delle strategie argomentative con cui la filosofia analitica da Frege a Quine ha affrontato nozioni-chiave come quelle di a priori, di analitico e di sintetico, lungo un percorso che appare molto più accidentato rispetto alla tradizionale identificazione del filosofo analitico con l’analista minuzioso del linguaggio irrispettoso dei grandi filosofi del passato. Si tratta insomma di una storia lunga e intricata, che si è svolta in prossimità della “questione kantiana” anche quando l’esito – come ha mostrato Alberto Coffa – è stato il rifiuto, a partire dalla «tradizione semantica» inaugurata da Bolzano, della maniera in cui Kant aveva impostato il problema centrale della filosofia dagli inizi dell’Ottocento in poi: il problema della conoscenza a priori. Per Coffa «la tradizione semantica è costituita da coloro che credevano nell’a priori ma non nei poteri costitutivi della mente»16; e tale tradizione (Coffa parla addirittura di «movimento filosofico») si contraddistingue tanto per il distacco dalla “rivoluzione copernicana” di Kant, quanto per l’elaborazione di una teoria dell’a priori in cui l’intuizione non svolge più alcun ruolo17. Sottolineando come anche la filosofia analitica non sia sfuggita al destino di tutta la filosofia dopo Kant (a partire dal 1800 ogni sviluppo filosofico di qualche importanza «è stato una risposta a Kant» e, in particolare, una risposta al problema della «conoscenza a priori»), Coffa ha tracciato una storia incentrata sulle strategie alternative a Kant messe in atto dalla «tradizione semantica», per combattere quella che egli chiama la «cattiva semantica» elaborata da Kant nel formulare la distinzione tra analitico e sintetico richiamandosi all’intuizione pura e pagando il prezzo di un equivoco psicologistico non risolto18. 15 S. Laugier, Introduction, in Carnap et la construction logique du monde, edité par S. Laugier, Vrin, Paris 2001, p. 8. 16 A. Coffa, The Semantic Tradition from Kant to Carnap. To the Vienna Station, Cambridge University Press, Cambridge 1991, p. 1. 17 Ivi, pp. 22-23. 18 Ivi, pp. 40-42. L’analisi serrata di Coffa chiama in causa Frege e Russell, Brentano e Helmholtz, Poincaré e Hilbert, e poi Schlick, Carnap, Reichenbach, Wittgenstein, il primo

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MASSIMO FERRARI

Vi è tuttavia una maniera diversa e ancor più radicale di intendere un simile programma di ricerca, partendo anche in questo caso dalla “stazione di Vienna”. Si tratta cioè di mettere in dubbio la tesi di Otto Neurath secondo la quale la filosofia austriaca sarebbe stata in grado di produrre qualcosa come il Circolo di Vienna perché aveva avuto la fortuna di sottrarsi all’«intermezzo kantiano», e quindi di fare a meno di tutti i mali che erano sorti nella vicina Germania proprio sul terreno della «metafisica latente dell’apriorismo kantiano e moderno» (per impiegare le parole del celebre manifesto del Circolo di Vienna)19. La storia dell’empirismo logico è divenuta allora il banco di prova della possibilità di praticare un’altra storia, che può investire in prospettiva la ricostruzione delle origini della filosofia analitica risalendo anche alle sue matrici kantiane e neokantiane, rovesciando in maniera talvolta iconoclasta la received view. Nel caso del Circolo di Vienna l’“eroe” non è più Neurath, ma occorre piuttosto considerare il primo Schlick, il Carnap dell’Aufbau e l’opera di Reichenbach sino alla Philosophie der Raum-Zeit-Lehre. E in questa prospettiva, come ha scritto Michael Friedman, non è ammissibile il duplice errore di separare l’empirismo logico dal suo contesto filosofico originario – ovvero la filosofia tedesca del primo Novecento dominata dal neokantismo – e di fraintendere il significato autentico della sua «innovazione filosofica»: vale a dire di aver fornito «non una nuova versione di empirismo radicale, bensì una nuova concezione della conoscenza a priori e del suo ruolo per la conoscenza empirica»20. Al centro dell’empirismo logico si colloca così, prima dell’influenza del Tractatus di Wittgenstein e della “svolta linguistica”, il problema della “rePopper e la polemica sui protocolli, mettendo così a confronto l’impostazione semantica e la sua concezione della logica, del significato e dell’a priori con le filosofie di ispirazione positivistica e kantiana, anche alla luce degli intrecci che si instaurano tra i due filoni di pensiero. Significativamente, ad esempio, nel Wittgenstein successivo al Tractatus Coffa ravvisa – come vedremo ancora – una certa vicinanza a Kant e a una variante della “rivoluzione copernicana” incentrata sulla funzione costitutiva dei significati linguistici, tanto che la concezione wittgensteiniana dell’a priori (così come quella di Carnap nella Logische Syntax der Sprache) sembrano appartenere, per Coffa, «alla stessa famiglia di Kant» (ivi, p. 263). Sul lavoro di Coffa cfr. anche J. Proust, Alberto Coffa et la tradition sémantique, «Archives de philosophie», L (1987), pp. 353-358. 19 Cfr. O. Neurath, Le développement du Cercle de Vienne et l’avenir de l’empirisme logique, Hermann, Paris 1935, pp. 12-17, trad. it. e cura di F. Barone Il Circolo di Vienna e l’avvenire dell’empirismo logico, Armando, Roma 1977, pp. 52-55. Si veda inoltre R. Carnap, H. Hahn, O. Neurath, Wissenschaftliche Weltauffassung, Wolf Verlag, Wien 1929, p. 18, trad. it. La concezione scientifica del mondo, in Il Circolo di Vienna, a cura di M. Ferrari, La Nuova Italia, Firenze 2000, p. 28. In forma lapidaria, il testo prosegue così: «Per la concezione scientifica del mondo non vi sono conoscenze incondizionatamente valide derivanti dalla pura ragione, né “giudizi sintetici a priori”, del tipo di quelli che sono alla base sia della teoria della conoscenza di Kant, sia, ancor più, di tutte le ontologie e metafisiche pre- o post-kantiane». 20 M. Friedman, Reconsidering Logical Positivism, Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. XIV-XV.

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FILOSOFIA ANALITICA

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lativizzazione” dell’a priori kantiano alla luce delle fisica einsteiniana, dello statuto epistemologico delle geometrie non-euclidee e della nuova logica di Russell-Whitehead. Nelle pagine di Reichenbach, di Carnap e in parte di Schlick composte prima del manifesto del 1929 i problemi del kantismo e del neokantismo non si inscrivono affatto in una qualche «metafisica latente», ma interagiscono in profondità – divergendo da un empirismo radicale alla Mach – con il convenzionalismo di Poincaré e il funzionalismo di Cassirer nel tentativo di definire le condizioni costitutive della conoscenza scientifica: condizioni non più universalmente e necessariamente valide, perché sempre funzionali ai mutamenti reali della conoscenza scientifica stessa. Sulla base di questa revisione dell’immagine tradizionale della “concezione scientifica del mondo” come una sorta di sintesi tra Mach, Russell e Wittgenstein, anche il libro-chiave di tutto l’empirismo logico – ossia Der logische Aufbau der Welt di Carnap – appare largamente indebitato con il proposito di Cassirer di «rappresentare l’aspetto empirico della conoscenza attraverso una serie metodologica di strutture formali», conferendo alla logica matematica moderna la funzione di costituire l’esperienza21. Se il problema di Carnap è quello dell’«oggettività della conoscenza» – ha sostenuto per parte sua Alan W. Richardson – occorre ripartire dall’orizzonte concettuale del neokantismo tedesco e in specie del neokantismo di Marburgo, che su questo terreno ha giocato la scommessa teorica di una “riforma” dell’apriorismo kantiano di cui Carnap è pienamente partecipe e che lo ha tutelato dall’assunzione pura e semplice del punto di vista fenomenistico di Mach22. Con questa riabilitazione del ruolo di Kant per la ricostruzione della tradizione analitica si assiste dunque al ribaltamento delle tesi di Dummett e alla rivendicazione, per contro, di una «tendenza neo-kantiana»23, a cui corrisponde sul piano storiografico un intento – come ha scritto HansJohann Glock – esplicitamente «revisionistico». Si tratta cioè di riconoscere che esiste qualcosa come «una tradizione analitica tedesca», che ha i suoi antenati in Leibniz e in Kant, che trova la prima formulazione organica con Frege, ma che al tempo stesso è debitrice – per la centralità attribuita alla logica, per la polemica antipsicologistica, per la riflessione sullo statuto della conoscenza a priori e infine per la qualificazione della filosofia come me21

Ivi, p. 156. Cfr. anche p. 144: «il progetto dell’Aufbau, per quanto non sia affatto indipendente dalla tradizione empiristico-positivistica, trae le sue origini innanzi tutto da un contesto filosofico kantiano e neokantiano. L’esperienza deve essere costituita di sensazioni sulla base di forme imposte dal pensiero, ma queste forme sono progressivamente svuotate del carattere fisso e sintetico a priori che Kant le attribuiva». 22 Cfr. A.W. Richardson, Carnap’s construction of the world. The “Aufbau” and the emergence of logical empiricism, Cambridge University Press, Cambridge 1998, pp. 2-4, 28-29, 92. 23 F. D’Agostini, Che cosa è la filosofia analitica?, cit., p. 67.

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tariflessione sulle scienze – al neokantismo di fine Ottocento, specie tramite la mediazione di Hermann Lotze24. In questo modo la tradizione analitica tedesca, pur essendo opposta al naturalismo e all’empirismo divenuti dominanti nella filosofia analitica del secondo Novecento, costituisce «un rispettabile albero di famiglia» identificabile in base a cinque caratteristiche: la dicotomia tra conoscenza a priori e conoscenza a posteriori; una concezione aprioristica della filosofia; il nesso strettissimo tra filosofia e conoscenza scientifica, pur senza mai ridurre la prima alla seconda; il «logocentrismo», ovvero il ruolo centrale assegnato alla logica per l’indagine filosofica; infine l’antipsicologismo, ovvero l’impossibilità di ridurre la logica e la teoria della conoscenza a psicologia25. Siamo così ricondotti a una versione delle origini della filosofia analitica che mira a scompaginare le tradizionali mappe concettuali chiamando in causa non solo il neokantismo, ma lo stesso filosofo di Königsberg. Addirittura si può sostenere che la filosofia analitica – come suggerisce Robert Hanna – è «l’immagine rovesciata della prima Critica [kantiana]»: sia perché i rappresentanti della tradizione analitica sono stati in grado di elaborare e legittimare le proprie posizioni anche attraverso un confronto con l’apriorismo kantiano, sia perché interpretando la filosofia di Kant come una «semantica cognitiva» si aprono connessioni insospettate con i problemi affrontati da Frege e tramandati sino alla discussione intorno alle tesi di Quine. Per Hanna diviene così possibile ricostruire una linea di ricerca che trova il suo fulcro nelle nozioni kantiane di analiticità e di sinteticità, le cui potenzialità teoriche sono sfuggite a eminenti rappresentati della tradizione analitica ignari di come l’indagine kantiana sulle condizioni di possibilità del riferimento di una rappresentazione mentale a un oggetto e, più in generale, la messa a fuoco da parte di Kant della «sintassi logica della mente» costituiscano una strumentazione concettuale ricca di soluzioni rilevanti anche per il lavoro analitico26. Per Hanna, che non ha alcun timore di épater le bourgeois, tutte le cose importanti che a partire dal 1880 sono state scritte in filosofia da parte dei leaders della tradizione analitica – Frege, Moore, Russell, Wittgenstein, Carnap, Quine – non possono oscurare il fatto che «i filosofi analitici contemporanei non saranno in grado di risolvere la loro crisi fondazionale sino a che non perverranno a misurarsi completa-

24 Cfr. H.-J. Glock, Vorsprung durch Logik: The German Analytic Tradition, in German Philosophy Since Kant, ed. by A. O’Hear, Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 137-166. 25 Ivi, pp. 144-145. 26 Cfr. R. Hanna, Kant and the Foundations of Analytic Philosophy, Clarendon Press, Oxford 2001, pp. VII, 5, 11, 67, 69, 119-121.

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mente con il loro stesso passato intellettuale e in particolare con il libro [la Critica della ragion pura] che ha reso possibile la tradizione analitica»27. Da questa prospettiva discendono naturalmente molte conseguenze, anche sul piano strettamente storiografico; e lo stesso Hanna ha suggerito recentemente di considerare il XX secolo come un secolo essenzialmente «post-kantiano», in cui peraltro proprio le due tradizioni filosofiche che più sembrano aver incrementato la «grande divisione» tra analitici e continentali – ovvero la fenomenologia da una parte e la filosofia analitica dall’altra – hanno rappresentato in realtà un percorso parallelo originatosi da una «dominante tradizione neokantiana»28. Ma se questo è vero, o se comunque sembra sufficientemente plausibile, occorre anche chiedersi quale Kant sia da collocarsi all’inizio di una simile vicenda. L’immagine analitica di Kant costituisce in altri termini un ulteriore oggetto di indagine (e anche un termine di paragone per capire se e quanto quell’immagine sia ancora attuale): a vario titolo e in varia misura, da Strawson a Rorty (ma in realtà partendo da epoche ben più remote), Kant è stato, per i filosofi analitici, il filosofo che voleva condurre la filosofia sulla «sicura via di una scienza», che si era impegnato nella distruzione della metafisica sulla base del criterio di significanza empirica e che, in generale, si era presentato sulla scena filosofica come il «teorico della conoscenza»29. La storia appare così molto più intricata di quanto non suggeriscano i manuali o le ricostruzioni standard: Kant, e la tradizione neokantiana che quell’immagine di Kant aveva in larga parte alimentato, costituiscono un terreno dal quale sono germogliate se non tutte, certo alcune delle radici che da Frege in poi hanno nutrito il frondoso albero genealogico della filosofia analitica. Il problema dei giudizi sintetici a priori, la “rivoluzione copernicana”, le condizioni a priori della possibilità dell’esperienza e la natura dell’idealismo trascendentale hanno insomma impegnato i filosofi analitici (da Frege a Russell, dagli empiristi logici a Strawson, da Sellars a Putnam) in un lavoro che ha avuto ricadute di grande rilievo sulla comunità analitica e, più in generale, sulla filosofia del Novecento30.

27

Ivi, p. 285. R. Hanna, Kant in the Twentieth Century, in The Routledge Companion to TwentiethCentury Philosophy, ed. by D. Moran, Routledge, London 2008, p. 149. 29 Cfr. S. Neiman, Sure Path of a Science: Kant in the Analytic Tradition, in Future Pasts. The Analytic Tradition in Twentieth-Century Philosophy, ed. by J. Floyd and S. Shieh, Oxford University Press, Oxford 2001, pp. 291-313. 30 Per una rapida ma efficace presentazione di questa vicenda cfr. J. O’Shea, Conceptual Connections: Kant and the Twentieth-Century Analytic Tradition, in A Companion to Kant, ed. by G. Bird, Blackwell, Oxford 2006, pp. 513-526. 28

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2. Frege, Kant e i neokantiani Il problema quanto mai intricato dei rapporti della filosofia analitica con Kant e la tradizione kantiana si profila già, a ben vedere, quando si risale alla figura di Frege, l’antenato riconosciuto di quanto è avvenuto in seguito in una parte così cospicua della comunità filosofica tra Europa e Stati Uniti. Non da oggi, in verità, si discute di come e se il venerando ritratto di Frege possa essere collocato accanto a quello di Kant senza suscitare una lite furibonda tra gli eredi o, come talvolta capita, un contenzioso preliminare su chi abbia il diritto di proclamarsi erede. Le dispute su questo punto sembrano particolarmente adatte a documentare – sulla base di un esempio illustre – in quale direzione può muoversi una considerazione storica delle origini della filosofia analitica che miri a porre in risalto le sue radici continentali, muovendo da una figura troppo spesso dimenticata come quella di Lotze e, più in generale, dal variegato panorama del neokantismo tedesco di fine Ottocento che tuttavia non è mai riducibile a una semplice ripresa di Kant31. Del resto proprio Frege, concludendo le Grundlagen der Arithmetik, aveva sostenuto che il suo intento era stato di giungere a «un miglioramento delle vedute di Kant»32. Poco prima, nel § 89, Frege aveva dichiarato (non diversamente da Bolzano) di scorgere «un grande merito di Kant nell’aver operato la distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici»; e come se non bastasse egli aggiungeva che non solo Kant aveva svelato la «vera essenza» delle verità geometriche mostrandone il loro carattere sintetico a priori, ma che pur essendosi sbagliato in merito alla natura dell’aritmetica qualificandola anch’essa come una conoscenza sintetica a priori non aveva per questo sminuito quello che rimaneva pur sempre il suo titolo di merito. «Per lui – concludeva Frege – la cosa che contava era che vi sono giudizi sintetici a priori; se poi essi si presentino solo nella geometria oppure anche nell’aritmetica è di secondaria importanza»33. Naturalmente, non 31 Cfr, G. Gabriel, Frege, Lotze, and the Continental Roots of Early Analytic Philosophy, in From Frege to Wittgenstein. Perspectives on Early Analytical Philosophy, ed. by E.H. Reck, Oxford University Press, Oxford 2002, pp. 39-51. 32 G. Frege, Die Grundlagen der Arithmetik. Eine logisch mathematische Untersuchung über den Begriff der Zahl, Koebner, Breslau 1884, rist. Reclam, Stuttgart 1987, p. 138. 33 Ivi, pp. 121-122. Cfr. B. Bolzano, Über die Kantische Lehre von der Konstruktion der Begriffe durch Anschauungen, in Philosophische Texte, hrsg. von U. Neemann, Reclam, Stuttgart 1984, p. 266: «Rimane un merito di Kant aver richiamato per primo l’attenzione sull’importante distinzione che sussiste tra la parte analitica e la parte sintetica del nostro sapere: un merito che Kant ha comunque acquisito anche se non si dovesse giustificare e mantenere tutto ciò che questo saggio ha per il resto affermato circa la natura dei nostri giudizi sintetici». Ma per l’accoglimento da parte di Bolzano della distinzione tra proposizioni analitiche e sintetiche si veda pure il § 148 della Wissenschaftslehre (cfr. B. Bolzano, Grundlegung der Logik. Wissenschaftslehre I/II, hrsg. von F. Kambartel, Meiner, Hamburg 1978, pp. 230-235).

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possono sussistere molti dubbi sul fatto che Frege rigettasse in toto la filosofia kantiana dell’aritmetica e che rimproverasse a Kant di aver «palesemente sottovalutato» il valore dei giudizi analitici: giudizi la cui importanza è stata invece confermata dallo «sviluppo impetuoso delle teorie aritmetiche», che hanno smentito la «leggenda» secondo cui la logica pura è del tutto «infruttuosa» per la matematica34. Di qui – è appena il caso di ricordarlo – l’attacco di Frege a Kant, il suo rifiuto dell’intuizione e l’obiezione alla filosofia kantiana dell’aritmetica di ricadere nell’empirismo con il suo ricorso alle dita di una mano per giustificare la banale somma tra 7 e 5. Eppure, nelle stesse pagine in cui Frege rivendica il carattere puramente logico dell’aritmetica e la inscrive nel regno della verità analitiche a priori, viene ribadita con forza la tesi relativa al fondamento intuitivo e al carattere sintetico a priori della geometria35. In questo senso, se Frege dichiara che il problema della natura dell’aritmetica – a priori o a posteriori, analitica o sintetica – attende ancora una soluzione, il tributo rivolto ai meriti della filosofia kantiana e alla concezione della geometria autorizzano a pensare che il rapporto di Frege con Kant sia più complicato di quanto interpreti anche illustri abbiano pensato36. Anche sull’onda delle indagini di Hans Sluga, che hanno contribuito a contestualizzare l’opera di Frege e a leggerlo tenendo conto non solo di Leibniz o di Kant, ma pure dei suoi contemporanei da Trendelenburg e Lotze sino ai neokantiani influenzati da Lotze37, gli studi più recenti invitano a prendere sul serio quanto Frege dice di Kant e a considerare come l’«agenda di Frege» sia fitta di scambi e di appuntamenti non solo mancati con la Critica della ragion pura38. Sluga, ad esempio, assimila direttamente Frege all’idealismo trascendentale, mentre Graciela De Pierris sposa la tesi di un trascendentalismo “debole”39; Hanna è convinto che Frege sulla sinteticità e sull’intuizione abbia una posizione sostanzialmente uguale a quella 34

G. Frege, Die Grundlagen der Arithmetik, cit., pp. 47, 119. Ivi, pp. 29-30, 43-44. 36 Cfr. per esempio A. Coffa, The Semantic Tradition from Kant to Carnap, cit., pp. 62-82. Recentemente Daniel Sutherland ha mostrato come nella stessa concezione dell’aritmetica vi siano significative convergenze tra Frege e Kant: fermo restando che per Frege la rapprentazione concettuale non ha bisogno di essere supportata dall’intuizione, anche per Frege alla base dell’aritmetica vi è una nozione di numero come pura unità che ha le sue radici in Kant (o quanto meno in una lettura non superficiale di Kant): cfr. D. Sutherland, Arithmetic from Kant to Frege, in Kant and Philosophy of Science Today («Royal Institute of Philosophy Supplement: 63»), ed. by M. Massimi, Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 135-164. 37 Cfr. H. Sluga, Gottlob Frege, Routledge & Kegan Paul, London 1980, pp. 48-58 e Frege on Meaning, cit., pp. 30-31. 38 Cfr H.-J. Glock, Vorsprung durch Logik, cit., p. 140. 39 Cfr. H. Sluga, Gottlob Frege, cit., pp. 60-62 e G. De Pierris, Frege and Kant on A Priori Knowledge, «Synthese», 77 (1988), pp. 285-319. 35

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di Kant, ma sottolinea che egli non avrebbe compreso le potenzialità della teoria kantiana dell’analiticità40. Per parte sua, Tyler Burge mette in luce l’importanza di Leibniz per l’elaborazione fregeana della questione dell’apriorità e ritiene che Frege sia più leibniziano che kantiano anche a proposito della natura della geometria41; Glock, invece, osserva che in Frege la coppia analitico/sintetico e apriori/a posteriori è scorporata dall’idealismo trascendentale e che Kant non avrebbe mai accettato il platonismo di Frege42. Ma il riconoscimento dell’importanza dell’Auseinandersetzung di Frege con Kant ha comportato la messa a fuoco di un’altra convergenza lungamente trascurata: quella tra l’antipsicologismo di Frege e l’antipsicologismo dei neokantiani, soprattutto in virtù della mediazione della Logik di Lotze e dell’influenza che essa ha esercitato sul neokantismo della scuola del Baden43. Con un pizzico di salutare polemica Glock a questo proposito osserva a ragione: «bene o male, Frege era più esposto all’influenza del neokantismo che a quella della scuola austriaca»44. Già nel 1986, del resto, Gottfried Gabriel aveva parlato di «Frege come neokantiano» e su questa linea si è collocata poi anche Verena Meyer nella sua monografia su Frege: Frege neokantiano significa qui che Frege non solo ha condiviso con i neokantiani ispirati da Lotze come Windelband e Rickert (ma pure con Otto Liebmann) la fondamentale distinzione tra genesi e validità, ma pure ha teorizzato quel “terzo regno” del senso che ritorna poi, nel contesto della tarda filosofia sistematica di Rickert, come il luogo in cui si colloca la componente appunto del senso – una componente che per Rickert è a fondamento anche delle proposizioni linguistiche e che non è riducibile né alla sfera fisica, né a quella psichica45. Un limite di questa ipotesi di lettura consiste però nel non

40 Cfr. R. Hanna, Kant and the Foundations of Analytic Philosophy, cit., pp. 159-165, 184-194. 41 Cfr. T. Burge, Frege on Apriority, in New Essays on the A Priori, ed. by P. Boghossian and Ch. Peacocke, Clarendon Press, Oxford 2000, pp. 11-42. 42 Cfr. H.-J. Glock, Vorsprung durch Logik, cit., 155-156. Sul platonismo di Frege in quanto contrapposto al trascendentalismo di Kant insiste anche T. Burge, Frege on Knowing the Third Realm, in Early Analytic Philosophy. Frege, Russell, Wittegenstein. Essays in Honor of Leonard Linsky, ed. by W.W. Tait, Open Court, Chicago and La Salle (Illinois) 1997, pp. 1-18. 43 Sull’importanza di Lotze per la cultura filosofica del secondo Ottocento (non solo tedesco) cfr. G. Gabriel, La «Logica» di Lotze e la nozione di validità, «Rivista di filosofia», LXXXI (1990), pp. 457-468. 44 H.-J. Glock, Vorsprung durch Logik, cit., p. 156. 45 Cfr. G. Gabriel, Frege als Neukantianer, «Kant-Studien», LXXVII (1986), pp. 84-101, trad. it. di S. Besoli, Frege come neokantiano, in Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, a cura di S. Besoli e L. Guidetti, Vallecchi, Firenze 1997, pp. 505-526. Cfr. inoltre V. Meyer, Gottlob Frege, Beck, München 1996, pp. 23-24, 30, 138, 163-165. L’influenza del neokantismo del Baden su Frege è stata tuttavia ridimensionata, sebbene non smentita, da H.-J. Glock, Neukantianismus und analytische Philosophie, in Neukantianismus

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aver rilevato come le argomentazioni antipsicologistiche di Frege siano convergenti anche con la posizione della scuola di Marburgo; e non per nulla nella recensione che Frege scrive del libro di Hermann Cohen sul principio del metodo infinitesimale l’unico punto in comune con Cohen che Frege si sente di evidenziare concerne proprio la distinzione di principio tra l’indagine sull’apparato psicologico della conoscenza e il suo carattere oggettivo (ciò che Cohen chiamava la «critica della conoscenza»)46. D’altra parte anche il saggio di Natorp sulla fondazione oggettiva e soggettiva della conoscenza può essere letto, almeno in parte, in parallelo con Frege: non diversamente da Natorp, infatti, anche Frege parla della distinzione tra «contenuto oggettivo» del pensiero in quanto possesso comune al pensare di molti e l’«attività soggettiva del pensare» che invece compete alla sfera puramente soggettiva della rappresentazione; e tuttavia queste evidenti analogie sono ridimensionate da una differenza essenziale, vale a dire dal fatto che mentre Natorp considera l’oggettività sul piano della conoscenza oggettiva in senso trascendentale, Frege invece ha qui in mente un problema di natura linguistica e semantica47. Ma questa delicata linea di confine tra Frege e la tradizione kantiana si estende anche in due altre direzioni. In primo luogo, nel neokantismo marburghese è stato soprattutto Cassirer (in Substanzbegriff und Funktionsbegriff) a discutere Frege con una certa ampiezza: ma qui il terreno è essenzialmente, come vedremo ancora, quello delle critiche neokantiane al logicismo, mentre la prospettiva apparentemente in comune di una trattazione del concetto in chiave funzionale non sembra sufficiente a giustificare una

und Rechtsphilosophie, hrsg. von R. Alexy, L.H. Meyer, S.L. Paulson, G. Sprenger, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden 2002, pp. 499-513. 46 La recensione di Frege di Das Prinzip der Infinitesimal-Methode uscì sulla «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», LXXXVII (1885), pp. 324-329 ed è ristampata in G. Frege, Kleine Schriften, hrsg. von I. Angelelli, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1967, pp. 99-102. Su questo punto si veda l’importante contributo di G. Edel, Cohen und die analytische Philosophie der Gegenwart, in Philosophisches Denken – Politisches Wirken. Hermann-Cohen-Kolloquium Marburg 1992, hrsg. von R. Brandt und F. Orlik, Olms, Hildesheim-Zürich-New York 1993, pp. 179-203 (specie pp. 194-196). 47 Cfr. P. Natorp, Ueber objective und subjective Begründung der Erkenntnis, «Philosophische Monatshefte», XXIII (1887), pp. 257-286, trad. it. di M. Ferrari, Sulla fondazione oggettiva e soggettiva della conoscenza, in P. Natorp, Tra Kant e Husserl. Scritti 1887-1914, a cura di M. Ferrari e G. Gigliotti, Le Lettere, Firenze 2010, pp. 71-95. Si veda G. Frege, Über Sinn und Bedeutung, in Funktion, Begriff, Bedeutung, hrsg. von G. Patzig, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1980, p. 44, trad. it. Senso e significato, in Senso, funzione e concetto. Scritti 1891-1897, a cura di C. Penco e E. Picardi, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 36: «Il significato di un nome proprio è l'oggetto stesso che con esso designiamo; la rappresentazione che ne abbiamo è del tutto soggettiva; tra di esse vi è il senso, che certo non è più soggettivo come la rappresentazione ma neppure è l'oggetto stesso» (trad. leggermente modificata).

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sorta di linea teorica Frege-Cassirer48. In secondo luogo va sottolineato (il che invece avviene di rado) come nel neokantismo di Marburgo, a partire da Cohen, il ruolo dell’intuizione pura nella fondazione della matematica subisca una progressiva emarginazione, che allontana i neokantiani da Kant lungo vie certamente diverse da quelle di Frege, eppure non diametralmente opposte rispetto al progetto logicista quale è presentato a partire dalle Grundlagen der Arithmetik (e si potrebbe facilmente mostrarlo analizzando ad esempio alcuni luoghi delle Logische Grundlagen der exakten Wissenschaften di Natorp e di Substanzbegriff und Funktionsbegriff di Cassirer). Se la storia della “tradizione semantica” – come sostiene Coffa – è la storia della crisi dell’intuizione, del rifiuto dello psicologismo e della funzione costitutiva dell’attività mentale, il neokantismo non può essere considerato del tutto estraneo a questa storia, benchè per quel che concerne una certa maniera di intendere l’antipsicologismo e la problematica della costituzione il neokantismo sia certamente più vicino a Husserl di quanto non lo sia a Frege, mentre d‘altra parte se prendiamo in considerazione il problema dell’intuizione la situazione si rovescia e la vicinanza maggiore è con Frege piuttosto che con Husserl.

48 Si veda L. Landi, Concetto e oggetto in G. Frege ed E. Cassirer, in Filosofia analitica 1996-1998. Prospettive teoriche e revisioni storiografiche, a cura di M. Di Francesco, D. Marconi e P. Parrini, Guerini e Associati, Milano 1998, pp. 121-129. Cfr. inoltre J. Benoist, Contribution à l’histoire de la notion de concept: à la lumière de Cassirer, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXXV (2006), pp. 5-24. Secondo Benoist è tuttavia sorprendente che Cassirer, peraltro mai citando il fondamentale saggio di Frege su Funktion und Begriff, abbia attribuito a Frege la confusione o addirittura l’equivalenza tra concetti di cosa e concetti di funzione, quando invece Frege teorizza senza ombra di incertezza l’«asimmetria radicale» tra concetto e oggetto e l’«abissale differenza categoriale» tra i due piani (ivi, pp. 16-17). A nostro avviso, a prescindere dal fatto che Benoist non entra nel merito delle critiche di Cassirer al logicismo di Frege, è precisamente questa «asimmetria radicale» a non interessare Cassirer e a non andare affatto, come invece sostiene Benoist, «nel suo senso»: se può certamente sorprendere che Cassirer non veda in Frege un precursore della teoria funzionale del concetto, è però comprensibilissimo che Cassirer, dal suo punto di vista, veda nell’alterità radicale tra concetto e oggetto un grave limite di Frege, che palesemente non aveva a mente alcuna funzione “costitutiva” o “generatrice” del pensiero nei confronti dell’oggetto. Ed è in questo senso che Cassirer riscontra in Frege la mancata risoluzione del concetto di cosa in quello di funzione: l’oggetto è dato al pensiero, è esterno ad esso, e questo suo statuto non può non rendere sospetta la posizione di Frege agli occhi di un neokantiano marburghese. In questo senso le posizioni di Frege e Cassirer non sono assimilabili, esattamente come non lo sono – giuste le analisi svolte altrove proprio da Benoist – quelle di Husserl e Frege (cfr. J. Benoist, Husserl et Frege sur le concept, in Husserl et Frege. Les ambiguités de l’antipsychologisme, éd. par R. Brisart, Vrin, Paris 2002, pp. 203-224). Più in generale sembra dunque legittima una certa cautela nell’accostare Sostanza e funzione al «mutamento fondamentale di paradigma rispetto a una tradizione millenaria» introdotto da Frege con la teoria funzionale del concetto (cfr. C. Penco, Le vie della scrittura. Frege e la svolta linguistica, Franco Angeli, Milano 1994, pp. 176-178).

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In ogni caso si tratta di una storia molto intricata, che andrebbe studiata più a fondo e possibilmente senza cadere nell’equivoco di ridurre il neokantismo a un kantismo appena un po’ migliorato; e tuttavia è pur vero che la ricerca delle convergenze non dovrebbe far scordare anche le diversità più evidenti, onde non eccedere nella presentazione di un Frege kantiano o “trascendentalizzato” (come avviene ad esempio nel libro di Dorothea Lotter)49. Certamente il legame di Frege con la tradizione filosofica è più forte di quanto non abbia suggerito per lungo tempo una sua immagine tutta rivoluzionaria e di rottura, e anche nel caso di Frege vi è, per così dire, una storia “segreta” rimasta occultata da molte interpretazioni consolidate; resta però da vedere se i suoi problemi, i suoi tentativi di soluzione e il suo “stile” non esorbitino in tal misura dalla tradizione da renderlo irriducibile, nel suo nucleo di fondo, a qualsiasi “-ismo”, senza che questo significhi sottovalutare, o addirittura ignorare, il modo in cui Frege si è misurato con Kant e la tradizione kantiana contraendo un debito meno irrilevante di quanto si ritiene comunemente. 3. Storie di incommensurabilità Se si adotta il punto di vista di riscrivere la storia della filosofia analitica del Novecento usando come una sorta di reagente Kant e le filosofie neokantiane, non è difficile rendersi conto che – al di là delle influenze più o meno esplicite – non sono state moltissime le occasioni di confronto diretto degli analitici della prima ora con le problematiche della tradizione kantia49 Cfr. D. Lotter, Logik und Vernunft. Freges Rationalismus im Kontext seiner Zeit, Alber, München 2004. Giustamente la Lotter sottolinea come la teoria della conoscenza che in Frege fa da sfondo al suo progetto logicista non implichi affatto, a differenza di quanto pensano Dummett e Philipp Kitcher, una ricaduta nello psicologismo, perché su questo piano Frege sta dalla parte dei neokantiani (ad esempio di Cohen), ovvero ritiene che non sia in gioco il problema della genesi della conoscenza, bensì della sua pretesa di validità o di verità (pp. 221223). A partire di qui si tratta pertanto di mostrare come in forza della dimensione del «pensiero», di cui il linguaggio è espressione secondo modalità ben note alla tradizione moderna inaugurata da Locke e Leibniz, l’impianto della filosofia di Frege ruoti non tanto sulla logica come disciplina base della filosofia, bensì su una «filosofia del pensiero». Occorre dunque smontare l’immagine di Frege “filosofo del linguaggio” che spiana la strada alla filosofia analitica da Wittgenstein in poi, e proporre invece un quadro molto più frastagliato e problematico, in cui del resto lo stesso Wittgenstein del Tractatus non sembra adattabile alla visione ricevuta di colui che a sua volta fa della logica la base della filosofia (pp. 261-267). Più difficile sembra invece sottoscrivere la “trascendentalizzazione” di Frege a scapito della componente semantica proposta dalla Lotter: sia la tesi secondo la quale vi sarebbe in Frege un residuo di logica trascendentale nelle vesti di una teoria delle condizioni di possibilità del riferimento a oggetti in generale (p. 73), sia quella più generica per cui ogni consapevolezza dei limiti della conoscenza sarebbe un indizio di «impostazione trascendentale» (p. 294) rischiano di comprimere Frege su un piano che gli è estraneo.

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na e per converso, da parte dei seguaci di Kant, con gli esponenti del movimento analitico nella sua fase iniziale – dove per fase iniziale si possono intendere, grosso modo, le vicende concettuali che vanno da Frege a Russell al primo Wittgenstein e, per un altro verso, le avventure di idee che sono all’origine dell’empirismo logico dei circoli di Vienna e di Berlino. Ma nonostante si abbia a che fare nel complesso con un numero abbastanza limitato di episodi, alcuni dei quali peraltro pressoché sconosciuti (come nel caso della discussione, da parte del neokantiano Jonas Cohn, dell’Aufbau e del fisicalismo di Carnap)50, si tratta pur sempre di momenti particolarmente significativi per la narrazione di “un’altra storia” che consenta di ripensare alla divisione tra “analitici” e “continentali” in termini meno scontati (e storicamente più articolati). In particolare è opportuno soffermarsi su due storie parziali dalle quali emerge, oltre a un intrico di connessioni che nessuna “ricostruzione razionale” sembra in grado di afferrare veramente, anche un certo grado di incommensurabilità che può dar conto di alcuni nodi cruciali per il confronto tra la filosofia analitica e la tradizione kantiana nei primi decenni del Novecento. Si tratta da un lato della discussione tra Cassirer e Russell sulla concezione delle relazioni in Leibniz e sul modo di intendere la teoria della conoscenza di Kant, con la conseguente presa di posizione di Cassirer a proposito dei Principles of Mathematics di Russell; e dall’altro della polemica, agli inizi degli anni Venti, tra neokantismo e nascente empirismo logico sulla teoria einsteiniana della relatività: una polemica che si fonda su due maniere diverse di leggere il sintetico a priori kantiano e che è stata gravida di conseguenze per i rapporti tra neokantismo e filosofia analitica. Se si può sostenere che la filosofia analitica inizia anche con Russell (ma abbiamo visto che questa tesi è stata messa in discussione per confutare la posizione di Dummett), non è privo di interesse ricordare come Russell, nella delicata fase di passaggio dal giovanile idealismo alla “rivolta” contro di esso patrocinata da Moore, si sia collocato nei confronti di Kant e del neokantismo dopo aver difeso egli stesso una posizione di tipo neokantiano nel saggio del 1897 sulla geometria51. In quelle pagine Russell non era lontano da una prospettiva neokantiana, se è vero che egli non si limitava a rivendicare la funzione trascendentale dell’a priori, inteso come «ciò che rende possibile l’esperienza oggetto della nostra scienza», ma proponeva una fondazione della geometria in cui l’a priori spaziale era concepito come una struttura concettuale, non come una risorsa intuitiva della mente umana, ponendosi in tal modo su un terreno certo non lontano da quello del 50 Cfr. J. Cohn, Kritische Bemerkungen zur neupositivistischen Erkenntnislehre, namentlich zu der Carnaps, «Philosophische Hefte», V (1936), 1/2, pp. 51-74. 51 Sul distacco di Russell dal cosiddetto “neoidealismo” britannico cfr. H.-J. Glock, What is Analytic Philosophy?, Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 30-34.

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neokantismo (e in specie del neokantismo di Marburgo) anche in forza di una dichiarata opzione antipsicologista52. Russell avrebbe ben presto abbandonato queste idee kantiane, anche a seguito del decisivo incontro con la logica di Giuseppe Peano nel 1900; ma in questo accidentato percorso una tappa importante è rappresentata dallo studio della filosofia di Leibniz, dal quale sarebbe nato tra l’altro il confronto con Cassirer ai primi del Novecento, quando a essere in gioco sarà in realtà, nel clima della Leibniz-Renaissance d’inizio secolo, anche (e forse soprattutto) l’eredità della “rivoluzione copernicana” di Kant. In effetti, Russell e Cassirer si incontrano e si scontrano proprio sul terreno dell’interpretazione della filosofia leibniziana e del suo rapporto con quella di Kant, in particolare sul problema dello statuto delle relazioni. Mentre Russell sottolinea – ed è una tesi ben nota agli studiosi di Leibniz – che l’impossibilità di ridurre le relazioni al rapporto logico soggetto-predicato ha costretto Leibniz a degradarle sul piano di pure finzioni mentali assimilabili a ciò che sono per Kant le forme a priori53, Cassirer non solo oppone a Russell una diversa interpretazione dello statuto delle relazioni leibniziane come leggi dell’oggettività scientifica, ma gli rimprovera più specificamente di aver misconosciuto il significato del termine «ideale» in Kant: ideale non vuol dire «mentale», bensì «legale», «fondativo», ovvero valido sul piano epistemologico delle condizioni di possibilità dell’esperienza (in un certo senso, si potrebbe dire, quello di Cassirer è un argomento trascendentale contro la riduzione del kantismo operata da Russell a un idealismo di tipo mentalista)54. Naturalmente, il confronto tra le due posizioni coinvolge in profondità anche il modo di leggere la filosofia leibniziana, e in specie il rapporto tra logica e metafisica; ma sullo sfondo, come sottolinea lo stesso Russell recensendo a sua volta il libro di Cassirer, ritorna di continuo proprio la filo52 Cfr. B. Russell, An Essay on the Foundations of Geometry, Cambridge University Press, Cambridge 1897, nuova ed., Dover, New York 1956, pp. 57, 60, 78, 193-198. Sul kantismo difeso da Russell in quest’opera giovanile si vedano P. Hylton, Russell, Idealism, and the Emergence of Analytic Philosophy, Clarendon Press, Oxford 1990, pp. 73-84 e A.C. Grayling, Russell’s Transcendental Argument in “An Essay on the Foundations of Geometry”, in Bertrand Russell and the Origins of Analytical Philosophy, ed. by R. Monk and A. Palmer, Thoemmes Press, Bristol 1996, pp. 245-267. Si può aggiungere che Natorp discusse favorevolmente il libro di Russell nel saggio Zu den logischen Grundlagen der neueren Mathematik, «Archiv für systematische Philosophie», VII (1901), pp. 177-209, 372-384, trad. it. e cura di N. Argentieri, Sui fondamenti logici della nuova matematica, in Forma e materia dello spazio. Dialogo con Edmund Husserl, Bibliopolis, Napoli 2008, pp. 107-151. 53 Cfr. B. Russell, A Critical Exposition of the Philosophy of Leibniz, Cambridge University Press, Cambridge 1900, pp. 13-15, 118-119, trad. it. di E.B. Cucco, Esposizione critica della filosofia di Leibniz, Longanesi, Milano 1971, pp. 42-46, 199-201. 54 Cfr. E. Cassirer, Leibniz’ System in seinen wissenschaftlichen Grundlagen, Elwert, Marburg 1902, rist. an. Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1962, p. 537, trad. it. di G.A. De Toni, Cartesio e Leibniz, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 395.

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sofia di Kant. Del resto nel 1901 era apparsa la grande monografia di Louis Couturat sulla logica di Leibniz e Russell ne aveva tratto la convinzione che la sua tesi relativa alla dipendenza della metafisica leibniziana dalla logica ne uscisse sostanzialmente rafforzata55. Come aveva mostrato Couturat, la logica leibniziana, pur con tutte le limitazioni del suo perdurante aristotelismo, era da intendersi come un’anticipazione e un’incompiuta delineazione della moderna logica simbolica (alla quale, contrariamente a quanto solitamente si dice, Russell peraltro non pensava ancora quando scriveva il suo libro su Leibniz). Per questo il tentativo operato da Cassirer di leggere Leibniz come se fosse Kant sembrava a Russell (che, in realtà, su questo punto si sbagliava) un’interpretazione ancora più «fantastica» di quanto non lo fosse la monadologia leibniziana, peraltro con la conseguenza non esaltante di trascurare del tutto il ruolo fondamentale della logica simbolica sviluppata genialmente da Leibniz (in questo sicuramente molto più “moderno” del “conservatore” Kant)56. Questo breve ma vivace scambio filosofico tra Russell e Cassirer non è stato ininfluente per quanto è avvenuto in seguito nei rapporti tra filosofia analitica e tradizione kantiana, se è vero che una parte cospicua di quel nesso (e della frattura che ne è derivata) si è giocata proprio sul terreno, da un lato, della visione della “questione kantiana” e del ruolo, dall’altro lato, che la logica moderna deve svolgere nell’impresa filosofica, determinando in modo nuovo sia i rapporti tra logica e matematica, sia il lavoro di analisi (concettuale e linguistica) che costituisce l’agenda della “tradizione semantica”. In primo luogo occorre dunque sottolineare che l’immagine russelliana di Kant che affiora sia nel libro su Leibniz, sia nella recensione a Cassirer è un’immagine destinata a rimanere nel percorso successivo di Russell e a incidere sugli sviluppi della stessa filosofia analitica57. Se apriamo ad esempio i Problems of Philosophy del 1912, troviamo la tesi secondo la quale occorre scorporare l’a priori (e la conoscenza a priori) dal mentalismo di Kant, che ridurrebbe tra l’altro lo spazio e il tempo da caratteristiche del mondo reale a pure «apparenze» o entità «irreali». Una volta rifiutato il «metodo» di Kant occorre pertanto rivolgersi in un’altra direzione, alla ricerca delle «relazioni fra universali» che non sono né fisiche né mentali e la 55 Cfr. L. Couturat, La logique de Leibniz d’après des documents inédits, Alcan, Paris 1901, rist. an. Olms, Hildesheim-Zürich 1985. 56 Per la discussione da parte di Russell delle opere leibniziane di Cassirer e Couturat cfr. B. Rusell, Recent Work on the Philosophy of Leibniz, «Mind», XII (1903), pp. 177-201. Per un esame più approfondito di questo dibattito sia concesso rinviare al nostro Il giovane Cassirer e la scuola di Marburgo, Franco Angeli, Milano 1988, pp. 257-267. Si veda inoltre il contributo di J. Pulkkinen, Russell and the Neo-Kantians, «Studies in the History of Philosophy of Science», XXXII (2001), specie pp. 103-107 (che tuttavia non è sempre condivisibile). 57 Su questo punto cfr. anche J. O’Shea, Conceptual Connections: Kant and the TwentiethCentury Analytic Tradition, cit., p. 517.

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cui conoscenza costituisce propriamente la conoscenza a priori. «Seguendo Kant – scrive Russell – molti filosofi hanno pensato che le relazioni siano opera della mente, e che le cose in se stesse non abbiano relazioni reciproche, ma la mente le unisca in un solo atto di pensiero, determinando le relazioni che attribuisce alle cose stesse»58. Per contro, la conoscenza a priori è conoscenza di relazioni che sussistono indipendentemente dalla mente: come per Frege, essa riguarda non ciò che il pensiero «crea», ma ciò che il pensiero semplicemente «apprende» e che sussiste indipendentemente da esso e da ogni entità fisica. La conoscenza degli universali avviene certamente nella nostra mente, ma il suo fondamento non è nella nostra mente59: in questo senso, il Kant di Russell è un Kant “berkeleyano” e fenomenista, spogliato di ogni aspirazione a individuare le condizioni di possibilità della conoscenza oggettiva (come invece non si stancavano di mettere in evidenza i neokantiani) e che sicuramente pagava il suo debito a quella confutazione dell’idealismo (ivi compreso l’idealismo kantiano) con cui Moore aveva aperto a Russell una nuova strada in filosofia60. 58 B. Russell, The Problems of Philosophy, William and Norgate, London 1912, rist. Oxford University Press, Oxford 1998, p. 51, trad. it. di E. Spagnol, I problemi della filosofia, Feltrinelli, Milano 1963, p. 106. 59 Ivi, p. 56, trad. it. cit., p. 116. 60 Su quest’ultimo aspetto e sulla lettura anch’essa “berkeleyana” di Kant proposta da Moore cfr. R. Hanna, Kant in the Twentieth Century, cit., pp. 166-167. Non è inopportuno ricordare che già nel 1899, discutendo della Natura del giudizio, Moore aveva avviato il processo di liberazione dall’idealismo britannico (soprattutto nella versione di Francis H. Bradley) muovendosi su tre livelli problematici: in primo luogo l’assunzione di un netto antipsicologismo, che consente a Moore (in parte sulle orme di Bradley, ma utilizzando anche Lotze) di mettere in questione l’identificazione delle idee con il loro essere dei contenuti mentali, sicchè il loro significato dipenderebbe dal nostro rapporto con la realtà; in secondo luogo Moore ritiene che l’indipendenza delle idee dal fatto di essere pensate giustifichi la loro classificazione come concetti (nel senso kantiano di rappresentazioni che unificano il molteplice): essi acquisiscono uno statuto ontologico di tipo “platonico” e si rivelano, all’analisi di Moore, come entità che non sono astratte né dall’esperienza esterna, né dall’attività mentale, ma che invece sussistono come indipendenti. I concetti, in questo senso, sono gli autentici (e unici) oggetti della conoscenza, onde la conoscenza delle cose è sempre conoscenza di concetti e delle loro relazioni; anzi, più in generale Moore sostiene a questo proposito che «esistere è semplicemente collocarsi in una certa connessione logica» (G.E. Moore, The Nature of Judgement, «Mind», VIII [1899], pp. 176-193, rist. in Selected Writings, ed. by Th. Baldwin, Routledge, London and New York 1993, pp. 1-19, qui p. 9). In terzo luogo, infine, su questo terreno Moore istituisce un confronto critico con Kant: negativo quando si tratta di prendere le distanze dall’«oscura» tesi di un’«opera della mente» che sarebbe la sorgente delle relazioni tra i concetti, ma positivo quando si tratta di riconoscere che il trascendentalismo ha posto un problema a cui lo «scetticismo di Hume e l’empirismo in generale» non erano stati in grado di rispondere. Tuttavia la distinzione tra l’universalità e la necessità delle proposizioni a priori e il carattere contingente di quelle empiriche non è condivisibile: per Moore anche le proposizioni empiriche, nella misura in cui sono proposizioni su concetti, implicano necessità e universalità (in un’accezione non dissimile dall’interpretazione fenomenologica dell’a priori materiale) (ivi,

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Sul fronte del neokantismo, una visione decisamente diversa della filosofia kantiana sembrava invece dominare la scena nei primi anni del Novecento. L’attore protagonista è anche in questo caso Cassirer, il cui lungo intervento del 1907 sui Principles of Mathematics di Russell e sulla battaglia intrapresa a difesa del ”logicismo” da parte di Couturat segna il secondo momento cruciale della storia (o della preistoria) che si svolge, ben prima dei fasti successivi della filosofia analitica, intorno al problema della natura della logica, della matematica e della teoria della conoscenza di Kant61. Cassirer ebbe il grande merito di misurarsi prontamente con la filosofia della matematica di Russell (e con la sua divulgazione ad opera di Couturat), fissando anche qui un punto fermo già adombrato nella polemica su Leibniz e le relazioni. Cassirer, infatti, riconosceva subito al Russell dei Principles of Mathematics di aver profondamente rinnovato la logica tradizionale muovendo da una fondazione relazionale della matematica, onde la matematica è solo un’«applicazione particolare della logica delle relazioni», che non dipendono da classi date ma che piuttosto le costituiscono in base a una relazione d’ordine. Con questa interpretazione della logica matematica, intesa come un nuovo factum scientifico di cui la filosofia critica deve offrire la fondazione trascendentale, Cassirer tentava una sorta di avvicinamento a Russell, senza tuttavia impegnarsi più direttamente sull’aspetto strettamente logico o logico-simbolico, né sulle implicazioni che dalla logica di Russell derivavano o potevano derivare per altri ambiti (Cassirer, non a caso, non citerà mai in tutta la sua opera il saggio russelliano sulla denotazione). Cassirer era invece interessato a mettere in luce, anche in polemica con l’interpretazione integralmente analitica di Couturat, le assunzioni di natura sintetica con cui Russell aveva dato corpo al progetto del logicismo; e in questo contesto Cassirer coglieva bene un aspetto cruciale del Russell dei Principles: per Russell il solco nei confronti di Kant si era scavato non tanto p. 15). Moore, insomma, non è interessato alla questione della “possibilità dell’esperienza”, ma apprezza la riflessione kantiana per aver mostrato che spazio, tempo e categorie sono coinvolti nei giudizi empirici come connessioni di concetti, mentre viene a cadere invece ogni riferimento «alla nostra mente o al mondo» (ivi, p. 16, 18). 61 Cfr. E. Cassirer, Kant und die moderne Mathematik (Mit Bezug auf Bertrand Russells und Louis Courats Werke über die Prinzipien der Mathematik), «Kant-Studien», XII (1907), pp. 1-49, trad. it. Kant e la matematica moderna (In riferimento ai lavori di Bertrand Russell e Louis Couturat sui principi della matematica), in E. Cassirer-L. Couturat, Kant e la matematica, a cura di C. Savi, Guerini e Associati, Milano 1991, pp. 93-142. Per una buona presentazione d’insieme del saggio di Cassirer cfr. V. Schaepelynck, Cassirer et le programme de modernisation des mathématiques, in Kant face aux mathématiques modernes, sous la direction de E. Barot et J. Servois, Vrin, Paris 2009, pp. 127-137 (cui segue, alle pp. 139-181, la traduzione francese del testo di Cassirer). Il confronto del neokantismo e in particolare di Cassirer con il logicismo di Russell e Couturat è ampiamente studiato da J. Pulkkinen, Thought and Logic. The Debates between German-Speaking Philosophers and Symbolic Logicians at the Turn of the 20th Century, Peter Lang, Frankfurt am Main 2005, pp. 207-274.

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sul piano delle assunzioni ultime di natura sintetica, bensì su quello dell’irriducibilità teorizzata da Kant della matematica alla logica e del necessario ricorso alle risorse cognitive dell’intuizione pura dello spazio e del tempo, che avevano ricevuto secondo Russell «una confutazione definitiva e irrevocabile»62. Quest’ultimo punto, del resto, poteva essere sottoscritto – almeno in parte – anche da un neokantiano di Marburgo (ma Russell, in realtà, non sembrava essere interessato a questa possibile convergenza); sulla riduzione della matematica alla logica, invece, l’accordo di Cassirer con Russell (e con Frege) era subordinato a due condizioni. Prima di tutto Cassirer riteneva – non diversamente da Poincaré – che la deduzione logica del numero cardinale dal concetto di classe si avvolgesse in un circolo vizioso e che, in ogni caso, la priorità logica spettasse (sulle orme di Dedekind) al numero ordinale63. In secondo luogo, per Cassirer la logica poggia sì su assiomi indimostrabili, su relazioni fondamentali – identità, differenza, parte, tutto, funzione – ma in realtà si configura, per esplicita ammissione di Russell, come una compagine di principi sintetici che Cassirer, per parte sua, interpretava come posizioni del pensiero puro, come presupposti per la costruzione concettuale nel senso di un costruttivismo di tipo kantiano e, più specificamente, marburghese64. Quest’ultimo aspetto rimanda del resto al modo in cui Cassirer difendeva la filosofia kantiana dagli attacchi mossi da Couturat, per il quale lo sviluppo della logica e della matematica moderna avevano definitivamente messo in mora il valore della sintesi a priori, riportando in auge la funzione determinante dell’analiticità e, sul piano storico, la modernità della filosofia leibniziana rispetto al conservatorismo di Kant65. Cassirer teneva a sottolineare invece la funzione cruciale della sintesi a priori, in quanto attività del pensiero puro che istituisce i nessi relazionali su cui si fonda la matematica e che, al tempo stesso, consente l’applicazione della matematica alla scienza 62

B. Russell, The Principles of Mathematics, Cambridge University Press, Cambridge 1903, nuova ed. Routledge, London 1992, p. 4, trad. it. di B. Widmar, I principi della matematica, Newton Compton, Roma 1971, p. 29. Sul ruolo che riveste il logicismo nell’opposizione di Russell a Kant cfr. l’interessante messa a punto di I. Proops, Russell’s Reasons for Logicism, «Journal of the History of Philosophy», XLIV (2006), pp. 267-292. 63 Cfr. E. Cassirer, Kant und die moderne Mathematik, cit., pp. 26-27, trad. it. cit., pp. 118-119. Si veda inoltre Substanzbegriff und Funktionsbegriff. Untersuchungen über die Grundfragen der Erkenntniskritik, Bruno Cassirer, Berlin 1910, rist. an. Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstad 1994, pp. 57-70, trad. it. di E. Arnaud, Sostanza e funzione. Ricerche sui problemi fondamentali della critica della conoscenza, con un’Introduzione di M. Ferrari, La Nuova Italia, Firenze 1999, pp. 63-76. Su questo punto cfr. pure H.R. Smart, Cassirer versus Russell, «Philosophy of Science», X (1943), p. 167. 64 Cfr. E. Cassirer, Kant und die moderne Mathematik, cit., p. 36, trad. it. cit., p. 129. 65 Cfr. L. Couturat, La philosophie des mathématiques de Kant, «Revue de Métaphysique et de Morale», XII (1904), pp. 321-383, trad. it. La filosofia della matematica di Kant, in E.Cassirer-L. Couturat, Kant e la matematica, cit., pp. 21-92.

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fisica e all’esperienza scientifica, ossia a un ambito che per contro il logicismo trascura del tutto66. D’altra parte Cassirer sosteneva che l’intuizione pura kantiana in effetti richiedeva un netto ridimensionamento, essendo ancora legata all’autonomia della sensibilità che Kant aveva messo in luce nella sua fase precritica e che lo sviluppo stesso dell’indagine kantiana, così come essa si configura all’altezza dell’analitica trascendentale, aveva saldamente ricondotto sotto la guida dell’intelletto, e più precisamente qualificandola non già come il punto di partenza, bensì come la mèta del processo della conoscenza, come il risultato della costruzione del concetto puro in forza della sintesi generatrice. In questo senso, ma solo in questo senso, la critica della conoscenza kantiano-marburghese poteva incontrarsi con l’«esigenza» di Russell e Couturat «di una derivazione puramente logica dei principi matematici fondamentali»67. Un bilancio ragionevole di questa discussione svoltasi nei primi anni del Novecento potrebbe segnalare, essenzialmente, una reciproca incomprensione tra le voci in campo. Da una parte Cassirer sembra precludersi (non diversamente da Natorp)68 di entrare direttamente nel merito della “tecnica” logica, dei suoi strumenti e del suo simbolismo, rimanendo insomma al di qua – per citare una figura emblematica – dell’utilizzazione della “nuova logica” al servizio della teoria della conoscenza e dello statuto scientifico dell’indagine filosofica che sarà al centro dell’Aufbau di Carnap69. D’altro canto, se a Cassirer, come a Natorp e ad altri neokantiani70, sfuggiva l’autentica portata non solo del logicismo e della moderna logica simbolica, ma anche dell’analisi logica del linguaggio che ruota sulla nozione di forma logica distinta dalla forma grammaticale, a Russell rimaneva invece del tutto estranea – sulla base di un’interpretazione mentalistica di Kant – la novità della concezione dell’a priori dinamicizzato e funzionale di Cassirer. Si determinava così una sorta di incommensurabilità reciproca, o quanto meno 66

Cfr. Kant und die moderne Mathematik, cit., pp. 39-41, trad. it. cit., pp. 132-134. Ivi, pp. 32-33, trad. it. cit., pp. 124-126. 68 Cfr. P. Natorp, Die logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften, zweite durchgesehene Auflage, Teubner, Leipzig und Berlin 1921, specie pp. 7-11. Si veda a questo proposito la recensione (molto significativa) delle Logische Grundlagen di Natorp pubblicata da Philip E.B. Jourdain su «Mind», XX (1911), pp. 552-560. Cfr. anche J. Pulkkinen, Thought and Logic, cit., pp. 248-252. 69 Cfr. R. Carnap, Der logische Aufbau der Welt, Weltkreis Verlag, Berlin-Schlachtensee 1928, nuova ed., Ullstein, Berlin 1979, p. XVIII, trad. it. e cura di E. Severino, La costruzione logica del mondo, Utet, Torino 1997, p. 110. Su Carnap e Russell si vedano Ch. Pincock, Russell’s Influence on Carnap’s “Aufbau”, «Synthese», 131 (2002), pp. 1-37 e P. Wagner, Le contexte logique de l’“Aufbau”. Russell et Carnap, in Carnap et la construction logique du monde, cit., p. 17-42. 70 Cfr. ad esempio J. Cohn, Voraussetzungen und Ziele des Erkennens, Engelmann, Leipzig 1908, pp. 253-285. 67

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un’evidente «incompatibilità»71, da cui si è originata una divaricazione che ha segnato a lungo la filosofia del Novecento e che si è ripresentata nuovamente – in maniera analoga seppure in un contesto differente – quando il nascente empirismo logico ha contestato al neokantismo la legittimità di una difesa della sintesi a priori kantiana di fronte alla “rivoluzione” einsteiniana. L’esito di questo secondo episodio di confronto tra la tradizione kantiana e la nascente tradizione analitica (qui nelle vesti dell’empirismo logico tra le due guerre mondiali) è largamente noto e può essere compendiato nel quadro che ne avrebbe tracciato Hans Reichenbach nel 1935. Reichenbach dichiarava che lo sviluppo della scienza nell'ultimo secolo aveva portato alla «decomposizione» del vecchio razionalismo e alla «disgregazione» del sintetico a priori di Kant. Al termine di una lunga battaglia inizialmente intrapresa solo dagli scienziati dotati di qualche spirito filosofico, il naufragio della concezione kantiana della conoscenza era ormai un fatto compiuto: «la scienza dei nostri giorni non crede più alle capacità legislative di una ragion pura. Tutto quello che sappiamo del mondo è tratto dall'esperienza, e le trasformazioni dei dati empirici sono puramente tautologiche, analitiche. Quelle che avevamo preso per leggi a priori non sono che leggi empiriche molto generali»72. Lo stesso Reichenbah, descrivendo la "nascita della filosofia scientifica" in un libro divulgativo destinato a larga fortuna, doveva fornire più tardi un campionario di argomentazioni anti-kantiane che tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta avrebbero rappresentato una sorta di communis opinio. E ancora una volta l’attacco era rivolto contro la «zavorra del sintetico a priori», che sarebbe solo il «residuo di una tendenza monistica verso un mondo di entità poste al di là delle cose osservabili»: Kant appariva pertanto come un filosofo speculativo, vittima dell’illusione di aver individuato i principi sintetici a priori validi per tutte le esperienze possibili. Ma purtroppo non è così: sono sempre immaginabili, infatti, esperienze che contraddicono i principi dati e che possono diventare reali, smentendo in tal modo il «postulato dell'assoluta possibilità dell'esperienza in senso kantiano»73. Affermazioni di questo genere hanno rappresentato il nocciolo duro con cui l'empirismo logico ha accreditato – non senza «retorica» e con una cer71

Cfr. J. Pulkkinen, Thought and Logic, cit., pp. 233, 273. H. Reichenbach, L’empirisme logique et la désagrégation de l’a priori, in Actes du Congrès International de Philosophie, Hermann, Paris 1935, vol. I, pp. 28-35, trad. it. di G. Polizzi, L’empirismo logico e la disgregazione dell’a priori, in Filosofia scientifica ed empirismo logico (Parigi, 1935), Unicopli, Milano 1993, pp. 59-65. 73 H. Reichenbach, The Rise of Scientific Philosophy, University of California Press, Berkeley/Los Angeles 1951, pp. 48-49, 259, trad. it. di A. Pasquinelli, La nascita della filosofia scientifica, Il Mulino, Bologna 1966, pp. 55-56, 250. 72

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ta opera di «propaganda» – la propria immagine sulla scena filosofica, presentando la «disgregazione del sintetico a priori» come l’esito naturale a cui aveva condotto la teoria della relatività74. In realtà il confronto tra “filosofia scientifica” e kantismo era stato ben più complesso di quanto non trasparisse dalla fortunata formula di Reichenbach. Lo stesso Reichenbach, nel 1920, aveva intrapreso il tentativo di modificare la teoria kantiana della conoscenza nel momento in cui la fisica einsteiniana avevo reso impossibile un suo presupposto fondamentale, vale a dire l’applicabilità universale della geometria euclidea75. Collocandosi sulle orme del neokantismo di Cassirer, Reichenbach aveva delineato il progetto di una relativizzazione dell’a priori, che adeguasse le strutture a priori della conoscenza scientifica ai mutamenti dell’indagine fisica senza per questo rinunciare alla loro funzione costitutiva. Per risolvere questo cruciale problema Reichenbach riteneva che si dovesse scorporare dall’a priori kantiano una delle sue due connotazioni fondamentali – la pretesa di validità apodittica – e mantenere invece quella che ne consentiva l’adattamento al nuovo “paradigma” della fisica relativistica, ossia la nozione di «costituente il concetto di oggetto». Ciò che la teoria della relatività ha mostrato contro Kant è che i principi costitutivi possono essere smentiti dall’esperienza, sicchè è impossibile attribuire loro una validità necessaria e immutabile; la possibilità di ampliare, modificare e – in ultima analisi – rendere contingenti i principi costitutivi della scienza, concependoli non già come strutture fisse della ragione (le categorie), bensì come condizioni mutevoli della conoscenza (gli assiomi), rappresenta invece l’unica via praticabile per conciliare il «profondo mutamento» intervenuto nel concetto di a priori con il «lavoro graduale di analisi della scienza», volto a scoprire i nuovi principi richiesti dall’estensione illimitata dell’esperienza scientifica76. Da questo punto di vista Reichenbach non intendeva attribuire alla teoria della conoscenza il ruolo di formulare «una profezia per l’eternità», ma di enucleare «di volta in volta» i principi a priori di cui la scienza empirica deve avvalersi: tali principi, a loro volta, sono modificabili e sono determinati in base all’esperienza, anche se la loro validità non si fonda solo su singole esperienze, «bensì sulla possibilità dell’intero sistema della conoscenza: questo è il senso dell’a priori»77. 74 Cfr. Th. Ryckman, The Reign of Relativity. Philosophy in Physics 1915-1925, Oxford University Press, Oxford 2005, p. 11. 75 Cfr. H. Reichenbach, Relativitätstheorie und Erkenntnis Apriori, Springer, Berlin 1920, poi in Gesammelte Werke hrsg. von A. Kamlah und M. Reichenbach, Bd. III, Die philosophische Bedeutung der Relativitätstheorie, Vieweg & Sohn, Braunschweig-Wiesbaden 1979, pp. 194-197, trad. it. e cura di P. Parrini, Relatività e conoscenza a priori, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 60-62. 76 Ivi, p. 266, trad. it. cit., p. 128. 77 Ivi, pp. 275-276, 291, trad. it. cit., pp. 137, 152.

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Reichenbach avrebbe ben presto abbandonato questa posizione anche a seguito dell’obiezione di Schlick, per il quale l’a priori costitutivo e “relativizzato” non era altro che una convenzione nel senso di Poincaré78. In realtà anche Schlick era inizialmente partito dal riconoscimento dei meriti di Kant per aver promosso l’indagine critica sui principi delle scienze: in particolare, formulando nel 1915 la sua prima interpretazione epistemologica del principio di relatività einsteiniano, Schlick aveva sottolineato che le trasformazioni radicali in atto nella fisica contemporanea imponevano sì di «modificare in punti essenziali» la concezione kantiana della conoscenza, ma senza per questo negare che l’esperienza scientifica sia possibile solo in forza di principi indipendenti dall’esperienza. Tali principi non sono tuttavia universalmente e assolutamente validi, ma condividono con le convenzioni di Poincaré la caratteristica di essere assunzioni grazie alle quali possiamo conseguire una spiegazione di determinati stati di fatto nella maniera più semplice; la scelta tra teorie equivalenti è dunque dettata dal criteri secondo cui è da preferire la teoria che fa meno ricorso a elementi arbitrari o a un numero eccessivo di ipotesi, e che in tal modo si allontana in misura inferiore dalla realtà79 . Il punto di partenza di Schlick, dunque, non era un empirismo radicale e nemmeno un empirismo di stampo machiano (da Schlick in effetti sempre respinto), ma una ridefinizione dei principi a priori nella costituzione della conoscenza scientifica che aveva risentito, almeno per un certo periodo, di influenze kantiane e neokantiane80. In seguito Schlick avrebbe però assunto una posizione decisamente più distruttiva nei confronti del kantismo e da questo punto di vista è senz’altro vero che l’atto di nascita (o uno degli atti di nascita) dell’empirismo logico viennese è stato scritto da Schlick, quando la teoria generale della relatività lo ha spinto a confutare ogni possibile conciliazione tra la fisica einsteiniana e la concezione kantiana della conoscenza a priori, ancorché liberalizzata nel senso di Cassirer o del giovane Reichenbach. Quella che nel 1915 era sembrata una possibile «modificazione» dell’eredità di Kant diviene per Schlick – a seguito del rivolgimento portato dalla generalizzazione della relatività – un’arma da rivolgere contro la teoria kantiana della conoscenza: se da un lato la formulazione delle leggi di natura non può fare a meno di convenzioni nel senso di Poincaré (le quali tuttavia non hanno nulla da spartire con la sintesi a priori di Kant e con i suoi connotati di universalità e necessità), per un altro lato la “crisi” del para78 Cfr. in proposito P. Parrini, L’empirismo logico. Aspetti storici e prospettive teoriche, Carocci, Roma 2002, pp. 245-282. 79 Cfr. M. Schlick, Die philosophische Bedeutung des Relativitätsprinzips, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», CLIX (1915), pp. 129-175 (in particolare pp. 129, 154-155, 158, 163). 80 Cfr. A Coffa, The Semantic Tradition from Kant to Carnap, cit., p. 171.

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digma euclideo in geometria ha profondamente inciso sullo statuto dell’a priori spaziale e ne ha sconfessato la componente intuitiva a priori81. Pertanto Schlick mette in luce, nel corso della discussione con Cassirer nel 1921, che non è possibile intraprendere nemmeno la via di una «revisione» del kantismo: la scienza moderna non esibisce alcun giudizio sintetico a priori e non basta appellarsi al ruolo dei principi costitutivi per corroborare un’interpretazione criticista della teoria della relatività. Tra il sensismo di stampo machiano e l’apriorismo dell’«idealismo logico» si apre dunque solo la terza via di una «concezione empiristica, secondo la quale quei principi costitutivi sono ipotesi o convenzioni»82. Tuttavia l’ultimatum di Schlick non rendeva giustizia all’«idealismo logico» di Cassirer, che aveva condotto un estremo tentativo di “liberalizzazione” dell’apriorismo kantiano per renderlo compatibile con la nuova immagine fisica del mondo. Presentando la teoria della relatività come una teoria fondata su strutture relazionali che individuano nuove forme di “invarianza” dell’esperienza, Cassirer insisteva sul fatto che nemmeno la teoria della relatività «può prescindere dalla forma e dalla funzione della spazialità e della temporalità in generale come tali»83. Riconoscere la “crisi” del paradigma newtoniano a cui Kant aveva legato la sua teoria dell’esperienza, e riconoscere ugualmente la “crisi” dell’intuizione connessa allo sviluppo della matematica e della fisica moderne, non comporta la rinuncia alle forme a priori dell’esperienza e alla coordinazione dei fenomeni nelle forme dello spazio e del tempo una volta che esse siano svuotate di ogni contenuto materiale specifico. Per Cassirer il «significato oggettivo» dei concetti di spazio e tempo «per la costruzione complessiva della nostra conoscenza empirica» non è dunque ridimensionato, e neppure viene meno l’idea-guida secondo cui le funzioni dell’intelletto riassorbono le forme a priori dell’intuizione e le orientano verso la costituzione dell’oggettività, privandole del loro statuto di “vuoti” ricettacoli coniati una volta per sempre. Utilizzando una formula leibniziana, Cassirer parla in questo senso della trasformazione delle forme a priori dell’intuizione di Kant in forme «di accostamento in serie dell’uno accanto all’altro o rispettivamente dell’uno dopo l’altro in generale»; e in questa prospettiva, in particolare, l’a priori dello spazio non impe81 M. Schlick, Raum und Zeit in der gegenwärtigen Physik, vierte, vermehrte und verbesserte Auflage, Springer, Berlin 1922, pp. 95-102, trad. it. di E. Galzenati, Spazio e tempo nella fisica contemporanea, Bibliopolis, Napoli 1983, pp. 88-95. 82 M. Schlick, Kritizistische oder empiristische Deutung der neuen Physik?, «Kant-Studien», XXVI (1921), p. 99, trad. it. e cura di P. Parrini, Interpretazione criticistica o empiristica della nuova fisica?, in M. Schlick, Forma e contenuto, Boringhieri, Torino 1987, p. 154. 83 Cfr. E. Cassirer, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie. Erkenntnistheoretische Betrachtungen, Bruno Cassirer, Berlin 1921, poi in Zur modernen Physik, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1987, pp. 29, 34-38, 62-64, 78, trad. it. di G.A. De Toni, Sulla teoria della relatività di Einstein, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 495, 502-506, 537-539, 559.

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gna la conoscenza fisica ad adottare una metrica specifica, bensì le fornisce la «funzione della spazialità in generale» per costruire i sistemi geometrici (o di geometria fisica) di cui essa si avvale84. Una simile soluzione ai dilemmi epistemologici suscitati dalla teoria einsteiniana della relatività portava Cassirer a riproporre, in una versione estremamente duttile, la concezione marburghese delle condizioni di possibilità dell’esperienza come forme generali a priori di costituzione dell’oggettività scientifica. Non per nulla, proprio discutendo con Schlick, Cassirer insisteva sulla necessità di non concepire l’a priori «come un patrimonio fissato una volta per tutte di “intuizioni” materiali o concetti, bensì come una funzione [...] che dal punto di vista del contenuto può ricevere nel progresso della conoscenza le più diverse conformazioni». Ma proprio per questo – aggiungeva Cassirer – occorre una «revisione» di Kant, per sostituire a «rigidi schemi [...] motivi fondamentali che rimangono costanti nella conoscenza», aggirando in tal modo la difficoltà che grava sulla concezione kantiana: la distinzione non sufficientemente rigorosa tra «il principio generale» (ossia i principi generali di organizzazione dell’esperienza) e «la sua particolare realizzazione concreta» (ad esempio il ruolo privilegiato della geometria euclidea)85. Come un quindicennio prima in occasione del confronto con Russell, anche in questo caso il neokantismo di Cassirer si scontrava tuttavia con una visione più tradizionale della filosofia kantiana, incentrata non tanto sulle “condizioni di possibilità dell’esperienza”, quanto sull’esistenza dei giudizi sintetici a priori: la loro smentita da parte della geometria noneuclidea e della fisica di Einstein forniva certamente un’arma molto pesante (seppure non sufficientemente affilata) per combattere la «revisione» proposta da Cassirer, ma in questo modo Schlick si precludeva la possibilità di cogliere uno sviluppo importante del pensiero di Kant86. Si profilava nuovamente, insomma, quella “incommensurabilità” che avrebbe reso sempre più distanti le vie della tradizione kantiana e di quella analitica, tanto che proprio a Vienna, negli anni Venti, si sarebbe proclamato l’avvento di una nuova epoca filosofica, senza rimpianti per la fine ingloriosa della “rivoluzione copernicana”.

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Ivi, pp. 70, 78, 93, trad. it. cit., pp. 548, 558, 579. Cfr. la lettera di Cassirer a Schlick del 23 ottobre 1920 pubblicata in E. Cassirer, Nachgelassene Manuskripte und Texte, vol. 18, Ausgewählter wissenschaftlicher Briefwechsel, hrsg. von J.M. Krois, Meiner, Hamburg 2009, pp. 50-51. Per maggiori particolari sulla discussione tra Cassirer e Schlick (ma con riferimento anche a Reichenbach) mi permetto di rinviare al mio Ernst Cassirer. Dalla scuola di Marburgo alla filosofia della cultura, Olschki, Firenze 1996, pp. 134-142. 86 Cfr. Th. Ryckman, The Reign of Relativity, cit., pp. 5, 50. 85

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4. Da Vienna agli Stati Uniti A Vienna l’avventura dell’empirismo logico non era iniziata solo con la discussione sulla teoria della relatività; eppure, nonostante figure come Otto Neurath, Hans Hahn o Philipp Frank avessero fatto i conti con l’eredità kantiana già ai tempi del cosiddetto «primo Circolo di Vienna» richiamandosi a Mach, a Poincaré e a Duhem, non vi è dubbio che la «disgregazione del sintetico a priori» ritenuta inarrestabile a seguito della teoria generale della relatività sarebbe diventata un ingrediente essenziale della “concezione scientifica del mondo”87. Nel celebre manifesto del 1929, ad esempio, la partita veniva data per chiusa definitivamente: «non resta […] più alcun posto per i giudizi sintetici a priori. La conoscenza del mondo non si basa tanto sul fatto che la ragione umana imprima al materiale la propria forma, quanto piuttosto sul fatto che il materiale viene ordinato in una determinata modalità. Sul tipo e sul grado di questo ordine, però, non si può sapere nulla anticipatamente»88. Come già si è avuto modo di ricordare, la liquidazione di Kant non era stata però così indolore e, a dire il vero, nel caso di un eminente esponente del Wiener Kreis come Carnap il kantismo e il neokantismo erano stati addirittura un contesto teorico di primaria importanza per mettere a punto la strategia della “costruzione logica del mondo” (che in realtà era nata come una teoria della costituzione in senso più propriamente kantiano)89. Non per nulla, all’inizio della sua carriera filosofica, Carnap aveva elaborato una teoria dello spazio alimentata dal neokantismo della scuola di Marburgo e che utilizzava sia il convenzionalismo di Poincaré, sia alcune suggestioni tratte dalla fenomenologia husserliana. A fronte dello sviluppo delle geometrie non-euclidee era possibile, per Carnap, relativizzare e rendere “plurale” l'a priori spaziale individuando tre livelli: lo spazio formale (o topologico) come pura teoria delle relazioni spaziali, che è analitico a priori come la logica formale e che si serve della teoria generale delle classi e delle relazioni; lo spazio intuitivo, che è un caso particolare dello spazio formale e che è sintetico a priori nella misura in cui coglie l’«essenza» delle figure spaziali e delle loro relazioni; infine lo spazio fisico, ossia lo spazio metrico che dipende dalle convenzioni geometriche accettate ed è sintetico 87 Sul «primo Circolo di Vienna» cfr. R. Haller, Der erste Wiener Kreis, «Erkenntnis», XXII (1985), pp. 341-358 e soprattutto l’ampia ricerca di Th. Uebel, Vernunftkritik und Wissenschaft: Otto Neurath und der erste Wiener Kreis, Springer, Wien/New York 2000. 88 R. Carnap, H. Hahn, O. Neurath, Wissenschaftliche Weltauffassung, cit., p. 24, trad. it. cit., p. 35. 89 Su alcuni aspetti di questo intricato percorso nato sul terreno di Kant e del neokantismo mi permetto di rinviare al mio studio Il mentore di Rudolf Carnap: Moritz Schlick e la genesi dell’“Aufbau”, in Le ragioni del conoscere e dell’agire. Scritti in onore di Rosaria Egidi, a cura di M.R. Calcaterra, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 277-306

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a posteriori. Sulla base di questa triplice articolazione, solo lo spazio topologico assolve la funzione che Kant aveva assegnato all’intuizione pura dello spazio, ovvero di costituire la condizione trascendentale dell'esperienza possibile90. Questa componente kantiana (e neokantiana) presente nel primo lavoro di Carnap era certamente destinata a decantarsi negli sviluppi successivi; ma ciò non toglie che il ruolo di un a priori puramente concettuale o “strutturale” abbia svolto un ruolo importante nella prima fase della sua riflessione, essenzialmente rivolta a sottolineare come la conoscenza fisica dipenda da principi sintetici a priori indipendenti dall'esperienza, sebbene l’immutabilità dell’a priori kantiano vada trasformata in un sistema ipotetico-deduttivo91. Del resto anche nell’Aufbau – un testo che è stato considerato per lungo tempo il vademecum dell'empirista logico di stretta osservanza – non è difficile rintracciare, a dispetto delle dichiarazioni finali sull'esistenza di componenti conoscitive solo empiriche o convenzionali ma non sintetiche a priori, debiti importanti non già con la «visione positivistica» di Mach (che Carnap espressamente critica), bensì con l'«idealismo trascendentale» per quanto riguarda sia la “costituzione” degli oggetti attraverso le forme logiche della logica matematica moderna, sia la critica del “dato” come materiale grezzo che giacerebbe al di fuori delle strutture concettuali o relazionali che lo rendono possibile92. Ma nella Vienna della seconda metà degli anni Venti in cui Carnap si era recato per ultimare l’Aufbau, era diffusa la convinzione che il breve ed enigmatico testo dato alle stampe da Wittgenstein con il titolo di Tractatus logico-philosophicus fosse il pilastro insostituibile della nuova filosofia esercitata all’interno del Circolo raccolto intorno a Schlick: da quelle pagine aveva preso avvio la «svolta della filosofia» di cui avrebbe parlato lo stesso Schlick e che metteva fuori gioco la tradizionale teoria della conoscenza di matrice kantiana, riducendo la filosofia a un’attività di chiarificazione del senso delle proposizioni ormai del tutto defilata dalla pretesa di fornire a sua volta proposizioni (o peggio ancora conoscenze) di natura filosofica93. In realtà, anche senza entrare nel merito di una dettagliata ricostruzione dell’incidenza del Tractatus sull’empirismo logico viennese, non tutti i conti 90 Cfr. R. Carnap, Der Raum. Ein Beitrag zur Wissenschaftslehre, Reuther & Reichard, Berlin 1922, pp. 65-67, trad. it. e cura di R. Pettoello e V. Latronico, Lo spazio. Un contributo alla teoria della scienza, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 92-94. 91 Cfr. R. Carnap, Über die Aufgabe der Physik und die Anwendung des Grundsatzes der Einfachstheit, «Kant-Studien», XXVIII (1923), pp. 90, 93. 92 Cfr. R. Carnap, Der logische Aufbau der Welt, cit., pp. 82, 138, 249, 253, trad. it. cit., pp. 211, 281, 408, 411. 93 Cfr. M. Schlick, Die Wende der Philosophie, «Erkenntnis», I (1930), pp. 1-31, trad. it. di E. Picardi, La svolta della filosofia, in M. Schlick, Tra realismo e neo-positivismo, Il Mulino, Bologna 1974, pp. 27-34.

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sembrano tornare nella versione ufficiale della storia che si svolgeva alla “stazione di Vienna”94. In particolare almeno una voce era destinata a rimanere fuori dall’agenda di Schlick e dell’ala wittgensteiniana del Circolo (Neurath, come si sa, non ebbe mai spiccate simpatie per il Tractatus e vi scorgeva un pericoloso residuo metafisico): in sostanza, nessuno sembrava accorgersi che in fondo Wittgenstein non era così facilmente arruolabile nelle fila di quanti combattevano Kant a spada tratta. «Analogamente al venerato Kant – ha scritto per contro Joachim Schulte – attraverso le sue ricerche logico-linguistiche Wittgenstein cerca[va] di chiarire i limiti del parlare sensato; ma diversamente da Kant, che voleva porre la conoscenza su solide fondamenta, l’indagine di Wittgenstein si chiude[va] sulla mistica e sul silenzio»95. In effetti, il conflitto delle interpretazioni, che intorno a una figura come quella di Wittgenstein è stato ed è particolarmente vivace, è forse ancora più intricato quando si guarda al suo possibile rapporto con la tradizione kantiana. Allan Janik e Stephen Toulmin hanno sostenuto a questa proposito una tesi decisamente controcorrente, presentando un Wittgenstein tutto “viennese” e soprattutto profondamente influenzato da una linea kantiana che oltre a Kant annovera Schopenhauer, Hertz e (in parte) Boltzmann. Se in Kant è l’intelletto a determinare l’ordine della natura, in Wittgenstein sarebbe «la logica [a rendere] possibile il “mondo” […], offrendogli una forma»; e del resto l’aspetto propriamente trascendentale di Wittgenstein consisterebbe nell’affrontare i problemi filosofici nei termini di Kant («come è possibile che esista un linguaggio significante?»). Così, anche nei suoi ultimi anni, la preoccupazione principale di Wittgenstein sarebbe rimasta quella della sua giovinezza, ossia di «completare l’opera logica ed etica iniziata da Kant e Schopenhauer»96.

94 Sul Tractatus e il Circolo di Vienna cfr. D. Stern, The Methods of the “Tractatus”. Beyond Positivism and Metaphysics?, in Logical Empiricism. Historical and Contemporary Perspectives, ed. by P. Parrini, W.C. Salomon and M.H. Salmon, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 2003, pp. 125-156. Di Stern si veda anche Wittgenstein, the Vienna Circle, and Physicalism: A Reassessment, in The Cambridge Companion to Logical Empiricism, ed. by A. Richardson and Th. Uebel, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pp. 305-331. Sulla lettura «selettiva» del Tractatus da parte dei membri del Circolo insiste A. Stroll, Twentieth-Century Analytic Philosophy, Columbia University Press, New York 2000, pp. 56-64. All’inizio di un saggio su Carnap e Wittgenstein, James Conant ha del resto ricordato una lettera di Wittgenstein a Schlick dell’8 agosto 1932 in cui Wittgenstein lamentava con una certa aggressività il fatto che Carnap si fosse così chiaramente sbagliato nell’interpretare le ultime frasi del Tractatus (cfr. J. Conant, Deux conceptions de l’“Überwindung der Metaphysik”: Carnap et le premier Wittgenstein, in Carnap et la construction logique du monde, cit., pp. 259-311). 95 J. Schulte, Wittgenstein. Eine Einführung, Reclam, Stuttgart 1989, pp. 64-65. 96 Cfr. A. Janik-S. Toulmin, Wittgenstein’s Vienna, Weindelfeld and Nicholson, London 1973, trad. it. di U. Giacomini, La grande Vienna, Garzanti, Milano 1975, pp. 121-241 (specie pp. 190, 224, 227).

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L’istruttoria su questa imputazione di kantismo a Wittgenstein, anche per chi non condivida l’interpretazione di Janik e Toulmin e si appelli piuttosto (o quanto meno anche) alla “linea” Frege-Russell, si basa del resto su materiali discordanti. Una volta ammesso che Wittgenstein non è così facilmente riducibile alla tradizione semantica, riconosce ad esempio Coffa, resta da capire se e quanto sia rintracciabile – almeno per quanto riguarda il Tractatus – una certa influenza di Kant; ma se invece si guarda al “secondo” Wittgenstein, ci si imbatte, secondo Coffa, in una sorta di «critica dell'intelletto» non distante da Kant e da una ripresa di argomenti trascendentali, mentre – più in generale – gli sviluppi della sua grammatica filosofica sembrano evocare una “rivoluzione copernicana” ancorata ad una concezione relativizzata dell’a priori, che ruota non più sull’esperienza quanto sulla funzione costitutiva dei significati linguistici97. Wittgenstein, sottolinea invece da tutt’altra prospettiva Haller, è un tipico filosofo austriaco, che con il kantismo nulla ha da spartire se è vero che le regole della grammatica non sono universali e necessarie, né d’altra parte l’indagine grammaticale ha intenzioni di tipo trascendentale; e come se non bastasse Wittgenstein non riconosce l’esistenza di giudizi sintetici a priori, non condivide ovviamente con Kant la trascuratezza nei confronti della filosofia del linguaggio e infine non ammette che vi siano parti dell’esperienza che sono a priori98. Una via mediana tra un kantismo “viennese” e un’immagine di Wittgenstein collocata esattamente sul fronte opposto è tuttavia possibile: soprattutto se si tiene conto che il Tractatus, prendendo le mosse dal “paradigma” di Frege e Russell, si è posto però una domanda di tipo kantiano non solo con riferimento al ruolo della filosofia, in quanto attività di chiarificazione e di individuazione di un piano di pre-condizioni non riducibile al piano delle scienze, ma anche per quanto riguarda l’indagine sulla natura della logica, che non può fare a meno di interrogare il pensiero così come il nesso tra il mondo e la sua rappresentazione tramite il linguaggio99. Ma per tornare dal conflitto delle interpretazioni alla Vienna degli anni Venti, non vi è dubbio che gli empiristi logici leggessero il Tractatus al tempo stesso come un’ispirazione e come una conferma di alcune tesi destinate a divenire i “dogmi” del nuovo empirismo: dalla concezione della filosofia 97

A. Coffa, The Semantic Tradition from Kant to Carnap, cit., pp. 243, 251, 259, 263. Cfr. R. Haller, War Wittgenstein ein Neo-Kantianer?, in Fragen zu Wittgenstein und Aufsätze zur österreichischen Philosophie, Rodopi, Amsterdam 1986, pp. 170-186. 99 Cfr. H.-J. Glock, Cambridge, Jena or Vienna: the Roots of the “Tractatus”, «Ratio», V (1992), pp. 1-23 e Kant and Wittgenstein: Philosophy, Necessity and Representation, «International Journal of Philosophical Studies», V (1997), pp. 285-305 (ma si veda pure What is Analytic Philosophy?, cit., p. 35). Su Wittgenstein e Kant è da tener presente anche il lavoro di M. Bastianelli, Oltre i limiti del linguaggio. Il kantismo nel “Tractatus” di Wittgenstein, Mimesis, Milano 2008, che offre un’utile presentazione dello status quaestionis. 98

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come attività di chiarificazione del senso degli enunciati (con la conseguente «svolta linguistica») alla messa a fuoco della forma logica delle proposizioni stesse; dalla formulazione del criterio di significanza empirica alla critica dei non-sensi della metafisica, per giungere infine alla classica dicotomia tra l’a priori analitico e l’a posteriori sintetico, ovvero tra le tautologie della logica (e, si pensava, della matematica) e le proposizioni empiriche che vertono su stati di fatto. Anche ammesso che nel Tractatus le cose stessero proprio così, in questo quadro cadevano però nel silenzio i passi in cui sembrava emergere il tormentato e poco visibile rapporto di Wittgenstein con Kant100. Erano i passi in cui Wittgenstein aveva parlato, presentando il Tractatus, della necessità di «tracciare al pensiero un limite», o meglio di tracciarlo all’«espressione dei pensieri» nel linguaggio; e di qui, come già si è visto, prendeva avvio l’idea di un’attività filosofica del tutto distinta dalle scienze e rivolta al «rischiaramento logico dei pensieri» (4.111 e 4.112). Lo statuto riflessivo della filosofia portava così Wittgenstein a intraprendere uno «studio del linguaggio segnico» che implicava lo «studio dei processi del pensiero», cercando tuttavia di non ricadere nell’equivoco psicologico che aveva compromesso la «filosofia della logica», a lungo propensa a far leva sulla «teoria della conoscenza» come «filosofia della psicologia» (4.1121). Di qui la cruciale questione della natura della logica, per risolvere la quale non ci si poteva richiamare all’evidenza delle leggi fondamentali o di una legge fondamentale («è strano che un pensatore così esatto come Frege si sia appellato al grado dell’evidenza quale criterio della proposizione logica» [6.1271]), bensì al nesso tra logica e mondo: «la logica non è una dottrina, ma un’immagine speculare del mondo. La logica è trascendentale» (6.2). Si poteva avvertire l’ombra di Kant leggendo e commentando queste affermazioni di Wittgenstein? Non sembra che nelle riunioni del Circolo di Vienna giungesse l’eco della Critica della ragion pura, né che Wittgenstein venisse considerato nei termini in cui verrà presentato molti decenni più tardi ormai al di fuori dello scenario dell’empirismo logico. Ben presto, del resto, molte cose sarebbero cambiate sulla strada della tradizione analitica che aveva conosciuto a Vienna una tappa importante del suo viaggio. Mentre Alfred J. Ayer codificava per la cultura anglosassone un’immagine dell’empirismo logico che avrebbe attecchito con radici piuttosto solide per decenni, favorendo l’idea che quell’empirismo di marca viennese proseguisse gloriosamente la linea di Hume e di Russell101, il “secondo” Wittgenstein, lontano da Vienna e trapiantato a Cambridge, iniziava ad alimentare la filo100 Tutte le citazioni che seguono sono tratte (con leggere modifiche alla traduzione) da L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, a cura di A.G. Conte, nuova ed. Einaudi, Torino 1998 (indicando tra parentesi la numerazione di Wittgenstein) 101 Cfr. A.J. Ayer, Language, Truth and Logic, Victor Gallancz, London 1936, trad. it. di G.A. De Toni, Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Milano 1961.

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sofia del linguaggio ordinario che avrebbe costituito per un lungo tratto del Novecento il “paradigma dominante” nella filosofia analitica britannica. Ma, soprattutto, con la grande emigrazione intellettuale degli anni Trenta e il trapianto di ciò che restava dell’eredità della “Vienna rossa” negli Stati Uniti, una parte importante del bagaglio che aveva accompagnato quel viaggio era destinata a uscire di scena, mettendo in larga parte fuori gioco sia l’intreccio che la “tradizione semantica” aveva stabilito anche a Vienna con Kant e il neokantismo, sia la complessa e non sempre adeguatamente compresa eredità di Wittgenstein. Giunto negli Stati Uniti nel corso degli anni Trenta, l’empirismo viennese doveva incontrarsi con il pragmatismo via via modificando alcuni dei suoi tratti somatici: almeno così recita la storia ufficiale, che in realtà è ben lungi dal cogliere tutte le ramificazioni intricate di quell’incontro, ancora in larga parte da sondare e da ricostruire nel dettaglio102. In ogni caso la filosofia analitica, nella sua versione statunitense, avrebbe rappresentato un superamento dell’eredità del Wiener Kreis e si sarebbe progressivamente orientata sulle orme di Quine, soprattutto a partire dalla celebre distruzione condotta nel 1951 dei «due dogmi dell’empirismo»: vale a dire il dogma dell’«immaginaria distinzione fra l’analitico e il sintetico» e il dogma del «riduzionismo», secondo il quale le proposizioni dotate di significato devono stare in una «relazione diretta con l’esperienza immediata»103. L’attacco di Quine colpiva al cuore il «metafisico articolo di fede» dell’empirismo viennese e si rivolgeva specificamente contro l’Aufbau di Carnap; e l’esito della demolizione dei «due dogmi» era una prospettiva olistica imparentata con Duhem, ma ancor più con un protagonista della “concezione scientifica del mondo” come Neurath. Quine riteneva pertanto che si dovesse assumere come «unità di misura della significanza empirica tutta la scienza nella sua globalità» e che la scienza andasse considerata come un «campo di forza i cui punti limite sono l’esperienza». In questo senso non esiste un vincolo priviliegiato tra una proposizione singola e un’esperienza particolare, perchè nel campo di forza della scienza la connessione tra le proposizioni comporta un riaggiustamento dei loro rapporti e dei loro valori di verità quando alla «periferia» di tale campo si verificano tensioni e disaccordi con l'esperienza. Il ruolo che le proposizioni giocano all'interno del sistema è 102

Per un primo quadro d’insieme rimane utile il libro di P. Jacob, L’empirisme logique. Ses antécédents, ses critiques, Éditions de Minuit, Paris 1980. Si vedano inoltre i contributi di A.W. Richardson, The Fate of Scientific Philosophy in North America e di D. Howard, Two Left Turns Make a Right: On the Curious Political Career of North American Philosophy of Science at Midcentury, in Logical Empiricism in North America, cit., pp. 1-24 e 25-93. 103 Cfr. W.V.O. Quine, Two Dogmas of Empiricism, in From a Logical Point of View, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1961, pp. 20-46, trad. it. di E. Mistretta, Due dogmi dell’empirismo, in Il problema del significato, Ubaldini, Roma 1966, pp. 20-44.

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quindi variabile e rettificabile, e non è possibile (anzi, è «assurdo») tracciare «una qualsiasi linea di demarcazione fra proposizioni sintetiche, che si fondano sull'esperienza contingente, e proposizioni analitiche, che valgono quali che siano i dati dell’esperienza»104. La conseguenza della critica demolitrice di Quine era una professione di empirismo e di pragmatismo deweyano che considerava lo «schema concettuale della scienza» come un mezzo per predire l’esperienza futura, configurando sin dai primi anni Cinquanta il programma di un’«epistemologia naturalizzata» incentrata sul rifiuto della tradizionale teoria della conoscenza e dell’ingombrante bagaglio di distinzioni tra analitico e sintetico, tra a priori e a posteriori il cui peso aveva lungamente gravato anche sulle spalle della filosofia analitica. Quine rivendicava così un nuovo scenario per l'epistemologia: essa doveva abbandonare l'armamentario di cui l'aveva fornita il kantismo e la reazione antipsicologistica tra Otto e Novecento, non doveva più porsi il problema della priorità epistemologica (delle forme sui dati, delle strutture linguistiche sull'esperienza, del significato sul riferimento) e doveva invece risolversi in un «capitolo della psicologia», per studiare la relazione tra gli input dei nostri «ricettori sensoriali» e ciò che il soggetto libera come output. Non solo dovevano cadere i «dogmi» dell’empirismo e le illusioni relative alla distinzione tra la verità analitica e la verità sintetica o fattuale, ma occorreva tornare a fare «libero uso della psicologia empirica», infrangendo il tabù che aveva fatto scuola «nei vecchi giorni antipsicologistici» di Frege, di Husserl e della stessa filosofia analitica105. Eppure la tradizione kantiana non era del tutto condannata all’oblìo nemmeno in questa fase di sradicamento della filosofia analitica dalle sue origini “continentali”. Proprio nella famiglia del pragmatismo americano, dapprima in Peirce, in parte poi in James e nuovamente in Clarence Irvin Lewis il kantismo non era rimasto confinato tra le anticaglie filosofiche, ma aveva conosciuto un sottile processo di assimilazione e di «trasformazione» (nel senso che questo termine ha assunto negli scritti di Karl-Otto Apel)106. In particolare, almeno per la storia che stiamo narrando, è stato Lewis a svolgere un ruolo rilevante, in virtù della sua «appropriazione pragmatica di temi kantiani» che gli ha consentito di occupare un posto peculiare nella

104

Ivi, pp. 42-43; trad. it. cit., pp. 40-41. Cfr. W.V.O. Quine, Epistemology Naturalized, in Ontological Relativity and Other Essays, Columbia University Press, New York and London 1969, pp. 82-87, trad. it. e cura di M. Leonelli, Epistemologia naturalizzata, in La relatività ontologica e altri saggi, Armando, Roma 1986, pp. 106-109. 106 Cfr. K.-O. Apel, Transformation der Philosophie, Bd. II, Das Apriori der Kommunikationsgemeinschaft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1976. 105

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lunga parabola del pragmatismo americano107. Da un lato, infatti, Lewis ha elaborato una teoria dell’a priori che fa di lui un “kantiano” certamente sui generis (amava definirsi un “kantiano” in disaccordo con «ogni affermazione della Critica della ragion pura») e tuttavia capace di cogliere in buon anticipo sui tempi (Mind and the World Order è del 1929) alcuni temi di rilievo al centro del successivo confronto con Kant, l’a priori e gli “schemi concettuali” da parte di influenti rappresentanti della filosofia analitica dalla fine degli anni Cinquanta in poi108. D’altro canto è ben presente in Lewis la medesima preoccupazione di “dinamicizzare” e “relativizzare” le categorie che aveva caratterizzato le forme più liberalizzate di neokantismo (non per nulla Lewis si riferisce con favore a Cassirer)109: la preoccupazione principale di Lewis è di sottolineare il carattere non fisso delle categorie, la loro funzione insostituibile nel costruire tramite l’«attività pensante» il mondo dell’esperienza, e infine il loro carattere eminentemente pratico110. È questa la base su cui Lewis ritiene che le categorie possano essere giustificate: in fondo, egli suggerisce, la deduzione kantiana può essere benissimo convalidata in questo senso, ovvero facendo a meno dell’assunzione che la possibilità dell’esperienza «sia limitata da modalità di intuizione e da forme fisse di pensiero». Privando le categorie del loro «status trascendentale e miracoloso» si nega non già la loro funzione di regole categoriali a priori, ma semplicemente il loro ancoraggio nella suprema, eterna unità della ragione, e al contempo si aggira il problema kantiano dello schematismo con l’individuazione dei contenuti sensibili che possono esemplificare i concetti categoriali, senza tuttavia vincolarli a modalità fisse quali erano – per Kant – le forme a priori dell’intuizione111. Lewis ritiene d’altra parte che l’esperienza sia “muta” se mancano gli strumenti atti ad interrogarla: «non possiamo neppure interrogare l’esperienza – scriveva nel 1923 – senza una rete di categorie e di concetti definitori»112. Ma questo implica, per un altro verso, che il “mito del dato” – al centro oltre trent’anni più tardi di un celebre attacco da parte di un esponente di spicco della filosofia analitica americana come Wilfried Sellars – sia messo radicalmente in questione. Non si tratta di negare la datità dei da107 Cfr. S.B. Rosenthal, C.I. Lewis in Focus. The Pulse of Pragmatism, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 2007, p. 8. 108 Cfr. L.W. Beck, Die Kantkritik C.I. Lewis und der analytischen Schule, «Kant-Studien», XLV (1953/54), pp. 3-20 e The Kantianism of Lewis, in The Philosophy of C.I. Lewis, ed. by P.A. Schilpp, Open Court, La Salle (Illinois) 1968, pp. 271-283. 109 Cfr. C.I. Lewis, Mind and the World Order, Scribner’s Sons, New York 1929, trad. it. e cura di S. Cremaschi, Il pensiero e l’ordine del mondo, Rosenberg, Torino 1977, pp. 202-203. 110 Ivi, p. 23. 111 Ivi, pp. 61-62, 180. 112 Collected Papers of Clarence Irving Lewis, ed. by J.D. Goheen and J.L. Mothershead jr., Stanford University Press, Stanford 1970, p. 237.

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ti sensibili, bensì di rendersi conto che essi restano ineffabili se non vengono sottoposti a un’eleborazione concettuale quale che sia: il «campo del dato» è sempre ritagliato entro un contesto, e sebbene il dato non sia del tutto privo di forma, l’intelligibilità dell’esperienza consiste nell’istituire un nesso tra lo «schema» dell’«esperienza possibile» e la qualità specifica del dato in questione. La conoscenza dell’oggetto avviene insomma solo in forza di un’«integrazione» che dipende dall’attività della mente: «per un pensiero soltanto recettivo e passivo, non ci sarebbero né oggetti né mondo»113. Su questa base Lewis riconosceva la centralità della questione dell’a priori e il ruolo insostituibile delle categorie nel processo della conoscenza. Il suo “pragmatismo concettuale” appare fondato sulla convinzione che la filosofia sia sostanzialmente coincidente con lo studio dell’a priori e dei criteri categoriali di cui ci serviamo per acquisire la conoscenza, intesa come un complesso di significati intersoggettivi, comunicabili e condivisibili114. Ma l’a priori conoscitivo e pragmatico di Lewis non è il sintetico a priori kantiano, bensì l’a priori analitico e definitorio che stabilisce i principi e le regole di classificazione atte a ordinare il materiale empirico. L’autentica natura dell’a priori si esprime pertanto nella definizione, attraverso la quale si esplicano i caratteri di ciò che viene presupposto come condizione dell’intelligibilità dell’esperienza; e tuttavia l’a priori definitorio non è vincolato da una supposta “necessità logica”: per usare l’espressione di Lewis, «non è vero perché il pensiero è fatto in modo tale che non può fare a meno di trovarlo vero: per quanto un’alternativa prospettata possa essere fantastica o trascurabile a fini pratici, ci sono tuttavia di queste alternative»115. Sul piano delle regole e delle definizioni si apre dunque la possibilità della libera stipulazione, che rende ancor più feconda la funzione dell’analiticità o della verità a priori da Kant colpevolmente trascurata. Su questo punto cruciale si gioca la scommessa teorica di attribuire all’a priori analitico la funzione che Kant attribuiva all’a priori sintetico, rinunciando davvero a «ogni affermazione della Critica della ragion pura» e tuttavia mantendo per l’a priori definitorio una funzione che si può ancora considerare come “costitutiva”. Tale funzione è però liberata da ogni ipoteca di necessità ed è connotata come una libera scelta, attraverso la quale il pensiero dà voce ai suoi «bisogni» e ai suoi «progetti», costruendo una rete concettuale a priori che si getta nella profondità dell’esperienza per ordinarla e selezionarla ai fini della prassi conoscitiva116. Questo era il kantismo, certamente eterodosso, che circolava nell’ambiente intellettuale americano quando gli empiristi logici europei approda113

C.I. Lewis, Mind and the World Order, trad. it. cit., pp. 35, 81. Ivi, p. 50. 115 Ivi, p. 122. 116 Ivi, pp. 151-153. 114

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vano nei dipartimenti di filosofia statunitensi provenendo dall’altra riva dell’Atlantico. Se questo sfondo concettuale sia stato rilevante anche per Quine è una questione che meriterebbe di essere approfondita117; ma in ogni caso vi sono alcune tracce meno note che possono suggerire di seguire ancora per un tratto la via indicata da Lewis alla nuova generazione di filosofi analitici. In particolare anche Arthur Pap, nel 1946, si impegnava a fornire un’interpretazione dell’a priori in una chiave dinamica e funzionale che, ricollegandosi a Lewis, a Cassirer e a Dewey, mirava a rivedere la contrapposizione tra analitico e sintetico in nome della loro contestualizzazione nel processo della conoscenza scientifica118. Nella costituzione di una teoria scientifica non vi è mai un confine fisso tra «principi categorici» e «leggi empiriche», dal momento che la conoscenza procede attraverso trasformazioni progressive delle generalizzazioni induttive in definizioni: la scienza, in altri termini, perviene al suo stadio deduttivo e definitorio nel corso di un «processo verso l'analiticità», la quale costituisce una sorta di «idea limite», il massimo grado di apriorità a cui si possa tendere119. L’a priori analitico e definitorio di cui parlava Lewis assume così la configurazione di un principio conseguito attraverso la generalizzazione tratta dall’esperienza, una volta che essa sia stata confermata in modo sufficientemente certo120. Ma questo non esclude che sia necessario anche il sintetico a priori nella costituzione di una teoria fisica: utilizzando il convenzionalismo di Poincaré e la filosofia della geometria di Reichenbach, Pap lo colloca però sul piano dei principi e dei postulati rivedibili, soggetti quindi ad alternative e in forza dei quali l'esperienza viene idealizzata, assumendo casi ideali o “controfattuali” (come con il principio d'inerzia). In tal modo le teorie scientifiche si avvalgono di principi sintetici a priori puramente funzionali, intesi come principici regolativi che forniscono «regole procedurali», «postulati metodologici» non ricavabili dall'esperienza, ma indispensabili per “leggere” l'esperienza stessa121. Prendendo le distanze dalla dicotomia standard tra l'a priori tautologico e il sintetico a posteriori in nome della loro “relativizzazione”, Pap per certi aspetti sembrava dunque anticipare la posizione di Quine, pur rimanendo ancora indebitato esplicitamente con il neokantismo marburghese122: un debito che Quine – senza ombra di dubbio – non sarebbe stato disposto a 117

Sul rapporto tra Quine e Lewis cfr. G. Zanetti, Le radici del naturalismo. W.V. Quine tra eredità empirista e pragmatismo, Quodlibet, Macerata 2007, pp. 83-116. 118 Cfr. A. Pap, The A Priori in Physical Theory, King’s Crown, New York 1946, nuova ed., Russell & Russell, New York 1968, pp. 4, 24, 80. 119 Ivi, pp. 19-20, 26, 38. 120 Ivi, p. 28. 121 Ivi, pp. 50, 72, 95-96. 122 Ivi, p. 39.

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pagare. Ma fosse nelle vesti del “pragmatismo concettuale” di Lewis o in quelle del lavoro giovanile di Pap, il seme kantiano mostrava in ogni caso di non essere del tutto sepolto nella filosofia statunitense degli anni Trenta e Quaranta; al contrario, esso lasciava germogliare qualche frutto e avrebbe in realtà alimentato, sul lungo periodo, un capitolo della filosofia analitica che occuperà un posto sempre più significativo nella storia filosofica della seconda metà del Novecento. Certamente l’«epocale critica» di Quine a Carnap e alla distinzione tra analitico e sintetico ebbe come conseguenza non solo l’emarginazione dell’anima più kantiana e “continentale” della filosofia analitica tra le due guerre mondiali, ma pure l’allontanamento di Wittgenstein dalla scena della filosofia analitica americana, costringendo i wittgensteiniani a una sorta di “Aventino filosofico” trascorso in larga parte sulla sponda europea dell’Atlantico123. Ma poiché in tutte le storie che si rispettino vi sono tradizionalmente le pecore nere o almeno un’eccezione, anche in questo caso occorre puntare l’attenzione su un’anomalia singolarmente istruttiva: è proprio nella filosofia statunitense degli anni Cinquanta che aveva assorbito la terapia d’urto di Quine, infatti, a consolidarsi un filone kantiano dapprima con Wilfried Sellars, e poi – in tempi più recenti – con Hilary Putnam, in un clima di progressiva frammentazione della filosofia analitica e di slittamenti sempre più vistosi verso una filosofia postanalitica124. Reagendo al naturalismo di Quine, Sellars – il cui iniziale percorso intellettuale tra Stati Uniti ed Europa è già di per sé istruttivo125 – avrebbe dato vita a un «empirismo kantiano» che al tempo stesso, seppure in forma più implicita che esplicita, doveva portare a una ripresa di Wittgenstein. Se Kant e Wittgenstein erano i due grandi assenti della scena filosofica americana dopo la tempesta scatenata da Two Dogmas of Empiricism di Quine, Sellars agiva invece in controtendenza, attribuendo alla filosofia un compito 123 Su questo punto si veda il bel libro di P. Tripodi, Dimenticare Wittgenstein. Una vicenda della filosofia analitica, Il Mulino, Bologna 2009, specie pp. 184-185. Sull’«apostasi» di Quine e la svolta (anzi, addirittura la fine) della filosofia analitica da lui preparata con il divorzio da Wittgenstein cfr. P.M.S. Hacker, Wittgenstein’s Place in Twentieth Century Analytic Philosophy, Blackwell, Oxford 1996, pp. 183-227. 124 Per un’utile panoramica si veda F. Restaino, Filosofia e post-filosofia in America, Franco Angeli, Milano 1990. 125 Degno di nota, tra l’altro, è il rapporto con il neokantiano Richard Hönigswald, di cui Sellars seguì le lezioni su Kant nel 1930, durante il suo soggiorno in Germania (cfr. J. Seibt, Wilfried Sellars, Mentis Verlag, Paderborn 2007, p. 11). A proposito dell’influenza del neokantismo su Sellars resta da meglio sondare il suo debito con Cassirer: da ricordare è almeno, in questo contesto, la recensione che Sellars scrisse della traduzione inglese (ad opera di Suzanne Langer) di Sprache und Mythos (cfr. Language and Myth, translated by S. Langer, Harper & Bros., New York 1946): la recensione uscì su «Philosophy and Phenomenological Research», IX (1948-1949), pp. 326-329.

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certamente kantiano nel suo intento di afferrare le categorie generali della realtà, ma pure conforme allo spirito di Wittgenstein nel delineare, sulle orme di Kant, il passaggio «dall’ontologia alla grammatica». Entro lo «spazio delle ragioni», come lo chiamava Sellars, si poteva così svolgere un lavoro ben diverso da quello di Quine, che non postulava né la fine della distinzione tra filosofia e scienza, né di quella tra analitico e sintetico, peraltro intrecciando un dialogo con la tradizione filosofica che nelle pagine di Quine non trovava invece la benché minima attenzione126. Proprio a ridosso dell’attacco di Quine ai «dogmi dell’empirismo», Sellars si era posto una domanda già di per sé eloquente: esiste il sintetico a priori?127 Per rispondere (affermativamente, ma con una serie di distinguo) Sellars aveva invitato a considerare la distinzione tra proposizioni analitiche (che sono logicamente vere) e proposizioni sintetiche a priori (che non sono né logicamente vere, né logicamente false, ma che sono vere ex vi terminorum). Distanziandosi da Lewis (che aveva attribuito alle prime il carattere delle seconde), Sellars sottolineava come il valore epistemico delle proposizioni sintetiche a priori consistesse nel consentire inferenze su contenuti materiali in forza di una connessione extra-linguistica e sulla base di determinate strutture concettuali128. Tuttavia ogni «cornice concettuale» che implica proposizioni sintetiche vere ex vi terminorum non ha pretesa alcuna di univocità: essa è solo una cornice possibile tra molte, e una conoscenza sintetica a priori senza alternative è solo «un mito»129. Ma per Sellars si trattava di infrangere anche un altro “dogma”: il dogma che sotto la sua penna prendeva il nome di «mito del dato». Per mettere in questione ciò che Sellars, nel suo progetto di riformulazione del programma dell’empirismo, nel 1956 chiamava «l’intero paradigma della “datità”» era opportuno riprendere una serie di motivi kantiani nell’analisi della

126 Sulla posizione di Sellars nei confronti di Quine e nel contesto della filosofia statunitense degli anni Cinquanta cfr. ancora P. Tripodi, Dimenticare Wittgenstein, cit., pp. 334-343, 349-350, 359-360. Un’ottima presentazione d’insieme della filosofia di Sellars si deve a W.A. de Vries, Wilfried Sellars, Acumen, Chesham 2005. 127 Cfr. W. Sellars, Is There a Synthetic A Priori?, «Philosophical Studies», XX (1953), pp. 121-138, poi in forma rivista nel volume Science, Perception and Reality, Routledge & Kegan Paul, London 1963, pp. 298-320 (da cui si cita). 128 Ivi, p. 317. 129 Ivi, pp. 319-320. L’assunzione, da parte di Sellar, di una visione storico-dinamica, processuale, delle cornici concettuali e degli schemi categoriali ha suggerito la sua collocazione nel “post-kantismo” e, in particolare, in prossimità della filosofia hegeliana (cfr. T. Pinkard, Sellars the Post-Kantian?, in The Self-Correcting Enterprise. Essay on Wilfried Sellars, ed. by M.P. Wolf and M.N. Lance, Rodopi, Amsterdam-New York 2006, pp. 21-52; W.A. de Vries, Wilfried Sellars, cit., p. 64). In realtà – da Cassirer a Lewis – è questa una prospettiva che pur presentandosi come “post-kantiana” non necessariamente implica una forma di hegelismo.

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conoscenza130. Una volta accettata l’idea che per riconoscere qualcosa (per esempio che qualcosa sembra verde) occorre disporre del (e presuppore il) concetto di ciò che viene riconosciuto (per esempio il concetto di essere verde), sembra molto plausibile ritenere che vi siano condizioni vincolanti in base alle quali l’acquisizione di conoscenze empiriche è possibile e che le esperienze, pertanto, «contengano affermazioni proposizionali»131. Questa eccedenza del concettuale sul contenuto empirico o sul puro intento descrittivo-constatativo non comporta l’abiura dell’empirismo, bensì una sua decisa correzione nella direzione dello «spazio logico delle ragioni» che consentono di giustificare ciò che si dice dell’esperienza. A cadere, dunque, è il mito del dato (che del resto era già stato demolito da figure come Duhem, Cassirer e Lewis); e a tornare in auge è invece un’idea di conoscenza empirica che sia razionale e autocorrettiva, orientata dalla consapevolezza che «notare» una certa cosa vuol dire «avere già il concetto di quel genere di cosa» e, infine, basata sulla distinzione tra linguaggio teorico e linguaggio dei fatti osservabili: perché «i predicati di una teoria non sono abbreviazioni» di ciò che si può compendiare in predicati osservativi132. La critica al “mito del dato” si inseriva dunque nella cornice di un “empirismo kantiano”, intorno al quale Sellars avrebbe continuato a lavorare affrontandone via via alcuni nodi decisivi dall’interno di un edificio teorico molto articolato133. Da una parte, inevitabilmente, emergeva la saldatura tra sensibilità e intelletto, tra recettività e spontaneità, tra il contenuto percettivo e l’attrezzatura concettuale: un tema che aveva lontane radici neokantiane, così come una qualche atmosfera marburghese si poteva respirare (ma non sappiamo se Sellars ne fosse consapevole) quando si trattava di mettere in luce «la teoria kantiana dell’esperienza»134. Non per nulla Sellars lamentava che la nozione di “intuizione” in Kant fosse ambigua, configurandosi sia come una sottoclasse delle rappresentazioni concettuali, sia come una componente pura e semplice della ricettività: di qui l’esigenza di rintracciare un minimo di rappresentazione concettuale nella sfera percettiva e di ri-

130 Il famoso saggio di Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind, uscì nei Minnesota Studies in the Philosophy of Science, University of Minnesota Press, Minneapolis 1956, pp. 253329. Nel seguito citeremo dalla nuova edizione: Empiricism and the Philosophy of Mind, with an Introduction by R. Rorty and a Study Guide by R. Brandom, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)/London 1997, trad. it. di E. Sacchi, Empirismo e filosofia della mente, Einaudi, Torino 2004. 131 Ivi, pp. 39, 43-45, trad. it. cit., pp. 24, 27-29. 132 Ivi, pp. 79, 87,111, trad. it. cit., pp. 56, 63, 82. 133 Sul kantismo di Sellars si veda la puntuale presentazione di A. de Vries, Wilfried Sellars, cit., pp. 57-66. 134 Cfr. W. Sellars, Some Remarks on Kant’s Theory of Experience, in Essays in Philosophy and Its History, Reidel, Dordrecht/Boston 1974, pp. 44-61 (ma il saggio è del 1967).

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conoscere nel molteplice di cui aveva parlato Kant la presenza di un «costrutto teorico»135. Ma dall’altra parte Sellars era anche indotto a rivisitare la teoria kantiana delle categorie, e questo non solo con fini esegetici o di interpretazione teorica, ma anche con l’intento di riaprire un capitolo che a Vienna era rimasto ermeticamente chiuso: il capitolo del “kantismo” di Wittgenstein. Nessun dubbio, da parte di Sellars, sul valore della “rivoluzione” di Kant: la concezione kantiana delle categorie come classificazioni generali «dei poteri logici che un sistema concettuale deve possedere per generare conoscenza empirica»136 rappresentava il discrimine tra l’”empirismo” e una filosofia dell’“esperienza”. Ma il punto era anche di mostrare che Wittgenstein, sin dal Tractatus, aveva condiviso l’idea di fornire «una descrizione a priori di ciò che significa essere oggetto di conoscenza empirica»: certo, in un modo molto diverso da Kant, e avendo alle spalle la rivoluzione darwiniana e i Principia Mathematica di Russell e Whitehead; eppure proprio il divorzio del Tractatus dall’«empirismo classico» attestava il suo carattere «profondamente kantiano»137. Sellars sosteneva queste posizioni nel corso degli anni Sessanta, quando stava prendendo avvio l’ampia discussione sugli “argomenti trascendentali” e in Inghilterra Strawson – come vedremo – dava vita a una forma di “kantismo analitico”. Ma anche negli Stati Uniti Sellars non sarebbe rimasto un isolato, se è vero che sull’onda delle polemiche suscitate dall’attacco di Quine ai «dogmi dell’empirismo» un’altra figura influente come Putnam si sarebbe progressivamente riavvicinato a Kant, pur rifiutando (come già aveva fatto Strawson) il “lato oscuro” del kantismo, ovvero la sua «oscura storia trascendentale»138. All’inizio degli anni Sessanta Putnam si era mostrato convinto che la distinzione tra analitico e sintetico che Quine proponeva di superare dovesse invece essere mantenuta, una volta ammesso che le proposizioni della scienza non sono analitiche (se con tale termine intendiamo asserzioni a cui «uno scienziato ragionevole non può mai rinuncia-

135 W. Sellars, Science and Metaphysics. Variations on Kantian Themes, Routledge & Kegan Paul, London 1968, pp. 7, 9, 15 (il volume raccoglie le John Locke Lectures del 1966). 136 W. Sellars, Some Remarks on Kant’s Theory of Experience, cit., p. 53. 137 W. Sellars, Toward a Theory of Categories, in Essays in Philosophy and Its History, cit., pp. 318-320. 138 Su questo punto e, più in generale, sulla «rivitalizzazione» del kantismo da parte di Putnam si veda l’esauriente studio d’insieme di D. Moran, Hilary Putnam and Immanuel Kant: Two ‘Internal Realists’?, «Synthese», 123 (2000), pp. 65-104. Cfr. inoltre P. Valore, Rappresentazione, riferimento e realtà. Studio su Hilary Putnam, Thélème, Milano 2001, p. 216, che insiste sul carattere «piuttosto vago» del kantismo di Putnam e sulla sua distanza dalle assai più raffinate interpretazioni di Kant fornite dal neokantismo e dalla tradizione (ignorata da Putnam) che va da Herbart a Cassirer.

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re»)139. Ma se le asserzioni della scienza sono sempre rivedibili alla luce del confronto con l’esperienza (e sono dunque sintetiche), non vi sono forse delle asserzioni (analitiche) immuni da revisione, ovvero tali che rinunciare ad esse significherebbe venir meno alla stessa «ragionevolezza»? In effetti, le asserzioni di questo genere (“tutti gli scapoli sono non sposati”) esistono, e sono considerate come “vere per stipulazione” o “vere in virtù delle regole del linguaggio” perché innanzi tutto sono accettate come vere senza darne ragione, ovvero per convenzione implicita, e potrebbero essere formalizzate come asserzioni immuni da ogni revisione. Non si tratta però – preciserà Putnam verso la fine degli anni Settanta – di difendere la tradizionale concezione dell’apriorità (e della non rivedibilità) della logica e della matematica, quanto di riconoscere che la maggior parte delle asserzioni obbediscono a priori a certe leggi logiche: in particolare a un principio di contraddizione formulato in maniera “debole” e in base al quale ogni asserzione non può essere al tempo stesso vera (o asserita in maniera perfettamente corretta) e falsa (ovvero tale che è perfettamente corretto negarla). Il problema della verità a priori è così una questione interna al problema della razionalità, o meglio ancora riguarda la «metateoria della razionalità»: essa è compatibile con un fallibilismo che non rigetta le verità a priori, ma che dubita che le ragioni addotte per ritenere vera una determinata asserzione siano immuni da errore; inoltre, le verità a priori che in tal modo ci dicono qualcosa della razionalità hanno il carattere di massime e in questa forma (del tipo “un essere razionale non può credere che ogni asserzione sia vera”) non sono analitiche, ossia non sono ricavabili semplicemente «riflettendo sul significato della parola “razionale”»140. È a partire da questa messa a punto del carattere della razionalità umana in contrasto con Quine che Putnam, rivedendo il realismo metafisico da lui stesso in precedenza condiviso, è approdato alla sponda kantiana, sia pure evitando i molti scogli che ne rendono difficile l’accesso e senza addentrarsi nella sofisticata esegesi teorica di un illustre “kantiano americano” come Sellars. Per usare una formula non priva di efficacia, si può dire che in sostanza si è trattato per Putnam di riconoscere il merito di Kant per «aver detto che non è un disastro il fatto che non possiamo separare il nostro

139 Cfr. H. Putnam, The analitic and the synthetic, in Mind, Language and Reality. Philosophical Papers, vol. II, Cambridge University Press, Cambridge 1975, pp. 33-69, trad. it. di R. Cordeschi, L’analitico e il sintetico, in Mente, linguaggio e realtà, Adelphi, Milano 1987, pp. 54-90. 140 Cfr. H. Putnam, Analiticity and Apriority: Beyond Wittgenstein and Quine, in Realism and Reason. Philosophical Papers, vol. III, Cambridge University Press, Cambridge 1983, pp. 115-138.

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schema concettuale da ciò che è “là oggettivamente”»141. Al realismo metafisico e alla prospettiva «esternista», per la quale il mondo consiste di un insieme di oggetti indipendenti dalla nostra mente e che può essere colto da una sorta di “occhio di Dio” al di fuori di ogni nostro schema concettuale, Putnam ha contrapposto il realismo interno: per chi condivida questo punto di vista chiedersi di quali oggetti consista il mondo ha senso all’interno di una certa teoria o di una certa descrizione del mondo stesso. «Gli “oggetti” non esistono indipendentemente dagli schemi concettuali, ma siamo noi che scomponiamo il mondo nei vari oggetti quando introduciamo i nostri schemi di descrizione»142. Questo non significa negare il ruolo degli «ingredienti» dell’esperienza, bensì implica il riconoscimento che essi sono modellati concettualmente; e tutto ciò non può che portare alla convergenza con Kant, il primo che avrebbe condiviso la prospettiva internista con quanto ne consegue per il superamento della teoria della verità come corrispondenza e di una concezione causale del riferimento. È in questo senso che Putnam dichiara di appartenere «(grosso modo) alla tradizione kantiana» e presenta il suo “realismo interno” come uno sviluppo della posizione di Kant, seppure depurata (grazie anche a James e Dewey) della cosa in sé e incentrata sull’idea che non esiste una nozione di oggetto indipendente dallo schema concettuale: non perché tutto sia riducibile a linguaggio, ma perché dei “fatti” si può parlare solo all’interno di un certo linguaggio. Soltanto così ci si può liberare dall’ingenuità che «almeno una categoria – la vecchia categoria di oggetto e sostanza – abbia una intepretazione assoluta» e dall’idea fallace secondo cui la conoscenza fornirebbe una “copia” del mondo esterno, come se fosse uno specchio che riflette i raggi provenienti dagli oggetti143. Un punto, quest’ultimo, che apre al contempo la prospettiva di un pluralismo degli schemi concettuali certamente estranea a Kant (ma non alla tradizione kantiana, sino a Sellars compreso) e che rilancia contestualmente l’attualità di James, il padre del pragmatismo americano che sul problema della verità e della natura della conoscenza aveva messo a punto una strategia vincente (e non lontana da questo Kant) in virtù della sua lungimirante comprensione del nesso inscindibile tra la “teoria” (umana) e i “fatti” (del mondo)144. Per Putnam, dunque, James e Kant possono 141 H. Putnam,The Many Faces of Realism, Open Court, La Salle (Illinois) 1987, trad. it. di N. Guicciardini, La sfida del realismo, Garzanti, Milano 1991, p. 72. 142 H. Putnam, Reason, Truth and History, Cambridge University Press, Cambridge 1981, p. 52, trad. it. di A.N. Radicati di Bronzolo, Ragione, verità e storia, Il Saggiatore, Milano 1985, p. 60. 143 Cfr. H. Putnam, La sfida del realismo, cit., pp. 51, 58, 60-61 e Reason, Truth and History, cit., pp. 60-64, trad. it. cit., pp. 68-72. Si vedano pure le considerazioni di D. Moran, Hilary Putnam and Immanuel Kant: Two ‘Internal Realists’?, cit., p. 90. 144 H. Putnam, Il pragmatismo: una questione aperta, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 69. Si veda inoltre H. Putnam, James’s Theory of Truth, in The Cambridge Companion to William

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assumere il ruolo – alla fine del XX secolo – di numi tutelari per chi intenda «rinnovare la filosofia» e orientare la filosofia analitica in una direzione diversa, mettendo in forse l’idea che solo la scienza descriva il mondo così come esso è, al di fuori di ogni prospettiva e di ogni “valore”145. 5. Kantismo analitico e argomenti trascendentali Il rapporto con Kant è tuttavia entrato nell’armamentario del filosofo analitico del secondo dopoguerra anche attraverso un’altra porta, che ci riconduce nel tempo alla prima metà degli anni Cinquanta e nello spazio alla cultura filosofica britannica, nella quale si era affermato il “paradigma” dell’analisi linguistica ispirata all’insegnamento del cosiddetto “secondo” Wittgenstein e alle tesi sviluppate nelle postume Philosophical Investigations. Gli analisti del linguaggio ordinario avevano svolto, sin dai tardi anni Trenta, un sottile lavoro che avrebbe dato i suoi frutti più cospicui nel secondo dopoguerra146; e in quella stagione della filosofia analitica (in specie a Oxford) si era pensato, tra molte altre cose, che la tradizione aristotelica potesse costituire un utile retroterra per congedarsi dalla tradizione kantiana. Gilbert Ryle, ad esempio, nel 1938 aveva trattato il problema delle categorie nella convinzione che essere all’«oscuro» sui problemi della filosofia fosse direttamente proporzionale al non essere in chiaro su quello delle categorie; e per questa ragione conveniva riconoscere, a giudizio di Ryle, quali fossero stati almeno in parte i meriti di Aristotele nel partire da un’analisi del linguaggio comune per isolare determinati «tipi logici» a cui appartengono i «fattori» che intervengono nelle proposizioni con le quali rispondiamo a certi interrogativi147. Se questo era quanto si poteva ricavare di positivo da Aristotele, più magro appariva invece il bottino di un'incursione nelle categorie kantiane: qui infatti ci si imbatte in una «misteriosa metapsiJames, ed. by R.A. Putnam, Cambridge University Press, Cambridge 1997, pp. 166-185. Su Putnam interprete di James cfr. R.M. Calcaterra, Il James di Putnam, in Pragmatismo e filosofia analitica. Differenze e interazioni, a cura di R.M. Calcaterra, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 206-225. 145 Cfr. H. Putnam, Renewing Philosophy, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1992, trad. it. di S. Marconi, Rinnovare la filosofia, Milano, Garzanti 1998. 146 Un’ottima panoramica di questa fase della filosofia analitica britannica si trova in P.M.S. Hacker, Wittgenstein’s Place in Twentieth Century Analytic Philosophy, cit., pp. 137-182. 147 Così alla domanda “chi è Socrate?” si risponderà con proposizioni del tipo “Socrate è...”, dove lo spazio vuoto può essere riempito da un fattore di un certo tipo compatibile con il tipo logico del fattore “Socrate” (ciò che per Aristotele era la sostanza individuale); in caso contrario si avrà invece una proposizione assurda, come quando ad esempio si afferma che “Sabato è a letto” (G. Ryle, Categories, poi in Collected Papers, vol. 2, Collected Essays 19291968, Thoemmes Press, Bristol 1990, p. 174, trad. it. e cura di A. Pasquinelli, Il problema delle categorie, in Neoempirismo, UTET, Torino 1969, p. 765.

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cologia» che dovrebbe essere a fondamento del potere costitutivo della mente, ma che malauguratamente mette capo – secondo Ryle – al «mito» di un «catalogo finito» di categorie ricavato in maniera del tutto errata dalla tavola dei giudizi. Il risultato è un arretramento rispetto ad Aristotele, delle cui categorie di quantità, qualità e relazione Kant fa un uso completamente diverso partendo dalla classificazione dei giudizi e non dall'individuazione di famiglie di predicati. Ma nonostante questo anche in Kant c’è almeno un aspetto notevole: le «alquanto misteriose» funzioni unificatrici delle categorie, infatti, possono essere interpretate come l'abbozzo di una «teoria sintattica» della combinazione dei fattori degli enunciati, laddove Aristotele – ignaro delle «parole formative» come “tutti”, “qualche”, “uno”, “qualsiasi” e così via – si fermava invece a una pura «teoria alfabetica» della combinazione dei fattori148. Per una teoria delle categorie o dei tipi (o meglio per una teoria che risponda alla domanda: «di che cosa sono tipi i tipi?») tutto questo è rilevante, specie se si vuole andare alla caccia degli enunciati in cui le regole categoriali sono violate, ovvero se si vuole andare a caccia degli enunciati assurdi e discernerli da quelli significativi studiando i tipi di combinazione che si possono instaurare tra i fattori di una proposizione. Nel 1939, quasi contemporaneamente al saggio di Ryle sulle categorie, un futuro esponente di spicco della filosofia oxoniense del linguaggio ordinario come John L. Austin aveva risposto alla domanda “ci sono concetti a priori?” con una sistematica demolizione del concetto in quanto preteso “universale”, nella convinzione che molti miti filosofici fossero sorti dall’ammettere la sua esistenza e, peggio ancora, dalla sicurezza con cui i filosofi avevano dichiarato di sapere che cosa esso fosse. Indirettamente, Austin anticipava un tema che sarà al centro della discussione sugli argomenti trascendentali: una prova della necessità di universali o concetti a priori consiste nella circostanza che se non li ammettessimo non potremmo dare un nome alle cose, ovvero rinvenire qualcosa di non sensibile comune agli oggetti sensibili149. Tuttavia Austin era convinto che una simile maniera di trattare il problema fosse fallace e ricadesse nelle oscurità impenetrabili della deduzione trascendentale kantiana. Ogni inchiesta sulle fonti o le origini delle nostre conoscenze è ambigua o comunque irrimediabilmente vaga: «sembra chiaro allora – sosteneva Austin, declinando ogni corresponsabilità con gli assertori degli universali – che chiedere se “possediamo un certo concetto” è lo stesso che chiedere se una certa parola abbia qualche significato – o piuttosto se l’abbiano gli enunciati in cui essa ricorre»150. 148

Ivi, p. 177, trad. it. cit., pp. 769-770. Cfr. J.L. Austin, Are There A Priori Concepts?, in Philosophical Papers, ed. by J.O. Urmson and G.J. Warnock, Clarendon Press, Oxford 1979, p. 33, trad. it. e cura di P. Leonardi, Ci sono concetti a priori?, in Saggi filosofici, Guerini e Associati, Milano 1990, p. 38. 150 Ivi, p. 43, trad. it. cit., p. 47. 149

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Eppure, all’interno della filosofia del linguaggio ordinario che con Ryle e Austin aveva anche tentato di marcare la propria distanza nei confronti di Kant, sussistevano «grandi diversità»151, destinate ad emergere proprio da parte di chi avrebbe tentato, nel corso degli anni Cinquanta, di riguadagnare sul piano teorico un rapporto di natura assai più problematica con Kant. Una data per tutte: nel 1955 Stephan Körner pubblicava un’introduzione al pensiero di Kant in cui comparivano alcuni significativi apprezzamenti nei confronti della filosofia critica. Körner riteneva infatti che l’empirismo, nella sua pretesa di ridurre le proposizioni su oggetti fisici a proposizioni su dati sensibili, fosse andato incontro a un vero e proprio «fallimento», che assumeva al tempo stesso il significato di una postuma rivincita della dottrina centrale dell’analitica trascendentale di Kant, secondo la quale «tutte le proposizioni empiriche oggettive implicano l’applicazione delle categorie, cioè di concetti applicabili ma non astratti dai sensi»152. Per quanto le prove fornite da Kant in favore del suo elenco delle categorie apparissero poco plausibili – sosteneva Körner – rimaneva comunque fuori discussione il merito acquisito dalla filosofia critica per aver fissato il ruolo delle categorie nella costruzione dei giudizi empirici: «questo è un fatto importante riguardo al nostro pensiero, che i predecessori empiristi di Kant non seppero o non vollero vedere»153. Almeno per l’ambito filosofico britannico di quegli anni si trattava di un riconoscimento tutt’altro che scontato154. Anzi, per più di un verso l’opera di Körner segna l’avvio di un crescente interesse nei confronti di Kant che si consoliderà nel decennio successivo, dando vita a una sorta di “rinascita” kantiana che attraverserà sempre più settori consistenti della filosofia analitica e della filosofia della scienza, realizzando un parziale ricongiungimento con le interpretazioni epistemologiche di Kant che avevano caratterizzato il contributo del neokantismo in Germania tra Ottocento e Novecento155. 151

P.M.S. Hacker, Wittgenstein’s Place in Twentieth Century Analytic Philosophy, cit.,

p. 158. 152 S. Körner, Kant, Penguin Books, Harmondsworth 1955, trad. it. di G. Varón e G. Sadun Bordoni, Kant, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 111. 153 Ivi, pp. 55-56. 154 Per l’interpretazione di Kant nell’ambiente britannico intorno alla metà del secolo non va scordato il contributo molto rilevante di Charlie D. Broad, le cui lezioni su Kant tenute a Cambridge nel 1950-1951 e nel 1951-1952 vennero però pubblicate solo venticinque anni più tardi, quando la discussione su Kant anche nell’area della filosofia analitica aveva fatto moltissimi passi in avanti (cfr. C.D. Broad, Kant. An Introduction, Cambridge University Press, Cambridge 1978, trad. it. di B. Morcavallo, Lettura di Kant, con un’Introduzione di C.A. Viano, Il Mulino, Bologna 1988). 155 Cfr. S. Körner, Trascendental Tendencies in Recent Philosophy, «The Journal of Philosophy», LXIII (1966), pp. 551-561. Si veda pure G. Zöller, Main Developments in Recent Scholarship on the “Critique of Pure Reason”, «Philosophy and Phenomenological Research», LIII (1993), pp. 461-466.

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Tuttavia il capitolo più importante di questa ripresa kantiana all’interno della filosofia analitica del secondo dopoguerra è stato scritto da Peter F. Strawson. Dapprima con Individuals del 1959 e poi soprattutto con The Bounds of Sense, il libro su Kant pubblicato nel 1966 ma originato da alcuni cicli di lezioni sulla Critica della ragion pura tenuti a Oxford dal 1959 in avanti, Strawson avrebbe avviato un ambizioso programma di ricerca che muovendo dal cuore dell’analisi oxoniense del linguaggio doveva raggiungere le sponde abbastanza impreviste del «kantismo analitico»156. Secondo Strawson la novità più rilevante della filosofia di Kant, ossia la messa a fuoco dell’«intelaiatura» che costituisce la «metafisica dell’esperienza», non era stata ancora completamente assimilata nella sua originalità dalla «coscienza filosofica» odierna157; ed è a partire da questa convinzione che Strawson delineava il progetto di una «metafisica descrittiva», termine con il quale egli designava una ricerca rivolta appunto a «descrivere l’effettiva struttura del nostro pensiero sul mondo»158. Ma una simile impresa differisce dal lavoro tradizionale dell’analisi filosofica per l’ambito a cui si rivolge e per la generalità a cui aspira: per cogliere le caratteristiche di fondo della nostra «struttura concettuale», riconosceva Strawson, non è sufficiente l’analisi linguistica; occorre invece rinvenire ciò che egli chiamava la dimensione «immersa», che non affiora facilmente dal significato e dall’uso delle parole e nemmeno è sottoposta ai mutamenti o alle trasformazioni delle forme del sapere: «vi è infatti un solido nucleo centrale del pensiero umano che non ha storia, o non ne ha una che sia riportata nelle storie del pensiero; vi sono categorie e concetti che, nei loro caratteri più fondamentali, non cambiano affatto»159. La ricerca di un simile «nucleo» avviene collocandosi al livello del pensiero «meno raffinato», dal quale si possono ricavare tutti gli elementi necessari dell’«equipaggiamento concettuale» che la metafisica de156 Cfr. in proposito il saggio di H.-J. Glock, Strawson and Analytic Kantianism, in Strawson and Kant, ed. by H.-J. Glock, Clarendon Press, Oxford 2003, pp. 15-42. Si veda inoltre il quadro d’insieme tracciato da J.-C. Billier, Interpréter Kant après Strawson, in Kant et les kantismes dans la philosophie contemporaine 1804-2004, éd. par F. Capeillères et Ch. Berner, Presses Universitaires du Septentrion, Lille 2007, pp. 149-169. 157 Cfr. P.F. Strawson, The Bounds of Sense. An Essay on Kant’s “Critique of Pure Reason”, Methuen, London 1966, p. 29, trad. it. di M. Palombo, Saggio sulla “Critica della ragion pura”, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 18. 158 P.F. Strawson, Individuals. An Essay in Descriptive Metaphysics, Methuen, London 1959, rist. Routledge, London 1997, p. 9, trad. it. di E. Bencivenga, Individui. Saggio di metafisica descrittiva, Feltrinelli-Bocca, Milano 1978, p. 9. 159 Ivi, p. 10, trad. it cit., p. 10. Nel corso celebre del colloquio di Royaumont del 1962 dedicato alla filosofia analitica (cfr. La philosophie analityque, Les Éditions de Minuit, Paris 1962) Strawson avrebbe precisato che la metafisica descrittiva si propone «di mostrare come si colleghino fra loro le categorie fondamentali del pensiero, come queste si colleghino a loro volta a nozioni formali come l’esistenza, l’identità, l’unità, che sono presenti in tutte le categorie» (P.F. Strawson, Analisi, scienza e metafisica, a cura di E. Riverso, Armando, Roma 1977, p. 52).

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scrittiva si propone di studiare, in polemica con lo scetticismo e la sua contraddittoria pretesa di fare a meno di schemi concettuali pur dovendo utilizzarli per formulare i propri dubbi. Non è difficile comprendere, dunque, come Strawson giungesse a studiare la Critica della ragion pura di Kant, considerata come una pietra miliare (che Strawson accostava a quella rappresentata da Aristotele) nella storia «lunga e illustre» della metafisica e a cui la metafisica descrittiva intendeva contribuire. Naturalmente, ciò che interessava a Strawson della riflessione trascendentale kantiana erano le potenzialità in essa racchiuse per un’analisi delle strutture concettuali dell’esperienza, ossia di quelle strutture che delimitano l’esperienza sensibile costituendone l’«intelaiatura». Ma le risorse concettuali da utilizzare al servizio di una metafisica descrittiva e che mettono capo a una concezione «austera» dell’a priori vanno nettamente separate – secondo Strawson – dalle teorie fuorvianti dell’idealismo trascendentale. Queste ultime sono incentrate sull’attribuzione delle esperienze a un soggetto autocosciente, trovano espressione negli «incantesimi pronominali» di cui Kant abusa, mettono in questione la possibilità di riconoscere «un’identica realtà» sia alle rappresentazioni interne, sia ai loro oggetti esterni e comportano, in generale, l’assunzione del «linguaggio di un estremo soggettivismo»160. Prendendo le distanze da queste implicazioni in una prospettiva che ricorda per certi versi la “restaurazione” dell’a priori promossa da Cohen e dalla scuola di Marburgo in polemica con le interpretazioni idealistiche e psicologistiche di Kant, Strawson traeva dalla Critica della ragion pura e, in particolare, dall’analitica trascendentale nella sua indipendenza di fondo dalle tesi dell’estetica (un altro tema convergente con il neokantismo) gli elementi indispensabili per una «metafisica positiva dell’esperienza»161. Ma tali elementi a priori sono da intendersi, appunto, in una versione «austera»: essi sono gli essenziali elementi strutturali «di ogni concezione dell’esperienza, che possiamo renderci comprensibile», senza per questo implicare la condivisione dell’idealismo trascendentale che promuove la loro «presenza necessaria» al rango di una prerogativa «completamente» inerente «alla natura della nostra struttura conoscitiva»162. Le sottili analisi di Strawson hanno svolto una funzione determinante nel rinnovamento dell’immagine di Kant all’interno della filosofia analitica, alimentando sia un cospicuo lavoro di indagine testuale, sia un più generale ripensamento della filosofia kantiana che si è esteso anche ad altri ambiti, in particolare all’etica (è del 1971 la Theory of Justice di John Rawls)163. Ma 160

P.F. Strawson, The Bounds of Sense, cit., pp. 173, 197, 248, trad. it. cit., pp. 160, 185, 236. Ivi, p. 123, trad. it. cit., p. 110. 162 Ivi, p. 68, trad. it. cit., p. 58. 163 Sempre in fatto di date, conviene inoltre aggiungere che nello stesso anno di The Bounds of Sense di Strawson usciva il libro di J. Bennet, Kant’s Analytic, Cambridge University 161

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l’esito più rilevante del “kantismo analitico” è rappresentato indubbiamente dall’ampia discussione sulla rilevanza degli argomenti trascendentali kantiani164. «Si potrebbe interpretare il ricorso agli argomenti trascendentali nella filosofia analitica della seconda metà del XX secolo – ha osservato Sandra Laugier – come indizio di una delle aporie della filosofia analitica, incapace di andare sino in fondo nel naturalismo e incline a darsi come compensazione un supplemento di trascendentale»165. A partire di qui una parte della comunità analitica (ma non senza echi anche tra i “continentali”) si è interrogata a lungo, specie tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, su questo «supplemento di trascendentale» e ha recepito criticamente le proposte di Strawson, via via mettendo in luce come il carattere costruttivo del linguaggio, la sua capacità di articolare “intelaiature” concettuali che rinviano alle strutture cognitive del pensiero, l’esigenza stessa di fare riferimento a schemi categoriali per quanto non fissi e immutabili, impongano il confronto con Kant e con la funzione che rivestono i «quadri di riferimento categoriali» nelle procedure conoscitive proprie del senso comune o dell’indagine scientifica166. Per quanto riflettano la natura degli esseri umani che li utilizzano, tali schemi – aveva sostenuto Strawson – non devono essere considerati solo statici, bensì «soggetti a quell’infinito processo di perfezionamento, correzione ed estensione che accompagna il progresso della scienza»; ma questo non implica affatto, per Strawson, la rinuncia a una struttura permanente di fondo entro la quale avvengono tali variazioni167. Tuttavia proprio su quest’ultimo punto, ovvero sul problema di come si possa giustificare il mutamento dei «quadri di riferimento categoriali» e la loro concorrenza reciproca, si sono registrate significative divergenze dalla Press, London/New York 1966, altra tappa importante per il “lungo viaggio” della filosofia analitica nella direzione di Kant. 164 Cfr. J. O’Shea, Conceptual Connections: Kant and the Twentieth-Century Analytic Tradition, cit., p. 522. 165 S. Laugier, Langage, scepticisme et argument transcendantal, in La querelle des arguments transcendantaux, sous la direction de S. Chauvier, («Cahiers de philosophie de l’université de Caen», n° 35), Presses Universitaires de Caen, Caen 2000, p. 21. In generale si vedano gli studi raccolti in Transcendental Arguments. Problems and Prospects, ed. by R. Stern, Clarendon Press, Oxford 1999. Ricco di spunti importanti e di acute analisi è inoltre il volume di S. Stapleford, Kant’s Transcendental Arguments. Disciplining Pure Reason, Continuum International Publishing, London 2008. 166 Un esempio interessante di questa saldatura tra analisi linguistica e strutture cognitive in senso kantiano si trova in A. Bonomi, Le vie del riferimento. Una ricerca filosofica, Bompiani, Milano 1975, dove la discussione della teoria delle descrizioni di Frege e Russell e della semantica dei nomi propri di Kripke si fonda sull’assunzione di apparati concettuali e schemi categoriali all’interno dei quali i nomi propri possono svolgere la loro «funzione identificante»: perché contro il “mito del dato” vale sempre il monito kantiano relativo all’impossibilità di «sapere che cosa sia un oggetto al di fuori di ogni schema categoriale» (pp. 104-105, 113). 167 Cfr. P.F. Strawson, The Bounds of Sense, cit., p. 44, trad. cit., p. 33.

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metafisica descrittiva di Strawson. Körner ad esempio ha preso le distanze da Strawson e ricollegandosi se mai – pur senza esplicito riconoscimento – ai progetti neokantiani di “dinamicizzare” l’a priori rendendolo contestuale ai mutamenti del “fatto della scienza”, ha cercato di mostrare come un «quadro di riferimento categoriale» costituisca l’insieme delle procedure attraverso le quali una determinata regione dell’esperienza viene differenziata grazie alla “categorizzazione” dei suoi elementi, ossia riconducendoli a “classi ultime” che determinano la struttura interna, la gerarchia e la logica specifica di quella regione. Ogni quadro categoriale dispone pertanto di principi costitutivi e di individuazione degli oggetti che vengono categorizzati, nonché di una logica relativa a tale quadro; le proposizioni interne a esso non sono correggibili se non modificando l’intero quadro, e ciò conduce Körner a classificare tali proposizioni nei termini dell’articolazione kantiana dell’a priori: proposizioni internamente incorreggibili sono a priori, e in particolare sono sintetiche a priori se esistenziali, analitiche a priori se logiche168. Ma il punto cruciale è che per Körner, a differenza di Kant, sono possibili quadri categoriali alternativi, fondati pertanto su principi costitutivi a loro volta alternativi169. Da un punto di vista generale, una simile relativizzazione degli schemi categoriali è presentata da Körner come una via di mezzo tra i due estremi di un relativismo culturale che porta all’incomunicabilità tra quadri differenti e di uno scientismo che identifica ogni incremento informativo della conoscenza con una crescita del potere esplicativo; tuttavia ciò che autorizza Körner a parlare di concorrenza tra quadri categoriali o di vere e proprie «rivoluzioni categoriali» è costituito dalla presenza, nella storia della scienza, di mutamenti profondi quali la biologia darwiniana, la fisica newtoniana o la teoria dei quanti, che hanno generato il conflitto dei sistemi categoriali preesistenti con nuove teorie o risultanze empiriche, imponendo una correzione dall’esterno di tali sistemi170. Di conseguenza l’assunzione tipica di un argomento trascendentale – 168

Cfr. S. Körner, Categorial Frameworks, Blackwell, Oxford 1970, p. 19. Ivi, pp. 8, 59. 170 Ivi, pp. 63, 69. Questo genere di problemi ha qualche affinità con le tesi svolte da Thomas Kuhn in relazione alla struttura delle rivoluzioni scientifiche e al mutamento di paradigmi che interviene quando la “scienza normale” viene sconvolta, appunto, nei suoi paradigmi da fratture “rivoluzionarie”. Nella sua fase ultima, in particolare, Kuhn ha significativamente inscritto le sue riflessioni sui lessici scientifici e sulla loro intertraducibilità o meno nel quadro di quello che egli chiama un «kantismo postdarwiniano», caratterizzato dal fatto che, non diversamente dalle categorie kantiane, anche il lessico fornisce le condizioni preliminari per la possibilità di esperienze; tuttavia le «categorie lessicali» – a differenza di quelle kantiane – possono mutare e in effetti mutano trasmigrando da una comunità scientifica all’altra (cfr. Th. Kuhn, The Road Since Structure (1991), poi in The Road Since Structure. Philosophical Essays, 1970-1993, with an Autobiographical Interview, ed. by J. Conant and J. Haugeland, The University of Chicago Press, Chicago and London 2000, p. 104, trad. it. La strada percorsa da «La 169

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che ogni proponente dell’argomento, cioè, ritenga che l’impiego del suo quadro categoriale sia necessario per tutti – risulta fallace: «il difetto di tutti gli argomenti trascendentali è la loro incapacità di fornire una prova di unicità, ossia la dimostrazione che il quadro di riferimento categoriale è universale»171. Gran parte della discussione sugli argomenti trascendentali è stata influenzata dalla tensione tra la formulazione di schemi categoriali alternativi (secondo la tesi di Körner) e l’esigenza (sulle orme di Strawson) di attribuire uno statuto a priori e necessario ai concetti che un argomento trascendentale impiega per rendere possibile l’esperienza o il pensiero. Le condizioni necessarie, in questo caso, non possono concedere spazio a repliche convenzionalistiche e costituiscono una classe di asserti “privilegiati”, che dovrebbero spiazzare il dubbio dello scettico e vanificare la sua pretesa di attenersi a ciò che l’esperienza ci offre; ma se tali asserti «invulnerabili» sono credenze che debbono rivelarsi vere – così recita un’obiezione che è stata assai influente – non si può fare a meno di ricorrere a una verifica nell’esperienza, rendendo ridondante la prova trascendentale e ritornando invece nei luoghi ben noti della Vienna degli anni Venti172. Sostenere un argomento trascendentale non significa dunque fare professione di kantismo in senso stretto; ma sul sostenitore di argomenti trascendentali ricade coStruttura», in Dogma contro critica. Mondi possibili nella storia della scienza, a cura di S. Gattei, Cortina, Milano 2000, pp. 155-156). 171 S. Körner, Categorial Frameworks, cit., p. 72. Da queste tesi Körner ha inoltre tratto una serie di obiezioni contro la pretesa di una deduzione trascendentale in quanto prova dell’unicità del sistema delle categorie dell’intelletto puro. In particolare, la dimostrazione di unicità di uno schema concettuale ha successo solo se l’unicità risulta provata dal confronto con altri schemi, infrangendo in tal modo l’asserita unicità dello schema stesso; inoltre l’esame di uno schema e della sua applicazione deve avvenire dall’interno dello schema (e del suo linguaggio), ma questo risulta valido solo per una regione dell’esperienza e non implica che lo schema in questione sia l’unico in cui l’esperienza può essere strutturata: per Körner, dunque, «stabilire uno schema non è dimostrare la sua unicità»: cfr. S. Körner, The Impossibility of Transcendental Deductions, «The Monist», LI (1967), pp. 317-331, poi in Kant Studies Today, ed. by L.W. Beck, Open Court, La Salle (Illinois) 1969, pp. 230-244, qui pp. 233-234, 239. D’altra parte gli sviluppi della scienza dopo Kant – dalle geometrie non-euclidee alla meccanica quantistica – hanno sconfessato la pretesa kantiana di un sistema invariabile e unico di categorie: per salvare una forma “debole” di kantismo occorre dunque rinunciare all’unicità degli schemi concettuali e trasformare i principi costitutivi a priori in principi regolativi, la cui funzione consiste nell’indicare come e su quali presupposti si debbano impiegare le categorie (cfr. S. Körner, Kant, trad. it. cit., pp. 114-115; si veda inoltre, sempre di Körner, il saggio On Kant’s Philosophy of Mathematics from a Present-Day Perspective, in Kant and Contemporary Epistemology, ed. by P. Parrini, Kluwer, Dordrecht/Boston/London 1994, pp. 73-86). 172 Cfr. in particolare B. Stroud, Transcendental Arguments, «The Journal of Philosophy», LXV (1968), pp. 241-256; Id., Kantian Argument, Conceptual Capacities, and Invulnerability, in Kant and Contemporary Epistemology, cit., pp. 231-251; Id., The Goal of Transcendental Arguments, in Transcendental Arguments, cit., pp. 155-172.

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munque l’onere di esibire un minimum di condizioni necessarie per essere capaci di parlare in maniera intelligibile del mondo o della nostra esperienza, e questo non esclude che sia conciliabile con il punto di vista kantiano adottare linguaggi diversi per descrivere o spiegare i fenomeni, rimpiazzando eventualmente certe categorie con altre: basterà che vi siano principi di significanza comuni ai vari linguaggi e che si escludano linguaggi incompatibili con essi. A dispetto delle convinzioni di Körner la deduzione trascendentale delle categorie è pertanto possibile quando si accetti che i mutamenti degli schemi categoriali non implicano un’alternativa radicale all’univocità dello schema esistente, bensì una variazione al suo interno173. Se il mutamento categoriale e l’ipotesi di un altro sistema di categorie (imputabile per esempio a esseri viventi che abitino altri pianeti) presuppongono pur sempre che una simile possibilità sia pensata all’interno del nostro sistema categoriale, bisognerà allora distinguere – con Husserl – tra categorie formali (che rimangono costanti e definiscono la grammatica logica del nostro parlare del mondo) e categorie materiali (le quali invece sono mutevoli). L’estremo storicismo di chi annovera anche le prime categorie nell’ambito della contingenza storica, invocando la finitezza umana e l’impossibilità di un pensiero sub specie aeternitatis, si avvolge nel paradosso di ogni soggettivismo relativistico; ma non per questo gli argomenti trascendentali, nel render conto dei «presupposti della nostra esperienza e delle sue strutture», possono assumere come assolute le forme a priori174. Una posizione in certo modo standard è stata assunta da quanti, seguendo la proposta di Strawson, hanno ritenuto accettabile un argomento trascendentale che sia costruito esclusivamente tramite l’analisi concettuale, senza chiamare in causa il «lato oscuro» del kantismo, vale a dire le teorie della mente e della sua attività sintetica che costituiscono il cuore dell’idealismo trascendentale: un argomento trascendentale, pertanto, sarà rivolto soltanto a confutare una qualche forma di scetticismo provando qualcosa intorno alle condizioni necessarie della conoscenza175. Da questo punto di vista il reiterato riferimento a Kant che si è diffuso nella filosofia analitica a partire da Strawson è andato di pari passo con un processo di «progressiva detrascendentalizzazione», da cui sono sorti programmi di ricerca “kantiani” decisamente più modesti e minimali rispetto al Kant storico e a forme

173

Cfr. E. Schaper, Arguing Transcendentally, «Kant-Studien», LXIII (1972), pp. 101-116. Cfr. Th.S. Seebohm, Über die Möglichkeit, andere Kategorien zu denken als die unseren, in Kants transzendentale Deduktion und die Möglichkeit von Transzendentalphilosophie, hrsg. von Forum für Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1988, pp. 11-31. 175 Cfr. J. Bennet, Analytic Transcendental Arguments, in Transcendental Arguments and Science. Essays in Epistemology, ed. by P. Bieri, R.-P. Horstmann and L. Krüger, Reidel, Dordrecht/Boston/London 1979, p. 50. 174

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forti di kantismo176. Non solo: tali programmi hanno dovuto confrontarsi con l’attacco di Donald Davidson al «terzo dogma dell’empirismo», ovvero contro l’idea stessa di uno schema concettuale o di un sistema di categorie cui spetterebbe il compito di organizzare l’esperienza: un assunto da abbandonare insieme al dualismo di schema e mondo, che presuppone la nozione di una realtà non interpretata e bisognosa di essere colta entro uno schema, alimentando in tal modo il relativismo di chi sostiene l’esistenza di diversi sistemi categoriali (o di diversi linguaggi non traducibili tra loro)177. Ma nonostante questa sorta di argomento trascendentale che sembra porre fine a tutti gli argomenti trascendentali178, l’«eredità di Kant» è oggi viva più che mai tra i filosofi analitici e i filosofi della scienza: anzi, si tratta di un’area di interesse che appare in espansione e che alimenta programmi di ricerca a vasto raggio, anche sul piano dell’indagine storica179. 6. Conclusione: Kant redivivus Ripercorrere alcune delle vicende che hanno contrassegnato la “fortuna” e la “sfortuna” di Kant (e della tradizione kantiana) all’interno della filosofia analitica del Novecento significa inevitabilmente andare al di là di un racconto storiografico. Certamente le storie che si sono incrociate lungo questo percorso così accidentato non si esauriscono nel quadro che si è tentato di tracciare e nemmeno possono essere ridotte a un denominatore comune: al di là del fatto che Kant è stato presente nella discussione dei filosofi analitici più di quanto la visione ricevuta abbia fatto credere (o abbia fatto credere sino a un certo punto), resterebbe ancora da chiedersi – andando oltre un possibile bilancio storiografico – quale sia non solo l’impatto di Kant su momenti cruciali della storia della filosofia analitica, ma l’esito a cui esso può portare nel momento in cui quella tradizione sembra aver perso molti dei suoi connotati specifici, magari conservando più l’identità 176 Cfr. O. Höffe, Immanuel Kant Beck, München 1983, überarbeitete Auflage, Beck, München 20077, p. 308, trad. it. di S. Carboncini, P. Rubini e P. Rumore, Immanuel Kant, con un’Introduzione di M. Mori, Il Mulino, Bologna 2010, p. 305. 177 Cfr. D. Davidson, On the Very Idea of a Conceptual Scheme, in Inquiries into Truth and Interpretation, Oxford University Press, Oxford 1984, pp. 183-198, trad. it. di R. Brigati, Sull’idea stessa di schema concettuale, in Verità e interpretazione, a cura di E. Picardi, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 263-282. 178 Cfr. R. Rorty, Transcendental Arguments, Self-Reference, and Pragmatism, in Transcendental Arguments and Science, cit., p. 78. 179 Cfr. M. Massimi, Preface, in Kant and the Philosophy of Sciente Today, cit., p. V. Significativa è inoltre l’attenzione con cui anche nella comunità filosofica di lingua inglese si inizia a riconsiderare l’intera parabola del neokantismo “classico”: si veda ad esempio il recente volume Neo-Kantianism and Contemporary Philosophy, ed. by R. Makkreel and S. Luft, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 2010.

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di uno “stile” che non il patrimonio di un complesso di certezze o di tesi filosofiche consolidate. Eppure anche in questa prospettiva il filosofo analitico professionale deve o dovrà fare i conti con la storia: sia o meno un partigiano dell’historical turn, difficilmente potrà fare a meno di prendere atto di quanto la comunità filosofica di appartenenza, in un confronto sempre meno pregiudiziale con altre comunità filosofiche, abbia guardato al proprio passato e abbia disegnato un albero genealogico molto più ramificato, forse persino insospettato, conducendo confronti teorici con la tradizione della filosofia che vanno al di là dei percorsi più noti. Per dirla con Avrum Stroll, sembra legittimo interrogarsi su quanto vino nuovo la filosofia analitica abbia gettato nei vecchi otri e quanta autentica, profonda originalità possa essere ritrovata nelle pagine di Frege, Moore, Russell, Carnap o Quine; e tuttavia, se il bilancio tentato da Stroll considera solo Wittgenstein come un autentico “classico”, forse resta da chiedersi che influenza abbia esercitato sulla filosofia analitica, attraverso un tragitto piuttosto tortuoso, un altro indiscutibile “classico” come Kant180. Per quanto possa sembrare a prima vista paradossale, un rapido sguardo ad alcune delle tematiche più dibattute nella filosofia analitica dell’ultimo scorcio del Novecento può confermare l’impressione – già largamente alimentata dalle vicende del “kantismo statunitense” da Sellars a Putnam e del “kantismo analitico” capeggiato da Strawson – che si sia verificata una progressiva “kantianizzazione” della filosofia analitica, ovviamente non nel senso di un “ritorno a Kant” assimilabile a quello avvenuto dalla seconda metà dell’Ottocento, quanto nell’accezione più modesta di una ripresa di tesi kantiane relative alla possibilità della conoscenza a priori come oggetto privilegiato di un’analisi filosofica liberata dalle compromissioni con le impalcature della filosofia trascendentale181. Una rassegna esaustiva di questo processo di assimilazione teorica dell’eredità di Kant assumerebbe inevitabilmente proporzioni vastissime e coinvolgerebbe una gamma ricchissima di posizioni, di dibattiti, di incroci tra competenze disciplinari differenti (dalla filosofia del linguaggio alla filosofia della scienza e alle scienze cognitive); tuttavia è possibile individuare almeno alcune linee di tendenza, che sembrano convergere verso una visione della filosofia che smentisce il programma del naturalismo di Quine. Non per nulla è stato proprio l’enorme dibattito sollevato dalle critiche di Quine ai «dogmi dell’empirismo» e dalla sua epistemologia «naturalizzata» ad alimentare, certamente come effetto indesiderato, una significativa ripresa di temi kantiani. Nei confronti della prospettiva elaborata da Quine 180

Cfr. A. Stroll, Twentieth-Century Analytic Philosophy, cit., pp. 246-255. Cfr. Ch. Peacocke, The Origins of the A Priori, in Kant and Contemporary Epistemology, cit., pp. 47-72. 181

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ci si è chiesti se davvero la pura dimensione fattuale-psicologica possa dar conto di ciò che un’epistemologia in fondo dovrebbe pur sempre tentare: ovvero una giustificazione delle conoscenze o, quanto meno, il riconoscimento di ciò che ci consente (lo dice lo stesso Quine) di proferire dei «verdetti» sugli enunciati che formiamo sulla base dell'immagazzinamento di informazioni che l'acquisizione del linguaggio comporta182. Se questa obiezione è plausibile, si potrà riconoscere che la giustificazione della conoscenza o dei motivi per i quali essa è affidabile è una condizione necessaria, e che per tale ragione si devono avere dei criteri o delle norme per distinguere tra ciò che è corretto e ciò che non lo è; inoltre si dovrà ammettere che la riabilitazione dello psicologismo non deve irrevocabilmente espungere ogni dimensione epistemica che, per quanto non razionalisticamente a priori, possa fungere nel processo della conoscenza come un’abilità concettuale non ricavata dagli input sensoriali183. Per queste ragioni proprio il dibattito stimolato dalle tesi di Quine ha condotto, d’altro canto, al ripensamento delle nozioni di analiticità e di a priori (lo si è visto, ad esempio, nel caso illustre di Putnam), tanto che in nessun’altra comunità filosofica del secondo Novecento – e lo attesta una letteratura vastissima – la discussione sulla conoscenza a priori e sulla giustificazione a priori delle nostre credenze vere è stata così ampia, così vivace e così sofisticata come in quella dei filosofi analitici184. Su un fronte diverso, ma non opposto, la discussione sull’analiticità ha consentito di recuperare – secondo quanto suggeriva Jaakko Hintikka nel 1973 – «temi kantiani» nella filosofia della logica distinguendo preliminarmente diversi significati della nozione di analiticità (vero in virtù del significato, conseguenza di una premessa, procedimento inferenziale che non introduce nuovi individui, argomento che non introduce nella conclusione più informazione di quanta ve ne sia nella premessa). Ora mentre la logica proposizionale è un complesso di tautologie nel senso del Tractatus di Wittgenstein, l’inferenza logica che introduce individui (o intuizioni, nel linguaggio di Kant) non menzionati nella premessa e nella conclusione è sintetica: la matematica pertanto non è analitica perché si fonda su un «modo di ragionare» che introduce individui o quantificatori esistenziali, sicchè il classico esempio 7 + 5 = 12 può essere formalizzato (i termini della somma simbolizzano «predicati monadici» reciprocamente escludentisi) e il proce182

Cfr. W.V.O. Quine, Epistemology Naturalized, cit., p. 87, trad. it. cit., p. 109. Cfr. P. Engel, Philosophie et psychologie, Gallimard, Paris 1996, trad. it. di E. Paganini, Filosofia e psicologia, Einaudi, Torino 2000, pp. 241-283. Si veda inoltre L. Bonjour, In Defense of Pure Reason, Cambridge University Press, Cambridge 1998, pp. 82-88. 184 Cfr. la raccolta di saggi A Priori Knowledge, ed. by A. Casullo, Ashgate, Aldershot 1999 e il volume già ricordato New Essays on the A Priori (curato nel 2000 da Boghossian e Peacocke, vedi supra, p. 658, nota 41). 183

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dimento kantiano basato sull’intuizione risulta sintetico nell’accezione di non analiticità sopra riferita185. In questo senso il ricorso kantiano all’intuizione (e alla costruzione geometrica che introduce nuovi «oggetti» non compresi nei postulati) non implica – come invece riteneva Russell – un’inferenza di tipo non strettamente logico, bensì l’utilizzazione di una procedura sintetica a priori che richiede l’introduzione di «individui»: la prova formalizzata logicamente è condotta in termini analitici, ma ciò è possibile solo sulla base di assunzioni sintetiche che rendono non analitico il «modo di ragionare»186. Se in tal modo Hintikka ha offerto un importante contributo alla rinascita di interesse per la filosofia kantiana della matematica, un altro impulso rilevante a riprendere in considerazione (e a riformulare in maniera inedita) le nozioni di a priori e di necessità tradizionalmente considerate come sinonimiche è venuto nei primi anni Settanta dalle riflessioni sulla semantica dei nomi propri promossa da Saul Kripke. Scompaginando le consuete mappe concettuali in dotazione da Kant in poi, Kripke ha proposto di scorporare l’a priori dalla necessità (e viceversa) e di istituire una nuova attrezzatura teorica che da un lato configura una necessità a posteriori o empirica e, dall’altro, un a priori contingente, mettendo dunque in crisi il “paradigma” secondo cui ciò che è a priori è necessario187. L’impatto delle tesi di Kripke è stato molto ampio e ha suscitato, a sua volta, un’ondata di discussioni che ha ulteriormente stimolato la comunità analitica a confrontarsi da nuove sponde non solo con la nozione (per quanto profondamente rivista) di a priori in senso epistemologico, ma soprattutto con quella di necessità: ossia di una nozione che ha una valenza metafisica, dal momento che si riferisce a come le cose stanno (e non solo a come esse vengono conosciute). Si capisce dunque per quale motivo a partire da Kripke – ma anche dal dibattito sulla nozione wittgensteiniana di regola, a cui lo stesso Kripke ha dato importanti contributi – una parte cospicua di quanto si è scritto nell’area della filosofia analitica sul problema dell’a priori abbia investito sostanzialmente tre piani distinti, ma anche connessi tra loro, ereditati dalla tradizione filosofica kantiana e riproblematizzati alla luce di strumentazioni teoriche assai sofisticate: l’aspetto epistemologico dell’a priori, che concerne la differenza tra conoscenze a priori e conoscenze a posteriori; l’aspetto metafisico, che concerne la distinzione tra necessario e contingente; infine l’aspetto semantico, che riguarda invece la differenza tra verità analitiche e verità sintetiche. Nel primo caso è in gioco la questione della giustificazione epistemica delle 185 Cfr. J. Hintikka, Logic, Language-Games and Information. Kantian Themes in the Philosophy of Logic, Clarendon Press, Oxford 1973, pp. 192, 194-196. 186 Ivi, pp. 208-215. 187 Cfr. S. Kripke, Naming and Necessity, Blackwell, Oxford 1980, pp. 34-35, trad. it. di M. Santambrogio, Nome e necessità, Boringhieri, Torino 1999, pp. 37-38.

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conoscenze a priori: una conoscenza è a priori se e solo se la sua giustificazione non dipende dall’evidenza dei dati sensibili; nel secondo caso è in gioco lo statuto necessario di una conoscenza a priori, in quanto contrapposto (o ritenuto tale da chi non condivide le tesi di Kripke) al piano della conoscenza contingente ovvero non a priori; nel terzo caso, infine, è in gioco la natura analitica o sintetica della verità, ossia di ciò che distingue una proposizione che è vera in virtù dei suoi termini da una proposizione che non gode di una simile proprietà188. Sono ritornati così in auge nodi problematici ben noti sin dalle controversie degli anni Venti tra empiristi logici e neokantiani: come quando si formula la tesi, ad esempio, che «la conoscenza a priori è incompatibile con la dottrina del fallibilismo solo se si accetta un’analisi del concetto di a priori che comporta che una simile conoscenza sia non rivedibile razionalmente»189. Anche quando si è tentato di smontare l’apriorismo kantiano con gli argomenti tipicamente empiristici che hanno fatto testo da John Stuart Mill in poi, in realtà non si è arrivati alla riproposizione della “disgregazione” del sintetico a priori a favore di un’analiticità tautologica. Si è trattato se mai di elaborare una nozione insieme più rigorosa e più debole di a priori: da un lato si può parlare di un a priori contingente, ovvero di una «conoscenza universalmente empirica», di un’approssimazione e di una contestualizzazione dell’a priori; dall’altro lato occorre riferirsi a un’«epistemologia naturalistica», per la quale l’esame dei processi che garantiscono a priori la verità di una determinata credenza è un aspetto indispensabile dell’analisi epistemica della conoscenza (e dunque lo psicologismo non è poi così sospetto)190. Sotto diverse vesti e in differenti prospettive, la filosofia analitica ha insomma patrocinato – per riprendere il titolo di un fascicolo speciale del «Canadian Journal of Philosophy» del 1992 – il «ritorno dell’a priori»191. Ma in realtà non si è trattato solo di questo: via via che ha preso corpo ciò che per comodità e con qualche approssimazione si chiama “filosofia postanalitica” il confronto con Kant si è esteso e complicato. Richard Rorty sosteneva, nel 1979, che da Kant a Quine era rinvenibile la linea continua della teoria della conoscenza come ricerca delle matrici permanenti (il fisico, il 188 Cfr. P.K. Moser, Introduction, in A Priori Knowledge, ed. by P.K. Moser, Oxford University Press, Oxford 1987, pp. 1-9; A. Casullo, A priori/a posteriori e A priori knowledge, in A Companion to Epistemology, ed. by J. Dancy and E. Rosa, Blackwell, Oxford 1992, pp. 1-3, 3-8. 189 A. Casullo, Revisability, Reliabilism, and A Priori Knowledge, «Philosophy and Phenomenological Research», XLIX (1988), p. 210. 190 Cfr. Ph. Kitcher, A Priori Knowledge, «The Philosophical Review», LXXXIX (1980), pp. 3-23 e il volume dello stesso Kitcher The Nature of Mathematical Knowledge, Oxford University Press, Oxford 1983. 191 Cfr. Return of the a priori, ed. by Ph. Hanson and B. Hunter («Canadian Journal of Philosophy», Supplementary Volume 18), University of Calgary Press, Calgary (Alberta) 1993.

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mentale, le strutture della conoscenza) fondata sull’«invenzione della mente» e che occorreva liberarsi una volta per tutte dall’illusione di poter fissare – ancora nel solco di Kant e del neokantismo diffusissimo nella filosofia contemporanea – «la struttura categoriale degli oggetti di un’esperienza possibile»192. Ma alla liberazione da Kant e dalla (supposta) immagine della mente come “specchio” altri avrebbero reagito rilanciando invece una versione riaggiornata e adeguatamente ristrutturata della filosofia di Kant, incentrata sull’analisi «del modo in cui il pensiero ha a che fare con la realtà»193. Per sfuggire, sulle orme di Sellars, al «mito del dato» e per evitare lo scoglio della teoria coerentistica della verità sostenuta da Davidson «rinuncia[ndo] al controllo razionale da parte della realtà indipendente», in Mind and World John McDowell avrebbe rivendicato, nel 1994, un «empirismo minimale», contrassegnato cioè dall’assunzione che l’esperienza deve pur sempre costituire un «tribunale», ma collocandosi all’interno di una prospettiva kantiana, che assegni alla spontaneità delle capacità concettuali un ruolo determinante. Pensare significa «abitare lo spazio delle ragioni» e, esattamente come per Kant, la conoscenza empirica consiste nella cooperazione tra sensibilità e intelletto: rifiutato con Sellars il mito del dato, bisogna insomma riconoscere all’esperienza la funzione essenziale di «attrito» che mette in moto le competenze concettuali, ma avendo ben chiaro che la ricettività non è mai separabile dalla spontaneità194 . Da questo punto di vista McDowell sembra presentare una serie di “variazioni sul tema” della nota affermazione di Kant secondo cui i concetti senza intuizioni sono vuoti e le intuizioni senza concetti sono cieche; e senza dubbio è un elemento di notevole interesse il tentativo operato in Mind and World di situare le abilità esercitate dalla spontaneità nel quadro di una «seconda natura» di matrice aristotelica, acquisita tramite l’educazione che disciplina le potenzialità naturali e sedimentata nel linguaggio, a cui gli uomini sono iniziati e nel quale si deposita la tradizione195. Ciò nonostante rimane il dubbio che una tale prospettiva, per quanto innovativa essa possa sembrare nei confronti della tradizione analitica e per quanto dichiarata possa essere l’intenzione di appellarsi al «pensiero trascendentale» per «liberarci dall’idea che la sensibilità sia indipendente dal

192 R. Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton University Press, Princeton 1979, p. 382, trad. it. di G. Millone e R. Salizzoni, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986, p. 294. 193 J. McDowell, Mind and World, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1994, p. 3, trad. it. di C. Nizzo, Mente e mondo, Einaudi, Torino 1999, p. 3. 194 Ivi, pp. 13, 41, 49,136, trad. it. cit., pp. 14, 41, 49, 136. 195 Ivi, p. 91, trad. it. cit., pp. 93-94.

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concettuale»196, non renda giustizia alla tradizione filosofica che pur vorrebbe rivitalizzare e che certamente ha il merito di riportare al centro della ricerca filosofica contemporanea197. Il kantismo di McDowell, paradossalmente contrassegnato dal silenzio su concetti chiave come quelli di a priori o di categoria (o di deduzione trascendentale), è davvero «minimale» come l’empirismo di cui vorrebbe essere il complemento; né è sufficiente la riabilitazione del dualismo tra schema concettuale e contenuto empirico confutato da Davidson per restituire al progetto di Mind and World un profilo più aderente alla prospettiva kantiana con la quale si è confrontata in momenti diversi della sua storia anche la filosofia analitica. Ma non sarà che, anche in questo caso, vi sono più cose nel cielo della tradizione filosofica di quanto non ve ne siano nelle agende concettuali contemporanee? A domande di questo genere non si può che rispondere in una sede più propriamente storica, senza per questo banalizzare la ricostruzione storica sul piano di una mera ricognizione di fonti o influenze al di fuori di qualsiasi preoccupazione teorica. In realtà, chi si è accinto a un simile lavoro mosso da motivazioni di carattere teorico ha fornito, per usare il linguaggio di Thomas Kuhn, alcuni “paradigmi di ricerca” che hanno reso “normale” (sempre nel senso di Kuhn) non solo l’indagine storiografica come strumento di riflessione filosofica, ma più specificamente la funzione di Kant e della tradizione kantiana in alcune fasi decisive delle origini, dello sviluppo e della progressiva diffusione della filosofia analitica. I contributi di Friedman costituiscono, da questo punto di vista, un esempio illuminante, soprattutto in virtù della duplice anima che li attraversa: a prescindere qui dalle indagini su Kant e le scienze che si sono inserite con grande autorevolezza nel fiorente panorama degli studi di lingua inglese sulla filosofia kantiana198, le ricostruzioni storiche di Friedman non solo hanno affrontato il problema della “grande divisione” tra “analitici” e “continentali” nella sua genesi storica tra le due guerre mondiali, ma hanno contestualmente chiamato in causa un prospettiva teorica alimentata dalla “relativizzazione dell’a priori” e dal tentativo di integrare la concezione di Kuhn delle “rivoluzioni scientifiche” con una visione storico-dinamica della ragione. Nel primo caso si è trattato di rintracciare nel celebre dibattito di Davos tra Cassirer e Heidegger (a cui era presente anche Carnap) l’origine della successiva frattura tra “analitici” e “continentali”, ovvero tra la filosofia della scienza e l’“ontologia fondamentale”. Secondo Friedman la radice comune delle posizioni a 196 J. McDowell, Précis of “Mind and World”, «Philosophy and Phenomenological Research», LVIII (1998), pp. 365-366. 197 Cfr. M. Friedman, Exorcising the Philosophical Tradition: Comments on John McDowell’s “Mind and World”, «The Philosophical Review», CV (1996), p. 434. 198 Cfr. M. Friedman, Kant and the Exact Sciences, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1992.

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MASSIMO FERRARI

confronto a Davos era il neokantismo (tanto per Heidegger, quanto per Carnap, oltre che, naturalmente, per Cassirer); e proprio il neokantismo di Cassirer, con il suo audace progetto di tenere in rapporto tra loro le scienze esatte e le scienze della cultura nel quadro di una “filosofia delle forme simboliche” è sembrato a Friedman il mancato momento di incontro tra le due tradizioni che, nel corso della seconda metà del Novecento, avrebbero dato vita alla grande frattura nella comunità filosofica e alla divisione tra le “due culture”199. Da questo punto di vista Friedman ha dunque rivendicato al neokantismo di Cassirer un ruolo di mediazione: una vera e propria via di uscita dal «bivio» da cui si sono allontanati tanto gli analitici con il loro formalismo logico, quanto i continentali che hanno ignorato il valore della conoscenza scientifica. L’attualità di Cassirer, adeguatamente vagliata da quanto è avvenuto dopo di lui e dopo la parabola dell’empirismo logico, si configura così come una sorta di «neo-neokantismo» in grado di offrire, emergendo da uno sfondo storico a lungo ignorato, soluzioni filosofiche particolarmente attraenti200. Friedman si è pertanto impegnato, in secondo luogo, nella formulazione di una prospettiva che egli stesso ha definito una «versione storicizzata della filosofia trascendentale», in cui la storia delle scienze esatte e la storia della filosofia scientifica sostituiscono il metodo trascendentale elaborato originalmente da Kant201. Gli sviluppi impetuosi della matematica e della fisica nel XIX secolo e la teoria della relatività agli inizi del XX diventano il banco di prova di una concezione relativizzata e costitutiva dell’a priori, che ha i suoi principali esponenti nel funzionalismo di Cassirer, nella posizione del giovane Reichenbach e successivamente anche nella “sintassi logica” di Carnap. Ma al tempo stesso, utilizzando criticamente la filosofia della scienza di Kuhn, Friedman ha cercato di mostrare come le “rivoluzioni scientifiche” e il mutamento radicale di “paradigmi” possano sottrarsi a un esito relativistico, configurandosi invece come processi di riassestamento dei principi costitutivi delle teorie scientifiche che via via hanno modificato il quadro originario della concezione kantiana dell’a priori, senza tuttavia interrompere la continuità della crescita della conoscenza. Una razionalità “infraparadigmatica”, nutrita della storia della scienza e della filosofia della 199 Cfr. M. Friedman, A Parting of the Ways. Carnap, Cassirer, and Heidegger, Open Court, Chicago and La Salle (Illinois) 2000, trad. it. di M. Mugnai, La filosofia al bivio. Carnap, Cassirer, Heidegger, Cortina, Milano 2004. 200 L’espressione «neo-neokantismo» è di Hans Sluga, che l’ha impiegata recensendo A Parting of the Ways e sollevando alcune riserve sulla bontà del progetto teorico di Friedman (la recensione è apparsa nel «Journal of Philosophy», XCVIII (2001), pp. 601-611). Sul libro di Friedman mi permetto inoltre di rinviare alla mia recensione pubblicata sulla «Rivista di filosofia», XCIII (2002), pp. 483-486. 201 M. Friedman, Einstein, Kant, and the A Priori, in Kant and the Philosophy of Science Today, cit., pp. 99, 112.

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FILOSOFIA ANALITICA

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scienza, garantisce pertanto – diversamente da Kuhn – la comunicazione tra i diversi “paradigmi” e affida alla filosofia il compito di esercitare una “meta-riflessione” sulle (mutevoli) strutture a priori delle teorie scientifiche. Nelle pagine di Friedman la tradizione kantiana così rivisitata diviene insomma il filtro, teorico e storico al tempo stesso, grazie al quale – da Helmholtz a Poincaré, da Einstein a Reichenbach, da Cassirer a Carnap, da Schlick a Kuhn, da Duhem a Quine – può essere riscritta un’intera vicenda intellettuale202. Per la storia della filosofia analitica del Novecento così come per la ricostruzione del suo controverso rapporto con Kant e le filosofie neokantiane si tratta di un punto di vista particolarmente accattivante, che può consentire davvero di scrivere un’altra storia – una storia che pur passando per Jena e Cambridge, per Vienna e Harvard, non potrà comunque cancellare dalla geografia della filosofia la vecchia Königsberg. Del resto, ammesso e non concesso che da questa storia si debba trarre una morale, si sarebbe tentati di dire che essa era già stata delineata mirabilmente da Sellars quando, nel 1968, osservava che «la storia della filosofia è la lingua franca che rende possibile la comunicazione tra filosofi o almeno tra differenti punti di vista». E Sellars aggiungeva: «La filosofia senza storia della filosofia è, se non vuota o cieca, quantomeno muta. Pertanto se costruisco la mia discussione di temi contemporanei sulla base della esegesi e del commento di Kant è perché, a mio modo di vedere, vi sono paralleli abbastanza stretti, da un lato, tra i problemi che lo hanno sfidato e i passi che egli ha fatto per risolverli e, dall’altro, tra la situazione attuale e le sue esigenze, per cui è utile usare Kant come un mezzo di comunicazione, sebbene ovviamente non solo come un mezzo. Nel loro aspetto più generale sia i suoi problemi, sia i nostri dubbi nascono dal tentativo di prendere sul serio l’uomo e la scienza»203.

202 Cfr. M. Friedman, Dynamics of Reason. The 1999 Kant Lectures at Stanford University, CSLI Publications, Stanford 2001, ed. it. a cura di C. Gabbani, Dinamiche della ragione. Le rivoluzioni scientifiche e il problema della razionalità, Guerini & Associati, Milano 2006. Tra i molti contributi di Friedman, oltre a quelli già ricordati in precedenza, sono da segnalare Kant, Kuhn, and the Rationality of Science, «Philosophy of Science», LXIX (2002), pp. 171190; Id., Ernst Cassirer and Philosophy of Science, in Continental Philosophy of Science, ed. by G. Gutting, Blackwell, Oxford 2005, pp. 71-83; Id., History and Philosophy of Science in a New Key, «Isis», XCIX (2008), pp. 125-134; Id., Ernst Cassirer and Thomas Kuhn: The NeoKantian Tradition in the History and Philosophy of Science, in Neo-Kantianism in Contemporary Philosophy, cit., pp. 177-191. 203 W. Sellars, Science and Metaphysics, cit., p. 1.

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Gianna Gigliotti

Neokantismo Quando si tratti della filosofia kantiana, nessuno dovrà cullarsi nella sicurezza dogmatica di possederla, ma dovrà approfittare di ogni occasione per riappropriarsene. Ernst Cassirer

Durante l’ormai giustamente famoso colloquio svizzero con Ernst Cassirer, svoltosi a Davos nell’aprile del 1929, Martin Heidegger accomunava il neokantismo, e «in un certo senso anche Husserl», nel punto di vista determinante il modo di interpretare la filosofia di Kant e di rifarsi sia pure liberamente a lui. Questo punto di vista era segnato dal riservare alla filosofia solo la conoscenza della scienza e non più dell’ente, non più delle cose, ma solo del nostro modo di conoscerle1. Il giudizio di Heidegger matura in realtà da lontano, e in qualche modo dall’interno dei problemi connessi all’interpretazione della logica trascendentale di Kant, così come si trovavano impostati nella letteratura neokantiana, soprattutto in Lask. Heidegger aveva già scritto che «Kant ha creato la logica delle categorie dell’essere. Per la loro comprensione c’è da osservare che l’essere ha perduto qualcosa della sua autonomia translogica, che l’essere è stato elaborato e trasformato in un concetto della logica trascendentale»2. L’abbandono dell’ente non è considerato perciò una 1 Cfr. M. Heidegger, Davoser Disputation zwischen Ernst Cassirer und Martin Heidegger, in Id., Kant und das Problem der Metaphysik, Klostermann, Frankfurt am Main 1991, pp. 274-275, trad. it. di M.E. Reina, Il dibattito di Davos tra Ernst Cassirer e Martin Heidegger, in Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 219-220. Su questo famoso colloquio si veda Cassirer-Heidegger. 70 Jahre Davoser Disputation, Cassirer Forschungen, Bd. 9, hrsg. von D. Kaegi/E. Rudolph, Meiner, Hamburg 2002, in particolare il primo saggio: W. Röd, Transzendentalphilosophie oder Ontologie? Überlegungen zu Grundfragen der Davoser Disputation, pp. 1-25. Citando questo passo di Heidegger, Massimo Ferrari ha aperto la sua ottima Introduzione a Il Neocriticismo, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 3. L’intenzione di Ferrari era quella di mostrare l’inadeguatezza di «un panorama interpretativo così angusto» (p. 4), e si può dire che il suo intento sia pienamente riuscito. Rimane il fatto che Heidegger aveva toccato il punto nevralgico del rapporto non solo ermeneutico del neokantismo con Kant. Ed è intorno a questo punto che vorrei provare a ragionare. Per la ricostruzione limpida, ricca e convincente dell’arco in cui si evolve e in parte anche significativamente muta la lettura neocriticista di Kant il libro di Ferrari è quanto di meglio si possa leggere. Si veda anche, più per singoli problemi che per un quadro d’insieme, Kant im Neukantianismus: Fortschritt oder Rückschritt?, hrsg. von M. Heinz, Ch. Krijnen, Königshausen & Neumann, Würzburg 2007. 2 M. Heidegger, Neuere Forschungen über Logik (1912), in Id., Gesamtausgabe, Bd. 1: Frühe Schriften, Klostermann, Frankfurt am Main 1978, pp. 17-43, (p. 24), trad. it. di A. Babolin, in M. Heidegger, Scritti filosofici (1912-1917), La Garangola, Padova 1972, p. 158.

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GIANNA GIGLIOTTI

cifra interpretativa del Kant dei neokantiani quale loro opzione per così dire “diretta”, quale semplice portato delle istanze antiidealistiche se non positivistiche pure presenti nel precedente “ritorno a Kant”, ma nasce in Heidegger dall’interno della sua acuta comprensione della Critica come teoria di forme che i neokantiani vedevano non come pure figure logiche ma come configurazioni dell’oggettività. Nell’affermazione di Heidegger a Davos c’è in effetti un importante nucleo teorico che disegna anche, in un certo modo, l’arco speculativo del rapporto del neokantismo con Kant, caratterizzato da una peculiare interpretazione e ripresa di Kant che comincia nel 1871 con l’“epocale” interpretazione da parte di Cohen della Critica della ragion pura – sono, ancora una volta, celebri parole di Heidegger3 – e si chiude idealmente, potremmo forse dire (ma su questo non si dà una “data” altrettanto indiscutibile), nel 1924 con il Kant als Philosoph der modernen Kultur di Rickert, testo al centro del quale sta la hegeliana «Zerrissenheit della coscienza culturale moderna», e la Critica è anzitutto quella operazione chimica (Kant come «Scheidenkünstler») che “distinguendo” permette di superare una reductio ad unum squisitamente intellettualistica delle fondazioni delle forme culturali4. Si capisce perciò perché Rickert reagisse piuttosto vivacemente all’affermazione di Heidegger, invitandolo proprio a leggersi alcune pagine di questo suo libro5. Nella recensione a Kant e il problema della metafisica, Cassirer rimprovera a Heidegger di «non avere manifestamente in nessun modo riconosciuto il merito storico del “neokantismo”, in particolare dell’interpretazione fondamentale che Hermann Cohen ha dato nei suoi libri su Kant», (cfr. E. Cassirer, Kant und das Problem der Metaphysik. Bemerkungen zu Martin Heideggers Kant-Interpretation (1931), in Id., Gesammelte Werke, Bd. 17, Aufsätze und kleine Schriften 1927-1931, Meiner, Hamburg 2004, pp. 221-250, (p. 225), trad. it. di R. Lazzari, Disputa sull’eredità kantiana: due documenti, 1928 e 1931, Unicopli, Milano 1990, pp. 104-105). Le lezioni di Heidegger che sùbito dopo ricordiamo smentiscono però questa affermazione di Cassirer. 3 Cfr. M. Heidegger, Zur Bestimmung der Philosophie, in Id., Gesamtausgabe, Bd. 56/57, Klostermann, Frankfurt am Main 1987, p. 140, trad. it. di G. Auletta (condotta sulla seconda edizione rivista e aumentata del 1999), Per la determinazione della filosofia, a cura di G. Cantillo, Guida, Napoli 1993, 20022, p. 143: «Nell’anno 1871 era uscito lo scritto di Cohen sulla Teoria kantiana dell’esperienza, destinato a fare epoca, a mettere in moto l’intera evoluzione del moderno neokantismo in generale e a indicare una chiara direzione». 4 Cfr. H. Rickert, Kant als Philosoph der modernen Kultur. Ein geschichtsphilosophischer Versuch, Mohr, Tübingen 1924, p. 213. 5 Si veda M. Heidegger – H. Rickert, Briefe 1912-1933, hrsg. von A. Denker, Klostermann, Frankfurt am Main 2002, pp. 60-61. Si tratta della lettera alquanto piccata di Rickert a Heidegger del 17 luglio 1929. Rickert dichiara di non riconoscersi nel privilegio del teoretico così descritto da Heidegger, il quale risponde il 25 luglio minimizzando, precisando che il suo intervento non era stato riportato esattamente e che egli intendeva riferirsi solo all’interpretazione che il neokantismo aveva dato dell’Estetica e dell’Analitica trascendentale. E che queste parti siano interpretate «erkenntnistheoretisch» è incontestabile (p. 63). Tutto l’insieme della risposta di Heidegger conferma però, anziché smentire, il senso della sua interpretazione. Il tono favorevole a una captatio benevolentiae non restò in compenso inefficace, e nella risposta alla risposta Rickert cerca punti di

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NEOKANTISMO

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Se cerchiamo di rendere ragione del carattere epocale della prima edizione di Kants Theorie der Erfahrung, la prima cosa sulla quale fermarsi è chiarire in che senso in questo libro venga dichiarata per l’appunto epocale6, e sino a quel momento mai davvero compresa, la Critica della ragion pura. È noto come Cohen abbia scritto di avere “scoperto”, tornando a leggere direttamente il testo, come il Kant a cui tutti dicevano di voler tornare fosse «im Grunde und Wesen» altro da quello che tutti credevano di conoscere7. La radicale novità che la lettura coheniana della Critica stabiliva con forza stava nel mettere al centro il piano trascendentale. Cohen pensa che, consapevolmente o meno, si sia continuato a proiettare su Kant il dualismo di matrice cartesiana tra un soggetto e un oggetto, che si sia inevitabilmente privilegiato uno dei due poli, oscillando perciò tra un idealismo e un realismo (non a

contatto arrivando a concedere che «ogni teoria della conoscenza non può non essere, in qualche modo, ontologia» (p. 64). 6 Cfr. anche A. Riehl, Immanuel Kant, Gedächtnisrede zum 100jahrigen Todestag Kants (1904), poi in Führende Denker und Forscher, Quelle & Meyer, Leipzig 1924, pp. 79-100. La Critica è paragonata alla logica di Aristotele e ai Principi di Newton (p. 90), la rivoluzione kantiana è analoga a quelle di Copernico nell’astronomia e di Galilei nella fisica (p. 99). Sino all’oggi: «nella storia della filosofia Kant ha fatto epoca una seconda volta, e questa seconda epoca è quella in cui noi ci troviamo» (p. 81). 7 Credo meriti di essere riprodotta la pagina di apertura della Prefazione della prima edizione di Kants Theorie der Erfahrung: «Nel presente lavoro ho tentato l’impresa di rifondare la dottrina kantiana dell’apriori. La convinzione della sua verità non mi derivò direttamente dallo studio delle opere kantiane, ma prese forma e consistenza nella lotta contro gli attacchi che quella aveva subito. Come la maggior parte dei giovani che si occupano di filosofia, anch’io ero cresciuto nell’opinione che Kant fosse superato, che fosse divenuto ormai storico. Quando mi venne in mente che quelle critiche non colpivano Kant, questo pensiero fu represso anzitutto dalla stima nei contemporanei. Tuttavia, quanto più approfondivo l’analisi delle opinioni dalle quali derivavano quei giudizi di condanna, tanto più rimaneva il dubbio. Eppure mi sembrava incredibile che Kant, dal quale tutti vogliono partire, potesse venir inteso diversamente, in modo fondamentalmente diverso, da come lo insegnano e lo interpretano gli specialisti di grido. Ebbene, confesso davvero con gratitudine che questa istanza dell’autorità venne notevolmente indebolita dal fatto che persino tra gli empiristi la maggioranza dava ragione a Kant; ed io credo che non sia lontano il momento in cui si ringrazierà in coro Helmholtz di aver richiamato l’attenzione più volte e insistentemente su Kant. Ma anche questa impressione incoraggiante non mi avrebbe portato ad un giudizio certo e libero, perché da una trattazione esclusivamente sistematica del problema teoretico della conoscenza non può derivare facilmente una completa certezza su quanto abbia ragione il Kant elaborato da parte idealista oppure quello sviluppato da parte realista oppure – ancora – quello dato storicamente. Ma per me c’era da reinterpretare il Kant storico, da difenderlo contro i suoi avversari nella sua propria fisionomia, per quanto la potevo comprendere. In questo lavoro da carrettiere, del quale ero felice, mi avvidi a poco a poco sempre più chiaramente che gli oppositori non avevano fatto proprio il Kant autenticamente esistente: che le loro opinioni potevano essere contestate da semplici citazioni». (H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung (1871), in Id., Werke, 1.3, Olms, Hildesheim/Zürich/New York·1987, pp. III-IV, trad. it. di L. Bertolini, La teoria kantiana dell’esperienza, Angeli, Milano 1990, pp. 31-32).

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GIANNA GIGLIOTTI

caso ricordati nella pagina iniziale della Prefazione che abbiamo riportato)8 entrambi metafisici, focalizzando tutta l’attenzione sulla natura degli apriori e lasciando in ombra il problema dello statuto trascendentale dei medesimi. Anche se Descartes sarà sùbito dopo la seconda vetta di quella continua linea ideale che il neokantismo traccia partendo da Platone, e, attraverso appunto Descartes e poi Leibniz, fa culminare in Kant, la cesura introdotta da Kant resta ed è netta: nel suo portato essenziale, essa stabilisce che l’indagine filosofica può insorgere solo nel contesto di un’“esperienza” già data, dove dunque il soggetto e l’oggetto, la mente e il mondo, sono insieme già intrecciati. La rivoluzione copernicana non comporta che l’oggetto dipenda dal soggetto, ma che entrambi dipendano dai principi di possibilità della conoscenza, si definiscano nell’esperienza, rispetto all’esperienza. Il dato oggettivo e il formare soggettivo sono entrambi logicamente “successivi” all’unico vero “dato” che è l’insieme non trascendibile ma non per questo uniforme dell’esperienza. La relazione all’io, o al soggetto, e la relazione all’oggetto non sono parti, ma momenti di un’unità che non può essere metafisicamente o ontologicamente divisa, ma solo trascendentalmente scomposta. Questa unità ha ricevuto dai neokantiani nomi diversi. Più spesso è stata chiamata esperienza, soprattutto inizialmente, quando si sono prese le mosse dalla lettura della prima Critica, e si è sottolineato il dettato kantiano che, per esempio nelle Analogie dell’esperienza, equiparava la possibilità dell’unità della conoscenza della natura all’unità della costituzione dell’esperienza9. Più tardi si è preferito parlare di “senso” o di “significato”. Heidegger ha ricostruito così questa progressione: «L’essere [Sein] dell’essente [Seienden] diviene identico all’oggettività e oggettività non significa altro che essere giudicato vero. […] L’essere giudicato di un enunciato vero è uguale oggettività uguale senso»10. Che cos’è, dunque, “esperienza”? Il primo problema, e forse il più carico di implicazioni che il neokantismo si trova sotto questo riguardo a dovere affrontare, è quello della natura dell’intreccio di sensibilità e intelletto, di solito considerati la prima come il muto testimone della presenza del dato oggettivo, dell’esserci delle cose e del 8 Ma si veda anche H. Cohen, Kants Begründung der Ethik (1877), in Id., Werke, 2, Olms, Hildesheim/Zürich/New York·2001, p. 303, trad. it. di G. Gigliotti, La fondazione kantiana dell’etica, Milella, Lecce 1983, p. 272: «l’alternativa tra realismo e idealismo è un’alternativa solo apparente». 9 KrV, A 216/B 263, trad. it. di G. Colli, Critica della ragione pura, Adelphi, Milano 1976, p. 287: «Prese assieme, le analogie dicono dunque: tutte le apparenze si trovano in un’unica natura, e debbono trovarvisi, poiché senza questa unità a priori non sarebbe possibile alcuna unità dell’esperienza, e quindi neppure una determinazione degli oggetti dell’esperienza». 10 M. Heidegger, Die Grundprobleme der Phänomenologie (1927), in Id., Gesamtausgabe, Bd. 24, Klostermann, Frankfurt am Main 1975, pp. 285-286, trad. it. I problemi fondamentali della fenomenologia, a cura di F.W. von Hermann, ed. it. a cura di A. Fabris, introduzione di C. Angelino, Il melangolo, Genova 1988, p. 192.

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mondo, il secondo come il portatore di quelle “forme” che a quel dato danno voce e possibilità di manifestazione di senso. Come va interpretata, che cosa veramente significa la procedura kantiana di “isolare” queste due componenti? “Dove” s’instaura questa procedura? A che cosa si applica? Si può fare riferimento all’“esperienza” in un’accezione überhaupt, tale per cui non si presupponga già la fisionomia di ciò a cui si vuole invece risalire come condizione di possibilità? E non si rischia di presupporre come già valido quello che si dice di volere giustificare11? Più o meno esplicitamente, in forma più o meno articolata, a tale questione tutti i neokantiani sentono di non potersi sottrarre, anche se con atteggiamenti speculativi diversi. Ed è forse la questione che segna il nascere della nuova lettura neokantiana di Kant e il suo confluire in una nuova immagine dell’ontologia come teoria dell’oggetto in generale: la capacità prospettica del grande storico della filosofia fa scrivere a Cassirer che il Kant disegnato da Cohen nei suoi tre grandi Kantwerke fa da sfondo sia alla logica pura del primo Husserl sia alle «moderne ricerche “sulle teorie dell’oggetto” [gegenstandstheoretischen]»12. Nel lungo capitolo dedicato a Kant della Storia della filosofia moderna13, della fine degli anni ’70, l’attenzione di Windelband si concentrava piuttosto nell’inserire Kant nel suo contesto storico, e la cesura, pur dichiarata e sottolineata, era, nonostante tutto, meno netta. La cesura che la Critica segna è anzitutto in rapporto alla differenza tra mondo greco e mondo moderno e poi tedesco, tra l’armonia chiusa del primo e la coscienza dilacerata ma aperta all’infinito del secondo. La Critica è certo «il libro fondamentale della filosofia tedesca»14, ma soprattutto nel senso che in essa si raccolgono le fila di tutta una tradizione di pensiero che da essa ne escono con un nuovo e diverso in-

11 È una critica all’impostazione kantiana che muove almeno da Hegel, ma che sembra ricondurre inevitabilmente fuori della feconda bassura dell’esperienza. Cfr. Ch. Krijnen, Absoluter oder kritischer Standpunkt? Das methodische Problem des Anfangs der Philosophie bei Hegel und Rickert, in Der Neukantianismus und das Erbe des deutschen Idealismus: Die philosophische Methode, hrsg. von D. Pätzold – Ch. Krijnen, Königshausen & Neumann, Würzburg 2002, pp. 161180 (p. 177). 12 E. Cassirer, Hermann Cohen und die Erneuerung der Kantischen Philosophie (1912), in Id., Gesammelte Werke, Bd. 9, Meiner, Hamburg 2001, p. 124. 13 W. Windelband, Die Geschichte der neueren Philosophie in ihrem Zusammenhange mit der allgemeinen Kultur und den besonderen Wissenschaften, 2 Bde. (1878-1880), Breitkopf & Hartel, Leipzig 1922, Bd. 2, pp. 1-182, trad. it. di A. Oberdorfer, Storia della filosofia moderna, Vallecchi, Firenze 1925. Il capitolo dedicato a Kant occupa le pp. 167-354 del secondo volume. 14 Ivi, p. 14, trad. it. cit., p. 182. Si vedano anche le celebrazioni del primo centenario della Critica della ragion pura, W. Windelband, Immanuel Kant. Zur Säkularfeier seiner Philosophie (1881), e del primo centenario della morte di Kant (1904), Nach hundert Jahren, poi in Id., Präludien. Aufsätze und Reden zur Philosophie und ihrer Geschichte, Mohr, Tübingen 1915, Fünfte, erweiterte Auflage, Erster Band, pp. 112-146 e 147-167. La Critica rappresenta il «Grundbuch della filosofia tedesca, […] il trionfo dello spirito tedesco».

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treccio15. Ora, in questa tradizione, sensibilità e intelletto, sensi e ragione, erano non soltanto separati, ma persino contrapposti. E in fondo Windelband pensa che questo contrasto Kant, platonicamente, lo mantenga, spinto, tra l’altro, da quelle istanze pratiche e morali che egli vede alla radice di tutta la filosofia critica. Questa convinzione di Windelband credo sia la radice della versione del neokantismo che proietta pur sempre su Kant il dualismo platonico. Un diverso Platone contamina in effetti la lettura di Kant a Marburgo e nel Baden. Per Windelband, quella che Kant si avvia a cercare è la sintesi tra a priori e a posteriori: «l’esperienza gli sembra quindi una sintesi il cui contenuto è dato aposteriori dalla sensibilità, mentre la forma ne è data apriori dalla ragione. […] Alla sensibilità spetta qui la parte femminile della ricettività, spetta invece all’intelletto la funzione attiva della spontaneità»16. Ma anche la “femminilità” si rivela poi «un principio attivo» e Windelband confessa il disagio in cui ci si viene a trovare: isolare l’esatto significato di “sensibile” in Kant «crea grosse difficoltà a tutto l’insieme della sua dottrina e ne rende notevolmente più difficile la comprensione»17. Come forse non è stato messo in luce con il peso dovuto, il neokantismo insiste sulla centralità della scoperta kantiana dell’apriori della sensibilità18, e perciò non è una messa a fuoco del tutto esatta della sua interpretazione di Kant presentarla senz’altro come una lettura tutta incentrata sulla dimensione concettuale e tesa a sopprimere la differenza tra Estetica e Analitica a tutto vantaggio della seconda. Ancora nella terza edizione di Kants Theorie der Erfahrung (1918), Cohen teneva a precisare che spazio e tempo non possono essere tout court “spostati” nell’ambito delle categorie19. Occorre dunque, piuttosto, puntualizzare come si arrivi a 15 L’immagine è dello stesso Windelband: cfr. Die Geschichte der neueren Philosophie, cit., p. 1, trad. it. cit., pp. 169-170. 16 Ivi, pp. 32 e 59, trad. it. cit., p. 201 e 228. 17 Ivi, p. 67, trad. it. cit., p. 237. 18 Anche Windelband per altro sottolinea che la teoria dell’apriorità dello spazio e del tempo è «la più acuta delle scoperte» di Kant, che però non sarebbe potuta avvenire senza l’aiuto della matematica. Ivi, p. 34, trad. it. cit. p. 203. 19 H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Id., Werke, cit., 1.1, p. 275. Forse merita che si restituiscano qui le modifiche cui è andato incontro questo passo. Nella seconda edizione del 1885 Cohen aveva scritto: «Chi prende spazio e tempo come categorie – [il riferimento era a Renouvier] – distrugge tutto il fondamento del sistema trascendentale». Nella terza edizione leggiamo invece che chi prende spazio e tempo come categorie «deve preoccuparsi di non danneggiare nel fondamento metodico il carattere ideale del sistema trascendentale». Evidentemente l’espressione è ammorbidita: di mezzo c’è stata la Logik der reinen Erkenntnis, che Cohen stesso chiama in causa; ma rispetto al dettato kantiano ci tiene ad «allontanare il malinteso» per cui egli vorrebbe interpretare la distinzione tra sensibilità e intelletto «in modo diverso da come Kant l’ha stabilita nell’Estetica trascendentale». Non credo sia da leggere in queste parole un estrinseco bisogno di fedeltà a Kant: penso si tratti, invece, del serio problema di rispettare la differenza tra sensibilità e intelletto all’interno di qualcosa che li tiene insieme, e che non può essere per Cohen una “ragione” come entità psicologica, antropologica o metafisica.

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questa lettura attraverso la altrettanto importante accentuazione della correlazione intrascendibile di sensibilità e intelletto. Il maggiore interprete del neokantismo marburghese, Helmut Holzhey, ha parlato di «distruzione» e di «Rückgängigmachung» della grande conquista kantiana della diversità di intuizione e pensiero20. Ma ha anche finemente precisato che questa distruzione riguardava il “dualismo” e non la “differenza”. Natorp puntualizza così la lettura marburghese: «ad apertura della Critica ci imbattiamo nella vecchia difficoltà: l’opposizione tra l’“intuizione”, come modo particolare, distinto, di datità, da parte di un oggetto che affetta, tra la sensibilità (ricettività), da parte di un soggetto che affetta, e il pensiero come […] spontaneità pura. […] Lasciar sussistere in questi termini tale dualismo dei fattori della conoscenza è assolutamente impossibile. […] Ugualmente, la distinzione kantiana tra intuizione e pensiero, da un lato, forma e materia dall’altro, resta però profondamente e oggettivamente fondata»21. La difficile impresa in cui il neokantismo cerca di cimentarsi è proprio questa: mantenere la differenza cancellando il dualismo. Ancora Natorp: «ciò che possiamo esprimere [aussagen] pur sempre come contenuto di una data percezione, in quanto contenuto espresso [Aussageninhalt] è necessariamente una determinazione del pensiero»22. Per non assolutizzare questa differenza, la prima cosa da fare è allora non partire da essa, non presupporla, ma stabilirla rispetto a qualcosa – nel caso dell’ultima citazione si tratterebbe della stessa possibilità di formulare la percezione – in cui si presentano come già unite insieme. Occorre appunto che si trovi il “rispetto a che cosa” fissare la differenza, perché se si parte da questa, se la si assume in maniera irrelata, necessariamente la si trasforma appunto in un dualismo. E inoltre: una volta stabilito che si tratta di differenza e non di dualismo ne discende anche che questa differenza sia variabile, relativa, perché altrimenti, se fissata una volta per tutte, tornerebbe a configurarsi come un dualismo. Natorp lo scrive chiaramente parlando della correlazione tra coscienza e oggetto: «in ultima analisi che cosa distingue i correlati? Grazie a che cosa sono due e non soltanto un uno? Non lo si chiarisce sino a che il rapporto reciproco è pensato come statico e non invece mobile e nella sua mobilità infinito»23. Di qui tutto il tema della cosiddetta dinamicizzazione degli apriori e la trasformazione del Faktum nel Fieri. Di qui anche, più alla lunga, il deli20

Cfr. il saggio come sempre molto perspicuo di H. Holzhey, Zu Natorps Kantauffassung, in Materialien zur Neukantianismus-Diskussion, hrsg. von H.-L. Ollig, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1987, pp. 134-149 (p. 144 e 145). 21 P. Natorp, Kant und die Marburger Schule, «Kant-Studien», 17 (1912), pp. 193-221, (pp. 201-202). 22 P. Natorp, Die logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften (1910), Teubner, Leipzig und Berlin 1921², p. 95. 23 P. Natorp, Bruno Bauchs “Immanuel Kant” und die Fortbildung des Systems des kritischen Idealismus, «Kant-Studien», 22 (1918), pp. 426-459, (p. 433).

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nearsi del dilemma ultimo: o i Fakta sono il solo luogo di accesso legittimo dell’indagine trascendentale e allora, in ultima analisi, non si dà un insieme categoriale davvero ultimo, o invece saranno le categorie, e quindi una sfera a sé del logico, il Faktum a questo punto sovrastorico di cui la filosofia deve dare conto. Nel primo caso si ha l’esito così descritto da Cassirer: «Se in Kant […] le categorie possono apparire ancora come “concetti originari dell’intelletto” già bell’e compiuti riguardo al numero e al contenuto, il moderno perfezionamento della logica critica e idealistica – [e il rimando è alla Logik der reinen Erkenntnis di Cohen] – ha fatto piena luce su questo punto. Le forme del giudizio significano motivi unitari e viventi del pensiero, che passano attraverso tutta la varietà delle sue forme particolari e che creano e formulano sempre nuove categorie»24. Nel secondo caso occorrerà «applicare a sua volta il kantismo a sé medesimo, e come la filosofia trascendentale kantiana indaga la conoscenza dell’essere [Seinserkennen], riflettere a sua volta in modo filosofico-trascendentale sulla conoscenza della filosofia trascendentale secondo i suoi propri principi»25. Una volta riconosciuto, intanto, il ruolo apriori e in quanto tale “attivo” di sensibilità, spazio e tempo quali «fondamentali atti costruttivi dell’intuizione»26, evidentemente l’impegno esegetico sul testo della Critica andava esercitato nella delineazione precisa delle modalità della mediazione sintetica tra le sue parti. Questa mediazione non è trascendibile, non perché sia solo fattualmente data, ma perché l’analisi trascendentale ne mostra la necessità teoretico-conoscitiva. Questo tema cruciale nella lettura neokantiana di Kant – e poi nell’autonoma filosofia del neocriticismo – è all’origine dello spostamento del centro della Critica dal tema dell’apriori a quello del trascendentale27. Le forme trascendentali devono essere individuate “dopo” questa intrascendibile correlazione esperienziale28. Il tratto “indiretto” della riflessione fi24 E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, in Id., Gesammelte Werke, Bd. 2, Meiner, Hamburg 1999, pp. 14-15, trad. it. di A. Pasquinelli, Storia della filosofia moderna, vol. I, Einaudi, Torino 1952, p. 34. 25 E. Lask, Die Logik der Philosophie und die Kategorienlehre (1910) in Id., Gesammelte Schriften, hrsg. von E. Herrigel, Mohr, Tübingen 1923, Bd. II, p. 90. 26 E. Cassirer, Kants Leben und Lehre, in I. Kant, Werke, hrsg. von E. Cassirer, Bruno Cassirer, Berlin 1923, Bd. XI, Ergänzungsband, p. 172; (da cui cito); ora in Id., Gesammelte Werke, Bd. 8, trad. it. di G.A. De Toni, Vita e dottrina di Kant, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 192. 27 Cfr. Kants Theorie der Erfahrung, cit. p. 35, trad. it. cit., p. 65: «L’apriori presuppone invero un altro concetto che lo renda un concetto completo. Ma questo completamento sta del tutto al di là della disgiunzione: soggettivo o oggettivo. Il concetto complementare che stiamo cercando è quello di trascendentale». 28 Si veda P. Natorp, Bruno Bauchs, cit. A p. 433 è chiarissimo come Natorp dichiari che sia Bauch sia la Scuola di Marburgo convergano perfettamente nel legare indissolubilmente il problema della trasfigurazione del rapporto intuizione- pensiero tra la Dissertatio e la Critica con quello della «pura correlazione di coscienza e oggetto».

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losofica additato da Heidegger è quindi certamente la “cifra” del Kant neokantiano, più articolata e problematica però rispetto ad una semplice definizione della filosofia come critica della conoscenza scientifica. Non è un caso che nelle lezioni friburghesi del 1919, pubblicate con il titolo Zur Bestimmung der Philosophie, che abbiamo ricordato, e nelle quali Heidegger discute a lungo le filosofie neokantiane, per determinazione della filosofia egli intenda anzitutto lo stabilire di che cosa essa si occupi specificamente. E qui non importa il percorso heideggeriano e la sua affermazione che il compito della filosofia sia la visione del mondo, perché in ultima analisi «ogni filosofia, laddove essa giunga ad esprimersi, priva di impedimenti, corrispondentemente alla sua tendenza più intima, è metafisica»29; importa invece la consueta estrema acutezza nel cogliere i tratti del pensiero con cui Heidegger si sta confrontando. In questo caso, il punto è quello di evidenziare la difficoltà del rapporto tra la materia che la filosofia assumerebbe come suo incipit, un Faktum da cui prendere le mosse, e la possibilità di evitare il condizionamento specifico e peculiare che questa materia o questo Faktum impongono. In un contesto teorico che non si comprende senza tener conto delle Ricerche logiche husserliane, per altro a lui ben note, Lask ritrova direttamente in Kant il problema che il neokantismo stesso aveva portato in primo piano, ovvero: dove trova Kant un luogo per «alloggiare le forme trascendentali dell’apriorità»30? Lo spazio logico di Kant è «senza patria» e rischia di ricadere o nella sfera della sensibilità (leggi quindi psicologia) o in quella della metafisica31. La separazione che Lask eredita da Lotze e Windelband tra la sfera dell’essere e quella del valere, con la connessa possibilità di riservare a quest’ultima il compito fondativo della filosofia, chiamata a identificare l’apparato categoriale di questa sfera così come Kant lo aveva esposto e dedotto per la sfera dell’essere, vuole essere la risposta a questo problema. Se ha un senso dire che “dietro” il neokantismo di Marburgo sta Herbart, si potrebbe dire che “dietro” quello del Baden stia forse Fichte, almeno per quanto emerge dal bisogno di guardare e considerare direttamente l’attività del categoriale. Lask intende restare all’interno della rivoluzione copernicana così come il neokantismo l’ha intesa, ma sposta a suo modo all’interno di questa la separazione materia-forma. La riporta cioè entro la struttura del categoriale: «irrazionale era inteso semplicemente come il contenuto [Gehalt] non logico di contro al contenuto logico. Ora, invece, l’irrazionalità non è più intesa nel

29

M. Heidegger, Zur Bestimmung der Philosophie, cit., p. 8, trad. it. cit., p. 16. E. Lask, Die Logik der Philosophie, cit., p. 261. Si noti come Lask subordini il trascendentale all’apriori. Questa movenza teorica si salda all’attenzione per il logico in sé, alla ricerca di un luogo visibile e accessibile del logico. 31 Ivi, p. 263. 30

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senso della non-razionalità, ma in quello della non-razionalizzabilità, dove alla base sta quindi il funzionale rapporto-forma-materiale»32. In effetti, quanto più il neokantismo vuole prendere le distanze da letture di Kant che puntino direttamente sull’oggetto-ragione, perché finiscono inesorabilmente nel non trovare altro modo di pensare un accesso a questo oggetto che non sia di fatto una qualche forma di psicologia, tanto più si fa significativo il ricorso a un’attualità dell’esperienza come insieme di giudizi o di saperi. Anche questo è un punto delicato, che significativamente si presenta con un taglio diverso per esempio in Cohen e in Windelband, diversità che mette bene in luce come il passaggio dal ruolo dell’apriori a quello del trascendentale s’innesti sulla scelta dell’accesso all’indagine critica stessa. Cohen scrive nel 1871 che le determinazioni logiche dell’apriori, la necessità e l’universalità sono solo «segni esteriori di valore»33, che possono servire a descrivere il concetto di apriori, ma non a determinarlo. E sùbito appare che questo descrivere non sembra sufficiente garanzia per non restare impigliati ancora in una procedura psicologistica. Liberarsene del tutto non si presenta affatto facile, e comunque la via per riuscirci appare quella di stabilire un riferimento che non lasci l’apriori irrelato rispetto a un contenuto interamente a posteriori. Windelband insiste invece soprattutto su queste universalità e necessità, e quelli che Cohen chiamava «segni esteriori» sono intesi come evidenze di valore, come presenze di cui si constata la validità generale e necessaria34. Anche in questo caso, tuttavia, con la consapevolezza di optare per un riferimento ben preciso, che è quello della sfera di giudizi originari35. Quando vuole rendere conto dell’opzione antipsicologistica e quindi a favore del «trascendentalismo», Heidegger accomuna Cohen, Windelband, Rickert e Natorp nel convincimento che Kant si fosse interrogato «circa il valore logico della sua [della conoscenza] validità»36. Cassirer ha parlato di «“senso” di principi veri [che] offre all’analisi un chiaro e per se stesso sicuro punto di partenza che non necessita di ulteriori sostegni»37. Heidegger muove più volte all’idealismo critico l’accusa di basarsi «su un’ingiustificata assolutizzazione della dimensione teoretica»38 e nello 32

Ivi, p. 77. Cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, cit. p. 10, trad. it. cit., p. 43. 34 W. Windelband, Geschichte, cit., pp. 53-54, trad. it. cit., pp. 222-223. 35 Ivi, p. 57 nota, trad. it. cit., p. 226 nota: «la scuola scozzese […] sosteneva, contro il Locke e la psicologia dell’associazione, l’esistenza e l’evidenza di “giudizi originari” che essa voleva constatare per via empirico-psicologica. Questi coincidono fino a un certo punto con i giudizi sintetico-apriori di Kant». 36 M. Heidegger, Neuere Forschungen über Logik, cit., p. 19, trad. it. cit., p. 152. 37 E. Cassirer, Erkenntnistheorie nebst den Grenzfragen der Logik (1913), ora in Id., Gesammelte Werke, Bd. 9, Meiner, Hamburg 2001, p. 143; in Conoscenza, concetto, cultura, trad. it. di G. Raio, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 6. 38M. Heidegger, Zur Bestimmung der Philosophie, cit., p. 87, trad. it. cit., p. 83. 33

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stesso tempo connette questo privilegiare la dimensione teoretica con la riscoperta del metodo trascendentale. Egli scrive: «fu solo attraverso lo scritto di Cohen sulla Teoria kantiana dell’esperienza – nel quale questi riscoprì il senso autentico della kantiana Critica della ragion pura – che fu portato a conoscenza della coscienza filosofica di allora il senso rigoroso e originario del metodo trascendentale, del trascendentale in genere», che si configura come uno «Zurückfragen»39. Quest’accusa contiene per così dire due anime: per un verso, quella più visibile e manifesta, che riguarda un aspetto che il neokantismo stesso ha corretto al suo interno, dilatando il suo Zurückfragen dalla conoscenza scientifica addirittura contenuta, come si espresse Cohen, «nei libri stampati», alla cultura tutta, comprese quelle forme come l’arte o il mito che non sono depositate in un sapere positivo. Per altro verso, quella più radicale, quando con la dimensione teoretica non s’intenda più gnoseologico-scientifica, bensì soggettivo-coscienziale. Quando cioè anche i saperi positivi sembrano forme di un naturalismo – questa accusa sarà di Husserl – che non ha ancora portato sino alle estreme conseguenze la rivoluzione kantiana. La prima immagine di Kant che il neokantismo abbandona è quella, pur fortemente accreditata, della mediazione tra razionalismo e empirismo, se la mediazione è intesa come semplice (anche se insopprimibile) compresenza sia del momento empiristico, il presunto dato della sensibilità, sia di quello intellettuale, le forme o facoltà della ragione. È cioè il cuore della Critica ad essere investito, ovvero il modo di interpretare la sintesi, il sintetico apriori. L’impegno teoretico si appunta sul come non lasciare la sensibilità fuori della ragione. Che Kant abbia scoperto un apriori della sensibilità significa, agli occhi di questa “riscoperta” di Kant, che il dato può essere preso in considerazione solo nel suo incontrarsi con la forma; non si tratta di sopprimere il portato “materiale”, ma di ridefinire le nozioni di forma e di materia. La prima non è mai vuota, la seconda non è mai informe. Vuotezza e assenza di forma sono solo espedienti euristici messi in atto dall’indagine trascendentale per isolare nella loro funzione apriori le componenti dell’esperienza. Che in questo dare peso al significato del metodo trascendentale come enucleazione nell’esperienza di ciò che non deriva dall’esperienza il neokantismo colga un tratto decisivo della fisionomia del pensiero kantiano è incontestabile. A confermarlo, basterebbero le pagine di un testo “minore”, come la dottrina del metodo della Critica della ragion pratica, spesso nei commentari del tutto ignorate, dove Kant si cimenta con il problema di insegnare a leggere nell’esperienza la presenza di quell’apriori – la legge morale – che per definizione in essa non si dà. Non stupisca allora leggere nella prima edizione di Kants Theorie der Erfahrung un’affermazione che suona identica a quella espressa da Heidegger 39

Ivi, pp. 141-142, trad. it. cit., pp. 132-133.

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nelle lezioni che dovevano opporsi anzitutto a quell’interpretazione. Scrive Cohen dell’intuizione sensibile: «in essa è ogni inizio [Anfang] e presso di essa ogni fine [Ende]»40. E Heidegger cita la Critica: «in qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza si riferisca ad oggetti, l’intuizione è quella che vi si riferisce immediatamente, e che ogni pensiero ha di mira come mezzo»41; e perentoriamente conclude: «per qualsiasi ulteriore confronto filosofico con Kant, bisogna scolpirsi in mente questa frase con il martello»42. Nel 1871 l’esperienza che dà il titolo alla monografia non è infatti ancora pienamente identificata con l’esperienza scientifica, per non dire tout court con la scienza; scrivere che l’intuizione costituisce non solo l’inizio ma anche la fine del conoscere significava interpretare i diversi momenti che la Critica «isola» non come una sequenza, quasi la celebre «Stufenleiter» della Critica43, ma come parti di una struttura sempre presente in toto44. Una certa dipendenza di Cohen dalla psicologia herbartiana, più volte e giustamente rilevata nella Kants Theorie der Erfahrung del 1871, comporta, proprio in quanto tale, una crisi dell’interpretazione “psicologistico-genetica” – e questo non mi pare venga colto – perché Herbart significa anzitutto, nel suo portato storico positivo e innovativo, e contro la sua del tutto mancata comprensione di Kant, una riflessione sull’intrascendibilità della rappresentazione e sulla sua nozione di forma come relazione. Questo significa quindi una problematizzazione della nozione di intuizione sensibile nella direzione di un momento in cui ciò che

40

H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, cit., p. 53, trad. it. cit., p. 80. KrV, A 19/B 33, trad. it. cit., p. 75. M. Heidegger, Phänomenologische Interpretation von Kants Kritik der reinen Vernunft, Klostermann, Frankfurt am Main 1977, pp. 82-83, trad. it. di A. Marini e R. Cristin, Interpretazione fenomenologica della Critica della ragion pura di Kant, Mursia, Milano 2002, p. 54. 42 E poche righe più avanti ne fa discendere che «per veder fallire qualsiasi richiamo a Kant contro la fenomenologia, basta solo leggere la prima frase della Critica». Ricordo anche un’espressione pregnante di Riehl: l’esperienza guadagna nella filosofia di Kant un significato nuovo, «essa è il prodotto del pensiero nell’intuizione», Immanuel Kant, cit. p. 94 (corsivo mio). 43 KrV, A 320, trad. it. cit., p. 379. 44 Non sono quindi persuasa di quanto scrive G. Edel, Interpretazione e critica di Kant nel neokantismo e nella filosofia analitica, in Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, a cura di S. Besoli e L. Guidetti, Vallecchi, Firenze 1997, pp. 45-64, quando afferma che nella prima edizione di Kants Theorie der Erfahrung Cohen di fatto ignora la specificità empirica dell’Estetica trascendentale perché la interpreta «nel quadro specifico di una teoria dell’apriori» (p. 54). Cohen in altri termini si allontana dall’«autentico concetto kantiano di esperienza» (p. 54) perché viene a formularne una definizione «la quale esclude dal concetto di esperienza l’esperienza prescientifica» (p. 55). Credo che queste osservazioni si affidino ad un’idea dell’«autentico concetto kantiano di esperienza» che proprio all’inizio della sua lettura di Kant Cohen ha il merito di problematizzare. Sfociare in un privilegiamento dell’esperienza scientifica è un esito – non il solo possibile – della scoperta che per Kant il dato dell’intuizione non è un dato che possa restare in quanto tale al di fuori dell’instaurarsi dell’indagine critica. E credo sia questo il risultato più importante dell’interpretazione neokantiana di Kant. 41

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è dato è in una relazione rappresentativa che permette di cercarne la fisionomia apriori. «All’intuizione stessa, anche intesa come pura molteplicità, appartiene il collegamento e il reciproco riferimento degli elementi di questo molteplice»45. Così Cassirer, come sempre chiarissimo46. Se l’intuizione empirica non è l’inizio ancora confuso del processo psichico del conoscere, se è nell’intuizione che «le cose si limitano in apparenze», è già qui che si modifica il rapporto soggetto-oggetto: «poiché ora la nostra sensibilità soggettiva non è più il primo gradino confuso del pensiero obiettivo, ma una fonte di conoscenza di pari dignità, feconda per se stessa, con ciò muta il significato di soggettivo. Con la conoscenza della differenza trascendentale tra sensibilità e intelletto, con il riconoscimento della natura trascendentale della sensibilità, che spiega cioè la possibilità dell’apriorità dell’intuizione pura, la distinzione: soggettivo-oggettivo, nel suo vecchio significato, viene eliminata. Il soggettivo trascendentale significa un soggettivo che pretende per così dire di essere esclusivo; infatti non c’è alcuna obiettività superiore e più certa dell’apriorità dell’intuizione riconosciuta nella natura [Beschaffenheit] formale della sensibilità soggettiva»47. Ciò che mi preme sottolineare è che in questo modo il Cohen del 1871 s’impegna in modo molto forte a riconoscere alla sensibilità un peso importante – «nell’Estetica trascendentale l’apriori è già presente nel significato trascendentale»48 – che è però connesso a doppio filo alla natura formale di essa. Questa impostazione doveva condurre necessariamente per un verso a leggere il rapporto tra Estetica e Analitica trascendentale come un’articolazione di momenti della struttura dell’oggettività, dell’esperienza nel nuovo significato scoperto da Kant – «Kant ha scoperto un nuovo concetto di esperienza»49 –, ma per un altro verso doveva spingere la riflessione verso una ricerca del “luogo” dove aveva inizio la riflessione trascendentale, non potendo più pensare di muovere da un dato che s’imporrebbe al soggetto e da un soggetto che impone le sue proprie forme, scovate guardando in se stesso, all’oggetto. Se il debito verso la filosofia herbartiana è in tutto ciò evidentissimo, lo sarà anche il “peso” del lascito herbartiano. Così come si fece osser45Cfr.

E. Cassirer, Erkenntnistheorie nebst den Grenzfragen der Logik, cit., p. 153, trad. it. cit.,

p. 16. 46 Si legga quanto scrive sùbito dopo: «A torto si è obiettato contro questa concezione che essa privilegia unilateralmente il fattore “formale” della conoscenza rispetto a quello “materiale”, che anzi essa mira a ridurre completamente e ad annullare definitivamente quest’ultimo. Ciò vale solo nel caso in cui fosse sostenuta una materia “semplice”, che non racchiudesse già in sé in qualche modo una determinazione di forma; questo rapporto si poteva esprimere parimenti anche rovesciato, poiché in questa teoria non viene nemmeno ammessa una forma semplicemente “vuota”, una pura forma generale senza particolarizzazione e determinazione» (ivi, pp. 153-154, trad. it. cit., p. 17). 47 Kants Theorie der Erfahrung, cit., p. 54, trad. it. cit., p. 81 e p. 80. 48 Ivi, p. 103, trad. it. cit., p. 127. 49 Ivi, p. 3, trad. it. cit., p. 37.

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vare che Herbart aveva in realtà immesso nell’esperienza quelle contraddizioni che affidava alla filosofia di risolvere, allo stesso modo il seguire Herbart nel privilegiare l’“esperienza”50, nella quale acquista fisionomia un soggetto che non è logicamente separabile da essa per poi costituirla, nel fare propria e difendere nel testo kantiano – anziché contro Kant – la datità delle forme, il neokantismo, soprattutto quello marburghese, si trova a dover mostrare che Herbart, avendo commesso l’errore di schiacciare l’uno sull’altro Kant e Fichte, non ha saputo lasciare spazio a una nozione valida di soggettività. Si assiste quindi ad un “ritorno a Kant” che soprattutto si è interrogato su “chi sia” il soggetto kantiano che non si vuole assimilabile a quello dell’idealismo a lui seguito. Mettere in crisi il modello di lettura di Kant che era passato nell’idealismo, e che privilegiava una ragione costruttiva più che costitutiva, è certamente ciò che rese “epocale” Kants Theorie der Erfahrung, sia nel senso di chiudere con un certo stereotipo, sia nel senso di riaprire il problema del rapporto tra filosofia trascendentale e psicologia. Dico riaprire perché è ben noto come proprio l’antipsicologismo sia stato il segno distintivo del neokantismo tutto e non solo nell’interpretazione di Kant. Ma una volta respinto lo psicologismo della tradizione empirista e positivista, una volta messo in chiaro che l’analisi dei processi reali del conoscere non può essere confusa con l’analisi delle condizioni di esso, una volta quindi escluso che la filosofia si debba e si possa occupare di una cosa come le facoltà della ragione o delle presunte certezze assolute dei dati coscienziali, dove si davano le condizioni dell’esperienza? È significativo che sia proprio Heidegger che nel 1913 avanza a Rickert la proposta di «trattare nel seminario i problemi della psicologia come scienza e i suoi rapporti con la filosofia»51. Riehl, per esempio, era stato molto netto nel dichiarare che né il richiamo di Herbart alla psicologia, né quello di Fries all’antropologia (e poi per altro verso tanto meno gli idealisti) coglievano la novità del metodo della critica della ragione. Il suo portare l’accento sull’esperienza nella sua totalità mette capo a una lettura della Critica come «una logica colta nel profondo e integrata con

50 Sulla problematicità del concetto herbartiano di “esperienza” si veda ora F. Aronadio, Il concetto di esperienza e il pluralismo ontologico di Herbart: sopravvivenze platoniche?, in Herbart e Platone, a cura di A. Brancacci, Napoli, Bibliopolis 2010 (in corso di stampa). 51 M. Heidegger-H. Rickert, Briefe, cit., p. 14. Per la percezione dei limiti dell’antipsicologismo neokantiano Heidegger rimanda poi Rickert al capitolo finale della sua Habilitationsschrift, per altro a lui dedicata, su Duns Scoto, (cfr. p. 34). Heidegger confessa di essersi persuaso che la lotta contro lo psicologismo, pur giustificata da un certo punto di vista, abbia però finito con il perdersi «in una sfera nella quale a tutta la logica non può non mancare il respiro». Su tutto ciò si veda S. Poggi, La logica, la mistica, il nulla. Una interpretazione del giovane Heidegger, Edizioni della Normale, Pisa 2006, in particolare pp. 74, 77-87.

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la teoria del conoscere sensibile»52. È poi soprattutto Lask – mi pare – a riassumere la consapevolezza di dover fornire un’accezione pregnante di “esperienza”, proponendo di leggere la Critica come teoria dell’oggetto in generale. Attribuendo a Kant una “discendenza” plotiniana – sulla quale qui non mi soffermo affatto –, Lask vuole rivendicare alla nozione kantiana di categoria un «significato ampio», che non è immediatamente legato alla sua applicazione all’intuizione sensibile. Non è un caso che egli usi ripetutamente l’espressione «riempimento [Erfüllung]»53. Per combattere lo psicologismo, Riehl si appoggiava alle funzioni logiche del giudicare, e dava quindi molto peso alla deduzione metafisica. Quella «integrazione» necessaria a fare però della Critica qualcosa di diverso da una pura e semplice logica formale bisognava cercarla, in ultima analisi, nella sintesi della coscienza: non era facile allora forgiarsi nozioni pur sempre tipiche del linguaggio della psicologia senza ricadere in un qualche psicologismo. Il neokantismo ne è del resto consapevole. In Windelband troviamo un’affermazione-confessione esplicita: «al di sotto di tutta la critica kantiana c’è una psicologia trascendentale non meno vasta di quella»54; «la categoria nasce dalla funzione logica. La funzione logica a sua volta scaturisce dalla sintesi generale della coscienza»55. Occorreva allora individuare una nuova accezione di soggettività e di ragione? Cohen è portato dalla centralità attribuita all’apriorità formale e trascendentale dell’intuizione – non si dimentichi che la sua riscoperta del vero Kant nasce dalla polemica tra Trendelenburg e Kuno Fischer sul modo di interpretare la teoria kantiana dello spazio e del tempo56 – a privilegiare il problema dell’oggettività di tipo scientifico-naturale. Ed è del resto difficile ac52 Cfr. A. Riehl, Der philosophische Kriticismus und seine Bedeutung für die positive Wissenschaft. Erster Band. Geschichte und Methode des philosophischen Kriticismus, Engelmann, Leipzig 1876, p. 300. 53 Cfr., ad esempio, Die Logik der Philosophie, cit., pp. 250-251. 54 W. Windelband, Geschichte, cit., p. 56, trad. it. cit., p. 225. 55 A. Riehl, Der philosophische Kriticismus, cit., p. 303. Cfr. anche p. 307: «I concetti apriori non sono innati né come concetti né come disposizioni [Anlagen], sono sviluppati». Si veda su questo problema G. Gerhardt, Wider die unbelehrbaren Empiriker. Die Argumentation gegen empirische Versionen der Transzendentalphilosophie bei H. Cohen und A. Riehl, Königshausen & Neumann, Würzburg 1983, che parla di «coscienza scientifica» per Cohen e di «coscienza comune» per Riehl, per indicare come le condizioni di possibilità dell’esperienza che entrambi i pensatori vedrebbero trovarsi «voraus» l’esperienza, vengano “collocate” da Riehl in una coscienza come insieme di regole, da Cohen risolte in un metodo. 56 Si veda H. Cohen, Zur Controverse zwischen Trendelenburg und Kuno Fischer, originariamente in «Zeitschrift für Völkerpsychologie und Sprachwissenschaft», 1870, poi in Schriften zur Philosophie und Zeitgeschichte, hrsg. von A. Görland und E. Cassirer, Akademie-Verlag, Berlin 1928, I, pp. 229-275. Dove si legge: «Chiedersi quale sia il significato e il valore della dottrina kantiana dello spazio e del tempo è un altro modo per chiedersi quali siano i principi della conoscenza» (p. 229).

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cantonare il peso delle riflessioni scientifiche kantiane sulla genesi della Critica57. Anche il dibattito sulla possibilità di fornire una sicura misurazione delle grandezze psichiche58, nel quale Cohen interviene direttamente59, fa da sfondo al maturare del convincimento che la sensazione debba e possa essere integrata nella costituzione apriori dell’oggetto, che si possa evitare «il pericolo di fondare la realtà [Realität] non per la sensazione, ma nella sensazione»60. Questa frase di Cohen è stata tante volte richiamata per segnalare uno dei momenti più significativi del progressivo riassorbimento dell’intuizione nel pensiero. Le pagine del testo in cui essa è inserita indicano bene come la preoccupazione che guidava Cohen di giustificare pienamente questa integrazione lo sospinga ad accrescere il peso del Faktum scienza, e di qui a rovesciare la sequenza intuizione-categoria. La de-psicologizzazione di questo rapporto, il fatto che non si tratti più della descrizione di un percorso psicologicogenetico della conoscenza, ma della scomposizione di una validità nei suoi elementi, permette quella particolare soluzione del rapporto tra gli elementi della sintesi che Cohen farà poi culminare nella logica dell’origine. Lo scritto sul metodo infinitesimale, che si colloca significativamente tra la prima e la seconda edizione di Kants Theorie der Erfahrung61, contiene un serrato con57 Cohen si dice convinto che «il genio di Kant si è diretto verso il metodo trascendentale spinto dallo studio dei fondatori della scienza matematica della natura», (cfr. H. Cohen, Das Prinzip der Infinitesimal-Methode und seine Geschichte. Ein Kapitel zur Grundlegung der Erkenntnisskritik, Dümmler, Berlin 1883, ora in Id., Werke, 5, a cura di P. Schultess, Olms, Hildesheim/ Zürich/New York 1984, da cui si cita, p. IV; (interessante per l’introduzione di W. Flach anche la precedente edizione Suhrkamp, Frankfurt am Main 1968, recensita da H. Holzhey, «Archiv für Geschichte der Philosophie», 56 (1974), pp. 225-229; si veda anche l’Introduzione di M. de Launay alla trad. francese, Le principe de la méthode infinitésimale et son histoire, Vrin, Paris 1999, pp. 9-38). Un recente tentativo di leggere invece la genesi dell’Estetica trascendentale piuttosto legata ai problemi postisi a Kant dalla percezione dello spazio e del tempo più che a quelli della loro natura fisico-geometrica è offerto dal suggestivo libro di A. Nuzzo, Ideal Embodiment. Kant’s Theory of Sensibility, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 2008. 58 Si veda su questo dibattito R. Martinelli, Misurare l’anima. Filosofia e psicofisica da Kant a Carnap, Quodlibet, Macerata 1999 e, dello stesso, I neokantiani e la psicofisica. Una controversia sul fondamento della conoscenza, in Conoscenza, valori e cultura, a cura di S. Besoli e L. Guidetti, cit. pp. 549-567. 59 Si veda soprattutto Das Prinzip der Infinitesimal- Methode und seine Geschichte. Ein Kapitel zur Grundlegung der Erkenntnisskritik, cit.; ma anche la brevissima segnalazione del libro di G. Th. Fechner, Revision der Hauptpunkte der Psychophysik (1884), poi in Schriften zur Philosophie und Zeitgeschichte, hrsg. von A. Görland und E. Cassirer, Akademie-Verlag, Berlin 1928, II vol., pp. 476-477. 60 H. Cohen, Das Prinzip der Infinitesimal- Methode und seine Geschichte, cit., p. 106. 61 G. Edel ha sfumato il peso che questo scritto avrebbe avuto nel passaggio tra le due edizioni, ricordando giustamente quanto il passo decisivo verso l’idea che la teoria dell’esperienza concerna l’esperienza depositata «nei libri stampati» fosse già stato fatto nel 1877, nella prima edizione, cioè, di Kants Begründung der Ethik. Si veda il suo importante Von der Vernunftkritik

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fronto teorico con il tema della sensazione di cui Kant parla soprattutto, notoriamente, nel principio delle anticipazioni della percezione62. In queste pagine di Cohen sarebbe riduttivo leggere direttamente solo una pur dichiarata identificazione dell’intuizione pura con l’intuizione matematica, perché si dimenticherebbe che il problema di Cohen è il problema che egli vuole dare per felicemente risolto in Kant, e cioè il problema di recuperare la sensazione appunto entro la sfera dell’apriori63. Per Cohen il problema è mostrare che in Kant si delinea una struttura della sensibilità che investe nello stesso tempo la sua forma e la sua materia. Il tentativo di soluzione predisposto da Kant rivelerebbe – ha scritto di recente un serio studioso della Critica – un «astruso contrasto tra la percezione attuale e la sua possibile diminuzione verso lo zero nella pura intuizione formale»64. Proprio questo presunto contrasto, al contrario, è indice, nella lettura di Cohen, della necessità che Kant avverte e cerca a suo modo di soddisfare, di fornire un altro apriori, oltre quelli dello spazio e del tempo, che per così dire “raggiunga” più da vicino il “reale”; il carattere istantaneo della sensazione non è che il raggiungimento dell’individualizzazione dell’intuizione. Il principio della grandezza intensiva «è necessario per dare apriorità e oggettività alla sensazione, la radice del soggettivo»65. Che in questo principio della Critica Kant si richiami esplicitamente al calcolo delle flussioni, è per Cohen la prova della legittimità della sua impostazione che lega la trattazione delle condizioni di possibilità della conoscenza al sapere scientifico costituito. Tuttavia non è quest’esito, del resto ben noto, che vorrei ora seguire qui. Vorrei piuttosto fermarmi ancora a segnalare la fisionomia della sintesi che scaturiva da questa interpretazione dell’Estetica trascendentale, prima cioè che si consumasse, nelle successive edizioni di Kants Theorie der Erfahrung, e poi anche in altri autori, una più accentuata intellettualizzazione dell’intuizione stessa. Cohen segnala con decisione il pericolo di un’intelzur Erkenntnislogik. Die Entwicklung der theoretischen Philosophie Hermann Cohens, Alber, Freiburg/München 1988, p. 277. Si può tuttavia osservare che nello scritto sul metodo infinitesimale è ben più significativo il confronto diretto con Kant sul tema della realtà e della sensazione, tema che è decisivo circa la possibilità di svincolare la Critica della ragion pura dalla psicologia e quindi, poi, di applicare il metodo trascendentale a tutte le forme di esperienza, etica ed estetica comprese. 62 Cfr. M. Giovannelli, Kants Grundsatz der ‘Antizipationen der Wahrnehmung’ und seine Bedeutung für die theoretische Philosophie des Marburger Neukantianismus, in Kant im Neukantianismus: Fortschritt oder Rückschritt?, hrsg. von M. Heinz, Ch. Krijnen, cit., pp. 37-55. 63 Ricordo per inciso che nella KpV Kant chiama «Empfindung» – «derjenigen Empfindung, die wir Achtung nennen» – quell’apriori sui generis che è la Achtung: «dieses Gefühl ist das einzige, welches wir völlig a priori erkennen». Cfr. Akademie Ausgabe, 5, p. 73 e p. 75: trad. it. di F. Capra, riveduta da E. Garin, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1971, p. 91 e p. 93. 64 Cfr. G. Bird, The Revolutionary Kant. A Commentary on the Critique of pure Reason, Open Court, La Salle 2006, p. 431. 65 H. Cohen, Das Prinzip der Infinitesimal- Methode und seine Geschichte, cit., p. 28.

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lettualizzazione della sintesi. Egli scrive che per correggere Hume, Kant riconduce la connessione causale a un’attività sintetica dell’intelletto, e sùbito puntualizza: «ora, ogni sintesi è posta nell’intelletto, e si sa quale disastro è proliferato da quest’unico membro della sintesi kantiana. Kant ne è immune. Infatti qui, sino al limite estremo, Kant lega lo specifico dell’intelletto alla sensibilità: la sintesi a priori è possibile solo attraverso l’intuizione pura. La stessa sintesi dell’intelletto esige un’apriorità dell’intuizione!»66. E poco più avanti: «La sintesi […] si compie soltanto nel molteplice dell’intuizione. Senza essere dato nell’intuizione, senza cioè essere “riferito all’esperienza”, l’oggetto non può essere connesso per la coscienza nell’unità sintetica, cioè essere pensato»67. Il disastro è ovviamente quello avviato da Fichte e, per evitare di imboccare quella china, Cohen fa appello all’intuizione come riferimento all’esperienza. Il modo di sottrarre l’intuizione alla passività senza farne così un momento ancora impreciso di un atto intellettuale è affidato al suo inserimento in una trama di relazioni. Le forme dell’intuizione, lo spazio e il tempo, non sono affatto i contenitori infiniti e vuoti di cui parlava Herbart. Soprattutto non sono vuote, non pre-figurano, bensì con-figurano la datità. Negando che secondo Kant l’intuizione conferisca da sola fisionomia all’oggetto, sia pure una fisionomia ancora indeterminata, Cohen legava le celebri “cecità” e “vuotezza” di Kant in una sintesi sempre già data dall’esperienza e nell’esperienza. Con altrettanta nettezza Bauch, che pure ritiene che Kant non abbia criticato la logica pura con il medesimo rigore con il quale aveva criticato la conoscenza pura, e quindi abbia concesso troppo alla dottrina del giudizio, scrive che l’applicazione delle categorie è guidata dalla specificità dell’intuizione e dell’esperienza. «Quali determinati momenti dei singoli tipi di categorie si applichino in un determinato caso, dipende – Kant lo dice esplicitamente – dal determinato molteplice delle impressioni o delle apparenze [Erscheinungen]. […] Se non si desse regolarità alcuna nelle apparenze, cioè in ciò che è dato alla coscienza, e non è da essa prodotto, il nostro intelletto non potrebbe svilupparsi»68. Proprio perché gli è perfettamente chiaro che il “dato” kantiano non è né amorfo né irrelato, il neokantismo, se corregge una volta per tutte l’immagine della sintesi come assemblaggio di “pezzi” pre-dati, si trova a dover approfondire e chiarire il rapporto tra Erscheinung e Erfahrung, e cosa si deve intendere per “esperienza” diventa, come si è detto, davvero cruciale.

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H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, cit., p. 163, trad. it. cit., p. 179. Ivi, p. 185, trad. it. cit., p. 197. 68 A. Riehl, Der philosophische Kriticismus und seine Bedeutung für die positive Wissenschaft. Erster Band. Geschichte und Methode des philosophischen Kriticismus, cit., pp. 364-365. 67

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In effetti, vediamo il pensiero neokantiano orientarsi inizialmente verso quello che potremmo chiamare un primato dell’oggettività69, anche se come mossa teorica iniziale ci viene presentata la sostanziale pari validità di una via soggettiva e di una via oggettiva alla conoscenza. Natorp scrive Über objektive und subjektive Begründung der Erkenntniss, Rickert Zwei Wege der Erkenntnistheorie. Più esattamente, si dovrebbe dire che il polo “oggettivo” si sdoppia in una duplice accezione: è infatti da intendersi, in un primo senso come il “luogo” dell’accesso all’oggettività nel senso di validità della conoscenza e, in secondo luogo, come questa oggettività stessa. Nel primo senso è anche il “luogo” di accesso alla fisionomia del soggetto. Che si tratti di esperienza o di conoscenza70, quello che appare come l’atteggiamento primo e immediato della disposizione filosofica è il rivolgersi al mondo: «per la conoscenza naturale, la riflessione all’oggetto è assolutamente la prima, la più immediata»71. «Il fatto che si dia l’oggetto che vuole studiare, la teoria della conoscenza deve cominciare con l’assumerlo»72. La rivoluzione copernicana ha mutato il problema: non si tratta di sapere come, o addirittura se, conosciamo gli oggetti – la prospettiva kantiana, nella lettura dei neokantiani, non sente valido lo scetticismo –, ma di garantire una conoscenza oggettiva. Quando Cassirer mette a confronto il problema dello scetticismo in Hume e in Kant, non a caso fonda il suo discorso sul carattere per Kant già scientifico dell’esperienza. Mi riferisco alla monografia kantiana del 1918, e quindi a un’impostazione già acquisita dai marburghesi, ma la ricordo perché è significativa: l’irrilevanza dello scetticismo in Kant rispetto all’impostazione di Descartes prima e di Husserl 69 Questo problema è ovviamente strettamente connesso con quello della “via d’accesso” alla sfera dell’indagine filosofica, e della determinazione del suo compito, che abbiamo visto cogliere come centrale da Heidegger. Del resto, è stato proprio Holzhey a mettere a confronto la concezione coheniana del Faktum della scienza con la Faktizität heideggeriana. Si veda H. Holzhey, Heidegger und Cohen. Negativität im Denken des Ursprungs, in In Erscheinung treten. Henrich Barths Philosophie des Ästhetischen, hrsg. von G. Hauff, H. R. Schweitzer, A. Wildermuth, Schwabe, Basel 1990, pp. 97-114. Sul tema è da leggere R. Lazzari, Temi neokantiani agli esordi del pensiero di Heidegger, in Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, a cura di S. Besoli e L. Guidetti, cit., pp. 271-305 e H.D. Häusser, Transzendentale Reflexion und Erkenntnisgegenstand. Zur transzendentalphilosophischen Erkenntnisbegründung unter besonderer Berücksichtigung objektivistischer Transformationen des Kritizismus; ein Beitrag zur systematischen und historischen Genese des Neukantianismus, Bouvier, Bonn 1989. 70 Ad esempio Riehl: «al posto dell’ontologia subentra la teoria della conoscenza. […] Il suo [di Kant] problema si rivolge al concetto della conoscenza e alle presupposizioni che rendono l’esperienza conoscenza». Immanuel Kant, cit., pp. 91-92. 71 P. Natorp, Über objektive und subjektive Begründung der Erkenntnis, «Philosophische Montashefte», 23 (1887), pp. 257-286, (p. 270). 72 H. Rickert, Zwei Wege der Erkenntnistheorie. Transscendentalpsychologie und Transscendentallogik, «Kant-Studien», 14 (1909), pp. 169-228 (da cui cito), p. 170. Si veda anche la traduzione francese, con ampia introduzione a cura di A. Dewalque, Les deux voies de la théorie de la connaissance, Vrin, Paris 2006, pp. 7-107.

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poi deriva al neokantismo da una precisa lettura di Kant come filosofo dei limiti della ragione. Limiti che non vengono fissati successivamente all’indagine critica. Non è che Kant abbia scoperto che la ragione è fatta in modo tale da “non-potere-che” questo o quello. Questa immagine di Kant, pur essendo quella più accreditata dalla tradizione, è quella che resta legata alle forme kantiane della ragione o come facoltà in ultima analisi psicologiche o come forme a priori aventi sì una loro natura indipendente da una psiche che le tenga insieme, ma tali da attendere – e in questa “attesa” dotate di una loro configurazione – un riempimento da parte del dato. Volendo accantonare questa immagine, quello che appunto si pone come problema primo è rendere conto del come l’intreccio forme-contenuti sia già sempre in atto73. Il richiamo “classico” del neokantismo è, lo si è visto, all’“esperienza”. Ma, di nuovo, che cosa è “esperienza”? Cassirer scrive: «il concetto kantiano di esperienza ha una consistenza positiva che nessuna scepsi può intaccare: ogni autentico sapere sperimentale infatti comporta in sé l’applicazione della matematica. […] Il “fecondo bathos dell’esperienza” […] si fonda su un momento determinante che non ha le sue radici nella percezione [Empfindung] sensibile come tale ma nel concetto matematico»74. Nel 1876 Riehl aveva scritto che la dottrina di Kant pone alla sua base il concetto di esperienza. Ed esperienza significa rappresentazione di oggetti «connessi tra loro, cioè connessi oggettivamente»75. Nel 1887 Natorp scrive che la conoscenza va considerata alla stregua di «un’equazione da risolvere», che va guardata «puramente nel suo contenuto oggettivo», dove «qualsiasi riferimento al conoscere come fare o come vissuto […] non conta quindi nulla»76. Kuntze, nel 1906, assume l’Objektivität come un fatto di cui successivamente si deve mostrare «wodurch» sia divenuto possibile77, e intorno a questa nozione fa ruotare la rivoluzione kantiana: «la filosofia di Kant realizza 73 Anche da posizioni su questo punto contrapposte, come è il caso ad esempio di Cassirer e di Lask, essenziale è però qui il fatto che entrambi riconoscano in questo intreccio il punto di non ritorno fissato da Kant. Lask infatti, che quell’intreccio vorrà di nuovo problematizzare, dichiara esplicitamente di cercare di spostarlo “dopo” la irrecusabile rivoluzione copernicana. 74 E. Cassirer, Kants Leben und Lehre, cit., pp. 96-97, trad. it. cit., p. 109 (corsivi miei). Si veda anche Id., Kant und die moderne Mathematik (1907), in Id., Gesammelte Werke, Bd. 9, cit., p. 37, trad. it. di C. Savi, Kant e la matematica moderna, Guerini & Associati, Milano 1991, p. 93: «Il destino e l’avvenire della filosofia critica dipendono dal suo rapporto con le scienze esatte. Se si riuscisse a recidere il suo legame con la matematica e la fisica matematica, essa verrebbe privata del suo valore e del suo contenuto». 75 A. Riehl, Der philosophische Kriticismus und seine Bedeutung für die positive Wissenschaft. Erster Band. Geschichte und Methode des philosophischen Kriticismus, cit., p. 310 (corsivi miei). 76 P. Natorp, Über objektive und subjektive Begründung der Erkenntniss, cit., p. 261. 77 Cfr. F. Kuntze, Die kritische Lehre von der Objektivität. Versuch einer weiterführenden Darstellung des Zentralproblems der kantischen Erkenntniskritik, Winter’s Universitätsbuchhandlung, Heidelberg 1906, p. 11.

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la grande ultima trasformazione e autonomizzazione di entrambi i concetti [soggettivo e oggettivo] […]. La filosofia di Kant dà infine alla storia della parola “objektiv” la sua conclusione; infatti essa fissa scientificamente l’autonomia che sinora all’Objekt era sempre stata negata e che accompagnava il Gegenstand solo gefühlsmässig: la fissa nell’unità dell’oggetto [Gegenstand]»78. Rickert prosegue così il suo ragionamento: se la teoria della conoscenza «presuppone la conoscenza e quindi un’assoluta differenza tra pensiero vero e pensiero in genere, allora questa differenza deve pure essere fondata, e questo significa che il pensiero, per essere vero, deve essere più che un processo psichico, e dunque che deve contenere qualcosa che non è più esso stesso dell’ordine del semplice pensiero. Se, rifacendoci a una terminologia usata da Kant, chiamiamo questo qualcosa l’oggetto [Gegenstand] della conoscenza, allora la teoria della conoscenza è la scienza dell’oggetto della conoscenza e della conoscenza dell’oggetto»79. Sono solo alcune delle citazioni possibili, che per altro devono essere ricondotte a posizioni molto diversificate tra loro, ma che accosto insieme soltanto per mostrare il significativo convergere dell’iniziale impostazione del neokantismo in una configurazione della rivoluzione copernicana di Kant come antecedenza della correlazione soggetto-oggetto rispetto alla chiarificazione concettuale dei due termini, e di conseguenza in un imporsi dello spinoso problema del “luogo” della datità di questa correlazione, problematico sia sul piano logico sia sul piano psicologico, sia sul piano descrittivo statico sia su quello genetico. È tutto sommato legittimo affermare che il referente di scienza ormai costituitasi, partendo dalla quale risalire alla fisionomia del soggettivo e dell’oggettivo, sia anzitutto la scienza matematica della natura, per i marburghesi, e la logica per la scuola del Baden. Questo vale infatti sia per le tematiche poste in primo piano nell’interpretazione di Kant, sia per gli sviluppi delle particolari filosofie neokantiane. L’opera teoreticamente più significativa di Cassirer, Sostanza e funzione, del 1910, e lo scritto più importante di Natorp sull’interpretazione del fatto-scienza, Die logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften, dello stesso anno80, convergono nel “forzare” l’interpretazione coheniana della sintesi nella direzione di una definizione delle funzioni che costituiscono l’oggettività. L’apparato categoriale kantiano è restituito nel tessuto delle relazioni legali che strutturano l’esperienza. Questo apparato, la cui “vuotezza” non è quella di un contenitore da riempire ma quel78

Ivi, p. 20. H. Rickert, Zwei Wege der Erkenntnistheorie, cit., p. 170. 80 P. Natorp, Die logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften, cit.; E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, Bruno Cassirer, Berlin 1910; ora in Id., Gesammelte Werke, Bd. 6, hrsg. von R. Schmücker, Meiner, Hamburg 2000, da cui cito, trad. it. di E. Arnaud, con Presentazione di G. Preti, Sostanza e funzione, La Nuova Italia, Firenze 1973; riedizione con Presentazione di M. Ferrari, 1999. 79

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la di una funzione da soddisfare, si presenta come una «teoria universale degli invarianti dell’esperienza»81, dove l’accento cade sulla configurazione dell’oggettualità come dipendente dalla posizione assegnata dal significato sistematico a un elemento rispetto al tutto. Una volta ricondotta l’intuizione entro la relazione sintetica, il dato, la “cosa”, non sono elementi dotati di autonomia epistemica che la conoscenza fatica a restituire nella loro piena oggettività82. L’intuizione o la datità esprimono la massima determinazione raggiunta in un dato punto della rete di relazioni83. «Oggettività […] è solo un’altra designazione per la validità di determinate correlazioni di connessione, che devono essere separatamente accertate e studiate nella loro struttura. Il compito della critica della conoscenza consiste nel ritornare dall’unità del concetto generale di oggetto alla molteplicità delle necessarie e sufficienti relazioni che lo costi81 E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, cit., p. 289, trad. it. cit., p. 356. Si legga la definizione di a priori poco più avanti: «Possono essere chiamati apriori soltanto gli ultimi invarianti logici che stanno generalmente alla base di ogni insieme legale della natura. Una conoscenza si chiama a priori non già come se si trovasse in un certo senso prima dell’esperienza, bensì in quanto e nella misura in cui è contenuta come premessa necessaria in ogni giudizio valido concernente dei fatti» (ivi, p. 290, trad. it. cit. modificata, p. 357). Si veda K.-N. Ihmig, Cassirers Invariantentheorie der Erfahrung und seine Rezeption des “Erlanger Programms”, Hamburg, Meiner 1997. 82 Cfr. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, cit., p. 316, trad. it. cit., p. 388: «Il misterioso passaggio fra due sfere dell’essere diverse nella loro essenza scompare ormai, e in luogo di essa sottentra il semplice problema della connessione e riunione delle singole parti dell’esperienza in un complesso ordinato. Il singolo contenuto, per potersi dire veramente oggettivo, deve in certo qual modo svilupparsi oltre il suo ristretto limite cronologico ed allargarsi in modo da diventare l’espressione dell’intera esperienza. A partire da questo momento, esso non sussiste soltanto per se stesso, ma per le leggi di questa esperienza che esso, per la sua parte, rappresenta» (corsivi miei). 83 Cfr. P. Natorp, Die logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften, cit., pp. 312-313. Dopo avere criticato alcune delle formulazioni dell’Estetica trascendentale dove Kant sembra attribuire solo alla specifica natura della sensibilità umana di essere affetta dagli oggetti secondo le forme spazio-temporali, Natorp riafferma la validità, invece, di tutte quelle formulazioni che affermano la necessità sintetica dell’intuizione dello spazio. Ma “sintetica” vuol dire che non si tratta né di un concetto empirico, né di un nesso puramente logico. «Nella misura in cui il concetto kantiano dell’“intuizione” o della datità esprime essenzialmente l’esigenza dell’univocità della determinazione, è anche corretto dire che lo spazio euclideo è una condizione necessaria, non del pensiero (generale, discorsivo), ma dell’“intuizione”. Questa esigenza di univocità è però essa stessa un’esigenza del pensiero, ma non del pensiero in genere, bensì del pensiero il più determinato, il pensiero dell’esistenza, che riposa sulla riunione di tutte le legalità fondamentali che sono in vigore nelle direzioni particolari del pensiero». Forse si potrebbe anche riflettere sul fatto che Husserl per indicare il momento della presenza del contenuto nell’atto intenzionale scelga, nel § 36 dei Prolegomeni, il termine Erfüllung (HUA, XVIII, p. 129, trad. it. di G. Piana, Ricerche logiche, vol. I, Il Saggiatore, Milano, 1968, p. 136), che è il medesimo che il linguaggio matematico usa per parlare dell’incognita X che soddisfa (erfüllt) le condizioni dell’equazione. L’identificazione del cosiddetto “dato” con la X dell’equazione della conoscenza è tipica del neokantismo marburghese.

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tuiscono»84. La consapevole fedeltà – almeno iniziale e a me pare almeno da Cassirer mantenuta – dei marburghesi a Kant si esprime essenzialmente nel restare entro una nozione di oggettività che impedisce il cercarne un fondamento in un momento formale o materiale. Il prezzo da pagare, se così si vogliono vedere le cose, è quello di rinunciare a pensare di poter costruire la relazione medesima. Essa è data: «i momenti [della relazione fondamentale: “forma” e “contenuto”] possono solo essere indicati [bezeichnet], ma non essere costruiti a partire da essa come se fossero parti indipendenti, esistenti per sé»85. Non potrebbe essere detto in modo più chiaro che anche la forma, che, sappiamo, è relazione, è data. La sintesi kantiana, pertanto, è nello stesso tempo attiva e passiva. Il sinonimo di attività è sintesi, non libera costruzione con dati informi. L’accento batte insistentemente sul mettere in luce che Kant lavora effettivamente per respingere il monismo di Leibniz e Wolff circa le fonti della conoscenza, ma non al prezzo di cadere in un dualismo precritico. Insisto nel sottolineare che è appunto questa epocale lettura di Kant a costringere Cohen per così dire ad agganciarsi nettamente alla scienza matematica della natura86, che diventa per lui il “dove” instaurare quel lavoro di analisi, di isolamento delle componenti funzionali della conoscenza che Kant si prefiggeva, rischiando peraltro di appoggiarsi a una ragione in ultima analisi psicologica. Non a caso Cohen insiste sul fatto che il problema del “da dove” iniziare questa analisi è del tutto inessenziale: «la discussione critico-conoscitiva può iniziare da un punto qualsiasi, da un qualsiasi principio. […] Se i concetti fondamentali della critica della conoscenza dovessero essere predisposti nello spirito, non potrebbero essere tutti contemporaneamente l’alfa e l’omega. Ma la critica della conoscenza non si regola affatto sullo spirito conoscente, ma sul contenuto della conoscenza»87. Ma dove è riposto questo «contenuto»? Riehl, che voleva difendere un realismo fedele a Kant, si trova a scrivere di «Thatsache einer von der Erfahrung unabhängingen Anschauung» e di «Factum von Begriffen a priori»88. E in fondo anche per Cohen la struttura logica dei principi e delle idee rappresentava quel “dato” della Critica che lo porta poi a precisarli nella struttura problematica del fatto-scienza. E nono-

84

Cfr. E. Cassirer, Erkenntnistheorie nebst den Grenzfragen der Logik, cit., pp. 151-152, trad. it. cit., pp. 14-15. 85 Ivi, p. 152, trad. it. cit., p. 15 (corsivi miei). 86 Leggiamo qui l’identificazione tra «il nuovo concetto di esperienza» formulato da Kant e quello di «scienza matematica della natura», cfr. H. Cohen, Das Prinzip der Infinitesimal-Methode und seine Geschichte, cit., pp. 8 e 11. 87 H. Cohen, Das Prinzip der Infinitesimal-Methode und seine Geschichte, cit., pp. 9-10. 88 A. Riehl, Der philosophische Kriticismus und seine Bedeutung für die positive Wissenschaft. Erster Band. Geschichte und Methode des philosophischen Kriticismus, cit., p. 342 (corsivi miei).

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stante le profonde differenze con il neokantismo del Baden89, ecco che anche qui, cioè nel momento in cui si pone l’accento più direttamente sulle forme logiche, e su quelle del giudizio, si fa avanti la sfera lotzeana della validità, che è appunto a suo modo un “regno” che assicura alla filosofia un suo specifico dominio: «i giudizi non sono sintesi puramente concettuali di rappresentazioni, puri atti di pensiero che le unificano; i giudizi valgono, significano qualcosa delle cose, sono atti di conoscenza. La relazione ad un oggetto [Object] è essenziale al giudizio»90. Come ha scritto ancora Holzhey parlando dei marburghesi, «nel Faktum di riferimento della “conoscenza scientifica” è già presupposta la validità di giudizi (“validità oggettiva”)»91. Nella Fondazione kantiana dell’etica Cohen aveva del resto scritto: «la realtà [Realität] dev’essere intesa come pensiero concettuale, non come rappresentazione intuitiva, intuibile; come indice di valore [Wertzeichen] di una validità conoscitiva [Erkenntnisgeltung] e nient’altro»92. Insisto su questo tema perché si pongono qui insieme – mi sembra – da un lato le basi della lettura di Kant come punto di non ritorno (anche se non per questo a tutt’oggi definitivamente acquisito dalla Kantforschung), dall’altro lato la “fatale” opzione per “la scienza” di cui parlava Heidegger. Ed è questo secondo aspetto che travagliando il neokantismo dal suo interno prepara teoricamente altre soluzioni, quella fenomenologica anzitutto. Che è poi l’unica, credo, che il neokantismo, giustamente, avverte come ancora erede della rivoluzione del criticismo, rispetto all’insorgere delle tematiche in ultima analisi neoromantiche della vita, dell’intuizione, del sentimento.

89 Su questo rapporto si veda il ricordo di Riehl scritto da Rickert: Alois Riehl, «Logos», 13 (1924-1925), pp. 162-185. 90 A. Riehl, Der philosophische Kriticismus und seine Bedeutung für die positive Wissenschaft. Erster Band. Geschichte und Methode des philosophischen Kriticismus, cit., p. 317 (corsivo mio). Per esprimere la sua distanza appunto dal neokantismo, Heidegger esprime allora la convinzione che «il luogo di origine della verità non è il giudizio» (cfr. M. Heidegger- H. Rickert, Briefe, cit., p. 70; Heidegger rimanda a questo riguardo a Aristotele, Metafisica, IX, 10, oltre che, in seguito, a Leibniz). Il curatore precisa che si tratterebbe di IX, 1051 a 34 – b 9. Le righe cioè in cui Aristotele tratta dell’essere e del non essere come vero e come falso. (E per incidens ricordiamo che il problema del giudizio negativo gioca un ruolo significativo nel panorama della riflessione teoreticoconoscitiva del neokantismo. Si veda Verneinung, Andersheit und Unendlichkeit im Neukantianismus, hrsg. von P. Fiorato, Königshausen & Neumann, Würzburg 2009, in particolare U. Renz, Hermann Cohens erkenntnistheoretische Funktionsbestimmung des Urteils der Verneinung im Vergleich zu Gottlob Freges Theorie der Verneinung, pp. 69-91). Qui tuttavia mi parrebbe che Heidegger pensi piuttosto a IX, 1051 b 21 – 1052 a 3, dove cioè Aristotele scrive che per gli esseri incomposti il vero è l’intuire e l’enunciare, mentre non coglierli significa non conoscerli, che è argomentazione direttamente in linea con l’affermata non originarietà del giudizio, che non significa però un appello all’intuizione o all’intuizione di essenza. 91 H. Holzhey, Zu Natorps Kantauffassung, cit., p. 143. 92 H. Cohen, Kants Begründung der Ethik, cit., pp. 28-29, trad. it. cit., p. 34.

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Se sta appunto in questo primato della sintesi l’indebolimento, se non la soppressione, dell’intuizione nella fondazione della conoscenza – ma se e solo se intesa come esterna alla correlazione trascendentale –, l’importante è allora vederne le conseguenze non soltanto nell’accentuato carattere costruttivo dell’esperienza ma anche nella sua immagine speculare, il fatto cioè che ora l’esperienza è portatrice dell’intero tenore di significato e di senso. Voglio dire che se il neokantismo conosce – come si è sempre riconosciuto – un ampliamento dei suoi apriori verso il tutto della cultura, e quello che è stato chiamato un loro dinamicizzarsi o relativizzarsi, in questi termini a ben guardare vaghi e sfuggenti, e poi nell’incontrare i nuovi temi emergenti ontologici e fenomenologici, sta il problema di rendere fruttuosa oltre Kant la cesura e la rivoluzione kantiana, garantendo cioè alla filosofia un rapporto di stretta vicinanza ma non di dipendenza con il tutto della multiforme esperienza. L’ambizione neokantiana è quella di rappresentare la vera eredità di Kant: quella che consegna ai suoi posteri la consapevolezza di non avere bisogno di trascendere l’esperienza per fondarla, e insieme il problema di giustificare una gradualità di fondazioni e di evidenze all’interno di un orizzonte che si sa essere sì infinito ma non trascendibile, anzi intrascendibile proprio in quanto infinito. Un momento significativo nel quale questa problematica emerge con esemplare chiarezza – e come esempio la ricordo anzitutto nell’interpretazione del dettato kantiano, ma portando in primo piano la questione teorica di fondo – è l’interpretazione dell’esposizione e della deduzione metafisiche dello spazio e del tempo e delle categorie, e il convincimento tutto sommato diffuso che le corrispondenti trattazioni trascendentali dimostrino a sufficienza l’intreccio tra sensibilità e intelletto rendendo pressoché inessenziale lo schematismo. Naturalmente il problema è ben altrimenti complesso. Mi limito a una considerazione e a due citazioni che provano questa linea di lettura. Come si è detto, la preoccupazione che accomuna l’interpretazione neokantiana è quella di trovare un luogo teorico ideale nel quale – o rispetto al quale – intuizione e concetti abbiano esattamente il medesimo statuto trascendentale, e abbiamo visto come, certo non senza seri problemi, questo “luogo” sia ora l’“esperienza”, ora la “coscienza”, ora il “logico”, ora la “validità”. Riehl lavora anzitutto sul piano della validità logica. «La necessità di mediare tra concetto e intuizione […] nasce per Kant dalla disuguaglianza delle due rappresentazioni. L’applicazione logica di un concetto a un altro […] avviene mediante la sussunzione di una rappresentazione all’altra. Ora però il concetto è indeterminato e generale, l’intuizione determinata e individuale. Come può allora l’intuizione essere sussunta sotto il concetto e da esso determinata? In questa forma io non vedo la difficoltà. […] In questo caso […] Kant ha dato troppa autorità alla logica tradizionale, benché proprio lui abbia posto il fondamento per una più corretta teoria del concetto. Egli ha chiarito che il con-

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cetto è la regola dell’unità nella sintesi della rappresentazione. […] Se non vado errato, [gli schemi] sono in senso proprio concetti e il di più non è altro che la parola che designa queste rappresentazioni e non una rappresentazione ulteriore coglibile di per sé»93. Cassirer lavora anzitutto sul piano della datità dell’esperienza. «Lo schematismo riunisce così davvero l’intuizione pura al concetto puro, riconducendo entrambi ancora una volta alla loro comune radice logica. Anche i contenuti dell’intuizione non sono dati in estrema analisi se non attraverso il procedimento della costruzione. […] Una volta […] riconosciuto [che i due ceppi della conoscenza stanno in un rapporto di reciproca integrazione] certo può tranquillamente cadere la dottrina dello schematismo»94. Va detto per altro che più tardi, nella recensione al Kantbuch di Heidegger, Cassirer si esprime in modo diverso. Con un significativo rimando, conclusivo del periodo da cui cito, al terzo volume della Filosofia delle forme simboliche, nel quale anche l’intuizione è definita «“discorsiva”», nella misura in cui raccoglie «in uno sguardo unico […] una molteplicità di elementi»95, Cassirer scrive: «mi è sempre sembrato come il segno più singolare del completo disconoscimento dell’intento fondamentale di Kant il fatto che si incontri ripetutamente nella letteratura su Kant l’idea che egli avrebbe “inventato” artificiosamente la dottrina dello schematismo […]. Forse si finirà per riconoscere una buona volta l’assurdità di questo rimprovero, se ci si concentrerà sull’esposizione approfondita […] che Heidegger ha dato del capitolo dello schematismo. Su questo punto io stesso non posso che sottolineare la mia piena adesione alla concezione di Heidegger»96. Ma qual è davvero «questo punto»? Mi pare sia quello indicato forse ancora non del tutto perspicuamente da Cohen già nel 1871. La conoscenza si riferisce sempre all’intuizione nella misura in cui è conoscenza effettiva, nel momento cioè in cui non se ne definiscono isolatamente le parti, ma se ne indica la validità di conoscenza effettiva. Con le parole di Cassirer, in questo stesso testo: «il servizio che l’intelletto rende all’intuizione […] è per l’intuizione, non sotto di essa. Ha di mira l’intuizione, senza però assoggettarsi e sottomettersi semplicemente ad essa. Ciò è tanto vero, che l’essere dell’intuizione, come intuizione determinata, […] dipende dalla funzione dell’intel-

93 A. Riehl, Der philosophische Kriticismus und seine Bedeutung für die positive Wissenschaft. Erster Band. Geschichte und Methode des philosophischen Kriticismus, cit., pp. 401- 402. 94 E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem, in Id., Gesammelte Werke, Bd. 3, cit., pp. 598-600, trad. it. di G. Colli, Storia della filosofia moderna, vol. II, Einaudi, Torino 1953, pp. 774-776. 94 E. Cassirer, Kant und das Problem der Metaphysik, cit., pp. 229-230, trad. it. cit., pp. 113114 (corsivi miei). 95 E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, in Id., Gesammelte Werke, Bd. 13, Meiner Hamburg 2002, p. 332, trad. it. di E. Arnaud, Filosofia delle forme simboliche, vol. III, 2, La Nuova Italia, Firenze 1966, p. 13.

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letto»97. Credo si possa e si debba mettere in risalto come al di là delle significative differenze, la nota che accomuna la lettura neokantiana di questo punto cruciale dell’interpretazione di Kant sia il modo di interpretare lo statuto trascendentale delle forme sensibili. Potrebbe sembrare un’ovvietà, eppure quello che mi pare sia più significativo è la consapevolezza che per affermare la radicale novità della Critica il momento decisivo fosse proprio quello di assicurare alle strutture dell’argomentazione logica e razionale una presa sul dato non successiva, senza però uscire da quella connotazione di limite che l’idealismo post-kantiano aveva oltrepassato. Il nesso tra intuizione e pensiero non dev’essere istituito, perché è da sempre in atto; farne tema specifico di indagine significa indicare i modi specifici di questo nesso. La via maestra di questa interpretazione il neokantismo ha cercato di tracciarsela riportando il limite entro le strutture del trascendentale, e quindi cercando di mostrare che l’attrito, la resistenza opposta alla libertà del costruire intellettuale è una resistenza “interna”, ma solo nel senso che è correlativa alle diverse modalità del costituire stesso. L’intrascendibilità dell’esperienza è data non da un confine, come da uno sbarramento posto da un elemento estraneo al conoscere e all’esperienza, ma dal limite che ogni forma di esperienza costitutivamente reca in sé quale sua specifica fisionomia. Che in un certo modo, allora, all’intuizione si arrivi, anziché partire da essa, vuol dire soltanto che l’apporto specifico di questa, per essere colto nella sua fisionomia determinata, può essere indicato soltanto possedendo già anche la fisionomia del suo correlato. Questa interpretazione “successiva” dell’intuizione è per esempio così espressa da Rickert: «il termine “intuitivo” [anschaulich] […] non ha nulla a che fare con il “vedere” [sehen]. Chiamiamo “intuitivo” tutto ciò che, in senso gnoseologico, può immediatamente divenire oggetto; sia che si tratti di qualcosa di psichico, sia che si tratti di qualcosa di fisico»98. Come si è detto, il Cohen del 1871 non assume senz’altro il sapere matematico e fisico come origine dello «Zurückfragen», e mi sembra molto interessante, allora, il suo appoggiarsi piuttosto all’esperienza considerata «come un enigma da risolvere»99. Per Cohen, la prima delle tesi kantiane nell’esposizione metafisica del concetto di spazio: «lo spazio non è affatto un concetto empirico, che sia stato 97

Ivi, p. 232, trad. it. cit., p. 115. Cassirer dice «per» l’intuizione come Cohen aveva detto «per» la sensazione. 98 H. Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung. Eine logische Einleitung in die historischen Wissenschaften, Mohr, Tübingen 1896-1902, p. 185 nota, trad. it. a cura di M. Catarzi, I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale. Un’introduzione logica alle scienze storiche, Liguori, Napoli 2002, p. 101. (Corsivi miei. Questa nota scompare in questa forma nelle edizioni successive). 99 Cfr. Kants Theorie der Erfahrung, cit., p. 3, trad. it. cit., p. 37. «La soluzione di questo enigma è il contenuto della filosofia kantiana».

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tratto da esperienze esterne»100, è diretta «contro il concetto di esperienza della filosofia dell’esperienza». Ma si badi a come Cohen pensa che Kant argomenti contro le tesi empiristiche a favore di un’apriorità dello spazio. Riporto il passo a mio avviso cruciale: la tesi di Kant vuol dire in primo luogo: «secondo il concetto di esperienza che voi avete, lo spazio non può essere contenuto nell’esperienza. Il vostro concetto di esperienza è dunque sbagliato. D’altro canto però lo spazio non può essere ricavato [corsivo di Cohen] dalle esperienze esterne. Questo vuol dire: non è un Abstractum [corsivo di Cohen]; non lo si può contrapporre alle esperienze esterne come un qualcosa di totalmente diverso. Non può però non trovarsi dentro l’esperienza. Dunque il vostro concetto di esperienza è ancora una volta sbagliato»101. Come si vede, Cohen insiste sul fatto che la rivoluzione di Kant presenta una nozione di esperienza nella quale vanno reperite le note che ne stabiliscono la fisionomia oggettiva e universalmente valida. Se si esibiscono condizioni di validità, forme costitutive che non si presentano effettivamente già nell’esperienza, ci si muove sul piano dei vecchi apriori metafisici. Questa esigenza speculativa di Cohen nella sua iniziale riscoperta di Kant è chiarissima ed estremamente importante. Ed è questa esigenza il filo conduttore della parabola neokantiana102. Quando Heidegger obietta a Cassirer che il neokantismo dimentica che a Kant interessa l’ontologia generale, la metafisica generale, che precede le ontologie regionali, muove un’obiezione sottilmente problematica. Perché in fondo sarà proprio il problema di come configurare questo “generale” rispetto alle forme particolari di fatticità a travagliare il percorso del neokantismo. Sarà proprio il problema di che cosa si debba intendere per esperienza a segnare da un lato l’accentuarsi del peso del logico, del categoriale, quando cioè sembra che l’esposizione sistematica di queste condizioni sia il vero impegno della filosofia dal momento che un’“esperienza” permeata di queste condizioni si presenta con la sua più compiuta esemplarità nelle forme più alte di formalizzazione. Windelband scriveva che «il compito e il risultato ottenuto della teoria kantiana dell’esperienza sta nella fondazione del lavoro scientifico sui suoi principi immediatamente evidenti», su quel «Selbstverständliches», che un richiamo di tipo positivistico alla scienza non coglie; e la proposta è che si diano delle validità latenti, dei «principi silenziosi» che l’«attenzione astraente alla nostra esperienza» potrà portare alla luce103. Il modo in cui i neokantiani interpretano il passaggio dalla deduzione metafisica alla deduzione trascendentale delle categorie funge bene come cartina 100

KrV, A 23/B 38, trad. it. cit., p. 78. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, cit., pp. 7-8, trad. it. cit., p. 41. 102 Sulla collocazione del neokantismo in questa costellazione problematica è utile Neukantianismus, Idealismus, Realismus, Phänomenologie, hrsg. von H. Holzhey, W. Röd, Beck, München 2004. 103 W. Windelband, Immanuel Kant, cit., pp. 123-124 (corsivi miei). 101

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di tornasole del significato attribuito di fatto a queste funzioni della ragione. Ancora nei più significativi studi sulla Critica, anche meno immediatamente impegnati in interpretazioni teoriche complessive di Kant, questo nesso ha un significato emblematico rispetto al segnare l’accento sull’impegno prevalentemente logico o giustificativo, e quindi anzitutto rivolto alla ragione come insieme di procedure argomentative, o come insieme di forme in ultima analisi simboliche, dell’impresa critica104. Ancora una volta la posizione marburghese è ben riassunta da Cassirer: la logica trascendentale viene “dopo” la logica generale perché ne fa il suo oggetto, e viene “prima” perché ne fonda la possibilità105. «Una logica formale e “classificatoria” non è possibile senza un’anteriore logica “trascendentale” delle relazioni e dei modi di connessione originari»106. È stato detto che Cohen non ha attribuito troppo significato alla deduzione trascendentale. E lo stesso si potrebbe osservare per l’esposizione offerta da Cassirer nell’Erkenntnisproblem e poi nella monografia kantiana, almeno rispetto all’attenzione che questa parte cruciale della Critica – che lo stesso Kant aveva indicato come decisiva107 – riceve di solito da parte dei commentatori. Il luogo in cui si costituisce la conoscenza è il giudizio, che però non è indagato nel suo formarsi ma nella sua struttura logica e legale; il soggetto, l’io, e l’oggetto, sono espressione dell’unica legalità fondamentale che è quella dell’esperienza in generale e dunque perde di drammaticità il bisogno di dimostrare, di dedurre in senso kantiano, che le categorie si applicano effettivamente all’esperienza e producono una conoscenza oggettiva. Il momento applicativo o realizzativo delle forme categoriali dalla loro esposizione e dal loro reperimento nella deduzione metafisica alla deduzione trascendentale assume piuttosto la fisionomia di un passaggio verso un’unificazione della loro funzionalità. Nella prima edizione di Kants Theorie der Erfahrung la stessa deduzione metafisica si presenta come un affinamento di quella empirica: Kant si porta sul medesimo terreno d’indagine di Locke e di Hume per scoprire «mediante l’indagine [Einsicht] sulla differenza delle componenti dell’esperienza»108 che ci sono condizioni di possibilità senza le quali quelle esperienze si rivelano impossibili. E la deduzione trascendentale, 104 Mi limito a ricordare il libro importante di B. Longuenesse, Kant et le pouvoir de juger, PUF, Paris 1993, che legge la stesura della tavola delle categorie come nucleo logico dal quale deriva poi l’impegno della giustificazione trascendentale. 105 Cfr. E. Cassirer, Kants Leben und Lehre, cit., pp. 184-186, trad. it. cit., pp. 206-207. 106 E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem, in Id., Gesammelte Werke, Band 3, cit., p. 566, trad. it. cit., p. 734. 107 KrV, A XVI, trad. it. cit., pp. 12-13: «per l’approfondimento della facoltà, che noi chiamiamo intelletto, ed al tempo stesso per la determinazione delle regole e dei limiti del suo uso, io non conosco delle ricerche che siano più importanti di quelle che ho condotto nel secondo capitolo dell’Analitica trascendentale, sotto il titolo di Deduzione dei concetti puri dell’intelletto». 108 H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, cit., p. 122, trad. it. cit., p. 144.

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che ha il «compito di dimostrare questo accordo delle fonti dell’esperienza tra di loro», è una ricerca che «si può ben chiamare psicologica», ma solo nel senso che le forme rinvenute nel pensiero empirico si rivelano non categorie psicologiche, ma «condizioni gnoseologiche della possibilità dell’esperienza»109. Va messo in risalto come fino a che non è maturata in modo netto l’opzione per la scienza o la cultura come “luogo” dal quale parte l’indagine critica, all’antipsicologismo esplicito non si accompagna ancora un accantonamento di quel “trovare” tipico dell’indagare psicologico. La contaminazione di psicologico e trascendentale è ancora presente nella prima edizione di Kants Theorie der Erfahrung. Kant scrive nella Sezione terza della versione A della Deduzione che «L’unità dell’appercezione in riferimento alla sintesi della capacità di immaginazione è l’intelletto»110, e Cohen, come si sa fautore piuttosto della versione B, commenta: «questa frase è importantissima. L’intelletto, che siamo abituati a considerare in Kant come facoltà dell’anima, viene qui indicato come espressione della relazione di due funzioni psichiche»111, che poco dopo Cohen indica però come «due condizioni trascendentali»112. E nel “primo” Cassirer, quello dell’Erkenntnisproblem, vediamo come lo spazio e il tempo, quali «primo passo della nostra attività formatrice», siano indicati come un dato fenomenologico: «in un senso puramente fenomenologico, funzione e contenuto non sono qui [nello spazio e nel tempo] separati nella nostra concezione [Auffassung] immediata; essi possono venir separati solo successivamente attraverso la riflessione»113. Questo passaggio dalla funzione psichica alla condizione trascendentale, questo ricorso ad un approccio fenomenologico, sono in questo momento il segno dell’emergere di un problema che sarà di sempre maggior peso: si può accedere direttamente alle forme che costituiscono l’esperienza, alla sfera del logico, alla sfera della validità? Forse ancora più esattamente: garantire questo accesso è necessario affinché la filosofia non debba dipendere dai fatti della cultura? Per rispondere positivamente senza ricadere nella psicologia si affacciano la ripresa di un’“ontologia” del logico o, in seguito, il progetto husserliano. Restando all’interpretazione della Critica, la risposta neokantiana si orienta come si sa nel senso di leggere positivamente il passaggio dalla Deduzione A alla Deduzione B come un rafforzamento dell’antipsicologismo, rafforzamento che porta decisamente in primo piano la struttura oggettiva della Deduzione medesima, o meglio ancora la proietta sull’Analitica dei Principi che diventa il compimento della Critica, perché è il luogo in cui viene resa com109

Ivi, p., 124, trad. it. cit., p. 146. KrV, A 119, trad.it. cit., p. 194. 111 H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, p. 136, trad. it. cit., p. 155. 112 Ivi, p. 144, trad. it. cit., p. 161. 113 E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem, in Id., Gesammelte Werke, Bd. 3, cit. pp. 585-586, trad. it. cit., pp. 758-759. 110

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piutamente al livello delle sue condizioni trascendentali la forma della conoscenza scientifica. Questo passaggio è letto anche come «elevazione» dalla «coscienza dell’oggetto», la deduzione soggettiva, «al concetto stesso», alla deduzione oggettiva, per usare le parole di Bauch114. In questo caso l’accento cade piuttosto – sulla scia soprattutto dell’impostazione rickertiana del Gegenstand der Erkenntnis – sull’individuazione, nella Critica, di una nozione di “oggetto” che, nella correlazione, non si risolva però in quel residuo, o in quella X, in cui finiva poi per risolverlo l’interpretazione marburghese. Bauch commenta che se per Kant l’essere dell’oggetto non è più dato in senso assoluto, risolverlo nel problema – il noto passaggio marburghese dal Gegeben all’Aufgegeben – risponde solamente alla fisionomia dell’oggetto rispetto al soggetto, ma non qualifica sufficientemente un’autonoma fisionomia dell’oggetto medesimo. Bauch pensa che Kant non sia pienamente riuscito a costituire questa piena oggettività dell’oggetto per il permanere della cosa in sé, pensa che in Kant si dia un’«antinomia» irrisolta tra il mantenere all’oggetto una differenza rispetto al conoscere e il dire che fuori della conoscenza esso non è nulla, e propone una via di soluzione che si affida a un’idea di essere come validità o come valore, che però, a differenza degli esiti marburghesi, dovrà configurarsi come validità in qualche modo in sé, e non come validità di facta. Scrive significativamente: «l’oggetto non esiste al di fuori della conoscenza, ma vale indipendentemente dal conoscere. […] L’essere della validità è però la conformità a regole trascendentali»115. «Concetto e oggetto non sono altro che regole; il concetto regola dell’unire, l’oggetto regola dell’essereunito»116. Una forma di teoria dell’oggetto che riconosce a quest’ultimo una sua speciale “realtà” comincia a porsi già all’interno della cornice neokantiana, soprattutto nella versione sud-occidentale, più permeata dal pensiero lotzeano. Cassirer aveva già osservato come fosse facile scivolare dall’indagine sulle forme trascendentali a quella su “cose”: via via che si affina l’attenzione a non scivolare su “cose” nel senso di processi psichici, si articola sempre di più uno slittamento dal trascendentale nel puro logico, e di qui a un’individuazione di “contenuti”, “oggetti”, “materia” del conoscere del tutto dereificati, nell’accezione ancora empiristica e/o psicologica del termine. Lask pensa che sia questa la strada senza ritorno imboccata dall’oggettivismo di Kant. Nella sezione dedicata a Kant e l’epoca moderna del capitolo IV, Le categorie filosofiche nella storia della filosofia teoretica, de La logica della filosofia e la dottrina delle categorie, scrive infatti: «nella misura in cui Kant è all’origine [der Urheber] della solidarietà tra concetto della conoscenza e concetto delle categorie, nella sua filosofia teoretica si trovano appunto tutte le premesse 114

B. Bauch, Immanuel Kant, cit., p. 214. Ivi, p. 217. 116 Ivi, p. 223. 115

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della nostra tesi che richiede l’estensione del problema delle categorie al nonsensibile»117. Se affrontate cioè “direttamente” le categorie si offrono all’indagine nella forma di un rivestimento categoriale überhaupt valido per l’oggettualità a sua volta überhaupt. Ma come ha scritto Courtine, Lask, che più di ogni altro si sforza di circoscrivere per questa via una «urbildliche Gegenstandsregion» attraverso una pura delineazione della sfera del logico, non riesce però a «situare chiaramente su una carta filosofica o trascendentale questa regione» a causa della completa «sconnessione» o «decouplage» di essa dalla soggettività118. Restando allora più all’interno del rapporto con Kant, merita quindi che si consideri ancora più da vicino, che cosa ne è dell’attenzione alla “via soggettiva”, alla direzione verso il soggetto, che almeno nelle dichiarazioni non è meno importante del processo di oggettivazione. E l’importanza sembra destinata ad accrescersi quando si accresce l’attenzione per la ricchezza delle modalità del configurare e del formare di cui la soggettività dispone, quando si vuole ampliare lo spettro dell’“esperienza’, sottraendola alla limitazione, sia pure somma, dell’esperienza scientifica. Il recupero di un’esperienza meno formalizzata sembrerebbe non poter avvenire se non passando attraverso il pluralizzarsi degli atti di un soggetto, in prima istanza volutamente sacrificato rispetto all’individuazione della condizione generale di oggettualità e oggettività dell’esperienza, individuazione che si appoggiava sempre di più all’identificazione di conoscenza e scienza. Natorp puntualizzava che parlare di costruzione dell’oggettività, come pure egli stesso aveva fatto, non doveva far pensare a un’«azione spontanea del soggetto»: «chi realizza tutto ciò è la conoscenza oggettiva, la scienza, e non si parla perciò di azioni spontanee del soggetto»119. Anche in questo contesto un’osservazione del primo Heidegger, certo fortemente debitore di Husserl, può essere per noi illuminante. Nel breve capitolo conclusivo della Habilitationsschrift del 1915 su Duns Scoto, intitolato Il problema delle categorie, al quale Rickert rimandava, come si è visto, in una sua lettera, Heidegger osservava che una volta interpretate le categorie come «elemento e strumento della Sinndeutung dell’oggettività», una volta interpretate le categorie come elementi della logica trascendentale – e la filosofia trascendentale significava la fondazione di ogni asserto sull’essere in una funzione originaria della ragione, significava che ad ogni modalità specifica del giudizio, la cui analisi consente di arrivare alla determinazione dell’oggetto, l’analisi critica fa corrispondere una forma particolare di oggetto – una volta poste queste premesse, ne discendeva 117

E. Lask, Die Logik der Philosophie und die Kategorienlehre, cit., p. 263. F. Courtine, La nature et le lieu du logique chez Emil Lask, in Id., La cause de la phénoménologie, PUF, Paris 2007, pp. 123-144 (p. 143). 119 P. Natorp, Allgemeine Psychologie nach kritischer Methode, Mohr, Tübingen 1912, p. 209. 118

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che la realizzazione di questo compito chiamava inevitabilmente in causa il problema del giudizio, dato che «una teoria generale dell’oggetto soltanto “oggettiva” resta necessariamente incompleta senza l’inclusione del “lato soggettivo”. Così ogni diversità è certamente diversità di realtà oggettuale, ma, ancora una volta, solo come diversità conosciuta, giudicata»120. Alla soggettività era stato assegnato un significato non soltanto de-ontologizzato, ma anche depotenziato del suo valore di atto costituente. La soggettività kantiana, aveva scritto Cassirer, «non significa nulla di diverso da quanto afferma la svolta copernicana: designa il partire non dall’oggetto, ma da una legalità specifica della conoscenza, […] la sola “soggettività” di cui qui si tratta è l’iniziare dalla natura specifica della funzione conoscitiva, per definire in essa la natura specifica dell’oggetto conosciuto»121. Il neokantismo – forse soprattutto con la psicologia di Natorp – si muove consapevolmente nella direzione di individuare una nozione di atto che non implichi attività in senso psichico, una configurazione di un insieme di funzioni come modi del costituire che possano essere però descritti indipendentemente dagli oggetti che hanno costituito. Ancora una volta il rischio dello psicologismo e della metafisica appare evitabile solo affidandosi a un lavoro di analisi all’interno dell’esperienza. In qualche modo siamo ancora al tentativo di dichiararsi fedeli al progetto kantiano di «isolare» le componenti di un qualcosa che è dato come già sempre in atto e non trascendibile. Ma sino a che non si delinea – quale che sia poi l’esito di questo tentativo – il progetto di una struttura non psicologica e tuttavia attiva della coscienza, essenzialmente in linea con la versione husserliana dell’intenzionalità, nelle coordinate del neokantismo la soggettività resta qualcosa di in ultima analisi “sospetto”. Il ruolo della filosofia di Kant per una teoria critica della psicologia, per una teoria critica della coscienza, Natorp lo rintraccia, significativamente, nella posizione di un diverso tipo di

120 M. Heidegger, Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, in Id., Gesamtausgabe, Bd. 1, cit., pp. 189-411, (p. 400), trad. it. di A. Babolin, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, Laterza, Roma 1974, p. 247. Scrive ancora Heidegger: «La categoria è la più generale determinatezza dell’oggetto. Oggetto e oggettualità hanno, come tali, senso unicamente per un soggetto. In questo l’oggettività si costruisce per mezzo del giudizio. Se si vuole in tal modo concepire decisamente la categoria come determinatezza dell’oggetto, essa dev’essere posta in essenziale relazione con la struttura [Gebilde] che costruisce l’oggettualità. Perciò non è puramente un “caso”, ma è fondato nel nocciolo intimo del problema delle categorie, se, sia in Aristotele sia in Kant, questo problema viene posto in un qualche rapporto con la predicazione, ossia con il giudizio». 121 E. Cassirer, Kants Leben und Lehre, cit., pp. 162-163, trad. it. cit., pp. 181-182. In Substanzbegriff und Funktionsbegriff era già stata argomentata una nozione di soggettività non come punto di partenza del processo della sintesi costruttiva ma come «risultato di un’analisi, la quale presuppone il sussistere dell’esperienza» (p. 301, trad. it. cit., p. 370).

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oggetto, (che anzitutto è il Sollen rispetto al Sein)122. È essenzialmente soltanto dal volere rendere conto della diversità, gradualità, reciproca irriducibilità delle forme di oggettivazione che il neokantismo è spinto a riaffrontare seriamente la “via soggettiva”. Natorp si propone di rendere inequivoca la distinzione tra deduzione soggettiva e deduzione oggettiva che Kant opera nella Prefazione alla prima edizione della Critica123. Inequivoca nel senso di escludere che si sia in presenza di una fondazione dell’oggettività «in funzioni soggettive della conoscenza». Come si vede, proprio in un testo in cui si è alla ricerca di una fondazione della psicologia secondo il metodo critico, anche parlare di «funzioni» è escluso. La ripresa dell’ispirazione più autentica di Kant torna a imperniarsi sul primato dell’oggettività, e quello che si affaccia all’orizzonte è un interessantissimo confluire in una sintonia con la prospettiva husserliana della sospensione della validità del sapere costituito124. Nella Psicologia del 1888 è già detto chiaramente che non si danno due serie distinte di fenomeni, quelli fisici e quelli psichici, e che il «monismo dell’esperienza» sostenuto da Kant125 significa che la conoscenza oggettiva è una e una sola, e in essa si possono distinguere condizioni differenti, nel senso che la via soggettiva, intrapresa dalla psicologia secondo il metodo critico, può mostrare l’immediato che costituisce il presupposto soggettivo del concetto oggettivo. Ma è soltanto a partire dal contenuto concettuale che può essere ricostruito il contenuto della coscienza. Il processo di oggettivazione, «le leggi, i fondamenti esplicativi della scienza oggettiva sono» per la considerazione soggettiva «ciò che ha bisogno di essere spiegato, ciò che deve essere ricondotto al fondamento soggettivo 122 Cfr., in modo esemplare, P. Natorp, Allgemeine Psychologie nach kritischer Methode, cit., p. 19 e 143. 123 Questo il notissimo testo kantiano: «Questa trattazione, indirizzata alquanto in profondità, ha peraltro due aspetti. Uno di essi si riferisce agli oggetti dell’intelletto puro, e deve mostrare e rendere comprensibile la validità oggettiva dei suoi concetti a priori; proprio per questo esso è altresì pertinente essenzialmente ai miei scopi. L’altro aspetto tende a considerare l’intelletto puro come tale, secondo la sua possibilità e le capacità conoscitive su cui esso stesso si fonda, a considerarlo quindi in una relazione soggettiva. E sebbene questa indagine sia di grande importanza nei riguardi del mio scopo principale, essa tuttavia non vi appartiene essenzialmente, poiché la questione capitale rimane sempre: che cosa ed in che misura possono conoscere intelletto e ragione, indipendentemente da ogni esperienza? – e non: come è possibile la facoltà di pensare in quanto tale?» (KrV, A XVI-XVII, trad. it. cit., p. 13). 124 Non è facile stabilire la cronologia esatta delle possibili influenze reciproche. Che del resto non sono importanti qui rispetto al rilevare il porsi di un comune luogo teorico. Natorp aveva impostato la tematica già nel 1888, nell’Einleitung in die Psychologie nach kritischer Methode, testo che Husserl possedeva, ma che contiene annotazioni a margine che rimandano all’Allgemeine Psychologie uscita nel 1912, e sulla pagina III della sua copia di quest’ultimo testo – in cui pure sono indicati rimandi all’opera precedente – Husserl annota: «Anfang Sept. 1918». 125 Cfr. P. Natorp, Einleitung in die Psychologie nach kritischer Methode, Mohr, Freiburg 1888, pp. 73-74.

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dell’immediato»126. Natorp dà per «semplice e chiaro» questo duplice processo; ma il fatto che egli non sia riuscito se non a enunciare il progetto della considerazione soggettiva dipende in ultima analisi dal primato della considerazione oggettiva. Per giungere ai germi prescientifici della coscienza scientifica occorre per così dire «wieder ungeschehen machen»127 l’oggettivazione raggiunta. Ma sospendere l’atteggiamento oggettivante senza legittimare la deduzione soggettiva finisce col fare sì che la kantiana intrascendibilità dell’esperienza assuma con chiarezza il significato dell’antecedenza logica della costruzione: rispetto a questa antecedenza, allora, il mantenere ferma la correlazione tra il polo soggettivo e quello oggettivo128 si andrà vieppiù configurando come la scelta tra la rinuncia a un’unità costituente, quando si rimanga più vicini alla molteplicità delle forme dell’esperienza o al riconoscimento previo dei Fakta, e la rinuncia alla reale dualità di sensibilità e intelletto, quando si preferisca cercare un’unità delle funzioni129. I conti conclusivi con Kant, in questo contesto, appaiono chiusi in modo troppo facile. La kantiana unità della coscienza, – «che Kant l’abbia “intesa” così o altrimenti» – è «unità per la coscienza», dove la possibilità di riconoscere l’idealismo kantiano come un idealismo che archivia una volta per tutte l’opposizione idealismo oggettivo/idealismo soggettivo è affidata alla nuova «opposizione puramente metodologica tra “soggettivazione” e “oggettivazione”», ma del tutto fragilmente sino a che non si chiarisca “chi” applichi questo metodo, e “a che cosa” o muovendo “da che cosa”130. Per correggere la deriva soggettivistica alla quale l’uso kantiano di termini quali «Akt», «Tätigkeit», «Handlung», «Funktion», ha facilitato l’avvio, Natorp propone – a ben guardare le sue non poi molto approfondite osservazioni in proposito – che si legga il passaggio dalla redazione A alla redazione B della Deduzione trascendentale come un’accentuazione in senso logico della procedura kantiana. L’Io penso è allora senz’altro assimilato al Cogito cartesiano e il soggetto si identifica con la relazione soggettiva che «corrisponde» a quella oggettiva, en-

126

Ivi, p. 105. Ibid.; cfr. anche la Allgemeine Psychologie nach kritischer Methode, cit., p. 202. 128 Cfr. P. Natorp, Allgemeine Psychologie nach kritischer Methode, cit., p. 71: «Quello che a prima vista si presenta come il fronteggiarsi rigido di oggettivo e soggettivo si risolve del tutto nel vivente processo dell’oggettivazione da un lato e della soggettivazione dall’altro». 129 Credo di poter leggere in questo senso quanto afferma H. Holzhey, quando scrive che Cohen mantiene la fedeltà al “Faktum” «al prezzo di una sistematica solo molto labile», Natorp la rende più rigorosa «al prezzo del toglimento dei “Fakta” in un “Fieri” onnicomprensivo». Cfr. H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in Auslegungen. Hermann Cohen, hrsg. von A. Silbermann, Lang, Frankfurt am Main 1994, pp. 339-362 (p. 344). 130 Cfr. Allgemeine Psychologie nach kritischer Methode, cit., p. 213. Naturalmente Natorp non ha eluso questa difficoltà, andando, come noto, verso una ultima opzione per la continuità del Dasein e della vita, recuperati però muovendo dal punto di vista del logico. 127

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trambe “isolate” però a partire dall’«unità dell’oggettività (Objektivität)»131. Parlare di unità, di sintesi, non della ma per la coscienza obbliga evidentemente a definire “dove” si dia alla coscienza questa unità, e la coscienza stessa potrà – successivamente, dal punto di vista dell’accesso epistemico – assumere una fisionomia strettamente collegata, ma forse dipendente dalla fisionomia di quel “dove”. Il testo che meglio porta in evidenza il nodo di difficoltà in cui si chiude Natorp – e il neokantismo in generale – è la recensione all’Allgemeine Psychologie scritta da Reinach132. Questi, infatti, se da un lato contrapponendo la concezione fenomenologica del conoscere come «scoperta e visione di un ente» a quella neokantiana come «creazione o produzione»133, fa torto gravemente al neokantismo nel senso di tralasciare la complessità di quel “produrre” che – come si è visto proprio in relazione all’interpretazione di Kant – si era nettamente e consapevolmente voluto non configurare anticipatamente rispetto al fatto correlato, dall’altro indica altresì che il mantenimento forte della correlazione imponeva un «accesso al mondo proprio dell’essere psichico, il cui riconoscimento» è sostanzialmente «impedito» dalla concezione filosofica generale del neokantismo134. Quest’ultimo, peraltro, insistendo in vario modo sull’intrascendibilità dell’esperienza e obbligandosi così a non poter muovere da poche generalissime e rigidamente distinte facoltà della ragione, apriva, e al contempo consegnava, ad altre possibili soluzioni il come rendere le condizioni di possibilità della ricchezza di questa esperienza medesima.

131

Cfr. Allgemeine Psychologie nach kritischer Methode, cit., pp. 208-210. A. Reinach, P. Natorp, Allgemeine Psychologie nach kritischer Methode, pubblicata in «Göttingische Gelehrte Anzeigen», 176 (1914), pp. 193-214; poi raccolta in Id., Gesammelte Schriften, Max Niemeyer, Halle 1921, pp. 351-376, e infine in Sämtliche Werke, hrsg. von K. Schuhmann und B. Smith, Philosophia, München, Bd. I, pp. 313-331, trad. it. a cura di A. Salice in A. Reinach, La visione delle idee, a cura di S. Besoli e A. Salice, Quodlibet, Macerata 2008, pp. 145-166. 133 Ivi, p. 330, trad. it. cit., p. 164 134 Ivi, p. 324, trad. it. cit., p. 158. 132

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ANALISI FILOSOFICHE

Massimo Dell’Utri (a cura di), Olismo Rosaria Egidi, Massimo Dell’Utri e Mario De Caro (a cura di), Normatività, fatti, valori Massimo Dell’Utri, L’inganno assurdo. Linguaggio e conoscenza tra realismo e fallibilismo Giacomo Romano, Essere per. Il concetto di “funzione” tra scienze, filosofia e senso comune Sandro Nannini, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente Giancarlo Zanet, Le radici del naturalismo. W.V. Quine tra eredità empirista e pragmatismo Rosa M. Calcaterra (a cura di), Pragmatismo e filosofia analitica. Differenze e interazioni Georg Henrik von Wright, Mente, azione, libertà. Saggi 1983-2003 Elio Franzini e Marcello La Matina (a cura di), Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi Erica Cosentino, Il tempo della mente. Linguaggio, evoluzione e identità personale Francesca Ervas, Uguale ma diverso. Il mito dell’equivalenza nella traduzione Jlenia Quartarone, Causazione e intenzionalità. Modelli di spiegazione causale nella filosofia dell’azione contemporanea

CAMPI DELLA PSICHE

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François Regnault, Conferenze di estetica lacaniana e lezioni romane Luisella Mambrini, Lacan e il femminismo contemporaneo

DISCIPLINE FILOSOFICHE

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Luca Guidetti, La materia vivente. Un confronto con Hans Jonas Barnaba Maj, Il volto e l’allegoria della storia. L’angolo d’inclinazione del creaturale Mariannina Failla, Microscopia. Gadamer: la musica nel commento al Filebo Luca Guidetti, La costruzione della materia. Paul Lorenzen e la «Scuola di Erlangen» Mariateresa Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia Daniele Cozzoli, Il metodo di Descartes Francesco Bianchini, Concetti analogici. L’approccio subcognitivo allo studio della mente Marco Mazzeo, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza Vincenzo Costa, I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica Aldo Trucchio (a cura di), Anatomia del corpo, anatomia dell’anima. Meccanismo, senso e linguaggio Roberto Frega, Le voci della ragione. Teorie della razionalità nella filosofia americana contemporanea Carmen Metta, Forma e figura. Una riflessione sul problema della rappresentazione tra Ernst Cassirer e Paul Klee Felice Masi, Emil Lask. Il pathos della forma Stefano Besoli, Claudio La Rocca, Riccardo Martinelli (a cura di), L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere

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Clemens-Carl Härle (a cura di), Confini del racconto Paolo D’Angelo, Filosofia del paesaggio Francesca Iannelli, Dissonanze contemporanee. Arte e vita in un tempo inconciliato

FILOSOFIA E POLITICA

Massimiliano Tomba, La «vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia Alberto Burgio (a cura di), Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi Patrizia Caporossi, Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile Adalgiso Amendola, Laura Bazzicalupo, Federico Chicchi, Antonio Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione Paolo B. Vernaglione, Dopo l’umanesimo. Sfera pubblica e natura umananel ventunesimo secolo Dario Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida Mauro Farnesi Camellone, La politica e l’immagine.Saggio su Ernst Bloch Le vie della distruzione. A partire da «Il carattere distruttivo» di Walter Benjamin, a cura del Seminario di studi benjaminiani Ferdinando G. Menga, L’appuntamento mancato. Il giovane Heidegger e i sentieri interrotti della democrazia Paolo Vignola, La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura

LETTERATURE OMEOGLOTTE

Silvia Albertazzi e Roberto Vecchi (a cura di), Abbecedario postcoloniale I-II. Venti voci per un lessico della postcolonialità Matteo Baraldi e Maria Chiara Gnocchi (a cura di), Scrivere = Incontrare. Migrazione, multiculturalità, scrittura Silvia Albertazzi, Barnaba Maj e Roberto Vecchi (a cura di), Periferie della storia. Il passato come rappresentazione nelle culture omeoglotte Beatriz Sarlo, Una modernità periferica. Buenos Aires 1920-1930 François Paré, Letterature dell’esiguità Matteo Baraldi, I bambini perduti. Il mito del ragazzo selvaggio da Kipling a Malouf

LETTERE

Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo, opera, individuo Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo

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Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano Wilson Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna Paolo Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall’Apologetica al Nichilismo Guido Garufi (a cura di), In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi Christoph König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea Claudia Pozzana, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea Vito Santoro (a cura di), Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero

SCIENZE DEL LINGUAGGIO

John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del linguaggio

SCIENZE DELLA CULTURA

Francesco Fiorentino (a cura di), Icone culturali d’Europa Giovanni Sampaolo (a cura di), Kafka: ibridismi. Multilinguismo, trasposizioni, trasgressioni Flavio Cuniberto, La foresta incantata. Patologia della Germania moderna

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Le forme dell’anima

1. Franz Brentano, La psicologia di Aristotele con particolare riguardo alla sua dottrina del nous poietikos Con un’appendice sull’operare del Dio aristotelico A cura e con introduzione di Stefano Besoli

2. John Dewey, Logica sperimentale. Teoria naturalistica della conoscenza e del pensiero A cura e con introduzione di Roberto Frega

3. Ludwig Binswanger, Henrik Ibsen. La realizzazione di sé nell’arte A cura e con un saggio di Michele Gardini. Introduzione di Bianca Maria d’Ippolito

4. Edmund Husserl, I problemi fondamentali della fenomenologia. Lezioni sul concetto naturale di mondo A cura e con introduzione di Vincenzo Costa

5. Adolf Reinach, La visione delle idee. Il metodo del realismo fenomenologico Introduzione di Stefano Besoli. Con un saggio di Alessandro Salice

6. Carl Stumpf, La rinascita della filosofia. Saggi e conferenze A cura e con introduzione di Riccardo Martinelli

7.

Ludwig Binswanger, Il sogno. Mutamenti nella concezione e interpretazione dai Greci al presente A cura e con un saggio di Elisabetta Basso. Introduzione di Françoise Dastur

8.

William James, Saggi di empirismo radicale e altri scritti A cura e con introduzione di Sergio Franzese

9. Max Scheler, Metodo psicologico e metodo trascendentale A cura e con introduzione di Marina Manotta. Con un saggio di Stefano Besoli

10. Erwin W. Straus, Il vivente umano e la follia. Studio sui fondamenti della psichiatria A cura e con introduzione di Alberto Gualandi

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11. John Wisdom, La logica di Dio e altri saggi sulla religione Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 28/02/2019

A cura e con introduzione di Roberto Brigati

12. Max Scheler, Logica A cura e con introduzione di Giuliana Mancuso in preparazione

13. Edmund Husserl, La psicologia fenomenologica A cura e con introduzione di Anna Donise in preparazione

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