L’origine della violenza e della paura: Commento a Lucrezio, De rerum natura 5, 1105-1349 3959484879, 9783959484879, 3959487746, 9783959487740

Nei versi oggetto del presente commento a De rerum natura 5, 1105-1349, Lucrezio si occupa della Kulturgeschichte dei pr

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Italian Pages 527 [528] Year 2020

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Titelei
Impressum
Inhaltsverzeichnis/Indice
Premessa
INTRODUZIONE
1. L’archeologia lucreziana, l’universo e noi
2. Quale idea di progresso nel De rerum natura?
3. A History of Violence. Paura, guerra e conflitto interiore nel De rerum natura
Testo
Breve storia del testo del De rerum natura
NOTA AL TESTO
Testo critico
Traduzione
COMMENTO
Bibliografia
Indice dei passi citati
Indice dei nomi e delle cose notevoli
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L’origine della violenza e della paura: Commento a Lucrezio, De rerum natura 5, 1105-1349
 3959484879, 9783959484879, 3959487746, 9783959487740

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L’origine della violenza e della paura. Commento a Lucrezio, De rerum natura 5, 1105-1349

Studia Classica et Mediaevalia

Band 29

hrsg. von Hans-Christian Günther Accademia di studi italo-tedeschi, Merano Akademie deutsch-italienischer Studien, Meran

Nicoletta Bruno

L’origine della violenza e della paura. Commento a Lucrezio, De rerum natura 5, 1105-1349

Verlag Traugott Bautz

Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.d-nb.de abrufbar.

Coverbild: Pieter Paul Rubens, The Consequences of War, Oil on canvas, 206 x 342 cm (1636-1638) Source: Wikimedia Commons

Verlag Traugott Bautz GmbH 99734 Nordhausen 2020 ISBN 978-3-95948-487-9

Ozymandias I met a traveller from an antique land, Who said—“Two vast and trunkless legs of stone Stand in the desert. . . . Near them, on the sand, Half sunk a shattered visage lies, whose frown, And wrinkled lip, and sneer of cold command, Tell that its sculptor well those passions read Which yet survive, stamped on these lifeless things, The hand that mocked them, and the heart that fed; And on the pedestal, these words appear: My name is Ozymandias, King of Kings; Look on my Works, ye Mighty, and despair! Nothing beside remains. Round the decay Of that colossal Wreck, boundless and bare The lone and level sands stretch far away.” (Percy Bysshe Shelley, 1818) Perché vedi, il mondo è stato corrotto. Perciò non importa cosa dico, perché tutto ciò che hanno acquisito è stato corrotto, e dato che hanno acquisito tutto in una subdola, scorretta battaglia, hanno corrotto tutto. Perché qualunque cosa hanno toccato – e loro toccano tutto – lo hanno corrotto. Così è stato sino alla vittoria finale. Sino al finale trionfante. Acquisire, corrompere, corrompere, acquisire. O posso mettertela in un altro modo, se vuoi: toccare, corrompere e quindi acquisire o toccare, acquisire e quindi corrompere. È andata avanti così per secoli, avanti, avanti e avanti. Dal film Il cavallo di Torino (A torinói ló), Béla Tarr, 2011 (trad. it.)

Indice

Premessa INTRODUZIONE 1. L’archeologia lucreziana, l’universo e noi

19

2. Quale idea di progresso nel De rerum natura?

50

3. A History of Violence. Paura, guerra e conflitto interiore nel De rerum natura

72

TESTO Breve storia del testo del De rerum natura

99

Nota al testo

127

Testo critico

129

Traduzione

139

COMMENTO

151

Bibliografia

461

Indice dei passi citati

507

Indice dei nomi e delle cose notevoli

516

Premessa

Il presente libro è il frutto di un ponderato lavoro di revisione, aggiornamento e integrazione della dissertazione di dottorato di ricerca, discussa nel giugno del 2017 presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro. I vv. 1105-1349 del quinto libro del De rerum natura (da ora DRN) costituiscono una sezione unitaria e ben definita, dal punto di vista dei contenuti, della lingua e dello stile, in cui prevalgono sostanzialmente due temi: la violenza e la paura. Si tratta di uno dei passi più complessi del DRN, che affronta la Kulturgeschichte dei primi uomini: le prime forme di governo, la nascita delle leggi, l’origine della religione, la scoperta dei metalli, le arti belliche. I diversi argomenti sono tra loro legati da una effettiva denuncia e anche dal rimedio della dottrina epicurea a ogni forma di paura e di ansia patita dai primi uomini, spesso sfociata in brutale violenza. La paura della morte è la paura primaria; da essa sorgono le paure secondarie che danno origine alla violenza e, in misura minore, all’ambizione, alla lussuria, all’avarizia e a tutti gli altri sforzi frenetici che interferiscono con una vita tranquilla, unica dispensatrice di piacere. Liberato dai timori della morte, emancipato dalla tirannide del provvidenzialismo stoico e del rigido meccanicismo determinista di Democrito, forte della conoscenza delle cause dei fenomeni naturali, l’uomo lucreziano poteva guardare con serenità al mondo entro il quale vedeva immersa la propria esistenza. La lotta contro l’illusione superficiale che la vita fosse priva di dolori e di angosce e la coscienza del fatto che essa fosse necessariamente destinata a un

termine non possono certo considerarsi come l’effetto di una visione pessimistica. La conoscenza delle cause, infatti, permetteva di superare tali sensazioni dolorose, ponendo la vita e la morte sullo stesso piano dei fenomeni naturali. Sia nel commento sia nei tre capitoli introduttivi, ho cercato di portare un contributo sui due versanti, filosofico e letterario, che non può avere pretesa di esaustività. Riguardo ad alcuni problemi fondamentali emersi nel corso del mio dialogo con il testo, ho cercato di prendere sempre una posizione, senza rinunciare a confrontarmi criticamente con le diverse interpretazioni emerse nella storia degli studi lucreziani. Il commento è un’opera di scavo, di graduale scoperta in fieri del testo, in cui vi possono confluire tutti quei risultati della ricerca (gli aspetti filosofici, intertestuali, stilistici, critico-testuali), che cooperano al progressivo approfondimento della conoscenza dell’autore e della sua opera. Il testo di Lucrezio, è ben noto, pone notevoli problemi (lacune, presunte interpolazioni, versi incompleti, frequenti errori e corruttele di vario genere), dal momento che si tratta di un testo quasi sicuramente non sottoposto a revisione dall’autore. Il commento alla sezione scelta, divisa a sua volta in ulteriori cinque gruppi di versi (vv. 1105-1135; 1136-1160; 1161-1240; 1241-1296; 1297-1349), è preceduto dal testo, basato sull’edizione teubneriana di Marcus Deufert (Berlin 2019) – da cui mi discosto in più occasioni –, fornito di apparato critico selettivo, che serve a fornire gli strumenti essenziali per la consultazione del commento, una traduzione, che ha provato a colmare le eventuali lacune interpretative, non esaustivamente esposte, e un’introduzione dei temi e dei problemi che presentano i versi in questione.

Non mancano naturalmente commenti recenti all’intero quinto libro, tra cui i più recenti a cura di C.D.N. Costa (Oxford 1985) e Monica Gale (Oxford 2009). Commenti parziali al quinto libro sono quelli di Gordon Campbell (Oxford 2003) ai vv. 772-1104, Carmelo Salemme (Napoli 2010) ai vv. 416-508 e Giorgio Jackson (Pisa-Roma 2013) ai vv. 1-280. Naturalmente, il commento per eccellenza al DRN rimane la monumentale opera dell’oxoniense Cyril Bailey in tre volumi (1947). Non possono passare sotto silenzio gli storici commenti di Ernout-Robin (Paris 1925-1928) e di Giussani (Torino 1898). Tra le edizioni commentate, anche se parziali, degli ultimi trent’anni, segnalo Robert D. Brown, Lucretius on Love and Sex: A Commentary on De rerum natura IV, 1030-1287 (Leiden 1984), l’opera postuma di un eccellente studioso di Lucrezio, scomparso prematuramente, Don Fowler (Oxford 2002), Lucretius on Atomic Motion, 2, 1-332, e Lucrezio e i Presocratici. Un commento a De rerum natura 1, 635-920 di Lisa Piazzi (Pisa 2005). Dal punto di vista formale, il commento ai versi nel presente volume è in forma discorsiva, diviso per brevi sezioni di versi e quasi sempre per lemmi. Per ogni verso o lemma, ho dato particolare rilievo alla critica testuale, senza trascurare le problematiche riguardanti il pensiero filosofico di Lucrezio, il confronto con il contesto storico e il dibattito con le correnti filosofiche contemporanee, le strategie retoriche adoperate, la lingua e lo stile. Tutto quello che so su come realizzare un commento lo devo al Prof. Paolo Fedeli e a alla Prof.ssa Irma Ciccarelli, incomparabili maestri nei miei anni di formazione a Bari. Il lungo periodo di ricerca trascorso durante gli anni di dottorato presso il Corpus

Christi College di Oxford sotto la guida, a dir poco indispensabile, del Prof. Stephen Harrison, ha contribuito in modo decisivo a chiarirmi le idee circa il metodo e gli obiettivi che volevo raggiungere con questo lavoro. Nel corso degli anni, dagli scambi con Stephen Harrison sono sorte nuove idee, osservazioni, critiche e, soprattutto, molte iniezioni di fiducia. Gran parte degli stimoli e dell’ispirazione per convertire la mia tesi in forma di libro li ho ricevuti in questi ultimi due anni qui a Monaco di Baviera. La ricchezza delle risorse delle biblioteche del Thesaurus linguae Latinae e dell’Abteilung für Griechische und Lateinische Philologie della Ludwig-Maximilians-Universität München mi hanno fornito gli strumenti necessari per realizzare al meglio questo lavoro. Il dialogo costante al ThlL con Adam Gitner, Michael Hillen, Roberta Marchionni, Paolo Pieroni, Friedrich Spoth e soprattutto in Università con la Prof.ssa Therese Fuhrer, preziosa guida e fonte inesauribile di entusiasmo e motivazione, hanno portato nuova linfa alla mia ricerca, con nuove idee, metodi e prospettive. I miei due soggiorni svizzeri presso la Fondation Hardt, nell’autunno del 2018 e nella primavera del 2019, e il mio periodo di ricerca a Londra, nell’autunno/inverno 2019, presso l’Institute of Classical Studies e la Birkbeck University of London, mi hanno dato la giusta dose di pace e di serenità per poter portare a termine il mio lavoro e intraprendere nuovi argomenti di ricerca. Sono grata ai Professori David Butterfield, Luciano Canfora, Marcus Deufert, Tobias Reinhardt, Alessandro Schiesaro e James Warren per il confronto nel corso degli anni sul testo lucreziano; alla Prof.ssa Catharine Edwards e alla Prof.ssa Cristina Pimentel, per aver potuto discutere in diverse occasioni dei rapporti tra

Lucrezio e l’epistola 90 di Seneca. Un sentito grazie lo rivolgo al Prof. Antonio Stramaglia, costante interlocutore, per i suoi suggerimenti e soprattutto per le sue critiche costruttive. Un ringraziamento infine al Prof. Hans-Christian Günther (e a Paolo Fedeli) per aver accolto il presente volume nella collana Studia Classica et Mediaevalia. Dedico questo lavoro alla mia famiglia, i miei genitori e mio fratello, per la loro instancabile pazienza e per avermi sempre aiutata ad affrontare gli inevitabili momenti di insicurezza e di sconforto e a rafforzare la mia volontà di continuare un percorso in cui ho creduto fermamente fin da prima di intraprenderlo. München, estate 2020 Nicoletta Bruno

INTRODUZIONE

I popoli del passato non erano né amministratori riprovevoli e ignoranti che meritarono di essere sterminati o espropriati dei loro territori, né ambientalisti ben informati e coscienziosi in grado di risolvere problemi che oggi non sappiamo affrontare. Erano persone come noi, poste di fronte a problemi in gran parte simili ai nostri. Le loro possibilità di riuscita o di fallimento dipendevano da circostanze simili a quelle che fanno riuscire o fallire noi. Anche se esistono differenze tra la nostra situazione e quella delle popolazioni che ci hanno preceduto, ci sono pur sempre somiglianze di rilievo che ci permettono di imparare qualcosa dal passato. Mi sembra una presa di posizione sbagliata e pericolosa usare il presunto ambientalismo storico delle genti indigene per giustificare il fatto che queste ultime siano oggi trattate con maggiore giustizia. In molti casi, se non nella maggior parte, gli storici e gli archeologi hanno dimostrato che la favoleggiata Età dell’Oro non è mai esistita. Oltretutto, in questo modo qualcuno potrebbe insinuare che sarebbe costretto a maltrattare i nativi se questa ipotesi dovesse essere confutata. Non possiamo basarci su qualche assunto storico circa le pratiche ambientali del passato, ma dobbiamo tenere saldo il principio che è comunque moralmente sbagliato derubare, soggiogare o sterminare un altro popolo. Jared Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, 2005 (ed. italiana)

Introduzione

1. L’archeologia lucreziana, l’universo e noi Tief ist der Brunnen der Vergangenheit Thomas Mann, Joseph und seine Brüder. Die Geschichten Jaakobs, 1933

L’archeologia filosofico-letteraria e le antiche storie culturali «C’era un tempo in cui l’archeologia, come disciplina dei monumenti muti, delle tracce inerti, degli oggetti senza contesto e delle cose abbandonate dal passato, tendeva alla storia e acquistava significato soltanto mediante la restituzione di un discorso storico».1 Per Michel Foucault l’archeologia rappresentava una vera e propria teoria per una storia del sapere empirico, in cui la costruzione storica svolgeva un ruolo ben preciso all’interno di una filosofia sempre più interpretata come diagnosi del proprio presente e della congiuntura culturale nella quale si trova una certa società. L’archeologia del sapere (1969) è un testo capitale nella storia dell’epistemologia e ha inaugurato non solo un modo di considerare i saperi e le scienze, ma anche un nuovo campo del sapere che, già a partire dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, ha sovvertito gli ordinamenti della cultura, delle scienze sociali e delle scienze umane. Archeologia indica per Foucault la storia di ciò che rende necessaria una certa forma di pensiero, cioè l’insieme delle condizioni che rendono possibile, in una data epoca, la costituzione di un determinato sapere. L’archeologia non vuole ricostruire la verità della storia, ma prova a comprendere 1

Foucault 2013, 10 (ed. italiana). 19

Introduzione

come ogni periodo sia, in realtà, costituito da una serie di discorsi. È proprio questa una delle novità: la diversa comprensione della successione storica. Fernand Braudel e la scuola delle “Annales” avevano già elaborato un nuovo metodo per la storia che, invece di considerare le causalità, aveva introdotto relazioni come l’implicazione, l’esclusione, la trasformazione, le fratture, le soglie. Alla metà degli anni Sessanta l’archeologia dei saperi è affrontata dal filosofo Enzo Melandri. Nel saggio La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia (1968), Melandri ha descritto la mappa dei problemi filosofici nelle coordinate dell’analogia: la figura del discorso che ci fa intendere il senso e il luogo della pratica archeologica. Per Melandri è l’analogia la figura propria dell’archeologia, limitata tuttavia da una dialettica, per evitare che la regressione sia intesa come uno stato felice anticipato «preistoricamente in una mitica età dell’oro».2 Come scrive Giorgio Agamben nell’introduzione all’edizione del 2004 de La linea e il circolo, l’oggetto dell’archeologia filosofica è «una arché che, pur senza costituire un principio trascendentale, non può nemmeno acquisire una consistenza empirica se non negativamente, come “rovinologia”».3 ‘Pensare archeologicamente’ in filosofia vuol dire pensare a partire dall’esperienza della dissoluzione, della scomparsa del soggetto e dal fatto che le scienze umane non conducono alla scoperta di qualcosa che sarebbe l’umano, il tò anthrόpinon di memoria tucididea, la verità dell’uomo, la sua natura, la sua nascita, il suo destino. Lo sguardo archeologico osserva, a partire dalla scomparsa dei segni lasciati dall’uomo, l’archivio delle sue 2 3

Melandri 2004, 67. Agamben in Melandri 2004, XIX. 20

Introduzione

tracce. ‘Fare archeologia’, invece, significa mettere insieme gli indizi per ricostruire il passato. «Tutti sanno che la parola archaiologhía la troviamo negli autori antichi col senso suo letterale di discorso, indagine, sulle cose del passato, antiche»,4 infatti la parola archaiología (nella forma singolare o archaiologíai al plurale) indicava generalmente tutto ciò che riguardava l’antichità (i primi 23 capitoli del Libro 1 delle Storie di Tucidide, le opere di Dionigi di Alicarnasso e Giuseppe Flavio sono tramandate rispettivamente con il titolo archaiología romaiké e ioudaiké archaiología). La parola era già usata nel V secolo a.C. (Pl. Hp. Mai. 285d: gli Spartani erano “deliziati dall’ascolto delle archaiologíai”) e indicavano gli antichi racconti di una storia remota,5 così come in Diodoro Siculo (1, 4, 6; 9, 5) o in Dionigi di Alicarnasso (1, 4, 1) e in Giuseppe Flavio (Praef. 5). Secondo il Liddel-Scott-Jones Lexicon la parola greca archaiología significa “antiquarian lore, ancient legends or history” e le occorrenze sono le seguenti: il già citato Platone (Hp. Mai. 285d), Diodoro (2, 46), Dionigi di Alicarnasso (1, 4) e Strabone (11, 14, 12). Dunque, archaiología è letteralmente il discorso sulle origini (arché e lógos). Gli antichi racconti della Kulturgeschichte sembrano seguire un modello simile nella narrazione dei fatti, nonostante l’argomento di una narrazione sia il remoto passato sconosciuto delle prime società, le cosiddette Kulturgeschichte o Archaiologíai (i racconti di tà palaià).6 Le antiche storie culturali fanno quasi 4

Bianchi Bandinelli 1976, XIV. «It is used for a general narrative in ancient history, not for a historical argument like Thucydides» Rood 2014, 475. 6 C’è una differenza tra ἀρχαῖος (primitivo, originario) e παλαιός (antico), 5

21

Introduzione

sempre parte delle antiche ‘archeologie’. Dunque, la Kulturgeschichte, che di solito include uno schema e motivi comuni ricorrenti (la fase nomade dei primi uomini, scoperte di fuoco, metalli, formazione delle prime società, lingua, leggi, la religione, l’ulteriore sviluppo della tecnologia, la fabbricazione di strumenti, armi, abbigliamento, tessitura, agricoltura, ecc.), può essere incluso all’interno di una ‘archeologia’. Un punto importante da tenere presente è che nei racconti della prima storia culturale ci sono spesso considerazioni sul progresso, l’evoluzione del genere umano o analogie con le civiltà contemporanee. L’interesse per la preistoria in Lucrezio e, in generale, negli autori antichi, presenta l’intento di trarne indicazioni utili sul proprio presente, individuandone le radici profonde, offrendo spunti su come affrontarlo con maggiore consapevolezza. Il passato storico o mitico (che è una distinzione moderna) ha sempre attirato un particolare interesse perché sensazionale, eziologico e significativo per creare o confermare identità.7 Nel narrare le storie della prima storia culturale dell’umanità, i poeti, gli storici, i filosofi antichi ricorrono spesso all’uso del mito. Una sul tema cf. Weil 1985, 28-37; Casevitz 2004, 125-36 (e naturalmente Chantraine s.v. ἄρχω e πάλαι). 7 Per quanto riguarda Roma, la preistoria della storiografia romana ha molte analogie con quella della Grecia. Gli aristocratici disponevano di pubbliche modalità per assicurarsi che le azioni dei loro antenati fossero ricordate (prime orazioni funebri, iscrizioni allegate a ritratti ancestrali, etc.). Ciò che conta è la creazione della memoria comune attraverso l’orgoglio di famiglie nobili. I termini latini corrispondenti alle archaiologíai sembrerebbero essere origines, come il lavoro storiografico perduto di Catone (non annalistico) e anche res gestae populi Romani, letteralmente “le gesta del popolo romano” (Sall. Cat. 4, 2 e Liv. Praef. 1); cf. Wiseman 2007, 67-75. 22

Introduzione

distanza incolmabile e oscura separa l’uomo dalle proprie origini. Il rapporto con il passato remoto e inconoscibile genera una frattura anche nella memoria. Come scrive Jan Assmann «la memoria, dunque, procede in maniera ricostruttiva. Il passato non è in grado di conservarsi in essa in quanto tale: esso viene costantemente riorganizzato dai mutevoli quadri di riferimento del presente sempre avanzante».8 Paradossalmente, secondo Assmann, le storie delle origini sono le più stabili, in quanto sono in grado di fissarsi più a lungo nella memoria, perché riescono a garantire l’identità sociale di un gruppo. Più difficile è conservare il passato più recente: Assmann fa riferimento alla memoria di alcuni popoli dell’Africa, la cui cultura è tramandata per tradizione orale. Se da un lato si riesce a mantenere viva la memoria del tempo corrispondente alle ultime tre generazioni, la memoria delle età precedenti inizia a svanire, mentre il racconto delle origini è sempre nitido e impresso nel ricordo collettivo. Inoltre, un processo molto simile a quanto scrive Assmann è successo nella società greca: il ricordo delle famiglie aristocratiche tendeva a dimenticare lo spazio intermedio tra gli antenati dell'era eroica e i più recenti discendenti. Il risultato di queste genealogie familiari è che tendono ad accorciare eccessivamente il periodo di tempo che separa l’età arcaica dal presente.9 Nelle società, come quella 8

Assmann 1997, 17. Negli ultimi decenni del VI secolo a.C., in Grecia si svilupparono attività di ricerca di natura periegetica ed etnografica che includevano storie sulle città, descrizioni del mondo e soprattutto genealogie. I genealogisti della fine del VI secolo a.C. non avevano ancora sviluppato la necessità di una conoscenza universale e completa del passato. Le ragioni e gli scopi delle genealogie erano politici: le famiglie aristocratiche potevano affermare il loro prestigio attribuendosi antenati 9

23

Introduzione

dell’antica Grecia, la cui memoria è affidata alla scrittura, il passato remoto finisce per diventare un groviglio di realtà e immaginazione.10

eroici. I Greci del V secolo a.C. ignorarono la necessità di una storia completa che attraversasse tutte le epoche e risalisse alle sue origini. Pertanto, Erodoto e Tucidide difendono una concezione della storia ereditata dall’epopea: la narrazione di un certo evento è degna di memoria quando può rivelarsi utile. Di conseguenza, le archeologie citate da Platone (Hp. Mai. 285d) avevano una selezione di eventi e riferivano ciò che era utile, in particolare per esigenze politiche: l’esaltazione di genealogie aristocratiche. Spesso ricche di ‘excursus’ etnografici e antropologici, le archaiologíai furono anche eseguite per comprendere la radice e le cause dei conflitti e per narrare i conflitti stessi. Pertanto, Platone, forse parodiando all’inizio del Timeo l’episodio della visita di Ecateo agli Egiziani (Hdt. 2, 142, 2-3) non intendeva ricordare una storia continua, ma mirava a sostituire l’esemplare della storia recente con un modello di storia ideale (cf. Phdr. 274b -275d sull’importanza di ricordare senza la necessità di ricorrere alla scrittura). Cf. sul tema Canfora 1999, 31-21; Nagy 2000, 41-65; Bouvier 2001, 3160. 10 Cf. Finley 1981, 15. L’invenzione delle lettere fu un momento fondamentale nella storia dell’umanità (cf. il celebre dialogo tra Solone e Crizia il Vecchio in Pl. Tim. 22c), poiché le lettere hanno la funzione di memoria storica e di mantenere un legame con l’assenza e la distanza del passato. Le lettere conservano l’espressione della volontà, degli ordini, dei testamenti e si rapportano al futuro e agli eventi passati, come afferma Cicerone in Tusc. 3, 3 e 5, 6. Per Diodoro Siculo (1, 9, 1) e Lucrezio (5, 1445) l’invenzione della scrittura segnò un momento fondamentale per conoscere i fatti storici con esattezza: infatti, Diodoro mette in dubbio le date della guerra di Troia (1, 5, 1) e, come Lucrezio, colloca l’invenzione della scrittura in un momento successivo al governo dei primi re. Cf. Rocca 1997, 221. 24

Introduzione

Tucidide, Lucrezio e l’analogia L’Archeologia come metodo storico ha una storia antica almeno a partire dal V secolo a.C. L’Archeologia di Tucidide, a metà strada tra storiografia e tecnica della storia è uno dei testi più significativi, che può rientrare nel genere storiografico della Kulturgeschichte, in particolare per gli aspetti metodologici e il metodo scientifico di investigazione.11 I capitoli introduttivi del I libro di Tucidide costituiscono l’esposizione dei principi di metodo, necessari per ricostruire un passato ignoto (il termine chiave è semêion,12 1, 6, 2) e per comprendere la genesi della guerra tra Sparta e Atene.13 Tucidide in 1, 5, 3 e 1, 6, 2 descrive l’origine della società e degli aspetti culturali degli abitanti delle regioni greche più arretrate, dal nomadismo alla fase del sedentarismo. Un periodo caratterizzato da processi di accumulazione e di stratificazione sociale. ἐλῄζοντο δὲ καὶ κατ᾽ ἤπειρον ἀλλήλους. καὶ μέχρι τοῦδε πολλὰ τῆς Ἑλλάδος τῷ παλαιῷ τρόπῳ νέμεται περί τε Λοκροὺς τοὺς Ὀζόλας καὶ Αἰτωλοὺς καὶ 11

Sul problema della composizione delle Storie di Tucidide e sul ruolo dell’Archeologia, cf. Romilly 1956; Rawlings III 1981; Woodman 1988, 8-9; Ellis 1991, 344-75; Hornblower 1991, 62-66; Nicolai 2001, 263-85. 12 «Along the same lines, Epicurus embraced the natural reasoning about the unseen by resorting to signs from what could be directly observed», cf. Garani 2007, 22; cf. anche sul tema Allen 2001. 13 Polibio, tre secoli dopo Tucidide si chiederà perché Roma era invincibile, in una delle più importanti ‘archeologie’ della Roma antica, nata come digressione dal racconto stesso, il libro 6 delle Storie. Tucidide stesso scrive una seconda ‘archeologia’ nel libro 6 (la ‘archeologia siciliana’), definita anche “secondo proemio”, con lo stesso intento di definire le cause di una nuova guerra. 25

Introduzione Ἀκαρνᾶνας καὶ τὴν ταύτῃ ἤπειρον. τό τε σιδηροφορεῖσθαι τούτοις τοῖς ἠπειρώταις ἀπὸ τῆς παλαιᾶς λῃστείας ἐμμεμένηκεν. πᾶσα γὰρ ἡ Ἑλλὰς ἐσιδηροφόρει διὰ τὰς ἀφάρκτους τε οἰκήσεις καὶ οὐκ ἀσφαλεῖς παρ᾽ ἀλλήλους ἐφόδους, καὶ ξυνήθη τὴν δίαιταν μεθ᾽ ὅπλων ἐποιήσαντο ὥσπερ οἱ βάρβαροι. σημεῖον δ᾽ ἐστὶ ταῦτα τῆς Ἑλλάδος ἔτι οὕτω νεμόμενα τῶν ποτὲ καὶ ἐς πάντας ὁμοίων διαιτημάτων.14

L’analogia consiste nel parallelo tra le condizione delle regioni più povere della Grecia e come la Grecia stessa sarebbe potuta apparire in un lontano passato remoto. Il passo rappresenta un tipico esempio di ricostruzione congetturale del passato: le condizioni socio-culturali delle regioni greche meno sviluppate sono lo specchio dell’intero periodo arcaico. «L’analogia diventa un ponte tra ciò che è noto e ciò che non lo è (o lo è meno), che si sustanzia di indizi, si muove nell’ipotesi della ‘somiglianza’ e trova nella coerenza tra ipotesi e indizi la conferma della somiglianza», chiarisce Luciano Canfora.15 La metodologia adoperata da Tucidide nell’Archeologia ha garantito una tradizione nel genere storiografico e non solo: fenomeni distanti nel tempo e nello spazio possono essere analizzati in modi diversi. Tucidide esamina un passato ormai scomparso, invisibile, attraverso gli 14

«Si depredavano a vicenda anche sulla terra; e ancora ai nostri giorni in molte zone della Grecia si vive alla maniera antica, cioè dalle parti dei Locresi Ozoli, degli Etoli, degli Acarnani e nelle altre zone continentali di quella regione. L’usanza di portare le armi è rimasta a questi abitanti del continente dall’antica abitudine della pirateria. Infatti tutta la Grecia portava le armi, non essendo protette le abitazioni né sicure le comunicazioni degli uomini tra di loro; e per essi vivere con le armi diventò una cosa abituale, come per i barbari. E il fatto che in queste parti della Grecia si vive ancora così è indicazione di un modo di vivere che una volta era diffuso egualmente fra tutti.» (trad. G. Donini). 15 Canfora 2010, 14. 26

Introduzione

indizi (tekméria) e la tecnica analogica e compara gli eventi della storia greca arcaica con quelli a lui contemporanei. La seconda metà del quinto libro del DRN ricostruisce stato primitivo della vita sulla terra ed è il resoconto più significativo delle varie tappe del processo di civilizzazione (Kulturgeschichte) della storia letteraria di Roma.16 Nel I sec. a.C. la tradizione latina della poesia didascalica prima di Lucrezio era scarsa, dunque i modelli di Lucrezio dovevano essere differenti. L’autore del DRN aveva il compito di selezionare e mettere a disposizione gli strumenti conoscitivi esatti, che potevano consentire di muoversi in un territorio complesso e sconosciuto come è il racconto della protostoria. Su quale fondamento metodologico si basano le affermazioni lucreziane? Difficile trovare una risposta, dal momento che la teoria della conoscenza epicurea si fondava soprattutto sulla dimostrazione empirica. Per un pensatore epicureo non bastava limitarsi a offrire delle soluzioni impressionistiche o non abbastanza trasparenti nel metodo. Per provare a comprendere, bisogna partire da un po’ più lontano, da Anassagora. «Eppure tra l’uno e l’altro non vi è che lo spazio di poco più di una generazione, ma Erodoto rispecchia ancora la mente e la problematica di Anassimandro ed Ecateo, Tucidide ha dietro di sé Anassagora. Discepolo di Anassagora lo considerarono gli antichi, ma i moderni, la vera immagine di Anassagora essendo ancora 16

Alessandro Schiesaro cita, nell’ambito dell’Epicureismo romano, un altro tentativo di ricostruire la preistoria, attuato da Lucio Saufeio, un autore di cui non si sa nulla, nemmeno se fosse stato cronologicamente anteriore o posteriore a Lucrezio. Saufeio fornisce alcuni elementi molto vicini a Lucr. 5, 925 ss. a partire da un’analisi etimologica del nome Latini. Cf. Schiesaro 1989, 119-31. 27

Introduzione

ignorata, non sanno in che cosa lo fu».17 Questo studio di Carlo Diano evidenzia come le ricerche sulle connessioni tra la dottrina anassagorea e l’indagine tucididea fossero insufficienti, forse per la mancanza dell’esatta comprensione del valore di Anassagora nella storia del pensiero greco. Se si considera autentica una notizia biografica, riportata nella Vita di Tucidide, attribuita a Marcellino, e ricordata anche da Elio Aristide, in base alla quale Anassagora fu maestro di Tucidide, non ci stupisce il legame tra il filosofo e lo storico.18 Un problema sollevato nella teoria anassagorea riguarda le sensazioni: se il visibile è una manifestazione dell’invisibile, le percezioni umane presenterebbero una criticità e non aiuterebbero a distinguere il vero dal falso (59 B 21a DK). Anassagora propone un esempio a testimonianza dell’insicurezza delle sensazioni, ossia il graduale mutamento dei colori: nel mescolare il bianco e il nero, la percezione visiva non distingue con certezza i mutamenti graduali dei colori, che si fondono tra loro. Allo stesso modo, per lo storico ateniese, accadrebbe un problema non da poco, per la veridicità dei fatti registrata dai testimoni oculari: la loro ottica della realtà storica si rivela parziale e personale, poiché essi segmentano lo svolgersi degli eventi senza per questo riuscire a comprenderli nel loro insieme (cf. Thuc. 1, 73). Di conseguenza, la conoscenza umana si avvale in un primo tempo dell’esperienza sensibile, seguita in un secondo tempo dalla comprensione intellettiva. Il ragionamento analogico opera nel secondo livello gnoseologico. A questo punto, Anassagora diventa un trait d’union tra Tucidide e 17

Diano 1954, 285. Questione discussa da Luzzatto 1999; Burns 2010, 3-27; Moleti 2012, 31-61. 18

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Lucrezio: il principio anassagoreo ὄψις ἀδήλων τὰ φαινόμενα “le cose che si vedono sono l’aspetto visibile di quelle che non si vedono” (59 B 21a DK = Sext. Emp. Math. 7, 140) diventa la base scientifica su cui opera il metodo scientifico analogico. In 1, 830-920, Lucrezio riflette su un punto della dottrina di Anassagora, le omeomerie, sottolineandone dei punti di debolezza (cf. Piazzi ad loc.). Il filosofo epicureo sottolinea una contraddizione sulla composizione della materia: non è possibile credere che le cose siano formate da elementi estranei alla loro natura, ad esempio che il fuoco e la cenere siano sostanze compresenti nel legno. Lucrezio non mette in discussione il fatto che parti degli alberi se si sfregano tra di loro provocano scintille, fenomeno che dà origine alla combustione (vd. Lucr. 5, 10961100), ma la causa che la genera. Lo sfregamento degli alberi è per Lucrezio soltanto una delle cause di autocombustione, grazie a questo fenomeno gli uomini hanno potuto scoprire il fuoco (5, 1096-1104). Lo stesso accade in Tucidide: lo sfregamento degli alberi è una delle possibili cause che provocano gli incendi: l’occasione per introdurre l’ ‘excursus’ tucidideo sui fenomeni di autocombustione in natura viene fornita dal resoconto dell’assedio di Platea (Thuc. 2, 77, 4).19 La conflagrazione descritta da Tucidide provocò un disastro ambientale memorabile.20 19

«Si produsse fuoco grande quanto nessuno l’aveva mai visto prima di allora, almeno tra quelli provocati dall’uomo: già altre volte, sulle montagne, gli alberi spinti dal vento a sfregarsi tra di loro hanno fatto sorgere spontaneamente il fuoco, e da questo poi le fiamme» (trad. Donini). 20 La somiglianza tra il passo tucidideo e i versi lucreziani è evidente (cf. Bruno 2017b, saggio preliminare al presente lavoro), nonostante il testo tucidideo non sia stato unanimemente considerato autentico (cf. sul tema 29

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Nelle individuazioni delle cause storiche, Lucrezio si è servito di procedure serrate e persuasive, costituite da una serie di opposizioni binarie, fondate su coppie antonimiche (presenza/assenza e passato/presente). In assenza di dati sensibili, Lucrezio, insieme a Tucidide, avverte il peso di una indagine pionieristica. Il rifiuto di prestar fede alle tradizioni mitologiche sugli albori del mondo ha determinato un radicale superamento, attraverso l’analogia, delle metodologie consuete, per colmare un vuoto di testimonianze. Il problema metodologico che si poneva Tucidide diventava lo stesso di Lucrezio. L’analogia assume un ruolo ampio e importante nella prassi storiografica e filosofica: non si tratta di un semplice principio di organizzazione formale,21 ma pone a confronto le somiglianze due Brown 1983, 146-60; Calder III 1984, 485-6; Maurer 1995; Golfin 2007, 35-56). Se si considera autentico il brano di Tucidide, allora si può ipotizzare sia che lo storico ateniese e Lucrezio abbiano attinto da Anassagora, sia che Lucrezio, come nel caso della trattazione dell’epidemia di peste nel VI libro, abbia attinto da Tucidide e non da Anassagora. Oppure si può pensare che Lucrezio avesse presente sia il testo di Anassagora sia quello di Tucidide, ma abbia scelto di prendere le distanze dalla teoria anassagorea, riportata da Tucidide. Non è da escludere che l’interlocutore immaginario di Lucrezio, marcato dalla presenza di inquis (“tu dici”) in 1, 897, sia proprio Tucidide, testimone della dottrina di Anassagora (cf. Moleti 2012, 49). 21 Nella Retorica di Aristotele il passato, per la sua oscurità, è considerato oggetto possibile di ricerca di cause e dimostrazioni, come avviene attraverso l’entimema, nell’oratoria giudiziaria. Carlo Ginzburg ha sottolineato la connessione tra la riflessione sulle “prove” e l’opera erudita e antiquaria di Aristotele. Inoltre, ha ipotizzato un Aristotele antiquario molto simile al Tucidide “archeologo”. L’Archeologia tucididea, volta a ricostruire eventi non testimoniati direttamente, implicava strumenti intellettuali diversi da quelli usati di solito dalla 30

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o più oggetti con lo scopo di rendere comprensibile un oggetto non direttamente visibile.22 L’indagine del passato è condotta secondo i principi validi in quegli ambiti che i moderni distinguono come geografia ed etnografia. La geografia del passato non era in alcun modo visibile, ma andava ricostruita a partire dalle testimonianze e dai racconti, con l’aiuto dei segni presenti e del ragionamento analogico. Entrambi gli autori si servono della individuazione delle vestigia/tekméria per formulare un racconto sulla preistoria. Tale caratteristica rappresenta la specificità dell’archeologia lucreziana rispetto ad altri esempi di Kulturgeschichte ispirata a canoni metodologici affini a Tucidide. Lucrezio crea un metodo dimostrativo che giunge da una premessa scientifica inscritta nel suo sistema filosofico, mentre Tucidide scopre dei legami di tipo culturale che diventeranno i capisaldi della moderna antropologia. La solidità della costruzione lucreziana è frutto della lettura scientifica delle leggi generali della materia e dei processi di evoluzione. Per il tramite di Epicuro, Lucrezio mantiene inalterato il fondamento materialistico, risalente a Democrito, accogliendo, nella sua ricostruzione, anche i tentativi effettuati dagli uomini nelle fasi di progresso, i cosiddetti ‘fallimenti’ della natura.

storiografia. Le grandi potenzialità insite nel metodo tucidideo sarebbero state realizzate da Aristotele nella sua attività erudita. Secondo Ginzburg è possibile la generalizzazione di alcuni principi fondamentali, concernenti la ricostruibilità della storia umana sulla base di tracce e indizi. Cf. Ginzburg 1994, 5-18. 22 Non è poi così paradossale l’affermazione di Marc Bloch: «è assurda l’idea stessa che il passato, come tale, possa essere oggetto di scienza». (cf. Bloch 1969, 39). 31

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Non solo la peste di Atene e lo stesso metodo di indagine analogica per interpretare gli eventi storici e i fenomeni naturali legano Tucidide a Lucrezio. La comprensione della sostanziale fissità della natura umana e della prevedibilità dei comportamenti attraverso determinati sintomi che si ripetono è il principale punto di contatto tra Tucidide e Lucrezio. L’universalità dei comportamenti umani al di là del tempo e dello spazio, quello che in greco era chiamato tò anthrόpinon, è in grado di mettere in comunicazione diverse realtà temporali: la natura umana non cambia e per questo trasmette la conoscenza dal passato al presente e al futuro.23 «Tra chi scrive di storia oggi e chi ci ha lasciato i ricordi dei grandi avvenimenti del suo tempo vi è dunque una differenza radicale, perché differenti sono i destinatari dell’opera, ma soprattutto differente è il principio di autorità che ne governa la scrittura. Perciò Tucidide, secondo l’icastica enunciazione di Nicole Loraux, non può considerarsi ‘nostro collega’».24 Con questa affermazione, Diego Lanza si riferisce a un celebre studio di Nicole Loraux,25 dal titolo “Thucydide n’est pas un collègue”, che Claude Calame ha commentato perfettamente con queste parole: «Thucydides distances himself and removes as editor and narrator of history by speaking of himself in the third person and in an act recorded in the past tense; but he also frequently intervenes in the first person and in the present tense to 23

Sulla riflessione di Tucidide sul progresso cf. Romilly 1966, 150-161. Sulla natura umana e le conseguenze socio-politiche secondo gli Epicurei cf. Robitzsch 2017, 1-19. 24 Lanza 2001, 12-13. 25 Cf. anche Payen 2006, 137-143 che, nel primo paragrafo del suo articolo, intitolato “Prolégomènes: Thucydide n’est pas un historien”, si vuole rifare al discusso studio di Loraux 1980, 55-81. 32

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make judgements on the course of the events his account describes. The historical work is not created for the immediate gratification of the ear; it is useful as an example of the past that allows the city to judge the future – it is “an acquisition forever”».26 Dunque, il ‘legislatore’27 Tucidide sarebbe uno storico sui generis: in un certo senso, si avvicina nella prospettiva didascalica a Lucrezio.28 Il passato, il presente e il tò anthrόpinon sono maestri per il futuro: sono fattori grazie ai quali si può imparare a prevedere il futuro, per accettarlo per quello che sarà o per non consentire una perseveranza nell’errore. Per gli Epicurei l’universo è infinito, senza un creatore, senza una storia e senza possibilità di cambiamento (Lucr. 2, 294-307). La fissità della natura umana coincide per Lucrezio con la fissità delle leggi della natura. In un universo dove gli uomini sono soltanto una parte, l’archeologia lucreziana non vede noi uomini protagonisti, ma ci trova inseriti in una narrazione di nascita, crescita e morte, come parte di un tutto, che nasce, cresce, muore e rinasce. Pertanto l’archeologia lucreziana non è proiettata in una dimensione antropocentrica.

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Calame 1995, 93. Lucian. Hist. Conscr. 42. 28 Gale 2004, 52 «didactic can be seen as a sort of inside-out version of narrative epic: in the latter the ‘story’ is the surface, and the ‘moral message’ is included in the form of inserted speeches (…); on the other hand, the ‘message’ is the surface, and the narrative element is included in the form of inset digressions and in other, less obvious, ways». 27

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La storia, i segni, la memoria Nell’osservazione dei ‘sintomi’ della guerra civile, esplosa a Corcira (3, 82-84), Tucidide avvia l’ ‘excursus’ sulle cause profonde del conflitto.29 Con le stesse modalità, Lucrezio giustifica la causa dei ‘fallimenti’ umani, attraverso l’iterazione di taluni comportamenti (vd. 5, 1131-1135; 1218-1225; 1430-1435).30 Tuttavia, l’analogia non è sufficiente per descrivere esattamente i procedimenti retorici che Lucrezio utilizza nella sua ricostruzione dei tempi primitivi. Lucrezio, ad esempio, ritiene che alcuni meccanismi elementari di reazione psicologica siano rimasti inalterati nel corso del tempo. Un esempio illuminante giunge da 5, 1105-1112:

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Bonelli 2002, 51 «quella di Tucidide non è un’eternità cosmica, ma storica: più precisamente è un’eternità che dura fin tanto che la natura umana sia conforme a se stessa (3, 82, 2). Questo pensiero si colloca in un contesto di consapevolezza della negatività delle spinte aggressive che caratterizzano l’uomo e che le circostanze attualizzano. Le crudeltà che la stasis, la lotta fra le fazioni, ha provocato in Corcira e poi nel resto della Grecia sono dunque destinate a ripetersi fin che l’uomo sia uomo: Tucidide coglie e “oggettivamente” analizza, con forza di rappresentazione che è in ragione dell’assenza di ogni commento moralistico, una costante del comportamento umano, quando odio e rancore hanno modo di crescere all’interno di un collettivo». Su Tucidide e Lucrezio cf. anche Foster 2009, 367-99. 30 Gale 2004, 55 «the repetition and dislocated ordering of the basic narrative of birth and death hint at an endless cycle, even as we move with grim inevitably from the joys of spring to the squalor of disease and death in the plague».

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Introduzione Inque dies magis hi victum vitamque priorem commutare novis monstrabant rebus et igni ingenio qui praestabant et corde vigebant. Condere coeperunt urbis arcemque locare praesidium reges ipsi sibi perfugiumque et pecus atque agros divisere atque dedere pro facie cuiusque et viribus ingenioque; nam facies multum valuit viresque vigebant.

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La ricostruzione dell’origine delle istituzioni pubbliche in cui emergono i ‘migliori’, ossia gli aristocratici e i re, si legge in questi versi. Il criterio di attribuzione del potere da parte delle società si fondava sulle qualità oggettive, valori e meriti. Dall’altra parte, tali caratteristiche positive rappresentano la cesura tra una fase primitiva, connotata da una positiva equità della distribuzione delle risorse e un’epoca più recente, contraddistinta dalla nascita dei beni e della proprietà privata, fonte di inquietudine e di conflitti (vv. 1113-1116): Posterius res inventast aurumque repertum, quod facile et validis et pulchris dempsit honorem; divitioris enim sectam plerumque sequuntur 1115 quamlibet et fortes et pulchro corpore creti.

Il termine ‘analogia’ non è sufficiente per descrivere esattamente i procedimenti d’indagine che Lucrezio utilizza in particolare nel libro quinto. Innanzitutto, come Alessandro Schiesaro ha ben dimostrato, esistono due tipi di analogie in Lucrezio:31 analogie 31

Una rassegna dei principali casi di analogia si trovano in Classen 1968, 77-118; Schrijvers 1978, 77-121; Asmis 1983, 36-66; Schiesaro 1990; Garani 2007; Marković 2008. 35

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sincroniche e analogie diacroniche. Le analogie sincroniche sono applicate ai principi fisici e ai fenomeni astronomici esistenti nel momento stesso in cui ci si pone ad osservarli;32 le analogie diacroniche hanno per oggetto d’indagine le fasi di formazione dell’universo e della Terra, a partire dall’evoluzione della Terra e dell’uomo. Non è trascurabile il fatto che l’uso della metafora e dell’analogia di Empedocle, con le dovute differenze, ha inciso sull’analogia lucreziana, ma Lucrezio ne fa uno dei principali metodi per le dimostrazioni e le argomentazioni, a cui si aggiungono gli espedienti retorici e stilistici delle metafore e delle similitudini.33 Tucidide, invece, si serve dell’analogia per comprendere l’importanza di un determinato evento storico, per isolarlo nella sua grandezza, nel paragone con gli eventi passati. Quanto all’adozione dell’analogia come strumento persuasivo, Lucrezio vi ricorre per dimostrare i fenomeni naturali di un mondo giovane, mortale e prossimo alla fine, in un codice di comunicazione comprensibile anche dal suo destinatario non ancora iniziato al sapere epicureo. La lezione dei Presocratici è stata imprescindibile tanto per gli Epicurei quanto per gli Stoici, i quali si sono serviti del procedimento analogico per affermare, ad esempio, che il mondo è guidato da un principio razionale (cf. Cic. Nat. D. 2, 21, 54-56).34 L’uso delle metafore, delle personificazioni e il ricorso 32

Cf. Gentner 1982, 106-132. Cf. West 1969; Leen 1984, 107-123; e più recentemente Innes 2003, 727. 34 «Although Empedocles is most relevant for our reading of Lucretius, he is by no means the only Greek philosopher who uses poetic 33

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agli esempi non sono solo degli ornamenti stilistici, ma hanno aiutato nella dimostrazione scientifica,35 come caratteristiche essenziali di un genere, i principali autori delle teorie cosmologiche antiche, dalle origini presocratiche attraverso Platone, Aristotele, i Peripatetici, gli Stoici, gli Epicurei, fino alla poesia cosmologica di Lucrezio e di Manilio.36 L’uso dell’analogia in Lucrezio va letta anche alla luce di queste considerazioni, come ben spiega Myrto Garani: «in accordance with the Epicurean precepts of empirical investigation, Lucretius himself develops scientific methods of inference by analogy. His ultimate aim is to penetrate into the invisible natural world and express its secrets in a code of communication decipherable by his uninitiated pupil».37 Tuttavia, il procedimento analogico impiegato da Tucidide e Lucrezio presenta delle differenze. Per quello che riguarda l’uso dell’analogia diacronica, non è mancato neanche un ampio imagination as a vehicle for explaining philosophical concepts. In fact, metaphor and poetic imagery are essential features of Greek cosmological theories from the origins through to Plato and Aristotle. Epicurus’ insistence on analogy must be viewed in the light of this tradition» cf. Marković 2008, 91. In Lucrezio, anche l’analogia risulta essere una delle principali eredità di Epicuro, come metodo di ricerca scientifica. 35 L’analogia in Lucrezio non si limita soltanto a descrivere una somiglianza, ma chiarisce un collegamento causale tra due termini di paragone. Il ricorso alle metafore e agli esempi, risulta necessario se si tratta di spiegare il legame tra i fenomeni della natura e le leggi della fisica. Ad esempio, il fenomeno del mal d’amore in 4, 379-468 è spiegato con questa analogia: dal momento che l’anima è corporea, l’amore è come se fosse una ferita nell’anima, ed essa produce la stessa reazione fisica che infliggono le ferite nel corpo. 36 Cf. Arist. Rh. 1410b. 37 Cf. Garani 2007, 22. 37

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consenso sull’idea che tale metodo rappresenti una componente più che indispensabile del pensare storico. Nelle argomentazioni di ampio respiro l’analogia contribuisce a evidenziare l’importanza della tematica trattata. Si solleva un problema di natura epistemologica nella ricostruzione della preistoria, fondata su principi razionali e non su racconti mitologici. Nel sistema epicureo è imprescindibile il ricorso ai dati sensibili e ai procedimenti dimostrativi empirici per ogni aspetto della realtà.38 Pensare ‘scientificamente’ alla preistoria è per Schiesaro una grande sfida. Lucrezio scioglie il dubbio in 5, 1440-1447: Iam validis saepti degebant turribus aevum et divisa colebatur discretaque tellus; tum mari velivolis florebat navibus pontus, auxilia ac socios iam pacto foedere habebant, arminibus cum res gestas coepere poetae tradere; nec multo prius sunt elementa reperta. Propterea quid sit prius actum respicere aetas nostra nequit, nisi qua ratio vestigia monstrat.

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Il poeta spiega con quali mezzi avviene la conoscenza storica. La risposta è: ratio vestigia monstrat. L’affermazione è una precisazione incisiva che lascia solo intuire gli strumenti di conoscenza applicabili alla preistoria, periodo sul quale non si disponeva di nessuna fonte di informazione diretta. Il passato viene distinto in due fasi: la storia vera e propria si può conoscere grazie alla trasmissione scritta delle notizie; la preistoria, di cui principalmente Lucrezio si occupa nel libro quinto, tramite l’uso combinato di indizi (vestigia) e ragionamento (ratio). Qual è il 38

Cf. Carlozzo 1995, 83-89. 38

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ruolo della ratio nel reperimento e nell’interpretazione dei vestigia? «L’espressione ratio vestigia monstrat ha convinto molti critici del fatto che questa parte del DRN costituisca un esempio rilevante di atteggiamento analogico-induttivo, dove l’uso di scarni vestigia del passato ne permette la ricostruzione globale, anche molto prima che si parlasse di paradigmi indiziari cui lo storico ricorrerebbe nel suo lavoro».39 Gli indizi e le testimonianze della preistoria sono anche oggi scarsi e all’epoca possiamo immaginare quanto fossero superficiali e favolosi. La sola memoria non poteva coprire un arco di tempo di millenni. Lucrezio lasciava ai contemporanei le stesse perplessità dell’Archeologia tucididea, nonostante le loro ricostruzioni avessero la pretesa di essere il più possibile verosimili.40 Il racconto dell’uomo che Lucrezio delinea ovviamente non potrà essere frutto di una documentazione concreta, ‘sul campo’, ma è intuita dalla ratio, con un procedimento fondato sull’analogia, che stabilisce un confronto tra i saperi, come vestigia del passato. Grazie alla ricostruzione razionale, sarà possibile individuare i ‘segni’, a partire dai quali si potrà risalire ad un passato remoto, anteriore alle più antiche tradizioni letterarie.41 39

Schiesaro 1990, 101. Le tradizioni orali sono al centro della discussione in Tucidide: indagare gli atteggiamenti di Tucidide nei confronti della tradizione orale ci consente anche di chiarire la sua percezione personale del suo lavoro di storico e i limiti tra il suo lavoro e i generi contigui (poesia epica, storiografia erodotea). Almeno fino V secolo a.C. le archaiologíai dovevano essere solo orali. Tuttavia, il testo di Tucidide è stato probabilmente ascoltato oltre che letto (cf. Thomas 1992, 103 ss.; Luraghi 2000, 230). 41 Cf. Rocca 1997, 222 «Lucrezio sembra aver ben chiaro il concetto che 40

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Il processo di incivilimento esposto in 5, 1094-1457 dispone di alcuni elementi di informazione supplementari: i fatti da ricostruire sono in parte noti, perché sono ancora attuali. Un chiaro esempio del procedimento analogico diacronico si trova in 5, 1161-1168: nella ricostruzione storica, la nascita del sentimento religioso e dell’origine dei culti cede il passo alla polemica aperta contro il presente. Nunc quae causa deum per magnas numina gentis pervulgarit et ararum compleverit urbis suscipiendaque curarit sollemnia sacra, quae nunc in magnis florent sacra rebusque locisque, unde etiam nunc est mortalibus insitus horror qui delubra deum nova toto suscitat orbi terrarum et festis cogit celebrare diebus, non ita difficilest rationem reddere verbis.

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L’archeologia lucreziana si riferisce sempre alla contemporaneità dell’autore, come dimostrano i numerosi confronti tra passato e presente e con la presenza di richiami alla cultura e alla storia romana, in un racconto che resta pur sempre universale. Martin Ferguson Smith ha provato a dare una delle migliori e, ancora oggi, più convincenti interpretazioni di 5, 1440-1447.42 prima dell’invenzione dell’alfabeto non potè accadere che sotto altre forme si conservasse la memoria dei fatti e sembra inoltre ignorare qualsiasi esistenza di tradizione orale». 42 Cf. Smith 1964, 45-52. In quella sede, Smith aveva proposto l’emendamento propterea quod in luogo del tràdito propter odores (nei codici OQ). Il problema testuale presente nel v. 1442 fu definito da Bailey, ad loc. «the most desperate crux in the poem». Smith, nella sua edizione del 1975 (2a edizione Cambridge, MA, 1992) ha accolto, 40

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L’espressione nisi qua ratio vestigia monstrat rappresenta la dichiarazione esplicita di Lucrezio del proprio metodo scientifico applicato alla storia. Il passo è stato interpretato come una vera e propria allusione a Epicuro (cf. fr. 263 Us.; Ep. Hdt. 75; Diog. Laert. 10, 32; Diog. Oen. fr. 10, II Smith), riguardo al fatto che il ragionamento analogico per semêia è considerato l’unico sostituto dell’evidenza empirica. Smith ha ipotizzato, con un certo margine di certezza, che questi versi dovevano essere basati su alcuni capitoli dell’Archeologia di Tucidide. A rapidi tratti, Lucrezio delinea le condizioni della società agli albori della storia, quando cominciavano a formarsi e a circolare i poemi epici; l’epoca remota, che rappresentava il loro contesto, poteva soltanto essere narrata in modo congetturale. Resta da chiedersi a quale periodo stesse pensando Lucrezio dopo aver descritto la vita delle comunità primitive. Il merito dello studio di Smith è quello di aver dato un’interpretazione efficace e una soluzione convincente al testo. La risposta, secondo Smith, ci viene data da Lucrezio stesso, grazie ad un possibile riferimento nei vv. 1440-1147 ai vv. 326-27 del quinto libro: cur supera bellum Thebanum et funera Troiae non alias alii quoque res cecinere poetae?

Si tratta dello stesso periodo storico descritto da Tucidide nell’Archeologia (cf. in particolare Thuc. 1, 2-5; 1, 8-9), una fase invece, la congettura proposta da Merrill, navibus altum. 41

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storica che, stando alla distinzione erodotea tra “tempo degli dèi e degli eroi” e “tempo degli uomini” (cf. Hdt. 3, 122) si collocava nella fase eroica.43 Sia per Tucidide sia per Lucrezio il passaggio dalla protostoria alla storia è avvenuto proprio in un tempo raccontato soltanto dall’epica e dalle tradizioni orali (le akoaí), ovvero il bellum Thebanum e i funera Troiae (cf. Lucr. 5, 326). Tucidide racconta che prima della guerra di Troia non sembra che l’Ellade abbia svolto nessuna azione in comune e che la migliore prova (tekmérion) viene fornita proprio da Omero (cf. 1, 3, 3): «vissuto ancora parecchio dopo la guerra di Troia, non li chiamò mai con questo nome (scil. Elleni) nel loro insieme» (trad. G. Donini). Inoltre, i primi abitanti dell’Ellade non potevano commerciare gli uni con gli altri per terra o mare, poiché non erano ancora sufficientemente ricchi, né potevano coltivare la terra, perché non avevano costruito delle mura per difendersi dagli eventuali saccheggi degli aggressori. Soltanto grazie a Minosse – riporta Tucidide (cf. 1, 4, 1 «Ora Minosse fu il più antico di coloro che conosciamo attraverso la tradizione a possedere una flotta ed avere il controllo della maggior parte del mare oggi chiamato greco» trad. G. Donini) – i pirati provenienti dalla Caria furono allontanati dall’Egeo e Minosse ottenne il dominio dei mari e la conquista delle isole Cicladi.44 Nel capitolo 1, 7, 1, Tucidide 43

Erodoto colloca la talassocrazia di Minosse nel non-umano in comparazione con la tirannide di Policrate di Samo, che fa parte del “tempo degli uomini”. Cf. Calame 1999, 51. 44 Cf. anche Thuc. 1, 8, 2-4: «Quando fu costruita la flotta di Minosse, la navigazione tra un popolo e l’altro divenne più facile (poiché da lui furono espulsi i briganti dalle isole al momento in cui ne colonizzò la maggior parte); e gli uomini che abitavano lungo il mare, procurandosi ora più di prima il denaro, vivevano con maggiore sicurezza, e alcuni si 42

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racconta come tra le città fondate più recentemente, che disponevano di maggiori riserve di denaro, furono circondate da mura. Lo storico ateniese, con un ulteriore argomento analogico, formulato con la tipica antinomia tra passato e presente, spiega come mai non potessero verificarsi situazioni identiche anche nelle città di fondazione più antica: «le città antiche invece, a causa della pirateria che durava a lungo, furono fondate più lontane dal mare, sia nelle isole sia sulla terraferma (poiché i pirati non solo si depredavano a vicenda, ma depredavano anche le altre popolazioni che, pur non essendo dedite alla navigazione, abitavano vicino alle coste); e ancora ai nostri giorni queste popolazioni sono situate all’interno» (trad. G. Donini). Lucrezio ripropone uno scenario simile nei vv. 1440-1445: gli uomini trascorrevano una vita tranquilla e coltivavano la terra divisa in poderi ben distinti (cf. anche 5, 1105-1112), il mare fioriva di flotte navali, dopo aver stipulato patti di alleanza con i vicini. Questo accadde nello stesso periodo in cui poeti (Omero, in primis) incominciarono a tramandare le archaiologíai, le res gestae con carmi, ossia canti orali. Non molto tempo dopo fu inventata la scrittura (v. 1445 nec multo prius sunt elementa reperta),45 e quello fu l’inizio della storia. La scrittura, anche per Tucidide, si sostituisce alla memoria e alla tradizione orale. Lo circondavano anche di mura, visto che erano diventati più ricchi. Desiderosi entrambi di guadagni, i più deboli si assoggettavano alla dominazione dei più forti, e i più potenti, possedendo riserve di denaro, sottomettevano le città più piccole. E più tardi, quando questa situazione era già più diffusa, si fece la spedizione contro Troia». (trad. G. Donini). 45 Secondo il mito, l’inventore dell’alfabeto fu Palamede (cf. Stesic. fr. 213 Page; Eur. fr. 578 Nauck; Gorg. fr. B 11a, 30 DK). 43

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storico, come farà pure Lucrezio, non mette in dubbio né l’esistenza di Minosse, né la storicità della guerra di Troia e degli antenati di Agamennone. La storia di Lucrezio è senza dèi ed eroi e i riferimenti al mito sono funzionali alle argomentazioni razionali. Spesso il mito compare, ma nella maggior parte dei casi è ‘latente’.46 Le origini dell’analogia e l’eredità di Lucrezio Il metodo analogico ha origini molto antiche e la sua applicazione si è diffusa, con stili e modi diversi, in vari generi: la storiografia, la trattatistica filosofica, l’oratoria.47 Nel pensiero greco la tendenza era quella di contrapporre ciò che è visibile, ovvero lo spazio conoscibile immediatamente dall’uomo per via dei sensi (in modo empirico), da ciò che non è visibile. Nell’ambito dello spazio è invisibile tutto ciò che avviene in un luogo diverso da quello immediatamente percepibile da parte del soggetto, nell’ambito del tempo, invece, l’invisibile è costituito dal passato e dal futuro. A questo punto, la realtà risulta essere un continuo fluire dal visibile all’invisibile. Il presente e lo stato dell’hic et nunc sono, invece, gli unici momenti realmente conoscibili dalla mente umana, attraverso l’esperienza diretta. Il ragionamento per analogia, quindi, che si presenta sotto forma di una comparazione o di un parallelo, o di un’espressione metaforica, è messo in atto

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Gale 1994, 156. Cf. Cic. Top. 41, che afferma come l’analogia sia un argomento comune sia alla trattazione filosofica che a quella oratoria. 47

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Introduzione

quando qualcosa che non si conosce viene messa in relazione con qualcos’altro di simile che si conosce meglio.48 Nei poemi omerici si individuano i primi esempi di indagine analogica: sembra che tale procedimento fosse derivato dall’esercizio dell’arte mantica induttiva, come si può riscontrare ad esempio in Il. 2, 308-332; 12, 200-209 e Od. 15, 160 ss.49 Il modello sciamanico arcaico di rivelazione diretta dell’invisibile da parte del dio lascia progressivamente il posto a un modello in cui l’uomo deve interpretare segni di varia natura, abilità che proviene dall’onniscienza divina all’intelligenza umana. Nel pensiero filosofico, tra i Presocratici (Senofane, Parmenide, Eraclito ed Empedocle, Anassagora, vd. 59 B 21a DK, e Democrito, 68 A 111 DK),50 viene adottato il procedimento analogico in modi e con fini 48

Cf. Quint. Inst. 1, 6, 4 [analogiae] haec vis est, ut id quod dubium est ad aliquid simile, de quo non quaeritur, referat et incerta certis probet. Cf. Lausberg 1960, 394-397. 49 L’analogia in Omero sembra aver avuto origine dalla mantica induttiva. Corcella ha ben spiegato la differenza tra mantica intuitiva e mantica induttiva: «se nella mantica intuitiva l’indovino ha un rapporto diretto con la divinità, nella mantica induttiva il rapporto è indiretto. Il dio interviene sempre attivamente, inviando segni straordinari (tuoni, lampi, piogge di sangue) o rivelando la sua volontà attraverso particolari configurazioni dei fatti naturali (come il volo degli uccelli), ma l’indovino deve saper accogliere queste indicazioni attraverso una intepretazione». Cf. Corcella 1984, 33-34. 50 Nell’indagine sull’impiego dell’analogia tra i pensatori presocratici G.E.R. Lloyd ha operato un’importante distinzione tra le immagini che ricorrono nelle teorie cosmologiche e i paragoni messi in atto in discussioni su punti particolari. Da un lato ci sono i paragoni e le analogie che il ricercatore mette in opera per spiegare particolari aspetti della realtà non direttamente esaminabili (metodo analogico-semeiotico); d’altra parte però Lloyd ha messo in luce come i Presocratici 45

Introduzione

differenti: Democrito, ad esempio, lo applica principalmente alla fisica, aprendo la strada all’utilizzo dell’analogia nella medicina, nell’arte divinatoria, nella legge, nella retorica e, naturalmente, nella storiografia. L’analogia, dunque, ha un ruolo preponderante nei testi filosofici. L’analogia in Lucrezio o, meglio, l’uso della “root metaphor”, è ereditata dagli atomisti e da Epicuro. La “metafora di base”, invece, è un’eredità più antica, che risale a Empedocle, il “Maestro di verità”. Non è un caso che Cicerone, nella lettera indirizzata al fratello Quinto nel 54 a.C., dopo aver elogiato la poesia di Lucrezio, abbia citato la pubblicazione, ad opera di un certo Sallustio, di un’opera intitolata Empedoclea che, con ogni probabilità, doveva essere una traduzione latina dei poemi di Empedocle (cf. Cic. Q Fr. 2, 9, 4). Dunque, non era strano supporre un influsso della filosofia e, in particolar modo, della parola empedoclea su Lucrezio. Come strumento retorico, l’analogia rappresenta un metodo di trasmissione, per mezzo del quale si raggiunge la conoscenza integrale dell’essere, poiché è in grado di riconoscere e strutturare le differenze, da cui poi ricavare le somiglianze. Tra Empedocle e Lucrezio l’analogia declina tra retorica e logica: attraverso una trasposizione metaforica, era utile a far emergere l’affinità originaria tra gli elementi. In Empedocle, l’analogia è quasi dettata da un’intuizione che rivela per imaginem la natura intima delle cose:

concepiscano la natura del cosmo nella sua interezza mediante una analogia, come un corpo politico o un organismo vivente. Cf. Lloyd 1966, 210-383. 46

Introduzione Empedocle, 31 B 23 DK (Simpl. Phys. 159, 27; ed. italiana a cura di G. Reale)

Come quando i pittori dipingono tavolette votive, ben esperti nell’arte grazie al loro ingegno, attingendo con le mani tinte multicolori e mescolandole in armonia, un po’ più dell’una, dell’altra un po’ meno, e con queste preparano immagini simili a ogni cosa, creando alberi e uomini e donne e fiere e uccelli e pesci che abitano nelle acque e gli dèi dalla lunga vita, massimamente onorati; così non prevalga nella tua mente l’errore che altra sia la fonte degli esseri mortali, quanti in numero immenso sono divenuti manifesti. Ma sappi chiaramente queste cose, udendo la parola che viene dal dio.

Al di là della comune istanza didascalica, che trova nell’exemplum e nella similitudine la forma più appropriata al discorso suasivo, si riconosce un segno decisivo dell’interesse di Lucrezio per la poetica empedoclea. Nel testo di Empedocle (31 B 23 DK), vi sono similitudini pari, per efficacia di rappresentazione, alle similitudini caratteristiche dell’argomentare di Lucrezio. L’analogia, per Lucrezio, risulta proprio lo strumento d’indagine che si fonda sulla quantità e sulla proporzionalità: il macrocosmo ripete il microcosmo, il presente è in contrapposizione con il passato. Lucrezio vede nel procedimento analogico un metodo di graduale ampliamento della conoscenza e, allo stesso tempo, una forma di persuasione razionale, che lo porta a superare la concezione del ‘Maestro’ Empedocle di produrre soltanto immagini ed espressioni suggestive, capaci di condensare la sostanziale unità dell’Essere. Nonostante ciò, è innegabile che

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Introduzione

Lucrezio ricorra frequentemente alla similitudine e all’exemplum proprio per riprodurre l’effetto del modello empedocleo sul lettore. Myrto Garani51 ha sfidato l’influente teoria di David Sedley,52 secondo cui il debito di Lucrezio nei confronti di Empedocle sarebbe solo poetico e non filosofico. La Garani ha rivalutato la relazione tra Lucrezio e altri pensatori non epicurei, seguendo la teoria avanzata da David Furley,53 che dimostra come Empedocle abbia rappresentato anche un modello per il metodo scientifico lucreziano. I metodi empedoclei emergono in Lucrezio nella forma di personificazioni, similitudini e metafore: non sono soltanto degli artifici retorici e letterari, ma dei veri e propri strumenti di indagine, che aiutano a rivelare il vero senso del cosmo, attraverso la creazione di analogie tra visibile e invisibile, macrocosmo e microcosmo. L’eccezionale capacità di Empedocle di produrre rappresentazioni, di animare efficacemente il pensiero con termini di confronto che stimolano la fantasia, è diventato per Lucrezio un modello suggestivo di scrittura poetica. L’analogia in Lucrezio non ha il compito solo di rappresentare il mondo, attraverso l’omologia tra parole e cose, ma anche di capirne le cause. Non è solo uno dei principali metodi per argomentare le sue teorie, ma è il mezzo per comprendere e spiegare i fatti, come e perché essi accadono. A quel punto il poeta fa proprie le caratteristiche e le esigenze metodologiche tipiche di uno storico. L’analogia istituisce una relazione accostando ordini differenti, coglie il simile nel diverso, elimina l’elemento vago a 51

Garani 2007. Sedley 1998. 53 Furley 1970. 52

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Introduzione

vantaggio del continuo e del reale: è lo strumento privilegiato con cui si può conoscere l’essere in quanto tale. Per Lucrezio, l’analogia diviene il fondamentale principio conoscitivo integrato in un sistema razionale.

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Introduzione

2. Quale idea di progresso nel De rerum natura?

Inoltre, nonostante le cose sorprendenti che gli umani sono capaci di fare, restiamo incerti sui nostri obiettivi e sembriamo scontenti come sempre. Siamo passati dalle canoe alle galee, dai battelli a vapore alle navette spaziali, ma nessuno sa dove stiamo andando. Siamo più potenti di quanto siamo mai stati, ma non sappiamo che cosa fare con tutto questo potere. Peggio di tutto, gli umani sembrano più irresponsabili che mai. Siamo dèi che si sono fatti da sé, a tenerci compagnia abbiamo solo le leggi della fisica, e non dobbiamo render conto a nessuno. Di conseguenza stiamo causando la distruzione dei nostri compagni animali e dell’ecosistema circostante, ricercando null’altro che il nostro benessere e il nostro divertimento, e per giunta senza essere mai soddisfatti. Può esserci qualcosa di più pericoloso di una massa di dèi insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure ciò che vogliono? Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, 2011 (ed. italiana 2014). ‘Book V of De rerum natura has faith not only in the deus ille, but in mankind. We must agree . . . that the idea of human progress is not to be found there logically, but is there as an aspiration. A Republic is an advanced stage of this progress.’ Arnaldo Momigliano, review of Farrington, JRS 31:149-157, 387

Gli antichi racconti sull’origine della cultura e della società tra i primi uomini si possono distinguere almeno in due principali correnti. Da una parte, vi è una tradizione che fa capo alla mitologia, in particolare al mito dell’età dell’oro e al mito del progresso umano, tra fantasia esiodea, canti omerici e cenni nelle trame delle principali tragedie di età classica; dall’altro, troviamo la scienza ionica e il tentativo, pienamente riuscito nel V sec. a.C., di produrre una tradizione di storie in cui prevalesse l’attendibilità 50

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scientifica dell’emergente pensiero materialistico e meccanicistico di Democrito.54 La dicotomia tra le due tendenze persiste in tutto il V sec. a.C., momento in cui divenne lontana la visione primitivista, che idealizzava l’esistenza di una reale età aurea dell’umanità, come credeva Esiodo, oppure, ancora prima, con Omero, che già rimpiangeva un’età gloriosa di valori e di eroi.55 Le trattazioni cambiavano a seconda dei principi di ricostruzione indiziaria: ci sono testi che riportano una visione ciclica o anche basata sul principio dell’isonomía, della storia del progresso e regresso delle civiltà, una visione più evoluzionista e una nostalgicamente primitivista. Non mancano le differenze anche negli approcci di carattere filosofico, storico e sociale: ad 54

Un punto di partenza per uno studio sulle antiche Kulturgeschichte è il saggio di Cole 1967. Ci sarebbe anche un terzo approccio da includere, quello primitivista dei Cinici. Il cosiddetto “Hard Primitivism” dei Cinici, secondo la distinzione di Lovejoy-Boas 1935, differisce dal “Soft Primitivism” di chi rimpiange i “gold old days” di memoria esiodea), cf. anche Blundell 1986, 203-9; 213-224; Gale 1994, 157. 55 Non mancano dei testi epidittici, tratti da opere di diverso genere, che contengono dei passi che dimostrano, con esempi mitologici o anche della storia passata, lo straordinario passaggio per l’umanità dalla barbarie alla civilizzazione. A partire da esempi mitologici, come i discorsi di Prometeo in Eschilo, o Palamede nei frammenti del sofista Gorgia, fr. B 1 DK, Orfeo nelle Rane di Aristofane (v. 1032), Efesto in Hymn. Hom. 20, 1-7. Ma soprattutto nell’oratoria epidittica, Isocrate, nel Panegirico (28-40) e nel Panatenaico (119-48), celebra Atene come la portatrice della cultura, della legge, della tecnologia (cfr. Lucr. 6, 1-4; Cic. Flac. 62; Plin. Ep. 8, 24, 2; Stat. Theb. 12, 501-2); cf. anche passi simili delle orazioni A Nicocle (5-6) e Antidosi (253-54). Riprese esiodee e una certa nostalgia per la tendenza primitivista si riscontrano in Verg. G. 1, 145-46 e Aen. 8, 314-23, Macrob. Sat. 1, 7, 21 e naturalmente negli scholia alle Opere e i giorni realizzati da Tzetzes, che è anche l’ultima testimonianza di un’antica Kulturgeschichte. 51

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esempio, quanto il valore e la responsabilità dell’uomo abbiano influito sulla storia del progresso, oppure quanto le società siano state condizionate dal potere dei più forti, o quanto peso abbia avuto la responsabilità divina, a seconda che si tratti di una visione provvidenzialistica oppure casualista.56 La teoria del progresso connota la storia dell’uomo, anche sulla base dello sviluppo tecnologico, dalle origini remote fino al presente, con una seriazione di facies culturali diverse dalla più semplice alle più complesse ed evolute, fino a raggiungere una forma perfetta di organizzazione sociale, come quelle verificatesi in Grecia nel V secolo a.C.57 Vi sono sostanzialmente due esempi di teoria ‘evolutiva’: l’esempio formulato secondo il metodo determinista da Democrito e l’esempio del peripatetico Dicearco di Messene. A Democrito risalgono Epicuro e Lucrezio: tale modello si presenta come diacronico ed evolutivo. Preistoria e storia vengono concepite come un processo di stadi culturali in successione più o meno regolare, secondo un iter continuo, che avanza dalla semplicità alla complessità. Il modello della scuola peripatetica, da Aristotele nella Politica a Dicearco, si configura come ‘sincronico’ o descrittivo, suscettibile di applicazione anche nelle culture contemporanee, in cui si registrano per tipologia le varie forme di appropriazione/produzione, non inserite in uno schema di trasformazione evolutiva, ma presupponendo la possibilità di compresenza, integrazione e fusione.

56

Vale la pena di citare alcuni tra i più importanti studi sulla storia del progresso nell’antichità, a partire da Lovejoy-Boas 1935; Edelstein 1967; Dodds 1973; Zhmud 2006. 57 Sulla terminologia del progresso nell’antichità, cf. Edelstein 1967. 52

Introduzione

La teoria aristotelica, di cui è portavoce Dicearco, adatta la prospettiva descrittiva allo schema diacronico evolutivo. Quest’ultimo modello per molti aspetti è paragonabilie alle teorie culturali contemporanee, dove diacronia e sincronia sono compresenti e rappresentano le due griglie principali di lettura negli studi, tanto nell’etnologia tanto nella preistoria. Nel passato gli studi di etnologia sono stati fondati sull’evoluzionismo culturale, secondo una prospettiva che prevedeva i seguenti passaggi: dalla raccolta alla produzione del cibo, dal nomadismo al sedentarismo, dall’organizzazione semplice a quella complessa, secondo un criterio di sviluppo continuo, determinato da una rigida distinzione tra gli stadi culturali, visti in successione e non in compresenza. Attualmente, nelle prospettive e nei metodi di ricerca più avanzata, nel campo dell’archeologia preistorica si tende a eliminare ogni enfasi alla nozione stessa di progresso, e si sottopongono a una revisione critica di fondo le concezioni dell’evoluzione delle culture dal semplice al complesso. L’esposizione della teoria sociale epicurea poggia le sue basi su un resoconto originariamente elaborato da Democrito, come ha argomentato Thomas Cole.58 L’influsso di questa teoria può essere individuato anche in Vitruvio (libro 2 del De architectura), in parte anche in Posidonio/Seneca (Ep. 90), nonostante la visione stoica provvidenzialistica, e soprattutto in Diodoro Siculo (1, 7-8).59 Queste testimonianze non solo 58

Cole 1967. Dodds 1973, 10-11 non è convinto della teoria di Cole e afferma che: «Since, however, scholarship, like Nature, abhors a vacuum, the views of Protagoras have been reconstructed on the basis of the myth which Plato put in his mouth, and those of Democritus on the basis of what Diodorus 59

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riproducono una sequenza sostanzialmente identica di fasi della storia sociale, ma rivelano anche un metodo rigoroso dietro la loro ipotetica ricostruzione di quella storia. Gli Epicurei ereditarono dal modello di Democrito lo schema di base, almeno per quel che riguarda l’aspetto progressista della loro dottrina. La versione di Lucrezio non è una generica manomissione delle dottrine di Democrito e neanche il prodotto di una sorta di pessimismo innato nel poeta latino, che spezzasse la logica determinista e materialista democritea del progresso umano. Secondo la ricostruzione di David Sedley, il finale del quinto libro del DRN doveva derivare in gran parte dal XII libro del Perì Phýseos di Epicuro e sostanzialmente da altri scritti epicurei, dal momento che Lucrezio era un “Epicurean fundamentalist”.60 some four centuries later attributed to the “most generally recognized” of those natural scientists who hold that man and the cosmos had a beginning. (…) If we had to name a single source for the whole the likeliest was in fact Anaxagoras or his pupil Archelaus. But I should take Diodorus at his word and assume that he, or more likely some Hellenistic predecessors, being no philosopher, consulted a doxographic manual and out of what he found there put together a not very up-to-date summary of the opinions most often attributed to rationalist thinkers. If this is so, any hope of reconstructing in detail a ‘Democritean’ anthropology (as attempted most recently by Thomas Cole) seems doomed to failure». 60 Vi sono due principali tendenze nella critica riguardo al rapporto e all’eventuale polemica tra Lucrezio e le altre correnti filosofiche del suo tempo, in particolare lo Stoicismo. La prima, seguita da Schrijvers 1970, Kleve 1978, ritiene che Lucrezio si sia direttamente servito di una grande varietà di fonti, soprattutto per le porzioni di testo che riguardano la cosmologia e l’antropologia (alcuni argomenti sono stati interpretati come una risposta alle teorie dei rivali Peripatetici, Scettici o Stoici); la seconda, seguita da Sedley 1998, Warren 2007, vede in Lucrezio un “Epicurean fundamentalist”, per usare la celebre definizione di David 54

Introduzione

Gli scritti epicurei sull’origine della civilizzazione sono i seguenti: i paragrafi 75-76 dell’Epistola a Erodoto (origine del linguaggio), il De pietate di Filodemo, soprattutto per l’origine della concezione del divino e dei riti religiosi, gli scritti perduti di Ermarco, in parte parafrasati da Porfirio nel De abstinentia (1, 712), sull’origine della legge, e parte della lunga iscrizione fatta incidere da Diogene di Enoanda nel II sec. d.C. (fr. 12, coll. I-II Smith), dove si trova una ricostruzione della prime forme di aggregazione sociale. Da questi testi e dal finale del quinto libro del DRN (vv. 925-1457) è possibile ricostruire le caratteristiche principali del resoconto della Kulturgeschichte epicurea: ateleologico, non provvidenziale, senza l’intervento divino sulla terra e profondamente naturalistico e razionale. La natura è il modello di riferimento per l’uomo dal momento che, attraverso l’osservazione, offre lo spunto per dare vita alle arti e tecniche raffinate per mezzo del logismόs, la ragione.61 Sedley, che non sarebbe stato minimamente coinvolto in alcun tipo di polemica con i filosofi di altre correnti. Entrambe le posizioni sono state portate avanti con valide argomentazioni: si può affermare, credo, con una certa sicurezza, che lo scopo del DRN non fosse quello di entrare in polemica con le correnti filosofiche del suo tempo o di evidenziare le differenze tra le diverse visioni del cosmo. Lucrezio propone una versione alternativa, a suo avviso la migliore per la natura razionale delle sue argomentazioni. La risposta epicurea, nonostante i toni, è una versione diversa, ed è senza polemica, ma è una argomentazione serrata portata avanti da ben collaudate strategie retoriche e didattiche. Nonostante nel DRN ci siano 1153 versi apertamente dedicati alla critica di altre visioni, queste divergenze di opinione sono rivolte al pensiero di alcuni degli ispiratori dell’opera lucreziana, tra cui Democrito, Empedocle, Eraclito, Anassagora, verso i quali Lucrezio non può che provare un enorme rispetto. 61 Biscuso 2015; Staderini 2014. 55

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Recentemente David Konstan ha messo in luce come a partire dall’età ellenistica ci fossero due visioni sullo sviluppo della vita sociale. La prima appartiene alla tradizione stoica, che aveva raggiunto grandi progressi nelle arti e nelle scienze, nella filosofia e nella vita sociale, ma che riteneva che la natura umana fosse immutabile. La seconda deriva dall’epicureismo, che vede piuttosto una ‘evolutionary transformation’ della natura umana da un primitivo stadio asociale, in cui gli uomini a stento riuscivano a sopravvivere da soli e furono costretti, per necessità, a vivere in una condizione di mutua dipendenza.62 In Lucrezio vi era, in un certo senso, una “polemica” contro l’idea, fondamentalmente stoica, che un qualche individuo potesse aver scoperto o assegnato nomi alle cose e possa averli insegnati agli altri, quello che sarà il ruolo dei sapientes di Posidonio (cf. Sen. Ep. 90). I re menzionati in 5, 1109 sarebbero esistiti prima della scoperta della proprietà e del denaro, ed erano tali da necessitare di cittadelle in cui trovare un rifugio dall’invidia del popolo o dai nemici stranieri. È ragionevole concludere che gli Epicurei riconoscevano una sola fase nella storia, immediatamente successiva alla fine della vita prior, in cui emersero i desideri irrazionali e aggressivi, dei quali l’avidità non ne è che uno. Nella ricostruzione lucreziana della storia dell’umanità (5, 925-1457), al progresso non va un’adesione indiscriminata, perché la vita primitiva, nonostante tutti i suoi limiti, viene rappresentata come meno competitiva di quella moderna: in un mondo semplice e privo di invenzioni e strumenti complessi, era difficile morire in guerra, o affrontare i pericoli della navigazione o della corsa al 62

Konstan 2017, 17-25. 56

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potere.63 A far nascere dei sentimenti negativi quali l’ambizione e l’invidia sarebbe stato il generale miglioramento intellettuale e l’organizzazione della società in un modo complesso e con regole più articolate (vv. 1120-23). Resta una domanda di fondo: qual è l’idea lucreziana del progresso? «We need worry less about whether Lucretius “approves” of this first stage of human life, or whether he is “Primitivist” or a “Progressist”»64 ha lucidamente osservato Gordon Campbell nell’introduzione al suo commento ai vv. 7721104 del quinto libro del DRN. Il giudizio di Lucrezio sul progresso ha diviso i pareri degli studiosi in almeno tre interpretazioni differenti. La prima, tendenzialmente primitivista, sostiene che Lucrezio sia diviso tra ottimismo razionalista epicureo e intimo pessimismo poetico e che vagheggi il ritorno alla purezza e innocenza delle origini.65 La seconda posizione ritiene che Lucrezio sia favorevole al progresso come presupposto della aspháleia, la sicurezza materiale necessaria prima dell’arrivo salvifico del dio Epicuro.66 La terza ritiene che Lucrezio rimpianga 63

Edelstein 1967, 237. Campbell 2003, 11. 65 Robin 1916; Green 1942; Giuffrida 1959; Perelli 1967; Bertoli 1980. 66 Taylor 1947; Borle 1962; Furley 1978; Luciani 2000, 117-177. David Furley (Furley 1978, 13) dichiara che la sua posizione si avvicina molto a quella di Fredouille, e afferma che: «in the Epicurean system the development of human society and technology is necessarily a progression of a certain sort. There was first a simple way of life, when the human species first emerged from earth, now a highly complex one, and the task is to describe the gradual progression from one to the other. But neither semplicity itself, nor complexity itself, gives a morally better way of life: which of the two is better is simply something that has to be determined by looking at both in the light of Epicurus’ moral principles». 64

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Introduzione

una precisa fase dell’età preistorica, che coincide, secondo la ricostruzione di Farrington e Manuwald,67 con la seconda fase della preistoria, in cui gli uomini, scoperto il fuoco e costruite le prime abitazioni, iniziavano a stringere rapporti familiari e accordi con i vicini (finitimi).68 Tuttavia, uno dei punti di debolezza più grandi 67

Farrington 1953; Manuwald 1980. Farrington 1953; Blickmann 1989; Novara 1982, 50-65. Secondo Farrington 1953, 62 gli Epicurei dividevano la storia dell’umanità in due fasi. La prima fase, la vita prior (v. 1105) era costituita da una semplice società pastorale, unita da un patto di amicizia e libera da ogni divisione in classi e da ogni oppressione politica. La seconda era la fase politica, che essi condannavano. Dal momento che i primi uomini avevano scoperto la giustizia naturale, prima di imporre su di sé la legge, per Farrington sorgeva spontanea una domanda: come mai gli uomini hanno abbandonato la vita buona per costruirsene una peggiore, dominata dalla violenza e dalla corsa al potere? La paura della morte è stata la causa della rottura di questo equilibrio. È la paura, in generale, a provocare avidità e a distruggere il patto di amicizia e a condurre l’uomo in una lotta competitiva che distrugge il piacere della vita (vv. 1105-1135). La vita prior rimase l’ideale degli Epicurei. Per conseguenza, conclude Farrington, essi erano reazionari nel senso più stretto. Credevano nel ritornare alla forma di società che era stata soppiantata dallo Stato. Sapevano che sarebbe stato necessario abbandonare molte delle conquiste della civiltà, e quindi abbandonare una parte di progresso. Il problema che si è posto Farrington è il seguente: se gli esseri umani hanno temuto la morte fin dallo stato primitivo e se l’avidità, allo stesso modo dell’ambizione, è un sintomo del timore della morte, come mai la prima società umana era relativamente libera da desideri socialmente distruttivi e conseguì la stabilità principalmente sulla base dell’amicizia? L’ansia all’idea della morte poteva manifestarsi come avidità soltanto quando nella società fosse stata introdotta la proprietà privata. Dunque, la questione che si pone è se l’introduzione della proprietà privata e la scoperta dell’oro (v. 1113), e i conseguenti mali dell’attività, descritti nei versi successivi, contrassegnino una fase storica competitiva e violenta 68

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della tesi di Farrington, mette in luce Konstan,69 consiste nel fatto che gli Epicurei difficilmente avrebbero potuto guardare indietro alla vita prior come ad un paradigma della comunità ideale, se l’avessero immaginata come una società di persone la cui sicurezza era corrosa dal timore della morte, da desideri vani, da ansie infondate. Concordo con Campbell quando scrive che la preistoria lucreziana «is not configured according to his approval or disapproval, but according to his didactic purposes, and both positive and negative constructions of the past, both traditional, are of use to him in this. His technique of borrowing the language and topoi of his opponents to better convey his message, may well invest the prehistory with various shadings, from the darkest to the lightest, and from the most optimistic to the most pessimistic, but he attaches no absolute values to prehistory».70 Dal II sec. a.C. gli Epicurei mostrarono per le arti e le scienze un interesse maggiore di quello provato da Epicuro stesso e dalla prima generazione dei suoi discepoli.71 Cominciarono a distinta da una aristocrazia “illuminata”. Cf. Konstan 2007, 109-111. 69 Konstan 2007, 109-10. 70 Campbell 2003, 11. 71 Se si prova a fare una breve sintesi della Storia economica e sociale nel mondo antico, Michael Rostovtzeff propone queste quattro tesi sul progresso nell’antichità: «Nel periodo ellenistico vi fu un brillante sviluppo delle scienze esatte; la scienza ellenistica aveva applicazioni tecnologiche non marginali; furono ideate applicazioni virtualmente importanti della tecnologia scientifica ai metodi di produzione; alcune delle applicazioni del punto precedente furono realmente usate in modo significativo, dando vita a un progresso economico apprezzabile» (cf. Rostovtzeff 1970, vol. III, 270). Alle tesi moderniste di Rostovtzeff si sono opposte quelle primitiviste, che hanno negato tutti i quattro punti precedenti. Gli studiosi hanno accolto a lungo il primitivismo anche sul 59

Introduzione

essere coltivate la matematica e le scienze e la ricerca storica cominciò a essere favorita nella forma di sintesi dossografiche, mentre nella cerchia raccoltasi attorno a Filodemo, furono elaborati nei dettagli i principi della ricerca empirica. Di Filodemo e per il tramite dei suoi seguaci non ci è pervenuta alcuna idea circa la continuazione del progresso: a sua volta, Lucrezio, nel DRN, non dice mai esplicitamente che ci sarà un progresso nel futuro, anche se si è supposto che abbia sostenuto tale prospettiva sulla base di 5, 332-334: Quare etiam quaedam nunc artes expoliuntur, nunc etiam augescunt; nunc addita navigiis sunt multa, modo organici melicos peperere sonores.

Si può anche pensare che Lucrezio intuì la continuità del progresso e che a suo parere il progresso continuerà finché esiste l’uomo.72 Dichiarare che Lucrezio sarebbe sostenitore di tali affermazioni è in aperta contraddizione con il suo giudizio finale sul corso della civilizzazione umana e con le tendenze generali dell’epicureismo da lui professato, nei versi in cui riassume il suo lungo racconto della storia umana (vv. 1448-1457): piano della storia della scienza, dando luogo a un assurdo dibattito sulle cause di quella che è stata considerata la “stagnazione” dello sviluppo scientifico nell’epoca ellenistica. Ma qualsiasi mutamento può essere visto come una stagnazione o un regresso da chi sceglie di identificare altrove l’acme del fenomeno studiato. Per alcuni decenni la contesa tra le tesi moderniste o massimaliste e quelle opposte, minimaliste o primitiviste, è stata decisa a favore delle seconde, grazie anche all’enorme influenza degli scritti di Moses Finley (cf. Russo 1996, 28086). 72 Cf. anche Arrighetti 1997, 21-33. 60

Introduzione

Navigia atque agri culturas moenia leges arma vias vestis cetera de genere horum, praemia, delicias quoque vitae funditus omnis, carmina, picturas, et daedala signa polita, usus et impigrae simul experientia mentis

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paulatim docuit pedetemptim progredientis. Sic unumquicquid paulatim protrahit aetas in medium ratioque in luminis erigit oras. Namque alid ex alio clarescere corde videbant, artibus ad summum donec venere cacumen.

1455

Gli ultimi versi del libro 5 (vv. 1454-1457) sono agli antipodi dei vv. 1308-1349: gli uomini vedono una cosa ricevere luce da un’altra, finché raggiungono il punto più elevato con le loro arti.74 L’ultimo verso può solo significare che tutte le arti hanno una misura di perfezione oltre la quale non si può andare. Non vi è un’unica legge sul progresso a cui Lucrezio crede. Il progresso non è sempre lineare, ma nel percorso che conduce alle scoperte e alle invenzioni non può mancare il margine del fallimento. Non esiste per Lucrezio un miglioramento continuo delle arti e delle scienze 73

Cf. Schiesaro 1989b, 286-9 che analizza l’emistichio pedetemptim progredientis, che ricorre due volte nel quinto libro (5, 533 e 5, 1453). Nel v. 1453 pedetemptim è rafforzato da paulatim, che sta a indicare la gradualità e la lentezza del progresso umano. L’idea della gradualità del cammino (indicata dal verbo progredior) del progresso è antica ed è ben radicata nella tradizione filosofica, soprattutto atomistica. L’umanità procede a poco a poco, spinta dalla necessità e dal caso. 74 Questi versi riecheggiano il finale del I libro, dove Lucrezio ha espresso fiducia nella vittoria della luce e della verità sul buio e sull’ignoranza (1, 1114-17, in particolare v. 1115 namque alid ex alio clarescet). 61

Introduzione

nel corso di tutte le età a venire. Con le arti e solo con alcune tecniche si può credere di aver raggiunto una vetta, cacumen. Il punto più alto della civiltà è ben diverso dalla vetta che l’uomo ambizioso, in cerca di fama e gloria, crede di raggiungere, dopo un percorso tortuoso per la conquista del potere (5, 1123 ad summum succedere honorem e 5, 1141-2 res itaque ad summam faecem turbasque redibat/ imperium sibi cum ac summatum quisque petebat). Quello che si ritrova nel DRN è un continuo ciclo di alti e bassi, di contrapposizioni analogiche di passato e presente, di fallimenti e riprese: gli uomini lo chiamano il ciclo del tempo (5, 1275-76 nunc iacet aes, aurum in summum successit honorem/ Sic volvenda aetas commutat, tempora rerum; 5, 1457 ad summum donec venere cacumen). La visione della storia in Lucrezio, come progresso o regresso, si presenta particolarmente complessa e ambigua. La sezione conclusiva del libro 5 sulla storia della cultura sembra controbilanciare il progresso con il regresso, il suo movimento, proiettato in avanti con la circolarità, per sottolineare (vv. 1412-1425) le costanti dell’ignoranza, della follia, della violenta passione che opera attraverso la storia umana:

Nam quid adest praesto, nisi quid cognovimus ante suavius, in primis placet et pollere videtur, posteriorque fere melior res illa reperta perdit et immutat sensus ad pristina quaeque. 1415 Sic odium coepit glandis, si illa relicta strata cubilia sunt herbis et frondibus aucta. Pellis item cecidit vestis contempta ferinae; quam reor invidia tali tunc esse repertam, ut letum insidiis qui gessit primus obiret, 1420 et tamen inter eos distractam sanguine multo

62

Introduzione disperiisse neque in fructum convertere quisse. Tunc igitur pelles, nunc aurum et purpura curis excercent hominum vitam belloque fatigant; quo magis in nobis, ut opinor, culpa resedit.

1425

Le scoperte e le invenzioni più vantaggiose sono in grado di superare le precedenti e le mode passano, così come alcuni oggetti perdono valore e sono sminuiti (5, 1273 tum fuit in pretio magis aes aurumque iacebat). Qui Lucrezio combina la sua prospettiva storica con quella universale epicurea per cui i piaceri possono variare, ma non crescere. L’elemento costante che condanna gli uomini all’angoscia e alla frustrazione è sempre l’ignoranza, quella di non conoscere la vera natura della felicità e del piacere (vera voluptas, v. 1433). L’osservazione conclusiva di questa sezione, nel v. 1435, che le grandi tempeste della guerra sono la conseguenza dell’ignoranza morale umana, riprende il tema ricorrente della guerra come forza regressiva nella vita umana e così si connette ai vv. 1308-49. L’uomo civilizzato non trae maggiori piaceri dai prodotti della sua tecnica e delle sue invenzioni più di quanto non facesse l’uomo allo ‘stato di natura’. Senza il contatto con gli altri simili, la vita primitiva generava esseri bestiali e solo con lo scambio si poteva creare la cultura e la civiltà (vv. 1409-1411).75 75

È necessario tenere conto del significato che il libro V riveste all’interno dell’intera architettura del poema e del suo disegno filosofico generale. Solo così è possibile superare talune interpretazioni erronee, eppure ricorrenti nell’analisi complessiva del poema, come quella relativa alla profezia annunciata a Memmio all’inizio del libro (5, 95-96 e 104-106). Si tratta dell’imminente crollo della macchina del mondo, causato da un terremoto di immane forza distruttiva, che è stata indicata come una dimostrazione erronea del pessimismo cosmico di Lucrezio. 63

Introduzione

Il continuo alternarsi di vita e di morte, che Lucrezio ha descritto nel DRN, è l’effetto della combinazione e della dissoluzione degli atomi e dei concilia. Non sorprende, a livello macroscopico, che si parli di morte e dissoluzione dei mondi, dal momento che vita e morte, evoluzione e dissoluzione, si intrecciano l’una nell’altra. In un unico paragone analogico, proprio come l’uomo civilizzato deve continuare la lotta contro i retaggi ferini del suo antenato primitivo, così Lucrezio, sul piano morale e su quello della storia sociale e materiale, segue le orme del Maestro Epicuro (5, 55) e prova a comunicare il messaggio di una conquista relativamente recente, quella della vera ratio (1, 6271 e 5, 332-336). Con la contrapposizione dell’antica lotta tra luce e tenebre, come immagine cornice del libro 5 (vv. 11-54 e vv. 1455-1456), e con la figura divinizzata di Epicuro (5, 43-54), che combatte (meglio di Ercole) mostri favolosi, Lucrezio non presenta ai suoi lettori delle semplici allegorie, ma ha fabbricato una nuova mitologia. Il DRN non è un poema senza eroe. Come è stato messo in luce da Gian Biagio Conte, infatti, «questa pregnanza epica ha un vasto raggio di efficacia: non rivela soltanto, da parte del testo lucreziano, l’intenzione di trasfigurare Epicuro a eroe coraggioso, ma programmaticamente segnala alcune implicazioni di poetica che arricchiscono il De rerum natura, rendendolo una forma complessa: il discorso didascalico si contamina di funzioni non sue e, cercando di proporsi anche come racconto di un’esperienza La presenza di queste immagini, ricorrenti in altri passi del DRN, non sono incompatibili con l’ottimismo di fondo della filosofia epicurea, ma costituiscono una delle ragioni dottrinali più profonde. Infatti, l’emancipazione dalle paure e dai terrori della religione avviene solo nel momento in cui si dà una ragione scientifica, naturalistica e immanente della morte, cf. Warren 2005. 64

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eroica degna dell’epos più grande, si forgia un personaggio di cui dire le imprese».76 Il resoconto lucreziano, nonostante si muova su una base ateologica, ateleologica e non provvidenziale, lascia un messaggio didascalico profondamente morale e salvifico con l’esaltazione della figura di Epicuro, dai tratti sovrumani e divini, elevato come l’autentico cacumen, vetta dello sviluppo culturale dell’umanità. La grandezza di Epicuro consiste nell’aver scacciato dall’animo degli uomini una serie di paure (5, 43-54). At nisi purgatumst pectus, quae proelia nobis atque pericula tumst ingratis insinuandum? Quantae tum scindunt hominem cuppedinis acres sollicitum curae quantique perinde timores? Quidve superbia spurcitia ac petulantia? Quantas efficiunt clades? Quid luxus desidiaeque? Haec igitur qui cuncta subegerit ex animoque expulerit dictis, non armis, nonne decebit hunc hominem numerum divum dignarier esse? Cum bene praesertim multa ac divinitis ipsis immortalibus de divis dare dicta suerit atque omnem rerum naturam pandere dictis.

45

50

La divinizzazione di Epicuro, in apertura del V libro, si armonizza bene con l’importanza del progresso morale cui aspira il poeta, raggiungibile esclusivamente con la dottrina del maestro, visto che le scoperte materiali non avevano eliminato turbamenti e timori. Mediante le vivaci immagini e le descrizioni emblematiche, dalla forza vitale di Venere nel primo proemio (1, 1-61), alla 76

Cf. Conte 1990, 9. 65

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surreale scena di battaglia in 5, 1308-49, sino ai versi finali del libro (5, 1412-1457), Lucrezio ricrea l’antico conflitto mitologico tra caos e ordine, morte e vita, che si ramifica in ogni direzione in analogie, attraverso il mondo naturale e sociale rappresentato nel poema. La poesia risulta essere più filosofica della storia perché riflette l’universale (Arist. Poet. 9), ciò che potrebbe essere accaduto, in luogo di ciò che è accaduto realmente.77 Tramite l’accumulazione, l’enumerazione, l’intensificazione dei dettagli, Lucrezio si serve, ad esempio, degli elefanti (vv. 1305-1308) per produrre l’effetto di una enfatizzazione degli orrori della guerra disposti in ‘climax’ ascendente: prima gli elefanti, poi i cinghiali, i tori e infine i leoni, utilizzati come macchine da guerra, in una dimensione fantastica e iperbolica. I boves lucae, dall’organo prensile a forma di serpente (anguimanus), sono gli elefanti, che Lucrezio riesce a rendere come se fossero delle creature fantastiche e mostruose, simili a quelle contro cui combatte Ercole/Epicuro nel proemio del quinto libro (5, 29-38). La violenza dei dettagli di Lucrezio sottolinea l’estraneità di una violenza primitiva che l’uomo civilizzato è comunque costretto ad accettare, come compagna del progresso della civiltà e della natura umana, espressione della sua sfera selvaggia e ferina. Nel libro quinto, il progresso materiale va di pari passo con la decadenza morale: la condanna della civiltà e del progresso si spiega con l’insorgere di desideri nuovi e non necessari che allontanano dalla semplicità primitiva. Tutta la fenomenologia comparativa tra vita primitiva e moderna giunge al suo scopo 77

Cf. Barfield 2011. 66

Introduzione

dottrinale: le comodità della vita moderna non possono sostituire la ratio epicurea, l’unico bene davvero necessario. Il progresso epicureo non è un progresso all’infinito, ma un progresso ciclico: si tratta di una ciclicità scevra di teleologia e di determinismo, il cui fattore essenziale è la libertà, professata da Epicuro e da Lucrezio. Le scoperte, nonostante non abbiano assicurato una nuova felicità, hanno offerto alle passioni e agli istinti nuove occasioni di scatenarsi: il ferro, ad esempio, è servito soprattutto a forgiare le armi per la guerra (vv. 1278-1296). Lucrezio, per riprendere gli insegnamenti del Maestro, persegue una concezione del mondo, che libera l’uomo dal timore irrazionale degli dèi e lo induce a considerare ogni istante come una sorta di miracolo. Il piacere del saggio consiste nel contemplare il mondo in pace e in serenità, proprio come gli dèi che non prendono parte alle vicende umane e naturali, perché turberebbero il loro eterno riposo. Lucrezio, con la dottrina epicurea, inserisce l’individuo nel mondo e nell’universo, liberandolo da ogni forma di timore e angoscia.78 Lucrezio vede un’alternativa a un mondo fondato sulla violenza e sull’oppressione. L’unico modo per fuggire consiste nella liberazione da queste paure ataviche e irrazionali, profondamente insite nell’animo umano, come la paura della morte e l’incognita dell’aldilà, che portano l’uomo all’infelicità. Al centro del DRN ci sono i principi chiave di una concezione moderna del mondo. Lucrezio tradusse questa filosofia in termini talvolta fantastici e visionari, in modo da far contemplare al lettore la vicenda misteriosa della vita cosmica e umana, e del perpetuo divenire delle cose. 78

Cf. Hadot 2005, 180-81. 67

Introduzione

La storia sarebbe la registrazione di progresso e insieme declino dell’umanità, dove il lato buio è indubbiamente rischiarato dalle conquiste intellettuali dell’umanità, e specialmente dalle scoperte filosofiche di Epicuro. Sul progressismo o primitivismo di Lucrezio si possono trovare alcuni elementi o tendenze di tipo progressistico o primitivistico, senza accordare il primato a nessuno dei due. Questa soluzione, tuttavia, nega che l’epicureismo avesse una sua ricostruzione sistematica e coerente della storia sociale. Ma tale ricostruzione era necessaria per la dottrina di Epicuro, e una breve discussione di alcuni motivi di questo può rivelare, a sua volta, perché mai fosse probabile che il primitivismo e il progressismo si rivelassero categorie sterili. Secondo gli Epicurei, gli esseri umani hanno per natura la capacità di condurre una vita compiuta: questo significava una vita libera da timori e desideri irrazionali, in modo tale che le persone potessero godersi in tutta sicurezza i piaceri naturali e la libertà dal dolore corporeo. Di fatto, tuttavia, gli esseri umani dovunque abbandonano il piacere e la sicurezza, sotto l’impulso di timori infondati e di desideri inutili. Inoltre, gli Epicurei, per questa corruzione non rimproveravano una qualche parte della psicologia naturale dell’umanità, come ad esempio i sensi o le passioni. Gli esseri umani, allo stato di natura, non sono spinti a praticare i vizi che sono sintomatici delle passioni irrazionali, cosa che avviene in uno stadio più avanzato di società. Questo particolare punto ha conferito alla teoria un aspetto “primitivistico”. Al contempo, c’è bisogno di un certo grado di organizzazione sociale e di progresso tecnologico per garantire un minimo essenziale di sicurezza, e l’interesse degli Epicurei verso la lunga e difficile lotta per i mezzi

68

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che assicurano il benessere materiale e culturale dava alla teoria epicurea un tono progressista. Di certo, la fiducia piena nella capacità dell’uomo di andare al di là di se stesso, ad approfondire il segreto dell’autentica felicità e della verità, a creare sempre nuove forme della vita umana e a costruirsi attorno un mondo sempre più perfetto, erano concetti estranei a Epicuro e estranei rimasero ai suoi successori.79 «Lucretius creates, then, an idea of progress through the discoveries and developments of multiple people. This too suggests, via analogy, when Lucretius turns immediately thereafter to discuss rendering Epicureanism into Latin, that he envisions himself as a member of a group similar to the groups of poets, shipbuilders and musicians mentioned immediately above. His new group, then, is that of translators of Greek Epicureanism into Latin», scrive Chris Eckerman molto condivisibilmente.80 La possibilità di progressi nella ricerca restò strettamente limitata, per Lucrezio e per gli altri seguaci di Epicuro, solo ad alcune delle arti e delle scienze riconosciute nel mondo antico. Se è vero che Lucrezio esalta la potenza della natura quando elogia il 79

Lontana dall’utilitas epicurea, di stampo democriteo, è la concezione del progresso degli Stoici. Soprattutto nella cosiddetta Stoà di mezzo, la dottrina del progresso divenne parte integrante della dottrina stoica. Forse fu Panezio il primo a vedere nell’esercizio delle arti e delle scienze la vera forza che rende ‘umano’ l’uomo. Posidonio, in seguito, considerò l’elaborazione della civiltà come obiettivo principale dell’uomo, insegnando che sia le forme di conoscenza più alte, sia le più modeste sarebbero state scoperte sotto la guida della filosofia, e dei sapientes, dunque dalla ragione (cf. Sen. Ep. 90, 6). Lo sviluppo era considerato come un’ascesa graduale ed una sorta di educazione del genere umano. Cf. Edelstein 1967. 80 Eckerman 2013, 793. 69

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suo tempo, è vero anche che la considera come già esaurita, quando parla del futuro in termini generali (2, 1150 ss.).81 Il cambiamento costante attraverso il tempo, una sorta di legge di crescita e di decadenza, era uno degli assiomi fondamentali della cosmologia lucreziana, come già di quella epicurea. Si dovrà supporre che, nella loro prospettiva, anche le arti e le scienze, una volta raggiunto l’apice del loro sviluppo, dovessero declinare insieme alla civiltà che la aveva prodotte. Questa circolarità interna alla direzione in avanti della storia umana non contraddice l’apprezzamento che Lucrezio dichiara nei confronti della concretezza del progresso dai tempi più antichi fino al presente, ma piuttosto sottolinea il suo senso di complessità. Proprio perché gode di migliori condizioni materiali, l’uomo moderno ha 81

Un preconcetto ben fondato è quello che la società romana fosse sempre stata caratterizzata da una sostanziale reticenza nei riguardi di tutto ciò che è nuovo, dove nuovo è anche sinonimo di rivoluzionario. Questa tendenza reazionaria è stata sottolineata in gran parte da Ronald Syme nel 1939 (cf. Syme 1962, 317, ed. italiana): «I Romani, presi come popolo erano dominati da una particolare venerazione per l’autorità, i precedenti, la tradizione, e insieme da una radicata avversione per ogni mutamento, a meno che il mutamento non potesse dimostrarsi in armonia col costume avito, col mos maiorum. Mancando ancora una qualsiasi fede nel progresso, che non era ancora stata inventata, i Romani guardavano alla novità con sfiducia e avversione. La parola novus suonava male». L’idea stessa della novità era male accettata (cf. Romano 2008, 20) e la sollecitazione a prendere atto della necessità dei cambiamenti si verificò solo in momenti di profonda trasformazione politica, come nel passaggio dalla Repubblica al Principato, cambiamento che fu vissuto in modo destabilizzante, alla stregua di una vera e propria crisi di identità culturale. La Romano individua in Lucrezio l’unica eccezione alla tendenza di fondo, che consisteva nel guardare alle res novae come a delle insidiose e rivoluzionarie minacce alla tradizione e all’ordine costituito. 70

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maggiori responsabilità per le sofferenze che infligge a se stesso e agli altri.

71

Introduzione

3. A History of Violence. Paura, guerra e conflitto interiore nel De rerum natura Il genere umano è condannato a sprofondare sempre più nella notte primordiale prima di ridare la sua cruenta scalata alla civiltà. Jack London, La peste scarlatta, 1912 (ed. italiana 2009)

Le cause del male. Passioni e rimedi Nel resoconto epicureo dell’origine della civilizzazione c’è un aspetto interessante, ben messo in luce da David Konstan: la genesi delle passioni irrazionali. Paura e violenza sono pericolosamente intrecciate in tutto il DRN e nel finale del quinto libro ci si trova dinanzi all’esempio più eclatante. Queste due forze irrazionali sono l’una la causa dell’altra. La paura diviene una delle ragioni che scatenano forme di violenza e rappresenta il nemico invisibile da eliminare. Dal momento che nel corso della storia sorsero timori e desideri irrazionali, per gli Epicurei è naturale attendersi che lo sviluppo sociale sia rappresentato, nella teoria, come un processo comprensivo di due o più fasi, almeno una delle quali anteriore alla manifestazione diffusa di tali passioni. Ci sono diversi aspetti delle passioni umane, affrontate da Lucrezio nei vv. 1105-1349 del quinto libro, tra cui l’invidia, l’ambizione, il senso di colpa. Queste tre diverse passioni sono vissute attraverso emozioni profonde, descritte anche con l’ausilio dell’immaginario mitologico, che mostrano il sentimento più profondo della psiche umana, la paura 72

Introduzione

– per la morte, per la sofferenza, per la perdita, per il dolore – e la sua immediata reazione, la violenza. Che la violenza sorga a causa di invidia, ambizione, superstizione poco importa: essa esplode come forza distruttiva per se stessi e per gli altri e finisce per procurare assuefazione e addirittura un piacere perverso. Pathos è il principale termine greco che ha il significato di emozione, e, nell’ambito della psicologia, potrebbe anche includere le sensazioni come il piacere e il dolore, nonché i desideri e gli appetiti, che non sono necessariamente emozioni nel senso stretto del termine.82 Aristotele ha affrontato e chiarito esaustivamente il senso del termine pathos, nel suo significato più autentico di ‘emozione’ (Rh. 1378a 20-23): ira, soddisfazione che placa l’ira, disprezzo, amore, odio, timore, coraggio, vergogna, pietà, invidia, ambizione, competitività. Alcuni di questi sono mossi da un desiderio, come ad esempio l’ira e l’amore; ma i desideri semplici, nel senso di appetiti, come fame, sete, riparo e simili, non sono trattati come páthe. Nella Retorica il filosofo dichiara che il piacere e il dolore sono elementi o componenti dei páthe. Nell’Etica Nicomachea (1105b 21-23) include il desiderio in senso lato tra i páthe, «piacere e dolore accompagnano ogni pathos ed ogni azione» (Eth. Nic. 1104b14-15). Epicuro segue una strada diversa da Aristotele e sembra quasi deliberatamente rovesciare il racconto del filosofo peripatetico. Pathos è una delle tre capacità epistemologiche di base che Epicuro definisce criteri: aístesis, la sensazione, prόlepsis, il preconcetto e pathos, l’emozione, la passione (cf. Diog. Laert. 10, 31). Secondo Epicuro ci sono due páthe, piacere e dolore, che esistono in ogni animale: l’uno relativo a ciò che è 82

Sul tema cf. Konstan 2007. 73

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proprio, l’altro a ciò che è estraneo, e in base a questi si distinguono gli atti di scegliere e di evitare.83 Cicerone nel De finibus (3, 10, 35) scrive che «i turbamenti dell’anima che rendono aspra la vita degli stolti, e che i Greci chiamano páthe, avrei potuto chiamarli ‘malattie’, traducendo letteralmente questa parola; ma il termine non sarebbe convenuto a tutti, perché chi mai definirebbe ‘malattia’ la misericordia o la stessa iracondia?». Lucrezio traduce in latino questo aspetto fondamentale dell’epistemologia epicurea in 3, 136-151. L’animo (animus) e lo spirito (anima) sono saldamente interconnessi tra di loro: quando la mente (mens) è affetta da un timore (metus) molto grande, lo spirito condivide la sensazione, mentre impatti fisici come una ferita prodotta da una spada si ripercuotono sull’animo (animus). Il dolore del corpo però è in contrasto con il dolore della mente, e questo è un modo abbastanza naturale di esprimersi. Sia il dolore fisico sia quello provocato dai timori sono percepiti dall’anima, in cui sono incluse sia le parti irrazionali sia quelle razionali. Le prime sono i páthe, che secondo Carlo Diano sarebbero le passioni (parti irrazionali), le seconde sarebbero le emozioni (parti razionali).84 3, 136-151 Nunc animum atque animam dico coniuncta teneri inter se atque unam naturam conficere ex se, 83

Sui páthe cf. anche Asmis 1999, 275-76; in alcuni punti Konstan è in disaccordo con le tesi della Asmis. 84 Diano 1975, 252. Cf. anche Prost 2004, 140 che osserva che la gioia, il dolore, la collera associano all’affezione un atto di pensiero razionale su un certo stato di cose. Mentre l’affezione riguarda solamente la parte irrazionale dell’anima, l’emozione riguarda la parte razionale. 74

Introduzione sed caput esse quasi et dominari in corpore toto consilium, quod nos animum mentemque vocamus. idque situm media regione in pectoris haeret. Hic exultat enim pavor ac metus, haec loca circum laetitiae mulcent; hic ergo mens animusquest. Cetera pars animae per totum dissita corpus paret et ad numen mentis momenque movetur. Idque sibi solum per se sapit, 〈id〉 sibi gaudet, cum neque res animam neque corpus commovet una. Et quasi, cum caput aut oculus temptante dolore laeditur in nobis, non omni concruciamur corpore, sic animus nonnumquam laeditur ipse laetitiaque viget, cum cetera pars animai per membra atque artus nulla novitate cietur.

140

145

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I páthe (passioni) sono una funzione della psiche o anima, e non sono razionali nel senso che non coinvolgono l’elemento logico o la mente. I páthe del piacere e del dolore funzionano automaticamente e non dipendono dal logos. Diano cita Diogene Laerzio (10, 34) che afferma che i páthe sono dell’anima e del corpo: per l’anima sono detti charà e lype, per il corpo hedoné e algedón. Il piacere è sia moto dei sensi provocato da un agente esterno, ma è anche assenza di dolore, l’agognata ataraxía. Diogene Laerzio riferisce appunto che per Epicuro solo l’atarassia e la libertà da ogni pena (aponía), che sono piaceri catastematici, possono condurre alla stabilità della condizione felice. La felicità, dunque, è raggiungibile soltanto attraverso la condizione di katástema,85 quando un individuo è interamente libero dal dolore. Solo attraverso l’atarassia si può giungere all’eudaimonía, lo stato puro di autentica felicità pari a quello divino. 85

Cf. Erler-Schofield 1999, 642-74. 75

Introduzione

Nonostante le dovute differenze, la discrepanza di opinione sui páthe tra Epicuro e il cirenaico Aristippo è molto minore di quanto si possa pensare.86 Eusebio (Praep. ev. 14, 18, 32) riporta un passo interessante: il peripatetico Aristocle di Messene attribuiva ad Aristippo una dottrina secondo cui tre sarebbero le katastáseis del nostro temperamento:87 una per cui ci addoloriamo, simile al mare in tempesta; una seconda per cui proviamo piacere; una terza, che è uno stato intermedio, in cui né ci addoloriamo né proviamo piacere, paragonabile al mare tranquillo (galéne).88 Epicuro non disdegnava il piacere katà kínesin, tipicamente cirenaico, in quanto si tratta pur sempre di piacere, ma riteneva che quello nella quiete (catastematico), lo stato ‘intermedio’ dei Cirenaici, fosse il solo scopo da perseguire. La sensazione di dolore è incorreggibile, dal momento che essa è nella natura del pathos. La paura, tuttavia, è soggetta a ragionamenti e argomentazioni: potrebbe davvero avere una causa valida, quando si tratta di paure necessarie, nel qual caso è giustificata, oppure potrebbe non avere nessuna causa, come nel caso della paura degli dèi e della paura della morte. La sfera semantica della paura in latino è ampia e ricca di differenti sfumature.89 Il terror (cf. OLD s.v. 2) della superstizione come motivo di atti empi, anzi criminali, dimostra quanto siano vane le paure di un inesistente aldilà. Generalmente il terror è originato da aggressioni ed è effetto di influssi esterni. Tra i sintomi fisici del terror c’è l’horror (‘il rizzarsi dei peli’, ‘la pelle 86

Cf. Verde 2018, 205-30. Vd. Sul tema anche Lampe 2015. Vd. Cic. Fin. 1, 2, 37-38. 88 Su paces nel senso di galéne vd. commento a Lucr. 5, 1230. 89 Cf. von Albrecht 2005, 233-4. 87

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d’oca’). Il terror e l’horror si verificano nel contesto di fenomeni naturali sia nella vita umana, come in 5, 1305 e 1336. Sotto l’impressione del fulmine, del tuono, l’anima si restringe, si contrae convulsamente, come effetto del pavor (5, 1123). Pavor può essere usato per gli animali, sebbene sia applicato anche all'uomo, in connessione con la paura istintiva del buio del bambino. Mentre il terror riflette spesso una minaccia visibile, per così dire esogena, il metus è uno stato d’animo durevole, come lo è anche la paura delle punizioni, ed è un ostacolo permanente al godersi la vita (5, 1151). Timor e metus, invece, sono le emozioni che nascono interiormente, nell’anima. Lucrezio sembra impiegare il termine metus principalmente per la paura umana; è spesso associato a cura o ansia. Così anche il timor è riservato all’emozione umana e si verifica più frequentemente in relazione alla paura della morte. Il carattere ‘cronico’ del metus si svela retrospettivamente nell’esperienza storica ben conosciuta, per cui il tiranno temuto per tanti anni, una volta morto, viene calpestato (5, 1140). A differenza della formido che ci minaccia da fuori e da sopra, il metus nasce, si insinua e regna clandestinamente nell’animo umano. Il paradosso è che se gli uomini non fanno altro che alimentarsi di paure, le paure stesse non hanno paura, dal momento che non fuggono facilmente dal cuore degli uomini: infatti, le religiones, i timores non sono timefactae o pavidae. In 3, 152-160, come si è visto, Lucrezio espone l’influsso del metus sull’animo e sul corpo umano. Sotto l’effetto del metus per prima la ragione (mens) è soggetta ad una commozione; poi seguono le reazioni visibili dell’anima, le quali si estendono sul corpo intero: le membra si coprono di sudore e pallore, la lingua rimane senza parola, la bocca senza voce, la vista opaca, le 77

Introduzione

orecchie fischiano, le membra disubbidiscono e alla fine la persona sviene. Secondo Lucrezio la sede dell’animus si trova al centro del petto (3, 136-140) e colpita dal terrore, la mente colpisce l’animo e infine colpisce il corpo (3, 152-60). Più di qualsiasi altra scuola filosofica dell’antichità, l’epicureismo si preoccupava di quelle emozioni che sembrano non avere alcuna causa razionale nel mondo: le paure suscitate dalle false credenze (paure “vuote” = kénos) sulla natura di un evento apparentemente minaccioso o dannoso. Gli Epicurei pongono l’eradicazione della paura della morte al centro del loro progetto etico. Identificano l’obiettivo di una vita felice nella cessazione del dolore mentale e fisico, la sofferenza che prende forma attraverso stati di ansia e angoscia fino a sfociare nel delirio, e capace di allontanare dal processo di liberazione epicureo e dalla comprensione della vera ratio. Paura della morte e violenza tra gli uomini Nei vv. 1120-1135 del quinto libro, Lucrezio descrive due dei páthe più distruttivi per l’animo umano: l’ambizione e l’invidia. Per raggiungere la vetta del potere si ricorre spesso alla violenza e all’ingiustizia, provocando un danno alla salute del proprio animo e di quello di terzi. La sicurezza sociale ed economica, resa bene da Lucrezio con la perifrasi fundamento stabili (v. 1121), rappresenta la zona di comfort degli uomini. Affidare la vita alla ricchezza dei beni materiali (v. 1121 ut ... fortuna maneret), ciò che considerano una solida base, è chiaramente un’illusione, perché gli uomini non comprendono quale sia il limite fino al quale si può chiamare ‘ricchezza’ il bisogno naturale necessario. Epicuro 78

Introduzione

distingue la ricchezza ‘secondo natura’ dalla ricchezza come falsa credenza (RS 15): «La ricchezza secondo natura ha dei limiti ben precisi e ben facilmente procacciabili, ma quella secondo le vane opinioni non ha alcun limite» (trad. Arrighetti). Dunque la ricchezza secondo natura farebbe parte dei desideri naturali dell’uomo, mentre la ‘falsa’ ricchezza, come interpretata dai più, sarebbe non naturale e non necessaria. Epicuro aveva fatto una distinzione ben precisa tra i desideri naturali e necessari, a cui corrispondevano delle paure naturali e necessarie. Nell’Epistola a Meneceo (127-128), Epicuro chiariva che: «analogamente bisogna pensare che dei desideri alcuni sono naturali, altri vani; e di quelli necessari alcuni lo sono per la felicità, altri per il benessere del corpo, altri per la vita stessa». Desiderare cibo, idratazione, riparo è naturale e necessario, così come aver paura della fame, della sete e del freddo lo è. I desideri naturali e necessari creano la giusta sicurezza nell’uomo e sono importanti perché lo aiutano a organizzarsi al meglio la vita. Allo stesso modo le paure naturali e necessarie sono in grado di salvargli la vita, ma devono anche essere gestite al meglio. La ricchezza secondo natura è quella che 90 si limita a soddisfare i bisogni di base. Le due paure più dannose e pervasive sono la paura degli dèi e quella della morte. Tuttavia, non è possibile eliminare queste due paure senza una corretta comprensione del funzionamento del mondo (cf. Lucr. 1, 146-48). Gli argomenti filosofici che non sono in grado di scacciare le malattie e le paure sono vuoti e completamente inutili (Porph. Ad Marc. 31), dunque anche il filosofare è giustificato solo nella misura in cui contribuisce a 90

Cf. Warren 2009, 234-48; O’Keefe 2010, 117-28; Asmis 2018, 139155. 79

Introduzione

rendere la vita piacevole, o almeno sopportabile. La terrificante oscurità che avvolge la mente degli uomini può essere dissipata solo da un resoconto sistematico dei principi della natura. La fisica epicurea è subordinata all’etica, nel senso che la giustificazione per impegnarsi nello studio della natura è ciò che è necessario per ottenere la tranquillità. L’ideale di vita epicureo è piuttosto diverso da quello immaginato dai non Epicurei, che aspirano ad accumulare quanti più beni materiali. In 3, 59-86, un passo contenutisticamente molto vicino a 5, 1120-1135, Lucrezio aveva attribuito – allo stesso modo di Epicuro (RS 7) – il desiderio di ricchezza, carriera e potere alla paura della morte, che è l’insicurezza più drammatica dei mortali. 3, 59-86 denique avarities et honorum caeca cupido, quae miseros homines cogunt transcendere fines iuris et interdum socios scelerum atque ministros noctes atque dies niti praestante labore ad summas emergere opes, haec vulnera vitae non minimam partem mortis formidine aluntur. Turpis enim ferme contemptus et acris egestas semota ab dulci vita stabilique videtur et quasi iam leti portas cunctarier ante; unde homines dum se falso terrore coacti effugisse volunt longe longeque remosse, sanguine civili rem conflant diuitiasque conduplicant avidi, caedem caede accumulantes, crudeles gaudent in tristi funere fratris et consanguineum mensas odere timentque. Consimili ratione ab eodem saepe timore macerat invidia ante oculos illum esse potentem, illum aspectari, claro qui incedit honore;

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Introduzione ipsi se in tenebris volui caenoque queruntur. Intereunt partim statuarum et nominis ergo. et saepe usque adeo, mortis formidine, vitae percipit humanos odium lucisque videndae, ut sibi consciscant maerenti pectore letum, obliti fontem curarum hunc esse timorem, hunc vexare pudorem, hunc vincula amicitiai rumpere et in summa pietatem evertere fundo. Nam iam saepe homines patriam carosque parentis prodiderunt, vitare Acherusia templa petentes.

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Lucrezio assume una posizione assai più radicale di quella di Democrito ed Epicuro, e rifiuta l’idea stessa che l’ambizione agonistica possa apportare un contributo positivo alla vita dell’individuo e della comunità. Nei versi immediatamente precedenti, Lucrezio afferma che molti uomini non ammettono di aver paura della morte (3, 41-58), ma ad ogni modo ritiene che la paura della morte sia la fonte di tutte le infelicità dell’uomo. La resistenza al limite naturale imposto dalla morte rende gli uomini incapaci di accettare ogni limite ai loro desideri, per questo la paura della morte porta le persone ad accumulare ricchezze attraverso la guerra civile e il conflitto familiare. Gli effetti disturbanti della paura della morte sul comportamento umano erano stati messi ben in luce già da Epicuro (Ep. Men. 125). Paradossalmente la paura della morte può arrivare a condurre gli uomini al suicidio (3, 79-82): questo fenomeno riassume la futilità della vita umana, vissuta all’ombra della vita immortale tanto agognata (3, 1003-1010), poiché non c’è attività che possa gratificare gli uomini più del desiderio di essere immortali. La paura della morte, dunque, può condurre gli uomini ad adottare comportamenti dannosi per il singolo e per l’intera 81

Introduzione

collettività: per prima cosa, porta a varcare i limiti della legge. L’erronea percezione del disprezzo (contemptus/ kataphrόnesis) e della povertà instaura una catena di emozioni distruttive. Come ben ha messo in luce Fabio Tutrone, nell’analisi di questi versi: «la iunctura incipitaria sanguine civili dà l’avvio ad un catalogo di violazioni del codice antropologico romano che richiama molto da vicino la letteratura sulle guerre civili contemporanea e successiva al I secolo a.C. La descrizione del sangue dei cives empiamente versato in un accumularsi di stragi (caedes), e il collegamento fra tali misfatti e l’avida ricerca dei beni (divitiae), riflettono l’elaborazione di un topos che a partire dagli anni delle proscrizioni sillane si affina e si estende, innervando il discorso della latinità da Cicerone e Sallustio sino a Orazio, Seneca e Lucano».91 Il sentimento di disprezzo nei confronti dell’ambizione e della corsa al potere si intensificano in 5, 1131-1135. I consigli e i precetti dispensati ora divengono una diretta e chiara esortazione a lasciare che gli uomini continuino a lottare e a scontrarsi tra di loro, inutilmente, per raggiungere la vetta della loro carriera: questa storia è sempre stata così e continuerà ad esserlo anche in futuro, dal momento che gli uomini non seguono il loro ragionamento e la loro sensazione, ma piuttosto si fanno condizionare dalle mode seguite da tutti. L’immagine figurata del ‘sudare il sangue’ (1131 sanguine sudent), ereditata da Ennio (Scaen. 181 terra sudat sanguine = 69 Manuwald), è evocativa (usata anche in senso letterale nella descrizione dell’epidemia della peste in 6, 1147-8 sudabant etiam fauces intrinsecus atrae/ sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat), e rende bene sia 91

Tutrone 2017, 64. 82

Introduzione

l’inutile fatica della lotta sia i delitti, che inevitabilmente vengono commessi per il raggiungimento delle più alte vette di comando.92 Nel v. 1132 è ripresa la metafora dell’iter che devono percorrere gli uomini ambiziosi, come nel v. 1124, e che questa volta è definito angustum che, nel suo senso etimologico, è il caso di rendere nel senso di “soffocante”, “che strangola”. Inoltre, nel v. 1132 viene nominata per la prima volta in questo contesto, e anche nella significativa posizione della clausola di verso, il termine chiave dei vv. 1105-1135, l’ambitio, unica ricorrenza in tutto il DRN. L’immagine complessiva che si ricava è quella che la strada dell’ambizione è disseminata di pene, di ferite, di omicidi, e che, per il fatto di essere stretta e angusta, non può lasciar passare molti. Don Fowler, uno dei più fini e acuti interpreti di Lucrezio, aveva evidenziato in tutto il DRN una particolare attenzione per l’uso del messaggio politico, o meglio, “antipolitico”, affermando che «it is becoming a commonplace of modern scholarship that the De rerum natura is a political work, and like most commonplace, this is more true than false».93 La svalutazione radicale delle prassi competitive della res publica portata avanti da Lucrezio è il frutto di una adesione consapevole alla parola di Epicuro e ai modelli socio-culturali che essa proponeva. Tuttavia, il pensiero lucreziano risulta originale perché riconosce la piena pertinenza del messaggio epicureo nella cornice della crisi tardorepubblicana. In 3, 930-963 secondo la Natura, qui personificata,94 l’uomo avrebbe paura di morire perché desidera ciò che ancora non ha avuto, per insoddisfazione e per incapacità di apprezzare la vita. 92

Pope 2016, 51-55. Fowler 1989, 120. 94 Cf. Reinhardt 2002, 291-304. 93

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Introduzione

L’insoddisfazione accresce e porta all’avidità e all’ingratitudine per ciò che si è avuto e non si è stati in grado di apprezzare. 3, 957-962 ‘Sed quia semper aves quod abest, praesentia temnis, imperfecta tibi elapsast ingrataque vita et nec opinanti mors ad caput adstitit ante quam satur ac plenus possis discedere rerum. Nunc aliena tua tamen aetate omnia mitte aequo animoque agedum iuveni concede: necessest’.

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La strategia epicurea di controllo del materiale passionale era interamente incentrata sulla regolazione dei meccanismi individuali, anziché sociali.95 Per Epicuro le emozioni sono sempre in connessione con i sensi, e se da un lato, le emozioni stabiliscono il valore affettivo che hanno le cose nel mondo, dall’altro, le sensazioni ci informano di come le cose appaiono concretamente. Il problema era ancora più delicato perché i precetti epicurei andavano contro la tradizione ‘idealistica’ di Platone e di Aristotele e ritenevano che l’unica identificazione realistica del fine delle condotte consistesse nel piacere e non nel bene, nella virtù o nella 96 giustizia. Per i seguaci di Epicuro era essenziale sottrarre il piacere alla ‘cattiva infinità’ del desiderio, per definizione insaziabile. Epicuro pensava che il problema potesse venire risolto comprimendo le pulsioni del desiderio nell’ambito, naturalmente circoscritto, del bisogno. Il piacere consisterà nel soddisfare i 95

Sui rimedi contro la paura della morte vd. Olberding 2005, 114-29. Cf. Alberti 1994; Vegetti 2004; Konstan 2007; contra Mitsis 1988; Annas 1987; Annas 1993. Le virtù in quanto tali non suscitano piacere. 96

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Introduzione

bisogni naturali di cibo, sopravvivenza e comunicazione umana. Si tratta di una norma naturale e individuale di contenimento della passione, in luogo di quella naturale/sociale proposta da Aristotele e delle dinamiche di conversione/sublimazione immaginate da Platone. Nel quinto libro del DRN è ampiamente affrontato il conflitto interiore: una lotta mentale e psicologica, derivante da richieste o impulsi opposti. Il conflitto interiore non ha nulla di razionale e talvolta esplode in reazioni psicosomatiche e indomabili. Terror e metus, come si è visto, insieme disturbano e capovolgono la vita umana e la riempiono di paure infondate. Il terrore può operare perché gli uomini che ne vengono colpiti non ragionano più con chiarezza. Fomenta terrore anche vedere le persone morte nei sogni e nelle visioni degli ammalati (1, 133; 4, 34),97 ma Lucrezio ci ricorda che il più efficace strumento del terrore usato dagli sciamani è quello di far credere che vi saranno castighi eterni nell’altro mondo (1, 104-111). I miti dell’Oltretomba parlano di pene che soffriamo nella vita reale, sono delle proiezioni mentali (3, 978-1023): Tantalo, paralizzato dalla paura sotto la roccia che incombe su di lui, è l’uomo vittima del timore dei demoni (deisidaimonía, divom metus 3, 982); Tizio, il cui fegato è lacerato dagli uccelli, è l’uomo consumato dall’ansia e dalle curae (3, 993); le Belidi, che riempiono senza fine una botte forata, simboleggiano il nostro animo mai contento dei beni presenti (3, 1003-1010); ma soprattutto Sisifo, la figura del politico 97

Come scrive Catharine Edwards: «most of the deaths Roman texts concern themselves with are violent ones – death in battle, execution, suicide. The prospect of a lingering and painful death from disease could also, of course, arouse intense anxiety». Edwards 2007, 82. 85

Introduzione

ambizioso (3, 995-1002). I vv. 1120-1135 sono la rappresentazione tangibile e reale del mito di Sisifo, costretto a far rotolare una pesante pietra sulla cima di una collina senza mai raggiungere la vetta (Hom. Od. 11, 593-600). Il fardello di Sisifo è l’inevitabile sconfitta di coloro che sono ambiziosi,98 con un più che probabile riferimento alla classe politica contemporanea.99 Il v. 1122 è una chiara ripresa di 3, 998 (nam petere imperium quod inanest nec datur umquam), in cui il concetto di vanità del tentativo dell’ambizioso uomo di petere imperium è espresso dall’aggettivo inanis (‘vuoto’, ‘invano’). L’avverbio nequiquam e l’aggettivo inanis mostrano la delusione di Lucrezio per l’umanità e i suoi preconcetti, che sono lontani dalla vera dottrina e dal modus vivendi epicurei. Il picco di potere e prestigio hanno un alto prezzo da pagare: l’invidia e la conseguente infelicità. L’origine di questi miti è il timore di essere puniti con le proprie malefatte nella vita reale (3, 1014). Lucrezio definisce un’altra doppia sorgente del metus: l’incertezza riguardo il futuro (3, 825-27); i pentimenti (3, 1018-1058), l’angoscia per il rimorso di coscienza. In 5, 1156-1160 è descritta la paura del senso di colpa per i crimini commessi e per le punizioni. I colpevoli possono tradire se stessi, rivelando senza accorgersene i propri delitti, confessandoli nel sonno. Il sogno del reato commesso non è altro che la riproposizione nell’inconscio di un’esperienza reale già vissuta, proprio come le paure delle pene da patire nell’Oltretomba. La legge ha sempre avuto un forte potere deterrente tra gli uomini. Per gli Epicurei, chi commette un crimine è colpevole soprattutto nei confronti di se stesso, perché 98 99

Cf. anche Kenney 2014, 213. Vd. anche 2, 12-13 e 2, 48-53. Cf. Fowler 1989, 139-41. 86

Introduzione

rovina il proprio equilibrio interiore e allontana la sua anima dall’ataraxía. Non ha senso neanche preoccuparsi di essere osservati dall’ “occhio di Zeus”, che tutto vede ed è pronto a punire per i crimini commessi: per gli Epicurei, gli dèi, invece, non puniscono chi commette un reato, né ricompensano chi si comporta rettamente. «“Violenza” significa oltrepassare un limite che non deve essere oltrepassato. Gli uomini si imbattono anche in limiti che possono essere oltrepassati: la maggior parte delle cose che ci circondano sono appunto limiti di questo genere».100 Dalle parole del filosofo Emanuele Severino possiamo intuire che ci sia un nesso fortissimo tra la violenza e il più innaturale desiderio umano, che intende superare un limite invalicabile, l’immortalità. Gli atti di violenza fondamentalmente scaturiscono dalla paura – Lucrezio in questo è abile a lasciarlo intendere, senza dichiararlo esplicitamente. L’uomo arriva a commettere gesti violenti, distruttivi e autodistruttivi, per paura e per avidità, ma anche per puro piacere. La violenza è anche un piacere perverso: una persona con una attitudine errata nei confronti della morte può ritenere autentico un piacere falso e deleterio come quello della violenza, un piacere contro natura. Charles Segal aveva ben compreso che «although it would be an oversemplification to argue that Lucretius finds all the sources of human aggression in the fear of death, he is certainly aware of the affinities between the two».101 Nel rappresentare la violenza e il rimedio per fermarla, Lucrezio ricorre al mito: nel proemio del primo libro, Venere è identificata con il piacere 100 101

Severino 2002, 70. Segal 1990, 187. 87

Introduzione

epicureo (voluptas) e con l’energia creatrice per fermare Marte, il dio della guerra, conquistato dall’eterna ferita d’amore (1, 34 reicit aeterno devictus vulnere amoris). L’unico rimedio per fermare la violenza sarebbe l’amore, ma dal momento che Venere è anche energia creatrice e Marte, energia distruttrice, amore e morte non possono che essere legati: nel ciclo isonomico della vita nascita e morte devono coesistere. L’immagine della guerra ricorre in tutta l’opera per descrivere l’irrazionalità, la follia e le situazioni di sofferenza umana. «Lucretius, explorer of “the certain dark force”, vis abdita quaedam, seems more tragically contemporary than ever; and we may look back with desperate nostalgia to a time when unleasing lions and boars seemed the worst than man could 102 do in the art of war»: per Segal la vis abdita quaedam (5, 1233) è proprio l’insieme delle forze nascoste che affiorano nella vita umana, come guerra e terrore superstizioso. L’opera di Lucrezio, pur prendendo spunto da esperienze storiche realmente accadute o dalla sua stessa contemporaneità, basti pensare ai riferimenti alle guerre puniche sparsi nel poema o alle guerre civili, mantiene sempre il carattere universale proprio della poesia, come è stato messo in luce già da Aristotele nella Poetica. Alla fine di 5, 13081349, il famoso passo sull’irrazionale violenza e bestialità delle guerre e degli animali feroci usati come armi, Lucrezio sposta l’attenzione da ciò che è accaduto a quello che sarebbe potuto accadere in questo o in altri mondi. L’esperimento autodistruttivo deve essere stato in definitiva motivato dal desiderio umano di danneggiare il nemico a qualunque costo (1347-1349). Concordo con l’interpretazione di Monica Gale sull’uso di immagini graficamente violente in una dialettica di coinvolgimento e allo 102

Segal 1990, 227. 88

Introduzione

stesso tempo distanziamento: «warfare, as Lucretius implies at several points in the poem, is something alien to the Epicurean, who will see that nothing is really worth fighting for. Hence, both the ‘beasts of battle’ and the limbs severed in war serve a symbolic purpose, as emblems of futility, in addition to their immediate function in the poet’s argument».103 Le “beasts of battle” sono lontane nel tempo da noi, eppure, come nella guerra, nulla cambia davvero e il presente in molti modi assomiglia al passato. Libera nos a malo. La via per l’eudaimonía Non è difficile convincersi dell’originalità di Lucrezio, come poeta e filosofo e, in un certo modo, anche profeta, che anticipa la moderna prospettiva delle scienze naturali e sociali, e nella descrizione poetica e analisi scientifica della natura del desiderio ricorre alla metafora e all’analogia. Al desiderio si contrappone sempre la paura nelle sue diverse forme, per il principio dell’isonomia che è alla base di tutto il DRN.104 Per Lucrezio, la morte costituisce la più grande angoscia e al tempo stesso è la rappresentazione principale della paura. Il DRN concilia l’ossessione del timore della morte con l’esplosione di vita e di gioia della natura e con le descrizioni di scene di violenza estremamente dettagliate, in una battaglia metaforica, che predomina su tutto il poema: l’alternarsi ciclico di vita e la morte, il riconoscere il desiderio naturale, l’affrontare le paure 103

Gale 2018, 75. Sull’isonomía in Lucrezio cf. Segal 1990, 195-200; Schiesaro 1994, 81-107; Luciani 2000, 118-28; Romano 2008, 51-67; Marković 2008, 51-81. 104

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Introduzione

irrazionali.105 La soluzione è nell’imperturbabilità dell’anima, nel raggiungimento di una invulnerabilità simile a quella divina, l’eudaimonía, come quella raggiunta dall’unico vero dio dell’intero poema, Epicuro.106 Nel proemio del V libro i dicta di Epicuro, già definito pater nel proemio del III libro, superano addirittura i facta di Ercole, visto quasi come una ipostasi di Marte, eroe violento e ipostasi della politica romana di espansione in luoghi primitivi.107 In più di una occasione Epicuro è chiamato primus, che risulta essere quasi un motivo letterario,108 per aver disvelato le leggi dell’universo e per aver concentrato i suoi sforzi nella sua opera salvifica per la liberazione delle anime dalle paure e dal male che essi provocano nell’uomo, attraverso battaglie spirituali e necessarie, al contrario di quelle reali e inutili di Ercole stesso. 105

O’Keefe 2003, 43-65. Non è da sottovalutare qui l’influsso degli insegnamenti sui mortali deificati di Evemero in Lucrezio, presumibilemte derivato da Ennio. «The poet is careful: the declaration that the unnamed Epicurus was a god is cast in the past tense (fuit); it is announced in the context of the majesty of the universe – maiestas is once again emphasized (5.7). Epicurus was a god – but the fact is that he has died, just as the poet reminded us at the close of Book 3». Cf. Fratantuono 2015, 316. Monica Gale a ragione afferma: «there are thus good a priori reasons for rejecting the view that the poet adopts a Euhemeristic conception of divinity in the proem to book 5, and indeed he implicitly argues against Euhemerists elsewhere in the poem» (cf. Gale 1994, 78). 107 Cf. Staderini 2014, 93-95. 108 «With this primus motif, Lucretius uses three notable phenomena: 1) a qui-clause; 2) the adjective primus alone; 3) a finite verb in the perfect active indicative, which thereby stresses the agency of the prôtos heuretês. These three phenomena repeatedly mark Lucretius’ primus motifs». Cf. Eckerman 2013, 795 sul motivo letterario del primus. 106

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Introduzione

Diviso tra edonismo e ascetismo, dove per edonismo si intende elogiare la vita ritirata e provare piacere nella rinuncia ai desideri e alle passioni non necessarie, l’uomo epicureo non si lascia turbare dalle paure e superstizioni. Vivere una vita lontani dal credo epicureo, il solo stile di vita sostenibile, conduce a una vita di paura e di angoscia. Lucrezio, nel famoso proemio del secondo libro (1-13), ha evocato la dolcezza del senso di sicurezza (aspháleia) e ha fornito una risposta per liberare gli uomini dai turbamenti. L’immagine di una nave assediata dai venti tempestosi suggerisce che ci ritrova alla presenza di un’anima che soffre sotto le esplosioni della passione. Il linguaggio di Lucrezio sembra supportare l’immagine: le acque calme e uniformi (aequora) sono scosse (turbare) per la passione. La tempesta è sia il simbolo sia la pena per il desiderio immoderato. C’erano soprattutto due desideri inutili, che Lucrezio esponeva come nemici della tranquillità nell'anima e nella comunità: avidità e ambizione. I desideri gemelli della ricchezza e del potere sono al centro del progetto di Lucrezio nei libri 2, 3 e 5 e ad summas emergere opes rerumque potiri (2, 13), ‘per scalare il vertice della ricchezza e per garantire il potere’. Il desiderio di ricchezza è il soggetto alla base della prima immagine di Lucrezio, la nave in mare. Il desiderio di potere è accennato nella seconda immagine, presa dalla guerra. Lo spettatore che ha in mente Lucrezio non è sicuramente il soldato comune ma un potente ufficiale, pari a Memmio, per il quale il mandato militare era una tappa necessaria nel cursus honorum e al servizio dell’ambizione politica.

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Introduzione

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2, 1-13

Suave, mari magno turbantibus aequora ventis, e terra magnum alterius spectare laborem; non quia vexari quemquamst iucunda voluptas, sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est. Suave etiam belli certamina magna tueri per campos instructa tua sine parte pericli. Sed nil dulcius est, bene quam munita tenere edita doctrina sapientium templa serena, despicere unde queas alios passim videre errare atque viam palantis quaerere vitae, certare ingenio, contendere nobilitate, noctes atque dies niti praestante labore ad summas emergere opes rerumque potiri.

5

10

In questa celebre Priamel il comandante di una nave, sconvolta dalle onde di un mare in tempesta, non ravvisa altro rimedio che rivolgersi alla preghiera. La situazione di pericolo è vissuta con trepidazione dall’induperator di Lucr. 5, 1227, in analogia con lo dello sventurato marinaio dell’ode oraziana 2, 16, che si trova in mezzo al mare, coperto da un cielo denso di nubi nere, pronto a esplodere in una fragorosa tempesta, e implora agli dèi otium:110 109

Sul celebre ‘incipit’ cf. Rodighiero 2009, 59-75. Stephen Harrison ha dimostrato l’influsso lucreziano, stilistico e contenutistico nell’ode oraziana e ritiene che anche il marinaio oraziano sia un militare, proprio come in Lucr. 2, 1-4, cf. Harrison 2017, 184. Harrison scorge anche l’allusione a Catullo 51, 13-16 (otium, Catulle, tibi molestum est: / otium exsultas nimiumque gestis / otium et reges prius et beatas/ perdidit urbes). «Horace outdoes his predecessor by repeating the same word (sc. otium) not simply three times but three times in the same case and in the same line position, and by re110

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Introduzione Hor. carm. 2, 16, 1-4 Otium divos rogat in patenti prensus Aegaeo, simul atra nubes condidit lunam neque certa fulgent sidera nautis

È ben noto che il fine etico della dottrina epicurea sia rappresentato dal vivere nascosti, tenersi lontani dalla vita politica e dai suoi rischi. Guardare l’universo come qualcosa che coinvolge gli uomini, li rende vittime indifese della sua vis abdita (5, 1233) è per Lucrezio un approccio erroneo alla vita. Unica strategia per liberarsi dalla paura della morte, l’indecifrabilità dei fenomeni celesti, l’impossibilità di valutare i limiti dei dolori e delle passioni è incrementare la volontà di conoscere ed esaminare i foedera naturae (cf. Epicur. RS 11).111 L’uomo è inesorabilmente mortale per poter attingere alla conoscenza delle realtà immortali. Dall’alto dei templa serena, che circoscrivono in modo netto e catastematico lo spazio del saggio, è lecito gettare lo sguardo sull’umanità non ancora illuminata dal verbo di Epicuro. Lo sguardo del poeta è rivolto a coloro che soffrono a causa della loro stessa cecità (pectora caeca).112

interpreting the term: for Catullus otium suggests destructive and selfindulgent leisure, while for Horace it represents peace of mind, the highest value of Hellenistic philosophy» cf. Harrison 2017, 186. 111 Seneca nel De otio 5, 7 tamen homo ad immortalium cognitionem nimis mortalis est illustra una conclusione che è molto lontana da quella di Lucrezio: i limiti del tempo rendono questo traguardo impossibile. L’uomo è troppo mortale per la conoscenza delle realtà immortali. 112 Cf. Diog. Oen. fr. 3, IV, 3 e V, 2 Smith. 93

Introduzione

«Tutte le situazioni lucreziane – naufragio, battaglia, cittadella della filosofia – sono accomunate dalla medesima struttura oppositiva, che ci presenta un’antitesi fra lo spettatore e l’attore di un evento: al primo corrispondono staticità, serenità, sicurezza, e la sua condizione viene definita piacevole e dolce (suavis, dulcis, vv. 1, 4, 6); al secondo si identificano movimento, angoscia e pericolo (labor, periclum, vv. 2, 5, 12)».113 Il distacco dal mondo e dai suoi problemi, attuato dai saggi o dagli dèi nei loro templa serena, porta a contemplare ogni cosa dall’alto: da qui la potente immagine letteraria della teichoskopía (Lucr. 2, 7-13),114 che sottolinea la distanza tra la superiorità del sapiente e la condizione di miseria dell’uomo fin da quando è nato, assimilabile a quella di un naufrago (Lucr. 5, 222-227). 5, 222-227 Tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis navita, nudus humi iacet, infans, indignus omni vitali auxilio, cum primum in luminis oras nixibus ex alvo matris natura profudit, vagituque locum lugubri complet, ut aequumst cui tantum in vita restet transire malorum.

113

225

Cf. Berno 2015, 108-20; Gale nel suo commento ad loc. evidenzia, a buon diritto, la distanza dei verbi che separano il narratore dai suoi soggetti: tribuebant, dabant, putabant, perfugium sibi habebant, locarunt. Per il ‘topos’ letterario della teichoskopía cf. Fuhrer 2014, 2341. Vd. anche Cucchiarelli 2005, 30-72. 114 Vd. sul tema Berno 2015, 110-1. 94

Introduzione

L’immagine della vita come una navigazione e il continuo ondeggiare tra desideri e rimorsi, volontà di emergere e inevitabili rovesci, è un motivo letterario caro a Lucrezio (3, 1076-1094), a Orazio115 e a Seneca:116 all’incostanza (levitas) degli uomini, non ancora istruiti e pronti a vivere una vita priva di turbamenti, si contrappone la costanza del sapiente e del suo animus aequus.117 Sen. ot. 1, 2-3 Fluctuamur aliudque ex alio comprendimus, petita relinquimus, relicta repetimus, alternae inter cupiditatem nostram et paenitentiam vices sunt. Pendemus etiam toti ex alienis iudiciis et id optimum nobis videtur quod petitores laudatoresque multos habet, non id quod laudandum petendumque est, nec viam bonam ac malam per se aestimamus sed turba vestigiorum, in quibus nulla sunt redeuntium.

L’umanità il vero dio del DRN, Epicuro, non ha scampo: è condannata a una precoce autodistruzione.

115

Epist. 1, 1, 80-98; 1, 8, 11-12; 1, 11, 25-31. Seneca in ot. 1, 2-3; brev. 2, 2; tranq. 14, 1; Ep. 52, 1. 117 Cf. Hor. Epist. 1, 11, 31. Per la metafora della tempesta cf. anche Cic. Rep. 1, 10-11 e Att. 2, 7, 4. Per la tempesta in contesti epicurei, in particolare il fr. 7 Smith di Diogene di Enoanda cf. Clay 1998, 189-99. La tempesta è addirittura divinizzata in Hor. Epod. 10, 24. 116

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Introduzione

Il messaggio di pace, che emerge dalla lettura del DRN, definito a ragione da Segal “un poema consolatorio”,118 e ribadito recentemente dalla Luciani,119 nasce da una esigenza di concretizzazione e realizzazione del benessere e della tranquillità dell’anima nel mondo esteriore.

118 119

Segal 1998, 229. Luciani 2017. 96

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Breve storia del testo del De rerum natura

1. Il “mistero Lucrezio” e la prima circolazione del De rerum natura La “questione lucreziana” non riguarda soltanto la difficoltà di accettare per veri i particolari sulla vita del misterioso autore del DRN, ma porta qualsiasi studioso a mettere in dubbio ogni notizia sulla cronologia della vita e persino sulla identità stessa di Lucrezio. Rimane il fatto che il titolo dell’opera di Lucrezio, De rerum natura, è quanto di più sicuro ci sia stato tramandato dalla tradizione. Il titolo è esplicitamente attestato da Probo (cf. GLK IV, 225, 29), nonostante del suo autore non si sappia quasi nulla, a parte un breve riassunto della vita tramandato dal Chronicon di Girolamo (per l’anno 94 a.C.).120 La notizia riportata da Girolamo difficilmente può corrispondere alla realtà: la tradizione della follia e del suicidio non è attendibile e ha avuto quasi certamente un significato 121 ideologico punitivo, che si è formato in ambiente cristiano. Il 120

Titus Lucretius poeta nascitur, qui postea amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se manu interfecit anno aetatis XLIV. Per l’anno di nascita di Lucrezio intorno al 94-93 a.C. cf. Helm 1929, 33-35. 121 Sulla follia di Lucrezio anche Lattanzio, con l’espressione Lucretius delirat, aveva contribuito a dare enfasi a questa tradizione faziosa (cf. opif. 6, 1). 99

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ricorso alle allegorie, alle immagini, al linguaggio metaforico, e talvolta ironico, erano pratiche comuni in Girolamo.122 Un’altra questione di particolare rilevanza è quella che riguarda gli anni della sua vita. Cosa si sa dell’anno della sua nascita e quali sono le date più attendibili della sua morte? Naturalmente, è ignota anche la città di origine. Inoltre, è difficile accordare la cronologia di Girolamo con una notizia contenuta nella Vita Vergilii di Elio Donato (6-7), il maestro di Girolamo, secondo cui Virgilio avrebbe rivestito la toga virile a diciassette anni, lo stesso giorno in cui probabilmente morì Lucrezio, ovvero il 15 ottobre 53 a.C., sotto il consolato di Pompeo e Crasso. In realtà, vi sono delle consistenti discordanze cronologiche: quando Pompeo e Crasso assunsero la carica nel 70 a.C., rinnovata nel 55 a.C., Virgilio aveva compiuto 15 anni, non 17.123 Per quanto riguarda la data di morte, Butterfield, allo stesso modo di D’Anna

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Dal momento che si sa poco e niente della figura di Lucrezio una possibile interpretazione sul suicidio potrebbe essere quella che Lucrezio si sia potuto ritirare completamente dalla vita civile, oscurare il suo nome, sparire, dopo la pubblicazione dell’opera da parte di Cicerone. Non è detto che si sia trattato di una letterale morte naturale, ma potrebbe aver indicato una scomparsa dalla vita pubblica, un vero e proprio “suicidio civile”. Il filtro d’amore e la follia possono essere letti come dettagli curiosi e non privi di ironia. Sull’ironia in Girolamo cf. Giannarelli 2007, 296. Su Girolamo filologo cf. Hagendahl 1958; Hagendahl 1974, 216-227; Williams 2006; Gamberale 2013. 123 Nelle biografie antiche era consuetudine stabilire sincronismi tra le vite degli autori: pertanto la fonte di Donato non è accertabile. La frequente inesattezza cronologica è anche una caratteristica del Chronicon di Girolamo, che aveva attribuito 46 anni a Lucilio (invece di 66), 30 anni a Catullo (almeno 35). 100

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e Penwill, ritiene che Lucrezio sia morto nel tardo 55 a.C.,124 e che fosse nato alla fine del 94 a.C. Di diverso avviso sono Canfora e Hutchinson, che ritengono sia morto dopo il 55 a.C. e dopo l’autoesilio di Memmio (54 a.C.), con ogni probabilità, alla metà degli anni 40 del I sec. a.C. Hutchinson ritiene che il DRN sia stato completato nel 49/48 a.C.125 Dunque, in base alla notizia di Girolamo la prima edizione del DRN fu approntata da Cicerone, dopo la morte di Lucrezio, quos (scil. libros) postea emendavit.126 La notizia, se le si accorda qualche attendibilità, dovrà intendersi nel senso che Cicerone avrebbe curato, dopo la morte di Lucrezio, l’edizione del DRN, 124

D’Anna 2002, Penwill 2009; Butterfield 2013, n. 1, n. 2 propone di datare la vita di Lucrezio precisamente tra ottobre/dicembre 94 a.C. e settembre/ottobre 55 a.C. 125 Canfora 1993; Hutchinson 2001, 57-58 i cui argomenti sono stati confutati con una argomentazione convincente dalla Volk 2010, 131:«the proem of De rerum natura was most likely not written in 49/8 – a time of severe crisis that, according to Lucretius’ own statement, would have been unpropitious for composition – and that there is therefore no reason to date down the poem as a whole. I have no new suggestions to offer about the correct date, though it seems most reasonable to go back to those sources that point to the mid 50s, a time of great political uncertainty when internal peace at Rome was certainly endangered, but open civil war had not yet broken out». 126 Krebs 2013, 779 confuta la datazione di Hutchinson e giunge a queste conclusioni «given the evidence, however, the following scenario appears more likely: (i) Lucretius’ De rerum natura was in substantial parts in 54; (ii) Caesar gained access to the poem in the same year, possibly through his contacts with Quintus and Marcus Cicero; (iii) in writing his account of the events in Gaul and Britain in 54 he employed Lucretian turns of phrases and vocabulary for the first time; (iv) when accounting for events in 53 and 52, his familiarity with De rerum natura is evinced again». 101

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forse non personalmente, ma tramite Attico, tra gli amici di Cicerone impegnato a fare l’editore. Ma questo rapporto editoriale che coinvolge Attico sembra essere fittizio, allo stesso modo della presunta follia e del gesto suicida, a causa dei quali l’opera sarebbe rimasta incompiuta. Non si spiega, pertanto, l’omissione di Cicerone nelle sue opere filosofiche: secondo alcuni rifletterebbe l’intento dell’oratore di oscurare un rivale filosofico com Lucrezio. In effetti il giudizio di Cicerone contenuto nell’epistola al fratello è lusinghiero, ma unicamente di natura letteraria, stilistica e formale, non filosofica. Per Cornelio Nepote, Lucrezio è il più insigne dell’età cesariana insieme a Catullo: lo afferma in un passo della vita di Attico (Att. 12, 4).127 Il silenzio di Cicerone e dei 127

Alois Gerlo suppose, con un po’ di fantasia, che Lucrezio fosse uno pseudonimo di Attico, l’amico epicureo di Cicerone e vero autore del DRN. Questo sarebbe avvenuto sulla base di un oscuro cenno contenuto in una lettera in cui Cicerone assicura ad Attico che “non svelerà a Saufeio il suo (di Attico) segreto” (Att. 15, 4, 2). Gerlo acconsente che un Lucrezio esista nella cerchia ciceroniana, ma si tratterebbe di un prestanome, che intratterrebbe con Attico un rapporto simile a quello che avrebbe legato Terenzio ai suoi potenti protettori Lelio e Scipione Emiliano. Ciò spiegherebbe il comportamento di Cicerone che cita il poema e lo elogia nella famosa lettera al fratello del 54, ma non fa mai il nome dell’autore, cf. Gerlo 1956. Tra le ipotesi romanzesche vi è quella di Tiziano Colombi, che ha composto una paradossale raccolta di false lettere ciceroniane da cui emerge che l’autore del poema sarebbe lo stesso Cicerone, cf. Colombi 1993. Il “segreto” di Cicerone sarebbe la sua adesione all’epicureismo, che egli avrebbe nascosto per tutelare la propria immagine pubblica. Si può, di certo, spiegare il “segreto” di Cicerone in termini meno fantasiosi. Si può osservare, infatti, che Cicerone non aveva bisogno della mediazione del DRN per conoscere il pensiero epicureo, soprattutto se poteva accedere direttamente al Perì Phýseos di Epicuro. Un’altra ragione che può in parte spiegare la rimozione, poteva essere l’intento di Cicerone di risultare il primo 102

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contemporanei (solo dopo qualche decennio dalla sua morte Ovidio in Am. 1, 15 loda apertamente Lucrezio, nonostante in Virgilio e Orazio vi sia stata una presenza massiccia della sua poesia) ha suggerito una serie di ipotesi suggestive, per quanto indimostrabili. Si è pensato che Cicerone avesse letteralmente dimenticato il poema lucreziano, opera che pure era da anni in suo possesso. Oppure, lo aveva ritenuto socialmente pericoloso e sovversivo, e pertanto precluso ad ogni forma di diffusione, perché la sua eventuale pubblicazione doveva essere corredata o preceduta da una confutazione preventiva. Come ha osservato Canfora, nel caso di alcuni dialoghi come il De finibus e il De natura deorum, scritti entrambi nel 45 a.C. ma ambientati in anni precedenti, la scelta della data drammatica del 50 a.C. per il primo, e del 75 a.C. per il secondo, sembra deliberatamente indicata per evitare di confrontarsi con il DRN, ma anche con altre importanti opere filosofiche pubblicate in quegli anni, come quelle di Varrone, Nigidio Figulo e Filodemo.128 Sebbene la testimonianza risulti inattendibile per la parte relativa alla follia e al suicidio del poeta,129 gli studiosi tendono a ritenere credibile il riferimento all’operazione editoriale svolta da Cicerone. Se, della testimonianza di Girolamo, almeno la parte relativa all’edizione ciceroniana è da considerarsi vera, allora si deve attribuire al verbo emendare il senso tecnico di preparare il divulgatore del pensiero epicureo a Roma (cf. Tusc. 1, 5). La traduzione di Cicerone dell’opera di Arato aveva in effetti insegnato a scrivere poesia scientifica a Lucrezio, come dimostrano versi o espressioni degli Aratea che si ritrovano nel DRN. Cf. Garbarino 2010; Gee 2013. 128 Canfora 1993, 71-72. 129 Piazzi 2009, 3-27. 103

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testo per l’edizione, come fecero Vario e Tucca con l’Eneide di Virgilio. 2. La tradizione manoscritta del De rerum natura Nel caso del DRN sono rimaste tracce dell’incompiutezza, come i versi ripetuti e passaggi logici non sempre chiari. In seguito, una seconda edizione del DRN sarebbe stata curata dal grammatico Valerio Probo nel I sec. d.C., secondo quanto riporta l’Anecdoton Parisinum, un breve testo trasmessoci da un manoscritto parigino (Paris BN Lat. 7530, ff. 28r-29r), che risale alla fine dell’VIII 130 secolo. Esistono due prove che riguardano l’attività editoriale che si è svolta sul DRN, nel senso moderno del termine. Un primo tratto grammaticale sopravvive nel manoscritto dell’VIII secolo, appunto il cosiddetto Anecdotum Parisinum, che forse era fondato su un’opera perduta di Svetonio, che attribuisce il lavoro, con note critiche a margine, a Marco Valerio Probo (I sec. d.C.).131 Il secondo è Girolamo, che sicuramente disponeva di un commento su Lucrezio, che comunque doveva essere legato al lavoro svolto da Probo. Rimane il fatto che non è sicuro che Probo abbia mai approntato un’edizione del testo lucreziano, comunque, se ci furono delle interpolazioni nel testo dovevano essere avvenute in quel momento.132 130

All’inizio del ‘900 la tendenza era quella di sopravvalutare l’attività editoriale di Probo. Friedrich Leo ipotizzava addirittura che l’archetipo della tradizione di Lucrezio risalisse alla tradizione probiana. 131 Probus qui illas [sc. notas] in Vergilio et Horatio et Lucretio apposuit, ut in Homero Aristarchus (Anon. De notis GLK VII 534,6). 132 Sulle notizie biografiche su Lucrezio, dall’antichità al Rinascimento, vd. Solaro 2000. 104

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Una cosa è certa: non esiste testimone diretto che tramandi il testo di Lucrezio che sia datato a prima del IX secolo.133 I manoscritti lucreziani si possono agevolmente dividere in due categorie: quelli scritti nel IX secolo e quelli trascritti durante il Rinascimento, nel XV secolo. I testimoni più antichi e autorevoli per la costituzione del testo lucreziano sono due mss. del IX secolo conservati nella biblioteca universitaria di Leida: si tratta dei due codici Leidenses 30 e 94, detti anche Vossiani dal nome del precedente possessore, Isaac Voss, e noti, per il loro formato, come l’Oblongus e il Quadratus. Entrambi i codici recano tracce di successive correzioni, ad esempio O1, OD, O2, Q1, Qa, Q2. L’Oblongus (Voss. Lat. F. 30) è il più antico e famoso manoscritto lucreziano, vergato in minuscola carolina, copiato non molto dopo l’anno 800 nella Scuola Palatina di Carlo Magno. Presenta una sola colonna per pagina, mentre il Quadratus (Voss. Lat. Q 94) ne ha due. Inoltre, vi sono interventi di diverse mani correttrici, tra cui la più antica, quella del cosiddetto corrector Saxonicus, la cui mano è stata riconosciuta da Bernhard Bischoff come quella del monaco bibliotecario irlandese Dungal, esponente di spicco della corte carolingia, che operava a St. Denis (811825).134 Il manoscritto comprende 192 fogli scritti a colonna 133

L’idea di Knut Kleve si fonda sull’individuazione delle tracce di Lucrezio in un papiro di Ercolano, datato I secolo d.C., conservato nell’Officina dei Papiri della Biblioteca Nazionale di Napoli (P.Herc. 1829-31). Cf. Kleve 1989; Kleve 2012, 75-6. Kleve nel 2007 pubblicò ciò che aveva letto di Lucrezio nel P.Herc. 395, ritenendo che contenesse parti del libro II di Lucrezio, vd. cap. 1 (cf. Kleve 2007; Obbink 2007; anche Capasso 2003). 134 Questo correttore, che Bailey indica con il segno Qs e Deufert con OD, 105

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singola, con una media di 20 versi per pagina. Il manoscritto è stato vergato in minuscola carolina e probabilmente fu copiato in un ambiente vicino a quello della corte di Carlo Magno, o nella Germania nord occidentale o nella Francia nord orientale. Bischoff 2004 ha tentato di ricostruire la storia dello scriba, che doveva essersi formato a Mainz. Proprio nel 1479 il manoscritto Oblongus (O) raggiunse la biblioteca della chiesa di St. Martin a Mainz. A partire dalla metà del XVII secolo l’Oblongus entrò in possesso di Isaac Vossius (1618-89) che lo aveva ereditato da suo padre, Gerardus Johannes Vossius (1577-1649), insieme a Q. Molto probabilmente fu acquistato da Gerardus tra il 1635 e il 1649: è noto che il filologo olandese, Niklaas Heinsius, aveva collazionato O e Q presso la biblioteca dei Vossii prima del 1662. Successivamente, il manoscritto fu trasferito in Gran Bretagna nel 1670 e fu portato in Inghilterra, nel Castello di Windsor. In seguito, fu acquistato, vent’anni dopo, una volta morto Isaac Vossius, dalla Biblioteca dell’Università di Leida nel 1690. Il Quadratus, datato IX secolo, è scritto in minuscola carolina su due colonne in ogni pagina, in caratteri più piccoli di O. Non c’è stata una revisione subito dopo la copiatura, come avvenne in O, ma presenta l’opera di un correttore del secolo XV, il quale divise certe parole e fece alcune valide correzioni, a volte corrispondenti alle lezioni della famiglia italica. La particolarità maggiore sta nel fatto che Q omette quattro volte parti del testo contenenti ogni volta 52 versi e le riporta alla ovvero Dungal a volte colma lacune e interviene con correzioni non ovvie, si ipotizza che avesse a disposizione un modello più completo (cf. Butterfield 2013, 7-32; Deufert 2017, 22-39). Un altro correttore, siglato generalmente con Q1, è assegnato all’XI secolo. Sulla figura di Dungal cf. Brown 1968; Lapidge-Sharp 1985. 106

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fine del libro VI in questo ordine: 2, 757-806; 5, 928-79; 1, 73485; 2, 253-304. Da queste lacune partì Lachmann per ricostruire il suo famoso archetipo di 26 versi per pagina. Per spiegare le omissioni, non è necessario supporre con Diels che, a differenza di O, ci sia stata un’altra copia fra Q e l’archetipo. Basta ammettere che Q fu copiato subito dopo di O, quando il modello aveva perduto quei fogli, che erano stati ricomposti alla meglio alla fine del codice. Il Quadratus fu copiato nel Nord della Francia, sempre nel IX secolo, probabilmente di poco successivo all’Oblongus; è più trascurato di O e presenta un numero più elevato di lacune e trasposizioni. Il Quadratus riporta pochissimi segni di lettura prima del Rinascimento: si possono riconoscere i segni di due mani. Invece, deve aver avuto tracce di una diffusa fruizione durante il Rinascimento, soprattutto in Italia. Forse fu copiato nel monastero di Corbie e, subito dopo, fu trasferito nel monastero di Saint Bertin. L’umanista parigino Denys Lambin, Lambinus, (1520-72), che chiamava il ms. Q il Bertinianus, potè usufruire del manoscritto grazie alla collazione che aveva fatto Adrien de Tournebou, Turnebus (1512-65). Precedentemente Q era stato donato dai monaci di St. Bertin a Pierre Galland, che lo rese disponibile per il suo amico Turnebus, intorno al 1544. La collazione del ms. fu utile al Lambinus per la sua edizione parigina del DRN, datata 1563. In seguito, andò in mano ad un allievo del Turnebus, il Nansius, che si era stabilito a Leida nel 1570. Dalla morte di Nansius nel 1595 fino all’acquisto da parte di Gerard Vossius nel 1634 non si sa quasi nulla, ma è attestato che passò

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nelle mani del Salmanius e del Gronovius.135 Insieme a O fu acquistato nel 1690 dalla Biblioteca Universitaria di Leida. È caratterizzato dall’omissione di quattro sezioni del poema, di 52 versi ciascuna, mancanti nel loro posto e aggiunte tutte alla fine del manoscritto.136 Tra i testimoni di maggiore rilievo spiccano le Schedae, due codici frammentari, risalenti alla metà del IX secolo. Appartengono alla stessa famiglia di Q, con la quale condividono quelle stesse lacune di 52 versi ciascuna. Le Schedae Gottorpienses o Haunienses, ora a Copenaghen ma precedentemente conservate a Gottorp, siglate con G, contengono il I libro e il II fino al v. 456. Le Schedae Vindobonenses, siglate con V e U, sono altri fogli che, in parte provenienti dallo stesso codice delle Haunienses, in parte da un altro, derivano comunque dalla stessa famiglia. Le Schedae siglate con V comprendono la porzione di testo che va da 2, 642 a 3, 621, mentre U ha la seconda parte del VI (da 743 alla fine,) più i quattro gruppi di 52 versi ciascuno in appendice come sono in Q. Dunque, Q, G, U e V sono stati copiati da uno stesso subarchetipo e costituiscono il secondo ramo della tradizione rispetto a O. Come O e Q, le Schedae sono state scritte in minuscola carolina e risalgono sempre al IX secolo. Questo manoscritto ha avuto meno importanza rispetto a O e Q. Sia Lachmann sia Munro non le utilizzarono per le edizioni critiche. Il primo che diede 135

Cf. Reeve 2006, 182, n. 67. Secondo Lachmann queste sezioni corrispondevano ciascuna a un foglio dell’archetipo, contenente 52 versi, 26 nel recto e 26 nel verso, e Q fu copiato dopo che dall’archetipo si erano staccati questi fogli, reinseriti poi alla fine in ordine sparso. 136

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importanza a questo testimone fu Diels, nella sua edizione del 1923. Le riserve di Lachmann e di Munro sono parzialmente giustificate dal fatto che il manoscritto presenta numerosi errori e corruttele e riproduce sostanzialmente il testo contenuto in Q. Per quanto riguarda le Schedae Vindobonenses, non si conosce con certezza la loro storia, ma, prendendo in considerazione lo stile della scrittura, Èmile Chatelain ipotizzò che tale codice fosse stato scritto nel IX secolo. Come gli altri codici, il ms. presenta delle correzioni fatte da amanuensi contemporanei al copista. Come le Schede Haunienses, anche questo codice presenta numerose corruttele e venne scarsamente considerato da Lachmann e da Munro. Solo nel Novecento alcuni filologi lo utilizzarono per compendiare O e Q. I codici G, U, V provengono invece da uno stesso archetipo in minuscola, l’archetipus insularis. A questi si aggiungono numerosi manoscritti del secolo XV secolo (Itali), derivati da un codice scoperto in un monastero d’oltralpe da Poggio Bracciolini. Se si eccettuano questi testimoni, nel corso del Medioevo, il testo di Lucrezio era conosciuto, copiato e studiato nei principali centri culturali dell’epoca: York, Tours, Fulda, Bobbio. Tuttavia la conoscenza di Lucrezio non era estesa al di là di tali luoghi dove un’élite clandestina di monaci permise la sopravvivenza del testo. Negli altri monasteri i codici del DRN addirittura non venivano catalogati, verosimilmente per motivi religiosi e ideologici. Dall’epoca della rinascita carolingia all’Umanesimo, il DRN rimase pressoché sconosciuto.137 Nel 1417 Poggio Bracciolini, che si trovava in Germania per il Concilio di Costanza in qualità di segretario apostolico, 137

Greenblatt 2011; Palmer 2015. 109

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scrisse a Francesco Barbaro di aver trovato un codice di Lucrezio in un locus satis longinquus rispetto a Costanza (forse a Murbach o a Fulda). Poggio si fece fare una copia di questo manoscritto e la inviò a Firenze a Niccolò Niccoli perché essa fosse trascritta ancora una volta. Niccoli trattenne il manoscritto di Poggio per più di dieci anni nonostante le ripetute richieste di restituzione. La copia di Poggio scomparve. Ma sopravvisse la copia che Niccoli trasse dal codice di Poggio. Su questi codici rinascimentali, gli Itali, riconducibili al perduto manoscritto Poggianus, si sono basate le edizioni di Lucrezio fino a Karl Lachmann (1850). Dalla perduta trascrizione poggiana dipende una copia eseguita a Firenze da Niccolò Niccoli, ora conservata presso la Biblioteca Laurenziana (L = Flor. Laur. 35. 30). Il codice scoperto da Poggio era probabilmente dell’VIII secolo, e dunque più antico di O e Q; oltre al DRN conteneva anche il testo del poema astronomico di Manilio. Poggio nel 1418 ricevette l’apografo del codice presente in quella biblioteca e lo spedì al suo amico fiorentino Niccolò Niccoli perché fosse trascritto e copiato. Poggio non vide la sua copia fino al 1434, quando fece visita alla città di Firenze con Papa Eugenio IV. Entrambi, sia l’originale che la copia, sono andati perduti: se l’originale proveniva da Murbach, esso scomparve in occasione dell’incendio che nel Settecento distrusse la Biblioteca del monastero. Della copia non si seppe più nulla, e questo costituisce uno dei più singolari “gialli” della tradizione manoscritta. Già prima di Lachmann alcuni studiosi avevano avanzato l’ipotesi che tutti i codici lucreziani superstiti derivassero da un unico capostipite. In particolare, il primo a introdurre il concetto di archetipo in senso moderno era stato Johan Madvig, sebbene 110

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Lachmann avesse attribuito a se stesso l’adozione del termine e del concetto. Riguardo al posto da attribuire nello stemma al capostipite degli Itali, già Lachmann aveva le idee poco chiare: all’inizio della prefazione scrive che dall’archetipo furono tratte tre copie, l’Oblongus, il capostipite del Quadratus e delle Schedae, e il capostipite degli Itali, delineando una tradizione a tre rami, che è una rarità nei testi antichi e medievali. Successivamente, egli passa impercettibilmente all’idea di una tradizione bipartita, osservando la grande somiglianza degli Itali rispetto a O, anche se non si spinge mai a parlare di un subarchetipo comune. Delle tre ipotesi possibili sulla posizione degli Itali, (che costituiscono un terzo ramo di tradizione che discendano insieme a O da un subarchetipo comune o che discendano direttamente da O), la terza è stata una delle più accreditate. Di fronte alle corruttele più gravi del testo, come lacune e versi incompiuti, i codici umanistici dimostrano di non aver avuto a disposizione nulla di meglio o di diverso dei codici antichi a noi pervenuti. 3. Dall’editio princeps a oggi L’editio princeps del DRN è datata al 1473 ed è stata eseguita da Ferrando da Brescia (Brixiensis). A partire da questa prima edizione, ispirate ai codici Itali, ci furono la Veronensis (1486), la Veneta (1495), le Aldinae (1500 e 1515), la Bononiensis (1511), la Juntina (1512). Un credito maggiore riscossero le successive edizioni di Lambin (Parigi 1563-64) e di Havercamp (Leiden 1725), le quali utilizzarono in parte rispettivamente le lezioni di Q e di O. Lambin utilizzò come base i codici Itali, ma si servì delle lezioni di O e di Q. Grazie alla sua profonda conoscenza della 111

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lingua latina, soprattutto dell’idioma ciceroniano, Lambin produsse circa ottocento emendamenti al testo lucreziani, tutti motivati nel ricco apparato critico. Nella sua edizione aveva già utilizzato alcune lezioni di Q ottenute dal Turnebus, e i due codici leidensi furono noti, in seguito, a Havercamp, autore dell’edizione leidense del 1725. La tradizione manoscritta di Lucrezio ha contribuito al radicale cambiamento metodologico della filologia classica. A partire dallo studio dell’opera lucreziana è stato elaborato il cosiddetto “metodo di Lachmann”, basato sulla ricostruzione dei rapporti genealogici sui codici e sul tentativo di individuare criteri meccanici, cioè oggettivi e non sottoposti al iudicium da parte del filologo, per la scelta delle varianti e la costituzione del testo. La tradizione lucreziana ben si prestava a un metodo come quello di Lachmann, perché costituita da pochi codici medievali, i cui rapporti genealogici erano facilmente ricostruibili, e una massa di codici umanistici trascurabili nella recensio. Fu soprattutto Jacob Bernays a tracciare nel 1847 uno stemma sostanzialmente corretto per l’epoca (anche se oggi superato), che faceva discendere da un unico archetipo sia l’Oblongus sia il Quadratus, tanto gli Itali quanto le Schedae. Rispetto a Bernays, Lachmann fece progressi nella eliminazione delle lezioni singolari e nella ricostruzione della forma esteriore dell’archetipo, basandosi su guasti comuni a tutta la tradizione e sulla lunghezza di alcuni brani trasposti o danneggiati.

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Stemma di Bernays (1847), da L. Reynolds, Texts and Transmission. A Survey of the Latin Classics, Oxford 1983.

Con la memorabile edizione di Karl Lachmann del 1850, il modo di interpretare la tradizione manoscritta di Lucrezio cambiò radicalmente. Lachmann fu il primo a fondare interamente la sua edizione sui due codici Vossiani di Leida, l’Oblongus (O) e il Quadratus (Q), dopo aver dimostrato ampiamente la loro superiorità, fino ad ora mai smentita. Egli pose questi capisaldi metodologici: 1. La concordanza in errori, lacune, corruttele e trasposizioni prova che tutti i manoscritti Itali derivano da uno stesso archetipo; 2. L’omissione in Q (GVU) dei quattro gruppi di 52 versi si spiega supponendo che Q sia stato trascritto dopo O, quando nell’archetipo si erano staccati dei fogli, poi inseriti alla fine del volume, prima della loro trascrizione; 3. La trasposizione di 4, 323-347 davanti ai vv. 299-322, l’interpolazione di 1, 1068-1075 (cui corrisponde la lacuna 113

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dopo 1, 1095) e soprattutto l’estensione regolare delle quattro lacune inducono a pensare che ognuna di esse corrispondesse a un foglio dell’archetipo, costituito di 52 versi (26 nel recto e 26 nel verso comprensivi dei titoli) e che l’intero archetipo constava di 151 fogli per un totale di 19 fascicoli. 4. L’esame di certe anomalie grafiche consente di concludere che l’archetipo era stato scritto in capitale maiuscola, tra il IV e il V secolo.138 Lachmann si dimostrò fin da subito un filologo eccezionale, e ricostruì completamente la storia della trasmissione manoscritta. Si può dire con certezza che la storia della filologia classica sia cambiata con la prefazione apposta prima dello stemma codicum che realizzò il giovane Lachmann al testo lucreziano. Naturalmente, è quasi superfluo ricordarlo, la tradizione manoscritta lucreziana ha subito più volte delle correzioni e delle modifiche, nonostante abbia visto impegnato il più grande innovatore della metodologia filologica dell’Ottocento. Dall’esame dei due codici leidensi, egli aveva concluso che tutta la tradizione del testo di Lucrezio derivava da un archetipo scritto in lettere capitali in Francia nel secolo IV o V. Tuttavia, se è vero che alcuni errori del testo si spiegano per confusione di lettere maiuscole (tra C e G, tra I e L o T fra D e B e fra T e F), altri presuppongono un 138

Lo schema ripropone sostanzialmente le conclusioni di Ivano Dionigi nella Nota al Testo dell’edizione lucreziana, con traduzione e commento, Tito Lucrezio Caro. La natura delle cose. Introduzione di Gian Biagio Conte, traduzione di Luca Canali, Testo e commento a cura di Ivano Dionigi, Milano, 1990, 55. 114

Testo

modello scritto in minuscola, che usava il tratto orizzontale sopra una lettera per indicare l’abbreviazione di una lettera nasale m o n. Ora questo segno non era usato, salvo alla fine delle parole o dei versi, prima del secolo VIII. Quindi gli errori nati dall’omissione o dalla falsa aggiunta di quel segno non possono risalire ad un’epoca molto antica. A partire da queste osservazioni, accennate per la prima volta da Duvau nel 1888, ampliate e approfondite da Émile Chatelain, nella prefazione dei facsimile dei codici O e Q (1908 e 1913), fu concluso che l’archetipo non era in maiuscola, ma era un codice in minuscola scritto in Francia o in Irlanda nel secolo VIII, il quale conteneva errori derivati dal codice in maiuscola da cui era stato copiato. In questo modo, l’archetipo di Lachmann diventava un antenato del vero archetipo, e tutte le deduzioni che egli fece, relative al numero dei versi contenuti in ciascuna pagina dell’archetipo, dovevano essere riferite al codice intermediario tra il presunto archetipo di Lachmann e i manoscritti leidensi. Rimane il fatto che su tali deduzioni sono stati sollevati dubbi e oggi prevale l’opinione di voler risolvere certe difficoltà del poema richiamandosi alla struttura dell’archetipo, un procedimento con base incerta. I rapporti tra il capostipite della famiglia italica e OQ sono stati esaminati più volte, per primi da Hosius 1914 e Merrill 1920. In genere si accetta la conclusione di Munro: derivano tutti dal medesimo archetipo, per le caratteristiche generali comuni e per le concordanze ora con O ora con Q. È stato dimostrato che tutte le altre copie datate XV e XVI secolo sarebbero derivate da O.139 Questi codici sono utili agli editori solo per la presenza di 139

Cf. Reeve 1980; Flores 2003; Reeve 2005; Flores 2006; Butterfield 2011, 156; per la complessa ramificazione della tradizione italiana. 115

Testo

eventuali interessanti congetture da parte degli editori umanisti. È convinzione ormai acquisita che Q, G, V, U, accomunati da una serie di corruttele, trasposizioni e soprattutto delle quattro lacune, si spieghino postulando un intermediario tra essi e l’archetipo, e che pertanto appartengano a un’unica famiglia indipendente da O. Resta tuttavia la validità sostanziale di quello che troppo sbrigativamente è andato sotto il nome di “metodo di Lachmann”, soprattutto alla luce delle considerazioni di Timpanaro.140 In realtà, il metodo non apparteneva soltanto a Lachmann, ma aveva illustri anticipatori, tra cui il già citato Bernays.141 Il metodo di Lachmann era applicabile non solo al DRN, ma a tutti quei casi altrettanto fortunati di critica testuale, in cui si dà una tradizione manoscritta chiusa e verticale, senza contaminazioni orizzontali, e dove, sulla base della convergenza di sviste, è possibile ricostruire la genealogia dei codici e individuare meccanicamente lo stesso archetipo. 4. Il De rerum natura: opera incompleta e imperfetta o completa e interpolata? Le due principali tendenze della critica del testo lucreziano si rivelano entrambe convincenti, nonostante nessuna delle due abbia sufficienti prove per capovolgere la tesi opposta, ma entrambe presentino l’inconveniente di essere radicalmente antitetiche. Marcus Deufert, in circa vent’anni di studi dedicati all’esegesi lucreziana, ha considerato gran parte delle incongruenze testuali – ripetizioni, versi incompleti, lacune – come 140 141

Timpanaro 1963, 56-72. Cf. Reynolds 1983, 218-22. 116

Testo

la prova della massiccia presenza di interpolazioni. Una parte consistente della critica ritiene che il DRN sia stato corrotto in un determinato periodo, dalla fase immediatamente successiva alla sua pubblicazione, fino ai principali testimoni medievali, i due famosi codici Vossiani (O e Q) del IX secolo. Il sospetto della presenza di versi spuri nasce a partire dal Rinascimento, ma il primo a teorizzare una rielaborazione tarda del DRN fu Heinrich Eichstädt all’inizio dell’Ottocento, che riteneva che l’intera opera lucreziana fosse stata migliorata da un autore tardo. Albert Forbiger, al contrario, credeva che un autore tardo avesse peggiorato il DRN.142 La tendenza a individuare interpolazioni nel testo di Lucrezio continua con le tesi di Neumann e Gneisse negli anni ’70 dell’Ottocento, in particolare in relazione alle ripetizioni spurie.143 Nel 1958 esce un articolo di Gerhard Müller144 che ritiene che siano ben 270 i passi interpolati in Lucrezio e il 1975 è l’anno della pubblicazione della più controversa, originale e indipendente edizione al testo di Lucrezio, quella di Konrad Müller, che espunge ben 223 versi in tutto il poema. In un primo studio del 1996, Pseudo-Lukrezisches im Lukrez: Die unechten Verse in Lukrezens De rerum natura (Berlin), l’approccio di Deufert era ipercritico, come ammesso dallo studioso stesso,145 per la presenza dell’espunzione di circa 370 versi. Negli studi pubblicati più recentemente e soprattutto negli ultimi due volumi che anticipano la futura edizione teubneriana, rispettivamente i Prolegomena zur Editio Teubneriana des Lukrez (Berlin/Boston 2017) e il Kritischer 142

Forbiger 1824. Neumann 1875; Gneisse 1878. 144 Müller 1958, 247-83. 145 Deufert 2016, 68-87. 143

117

Testo

Kommentar zu Lukrezens “De rerum natura” (Berlin/Boston 2018), Deufert ha mostrato una maggiore cautela nell’affrontare il problema dell’inautenticità dei 368 versi espunti nel suo primo lavoro, tuttavia è fermamente convinto che gran parte di quei versi “sospetti” siano spuri.146 Dall’altra parte, David Butterfield, futuro editore del testo lucreziano per la Bibliotheca Oxoniensis, ritiene che il DRN sia “incomplete” e non “unfinished”: l’opera, dunque, sarebbe da considerarsi conclusa, ma non revisionata.147 Butterfield si pone sulla stessa linea dell’interpretazione del testo lucreziano data da H. Diels, R. Heinze, C. Bailey e da E.J. Kenney, che sono tutti unanimemente piuttosto riluttanti a leggere delle interpolazioni nelle incongruenze testuali. Dell’incompiutezza della revisione del testo lucreziano non abbiamo le stesse prove che, invece, si ritrovano in Plauto o in Virgilio, ma possiamo verosimilmente ipotizzarla. Non ci sono fonti contemporanee sulla biografia o sulla composizione del DRN e, a parte le notizie di Cicerone e Girolamo, non c’è altro. L’unica discutibile prova, che tra l’altro non è una prova, che il DRN possa essere stato manomesso si trova nell’Anecdoton Parisinum (il cod. Paris BN lat. 7530 fr. 23r-29r), che riporta la notizia che il grammatico del tardo I sec. d.C. Marco 146

«In ihr habe ich die Interpolationen des Lukreztextes untersucht und war an mehr als neunzig Stellen für die Athetese von circa 370 Versen eingetreten. Den damals vertretenen Standpunkt erachte ich jetzt als überkritisch und setze von dem einst verworfenen Textbestand weniger als 60% (rund 220 Verse an etwa 60 Stellen) in Tilgungsklammern. Zu jenen Stellen, die ich heute echtheitskritisch anders beurteile als damals, habe ich in diesem Kommentar meinen neuen Standpunkt dargelegt». Cf. Deufert 2018, V. 147 Così anche Sedley 1998. 118

Testo

Valerio Probo aggiunse delle note critiche a diversi testi poetici, tra cui quello di Lucrezio. Questa notizia dovrebbe essere stata raccolta da un’opera perduta di Svetonio. Inoltre, Girolamo afferma che aveva a disposizione dei commenti a Lucrezio in Adv. Rufinum 1, 16 (puto quod puer legeris... commentarios ... aliorum in alios, Plautum videlicet, Lucretium, Flaccum, Persium atque Lucanum). Si tratta di commenti che forse potrebbero essere legati al lavoro di Probo. Questa notizia, tuttavia, non costituisce una prova sufficiente. Deufert, invece, ha provato a dimostrare che: «the use of critical signs in the text of Lucretius at an early stage of its transmission can be reconstructed from a strange particularity in our extant manuscripts. I shall argue that a certain kind of corruption in the archetype that can be reconstructed from O and Γ, namely the rubrication of verses, reflects the application of critical signs to these verses in an earlier, pre-archetypical edition».148 Per Butterfield le cose stanno diversamente: «The hardened 148

Cf. Deufert 2016, 70. Nei manoscritti medievali di Lucrezio, scritti con inchiostro nero in minuscola carolina, non sono stati trasmessi soltanto i versi lucreziani, ma anche materiale testuale aggiuntivo. La più significativa testimonianza di questi paratesti è rappresentata dalle brevi intestazioni in prosa che si presentano in tutto il testo al fine di introdurre gli argomenti seguenti. Questi tituli non sarebbero lucreziani, secondo Deufert, perché interrompono il carmen perpetuum del poeta, ma sono sicuramente antichi perché incorporano citazioni in greco di Epicuro. I tituli sono trasmessi da O, G, V, U e si distinguono dai versi lucreziani se presentano almeno una delle seguenti tre caratteristiche: l’uso dell’inchiostro rosso, le lettere onciali (o maiuscole) leggermente più grandi e una posizione centrale o almeno rientrata della riga. Questi dovevano essere presenti sia in Γ sia nell’archetipo. Per i dettagli della rubricazione Deufert rimanda a Butterfield 2013, 137-41. 119

Testo

practitioner of Interpolationsforschung argues that Lucretius worked his poem up to a level of finish and perfection and as a result produced a wholly consistent and complete unit. It will therefore be essential to investigate the poem’s state of completion in further detail before turning to the yet thornier question of interpolation. (…) If it can be accepted that Lucretius did not finish the work, and therefore could let himself nod in composition, can it still be demonstrated that the poem was augmented by an over-active reader or an over-zealous editor?».149 Il motivo di queste differenze di opinione è essenzialmente il seguente: sebbene ci siano delle prove forti per quanto riguarda la dubbia autenticità di un consistente numero di versi, ad esempio i casi molto significativi di ripetizioni letterali di lunghe porzioni di testo, non abbiamo altre evidenze per stabilire che vi siano stati uno o più interpolatori. Il DRN è contraddistinto da ripetizioni. Queste frequenti iterazioni sono state interpretate in un modo sempre diverso: da alcuni, come strumento mnemonico per aiutare i lettori nel loro proposito di memorizzare i precetti della filosofia epicurea (una delle funzioni della formularità); da altri, come il segno dell’immaturità poetica del verso lucreziano; da altri ancora, come la prova dell’incompiutezza dell’opera e, infine, come il segno più tangibile della presenza di interpolazioni.150 È molto probabile che Lucrezio morì senza poter rivedere la sua opera. David Butterfield dà per certo che Lucrezio non fu in grado di revisionare il poema,151 e con questa affermazione chiude 149

Cf. Butterfield 2014, 29-30. Cf. sul tema Gneisse 1878; Lenz 1937; Bailey 1947, 1, 161-5; Ingalls 1971; Minyard 1978; Schiesaro 1990. 151 Dipende da come si interpreta questo verso lucreziano: in 5, 155 quae 150

120

Testo

il suo saggio The Early Textual History of Lucretius’ De rerum natura (Cambridge, 2013): «since Lucretius’ poem was manifestly unfinished […] the Lucretian editor should certainly not improve the ordering of the poem for him by rearranging paragraphs and arguments, regardless of what Lucretius might have intended, unless the transposition could be correcting a genuine error of transmission».152 Contrariamente a Enrico Flores153 e in accordo con Michael Reeve e David Butterfield, Marcus Deufert ritiene che la tradizione di Lucrezio sia unitaria.154 In altre parole, i codici antiquiores del IX secolo, il codice perduto Poggianus e i codici Itali (XV secolo) derivano da un singolo archetipo (= Ω).155 È probabile che il Poggianus non sia una copia diretta dell’Oblongus O (Leidensis Voss. Lat. F 30, saec. IX), ma discenda da esso per tibi posterius largo sermone probabo. 152 Butterfield 2013, 273. 153 L’edizione di Enrico Flores (Napoli vol. I, 2002; vol. II, 2004; vol. III, 2009) è fondata su una collazione dei manoscritti non solo di epoca carolingia, ma anche della tradizione umanistica, che risale al perduto codice Poggianus, ricostruito dalle sue copie dirette e indirette. Flores ha riabilitato la tradizione degli Itali, che, a suo parere, sarebbero dei testimoni indipendenti dalla tradizione carolingia e quindi necessari alla constitutio textus del DRN. I suoi risultati non hanno convinto soprattutto Michael D. Reeve in tre studi sugli Itali (Reeve 1980, 27-48; 2005, 11564; 2006, 165-84), seguiti da Butterfield e Deufert. 154 Deufert 2017. 155 Butterfield afferma con cautela, a differenza dell’idea di Lachmann, che la trasmissione di Lucrezio ebbe una fase scrittoria capitale e una fase minuscola successiva: l’archetipo e l’iperarchetipo fu probabilmente scritto in minuscolo, ma esisteva una fase maiuscola precedente, che a sua volta seguiva una o più fasi di rotoli di papiro nel pregresso corsivo romano. 121

Testo

mezzo di una copia intermedia perduta.156 Pertanto, solo le letture dei manoscritti carolingi hanno un valore indipendente, mentre gli Itali sarebbero utili solo per le congetture che tramandavano, numerose e molto spesso convincenti. Quanto alla posizione degli Itali nello stemma codicum, per Butterfield le cose stanno così: «an obvious and necessary result of accepting this stemma is that all the Itali bear no independent authority for reconstructing Lucretius’ text».157 Le differenze tra queste due posizioni sono ovviamente fondamentali e hanno conseguenze importanti per la costituzione del testo del DRN. Nell’ultima edizione teubneriana, pur avendo tenuto presente l’intera tradizione manoscritta del DRN, sia quella carolingia sia quella umanistica, Deufert dichiara che solo una parte dei dati della sua nuova collazione dei testimoni ha il diritto di figurare nell’apparato dell’edizione. Registra le varianti dei 156

Per Butterfield, Poggio aveva trovato la copia diretta di O (che lui chiama χ): il codice Poggianus (π) era una copia di χ, da cui discendono tutti gli Itali. Butterfield sostiene in modo convincente che durante il XV secolo una nuova collazione di O (almeno del Libro I) deve essere stata fatta su un manoscritto perduto italiano e che χ è stato anche ricollazionato, in modo che alcune delle sue lezioni entrarono separatamente e in un secondo momento nella tradizione degli Itali. Butterfield ha proposto una ricostruzione plausibile: Poggio trovò χ e ne commissionò una copia (π), ma lasciò χ nel luogo in cui fu scoperto. Alcuni anni dopo un altro studioso italiano, Bartolomeo da Montepulciano, riuscì a ottenere χ e lo portò in Italia, cosicché le lezioni in esso contenute circolarono. Anche se tutti i manoscritti italiani discendono da π, esso stesso era una copia di O (tramite χ), alcuni di essi mostrano una mescolanza di lezioni tratte da χ e altre da O, a causa della ricollazione di entrambi fatta nel corso del XV secolo (cf. Butterfield 2013, 41-44). 157 Butterfield 2013, 31. 122

Testo

codici carolingi che non possono essere eliminate e della tradizione umanista, che come abbiamo visto deriva dall’Oblongus, recupera solo le congetture corrette o utili e le attribuisce alle loro fonti originali. Deufert spiega che la più antica tradizione del DRN è rappresentata da tre codici dell'età carolingia: O (Leidensis Voss. Lat. F 30, saec. IX), Q (Leidensis Vossianus Lat. Q 94, saec. IX) e GVU: rispettivamente, G (Schedae Gottorpienses Hafniae servatae, saec. IX), V (Schedae Vindobonenses priores, saec. IX), U (Schedae Vindobonenses posteriores, saec. IX). I tre testimoni, O, Q e GVU, discendono da un singolo archetipo (Ω), da cui derivano, da un lato, O e, dall’altro, Γ (i fons perduti di Q e delle schedae GVU). Deufert usa la sigla collettiva Γ (= accordo di Q e GVU, cioè il secondo subarchetipo della tradizione accanto a O), e Ω (l’archetipo, accordo di Γ e O) nello svolgimento dell’operazione meccanica della eliminatio lectionum singularium. Per la tradizione carolingia, Deufert propone di eliminare: gli errori singolari dei testimoni, le letture che sono congetture errate degli scribi medievali, nonché le loro varianti e gli errori ortografici. Per quanto riguarda il valore della tradizione indiretta nella constitutio textus del DRN (abbastanza limitato ma non irrilevante) si è espresso Butterfield158 in un ampio e dettagliato capitolo della sua opera propedeutica alla prossima edizione oxoniense. Si evince che l’edizione di David Butterfield sarà molto differente dall’ultima teubneriana. Lo si può intuire dai numerosi contributi di critica testuale lucreziana pubblicati dallo studioso cantabrigense e dalla più che condivisibile conclusione del suo fondamentale studio: «a number of cases of transpositions are 158

Butterfield 2013, 46-135. 123

Testo

necessary to heal the trasmitted text, but this is limited primarily to individual verses from scribal error. (…) Various lacunae occur throughout DRN and in such cases the loss should be marked (…). The scope for emending the text of DRN remains significant: future editors will do well to avoid uncritical conservatism, to weigh all plausible conjectures (from the ninth century to the present) with open minds, and to cite the most probable emendations and their originators in the apparatus».159

159

Butterfield 2013, 272-3. 124

Testo 160

SIGLE DEI CODICI

161

Codices selecti

Codices antiquiores Ω = codicum O Γ archetypus deperditus Γ = fons deperditus codicis Q schedae G V U O = Leidensis Voss. Lat. F 30 (Oblongus), saec. IX O1 = Oblongi textus nondum correctus OD= Oblongi textus a Dungalo correctus O2 = Oblongi textus correctus (sive a librariis sive a correctoribus) Q = Leidensis Voss. Lat Q 94 (Quadratus), saec. IX Q1 = textus nondum correctus Q2 = Quadrati textus a viro doctissimo correctus (saeculi XV) G = Schedae Gottorpiensis Hauniae servatae V = Schedae Vindobonenses priores (I) U = Schedae Vindobonenses (II) posteriores

160

Dal testo critico a cura di Marcus Deufert, Berlin 2019. Codici selezionati sulla base della loro importanza nella tradizione manoscritta e sulla loro menzione nell’apparato o nel commento a 5, 1105-1349. 161

125

Testo

Codices recentiores (Itali et alii), saec. XV ξ = fons deperditus antiquissimarum coniecturarum (μ L Aa o x ad ξ restituendum adhibentur) α = codicum A B R fons deperditus α* = indicatur consensus A2 B R A = Vat. Lat. 3276 Aa = Vat. Reg. Lat. 1706 B = Vat. Barb. Lat. 154 R = Vat. Ross. 502 L = Flor. Laur. 35.30 (Nicolianus) φ = codicum F C e f fons deperditus φ-C = excepto teste qui nota anteposita F = Flor. Laur. 35.31 C = Cantabrigiensis Bibl. Univ. Nn. 2.40 e = Vat. Lat. 3275 f = Vat. Ottob. Lat. 1136 S = Flor. Laur. 35.29 (a Politiano correctus) T = Flor. Laur. 35.32 Ca = Londiniensis, Bibl. Brit. Harl. 2554, saec. XV I = Monacensis Lat. 816a, saec. XV

126

Testo

NOTA AL TESTO L’edizione critica di riferimento è quella di Marcus Deufert (Berlin 2019). Le sigle dei codici citate nel commento e nell’apparato sono quelle adottate da Deufert. L’apparato proposto è sintetico e riporta solo i problemi testuali discussi nel commento. Qui di seguito si elencano i casi di disaccordo con l’ultima edizione teubneriana.

Deufert 2019

Bruno 2020

1105 hinc (Bockemüller)

1105 hi (Navagerius)

1131-1132 del. Deufert

1131-1132 post 1126 (Munro) 1133-1134 post 1135 collocavi

1148-1150 del. Deufert 1160 celatam uim (Deufert)

1160 et sua celata (Butterfield)

1190 damn. Zwierlein apud Deufert 1996, 297sq. 1192 damn. Zwierlein apud Deufert 1996, 297sq. 1315 del. Deufert 1341-1349 del. Deufert

127

Testo

128

Testo Inque dies magis hi victum vitamque priorem commutare novis monstrabant rebus et igni, ingenio qui praestabant et corde vigebant. Condere coeperunt urbis arcemque locare praesidium reges ipsi sibi perfugiumque, et pecus atque agros divisere atque dedere pro facie cuiusque et viribus ingenioque; nam facies multum valuit viresque vigebant. Posterius res inventast aurumque repertum, quod facile et validis et pulchris dempsit honorem; divitioris enim sectam plerumque secuntur quamlubet et fortes et pulchro corpore creti. Quod si quis vera vitam ratione gubernet, divitiae grandes homini sunt vivere parce aequo animo; neque enim est umquam penuria parvi. At claros homines voluerunt se atque potentes, ut fundamento stabili fortuna maneret et placidam possent opulenti degere vitam, nequiquam, quoniam ad summum succedere honorem certantes inter infestum fecere viai, et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos invidia interdum contemptim in Tartara taetra invidia quoniam, ceu fulmine, summa vaporant plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque; ut satius multo iam sit parere quietum quam regere imperio res velle et regna tenere. Proinde sine incassum defessi sanguine sudent, angustum per iter luctantes ambitionis; nec magis id nunc est neque erit mox quam fuit ante, quandoquidem sapiunt alieno ex ore petuntque res ex auditis potius quam sensibus ipsis.

1105

1110

1115

1120

1125 [1131] [1132] [1127] [1128] 1130 [1129] [1130] [1135] [1133] [1134] 1135

1105 hi Navagerius : in Ω : hinc Bockemüller || 1106 et igni] repertis Kannengiesser : benigni Lachmann || 1110 pecus atque Lachmann : pecudes atque Ω || 1116 creti A2 φ : certi Ω || 1131 post 1126 collocavit Munro || 1133-1134 post 1135 collocavi.

129

Testo Ergo regibus occisis subversa iacebat pristina maiestas soliorum et sceptra superba, et capitis summi praeclarum insigne cruentum sub pedibus vulgi magnum lugebat honorem; nam cupide conculcatur nimis ante metutum. Res itaque ad summam faecem turbasque redibat, imperium sibi cum ac summatum quisque petebat. Inde magistratum partim docuere creare iuraque constituere, ut vellent legibus uti. Nam genus humanum, defessum vi colere aevom, ex inimicitiis languebat; quo magis ipsum sponte sua cecidit sub leges artaque iura. Acrius ex ira quod enim se quisque parabat ulcisci quam nunc concessumst legibus aequis, hanc ob rem est homines pertaesum vi colere aevom. Inde metus maculat poenarum praemia vitae. Circumretit enim vis atque iniuria quemque atque, unde exortast, ad eum plerumque revertit, nec facilest placidam ac pacatam degere vitam qui violat factis communia foedera pacis. Etsi fallit enim divum genus humanumque, perpetuo tamen id fore clam diffidere debet; quippe ubi se multi per somnia saepe loquentes aut morbo delirantes protraxe ferantur et sua celata in medium et peccata dedisse. Nunc quae causa deum per magnas numina gentis pervulgarit et ararum compleverit urbis suscipiendaque curarit sollemnia sacra,

1140

1145

1150

1155

1160

1141 redibat φ-c : recidat Q : recidit O1 || 1145 vi colere φ-c : vicere O1 : vigere Q : vincere O2 : vi gerere α*-R || 1147 iura O : lusa Q || 1148-1150 del. Bockemüller, Deufert || 1150 colere O2 : colore Ω || 1160 celatam vim Deufert : celata Ω : celata mala Lachmann : celata alte Smith : sua celata Butterfield.

130

Testo [quae nunc in magnis florent sacra rebus locisque] unde etiam nunc est mortalibus insitus horror, qui delubra deum nova toto suscitat orbi terrarum et festis cogit celebrare diebus, non ita difficilest rationem reddere verbis. Quippe etenim iam tum divom mortalia saecla egregias animo facies vigilante videbant et magis in somnis mirando corporis auctu. His igitur sensum tribuebant propterea quod membra movere videbantur vocesque superbas mittere pro facie praeclara et viribus amplis. Aeternamque dabant vitam, quia semper eorum subpeditabatur facies et forma manebat, et tamen omnino quod tantis viribus auctos non temere ulla vi convinci posse putabant. Fortunisque ideo longe praestare putabant, quod mortis timor haut quemquam vexaret eorum, et simul in somnis quia multa et mira videbant efficere et nullum capere ipsos inde laborem. Praeterea caeli rationes ordine certo et varia annorum cernebant tempora verti, nec poterant quibus id fieret cognoscere causis. Ergo perfugium sibi habebant omnia divis tradere et illorum nutu facere omnia flecti. In caeloque deum sedes et templa locarunt, per caelum volvi quia sol et luna videtur, luna dies et nox et noctis signa severa noctivagaeque faces caeli flammaeque volantes, nubila sol imbres nix venti fulmina grando

1165

1170

1175

1180

1185

1190

1164 del. Deufert || 1178 ulla b, ed. Brix. : illa Ω || 1189 sol Lambinus : nox Ω || 1190 damn. Deufert (1996) 298 sq. || 1192 damn. Deufert (1996) 297 sq. | sol] ros Lambinus | fulmina Isid. : flumina OQ

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Testo et rapidi fremitus et murmura magna minarum. O genus infelix humanum, talia divis cum tribuit facta atque iras adiunxit acerbas! Quantos tum gemitus ipsi sibi, quantaque nobis volnera, quas lacrimas peperere minoribus nostris! Nec pietas ullast velatum saepe videri vertier ad lapidem atque omnis accedere ad aras, nec procumbere humi prostratum et pandere palmas ante deum delubra, nec aras sanguine multo spargere quadrupedum, nec votis nectere vota, sed mage placata posse omnia mente tueri. Nam cum suspicimus magni caelestia mundi templa super stellisque micantibus aethera fixum, et venit in mentem solis lunaeque viarum, tunc aliis oppressa malis in pectora cura illa quoque expergefactum caput erigere infit, ne quae forte deum nobis inmensa potestas sit, vario motu quae candida sidera verset: temptat enim dubiam mentem rationis egestas, ecquaenam fuerit mundi genitalis origo, et simul ecquae sit finis, quoad moenia mundi solliciti motus hunc possint ferre laborem, an divinitus aeterna donata salute perpetuo possint aevi labentia tractu inmensi validas aevi contemnere viris. Praeterea cui non animus formidine divum contrahitur, cui non correpunt membra pavore, fulminis horribili cum plaga torrida tellus contremit et magnum percurrunt murmura caelum?

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1203 placata Ω : pacata b || 1205 micantibus O : micantis Q || 1207 pectora] pectore R, ed. Brix. 1211-1217 damn.. Deufert (1996) 299-301, vv. 1215-1217 damn. G. Müller || 1214 solliciti Bentley : et taciti Ω

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Testo Non populi gentesque tremunt, regesque superbi corripiunt divum percussi membra timore, ne quod ob admissum foede dictumve superbe poenarum grave sit solvendi tempus adactum? Summa etiam cum vis violenti per mare venti induperatorem classis super aequora verrit cum validis pariter legionibus atque elephantis, non divom pacem votis adit ac prece quaesit ventorum pavidus paces animasque secundas, nequiquam, quoniam violento turbine saepe correptus nihilo fertur minus ad vada leti? Usque adeo res humanas vis abdita quaedam opterit et pulchros fascis saevasque secures proculcare ac ludibrio sibi habere videtur. Denique sub pedibus tellus cum tota vacillat concussaeque cadunt urbes dubiaeque minantur, quid mirum si se temnunt mortalia saecla atque potestatis magnas mirasque relinquunt in rebus viris divum, quae cuncta gubernent? Quod superest, aes atque aurum ferrumque repertumst et simul argenti pondus plumbique potestas, ignis ubi ingentis silvas ardore cremarat montibus in magnis, seu caeli fulmine misso, sive quod inter se bellum silvestre gerentes hostibus intulerant ignem formidinis ergo, sive quod inducti terrae bonitate volebant pandere agros pinguis et pascua reddere rura, sive feras interficere et ditescere praeda; nam fovea atque igni prius est venarier ortum quam saepire plagis saltum canibusque ciere.

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1224 ne quod Ω : nequid Lachmann || 1225 adactum Pontanus (cf. v. 1330) : adauctum Ω : adultum Lachmann 1234 opterit O1 : operit Q || 1241 aes atque Marullus (cf. 1257) : aeque Ω || 1243 ingentis ξ-A a : gentis Ω : ingenti Brieger

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Testo Quicquid id est, quacumque e causa flammeus ardor horribili sonitu silvas exederat altis a radicibus et terram percoxerat igni, manabat venis ferventibus in loca terrae concava conveniens argenti rivus et auri, aeris item et plumbi. Quae cum concreta videbant posterius claro in terra splendere colore, tollebant nitido capti levique lepore et simili formata videbant esse figura atque lacunarum fuerant vestigia cuique. Tum penetrabat eos posse haec liquefacta calore quamlibet in formam et faciem decurrere rerum et prorsum quamvis in acuta ac tenvia posse mucronum duci fastigia procudendo, ut sibi tela parent silvasque ut caedere possint materiemque dolare et levia radere tigna et terebrare etiam ac pertundere perque forare. Nec minus argento facere haec auroque parabant primum quam validi violentis viribus aeris, nequiquam, quoniam cedebat victa potestas, nec poterant pariter durum sufferre laborem. Tum fuit in pretio magis aes aurumque iacebat propter inutilitatem hebeti mucrone retusum; nunc iacet aes, aurum in summum successit honorem. Sic volvenda aetas commutat tempora rerum. Quod fuit in pretio, fit nullo denique honore; porro aliud succedit et ⟨e⟩ contemptibus exit inque dies magis adpetitur floretque repertum laudibus et miro est mortalis inter honore. Nunc tibi quo pacto ferri natura reperta sit facilest ipsi per te cognoscere, Memmi.

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1266 parent] darent Lachmann | ut caedere Lachmann : et caedere Ω | possint] possent Lachmann || 1267 dolare et levia radere tigna Marullus : dolaret levare ac radere tigna Ω : dolare et radere tigna valerent Housman 1273 tum Lachmann : nam Ω : hinc Watt | aes Isid. : om. Ω || 1280 laudibus Q2 : claudibus Ω

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Testo Arma antiqua manus ungues dentesque fuerunt et lapides et item silvarum fragmina rami et flammae atque ignes, post quam sunt cognita primum. Posterius ferri vis est aerisque reperta. Et prior aeris erat quam ferri cognitus usus, quo facilis magis est natura et copia maior. Aere solum terrae tractabant, aereque belli miscebant fluctus et vulnera vasta serebant et pecus atque agros adimebant; nam facile ollis omnia cedebant armatis nuda et inerma. Inde minutatim processit ferreus ensis versaque in obprobrium species est falcis ahenae, et ferro coepere solum proscindere terrae exaequataque sunt creperi certamina belli. Et prius est armatum in equi conscendere costas et moderarier hunc frenis dextraque vigere quam biiugo curru belli temptare pericla. Et biiugos prius est quam bis coniungere binos et quam falciferos armatum escendere currus. Inde boves Lucas turrito corpore, taetros, anguimanus, belli docuerunt volnera Poeni sufferre et magnas Martis turbare catervas. Sic alid ex alio peperit discordia tristis, horribile humanis quod gentibus esset in armis, inque dies belli terroribus addidit augmen. Temptarunt etiam tauros in moenere belli expertique sues saevos sunt mittere in hostis. Et validos partim prae se misere leones cum doctoribus armatis saevisque magistris, qui moderarier his possent vinclisque tenere,

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1294 ahenae Macr. : athenae Ω || 1300 biiugos Faber : biiugo Ω || 1302 lucas Q2 φ : cas Ω | taetros] taetras Lachmann || 1310 partim Ω : Parthi F || 1311 doctoribus] ductoribus LC2

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Testo nequiquam, quoniam permixta caede calentes turbabant saevi nullo discrimine turmas, terrificas capitum quatientis undique cristas, nec poterant equites fremitu perterrita equorum pectora mulcere et frenis convertere in hostis. Inritata leae iaciebant corpora saltu undique et adversum venientibus ora petebant et nec opinantis a tergo deripiebant deplexaeque dabant in terram volnere victos, morsibus adfixae validis atque unguibus uncis. Iactabantque suos tauri pedibusque terebant et latera ac ventres hauribant supter equorum cornibus et terram minitanti mente ruebant. Et validis socios caedebant dentibus apri tela infracta suo tinguentes sanguine saevi, [in se fracta suo tinguentes sanguine tela,] permixtasque dabant equitum peditumque ruinas. Nam transversa feros exibant dentis adactus iumenta aut pedibus ventos erecta petebant, nequiquam, quoniam ab nervis succisa videres concidere atque gravi terram consternere casu. Si quos ante domi domitos satis esse putabant, effervescere cernebant in rebus agundis volneribus clamore fuga terrore tumultu, nec poterant ullam partem redducere eorum: diffugiebat enim varium genus omne ferarum; ut nunc saepe boves lucae ferro male macti diffugiunt, fera facta suis cum multa dedere.

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1315 post. 1312 collocavit Bockemüller, post 1304 Housman || 1319 petebant ICa : patebant Ω || 1328 om. RI || 1330 adactus Marullus : adauctus Ω || 1339 macti Deufert : mactae Ω : tactae Bockemüller : sectae vel secti Butterfield

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Testo Si fuit ut facerent. Sed vix adducor ut ante non quierint animo praesentire atque videre, quam commune malum fieret foedumque, futurum. Et magis id possis factum contendere in omni, in variis mundis varia ratione creatis, quam certo atque uno terrarum quolibet orbi. Sed facere id non tam vincendi spe voluerunt; quam dare quod gemerent hostes, ipsique perire, qui numero diffidebant armisque vacabant.

1345

1341-1349 damn. Neumann, K. Müller, Deufert || 1342 post 1343 collocavit Lachmann 1344-1346 secl. Lachmann

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Traduzione

[1105-1135] Di giorno in giorno proprio questi, che primeggiavano nell’ingegno ed accrescevano la loro forza nel cuore, insegnavano a mutare il cibo e il regime di vita di prima, grazie a nuove scoperte e al fuoco. Iniziarono proprio i re per sé a fondare città e a collocare fortezze, come difesa e rifugio, divisero e assegnarono sia greggi sia campi, secondo la bellezza, la forza e l’ingegno di ciascuno; infatti ebbe molto valore la bellezza e le forze vigevano. Più tardi fu introdotta la proprietà privata e fu scoperto l’oro, che con facilità tolse il rispetto ai forti e ai belli; infatti in molti seguono la linea di condotta del più ricco, benché fossero nati forti e dotati di un bel corpo. Per cui se qualcuno governasse la propria vita con vera dottrina, ricchezza grande è per l’uomo vivere di poco, con animo sereno; infatti non c’è mai mancanza nel poco. Ma gli uomini vollero diventare famosi e potenti, perché la sorte poggiasse su una base solida e potessero trascorrere una vita tranquilla da ricchi, invano, dal momento che, lottando per giungere alla vetta del potere, si resero minaccioso il percorso, e tuttavia dall’alto, come un fulmine, talvolta l’invidia li scaglia, colpiti, di disprezzo in disprezzo nel Tartaro tetro, poiché, per l’invidia, come per il fulmine, spesso vanno in fumo le vette e tutto quanto si erge più in alto del resto; cosicché il quieto obbedire è molto più appagante che voler esercitare il comando e il regno. Per 139

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questo lascia che, a vuoto, sfiniti, sudino sangue lottando lungo l’angusta via dell’ambizione; né questo ora avviene nè avverrà nell’immediato più di quanto è avvenuto in passato, da quando loro pensano secondo ciò che dicono gli altri e inseguono le cose più per sentito dire che per vera cognizione dei loro sensi. [1136-1160] Dunque, una volta uccisi i re, giaceva annientata l’antica maestà dei troni e gli scettri superbi, e lo splendido emblema insanguinato della testa regale sotto i piedi del volgo piangeva il suo grande onore: infatti con frenesia si calpesta ciò che prima si è troppo temuto. Intanto lo stato delle cose ricadeva in una torbida feccia e nei tumulti, mentre ciascuno puntava ad avere per sé il comando e la sovranità. Quindi alcuni insegnarono a nominare magistrati e a fondare il diritto, affinché accettassero di servirsi delle leggi. Infatti il genere umano, stanco di vivere nella violenza, si sfibrava nelle inimicizie, per questo spontaneamente si sottomise alle leggi e al rigido diritto. Spinto dalla rabbia, ciascuno era pronto a vendicarsi in una maniera più crudele di quanto oggi è concesso dalle eque leggi, per questo motivo stancò gli uomini il vivere nella violenza. Da allora la paura delle pene macchia le gioie della vita. Infatti violenza e offese intrappolano chi le pratica, e il più delle volte ritornano al punto dove sono nate, né è facile che trascorra una vita serena e tranquilla colui che viola con le sue azioni i comuni accordi di pace. Infatti anche se accade che sfuggano alla stirpe degli dèi e al genere umano, tuttavia non si deve disperare che ciò resterà nascosto per sempre; dal momento che si dice che molti, parlando spesso nel sonno o delirando per malattia, tradirono se stessi, e 140

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rivelarono in pubblico le loro colpe nascoste. [1161-1240] Ora quale causa abbia diffuso tra i popoli grandi i numi degli dèi e riempito le città di altari, e si sia preso cura di accogliere i solenni riti sacri, [riti sacri che ora fioriscono in grandi eventi e sedi], da dove anche ora è insito nei mortali il brivido che fa sorgere nuovi templi di dèi in tutto il mondo, e spinge ad affollarli nei giorni di festa, non è così difficile darne ragione con le parole. Poiché, infatti, anche allora le stirpi mortali vedevano con lo spirito desto splendide forme divine, e anche più nei sogni, forme dotate di grandezza fisica stupefacente. A essi dunque attribuivano sensibilità, perché sembravano muovere le membra, ed emettere parole superbe, proporzionate a splendido aspetto e forze potenti. E a loro attribuivano la vita perenne, perché sempre la loro immagine si rinnovava e la figura restava, e ancora poiché, dotati di forze così grandi, ritenevano che non a caso potessero essere vinti da alcuna forza. E pensavano che fossero di gran lunga superiori in fortuna perché il timore della morte non tormentava affatto alcuno di loro e, al tempo stesso, poiché nei sogni vedevano molte e mirabili cose realizzare, senza provare alcuna fatica. Inoltre i ritmi del cielo in ordine determinato e le diverse stagioni dell’anno vedevano alternarsi, né erano in grado di riconoscere per quali cause ciò accadesse. Di conseguenza avevano come scampo per sé attribuire tutto agli dèi, e facevano conto che tutto si piegasse a un loro cenno. E in cielo collocarono le sedi e le dimore divine, poiché nel cielo il sole e la luna si vedono girare, luna, giorni e notte e stelle severe della notte, fiaccole erranti notturne e fiamme volanti nel cielo, nuvole, sole, piogge, venti, fulmini, grandine e rombi veloci 141

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e grandi mormorii di minacce. Stirpe umana infelice, quando attribuì agli dèi simili cose e aggiunse ire crudeli! Quanto grandi gemiti a se stessi allora, quanto grandi sciagure per noi, quali lacrime causarono per i nostri discendenti! Non vi è alcuna devozione nell’essere spesso visto velato, nel rivolgersi a una statua di pietra e accostarsi a tutti gli altari, né nell’inchinarsi, gettatosi a terra, e aprire le palme dinanzi ai templi degli dèi, o nello spargere sopra gli altari molto sangue di quadrupedi, né intrecciare voti con voti. La devozione consiste, piuttosto, nel contemplare ogni cosa con mente rasserenata. Infatti, quando leviamo lo sguardo verso gli spazi celesti del grande Mondo, e, sopra l’etere fitto di stelle iridescenti, e vengono alla mente i percorsi della luna e del sole – allora, nei cuori soffocati già da altri dolori anche quella angoscia inizia a far alzare il capo reso sveglio: che forse sia contro di noi l’immenso potere divino, che fa ruotare gli astri splendenti con vario moto: infatti la mancanza di una ragione assilla la mente dubbiosa, se mai ci sia stata un’origine creatrice del mondo e allo stesso tempo se ci sia una fine, finché le mura del mondo possano sopportare questa fatica di un moto incessante, o se ricevuta per volere divino un’eterna salute, possano persistere con durata perpetua le distese del tempo e spregiare le forze indomabili del tempo immenso. Inoltre, a chi il cuore non si contrae per timore degli dèi, a chi le membra non si irrigidiscono per la paura, quando per l’urto spaventoso del fulmine, la terra bruciata trema e i tuoni percorrono il vasto cielo? I popoli e le genti non tremano, e i re superbi non si paralizzano, colpiti nelle membra dal timore degli dèi, temendo 142

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che per azione immorale o parola superba si sia avvicinato il grave momento di scontare la pena? Anche quando l’estrema forza di un vento violento, in mare, spazza sulle acque il comandante di una flotta insieme a forti legioni e agli elefanti, non ricorre, egli, alla pace divina con voti, e pregando richiede, spaventato, bonacce dei venti e favorevoli brezze: invano, perché spesso trascinato da un gorgo violento, ugualmente è portato a pantani di morte? Fino a tal punto, dunque, una qualche forza nascosta ha schiacciato le cose dell’uomo, e fasci belli e scuri crudeli sembrano spesso calpestarsi e farsi scherno di loro. Infine, quando la terra trema tutta sotto i piedi e le città squassate crollano e in pericolo minacciano, cosa c’è da stupirsi se le stirpi mortali spregiano se stesse e fanno spazio ai grandi poteri e alle forze stupefacenti degli dèi, che governano tutte le cose? [1241-1296] Per proseguire, il rame e l’oro e il ferro furono scoperti, e allo stesso tempo il peso dell’argento e il potere del piombo. Quando il fuoco con le fiamme aveva bruciato immense selve su grandi montagne, sia che fosse stato inviato un fulmine del cielo, sia che gli uomini, combattendo tra loro una guerra nei boschi, avessero appiccato il fuoco contro i nemici per incutere terrore, sia che indotti dalla buona qualità del suolo volessero estendere campi fertili e restituire al pascolo le campagne, sia che volessero uccidere belve e arricchirsi di bottino. Infatti cacciare, per mezzo di fosse e del fuoco, nacque prima che cingere la macchia di reti e stanare le prede con i cani. Qualunque sia e da qualsiasi causa provenga, la fiamma ardente con un suono spaventoso aveva divorato i boschi sin dalle profonde radici e aveva cotto la terra con il fuoco, emanava confluendo insieme nei luoghi concavi della terra in vene 143

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incandescenti un rivo d’argento e di oro, e insieme di rame e di piombo. E quando gli uomini li vedevano rappresi e più tardi li vedevano risplendere sulla superficie con un colore acceso, affascinati dallo splendore e dalla liscia levigatezza, li raccoglievano e li vedevano essere formati in simile figura e ciascuna parte aveva riempito l’impronta delle cavità in cui ciascuna si era rappresa. Allora si insinuava negli uomini il pensiero che questi si potessero essere liquefatti per il calore e potessero scorrere in qualsiasi forma e figura di oggetti, e di nuovo potessero essere ricondotti in profili aguzzi e affilati di pugnali, in modo tale da procurarsi dardi perché fossero in grado di abbattere i boschi e di sgrossare il legname, di rendere le travi lisce ed inoltre di trivellare e anche di praticare fessure e di perforare. Si adoperavano a realizzare questi utensili né meno con l’argento e con l’oro, prima che con il robusto rame adatto a sforzi violenti, invano, perché cedeva vinta la forza, né potevano ugualmente sostenere la dura fatica. Allora, il rame fu più in pregio e l’oro giaceva per l’inutile impiego, smussato in una punta debole. Ora, il rame giace inutilizzato, l’oro, invece, ha raggiunto il massimo valore. Così il tempo, che necessariamente trascorre, muta le stagioni delle cose: ciò che è stato in pregio, alla fine diventa di nessuna importanza; inoltre, altro lo segue e esce da spregio, e di giorno in giorno si desidera di più e fiorisce ricoperto di lodi e tra i mortali si ritrova in uno stimabile onore. Ora, in quale modo sia stata scoperta la natura del ferro ti è facile, Memmio, grazie a te riconoscerlo. Armi antiche sono state le mani le unghie i denti e le pietre e poi i 144

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rami, frammenti di boschi, e le fiamme e il fuoco, dopo che sono stati per prima conosciuti. In seguito, fu scoperta la forza del ferro e del bronzo, e prima del ferro era stato conosciuto l’uso del bronzo, relativamente al quale è più debole la natura e maggiore l’abbondanza. Con il bronzo lavoravano il suolo della terra, e con il bronzo mescolavano i flutti della guerra e seminavano vaste ferite, e bestiame e campi depredavano. Infatti, tutte le cose inermi e nude facilmente cedevano a quanti erano armati. Successivamente, a poco a poco seguì la spada di ferro e mutò in disprezzo la forma della falce di bronzo, e cominciarono con il ferro a fendere il suolo della terra e si riequilibrarono i conflitti della guerra incerta. [1297-1349] Ed è precedente l’uso che l’uomo armato montasse sui fianchi del cavallo e che lo governasse con i freni e avesse forza nella destra, prima che affrontasse i pericoli di guerra su un carro a doppio giogo. E a sua volta, precedentemente, comparve l’uso di unire due cavalli prima a due a due e che l’uomo armato montasse sui carri falcati. In seguito ai buoi lucani dal corpo di torre, terribili, con proboscide, i Punici insegnarono a sopportare le ferite di guerra e a sconvolgere le grandi adunate di Marte. Così, la funesta Discordia generò una cosa dall’altra, orribile per gli umani ciò che fosse alle genti in armi, e di giorno in giorno alimentò la crescita ai terrori di guerra. Sperimentarono anche i tori al servizio della guerra, e provarono a lanciare contro i nemici i cinghiali crudeli. In parte mandarono davanti a sé i leoni forti con domatori armati, e crudeli istruttori, che fossero in grado di guidarli e a dominarli con le catene, ma invano: poiché infiammati dalla strage promiscua 145

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sconvolgevano, crudeli, senza far distinzione, le folle, scuotendo dovunque le criniere spaventose sul capo, né riuscivano i cavalieri a calmare gli animi dei cavalli, spaventati dal ruggito e, con il morso, a farli caricare contro il nemico. Le leonesse si avventavano da ogni parte a balzi con i corpi infuriati e spalancavano le fauci contro chi andava loro incontro, e assalivano alle spalle coloro che erano colti di sorpresa, li gettavano a terra, vinti dalle ferite, avvinghiatesi a loro con artigli forti e adunchi. E i tori scagliavano via i padroni, e li pestavano sotto i piedi, e squarciavano sotto fianchi e ventre dei cavalli con le corna e minacciosamente scavavano la terra. E con zanne robuste i cinghiali massacravano gli alleati, crudeli tingendo di sangue le lance spezzate nel loro corpo, [tingendo di sangue le lance spezzate all’interno dei loro corpi], e procuravano distruzioni miste di cavalieri e di fanti. Infatti i cavalli, buttandosi su un lato, tentavano di evitare i morsi feroci, o impennandosi con gli zoccoli scalciavano l’aria, invano: poiché avresti potuto vederli, recisi ai garretti, crollare, e con una pesante caduta accasciarsi a terra. Se quelli che ritenevano essere stati sufficientemente domati in pace prima, li osservavano che si infuocavano nell’azione, per le ferite, per le grida, la fuga, il terrore, il tumulto, e non erano in grado di riprendere il controllo di nessuna parte di loro; infatti si sparpagliava ogni genere delle diverse specie di bestie, come ora spesso i buoi lucani, feriti malamente dal ferro, si disperdono, dopo che hanno arrecato gravi danni ai padroni. Se è stato davvero come fecero… Ma a stento mi induco a credere che prima non siano riusciti a presentire nell’animo e a vedere quanto male comune e dannoso sarebbe accaduto. E potresti presumere che ciò sia avvenuto nel Tutto, in vari mondi in 146

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vario ordine creati, piuttosto che in un determinato e unico orbe di terre. Ma non vollero fare ciò tanto per la speranza di vincere, quanto dare ai nemici di che gemere, e perire loro stessi, che non confidavano nel numero e mancavano di armi.

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1105-1135. Di giorno in giorno gli uomini più intelligenti insegnarono a cambiare il tenore di vita con nuove invenzioni e con l’uso del fuoco. Alcuni di loro divennero re e cominciarono a fondare città e a costruire fortezze per propria difesa e rifugio, e i più belli, i più forti e i più talentuosi provvidero a dividere bestiame e terreni. Allora la bellezza e il vigore fisico erano tenuti in grande considerazione (1105-1112). In seguito, nacque l’idea del possesso e della ricchezza; fu scoperto l’oro, che tolse il primato ai più forti e ai più belli, i quali, nonostante le loro doti naturali, furono costretti, dalla nuova tendenza, a mettersi al seguito dei più ricchi (1113-1116). Eppure la più grande ricchezza è accontentarsi di poco, perché del poco non vi è mai mancanza. Ma gli uomini credono erroneamente che la fama, la potenza e l’agiatezza possano dare stabilità e tranquillità alla loro fortuna e alla loro vita. La via dell’ambizione è un percorso tortuoso e irto di pericoli; anche se raggiungono la vetta, è inevitabile che, colpiti dall’invidia, come un fulmine, precipitino nel baratro dell’orribile Tartaro. Per questo motivo, è meglio essere un suddito che un potente re. Di conseguenza, che siano gli altri a continuare a scontrarsi inutilmente, fino allo sfinimento, e a percorrere l’angusta via dell’ambizione. È stato così in passato, è così oggi e lo sarà anche in futuro, dal momento che gli uomini si lasciano condizionare da un sapere che si fonda sulle parole altrui e non sul proprio giudizio personale (1117-1135). In 5, 1105-1112 Lucrezio racconta come gli uomini che si distinguevano per intelletto e per la loro forza, non solo fisica, ma anche d’animo (che i Greci definivano θυμός), migliorarono la qualità della vita, attraverso la scoperta di nuove tecniche, a partire 151

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dalla vitale scoperta del fuoco, che, però, è stata intuita dall’osservazione di fenomeni naturali. Durante la prima fase del regno dei ‘migliori’, accadde che dall’aristocrazia primitiva nasceva la monarchia, anzi, la regalità, per usare l’accezione positiva del potere regio teorizzata da Polibio (6, 7, 1), che proponeva la più alta e nobile forma di meritocrazia. È ben noto, e non mancano le prove in tutta la letteratura antica, che i migliori in virtù, bellezza e spirito dovessero governare (basti pensare a Gorg. 82 B 11a, 6 DK; Democr. 68 B 267 DK; Thuc. 5, 105, 2; Pl. Grg. 483c-d; Lg. 690b; Cic. Rep. 1, 51; 3, 36; Sen. Ep. 65, 24). Sia Polibio (6, 5, 8) sia Posidonio162 (fr. 284 Kidd = in Sen. Ep. 90, cf. Zago 2012), tra i testi che sono contenutisticamente più vicini a Lucrezio, condividono questa antica e valida teoria: attraverso l’osservazione del comportamento degli animali in un branco, la monarchia primitiva si basava su questi principi naturali (dei paragoni fra i sovrani e i maschi dominanti di varie specie di animali si trovano in Hom. Il. 2, 48; Polyb. 6, 5, 8; Dio Chrys. Or. 3, 50; M. Aur. Med. 11, 18, 1; cf. sul tema Zago 2012, 80, n. 72). Un concetto simile sull’origine della monarchia è espresso in Cic. Off. 2, 41-42, letto come se fosse una teoria di Panezio (cf. fr. 120 van Straaten, vedi commento al De Officiis di Dyck 1996, 421-2): gli uomini erano soggetti a dei comandanti scelti per le loro doti naturali, riconosciuti superiori, per questo i primi re furono giusti e saggi. L’origine della monarchia è sempre stata uno dei principali ‘topoi’ nella storia della filosofia antica: ad esempio, secondo Platone (Lg. 680e-681d) dopo l’età dei Ciclopi e dei patriarchi, gli 162

Già Voltaire fece dialogare idealmente Posidonio e Lucrezio in Dialogues entre Lucrèce et Posidonius (1756) sul progresso umano, a tal proposito cf. Solaro 2004, 157-165. 152

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uomini si unirono in comunità più ampie, con a capo dei legislatori in grado di formulare delle leggi: dopo una prima forma di aristocrazia, sopraggiunse la monarchia. In tal modo, senza la benefica azione di quelli che Posidonio/Seneca definisce i sapientes reges (Sen. Ep. 90, 3-5), che hanno salvato i primi mortalium dell’ ‘età aurea’, ormai corrotti dalla διαστροφή (‘perversione’), la società sarebbe stata preda del disordine e della violenza. Il Bíos Helládos di Dicearco di Messene (fr. 49 Wehrli = fr. 56 A Mirhady; Porph. Abst. 4, 2, 1-9), cita la celebre descrizione esiodea dell’età dell’oro (cf. Saunders 2001, 237-54). Il filosofo peripatetico riassume, in un certo senso, il pensiero di Esiodo, anche se dichiara di rifiutare ciò che nel racconto risulta troppo leggendario (τὸ λίαν μυθικόν). Dicearco, in tal modo, storicizza il mito di Esiodo e spiega che la felicità consiste nell’armonia, nel benessere e nella mancanza della fatica e del lavoro. Gli uomini, quando non conoscevano l’uso di alcuna tecnica, non avevano bisogno di lavorare, ma si limitavano a raccogliere i frutti dagli alberi, così non dovevano scontrarsi tra di loro, perché non c’era nulla per cui valesse la pena di combattere. Lo stesso processo di storicizzazione è stato compiuto da Polibio, Posidonio, Diodoro Siculo (1, 8) e Lucrezio, dal momento che le loro descrizioni trattano di una fase molto remota della storia dell’umanità, senza servirsi di alcun modello mitico. L’esposizione della teoria sociale epicurea, comunque, riflette il resoconto di Democrito (68 B 5 DK) e, secondo Cole, non solo Epicuro e Lucrezio si sarebbero avvalsi delle teorie democritee, ma anche Diodoro (cf. Cole 1967 e Capitolo 2 dell’Introduzione, cf. supra). La Kulturgeschichte di Diodoro (1, 7-8) ha molto in comune con quella lucreziana, anche se non mancano differenze. La necessità era responsabile dei 153

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cambiamenti e dei progressi della civiltà ma, a differenza di Lucrezio, la visione dello storico è di gran lunga più positiva e progressista (cf. Blundell 1986, 194-5). Il modello politico ‘dicearchico’, esposto nel perduto trattato Tripolitico (cf. Phot. Bibl. 37) sarebbe, invece, la fonte dell’idea della costituzione mista esposta da Polibio e da Cicerone. Come ha ben dimostrato Cole 1967, 21-22, ci sono diversi punti di contatto anche tra il commento a Esiodo di Tzetzes (Schol. in Hes. 68, 6-7 = VS 68B5, 137, 39-40) e questa sezione di versi. Lo studioso ritiene che possa essere alta la probabilità che non solo il testo di Lucrezio ma anche quelli di Diodoro, Posidonio e Vitruvio possano avere una medesima matrice sulla Kulturgeschichte; se l’ipotesi è corretta, allora Tzetzes sarebbe il quinto autore dipendente dalla stessa fonte (Democrito?). Al contrario, Spoerri 1959, 183-188 ritiene che Tzetzes abbia ripreso soltanto Diodoro nella trattazione dell’età dell’oro. In realtà, l’esistenza di una singola fonte non è assolutamente garantita. Non c’è uno solo di tutti i temi trattati in tali testimonianze che venga esposto allo stesso modo dalla totalità degli autori. È più probabile pensare a una sorta di koiné ideologica ellenistica, secondo l’ipotesi di Cole 1967, 23: «on the subject of cultural origins – a collection of isolated observations or summary bits of doctrine linked loosely by their common assumption of an original animal-like existence, followed by a gradual development of the arts». Seneca tace sull’opera posidoniana, che sceglie di adoperare come fonte, ma ciò non impedisce di congetturare che la fonte di Posidonio (Sen. Ep. 90, 3-6) siano proprio le Storie di Polibio (6, 5, 7-12 e 6, 7, 6-8); cf. Bruno 2018, 17-41. Di certo, anche se i testi non si possono dire concordi in ogni punto, a 154

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partire dall’introduzione della proprietà privata (Lucr. 5, 1113) iniziarono a sopraggiungere i vizi, l’invidia e la corsa al potere, oltre alla luxuria (malorum mater omnium, Cic. Leg. 1, 47 = SVF 3, 229b) e col tempo i re si trasformarono in tiranni (Polyb. 6, 7, 69; Sen. Ep. 90, 6; Lucr. 5, 1136-1140). I vv. 1120-1135 sono pienamente in linea con una precisa e coerente tradizione di testi epicurei, che dissuadono dal coinvolgimento diretto nell’attività politica e attaccano l’anello debole del potere: l’ambizione e l’irrazionale “febbre dell’oro” e del potere. L’ambizione diviene un bersaglio anche in 2, 9-61; 3, 59-93; 3, 995-1002; 5, 1123-1135; 5, 1429-1432. Uno dei testi della tradizione antipolitica epicurea, che può essere considerato rilevante per la posizione di Lucrezio nel DRN, è un passo riportato da Plutarco nel De tranquillitate animi (465 F; Epicur. RS 7: “famosi e illustri vollero diventare alcuni pensando di procurarsi così la sicurezza dagli uomini; così che se la loro vita è tranquilla, ottennero ciò che è il bene secondo natura; se non è tranquilla non posseggono quello per cui da principio furono mossi da un impulso conforme a ciò che è bene secondo la natura”, trad. G. Arrighetti). Come è stato già messo in luce, la descrizione storica lucreziana del progresso della civiltà trova il suo archetipo nella ricostruzione democritea degli albori della storia del genere umano. L’evoluzione e il progresso, già a partire da questi versi, risultano ambigui, talvolta contraddittori, e mostrano un andamento circolare. L’ambizione politica, di per sé, considerata come il raggiungimento della ricchezza e dell’inevitabile frustrazione che comporta un sentimento negativo come l’invidia (3, 75; 5, 1126-7), è vista da Lucrezio come un totale fraintendimento dell’autentica e 155

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razionale realtà. Per seguire la vera ratio, gli uomini devono evitare l’insaziabile passione per la ricchezza. Gran parte della descrizione di Sallustio (Cat. 2, 3-6 e 10, 3-5) sull’avidità degli uomini, senza fine e quasi sempre inevitabile, sembra avere molti punti in comune con Lucrezio. Il breve racconto sallustiano sugli antichi tempi, che segue la nascita della monarchia e del potere dei leaders naturali, particolarmente dotati dalla natura per virtù, intelligenza e bellezza, è pieno di reminiscenze lucreziane, sia nel contesto sia nel lessico (cf. D’Alisa 2006, 35-43; Schiesaro 2007, 50-51; Bruno 2018, 17-41). Ad esempio, è interessante notare lo stesso uso di ingenium in Sall. Cat. 2, 2, così come i verbi praestare e vigere sono sostituiti dal sallustiano excercere. A differenza di Lucrezio, in Sallustio non mancano diversi riferimenti storici, ma in 2, 4-6 Sallustio inizia ad alludere alla degenerazione dei costumi (Nam imperium facile iis artibus retinetur quibus initio partum est; verum ubi pro labore desidia, pro continentia et aequitate lubido atque superbia invasere, fortuna simul cum moribus immutatur. Ita imperium semper ad optumum quemque a minus bono transfertur). Lo storico continua l’atteggiamento di condanna della ricchezza e del lusso, che hanno determinato nella tarda repubblica una decadenza generale e la corruzione degli antiqui mores, in Cat. 10, 3-5 (igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere, namque avaritia fidem probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. Ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re sed ex commodo aestumare, magisque voltum quam ingenium bonum habere). 156

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Il bersaglio di Lucrezio è rappresentato in misura marginale dagli eventi a lui contemporanei, e di conseguenza l’imminente guerra civile, ma soprattutto una condanna universale alla violenza e alla corsa al potere (cf. McConnell 2012, 97-121 che ricostruisce «the Epicurean treatment of civil strife and consider Lucretius’ engagement with the topic in the context of this tradition» p. 98). La στάσις viene, dunque, affrontata come un ‘topos’, da inserirsi in una tradizione di testi storiografici, basti pensare al racconto di Tucidide (3, 70-85), e filosofici, come diversi frammenti democritei (68 B 245-266 DK), che hanno una profondissima e ben nota influenza sull’Epicureismo e su tutto il DRN, non solo sulla fisica ma anche sull’etica e sull’antropologia. Anche nella Repubblica di Platone la στάσις era vista come la spinta del cambiamento e della degenerazione politica, in termini di classi sociali al potere. Secondo questa ottica, dal governo timocratico, retto da aristocratici spinti dall’ambizione di onori e gloria, si passava al governo oligarchico, fondato sul censo; in seguito, all’oligarchia seguiva la rivolta popolare e l’instaurazione della democrazia che, una volta degenerate, lasciavano il posto alla forma peggiore di governo, la tirannide. Il De re publica di Cicerone rappresentava un’articolata alternativa al DRN di Lucrezio, riguardo all’evoluzione, alla storia e alla politica, in particolare sulla centralità (cf. Minyard 1985, 3031), secondo Cicerone, del nostro mondo in un equilibrato e geometrico kosmos, regolato dalla provvidenza: basti pensare che nel De re publica, Romolo è deificato (2, 4-19), mentre nel DRN Epicuro risulta il solo e unico dio (cf. Schiesaro 2007, 53). Come si vedrà a partire dal v. 1137, inoltre, la caduta dei re potrebbe far pensare alla fine della monarchia a Roma (sceptra superba v. 1137 157

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è forse un’allusione a Tarquinio il Superbo). Che Lucrezio stia pensando alla sua età contemporanea e all’imminente guerra civile è una delle ipotesi più accreditate (tarda metà del 50 o 49-48 a.C.). Tuttavia, questa interpretazione presuppone che il DRN sia un prodotto del 49-48 a.C., se si segue l’interpretazione di Canfora 1993 e di Hutchinson 2001, mentre Penwill 2009 non è d’accordo (come anche Volk 2010 e Krebs 2013) e crede che sia un’opera all’incirca contemporanea al De re publica di Cicerone. Lucrezio sembra nutrire una simpatia più o meno visibile per una prima forma di monarchia, la βασιλεία di Polyb. 6, 5, 10, e soprattutto per il potere delle leggi (come si vedrà nei vv. 11361160), ma mancano degli aperti e chiari riferimenti politici, così come è piuttosto arduo tradurre il suo pensiero in un preciso programma politico. Mi trova pienamente d’accordo la riflessione di Schiesaro 2007, 54: «the DRN shows that a return to nature is the key not just to the happiness of the individual, but also to the salvation of the state. What Rome needs is a fresh social compact based on mutual respect, non-aggression, and, first and foremost, rejection of all false idols: fame, honour, armies, money, religio. Tinkering with party politics would not address any of these issues. Clearly, what is needed is not constitutional reform, but philosophical conversion».

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Bibliografia selettiva Bruno 2017; Bruno 2018; Butterfield 2008; Cole 1967; D’Alisa 2006; Deufert 2018; Fowler 1989; McConnell 2010; Minyard 1985; Pope 2016; Romano 2006; Schiesaro 2007; Smith 2004; Zago 2012.

1105-1107. La formula incipitaria inque dies è piuttosto ricorrente in Lucrezio, come dimostrano i sette casi nel solo quinto libro (cf. 5, 483; 706; 733; 1105; 1279; 1307; 1370; la formula lucreziana sarà ripresa a inizio verso da Verg. G. 3, 553; cf. Ingalls 1971, 22736 e in generale Minyard 1978). La ripetizione così frequente ben si integra nella narrazione storica del cosmo e della vita degli uomini sulla terra. Inoltre, il ritmo dattilico del verso indica l’avanzamento rapido del progresso umano, intensificato dall’allitterazione victum vitamque. 1105 hi victum: la congettura di Andrea Navagero, che sana invictum – il probabile errore meccanico presente nei principali testimoni O, Q – ha convinto per secoli molti editori. Ultimamente c’è stata un’inversione di tendenza con Butterfield 2008, 186, che preferisce conservare il testo tràdito e sceglie di porre tra ‘cruces’ invictum, nonostante ritenga molto valida la congettura hunc victum di Smith 2004, 298-99, oppure hinc victum di Bockemüller. Deufert nel testo stampa hinc, ma in Deufert 2018, 342 pone tra ‘cruces’ in, asserendo che: «die Sperrung hi ... qui ist ohne Beispiel und verleiht hi (einer bei Lukrez nicht belegten Form) eine ganz unangemessene Emphase». Le parole di Deufert 159

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sono incontrovertibili, tuttavia l’intervento di Navagero, che inserisce un uso del pronome relativo unico in Lucrezio, appare ancora oggi la scelta più convincente. Il v. 1105, infatti, si apre con un’inversione della costruzione prolettica del relativo, anche se si tratta di un caso unico in Lucrezio: in questo modo l’immagine di coloro che eccellevano nel campo della forza e dell’ingegno appare molto vivida. La scelta del pronome hi appare piuttosto inevitabile, vista la distante posizione di qui. Inoltre, la ‘iunctura’ victum vitamque è già attestata in due casi nel DRN in v. 804 e v. 1080, come ricorda anche Bailey. Non so se la sicura conoscenza del contesto lucreziano da parte di Seneca, nell’ epistola 90, possa essere d’aiuto per accettare l’interpretazione di Navagero, o se lo stesso filologo veneziano se ne sia servito, ma, in ogni caso, vale la pena citare Sen. Ep. 90, 5 Illo ergo saeculo quod aureum perhibent penes sapientes fuisse regnum Posidonius iudicat. Hi continebant manus et infirmiorem a validioribus tuebantur, suadebant dissuadebantque et utilia atque inutilia monstrabant; horum prudentia ne quid deesset suis providebat, fortitudo pericula arcebat, beneficentia augebat ornabatque subiectos. 1106 commutare novis: il cambiamento e la novità dello stile di vita, apportate da coloro che emergevano per intelligenza ed erano forti nel cuore (hi…ingenio qui praestabant et corde vigebant), sono al centro del v. 1106, che è aperto in ‘enjambement’ dal verbo commutare (il prefisso cum rafforza il significato del mutamento, cf. EM, s.v. muto, 426). L’aggettivo novus, che si contrappone alla tradizione e al passato espresso da prior, invece, non va sempre letto nel suo significato positivo di progresso e innovazione (cf. sulle res novae le pagine di Romano 160

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2006, 7-42), ma spesso, nei contesti storici e politici, il cambiamento appare nella sua valenza negativa (ad esempio res novae moliri, dal punto di vista del cambiamento politico, che presuppone una rivoluzione, non è mai da vedere come un evento positivo, cf. Caes. B Gall. 1, 9, 3; Sall. Cat. 37, 1; Vell. Pat. 2, 129, 2; cf. Syme 1939, 315; Beretta 2015, 207). Rebus et igni: Munro e Brieger accolgono nel v. 1106 la congettura di Lachmann, benigni in luogo del dativo igni – posto tra ‘cruces’ da Deufert 2018, 342 – ma il termine non riesce a dare un senso compiuto al verso. Poco convincenti sono le congetture di Goebel, ab igni, Shackle, ut igni e Merrill, rebus et ipsi, che ho preferito omettere nell’apparato. Ho scelto di conservare il testo tràdito (come Deufert), per una ragione strettamente contenutistica. Tuttavia, l’ipotesi di rebus repertis potrebbe convincere, come pensa Smith 2004, 298-99, anche perché repertis era già presente in clausola di verso in Lucr. 5, 1-2 (Quis potis est dignum pollenti pectore carmen/ condere pro rerum maiestate hisque repertis?). Smith 2004, 298, infatti, chiarisce che «the mention of fire is rightly regarded as abrupt by some commentators. The preceding account of the origin of fire does not remove, even if it somewhat lessens, the abruptness». Igni, al contrario, si ricollega alla sezione precedente di testo (vv. 1091-1104), che tratta della scoperta del fuoco, e per questo credo che rebus et igni sia da leggere come un richiamo, per quanto poco convincente ma non infrequente in Lucrezio, all’argomento precedentemente esposto. Il fuoco, infatti, è uno straordinario agente di trasformazione della vita, dal mito (cf. il mito di Prometeo in Hes. Theog. 521-616, cf. West 1966, 305-7; Morel 2016, 451-67) alla 161

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storia antropologica dell’uomo (cf. ad esempio la versione di Diod. 1, 33-35 e di Vitr. De arch. 2, 1-3). Lucrezio insiste sull’importanza che ebbe il fuoco per lo sviluppo della civiltà umana, poiché ha reso possibile la fabbricazione di utensili e di armi. Lucrezio intuisce nella scoperta del fuoco l’importanza dell’atto materiale, senza alcun riferimento al mito e al ruolo dell’intervento divino presente in Esiodo. Novis … rebus: termini posti in iperbato. Lucrezio lascia intendere le scoperte fatte dagli uomini, a partire dal fuoco, la più importante. In questo caso la natura lucreziana si mostra favorevole nei riguardi dell’uomo, attraverso le sue manifestazioni di aiuto, date in questa occasione dal sole, che diviene διδάσκαλος e che aiuta a comprendere la genesi di un nuovo fenomeno (Lucr. 5, 1091-1104). Illud in his rebus tacitus ne forte requiras, fulmen detulit in terram mortalibus ignem primitus, inde omnis flammarum diditur ardor. Multa videmus enim caelestibus insita flammis fulgere, cum caeli donavit plaga vapore. 1095 Et ramosa tamen cum ventis pulsa vacillans aestuat in ramos incumbens arboris arbor, exprimitur validis extritus viribus ignis; emicat interdum flammai fervidus ardor, mutua dum inter se rami stirpesque teruntur. 1100 Quorum utrumque dedisse potest mortalibus ignem. Inde cibum coquere ac flammae mollire vapore sol docuit, quoniam mitescere multa videbant verberibus radiorum atque aestu victa per agros.

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Qui si instaura un vero e proprio dialogo tra natura e uomo, attraverso il fulmine che si abbatte sull’albero e che crea l’incendio, da cui l’uomo può intuire l’energia del fuoco e la sua necessaria conservazione (cf. il simile contesto di Vitr. De arch. 2, 2-3). Monstrare, invece, indica il portento e il conseguente sbigottimento di tutti gli altri uomini, che hanno visto mettere in atto dai ‘migliori’ le innovazioni, un nuovo tipo di vita e il progresso. 1107 ingenio qui praestabant et corde vigebant: il v. 1107 si caratterizza per una perfetta struttura simmetrica in ‘enjambement’, in cui praesto e vigeo risultano anche sinonimi, mentre tra ingenium e cor sussiste una sottile ma incisiva sfumatura semantica. Gli uomini che riescono a mutare le condizioni di vita primitiva precedente, secondo Robin, sono i sapientes reges di cui parla Posidonio/Seneca (fr. 284 Kidd = Sen. Ep. 90, 4-13). La concezione del re sapiente, che guida il popolo verso un progresso e un miglioramento della vita economica e sociale, è presente anche tra i Cinici (cf. le considerazioni di Dio. Chrys. Or. 4, 24 sul monarca ideale, il migliore e il più virtuoso tra gli uomini, come il “pastore dei popoli” omerico, Il. 1, 263). Per Lucrezio questi uomini sono distinti dai re: si tratta più che altro di una forma di aristocrazia primitiva, in cui eccellevano i migliori per intelligenza, talento e vigore fisico. Bailey giustamente ritiene che questi uomini non coincidano con i re, ma credo che non si possa affermare con certezza che Lucrezio non abbia risentito dell’influsso di Posidonio, o per lo meno, si può affermare che entrambi i testi avevano in comune le stesse fonti, cf. supra 163

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sull’ipotesi di Democrito come fonte comune, vedi Cole 1967, 18 e più recentemente Zago 2012, 76-77. I verbi praestare e vigere insistono sulla superiorità intellettiva e soprattutto fisica di questi uomini (cf. Sall. Cat. 2, 1): si presuppone che tra le loro qualità siano messe in risalto la praestantia e il vigor, cf. anche Lucr. 4, 1156 (per praesto cf. ThlL X, 908, 22-23). Più rilevante è la differenza tra i due ablativi di mezzo e di qualità, ingenium, da intendere come ‘talento’, ‘abilità’, ‘competenza’ (cf. EM, s.v. geno, 271 e OLD s.v. 4) e cor, ‘buon senso’, che si avvicina di più ad animus, che indica la ‘predisposizione’, l’‘animo’ (termine scelto nel contesto affine Sen. Ep. 90, 4). Cor è di uso abbastanza frequente nei comici (cf. ThlL IV, 933, 41ss.) e anche nella prosa ciceroniana per indicare le facoltà intellettuali: forse sulla scelta del vocabolo può avere influito l’enniano egregie cordatus homo (Ann. 329 Sk.). 1108-1112. Nei vv. 1109-1112, Lucrezio si sofferma sul momento in cui, all’interno di quella aristocrazia primitiva, costituita da uomini di straordinario talento (praestantia, facies e ingenium), emersero i reges, uomini intelligenti che avevano acquistato una netta superiorità con le loro invenzioni e che riuscirono a convertire la loro naturale superiorità in potere. Il v. 1108 si caratterizza per la presenza di un netto mutamento dell’azione temporale. Alla continuità e ripetitività delle azioni del passato, date dall’imperfetto, che si protrae nel tempo, segue un arresto, grazie alla presenza del perfetto coeperunt. Si tratta di uno stacco temporale, molto comune in Lucrezio, di una vera rivoluzione cognitiva, ossia un cambiamento che porta all’inizio di un nuovo corso. 164

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Entrano in azione i reges (1109) – ovvero la prima forma di monarchia sperimentata dal genere umano – che iniziano a fondare città e a collocare le fortezze. Non si tratta dei re sapienti a cui faceva riferimento Seneca, parafrasando Posidonio (Ep. 90, 3-5), né credo che Lucrezio stia pensando alla sola storia di Roma nell’età regia (come ad esempio riporta Cic. De or. 1, 9, 35 initio genus hominum in montibus ac silvis dissipatum … prudentium consiliis compulsum … se oppidis moenibusque saepsisse). È altamente probabile che Lucrezio, anche grazie alla scelta di adoperare un più generico plurale, reges, al posto del più specifico singolare, rex, stia facendo riferimento alla categoria onnicomprensiva della monarchia primitiva, sperimentata nella storia di ogni civiltà del Mediterraneo e dell’Oriente (cf. supra nell’introduzione a questa sezione di versi, per la dipendenza di Lucrezio dalle fonti degli storici e dall’antropologia democritea, in particolare). 1108 condere … locare: la struttura chiastica del v. 1108, condere urbem/arcem locare (ABBA), con l’allitterazione di condere coeperunt, è al centro di un verso denso di sfumature semantiche, inerenti alla terminologia della fondazione di una città, tra le due coppie di sostantivi-verbi che tra di loro formano delle endiadi. Nel v. 1109, l’attenzione si sposta sulla sfera semantica militare: praesidium … perfugiumque, a cornice, danno luogo a una consonanza con variazione sinonimica. La fondazione delle città, allo scopo di difendere le persone dalle fiere e dai nemici, è un espediente escogitato dagli uomini intelligenti (cf. anche simile contesto in Lact. inst. 6, 10, che riprende Lucrezio o si avvale di una fonte comune). Urbs e arx 165

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indicano in modo specifico la conformazione della città che, in origine, è caratterizzata dall’insediamento urbano in altura. Arx è propriamente la parte più alta di una città, dove è situata la cittadella e spesso anche i templa (i primi re svolgevano anche funzioni religiose, ad esempio nell’età regia di Roma, il rex era anche pontifex), alla stessa maniera dell’acropoli greca (cf. EM, s.v. arx, 50: ‘refuge’, ‘sommet’, in questo senso va messo in relazione con caput: l’arx di Roma corrisponde al Campidoglio: cf. Cic. Nat. D. 2, 56, 140). L’etimologia di arx deriverebbe da arceo, secondo Varrone (Ling. 5, 151 arx ab arcendo, quod is locus munitissimus urbis, a quo facillime possit hostis prohiberi; DServ. ad Aen. 1, 20 arces… ab eo quod est arceo dictae, quia inde hostes arcentur; cf. Walde-Hoffmann, vol. I, s.v. arceo; Maltby, 56-57, che riporta anche Prisc. Inst. 2, 140, 21; 3, 498, 33; Isid. Orig. 15, 2, 32; 18, 9, 5; Solin. 1, 1), mentre urbs è l’insieme degli elementi che costituiscono l’agglomerato urbano, che ha sostituito i termini civitas e villa (cfr. EM, s.v. urbs, 754; per etimologia antica cf. Maltby, 655: Varro Ling. 5, 143 post ea qui fiebat orbis, urbis principium…; quare et oppida quae prius erant circumducta aratro ab orbe et urvo urbes; ideo coloniae nostrae omnes in litteris antiquis scribuntur urbis, quod item conditae ut Roma, et ideo coloniae et urbes conduntur, quod intra pomerium ponuntur; Serv. ad. Aen. 1, 12 urbs dicta est ab orbe, quod antiquae civitates in orbem fiebant, vel ab urbo, parte aratri, quo muri designabantur). Condere e locare non sono propriamente dei sinonimi tra loro: il primo presuppone l’aspetto giuridico sacrale della fondazione di una città (cf. EM, s.v. do, “réunir les éléments d’une ville”, “batir, fonder”), locare, invece, ha un senso più edilizio, fisico e materiale del posizionamento degli elementi della 166

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città (OLD s.v. 1, termine tecnico militare per indicare l’adattamento delle fortificazioni al terreno, è il corrispettivo anche di συντίθημι, cf. LSJ s.v.). L’espressione arcem locare sta ad indicare proprio l’innalzamento delle rocche in luoghi opportuni. 1109 praesidium … perfugium: l’etimologia di praesidium è riportata da Varro Ling. 5, 90 (praesidium dictum qui extra castra praesidebant in loco aliquo, quo tutior regio esset), che lo ricollega al lessico militare, in particolare alla difesa. Perfugium è anche sinonimo di praesidium, (cf. ThlL X, 1414, 59 ss.) ma indica generalmente anche un posto in cui rifugiarsi, in senso metaforico, come nel v. 1186, perfugium sibi habebant omnia divis tradere. 1110 et pecus atque agros: il v. 1110, formato dalla simmetrica coppia allitterante di sostantivi/verbi et pecus atque agros Divisere atque DeDere presenta una corruzione nei mss. La soluzione che propone Bailey mi pare la più giusta (la formula si ritrova anche in ‘incipit’ nel v. 1291), in luogo di et pecudes atque agros e et pecudes et agros, quest’ultima riportata dai mss. Itali. I perfetti divisere e dedere, in forma sincopata, indicano l’organizzazione economica e sociale di tipo agro-pastorale e una divisione dei beni, le terre e il bestiame, secondo il criterio stabilito di bellezza, forza e intelligenza. Pertanto, i re fondarono città, posero sulle rocche le loro dimore, divisero le terre e gli armenti fra coloro che si distinguevano per facies, vis e ingenium. Il v. 1111 pro facie cuiusque et viribus ingenioque potrebbe far pensare ad una distribuzione quasi ‘discendente’ dei beni: ovvero dalla massima 167

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bellezza alla minima. Di conseguenza, i meno belli, forti e intraprendenti potevano ricevere, in proporzione, la loro parte di terra e di bestiame. Fra i reges e l’aristocrazia primitiva è chiaro che bisogna sottintendere una forma di alleanza, una solidarietà di interessi. È visibile la simpatia di Lucrezio per l’aristocrazia e una certa monarchia primitiva, anche se inserire il DRN in una tendenza di un preciso schieramento politico sarebbe forzato ed errato, oltre che difficilmente determinabile, cf. sul tema supra e in particolare Schiesaro 2007, 54. 1112 facies … viresque: nel v. 1112 è concentrata l’insistenza lessicale sul tema della bellezza (facies) e della forza (vis), che tra gli uomini indicano la buona salute e, nel branco di animali, la prestanza fisica e la forza. Non c’è nulla di strano nel valutare i re secondo i canoni naturali della bellezza e dell’intelligenza (καλοκαγαθία). Per il particolare della bellezza cf. Polyb 6, 5, 7-9; Hdt. 3, 20; Diod. 3, 9, 4 a proposito degli Etiopi. Inoltre, dei paragoni tra sovrani e i capi bestiame più forti si ritrovano in Hom. Il. 2, 480; Polyb. 6, 5, 8-9; Dio Chrys. Or. 3, 50; M. Aur. Med. 11, 18, 1; cf. Zago 2012, 80, n. 72. Non occorre correggere la clausola allitterante del v. 1112 valuit viresque vigebant, come fanno Lachmann e Bernays (viresque vigorque) oppure Faber e Munro (viresque vigentes). È evidente che la forza godesse di primaria importanza: vigebant è parallelo a valuit, con il medesimo significato. Lo stile, infine, potrebbe ricordare quello storiografico, oggettivo e secco, non particolarmente poetico, ma che ben si integra nell’epica didascalica.

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1113-1116. La prima forma di degenerazione morale, per Lucrezio, si verificò quando nacque la proprietà privata (res). In un secondo momento, i beni (terre e bestiame), ricevuti dalla distribuzione fatta dai re, divennero ereditari. Quello che era un privilegio di tipo meritocratico, basato sulle qualità e sulle doti dei singoli individui, divenne un privilegio di censo. Alla stessa maniera di Polibio (6, 7, 6-9), che sembra essere per questo contesto una fonte di rilievo, Lucrezio spiega come il possesso e l’eredità dei beni fece passare in secondo piano la facies, la vis e l’ingenium dei primi aristocratici, e come facilmente (facile) essi si misero al servizio della ricchezza e dell’accumulo dei beni materiali. Più di ogni altra qualità, a essere declassato è l’ingenium: la mens (ὁ λογισμὸς) del saggio, infatti, è sempre libera, anche dalla fortuna (Epicur. RS 16) e procura felicità tenendo lontane la ricchezza, l’avidità e l’ambizione, come sarà detto nei vv. 1118-9 divitiae grandes homini sunt vivere parce/ aequo animo; neque enim est umquam penuria parvi. 1113 res: il nuovo assetto politico e istituzionale della divisione della proprietà portò a conseguenze di tipo sociologico, culturale e morale. Invenio sta a indicare che la res (la “roba”, i beni, la proprietà), che si accumula personalmente, fu una vera e propria trovata, che ha le sue radici nel nesso tra potere e guerra e il conseguente accumulo dei beni (cf. Sall. Cat. 10, 3-5). L’azione di reperire aurum, “andare alla ricerca dell’oro”, “accaparrare”, anche con mezzi illeciti, alla stessa maniera dei predoni, è anche tipica della degenerata classe dirigente della tarda repubblica (cf. a proposito il contesto di Cic. Cat. 2, 5, 10; al contrario e per risposta Orazio scriverà in Carm. 3, 3, 49 aurum irrepertum et sic 169

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melius situm). Come viene chiarito nei vv. 1273-1275, il valore dell’oro assunse prestigio in seguito: in tempi più remoti valevano di più il rame e il ferro, soprattutto per la fabbricazione delle armi. Platone (Resp. 415a, 417a-b, 465c-d) vedeva nella proprietà privata la causa prima della guerra e un grave pericolo per la pace, oltre che una forma di discordia sociale. È ben noto che Platone immaginava una repubblica fondata su un comunismo di vertice, sulla comunità egalitaria di filosofi, che dovevano governare la città senza essere distratti da interessi personali (il saggio al potere non può maneggiare il denaro, cf. Resp. 347b-e). Il contesto lucreziano riproduce storicamente la realtà dei fatti nel corso della storia universale dell’uomo: i rimedi epicurei sembrano qui vicini alle utopie platoniche. Aristotele, invece, pur riconoscendo all’uomo il bisogno di proprietà, che gli consenta di condurre un’esistenza dignitosa (Pol. 1263a, 25-32; Eth. Nic. 1178b, 35, non troppo dissimile da Epicur. RS 14), si dichiara contrario tanto alla ricchezza smodata quanto alla povertà estrema: egli finisce per indicare, come condizione ideale per una comunità politica, quella in cui tutti i cittadini appartengano ad una fascia sociale media (Pol. 1261 ss.). I Cinici e gli Stoici sono più radicali: secondo una selezione di fonti (cf. la versione di Seneca in risposta all’antropologia di Posidonio in Ep. 90, 37; Ov. Met. 1, 89ss.; Tac. Ann. 3, 26), sarebbe l’avidità degli uomini a dare origine alla proprietà privata, che non è un fatto di natura; per Cicerone (Off. 1, 7), nonostante sia innegabile che l’uomo abbia il diritto alla proprietà, essa è considerata giusta soltanto se acquisita per occupazione, per conquista, oppure per legge. È possibile anche leggere tra le righe una velata polemica di Lucrezio contro la ‘moda’ del latifondo, che avrebbe trovato 170

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concordi molti scrittori del tempo e del secolo successivo: lo stato di sofferenza del suolo italico, il lamento dei contadini e dei vignaioli danno voce alla condanna che Livio avrebbe definito in gens cupido agros continuandi (34, 4, 8). Qui, dunque, anche Lucrezio si attiene alla polemica che sul finire della repubblica e, poi, per buona parte del I sec. d.C. avrebbe investito la politica agraria, cioè il tentativo di ricreare la piccola proprietà, contro la tendenza opposta dei grandi latifondi. A partire dal v. 1111 si può notare una certa insistenza sul campo semantico della bellezza e della forza fisica, che culmina nei vv. 1114-16 (validus, pulcher, fortis). Il potere della ricchezza e il possesso dell’oro, tuttavia, sono in grado di decurtare (demo) e di sottrarre valore all’onore delle persone, anche forti e di bell’aspetto, riconosciute unanimemente come migliori. 1114 honorem: propriamente l’ “onore”, il “rispetto” (cf. De Vaan, s.v. honos, 288 da cui il derivato honestas, che è propriamente l’integrità morale e honestus, appunto “integro, meritevole di rispetto”, cf. anche EM, s.v. honos, 298) che si può avere nei riguardi di personalità riconosciute superiori in una comunità, in questo caso all’interno di un’aristocrazia primitiva (cf. le società omeriche fondate sulla τιμή e l’ἀρετή dei singoli eroi, cf. Bowra 1952, Nagy 1979 e più recentemente Nagy 2009, 71-85, ed è probabile che Lucrezio abbia in mente quel modello sociale, attestato storicamente nel medio-tardo VII sec. a.C. in molte regioni della Grecia, cf. Raaflaub 1993, 41-105). La fine di quel mondo, in un certo senso ‘eroico’, arriva con la maggiore importanza che viene conferita alla ricchezza, a scapito del merito e delle doti personali. Il cambiamento radicale e senza ritorno del 171

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passaggio dalla potenza della forza e della bellezza a quella della ricchezza, non a caso, è espresso da dempsit (“recidere”, “rimuovere”), che sta a indicare la rimozione netta e decisa di qualcosa, talvolta forzata, sia in senso letterale sia figurato (cf. OLD s.v. demo 1). La scelta lessicale di Lucrezio è funzionale alla condanna morale che esprimerà nei versi seguenti (vv. 1117-1135), proprio perché si tratta di un processo irreversibile. 1115-1116. In questi versi si può notare una complessa struttura sintattica: non solo la massa iniziò a seguire chi era più ricco (divitiores),163 ma anche coloro che precedentemente avevano esercitato il loro dominio, i belli e i forti, furono costretti a sottomettersi ad un nuovo padrone, per criterio timocratico. Di certo la ricchezza è la caratteristica più evidente su cui si fonda l’oligarchia. Enim nel v. 1115 ha valore esplicativo e sectam…secuntur, in iperbato, è una paronomasia etimologica, come flumina fluxisse che si ritrova nel v. 911. I due termini hanno la stessa radice dell’avverbio secus, e da sequi deriva l’intensivo sector (cf. EM, s.v. secus, 618 e De Vaan, s.v. secus, 551); da tener presenti i seguenti contesti: Cic. Cael. 17, 40 nos qui hanc sectam rationemque vitae … secuti sumus e DServius ad Aen. 2, 797. Nel v. 1116, come in 1, 131 e 2, 906, vi è una perifrasi (fortes et pulchro corpore creti): fortis è adoperato per indicare le forze fisiche e la buona salute, mentre cretus, participio perfetto di cresco, unito all’ablativo (cf. OLD s.v. 1b; Lucr. 2, 906 mortali 163

Non so se sia da intravedere nell’incipitario divitiores un riferimento al contemporaneo Marco Licinio Crasso, non solo per la sua proverbiale ricchezza, ma anche per il suo soprannome Dives (cf. RE vol. XIII, 1, 270-72). 172

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corpore cretus; Verg. Aen. 2, 74 quo sanguine cretus) è sinonimo di nascor. Creti è la lezione riportata dai mss. A2 φ, unanimemente preferito dagli editori alla ‘lectio facilior’ certi, riportata dai due autorevoli OQ, poco coerente con il senso del verso. Sul significato complessivo di questo importante passaggio della trattazione lucreziana vale la pena citare le parole di Monica Gale nel suo commento ad loc.: «Lucretius gives the cliché a specifically Epicurean twist by opposing insatiable thirst for riches and power not to selfless public service (so e.g. Sallust, Catiline 7, 10) but to an apolitical quietism (1129-35), in line with Epicurus’ injunction ‘not to take part in politics’ (Diogenes Laertius 10, 119)». 1117-1119. Lucrezio inizia la riflessione polemica contro l’avidità degli uomini, ansiosi di accumulare ricchezze, con uno dei principali rimedi della filosofia epicurea: il vivere con poco (vivere parce), che costituisce uno dei punti cardine della vita felice. Per condurre rettamente la propria vita secondo la vera dottrina (vera ratione) e per trovare rimedio alla mondana ‘febbre dell’oro’, l’uomo deve riconoscere che la grande ricchezza è vivere la vita con sobrietà, con il cuore in pace (aequo animo), poiché non vi è mai mancanza del poco. 1117-1119 si quis … gubernet: periodo ipotetico misto, con apodosi all’indicativo, che indica la realtà (sunt), e protasi al congiuntivo presente. Gubernare (gr. κυβερνάω) che letteralmente è verbo legato alla sfera semantica nautica, significa ‘dirigere una nave’ (gubernum è il timone), ma è spesso usato in senso figurato (cf. ThlL VI, 2350, 8 ss.; OLD s.v. guberno 2, in Lucr. 5, 560 vis 173

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animae quae membrae gubernat; sempre in Lucrezio, si ritrova il sostantivo gubernum cf. 4, 439 et recta superne guberna), per indicare il ‘prendere in mano la propria vita’, come in questo caso, o l’amministrazione di uno Stato (gubernare rem publicam è un’espressione molto frequente in Cicerone). L’espressione vera … ratione, ablativo di mezzo, separata in iperbato per dare risalto all’allitterazione di vera vitam, è la vera dottrina, vale a dire l’insegnamento di Epicuro (così in Lucr. 1, 51). Grandis e divitiae sono entrambi in senso figurato: uno indica l’importanza e il valore duraturo del bene conquistato, cioè divitiae, la ‘ricchezza’, da intendere nel suo senso immateriale e senza prezzo. La più grande ricchezza per Epicuro è quella di bastare a se stessi (πλουσιώτατον αὐτάρκεια πάντων fr. 476 Us. = Clem. Al. Strom. VI, 2, p. 266, 38; Porph. Ad Marc. 28 p. 208, 19 N.) ed essere indipendente dai bisogni che possiede (Epicur. Sent. Vat. 44 “il saggio venuto a paragone di fronte alle necessità della vita sa piuttosto dare che prendere; tale è il bisogno di indipendenza dai bisogni che possiede”, trad. G. Arrighetti). Complessivamente i vv. 1117-19, e il concetto del vivere parce (1118), sono una parafrasi quasi letterale di Epicur. Sent. Vat. 25 “la povertà commisurata al bene secondo natura è ricchezza; la ricchezza senza una misura è una grande povertà (trad. G. Arrighetti)”, concetto che risale già a Democrito (cf. 68 B 283-84 DK) e ripreso da Orazio (Carm. 2, 16, 13 vivitur parvo bene; Epist. 1, 10, 39; Sat. 2, 2, 1) e da Seneca (Ep. 4, 10 magnae divitiae sunt lege naturae conpositae paupertas). Epicuro spiega come ci sia bisogno veramente di poco per colmare i nostri desideri naturali e necessari, che costituiscono il limite oltre il quale il piacere non può essere accresciuto (cf. anche DRN 5, 174

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1432-3). I desideri non naturali e non necessari, come la ricchezza, non possono essere appagati, per questo un uomo ricco, in realtà, è povero, perché è perennemente insoddisfatto (Epicur. Ep. Men. 129-130). Tuttavia, il desiderio di arricchirsi, che, di conseguenza, porta ad una dipendenza dall’accumulo e dall’ambizione di raggiungere vette di potere e prestigio più elevate, per Epicuro ha come origine un eccesso di previdenza, motivata dalla paura che possano mancare i mezzi per vivere (cf. RS 15, concetto parafrasato da Cic. Fin. 1, 46 natura divitias quibus contenta sit et parabilis et terminatus habet, sul tema cf. Classen 2008, 175-188), ma anche dal bisogno di sicurezza (ἀσφάλεια = lat. stabilis vita; cf. Epicur. RS 6) e dal timore di essere deboli e indifesi (RS 7). 1119 aequo animo: si tratta di una ‘iunctura’ piuttosto comune (cf. OLD s.v. aequus, 8; varie ricorrenze in Plaut. Aul. 187 pol si est animus aequos, satis habes qui bene vitam colas; As. 375 aequo animo patitor; Rud. 402 animus aequos optumum est aerumnae condimentum) in diversi contesti, senza distinzione tra prosa e versi. Una valenza più simile a quella qui espressa da Lucrezio si trova in vari contesti di Orazio. Nonostante gli influssi filosofici di Orazio siano molti, a seconda della sua produzione letteraria e variabili nel tempo e nello stile, una maggiore presenza della dottrina epicurea e un concetto simile a quello esposto da Lucrezio in vv. 1118-19 si ritrova nelle Odi e nelle Epistole, cf. in particolare Hor. Carm. 1, 31; 1, 38; 2, 16; 3, 1 e in Epist. 1, 1, 2535, epistola incipitaria definita da Moles 2009, 308-334 «a philosophical drama», cf. anche sul tema Ferri 1993 e Harrison 2009, 270-86. 175

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Neque enim est unquam penuria parvi: le espressioni di carattere gnomico sono molto frequenti, nello stile lucreziano, al termine dell’esposizione di un argomento. La vera grande ricchezza per l’uomo è vivere con poco, perché del poco non vi è mai mancanza (cf. Epicur. Ep. Men. 130; fr. 475 Us. = Sen. Ep. 2, 5). Una delle descrizioni lucreziane della vita semplice si ritrova in DRN 2, 20-21 corpoream ad naturam pauca videmus/ esse opus omnino. 1120-1130. Ma coloro che non seguono i precetti epicurei non si sono mai tenuti lontani dalla ricchezza, dall’ambizione e dal bisogno di emergere e di avere potere. Il passaggio dal consiglio di Lucrezio allo stato reale e storico della condizione umana è molto forte, con la presenza in ‘incipit’ dell’avversativa at. Lucrezio riporta quasi letteralmente le parole di Epicuro (RS 7, “famosi e illustri vollero diventare alcuni pensando di procurarsi così la sicurezza dagli uomini; così che, se la loro vita è tranquilla, ottennero ciò che è il bene secondo natura; se non è tranquilla non posseggono quello per cui da principio furono mossi da un impulso conforme a ciò che è bene secondo natura”, trad. G. Arrighetti) in vv. 1120-22: gli uomini, dunque, si vollero famosi (claros) e potenti (potentes), con i due accusativi quasi a cornice nel v. 1120, simile combinazione in 3, 75-76, per mantenere sugli altri una posizione di prestigio e assicurarsi una vita agiata per mezzo della ricchezza. È molto lucreziana la descrizione dell’avidità degli uomini di potere descritta da Sallustio (Cat. 2, 36 e 10, 3-5), cf. supra.

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1120 claros: originariamente l’aggettivo clarus apparteneva alla sfera semantica del suono, e voleva dire “chiaro, alto, sonoro’, in seguito si riscontra il passaggio al campo semantico della percezione visiva, con il significato letterale di ‘chiaro, splendente, brillante’, e dunque ‘in luce’, ‘in vista’. Il senso figurato di ‘famoso’ deriva dalla combinazione dei due significati letterali (cf. per dettagli linguistici De Vaan, s.v. clarus, 115). 1121 ut … fortuna maneret: l’ἀσφάλεια, vale a dire la sicurezza sociale ed economica, di cui parla Epicuro, è, al contrario, intesa da questi uomini come ‘agiatezza’ ed è tradotta da Lucrezio con una perifrasi, fundamento stabili. È su questa solida base che deve restare ben saldo il destino degli uomini che affidano la loro vita alla ricchezza (ut … fortuna maneret): ma è chiaro che si tratta di un’illusione da parte di questi. È ben noto che la fortuna, tra le più insidiose ‘voces mediae’ latine, è mutevole (in questo caso è da intendere come personale ‘destino’, cf. ThlL VI, 1176, 17 ss.; OLD s.v. fortuna, 1c), e sarebbe una contraddizione pretendere che rimanga immutata: a proposito dell’instabilità del destino, mutevole come l’animo, che non può rimanere saldo (manere), se la fortuna (nel senso di ‘buona sorte’) ondivaga si allontana cf. Ov. Tr. 5, 14, 3 rara… virtus… quae maneat stabili, cum fugit illa (sc. fortuna). Nel v. 1122, che riecheggia 2, 1094 quae placidum degunt aevum vitamque serenam, continua a esprimere il desiderio degli uomini (grazie alla proposizione finale, che inizia con ut… maneret… possent) di essere ricchi (opulenti), al fine di passare una vita tranquilla (placidam … vitam in iperbato quasi a cornice). La placida vita 177

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(1122) epicurea è ben altro da quello che pensano coloro che aspirano al possesso dei beni materiali. L’unica via per il raggiungimento del piacere catastematico, la forma più alta di benessere e di dominio del sé, è l’ἀταραξία (assenza di qualsiasi forma di turbamento), teorizzata da Epicuro nell’Epistola a Meneceo, e principale motivo di contrasto con la dottrina cirenaica, la più affine all’epicureismo (sul tema cf. MitsisPiergiacomi 2018, 107-9), secondo la quale non può esserci piacere se non c’è un coinvolgimento dei sensi (cf. capitolo 3 dell’Introduzione). 1123-1124. Si tratta di un verso particolarmente interessante per un intenso gioco di richiami fonici, a cominciare dalla costante allitterazione della vocale u, e dai suoni analoghi di nequiquam quoniam (l’avverbio nequiquam, in ‘incipit’ di verso e, in posizione di rilievo, anche dal punto di vista metrico, poiché dà luogo a una cesura tritemimera) e l’allitterazione della sibilante in SUmmUm SUccedere. A partire da questo momento Lucrezio svela l’inganno alla stessa maniera di 3, 995-1002 (cf. Kenney 2014, 213-4), versi che riportano la parabola di Sisifo (cf. Hom. Od. 11, 593-600), costretto a far rotolare un pesantissimo sasso in cima ad una collina senza mai raggiungere la vetta, a cui Lucrezio associa l’inevitabile disfatta di chi è ambizioso (cf. anche 2, 12-13 noctes atque dies niti praestante labore/ ad summas emergere opes rerumque potiri), con un riferimento ben preciso alla classe politica a lui contemporanea (cf. sul tema Minyard 1985; Fowler 1989; Canfora 1993b; Schiesaro 2007; Penwill 2009; cf. anche capitolo 3 dell’Introduzione). Il v. 1122 è una chiara ripresa di 3, 998 nam petere imperium quod inanest nec datur umquam, in cui 178

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il concetto della vanità del tentativo dell’uomo ambizioso di petere imperium è espresso dall’aggettivo inanis (‘vuoto’, ‘vano’). Sia l’avverbio nequiquam sia l’aggettivo inanis sono tipici del lessico lucreziano: essi lasciano trasparire il suo disappunto nei riguardi dell’umanità e dei suoi preconcetti, che allontanano dalla vera dottrina e modus vivendi. Per giungere alla vetta della gloria, ad summum succedere honorem (succedo è da intendere nel senso di ‘salire di grado’, cf. OLD s.v. 3), gli uomini, lottando (certantes), si resero insidioso il percorso. C’è un evidente pleonasmo nel v. 1122 dovuto alla presenza di due sinonimi iter e viai (forma arcaica, molto comune in Lucrezio, in luogo di viae), che indicano il percorso, il cammino da affrontare per succedere summum honorem. La presenza del pleonasmo deriva ope ingenii dalla congettura di Marullo, che corregge il certantesque inter di O, e ben si adatta allo stile lucreziano, che già in 2, 626 iter… viarum sia in 5, 714 cursusque viam combina due sinonimi di via nello stesso verso. 1124 infestum: si tratta di un termine particolarmente interessante per la sua dubbia origine etimologica (la difficoltà sta nella ricostruzione della radice) su cui ha indagato Leumann 1977, 168 (cf. anche Walde-Hofmann vol. I, 608; EM, s.v. infestus, 317; De Vaan, s.v. infestus, 303, che si sofferma molto sul derivato manifestus). Il significato, ‘ostile, avverso’ (cf. ThlL VII, 1410, 4ss.; OLD s.v. infestus, 4, 5, in DRN 5, 219), ha una connotazione fortemente negativa, ed è un termine particolarmente utilizzato nella storiografia di I sec. a.C., in contesti di guerra (cf. Caes. B Civ. 3, 93; Cic. Phil. 12,10; Sall. Cat. 52; Iug. 89; e opposto a tutus in Liv. 2, 49). La congiunzione avversativa tamen, in ‘incipit’ nel 179

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v. 1125, evidenzia la disfatta degli uomini che intraprendono un cammino così irto di ostacoli. Anche se la vetta del potere e del prestigio è stata raggiunta, il prezzo da pagare è quello dell’invidia. In 3, 59-86 Lucrezio aveva attribuito, alla stessa maniera di Epicuro (RS 7), la brama della ricchezza, degli onori e della potenza alla paura della morte, che costituiva la più drammatica delle insicurezze dei mortali (cf. O’Hara 2007, 76; Kenney 2014, ad loc.). Dal v. 1126, invece, Lucrezio tiene a precisare che è l’ambizione a motivare gli uomini ad accrescere la loro ricchezza, riconosciuta come unico strumento di potere (a partire dal v. 1113), che porta alla gloria, alla fama e consente una completa prevaricazione sugli altri, anche se questo comporta turbamenti e ansie, e scatena negli altri l’invidia. Molti uomini politici contemporanei a Lucrezio erano seguaci della dottrina epicurea (cf. l’ampia bibliografia sull’epicureismo romano e sui suoi seguaci, tra cui Giulio Cesare, nel I sec. a.C., in particolare vedi Momigliano 1941; Nichols 1976; Minyard 1985; Canfora 1993b; Penwill 2009; Garbarino 2010; Fish 2011; Cocatre-Zilgien 2012), anche se l’astensione dalla carriera politica avrebbe procurato sicuramente un minore “turbamento”, tuttavia non era un’attività considerata proibita, anzi era consigliata, come riporta Filodemo nel De bono rege secundum Homerum (= P. Herc. 1507, cf. sul tema Dorandi 1982, 73-120; Gigante 1987, 285-98; Fish 2002, 187-232; McConnell 2010, 17898), a chi l’astensione dalla carriera pubblica avrebbe comportato un turbamento assai maggiore di quello causato necessariamente dalle curae della politica stessa.

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1125-1130. L’immagine dell’invidia paragonata ad un fulmine che getta (deicit), percossi (ictos), gli uomini nel Tartaro tetro, nei vv. 1125-28, è un’allusione al mito di Tifeo, che racconta Esiodo (Theog. 821-880): il mostruoso figlio di Tartaro (menzionato nel v. 1126) e Gea, infatti, poiché voleva essere il sovrano di tutti gli dèi e degli uomini, fu sconfitto da Zeus, dopo un violento scontro, con un fulmine. Come Sisifo, anche la figura di Tifeo è legata all’ambizione e alla voglia di primeggiare che, se superano un limite, scatenano la punizione divina, provocata da φθόνος (cf. sul tema Dodds 1951 e Lloyd-Jones 1971). L’ordine dei versi 11271132 è opera della trasposizione di Munro, che restituisce al testo un senso compiuto, rispetto a come è stato tramandato dalla tradizione manoscritta, e pone al centro dell’attenzione la pertinente e significativa anafora di invidia in ‘incipit’ di verso, anche se quantitativamente e morfologicamente diversa, poiché si tratta rispettivamente di un nominativo e di un ablativo. Müller preferisce lasciare il testo così come riportato dalla tradizione manoscritta, e stampato anche da Lachmann e Bernays, ed espungere i due versi trasposti da Munro (vv. 1131-32 invidia quoniam, ceu fulmine, summa vaporant/ plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque), considerati un’inutile ripetizione dell’immagine dell’invidia paragonata ad un lampo accecante. Le ripetizioni, così come i pleonasmi, che servono ad enfatizzare le argomentazioni e le immagini, sono un aspetto dello stile lucreziano molto presente e forse non ancora sufficientemente indagato. Di certo l’intera sezione (1125-1130) sembrerebbe presentare integralmente un problema testuale e un disordine generale dei versi, probabilmente dovuto a un banale errore di svista da parte del copista, avvenuto durante la trascrizione, per la 181

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presenza della successione consecutiva a inizio verso della stessa parola. Dunque, l’immagine dell’invidia come un fulmine – da notare la ‘variatio’ del paragone, prima quasi fulmen e poi un più arcaico ceu fulmen (la particella ceu è un grecismo, molto frequente in Lucrezio, cf. 3, 456; 4, 54, 616; 6, 161) – viene ripresa anche da Liv. 8, 31, 7 e 45, 35 e cf. anche Ov. Rem. am. 369. Un contesto analogo, senza alcuna immagine iperbolica o ispirata al mito (cf. in generale Gale 1994, 156-91), è in 3, 59-93 (in particolare nel v. 75 in cui è menzionata l’invidia, macerat invidia ante oculos illum esse potentem): questo terribile sentimento crea tormenti (macero, cf. OLD, 4), ansie e ostilità da parte di chi ritiene di avere di meno di altri. Non mancano degli echi anche di un altro famoso contesto esiodeo (Hes. Op. 186-201): durante l’età del ferro, si racconta che il diritto per gli uomini si fondava sulla forza (da cui poi, sullo stesso tema, Esiodo narra la favola dell’usignolo e dello sparviero, vv. 202-12), e tra di loro iniziarono le lotte e si cominciò a dare una maggiore importanza a chi apportava male e violenza. In seguito, mentre la Gelosia, dallo sguardo sinistro, si prese possesso dei loro animi, la Coscienza e la Nemesi, che nascondevano il loro corpo con veli bianchi, si allontanarono dai mortali e salirono sull’Olimpo, tra gli immortali. Il termine invidia, richiama già nella sua etimologia la percezione visiva (video), ma il prefisso in- sta ad indicare uno sguardo tagliente e sinistro, ‘di traverso’, da parte di chi guarda (cf. EM, s.v. video, 541; De Vaan, s.v. video, 676). A essere oggetto di invidia non sono solo i ricchi o i potenti, ma tutti coloro che vivono una condizione particolarmente favorevole e di beatitudine, come quella degli amanti (cf. Catull. 5, 12 aut ne quis malus invidere possit). 182

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1126-1127 Tartara taetra: la menzione del Tartaro, che indica l’oscurità, il luogo della perdizione eterna – proprio quella che si voleva evitare con la ricchezza – qui nella sua variante plurale Tartara (cf. simile contesto in 3, 17 nec quisquam nec barathrum nec Tartara deditur atra), oltre che essere un riferimento ad Esiodo e al mito di Tifeo, è tipica del linguaggio poetico e allegorico (come già ha fatto in 3, 1023 hic Acherusia fit stultorum denique vita), anche in paronomasia allitterante con taetra (cf. OLD s.v. taeter 1, 3; l’aggettivo ricorre prevalentemente in poesia, frequentemente in Lucrezio, vd. Camardese 2010, 3205). Nel v. 1127 il soggetto è summa … magis edita, mentre il verbo vaporant, da interpretare nel suo senso figurato e intransitivo (cf. OLD s.v. vaporo, 2b; vapor, vuol dire anche ‘calore’, come in 5, 1095 cum caeli donavit plaga vapore), significa ‘riscaldare, bruciare’: dunque, per mezzo dell’invidia, tutte le cose che si trovano più in alto delle altre bruciano (da notare tale distacco reso dalla tmesi quae…cumque). 1128-1130 ut satius… regna tenere: nei vv. 1128-1130, Lucrezio dà una seconda risposta a questo inevitabile destino degli uomini ambiziosi, con una parafrasi del precetto epicureo del λάθε βιώσας. La consecutiva, introdotta da ut (1129), fornisce un ulteriore consiglio per evitare il vano e tortuoso cammino della carriera pubblica, che porta ad una sicura sconfitta, nel tetro baratro delle ansie e dei tormenti provocati dall’invidia: quindi, è preferibile (satius) obbedire (parere) che comandare. L’epicureo non si preoccupa della libertà politica o delle sue condizioni economiche e sociali: la sua unica preoccupazione consiste nella 183

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salvaguardia della libertà interiore dalle ansie e dalle curae, che la partecipazione attiva e il contatto diretto con il mondo pubblico inevitabilmente creerebbero (cf. anche sul tema Cic. Fin. 1, 46; 2, 91). Questo concetto viene ripetutamente espresso anche da Orazio, in particolare nella già citata epistola di apertura del primo libro (Epist. 1, 1). Il v. 1130 – il ritmo dattilico dell’esametro e una spiccata allitterazione della liquida r (RegeRe impeRio Res velle et Regna teneRe), che mette in risalto il concetto – è stato interpretato come il modello ‘a rovescio’ del famoso discorso di Anchise nel sesto libro dell’Eneide (cf. Verg. Aen. 6, 851 Tu regere imperio populos, Romane, memento), cf. Schiesaro 2007. Quella di Lucrezio è una vera e propria esaltazione del contrario della morale condivisa e dei valori dei cives Romani. 1131-1135. La posizione negativa di Lucrezio nei confronti dell’ambizione e della corsa al potere si intensifica nei vv. 11311135. I consigli e i precetti elargiti ora rappresentano un chiaro e diretto monito a lasciare che gli uomini proseguano a lottare e a scontrarsi tra di loro, inutilmente, per conseguire il culmine della loro carriera: questa storia è sempre stata così e continuerà ad esserlo anche in futuro, dal momento che gli uomini non seguono il loro ragionamento e la loro sensazione, ma piuttosto si fanno condizionare dalle mode seguite da tutti. Con l’avverbio proinde si produce uno stacco rispetto alla sezione precedente: il v. 1131 è caratterizzato dall’allitterazione quasi ossessiva della sibilante (Sine incaSSum defeSSi Sanguine Sudent). A questo punto si illustra quale atteggiamento e comportamento conseguente dovrebbe mantenere un buon epicureo. È probabile che l’imperativo sine (cf. OLD s.v. sino, 6), qui nella costruzione più 184

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informale con il congiuntivo al posto dell’infinito (cf. Verg. Ecl. 9, 43), sia rivolto direttamente a Memmio. L’immagine figurata del ‘sudare il sangue’ (sanguine sudent), ereditata da Ennio (Scaen. 181 V terra sudat sanguine), è straordinariamente evocativa (è usata anche in senso letterale nella descrizione dell’epidemia della peste in 6, 1147-8 sudabant etiam fauces intrinsecus atrae/ sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat), tale da rendere bene sia l’inutile fatica della lotta sia i delitti, che inevitabilmente vengono commessi per il raggiungimento delle più alte vette di comando. Sull’immagine sanguine sudent cf. l’esaustiva analisi di Pope 2016, 41-55, che evidenzia come Lucrezio «employs sanguine sudare in scenes of ruinous political and societal discourse» (p. 42), in particolare in riferimento alle guerre civili, cf. McConnell 2012, 97-121. L’avverbio incassum, riprende in ‘variatio’ il concetto della vanità dei sogni di grandezza che hanno gli uomini (cf. anche il v. 1429 ergo hominum genus incassum frustraque laborat, che riprende il tema qui esposto, in un senso più complessivo e generico), precedentemente espresso da nequiquam: e defessi, gli uomini affaticati e spossati dalla vana fatica, è participio sostantivato di defetiscor (verbo intransitivo deponente, da de+fatiscor). 1132. L’anastrofe angustum per iterum contraddistingue il v. 1132, in cui viene ripresa la metafora dell’iter che devono percorrere gli uomini ambiziosi, come nel v. 1124, e che questa volta è definito angustum che, nel suo senso etimologico, è il caso di rendere nel senso di “soffocante”, “che strangola” (cf. EM, s.v. ango, 33 e De Vaan, 42). Ancora una ripresa del v. 1124 avviene grazie alla presenza del sinonimo di certantes, vale a dire 185

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luctantes: inoltre, nel v. 1132 viene nominato per la prima volta in questo contesto, e anche nella significativa posizione della clausola di verso, il termine chiave dei vv. 1105-1135, l’ambitio, unica ricorrenza in tutto il DRN. La via dell’ambizione, rappresentata da una immagine icastica, è disseminata di pene, di ferite, di omicidi; pertanto, proprio perché il suo spazio è stretto e angusto, non consente il passaggio di molti. Quanto all’intera sezione dei vv. 1125-1135, essa presenta diverse problematiche: il testo tràdito sembra infatti scorrere con una certa difficoltà e incoerenza. Ho seguito, come la maggior parte degli editori, la trasposizione di Munro, (1131-1132 dopo 1125-26), che restituisce un senso più chiaro. Propongo inoltre di trasporre il v. 1135 (nec magis id nunc est neque erit mox quam fuit ante) prima del v. 1133. La logica argomentativa di Lucrezio sostiene le ragioni della mia trasposizione: solitamente l’autore mostra una sostanziale coerenza e ordine espositivo nella dimostrazione delle sue tesi, in considerazione del fatto di essere un’opera probabilmente incompleta, come dimostrano le diverse lacune sparse in tutta l’opera (cf. l’articolo della Asmis 1983, Farrell 1994, Marković 2008, che però attribuisce la “rhetoric of explanation” lucreziana soltanto al genio di Epicuro). Di conseguenza, la genesi dell’errore potrebbe essere ricondotta o alla mancata revisione del testo da parte di Lucrezio o del suo primo editore oppure, come è evidente dalla corruttela individuata da Munro nei versi 1127-1132, ad una confusione da parte dei copisti nel corso delle prime fasi della trasmissione del testo lucreziano, dal momento che tutti i codici riportano la stessa sequenza di versi:

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5, 1125-1135 et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos invidia interdum contemptim in Tartara taetra ut satius multo iam sit parere quietum quam regere imperio res velle et regna tenere. Proinde sine incassum defessi sanguine sudent, angustum per iter luctantes ambitionis invidia quoniam, ceu fulmine, summa vaporant plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque, quandoquidem sapiunt alieno ex ore petuntque res ex auditis potius quam sensibus ipsis, nec magis id nunc est neque erit mox quam fuit ante.

1125

1130

1135

La trasposizione del verso 1135 prima del 1133 (cf. Bruno 2017, per una spiegazione esaustiva della trasposizione), quandoquidem, che interpreto come una congiunzione causale ‘dal momento che’ (cf. OLD s.v. quandoquidem, ‘since’), rappresenta la giusta spiegazione ad una considerazione gnomica di carattere generale (nec magis id nunc est neque erit mox quam fuit ante), tale da rendere il senso e l’argomentazione più lineari. La causa della corruzione tra gli uomini è iniziata a partire dal v. 1113 posterius res inventast aurumque repertum, momento in cui nacque la proprietà privata e iniziò la tendenza a seguire quello che volevano garantirsi tutti, ovvero il benessere della ricchezza materiale.164 Prima di iniziare la trattazione sulla nascita delle leggi (vv. 11361160), Lucrezio avrebbe potuto concludere la sezione di versi sulla 164

Se si potesse dimostrare, per assurdo, il valore temporale di quandoquidem, allora si potrebbe affermare che i vv. 1133-1134 si riferiscono ad un esatto momento in cui iniziò la corruzione tra gli uomini, ovvero al periodo storico in cui fu introdotta la proprietà privata, v. 1113 posterius res inventast aurumque repertum. Sul valore causale della congiunzione quandoquidem cf. Hofmann-Szantyr, 609. 187

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nascita delle prime forme di aggregazione sociale e della prima organizzazione politica (vv. 1105-1135) con una coerente spiegazione alla sentenza nec magis id nunc est neque erit mox quam fuit ante, data proprio dai due versi 1133-1134 quandoquidem sapiunt alieno ex ore petuntque / res ex auditis potius quam sensibus ipsis. L’espressione sentenziosa del v. 1135 risulta isolata, così come viene tramandata dai codici, e il passaggio da un argomento al successivo appare brusco, se non è seguito da una breve spiegazione del suo significato. I vv. 11331134, dopo il v. 1135, invece, forniscono il necessario argomento, che chiarisce l’esatto motivo per cui gli uomini che si lanciano nell’agone politico lo avrebbero fatto solo per emulare i desideri (l’accumulo di ricchezze e di potere) e i comportamenti seguiti dalla massa, e non le proprie sensazioni. Un ulteriore esempio di ragionamento argomentativo, esposto in modo analogo, può essere fornito da Lucr. 2, 10841089, con un uso simile della congiunzione quandoquidem, che precede una proposizione comparativa. Questo uso della congiunzione quandoquidem si ripete nei vv. 1133-1135, e con l’intervento di trasposizione del v. 1135 prima del v. 1133, la congiunzione causale viene a trovarsi addirittura tra due comparative: 5, 1133-1135 nec magis id nunc est neque erit mox quam fuit ante, quandoquidem sapiunt alieno ex ore petuntque, res ex auditis potius quam sensibus ipsis.

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1135 1133 1134

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Sulla posizione della congiunzione causale quandoquidem, Diels riporta in apparato una singolare teoria a riguardo, esposta in apparato. La scelta di Diels di accogliere la trasposizione di Cartault 1905, 33-35 di 5, 594-595 dopo il v. 585, poiché il v. 586 si apre con quandoquidem, non è condivisibile. Ed. H. Diels, Berolini 1923 Postremo quos cumque vides hinc aetheris ignes, scire licet perquam pauxillo posse minores esse vel exigua maioris parte brevique; quandoquidem quos cumque in terris cernimus ignes

585 594 595 586

594.595 transp. Cartault post 585, quia enuntiata causalia ‘quandoquidem’ vel ‘quando’ particulis formata numquam antecedunt, cf. e.g. II 967 (inseritur IV 98): post 589 traiecerant inde a Marullo

La congiunzione quandoquidem è molto frequente in Plauto e Lucrezio, in seguito sarà adoperata prevalentemente da Catullo e Virgilio (Catull. 64, 218; 101, 5; Verg. Aen. 7, 547; 10, 105). Il suo uso in ‘incipit’ di verso che ne fa Lucrezio è molto più ampio della spiegazione limitante che ne fa Diels, per giustificare la trasposizione di Cartault.165

165

Le occorrenze di quandoquidem in ‘incipit’ di verso nel DRN sono molto frequenti: cfr. 1, 296, 587; 2, 969, 980, 1087, 1141; 3, 457, 471, 831; 4, 100, 166, 393, 1225; 5, 145, 582, 586, 1133; 6, 47, 958. 189

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1134-1135. Quanto ai sentimenti dell’umanità, Lucrezio lascia poco spazio alla speranza: se il mondo è andato avanti in un certo modo fino alla sua epoca, sarà così anche per il futuro. Il senso dell’affermazione gnomica del v. 1135, ora in sede 1133,166 testimonia l’assenza di una declinazione ottimistica di Lucrezio sul progresso, ma il poeta prende atto della globale insensatezza di tutte le azioni umane, delle inutili ansie e paure che l’uomo stesso è stato in grado di procurarsi, all’interno del vasto e indifferente cosmo. Dunque, a partire da questa considerazione, espressa nei vv. 1134-1135 (sapiunt alieno ex ore … res ex auditis potius quam sensibus ipsis), si legge una certa sfiducia di Lucrezio nei riguardi dell’umanità e del progresso. I giudizi formulati dalla massa seguono l’opinio communis, e la gente si basa su ciò che ascolta dalla bocca degli altri, piuttosto che sulle sensazioni personali e sul proprio intelletto (l’ironia e il sarcasmo della critica antidemocratica e antidemagogica di Ar. Ach. 628-654 e Xen. [Ath. Pol.] 6-7, che manifestano le stesse perplessità nei confronti del popolo credulone e senza giudizio). Gli uomini si servono, in questo modo, di una sapienza indiretta, che viene ex ore alieno (espressione popolare, cf. Plaut. Bacch. 469, vidi non ex audito arguo), in anastrofe, preferendo quanto di più lontano ci sia dalla verità. Secondo il principale metodo dell’autopsia per uno storico, le orecchie sono meno fededegne degli occhi, come scriveva Erodoto (1, 8), e secondo gli 166

Per il v. 1135, ora in sede 1133, nec magis id nunc est neque erit mox tamen fuit ante, è da notare la proliferazione avverbiale nella sentenza, cfr. il contesto simile Plaut. Amph. 553, quia id quod neque est neque fuit neque futurum est / mihi praedicas. 190

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Epicurei (Epicur. RS 23-24), la sensazione empirica è il solo valido metodo conoscitivo della realtà, riconosciuto come attendibile e considerato come vera ratio.

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1136-1160. Una volta uccisi i re, dopo che i vessilli regali giacevano calpestati sotto i piedi del popolo, che si era impadronito, con il sangue e la rivolta, di un potere che un tempo fu troppo temuto, la res publica andava verso un estremo grado di disordine, nel quale ciascuno pretendeva di detenere il potere per sé (1136-1142). Da quel momento alcuni suggerirono di istituire le magistrature e il diritto, che dovevano valere come legge per tutti. Erano stanchi di vivere nella violenza, nelle inimicizie e nelle vendette, e per questo di buon grado preferirono accettare quelle norme restrittive (1143-1150). Da allora la paura della pena avvelena e contamina le gioie della vita, perché la violenza e l’ingiustizia irretiscono chi le pratica, dal momento che chi commette i crimini e viola i patti di pace contratti con la società, non può più vivere tranquillo. Infatti, chi commette un reato e crede di restare nascosto agli dèi e agli uomini, non può confidare che questo avverrà sempre in futuro, perché nel sonno o nel delirio può tradire se stesso e rivelare delle colpe tenute nascoste per molto tempo (1151-1160). «To Lucretius, magistrates and laws, not kings are able to ensure a durable peace», scriveva Momigliano 1941, 151-57 in un capitolo della sua recensione su The Journal of Roman Studies, intitolato Epicureans in revolt,167 al libro di Benjamin Farrington, Science and Politics in the Ancient World (1939). Il punto cruciale di questi 167

Nonostante si sia trattato soltanto di una recensione, il saggio di Arnaldo Momigliano è ancora oggi uno dei più interessanti e originali su Lucrezio. Il testo di Farrington aveva condizionato per decenni buona parte della critica e dell’interpretazione sul messaggio politico rivoluzionario che avrebbe lasciato Lucrezio ai suoi contemporanei. 192

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versi è il seguente: a quali magistrati, a quali legislatori Lucrezio si sta riferendo in questa sezione di versi, breve e controversa? Una prima ipotesi potrebbe essere che Lucrezio si stia riferendo alla storia di Roma del VI sec. a.C., e in particolare alla data del 509 a.C. I racconti sulla caduta della monarchia e la costituzione del sistema repubblicano di Roma avrebbero potuto influenzare la descrizione compiuta da Lucrezio, come, in un secondo momento, avrà influenza la tradizione sulla prima storia di Roma (cf. Liv. 1, 59-60, Prop. 4, 10). Rimane il fatto che la ricostruzione lucreziana non sembra ripetere i resoconti della prima storia di Roma, che, se è vero che passò dalla monarchia alla repubblica, non subì quella fase di anarchia di cui parla Lucrezio nel passaggio dai re ai magistrati. È difficile, tuttavia, determinare con certezza se questa singolare concezione dello svolgimento politico dell’umanità primitiva sia stata condizionata dall’esperienza concreta della storia di Roma e le vicende drammatiche che sconvolsero gli ultimi anni delle guerre civili e la crisi irreversibile tardo repubblicana. Di certo, proprio alla stessa maniera in cui farebbe uno storico, la storia di Roma viene ripensata ed essenzializzata, a partire dalla crisi violenta delle guerre sociali e poi civili, alla progressiva e inesorabile fine della Repubblica. Se si propende, invece, per una lettura suggestionata dalle vicende contemporanee a Lucrezio, allora è chiaro che l’immagine che doveva emergere di quegli anni è che l’idea di legge, di diritto, di giustizia era stata calpestata, consumata e spenta. Questa lettura poteva aver scosso l’immaginazione di uno storico sottile e non privo di arguta malizia come Ronald Syme, quando in una celebre pagina del suo capolavoro, The Roman Revolution, cita i vv. 1145-1147 del V libro del DRN a suggello del passaggio dalla Repubblica al 193

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Principato (cf. Syme 1939, 513). La res publica di Lucrezio, nello stravagante e per certi versi illuminante paragone di Syme, ha i caratteri del Principato, che con leggi dure e imperiose ristabilisce l’ordine, la pace, la certezza stessa del vivere. Per queste complesse ragioni, Lucrezio sembra avere le stesse premonizioni di uno storico in grado di prevedere il corso futuro. Epicuro, pur affermando l’esistenza utilitaria e il fondamento contrattuale della giustizia, non parla di un’origine convenzionale della giustizia e delle leggi. Queste ultime sono sorte a vantaggio della comunità (Epicur. RS 31; Cic. Fin. 1, 16, 50). Lucrezio, nel quinto libro (vv. 1011-1127; vv. 1136-1150), per la prima volta configura con precisione quello che verrà chiamato “stato di natura”, distinguendolo da un successivo “stato di società”. Il diritto nasce, dunque, come patto comune diretto ad assicurare la pace tra gli uomini: Lucrezio non concepisce il foedus commune come un evento accaduto una volta per tutte in un determinato momento storico. La società, nata in seguito a un patto volontariamente stipulato dagli uomini, si diede delle leggi pacifiche (5, 1019-1027), per evitare il rischio di estinzione della specie (cf. Campbell 2002, 3). In realtà, Lucrezio non spiega esattamente i motivi di questa eventuale catastrofe, anche se sono facilmente intuibili: i primi clan, senza il ricorso a dei patti e a delle regole stabilite tra di loro, sarebbero ricorsi alla violenza e ad una inevitabile lotta per il dominio e la supremazia degli uni sugli altri. Il diritto e le leggi, dunque, hanno alla loro origine una ragione di necessaria utilità per la sopravvivenza del genere umano.

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Commento 5, 1019-1027 Tunc et amicitiem coeperunt iungere aventes finitimi inter se nec laedere nec violari, et pueros commendarunt muliebreque saeclum, vocibus et gestu cum balbe significarent imbecillorum esse aequum miserier omnis. Nec tamen omnimodis poterat concordia gigni, sed bona magnaque pars servabat foedera caste; aut genus humanum iam tum foret omne peremptum nec potuisset adhuc perducere saecla propago.

1020

1025

Analogamente, in un momento storico successivo, dopo l’esperienza del dominio dei più forti e del disordine in seguito alla loro uccisione (regibus occisis v. 1136), gli uomini avvertirono la necessità di un’organizzazione giuridica dopo una prima organizzazione politica. Fu così che istituirono magistrature e stabilirono princìpi giuridici, iura, per potersi avvalere di un sistema legale più complesso, che fosse sostenuto da leggi (vv. 1136-1150) che regolassero il diritto civile e penale, e non più soltanto i rapporti individuali, come nei primi patti di amicizia (cf. Denyer 1983, 133-52). L’autorità della legge è molto superiore al senso di utilità dei primi patti e si oppone direttamente all’oppressione del comando unico e alla violenza generalizzata. L’efficacia della legge sta proprio nello stato psicologico che essa determina, nel suo potere deterrente. Lucrezio aggiunge una considerazione morale (vv. 1151-1160), che è in pieno accordo con la dottrina epicurea: la pena incute paura, sia che la punizione avvenga sia che non avvenga. È proprio la paura della pena a ridurre la possibilità di commettere un reato. Nel terzo libro, Lucrezio aveva già affrontato questo argomento (vv. 1014-1022): 195

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Sed metus in vita poenarum pro male factis est insignibus insignis, scelerisque luella, 1015 carcer et horribilis de saxo iactu’ deorsum, verbera carnifices robur pix lammina taedae; quae tamen etsi absunt, at mens sibi conscia factis praemetuens adhibit stimulus torretque flagellis nec videt interea qui terminus esse malorum 1020 possit nec quae sit poenarum denique finis atque eadem metuit magis haec ne in morte gravescant.

Per Epicuro, l’utilità della legge e della pena consiste nell’impedire che coloro che si comportano nel rispetto della giustizia possano subire danni: per il saggio le leggi esistono non perché i colpevoli si astengano dal commettere ingiustizie, ma perché le vittime non continuino a subirle (Epicur. RS 35, sul tema cf. O’Keefe 2010, 139-45). Democrito, invece, aveva distinto la condotta determinata dal timore della legge e dalla sanzione, dalla condotta libera, tenuta per obbedire solo ad un comando della coscienza (cf. 68 B 41 DK “astieniti dal fare il male non per paura, ma perché si deve”; e 68 B 174 DK “l’uomo dall’animo sereno, incline alle opere giuste e legittime, giorno e notte è lieto, forte e tranquillo; chi, invece, ha in spregio la giustizia e non fa il proprio dovere è afflitto e angustiato, e si tormenta”, trad. G. Reale). Ermarco (cf. Porph. Abst. 1, 7-12 = fr. 34 Longo Auricchio), in ambito epicureo, affermava che i primi legislatori si erano distinti rispetto alla massa per la loro φρόνησις (1, 8, 2), che si identifica con lo stesso concetto di cui parla Epicuro (Ep. Men. 132), ovvero il massimo bene, che si poteva raggiungere solo dopo un adeguato

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percorso di indottrinamento epicureo.168 Quella evocata da Ermarco era una φρόνησις relativa solo all’epoca in cui i primi legislatori vivevano. C’è da dire, in ogni caso, che il passo di Ermarco, tramandato dal neoplatonico Porfirio, è disordinato e incoerente e la somiglianza con il testo lucreziano è vaga e lontana. Il trattato di Porfirio, il De abstinentia, è comunque cronologicamente – anche dal punto di vista della dottrina filosofica – molto distante da Epicuro, perciò, le eventuali contraddizioni e incertezze del passo sono del tutto comprensibili. Secondo Ermarco, i ‘migliori’ si astenevano dall’omicidio in quanto ciò era utile alla loro sicurezza e avrebbe contribuito al bene comune e a quello di ogni individuo. Tuttavia, man mano che le comunità diventavano più numerose e la minaccia degli animali feroci diminuiva, gli uomini ricominciarono a commettere degli omicidi contro i loro simili. L’utilità di astenersi dalla violenza non era più un deterrente e non si poteva più fare affidamento sulla memoria di ciò che era accaduto in passato (cf. Alberti 1995, 164 e Armstrong 1997, 30). La mancanza di timore è, per Ermarco, la ragione per cui gli uomini ricominciarono a violare i legami di amicizia che si erano stabiliti e intercorrevano tra loro nella prima fase di organizzazione sociale. Un’ulteriore differenza tra i due testi è che i finitimi di Lucrezio non possono assolutamente coincidere con i παλαιοί νομοθέται e nemmeno con i χαριέστατοι di Ermarco (cf. Longo Auricchio 1988, 143). Non meno radicale è la differenza che 168

Significativa è la posizione di Colote, riportata da Plutarco, il quale, analogamente ad Ermarco, attribuiva una grande importanza all’azione dei primi legislatori (cf. Plut. adv. Colot. 30, 1124d), e tuttavia venerava Epicuro, ritenendolo superiore a qualunque altro mortale (cf. Clay 1998, 75ss.; Gale 1994, 191 ss.; Sedley 1998, 67-68).

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distingue i legislatori di Lucrezio (5, 1141) dai secondi nomoteti di Ermarco/Porfirio. Questi hanno dinanzi a sé l’esperienza di un passato tranquillo e intervengono con leggi, sanzioni, pene, divieti, non per fondare sulle rovine, prodotte da spaventose contese civili, la sicurezza del vivere. Al contrario, i legislatori di Lucrezio si trovano di fronte uno stato di anarchia, di sostanziale oblio di ogni regola stabilita, nonostante per un certo periodo di tempo vi era un abbozzo di contratto sociale e di organizzazione di una società civile e politica. Gennaro Sasso, a proposito di questi versi lucreziani, aveva parlato di una “doppia nascita del diritto” (cf. Sasso 1979, 7-90), in cui è prospettato un primo accordo sociale (vv. 1019-1027, il foedus dei finitimi) e successivamente, nei vv. 1105-1150, in cui era istituito un più articolato contratto sociale. La seconda nascita del diritto equivale, secondo Sasso, a una invenzione radicale ed ex novo di esso, come se in un tempo passato il concetto di diritto non fosse mai esistito. Stando al racconto preistorico di Lucrezio, effettivamente il diritto sarebbe nato due volte. Ritengo, però, che nella concezione lucreziana il diritto rinasca, o meglio assuma ciclicamente una rinnovata importanza ogni qual volta l’uomo finisce per perdere il controllo delle proprie azioni e cade nella tentazione di ricorrere ai mezzi violenti, come la vendetta e la lotta per la supremazia. La storia assume agli occhi di Lucrezio una tendenza evoluzionistica, anche se non sempre essa sembra rivolta a un continuo progresso. In uno dei testi più importanti per l’origine delle leggi, l’Ep. 90 di Seneca, che riporta la dottrina sull’origine della civiltà secondo Posidonio, la sapienza filosofica si è manifestata fin dall’origine del genere umano e nel corso del procedere storico, come forza civilizzatrice. Dunque, secondo Posidonio, i sapientes 198

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reges (Sen. Ep. 90, 4-5), i sapientes legislatori (90, 6 tra cui Solone, Licurgo, Zaleuco e Caronda) e i sapientes inventori (90, 7) erano i detentori dell’antica e autentica sapientia filosofica. La dottrina posidoniana sull’origine e lo sviluppo della civiltà non è derivata naturalmente da Aristotele: per quest’ultimo la sapientia filosofica è la ‘climax’ del progresso. Per Posidonio e per tutti gli Stoici la sapientia rappresenta il punto d’inizio, e ha generato sia le tecniche sia le leggi. Per Platone e per gli Epicurei, al contrario, sono nate prima le tecniche e le leggi, poi la vera sapientia. Seneca, al contrario, pur ammirando Posidonio, cerca di confutarne la dottrina: infatti, secondo Seneca non è esistita la genuina sapienza nella preistoria, e non c’è alcuna relazione tra sapienza filosofica e origine e sviluppo della cultura materiale (cf. Zago 2012). La critica di tale dottrina da parte stoica si legge in Seneca (Ep. 97, 15): bisogna dissentire da Epicuro quando dice che niente è giusto per natura e che i delitti devono essere evitati perché non si può evitare il timore; tuttavia, le azioni cattive hanno la loro punizione nella coscienza, oppressa e lacerata dalla paura, perché essa non può aver fiducia in chi le promette sicurezza. L’eco della dottrina epicurea circa la natura della giustizia e l’origine della società e del diritto appare anche nella Sat. 1, 3 di Orazio, in particolare nei vv. 111-117: iura inventa metu iniusti fateare necesse est, tempora si fastosque velis evolvere mundi. nec natura potest iusto secernere iniquum, dividit ut bona diversis, fugienda petendis; nec vincet ratio hoc, tantundem ut peccet idemque qui teneros caulis alieni fregerit horti et qui nocturnus sacra divum legerit.

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Orazio ha per bersaglio il rigorismo razionalistico degli Stoici: “La madre del giusto e dell’equo è l’utilità”, “la natura non può distinguere l’iniquo dal giusto”, “le leggi sono state create per timore dell’ingiustizia” dagli uomini, quando questi cessarono di essere delle bestie mute e abiette (cf. Rochette 2001, 16-20 su Orazio e il V libro del DRN). Bibliografia selettiva Butterfield 2008; Cocatre-Zilgien 2012; Flores 2002; Konstan 2007; Morel 2007; Rochette 2001; Schiesaro 2007b.

1136-1142. La breve e concisa descrizione della caduta della monarchia, aperta dall’avverbio ergo, e della creazione di un sistema più vicino a quello repubblicano, governato dalle leggi, è stata a lungo letta alla luce delle fonti e della tradizione sulla storia della prima Roma (Liv. 1, 59-60, cf. Ogilvie 1965 ad loc.). La presenza dei due epiteti a cornice nel v. 1137, pristina e superba, si può intuitivamente mettere in relazione, come suppone, tra gli altri, Gale ad loc., ai primi re di Roma Tarquinio Prisco e Tarquinio il Superbo. Ma la realtà storica è ben diversa e l’equivalenza, per quanto possa essere vicina all’esatta ricostruzione storica, non è propriamente corretta. Infatti, non c’è alcun riscontro storico con il periodo di anarchia, descritto nei vv. 1141-2, e la prima Repubblica di Roma. Pertanto, Lucrezio presenta un modello che sembra rifarsi alla nascita delle leggi in Grecia, nonostante l’idea sia quella di riferirsi a una storia universale e non al profilo preciso di un determinato stato. Una 200

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spia che conforta questa tesi può essere data dalla sentenza gnomica nel v. 1140 (nam cupide conculcatur nimis ante metutum). 1136 regibus occisis: la formula regibus exactis, che indica la cacciata dei re, è molto più frequente (cf. le tradizionali espressioni regibus exactis, post reges exactos). L’exactio indica propriamente l’espulsione (cf. OLD s.v. exactio, 1) – il suo verbo corrispettivo, exigere (cf. ThlL V, 1449, 59 ss.), l’azione di allontanarsi, di farsi da parte, cf. OLD s.v. exigo, 2 – a differenza dell’esplicito atto di occidere, che segna la drastica modalità di far cessare l’azione dei re, mediante la loro uccisione. Quello che racconta Lucrezio sintetizza l’atto di una congiura di palazzo, di un colpo di stato aristocratico. La storia antica è fin troppo ricca di esempi come questi e ogni tentativo di ricercare un preciso riferimento storico viene annullato. Pertanto, si finisce per lasciare spazio soltanto all’interpretazione che si tratti piuttosto dell’esposizione di una comune modalità di passaggio da una forma di governo ad un altro (μεταβολή τῶν πολιτειῶν) che si è verificata ciclicamente nella storia (cf. allo stesso modo Polyb. 6, 7, cf. Walbank 1957 ad loc.; un esempio per tutti può essere la caduta della tirannide ateniese del 509 a.C., coeva alla caduta dei Tarquini a Roma, sull’argomento vedi anche Cocatre-Zilgien 2012, 117). Provare a trovare le fonti dell’ “Archeologia” lucreziana è operazione macchinosa ricca di insidie, che lascia in ogni caso molti più dubbi che certezze (cf. Introduzione, capitolo 1; cf. anche Schrijvers 1999, 110-1). Nel v. 1136 si ripresenta nuovamente, come nel v. 1109, il falso problema del plurale reges, al posto di un più prevedibile rex, 201

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che, a mio avviso, è la prova che sta a indicare la figura in generale del monarca, e l’universalità e la ripetitività nella storia di un passaggio da una forma costituzionale ad un’altra, come in questo caso, al di là di un definito periodo o di uno specifico territorio geografico. Da qui si può comprendere l’intento ultimo di Lucrezio di riportare una storia dell’umanità che possa rivelarsi onnicomprensiva, nonostante possano essere intravisti, all’interno di alcuni versi, dei segnali a specifici riferimenti storici, contemporanei all’autore (secondo l’interpretazione suggerita da Momigliano 1941, e seguita a catena da Nichols 1976; Conti 1982; Minyard 1985; Fowler 1989; contro questo approccio cf. McConnell 2012). Spesso, però, accade che Lucrezio continui a fornire exempla, che facevano parte del suo retroterra culturale di civis Romanus, e che rimandano ai più importanti avvenimenti della storia di Roma. Lo stesso lessico di Lucrezio, in particolare in questo gruppo di versi è particolarmente vicino a quello delle istituzioni politiche romane, come viene indicato, ad esempio, dai termini rex, maiestas, magnus honos, imperium petere (cf. Schiesaro 2007). Tra le ipotesi più singolari sull’identità dei reges c’è quella di Costa ad loc., secondo cui Lucrezio avrebbe fatto riferimento a quei re che governavano ai confini dell’Africa e dell’Oriente, con i quali i Romani vennero in contatto per diverso tempo. Una teoria che in parte riprende quella di Boerwinkel 1956, il quale vedeva nella monarchia ellenistica coeva ad Epicuro il modello di riferimento della regalità per Lucrezio. Originale è, invece, l’ipotesi di Cocatre-Zilgien 2012, 118-121, che non interpreta la parola reges con il significato letterale di ‘sovrani’, ma più intuitivamente estesa a “coloro che esercitano una qualche forma 202

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di regnum”, come i Gracchi o una figura dal magnus honos al pari di quella di Lucio Cornelio Cinna, console per quattro anni consecutivi, 87-84 a.C. «Sa dominatio fut sanglante, ce qui suggère une autre interprétation de l’insigne cruentum du vers 1138. Nous tendons à croire qu’il s’agit des faisceaux où se nichaient les secures des licteurs, ces haches avec lesquelles les magistrats à imperium pouvaient en principe faire exécuter ceux qu’ils avaient décidé de frapper de cette mesure ultime de coercition», argomenta Cocatre-Zilgien 2012, 120-21. Potrebbe anche essere un’allusione al paradigmatico attentato compiuto dai tirannicidi Armodio e Aristogitone, che nel 514/513 a.C. cercarono di porre fine al potere personale della famiglia di Pisistrato: dopo aver assassinato Ipparco, non riuscirono a uccidere anche Ippia, che riuscì a scampare l’attentato e a sua volta a far uccidere i suoi attentatori, episodio riportato da Thuc. 6, 54. Lo zeugma, creato dalla doppia reggenza del singolare iacebat, occupa i due versi 1136-7 e regge subversa …/ pristina maiestas soliorum et sceptra superba. Con subversa si intende, in generale, il rovesciamento del sistema, del potere (OLD 3, nel senso di ‘rovesciare il sistema, l’istituzione’ cf. Sall. Cat. 10, 3; Hist. 1, 55, 3 e 1, 77, 8), quest’ultimo indicato da una perifrasi che enfatizza, attraverso i simboli della monarchia (il trono, lo scettro), il prestigio dell’istituzione che si va ad abbattere: appunto la pristina maiestas soliorum (“l’antica maestà dei troni”, in ‘enjambement’), gli sceptra superba (“gli scettri superbi”). Vale la pena segnalare la formazione del termine maiestas, analoga a honos, honestas, cf. EM, s.v. magnus, “formé sans dout d’après honor/honestas, toutefois peut représenter une alternance ancienne. Qui s’employe au sense moral et avec valeur laudative”. 203

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Un discorso a parte lo merita la clausola di fine verso, l’ipallage sceptra superba (cf. 5, 1222 regesque superbi), che intende riferirsi, attraverso un’immagine simbolica, al potere regale. Con sceptrum si ha una delle prime forme latinizzate del termine greco σκῆπτρων (cf. altri casi in Cicerone), sia in senso letterale (cf. OLD s.v. 1; Cic. Sest. 57), sia in senso figurato (OLD s.v. 2, ‘the power symbolized by a sceptre, sovereignty, kingship’). L’epiteto superbus è tipico dei re e fa parte dell’immagine stereotipata dei tiranni (Polyb. 5, 11, 6 e un passo molto pertinente al contesto lucreziano, Cic. Rep. 2, 45 cum metueret ipse poenarum sceleris sui summam metui se volebat), anche se qui a molti è sembrato un riferimento specifico a Tarquinio il Superbo (cf. Liv. 1, 49). Personalmente, invece, non nutrirei dubbi, come Schrijvers 1999, 117, che le fonti di Lucrezio, ammesso che si possa parlare di fonti, siano greche, e che la storia che sta raccontando sia universale, o che al limite si possa rifare ad episodi della storia greca. Ritorniamo a ciò che scrive Seneca nella sua parafrasi del pensiero di Posidonio (Ep. 90, 6 sed postquam subrepentibus vitiis in tyrannidem regna conversa sunt, opus esse legibus coepit, quas et ipsas inter initia tulere sapientes. Solon ... Lycurgum … Zaleuci leges Charondaeque laudantur). Il periodo storico a cui Lucrezio si sta riferendo potrebbe essere proprio quello dei primi legislatori greci (Solone, Licurgo, Zaleuco, Caronda), che riportarono l’ordine, dopo un periodo difficile di anarchia, in Grecia e nelle colonie in Italia. Nonostante ciò, anche questa ipotesi non è del tutto convincente: i legislatori non portarono alla caduta dei tiranni, ma insieme ad essi contribuirono a costituire un buon governo (cf. Griffin 1992, 201). È, invece, probabile che uno dei 204

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testi più influenti per la trattazione della necessità delle leggi e dei compiti del legislatore siano le Leggi di Platone (Lg. 631b-d). 1138-1140: i versi si focalizzano sull’immagine contrastante della superiorità del potere e dell’inferiorità del popolo che con fierezza ha abbattuto i simboli della regalità. In particolare, un accenno a questa profonda differenza si può riscontrare nel lessico antinomico: da un lato la superiorità è espressa da caput, summus, praeclaurus, insignis, dall’altro l’inferiorità da sub, pes, vulgus, conculco. La composizione del v. 1138 è particolarmente interessante per la resa fonica dell’allitterazione della vocale u, che riproduce un suono lugubre e mortifero, e per la metonimia e la perifrasi che accentuano il rilievo dell’ultimo simbolo regale, capitis summi praeclarum insigne cruentum, la corona. Il verso è stato anche letto da Munro allo stesso modo di Liv. 45, 19, 10 (nomen regium et praecipuum capitis insigne gerat) e di Sen. Ep. 80, 10. 1138 insigne: è per sineddoche l’ornamento del capo regale la corona, e il genitivo epesegetico capitis summi sta ad esplicitare il potere supremo, quello autocratico di un sovrano: l’aggettivo summus, da tradurre con ‘supremo’, indica la testa stessa del re. La corona, carismatico ornamento regale, è praeclarum e cruentum, che formano una coppia di aggettivi ossimorica e inconsueta. Il prefisso prae conferisce oltre al senso di anteriorità, insito nella radice del prefisso, anche una maggiore profondità al senso della fama e del prestigio, espressi da clarus.

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Cruentum: la scelta di cruentus, preferito ad esempio a sanguineus, non è priva di motivazioni. La differenza tra cruor e sanguis è una netta contrapposizione tra la morte e la vita, oltre a mettere in evidenza una caratterizzazione strettamente coloristica dell’immagine descritta (cf. ThlL IV, 1242, 28 ss.): il cruor è il sangue rappreso, coagulato, annerito (cf. EM s.v. cruor 152, da cui i derivati crudus e crudelis) – non a caso si trova spesso legato ad ater in Verg. Aen. 4, 687; 9, 331; Hor. Epod. 17, 31, per indicare il sopraggiungere dell’oscurità della morte, a seguito di una ferita mortale – mentre sanguis è il sangue vivo e pulsante che scorre nelle vene. Le prime occorrenze in poesia del termine cruor sono proprio presenti in Lucrezio, mentre l’aggettivo cruentus è particolarmente in uso in età neroniana, come confermano le diverse occorrenze in Lucano e in Seneca tragico. 1139 sub pedibus vulgi: il simbolo regale della corona (insigne) ormai è stato annientato e metaforicamente calpestato sotto i piedi del popolo (sub pedibus vulgi). Di conseguenza, non si può non biasimare l’artefice di questa disfatta, ovvero l’honos. Giussani ha ben interpretato il senso di lugebat (dal gr. λυγρός, da cui il latino lugubris, cf. Lucr. 4, 548), come ‘deplorare’ invece di ‘addolorarsi’, l’ambizione di raggiungere con ogni mezzo il vertice del potere e dell’onore; sulla contrarietà di Epicuro nei confronti dell’avidità cf. Spinelli 1996, 409-19, e di Lucrezio vedi Schrijvers 1996, 220-30. 1140 nam cupide … metutum: il v. 1140 ha un tono sostanzialmente gnomico. È già scritto nel destino ciclico di ogni fase del potere e di ogni modello costituzionale: una volta 206

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raggiunta la vetta, inizia la degenerazione, che porta all’abuso del potere da parte di chi domina e che finisce per scatenare la reazione dei sudditi, prima timorosi e, una volta incominciata la reazione, bramosi di far cadere chi detiene il potere. Il ricorso ad un’immagine particolarmente forte, come è quella del “calpestare”, indica la più umiliante forma di sottomissione da parte del ceto che è stato abbattuto. Conculcatur: sia letteralmente (“calpestare, mettere sotto i piedi”, cf. EM s.v. calx, 88) sia metaforicamente (‘maltrattare’), ha lo stesso significato del greco καταπατέω. Se si associa l’aggettivo superba alla figura di Tarquinio il Superbo, è probabile che il riferimento storico, espresso dal verbo conculcare, sia il suo predecessore, Servio Tullio. Metutum: è una forma talmente rara di participio perfetto da essere un hapax legomenon, e dunque si tratta dell’unica occorrenza in latino. A differenza del terror, che riflette spesso una minaccia visibile, acuta, di tipo esogeno, metus, con il verbo corrispettivo maeror, sta ad indicare uno stato d’animo di paura interiore, spesso depressiva, angosciosa e cronica. La natura mentale della paura è sottolineata già dall’origine etimologica del termine cf. Maltby, s.v. metuo, 383 e in particolare Varr. Ling. 6, 48 metuere a quodam motu animi, quom id, quod casurum putat, refugit mens. Il metus lucreziano è una versione arricchita del φόβος epicureo e probabilmente ha anche influenzato l’accezione virgiliana del concetto. «Il carattere “cronico” del metus si svela retrospettivamente nell’esperienza storica ben conosciuta, per cui il tiranno temuto per tanti anni, una volta morto, viene calpestato, 207

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v. 1140. Questo stato d’animo è quindi durevole, come lo è anche la paura delle punizioni in questo o nell’altro mondo, ed è un ostacolo permanente al godersi la vita (v. 1151 inde metus maculat poenarum praemia vitae)», spiega bene von Albrecht 2005, 235. Se, da un lato, la formido viene fuori da una presenza prepotente e minacciosa ben definita, il metus e il timor, dall’altro, emergono nell’animo umano dall’incertezza. Lucrezio nel terzo libro fornisce una descrizione quasi scientifica e medica dei sintomi del terror e del metus: lì spiega come la sede dell’animus si trovi al centro del petto (3, 136-140), al contrario di ciò che riteneva il suo maestro Epicuro e altri filosofi, che localizzavano la sede del pensiero nel cervello.169 1141-1142: la vita pubblica, res, tornava a vivere una fase caos in cui ciascuno cercava per sé potere e supremazia. Lucrezio, per descrivere la situazione di estremo disordine e sconvolgimento, ovvero di στάσις, sceglie di adoperare due termini, faex e turba, che possono indicare anche il popolo stesso. Faex (cf. OLD s.v. 4a-b) è sia il più basso strato sociale, la ‘plebaglia’, la ‘feccia’ (Cic. Att. 2, 2, 8 in Romuli faece; ThlL VI 171, 60; si tratta di un derivato di faecor, propriamente l’‘odore di marcio delle cantine’, cf. gr. τρύξ) sia il disordine (cf. Cic. Att. 2, 32, 2 tanta faex est in urbe). Allo stesso modo, turba (cf. OLD s.v. 1) ha sia il significato di confusione e tumulto, sia di folla (cf. OLD s.v. 2). Dunque, si può intendere che ai re sia succeduta l’oclocrazia, degenerazione della democrazia (cf. Polyb. 6, 8), e che il potere era in preda a un disordine, provocato da una plebaglia turbolenta. Il v. 1141 sembrerebbe piuttosto ambiguo nel senso: res… redibat, che è 169

Sul lessico della paura cf. capitolo 3 dell’Introduzione. 208

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lezione tramandata da φ-c (mentre O e Q riportano recidit e recidat), ha lo stesso valore che ha in 3, 910 ad somnum si res redit atque quietem. Dunque, il verso è da intendere: ‘così lo stato andava a finire all’estremo grado di disordine e di turbamento’, in cui redibat, che non necessariamente vuol dire ‘ritornava’ – a tal proposito Munro fornisce una serie di esempi ad loc., tra cui Petron. Sat. 78 ibat res ad summam nauseam – ma sta a indicare semplicemente un cambiamento in uno stato diverso, nel senso di ‘andare a finire’, ‘ridursi’. Nel v. 1142 si accenna ai tentativi di aspirazione alla presa del potere (come indicato dall’espressione petere imperium), indicato dall’endiadi imperium e summatum da parte di individui indistinti (sibi petebat). Inoltre, è da notare il contrasto ironico tra l’altezza e la bassezza del potere, in particolare nel differente senso di summatum – che, tra l’altro, è un hapax legomenon, formato come auxiliatus (5, 1040) o cibatus (1, 1033) – del v. 1138 e del v. 1442 che sta per ‘supremazia’, prima del potere regale, poi del potere popolare. In questo senso anche summa faex dovrebbe equivalere a infima faex (cf. per un esempio simile Cic. Att. 4, 1, 5 ab infima plebe). 1143-1150: con l’incipitario inde inizia una nuova e ulteriore fase dell’evoluzione sociale e giuridica dell’uomo. Infatti, l’avverbio inde sta a indicare una cesura cronologica certa: esiste un’età precedente e una successiva all’istituzione politica e giuridica (il diritto e l’applicazione delle leggi) della società. La densità del linguaggio giuridico in questi versi è evidente – già a partire dall’espressione creare magistratum, e poi iura, constituere, leges, vis, metus, poena, iniuria – e la lettura giuridica, già citata, di Cocatre-Zilgien 2012 sembra essere tra le più 209

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interessanti. L’istituzione delle leggi nasce per essere a vantaggio di tutti, nonostante porti ad una necessaria ma indispensabile limitazione della libertà individuale di ciascuno, per garantire le regole della pacifica convivenza civile. Alcuni (l’avverbio partim ha qui valore di soggetto, come se sostituisse il pronome aliqui, cf. Cic. Leg. 2, 42 partim ex illis distractia et dissipati iacent; Munro propone una vasta casistica di partim, utilizzato come soggetto; cf. ThlL X, 518, 57 ss.) tra coloro che erano saliti al potere stabilirono che si doveva insegnare a creare l’istituzione della magistratura. Anticamente i magistrati erano scelti dai loro predecessori e da questi poi presentati al popolo. Le funzioni del magistratus, in quanto ufficio di capo politico, al momento della nascita della repubblica, possono essere riassunte nel termine potestas e, nello specifico, nell’imperium, ovvero il comando militare, oppure nella iurisdictio, l’attività di presiedere all’applicazione del diritto nei giudizi, e nella coercitio, il potere di polizia. I magistrati, pertanto, hanno una funzione di straordinaria importanza in questo nuovo ordine sociale, così come, nell’età precedente, l’avevano avuta gli uomini considerati più capaci, per forza fisica e intelligenza. Il termine, dunque, sta a indicare sia, in generale, la carica del magistrato sia l’istituzione della magistratura, come singolare collettivo (cf. ThlL V 17, 2, corrispettivo del greco ἀρχή). Creare, unito a una carica pubblica, assume il significato di ‘eleggere, nominare’ (cf. OLD s.v. creo 5): in questo caso, i magistrati venivano direttamente nominati dai membri dell’aristocrazia primitiva che deteneva il potere. Ancora una volta, per quanto riguarda la ricerca di un’evidenza storica, si pone il problema se ci si riferisca alle prime magistrature romane della più arcaica fase repubblicana, oppure se, anche in questo 210

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caso, Lucrezio non abbia pensato alla storia di Atene e alla figura degli arconti. 1144 iura: se i magistrati erano eletti, i diritti dovevano essere stabiliti. C’è una differenza di significato tra ius e lex: interpretarli come sinonimi oppure leggervi un’endiadi è improprio. Ernout e Robin, non a torto, mettono in correlazione i vv. 1144-7 con Epicur. RS 33. Secondo Epicuro, la giustizia (δικαιοσύνη) è qualcosa che non esiste di per sé, come se fosse un’idea preesistente all’uomo, ma essa esiste in quanto attuata nei rapporti reciproci e a seconda dei luoghi dove si stringe un accordo di non provocare né di ricevere danno (cf. anche Goldschmidt 1977, 71-83; Mitsis 1988, 65-67; 79-92). Bailey non dà importanza alla presenza del plurale iura in luogo del singolare ius, differenza che, invece, è ben argomentata da EM, s.v. ius 329 “le mot a dû signifier à l’origine ‘formule religieuse qui a force de loi, d’où l’emploi du pluriel iura’ (iura legesque)”, come nel caso del singolare collettivo magistratum. La distinzione tra ius, iustitia e lex è già presente in greco nei termini θέμις, δίκηe νόμος. Il concetto di ius è più ampio di lex (cf. ThlL, s.v. ius, VII, 679, 79 ss.; cf. OLD s.v. ius 2, 1-6 in un senso comparabile a lex, 7-13 riportano il senso più ampio di leggi non scritte, di diritti e doveri universali). Dunque, si stabilirono le norme del diritto, affinché vi fosse fatto un buon uso delle leggi, che naturalmente contenevano quei princìpi. La legge (lex) è la conseguenza dell’esistenza del concetto di ius, ovvero del diritto, ciò che è giusto, ciò che retto (la radice è la stessa di iuro, iustus, iustitia, iustifico, cf. De Vaan s.v. ius, 316), e l’osservazione corretta della legge (espressa dalla finale ut vellent legibus uti) 211

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serve a tutelare e a far rispettare i princípi e i diritti di tutti. Schiesaro 2007b, 87 chiarisce bene come lo «Ius ciuile, much as it can appear as a systematic and abstract account, is in fact nothing but the sedimentation of actual practices and obligations that run through the history of Roman society, and in which a iurisperitus can discern a ratio. Rules of law do not exist above and beyond social practices, just as foedera are in fact ‘preferred syncrises’ of atoms which have acquired inflexible validity». Questi versi si prestano a diverse interpretazioni. Da una parte, si può pensare che si tratti di un riferimento alle notissime Leggi delle XII Tavole (vd. Cic. Rep. 1, 2-4, e in Leg. 2, 18; 3, 19), ma è anche molto probabile che Lucrezio abbia scritto questi versi con gli occhi rivolti al suo presente, non solo con uno sguardo da ‘storico’ che racconta la nascita delle istituzioni civili e giuridiche della civiltà. Ai tempi di Lucrezio, i termini ius e lex assumevano dei significati ben precisi. Ad esempio, con iura si intende il ‘ricorso alla giustizia’, che facevano i pretori nel periodo turbolento della tarda repubblica (cf. Brennan 2001, vol. I, 13233), e non è da escludere che iura possa rinviare a iudicia (cf. Cic. Sest. 92, che ha delle sfumature molto lucreziane). Il termine lex, ad esempio, nella tarda repubblica, è propriamente la legge pubblica, votata dai comizi del popolo su proposta di un magistrato (rogatio), approvata, in quel periodo, dai comizi tributi. Se Lucrezio si riferisce alle riforme del diritto romano contemporaneo è perché in tal modo si possono realizzare le aspirazioni minime politiche degli Epicurei: ovvero che in città vi fossero delle leggi, che impedissero agli uomini di danneggiarsi a vicenda e che i saggi decidessero di vivere lontani dalla politica, piuttosto che ricercare la ricchezza e dunque poter vivere in pace. 212

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Nel corso degli anni 81-52 a.C. quasi una dozzina di leggi furono promulgate per migliorare sensibilmente la condizione legale delle vittime della violenza (cf. Lintott 1999, 107-31, che offre un’analisi approfondita sulla violenza nella società romana ai tempi di Lucrezio, e in generale Labruna 1971; Nippell 1995). Durante la dittatura di Silla, il concetto di vis, intesa come violenza illecita, si affermò in maniera preponderante e una serie di misure repressive si susseguirono per colpire l’esplicazione della violenza: gli anni 81-67 a.C. furono particolarmente densi di decreti e furono redatte varie leggi a proposito, come la Lex Cornelia de sicariis et veneficiis e la Lex Cornelia de iniuriis, entrambe dell’81 a.C. La fine del decennio dal 60 al 50 a.C. fu meno ricco di provvedimenti; una nuova legge sulla violenza fu proposta in seguito da Pompeo, nota come la Lex Pompeia de vi (52 a.C.). Se fosse vera l’ipotesi di Hutchinson 2001, e cioè che Lucrezio dopo il 52 a.C. fosse ancora vivo, il poeta risulterebbe testimone di questa forma di pacificazione. Si comprende così l’insistenza di Lucrezio sul bisogno di stabilire dei principi legali di convivenza civile, per evitare di esercitare privatamente il proprio diritto di giustizia, che porta alla vendetta e alla violenza a danno di altri uomini. 1145-1146: la clausola del v. 1145, ripetuta anche in 1150, riassume la condizione di stanchezza tra gli uomini di vivere una vita violenta. Genus humanum è una perifrasi per homines: l’umanità è indebolita dalla vita violenta (genus humanum … defessum). Il v. 1145 presenta delle incertezze nella tradizione manoscritta: i mss. più autorevoli leggono vicere O1 e vigere Q. Vi colere, che è la lezione corretta, confermata dalla ripetizione nel v. 1150, è tramandata da ϕ-c e l’espressione colere aevom è già 213

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utilizzata da Lucrezio in 4, 1260 quo victu vitam colatur, (cf. anche Plaut. Most. 730 vino et victu…vitam colitis; Verg. G. 2, 532 hanc olim veteres vitam coluere Sabini). Enrico Flores invece preferisce stampare la ‘lectio difficilior’ gerere aevom, tramandata da a*-R,170 che però non mi pare una soluzione significativa e convincente. È curioso che Montaigne nella sua copia personale del ms. lucreziano avesse annotato accanto ai vv. 1146-1154: post reges, natae leges (cf. sul tema Screech 1978). Questo estratto di preistoria politica si ritrova sia in Cic. Sest. 91 (56 a.C.) sia in Hor. Sat. 1, 3, 99-119, come già messo in evidenza nell’introduzione a questa sezione di versi. Cicerone (Fin. 4, 55 recte facta omnia aequalia, omnia peccata paria) viene forse citato da Orazio, che espone un’alternativa: la credenza epicurea che la giustizia è stata creata artificialmente come un contratto sociale di mutua protezione. La sezione citata della satira, dedicata alla storia della civiltà tra gli uomini e sullo sviluppo della giustizia, risente molto dell’influsso di Lucrezio, ma aggiunge anche degli elementi civili. Orazio elabora una teoria sullo sviluppo del genere umano e attinge a materiale epicureo, in particolare lucreziano, tratto dal libro 5 del DRN; a caratterizzare l’uomo primitivo sono sostanzialmente tre fattori: la selvaggia ferinità, la mancanza di strumenti di comunicazione, l’assenza di forme organizzate di vita sociale. La nascita del linguaggio porta il mutum pecus a fare un salto di qualità e a darsi una organizzazione sociale. Il linguaggio diventa fondamentale, dal momento che è il primo fattore aggregante tra gli uomini perché attraverso la comunicazione permette di definire convenzioni, norme e strutture 170

Consenso dei codici A2, B, R escluso R per questa lezione. 214

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poste a garanzia della vita. In particolare, il contesto di Sat. 1, 3, 104-6 (cf. Fedeli 1994 ad loc.; Rochette 2001, 16-20; De Vecchi 2013 ad loc.) si rivela interessante per il valore accordato allo stadio finale cui approda l’umanità, organizzata socialmente entro la città, configurata come il punto d’arrivo del processo di incivilimento. A ben guardare, in questa dimensione, la città appare come il risultato di due concezioni opposte circa i moventi della scelta sociale da parte dell’uomo: quella epicurea (espressa da Lucrezio e, in tono minore, da Orazio) dell’aggregazione determinata dal metus e dal bisogno, e quella stoica, ribadita a Roma con chiarezza da Cicerone, che vedeva l’uomo spinto ad associarsi e a vivere con gli altri per un innato istinto sociale. Contro i nemici ciascuno si ribellava a seconda delle forze di cui disponeva e si vendicava privatamente, senza ricorrere alla giustizia, ma provvedendo a fare giustizia da sé. Si può pensare che vi sia un riferimento alle Eumenidi di Eschilo: attraverso il mito di Oreste, Eschilo poteva raccontare un episodio storico di Atene, l’istituzione dell’Areopago, grazie al quale si decretò definitivamente tanto la fine delle vendette private e la nascita dei tribunali e della legge, quanto il passaggio dalla società primitiva a quella civile e organizzata della polis. Nel dramma satiresco Sisifo, attribuito a Crizia, viene affermato, nel celebre frammento 88 B 25 DK, che gli dèi sono stati inventati per porre fine alla violenza e per mettere ordine nella vita degli uomini. L’idea che il timore degli dèi e delle loro punizioni sia utile ai fini di mantenere le masse sottomesse alle leggi è un luogo comune (cf. Polyb. 6, 56, 11). Un riferimento al pensiero del sofista può essere probabile, anche in vista dell’argomento successivo che tratta Lucrezio nei versi successivi, 215

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la nascita e la diffusione dei culti religiosi (cf. Gigante 1957, 9798; Davies 1989, 16-32; Diggle 1996, 103-4; O’Sullivan 2012, 167-85; Whitmarsh 2015, 109-26). L’espressione sponte sua fa leva sull’origine spontanea di questa forma politica, in vista dell’utilità reciproca, senza l’intervento di qualche legislatore divino o ispirato dalla divinità (cf. 2, 1091 ipsa sua per se sponte omnia dis agere expers) e va tradotta con l’avverbio ‘spontaneamente’, giacché vuole enfatizzare come le prime leggi fossero state adottate per consenso pubblico e non perché imposte da un tiranno o da un re. Lucrezio qui riprende un concetto che è stato già sviluppato in 5, 937-38, in linea con la teoria della giustizia dell’epicureo Ermarco (cf. Porph. Abst. 1, 8, 1-2). 1147-1150: in clausola nel v. 1147, arta iura sono i diritti che legano fra loro gli uomini, che, con le leges, si riconoscono all'interno di uno spazio giuridico vincolante, dunque è la rigorosa giustizia, che frena gli egoismi esagerati e la violenza eccessiva, come è spiegato nei due versi seguenti, (cf. Flores 2002, 164-6). Nel v. 1147 Q riporta lusa, O iura, che accolgo senza troppi dubbi. Ciascuno era pronto a vendicarsi, se spinto da rabbia – ex ira, come ex inimicitiis nel v. 1146 – ed era pronto a commettere anche dei reati più gravi (lo stesso tema è già stato trattato da Democr. 68 B 245 DK), in modo più crudo (acrius) di quanto non sia concesso (concessumst forma sincopata di concessum est) dalle leggi che rispettano l’equità (legibus aequis), cioè che non concedono ad uno né negano ad un altro. È molto probabile che Lucrezio si stia riferendo alla situazione contemporanea (forse la spia può essere nunc), che si stava vivendo a Roma in quegli anni 216

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e alle apposite riforme sillane per contrastare gli episodi molto frequenti di violenza, come riportato bene da Cocatre-Zilgien 2012. All’inizio degli anni cinquanta del I secolo a.C. i Romani non avevano più il diritto di vendicarsi da sé (ulcisci v. 1149, cf. EM, s.v. ulciscor 743 «sans doute d’après ultus, qui peut avoir le sens actif ‘qui est vengé’ ou passif ‘puni’»), infatti, una prova è costituita dal caso della morte violenta del tribuno della plebe Publio Clodio, avvenuta il 18 gennaio 52 a.C. In seguito ad essa Pompeo stabilì la condanna con la Lex Pompeia de vi. Il perfetto pertaesum nel v. 1150 (che riprende 3, 1061 esse domi quem pertaesumst) è più forte di defessum (cf. EM, s.v. taedet, 673): il prefisso per- conferisce un senso di durata dell’azione: gli uomini continuano ad avere a noia, fino a provare il disgusto, per il modo primitivo e ferino in cui sono stati abituati a vivere, prima della nascita delle leggi. Deufert 2018, 345 (come già in id. 1996, 265-6) conferma l’espunzione dei vv. 1148-50, ritenendo i versi un’inutile ripetizione di 1145-7: «(sc. die Verse) erweisen sich somit inhaltlich wie formal als eine ganz unnötige, ja verwirrende Dublette zu 1145-7. Formal entspricht enim in 1147 nam in 1145, hanc ob rem in 1150 quo magis in 1446; inhaltlichwird ein Bestandteil der Voraussetzung defessum vi colere aevom (1145), in der sprachlich kaum abgewandelten Form pertaesum vi colere aevom (1150) zur verfehlten Schlussfurgerung». 1151-1155. La legge ha sempre avuto tra gli uomini un forte potere deterrente ed ha rappresentato una barriera correttiva. Il sistema legale, se fondato sulla paura della punizione, alla luce della 217

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filosofia epicurea, è molto inferiore al patto sociale tra uomini che è descritto in 1019-1027. L’epicureo non è in grado di commettere ingiustizia, perché sa che non è nel suo interesse far del male ad altri (cf. Epicur. RS 17, 31 e 33 e Porph. Abst. 1, 7-8), dal momento che la sua visione del mondo lo tiene lontano dai desideri e dalle illusioni. 1151 inde metus … praemia vitae: ritorna in ‘incipit’ nel v. 1151 l’uso di inde, avverbio temporale ‘da allora’, ovvero dopo l’istituzione delle leggi, la paura delle punizioni macchia le gioie della vita. È molto significativa la doppia allitterazione Metus Maculat Poenarum Praemia, che mette in risalto l’inconciliabilità tra la paura della pena e la parte gioiosa della vita. C’è un ampio lessico per esprimere il concetto della paura e del terrore, cf. a riguardo von Albrecht 2005, 235-6 e metus indica la paura intesa come ansia, tensione, apprensione per quello che può accadere, spesso per l’ignoto, per la morte, per la punizione da dover sopportare (cf. OLD s.v. metus, 2a, 5). Lo stato di apprensione per la legge e le condanne crea una forma di inibizione negli uomini, che frena ogni possibilità di poter godere dei piaceri della vita e di condurre una vita serena. Il verbo maculat (corrispettivo greco è μιαίνω, che sta a significare ‘macchiare, sporcare, contaminare’ cf. LSJ s.v. 1) è piuttosto denso di valore e sta a indicare la contaminazione di qualcosa di puro, che sono le gioie della vita. L’inibizione frena gli scarsi piaceri e rende infelici gli uomini. L’ansia è la base del concetto di paura condannato da Lucrezio. Il celebre motto oraziano di ispirazione epicurea quid sit futurum cras fuge quaerere (Hor. Carm. 1, 9) indica proprio l’invito ad allontanare quello stato di tensione e di apprensione che spaventa 218

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gli uomini, i quali temono le sorprese e l’ignoto. La morte rimane sempre l’apice delle paure degli uomini e la risposta si può trovare solo nell’assecondare le leggi della natura. Praemia vitae sono le gioie della vita, (cf. 3, 898 omnia ademit/ una dies infesta tibi tot praemia vitae e 3, 956 omnia perfunctus vitai praemia marces e un caso simile anche in 1, 106 fortunasque tuas omnes turbare timore). Difficilmente l’ansia e la paura sono messe in relazione con l’ingiustizia: cf. 3, 1014 ss. sed metus in vita poenarum pro male factis/ est insignibus insignis …, dove il tormento di un animo conscio delle sue colpe è paragonato alle pene dell’inferno. L’ingiustizia non è di per sé un male, ma è tutta nella paura generata dalla minaccia che non si sfuggirà alla condanna da parte dei preposti alla punizione di tali azioni (Epicur. RS 34). La violenza e l’ingiustizia catturano chi le pratica e ritornano dove sono nate: ciò vuol dire che non c’è possibilità di redenzione per chi è abituato a comportarsi in modo violento e ingiusto, e continua a violare le leggi. Non è possibile che chi è abituato a fare violenza e a rompere gli accordi comuni di pace possa condurre una vita tranquilla. Lucrezio non sembra avere una visione positiva del ruolo delle punizioni comminate dalla legge. I timori suscitati dalle pene inflitte dalle leggi, per quanto possano inibire o reprimere l’illegalità a breve termine, contribuiscono anche a causare i desideri irrazionali che conducono al comportamento anti-sociale (cf. Konstan 2007, 112-3; Colman 2012, 111). Dal momento che lo scopo degli Epicurei era quello di liberare l’umanità, soltanto la comprensione della dottrina epicurea è efficace nel prevenire tale atteggiamento di timore. Filodemo aveva parlato già dei filosofi che avevano intuito che le azioni malvagie erano tenute a freno da false credenze e predizioni che 219

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sarebbero potute incombere, alle quali prestavano fede soltanto gli uomini più stolti (cf. Obbink 1996, 189; cf. anche Indelli-TsounaMcKirahan 1995, 30-31). 1152 circumretit: significa propriamente “cingere di reti”, ma sono rari gli esempi in cui questo verbo è usato in un significato proprio e letterale. Per il valore traslato che assume in questo passo i commentatori citano a riscontro Cic. Verr. 2, 5, 150 cum te implicatum severitate iudicum, circumretitum frequentia populi Romani esse videam. Il senso del v. 1152 è quello di fornire un’immagine di una rete in cui ciascun uomo violento è avviluppato (cf. West 1969 per l’interpretazione simbolica delle immagini lessicali in Lucrezio), mentre nel v. 1153 a quo è l’‘incipit’ di un pensiero proverbiale: fa male a se stesso l’uomo che fa male ad un altro (come dice Hes. Op. 265-66). Si tratta di un’immagine violenta, di un gesto impulsivo che riporta l’uomo al suo stato bestiale. 1153-1154. C’è una nuova allitterazione Placidam ac Pacatam che sottolinea e rafforza il concetto placida cum pace (6, 73 e 1, 40). Factis sta per malefactis (cf. 3, 1018 mens sibi conscia factis e communia foedera pacis): così vengono definite le norme giuridiche codificate nelle leggi per mettere in rilievo che si tratta di una convenzione, come afferma Epicur. RS 33, che ha per fine la pace pubblica e chi la viola, perde la propria pace (pacatam vitam / foedera pacis cf. 3, 1014-1023). Nel pensiero etico degli antichi, l’emozione impulsiva della collera è sempre rivolta all’atto o al desiderio di vendicare un altro (Arist. Rh. 1378a 1-5). Platone nel Protagora (324b) stabilisce 220

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un’opposizione doppia intorno al tema della vendetta e della punizione. La vendetta è un gesto emotivo e bestiale, la punizione è e deve essere un atto di riflessione. La vendetta si concentra sull’ingiustizia subita nel passato, la punizione, invece, ha un effetto preventivo per il futuro. Questa doppia opposizione è presente allo stesso modo in Lucrezio, che riprende l’opinione di Epicuro, secondo cui, coloro che hanno violato segretamente il contratto di rispettare gli altri non potranno più contare di restare ignorati (cf. Vander Waerdt 1987, 409). 1155 communia foedera pacis: la ‘iunctura’ riprende il tacito patto di mutuo rispetto stretto dai primi uomini e non ancora codificato in leggi (ripresa del precedente contesto in cui gli uomini vivevano ancora allo stato ferino 5, 957-8 e 5, 1011-1027). Il diritto, o più precisamente il giusto, ha la sua origine nei patti di non aggressione che gli uomini prudentemente concludono l’uno con l’altro nel reciproco interesse (RS 33). La giustizia non è qualcosa in sé e per sé, ma una convenzione nata nei reciproci rapporti perché nessuno apporti o riceva danno (cf. Konstan 2007, 137-42; Schiesaro 2007b, 86-87; O’Keefe 2009, 139-46). 1156-1160. I versi si focalizzano su un tema ben preciso: l’impossibilità per gli uomini di sfuggire al controllo divino e umano, esercitato dalla legge, delle proprie azioni. Per il rapporto tra il timore di essere scoperti e il timore della punizione da parte degli dèi (cf. Obbink 1996, 259). Se un uomo commette un crimine non può nasconderlo a lungo: prima o poi, potrebbe capitargli di rivelarlo, anche contro la sua volontà, nel sonno. 221

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I versi in questione riprendono quasi alla lettera Epicuro (RS 35 “chi opera di nascosto ai patti stipulati reciprocamente per non fare né ricevere danno non si può fidare di rimanere nascosto, anche se per il presente infinite volte vi riesce. Non è infatti sicuro che riuscirà a occultarsi fino alla morte”, trad. G. Arrighetti). La concessiva introdotta da etsi, in ‘incipit’ nel v. 1156, ha portato a diverse interpretazioni. Di certo, potrebbe sembrare contraddittorio, nello spirito della dottrina epicurea, mettere sullo stesso piano di responsabilità delle azioni sia gli dèi sia gli uomini, dal momento che le divinità non partecipano in alcun modo alle vicende umane. Se si tiene fede ad un ragionamento del genere, non ha senso parlare di un inganno commesso nei confronti degli dèi, oltre che degli uomini. Non è da escludere che fallit enim divum genus humanumque (1156) sia un’espressione proverbiale, a cui Lucrezio ha deciso di dare valore. L’uso colloquiale, le espressioni tipiche della prosa e di uno stile più piano si alternano ai tecnicismi scientifici e alla levatura dello stile epico didascalico, e un’espressione come questa ha perso il suo significato originario. Secondo Munro ad loc., la presenza di divum è inopportuna: oltre a leggere un valore sarcastico nella presenza degli dèi, ritiene che questa possa essere stata una pungente aggiunta dell’autore per mettere in rilievo l’inutilità della falsa credenza che hanno gli uomini, ovvero credere che gli dèi non solo esistano, ma che intervengano anche nelle vicende umane. Lucrezio, per poter fornire una più articolata e coerente argomentazione, finisce per calarsi nella mentalità di un uomo qualsiasi, non ancora convertito al credo epicureo. Lucrezio menziona lo sguardo degli dèi e degli uomini in cui un malfattore può imbattersi. Il rinvio agli dèi non ha 222

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grande importanza se è pronunciato da un epicureo, ma in questo caso ce l’ha, perché è il criminale che spera di essere ignorato dagli dèi. Dunque, c’è un cambio del punto di vista operato da Lucrezio: quale potrebbe essere il pensiero tradizionale di chi commette un reato? La paura della punizione, attraverso il potere deterrente esercitato dalla legge, e la convinzione che esista sopra ogni cosa “l’occhio di Zeus”, che tutto vede e a cui nulla sfugge (Eur. Hipp. 45-47), poiché egli è il dio supremo dell’universo e, se anche gli altri dèi sono potenti, lui è il solo a determinare il corso degli eventi. Secondo il racconto mitologico tradizionale, Dike, come racconta Esiodo, è la figlia di Zeus e Themis (Hes. Theog. 902ss.) e riferisce a Zeus le colpe degli uomini, perché per via di esse lei viene offesa (Op. 256 ss.). Il suo compito è quello di preservare la giustizia tra gli uomini e, se gli uomini osano sfidare Zeus, lui li punirà (Aesch. Ag. 183), poiché il compito di Zeus è quello di punire gli uomini colpevoli, non gli uomini onesti (Aesch. Ag. 750 ss.). In Eschilo è ben chiaro come la punizione vada a colpire più spesso i ricchi e i potenti, piuttosto che i poveri. Questo perché i primi sono più esposti alle tentazioni, a causa del potere e della ricchezza (cf. Lloyd-Jones 1971, 87; Grecchi 2006, 59). Secondo Platone, la giustizia di per sé è una cosa buona, così come l’ingiustizia è cattiva: tutto dipende dalla capacità intuitiva degli uomini, che ne possono capire l’essenza (tema ampiamente discusso nel I libro della Repubblica, nella confutazione delle diverse tesi di Trasimaco). Il destino umano è regolato da una legge morale, mentre nel pensiero tradizionale dalla legge di Zeus, nonostante già in Tucidide gli dèi siano completamente assenti nella narrazione. Per gli Epicurei, gli dèi, invece, non puniscono chi commette un reato, né ricompensano chi si comporta 223

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rettamente. Id fore clam, nel v. 1157, corrisponde all’espressione idiomatica “farla franca”, e naturalmente si tratta di una frase di uso comune (cf. Plaut. Truc. 795 mea nunc facinora aperiuntur; clam quae speravi fore e Ter. Ad. 71 si speret fore clam). L’ordine dei versi dell’edizione commentata da Giussani è completamente diverso. I vv. 1156-1160 si trovano arretrati rispetto a 1154-1158, per una serie di modifiche testuali apportate all’intero libro. Secondo il linguaggio convenzionale, a qualunque uomo si poteva contrapporre l’ira o il castigo divino e umano, ma non il fallere deos (1157), che, precisa Munro, non poteva essere di certo una speranza realizzabile, come indicato da diffidere (cf. EM s.v. fido, 233 sta a significare ‘avere mancanza di fiducia’, come il corrispettivo greco ἀπιστέω, che rende vana ogni speranza). Se invece di parlare come avrebbe fatto un uomo qualsiasi, Lucrezio avesse apertamente espresso la concezione del crimine secondo un epicureo, allora il senso della frase sarebbe stato completamente diverso. Il crimine, quindi, non è tanto imputabile se è attentato contro l’ordine sociale o il diritto degli altri, ma lo è se rompe un equilibrio su cui si basa l’atarassia dell’individuo e soprattutto è imputabile in ragione delle inquietudini che assalgono continuamente l’uomo e la sua coscienza, incerta di rimanere impunita. Lucrezio ha già affrontato questo tema piuttosto delicato in diversi contesti: 3, 825-7, 1018-1022; 4, 1018, 1035. Non è neanche un caso, dal punto di vista narrativo, che Lucrezio citi gli dèi, dal momento che il successivo argomento oggetto della trattazione lucreziana sarà proprio l’origine del credo negli dèi (vv. 1161-1240). Sul piano sintattico, secondo Schrijvers 224

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1999, 117, i versi 1156-60 risentono della sintassi greca, che adopera il costrutto di λανθάνειν seguito da τοῦ θεοῦ (cf. LSJ s.v. 1, TLG, V, 1, 98, cf. Hes. Op. 265-68), per indicare l’atto di nascondersi dalla vista degli dèi. Inoltre, i vv. 1156-57 richiamano il simile contesto ciceroniano dell’epicureo Torquato in Cic. Fin. 1, 50 (quamvis occulte fecerit, numquam tamen id confidet fore semper occultum). I testi epicurei da mettere in relazione con questi versi sono: Epicur. RS 34 e 35 (e Diog. Laert. 10, 151), così come Cic. Fin. 2, 9; Off. 3, 9, 39; Leg. 1, 14, 40 ss.; Sen. Ep. 97, 13; Plut. Contra Epic. 6, 1090c (fr. 532 Us.); Sent. Vat. 7. Già nel terzo libro, Lucrezio espone l’influsso del metus sull’animo e sul corpo umano. Il metus è una conseguenza del terror. Le parole dei sacerdoti generano metus e impauriscono la gente, allo stesso modo i diversi tipi di “timore dei demoni”, cioè di paure infondate, disturbano, anzi, capovolgono la vita umana. In ultima analisi, il terror può esercitare i suoi effetti devastanti soltanto perché le persone che vi sono esposte non ragionano con chiarezza. Inoltre, secondo Lucrezio, il più efficace strumento di terrore, usato dagli sciamani, è la paura dei castighi sempiterni dell’altro mondo: producono terrore anche le apparizioni di persone morte nei sogni e nelle visioni degli ammalati, ma si tratta di paure futili, che nascono dall’ignoranza della natura dell’anima. Ad esempio, Lucrezio sostiene che, data l’inesistenza dell’aldilà, i miti dell’oltretomba parlano solo di pene che gli umani soffrono nella vita reale: Tantalo, Tizio, Sisifo, le Belidi (cf. Gale 1994, 183-7; von Albrecht 2005, 238-9). L’origine di questi miti è il timore di venire puniti per le proprie malefatte nella vita reale (metus in vita poenarum pro male factis 3, 1014). Qui Lucrezio definisce un’altra doppia sorgente del metus: da una parte 225

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l’incertezza intorno al futuro, dall’altra l’angoscia dei rimorsi di coscienza (cf. 3, 825-7, e spesso l’origine di questo metus è nella mente, cf. 3, 1018-1023). Nei vv. 1158-1160 vengono messi in rilievo due casi in cui i colpevoli possono tradire se stessi, rivelando senza accorgersene i propri delitti, come è detto anche nella trattazione lucreziana dei sogni in 4, 1018-9 (multi de magnis per somnum rebus loquuntur/ indicioque sui facti persaepe fuere cf. il commento ad loc. di Godwin, che cita Sall. Cat. 15, 4 e l’incubo di re Filippo in Polyb. 18, 15 e 23, 10). Si tratta, senza dubbio, di un parallelo molto vicino (così come il delirio come malattia dell’anima è ben espresso in 3, 824-7 e ancora, insieme al sonno, in 1, 133, a proposito delle visioni terrificanti). La stessa espressione è ripresa da Tibull. 1, 9, 27, mentre per somnia … morbo cf. Lucr. 1, 132-3. La tradizione onirica greca è molto ampia e offre diversi spunti di riflessione: non mancano celebri sogni e visioni notturne (Agamennone nell’Iliade, Serse nei Persiani di Eschilo, Artabano in Erodoto). Nella Teogonia esiodea, la schiera dei sogni è ricordata insieme a quella serie di esseri divini che Notte aveva generato da sola e che appaiono associati alla sfera dell’aldilà, alla morte e al mondo precosmico, cf. Brillante 1991, 36-41. L’interpretazione lucreziana dei sogni (4, 954-1029) è ben lontana dalle moderne teorie psicologiche e psicoanalitiche dell’inconscio e anche dalle teorie antiche, come il pitagorismo: «dreams, in other words, will always draw upon the events, images, and everyday life, and can invent very few elements of their own; but they give expression, however distorted, to desires that are barred from consciousness and can only emerge when the ego’s defenses relax somewhat in sleep», per citare Gladman-Mitsis 1997, 223; 226

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sull’Epicureismo e i sogni cf. Tsouna 2018, 231-56. Lucrezio riconduce i sogni a semplice riproduzione e continuazione, negli uomini come negli animali, delle sensazioni e abitudini della nostra esperienza quotidiana. Dunque, il sogno del reato commesso non è altro che la riproposizione nell’inconscio di un’esperienza reale già vissuta. Inoltre, nei vv. 1158-1160, Lucrezio porta all’attenzione un fenomeno molto interessante: il sonniloquio. Si tratta di una normale manifestazione dell’attività notturna del cervello, che non si addormenta completamente, ma continua a formulare pensieri inconsci, indipendentemente dal fatto che si stia sognando o meno. È un fenomeno spesso legato al sonnambulismo: in alcuni casi questi pensieri portano a parlare ad alta voce e a formulare anche frasi di senso compiuto, spesso come sintomo di eccessivo affaticamento fisico e mentale o durante gli stati deliranti di una malattia, anche di una semplice febbre (morbo delirantes). Quippe ubi (v. 1158) in ‘incipit’ di verso, è molto frequente in Lucrezio (dodici occorrenze). Inoltre, ci si sarebbe aspettato l’indicativo feruntur, in luogo del congiuntivo ferantur. La forma contratta protraxe, nel v. 1159, sta per protraxisse (cf. 1, 233 consumpse; 3, 650 abstraxe), “si sono smascherati”. Il pensiero è chiarito dal verso seguente, dove in medium dedisse significa “aver fatto conoscere pubblicamente”, portato alla luce (cf. Sen. Ep. 16, 16 multos fortuna liberat poena, metu neminem …). L’espressione in medium … dedisse può anche essere tradotta con “aver dato risalto”.

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1160 et sua celata in medium et peccata dedisse: il verso, così come tramandato, presenta delle criticità. I due principali testimoni OQ leggono et celata in medium et peccata dedisse. Il problema sta nel fatto che, oltre ad avere poco senso la correlazione della congiunzione et…et, non si riesce a formare l’esametro, per la mancanza di due sillabe. Diu è congettura di Marullo, per supplire ad una parola omessa in OQ. Altri emendamenti sono mala di Lachmann, accolta da Munro, tot di Merrill. Diels stampa celata acta in medium et di Orth. Müller propone et bene celata in medium [et] peccata dedisse. M.F. Smith invece rivede il testo e corregge così: et celata alte in medium et peccata dedisse, invece Flores segue l’integrazione ipsi di Büchner, che appare piuttosto insignificante. È fuori discussione che il testo presenti dei problemi, ed è altrettanto impossibile capire quale sia la parola che è andata perduta. L’integrazione apportata da Marullo è più significativa di di Lachmann e di di Merrill. Diels segue Orth e legge e pone et dopo medium. Diu è stata per secoli la migliore congettura proposta, soprattutto per ragioni contenutistiche, dal momento che è altamente improbabile nascondere un reato per molto tempo, senza essere scoperti né dagli uomini né da tantomeno dagli dèi, perché il rischio di poter parlare, senza volerlo, anche nel sonno o in uno stato di malessere delirante, è molto alto. La recentissima integrazione vim di Deufert è una congettura valida per il senso che restituisce al testo (et celatam ⟨vim⟩ in medium et peccata dedisse), ma lo studioso aveva argomentato nel commento critico che accompagna l’edizione pubblicata successivamente nel 2019: «grammatisch bezieht sich 228

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celatam nur auf uim, sachlich auch auf peccata. Zur Verschleifung uim in medium vgl. nur 6, 181 uim expressa; 1, 150 rem e nilo, 1, 198 rem existere». (cf. Deufert 2018, 346-7). Prudentemente nel Kritischer Kommentar, Deufert aveva posto una ‘crux’ prima di celata (p. 346). Accolgo, invece, l’ipotesi di Butterfield 2008, 638-39 che mi pare la più convincente, sia dal punto di vista contenutistico sia da quello paleografico: et sua celata in medium et peccata dedisse. Butterfield argomenta così la sua scelta: «I do not believe in the elision of an iamb in Lucretius and have elsewhere removed by emendation the only example that is offered by our mss. and typically accepted by editors […] as a possible alternative, I suggest sua before celata; it is quite plausible that the short and semantically weak sua was omitted during the transcription of the line».

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1161-1240. Lucrezio introduce il nuovo argomento, l’origine della religione, a partire dalle sue cause primordiali. Non è così difficile da raccontare la storia della genesi dell’ horror, il brivido, il senso del sacro, proprio dei mortali, che spinge a erigere e a frequentare, nei giorni di festa, nuovi templi in tutto il mondo (1161-1168). Come non rivolgere il proprio spirito religioso nei riguardi delle splendide forme divine, dotate di una prestanza fisica stupefacente, che potevano apparire anche, e soprattutto, nei sogni? Gli uomini attribuirono a queste immagini una sensibilità superiore, così come una straordinaria abilità retorica, proporzionate al loro splendido aspetto a alla loro forza. Queste immagini divine furono percepite come immortali, perché la loro facies si rinnovava e la loro forma restava, ed erano ineguagliabili per la loro forza e anche invincibili (1169-1178). Gli dèi apparivano soprattutto nel mondo dei sogni: nella dimensione onirica i mortali riuscivano a vederli in grado di compiere azioni incredibili, senza mai provare alcuna fatica, poiché il timore della morte non apparteneva loro (1179-1182). Inoltre, gli uomini non riuscivano a spiegarsi razionalmente perché il cielo mutasse e vi fosse l’alternanza delle stagioni, e perciò ritennero che gli dèi fossero i responsabili di questi cambiamenti. Fu così che videro proprio nel cielo la sede e la dimora degli dèi, perché è lì che i mortali vedevano alternarsi ogni giorno il sole e la luna e le stelle che vagano in cielo, e i minacciosi lampi, fulmini e temporali, interpretati come sfoghi dell’ira divina (1183-1193). Non può che essere infelice la stirpe umana, se si è rivelata fin dai primordi così irrazionale e superstiziosa. Se non avessero creduto agli dèi in questi termini, non avrebbero causato tante sciagure ai discendenti (1194-1197). Infatti, Lucrezio afferma perentoriamente che la vera pietas non consiste nel pregare e nel rivolgersi ad una statua di pietra, 230

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con il capo velato in ginocchio o, peggio, nell’atto di spargere il sangue di vittime sacrificali sugli altari, ma consiste nel contemplare ogni cosa con mente serena (1198-1203). Agli uomini capita di guardare, tra gli spazi celesti, l’etere ricoperto di stelle splendenti, il movimento del sole e della luna: dinanzi a questo maestoso spettacolo delle leggi della natura, sopraggiunge negli uomini la paura e l’angoscia che tutto questo possa dipendere dagli dèi (1204-1210). Da ciò sorge la domanda sulla genesi e sulla durata della vita sulla terra: c’è un inizio e una fine del mondo oppure esso sarà eterno per volere della volontà divina (1211-1217)? Chi tra gli uomini non si spaventa dell’urto tremendo dei fulmini, oppure chi tra i potenti, per la paura di perdere tutti i loro averi, non teme di essere colpito dall’invidia degli dèi per qualche azione immorale o comportamento superbo (1218-1225)? L’uomo, quando è in preda alla paura di perdere la vita, o si trova dinanzi a difficoltà che sembrano insormontabili – proprio come il comandante della flotta in mezzo alla tempesta o le città in procinto di cadere – allora crede che solo con la preghiera potrà placare le sue paure, ma invano, perché è ben altra la forza nascosta che schiaccia l’umanità (1226-1240). Questa è la più lunga trattazione della natura degli dèi e delle cause e della funzione della religione nel poema intero. L’argomento è stato già toccato anche nei seguenti contesti: 1, 4449, 2, 646-51, 3, 18-24, 5, 146-55, e poi in 6, 68-78. Si può fare riferimento, in particolare, ai due passi più significativi, che trattano il tema: uno nel I libro (a partire dal v. 62), l’altro del libro III (vv. 18-24), nei quali Lucrezio ha esposto razionalmente le conseguenze della religio e ha svelato i misteri sulle dimore divine. 231

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La concezione del divino in Epicuro non può prescindere da quella di Democrito, che anzi ne preparò la strada, anche se la distanza tra le due posizioni è notevole. Non si può parlare, in Leucippo e Democrito, di una polemica anti-teologica a tutti gli effetti, giacché se ne dovevano gettare le basi, attraverso lo sviluppo delle indagini sul mondo interiore della coscienza (cf. Alfieri 1979, 106; Warren 2002, 1-9). In Democrito la concezione degli dèi era fondata sulla gnoseologia e non riguardava l’etica, mentre in Epicuro su esigenze logico-metafisiche e su un ideale etico, così la spiegazione gnoseologica non era immune da oscurità e incertezze. Gli dèi di Democrito erano benefici o malefici, si conoscevano mediante i sensi; gli dèi di Epicuro erano esenti da ogni cura, vivevano negli intermundia e si potevano conoscere solo mediante l’intelletto (cf. Quint. Inst. 7, 3, 5 e August. Ep. 117, 27; Mansfeld 1993, 172-210; Purinton 2001, 181-231 Eckermann 2019, 284-99; Erler 2020, 79-100). Su quale sia la vera natura delle divinità secondo gli Epicurei è in corso ancora un dibattito: da un lato, gli dèi esistono e dunque sono reali (come ritiene Konstan 2011, 53), dall’altro, essi non hanno una esistenza oggettiva ed essa è solamente una conseguenza di un processo psicologico all’interno dell’anima (cf. Scott 1883; Bollack 1975, 225-38; Obbink 1996, id. 2002; Sedley 2011). Per Konstan (tesi “realista”), ciò che scrive Epicuro in Ep. Men. 123-4 sul fatto che gli dèi esistano, non è da intendere che la loro esistenza fosse una semplice costruzione mentale (LongSedley vol. 1, 145). Dunque, gli dèi di cui parla Epicuro sono molto più di meri processi psicologici o costruzioni mentali. Uno degli argomenti su cui si sono fondate le tesi di Long e Sedley dipende essenzialmente da una contraddizione interna nella 232

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costruzione dell’intero universo epicureo, in cui tutto è destinato a morire. In quanto entità atomiche, formate da atomi sottilissimi, come quelli dei simulacra, sembrerebbe assurdo che essi possano essere immortali; sull’argomento Obbink afferma che gli dèi «would be inconsistent with the condition for indestructibility in the Epicurean universe» e conclude che «gods do not have an existence independent of the coalescence of the images by which we perceive them: their existence consists fundamentally in that coalescence» (cf. Obbink 2002, 196). Sedley (tesi “idealista”) ritiene, invece, che gli dèi non sono altro che delle costruzioni del pensiero, e non esistono come qualcosa di vivente (cf. Sedley 1998, 66). Per Wigodsky gli dèi mantengono la loro integrità corporea a causa del loro controllo psichico superiore (cf. Wigodsky 2004). Rimane una difficoltà: cosa impedisce l’incursione di flussi di atomi che possano distruggere la costituzione stabile degli dèi? La risposta probabilmente sta nel fatto che gli dèi sono fatti di una materia che annulla il passaggio di atomi che possano distruggerli. Infatti Cicerone nel Nat. D. 1, 18, 48 chiama i corpi degli dèi “quasi-corpo”, “quasi sangue”, per indicare la composizione atomica estremamente sottile. Dunque la loro composizione sarebbe sottile come quella dei simulacra. Non a caso essi si trovano a comparire nei sogni degli uomini, proprio perché la loro consistenza è quasi impercettibile. Un altro problema consiste nell’individuazione del motivo per cui gli dèi, secondo Epicuro, dovrebbero vivere in un’altra dimensione, se sono imperturbabili e dunque inattaccabili non si comprende perché dovrebbero vivere sospesi negli intermundia (cf. Cic. Fin. 2, 75). Sono gli spazi che Epicuro stesso chiama μετακόσμια, ovvero “lo spazio tra i cosmoi” (Ep. Pyth. 89), cf. anche Obbink 233

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1996, 7 n. 5. L’atteggiamento di Lucrezio in questi versi non è quello della polemica e dell’indignazione, ma quello della compassione nei riguardi degli uomini, accresciuta dalla falsa credenza che gli dèi siano responsabili degli eventi naturali o delle azioni umane. L’impressione è certamente quella che Lucrezio si sia posto in disaccordo con i rituali e le celebrazioni religiose della Roma contemporanea. In realtà, Lucrezio si rende conto che non ci sarebbe possibilità di comprendere la vera realtà e di distinguere il credo vero da uno falso e inautentico, se non dopo aver conosciuto il pensiero di Epicuro, la vera ratio. Lo scopo della teologia epicurea sta tutto nella proposta di Lucrezio: venerare gli dèi e liberarsi dalla superstizione. La critica di Lucrezio non conduceva all’ateismo, come pensavano i suoi detrattori, ma ad una religione purificata, che instaurava una nuova relazione dell’uomo con il divino ed intendeva armonizzare la filosofia, non come una religione popolare fondata sul timore, ma con una nuova religiosità ed un’originale forma di pietas. Nel I libro del De natura deorum di Cicerone, il senatore Gaio Velleio espone la tesi epicurea sulla natura degli dèi, che viene ampiamente confutata dall’accademico Gaio Cotta, che rappresenta il punto di vista dell’autore (cf. sul tema Essler 2011, 129-151; Butterfield 2018, 221-41). Cicerone, in un’altra sede, riteneva che Epicuro fosse abbastanza oscuro per quel che riguarda la spiegazione della natura degli dèi, descritta in altri luoghi come semplicemente “atomica” (cf. Tert. Apol. 47, Lactant. Ira 10, 28), e si mostrava aspramente critico nei confronti di Epicuro in Div. 1, 3, 5 reliqui omnes praeter Epicurum balbutientem de natura deorum divinationem probaverunt. Secondo Plutarco, in un passo molto polemico (contra Epicuri beat. 8, p. 1092 B), invece, il fine 234

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della dottrina epicurea era che il divino non fosse temuto e che gli uomini si liberassero dal turbamento: ma questo scopo sarebbe stato ottenuto molto più facilmente da coloro che negavano l’esistenza degli dèi oppure da quanti ritenevano che gli dèi non recassero alcun danno. In realtà, la pietas è una forma di giustizia e rispetto profondissimo nei confronti degli dèi (cf. anche Cic. Nat. D. 1, 41, 116 quae porro pietas ei debetur, a quo nihil acceperis (sc. secundum Epicurum), aut quid omnino cuius nullum meritum sit ei deberi potest? est enim pietas iustitia adversum deos; cum quibus quid potest nobis esse iuris, cum homini nulla cum deo sit communitas? Sanctitas autem est scientia colendorum deorum. Cf. ThlL s.v. pietas, X, 2088, 4 ss.). Ma quale legge può esserci tra gli uomini e gli dèi, se l’uomo non ha alcuna comunanza con il dio? Se esiste un rapporto di disparità tra uomini e divinità, perché è necessario venerare gli dèi? In Nat. D. 1, 2, 3 Cicerone anticipa il punto fondamentale della discussione tra l’accademico Gaio Cotta e il senatore Gaio Velleio: sunt enim philosophi et fuerunt qui omnino nullam habere censerent rerum humanarum procurationem deos. Quorum si vera sententia est, quae potest esse pietas, quae sanctitas, quae religio? Haec enim omnia pure atque caste tribuenda deorum numini ita sunt si animadvertuntur ab iis et si est aliquid a deis immortalibus hominum generi tributum.

In Nat. D. 1, 20, 56 Velleio spiega che può essere facile liberarsi delle paure e dalle superstizioni, solo se ci si libera dall’idea che gli dèi siano creatori e responsabili di tutto ciò che accade in natura:

235

Commento His terroribus ab Epicuro soluti et in libertatem vindicati nec metuimus eos, quos intellegimus nec sibi fingere ullam molestiam nec alteri quaerere, et pie sancteque colimus naturam excellentem atque praestantem.

Ma Cotta continua a incalzare Velleio: se è vero che gli dèi sono distanti dal mondo terreno e disinteressati alle vicende umane, per quale motivo occorre compiere dei sacrifici? Perché si avverte la necessità di compiere voti? La principale accusa che Cotta rivolge all’epicureismo è che Epicuro avrebbe affermato che gli dèi non esistevano, e che tutto ciò che ha detto sugli immortali era soltanto un modo per stornare le ostilità. Epicuro non poteva immaginare degli dèi simili in tutto e per tutto ai mortali, senza che nessuno di loro si curasse minimamente degli uomini (cf. l’ironico passo di Luciano di Samosata in Bis Acc. 2 ἀληθὴς εὐθὺς ὁ Ἐπίκουρος, ἀπρονοήτους ἡμᾶς (sc. deos) ἀποφαίνων τῶν ἐπὶ γῆς πραγμάτων). Cotta/Cicerone accusa gli Epicurei di aver affermato soltanto a parole l’esistenza divina, ma nei fatti essi l’avrebbero negata: si maxime talis est deus ut nulla gratia nulla hominum caritate teneantur, valeat (1, 42, 124). Cicerone esprime un concetto nuovo, attraverso le parole di Velleio, che parafrasa il modo epicureo di essere ‘credenti’: agli dèi bisogna tributare un culto disinteressato in omaggio alla loro eccellenza (cf. Nat. D. 1, 20, 56 pie sancteque colimus naturam excellentem atque praestantem). La sottile differenza tra Lucrezio e Epicuro, in tema di religione, coincide con il fatto che Epicuro era stato un riformatore religioso e un credente praticante, preoccupato di purificare e interiorizzare la religione tradizionale e di distinguere tra pietas e religio (con un certo orgoglio, nel libro 2 del De natura deorum, Cicerone rivendica la superiorità dei Romani su tutti gli altri popoli per il senso di religio, che viene inteso come cultus deorum 236

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[cf. Nat. D. 2, 3, 8]). Lucrezio identifica la religio con la superstizione, alla quale contrappone una pietas intesa in senso laico e razionale (cf. Summers 1995, 32-57). Egli afferma che la vera devozione consiste nel guardare ogni cosa con mente serena, ovvero che equivale ad affermare l’ideale epicureo dell’atarassia, diametralmente opposto agli stati angoscianti introdotti dalla religio. Chi non conosce la filosofia di Epicuro avrà sempre la tentazione di ricadere nelle vecchie credenze. L’elenco dei fenomeni naturali irregolari nei vv. 1192-1193 del V libro del DRN è la causa, e in un certo senso anche la giustificazione, del credo degli uomini nella loro ostilità e rabbia (iras … acerbas 1195): fulmen 1218-1225, venti 1226-1235 e minacce distruttive nel v. 1193 murmura magna minarum (1236-1240), e nel v. 1221 magnum percurrunt murmura caelum. Il vero epicureo non condanna la fede negli dèi e il rivolgersi a loro in preghiera: questo è affermato in modo particolare dal fedele discepolo di Epicuro, Filodemo di Gadara, nel trattato De pietate (col. 31, 877-896 = fr. 114 Arr2): ovvero, bisognava lasciare agli uomini la libertà di comportarsi come meglio credevano, e di praticare i riti più opportuni. Non è l’atto della fede che gli Epicurei ritengono sbagliato, ma sostanzialmente il suo motivo. La pietas tradizionale è basata su una falsa credenza e la necessità di compiere voti e sacrifici è fondata sulla ricerca di una positiva influenza del volere divino alle richieste e preghiere degli uomini. La vera pratica della fede, la forma autentica di pietas per Lucrezio, è quella di ricevere nella mente di ciascuno le imagines degli dèi, a partire dalla conoscenza anticipata o innata degli dèi, che possano riuscire a tranquillizzare gli uomini dai loro 237

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timori infondati (Lucr. 6, 68-78). I simulacra sono i messaggeri della forma divina (6, 77 divinae nuntia formae). Questo processo mentale è spiegato da Cicerone in Nat. D. 1, 16, 43 grazie al termine che Epicuro indicava con πρόληψις (è una nozione generica che indica ogni oggetto di esperienza, il concetto naturalmente evocato nella mente dal nome di una certa cosa; cf. anche Diog. Laert. 10, 33): Quae est enim gens aut quod genus hominum quod non habeat sine doctrina anticipationem quondam deorum, quam appellat πρόληψιν Epicurus id est anteceptam animo rei quondam informationem, sine qua nec intellegi quicquam nec quaeri nec disputarit potest?

La πρόληψις è rappresentazione mentale a priori della cosa, senza la quale nulla può essere compreso, indagato, discusso. È una vera e propria immagine che deriva da una serie di sensazioni (cf. Diog. Laert. 10, 27), un concetto che comporta l’idea innata di divinità. Cicerone impiega quel termine (innatus in 1, 44), quando espone la teoria epicurea, poiché tutti gli uomini sono nati con l’idea innata dell’esistenza degli dèi (cf. Cic. Nat. D. 1, 16, 43 e 1, 17, 49, cf. Hammerstead 1996, 221-37; Dyck 2003; Essler 2011, 129151): questa nozione, naturalmente, è presente anche in Epicuro, nella lettera a Meneceo (Epicur. Ep. Men. 123-124 “gli dèi non sono concetti derivati dalla sensazione”). Poiché la credenza negli dèi non è stata stabilita da una norma, da un’usanza o da una legge, e persiste un consenso universale e assolutamente unanime, bisogna dedurre che essi esistano perché gli uomini ne possiedono una nozione naturale, innata (per natura, insegnata dalla natura). L’allusione alla πρόληψις epicurea si ritrova nel v. 1206, con l’espressione venit in mentem, esprime il sentimento colto 238

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nell’animo dello spettatore, quando si abbandona ai grandi pensieri del cosmo ordinato. Il lettore (lo spettatore) “sublime”, per citare la felice espressione di Gian Biagio Conte, «sente che il limite delle sue forze inerti e passive si vince solo dopo aver superato il disagio dell’inferiorità, tentando di adeguare la propria coscienza a una esperienza che trascende l’esperienza passiva. La povertà dell’esperienza ordinaria, non illuminata dalla ragione, espone al dubbio la mente (v. 1211 temptat enim dubiam mentem rationis egestas) e lascia che il terrore degli dèi e della morte sia l’esito facile di ignoranza e debolezza» (cf. Conte 1990, 33; Porter 2007, 167-84). Epicuro e Lucrezio credevano entrambi che i fenomeni mentali fossero reali: i concetti hanno la stessa composizione corporea di tutti gli ὑπάρχοντα (cf. Obbink 1989, 201). La vera forma di pietas per Lucrezio è quella di non avere paura degli dèi e di fuggire dall’ansia, placata posse omnia mente tueri (1203). Nel V libro, dopo aver delineato la genesi della religio, Lucrezio passa a deplorare gli uomini primitivi, che hanno lasciato ai discendenti questo retaggio. Quindi sviluppa l’antitesi, che già si trova nel I libro (vv. 80-101), tra la falsa ed empia pietas delle pratiche religiose, osservate ed ostentate solo nella loro esteriorità, e la vera pietas della mente epicurea, che pacatamente contempla ogni cosa. È questa pacatezza che riproduce la serenità divina e stabilisce una pura comunione tra gli uomini e gli dèi. Ad essa Lucrezio contrappone l’inquietudine della superstizione, quale si manifesta sotto lo stimolo dei fenomeni celesti, meteorici e tellurici. La trama delle idee è schiettamente epicurea: innanzitutto un riscontro si può trovare con il proemio del VI libro (vv. 68-79), da cui traspare che Lucrezio, al pari di Epicuro, non vieta che si frequentino i templi della religione tradizionale, ma vuole soltanto 239

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che ciò sia fatto placido cum pectore, con un pacato accoglimento dei simulacra emanati dagli dèi, nel pieno rispetto della religione tradizionale. Epicuro credeva negli dèi e nei benefici della religione ed era assiduo negli atti del culto tradizionale. Questo aspetto è confermato da numerose fonti (Diog. Laert. 10, 10; Cic. Nat. D. 1, 20, 56; Plut. contra Epicuri beat. 21, p. 1102B): osservava tutte le feste e i sacrifici, non per timore dell’ira divina, ma per l’idea che l’uomo doveva avere della loro natura, superiore per sapienza e prestanza. Nonostante ciò, la fama di Epicuro nell’antichità fu quella di essere ateo (cf. Cic. Nat. D. 1, 30, 85 e 1, 43, 121), perché negava la provvidenza, l’immortalità dell’anima e diffondeva la sua dottrina atomistica. Qualora la tesi ‘idealista’ fosse quella che ha reso il pensiero poco chiaro degli epicurei sul divino, non c’è da sorprendersi se Epicuro sia stato considerato un ateo, poiché sarebbe stato difficile, per i credenti nella religione tradizionale, ammettere che l’esistenza degli dèi fosse soltanto nella mente degli uomini. D’altra parte, non ci sono delle prove sufficienti che fanno credere che la tesi “realista” sia quella più corretta, quando Epicuro afferma che gli dèi sono delle entità realmente esistenti: in ogni caso, sia l’esistenza nel pensiero sia l’esistenza corporea hanno la stessa composizione atomica (Lucr. 5, 146-155). Lucrezio non solo non era ateo – anzi, gli apparteneva un profondo senso della pietas – perché possedeva una salda concezione del divino e mirava a liberare l’uomo dalla paura e dall’angoscia, che derivavano dal credere in divinità crudeli, piene di odio e invidia, inflessibili e implacabili (cf. Summers 1995). Ammessa, quindi, l’esistenza degli dèi, Epicuro e Lucrezio si distaccano dalla religiosità popolare per raggiungere un 240

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apprendimento adeguato della natura divina ed evitare qualsiasi forma degenerativa della pietas. Le correnti filosofiche in cui emergevano tendenze di ateismo erano altre (cf. Obbink 1989; Whitmarsh 2015), e si ritrovano soprattutto nei Sofisti, tra cui il celebre frammento attribuito a Crizia del dramma satiresco Sisifo (88 B 25 DK). Secondo Crizia, la religione fu un’invenzione degli uomini, che si sarebbe dovuta utilizzare come deterrente per evitare che si commettessero reati e violenze, in modo tale da poterli maggiormente educare a gestire la paura. Non è da escludere che vi sia un legame con il testo del sofista, dal momento che la sezione di versi sull’origine della religio segue immediatamente quella sulla nascita delle leggi. Gli dèi di Crizia, dunque, sono un’invenzione umana, nata per porre un freno alla violenza tra gli uomini e per scatenare la paura delle punizioni, conseguenti alle loro colpe. Proprio nei vv. 1156-7 vi è un riferimento evidente ai colpevoli, che nel sonno si lasciano sfuggire le loro colpe (sul parallelo tra i due testi cf. Gigante 1957, 97-98). Non è difficile spiegare quali siano state le cause della diffusione dei culti tra gli uomini, che hanno riempito gli uomini della paura all’origine dell’istituzione di feste rituali e preghiere. Nei vv. 1161-1193 Lucrezio spiega le ragioni del culto tradizionale degli dèi sulla base dell’idea che gli uomini si erano creati degli esseri divini. Secondo la concezione di Lucrezio, l’uomo si immagina gli dèi come degli esseri sovrumani, connotati da una bellezza e una possanza superiori: egregias facies 1170, mirando corporis auctu 1171, voces superbas…pro facie praeclara et viribus amplis 1173-1174, multa et mira efficere 1181-1182. Al capitolo 46 del De natura deorum Cicerone fa un’indagine sulla 241

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forma, vita, attività, moti dello spirito della divinità. Si deduce che, per quanto riguarda l’aspetto degli dèi, essi hanno una sembianza umana, e appaiono come tali in sogno e nella veglia, secondo le fattezze umane. Si rivolge a Lucilio e a Cotta. Una natura superiore è anche la più bella. Se la figura umana è superiore a tutti, quella divina avrà le fattezze umane. Gli dèi sono beati e hanno una forma umana. Questa forma, però, non è corporea ma è simile al corpo, non ha sangue, ma è di una sostanza sottilissima. Talvolta gli dèi compaiono nel sonno e sono dotati di una bellezza e di una forza superiore e permanente, che dà l’idea dell’invincibilità e dell’immortalità degli dèi (1175-1180). La prima causa della diffusione dei culti (1169-1182) è costituita dalle visioni (simulacra) che appaiono agli uomini, soprattutto mentre dormono, e che provengono fuori dai corpi degli dèi e ne garantiscono la loro esistenza.171 Questi ci spiegano non solo l’esistenza degli dèi, ma anche la loro natura, la loro grande dimensione e bellezza, la loro forza, eternità, felicità. La diffusione della credenza nelle divinità è nata a partire dalle visioni di dèi sia di giorno sia, in particolar modo, di notte. Ritenevano che gli dèi fossero degli esseri molto più felici degli uomini, perché erano liberi dalla paura della morte e potevano compiere varie imprese 171

C’è un collegamento con la fisica epicurea per la formazione e la spiegazione della visione. Le cose nascevano dalla collisione di atomi. Ci sono molti tipi di atomi, che variavano nella misura e nella forma. Secondo Gaio Cotta in Cic. Nat. D. 1, 27, 75 questi dèi epicurei sono delle ‘divinità ombra’ o delle ‘immaginazioni vuote’. Naturalmente si tratta di una derisione delle credenze epicuree. Ma qual è la differenza tra le visioni degli dèi, i sogni e le apparizioni? La teoria della visione delle immagini è in DRN 4, 469 ss. Le apparizioni degli dèi sono immagini che sembrano emanarsi spontaneamente. 242

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senza sforzo. Lucrezio stesso ribadisce di nuovo questa idea. La forma in cui le visioni degli dèi appaiono agli uomini è soltanto il caso specifico del modo in cui noi percepiamo gli oggetti fisici, da sottili particelle chiamate εἴδωλα (simulacra) che sono spinte dalla superficie e viaggiano finendo per colpire i nostri organi sensoriali, come è ben spiegato in Lucr. 4, 26 ss. La differenza tra gli dèi e i simulacra è che questi ultimi sono così rarefatti e sottili che non possono essere percepiti dai sensi ma soltanto dalla mente. La dinamica di tali visioni è ben espressa in 4, 722-822, 5, 148-9, 6, 66-67; Epicur. fr. 353 Us.; Cic. Nat. D. 1, 19, 49. Gli dèi si manifestavano come corpi del cielo che muovevano le stagioni, che ritornavano in un ordine fisso. È proprio questa la seconda causa che ha spinto gli uomini a credere che il mondo fosse governato da entità sovrannaturali. Dunque, gli uomini vedono il costante, continuo e ordinato moto dei corpi celesti in cielo e lo attribuiscono agli dèi, come se fosse determinato da loro (vv. 1183-1187). Dall’altra parte osservano i terrificanti fenomeni del cielo, i tuoni e i lampi e le tempeste, e pensano che siano un’indicazione della rabbia divina (vv. 1191-1193). Queste sensazioni naturalmente sono false, perché non sono altro che un modo per fuggire, come se fossero una via di scampo (perfugium, v. 1186), dalla comprensione della vera ratio. Lucrezio dimostra che gli dèi non prendono assolutamente parte al governo e agli eventi del mondo, e non si muovono né in favore né contro gli uomini. L’enfasi di questi versi è incentrata sul sentimento della paura, condizionato dal tradizionale credo religioso, ed è molto importante dal punto di vista strettamente tematico. Riprende diversi momenti del DRN in cui vengono chiamati in causa gli dèi 243

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e la loro funzione. Già a partire dai primi versi del I libro, si può comprendere quale sia la vera teologia lucreziana: l’unica entità che si può, a buon diritto, considerare divina è Epicuro. Se gli dèi tradizionali generano nell’uomo dei sentimenti di horror e di religio e insinuano nel suo animo la paura che lo spinge a cercare benevolenza, attraverso i sacrifici, Epicuro rappresenta il rovesciamento di questo schema. Il Maestro di Lucrezio, proprio come se fosse un dio, è raffigurato come un guerriero impegnato a combattere proprio contro la figura mostruosa che rappresenta la superstizione (1, 62-71), alla quale il genere umano si è sottoposto.172 In seguito, Lucrezio rivela la terribile storia del sacrificio di Ifigenia (1, 84-109), vittima della superstizione causata dall’horror insinuato dagli dèi nell’animo degli uomini timorosi.173 172

L’indagine di Velleio, l’epicureo protagonista del I libro del dialogo ciceroniano De natura deorum, vuole far credere che Epicuro sia alla stregua di un dio, sia il più grande degli dèi (cf. divinizzazione di Epicuro in Lucr. 3, 14-15 e 5, 8-9; e paragonato a Eracle in 5, 18-23). Lui fu l’unico a comprendere che gli dèi sono esistiti perché la natura ha impresso il concetto di divinità nella mente di tutti. 173 Il passo della morte di Ifigenia (1, 80-101) ha un forte accento polemico: Lucrezio lì si serve del procedimento retorico della relatio criminis, cioè il rovesciamento dell’accusa contro l’accusatore stesso, mostra che è stata proprio la religio a dare prova di empietà offendendo la dignità umana. Il passo è dominato da un forte sarcasmo e notevole è l’impatto emotivo di fronte all’innocente Ifigenia. Come è ben noto, Lucrezio si attiene alla versione cruenta del mito raccontata da Eschilo nell’Agamennone 218 ss., ancora una volta la fonte lucreziana risulta essere greca. Il suo punto di riferimento del mito e della visione filosofica del mondo appare sempre quella greca. In parte qui riecheggia il pathos tragico. In 1, 83 religio peperit scelerosa, atque impia facta Lucrezio sa che fu proprio la religione a produrre scellerati delitti. 244

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Lucrezio esamina il primo insorgere dell’idea del divino nell’animo degli uomini e il suo progressivo consolidarsi. All’origine vi è l’horror, il brivido, la sensazione di paura e di smarrimento. La paura costringe gli uomini alla pratica del culto e la genesi della religio muove da due fonti: una che è frutto della fantasia umana, l’altra che nasce da una consapevole ammirazione degli uomini per la maestà dell’universo. Il finale catastrofico, nei vv. 1233-1240, è un vero e proprio ‘topos’ letterario, che nel DRN assume le caratteristiche di uno schema letterario, per il suo uso sistematico. I finali escatologici compaiono nel DRN nei libri 1, 2 e 6 (cf. 1, 1102-1114; 2, 11441149 e 1173-1174; 6, 680-693). Tuttavia, gli scenari catastrofici non si trovano soltanto nei versi conclusivi di un libro, ma spesso sono presenti all’interno dei libri, solo come sezione conclusiva di un determinato argomento, come accade nel libro 5 (cf. 5, 370425; 5, 1233-1240) e nel libro 6 (6, 596-607). I modelli a cui Lucrezio si richiama, e a cui poi anche Virgilio si ispirerà (cf. G. 1, 471-74), sono arcaici, come Omero e Esiodo: la Teomachia omerica in Il. 21, 54-66 e la Titanomachia di Esiodo (Theog. 664733, cf. la ripresa del modello nella Gigantomachia lucreziana, cf. 5, 114-121) e la Tifonomachia (Hes. Theog. 820-868), sul tema cf. Fowler 1997, 77-122 e più recentemente Galzerano 2017. Infatti, in tutti i testi figurano le stesse scene chiave e lo stesso tipo di immagini apocalittiche: il tuono e il fulmine, il terremoto, il richiamo dall’Oltretomba, la distruzione del cielo, l’incendio sulla terra e il ritorno al Caos primordiale. L’uso del finale catastrofico è anche frequente nelle chiuse dei miti nei dialoghi di Platone (cf. “il mito di Er” in Resp. 614b-621c; finale del Phd. 109a-114d).

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Bibliografia selettiva Avotins 1998; Bruno 2019; Bruno 2020; Butterfield 2008; Eckerman 2019; Fowler 1997; Galzerano 2017; Konstan 2011; Sedley 2011; Too 1991. 1161-1168. L’ ‘incipit’ mediante l’avverbio di tempo (nunc) è piuttosto comune nel DRN e introduce la trattazione di un nuovo argomento. Un unico lungo e complesso periodo, che occupa sette versi (1161-1168), serve ad esprimere il concetto principale che si ritrova alla fine del v. 1168: non è difficile mettere in luce i motivi per i quali l’idea del divino si sia diffusa tra i popoli (non ita difficilest rationem reddere verbis). Vale la pena di riflettere sulla struttura compositiva di questi versi, che appare simmetrica: la lunga prolessi inizia con nunc quae causa … e prosegue con i due versi successivi. In seguito, la tradizione manoscritta riporta un verso di dubbia autenticità, il v. 1164, che rompe l’equilibro con una ridondante ripetizione. Al centro, il v. 1165, che incomincia con unde etiam nunc, risulta essere la coordinata alla relativa iniziale, a cui seguono altri due versi, che precedono la proposizione principale dell’intera sezione di versi, non ita difficilest rationem reddere verbis: Nunc quae causa deum per magnas numina gentis pervulgarit et ararum compleverit urbis suscipiendaque curarit sollemnia sacra, [quae nunc in magnis florent sacra rebus locisque] unde etiam nunc est mortalibus insitus horror,

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1165

Commento qui delubra deum nova toto suscitat orbi terrarum et festis cogit celebrare diebus, non ita difficilest rationem reddere verbis.

In questa sezione di versi Lucrezio spiega come gli uomini abbiano acquisito la consapevolezza che gli dèi esistano – sia che si tratti di percezione mentale sia reale della loro immagine – e siano creduti gli autori e i dominatori della natura e dei destini di tutti gli uomini. Nel racconto sull’origine della religione, Lucrezio focalizza la sua attenzione, con ironia e amarezza, sull’assurda e incessante diffusione di altari, templi e celebrazioni di cerimonie religiose, a partire dai tempi più antichi fino ad arrivare alla sua contemporaneità. È ben noto che, secondo Epicuro, l’esistenza degli dèi era, a tutti gli effetti, una certezza (cf. Cic. Nat D. 1, 43, 120-121; 1, 44, 122). Epicuro, inoltre, ammetteva la possibilità di rendere onore agli dèi, come riconoscimento della loro eccellenza, ma considerava la presenza degli altari e la celebrazione di cerimonie in onore degli dèi come un segno piuttosto evidente di superstizione e del dannoso timore verso l’ignoto, l’horror (v. 1165). Recentemente Eckerman 2019, 292 ha dimostrato che i vv. 1161-1193 non forniscono alcuna prova a favore della tesi “realista” di Konstan. All’avverbio nunc, generalmente, segue un verbo con il quale Lucrezio o si rivolge in prima persona e dichiara che si appresta a chiarire un qualche principio della sua esposizione filosofica (cf. 2, 62), oppure si rivolge al lettore, per invitarlo a prestare attenzione e ad ascoltare (cf. 1, 921). Qui, invece, il periodo sembra snodarsi lento e faticoso, come se Lucrezio fosse concentrato del tutto sul tema che si appresta a trattare. Infatti, al posto di un unico verbo, appare un lungo periodo ricco di 247

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coordinate (pervulgarit, compleverit, curarit) a cui fanno seguito tre interrogative (quae…florent, unde…est, qui…suscitat). Nelle diverse subordinate in soli otto versi è particolarmente rilevante la ripresa anaforica di nunc in ‘incipit’ e al centro del verso. Una tale anafora indica uno sguardo attento e constante, che si mostra sempre rivolto al presente, dal momento che la risposta al quesito su quale sia la causa della nascita dei culti religiosi e della fede negli dèi è sotto gli occhi di tutti. Il modo di prendere in esame questo dato di fatto è un ulteriore esempio del metodo analogico, tipico dell’indagine storica. La causa, sia che si tratti del fenomeno nelle sue origini, sia che venga esaminato nei tempi contemporanei a Lucrezio, risulta sempre la stessa: l’horror. 1161 quae causa dipende, come le altre interrogative, dal v. 1168, mentre per magnas … gentis si trova alla stessa maniera in clausola di verso anche in 5, 20. La dieresi bucolica isola i due termini più importanti (numina gentis) e il loro accostamento conferisce un particolare rilievo. Da notare, come fanno Ernout e Robin, la solenne perifrasi costituita da deum…numina, cf. 6, 70. Lucrezio nelle prime tre proposizioni coordinate adopera tre verbi che indicano rispettivamente la diffusione, il riempimento e l’interesse con cui i primi culti religiosi hanno preso vita nelle città antiche. 1161 pervulgarit: il prefisso per è particolarmente significativo al fine di indicare una diffusione capillare dei culti religiosi (cf. OLD s.v. 2, come in Cic. Sull. 42 pervulgari atque edi populo Romano imperavi e EM, s.v. volgus 79, “volgo,-as: répandre dans la foule, propager, divulguer”). Non manca un certo 248

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disprezzo da parte di Lucrezio nell’adoperare questo termine, come tutto ciò che ha a che fare con il popolo e la superstizione: infatti, tra i principali significati c’è anche quello di ‘prostituirsi’ (cf. OLD s.v. 1 e EM, s.v. volgus 749 “sensu obsceno: «prostituer»”). Dal punto di vista stilistico si crea l’‘enjambement’ deum pervulgarit, proprio per mettere in rilievo l’importanza che assume questa prima azione. Alla diffusione del culto religioso si lega la prima coordinata retta da compleverit, che indica come le città siano state riempite, in tutti gli spazi possibili, dagli altari per gli dèi (cf. OLD s.v. compleo 5, vedi anche Lucr. 2, 324 magnae legiones cum loca cursu camporum complent). Il genitivo ararum si trova al posto del più comune ablativo strumentale: questa scelta sarebbe dovuta, a detta di Ernout-Robin, per analogia, alla costruzione di plenus. Ararum: il riferimento alle are potrebbe richiamare alla mente il ben noto contesto lucreziano del sacrificio di Ifigenia, 1, 80-101, in particolare al v. 84 Aulide quo pacto Triviai virginis aram, cf. Hardie 1984, 406-12; Piazzi 2011, ad loc. Non è da escludere anche un riferimento all’Ara Massima di Ercole Invitto a Roma, dal momento che è stato il più antico altare situato nel Foro Romano, il primo centro di culto dell’eroe costruito presumibilmente nel 495 a.C., nel sito in cui Ercole uccise Caco. Si attribuì ad Evandro la sua edificazione (cf. Prop. 4, 9, cf. Hutchinson 2006, ad loc.; Fedeli-Dimundo-Ciccarelli 2015, ad loc.). 1163 suscipiendaque … sacra: il verso, scandito dal lento ritmo spondaico, introduce il solenne concetto che esprime. Le città, dopo che è stato diffuso il culto religioso, vengono 249

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riempite di altari e sono pronte ad accogliere i riti sacri. Il costrutto formato da curo (qui al tempo perfetto, forma sincopata, cf. v. 1015) unito al gerundivo predicativo non è una combinazione molto frequente, a differenza del caso in cui il verbo fosse seguito da ut e congiuntivo (OLD s.v. curo 6b). Il nesso allitterante sollemnia sacra è probabile che si richiami, forse allusivamente, al v. 1, 96 sollemni more sacrorum, al fine di rievocare il drammatico episodio mitico del sacrificio di Ifigenia (cf. Massaro 2010, 2646), grazie al quale Lucrezio, per la prima volta nel DRN, affronta criticamente il problema della religio come atto e manifestazione di empietà. 1164 [quae nunc in magnis florent sacra rebus locisque]: Marcus Deufert ritiene che il v. 1164 sia da espungere (Deufert 1996, 295-6; riconfermato in Deufert 2018, 1178), per una serie di ragioni che ho ritenuto condivisibili. Se si conserva il v. 1164, come tramandato dalla tradizione, sacra … quae sacra è un’epanalessi, ripetizione in questo caso funzionale dopo la relativa introdotta da quae. In genere, l’epanalessi ha la funzione di conferire vivacità ed espressività all’esposizione (cf. 5, 951): qui, invece, insieme a suscipienda curarit suggerisce un’atmosfera di solenne formalità, che è propria delle attività di culto pubbliche, come indicato da magnis … rebus locisque v. 1164. L’epanalessi è un’eredità greca, in particolare di Omero e degli Alessandrini (cf. Aicher 1992, 139-58) anche per le variazioni della quantità sillabica, molto comuni nella poesia latina: ad esempio nel v. 1163, la prima sillaba di sacra è lunga, mentre è breve nel v. 1164. Il gruppo consonantico muta più liquida -cr- non allunga necessariamente la sillaba precedente, così che la parola può avere 250

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una scansione diversa: l’uso di questa variante nella scansione è un procedimento particolarmente comune al manierismo dei poeti Alessandrini e dei successori romani (Catull. 62, 5; Verg. Ecl. 3, 79). Altri esempi nel DRN sono in 3, 145 e 4, 1222 quae patribus patres tradunt, 1259 crassaque conveniant liquidis et liquida crassis (cf. anche Munro in 4, 1259, Austin su Verg. Aen. 2, 663, Nisbet-Hubbard su Hor. Carm. 1, 32, 11); invece, in Ovidio c’è una ripresa dell’esercizio stilistico proprio con l’aggettivo sacer in Fast. 4, 749 sive sacro pavi, sedive sub arbore sacra. David Butterfield riconosce che la ripetizione di sacra non è proprio felice dal punto di vista stilistico (Butterfield 2008, 186), ma, nonostante tutto, decide di stampare il testo: «we have with sacra in 1164 an artful variation in prosodic quantity eclipsed by the fact that it is an otiose and oddly-placed repetition to which cannot be attributed even the least poetic merit», e continua: «it seems very likely that this sacra has entered the line from its place in 1163». La ripetizione, oltre a essere poco efficace, dal punto di vista poetico appare un errore. Il ms. Q omette sacra, che è tràdito da O. Secondo Johann Kaspar von Orelli, l’epanalessi non c’è, così come la metatesi della quantità sillabica di sacra. Orelli corregge sacra con un altrettanto poco plausibile stata, forse suggestionato da Catone in Fest. 466 L. Stata sacrificia sunt, quae certis diebus fieri debent … Sollemnia sacra dicuntur, quae certis temporibus annisque fieri solent. Bentley preferisce una radicale espunzione, mentre Forbiger propone una soluzione senza senso e metricamente scorretta, strata. Per quel che riguarda il contenuto, vedo un’allusione implicita ai miti degli dèi Dioniso e Demetra, famosi per essere dei viaggiatori del mondo, da cui importano culti in loro onore, cf. 251

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Hom. Hymn Dem. 270-4 e 473-82; Eur. Bacch. 13-22. Secondo Giussani, magnis in rebus avrebbe il significato di “in grandi occasioni”. Martha 1873, 363 afferma che: «Lucrèce semble avoir eu en vue la sombre terreur qu’ispiraient le cultes étrangers». È probabile che si riferisca ai culti egiziani o di Cibele, che da poco erano stati introdotti, o si stavano diffondendo a Roma nel I sec. a.C. Non è possibile dimostrare che Lucrezio possa alludere alla diffusione dei culti orientali a Roma, secondo Costa. Secondo Ernout e Robin la possibilità di un riferimento ai culti orientali a Roma sarebbe motivata dalla presenza di etiam nunc. Anche se è possibile, non è dimostrabile e si tratta di una interpretazione comunque vaga. In sostanza, Lucrezio deplora il crescere della superstizione, nonostante essa si stia sviluppando in un clima di splendore e di ricchezza dei costumi e della civiltà. Il senso che attribuisce Munro appare più complesso, forse perché troppo ristretto, dal momento che il contrasto tra la civiltà primitiva e quella avanzata appare fortemente sentito. La trattazione storica porta necessariamente a una razionalizzazione di questi racconti mitici (Calame 1999; KonstanRaaflaub 2010). Rimane, però, il fatto che la causa che ha portato alla formazione dei riti religiosi è stata l’ignoranza e la falsa interpretazione dei fenomeni naturali, non l’opera di un solo individuo o, allegoricamente, di una divinità. Sollemnia in nesso allitterante con sacra (spesso unito anche a sacrificia) assumerebbe il significato di ‘sacrifici solenni o rituali solenni’: l’aggettivo qui non sarebbe da intendere soltanto come ‘solenne’ ma, come ben interpreta Costa, “established”, “customary”, dunque ‘annuale, stabilito’ (cf. Lucr. 1, 36 sollemni more sacrorum). Sollemnis è prevalentemente utilizzato in contesti di 252

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questo tipo (cf. Cic. Tusc. 1, 47, 133 ad sollemne et statum sacrificium curriculo vehi). Dal punto di vista etimologico, il termine non ha un’origine molto chiara: è probabile che possa essere preso in considerazione come se fosse un composto, formato da sollus, come primo termine, e da annus, più incerto, come secondo, proprio come accade a perennis, ad esempio (cf. EM, s.v. sollemnis 633). Da quest’ultimo, forse, il significato di ‘annuale’. Secondo Deufert 1996, 296, invece: «Sollemnis heiss bekanntlich “festlich” und “regelmässig widierkehrend”; der Interpolator wollte an dieser Stelle (wohl zu Unrecht) die zweite, bei Festus in Verbindung mit sacra eigens hervogehobene, Bedeutung sichergestellt wissen, indem er betont, dass die einst eingerichteten, (seiner Meinung nach) jährlich wiederkehrenden Feste auch heute noch Bestand haben». L’inutilità della ripetizione di nunc nei vv. 1164-1165 è un’ulteriore conferma che il v. 1164 appesantisce il racconto lucreziano. Qui riporto una parte delle argomentazioni di Deufert 1996, 295: «denn die relativische Ergänzung, dass die jährlich sich wiederholenden Riten auch heute an grossen Stättern stattfinden, ist entbehrlich und an dieser Stelle, wo noch nach den Ursachen der Kulte gefragt wird, störend, da die Auswirkungen der Göttervehrung bis zur Gegenwart erst ab Vers 1165 zum Thema werden». Il senso di rebus non è affatto chiaro e ha causato molte discussioni. Potrebbe essere astratto (‘potere’, ‘proprietà’), associato al concreto locis, oppure combinato ad esso, come se fossero un’endiadi. Res, secondo la traduzione proposta, potrebbe significare o ‘stati e luoghi civili’ oppure può significare ‘proprietà’, ‘ricchezza’ (cf. OLD s.v. res 14, 16). Costa, ad 253

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esempio, sceglie di tradurre con ‘in great and powerful places’, in alternativa potrebbe essere un’espressione per riprendere magnas … gentis … urbis (1161-2). Secondo Munro il v. 1164 sarebbe da interpretare così: “rites now in fashion on solemn occasions and in solemn places, from which even now is implanted in mortals a shuddering awe which raises new temples of the gods over the whole earth”. Dunque, i sollemnia sacra avrebbero contribuito a far erigere dei templi grandi, dai quali sarebbe scaturito l’horror, quel senso di paura per il mistero del sacro, che fino a tempi ancora più recenti porta ad erigere templi. La posizione di sacra è completamente errata (cf. sulla variazione prosodica nella ripetizione l’utile articolo di Hopkinson 1982, 162-77), così come la ripetizione di nunc, che si ritrova nel v. 1165 è stilisticamente sgraziata. 1165 unde, in ‘incipit’ nel v. 1165, è da riferirsi a sacra: sta a significare qua ex causa. L’enfasi sprezzante di Lucrezio viene messa in risalto da etiam nunc: anche in tempi di avanzata civiltà l’horror, che è insito negli uomini, riesce a far presa sulle loro coscienze e incrementare timori. Insitus horror: la dieresi bucolica e la posizione in clausola conferiscono un singolare rilievo al concetto di horror. Insitus è il participio perfetto di insero, che ha il significato di ‘innestare’, ‘inculcare’, ‘imprimere’ e che spesso è costruito con la preposizione in seguita dall’ablativo o dal dativo, in senso figurato (cf. OLD s.v. insero 3, Cic. Verr. 5, 139 causa… in animo sensuque meo penitus adfixa atque insita est; Sen. Ben. 2, 26, 1 insitum mortalitati vitium se suaque mirandi). Mortalibus si trova in una posizione di netto rilievo, perché isolato fra il semiquinario 254

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e la dieresi bucolica: l’immagine che ne viene fuori si può ben accostare al già citato contesto del primo libro (1, 65 horribili super aspectu mortalibus instans). L’espressione insitus mortalibus sembra proprio mostrare quel particolare senso di viva emozione, un terrore misto a smarrimento, che disorienta e schiaccia l’uomo dinanzi a ciò che avverte come ignoto o che sente superiore alle sue forze umane (cf. 3, 29 percipit atque horror, quod sic natura tua vi). Questa terribile forma di paura, di cui parla Lucrezio, viene identificata con la forza che ha spinto gli uomini a costruire nuovi templi e ad istituire nuove feste e rituali. Il nucleo semantico di horror sembra essere quello di “essere irto, spinoso, arruffato” (Walde-Hofmann, 659), ‘to be stiffly erect, shudder’, essere rigidamente eretto, rabbrividire (cf. De Vaan, 290). Varrone si esprime così in Ling. 6, 45 in corpore pili, ut artista in spica hordei, horrent, nonostante Ernout e Meillet (cf. EM s.v. horreo 299) si mostrino piuttosto scettici riguardo a questa etimologia, e guardino di più al legame con hordeum. Sta di fatto che sarebbero due gli sviluppi semantici: il primo indica qualcosa che è irto e dunque fa paura, il secondo, qualcosa che ha i peli ritti perché ha paura. Va tenuto presente che horror, con accezione magico-religiosa, è avulso dalla nozione di irto (come in Serv. ad Aen. 1, 165 horror plerumque ad odium pertinet, plerumque ad venerationem). L’accezione principale del termine, “avere i peli ritti per la paura”, esprime in maniera circostanziata una sensazione precisa: l’orrore è saevus 12, 406; 2, 559 e frigidus 2, 755, ed è in grado di atterrire e di far rizzare i capelli, secondo il significato originario 4, 280 e 12, 868 (cf. ThlL VI, 2999, 25 ss.). L’orrore sacro provoca una ‘paura-attrazione’, che è insita nel senso religioso (cf. 3, 28-30 dove l’horror si lega alla voluptas, 255

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concetto che è alla base del senso del credo lucreziano; cf. von Albrecht 2005, 233-4). È interessante che Maltby, s.v. horror 283, rinvii a dolor e in particolare ad un contesto religioso tardoantico (Cassiod. in psalm. 7, 17, 340 dolor … dictus est quasi domabilis horror). Dunque, l’horror sarebbe una vera e propria reazione istintiva, ad esempio allo scoppio di una tempesta (horrescant in 6, 261) e, anche in senso traslato, nell’ambito politico, potrebbe sembrare pure logico che Lucrezio arrivi a chiamare gli Scipioni belli fulmen, Carthaginis horror (3, 1034), in contesti in cui riunisce, attraverso delle metafore, le idee della tempesta e dell’orrore. È piuttosto sorprendente che Lucrezio, a dispetto del suo razionalismo, dimostri di capire che l’orrore sacro sia un fenomeno istintivo, innato nell’uomo. Altrettanto frequente nel lessico lucreziano è il sinonimo di horror, ovvero terror (cf. von Albrecht 2005, 233-34). In Ennio, ad esempio, si trovano riunite le due radici (terr- e horr-), in un verso che si riferisce alla guerra (cf. Ann. 309 Sk. Africa terribili tremit horrida terra tumultu). Il terror, originariamente, si riferisce al fenomeno che provoca la paura, l’horror, invece, fa riferimento alla reazione della persona alla paura, il ‘rizzarsi dei capelli’, la ‘pelle d’oca’, cf. i seguenti contesti: perterricrepo sonitu 6, 129; terrifico sonitu 6, 388; cf. 6, 155 terribili sonitu (del fuoco; cf. horrisono … fragore 5, 109); ma anche agli incubi (exterretur 4, 1022; terrificant 4, 34; cf. horrifice 4, 36) o alla pena di morte (horribilis 3, 1016). Un sinonimo adatto alle persone terrorizzate è percussi; divom percussi membra timore (5, 1223).

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1166-1167 delubra deum … celebrare diebus: da notare l’allitterazione, DElubra DEum, simile a sollemnia sacra cf. 2, 352. Cf. EM, s.v. delubrum 168. La maggior parte delle volte è utilizzato al plurale e sta a indicare i templi e i santuari. Diverse sono le sfumature etimologiche che sono state date al termine, ad esempio cf. Serv. ad Aen. 2, 225 delubrum dicitur quod uno tecto plura conplectitur numina, quia uno tecto diluitur, ut est Capitolium, in quo est Minerva, Iuppiter, Iuno. Inoltre, Servio Danielino, nel commentare lo stesso lemma, riporta la spiegazione etimologica di Varrone, che riprende la stessa affermazione di Servio (cf. anche Macrob. Sat. 3, 4, 2). Dunque, delubra deum non è un’allitterante ‘iunctura’ elaborata da Lucrezio, dal momento che già si trova in Cic. Cat. 4, 18; Vatin. 10; Sall. Cat. 12, 4. In Lucrezio invece è presente in 5, 308; 5, 1201; 6, 75 (sul verso cf. Godwin ad loc.; Eckerman 2019, 294-5); 6, 417; 6, 1267. Di sicuro, vuole indicare un preciso luogo di culto degli dèi tradizionali di Roma, che coinciderebbe con una prima struttura arcaica di tempio. La presenza dell’aggettivo nova fa risaltare la scelta lessicale dell’arcaismo delubra. La ‘iunctura’ delubra deum è retta dal verbo suscitare, che letteralmente sta a significare ‘far innalzare’, ovvero ‘sorgere’, ‘costruire’ (cf. OLD s.v. suscito 2b) edifici, e dunque templi, per dare l’idea dell’atto materiale della costruzione. L’ ‘enjambement’ orbi terrarum è una forma di ablativo arcaico in –i, noto allo stile lucreziano (cf. 2, 543; 5, 74; 5, 707; 5, 1346; 6, 629), era stato già usato da Cic. Arat. 283, se recipit sedes; huc orbi quinque tributae Il verbo cogere ha il significato di ‘radunare’ (cf. OLD s.v. cogo 2, 3, 7), in questo caso le folle a frequentare i templi e i luoghi di culto nei giorni di festa, festis … diebus in iperbato. 257

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Bisogna sottintendere il suo oggetto, homines, e nel verbo è rintracciabile il senso di una forma istintiva di raccoglimento e compartecipazione da parte degli uomini, quasi per scongiurare la paura contro questa nuova forma di superstizione e di credo, che non nasce in modo spontaneo e veramente sentito, ma da un’attrazione esercitata da una forza incontrollabile. L’oggetto sottinteso di celebrare è delubra. 1168 non ita difficilest rationem reddere verbis: La posposizione della sentenza principale alla fine del lungo periodo, qui dopo ben otto versi, non è un procedimento sintattico ignoto, ma ha in sé la funzione di prendere meglio in esame l’argomento, a partire da una serie di ‘exempla’ che vengono appositamente inseriti per introdurre e poi spiegare in dettaglio l’argomento. Dunque, non è difficile argomentare a parole quale sia stata la vera causa della nascita del culto delle divinità tra gli uomini. L’espressione rationem reddere sembra deliberatamente sottolineare il contrasto tra la spiegazione razionale di Lucrezio e la paura irrazionale ispirata dal credo e dalla pratica religiosa. La ‘iunctura’ è completamente lucreziana (cf. un uso simile in Lucr. 2, 763 perfacile extemplo rationem reddere possis; inoltre 2, 987; 3, 178; 4, 175 nella stessa clausola ripetuta rationem reddere dictis), e fa parte di una delle varie espressioni ripetute di Lucrezio, che rappresentano un valido argomento di indagine (cf. Minyard 1978 e Wills 1996 e Schiesaro 1990b sulle ripetizioni in Lucrezio). Spesso ratio, termine chiave dell’indagine lucreziana sulla natura, è accompagnato dall’aggettivo vera che, nonostante qui non sia da sottintendere, in realtà, è il metodo e la chiave di lettura e di risoluzione, che accompagna la dissertazione su 258

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qualsiasi argomento. Non ita difficilest è anch’essa una formula piuttosto ricorrente nella prosa (cf. Cic. Fam. 10, 25, 3 plura me scribere … non ita necesse arbitrabar, e Quint. Inst. 2, 5, 18 non ita difficilis … quaestio). 1169-1182. L’esistenza degli dèi è stata determinata dal concetto di innatismo teologico, secondo Epicuro. A parlare della πρόληψις, concetto innato del divino, fu Diogene Laerzio (10, 58), che riporta l’idea di Epicuro in merito: questo concetto fu ben argomentato da Velleio, l’epicureo del De natura deorum di Cicerone (Nat. D. 1, 16, 43). Per quanto riguarda l’aspetto esteriore degli dèi, dal punto di vista degli Epicurei vedi introduzione alla sezione di versi supra, cf. Konstan 2011; Sedley 2011. I vv. 1169-1188, commenta bene Schrijvers 1990, 71, ci presentano la nascita della religione come se fosse un fatto storico, e ciò è dato esattamente dall’impiego del tempo imperfetto e perfetto dei verbi (videbant, tribuebant, videbantur, dabant, subpeditabatur, manebat, putabant, vexaret, videbant, cernebant, poterant, fieret, habebant, locarunt). Per quanto riguarda le azioni che compiono gli dèi, Lucrezio non a caso impiega il presente (ad es. videtur 1189), il tempo dell’azione ripetuta nel tempo, dell’abitudine, della divina immutabilità eterna e lontana dalle leggi del tempo. Nei vv. 1169-82 Lucrezio sembra proprio che spieghi l’idea dell’immortalità degli dèi e la loro fisionomia, come se fosse una conseguenza di un ragionamento logico. Questo è anche messo bene in evidenza dalla presenza, piuttosto frequente di avverbi e congiunzioni come igitur, propterea quod, quia. C’è un filo diretto che collega la storia della nascita della paura e della superstizione proprio con quella degli dèi. Alle divinità, infatti, sono attribuiti i fenomeni celesti e meteorologici, che altrimenti gli 259

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uomini non sarebbero in grado di spiegare. Lucrezio vuole dimostrare come si tratti di un falso ragionamento e, tuttavia, faccia parte della storia della conoscenza dei fenomeni. Dunque, perché è importante conoscere e studiare i fenomeni naturali, per Epicuro e poi per Lucrezio? In tal modo gli uomini possono liberarsi dalle paure da cui sono afflitti, quando vengono sopraffatti dal terrore dell’ignoto, per essere pronti ad affrontarli meglio. 1169 quippe … mortalia saecla: L’avverbio incipitario quippe (v. 1169) sta a introdurre una proposizione con valore causale, rafforzata dal seguente etenim, che ha funzione rafforzativa. Spesso è unito a quando oppure a quoniam quod (cf. OLD s.v. quoniam 2d). Gli uomini, dunque, iniziarono a credere nell’esistenza degli dèi non solo perché la nozione del divino rappresentasse una caratteristica innata nel genere umano, ma anche perché attribuirono alle loro fantastiche visioni forza, potenza ed eterna vita, qualità tipiche delle entità sovrannaturali. Al centro del verso risalta l’omeoteleuto tum divom. Iam tum: “già allora”, ovvero già nei tempi antichissimi: il riferimento non sarebbe alla religione dei suoi tempi, ma agli albori della storia. Il tum sta a significare che il concetto di divinità nacque insieme agli uomini e che già nelle epoche più lontane se ne aveva conoscenza. Mortalia saecla: si tratta di una ‘iunctura’ nel pieno stile lucreziano, sia per quel che riguarda il senso sia la forma. Chiaramente mortalia non è impiegato a caso, dal momento che si tratta di un termine funzionale a voler rimarcare il divario tra gli 260

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dèi, distanti e immortali, e gli uomini fragili e mortali. La forma contratta di saecula, ovvero saecla, in età repubblicana è attestata con moltissime occorrenze in Lucrezio, mentre in un solo caso è presente in Catull. 78, 9. Il senso che viene attribuito qui al termine, cf. OLD s.v. saeculum 2 (‘breed’, ‘race’), si discosta dal significato più comune di tempo, periodo o generazione. Le visioni degli dèi potevano comparire dinanzi agli uomini sia in fase di veglia sia in una fase di riposo (cf. anche Lucr. 6, 76-77), come è stato già posto in rilievo da due fonti indirette che riportano il pensiero di Epicuro (Sext. Emp. Math. 9, 43-47). Le forme e le sagome antropomorfe che comparivano nel sonno erano ritenute reali e rappresentavano delle teofanie nel mondo terreno (Democr. 68 B 66 DK; Epicur. RS 1; Sext. Emp. Dogm. 3, 25). Pertanto, secondo Epicuro, le visioni oniriche sarebbero responsabili dell’idea e della prova dell’esistenza del divino. Ogni volta che gli uomini pensano agli dèi come a degli esseri superiori, dotati di una bellezza e di una forza superiore (vv. 1170-74), ritengono che i simulacri atomici che si sprigionano costantemente diano forma agli dèi. Sulla teoria della conoscenza epicurea, conquistata attraverso le sensazioni cf. Konstan 2007; Asmis 2009; Guadalupe Masi-Maso 2015. Tutti gli oggetti sono in grado di produrre immagini di natura atomica (εἴδωλα) che creano delle impressioni negli uomini, se vengono a contatto con l’anima. Le impressioni e, dunque, la percezione istintiva sono infallibili. Ciò che causa l’errore è l’interpretazione razionale che l’uomo prova a dare di tali impressioni. L’erronea valutazione, derivata dal ragionamento e dal successivo contatto con la sfera della memoria, porta a fuorviare l’interpretazione esatta. Il pensiero razionale e la memoria derivano dalla capacità di sintetizzare immagini comuni a 261

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più oggetti, che danno vita ai concetti, e di riportare questi concetti alla memoria. Allo stesso modo, gli dèi sono fatti di atomi, come ogni altra cosa, e vivono imperturbabili e indifferenti in luoghi celesti non sottoposti alla dinamica atomica (intermundia). Ciò che emerge degli dèi è la caratteristica di essere dotati di una forza superiore e permanente che implica la loro invincibilità, dunque immortalità. Il contrasto tra la mortalità e la fragilità umana contro l’immortalità e la forza divina è il vero discrimine tra le due condizioni che regolano il piacere epicureo: l’εὐδαιμονία divina è dovuta al non dover mai affrontare la morte, mentre il terror umano deriva dall’inevitabile precarietà della perdita e della morte. C’è un legame più stretto di quanto non si possa immaginare tra la mortalità e l’infelicità umana, contrapposta all’immortalità e alla felicità degli dèi cf. Schrijvers 1970, 62-63 (cf. Lucr. 2, 647 immortali aevo summa cum pace) e Warren 2004, 161-199. L’ordine delle parole di vv. 1169-71 è involuto e intricato: Costa prova a ipotizzare che si possa trattare di un modo per spiegare il completo assorbimento dell’immagine divina nella mente umana. 1170-1171. Gli uomini antichi si persuasero (cf. Schiesaro 1990, 157) dell’esistenza e dell’immortalità degli dèi, perché li vedevano in sogno, dal momento che il completamento (ἀνταναπλήρωσις) faceva sì che la loro immagine fosse sempre identica (1175-1176). Dunque, le visioni potevano manifestarsi agli uomini secondo due diverse modalità: sia quando erano svegli (animo vigilante) sia soprattutto quando dormivano (magis in somnis) e le immagini avevano sempre volti bellissimi e un portamento maestoso, come viene ben espresso dall’iperbato egregias… facies. I vv. 1170-71 sono particolarmente interessanti per la costruzione sintattica. Secondo Costa, seguito da Deufert 262

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2018, 347, «the word order is intricately involved» (cf. per una costruzione simile del verso Verg. Aen. 8, 330 asperque inmani corpore Thybris). A partire dall’ablativo assoluto, animo vigilante, da tradurre con “quando la mente è sveglia”, dove per animus va intesa la mente o lo spirito, fino alla presenza del gerundivo mirando, legato a corporis auctu, che fa riferimento alla misura accresciuta del corpo degli dèi, a differenza delle dimensioni degli uomini (cf. la simile clausola in Lucr. 2, 482 esse infinito debebunt corporis auctu). Lucrezio sembra enfatizzare una generale idea di contrasto e di scontro tra situazioni opposte, come la contrapposizione tra l’immortalità divina e la mortalità umana, la differenza delle visioni degli dèi che appaiono tra il sonno e la veglia, oppure la distanza iperbolica tra la maestosità e la bellezza dei corpi delle divinità dalla forma umana e le esigue dimensioni degli uomini. 1172-1174. C’è un’insistenza semantica del concetto di bellezza e della stupefacente grandezza fisica divina. Il rapido ritmo dattilico intensifica la duplice allitterazione MeMbra MoVere Videbantur Vocesque, che è particolarmente rara per quattro sillabe lunghe al centro del verso, mentre superbas nel v. 1173, riferito a voces, probabilmente richiama il significato del v. 1137 pristina maiestas soliorum et sceptra superba, che mette in rilievo gli emblemi del potere, da un lato gli scettri per i re, mentre per gli dèi le parole superbe, se messe a confronto con il loro aspetto e forza sovrumana. Con una certa sicurezza si può confermare il paragone di Bailey tra questi versi, dedicati alle caratteristiche degli dèi, e quelli dedicati ai componenti dell’aristocrazia primitiva, tra cui i re, fondatori di città (vv. 1105-

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1112). La caratteristica comune tra il v. 1173 e il precedente v. 1137 è quella che in superbas si profili l’ombra del terrore della tirannide divina. A differenza degli uomini, con cui, nei limiti del paragonabile, condividono bellezza (facies) e forza (vis), quest’ultima definita ampla (in clausola viribus amplis), gli dèi saranno sempre destinati ad essere felici, soprattutto per il fatto di essere immortali. Facies viene ripetuto più volte, proprio come in vv. 1111-1112, con una riproposizione, tutt’altro che casuale, di pro facie nel v. 1174 (cf. v. 1111 pro facie cuiusque et viribus ingenioque). La bellezza degli dèi è praeclara, dunque ‘raggiante’, ‘splendida’, che si distingue da quella comune, in questo si evidenzia, anche grazie alla presenza del prefisso prae- la superiorità degli esseri immortali su tutti gli altri. 1175 aeternamque…vitam: il v. 1175 in maniera molto significativa si apre con aeternam, l’aggettivo che definisce la distanza che separa la condizione umana da quella divina è tra i più usati da Lucrezio (cf. il contesto simile 5, 116 corpore divino debere aeterna manere). L’immortalità è anche ribadita dalla presenza dell’avverbio semper, nella causale introdotta da quia, che sta a indicare ripetitività ciclica e immutabilità da cui provengono i simulacra degli dèi. Dunque, l’immortalità divina è data dal perfetto rinnovarsi delle loro immagini, come spiegato nei vv. 1175-6, che erano in grado di conservare immutate le loro forme e dal fatto che esse apparivano dotate di una forza tale da poter reggere qualsiasi contrasto (cf. Epicur. Ep. Hdt. 48 e Cic. Nat. D. 1, 19, 49 in eas imagines). Anche schol. ad Epicur. RS 1 fa rifermento al fenomeno dell’ἀνταναπλήρωσις, ovvero la compensazione della perdita degli atomi dai loro concilia: atomi

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che poi recuperano ciclicamente con l’affluire di ulteriori atomi che ritornano dall’infinita riserva dell’universo. Dunque, sarebbe la mente umana a percepire una serie di immagini indipendenti, anche se ognuna è rappresentata da una forma costante e non modificabile. Le immagini degli dèi, secondo Epicuro, erano così sottili che non potevano essere percepite dai sensi. 1176 subpeditabatur: sono molte le occorrenze del verbo nel DRN (cf. 1, 230; 1000; 1, 1040; 2, 1138; 2, 568; 4, 776; 5, 298; 6, 666), e prima solo in Plauto (Asin. 423; 819) e Terenzio (Eun. 1077; Haut. 930). Nonostante il numero di occorrenze del termine molto alto, rimane il fatto che è una parola molto rara, che occupa quasi una metà del verso (cf. un parallelo simile in Catull. 68, 112 Amphitryoniades). Subpeditare qui regge facies e trae la sua origine dal lessico militare (cf. OLD s.v. suppedito 1b per l’immagine militare di “to come to the aid of”, come nel caso di subministro), anche se qui il senso espresso è quello indicato da OLD s.v. 1d, “to have the resources of”. Facies et forma: costituiscono un’endiadi, già pesente in Nevio e Plauto: dal punto di vista semantico, i due termini, pur avendo un significato molto simile, presentano lievi sfumature. La facies è propriamente l’ ‘aspetto esteriore’, l’‘apparenza’ (cf. ThlL VI, 48, 54 ss.; OLD s.v. facies 1, 2), che è da intendere come ‘bellezza’ (cf. 5, 1111). Forma, invece, è il più generico ‘aspetto’, ‘immagine’, ma anche ‘figura’ (cf. ThlL VI, 1082, 16 ss.; OLD s.v. forma 1a). La bellezza e l’aspetto degli dèi sono strettamente connessi con l’idea di potenza e di grandezza: nulla può turbare la

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composizione e la sostanza di cui sono fatte le divinità, che ‘mantengono intatta’ (manebat) la loro forma. Il concetto del ‘rinnovamento’ della forma divina è anche illustrato dall’epicureo Velleio in Cic. Nat. D. 1, 19, 49, passo particolarmente problematico e poco chiaro. Sulle tematiche affrontate da Velleio cf. Democr. 68 A 74 DK, da cui in seguito Cic. Nat. D. 1, 12, 29; Tertull. Ad nat. 2, 2. Le sembianze (facies) sono rivelate dal flusso dei simulacra: Velleio crede che gli dèi non siano fatti di materia solida (steremnia), ma consistono di flussi senza fine di immagini identiche, che formano una sorta di quasi corpus (cf. Sanders 2004), convergendo sempre allo stesso punto (cf. Cic. Nat. D. 1, 19, 49 cernantur … imaginibus). Questo perpetuo rinnovarsi della facies divina è quasi come un ciclo degli elementi. Come descritto in Lucr. 5, 235-305 questi “quasi corpi” rimangono immutati, e abituano la mente umana a diventare consapevole della loro esistenza. 1177-1178. Le congiunzioni et tamen, la copulativa insieme all’avversativa, in apertura nel v. 1177, sono molto ricorrenti in Lucrezio (in particolare cf. 5, 1091; 5, 1125), e servono a dare enfasi all’argomentazione che il poeta sta fornendo. Non sono mancate difficoltà interpretative anche per questa singola iunctura delle due congiunzioni in apertura. Munro, ad esempio, interpreta la congiunzione come se avesse il significato di “putting all the previous considerations aside, this that”, dunque come se fosse soltanto un modo di passare da un argomento all’altro. Più sottili sono le considerazioni di Giussani e Bailey a riguardo: per il primo, si fa riferimento alla costituzione anatomica e alla forza degli dèi (quod tantis viribus auctus), se si presuppone 266

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che essi esistano realmente e non solo nella mente umana. Bailey, al contrario, ritiene che i versi si riferiscano non ai corpi degli dèi, bensì alle loro immagini. Nel v. 1178 accolgo la lezione ulla, come presente nell’editio Brixensis in luogo di illa, riportata dai due principali testimoni OQ. Gli dèi risultano inattaccabili, per come vengono descritti dagli uomini, tanto che non potevano temere lo scontro con alcuna forza (ulla vi). Convinci è un rafforzativo di vinci, come pensa Ernout, che accentua l’enfasi dell’invincibilità divina (non temere), che non teme nulla, neanche e soprattutto la morte, cf. infra nel v. 1180 mortis timor haud … vexaret. Lucrezio ha anche usato vincere nel senso di convincere in 2, 748; 5, 735; 6, 498. Deufert propone in apparato due possibili alternative a convinci, ovvero altri due composti di vincere, devinci o pervinci. «Bedeutung ganz geläufig und zum anderen gibt es mit deuincere und peruincere zwei Komposita, die als Verstärkung des Simplex vincere gebraucht werden. Belege für sie finden sich sowohl bei Lukrez (deuincere 1, 34. 493. 2, 291; peruincere 1, 72. 5, 99) als auch sonst im Lateinischen» (cf. Deufert 2018, 348), tuttavia preferisce stampare convinci. La ripetizione in clausola di putabant sia nel v. 1178 sia nel v. 1179 non appare stilisticamente una soluzione riuscita, né sembra che il verso possa risultare più incisivo anche nel significato (per la ripetizione cf. 3, 429-30, e per le ripetizioni a fine verso in Lucrezio cf. Wills 1996, 422). 1179 fortunis: sembra rendere il concetto più ampio di εὐδαιμονία e quello più limitato di beatitudine degli dèi, ovvero la μακαριότης, dovuta alla mancanza di qualsiasi paura, in particolare 267

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il timor mortis. Nonostante fortuna sia in latino una ‘vox media’, il senso che qui viene dato traduce il greco μακαριότης (cf. LSJ s.v.), ovvero ‘felicità’ (cf. OLD s.v. fortuna 11-12). Con praestare, che ha il significato di ‘eccellere’ (cf. uso del prefisso prae- anche nell’aggettivo praeclarus per accentuare la ben nota superiorità della condizione divina cf. EM s.v. prae 529; vd. anche De Vaan s.v. prae 485), si ripete lo stesso schema lessicale già adoperato da Lucrezio per descrivere la supremazia aristocratica nei vv. 11051112 (in particolare cf. v. 1107 ingenio qui praestabant et corde vigebant). Gale evidenzia, a buon diritto, la distanza dei verbi che separano il narratore dai suoi soggetti: tribuebant, dabant, putabant, perfugium sibi habebant, locarunt. Non è un caso, infatti, che vi sia una distanza di fatto con le divinità, dal momento che gli dèi godono di vita eterna e non sono tormentati allo stesso modo dei mortali dal timore della morte, ovvero dalla principale fonte da cui nasce l’infelicità umana (3, 830-69). La condizione della fortuna divina, data dall’imperturbabilità, può essere letta come un modello di uno ‘status’ mentale da raggiungere, che consiste nella meta del filosofo epicureo, la ἀταραξία. Il perfetto equilibrio, inoltre, ha una sua dimora, i sapientum templa serena (Lucr. 2, 7): non c’è niente di più dolce di questi luoghi per un’anima elevata, come quella del saggio, da cui si può guardare come gli uomini si affannano per raggiungere le vette del comando e i posti più ambiti, per accumulare ricchezze e affliggersi l’esistenza per non aver saputo frenare la loro ambizione e la conseguente invidia (cf. Berno 2015, 282-97). Si comprende bene come, alla luce di questo paragone, Epicuro stesso sia posto da Lucrezio allo stesso livello di una divinità.

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1180-1182. Proprio come il suo sinonimo metus, il timor è un’emozione interiore che nasce dall’anima (lo stesso sentimento che prova Ifigenia prima di morire cf. Lucr. 1, 80-111), a differenza del terror e dell’horror, che fanno riferimento ad una sensazione di disagio e di paura, provocata da influssi esterni (cf. von Albrecht 2005, 233). Il timor sembra essere connaturato nell’uomo, e spesso è legato alla parola che maggiormente disturba e inquieta, la morte (mortis timor). La cura (la ‘preoccupazione’, o più generalmente l’‘ansia’), si colloca come lo stato preliminare del metus e del timor, che sono una forma di paura, di angoscia, di uno stato prolungato dell’ansia. Vexare è un termine piuttosto forte, tipico del linguaggio politico (cf. OLD s.v. vexo 5c, 6, nel senso di ‘to disturb, trouble, upset’), e per il contesto del v. 1180 cf. anche 2, 44-46 his tibi tum rebus timefactae religiones/ effugiunt animo pavidae; mortisque timores/ tum vacuum pectus linquunt curaque solutum e 3, 36-39 atque animae claranda meis iam versibus esse/ et metus ille foras praeceps Acheruntis agendus,/ funditus humanam qui vitam turbat ab imo/ omnia suffendens mortis nigrore neque ullam. Il pronome ipsos assume un certo rilievo, grazie all’accostamento con inde: questo perché le grandiose imprese degli dèi, che gli uomini vedevano nei sogni, non procuravano loro alcuna fatica (laborem). Il v. 1181 spicca per l’eleganza stilistica, grazie alla duplice allitterazione SiMul in SoMnis e Multa et Mira, dove simul ha valore causale (cf. OLD s.v. simul). Capere … laborem, nel finale del v. 1182, è una locuzione già ben consolidata nella lingua della prima età repubblicana (Plaut. Merc. 146 Sine malo omni, aut ne laborem capias cum illo uti voles?; Ter. Andr. 871 Tantum laborem capere ob talem filium!), insieme anche all’alternativa 269

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sufferre laborem, molto ricorrente in Lucrezio (cf. 3, 999; 5, 1214; 5, 1272; 5, 1359). 1183-1193. Laddove la conoscenza e la razionalità degli uomini non potevano arrivare, cresceva la necessità di darsi una risposta a ciò che non poteva essere del tutto compreso. Lucrezio traccia una storia verosimile di quello che era potuto accadere prima della nascita delle scienze, tra cui quelle astronomiche e meteorologiche. Gli uomini primitivi rimanevano estasiati e sconvolti dall’ordine e dalla perfetta regolarità con cui sono regolati i moti e i fenomeni celesti, così come l’alternarsi delle stagioni. Se le sensazioni sono, per Epicuro, il principale mezzo da cui passa la conoscenza, ciò che non poteva trasmettersi attraverso le sensazioni, doveva essere necessariamente opera della potenza divina. Secondo il ragionamento epicureo, si può affermare che almeno tre principali credenze non possano essere contraddette dall’esperienza empirica e, di conseguenza, sono corrette. Le tre credenze in questione sono le seguenti: gli dèi sono costituiti da atomi, provano sensazioni, hanno vita eterna, felicità ed equilibrio perfetti. Altre credenze, come il controllo dei movimenti dei corpi celesti e fenomeni meteorologici sono false (vv. 1183-1193), cf. sul tema Epicur. Ep. Hdt. 76-7, RS 1; Lucr. 2, 646-51; 5, 146-55; e sul danno che provoca l’immaginazione di false credenze cf. Epicur. Ep. Hdt. 50-1. Ep. Men. 123-4; Lucr. 4, 462-8, 816-17 (cf. Eckerman 2019, 284-99). 1183-1184. Praeterea apre il v. 1183, come in uno dei numerosissimi casi nel DRN, a cui seguirà l’avverbio ergo, nel v. 1186 a chiusura logica del racconto lucreziano. È uno degli

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avverbi più usati da Lucrezio per aggiungere ulteriori casistiche, esempi, oppure tesi nelle sue argomentazioni (cf. in generale Ingalls 1971; Minyard 1978; Schiesaro 1990b, 64-64; Marković 2008, 76, 85-144). La locuzione caeli rationes ordine certo (v. 1183) insiste, nella terminologia e nel suono (dato dall’allitterazione della liquida -r-), sull’ordine razionale dei fenomeni naturali. È il caso anche di riprendere, a tal proposito, il v. 2, 178 ex ipsis caeli rationis, in cui si trae un argomento contro la tesi teleologica di un mondo predisposto dagli dèi per gli uomini, cf. anche 1, 54; 1, 105; 3, 178; 5, 196. Ordine certo è interpretato da Bailey come ‘in fixed order’ cf. 5, 679 redeunt et ordine certo. Gli uomini non si limitano a videre questi fenomeni, ma a cernere, che riprende il significato del suo corrispettivo greco κρίνω (cf. EM, s.v. cerno, 115 “distinguer entre differénts objects, discerner”), anche se in questo contesto è più specifico, come nella sfumatura che dà OLD s.v. cerno 5 “to discern with the eyes, distinguish, see” e, più generalmente qui, cernebant (v. 1184), sta a significare che gli uomini percepivano, completamente e con tutti i sensi, nella loro vita, lo straordinario ordine dei fenomeni celesti e del cambio delle stagioni (cf. OLD s.v. 5e “to perceive with the senses in general”). Cernebant è anche collocato al centro del verso 1184, caratterizzato da un lento ritmo spondaico, per favorire il lungo iperbato che separa varia annorum … tempora (cf. anche 2, 32 e 3, 1005), a sottolineare il trascorrere temporale delle stagioni che ritornano, verti; cf. anche, per la differenza con video, Cic. Fam. 6, 3 quam ego tam video animo quam ea quae oculis cernimus. Non è un caso che Lucrezio dedichi intere e lunghe sezioni alla spiegazione dei fenomeni celesti: allo stesso 271

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modo di Epicuro, nella loro regolarità ravvisava una massima tentazione di cadere nella credenza di un divino governo del mondo, in polemica proprio con il provvidenzialismo stoico. La conoscenza, attraverso le sensazioni, diventa per l’Epicureismo l’unica arma per contrastare le false credenze. 1185-1187. L’esperienza diretta di un ordine universale del mondo e dei moti celesti ha contribuito in modo significativo a far sorgere nell’animo dei primi uomini l’intuizione che possa essere opera degli dèi (v. 1185 nec poterant quibus id fieret cognoscere causis). I versi in questione sono trasmessi, per tradizione indiretta, anche da Sext. Emp. Math. 9, 24 (68 A 75 DK), che li cita a proposito di una testimonianza su Democrito e gli dèi. Democrito era convinto, proprio come lo sarà Epicuro, del concetto della πρόληψις, come ‘intuizione’, ‘idea innata’ della presenza divina nel mondo: nonostante essa non sia direttamente nominata, come in Diog. Laert. 10, 33, viene messo in risalto come ci siano alcuni pensatori che hanno ipotizzato, in momenti e contesti diversi, che l’intuizione umana della presenza degli dèi sia nata dalla meraviglia dinanzi a quanto avviene nel cosmo. Per Democrito, attraverso l’osservazione dei fenomeni celesti, come i tuoni, i fulmini, le congiunzioni astrali, il passaggio delle comete, poiché non riuscivano a spiegarli altrimenti, si riteneva che essi accadessero a causa degli dèi. Nec poterant … cognoscere causis nel v. 1185 è l’espressione lucreziana dell’inadeguatezza della conoscenza umana, di cui parla Democrito. La differenza tra le due interpretazioni delle origini della credenza negli dèi sta nel fatto che Democrito la faceva derivare dai fenomeni celesti irregolari, piuttosto che da quelli regolari; Epicuro, invece, non escludeva che 272

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i fenomeni meteorici irregolari fossero provocati dagli dèi, ma temeva, allo stesso modo di Lucrezio, che proprio l’immutabilità dei fenomeni celesti regolari avrebbe potuto convincere gli uomini di un governo divino del cosmo. Con ergo, in ‘incipit’ nel v. 1186, inizia la deduzione dell’argomento lucreziano: perfugium, in senso metaforico figurato, è il rifugio, per la paura e la fine di tutte le cose, dell’inconsapevolezza degli uomini. Per Lucrezio si tratta di una spiegazione disperata di ciò che per gli uomini è incomprensibile, dovuto alla mancanza di una coerente e logica visione dell’universo, che doveva necessariamente obbedire al volere divino. Proprio come il suo sinonimo effugium, perfugium è utilizzato sia in senso letterale, come nel v. 1109, sia metaforico come in questo caso e in 3, 524 e 2, 926 quo fugiens ante. Dunque, tutto ciò che accadeva nel cosmo era affidato agli dèi (divis tradere): l’anafora di omnia, nella stessa sede di verso (vv. 1186-87), accresce proprio l’importanza e la responsabilità che viene attribuita agli dèi. Anche divis si trova in una posizione di rilievo, in quanto va a formare un ‘enjambement’ con tradere nel verso successivo. Nutus è generalmente il cenno con il capo, in segno di assenso, qui è inteso come gesto di comando supremo (cf. Verg. Aen. 10, 115, cf. Harrison 1991b ad loc.): l’ordine del cosmo obbedisce ad ogni cenno di capo degli dèi (si tratta di un termine particolarmente comune in poesia cf. Lucr. 4, 1122; Verg. Aen. 7, 592 e 9, 106, cf. OLD s.v. nutus 2a-b “a person’s nod”, “as the symbol of absolute power”). Che si tratti di un cenno del capo come simbolo di potere è confermato anche dalla presenza di flecti, infinito passivo di flectere (cf. per il senso OLD s.v. flecto 9b, cf. 3, 511). 273

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1188 in caeloque deum sedes et templa locarunt: a partire dal v. 1188 ha inizio un lungo periodo che si protrae fino al v. 1193 in cui viene spiegato, in un accavallarsi poco chiaro di termini perlopiù simili e ripetuti, perché le dimore degli dèi si trovano in cielo (per caelum). Sedes et templa costituiscono un’endiadi, dal momento che sono quasi dei sinonimi: sedis sono semplicemente le sedi degli dèi, un modo per sottintendere caelus. Per Lucrezio, in 5, 146-155, gli dèi non possono esistere in nessuna parte del mundus, in particolare 146-7 Illud item non est ut possis credere, sedis/ esse deum sanctas in mundi partibus ullis, poiché la natura sottile degli dèi è lontana dai sensi degli uomini, soltanto appena visibile (vv. 148-19). Dunque, all’inizio del quinto libro, Lucrezio spiega il motivo autentico per cui gli dèi vivevano lontani dagli uomini (intermundia): si trattava di una difficoltà della percezione della sottile natura divina (cf. Asmis 1999, 26094). Nei vv. 1188-93, invece, è illustrata la posizione della sede celeste degli dèi, così come era interpretato dagli uomini primitivi. A tal proposito, si inserisce il dibattito, che difficilmente potrà risolversi in un’unica soluzione, tra due scuole di pensiero, rappresentate, negli ultimi anni da Sedley 2011 (tesi “idealista”), da un lato, (nonostante questa interpretazione risalga a Scott 1883, Bollack 1975, Obbink 1996, nel suo studio sul De pietate di Filodemo, Wigodsky 2004) e da Konstan 2011, tesi “realista”, dall’altro (formulata prima da Mansfeld 1993, Giannantoni 1996, Santoro 2000). L’interpretazione “idealista” di Sedley 2011, 49-52, sostiene che gli dèi siano una costruzione mentale degli uomini, simile a ciò che immaginava Crizia nel Sisifo (88 B 25 DK = Sext. 274

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Emp. Math. 9, 54) e vicina alla posizione cauta degli Scettici (cf. Sext. Emp. Math. 9, 49). La materia sottile di cui sono costituiti gli dèi dovrebbe essere quella del pensiero umano, e in questo senso anche la scelta di un termine come perfugium, nel senso traslato del termine, lascia pensare che il concetto divino sia un bisogno innato dell’uomo, da qui il senso dell’innatismo e della πρόληψις. L’interpretazione “realista”, sostenuta da Konstan, immagina gli dèi come entità extraterrestri che abitano nelle sedes celesti e nei templa, “the abodes and the quarters of the gods”, secondo Bailey, cf. 5, 120. 1189-1192. Nel v. 1189 accolgo, come fanno Brieger e Deufert (che cita i seguenti passi per avvalorare la sua scelta: 1, 128; 5, 76; 5, 418; 5, 1206), la congettura di Lambinus, sol, in luogo di nox, tràdito dai principali codici (Ω). Lachmann e Bernays stampano lux. Lucrezio insiste in particolare modo sulla notte, sulla pallida luce notturna e sui fenomeni meteorici che potevano incutere terrore. Deufert 1996, 298-9 (= Deufert 2018, 348) ritiene interpolati i vv. 1190 e 1192, dal momento che mostrano inutili ripetizioni e un senso poco chiaro, composti da un interpolatore (cf. per la casistica di questo tipo di interpolazioni formate da rielaborazioni di versi contigui Tarrant 2016, 30-39). Se si conserva il v. 1190, nox et luna … luna dies et nox costituirebbero un’epanalessi e un chiasmo stilisticamente suggestivi. Quello che manca è la coerenza logica che, anche Bailey, pur conservando il testo tràdito, non risparmia di denunciare. I dubbi leciti, sollevati da Lachmann, Bernays e Brieger, sono di carattere logico, mentre Bockemüller propone alma in luogo di luna, per rimuovere l’epanalessi e introdurre un 275

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debole epiteto. Diels, invece, ha proposto inde, che fa da elemento introduttivo dinanzi a dies, nonostante risulti piuttosto disturbante l’immediato ritorno della notte e dei suoi fenomeni. Per difendere il verso, Munro cita Catull. 62, 21 qui natam possis complexu avellere matris,/ complexu matris retinentem avellere natam, esempio condiviso da Giussani, secondo cui Lucrezio sembra proprio echeggiare Catullo, per il cumulo e l’intreccio di artifici esteriori, come l’anafora nox … nox e il poliptoto noctis …noctivagaeque, espressioni del perpetuo ripetersi (cf. anche vv. 950-1, e per l’accumulazione cf. 6, 527-534), e dell’irregolare andamento di alcuni fenomeni celesti. Tra i difensori della genuinità del verso (e di nox) c’è sicuramente David West 1969, 127: «This is not a Lucretian lollipop to sweeten the exhausted reader. The basic doctrinal point against which Lucretius has set his face is the notion of an astral deity, and Lucretius knows (and indeed is about to argue) that the most powerful argument in defence of this notion is the great awe we feel under a starlit sky, and the frisson of terror we feel in a thunderstorm. This explains the omission of the sun in 1189. It is the night and the moon rolling round the sky which strike awe into us. The phenomena of the day will be mentioned in due course to complete the impression of the variety and vastness of the heavens, but initially it is the fear of the night that daunts us». È comune tra gli uomini alzare gli occhi al cielo terso e stellato e riempirsi di meraviglia. Mentre l’emozione al cospetto dei fulmini, lampi e tuoni, pronti a scatenare una tempesta violenta, rappresenta una paura atavica. Lucrezio ha una sprezzante pietà nei riguardi dei primi uomini per aver attribuito agli dèi questi fenomeni. Dies sembra essere l’elemento disturbante nel v. 1190 in una lista di fenomeni della 276

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notte, mentre sol non è citato fino alla fine del v. 1192. Forse vale la pena segnalare che dies non è un sinonimo di sol. Lucrezio probabilmente era consapevole del fatto che gli uomini primitivi non avessero ancora identificato la luce del giorno con la luce del sole, cf. Martin West ad Hes. Theog. 124. Dies interrompe questa continua insistenza sui concetti dell’oscurità e della notte, e inoltre, dies è preso dai vv. 1192-3, dai fenomeni osservati durante il giorno, anche se alcuni di essi possono presentarsi durante la notte. Costa, come David West, è convinto che l’ordine dei versi sia corretto e vadano lasciati così come sono stati tramandati: «but we should probably leave the passage as it stands and persuade ourselves that L. is painting an impressionist, not a logical, picture». Noctis signa severa è tradotto da Bailey con ‘the stern signs of night’; cf. Verg. Aen. 7, 138 noctem noctisque orientia signa. Noctis signa severa va a creare una ‘iunctura’ prettamente lucreziana (cf. 4, 460 severa silentia noctis e 5, 35 pelagique severa). Il Candidus ha corretto inutilmente severa nella sua ‘lectio facilior’ serena, che rende il contesto insipido e scarsamente suggestivo, come fa notare Bailey. Noctivagaeque … volantes (1191) va inteso comunemente o come ripetizione del verso precedente o come la definizione poetica delle comete. Non è improbabile, però, che le due parti, ben distinte dal polisindeto, costituiscano la precisazione del generico signa severa. Perciò questa espressione si riferisce alle stelle (noctivagae è un termine carico di espressività, così ampio per come è collocato in posizione incipitaria, e che descrive il loro corso ordinato e sempre uguale, cf. 4, 582 noctivago strepitu; per la costruzione dell’aggettivo cf. vulgivagus 5, 932 oppure anche montivagus, cf. 1, 3). È chiaro che noctivagae faces flammaeque volantes sono le stelle cadenti e le 277

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meteore, proprio come in 2, 206 nocturnas faces caeli sublime volantis. Il problema del v. 1190, però, non è solo dies e la sequenza, a dir poco illogica. Crea non poche difficoltà la costruzione di volvi, come ritiene Deufert 1996, 299: «die Vermischung konkreter Himmelskörper und abstrakter Zeitangaben zeugt von grosser Unordnung in diesem Vers, in dem zumindest dies et nox sachlich kaum mit dem Infinitiv volui aus 1189 konstruiert werden können. Es ist demnach für diesen Vers wohl derselbe erweiternde Interpolator anzunehmen wie für 1192». 1192 nubila sol imbres nix venti fulmina grando: secondo Deufert, l’interpolatore del v. 1190 sarebbe lo stesso del v. 1192 nubila sol imbres nix venti fulmina grando, che avrebbe composto il verso, sulla base di una rielaborazione di 5, 675 fulmina postremo nix imbres nubila venti. Così commenta Deufert 1996, 298: «ein Interpolator hat auf 5, 675 zurückgegriffen, um die Liste kosmischer Phänomene auch zwischen 1191 und 1193 aufzufüllen, dabei jedoch die Darstellungsintention des Lukrez verkannt, der an dieser Stelle nicht auf Vollständigkeit, sondern auf Angst erweckende Phänomene zielt». I sette sostantivi semplicemente posti l’uno accanto all’altro, che elencano quasi in ‘climax’ i fenomeni meteorologici dal tempo sereno alla grandine (venti fulmina grando) mostrano vigore espressivo. OQ riportano flumina, che naturalmente è un banale errore di trascrizione, mentre la lezione corretta fulmina è tramandata da Isid. Orig. 1, 36, 13. Sarei orientata all’espunzione del verso, poiché gli argomenti di Deufert sono convincenti: inoltre, non ha molto senso nominare dei fenomeni, come le nuvole e il sole (sol è stato 278

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emendato da Lambinus in ros, ma non migliora affatto il senso), che tra l’altro non generano neanche terror. Per quanto le argomentazioni di Deufert possano essere convincenti e manchi la logica in questi versi, l’idea che siano stati composti da un interpolatore non mi convince. Penso che si tratti di uno dei casi di mancata revisione finale dei versi da parte di Lucrezio. 1193 rapidi … minarum: il terremoto con il suo improvviso manifestarsi ed i cupi boati che lo precedono e lo accompagnano, è qui riprodotto con onomatopea e una forte allitterazione della liquida -r- e delle due vocali -u- e -a-, che riproducono il suono cupo (murmura magna minarum, cf. anche, tra i casi simili 5, 1063, 1221; 6, 410 fremitus et murmura concit), proprio al centro dell’enoplio, il verso dell’antica poesia greca che riproduceva il ritmo delle danze guerriere (cf. WilamowitzMoellendorf 1921, 366). Per l’attributo rapidus cf. ThlL XI, 87, 10-21, che mette in rilievo l’improvvisa comparsa del fenomeno celeste. Spesso rapidus è un attributo riferito al fulmine (cf. Verg. Aen. 1, 42 ipsa Iovis rapidum iaculata e nubibus ignem; Sil. 14, 314 ss.), cf. Deufert 2018, 348. 1194-1203. La sezione di versi si apre con una dichiarazione di commiserazione nei riguardi di un’umanità infelice, per aver commesso un errore di valutazione nella comprensione della realtà. Lucrezio, ancora una volta, proprio come in diversi momenti (cf. 1, 62-79; 1, 80-101; 2, 35-54; 5, 1161-1193), denuncia una delle peggiori sventure dell’umanità, responsabile del lento progresso della società, la religione. Il poeta sembra 279

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commiserare gli uomini e, in un certo senso, li scagiona perché ancora troppo inesperti delle leggi naturali e ancora ignari della vera ratio epicurea, affermando che era inevitabile, per loro, cadere in un errore simile. A partire da un saggio di Sauppe 1880, 3-14, gli editori hanno mostrato le sue stesse perplessità sull’autenticità di versi che sembrano spostare troppo il focus dell’attenzione dalla storia della nascita della religione e delle celebrazioni ufficiali ai riti e alle modalità di preghiera in età repubblicana, proprio nell’età contemporanea a Lucrezio. I vv. 1198-1203, che si riferiscono naturalmente ai riti religiosi romani contemporanei, secondo Bailey e Giussani, sembrano essere fuori luogo e non molto in linea con il contesto. La sequenza del pensiero è espressa piuttosto ellitticamente e le interpretazioni erronee dei primi uomini riguardo agli dèi, trovano espressione negli atti senza senso dei rituali, come il coprirsi il capo con il velo, la prostrazione e il sacrificio cruento. Giussani potrebbe aver ragione a trattare questi versi come se fossero un’aggiunta posteriore, non ben armonizzata nel contesto: in questo caso, non si possono interpretare come parentetici e, nel caso specifico, con nam 1204 che segue 1197 o 1193. Più semplicemente nam segue il v. 1203 e sta a indicare il momento in cui gli uomini guardano i fenomeni celesti con mente tranquilla. I vv. 1161-1197, collocati dopo la sezione sull’origine della religio e prima di quella sulla sua natura (vv. 1204-1240), rappresentano il fulcro concettuale e strutturale dell’intero brano teologico (37 versi + 6 versi + 37 versi). Questa concinnitas è apparsa sospetta ad alcuni editori, che hanno ipotizzato la presenza di un’interpolazione (cf. Dionigi 1988, 98-99). 280

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Questo passo è contraddistinto dall’abituale sproporzione lucreziana tra pars destruens, introdotta per ben quattro volte dal martellante nec, e pars costruens, un solo verso introdotto dalla congiunzione antitetica avversativa sed: i rituali con il capo velato al v. 1198 e l’inchino alla statua della divinità al v. 1199. Il passo rappresenta una prova della distanza tra Lucrezio ed Epicuro in tema di religione. Epicuro è un riformatore religioso e un credente praticante (cf. fr. 13, 169, 386 Us.), preoccupato di purificare e interiorizzare la religione tradizionale (Ep. Men. 123), grazie alla distinzione netta tra pietà (εὐσέβεια) e superstizione (δεισιδαιμονία). Lucrezio si pone, invece, secondo Dionigi (nel suo commento del 1990), come un iconoclasta, per il quale la religio è identificata completamente con la superstitio (cf. 1, 62), frutto dell’ignoranza (vv. 1185-1211) e causa dei mali morali (vv. 1194-97), e la pietas autentica consiste unicamente nel “poter guardare tutto a mente serena”, v. 1203. La pietas di Lucrezio è laica e razionalistica: vale la pena di suggerire un confronto tra questi sei versi e il P.Oxy II, 215 (col. I, 7-24), probabile fonte, ad opera di un anonimo epicureo, del passo sulla pietas, che conferma che lo scarto tra Lucrezio ed Epicuro, in tema di religione, è di natura non solo emozionale ma anche ideologica (cf. Dionigi 1977, 118-139). Quello che meraviglia di Lucrezio è lo stile, che si manifesta nella dislocazione verbale, nel rilievo visivo della parola, che è funzionale non al supplemento di una nozione, né all’incremento dell’informazione, e neppure all’approfondimento della dottrina, bensì all’organizzazione del pensiero, al rafforzamento dell’idea, alla rappresentazione dei concetti.

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1194 o genus infelix humanum: il v. 1194 è una ripresa di un frammento di Empedocle (31 B 124 DK) e, nonostante sia differente nel contenuto, la formula appare una citazione quasi letterale. Si tratta di uno degli esempi per dimostrare la vicinanza di Lucrezio ai contenuti e allo stile di Empedocle (cf. sul tema Furley 1970, Sedley 1998, Garani 2007). Per la ripresa della formula, che qui sembra creare il contrario di un μακαρισμός, cf. Lucr. 2, 14 o miseras hominum mentis, o pectora caeca, Verg. Aen. 2, 33 o miseri, quae tanta insania, cives! (cf. Hardie 2008, 77-81; Bruno 2011, 33-35) e il contesto ovidiano (Met. 15, 153 o genus attonitum gelidae formidine mortis). Ciò che appare sconcertante agli occhi di Lucrezio è come gli uomini non si rendano conto che, a differenza loro, gli dèi non riescano minimamente ad avvertire dei sentimenti quali la rabbia e il dolore, e che tali sentimenti non possano essere paragonabili a quelli avvertiti dagli uomini quando nascono (Lucr. 1, 49, 2, 651 e 6, 72). Lucrezio collega l’infelicità degli uomini ad un momento ben preciso, dato dalla presenza di cum, e ne illustra le conseguenze nel tempo passato, presente e futuro. Tuttavia, senza il credo epicureo l’infelicità inizia con la nascita ed è destinata a non terminare (cf. 5, 222-7 dove il neonato è gettato nel mondo come un naufrago, in una condizione di disperazione, cf. infra). Si viene a creare dunque, negli uomini, una nuova forma di ansia, che è una conseguenza delle erronee associazioni tra i fenomeni naturali e la responsabilità che gli dèi hanno su di essi (tribuit … adiunxit). La paura primordiale dei fenomeni stessi finisce per essere associata alla paura per la vendetta divina, da cui avrebbero origine le calamità naturali più spaventose.

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1194-1195. Talia … facta è lungo iperbato, che per ragioni metriche va a spostare la congiunzione cum, che introduce una proposizione temporale, nel verso successivo. Talia… facta… iras… acerbas formano una struttura chiastica nei due vv. 119596. Non a caso Lucrezio adopera un iperbato che isola, in clausola di verso, i responsabili dei talia facta, ovvero gli dèi (divis), anche in ‘enjambement’. Agli dèi vengono attribuiti tali fenomeni, a cui si aggiungono (adiunxit, cf. 2, 64) anche le ire, definite acerbae. L’aggettivo acerbus è da intendere in senso metaforico (cf. De Vaan, s.v. acerbus, “harsh to taste, bitter, sour, briny” and OLD s.v. acerbus 3a-b; cf. 5, 33 asper, acerba tuens, immani corpore serpens; Cic. Clu. 44 erat ipse immani acerbaque natura; Verg. Aen. 11, 587 quandoquidem fatis urgetur acerbis), dal momento che sottolinea la durezza di tali fenomeni quando si abbattono sulla vita umana. Sulla base della denuncia di Lucrezio, gli uomini ritengono che tutta la natura soccomba dinanzi al potere della religio. Iras sono le ire divine che si manifestano in vari modi: attraverso i tuoni, i lampi, i terremoti. Il vero epicureo sa che la natura divina non è per nulla toccata dalla rabbia: vive in uno stato costante di felicità atarattica, che costituisce l’essenza della propria εὐδαιμονία (cf. Epicur. RS 1; Lucr. 2, 649-651 nam privata dolore omni, privata periclis,/ ipsa suis pollens opibus, nil indiga nostri,/ nec bene promeritis capitur neque tangitur ira.). 1196-1197 quantos tum gemitus … volnera … lacrimas: l’ennesima esclamazione di rammarico e commiserazione (la “didactic voice” per dirla con Hardie 2008, 80) viene rivolta da Lucrezio agli uomini che si sfogheranno con 283

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gemiti, sofferenze e lacrime per degli eventi calamitosi che non sono provocati dalla volontà divina (cf. 6, 70-78), ma sono insiti nelle leggi della natura. Gli uomini continueranno a soffrire senza tregua se non si abitueranno all’idea che tali fenomeni non sono effetto dell’ira degli dèi, che può essere placata, per superstizione, soltanto con il ricorso a riti e sacrifici. Si tratta di una sofferenza inutile e inevitabile, dal momento che la natura continuerà a fare il suo corso e a manifestare i suoi cambiamenti. Queste circostanze dolorose si verificano in un esteso arco di tempo: nel passato, nel presente e nel futuro. Dal punto di vista dello stile, Lucrezio insiste con l’allitterazione del suono della sibilante gemituS ipSi Sibi, che sta a conferire una enfasi maggiore al danno che gli uomini procurano, in particolare misura, a se stessi. Oltre all’allitterazione, la presenza del poliptoto quantos … quantaque è un ulteriore segno dell’insistenza sull’inutilità della sofferenza che tocca agli uomini, per il fatto di affidarsi completamente alle pratiche superstiziose dettate dalla paura per l’ignoto (cf. anafore multiple in Lucrezio in Wills 1996, 363-67). La sofferenza si amplifica con il passare del tempo, a partire dal passato (tum), e che si appresta a colpire anche le generazioni future (minoribus nostris). Non è un caso che Lucrezio usi la prima persona plurale per rivolgersi agli uomini suoi contemporanei che non hanno ancora aderito al modus vivendi epicureo. A differenza del v. 1120-1135, dove Lucrezio si rivolgeva agli uomini alla terza persona plurale, e assumeva un atteggiamento di distacco, quasi di sdegno e disprezzo per il rifiuto dell’ambizione e dell’invidia, a cui portano la corsa al potere e la lotta politica, nei vv. 1194-1203 Lucrezio si mostra più comprensivo nei riguardi di un dolore interiore e di una forma di 284

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angoscia, involontaria e connaturata, che colpisce gli uomini, a causa della loro ignoranza. Per quel che riguarda gemitus… volnera … lacrimas si tratta di termini, qui in ‘climax’, molto ricorrenti nel lessico bellico, seguito da quello del lamento, che è una forma codificata tipicamente romana per esprimere il dolore in modo ostentato. È ben chiaro che l’idea utopica di una diffusione massiccia dell’epicureismo è lontana dal realismo di Lucrezio: in questi versi si intuisce che i lettori del DRN non potevano che far parte di una cerchia ristretta, che si sarebbe potuta salvare, attraverso la vera ratio, dall’ansia e dallo sconforto in cui la natura ha gettato gli uomini fin dalla nascita. In questo equilibrio si ritrova il concetto di isonomia (cf. 2, 300-2; 522-540; 5, 526-533; cf. anche Cic. Nat. D. 1, 39, 109; Drozdek 2007, 215-28), che è una forma di bilanciamento, sia nel testo sia nel cosmo di diversi e contrapposti elementi e principi, dell’universale equilibrio fra il principio costruttivo e quello distruttivo: per questo, sia i fenomeni naturali regolari sia quelli irregolari vengono valutati come se fossero delle espressioni della rabbia divina (iras … acerbas). Per volnera, cf. 2, 639 e 3, 63 haec vulnera vitae, in un verso in cui l’avarizia e l’ambizione vengono definite “sofferenze, ferite”, mentre Munro cita anche Cicerone (Off. 3, 85 hunc tu quas conscientiae labes in animo censes habuisse quae vulnera?): il senso è quello di un dolore psicologico, di una ferita propria della sfera emozionale (cf. OLD s.v. vulnus, 3). La reazione superstiziosa alla paura non ha portato a nessuna autentica forma di pietas, concetto che sarà ben spiegato nel v. 1203. Peperere, forma contratta della terza persona plurale di pario (cf. 1, 83

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religio peperit scelerosa atque impia facta e 5, 334 multa, modo organici melicos peperere sonores). 1198 nec pietas … videri: una forma di devozione che consiste nell’osservanza minuziosa dei riti religiosi non è considerata pietas. La testimonianza di Filodemo nel De pietate (cf. Obbink 1989, 202-4) è la prova che Epicuro e gli Epicurei non condannavano in tutto e per tutto le pratiche religiose e i rituali civili. Secondo Diels nel frammento papiraceo P. Oxy II 215, che sarebbe da attribuire ad un epicureo, si legge come gli dèi siano venerati dagli Epicurei, che avrebbero sempre pregato e rispettato gli dèi e offerto riti e sacrifici. C’è da dire, inoltre, che per i Romani non esisteva una chiara distinzione tra la religione e la politica. I riti sacri erano celebrati a spese dello Stato da organi ufficiali (Fest. 284 L. publica sacra), cf. Scheid 2016, 136-41. Proprio da questo è ancora più chiaro quanto Lucrezio abbia preso le distanze da Epicuro: grazie anche alla testimonianza di Filodemo, si comprende perché era opportuno per un saggio portare rispetto e onore dinanzi al cospetto di una rappresentazione divina. Secondo Ernout e Robin non è affatto detto che Lucrezio si sia schierato contro gli Epicurei: bisogna, ad ogni modo, tener presente le critiche che rivolge Cotta a Velleio nel finale del primo libro del De natura deorum (1, 41, 116; 1, 42, 124), in cui prova a smascherare le contraddizioni dell’Epicureismo in merito a tali questioni. Lucrezio, per Robin, non sarebbe in opposizione con l’ortodossia epicurea: non rimprovera le pratiche pubbliche di culto, ma asserisce che non costituiscono la pietas secondo gli Epicurei. Secondo Robin, infatti, Lucrezio non è un pensatore originale. In ogni caso, rimane il dato innegabile che Lucrezio 286

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vede, nell’ostentazione e nei rituali della religione romana, delle cerimonie ridicole, ben lontane da quello che è realmente il suo concetto di pietas. Nel suo riferimento al v. 1203, alla placata … mente, che rappresenta il vero spirito lucreziano di pietas, si allude, per la prima volta, alla differenza tra la funzione salvifica della preghiera personale e quella istituzionale della preghiera recitata durante una cerimonia (cf. questo ‘topos’ è stato affrontato in Hor. Epist. 1, 16, 57 ss.; Pers. 2; Juv. 10). Secondo Costa, Lucrezio si mostra più autonomo rispetto al credo tradizionale epicureo, in particolare, cf. fr. 387 Us. riguardo a ciò che scrive Epicuro sull’osservanza dei costumi religiosi (cf. Munro ad loc. 6, 75). Tradizionalmente, la pietas trova il suo senso ultimo dal significato del verbo da cui deriva, piare, che significa “purificare, espiare” (cf. EM, s.v. pius, 510; De Vaan, s.v. pius, 468-9), da cui hanno origine i derivati piaculum, che ha il significato di “sacrificio espiatorio”, “delitto o misfatto che esige un sacrificio di purificazione”. La pietas sta a ad indicare il compiere dei precisi doveri nei riguardi degli dèi ed è quel complesso di atti e di parole di culto, che costituiscono le religiones, vale a dire le forme liturgiche rigorosamente regolamentate (cf. Gell. 2, 28, 2; Plin. HN 28, 10-11). Pietas corrisponde alla greca εὐσέβεια (cf. Dion. Hal. Ant. Rom. 1, 4-5, anche se numerose attestazioni si trovano già in Cicerone, cf. Wissowa in RE, s.v. pietas, 2499 ss.; cf. ThlL s.v. pietas, X, 2088, 4 ss.). Le caratteristiche sono le seguenti: per prima cosa, si tratta di un senso del dovere, particolarmente sentito dai Romani, ben distinto dalla caritas e dalla misericordia. Inoltre, per pietas si può anche intendere un significato più ampio, come quello di affettività, perché essa non è soltanto una virtù, ma è anche un sentimento, un amore doveroso. Inoltre, i destinatari 287

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della pietas sono sia gli dèi sia gli uomini. Estesa ad altri rapporti come l’amicizia, l’amor patrio, la pietas assume nel I sec. a.C. un valore politico, soprattutto in Cicerone, che ne fa una bandiera durante le guerre civili e finisce per costruire una delle quattro virtù cardinali del principato augusteo (le quattro virtù erano iscritte nel clipeus aureus offerto dal princeps nel 27 a.C.). Sembra quasi che qui Lucrezio anticipi il disagio spirituale, di cui soffrirà la generazione successiva, con diversi sintomi, come l’ansia di rigenerazione, la speranza di palingenesi e di salvatori divini, una maggior fede nell’intervento dell’uomo nel corso della storia, come nelle Bucoliche. La pietas di Lucrezio è cosa ben diversa dalla tradizionale virtù romana: non avere timore delle paure innate nell’uomo, come quella che ogni azione sia dettata dal volere divino piuttosto che dalle leggi della natura. Velatum è il termine che offre il chiaro indizio che Lucrezio si stia riferendo esattamente al costume del sacrificio compiuto dai sacerdoti romani. Non manca il numero di testimonianze, prevalentemente provenienti dalle forme ed espressioni più varie della cultura materiale di Roma, che attestano l’importanza data a questo tipo di rituale, differente sotto molti aspetti, da quello greco. La principale differenza consisteva proprio nell’uso di coprirsi il capo, come avveniva a Roma operto capite – cf. rilievi dell’Ara di Domizio Enobarbo, realizzati intorno al 100 a.C., con scene di sacrificio di un censore alla presenza del dio Marte in persona; scene di sacrificio anche nel marmo greco e italico, 90-100 d.C. Roma, Museo Nazionale di Palazzo Massimo alle Terme, e un esempio classico è 288

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rappresentato dalla statua di Augusto in veste di Pontifex Maximus, ‘l’Augusto di Via Labicana’. In Grecia, al contrario, i sacerdoti indossavano, aperto capite, una corona d’alloro, come l’oinochoe attica a figure rosse risalente al 430 a.C., raffigurante un sacrificio, conservata al Museo del Louvre e il dipinto corinzio del VI sec. a.C., conservato al Museo Nazionale di Atene, che raffigura un corteo sacrificale guidato da una canefora. L’usanza rituale del sacrificio con il capo velato, già alle origini della monarchia romana, ritenuta da Dion. Hal. Ant. Rom. 2, 70-72 e Plut. Num. 14, 6-7 piuttosto curiosa, fu istituita a partire dalle riforme religiose istituite da Numa Pompilio. L’origine mitologica è raccontata da Verg. Aen. 3, 405 purpureo velare comas adopertus amictu, quando Eleno istruisce Enea nel rito, vd. Horsfall 2006 ad loc., cf. anche Ov. Fast. 3, 363 (Numa) caput niveo velatus amictu (cf. Heyworth 2019 ad loc.). Non sembra che qui Lucrezio stia facendo distinzioni tra il culto domestico e quello pubblico, nonostante le differenze siano messe bene in evidenza. Nel culto domestico, la persona incaricata del sacrificio è il pater familias, nel culto pubblico, il magistrato competente, che, in stato di purità rituale (cf. Cic. Leg. 2, 29), con mani monde e vesti pure, offre la vittima o le vittime sacrificali a capo velato (con un lembo della toga). Il silenzio assoluto era richiesto nel momento più solenne e il luogo non poteva assolutamente essere contaminato dai profani e dagli impuri (cf. Cic. Div. 1, 102 per la formula favete linguis). Originariamente, il sacrificio doveva avere la funzione di accrescere la forza della divinità, e dunque provocava un suo rinvigorimento; in seguito, il sacrificio fu considerato come un 289

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dono. La musica, la religione e le leggi, in più occasioni, erano considerate da Dion. Hal. Ant. Rom. 1, 21; 1, 33; 2, 18-19 le attività che più contribuivano a far progredire le società. Videri è propriamente il ‘farsi vedere’. L’interpretazione è naturalmente ironica, contro l’ostentazione della pietas religiosa. 1199. I modi che i Romani praticavano per rivolgersi alle divinità erano diversi. L’uso di toccare i simulacri delle divinità era uno degli atti più antichi, oltre al fatto di essere irrazionale e primitivo. Dal momento che credevano nella natura sovrannaturale del feticcio, coloro che toccavano la statua in pietra che riproduceva il dio potevano ricevere tutto il potere divino, emanato dal solo contatto con la sua riproduzione (cf. De Sanctis 2012, 8897). Vertier è una forma passiva arcaica dell’infinito vertere, attestata soltanto in Lucrezio (cf. 1, 710; 2, 927; 6, 291): sta a indicare l’azione del rivolgersi alla statua del dio, con il capo velato, per poi inginocchiarsi dinanzi ad essa (cf. Plaut. Curc. 6970; Plut. Cam. 5; cf. in particolare l’assimilazione tra la figura dell’imperatore e quella di dio Suet. Vit. 2 idem miri in adulando ingenii, primus C. Caesarem adorare ut deum instituit, cum reversus ex Syria non aliter adire ausus esset quam capite velato circumvertensque se, deinde procumbens). Non è certo che qui Lucrezio si stia riferendo anche al gesto compiuto dal supplicante, che mantiene nella sua mano destra la statuetta del dio (Val. Fl. 8, 244-6). Nel v. 1198 è chiara l’insistenza del semivocalico suono allitterante Vel Vid- Vert-. Non è un caso che velatum, videri, vertier siano tutti termini strettamente legati ad un’unica forma di rituale, oltre che da un unico esito sonoro.

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La statua è indicata per metonimia da lapidem: le pietre, naturalmente, rappresentavano il materiale per eccellenza per raffigurare degli oggetti di culto (dalla struttura dei templi, alle are, alle statue e agli ex voto o alle statuette destinate al culto domestico, come i penates). Non è neanche da escludere l’associazione di lapis con le pietre miliari o i cippi, posti negli angoli delle strade o ai confini delle terre, dove servivano a marcare la divisione dei territori e simbolizzavano il dio Termino (cf. Theophr. 16, 5 e Tib. 1, 1, 11-12 e per le pietre che dividevano le proprietà, cf. Ov. Fast. 2, 641-2: Prop. 1, 4, 24 sacer lapis; Apul. Apol. 56). Se si sottintende che lapis si possa riferire alla statua, allora è probabile che ci sia da individuare un uso riduttivo e spregiativo della metonimia. Molto spesso lapis è accompagnato dagli aggettivi più specifici come sacer lapis, lapis unctus, lapis coronatus (cf. ThlL VII, 951, 6 ss. cf. Min. Fel. 3, 1). Altri sistemi per accattivarsi il favore delle divinità, specialmente con il progredire dell’antropomorfismo e col moltiplicarsi delle immagini scolpite, fuse e dipinte, sono quelli che si manifestano nel rito e nel gesto, come i baci, o reali o mandati col gesto della mano, oppure gli atti di verecondia e rispetto, che si manifestano con profonde prostrazioni (supplicium), che denotano umiltà e sottomissione, come quello di inginocchiarsi, di gettarsi ai piedi delle statue, di pregare in piedi a capo chino. Atque omnis accedere ad aras: il senso è quello che i supplicanti si debbano avvicinare ad ogni altare. È molto probabile che sia un riferimento alla pratica della supplicatio, secondo Bailey, che in origine era un rito greco, ma ai tempi di Lucrezio 291

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era diventata una pratica ben nota anche a Roma (cf. Liv. 26, 9, 7 e cf. anche Latte 1960, 245 e Deufert 2018, 348 che concorda con questa interpretazione). La pietas nella società romana era dimostrata attraverso diverse modalità di espressione: ad esempio, una grande forza magica si attribuiva alla preghiera fatta ad alta voce, soprattutto se ripetuta (cf. Varro Rust. 1, 2, 27 hoc ter novies cantare iubet). Uno dei rituali più comuni era quello della praecatio, termine sacrale di carattere generale, che comprende l’azione dell’orare, il discorso con il quale ci si rivolge alla divinità. Nelle fasi più antiche la preghiera si confondeva con la formula magica, per cui gli uomini, una volta recitate certe parole, come ad esempio formule di invocazione di un dio o di una dea in modo generico o specifico, a seconda delle circostanze (cf. Cato Agr. 139 si divus si diva esset; Liv. 1, 32, 10 Audi Iuppiter et tu Iane Quirine dique omnes caelestes vosque terrestres, vosque inferni audite; Serv. ad Aen. 2, 51 et Pontifices precabantur: «Iuppiter optime maxime sive alio nomine te appellare volveris»), credevano di poter costringere gli dèi a concedere ciò che più desideravano (cf. Plin. HN 28, 13-14). La preghiera pubblica che rivestiva un carattere di maggiore solennità era la supplicatio, indetta dal Senato, dopo la consultazione dei pontefici, degli aruspici, dei decemviri sacris faciundis, in occasione di calamità o prodigio, o di una vittoria militare. È interessante notare che uno dei periodi più ricchi di supplicazioni e di fervore religioso è quello relativo alla seconda guerra punica. C’è una vasta documentazione in Livio, che attinge direttamente ai documenti pontificali e registra, dal 218 al 202 a.C., tutti gli avvenimenti che si riferiscono alla situazione religiosa e ai prodigi ritenuti un segno premonitore degli dèi, un 292

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preavviso del pericolo che stava correndo la pax deorum, necessaria per la prosperità del popolo romano. Nel proemio del VI libro (vv. 68-78) traspare che Lucrezio, al pari di Epicuro, non vieta che si frequentino i templi della religione tradizionale, ma auspica soltanto che ciò sia fatto placido cum pectore, con un pacato accoglimento dei simulacra emanati dagli dèi, nel pieno rispetto della religione tradizionale.174 6, 68-78 Quae nisi respuis ex animo longeque remittis dis indigna putare alienaque pacis eorum, delibata deum per te tibi numina sancta saepe oberunt; non quo violari summa deum vis possit, ut ex ira poenas petere inbibat acris, sed quia tute tibi placida cum pace quietos constitues magnos irarum volvere fluctus, nec delubra deum placido cum pectore adibis, nec de corpore quae sancto simulacra feruntur in mentes hominum divinae nuntia formae, suscipere haec animi tranquilla pace valebis.

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Eckerman 2019, 293-6 ha proposto due spiegazioni per questo passo (vd. Bruno 2020, 420). Lucrezio afferma che il lettore non può essere in grado di avvicinarsi (adire) ai santuari degli dèi e a contemplare le statue di culto con mente serena (animi tranquilla 174

Epicuro credeva negli dèi e nei benefici della religione ed era assiduo negli atti del culto tradizionale. Questo aspetto è confermato da numerose fonti (Diog. Laert. 10, 10; Cic. Nat. D. 1, 20; Plut. contra Epicuri beat. 21, p. 1102B): osservava tutte le feste e i sacrifici, non per timore dell’ira divina, ma per l’idea che l’uomo doveva avere della loro natura, superiore per sapienza e prestanza. 293

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pace), senza aver compreso la natura e il suo funzionamento dal punto di vista epicureo. Secondo questa prima ipotesi, Lucrezio vede nelle immagini degli dèi una sorta di messaggeri di forma divina (v. 77), perché gli uomini maturano i loro concetti dei corpi degli dèi dalle statue che vedono nei santuari. L’espressione de corpore … sancto simulacra (v. 76) si può riferire alle immagini degli dèi con cui gli uomini verrebbero in contatto nei delubra deum. Dunque, l’espressione de corpore sancto sarebbe il corpo di un dio raffigurato da una statua. Per quanto riguarda la seconda lettura del passo, nei vv. 76-78 Lucrezio avrebbe sottolineato chiaramente che gli uomini hanno sviluppato le loro immagini degli dèi e dei loro corpi basandosi sulle narrazioni che hanno sentito da altri e che alimentano negli uomini l’immaginario degli dèi. Lucrezio si sta riferendo a poeti come Omero, che avrebbero creato immagini di divinità «as ‘messengers’ when they construct their own images of gods» cf. Eckerman 2019, 295, che propende infine per questa seconda interpretazione. Dunque, Lucrezio si augura che gli uomini conseguano una giusta comprensione degli dei, tale da non alimentare paure irrazionali (74); solo così potranno accostarsi ai loro templi senza paura (75) e percepire immagini dei loro corpi (76-77). 1200-1201 nec procumbere humi prostratum… ante deum delubra: la pietas è ben altra cosa sia dall’accostarsi agli altari sia, a maggior ragione, dall’inginocchiarsi a terra in segno di devozione davanti ai templi degli dèi. Procumbere indica proprio l’azione di prostrarsi per una preghiera o per un rituale (cf. ThlL X, 1567, 60 ss.; OLD s.v. procumbo 1b, cf. Liv. 7, 31, 5). L’atto di estrema sottomissione alla potenza divina viene accentuata da 294

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humi prostratum: il participio perfetto di prosterno e il sinonimo procumbo, in allitterazione, intensificano, grazie anche alla presenza del prefisso pro-, il senso di una fisica ed esplicita forma di sottomissione, data dal gesto di gettarsi per terra in segno di supplica (cf. EM, s.v. sterno, 647; cf. OLD s.v. prosterno, 3b). L’uso dei verbi procumbere e prosternere è frequente in contesti non legati alla pratica della supplica religiosa, ma più che altro a quella sociale e militare, con la sottomissione di un popolo ad un altro (cf. Cic. Planc. 50 ut prosternerent se et populo Romano … supplicarent; Liv. 45, 19, 17 qui … diadema … ad pedes victoris hostis prostratus posuerit; da notare, invece, che il verbo procumbo riporta maggiori attestazioni legate all’ambito rituale Liv. 7, 31, 5 pleni lacrimarum in vestibulo curiae procubuerunt). Tuttavia, è anche ben noto che pregare con le mani giunte e le dita intrecciate era assolutamente vietato nel mondo romano, così come viene specificato chiaramente dall’espressione allitterante pandere palmas. Dunque, come pregavano i Romani? Era ben noto l’uso di pregare con gli occhi rivolti verso il cielo, alzando le palme delle mani in alto: di solito, si pregava con una mano alzata oppure con ambedue, a seconda della preghiera o del dio a cui essa era rivolta, ma si pregava rigorosamente in piedi (cf. Verg. Aen. 1, 93; 3, 2634, 9, 16; Hor. Carm. 3, 23, 1). Si tratta di un uso non soltanto romano, ma anche greco (cf. Aesch. PV. 1004-5). Inoltre, se la preghiera era rivolta ad un dio terrestre, l’orante disponeva verso il basso la mano destra, supina manus, mentre nel rivolgersi agli dèi superi avrebbe diretto il palmo della mano verso la dimora del dio (cf. gli studi di carattere generale di Champeaux 2002; De Sanctis 2012; e per la gestualità delle preghiere romane Corbeill 2004, 1240). L’espressione in clausola di verso è riportata anche da Tert. 295

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Adv. Marc. 3, 212 quam genibus nixi simulacro pandere palmas. La duplice allitterazione, PAndere PAlmas e nel verso successivo DElubra DEum, sottolinea la sdegnosa descrizione del significato vano e inutile della preghiera rituale. Delubra deum è una ‘iunctura’ che Lucrezio ha già adoperato nel v. 1166. Il termine poetico delubrum, qui preferito al più comune templum per ricreare il gioco fonico dell’allitterazione con deum, è quasi sempre utilizzato al plurale (per il significato etimologico cf. Macrob. Sat. 3, 4, 2 e Serv. ad Aen. 2, 225 delubrum esse locum ante templum, ubi aqua currit). 1201-1202 nec aras sanguine … votis nectere vota: il sacrificio rappresenta uno dei rituali più caratteristici e significativi della religione romana. Le forme di rappresentazione, di pratiche e di organizzazione, in una religione ritualistica, assumono un’importanza unica anche nei dettagli. Il sacrificio (sacra facere) consisteva in un’offerta incruenta o in una vittima che veniva sacralizzata, cioè sottratta all’uso profano per essere immolata alla divinità (cf. sulla religione della Roma arcaica Smith 2007, 31-42). Si trattava di un vero e proprio dono sacro, mediante il quale l’offerente aveva modo di partecipare alla vita della divinità, in particolare nel caso del sacrificio cruento, perché la vittima sacrificava la sua vita alla divinità. A Roma i sacrifici erano divisi in sacrifici cruenti (hostiae, victimae) e incruenti (libamina): questi avevano luogo in diverse occasioni, con valore espiatorio, purificatorio, propiziatorio (cf. a seconda dei rituali e delle celebrazioni De Sanctis 2012, 67-102). È chiaro che nei vv. 1201-2 Lucrezio si stia riferendo ai sacrifici cruenti degli animali sulle are dei templi, attraverso il mactare, verbo tecnico del linguaggio 296

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sacrificale, che indica l’atto dell’uccisione della vittima sull’altare, qui reso esplicito con la formula sanguine multo/ spargere quadrupedum, posta in ‘enjambement’ tra i due versi (cf. EAH 2013 s.v. suovetaurilia). Gli scopi del sacrificio, ossia i motivi per cui risulta opportuno o necessario mettersi in contatto con la divinità, possono essere molteplici: onorarla nei giorni di festa, chiedere informazioni sull’opportunità di compiere un atto o meno, scongiurare il pericolo provocato dal manifestarsi di un prodigium, attraverso un sacrificio espiatorio. Qualunque sia lo scopo del sacrificio, il motivo per cui si compie questa azione è solo ed esclusivamente un tentativo di mettersi in contatto con la divinità, per “accrescere, ingrandire la divinità” (cf. Benveniste 2001, 453 sul significato di mactus e mactatus, che letteralmente significano “ingrandito”, e il loro rapporto etimologico con magnus, etimologia antica, che fa ben intendere come dal significato originario di mactare, ovvero “rendere più grande”, “accrescere”, si sia passati a designare anche l’azione per mezzo della quale veniva realizzato questo ingrandimento, ovvero l’uccisione della vittima sacrificale; vd. sull’etimologia antica da magnus EM s.v. mactare, 376; Maltby, 358; De Vaan, s.v. mactus, 357). Più che con la celebre sezione di versi dedicata al sacrificio umano di Ifigenia (1, 80-101), vale la pena soffermarsi sul confronto di questi due versi, in particolare con 2, 352-354 e 4, 1236-1239, per la ricorrenza e la somiglianza di un certo tipo di lessico. Nel primo contesto, Lucrezio prova ad assumere il punto di vista del sacrificato e descrive il tragico destino di un vitello destinato ad essere immolato agli dèi (ante deum vitulus delubra decora/ turicremas propter mactatus concidit aras/ sanguinis expirans calidum de pectore flumen) e della conseguente 297

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disperazione della madre alla ricerca del suo vitello, ignara della violenta superstizione umana. Nel secondo, viene descritto uno dei tanti motivi per cui si ricorre all’immolazione di animali innocenti: ci sono uomini che arrivano a compiere sacrifici alla divinità soltanto per avere una possibilità di diventare fertili (et multo sanguine maesti/ conspergunt aras adolentque altaria donis,/ ut gravidas reddant uxores semine largo). L’inutilità di questi rituali è rimarcata in ogni contesto: i sacrifici sono un’evitabile barbarie commessa a danno di vittime innocenti in onore degli dèi che non hanno affatto a cuore le sorti umane (cf. Epicur. Sent. Vat. 65; cf. Lucr. 4, 1239 nequiquam divum numen sortisque fatigant). L’espressione votis nectere vota, particolarmente ricca di espressività per la presenza del poliptoto votis … vota (simile nello stile a Prop. 3, 5, 12 arma nectimus arma nova), ha il significato letterale di “legare i voti con voti”, ovvero di pregare senza fine. È possibile che si tatti delle tabellae votivae che venivano affisse sulle pareti dei templi, proprio come gli ex voto e su altri oggetti consacrati alla divinità (armi, arnesi, vesti), in segno di riconoscenza, dopo aver superato pericoli, o dopo aver trascorso indenni qualche periodo della vita, durante il quale si erano serviti di quelle armi o quelle vesti. Munro ritiene che si tratti delle tavolette appese nei templi (cf. Hor. Carm. 1, 5, 13), nonostante non citi alcun parallelo per questo concreto senso di votum. Il più vicino per Bailey è il contesto virgiliano Aen. 3, 279, che si riferisce alle offerte divine. Inoltre, insieme a vota, in questo senso nectere verrebbe inteso letteralmente, per Bailey nel senso di “to string votive tablets together”, che è altamente probabile. Nel v. 1203 si mette in luce quale sia il vero senso di pietas dal punto di vista degli Epicurei, ovvero la tranquillità dell’animo, che è 298

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un’imitazione della tranquillità divina e, come accade in 6, 73-78, è il risultato del vero rito della preghiera e della celebrazione, che è una ricezione, nella mente di colui che prega, dei simulacra degli dèi. 1203 placata mente: Nel v. 1203 viene chiarito il senso esatto della pietas per Lucrezio. Non a caso il verso si apre con la congiunzione avversativa sed, insieme all’avverbio mage, che sta a indicare la tesi finale della sua argomentazione. Con l’ablativo strumentale placata … mente, in iperbato, è messo in evidenza l’ideale dell’atarassia (accolgo la lezione tràdita placata difesa da Smith 1966, Timpanaro 1978, 190-2, Deufert nella sua edizione e Bruno 2020, 420-1). Due sono le interpretazioni possibili, a seconda di quale tendenza si accoglie, da una parte quella di Konstan, che crede che gli dèi per gli Epicurei esistevano realmente, oppure quella di Sedley, che vede gli dèi come delle invenzioni della mente umana. È probabile che, se è vero quanto ipotizzato da Cicerone, ovvero che l’insolita natura degli dèi, secondo gli Epicurei, nascondesse in realtà una forma di ateismo mai apertamente rivelato, allora è possibile che placata mente sia da interpretare come una distaccata contemplazione del mondo che si manifesta, senza alcun bisogno dell’intervento divino (cf. supra). Al contrario, placata mente potrebbe essere un’espressione costruita per far comprendere che gli uomini, soltanto in questo stato di tranquillità (cf. 6, 75 placido cum pectore), possono ricevere le immagini degli dèi nelle loro menti (cf. anche Epicur. fr. 384 Us.). Tuttavia, non si può essere completamente sicuri che Lucrezio segua pedissequamente il pensiero originario di Epicuro. Perciò, si può anche optare per 299

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l’ipotesi di Konstan, ma con un margine di dubbio sul fatto che Lucrezio possa qui, come anche altrove, essersi reso indipendente dal Maestro. Per Costa, l’espressione (con pacata in luogo di placata) va semplicemente tradotta con “at peace”, mentre per Bailey, è resa come “set a rest”, ossia trovare uno stato di riposo interiore senza l’aggravante di ulteriori paure date dalle superstizioni (cf. 1154 placidam ac placatam degere vitam). L’espressione placata posse omnia mente tueri rappresenta un manifesto della dottrina epicurea e fornisce la lettura ermeneutica su cui si fonda la conoscenza della realtà per Lucrezio (cf. anche 6, 68-78). Al verbo videri in clausola del v. 1198 si oppone tueri: si tratta di due accezioni differenti nel campo semantico della vista (cf. De Vaan, s.v. tueor 632-3). L’empirismo e la teoria delle sensazioni costituiscono la base della conoscenza del reale, ma l’interpretazione dei fenomeni scaturisce dallo stato d’animo con cui l’uomo può contemplarsi, con un realismo materialista privo di inutili ansie e paure. Tueor non indica semplicemente l’atto dell’osservazione visiva del tutto, ma si tratta di un momento di profonda comprensione e contemplazione multisensoriale del mondo (Enn. Ann. 463 Sk.; Lucr. 1, 152 multa in terris fieri caeloque tuentur; 6, 1228 caeli templa tueri). Nel De Finibus Cicerone attribuisce a Democrito una relazione analoga tra l’importanza della ricerca scientifica e l’εὐθυμία, ovvero il benessere (cf. Cic. Fin. 5, 29, 87). La versione storica e didattica sull’origine del credo religioso tra gli uomini, esposta precedentemente (vv. 1161-1193), viene completata da un’analisi accurata delle inquietudini costanti,

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e dei terrori che ogni giorno colpiscono gli uomini e che li inducono a gettarsi ai piedi delle statue delle divinità. 1204-1210. Una parte degli editori più scettici si è accorta che vi sono delle anomalie in questi versi: Giussani ritiene che il nam del v. 1204 (nel testo proposto dall’interprete è il v. 1202) non leghi con ciò che segue, e che tutta la sezione di vv. 1202-1238 (secondo la numerazione di versi di Giussani) sia stata una semplice aggiunta, una ripetizione più articolata dei vv. 1181 ss. Una simile ripetizione potrebbe far pensare che l’intera sezione di versi sia inutile. Tuttavia, l’aspetto e lo stile sono molto diversi. Nella sezione di versi precedenti, l’atteggiamento di Lucrezio sembra essere quasi quello di uno storico, che si limita a raccontare un evento accaduto in tempi remoti, invece, qui assume l’atteggiamento di un filosofo, che assegna all’accaduto un particolare rilievo per la base teorica e l’esposizione della sua dottrina. In tal modo si spiega il giudizio di commiserazione e disapprovazione nei riguardi di un atteggiamento umano che Lucrezio non può condividere. Per Giussani c’è uno hiatus del pensiero non soltanto tra 1203 e 1204 ma anche tra 1196 e 1198: i vv. 1203-7 si collegano naturalmente al v. 1198, in particolare il v. 1207. I vv. 1198-1203, dunque, sarebbero un’aggiunta posteriore del poeta, il quale forse non si sarebbe accorto che, dopo aver descritto la religione come un male quasi ineluttabile, sarebbe stato necessario ricordare la presenza di un rimedio. Secondo questa ipotesi, Lucrezio avrebbe scritto l’aggiunta a parte, a conclusione di tutto il paragrafo, senza stabilire un collegamento logicosintattico. Sauppe 1880 ritiene che l’intera sezione di vv. 1204-

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1240 sia un’integrazione di Lucrezio, probabilmente scritta in un secondo momento. Bailey obietta che i vv. 1198-1203 sono essenziali: la falsa pietas ritualistica è una conseguenza dei gemitus e delle lacrimae che scaturiscono dalla falsa credenza di un’azione divina nel mondo. Il nam del v. 1204 si spiega molto più probabilmente con una sospensione di pensiero, al di là dei vv. 1198-1203, perché il v. 1204 segue a 1197, secondo Giussani. Forse i problemi strutturali messi in evidenza da Giussani e da Bailey risultano meglio risolti, se si interpreta la connessione dei versi così: se talia facta sono attribuiti agli dèi, il genere umano si rende infelice, senza d’altronde essere pio nel conseguente ritualismo, perché la vera pietas consiste nel poter contemplare ogni cosa con mente serena. Solo questa tranquillità ci premunisce contro l’angoscia della religio, la quale altrimenti rinasce non appena leviamo gli occhi al cielo. Forse è la natura stessa, con lo spettacolo immenso del cielo, con lo sgomento infinito che ci sovrasta, a indurre gli uomini a pensare che sia tutta opera della potenza divina. Per l’opinione comune era proprio così: ma l’universo, in realtà, non ha misteri. E dunque tutto questo potrebbe indurre l’uomo a pensare che sia opera di una divina potestà? No, perché l’universo non ha misteri per la ragione e la scienza dell’uomo. Nei vv. 1204-1210 Lucrezio si chiede cosa potrebbe pensare l’uomo mentre si sofferma a guardare il cielo ed è colto dal pensiero che tutto possa essere governato dalla potenza divina. L’uomo, tra tutte le specie viventi, ha un’intelligenza simbolica atta a scoprire schemi e disegni, e il suo talento nella ricerca di significati nascosti non ha pari. Quando non esistono schemi oppure prove sufficienti che siano in grado di fornire una 302

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ragionevole spiegazione, la specie umana, come riportato da Lucrezio in questi versi, tende a inventare. La capacità umana di procurarsi l’autoinganno è grande tanto quanto il tentativo di spiegare un fenomeno, in assenza di una dimostrazione scientifica. Il rischio che denuncia Lucrezio è che, per cercare il senso della vita e del mondo nell’universo, l’ansia (cura v. 1207), che affligge tutti gli uomini per insufficienza di prove, finisca per ingannare tutti, creando delle superstizioni sempre più difficili da sradicare, proprio perché è insito nella natura umana cercare di darsi più spiegazioni possibili. 1204 nam cum suspicimus: il v. 1204, come già spiegato, riprende dal punto di vista contenutistico i vv. 1194-1203. La proposizione temporale indica un’azione continuata nel passato, che viene espressa da suspicimus (cf. EM, s.v. specio, 639-40, il significato originario dell’uso di specio sta a sottolineare, negli autori più antichi, un senso di artificio, da cui derivano speculum e specimen). Suspicio (cf. OLD s.v. suspicio, 1-2) vuol dire semplicemente guardare in alto, levare gli occhi verso il cielo, proprio come in Cic. Nat. D. 2, 2, 4 cum caelum suspeximus caelestiaque contemplati sumus. Il contesto del De natura deorum è particolarmente vicino (cf. Auvray-Assays 1999, 101-10). Inoltre, sembra un dettaglio, ma il tempo presente al v. 1204 è significativo, lasciando intendere che anche i contemporanei di Lucrezio possono fare lo stesso errore proprio come gli antenati, cf. vv. 1172-93. Una riflessione molto simile, per la reazione emotiva dinanzi all’immensità dell’universo, viene espressa da Lucrezio in 3, 28-30: 303

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his ibi me rebus quaedam divina voluptas percipit atque horror, quod sic natura tua vi tam manifesta patens ex omni parte retecta est.

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Caelestia … templa: si tratta di una perifrasi in ‘enjambement’ e in struttura chiastica, magni caelestia mundi templa, per indicare “la volta del cielo”. L’espressione potrebbe sembrare alquanto generica, ma in seguito, Lucrezio stabilisce la differenza tra le stelle e il fondo etereo. Per l’espressione magni caelestia mundi nel v. 1204 cf. un valido modello del verso lucreziano, Enn. Scaen. 196 V2 o magna templa caelitum commixta stellis splendidis = 72 Manuwald), da cui anche 2, 1144 magni quoque circum moenia mundi. È interessante che Lucrezio scelga templum, non solo per citare il verso enniano a cui, con un certo margine di sicurezza, allude per indicare lo spazio celeste. Non credo che si tratti di un caso, perché templum (cf. OLD s.v. templum, 1) è quella porzione delimitata e circoscritta di terra o di cielo consacrata dall’augure, affinché da quello spazio possa trarre gli auspici. Il cielo è sempre stato individuato universalmente dagli uomini come la sede sacra delle dimore divine. Stando a quello che dice Varrone in Ling. 7, 6 templum tribus modis dicitur: ab natura, ab auspicando, a similitudine; ab natura in caelo, ab auspiciis in terra, a similitudine sub terra. È probabile che sia da leggere proprio in 1204 un’allusione abbastanza chiara alle dimore degli dèi, ma non è possibile desumere con certezza se le sedi degli dèi siano nella mente degli uomini o esistano realmente. Gli dèi sembrerebbero essere molto più che semplici proiezioni della mente umana ma, come ripete in più momenti, tuttavia essi sono fatti di atomi

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sottilissimi, proprio come i pensieri e i sogni, e vivono nelle loro dimore celesti, lontani e inaccessibili agli uomini. 1205 super … fixum: Ennio sembra essere il poeta di riferimento per il numero di allusioni che Lucrezio fa in questi pochi versi. Infatti, potrebbe equivalere ad aptum proprio come in Enn. Ann. 27 Sk. = 29 V2 qui caelum versat stellis fulgentibus aptum oppure caelum prospexit stellis fulgentibus aptum (Enn. Ann. 145 Sk. = 159 V2). Secondo Ernout e Robin, invece, il senso di fixum equivale ad aptum, e anche come in 5, 928 e che la costruzione equivale a in quo stellae micantes fixae sunt, cf. Verg. Aen. 4, 482 axem … torquet stellis micantibus aptum. È probabile che il significato dell’intera espressione stia a indicare, secondo Costa, “the ether above studded with gleaming stars”, e per mezzo di super, nel valore di preposizione, il senso sarebbe “the ether set firm above the gleaming stars”. Resta un’aporia il senso di super stellisque micatibus aethera fixum, poiché va compreso se Lucrezio considerava le stelle come parte dell’etere, oppure se fossero collocate nella parte inferiore. Il problema resta essenzialmente contenutistico, dal momento che l’autore non ha affrontato in modo esaustivo la parte astronomica a inizio del libro V. Secondo Bailey non ci sono termini di paragone sufficienti per comprendere quale fosse la posizione di Lucrezio in merito alla relazione spaziale tra le stelle e l’aether (cf. Enn. Ann. 145 Sk. caelum prospexit stellis fulgentibus aptum, imitato da Lucrezio in 6, 357). Il verso enniano potrebbe essere d’aiuto per supportare la prima interpretazione, a sostegno della quale Munro cita Ov. Met. 2, 204-5.

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Per Bailey, appare più verosimile che le stelle fossero collocate al di sotto dell’etere, in particolare perché Lucrezio molto probabilmente riteneva che l’etere fosse in movimento 5, 510 principio magnus caeli si vertitur orbis. Se si interpreta in un modo, si verrebbe a creare una ripetizione di magni caelestia mundi templa, con il secondo senso, invece, c’è una sequenza naturale in ordine decrescente: ovvero, il cielo, le stelle, il sole e la luna. Anche l’enfasi cade, come ci si aspetterebbe, sulle stelle. Nel caso in cui le stelle siano da interpretare come parte dell’etere, allora super sarebbe un avverbio (“in alto”), nel secondo caso, invece, una preposizione (“al di sopra delle stelle splendenti”). Le stelle però, in un etere fermo, sembrano pulsare e illuminarsi di luce: micantibus … fixum forma un’immagine ossimorica, che crea un contrasto tra la luce pulsante e scintillante delle stelle e lo spazio fermo e fisso nel cielo. Super stellisque è complicato anche nella sua costruzione: sarebbe stato più semplice da interpretare superque stellis. Deufert 2018, 350 difende l’interpretazione di super come preposizione, richiamando una serie di esempi nel DRN in casi simili in cui una preposizione può essere accompagnata da un sostantivo e dalla congiunzione -que legata al sostantivo e non alla preposizione (cf. 1, 1059 in terraque; 2, 70 Ex oculisque, 2, 663 Ex unoque, 4, 65 ab rebusque, 4, 200 Ex altoque, 4, 1100 In medioque, 4, 1249 ex aliisque, 5, 49 ex animoque, 5, 1188 In caeloque, 6, 562 Ad caelumque, 6, 884 de terraque). Così la traduzione plausibile sarebbe “al di sopra delle stelle tremanti l’etere affisso”. Per stella micans cf. Cic. Nat. D. 2, 42, 110: è un’espressione poetica ripresa dagli Aratea di Cicerone.

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Sull’influsso degli Aratea sulla cosmologia lucreziana del libro 5, cf. Gee 2013. 1206-1207 venit in mentem … cura: la visione del cielo fa tornare alla mente degli uomini il ricordo della loro profonda angoscia. Come si possono spiegare i moti del sole e della luna, se non grazie alla potestas divina? L’ansia di ricevere una risposta che possa soddisfare la curiosità porta alla genesi di una paura irrazionale. In mancanza di conoscenza e di prove evidenti del funzionamento dei fenomeni naturali, l’unico ricordo che rimane è l’opinione comune che si tratti di opera divina. La costruzione col genitivo è analoga a quella di tutti i verbi della memoria tra cui memini, obliviscor, reminiscor, come in diversi altri contesti di età repubblicana (cf. Ter. Phorm. 154; Cic. De Or. 2, 249, Fin. 5, 2 cf. K-S II, 1, 472, A. 18). Il verbo regge il genitivo viarum, che sta ad indicare i percorsi costanti del sole e della luna. L’immagine, descritta in questi versi, degli uomini legati alle tradizionali credenze, è connessa al contesto 1, 62-71: Humana ante oculos foede cum vita iaceret in terris, oppressa gravi sub religione, quae caput a caeli regionibus ostendebat, horribili super aspectu mortalibus instans, primum Graius homo mortalis tendere contra est oculos ausus primusque obsistere contra; quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti murmure compressit caelum, sed eo magis acrem inritat animi virtutem, effringere ut arta naturae primus portarum claustra cupiret.

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I due passi mettono in evidenza la distanza tra il pensare comune degli uomini e la teoria filosofica di Epicuro, in una ossimorica contrapposizione tra l’irrazionale pensiero della massa e la razionale dottrina del filosofo ancora da dover acquisire. La sensazione provocata dalla cura viene interpretata come qualcosa che assale gli uomini dall’esterno, proprio dal cielo e che fosse giunta per spaventarli e per lasciarli soli con la loro sensazione di oppressione, scaturita dalla religio. Si tratta, però di una sensazione falsa, poiché l’angoscia scaturisce dall’interno dell’animo inquieto. Anche in 1, 63 c’è oppressa che si riferisce a humana vita (“la vita umana giaceva sulla terra oppressa dal grave peso della religione”). Epicuro, il Graius homo, è l’eroe del DRN, “campione dell’umanità disarmata e avvilita” (cf. Conte 1990, 8), perché fu il primo a intraprendere delle vie mai percorse dal pensiero umano e ad aver provato a placare, a detta di Lucrezio, le paure degli uomini, oppressi e schiacciati dalle loro ingiustificate superstizioni. Oppressa insieme al plurale pectora (cf. per il significato di pectus 1, 19; 2, 14, 622, 1093) forma un iperbato per ragioni metriche. Secondo Brieger, aliis oppressa malis dovrebbe essere riferito a cura e significare “tenuto a bada da altri mali”. Anche Ernout ritiene che pectore sia la lezione corretta e che in OQ ci sarebbe stata una confusione, tra l’altro molto comune, delle due vocali, a ed e (cf. 6, 897, 1076, 1124, 1148). Tuttavia, anche dal punto di vista logico, accettare, come fanno Brieger e Ernout, la lezione riportata soltanto dai mss. Itali, ovvero pectore, non avrebbe molto senso. Se si legge pectore allora sarebbero i dolori e gli affanni a placare l’ansia, ma è vero il contrario. È l’angoscia a

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emergere dal profondo degli animi oppressi dai mali (trad. “nei cuori soffocati già da altri dolori anche questa angoscia inizia ad alzare il capo destato”). Rimane il fatto che si debba spiegare il motivo della presenza di in e l’accusativo, assumendo il significato di “contro” oppure “verso”. Infatti Giussani traduce in pectora “comincia a rizzarsi in faccia all’animo, già oppresso da altri mali”. Ma il senso che si può dare a in unito all’accusativo è quello del contrasto “contro”, “dinanzi a”, anche se questa traduzione non tiene conto di quoque, elemento altrettanto importante. È interessante anche segnalare che, nel v. 1208, la personificazione dell’ansia richiama l’immagine, in 1, 64, della superstizione come demone o mostro, che ha scoperto il suo volto dalle regioni del cielo (caput a caeli regionibus ostendebat). Tale immagine piuttosto vivida e impressionistica, ha preoccupato gli editori più legati alle interpretazioni letterali del testo. La nota di Bailey, a riguardo, ritiene che sia un tentativo per alterare il testo oppure distorcere il significato, mentre, a mio avviso, rientra nell’uso tipicamente lucreziano delle immagini e delle metafore, ereditato da Empedocle (cf. sul tema Garani 2007). Anche nel v. 1208 viene ripresa un’immagine molto simile a 1, 66, nonostante non vi sia alcuna riproposizione lessicale o stilistica, ma solo simile nel contenuto. Dunque, l’uomo, soltanto quando inizia a contemplare il cielo, avverte una certa forma di inquietudine. 1208-1210 expergefactum caput … sidera verset: Lucrezio compone, con il participio expergefactum, un neologismo che crea, insieme a erigere, una ridondanza. Il termine, piuttosto complesso, accenna efficacemente all’improvvisa e inaspettata comparsa dell’angoscia, che emerge e innalza la sua testa, come se 309

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fosse il capo di un serpente. A differenza delle altre forme di paura, essa è senza ragione e non ha alcun fondamento nella natura delle cose. Il senso di erigere è simile a 4, 404 e 5, 1455. Il nobis nel v. 1209 è tipico del linguaggio del parlato, si tratta di un dativo etico, così reso letteralmente dalla Gale: “perhaps for us there is some boundless power of the gods”. Non a caso il tempo prescelto per questi versi è il presente, poiché indica che facilmente si ricade nello stesso errore che hanno commesso degli uomini primitivi (cf. 1172-1193). Inizia, a partire dal v. 1209, la prima di una lunga serie di domande che Lucrezio si pone per far comprendere quali siano i dubbi che turbano e offuscano la mente degli uomini dinanzi agli eventi che non si possono spiegare. La conseguenza di questi stati mentali apre a una serie di possibilità: la prima (vv. 1209-1210) è che dinanzi ai nostri occhi, lo spettacolo celeste si manifesti come un aspetto del potere divino; in seguito (vv. 1218-1225), gli uomini temono che i cieli si possano mostrare come una minaccia e che creino una distruzione fatale; e ancora (vv. 1226-1232), le tempeste marine si possano abbattere con estrema violenza contro bersagli umani; infine (vv. 1233-1240), la paura è quella che gli dèi, se possono intimidire gli uomini con i più terribili fenomeni naturali, allora possono essere i padroni dell’intero creato. Lucrezio anticipa il potere che può avere la deterrenza e la paura in uno scontro, ritenuto impari, tra uomini che ritengono di doversi confrontare con la natura creata da esseri divini. Si tratta, naturalmente, di un’illusione, poiché gli dèi non hanno creato nulla e la paura non è che una proiezione

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dell’ignoranza e della mancanza di spiegazioni, che gli uomini non riescono razionalmente a darsi. È particolarmente significativo l’uso che Lucrezio fa di forte. La fors domina tutto il pensiero razionale, regolato da leggi naturali, in cui talvolta viene a trovarsi il caso, che rappresenta il punto di rottura con il determinismo atomistico di Democrito (cf. 2, 216-220; cf. Johnson 2009, 5-52). Dunque, la inmensa potestas divina si mostra casualmente agli occhi degli uomini, nelle circostanze che appaiono regolari oppure eccezionali, come i moti degli astri (per vario motu cf. 621-635). Candida sidera è una sineddoche, che indica indistintamente tutti i corpi celesti, tra cui soprattutto il sole e la luna che sono stati già menzionati nel v. 1206. Pertanto, in primo luogo, è l’ordine del cielo a far cadere in errore gli uomini, in seguito sono i fenomeni meteorologici e endogeni. 1211-1217. I versi in questione sono problematici e rompono la serie di argomentazioni e quesiti che pone Lucrezio. Secondo gli uomini, sarebbero gli dèi i responsabili dei fenomeni astronomici e meteorologici. I vv. 1204-1210 mantengono una continuità nei contenuti con i vv. 1183-1187, soprattutto nel riferire l’impressione sugli uomini del movimento stellare e, in particolare, grazie alla sua ripresa con i vv. 1218-1232. I vv. 1211-1217 rompono una sequenza armonica nello stile e nel contenuto, per inserire una riflessione che, in realtà, è pienamente nello stile lucreziano. Tuttavia, l’autenticità dei versi è stata messa in discussione, ben prima di Deufert 1996, 299-301 – che, però, nell’ultima edizione ha cambiato parere (cf. Deufert 311

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2018, 348-9) – anche da Kornrad Müller, che nella sua edizione decide di espungere soltanto i vv. 1215-1217, principalmente per una questione legata al lessico e alla presenza di una terminologia infrequente nel DRN, come ad esempio l’uso di equae e equaenam. Il v. 1214 ha posto non pochi problemi per l’improbabile et taciti, tràdito dalla più autorevole tradizione manoscritta di OQ, conservata da Diels, Merrill (che stampa solo taciti) e Martin: a tal proposito, Bentley aveva emendato la lezione con la sostituzione di solliciti in luogo di et taciti. Con una certa perplessità la lezione solliciti viene accolta da Bailey in luogo del tràdito et taciti, cf. anche 1, 343 e 6, 1038 sollicito motu. Taciti motus potrebbe essere, secondo Costa, un secondo soggetto di possint, ma finisce per interrompere la concordanza tra moenia … donata. Solliciti, se si decide di conservare i versi, è sicuramente la congettura più accettabile rispetto alla proposta et tanti di Lambinus. Una ripetizione sospetta è presente anche nel v. 1212 mundi genitalis origo, che riprende quasi alla lettera 5, 176 rerum genitalis origo. Inoltre, rationis egestas nel v. 1214 replica l’espressione in 4, 263 rationis egentem: nonostante le ripetizioni rappresentino un fenomeno piuttosto frequente in Lucrezio, questa sembra essere una spia che i versi da espungere siano stati composti da un interpolatore. Un altro argomento a vantaggio dell’espunzione potrebbe essere rappresentato dal fatto che tutti i termini nelle clausole di verso di 1211-1217 sono presenti in numero abbastanza frequente in altri contesti del DRN. Il presunto interpolatore avrebbe rielaborato alcune delle più frequenti chiuse di verso lucreziane: egestas occorre per quattro volte in clausola di verso, cf. anche la 312

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variante egere e egentem in 3, 44; 4, 502; genitalis origo occorre a fine verso per tre volte, moenia mundi per ben dieci volte, ferre laborem per tre volte. Sono lucreziane anche le chiuse labentia tractu (cf. 1, 1004) e contemnere viris (4, 489). È piuttosto singolare il collegamento antitetico del poliptoto ecquaenam e ecquae, nei vv. 1212-1213. Non mancano altre riprese più o meno evidenti dei vv. 1216-1217 in 1, 1004 e 5, 379. Secondo Deufert 1996, 299-301 un altro punto abbastanza debole era costituito dalla ripetizione di aevi nei vv. 1216-1217. Ma il DRN è un testo non revisionato, a mio avviso, e dunque incompleto, allora è facile pensare che si possa trattare di un commento lucreziano, piuttosto ripetitivo, ai versi precedenti. La rationis egestas è anche l’ignorantia causarum di 6, 54, che assilla la mente col dubbio se mai vi sia stata un’origine generatrice del mondo (5, 324) e se vi sia un termine fino al quale (finis quoad) le mura del mondo (cf. 1, 73 e 3, 16) possano sopportare questo travaglio di moto affannoso (v. 1213). A supporto di questa idea sull’uso delle ripetizioni, sta il fatto che anche il v. 1217 è una ripetizione del v. 379 immensi validas aevi contemnere viris, dove Lucrezio afferma che il mondo non è immortale. La seguente è una speranza che Lucrezio attribuisce agli uomini: se tutto ciò che è naturale ha un’origine divina allora il mondo potrebbe essere eterno, al contrario di quello che la sua dottrina si sforza di dimostrare, ovvero che tutto ha una fine e che l’energia del pianeta è destinata ad esaurirsi. 1218-1225. Continua la serie di interrogativi che si pone Lucrezio per argomentare la paura degli uomini dinanzi alla possibilità che ogni evento naturale calamitoso possa essere provocato dagli dèi e 313

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usato come minaccia contro gli esseri umani (sui versi cf. Bruno 2019, 42-63). 1218 praeterea: «A number of words are stable at the beginning of the verse. […] Propterea is the initial word in the verse 37 out of 42 times, as is praeterea 76 out of 94. […] This verbal stability repeatedly calls the attention of the reader to the physical surface and the poetical craft of the poem. It increases his consciousness of the metrical design and form of the whole» (cf. Minyard 1978, 13). Il verso in esame è aperto dalla congiunzione “formulare” praeterea, che, Minyard, serve a rafforzare la spiegazione di un argomento (cf. ThlL X, 1005, 45) e funge da introduzione ad una serie di interrogative. Le interrogative negative danno maggiore rilievo all’universalità del sentimento di terrore da cui sono afflitti indistintamente tutti gli uomini al pensiero di essere la causa dell’ira divina, che si manifesta attraverso i fulmini e i tuoni che rompono la quiete del cielo. 1218-1219 formidine divum contrahitur: insieme al metus, all’horror e al terror, la formido e, nel verso seguente, il pavor, conferiscono un’ulteriore sfumatura al grado di intensità dei sintomi della paura, in particolare come conseguenza del sentimento irrazionale della religio (cf. von Albrecht 2005, 23145). La formido ha un significato di senso concreto e uno astratto (cf. ThlL, VI, 1096; cf. EM, s.v. formido, 248; cf. De Vaan, 234), e può indicare la personificazione stessa della paura. Seneca, a tal proposito, prova a spiegare quale possa essere il significato più antico di questo concetto nel De ira (2, 11, 5 cum maximos ferarum greges linea pinnis distincta contineat et in insidias agat, 314

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ab ipso effectu dicta formido). Spesso il termine indica un senso propriamente religioso, come ad esempio in Verg. Aen. 7, 608 belli portae … religione sacrae et sacri formidine Martis (cf. OLD, s.v. formido, 1b). Lucrezio descrive la reazione psicosomatica della paura: l’animo si contrae, ovvero si irrigidisce per il timore degli dèi (per l’espressione formidine divum cf. Lucr. 6, 52). Contrahitur dà il senso del restringimento e della rigidità del corpo che si contrae per la paura (cf. ThlL, IV, 762, 43; OLD, s.v. contraho 2, e per il suo senso figurato 3 ‘to sadden, to depress’). Spesso il verbo forma una iunctura con animus (cf. Cic. Tusc. 4, 14: animos demittunt et contrahunt rationi non obtemperantes; cf. anche Cic. Q. Fr. 1, 1, 4: ne contrahas ac demittas animum). 1219-1221 correpunt membra pavore…murmura caelum?: L’idea del correpere per la paura non trova attestazioni testuali frequenti (ad esempio vd. Sen. Q. Nat. 6, 2, 6 quid enim dementius quam ad tonitrua succidere et sub terram correpere fulminum metu?). Munro spiega bene il significato di correpere, come se fosse riferito a un verme o un rettile che si contrae in se stesso, dal momento che il principale significato del termine è ‘strisciare’ (cf. ThlL, IV, 1030, 46; OLD, s.v. correpere 1, ‘to creep’). È chiaro che qui viene usato come un sinonimo di contrahere, per indicare il brivido che sentono gli arti quando si avverte la paura. Nel v. 1220 fulminis corrisponde a fulmina del v. 1192 (cf. Lucr. 6, 287 inde tremor terras graviter pertemptat et altum murmura percurrunt caelum), ed è definito horribilis, nel senso di ‘terribile, spaventoso’ (cf. EM, s.v. horreo, 299-300, che conserva nel suo significato originario e etimologico il senso del ‘frissoner’, tremare per la paura). 315

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Plaga: eredita il suo significato etimologico da plango (cf. ThlL, X, 2291, 36), da non confondere con l’altro significato, da planus, e indica l’urto del fulmine sulla terra. Il prefisso cum- è per il verbo tremo un rafforzativo: non si tratta semplicemente di scuotere la terra, ma di farla tremare con maggiore violenza e intensità (cf. OLD, s.v. contremo). Anche l’ ‘enjambement’ tra il v. 1220 e 1221 contribuisce a rafforzare l’azione, isolando in posizione incipitaria il verbo. Murmura: i versi 1220-1222 si caratterizzano per il ricorso a effetti fonici, e in particolare per la sensibile armonia onomatopeica (Torrida Tellus … MagnuM peRcuRRunt MuRMURa … tReMUnt Regeque supeRbi). Vale la pena il confronto con Democrito 68 A 75 DK (= Sest. Emp. Math. 9, 24). All’allitterazione si associa l’iperbato magnum … caelum. Ai vv. 1220-21 c’è una ripresa di Lucr. 6, 287-88 inde tremor terras graviter pertemptat et altum / murmura percurrunt caelum: la terra, quindi, è scossa dall’impatto dei terremoti (cf. anche l’argomento affrontato da Sen. Q Nat. 6, 2, 6: ad tonitrua succidere et sub terram correpere fulminum metu?). La ripetizione onomatopeica del v. 1221 magnum percurrunt murmura ricorda molto il v. 1193 murmura magna minarum, che lega il passato con il presente e sottolinea che credere nel controllo divino del mondo e provare paura per certi fenomeni è connaturato nell’essere umano. Murmura è un grecismo, che non indica soltanto il leggero rumore continuo, con evidente origine lessicale onomatopeica, in quanto riproduce anche un boato indistinto e cupo, particolarmente 316

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efficace per i suoni provocati da fenomeni naturali (cf. ThlL, VIII, 1675, 51; cf. OLD, s.v. murmur 1b). In questo contesto è da interpretare come ‘rombo’, ‘fragore’ di un tuono, e dunque sta a indicare la violenza dell’irrompersi di un temporale e lo scuotimento che provoca nel territorio circostante. Percurrunt: il verbo dà l’idea di un movimento fulmineo, sia in un senso più strettamente letterale sia metaforico, che riguarda le sensazioni e il passaggio di informazioni. Spesso il verbo si riferisce a fenomeni naturali (cf. OLD, s.v. percurro 2, cf. Lucr. 1, 273 rapido percurrens turbina campos e Lucr. 6, 668 mare ac terras rapidus percurrere turbo). 1222-1225. I versi denunciano le ragioni del prevalere della superstitio sulla religio, soprattutto per le erronee interpretazioni dei fenomeni naturali. Le comunità intere, nelle loro specifiche componenti, stirpi, popolo e governanti, questi ultimi insuperbiti dalla loro autorità, sono atterrite dal timore di minacce e vendette divine. 1222 non populi gentesque … regesque superbi: Populi gentesque forma un’endiadi che si ritroverà anche in Verg. Aen. 6, 706; 7, 236-8 e Liv. 14, 19: inter multas regum gentiumque et populorum legationes. I populi sono propriamente le persone che si sono organizzate in gruppi più o meno ampi di tribù e clan (cf. De Vaan, s.v. populus, 480, dove l’origine etimologica del termine viene fatta risalire ad una radice proto-italica *poplo- nel significato di «army»; dunque «the meaning ‘to devastate’ for the 317

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deponent probably developed through the usage ‘to have an army pass through’». Cf. anche ThlL, X, 2713, 60). Il significato di gens è ben più ristretto, dal momento che il populus è costituito da un insieme di gentes, ovvero ‘clan, tribù’: pertanto, pur trattandosi di endiadi, nonostante la differenza, i due termini si completano a vicenda. Regesque superbi, posto in clausola di verso per accentuarne la rilevanza, è una iunctura particolarmente significativa per comprendere il pensiero che Lucrezio esprime fin dai vv. 1105 ss. L’attributo superbus crea un legame immediato con sceptra superba (v. 1137), in clausola di verso, che indica il potere insolente e arrogante dei re tiranni. È spontaneo anche qui cogliere un riferimento storico, come nel v. 1137, al re Tarquinio, il superbo per antonomasia. L’atteggiamento di Lucrezio appare quello di un simpatizzante del potere aristocratico e oligarchico nei vv. 1105-12, ma da quando la monarchia e l’aristocrazia primitiva, raggiunta per oggettivi fattori di merito e di superiorità fisica e intellettiva, vengono sostituite dalla successione ereditaria, anche la sua opinione cambia. I reges del v. 1136 e del v. 1222 hanno l’epiteto caratteristico della tirannide, superbi: dunque, il periodo a cui Lucrezio si sta riferendo è diverso e più recente. Inoltre, l’uso insistente di superbus è intensificato anche dalla presenza dell’avverbio superbe a conclusione del v. 1224: ogni parola pronunciata oppure ogni azione compiuta contro la volontà degli dèi era ritenuta comunemente come superba, effetto della hybris di eschilea memoria. Lucrezio denuncia la concezione popolare fondata sui miti, che ha impedito agli uomini, ai popoli e alle genti di svincolarsi dal volere divino per non subire ritorsioni. L’ampio repertorio mitologico di storie di supplizi a danno di chi ha 318

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disubbidito agli dèi (cf. i miti di Prometeo, Tantalo), che ha condizionato profondamente l’immaginario popolare e ha contribuito alla diffusione delle superstizioni, è il vero ostacolo contro cui si schiera la dottrina epicurea. La seconda e la terza ragione, per cui gli uomini dovrebbero poter credere che il mondo sia governato da entità soprannaturali e divine, non riguarda la presenza di fenomeni regolari del mondo, ma è dovuto a fenomeni occasionali e terrificanti, come i terremoti o i temporali. 1223 corripiunt … membra timore: I codici riportano unanimemente corripiunt nel v. 1223. Sta di fatto che corripere è adoperato in uno dei suoi significati più inusuali, per indicare la contrazione e l’irrigidimento delle membra a causa della paura (cf. ThlL, IV, 1041, 56; OLD, s.v. corripere 7, ‘to contract convulsively’). Corripere ricalcherebbe, per significato e composizione, il v. 1219, contrahere … membra pavore (cf. anche Lucr. 4, 83 e 3, 163), così come percutere assumerebbe un significato simile a quello di correpere. Si tratta di un caso di anafora multipla e di autocitazione molto frequente nella poesia latina (cf. per maggiori esempi Wills 1996, 363-7). 1224-1225 ne quod … adactum: La paura più comune degli uomini, che Lucrezio svela, è quella di dover subire, prima o poi, la giustizia divina, una grave punizione per qualche azione o parola superba, che gli uomini avrebbero potuto compiere o pronunciare nel corso della loro vita. Nel v. 1224 scelgo di stampare ne quod, lezione tràdita dai principali codici OQ. Nequid 319

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è un emendamento di Lachmann, accolto da diversi editori, tra cui Bailey, e che dal punto di vista grammaticale non presenta particolari difficoltà. La tradizione manoscritta è difesa anche da Avotins, che prova a dimostrare la sua proposta con diversi esempi di iscrizioni e con il passo di Plaut. Pseud. 683-84,175 e anche da Deufert 2018, 351: «dennoch scheint es möglich, quod zu halten und admissum und dictum als Substantive aufzufassen, obwohl ihnen die Adverbien foede und superbe zur Seite stehen». Adactum (da adigere), nel v. 1225, è emendamento di Marullo e Pontano, in luogo di adauctum, riportato dagli autorevoli mss. OQ (da adaugere). La congettura di Marullo e Pontano è più vicina alla lettura del manoscritto e sembra essere una più naturale forma di espressione rispetto ad adultum di Lachmann, che crea una costruzione della frase piuttosto insolita. La correzione di Pontano è, inoltre, supportata da una corruzione simile che è presente nel v. 1330 (nam transversa feros exibant dentis adactus). Sia paleograficamente sia nel senso, la lezione adactum sembra essere la migliore proposta. 175

Avotins difende la lezione nequod: «In summation, we have here a total of nineteen occurrences of quod and its compounds used as a substantive indefinite pronoun. There is no reason to suspect all these readings of being mistakes of scribes or lapicides. It appears, then, that if quod is construed as a substantive with admissum, we need not with Lachmann emend it to quid. This interpretation of quod is not, of course, the only possible one of these lines of Lucretius. […] The second interpretation takes admissum as a noun with quod agreeing with it as an adjective. […] The third way of construing nequod is to join it as an adjective to tempus. This interpretation, although not ungrammatical, has not found favour with scholars». Cf. Avotins 1998, 588-89. 320

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1226-1232. Lucrezio si sofferma, con una lunga similitudine, su quale sia la forza sconosciuta (vis abdita v. 1233), in grado di sconvolgere le res humanae. L’argomentazione dei vv. 1226-1232 è condotta secondo una costruzione simile ai vv. 1120-30. In linea con tutta la poesia epica (da Hes. Op. 650-9 e, più avanti in Verg. Aen. 1, 81-123 e Sil. 1, 56-139), l’immagine prodotta da Lucrezio si sofferma sulla descrizione di una tempesta,. Nel proemio del secondo libro, Lucrezio tratta con ulteriori precisazioni la questione dell’etica e del modo più corretto di affrontare le vicende che riguardano la vita degli uomini: come viene ribadito anche in 5, 1117-1119, le ricchezze e il potere non giovano né al corpo e a suoi bisogni, né all’anima, e gli uomini dovrebbero imparare a riconoscere che una vita senza l’ambiziosa corsa verso la gloria e la fama conduce ad una esistenza più felice (cf. anche la ripresa di Hor. Carm. 2, 16). Per raggiungere la vetta del potere, gli uomini ricorrono a scontri violenti, che non servono da deterrente tale da farli smettere (cf. Lucr. 2, 40-46): tuttavia, soltanto le superstizioni religiose, da cui è difficile affrancarsi, accrescono le loro ansie e le loro paure e possono rappresentare un valido motivo per scatenare l’ira divina. Lucrezio in questi versi si autocita, non solo nel contenuto ma anche nello stile, nella ripresa del proemio del libro 2, 37-54, in cui non mancano spinosi e complessi problemi testuali (cf. Fowler 2002, 114-20): Quapropter quoniam nil nostro in corpore gazae proficiunt neque nobilitas nec gloria regni, quod superest, animo quoque nil prodesse putandum; si non forte, tuas legiones per loca campi fervere cum videbas belli simulacra cientis,

321

40

Commento subsidiis magnis †epicuri† constabilitas, ornatas armis †itastuas tariterque† animatas, {fervere cum videas classem lateque vagari} his tibi tum rebus timefactae religiones effugiunt animo pavidae, mortisque timores tum vacuum pectus lincunt curaque solutum. Quod si ridicula haec ludibriaque esse videmus, re veraque metus hominum curaeque sequaces nec metuunt sonitus armorum nec fera tela audacterque inter reges rerumque potentis versantur neque fulgorem reuerentur ab auro nec clarum vestis splendorem purpureai, quid dubitas quin omnis sit haec rationis potestas, omnis cum in tenebris praesertim vita laboret?

43a 45

50

È probabile che i due passi strettamente legati del libro II e V176 siano stati il modello di Sen. Ben. 7, 3, 2: non habet [scil. sapiens] mittendos trans maria legatos nec metanda in ripis hostilibus castra, non opportunis castellis disponenda praesidia; non opus est legione nec equestribus turmis. Quemadmodum di immortales regnum inermes regunt et illis rerum suarum ex edito tranquilloque tutela est, ita hic officia sua, quamvis latissime pateant, sine tumultu obit et omne humanum genus potentissimus eius optimusque infra se videt.

176

Bignone aveva visto nel proemio del II libro un’allusione, contenutistica e stilistica, a Hdt. 7, 144-45 (cf. anche Aesch. Pers. 46566), grazie alla presenza di anafore che ricalcano lo stile del passo erodoteo (cf. Bignone 1909, 57-60). Effettivamente, come già notava Fowler 2002, 116) «this moralizing background would be very appropriate in the context of Book 2». 322

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Nei vv. 1226-1227, la tempesta è descritta anche per mezzo di figure del suono, come l’assonanza e l’allitterazione di Vis ViolENTI … VENTI (cf. Lucr. 1, 271; 5, 964, e 1270). Inoltre, l’intero verso è formato da un’efficace parallelismo (aggettivosostantivo-aggettivo-sostantivo), summa … vis violenti … venti. 1227 induperatorem … verrit: nel v. 1227, Lucrezio adopera il termine induperatorem, che è una forma arcaica di imperatorem (cf. Lucr. 3, 1028; 4, 967; 5, 101-103), soprattutto per ragioni metriche, proprio come indupedita, v. 876. Non si può escludere, tuttavia, che il poeta richiami uno degli arcaismi più frequenti di Ennio (Ann. 78, 322, 347, 577 Sk.), ripreso in seguito anche da Giovenale (4, 29 e 10, 138). Se induperator si riferisce alla più alta carica di un comandante romano, del vir romanus, portatore di alti valori tradizionali, Lucrezio mostra che la devozione e le preghiere non bastano per fermare la furia della tempesta. La straordinaria forza del vento, indicata in ‘climax’ da summa vis violenti del v. 1226, è in grado di spazzare via (verrit) il comandante di una flotta (classis) sulle onde del mare (aequora). Il mare viene ripetuto per due volte nei vv. 1226-27, prima con il sostantivo mare, di uso comune e prosaico, e poi con l’alto aequor, la ‘distesa’. Il contrasto tra l’azione del verrere e la calma della superficie piana del mare, espressa da aequor (cf. la comune radice di aequus, OLD, s.v. aequor, 3, De Vaan, s.v. aequus, 27), è stridente. Con il richiamo al comandante della flotta, completamente sovrastato dalla forza della natura implacabile, se fosse riferito a un condottiero romano, l’immagine apocalittica della distruzione potrebbe essere un simbolo della fine di Roma e dell’inefficacia dei suoi valori (cf. Galzerano 2019, 26). 323

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1228-1229. Un termine chiave dei vv. 1228-1229 è l’avverbio pariter, che non si riferisce a validis, ma rivela che, dinanzi alle forze della natura, tanto il generale quanto i soldati e le bestie, siano uguali nell’impotenza. Validis, tuttavia, sottolinea con ironia, attraverso un contrasto ossimorico, l’impotenza degli uomini e degli animali, anche i più grandi per mole, nei confronti delle forze naturali (cf. anche il già citato episodio analogo in Lucr. 2, 40-54, che implica la distruzione tra la vana potenza militare e la vera potestas della ragione umana). Di conseguenza, vani e inefficaci sono gli eserciti e gli elefanti a resistere alla potenza della natura. In un esteso iperbato con validis, vengono menzionati gli animali esotici per eccellenza che furono impiegati per scopi bellici, gli elefanti (elephantis). Non è un caso che Lucrezio decida di menzionare, proprio in questa occasione, l’uso degli elefanti come animali da guerra, tema che verrà ripreso nei vv. 1302-04 e 1339-40. Una delle ipotesi più plausibili ravvede un parallelo con Pirro, il re dell’Epiro, contro cui i Romani si scontrarono e vennero in contatto per la prima volta con gli elefanti, ai loro occhi mostruosi e invincibili (cf. Plin. HN 8, 16; Plut. Pyrr. 15), cf. anche Borthwick 1973, 291-92.177 A mio avviso, non è necessariamente ravvisabile una allusione a Pirro, in un 177

Successivamente, durante la prima guerra punica, il comandante dell’esercito romano Marco Attilio Regolo fu sconfitto dai Cartaginesi, guidati da Santippo, a capo di un esercito di uomini ed elefanti nel 255 a.C. Gli elefanti, alla fine del II sec. a.C., erano animali ben noti ai Romani, di cui si erano loro stessi serviti nelle battaglie di Cinoscefale (197 a.C.), guidati da Tito Quinzio Flaminino, e di Magnesia (190 a.C.), dove, però, il numero degli elefanti in possesso dei Macedoni superò di gran lunga il numero di quelli romani. 324

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contesto in cui Lucrezio menziona le legiones e i fasces, termini dalla spiccata connotazione romana. Come spesso accade nel DRN, il tono universale e la mancanza di dettagli non rendono possibile una identificazione storica precisa. Lucrezio non sembra far distinzioni nella sua ‘Archeologia’ tra i riferimenti alla storia di Roma o di qualche altro popolo del Mediterraneo. L’immagine del mare in tempesta, attraversato da un comandante di un esercito di legionari ed elefanti potrebbe far pensare a Pirro, ad Annibale o anche a Scipione l’Africano di ritorno a Roma dopo la battaglia di Zama (202 a.C.), cf. Liv. 30, 30. 1229 divom pacem: Per una completa trattazione di pax nei vv. 1229-1230 rimando a Bruno 2020, 412-25. Qui mi limito a riportare alcuni dei dati più significativi. Bailey e Costa traducono l’espressione ‘the peace of the gods’, riscontrando una formula religiosa arcaica, pronunciata dal sacerdote per auspicare benevolenza e perdono divini (Plaut. Amph. 1127 ut Iovis supremi multis hostilis pacem expetam). La pax deorum rappresenta la condizione normale nel rapporto tra uomini e dèi, tuttavia i patti di pace potevano corrompersi o quantomeno alterarsi. I Romani avevano introdotto riti incruenti, come il lustrum e gli auspicia. Sulla pax deorum cf. Wissowa 1912, 389-94 e Rüpke 1990, 125: quest’ultimo ritiene che la pax deorum sia «Friedenszustand zwischen dem römischen Volk und den Göttern». Il sostantivo pax, accompagnato di solito dal genitivo (ThlL s.v. pax X, 865, 3 ss.), è solito indicare una condizione psicologica di benessere e di tranquillità, di cui potevano godere sia gli uomini che gli dèi. Concedere agli uomini uno stato di serenità e di quiete rappresentava una prerogativa 325

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divina. Oltre che in Lucr. 5, 1129 la formula è attestata, tra gli altri, in Plaut. Poen. 254 quae ad deum pacem oportet adesse sacris faciendis, Verg. Aen. 3, 370 exorat pacem divum vittasque resolvit e da Liv. 43, 2, 3 pacem deum peti precationibus. Adit: termine tecnico che indica l’avvicinarsi ad un luogo sacro, il verbo adire si accompagna spesso a deos, aras, templa e sim.: cf. Cic. Nat. D. 1, 27, 77 simulacra, quae venerantes deos ipsos se adire crederent, Verg. Aen. 8, 543 larem et penates laetus adit, Apul. Met. 6, 3 adire cuiuscumque dei veniam. Qui il verbo sta a indicare l’atto di accostarsi in preghiera agli dèi perché essi concedano una condizione di pace. Adit ac tramandano i codici C e F, mentre adita è la lezione degli autorevoli mss. O e Q. Il senso di supplica e di richiesta di perdono, sottintesi nel verbo adire si rafforzano grazie all’ablativo prece (praece in Q) e a quaesit. Quest’ultimo è un termine arcaico, definito satis vetus da Quintiliano (Inst. 8, 3, 25), e attestato in Ennio, Plauto, Cicerone e Sallustio (cfr. OLD s.v. quaeso). 1230. Il verso è stato espunto da Lachmann, non per la presenza del poliptoto, ma per ragioni di senso, convinto erroneamente che «ventorum paces ineptissime subiciuntur divom paci, qua significatur pacata deorum sedes». Il plurale di pax è molto raro. Oltre al verso lucreziano e ad altre testimonianze di grammatici che sistematicamente sottolineano la rarità del plurale nel ThlL X 1, 1, 863 ss., si registra la presenza in Plauto (Pers. 753-4), in Sallustio (Iug. 31, 20), in Orazio (Epist. 1, 3, 7-8; Epist. 2, 1, 101-2) e in uno dei Panegirici Latini (7, 14, 1). Nonio (149, 10 M. = 2, P4 Mazzacane), nel commentare un frammento del III 326

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libro del De vita populi Romani di Varrone (fr. 89 Pittà = 418 Salvadore), animadvertendum primum, quibus de causis et quemadmodum constituerint paces; secundum qua fide et iustitia eas coluerint), osserva che paces plurali numero nove positum. È significativo, tuttavia, che la pax si riferisca alla calma dei venti e del mare in Stat. Theb. 3, 255-6 non secus ac longa ventorum pace solutum/ aequor et inbelli recubant ubi litora somno: qui, dove si tratta della calma del mare e dei venti, cioè della bonaccia. Termine tecnico della bonaccia è malacia, che assume una sfumatura metaforica in Seneca (Ep. 67, 14): Demetrius … vitam securam … mare mortuum vocat … in otio inconcusso iacere non est tranquillitas: malacia est. Malacia non ha attestazioni al plurale (cf. ThlL s.v. malacia VIII, 161, 16), in età repubblicana compare solo in Cesare (B Gall. 3, 15, 3 tanta subito malacia ac tranquillitas venti et maris). Dei due termini greci del linguaggio specifico navale, γαλήνη e νηνεμία, non mancano attestazioni al plurale per entrambi i sensi (proprie e translate), cf. ad esempio Plat. Thaet. 153c: ἔτι οὖν σοι λέγω νηνεμίας τε καὶ γαλήνας καὶ ὅσα τοιαῦτα, ὅτι αἱ μὲν ἡσυχίαι σήπουσι καὶ ἀπολλύασι, τὰ δ᾽ ἕτερα σῴζει; Il termine εἰρήνη non sembra avere attestazioni al plurale (LSJ s.v. εἰρήνη, I) e ha il senso di “tempo di pace”, “trattato di pace”, spesso in opposizione a πόλεμος, a cui si associa il significato di “tranquillità”, “serenità” interiore: proprio come avviene nel singolare pax. Fra le poche attestazioni del plurale pax assume un particolare rilievo, a conferma della conservazione del testo tràdito in Lucrezio, la seconda seconda attestazione oraziana (Epist. 2, 1, 102), il cui hoc paces habuere bonae ventique secundi dipende con 327

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ogni probabilità proprio dal lucreziano ventorum … paces animasque secundas, dove le animae secundae sono le brezze che spirano favorevoli. Lucr. 5, 1229-1230 non divum pacem votis adit ac prece quaesit ventorum pavidus paces animasque secundas,

1230

Hor. Epist. 2, 1, 102 Hoc paces habuere bonae ventique secundi. Brink 1962 ad loc. ritiene che il significato del plurale paces deve intendersi come “agreements of peace”. Di conseguenza, la compresenza in Lucr. 5, 1230 tanto di paces quanto di animasque secundas costituisce la prova più forte della dipendenza da Orazio. Lo studioso ha sottolineato una stringente affinità tra i due contesti, adducendo due motivazioni. Lucrezio e Orazio alludono ad una locuzione arcaica, forse enniana, in cui il periodo di pace dello Stato veniva indicato da una espressione formulare paces e la metafora dei venti … secundi (variante lucreziana animae secundae) poneva l’attenzione su un momento storico favorevole. Stando a questa interpretazione, Brink attribuisce l’innovazione a Lucrezio, che intende le ventorum … paces come la calma del mare e le animae secundae come i venti favorevoli. In seconda istanza, il poeta arcaico, cui Lucrezio si sarebbe ispirato, pur riferendosi alle res nauticae, avrebbe arricchito l’espressione di una sfumatura metaforica. L’espressione formulare arcaica e il 328

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verso lucreziano potrebbero essere entrati nel linguaggio poetico oraziano: pertanto, ad Orazio spetterebbe l’innovazione, nel far assumere a paces una accezione politica, con l’ulteriore attribuzione di un valore metaforico di prosperità a venti secundi. Propendo per quest’ultima interpretazione. I termini paces e animae nel v. 1230, impiegati anche in riferimento all’interiorità dell’anima, suggeriscono che l’origine delle manifestazioni di violenza non sia il clima avverso della tempesta, ma l’errata disposizione mentale, e che la soluzione al male interiore non si ottenga con la preghiera, ma nel guardare agli dèi e alla natura con una mente serena (placata mente, 1203). Di conseguenza, l’uso del plurale paces è da interpretare nel senso di “condizioni di tranquillità dei venti”, in analogia con le condizioni di tranquillità interiore. La polisemia dei termini pax e anima è colta nel duplice legame semantico tra espressioni naturali ed espressioni dell’interiorità (per anima cf. Bruno 2020, 416-8). L’epiteto di induperator è tutt’altro che eroico: infatti pavidus potrebbe voler indicare o una certa ironia da parte di Lucrezio, nel definire un condottiero spaventato, timoroso, oppure un naturale sentimento di terrore nei confronti dell’ira divina. La scelta di questo aggettivo determina chiaramente quale sia lo stato d’animo di paura e di insicurezza del comandante, e sembra quasi oltrepassare il confine dell’oggettività di Lucrezio, per rivelare il suo giudizio, quasi di commiserazione – come a partire dal v. 1194 – nei confronti di un uomo, che tenta di scongiurare le sue paure invano attraverso le preghiere e le suppliche agli dèi. La forza della natura è inesorabile, per questo l’uomo, anche accompagnato da legioni o da invincibili eserciti di elefanti, non può nulla, se non

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rassegnarsi alla preghiera e all’implorazione, affinché gli dèi concedano che la violenza impetuosa dei venti si plachi. 1231-1232 nequiquam … violento turbine … ad vada leti: inefficaci le preghiere del condottiero, sottolineate dalla posizione incipitaria dell’avverbio nequiquam, tra i più frequenti in Lucrezio. La ‘iunctura’ violento turbine si trova anche nel v. 217 e nel v. 368. È probabile che il verso alluda a Enn. Ann. 566 Sk. in nigro iactatis turbine nautis, che riporta un sinonimo di correptus, ovvero iactatus (termine particolarmente caro a Virgilio). Corripio ha diversi significati, tra cui quello di ‘essere travolti’ (cf. OLD, s.v. corripio, 4), non solo da fenomeni naturali (cf. Lucr. 6, 395 turbine caelesti correptus; Verg. Aen. 1, 45 turbine corripuit), ma anche da parole o da insulti, come in alcuni contesti di ambito storico-politico (cf. Caes. B Civ. 1, 2, 4 convicio consulis correpti). Saepe, avverbio di uso comune e colloquiale, ha anche un uso piuttosto ricorrente di contrarre espressioni intere, come ad esempio ut saepe fit (cf. Lucr. 3, 912-13 ubi discubuere tenentque/ pocula saepe homines e Lucr. 4, 34-5 in somnis cum saepe figuras / contuimur; cf. Verg. Aen. 1, 148 e 8, 353). Lucrezio indulge su immagini di morte, distruzione e violenza. L’espressione violento turbine … nilo fertur minus ad vada leti insiste sulla drammaticità e inevitabilità della morte, a cui è destinato il comandante insieme alla sua flotta. La perifrasi espressa da nilo fertur minus intensifica l’inutilità delle suppliche, già sottintesa dalla presenza dell’avverbio nequiquam nel verso precedente. Sia vadum sia letum sono termini piuttosto rari nel linguaggio comune, ma che ben si adattano al registro poetico: si 330

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tratta del risultato di quella forza incontrollabile del vento (v. 1226 vis violenti … venti), che conduce ad una morte certa, nonostante le preghiere invocate invano degli uomini. Vadum è usato da Cic. Cael. 51 emersisse iam e vadis … videtur esse oratio mea, per indicare, con esattezza, le pericolose acque poco profonde, dove è facile che una nave si possa arenare. I versi si pongono in bilico tra il senso letterale e metaforico: i termini scelti sono specifici e piuttosto drammatici. Lucrezio ritorna con l’immagine della morte attraverso il termine inusuale letum, che appare la scelta più specifica per evocare propriamente la morte violenta (cf. Lucr. 3, 42 Tartara leti e 5, 201 silvaeque … ferarum), nonostante spesso indichi rovina e distruzioni (cf. OLD s.v. letum, 3, cf. Ov. Ars am. 1, 437 cera vadum temptet). 1233-1240. Si conclude il tema della sezione con un finale che marca la differenza tra l’uomo comune e il saggio che ha già appreso la vera ratio epicurea. Con una collocazione strategica di videtur nel verso, Lucrezio mostra che la maggior parte degli uomini sia stata tratta in inganno dalla superstizione e creda che la natura sia governata da una forza intrinseca, pronta ad abbattere e a deridere la debolezza umana (proculcare ac ludibrio sibi habere). In termini epicurei, comunque, si tratta sempre di una forza nascosta, che rappresenta il potere della natura, degli atomi e del loro movimento incessante, ed è completamente estranea e indipendente rispetto ai fatti e alle azioni che riguardano gli uomini (res humanas).

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1233 vis abdita: molti commentatori si sono interrogati su cosa possa essere la vis abdita in una dottrina filosofica come quella epicurea. La realtà materiale, di cui sono fatti anche i sogni e i pensieri è costituita dal necessario e casuale movimento degli atomi, di conseguenza, la menzione di una forza occulta e sconosciuta, come la vis abdita, non può che far notare una certa incoerenza (cf. Too 1991, 255-7; Bruno 2019). Secondo Minadeo, la vis abdita quaedam sarebbe il principio di distruzione nell’universo, cioè la forza che equilibra quella creativa e distruttiva della natura, come la Guerra contro l’Amore nella cosmologia di Empedocle, in altre parole, il principio dell’isonomia, tutt’altro che infrequente in Lucrezio (cf. Minadeo 1969, 96). La Too, invece, puntualizza che: «the indicative obterit (line 1234) states that the misunderstood vis “wears down” human endeavours, and so makes it appear that Lucretius himself advocates the superstitious viewpoint. One might argue that the poet initially espouses the superstitious perspective only to correct his position in the next line with videtur […] to show how easily religio can be engendered even when an atomist is concerned. But it is doubtful that Lucretius intended this kind of ambiguity where the issue of religio is involved. If he is to accomplish his didactic aim and bring the reader to a state of calm, philosophical detachment, the poet needs to reject unequivocally the superstitious perspective evoked by vis abdita quaedam» (cf. Too 1991, 256). Lucrezio amplifica la distanza tra quanti credono, in un mondo governato da leggi e da una forza superiore, a cui gli uomini sottostanno, e la concezione del mondo svincolato da qualsiasi tipo 332

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di potere, ossia la vera ratio epicurea. La natura di Lucrezio non ha bisogno di segreti. Al contrario, essa si mostra variegata e complessa, in tutte le sue manifestazioni. È probabile che questa vis abdita sia l’immagine di come la natura appaia agli uomini (5, 77): del suo operato, in mancanza della prova scientifica, nessuno avrebbe mai potuto presagire gli effetti, sebbene le sue leggi siano invariabili ed inesorabili (cf. Lucr. 6, 29-31). Questa forza misteriosa, quindi, è la forza stessa della natura, che controlla il mundus atomico, contro la quale è impotente ogni preghiera e ogni vana speranza. Non è una vis abdita per il sapiente, ma per ogni singolo uomo, in particolare, se colpito da grandi ed improvvise catastrofi, che provano quanto siano irresistibili le cieche forze della natura. 1233-1234. Il verbo posto in posizione incipitaria, optero (opterit è la lezione riportata da O, a differenza di operit tràdito da Q), vuol dire “calpestare, schiacciare” o anche più drasticamente “distruggere” (cf. OLD s.v. obtero, e cf. Lucr. 1, 78 religio pedibus subiecta vicissim obteritur; 3, 893 obtritum pondere terra). La forza della natura, ritenuta inconoscibile, è in grado di schiacciare la più importante delle res humanae, ovvero il potere politico e militare. Lucrezio riprende una terminologia specifica, prettamente romana, attraverso un probabile riferimento ad un preciso momento storico della tarda repubblica romana e ad una autocitazione di clausola di verso, dell’allitterante ‘iunctura’ saevasque securis, già adoperata in 3, 996 petere a populo fascis saevasque securis (ripresa da Verg. Aen. 6, 819 consulis imperium 333

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hic primum saevasque securis). Simbolo di imperium, potere delle autorità maggiori, sono i fasci littori, insegne attribuite ai magistrati, fin dalle origini monarchiche, dal momento che risalgono agli Etruschi (cf. Dion. Hal. 3, 59-62 e Liv. 1, 8). È attestato che essi fossero già in uso in età regia, cf. il commento di Ogilvie a Liv. 2, 1, 7-2, 2. Secondo Kenney nel suo commento a Lucr. 3, 996, vi sarebbe da leggere un possibile riferimento alle proscrizioni (le prime, ad opera di Silla, 82 a.C.): il riferimento è, naturalmente alle secures, che vengono definite saevae, ovvero spietate. I fasces sono le insegne consolari, che circondavano un’ascia e che simboleggiavano il potere della pena corporale e capitale. Nel verso in questione, i fasces, un simbolo significativo della res publica, sono, non a caso, definiti pulchri, da intendere come nobili (cf. ThLL, X, 2, 2567, 38, cf. anche Sen. Clem. 1, 26, 5).178 1235 proculcare ac ludibrio sibi habere videtur: il significato dell’espressione è negativo e derisorio. Mentre in apparenza la natura si prende gioco della debolezza degli esseri viventi, in realtà è proprio l’autore che prova un sentimento di compassione e derisione nei confronti di chi non ha ancora conosciuto la ratio del mondo, governato dalle leggi scientifiche 178

Ad un lettore del I sec. a.C. l’aggettivo pulcher doveva far pensare al cognomen di un noto esponente della gens Claudia, Appio Claudio Pulcro (consolato 79 a.C.), e del figlio, tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro, che perse la vita a Bovillae nello scontro armato contro le bande di Milone, nel 52 a.C. (l’episodio è riportato con prevedibile parzialità da Cic. Mil. 29), cf. Fezzi 2001. 334

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della natura. Proculcare è un sinonimo della perifrasi ludibrio sibi habere, che insieme finiscono per formare un’endiadi, dal punto di vista contenutistico. Il senso di proculcare è figurato (cf. OLD s.v. 2), come in 1140 conculcatur nimis ante metutum. 1236-1240. Gran parte degli scenari apocalittici del poema prevede l’avvento di un terribile sisma. «Il ricorrere di scenari escatologici che, mediante gli strumenti della retorica e della poesia, fanno esperire al lettore l’una dies che condurrà tutto alla rovina è pertanto motivato dalla volontà di sradicare la paura della morte. Così come quella individuale, la dissoluzione del mondo viene ripetutamente messa sotto gli occhi del lettore allo scopo di dimostrare che la morte è un male soltanto apparente: anzi, è proprio la serena accettazione di quest’ultima a rendere possibile la conquista del terminus di un’esistenza beata». Le parole di Galzerano 2019, 308 spiegano bene il senso di questo finale di versi della sezione sull’origine della religione. È proprio a partire dal v. 1236 che ritorna l’immagine della terra, che trema sotto i piedi, e dei disastri provocati dai terremoti alle città che vengono distrutte. Il verbo vacillare indica l’azione del terremoto e propriamente la produzione delle onde o mulinelli che creano il caratteristico movimento ondulatorio dei terremoti. Lo stesso verbo è utilizzato per indicare il movimento della terra e degli edifici che si spostano in un terremoto (le occorrenze lucreziane sono molteplici, cf. Lucr. 1, 806 ut tabe nimborum arbusta vacillent; 3, 478 praepediuntur crura vacillanti; e naturalmente nel VI libro, in 6, 554 e 575; 6, 535-607).

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Tellus: è la forma poetica di terra, molto frequente in Lucrezio. È probabile che Lucrezio sia stato testimone diretto di terremoti o ne abbia, in ogni caso, letto dei resoconti e ripreso l’interpretazione simbolica e tradizionale romana del valore “prodigioso” e “nefasto” dei fenomeni tellurici. Ad esempio, uno dei terremoti più devastanti, che colpì la penisola italica, avvenne nel giugno del 217 a.C., in Etruria, e le scosse furono talmente forti da sentirsi anche a distanza di molti km (cf. Cic. Div. 1, 35, 78; Liv. 22, 5, 8; Plin. HN 2, 86, 200: le fonti riprendono il racconto di Celio Antipatro). Questi “prodigi” furono collegati alla sconfitta romana del Trasimeno, ad opera di Annibale, grazie alla negligenza religiosa del console Flaminio. Con ogni probabilità, della stessa natura sono le notizie sul forte terremoto che nel 91 a.C. fu avvertito in tutta l’Italia meridionale, dal Sannio fino a Reggio Calabria (cf. Plin. HN 2, 85, 199), dove abbatté parte della città e delle mura (cf. Iul. Obseq. 54). Anche in questo caso tale ‘prodigio’ è collegato ad un evento importante della storia romana, in particolare alla sanguinosa guerra sociale, tra i Romani e gli alleati Italici, che richiedevano la cittadinanza. 1237 concussaeque cadunt urbes dubiaeque minantur: si tratta di un verso che ha una perfetta struttura simmetrica. Le città vacillano come se minacciassero di cadere (cf. Lucr. 4, 518: ruere ut quaedam videantur velle, ruantque; 5, 544: terra superne tremit magni concussa ruinis; 6, 572: minitatur terra ruinas, ancora riguarda un terremoto. Cf. anche Sen. Q Nat. 6, 1, 2: Herculanensis oppidi pars ruit, dubiaeque stant etiam quae relicta sunt). La possibilità che si tratti di un riferimento al terremoto, per 336

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quel che riguarda cadunt urbes, è probabile. Non è da escludere la possibilità di un altro velato richiamo storico, in questo caso alle guerre puniche e, in particolare, alla distruzione di Cartagine (146 a.C.). 1238-1240: Lucrezio si mostra rassegnato nel constatare che la superstizione religiosa sia inevitabile. Gli ultimi tre versi della sezione sulla religione si chiudono con una lunga interrogativa ipotetica (quid mirum si, cf. anche 2, 87, 338; 6, 130, i casi in cui viene sottinteso il verbo sum, come in questa ipotetica). Gli uomini, definiti dalla iunctura poetica mortalia saecla, che ricalca l’espressione βροτὸν ἔθνος (Pind. Pyth. 10, 28), hanno scelto di affidare alla potenza e alla forza divina il controllo del mondo (quae cuncta gubernent). L’espressione mortalia saecla ricorre di frequente soltanto in Lucrezio (2, 1153; ci sono altre quattro attestazioni nel quinto libro, vv. 791, 805, 988, 1169), in contesti in cui è maggiormente visibile il contrasto tra l’immortalità divina e la precarietà della condizione umana. Saecla, infatti, (cf. OLD s.v. saeculum, I, 3, 4) può significare, in questo caso, sia gli uomini, sia le stirpi, sia il periodo di tempo da cui è costituita una vita umana, dove il tempo viene percepito secondo il punto di vista soggettivo dell’uomo e non secondo il punto di vista oggettivo della natura (sul tempo e sul suo valore in Lucrezio, cf. Romano 2008, 51-67). Lucrezio assume lo stesso atteggiamento di commiserazione dei vv. 1194-1203, per denunciare come gli uomini si siano sviliti (temnunt), consapevoli della loro impotenza e mortalità, dinanzi alle forze mirabili degli dèi (in iperbato mirasque… viris), al 337

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contrario di ciò che è affermato in 1, 79. Relinquere, va inteso nel senso di ‘ammettere’, ‘consentire’, che è ricorrente in Lucrezio (cf. 1, 515, 658, 703, 743; 3, 40 e anche Hor. Sat. 1, 1, 52). Questo specifico significato da attribuire al verbo relinquere sembra riflettere similmente l’uso filosofico dei corrispettivi greci (cf. LSJ s.v. ἀπολείπω I 5 e s.v. καταλείπω III 2 b).

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1241-1296. Dopo aver delineato un profilo sull’origine dell’organizzazione politica delle prime città, della nascita delle leggi e della religione, e delle paure che derivano da quest’ultima, Lucrezio riprende il suo “racconto dell’uomo” con la scoperta dei metalli (oro, ferro, argento e piombo), la cui origine sarebbe scaturita da una diretta conseguenza della scoperta del fuoco (1241-1249). Proprio grazie all’impiego del fuoco non è stato soltanto possibile difendersi, aggredire e minacciare, rendere i terreni più fertili, ma anche sperimentare nuove tecniche di caccia degli animali selvatici. Per di più questa straordinaria scoperta ha “rivelato” agli uomini la presenza dei metalli in natura. Le alte temperature raggiunte dal fuoco a contatto con il terreno hanno favorito lo scioglimento dei metalli presenti nel sottosuolo. Una volta passati allo stato liquido, hanno tracciato rivi d’argento e d’oro sulla superficie del terreno (1250-1261). Da questa scoperta gli uomini appresero che i metalli potevano essere modellati in qualunque forma con il calore e, una volta raffreddati, risultavano di un materiale estremamente resistente, pesante e affilato: fu così che nacque l’usanza di fabbricarsi utensili e strumenti di guerra (1262-1268). L’oro e l’argento furono i primi metalli a essere modellati, ma non avevano lo stesso valore del rame, che risultava molto più resistente degli altri per la produzione bellica. Solo in un secondo momento, l’oro divenne il metallo più pregiato, quando il rame fu sostituito dal più resistente ferro (1269-1280). Lucrezio, a questo punto, ha modo di rivolgersi a Memmio e di parlare dell’uso bellico del ferro. Le più antiche armi erano le mani, le unghie e i denti, poi fu scoperta la forza del rame e del ferro, con cui furono prodotte le spade più resistenti. Il bronzo, invece, fu prevalentemente utilizzato per lavorare il suolo, come mezzo per arare i campi (1281-1296). La scoperta dei metalli (rame, oro, ferro, argento), insieme al loro successivo utilizzo da parte dei primi uomini, è l’argomento 339

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tecnico affrontato da Lucrezio in quasi cinquanta versi. Non è la prima volta che Lucrezio si occupa della nascita e dell’uso del fuoco (5, 1091-1104), ma la trattazione che riguarda la scoperta dei metalli offre il pretesto per approfondire il tema sulla fabbricazione delle armi e per legarsi al tema successivo, la guerra. Il processo di civilizzazione dell’uomo sembra procedere su una linea retta e continua nella sua evoluzione: in realtà, l’argomentazione lucreziana ha un modo di procedere isonomico, caratterizzato dall’equilibrio di pars destruens e pars construens, in una visione in cui il progresso non può che essere interpretato come qualcosa di ambiguo (cf. Segal 1990, 214-27 sull’ambiguità del progresso in Lucrezio). «Pour les épicuriens, la nature n’est pas seulement ce qui préexiste à l’intervention de l’homme» scrive Pierre-Marie Morel «si l’homme n’invente rien, mais découvre les possibilités que la nature a mises depuis toujours à sa disposition, si le bonheur réside dans une vie conforme à la nature, il n’y a pas de différence radicale entre, d’une part, l’accomplissement spontané des phénomènes naturels, comme la reproduction des vivants, la succession des saisons ou les phénomènes atmosphériques, et d’autre part les agissements humains» (cf. Morel 2009, 71). Per quanto riguarda le innovazioni tecniche, così come la nascita delle istituzioni politiche, Democrito gioca un ruolo fondamentale nella visione epicurea. Lucrezio descrive l’osservazione empirica da parte dei primi uomini dei processi della natura e della loro conseguente imitazione (concetto anch’esso ereditato da Democrito cf. 68 B 154 DK): l’adattamento progressivo dell’uomo alla natura e la capacità di imitare la natura, che è allo stesso tempo origine (origo) e modello (specimen) delle 340

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cose. Democrito rappresenta per Cole la fonte primaria della Kulturgeschichte di Polibio (6, 5, 5) e di quella di Lucrezio sia di quella posidoniana dell’Ep. 90 di Seneca (Cole 1967, 47-59). Per Democrito, ricostruito da Cole sulla base di Polyb. 6, 5, 5, gli uomini si sono uniti tra di loro per debolezza, cioè per meglio difendersi, e nell’aggregazione emerge quale monarca l’individuo più ardimentoso e violento. Che la spiegazione empiricomaterialistica del progresso data da Democrito abbia influito sul pensiero epicureo intorno all’origine e allo sviluppo della società è indubbio, mentre, l’ipotesi della matrice democritea di Polyb. 6, 5, 5 risulta problematica. La scoperta delle arti banausiche è stata realizzata dai sapientes, secondo Posidonio, ed essa soddisfa i bisogni necessari e quotidiani dell’uomo (cf. Bénatouïl 2006, 50-58; Morel 2009, 75; Zago 2012, 139-161; Edwards 2019, 254-62). Un profilo molto simile ai versi lucreziani (vv. 1252-1280) è presentato da Posidonio (fr. 264 EK = Sen. Ep. 90, 7-12), da cui, però, Seneca chiaramente dichiara di dissentire (90, 12 Omnia enim ista sagacitas hominum, non sapientia invenit. In hoc quoque dissentio, sapientes fuisse qui ferri metalla et aeris invenerint, cum incendio silvarum adusta tellus in summo venas iacentis liquefactas fudisset), per quanto riguarda l’idea secondo la quale gli uomini più dotati dal punto di vista intellettivo erano stati in grado di scoprire miniere di ferro e di rame. La loro scoperta è riconducibile alla capacità da parte dei più saggi di migliorare il tenore di vita degli uomini (cf. Ep. 90, 5) e di garantire il benessere e la sopravvivenza dell’uomo. Lo sviluppo delle tecniche e della tecnologia sarebbe stato garantito proprio dal ruolo assolutamente indispensabile della sapientia filosofica. Il sapiens stoico, in 341

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quanto uomo, è un essere socievole, e la naturale socialità umana (cf. Cic. Fin. 3, 65-66) incita gli uomini a crearsi un mondo migliore. Già Reinhardt 1921, 399 aveva osservato che la forza responsabile dell’impulso originario del progresso tecnico è per Posidonio la sapientia filosofica, la recta ratio, che ha inventato le artes banausiche proprio per servare genus hominum e farlo uscire dalla condizione ciclopica, disumana e precaria evocata in Sen. Ep. 90, 7. Per Posidonio, dunque, le artes banausiche sono indispensabili e servono a fornire gli strumenti utili alla vita di tutti i giorni (instruere vitam). Come mostrato in particolare da Manuwald 1980, alla base della Kulturgeschichte di Lucrezio c’è l’idea di Epicuro (Ep. Hdt. 75), secondo cui bisogna ritenere che la natura umana apprenda e sia costretta ad affrontare molte e varie situazioni dalle circostanze stesse, in modo empirico, solo attraverso la diretta esperienza con le cose. In seguito il raziocinio affina ciò che l’uomo ha ricevuto dalla natura e, a quel punto, compie ulteriori scoperte, in alcuni casi più velocemente, in altri più lentamente. La necessità, l’utilità e il bisogno delle artes banausiche non sono, però, per Posidonio, il prodotto della necessità, del bisogno, dell’utile, delle condizioni materiali che, secondo Democrito (68 B 5 DK) e gli epicurei Diogene di Enoanda e Lucrezio stesso, avrebbero plasmato l’uomo primitivo, spingendo a sfruttare le risorse fisiche e intellettuali idonee ad apprendere, per sopravvivere, e a realizzare cose che sarebbero poi state perfezionate nel tempo e con l’arricchirsi dell’esperienza. Tra le conseguenze della scoperta della metallurgia, Lucrezio include l’invenzione delle armi di bronzo e di ferro (5, 1283 ss.), che Posidonio, con ogni verosimiglianza, non 342

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menzionava, non ritenendo che fossero scoperte attribuibili ai sapientes. Nella ricostruzione del racconto sulle conseguenze della scoperta della cerealicoltura, Posidonio/Seneca dedica una lunga sezione sulla macinatura del grano, l’impastatura delle farine e la cottura del pane, servendosi di una originale analogia con la fisiologia umana. Dall’osservazione della masticazione sarebbe nata la macina, il bolo poi avrebbe dato lo spunto per l’impasto con l’acqua e la digestione nella cavità dello stomaco avrebbe suggerito l’idea del forno. Per Posidonio esistono bisogni a cui la recta ratio dei sapienti fa fronte. La recta ratio precede l’acquisizione delle tecniche necessarie. Posidonio ribalta la sequenza dei reperta postulata dalla tradizione democriteoepicurea, ma anche di quella platonica e accademica, aristotelica e peripatetica. Democrito non parla della conquista della vera sapienza, ma si limita a evocare le sequenze tecniche necessarie fino ai metodi e mezzi che l’uomo esperisce per procacciarsi beni superflui (68 B 144 DK): sequenza che avrebbe ispirato Platone, Aristotele, Aristocle, Epicuro e Lucrezio (cf. Manuwald 1980, 3819 e Armstrong 1995, 213 ss.). Circa le affinità tra la concezione empirico-materialistica di Democrito e degli Epicurei e le concezioni sullo sviluppo della cultura di Platone e Aristotele cf. Dodds 1973, 1-25; Edelstein 1967. Naturalmente non si può trascurare, quando si cita Democrito e gli Epicurei, l’antropologia universale di Diod. 1, 6-8, che Norden 1893, 411 riconduceva ad Epicuro, e che Reinhardt 1921 faceva discendere da Democrito, teoria difesa strenuamente da Cole 1967, secondo cui la fonte intermedia di Diodoro sarebbe Ecateo di Abdera (confutata da Bertelli 1980). Spoerri 1959, 132-63 ha tentato di contestare Reinhardt, nel considerare il testo di Diodoro un aggregato di 343

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motivi divenuti patrimonio comune della cultura tardo-ellenistica. Pfligersdorffer 1959, 100-146, al contrario, riconduceva Diodoro erroneamente a Posidonio (= Sen. Ep. 90). Dunque, l’idea che le tecniche siano sostanzialmente coeve al genere umano e che la techne sia connessa alla natura razionale dell’uomo è ortodossamente stoica. In sintesi, per Posidonio l’acquisizione delle tecniche banausiche non è frutto di una costrizione dovuta al bisogno, che spinge un’umanità ancora intellettualmente immatura a produrre ciò che è necessario, ma è frutto invece della creatività, della ratio perfetta dei sapienti, che agiscono per un preciso scopo, garantire la sopravvivenza del genere umano. Seneca si trova nuovamente in disaccordo con Posidonio Ep. 90, 35, e, invece, in accordo con la dottrina democriteo-epicurea, poiché scrive che gli uomini ipso usu discebantur utilia (cf. Diod. 1, 8, 9 e Diog. Oen. fr. 12, II, 8-11 Smith, e soprattutto Lucr. 5, 1452-1457). L’uso del rame, dell’oro, del ferro, dell’argento e del piombo, secondo Lucrezio, ha avuto inizio quando il fuoco ha distrutto grandi foreste montane (vv. 1252-1280). Sull’origine, in ogni caso, si mostra possibilista: sia che il fuoco fosse nato dall’azione del fulmine, sia che una tribù in guerra avesse provocato uno scontro tale da far scaturire accidentalmente il fuoco (cf. 5, 1091-1104). Al contrario, il processo di acquisizione delle tecniche necessarie, menzionate nelle sezioni posidoniane dell’Ep. 90 di Seneca, comincia prima dell’età aurea dei sapientes reges, dal momento che l’invenzione dei tecta artificiali costituisce il preludio tecnico alla genesi delle prime comunità politicamente organizzate, rette dai re sapienti. Non è chiaro, però, se tale processo, per Posidonio, fosse stato portato a compimento prima, 344

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durante o dopo l’età dell’oro. Il passo è attribuito a Filone di Alessandria, di matrice zenoniana (Aetern. 130 = SVF 1, 106 a, 31, 33 ss. von Arnim, secondo cui «è evidente infatti, o meglio, necessario, che le tecniche coesistano con gli uomini, che siano – per così dire – loro coetanee, non solo perché l’agire metodico è proprio della natura razionale, ma anche perché non è possibile vivere senza tecniche»). Tali argomenti desunti da Teofrasto (cf. fr. 184 Fortenbaugh et al.), che avrebbe ripreso Zenone, non implicano che nell’età dell’oro fosse praticata la metallurgia. Nella seriazione delle scoperte dei metalli, Lucrezio colloca la scoperta del ferro in una fase successiva (1286-7); nella sua rassegna sostiene anche che il rame in origine valeva di più dell’oro (1273-4). Tale idea è storicamente sospetta. Sembra incerto innanzitutto che l’uso del rame abbia preceduto quello dell’oro, e Lucrezio stesso deve aver saputo che l’oro era altamente valutato nell’età del bronzo (cf. Kenney 1972, 19). In questi versi si percepisce che Lucrezio moralizzi sulla mutevolezza delle diverse tendenze e del valore delle cose a seconda del cambiamento dei tempi (1276-1280). Alla fine di questa sezione di versi, Lucrezio, in un modo conforme al suo stile e alla sua tecnica argomentativa, chiude i versi con un tono moralizzante: i metalli più duri furono usati come strumenti e utensili, oltre che come armi, mentre i metalli più pregiati sono stati valutati diversamente e spesso furono utilizzati come moneta. Per quanto riguarda questo aspetto, il passo può facilmente essere messo in relazione con i vv. 1113-1119, in cui non manca una riflessione moralizzante sull’effetto della scoperta dell’oro. Esiodo (Op. 106-201) enumera le cinque età del mondo, riferite all’uso dei metalli: all’età dell’oro succede quella dell’argento, poi viene l’età del bronzo (o del rame, 345

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vista l’ambiguità nel distinguere tra il metallo e la sua lega, espressi dal sostantivo aes), alla quale fa seguito l’età degli eroi e la serie si conclude con l’età del ferro. Moralizzante è anche il tono di Seneca nell’Ep. 90, in cui dichiara che il progresso tecnologico, in ogni caso, è sempre stato al servizio del lusso e dell’avidità (cf. Sen. Ep. 90, 10). Come è stato già messo in luce, la condizione, o meglio, il mezzo della scoperta dei metalli è il fuoco (cf. Xen. Mem. 4, 3, 7 e Diod. 1, 8, 8, cf. per una trattazione dettagliata Cole 1967, 15-16 e 30-32), della cui genesi Lucrezio ha già avuto modo di trattare nei vv. 897-907, 1011-1014 e in 1091-1101. I vv. 1241-1296, dunque, non costituiscono né una semplice replica, né una deviazione dal precedente racconto sulla scoperta del fuoco. Ritornare più volte sullo stesso argomento in più punti dell’opera è una caratteristica dello stile lucreziano. I vv. 1241-1261 evocano le scoperte dell’uomo avvenute per mezzo del fuoco. Dunque, un elemento della natura, il fuoco e il suo conseguente utilizzo, costituisce l’origine di una ulteriore scoperta. Quando il fuoco si appiccò alla foresta che ricopriva la terra, allora il forte calore prodottosi al suo interno rese liquidi i metalli, che il suolo nascondeva sotto la sua superficie, e li fece scorrere in rivoli e insinuarsi in liquide lacunae, in questo modo da rivelarli all’occhio e in seguito all’uso umano. Si vede come il fuoco divampa nelle selve o dal fulmine caduto dal cielo oppure dalla mano stessa dell’uomo, impegnato in azioni di guerra, di caccia, di raccolta. Dunque la sua accensione o è spontanea e naturale, oppure è artificiale, provocata dalla mano dell’uomo. Le due diverse cause della sua propagazione sono coordinate grammaticalmente mediante seu … sive. In 5, 10911101, Lucrezio aveva già spiegato che il fuoco si rivelò per la 346

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prima volta all’uomo quando il fulmine si scaricò sugli alberi, o quando il vento, agitandoli e sfregandoli, ne indusse la scintilla che subito si propagò nell’incendio. La prima causa, presentata nei vv. 1241-1243, coincide, com’è ovvio, con la prima delle due cause addotte nei versi precedenti, vv. 1091-1101. Dunque, se stanno così le cose, è necessario concludere che la seconda causa (quella artificiale/umana) non ha le stesse qualità della prima (quella naturale e spontanea). Coerentemente alla sua periodizzazione della storia primitiva del genere umano, Lucrezio pone la scoperta del fuoco nella fase successiva a quella dell’errare ferino. Per quanto riguarda il meccanismo che avrebbe favorito la nascita dei diversi processi pirometallurgici, si entra nel campo delle ipotesi scientifiche (cf. per una trattazione generale sulla storia della scoperta dei metalli Singer-Holmyard-Hall 1954, vol. I, 65-66) e della ricostruzione fantastica. Non è improbabile che, come suggerisce Lucrezio in questi versi, una spinta iniziale provenisse da grandi incendi, che hanno liquefatto fortuitamente i metalli dai minerali, e nella successiva solidificazione nelle forme definite dalla cavità che li aveva accolti. Di conseguenza, appare probabile che le prime leghe si siano prodotte casualmente, combinando minerali polimetallici, in particolare per le leghe composte da Cu (rame) e As (arsenico), note come rame arsenicale, molto diffuse nelle metallurgie primitive, e per i bronzi propriamente detti, che sono leghe di Cu (rame) e Sn (stagno), (cf. per la archeometallurgia Craddock-Lang 2003, 106-9). La lega di rame più diffusa nell’antichità è stata, appunto, il bronzo, costituito da aggiunte variabili di stagno in funzione dell’impiego e della tecnologia di lavorazione del pezzo. Nell’area mediterranea, 347

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infatti, il rame è utilizzato sin dalla fine del VI millennio a.C., sfruttando le risorse minerarie mediorientali, e poi, con il diffondersi delle abilità metallurgiche verso occidente, ricorrendo ai giacimenti dell’Europa centrale e mediterranei di Cipro, Iberia, Etruria, Sardegna. Tracce della commercializzazione nel Mediterraneo orientale di metallo grezzo, sotto forma di pani o di lingotti a pelle di bue (ox-hide), risalgono alla metà del secondo millennio a.C. (cf. Healy 1978; Tylecote 1987). Molte delle tecniche metallurgiche sviluppate nell’età del Bronzo erano ancora in uso durante il periodo romano: la purificazione per fusione, la fusione in altiforni, l'arroventamento o torrefazione, l’uso di stampi, la lavorazione al maglio. Il giudizio formulato da Costa sembra essere tra i più condivisibili: «this section is a vividly written piece of imaginative speculation, appearently based on traditional ideas, but Lucretius for all his lack of evidence for primitive metallurgy, may not be far from the truth» (p. 139). Bibliografia selettiva Blickman 1989; Cole 1967; Farrell 1994; Manuwald 1980; Morel 2009; Romano 2008; Segal 1990; Zago 2012. 1241-1249. La formula incipitaria, quod superest, della nuova sezione di versi, dedicata alla scoperta dei metalli, come materiale di uso domestico e bellico, è molto frequente nel DRN (soltanto nel quinto libro sono presenti sei ricorrenze). Si tratta di un nesso relativo, molto usato in incipit di verso, in seguito anche da Virgilio, in particolare nelle Georgiche (2, 346; 4, 51) e 348

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nell’Eneide (5, 796; 9, 157; 11, 15), e da Ovidio in moltissime occorrenze (Met. 9, 629; Fast. 4, 952; Tr. 5, 1, 23; 5, 5, 18): sta a introdurre un nuovo soggetto, con la funzione semantica di un avverbio temporale, per iniziare una trattazione su un nuovo argomento. Si tratta di un altro tipico esempio di formularità lucreziana (cf. a tal proposito Ingalls 1971, 227-36; Minyard 1978 e soprattutto Schiesaro 1990, 47-70 che, nel definire i termini del problema, si concentra su una dimostrazione fondata da motivi contenutistici che hanno spinto Lucrezio a ricorrere a certi tipi di ripetizioni, ovvero le formule). Partendo dal presupposto che non tutte le ripetizioni sono formule e non tutte le formule sono ripetute, questo è uno dei casi in cui la formula, come accade nei poemi omerici, nell’Eneide e in Apollonio Rodio «incide non solo sul piano stilistico, ma più profondamente sul modo stesso in cui certe azioni vengono narrate» (cf. Schiesaro 1990, 55). La formularità, proprio come accade nella tradizione epica, riguarda in linea di massima sezioni privilegiate del poema, tra cui l’‘incipit’ di un nuovo argomento. 1241 aes atque aurum ferrumque repertumst: Lucrezio elenca i metalli secondo l’ordine in cui essi sono stati scoperti: aes, il primo metallo, che indica indistintamente, a seconda dei casi e del contesto, il rame o il bronzo (l’elemento o la lega); aurum, l’oro, che è causa, secondo Lucrezio, della corsa al possesso e all’accumulo, che ha portato alla corruzione; ferrum, il ferro, inzialmente solo citato e poi ripreso nel v. 1281, per raccontare il suo uso distruttivo; infine, il peso dell’argentum, l’argento, e il potere del plumbum, il piombo. L’elenco è uno dei numerosi casi di ‘accumulatio’ nel DRN, 349

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che qui sembra accentuata dal ritmo rapido dei due esametri dattilici che aprono la sezione di versi: non mancano figure di suono, come allitterazioni, assonanze, omeoteleuti (aes atque aurumque ferrumque repertumst). Aes atque è un’ingegnosa congettura ad opera di Marullo in luogo del tràdito aeque, presente in OQ, dove le due parole sono combinate in una, per crasi. La parola aes è stata usata in latino per indicare sia il rame sia il bronzo (cf. ThlL s.v. aes I, 1071, 56; cf. OLD, s.v. aes, 1) che è una lega formata dal rame, e di solito, dallo stagno e dal piombo. Dal momento che le prime armi furono fabbricate con il bronzo, è molto probabile che in questo verso, e anche nel v. 1257, Lucrezio stia pensando semplicemente all’elemento del rame. A partire dal v. 1270, aes assume il significato di bronzo: gli utensili e le armi, con il passare del tempo e con una migliore capacità di mescolare insieme i metalli, sono stati forgiati con le prime leghe, tra cui il bronzo e il piombo. La ‘iunctura’ aes atque aurum, oppure aes aurumque è ricorrente in Lucrezio, in particolare nei libri 5 e 6 (cf. 5, 1273, 1275; 6, 230, 352 dissolvit porro facile aes aurumque repente; 6, 966 ignis item liquidum facit aes aurumque resolvit; cf. anche Plin. HN 4, 64). L’ ‘accumulatio’ dell’elenco dei metalli non segue soltanto l’ordine cronologico della sua scoperta, ma anche l’ordine del valore e del suo prestigio. In questa serie ordinata di metalli, se si attribuisce ad aes il significato di bronzo, verrebbe adottato l’ordine del valore dei metalli. Nel v. 1241 è menzionato il ferro al momento della sua scoperta, qui soltanto in unione con la forma sincopata del perfetto passivo di reperio, ovvero repertumst. La ‘iunctura’ rimarca anche l’allitterazione della liquida r, con l’unione di auRumque 350

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feRRumque RepeRtumst. Del particolare uso e valore del ferro, Lucrezio discute ampiamente nei vv. 1281-1307 (in particolare in v. 1281 nunc tibi quo pacto ferri natura reperta, dove la natura ferri è da intendere come vis ferri e v. 1286 posterius ferri vis et aerisque reperta), mentre in tutto il resto della sezione di versi, Lucrezio finisce per parlare con maggiore attenzione della fortuita scoperta degli altri metalli. Il ferro è l’unico metallo ad essere isolato, poiché si tratta dell’unico metallo congeniale agli scopi bellici, a differenza del rame, dell’oro, dell’argento e del piombo, che sono stati adoperati principalmente per la fabbricazione e produzione di utensili domestici o suppellettili. Non credo, come pensa Bockemüller, che ferrum sia stata un’aggiunta corrotta nella tradizione manoscritta: l’argomentazione prodotta per dimostrare la lontananza del ferro da questo contesto, che riguarda principalmente il momento in cui furono scoperti i metalli, appare debole e poco convincente. Potrebbe, invece, essere la prova che il ferro meriti una discussione a parte e che serva, come spesso accade nelle dimostrazioni degli argomenti lucreziani, a introdurre la sezione sulle armi e sull’uso degli animali in guerra (vv. 12971349), cf. Blickman 1989, 180 ss; Farrell 1994, 92-93. È attestato che, a partire dai primi secoli del I millennio a.C., l’uso del ferro si sviluppò con una certa rapidità, sostituendo il bronzo come materiale di fabbricazione di strumenti e armi (cf. Craddock-Lang 2003) e, attraverso gran parte della sua storia, è stato anche utilizzato in una varietà di stati, che vanno dal ferro battuto, ferro fosforico, ghisa e acciaio. Sul processo della fusione del ferro, cf. Diod. 5, 13, 1-2.179 179

Il metodo dell’estrazione mineraria “a fuoco”, che consisteva nell'accendere un fuoco di fronte alla roccia contenente l'oro grezzo, per 351

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1242 argenti pondus plumbique potestas: l’argento e il piombo vengono distinti rispettivamente, a seconda delle loro specifiche caratteristiche quantitative e qualitative: pondus e potestas sono erroneamente da interpretare come se fossero sinonimi, ma il primo indica il peso fisico di un oggetto (cf. OLD s.v. pondus, 1b, cf. Ov. Am. 3, 8, 37 auro pondera ferri manibus admorat), in questo caso, l’argento, e la potestas è, invece, propriamente la potenzialità, il valore. Potestas può essere interpretato in due modi: come se si trattasse soltanto di indicare le proprietà fisiche dell’elemento del ferro oppure anche per alludere il valore economico e commerciale (cf. OLD s.v. potestas 7b, 8b). Dunque, per l’argento viene indicato il peso, la quantità specifica, mentre per il piombo la sua potenzialità, il suo valore. La ‘iunctura’ lucreziana argenti pondus verrà ripresa da Virgilio (Aen. 1, 359 thesauros, ignotum argenti pondus et auri), e la clausola di verso sarà letteralmente imitata da Orazio (Sat. 1, 1, 41 quid iuvat inmensum te argenti pondus et auri). 1243-1249: i vantaggi della scoperta del fuoco (cf. 5, 52633; 1090-1101) sono molteplici, sottolineati tanto dalla ripetizione asimmetrica di seu … sive … sive (vv. 1244-1249) quanto poi gettarvi sopra dell'acqua: lo sbalzo termico riduceva così la roccia in maneggevoli frammenti. Una volta estratto, il minerale grezzo veniva sbriciolato manualmente e ridotto in polvere fine. Il passaggio finale consisteva poi nel lavare il minerale grezzo, per estrarvi la polvere d'oro e ciò richiedeva un flusso di acqua corrente. Questa doveva essere la fase più difficile da realizzare, visto che gran parte delle miniere più ricche si trovava nella regione desertica della Nubia. L'attività mineraria in Egitto vantava una lunga e produttiva tradizione e la descrizione di Diodoro è una delle più antiche su tale industria, cf. Diod. 3, 12, 1-14. 352

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dall’‘inconcinnitas’ sintattica nel parallelismo (all’ablativo assoluto segue una proposizione causale esplicita, quod… intulerant). La tradizione mitologica collega la scoperta del fuoco alla scoperta dei metalli, non a caso il fuoco sarebbe nato dalla fucina di Efesto. Se Diodoro (1, 13, 3) pone la scoperta del fuoco in Egitto e la attribuisce ad un certo Efesto, Vitruvio (2, 33, 16-23), invece, non contestualizza l’episodio e non lo attribuisce ad un solo scopritore. Dunque, dal v. 1243 Lucrezio offre delle alternative riguardo la scoperta dei metalli da parte degli uomini, a partire dalla conflagrazione che ha causato la casuale scoperta dei metalli allo stato liquido nel terreno. La stessa teoria è stata spiegata da Posidonio, e le due versioni sembrano coincidere in linea di massima. Seneca, però, sembra dissentire dalla possibilità che i sapientes fuisse qui ferri metalla et aeris invenerint, cum incendio silvarum adusta tellus in summo venas iacentis liquefacta fudisset (Sen. Ep. 90, 12). Nel testo cui l’Ep. 90 si riferisce, Posidonio sembra aver trattato esclusivamente della scoperta delle tecniche banausiche, non della scoperta delle artes ludicrae né delle arti liberali. Reinhardt 1921, 399 osservò puntualmente che la forza che ha dato l’impulso originario al progresso tecnico è per Posidonio la sapientia filosofica, la recta ratio, che ha inventato le artes banausiche proprio per servare genus hominum e liberarlo dalla condizione ciclopica e disumana, precaria e pericolosa evocata in 90, 7. Per Posidonio, dunque, le artes banausiche sono indispensabili e servono a equipaggiare la vita umana (instruere vitam). Esse non sono, però, il prodotto della necessità, del bisogno, dell’utile e 353

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delle condizioni materiali che, secondo Democrito e gli epicurei Diogene di Enoanda e Lucrezio stesso, avrebbero plasmato l’uomo primitivo, spingendolo ad attingere a tutte le risorse fisiche e intellettuali per concepire i mezzi più idonei alla sopravvivenza, destinati progressivamente a perfezionarsi con l’arricchirsi dell’esperienza. Come mostrato in particolare da Manuwald 1980, alla base della Kulturgeschichte lucreziana e diogeniana c’è l’idea di Epicuro (Ep. Hdt. 75), secondo cui la natura umana è in grado di apprendere dalle circostanze stesse, in seguito il raziocinio affina ciò che ha ricevuto dalla natura e compie ulteriori scoperte, secondo tempistiche variabili. Per Posidonio l’acquisizione delle tecniche banausiche non è frutto della costrizione del bisogno, ma della creatività, della ragione perfetta dei sapienti, che agiscono con un preciso scopo, ossia garantire la sopravvivenza del genere umano. L’ipotesi di Giussani, secondo cui in questo e forse anche in altri passi Lucrezio avrebbe seguito il pensiero di Posidonio, non è condivisibile. Mentre risulta ancora una volta palese il divario tra le due opposte scuole filosofiche, si può sostenere, al contrario, che Seneca, nel parafrasare le idee di Posidonio, sia in accordo in questo contesto con la visione epicurea. Vale la pena di citare anche Ateneo (6, 233d), secondo cui il calore dei fuochi della foresta avrebbe provocato nella fusione anche la presenza della comparsa dell’argento allo stato liquido. 1243 ignis…cremarat: la tradizione manoscritta Ω, riporta gentis, in luogo della più plausibile lezione ingentis, riportata da ξ, tranne Aa. Nonostante l’uso dell’accusativo arcaico in -is sia piuttosto comune, è interessante l’emendamento di 354

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Brieger, che modifica la lezione nell’ablativo ingenti e lo lega ad ardor, poiché ritiene che, nel processo di fusione dei metalli, il calore del fuoco sia stato più rilevante in relazione all’estensione delle foreste. La reazione della combustione, che porta alla fusione dei metalli, non può verificarsi in territori di piccole dimensioni, ma necessita di una vasta area di propagazione del calore, dunque solo quando brucia una foresta di enormi dimensioni. Inoltre, come Lucrezio descrive nei vv. 1370-78, montagne e rilievi della terra, all’epoca della scoperta del fuoco e dei metalli, erano ricoperti da foreste. A favore della lezione riportata dai codici Itali, c’è anche il fatto che ingentis silvas è una ‘iunctura’ catulliana (cf. Catull. 115, 5 prata, arva, ingentis silvas, saltusque paludesque). Cremarat è la forma sincopata del piuccheperfetto indicativo cremaverat, e, insieme a ignis e ardor, crea un unico campo semantico del fuoco e della combustione (cf. OLD s.v. cremo 1d, il verbo indica il distruggere e consumare per mezzo del fuoco, da qui il legame anche con i sinonimi di ignis, flamma). L’ardor indica propriamente il calore e la luce prodotta da esso (cf. EM s.v. areo, 45 è il corrispettivo latino dal sostantivo greco αἰθήρ, e ne conserva anche il suo originario significato figurato di “passione, ardore”), e insieme a cremarat forma un nesso allitterante (ARdoR cRemARat). 1244 montibus … fulmine misso: il v. 1244 ha una costruzione incipitaria in anastrofe, montibus in magnis, e riporta il primo argomento riguardo l’uso del fuoco, per la scoperta dei metalli, attraverso l’ablativo assoluto fulmine misso. È probabile che la scoperta del fuoco sia stata del tutto casuale, come in questa prima ipotesi, ovvero attraverso la conflagrazione di un fulmine 355

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(preferisco stampare la lezione riportata da Q, il genitivo caeli, in luogo dell’ablativo caelo, anche per l’occorrenza lucreziana dell’uso in 1, 489 transit enim fulmen caeli per saepta domorum). L’ablativo caelo, tràdito da O, stampato da Lachmann e Bernays, fa presupporre che il fulmine sia stato scagliato da qualcuno, da entità soprannaturali, nella tradizione mitologica da Giove. La collocazione degli ablativi disturba 1, 489 e motiva la preferenza a favore del genitivo caeli, riportato da Q. La ‘iunctura’ mittere fulmen si ritrova anche in Seneca tragico (Her. O. 455 missumque fulmen stare, concussi fretum). 1245 sive quod … formidinis ergo: la contrapposizione tra la guerra e l’agricoltura nei vv. 1245-8 anticipa il contrasto tra gli usi militari e agricoli di una nuova tecnologia che assume una certa importanza, a partire dal v. 1289. Bellum silvestre: “una guerra tra i boschi”, questa espressione può essere naturalmente ricondotta al v. 955 sed nemora atque cavos montis silvasque colebant e al v. 1411 silvestre genus capiebat terrigenarum. La guerra, definita silvestris, dovrebbe presupporre l’allusione a una tattica di guerra primitiva, una sorta di guerriglia, imboscata. Questo tipo di guerra non presupponeva ancora l’uso dei metalli. L’epiteto silvestris viene utilizzato in seguito anche nel v. 1411, per indicare quale fosse il carattere primitivo e originario della musica, e di conseguenza anche quale dovesse essere il primo luogo di utilizzo, ovvero un ambiente bucolico e pastorale. Inoltre, sta ad anticipare il riferimento all’agricoltura del v. 1248 pandere agros pinguis et pascua reddere rura. Giustamente la Gale ad loc. individua il 356

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riferimento incrociato tra i due passi: «this cross-reference between the two passages points up the contrast between the images of primitive violence in the present section and the idyllic scenes of rustic jollification at 1390-1404, which appear to belong to approximately the same era (cf. also 948 and 970)». È quasi una ironica contrapposizione di Lucrezio tra le immagini positive e negative della vita preistorica, sempre in linea con la legge naturale dell’isonomia e dell’alternanza necessaria tra le forze creatrici e le forze distruttrici. Inter se … gerentes è un’ulteriore anticipazione della sezione di versi successiva (1297-1349) sulla nascita dell’arte della guerra, fino ad arrivare ad un incerto finale apocalittico di autodistruzione del genere umano (vv. 1341-9), causato dall’impiego degli animali feroci in guerra, irrazionali e pericolosi strumenti che non possono essere disciplinati dalla tecnica e dall’abilità umana. 1246 intulerant ignem formidinis ergo: sta per “creare paura”, dal momento che ergo è un’antica preposizione posposta allo stesso modo di causa al genitivo. Spesso conferisce una maggiore solennità o dignità ad una frase o espressione (cf. 3, 78 statuarum et nominis ergo; Verg. Aen. 6, 670; Liv. 22, 38 fugae atque formidinis ergo). Qui fero ha un significato simile, quasi sinonimico, al precedente gero e, dunque, l’espressione intulerant ignem, per Bailey, ha il senso di “had carried fire among”, non diverso dal v. 976 dum … sol inferret lumina caelo. La contrapposizione delle pratiche di guerra con i terreni agricoli liberi, nei vv. 1245-48, anticipa il contrasto tra gli usi militari della nuova tecnologia, preponderante rispetto agli usi agricoli. Inoltre, anche la funzione positiva del fuoco viene presto 357

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convertita nella sua caratteristica forza distruttrice, per spaventare gli uomini e gli animali, usata come arma per provocare incendi nei boschi. Della scoperta del fuoco, insieme all’origine del linguaggio, ne parla in dettaglio, oltre Lucrezio, anche Vitruvio (cf. 2, 1); nell’Ep. 90 di Seneca non vi è traccia di queste due importanti scoperte. A questo punto si può ipotizzare che o il fuoco e il linguaggio non facciano parte delle scoperte dei sapientes, secondo il pensiero di Posidonio, oppure che Seneca le abbia omesse di proposito. Un autore stoico, che tratta a lungo della scoperta del fuoco, è Lucio Anneo Cornuto (cf. Comp. 18-19), che riconduce tale repertum e lo sviluppo tecnico nel suo complesso all’intelligenza e alle peculiari doti intellettuali dell’uomo, non alla recta ratio dei sapientes. Il fuoco diventa uno strumento di comando e di deterrenza, allo stesso modo dell’utilizzo degli animali feroci in guerra (vv. 1308-49), che possono incutere paura e allontanare il nemico da un possibile scontro. Ritorna, ancora una volta in modo preponderante, il tema della paura, espresso attraverso diverse sfumature linguistiche: la formido indica uno stato di allarme e una sensazione psicologica di paura e di spavento acuto, non prolungato nel tempo, causato da una situazione di pericolo. A differenza del terror e dell’horror, non descrive uno stato prolungato di ansia e di timore, ma un’emozione relativamente breve, che può esprimere un fulmineo e intenso stato di tensione (cf. ThlL s.v. formido2, VI, 1096, 65 ss.; OLD s.v. formido2, 1c, cf. Cic. Verr. 2, 5, 157).

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1247 inducti terrae bonitate: continua l’elenco delle possibilità della scoperta e del successivo uso dei metalli; in parallelismo anafororico Sive quod …sive quod, dei vv. 1245 e 1247, mentre la terza congiunzione correlativa sive illustra l’eventualità che gli uomini abbiano scoperto i metalli nel momento in cui erano impegnati in attività agricolo-pastorali. La bonitas terrae allude alle forze creatrici della natura, che sostengono gli uomini nella loro aspirazione al progresso. Da notare nel v. 1246 la presenza dell’‘enjambement’ volebant/ pandere. 1248 pandere agros … reddere rura: significa “to spread out”, “to extend”, (cf. De Vaan, s.v. pando, 442) e, nel significato più logico in questo verso, “to clear”, ovvero abbattere le selve per fare posto ai campi o pascoli. Per l’origine etimologica antica, cf. Maltby, 447 cf. Varro apud Non. 44, 1, pandere Varro (GRF 253, 201) existimat ea causa dici, quod qui ope indigerent et ad asylum Cereris confugissent panis daretur: pandere ergo quasi panem dare: et quod numquam fanum talibus clauderetur. Dunque, l’impegno sarebbe stato quello di trovare i migliori strumenti per disboscare le foreste e per trasformare i pascoli in campi da coltivare (reddere rura in clausola allitterante). Lucrezio sottolinea il desiderio di appropriarsi di campi fertili e rappresenta già un’intenzione di popolazioni sedentarie, citando agros, pascua e rura, probabilmente con riferimento alle origini dell’agricoltura romana, quando l’antica società pastorale si convertì in comunità agricole stanziali (cf. per le origini delle tecniche agricole romane Marcone 2004). Agros pinguis potrebbe essere stato ripreso in ‘variatio’ da Verg. G. 4, 118 pinguis hortos. 359

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1249 feras interficere et ditescere praeda: Lucrezio lascia qui intendere che l’ultima possibilità della scoperta dei metalli sarebbe avvenuta quando i primi uomini usavano cacciare le belve feroci con il fuoco, elemento responsabile della scoperta casuale dei metalli. Il v. 1249 presenta una struttura chiastica feras interficere et ditescere praeda. Inoltre, interficio e ditesco sono due termini di uso prosaico. Ditescere assume propriamente il significato di “arricchirsi” (cf. ThlL V, 1554, 21 ss.), qui è riferito precisamente alla sottrazione delle pelli di animali, per coprirsi (cf. 1011 e 1418). Il legno era necessario per le attività industriali in rapido sviluppo, dalla metallurgia alla ceramica e al vetro. Anche l’attività agricola rese necessario il sacrificio di selve e foreste. Al disboscamento si doveva ricorrere per guadagnare terre da pascolo: Lucrezio afferma che anche per questo motivo gli uomini portarono il fuoco nelle selve sin da epoca antichissima, cf. Fedeli 1990, 79. 1250-1251. I metalli potrebbero essere stati scoperti durante le battute di caccia dei primi cacciatori, armati di fuoco, oppure durante un incendio casuale: è chiaro che il principale artefice della scoperta dei metalli sia stato il calore delle fiamme. La sottrazione delle pelli degli animali non è propriamente un’attività illecita associata al furto, nonostante il verbo ditescere abbia spesso una valenza negativa, ma è intesa come attività collaterale alla caccia (cf. Barringer 2001, 12-18). Lucrezio nei vv. 12501251, con un breve ‘excursus’ esegetico, fa riferimento al modo in cui si è evoluta la pratica della caccia: dall’utilizzo del fuoco, come già si è visto, utile per spaventare le bestie, alla costruzione di fosse, adoperate come trappole per gli animali da cacciare, fino 360

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all’uso di reti che cingevano i boschi, e all’inseguimento delle prede con i cani. Il lettore potrebbe interpretare i riferimenti lucreziani in relazione al repertorio tradizionale della mitologia, come il racconto del cinghiale calidonio o del cinghiale erimanzio (cf. Il. 9, 533 ss.; Apollod. 1, 82; Ov. Met. 8, 290 ss.). Nel mito calidonio, si ha la convergenza di due motivi: da un lato la contrapposizione tra la sfera del selvaggio e la sfera del coltivato, dall’altro il carattere eroico della caccia, intesa come lotta collettiva del mondo agrario “civile” contro l’intrusione del selvaggio. I riferimenti espliciti a personaggi, situazioni, storie della mitologia in Lucrezio sono sporadici e sempre finalizzati a completare un’argomentazione scientifica, questo passo, al contrario, potrebbe essere uno degli esempi che Monica Gale efficacemente chiama “latent myth” («by this I mean passages where mythological characters, themes or situations seem to lie at the root of Lucretius’ imagery or phraseology or choice of exempla, without an explicit reference» (cf. Gale 1994, 156). Lo stadio culturale delle comunità di raccoglitori è stato largamente rappresentato nei vari racconti di Kulturgeschichte, a partire sicuramente da Democrito. In Democrito, la sussistenza tramite raccolta rappresentava lo stadio dell’umanità più primitiva (68 B 5 DK), e altrettanto vale per Dicearco (fr. 48-49 Wehrli = T 56 A Mirhady), che attingeva ai modelli elaborati da Platone e da Aristotele e che poneva la caccia e l’allevamento al secondo stadio (gradus) del progresso umano. I primi uomini, secondo Dicearco, non erano cacciatori, ma semplici raccoglitori di vegetali. In un passo del I libro della Politica, Aristotele distingue tre tipi fondamentali di esistenza in relazione al procacciarsi i mezzi di sussistenza, tramite forme non mediate di scambio: i pastori 361

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nomadi, i cacciatori, gli agricoltori (1256a- b); cf. Cambiano 2016, 156-8. Aristotele tratteggia un’autentica tipologia delle forme culturali appropriativo-produttive, in una prospettiva descrittiva sincronica, a differenza della visione graduale e diacronica di Platone (III libro delle Leggi), non proponendosi di distinguere un ordine di successione fra differenti bíoi, come accadeva invece nelle varie vite esemplificate dalle storie evolutive dell’umanità, in particolare secondo la visione di Democrito e Lucrezio. Ben lontana dagli intenti di Lucrezio era la rappresentazione dell’esercizio della caccia (lepre, cervo e cinghiale) come attività aristocratica ed eroica (cf. Barringer 2001, 10-69), raccontata nel Cinegetico di Senofonte (cf. 5, 34). La caccia, per l’oligarca Senofonte, è una pratica agonistica, edificante, che non appare mai rapportata a finalità economiche, né in positivo, come approvvigionamento alimentare, né in negativo, come protezione dagli animali nocivi e feroci. I cani sono un elemento indispensabile per la caccia, soprattutto quando la pratica divenne più diffusa e la sua tecnica perfezionata (cf. Xen. Oec. 5, 6): i cani servono a tenere lontane le bestie selvatiche dal recare danno alle coltivazioni e alle greggi e garantiscono la sicurezza delle aree disabitate. A seconda delle circostanze e delle modalità della pratica venatoria, si può dire che il contrasto cacciatore/agricoltore può nascondere un vero e proprio scontro di classe, soprattutto per quelle forme di caccia (cani, cavalli, ecc.), che sono percepite come espressione della classe benestante e aristocratica (cf. Azzaroli 1975). Una costruzione analoga ai vv. 1250-1 si ritrova in 4, 843-5 at contra conferre manu certamina pugnae/ et lacerare artus foedareque membra cruore/ ante fuit multo quam lucida tela 362

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volarent, in particolare per prius est venarier ortum/quam saepire, costruzione in ‘enjambement’. La fovea e l’ignis rappresentano le trappole primitive utilizzate per ingannare e spaventare gli animali da cacciare, prima che i cani fossero addestrati per questo compito. Nel v. 1250, Lucrezio potrebbe riferirsi a una pratica più arretrata, in uso presso le popolazioni nomadi o non stabilmente sedentarie. 1250 fovea ha qui un significato specifico (cf. OLD s.v. 2 ‘a pit with a concealed mouth and used to trap game, a pitfall’, cf. Hor. Epist. 1, 16, 50 cautus …metuit fovea lupus), si tratta di una fossa scavata artificialmente, di solito nei boschi, usata come trappola per farvi cadere dentro le bestie, spaventate dal fuoco e dalle armi. L’utilizzo dei cani presuppone che ci si stia riferendo a una società stabile e sedentaria: anche nella storia dell’evoluzione, i cani sono i lupi che sono stati addomesticati. Lucrezio naturalmente era inconsapevole di come fosse avvenuta la metamorfosi genetica del lupo nelle varie razze di cani: quella dei lupi mutati in cani non è stata una selezione naturale, ma artificiale, creata appositamente per gli uomini che si sono serviti dei cani per vari scopi, dalla caccia, alla guardia e alla compagnia. È probabile l’allusione virgiliana del v. 1250 in G. 1, 139-40 tum laqueis captare feras et fallere visco/ inventum et magnos canibus circumdare saltus, con un riferimento preciso alla caccia nei boschi (saltum). Venarier è la forma arcaica dell’infinito venari, cf. EM, s.v. venor, 720: è un infinito sostantivato (cf. per l’uso in Lucrezio 4, 836-50; 5, 1297-9; 1300-1; 1379-80), allo stesso modo di saepire e ciere nel verso seguente.

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1251 plagis: è un sostantivo polisemantico (cf. OLD s.v. plaga2, 4, vale a dire la rete utilizzata dai cacciatori come trappola, da non confondere con il significato precedente, che ha il senso di ferita, provocata da un’azione o da un colpo violento; ThlL s.v. plaga2 X, 2300, 75 ss.). Non è da escludere che Lucrezio abbia intenzionalmente creato un gioco di parole sul duplice significato di plaga (cf. anche pax e anima nei vv. 1229-1230), tra la ‘rete’ e la ‘ferita’, e dunque, tra il desiderio da parte dell’uomo di prevalere e dominare la natura e il danno procurato agli esseri dominati e subordinati al suo potere, grazie all’uso delle prime forme di tecnologia rudimentale, come le bestie selvatiche che è in grado di dominare. Saepire e ciere sono termini tecnici, peraltro sinonimi, utilizzati per indicare la cattura di un animale nella rete (cf. OLD s.v. saepire 2b, spesso “with hunting-nets”). Ciere è meno specifico di saepire, poiché non indica soltanto una precisa azione che riguarda le attività annesse alla caccia, ma è il corrispettivo latino del greco κινέω. 1252 quicquid id est, quacumque e causa: secondo Munro: «Lucretius may therefore have written quicquid here, though elsewhere his mss. have quidquid for the relative; quicquid in the sense of quicque, rightly according to the rule explained in notes 2 to I 22 quicquam». Dunque, il senso dell’espressione è genericamente quello di “qualunque cosa accada”. La conclusione di Lucrezio sembrerebbe sbrigativa, o meglio, l’autore non ritiene opportuno soffermarsi sul tema della caccia, né tantomeno su quale sia stata la ragione per cui i primi uomini si fossero serviti del fuoco, mentre attraversavano i boschi. Una spiegazione logica 364

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potrebbe essere quella di aver usato il fuoco per illuminare. Forse qui Lucrezio nota quanto incida la pratica della caccia sulla natura, poiché la terra viene bruciata e ciò porterà alla scoperta dei metalli. 1252-1254 flammeus ardor … exederat altis a radicibus: a partire dal v. 1252 c’è una descrizione dettagliata di un momento piuttosto drammatico della storia dell’uomo. Attraverso la figura sonora dell’allitterazione della sibilante s, Lucrezio riesce a far percepire il crepitío del fuoco, nel v. 1253, Sonitu SilvaS eXederat altiS. Flammeus è da interpretare nel senso letterale, come se fosse un genitivo epesegetico di flamma (cf. OLD s.v. flammeus, 1 cf. Acc. Trag. 1093, Meleagro, ubi torrus esset interfectus flammeus; Catull. 66, 3 Flammeus ut rapidi solis nitor obscuretur; cf. Lucr. 2, 215 vis flammea). Nel contesto sopra citato di Catullo è presente un ossimoro, a differenza della singolare ridondanza flammeus ardor … terram percoxerat igni. La scoperta dei metalli sembra anche essere collegata al tema della sensibilità ecologica e del rispetto dell’ambiente, piuttosto caro a Lucrezio, ripreso soprattutto da Seneca e da Plinio il Vecchio, ovvero su quanto l’uomo abbia potuto infliggere delle violenze a scapito della natura (cf. per una contestualizzazione Fedeli 1990, e in particolare le pagine 78-80, per quel che riguarda la pratica del disboscamento). 1253 horribili sonitu silvas exederat: cf. 6, 155, per horribili sonitu. L’allitterazione della sibilante rende l’idea di quale sarebbe stato il suono terribile provocato dall’incendio che divampa nei boschi. Scoppi di incendi avvenuti spontaneamente si ritrovano anche in Thuc. 2, 77, 4; Manil. 1, 856-57; Verg. Aetna 365

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363-65; Lucr. 1, 897-903 «At saepe in magnis fit montibus» inquis «ut altis/ arboribus vicina cacumina summa terantur/ inter se, validis facere id cogentibus austris,/ donec flammai fulserunt flore coorto.»/ Scilicet et non est lignis tamen insitus ignis,/ verum semina sunt ardoris multa, terendo/ quae cum confluxere, creant incendia silvis. (cf. anche v. 914, famoso verso in cui Lucrezio dichiara che anche una figura retorica, quale è la paronomasia, ligna … ignis, va spiegata ‘atomologicamente’, cf. Dionigi 1988, 44). La maggior parte dei codici riporta la lezione sonitus in luogo di sonitu, ma, dal momento che non concorda sintatticamente con l’aggettivo a cui è legato, è facile spiegare sonitus con un errore di diplografia. Exedere ha un significato specifico, quando è riferito al fuoco e ai danni che esso può provocare con il divampare delle fiamme, anche se etimologicamente è legato alla sfera del divorare (cf. OLD s.v. exedo 2). 1253-1254 altis a radicibus: qui in ‘enjambement’. Dalle profonde radici degli alberi il fuoco entra nella profondità della terra ed è in grado di mescolare e far scaturire i metalli. Altis viene preferito ad altas riportato da Q, mentre ab in luogo di a (Ω) è una correzione del Candidus. Non è necessario, per Bailey, correggere a in ab, anche perché si ritrova indistintamente a o ab in Lucrezio (cf. ad esempio in 6, 921 O riporta a rebus, e in 1, 352 ab radicibus haerent). Spiegare che le radici degli alberi vengono bruciate intorno alla superficie del suolo serve a mettere in luce come le vene dei minerali grezzi venivano fusi. Terram percoxerat igni: cf. 858 percoquere umorem. Per il significato di percoquere, cf. OLD s.v. percoquo 1c (cf. Cic. 366

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Oecon. fr. 12 nullo modo facilius arbitror posse … terram ab sole percoqui), il cui senso è legato al calore emanato dal fuoco, nonostante la sfera semantica di exedo e di percoquo richiami il cibo e la sua cottura. Dalla terra bruciata con il fuoco e surriscaldata dal calore delle fiamme saranno stati scoperti i metalli. 1255-1257: cf. la teoria di Posidonio sulle tecniche banausiche a riguardo (cf. Sen. Ep. 90, 12). Posidonio e Lucrezio spiegano, all’incirca, allo stesso modo la scoperta dei metalli: Posidonius apud Sen. Ep. 90, 12 sapientes fuisse qui ferri metalla et aeris invenerint, cum incendio silvarum adusta tellus in summo venas iacentis liquefacta fudisset.

Entrambi usano il mythos per spiegare come le selve si incendiano e i metalli si liquefanno; sono anche gli unici autori che adottano il mito all’originaria scoperta delle miniere e della metallurgia. Per l’analogia tra il passo lucreziano e quello posidoniano, cf. Cole 1967, 17 ss., che cita anche l’‘archeologia’ egizia di Diodoro (cf. 1, 8) ed enfatizza il ruolo del caso e dei fattori esterni nello sviluppo della tecnologia; cf. Edwards 2019, 279-80. Il mythos sul liquefarsi delle venae dei metalli è evocato anche in altri frammenti posidoniani (frr. 239-40 a-b EK = apud Str. 3, 147) e in altri autori, tra cui Ath. 6, 233D-E, Ps. Arist. Ausc. Mirab. 87, 837 A 24-26, Diod. 5, 35, 3-4. Come spiegare questa analogia tra Posidonio e Lucrezio, che erano all’incirca contemporanei? Cole 1967 e Zago 2012, 163-66 ritengono che Lucrezio abbia desunto materiale sulla scoperta della metallurgia da Posidonio, nonostante non ci siano 367

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altri punti di contatto tra la Kulturgeschichte lucreziana e quella posidoniana. Lucrezio, infatti, riteneva che non vi fosse sapienza o filosofia ai primordi della civiltà e la forza propulsiva del progresso umano non fosse la recta ratio dei sapientes. Cole 1967, 18-19 giustamente sottolinea che la spiegazione della scoperta dei metalli sulla base di un evento imprevisto, appunto come il liquefarsi delle vene metalliche data da Lucrezio, risulta perfettamente coerente, mentre lo è assai meno in quella posidoniana. Lucrezio e Posidonio sottolineano anche il ruolo della casualità nello sviluppo tecnologico connesso alla metallurgia. Per il resto, non sembra di trovare alcun riferimento, né polemico né di altro genere, a fonti stoiche: anzi, in linea di massima, sembra che Posidonio sia stato ignorato, o per lo meno che Lucrezio abbia voluto fornire una alternativa al pensiero stoico. Secondo Sedley 1998, la fonte potrebbe essere il perduto XII libro del Perì Phýseos di Epicuro. Tuttavia, osserva Cole 1967, 17, Lucrezio e Posidonio/Seneca non condividono soltanto una spiegazione sull’origine della metallurgia (infatti, sono gli unici autori noti che hanno interpretato l’incendio delle selve e il liquefarsi delle venae metallifere, come l’evento che ha reso possibile la fortuita scoperta della metallurgia), e dovrebbero attingere entrambi ad un’unica fonte, Democrito. Nelle loro ricostruzioni della dottrina democritea circa lo sviluppo culturale del genere umano, sia Reinhardt 1921, 404 sia Cole 1967 affermano che grande rilievo doveva essere attribuito al caso e agli eventi fortuiti: pertanto, un evento dall’esito imprevisto ha reso possibile la scoperta dei metalli. Per la funzione del caso nel processo inventivo, cf. Democr. 68 A 151 DK (Ael. NA 12, 16).

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1255 manabat venis ferventibus: il flammeus ardor rimane il soggetto dell’intero lungo periodo. Nei vv. 1255-1257 viene mostrato esattamente cosa accadde dopo gli incendi e la liquefazione dei metalli. Naturalmente, non ci sono, da parte di Lucrezio, dei riferimenti precisi ai luoghi in cui si formarono i primi giacimenti di metalli. Da quello che si può intuire dall’evidenza archeologica, nel I millennio a.C. vi fu un notevole sviluppo in tutti gli aspetti della produzione metallurgica (cf. Craddock 1989, 178-212): le miniere principali per l’estrazione dell’oro, dell’argento e del rame si trovavano in Italia (Piombino, Sardegna), in Grecia (Laurion), nella penisola Iberica (Rio Tinto) per il ferro e l’acciaio, e per il rame soprattutto nell’isola di Cipro. Manare è un verbo tecnico che si riferisce soltanto allo scorrere dei liquidi, nonostante non manchi anche un senso traslato (cf. OLD s.v. mano 1, cf. 6, 633-4 debet ut in mare de terris venit in umor aquai/ in terras itidem manare ex aequore salso). 1256-1257 concava conveniens argenti rivus et auri, aeri … plumbi: il fiume di argento e oro del v. 1256 richiama e razionalizza l’immagine fantastica di aurea … flumina “fiumi d’oro” del v. 911. Oltre ai due metalli nobili, vengono menzionati nuovamente il rame e il piombo. L’assetto del mondo è il risultato di un tentativo riuscito di aggregazione di atomi: il concetto della natura che procede per tentativi viene adattato alla storia della civiltà umana e, nel caso specifico, a come si sono andati a formare i metalli, dopo aver scoperto la loro fusione e la possibilità di plasmarli in varie forme. Concava conveniens forma un ‘incipit’ allitterante del verso. Vi sono molte fonti che trattano la formazione allo stato liquido dei metalli, delle cosiddette vene 369

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metallifere (cf. Ps. Arist. Ausc. Mirab. 87, 837 a24-26; Diod. 5, 35, 3-4; Str. 3, 147; Plin. HN 33, 1-7 e 95-100; Ath. 6, 233d-e). Per il termine rivus, quando riferito ai metalli, cf. Verg. Aen. 8, 445 fuit aes rivis aurique metallum; G. 2, 165 haec eadem argenti rivos aerisque metalla/ ostendit venis, atque auro plurima fluxit. Vengono menzionati tutti i metalli a cui Lucrezio ha già fatto riferimento, eccetto il ferro, che è trattato separatamente a partire dal v. 1281. Dunque, il disboscamento avrebbe avuto anche la funzione di rinvenire le vene metallifere (cf. Fedeli 1990, 79). 1257-1259 quae cum concreta … lepore: quale fu la conseguenza di questa visione per i primi uomini? I metalli modificano il loro stato da liquido a solido a seconda della temperatura a cui sono esposti. Una volta che il sole e il fuoco hanno smesso di riscaldarli, producendone una certa quantità, si raffreddano e si addensano e risplendono sulla terra mostrando lucidi bagliori. Lucrezio insiste sull’aspetto visivo e sul cromatismo dei metalli, e anche nella descrizione delle forme che lasciavano sulla terra, in particolare con la presenza dei due iperbati claro… colore e nitido… levique lepore, nei due versi consecutivi 1258-9. Concreta è un participio predicativo, “quando vedevano che queste cose si erano rapprese”, mentre in terra è un emendamento di Cippellarius, seguito da Lachmann, in luogo di terras, riportato dai mss., e di terris, correzione apportata da Lambinus. Terra fornisce una spiegazione più immediata della corruzione: la s si spiega facilmente con una dittografia della prima lettera di splendere.

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1259 capti: cf. 1, 15 ita capta lepore e 1, 941 deceptaque non capiatur. Chi potrebbero essere gli uomini a cui Lucrezio si sta riferendo? Secondo Posidonio (cf. Sen. Ep. 90, 7-35), si tratterebbe dei sapienti, che per recta ratio avrebbero condiviso, insieme a tutti gli altri uomini delle prime comunità, le loro scoperte. Seneca, a differenza di Posidonio, ritiene che queste scoperte siano il risultato della ratio, non della recta ratio, ovvero la sapientia filosofica (vd. 90, 24; cf. Setaioli 1988, 327; Edwards 2019, 275). Secondo Democrito e poi Lucrezio, la scoperta sarebbe stata empirica e casuale, a seguito di numerosi tentativi falliti, che avrebbero poi portato all’unico tentativo riuscito. Lo stupore e il piacere di coloro che per primi hanno visto “the gleaming ingots”, per usare un’espressione di Costa, è sottolineato dalle immagini claro … colore, nitido … levique lepore (cf. 1, 15 cf. Verg. Ecl. 6, 59 aut verba captum viridi). Gli aggettivi nitido levique equivalgono a dei sostantivi nel caso genitivo, nitoris levorisque, come flammeus ardor (v. 1252). 1260-1261. Quello che i primi uomini avevano empiricamente osservato era il modo in cui potevano rivelarsi i metalli: innanzitutto, a partire dalla loro combustione in superficie, fino ad arrivare alle loro impronte sul terreno e alla assunzione della forma identica alla concavità della roccia in cui si sono fuse, una volta rapprese e solidificate. Le lacunae sono i loca concava dei vv. 1255-6. Le vestigia sono le impronte, i segni dei fossi (cf. 4, 87 formarum vestigia): pertanto, vestigia appare la lezione corretta, oltre a godere dell’accordo di tutti i mss.

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1262-1268. In analogia con l’assunzione di una forma corrispondente alla concavità della pietra, è scaturito un impiego creativo da parte dell’uomo nella fusione dei metalli, con la realizzazione di utensili e, in seguito, armi. Dal momento che i bisogni della natura non sono difficili da riconoscere e da comprendere, gli Epicurei ammettevano che gli esseri umani provvedevano ai propri bisogni per necessità e non per recta ratio, attraverso l’unico metodo di comprensione dei fenomeni naturali, il metodo empirico. Attraverso l’esperienza diretta, i primi uomini compresero quale fosse l’uso più adatto per adoperare i metalli allo stato solido. Lucrezio era convinto, come anche Democrito, che gli uomini fossero in grado di creare moltissime cose senza alcun tipo di istruzione (sul concetto di “spontaneity” cf. Ransome Johnson 2013, 99-130). 1262 penetrabat eos: l’uso figurato del verbo penetrare è piuttosto insolito e originale. È difficile trovare un vero e proprio parallelo (vd. OLD s.v. penetro 5, cf. anche Lucr. 3, 252 nec hunc dolor potest penetrare; Tac. Ann. 1, 69, 3 id Tiberii animum altius penetravit, passo citato anche da Munro, simile per la costruzione, ma molto diverso nel significato). Il senso di “venire in mente” non è attestato altrove e la costruzione con l’accusativo si giustifica con un raro uso impersonale del verbo penetrare (cf. ThlL s.v. penetro X, 1069, 40-41 ‘ut penetrare sit quasi verbum impersonalis’). Nel suo significato metaforico è espresso l’effetto di questa nuova idea, in grado di colpire l’attenzione degli uomini e sottolineare il ruolo dell’opportunità, che conseguentemente ne ha stimolato la creatività nell’evoluzione del lavoro metallurgico. Aver utilizzato un verbo, come penetrare, carico di fisicità, 372

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nonostante le diverse attestazioni in senso incorporalis, potrebbe essere un modo icastico di rappresentare la realtà. Non è da escludere, in questo senso, che tale scelta linguistica sia in linea con la teoria epicurea dell’animus, dei sogni o dei simulacra, che sono generalmente interpretati come res incorporales, ma pur sempre costituiti da atomi, minuscole particelle di materia corporea («atoms and the void are by definition not perceptible» vd. Lehoux 2013, 132). Le percezioni, infatti, possono fisicamente penetrare e scuotere l’anima: «at the same time those same senses can be used to lead our reason to ‘see’ what is really lying just beneath the surface of those sensory experiences», scrive Lehoux 2013, 132. Per la teoria delle sensazioni e delle percezioni, cf. Furley 1993, 72-94; Reinhardt 2015, 63-90; Sedley 2018, 105-21. Un contesto molto vicino è, per analogia, 2, 1070-76, dedicato alla forza che permette agli atomi diversi tra loro di legarsi e di formare oggetti, processi e reazioni, sempre diversi e di molteplici forme: Nunc et seminibus si tanta est copia quantam Enumerare aetas animantum non queat omnis, vis eadem natura manet quae semina rerum conicere in loca quaeque queat simili ratione atque huc sunt coniecta, necesse est confiteare esse alios aliis terrarum in partibus orbis et varias hominum gentis et saecla ferarum.

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Pertanto si insinua nella mente dei primi uomini l’idea dei metalli, che si presentano sotto forma di una materia resa liquida (liquefacta) dal calore – solare o prodotto dalla combustione degli incendi nei boschi e nelle rocce – tali da poter essere facilmente modellati e assumere forme diversificate in base all’uso. 373

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1263 in formam et faciem decurrere rerum: “to run into any form and shape”, interpreta Costa, come immergersi nella forma e assumere la figura. Forma e facies rappresentano un’endiadi, anche se vi sono delle differenze di significato e anche nell’etimologia. Forma è il corrispettivo greco di μορφή (cf. Leumann 1977, 21, 114, 319; cf. De Vaan, 234), che il più delle volte ha una connotazione positiva (cf. LSJ s.v. μορφή 2, in opposizione a εἶδος). Si tratta dei contorni dati ad una certa figura, oppure ad un oggetto, materiale o astratto che sia (cf. EM, s.v. forma, 247): spesso si trova legato ad altri termini dal significato molto vicino, facies, figura, species. Varrone (Ling. 6, 8, 78), invece, spiega l’etimologia di facies in questi termini: proprio nomine dicitur facere a facie, qui rei quam facit imponit faciem. Ut fictor cum dici “fingo” figuram imponit, … sic cum dicit “facio” faciem imponit (cf. anche Verg. G. 2, 131), da interpretare come sinonimo di figura. Formam … faciem costituiscono una coppia anche per la loro somiglianza semantica, allitterante, (cf. anche 5, 1176 subpeditabatur facies et forma manebat). Il verbo decurrere è di un impiego frequente quando si riferisce ad un liquido, immagine già richiamata dalla presenza di manare nel v. 1255 (cf. ThlL s.v. decurro V, 227, 67 ss.). 1264-1265 in acuta ac tenvia … procudendo: in questi versi il lessico si intensifica di tecnicismi. Fastigia è un termine architettonico, che sta a indicare le “cuspidi”, qui accompagnato a due aggettivi che ne connotano la forma, appuntita e sottile, acuta e tenuia. Mucrones sono le punte delle spade o dei pugnali; mentre fastigia è un termine particolarmente ricorrente in Lucrezio (cf. 4, 429 trahit angusti fastigia coni), in Virgilio (cf. Verg. Aen. 374

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8, 366 dixit, et angusti subter fastigia tecti) e in Manilio (1, 42 proxima tangentis rerum fastigia caelo). Il finale del verso, procudendo, è spondaico e forma un tetrasillabo per tale motivo, condivido l’interpretazione di Costa: “perhaps imitates the hammer-blows on the forged metal” (cf. Verg. G. 1, 261 durum procudit arator vomeris obtunsi dentem). Procudere ha il senso letterale di ‘spingere verso l’interno’, ‘pressare’, anche se spesso è utilizzato da Lucrezio nel suo significato figurato (cf. OLD s.v. procudo 2, cf. 3, 1081 nec nova vivendo procuditur ulla voluptas). Bockemüller propone una trasposizione dei vv. 1281-1296 subito dopo il v. 1265, non accolta dagli editori successivi. 1266-1268: prima di assumere un significato legato alla guerra, i tela erano semplici utensili che servivano per procurarsi la legna e arnesi più specifici. Vengono menzionati in ‘accumulatio’ dei verbi tecnici che indicano diversi tipi di attività artigianali (caedere, dolare, radere, terebrare, pertundere e forare), relativi alla lavorazione del legno. 1266 tela: per il senso più remoto del termine cf. Maltby, 602, s.v. telum. Alla luce di quello che segue, si dovrebbe pensare che abbia il significato di un generico equipaggiamento sia in contesti militari e non, in analogia con il termine greco ὅπλα. Virgilio, in modo simile, usa il sostantivo arma, con riferimento agli attrezzi della fattoria in G. 1, 160 dicendum et quae sint duris agrestibus arma. È interessante che il simultaneo cambiamento tra il passaggio dagli utensili alla specifica fabbricazione delle armi, coincida con il cambio di argomento di Lucrezio dall’uso dell’oro 375

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e dell’argento fino all’uso del bronzo e del ferro. Dunque, i tela sarebbero genericamente degli attrezzi per tagliare il legno (materies), e in seguito anche delle vere e proprie armi, nonostante sarà il materiale a essere fabbricato. Parent … possint: il congiuntivo presente in dipendenza da un tempo passato non è di frequente adoperato da Lucrezio. I codici riportano la lezione parent. Lachmann, per primo, legge darent … possent, scelta condivisa da Munro, che suppone un cambio improvviso di soggetto, necessario se si adotta l’emendamento di Lachmann: gli uomini fungono da soggetto, dopo i metalli nei due versi precedenti (cf. sui versi Deufert 2018, 351-2). Diels e Martin, a detta di Bailey, avrebbero ragione ad accogliere la lezione dei mss. più autorevoli, OQ: a questo proposito, Munro cita Plaut. Amph. 195 praemisit … ut nuntiem. Lachmann corregge et, riportato dai mss., con un secondo ut, accolto in apparato anche da Deufert, un emendamento che si rivela necessario. Dunque, si tratta di due proposizioni, rette da ut, rispettivamente una consecutiva e una finale. Il congiuntivo imperfetto si giustifica dopo il penetrabat eos del v. 1262 (cf. K-S II, 192 sull’irregolarità del cambiamento dei tempi, con molti esempi nel latino arcaico). 1267: accolgo, come Deufert, l’emendamento di Marullo, dolare et levia radere tigna in luogo del tràdito dolaret levare ac radere tigna (acraderet legge O in ‘scriptio continua’). Il testo dei mss. OQ sembra che presenti una confusione, causata dall’occorrenza degli inusuali verbi dolare e levare, ma è impossibile anche preservarli entrambi. Lachmann legge materiemque , levare ac radere tigna, dove l’integrazione 376

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di domo sembra abbastanza inutile, dal momento che la presenza di dolare non disturba. Tra le numerose proposte di congettura al verso, una delle più valide è quella di Housman, adottata da Smith, et radere tigna valerent. La soluzione di Marullo semplifica molto l’interpretazione complessiva del testo. Inoltre, l’uso dell’aggettivo levis in posizione prolettica è presente anche in Verg. G. 2, 449-50 nec tiliae leves aut torno rasile buxum / non formam accipiunt ferroque cavantur acuto. L’ ‘accumulatio’ dei termini tecnici non è affatto nuova per Lucrezio, che di frequente adopera ripetizioni. Dolare indica l’azione del tagliare il legno nelle sue forme e nei suoi contorni. Materies ha un significato molto più articolato e complesso, oltre a essere plurisemantico, per la sua antica derivazione da mater (cf. EM s.v. materies 390, “terme de la langue rustique. (…) Par extension désigne la partie dure de l’arbre, par l’opposition à l’écorce ou aux feuilles”; vd. anche De Vaan, 367 s.v. mater). Caedere … dolare … radere sono sicuramente tre verbi che indicano la carpenteria. Tigna non è un sinonimo di materies, ma indica precisamente le assi di legno (cf. OLD s.v. tignum b). 1268 perque forare è un chiaro esempio di ciò che David West chiama “syntetical onomatopoeia” (cf. West 1969, 117-20). La tmesi provocata dall’intrusione dell’enclitica -que nella parola perforare, sembra rispecchiare l’azione enunciata dal verbo (cf. 1, 452). PERtundERE PERque foRaRE formano una triplice allitterazione e assonanza in clausola di verso, quasi a indicare il rumore del legno smussato. Il v. 1268 fa luce su un piccolo e significativo aspetto della 377

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tecnologia. I primi uomini esperirono tecniche anche per perforare e attraversare, con i metalli, anche le travi di legno, in modo tale da unirle tra loro e utilizzarle nei modi più idonei. 1269-1274. Lucrezio riprende il racconto mitico di Esiodo (Hes. Op. 106-201), lo razionalizza e lo storicizza (per usare l’espressione di Dicearco, τὸ λίαν μυθικόν, F 49 Wehrli = F 56 A Mirhady; Porph. Abst. 4, 2, 1-9). Che l’uso dell’oro e dell’argento per la fabbricazione delle armi fosse stato abbandonato in favore di quello del rame, non è attestato da fonti precedenti a Lucrezio, a esclusione del racconto mitico esiodeo. Il profilo lucreziano sulla nascita della metallurgia è molto più completo rispetto a quello tracciato da Seneca, che riprende la versione di Posidonio. Il resoconto posidoniano non comprende alcuna trattazione dettagliata sull’uso dei metalli per la fabbricazione delle armi. È interessante, invece, il rapporto che lega i due testi, che potrebbero avere come modello in comune Esiodo: si tratta dei già citati Diod. 1, 15, che sembra fornire una “versione egizia” del profilo lucreziano, e Tzetz. Schol. in Hes. 64, 14-20. In realtà, il commento di Tzetzes a Esiodo e il finale del quinto libro di Lucrezio hanno molti punti in comune (ad esempio, cf. i seguenti paralleli Schol. in Hes. 68, 6-7 e Lucr. 5, 932; Schol. in Hes. 81, 24-27 e Lucr. 5, 1105-1107). Dunque a trattare dello sviluppo delle arti banausiche sarebbero stati in tre: Posidonio, Lucrezio e Diodoro. In particolare, Lucrezio e Diodoro avrebbero incluso anche la fabbricazione delle armi. Si può dedurre che i testi di Posidonio, Lucrezio, Vitruvio, Diodoro e Tzetzes siano dipendenti da una sola fonte (cf. al contrario di Cole 1967, che ipotizza una singola fonte, l’idea di Spoerri 1959, secondo il quale Tzetzes 378

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avrebbe rielaborato Diodoro e il mito dell’età dell’oro di Esiodo, e che tutti dipenderebbero da una fonte cinica in comune). 1269-1270 nec minus argento … primum quam validi violentis viribus aeris: la proposizione comparativa non minus … quam indica che lo sforzo impiegato dagli uomini, per realizzare utensili adatti all’agricoltura o a costruire le armi con oro e con argento, in un primo momento (primum) era lo stesso che fu impiegato per costruire successivamente le stesse attrezzature di metallo con il rame (aes). Il significato del verbo parare è analogo a 2, 643 praesidioque parent decorique parentibus esse, (cf. OLD s.v. paro 8b con l’infinito facere), nel senso di ‘intendere, proporre di realizzare’. La struttura della frase è abbastanza complessa e i due ablativi di mezzo argento … auroque sono in anastrofe. Per haec si intende naturalmente le armi e gli utensili menzionati in 1266. Nel v. 1270 accolgo la trasposizione di Deufert dell’avverbio temporale primum in posizione incipitaria, primum quam validi, in luogo dell’ordine tràdito del verso, quam validi primum. La proposta di Deufert è molto condivisibile e va a migliorare anche l’ordine sintattico della comparativa minus … quam, dal momento che primum appartiene alla frase principale (non minus), e non a quella introdotta dal quam (per un simile uso di primum in posizione incipitaria cf. Lucr. 2, 76 e 3, 965). Così commenta Deufert 2018, 352 e chiarisce che la posizione dell’avverbio cambia la traduzione e il senso dell’intera sequenza di versi «das Zeitadverb gehört dem Sinn nach (und so wird es auch einhellig übersetzt) in den Hauptsatz (‚Die Menschen haben Waffen zunächst nicht weniger aus Gold und Silber als aus Erz zu 379

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schaffen versucht’), nicht in den quam-Satz (‚Die Menschen haben Waffen nicht weniger aus Gold und Silber als zunächst aus Erz zu schaffen versucht’)». Il ritmo dattilico del v. 1270 evidenzia la velocità del passaggio dall’utilizzo di un materiale ad un altro. L’iperbato validi … aeris separa e isola il metallo aes. Lucrezio riunisce i due epiteti validi … violentis per formare una tripla allitterazione (cf. il procedimento analogo nel v. 1226 summa etiam cum vis violenti per mare venti). Inoltre, è interessante notare le allitterazioni sia della semiconsonante v sia della liquida r (Validi pRimum Violentis ViRibus aeRis) e le assonanze delle desinenze, che intensificano il suono della sibilante. Per Isidoro l’origine etimologica dei tre metalli, l’oro, l’argento e il rame deriverebbe dall’aria (cf. Isid. Orig. 16, 20, 1 aes ab splendore aeris vocatum, sicut aurum et argentum). Violentis viribus è una singolare espressione in relazione ad aes, (cf. la regolarità e la naturalezza dell’espressione in 3, 296 vis violenta leonum oppure cf. 1, 287 validis cum viribus amnis). L’impiego di violentus si giustifica perché il metallo, prima l’oro e l’argento e poi il rame, è adoperato per scopi bellici e a compiere atti di violenza, ovvero esercita una certa vis. Validus, a differenza dell’insolito e simbolico violentus, è stato impiegato per la pietra, cf. 2, 449 et validi silices ac duri robora ferri, oppure per il ferro, cf. 6, 1011 validi ferri natura. L’immagine costruita da Lucrezio è poetica e metaforica, attraverso l’umanizzazione degli elementi. 1271 nequiquam, quoniam: si tratta di un avverbio, come già sottolineato in diversi altri contesti, particolarmente ricorrente in Lucrezio, in particolare in ‘incipit’ di verso, sempre 380

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seguito da quoniam, con cui crea una vera e propria formula (cf. le sette occorrenze della formula soltanto nel quinto libro, 5, 388, 846, 1123, 1231, 1313, 1332). La funzione di questa formula è quella di evidenziare l’inutilità o il fallimento di un dato processo, storico o scientifico, che si è manifestato senza successo. I tentativi di usare l’argento e l’oro come armi o strumenti di lavoro sono risultati fallimentari. Per la loro composizione atomica e molecolare, si sono rivelati funzionalmente più deboli e non idonei al violento compito bellico. La potestas qui ha un senso puramente fisico e materiale, legato alla composizione dell’elemento metallico, dunque alla ‘forza’ o alla ‘durezza’ (cf. ThlL s.v. potestas X, 312, 3 ss.; OLD s.v. potestas 7b). È interessante che il termine potestas possa anche assumere il significato per esprimere il valore economico, in questo caso dell’oro e dell’argento (cf. per questo senso OLD s.v. 8b, diverse sono le occorrenze nei testi giuridici), proprio come il corrispettivo greco δύναμις (cf. Thuc. 6, 46, 3, che si riferisce proprio al valore dell’argento). Inizialmente aveva più valore il rame dell’oro, nel senso che era un metallo più quotato. Secondo Bailey, potestas si riferisce agli uomini: “their power (to use metals as they wished) was vanquished”, in particolare nel solo fatto di poter possedere i metalli (cf. v. 1242 et simul argenti pondus plumbique potestas). La sua interpretazione va respinta anche perché a questa segue un fraintendimento anche di poterant nel verso successivo, che sottintenderebbe erroneamente homines come soggetto (cf. sul verso anche Deufert 2018, 353). 1272 poterant pariter durum sufferre laborem: mutato in poterat, da riferirsi a potestas, da Lambinus, Lachmann, 381

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Bernays, Brieger. Munro stampa il plurale. I soggetti sono naturalmente l’oro e l’argento, che non avevano la stessa forza e la durezza del rame, quindi non vedo la necessità di intervenire sul testo e di modificare il plurale in singolare. La consonante liquida r sta a rimarcare il rumore dello scontro, poteRant paRiteR duRum suffeRRe laboRem, che riprende quasi alla lettera 3, 999 atque in eo semper durum sufferre laborem, (i libri 3 e 5 mantengono un rapporto di stretta somiglianza tra loro) e 5, 1359 ipsi pariter durum sufferre laborem (vellent), con lo stesso iperbato durum … laborem. La ‘iunctura’ è di probabile derivazione enniana, cf. Enn. Ann. 401 Sk. post aetate pigret sufferre laborem. 1273-1274 tum … retusum: a causa del suo impiego bellico, il rame era considerato il metallo più utile e valido, mentre l’oro, debole e inutile, non aveva alcuna possibilità di essere adoperato per scopi che non fossero artistico-ornamentali. Al valore economico fa rierimento per ben due volte in pochi versi la formula in pretio, cf. v. 1277 quod fuit in pretio, fit nullo denique honore. Una ‘variatio’ del verso compare, senza troppe differenze, in Ov. Fast. 4, 405 aes erat in pretio; chalybeia massa latebat, mentre il significato di iacebat è simile al v. 1006 navigii ratio tum caeca iacebat. L’incipitaria congiunzione dichiarativa nam ha il significato di “sicuramente, certamente”, secondo Merrill, ma Lachmann emenda con tum, che nasce da una parafrasi di Creech (nam ferri non potest, quod causam indicat pro effectu. Scribamus igitur, quod Creechius in paraphrasi posuit). La proposta di Lachmann, accolta anche da Deufert, funziona meglio di nam e crea anche un contrasto temporale con l’incipitario nunc del v. 1275 (cf. Deufert 382

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2018, 353). Più recentemente Watt 1990, 125 ha proposto di leggere hinc in luogo di nam. La corruttela, invece, è avvenuta nei codici Vossiani con l’omissione del più che probabile aes. La tradizione indiretta in questo caso ci viene incontro: Isid. Etym. 16, 20, 1 riporta l’integrazione aes (anche nel codice F), che risolve l’incompletezza metrica del verso. L’inutilitas dell’oro, condizione destinata a non protrarsi a lungo (propter inutilitatem), deriva dal fatto che le armi costruite con questo metallo molto malleabile e luminoso, non riescono a essere taglienti come le armi costruite con il rame. L’oro viene ben descritto da questa perifrasi hebeti mucrone retusum: il pugnale è innocuo dal momento che l’oro è arrotondato e smussato (retusum, participio perfetto di retundo di uso piuttosto raro, con un’unica attestazione in Hor. Carm. 1, 35, 39-40 incude diffingas retusum in/ Massagetas Arabasque ferrum). 1275-1280. Dal v. 1275 c’è uno stacco temporale molto rapido, anche se si tratta di centinaia di anni, con ogni probabilità. Non è la prima volta che Lucrezio descriva il passaggio da un lungo periodo storico all’altro. Elisa Romano coglie bene il valore di questa sezione di versi in cui «l’ambiguità del progresso umano è messa a nudo in modo particolarmente incisivo: l’uso di ciascun metallo, se da un lato segna il succedersi di altrettante tappe dello sviluppo dell’umanità, costituisce dall’altro una prova concreta della natura solo apparente del cambiamento. Sostituendo il vecchio col nuovo, gli uomini non fanno che assecondare la legge naturale dell’avvicendamento di tutto, che scorre inesorabile dietro ogni evoluzione» (cf. Romano 2008, 64). C’è una forte somiglianza, che non è stata messa in rilievo nei precedenti commenti, da un punto di vista contenutistico, stilistico e lessicale 383

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tra i vv. 1275-1291 e i vv. 1105-1116, e inoltre, Lucrezio sicuramente si sta riferendo, in entrambi i contesti, allo stesso momento storico. L’oro iniziò ad assumere un’importanza crescente, superando il suo valore economico rispetto a quello del rame. Lucrezio, proprio come nei vv. 1108-1116, descrive le conseguenze sociali verificatesi con il cambiamento del valore dell’oro. Vale la pena mettere a confronto le due sezioni di versi: vv. 1105-1123

vv. 1275-1291

Inque dies magis hi victum vitamque priorem commutare novis monstrabat rebus et igni ingenio qui praestabant et corde vigebant. Condere coeperunt urbis arcemque locare praesidium reges ipsi sibi perfugiumque, et pecus atque agros divisere atque dedere pro facie cuiusque et viribus ingenioque; nam facies multum valuit viresque vigebant. Posterius res inventast aurumque repertum, quod facile et validis et pulchris demspit honorem; divitioris enim sectam plerumque sequuntur quamlibet et fortes et pulchro corpore creti. Quod siquis vera vitam ratione gubernet, divitiae grandes homini sunt vivere parce aequo animo; neque enim est umquam penuria parvi. At claros homines voluerunt se atque potentis, ut fundamento stabili fortuna maneret et placidam possent opulenti degree vitam, nequiquam, quoniam ad summum succedere honorem …

Nunc iacet aes, aurum in summmum successit honorem. Sic volvenda aetas commutat tempora rerum: quod fuit in pretio, fit nullo denique honore; porro aliud succedit et contemptibus exit inque dies magis appetitur floretque repertum laudibus et miro est mortalis inter honore. Nunc tibi quo pacto ferri natura reperta Sit facilest ipsi per te cognoscere, Memmi. Arma antiqua manus ungues dentesque fuerumt Et lapides et item silvarum fragmina rami, Et flamma atque ignes, postquam sunt cognita primum. Posterius ferri vis est aerisque reperta. Et prior aeris erat quam ferri cognitus usus, quo facilis magis est natura et copia maior. Aere solum terrae tractabant, aereque belli miscebant fluctus et vulnera vasta serebant Et pecus atque agros adimebant. Nam facile ollis omnia cedebant armatis nuda et inerma.

384

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1275 aurum in summum successit honorem: il cambiamento della considerazione e del prestigio dell’oro viene espresso da un efficace gioco fonico di assonanze e allitterazioni. L’insistenza dell’epifora, a fine verso, di honorem (v. 1275) … honore (v. 1277) … honore (v. 1280), intensifica il valore che ha assunto anche la res, la proprietà privata (menzionata nel v. 1113), nello stesso momento in cui l’oro diviene il metallo più pregiato (cf. OLD s.v. honor, 3, nel senso di valore e di prestigio economico). Con l’introduzione della proprietà privata e l’alto valore attribuito all’oro si insinuarono anche passioni deteriori negli uomini, come l’ambizione e l’invidia. Succedere è il verbo che meglio esprime il cambiamento e il passaggio da una posizione minore a una di rilievo e importanza maggiore (cf. OLD s.v. succedo, 3, nel suo senso figurato). Succedere crea un’efficace immagine ossimorica con il suo contrario iacere, posto in ‘incipit’ di verso, che sta a indicare il rimanere fermi ad un livello di importanza inferiore, sia per valore economico sia per la sua utilità effettiva (cf. OLD s.v. iaceo, 13). Si tratta del destino subito dal rame (aes), dopo essere stato utilizzato come principale metallo per la produzione delle armi. 1276 sic volvenda aetas commutat tempora rerum: con questa espressione si mette in risalto come il tempo influisca sull’avvicendarsi delle cose. Tale argomento dà anche la possibilità a Lucrezio di inserire un giudizio dal tono gnomico sulla volubilità e sui cambiamenti delle mode, una tipologia di giudizio che si ritrova in diverse occasioni soltanto nel libro 5 (cf. 830-6; 9991010; 1117-35; 1412-35). Vale la pena di citare 5, 830-6, in parallelo ai vv. 1276-78: 385

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nec manet ulla sui similis res: omnia migrant, omnia commutat natura et vertere cogit. Namque aliud putrescit et aevo debile languet, 180

[porro aliud succrescit et contemptibus

830

exit

Sic igitur mundi naturam totius aetas mutat et ex alio terram status excipit alter,] quod tulit ut nequeat, possit quod non tulit ante.

835

Il confronto potrebbe anche includere Polibio, che riflette sulla mutabilità e trasformazione delle cose (cf. Polyb. 6, 57, 1): accade che su tutto ciò che esiste incombano deperimento e trasformazione e, poiché la necessità naturale dimostra a sufficienza ciò, non vi è bisogno di ulteriore dimostrazione. Il concetto di decadenza è esposto da Polibio come un dato di fatto, una componente necessaria della natura (cf. Erskine 2013). Non mancano i riferimenti a Platone (cf. Resp. 545e), nonostante Polibio stravolga la teoresi platonica, riducendola alla dimensione storica. Sul concetto della decadenza secondo Polibio, cf. anche 6, 3, 1; 6, 4, 12; 6, 9, 12-13; 6, 51, 4. Volvenda aetas presenta un uso aggettivale del gerundivo (cf. 5, 514 quo volvenda micant aeterni sidera mundi), e nel caso specifico, per il riferimento al mutamento del tempo e dei suoi cicli naturali e storici, cf. OLD s.v. volvo 2, che è legato anche a 180

I vv. 832-6 secondo Deufert 1996, 292 costituiscono un’interpolazione, sarebbero una inutile ripetizione dei vv. 1277-80. «In Gegensatz dazu ist e contemptbus exit in 833 unmotiviert; in dem allgemeinen Kreislauf von Vergehen und Entstehen von Dingen hat der der Sphäre menschlicher Wertvorstellung zugehörende Begriff der Verachtung keinen angemessenen Platz» (cf. Deufert 1996, 293).

386

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commutare che regge tempora. È interessante notare l’insistenza lessicale sul cambiamento. La disposizione del verso è particolarmente efficace e dal punto di vista semantico appare chiastica volvenda aetas commutat tempora. Volvere e commutare sono i verbi per eccellenza del cambiamento, spesso adoperati in contesti storico-politici oppure filosofici per indicare il mutamento delle stagioni (cf. Verg. G. 2, 295; Liv. 3, 10, 8; Sen. Ep. 15, 11). Il senso di aetas è strettamente legato al tempo della vita, ed in genere è riferito alla vita dell’uomo oppure ad un determinato periodo storico, che comunque riguarda la sua continuità (cf. EM, s.v. aevus, 13, “le temps dans sa continuité”), a differenza di tempus, a cui si lega rerum. Tempus è la frazione della sua durata, può essere breve o lungo, ma spesso si riferisce a qualcosa di inanimato (cf. Romano 2008, 51-67), come appunto res (cf. EM, s.v. tempus, 681, cf. Cic. Inv. 1, 36, 39 tempus est … pars quaedam aeternitatis cum alicuius annui, menstrui, diurni nocturnive spatii certa significatione). Dunque, i tempora rerum sono le stagioni delle cose, invece delle condizioni delle cose, come pensava Munro (statum rerum). La risposta tuttavia è solo un’ipotesi, cf. a tal proposito anche Verg. Aen. 7, 37 quae tempora rerum? 1277 quod fuit in pretio… nullo denique honore: la serie delle considerazioni gnomiche continua in un’espressione che è la diretta conseguenza della precedente. Ciò che era in pregio, nel mondo contemporaneo a Lucrezio non ha più nessun valore. Il verso ripete nella tematica generale il v. 1273, nonostante il tempo in cui il rame aveva maggiore valore dell’oro sia finito. Nel giro di pochi versi e con una serie di efficaci ripetizioni di alcuni termini chiave del lessico economico, come in pretio e honore … honorem 387

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in poliptoto, viene messo in luce il carattere sentenzioso del contesto. L’iperbato nullo … honore è un ablativo di qualità, alla stessa maniera miro … honore nel v. 1280, cf. anche il v. 1123 ad summum succedere honorem certantes. Denique ha il senso di ‘infine’, cf. 1, 981, 3, 759. 1277-1280: il v. 1278 e il v. 833 (porro aliud succrescit e contemptibus exit) sono in stretto rapporto di dipendenza. Secondo Deufert 1996, 293, il v. 833 sarebbe una interpolazione, nata proprio da un calco del v. 1278 (cf. supra in nota). Il verbo succedere indica proprio il passaggio da una condizione all’altra, generalmente da una posizione peggiore a una migliore, che riguarda il prestigio di una carica o di un determinato valore economico (cf. OLD s.v. succedo 3, cf. supra ad loc. v. 1275). è un’integrazione presente in α*-R, che manca nei codici, ma che è stata facilmente ricostruita dalla presenza del quasi gemello v. 833. 1279 inque dies magis: è una formula incipitaria tra le più ricorrenti in Lucrezio, nei libri dedicati alla storia della vita sulla Terra, alla cosmologia e all’antropologia (cf. le seguenti occorrenze: 5, 706; 5, 1105; 5, 1279; 5, 1370). L’espressione “giorno dopo giorno” trasmette l’idea dell’aetas, ovvero il tempo della vita. Qui si tratta, chiaramente, di una ripresa della già citata sezione di versi, v. 1105 (inque dies magis hi victum vitamque priorem). Repertum: “una volta scoperto”, porta avanti l’idea di appetitur, che rende bene il senso del desiderio e della volontà di possedere un bene di valore, come l’oro, che è appena divenuto 388

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‘appetibile’ (cf. OLD s.v. appeto 3b). Costruito preferibilmente come se fosse un participio, non si coglie la ragione che ha condotto Brieger a leggere repletum e Diels a proporre refertum. La separazione da un verso a quello successivo dei termini floret … laudibus, che consente un efficace ‘enjambement’, permette a repertum di restare in chiusa di verso, in modo da formare con i vv. 1281 e 1286 un poliptoto e un’epifora (costruzione di floreo con l’ablativo, cf. 3, 897 factis florentibus esse). 1280 miro est mortalis inter honore: il verso si distingue per una allitterazione particolarmente accentuata della liquida r (miRo est moRtalis inteR honoRe), con il lungo iperbato miro … honore che rende possibile la costruzione anastrofica di mortalis inter honore (cf. la ripresa in ‘variatio’ di Verg. Aen. 7, 57 adiungi generum miro properabat amore). 1281-1296. Il tema dei vv. 1281-96 anticipa l’inizio dell’argomento successivo (vv. 1297-1349). L’argomento della scoperta della natura e delle proprietà caratteristiche del ferro (ferri natura reperta) non viene adeguatamente delineato nei termini in cui era stata raccontata la scoperta dei metalli come l’oro, l’argento e il rame allo stato liquido (cf. v. 1242, v. 1286 e 6, 1011). L’impiego del ferro è ben diverso, non a caso ferrum, per metonimia, assume anche il significato di spada (cf. OLD s.v. ferrum, 5), già a partire da Ennio (cf. Ann. 373 Sk.). Nel III libro della Biblioteca Storica di Diodoro Siculo (cf. Diod. 3, 12, 1-14), viene affrontata per la prima volta la descrizione del metodo di estrazione mineraria chiamato “a fuoco”, utilizzato per indebolire e far cedere rocce che contenevano oro. Non credo che questi versi 389

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vadano letti come se fossero un ennesimo ‘excursus’ da parte di Lucrezio: sono, al contrario, propedeutici all’argomento successivo. I vv. 1281-2 nunc tibi quo pacto ferri natura reperta/ sit facilest ipsi per te cognoscere, Memmi richiamano il v. 1161, che introduce, in una struttura di verso molto simile, un nuovo argomento, che in quel caso era l’origine della religione (v. 11611168 nunc quae causa deum per magnas numina gentis … non ita difficilest rationem reddere verbis). Il significato di pactum sta a indicare il metodo e non l’accordo (cf. OLD s.v. pactum 2, molto frequente in età repubblicana, cf. Plaut. Bacch. 556; Trin. 710), ed è da interpretare come sinonimo di modus. 1282 Memmi: Non è un caso che vi sia nuovamente un’allocuzione a Memmio (il libro 5 è quello che ne contiene di più, cf. 5, 8; 5, 93; 5, 164; 5, 248; 5, 867; 5, 1282). L’interrogativa indiretta è rivolta a Memmio, dal momento che si tratta di una figura interessata ed esperta del settore bellico. La sua competenza militare è sottolineata dalla presenza del per te, che enfatizza l’unicità del riferimento. Il destinatario di Lucrezio viene menzionato soltanto in alcuni significativi momenti (cf. Keen 1985, 1-10; Mitsis 1993, 111-28; in generale Toohey 1996, 87-108; Gale 2001; Volk 2002, 69-82). L’asserzione molto enfatica potrebbe essere pronunciata dall’allievo, dopo aver compreso la lezione che ha imparato (tibi … facilest ipsi per te cognoscere) in parallelo con altri due passi del libro 6 (527-34, 1081-3). Lucrezio sembra che stia preparando il suo allievo Memmio, e attraverso lui anche il lettore in generale, a continuare il processo di apprendimento, indipendentemente e dopo che la lettura del poema per intero fosse stata completata (cf. 390

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Clay 1983, 224-5). Il destinatario dell’opera didascalica, caratterizzato all’inizio dell’opera come seguace che ha appena intrapreso l’apprendimento delle caratteristiche della filosofia verso la quale si sta indirizzando (cf. 1, 80-2), può iniziare a mettere in atto tutti i passaggi utili alla comprensione della dottrina. Il poema di Lucrezio nella formazione filosofica di Memmio ha un ruolo centrale. Il De rerum natura implica un destinatario che, pur essendo sufficientemente sensibile alla dottrina epicurea per impegnarsi nella sua discussione, ha ancora molto da imparare sulle dottrine della scuola (1, 411; 2, 182; cf. sul tema Morgan-Taylor 2017, 528-41; su Memmio non ancora epicureo e spesso dimenticato da Lucrezio nel poema, cf. Fanti 2017, 58-79). Il riferimento a Memmio, dunque, in questa sezione di versi non è affatto casuale e sta a rimarcare come la scoperta del ferro abbia rappresentato il vero spartiacque nelle prime fasi della tecnologia. Questa interpretazione ha riscontrato successo tra i commentatori moderni: il ferro era molto più facile da reperire, oltre a essere ampiamente diffuso ed economico. «The iron was the democratic metal, and it greatly reinforced man’s equipment for dealing with the forces of nature … For the technology of tools, the advent of iron was an event of the greatest importance» (cf. Singer 1954, 592-3, 518). C’è un modello mitico ricorrente in tutto il DRN, che non può essere interpretato come fonte, ma deve essere letto come l’ispirazione imprescindibile, senza la quale nessun poema sulla storia antropologica può essere scritto. Lucrezio allude al contesto esiodeo (cf. Hes. Op. 174-201), in cui si fa riferimento alla peggiore stirpe umana, quella nata nell’età del ferro (cf. sul “latent 391

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myth” in Lucrezio, Gale 1994, 156-85). Il momento storico cui Lucrezio fa cenno potrebbe essere lo stesso dei vv. 1105-1160. In questo caso sembra che l’autore stia compiendo lo stesso procedimento di storicizzazione del modello mitologico esiodeo che aveva attuato Dicearco (fr. 49 Wehrli = Porph. Abst. 4, 2, 1-9). Proprio nello stesso modo in cui Lucrezio adatta la rielaborazione storica del suo modello, la stirpe presentata da Esiodo non onora l’uomo giusto, leale e buono, al contrario, ottiene rispetto e prestigio persino colui che arreca il male e commette violenza. È il momento in cui la giustizia diventa un disvalore che risiede nell’applicazione della legge del più forte. 1283-1285 arma antiqua … cognita primum: a differenza della scoperta dell’uso degli altri metalli descritti in precedenza, è molto facile comprendere quale sia la natura autentica dell’utilizzo del ferro, tanto più se un argomento del genere viene presentato ad un importante esponente militare di Roma, quale il destinatario dell’opera, Gaio Memmio. Lo scopo bellico a cui si prestava il ferro, meglio di qualunque altro metallo, fornisce il pretesto a Lucrezio per riprendere un argomento già affrontato in precedenza, ovvero la storia delle armi utilizzate dalle prime comunità (cf. 5, 966-8). Non mancano punti di contatto anche con 4, 843-5. La guerra fu una delle prime attività praticate dagli uomini; lo scontro avveniva con tutti i mezzi possibili, unghie, mani, denti, bastoni e pietre (manus, ungues dentes, lapides, fragmina rami), qui in una efficace ‘accumulatio’, fino a quando non fu scoperto il fuoco (flamma, ignes). Oltre al modello esiodeo, non ci sono altri testi, tra quelli che affrontano la tematica della Kulturgeschichte, 392

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che si soffermano sulla nascita e sull’uso delle armi antiche, come è stato messo in luce già da Cole 1967, con l’eccezione di Diod. 1, 24, 3, in cui vi è una breve descrizione delle prime armi utilizzate dagli Egizi. Lucrezio pone nel loro ordine le tre età della guerra, ovvero l’età della pietra, l’età del bronzo e l’età del ferro, in linea con una lunga tradizione letteraria. Le armi in Omero erano fuse in bronzo: il ferro è occasionalmente menzionato se non come una rarità, cf. Varro ap. Aug. Civ. Dei, 7, 24, antiqui colebant aere, antequam ferrum esset. Le spade e le punte di lancia nominate da Omero, quando è indicato il metallo, sono immancabilmente di bronzo. L’evidenza archeologica dimostra che i guerrieri del ‘medioevo ellenico’ erano muniti di lancia, proprio come i loro antenati Micenei, e la generale penuria di armi riscontrata nelle tombe della prima età del ferro in Grecia è senza dubbio sintomo di risorse limitate. Nel v. 1283 il tema militare viene esplicitato, mentre nei vv. 1245-6 era stato soltanto accennato. L’esametro del v. 1283 appare molto armonico per l’‘accumulatio’ dei soggetti, manus, ungues, dentes, che connotano l’uomo nella sua animalità. La successione è connotata da una serie di congiunzioni copulative anaforiche e variate (et…atque), interrotte in un certo momento da postquam dopo che fu scoperto il potere deterrente del fuoco (postquam…cognita primum). Silvarum fragmina è in apposizione a rami. Sono i rami spezzati che diedero agli uomini l’idea di poterli utilizzare come bastoni, o spade e lance ‘ante litteram’, prima che esse fossero realmente inventati. Diedero agli uomini l’idea che essi potessero utilizzare i bastoni. Anche questa parte del racconto potrebbe avere una spiegazione mitologica, dal momento che il guerriero Ercole 393

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era sempre armato di clava. I termini flammae e ignes indicano che non ci sono dubbi su quale sia il contesto che viene ripreso esattamente da Lucrezio, v. 1106 commutare novis monstrabant rebus et igni. La storia delle armi è un argomento che viene ripreso anche in Hor. Sat. 1, 3, 1012. Ma il punto principale dell’intero paragrafo è lo scopo bellico per cui il ferro è stato utilizzato. Lucrezio anticipa l’argomento della guerra e della violenza, che sarà protagonista della sessione successiva. I vv. 1281-1296 sono naturalmente dei versi di transizione, da una sezione ad un’altra, in cui Lucrezio chiarisce la sostituzione del bronzo con il ferro, metallo più idoneo per la guerra, perché più duro e resistente. Questo conduce alla discussione successiva sull’uso dei cavalli, dei carri, degli elefanti in battaglia (vv. 1297-1307) e sui disastrosi esperimenti dell’impiego brutale di animali selvatici e feroci quali tori, cinghiali e leoni nei campi di battaglia (vv. 1308-49). Nel v. 1285 i codici leggono flammatque, ma come Deufert, accolgo flammae atque di Marullo, che si lega anche al successivo ignes (cf. anche Lucr. 2, 882; 3, 889-90; 5, 758-61). 1286 posterius ferri vis est aerisque reperta: La scoperta del ferro e il suo utilizzo al posto del bronzo, offre l’occasione di spiegare in modo più esaustivo quale sia lo scopo principale di questo metallo nella vita dei primi uomini. Nonostante il bronzo sia una lega metallica molto duttile, a partire da questi versi, aes assume con ogni probabilità il significato di bronzo, in luogo di rame. L’elemento allo stato liquido, di cui si parla all’inizio di questa sezione di versi, è chiaramente il rame. In un periodo in cui il ferro assume un predominio indiscusso nella fabbricazione di 394

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utensili e armi, la precedente fabbricazione avveniva con l’utilizzo del bronzo. L’avverbio posterius, nella sua forma comparativa, come prior nel verso seguente, dà luogo a uno hysteron proteron (prima fu conosciuto l’uso del rame, più presente in natura rispetto al ferro, il rame è più malleabile). Nel v. 1286 si trova l’ennesimo riferimento alla sezione di versi precedente già menzionata, v. 1113 posterius res inventast aurumque repertum. 1287 prior aeris …quam ferri cognitus usus: ancora una volta (vv. 1286-89) viene ripresa la successione esiodea delle diverse età, qui ingegnosamente razionalizzata. Le età del bronzo e del ferro erano tradizionalmente associate con l’inizio della guerra (cf. Hes. Op. 145-55 e 189; Tib. 1, 10, 1-10; Ov. Met. 1, 126 e 1423). Questo passaggio serve quindi a introdurre la discussione sugli sviluppi nella tecnologia militare che iniziano a partire dal v. 1297. La guerra conduce a depredare i metalli, ovvero si serve di essi (cf. 1245 bellum silvestre e v. 1283 arma antiqua manus ungues dentesque). Per mezzo degli sviluppi tecnologici essa è diventata con il tempo sempre più distruttiva e ha portato a una enorme quantità di morti. Non c’è posto per alcuna “era della pace”, né tantomeno per alcuna “età dell’oro”. L’unica volta in cui l’oro è menzionato da Lucrezio è soltanto in relazione alla nascita della proprietà privata e alla corsa alla ricchezza e al potere. Da notare come venga ripetuto per due volte in clausola di verso il participio cognitus, ricorrente in Lucrezio per indicare ciò che è stato conosciuto dagli uomini in termini di nuove scoperte. Facilis magis sta per facilior per ragioni metriche, qui nella sua forma completa (cf. 927 solidis magis). 395

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1288 natura et copia maior: Merrill ha messo in evidenza il fatto che il rame, oltre a essere maggiormente presente per quantità nel suolo, è anche un elemento di gran lunga più duttile rispetto al ferro. Il bronzo è una lega formata principalmente dal rame insieme allo stagno o all’alluminio. La presenza del termine natura fa pensare che aes qui assuma il significato di rame e non di bronzo, nonostante gli utensili agricoli e le prime armi, di cui Lucrezio parla, siano fatte di bronzo. Non è un caso che poi sia stato Plinio il Vecchio a cambiare il nome di rame dal generico aes a cyprum, per chiarire anche la provenienza di questo elemento, che si trovava in quantità abbondanti proprio nell’isola di Cipro (cf. HN 36, 193) e nell’Asia Minore durante il Neolitico e il Calcolitico (3500 a.C.-1200 a.C.). L’ampio utilizzo di questo metallo era anche motivato dalla fusione del rame, che veniva fuso puro (cf. il racconto mitico di Il. 18, 474-80, sullo scudo di Achille forgiato da Efesto e di Verg. Aen. 8, 445-53, sulla lavorazione dello scudo di Enea). 1289-1291 aere solum terrae tractabant … adimebant: aes assume in questo verso il significato di bronzo. L’uso di tractare, come termine del lessico agricolo riferito alla lavorazione dei campi (cf. OLD s.v. tracto, 1), è già diffuso a partire da Ennio (Ann. 124 Sk. tractatus aequora campi) e Pacuvio (fr. 351 R. tractate per aspera saxa et humum). Se il rame poteva essere utilizzato per la fabbricazione di utensili di uso più quotidiano e di dimensioni maneggevoli, il bronzo permetteva la costruzione di attrezzi di gran lunga più grandi nelle dimensioni, più leggeri nel peso e sicuramente più resistenti, grazie alla compresenza di altri elementi come l’alluminio e lo stagno nella sua composizione 396

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chimica. Il bronzo è un materiale molto più resistente (vd. Hor. Carm. 3, 30 per l’uso di aes come bronzo, perennis come materiale). Le età del bronzo e del ferro sono tradizionalmente associate alla guerra (cf. Hes. Op. 145-55 e 189; Tib. 1, 10; 1-10; Ov. Met. 1, 126 e 142-3): questo passaggio di transizione serve anche a introdurre la discussione sugli sviluppi nella tecnologia militare che inizia v. 1297. Allo stesso tempo sembra significativo che la guerra sia precedente, per Lucrezio, alla scoperta dei metalli (cf. bellum silvestre v. 1245; arma antiqua manus ungues dentesque v. 1283). Nonostante gli sviluppi tecnologici abbiano reso la guerra più mortifera e distruttiva, non è mai esistito un periodo di perfetta pace, al contrario di quanto afferma Esiodo. Nello Scudo di Esiodo, i vv. 139-324 riguardano i metalli, e in seguito vi è una breve descrizione della guerra con animali. In Op. 143-155 Esiodo esclude dall’età del bronzo l’uso del nero ferro (vv. 150-51). L’espressione ridondante e tautologica solum terrae è attestata soltanto a partire da Lucrezio e sarà ripresa da Manil. 5, 247. La metafora delle “ondate di guerra”, belli miscebant fluctus, è, invece, una citazione poetica di un frammento di Accio (fr. 608 R.), ripresa poi nel v. 1435 belli magnos commovit funditus aestus. Da notare anche l’omeoteleuto a cornice miscebant…serebant. Il verso si chiude con un’espressione metaforica e allitterante Vulnera VaSta Serebant. Munro riapre la questione se serebant derivi da sero nel senso di “unire” o di “seminare”. In favore del primo significato cita le espressioni come certamina serere, dove compare il significato di “unirsi in battaglia”. Tuttavia, in Liv. 21, 6, 1 certamina cum finitimis serebantur … 397

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quibus cum adesset idem qui litis erat sator, l’uso di sator suggerisce che la metafora giusta è quella della semina. Non solo, riprendere un termine e un’immagine inerente al mondo agricolo perché venga riferita ad un contesto di carattere bellico fa assumere al bronzo proprio quella duplice caratteristica del metallo che aiuta a generare e allo stesso tempo a uccidere. La razionalizzazione del racconto esiodeo diventa sempre più esplicita qui: infatti, vale la pena di menzionare che il v. 1289 è una parafrasi letterale di Hes. Op. 150-1. Così come l’immagine del mare della guerra (belli … fluctus) ricorre anche nei vv. 1434-5. Può darsi che rifletta la connessione tradizionale tra l’avvento tanto della guerra quanto dell’arte della navigazione (vv. 9991006). Si tratta dell’ennesimo caso in cui Lucrezio descrive, qui con tono particolarmente solenne e arcaizzante, la costante del principio dell’isonomía epicurea, che dimostra l’esatto equilibrio tra una forza naturale e, in questo caso, una artificiale prodotta dall’ingegno e dalla tecnica dell’uomo, e evidenzia il bilanciamento tra le forze generatrici e distruttrici della vita sulla terra. L’immagine lucreziana di serere vulnera viene ripresa efficacemente da Sil. 5, 235 qui iam vicina serebat vulnera pugnantis tergo. L’ennesima autocitazione del passo riportato supra è l’espressione et pecus atque agros adimebant (cf. v. 1110 et pecus atque agros divisere atque dedere): la ripresa letterale, per quello che riguarda il contenuto del contesto, sembrerebbe una ‘oppositio in imitando’. Nonostante Lucrezio si riferisca allo stesso periodo storico, nel v. 1110 è descritto un momento particolarmente felice della vita delle prime società civili e delle prime forme di 398

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aggregazione politica e sociale, legato alle distribuzioni eque di terre e di pascoli. Il verbo adimere indica, al contrario, l’attività predatoria dei pecus atque agros (cf. OLD s.v. adimo 2). I pascoli e i terreni rappresentavano le due fonti più redditizie di guadagno tra le popolazioni che erano appena divenute sedentarie, dopo millenni di nomadismo. 1291-1292. Continua la dicotomia tra pace e guerra, dal momento che la diretta conseguenza dei campi e dei pascoli depredati è chiaramente la resa dinanzi a chi possedeva le armi. L’arcaismo ollis per illis è messo in rilievo dall’ ‘enjambement’ e, come commenta correttamente Deufert 2018, 354 «wie im ThLL IX 2, 570, 84 richtig festgestellt ist, anaphorischgebraucht: Es greift das in tractabant, miscebant, serebant und adimebant vorausgesetzte, namentlich nicht genannte Subjekt, nämlich die Menschen der Frühzeit, wieder auf». I versi sono essenzialmente costruiti su immagini antifrastiche, dove il contrasto è visibilissimo ed evidenzia la vittoria facile di chi è armato contro chi non lo è (omnia … nuda et inerma in iperbato a cornice di verso). Per le forme di inermus, che seguono la seconda declinazione, cf. 1, 340 sublima (cf. OLD s.v. inermis, 1, b). La seconda declinazione si trova in Cic. Fam. 11, 12, 1, inermorum e anche in Fam. 10, 34, 1. Si tratta di una forma arcaica. Il neutro omnia sembra inteso a spersonalizzare in una massa indistinta i nemici disarmati e senza alcun aiuto. 1293-1296 inde minutatim processit ferreum ensis: l’avverbio inde è sequenziale e conclusivo, mentre minutatim, è l’avverbio temporale che indica il diffondersi graduale dell’utilizzo 399

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del ferro. Il racconto mitologico, storicizzato da Lucrezio, finisce per riprendere sempre la versione esiodea dell’età del ferro (cf. Hes. Op. 174-201), momento contemporaneo ad Esiodo. Non ci sono cenni che riguardano la tecnologia. L’avverbio minutatim è ripetuto anche in 2, 1131, 5, 1384 e in 5, 1434, (cf. anche i suoi sinonimi paulatim … pedetemptim … paulatim, ‘gradualmente … passo dopo passo … gradualmente’, cf. vv. 1453-4). Le scoperte e il progresso, secondo Lucrezio, nelle sue prime fasi avvennero con una certa lentezza e ripetitività delle azioni, anche attraverso i tentativi falliti. Nei vv. 1293-1296 sembra che le scoperte militari e agricole si siano sviluppate quasi simultaneamente. Il nesso ferreus ensis è legato a falcis ahenae, così come solum … terrae a certamina belli. In tal modo ne risulta una sequenza chiastica guerra-agricoltura-agricoltura-guerra. Questi versi, inoltre, implicano un’antitesi tra i due ambiti: da notare anche la metafora dell’agricoltura in vulnera … serebant nel v. 1290 e il fatto che i raccolti e i campi caratterizzano il v. 1291 (cf. Segal 1990, 207-8). Lucrezio vuole mettere in risalto il fatto che la scoperta dei metalli, solo in quanto fine a se stessa e non con lo scopo militare, abbia un potenziale nell’uso sia creativo sia distruttivo. Soltanto la comprensione delle reali finalità della vita umana permettono di capire quale dovrebbe essere il vero e autentico uso della tecnica e della tecnologia e a quali scopi, cf. 6, 26 e anche 1301, 1367-1369, 1370, 1372-1378. Ensis è la spada di ferro, e ferreus è aggettivo di materia. L’avverbio minutatim è utilizzato anche in 2, 1131 e per altre quattro volte in questo libro. Sempre legato a inde a eccezione del v. 1434. L’espressione in opprobrium mette in risalto come il 400

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cambiamento abbia portato a qualcosa che suscita derisione (cf. Hor. Sat. 1, 6, 84). Le spade di bronzo si spezzavano negli scontri con le nuove spade di ferro. Il senso del cambiamento viene espresso dal verbo vertere, e l’indicativo perfetto passivo è separato nel verso per ragioni metriche, versa … est. Forse c’è un riferimento di Lucrezio alla falce di rame (falcis), che era considerata lo strumento della pace per eccellenza, che coincide con il passaggio all’età del ferro descritta da Esiodo (cf. Hes. Op. 174-201), al contrario, è improbabile che Lucrezio avesse in mente l’uso della falce nei riti magici, cf. Verg. Aen. 4, 513; Ov. Met. 7, 227 partim succidit (Medea) curvamine falcis aenae. Macr. Sat. 6, 1, 63 riporta nel v. 1294 la lezione ahenae, riportata dai mss. Itali, ma è chiaro che si tratta di un grecismo in luogo della ‘lectio facilior’ aenae. I mss. OQ invece riportano delle strane corruttele, dovute proprio al fatto che si trattava di un nome greco, che per facilità O ha letto athaenae, mentre il copista di Q ha ricopiato un erroneo athene. Il ferro, dunque, non fu adoperato soltanto per la fabbricazione delle armi, ma anche per la costruzione dei primi attrezzi agricoli, non solo le falci ma anche gli strumenti utili per arare il campo. Coepere nel v. 1295 è la forma sincopata di coeperunt, mentre ferro è una metonimia, che indica gli attrezzi agricoli. Proscindere, come nel v. 209, è un verbo tecnico che indica l’azione dell’arare la terra, del fendere il suolo con un taglio (cf. OLD s.v. proscindo 2). 1296 exaequata: per il termine exaequata cf. Verg. Aen. 10, 755 iam gravis aequabat luctus et mutua Mavors funera. La 401

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costruzione della frase di Lucrezio sembra essere ellittica. Creper è un termine arcaico, occorre solo qui nel DRN, forse legato etimologicamente a crepusculum (Pacuvio, Accio, Lucilio), cf. Malby, 101 e Non. 13, 11 crepera res proprie dicitur dubia: unde et crepusculum dicitur lux dubia. Da notare il suono cre...eri…cer e assonanza della vocale media, e. L’iperbato di creperi con belli crea un’immagine sinestetica, altalenante, trepidante.

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1297-1349. Lucrezio inizia la sua trattazione sugli usi militari degli animali a partire dalla pratica di montare armati i cavalli e di governarli con i freni. Questo avveniva prima dell’invenzione dei carri. I Cartaginesi, ad esempio, si servirono degli elefanti per sconvolgere “le grandi adunate di Marte”, (1297-1307). La “funesta discordia” (discordia tristis) contribuì ad aumentare un sentimento di paura da parte non solo dei professionisti della guerra, ma anche delle vittime della guerra, che finivano per subirne le tristi conseguenze (1308-1310). Le armi adoperate iniziavano a diventare sempre più pericolose: l’apice della follia fu raggiunto una volta introdotti negli eserciti gli animali feroci e indomiti, come tori, cinghiali e leoni, così difficili da addestrare che potevano attaccare non solo i nemici, ma anche l’esercito che decideva di schierarli in campo di battaglia (1311-1317). La pretesa di servirsi di belve come strumento di deterrenza contro i nemici, si rivela un tentativo sconsiderato e autodistruttivo. Lucrezio infierisce sull’errore e sull’arroganza umana attraverso una trattazione che si fa sempre più inquietante nei suoi dettagli cruenti: entrano in scena anche le leonesse, che si avventano su qualunque cosa, i tori calpestano i loro stessi domatori, i cinghiali colpiscono uomini e cavalli con le zanne, provocando una sterminata strage di fanti e cavalieri (1318-1329). I cavalli, in mezzo al caos, tentano la fuga, ma insieme agli elefanti sono prostrati dinanzi alla furia degli animali feroci e alla violenza delle armi di ferro (1330-1340). Lucrezio si domanda se tutto ciò possa essere realmente accaduto: anch’egli esita a credervi proprio per l’estrema violenza degli atti che si sarebbero potuti compiere. Può darsi, a detta di Lucrezio, che uno stile bellico così cruento sia stato già praticato in altri mondi. Se ciò è davvero 403

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avvenuto, di sicuro allora negli uomini era prevalsa la scelta irrazionale di schierare tali belve nel proprio esercito, per spaventare e abbattere i nemici (1341-1349). L’utilizzo del ferro e del bronzo come armi da guerra offre il pretesto per il racconto dello sviluppo dell’arte della guerra, che si alimenta di nuove armi sempre più violente e spaventose. Questo passaggio segna una svolta tematica e mette in luce la perversione umana, in grado di trasformare una risorsa naturale, come i metalli, in armi di distruzione. I metalli, da strumenti di lavoro pacifico, impiegati nell’agricoltura, in questa fase divengono il più letale dispositivo di guerra. La vetta della degenerazione è raggiunta con l’uso degli animali selvatici e feroci nel campo di battaglia. Il breve resoconto delle tecniche belliche, che segue l’invenzione delle armi di bronzo e di ferro e prosegue con l’uso dei cavalli, dei carri falcati, degli elefanti, dei tori, dei cinghiali, dei leoni e, infine, delle leonesse, consente a Lucrezio di mettere in rilievo il punto in cui è giunta la volontà autodistruttiva dell’uomo. Questa descrizione di tentativi e di errori commessi nella ricerca di tecniche belliche riassume una visione possibilistica e non provvidenzialistica dell’incivilimento (cf. Schiesaro 1990, 168). Non è necessario, per Lucrezio, esprimere un giudizio di condanna definitiva, né tantomeno di sgomento o di disturbo nei riguardi del resoconto dettagliato che fornisce. L’insistenza sui particolari macabri, l’impiego suicida degli animali, il livello crescente della tensione raccapricciante e fantastica del racconto, la tortuosità strutturale e concettuale di alcuni gruppi di versi, hanno fatto discutere la maggior parte dei critici e degli editori, i quali hanno suggerito trasposizioni, come Lachmann e Martin, mentre più 404

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radicale è apparsa la scelta di espungere gli ultimi sei o nove versi, a seconda delle singole scelte, nel caso di Munro, Müller, Deufert. Si tratta, senza dubbio, del passo più discusso della Kulturgeschichte lucreziana. Il carattere originale di questi versi e la mancanza di modelli in altre antiche storie culturali hanno reso i versi in questione particolarmente ostici da spiegare. Si è dubitato integralmente o parzialmente dell’autenticità dei vv. 1341-1349, come sarà illustrato in dettaglio nel commento, infatti essi sono stati addirittura ritenuti opera di un lector philosophus o nota aggiuntiva dello stesso commento sarcastico di Cicerone, editore del poema (cf. Housman 1928, 122-3; Butterfield 2013, 37-38). La corsa alle armi descritta nei versi precedenti conduce naturalmente ad una ‘climax’ ascendente, che tocca il paradossale e l’iperbolico. La prima parte di questa sezione sembra seguire una successione logica (vv. 1297-1307): prima furono adoperati i cavalli, da cui la nascita della cavalleria, in seguito potenziata dall’uso dei carri, a loro volta rimpiazzati dai più efficienti elefanti, il cui uso bellico è ampiamente attestato dalle fonti (cf. infra ad loc.). Al contrario, i vv. 1308-1340 sembrano aver perso completamente ogni logica e verosimiglianza, in particolare nella descrizione dell’attacco dei tori e delle leonesse ai volti e ai corpi di chiunque si ponesse dinanzi a loro, uomini o altri animali. Rimane il fatto che è veramente difficile trovare un testo simile a questo. L’unico caso più vicino è un passo di Diodoro Siculo (Diod. 1, 48, 1), che descrive una scena presente su una pittura parietale raffigurante un re egizio che combatte con un leone in una battaglia terrificante. Il parallelo non basta per ritrovare nella descrizione lucreziana un’attendibilità storica. Agli albori dell’umanità, in Lucr. 5, 999-1001, l’orrore 405

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della morte si configurava nella prospettiva individuale dell’uomo terrorizzato dalla paura di essere divorato dalle bestie: at non multa virum sub signis milia ducta una dies dabat exitio nec turbida ponti aequora lidebant navis et saxa virosque.

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Con la scoperta dei metalli, il progresso tecnologico e l’utilizzo di nuove tecniche e di nuovi strumenti bellici, il pericolo dell’uomo non è più rappresentato dagli animali feroci allo stato brado, ma da se stesso e dalla sua crudeltà. L’utilizzo degli animali feroci in guerra è il punto di non ritorno, per Lucrezio, l’apice assoluto della follia che potrebbe manifestarsi nell’uomo per schiacciare i suoi simili. Il percorso ‘evoluzionistico’, mosso a volte dal caso, altre dalla necessità e altre ancora dall’astuzia degli uomini più capaci, è controbilanciato da un percorso a ritroso, guidato dalle passioni più accecanti, come il bisogno di primeggiare, l’invidia, l’ambizione, che portano ad un inesorabile ‘uomo vs. uomo’ e ad una apocalittica fine del mondo. Lucrezio non lo dichiara esplicitamente, ma è possibile suddividere il mondo animato in questo modo: da un lato, ci sono gli uomini, i soli a possedere l’ingegno e la possibilità di creare artigianalmente, dall’altra gli animali. Questi ultimi sono a loro volta divisibili in due categorie: le belve selvagge e gli animali non addomesticabili, che possiedono una virtù sufficiente di per sé a garantirne la sopravvivenza (dolus, virtus, mobilitas), e che vivono in luoghi isolati (5, 39-42 e 200-202); e gli animali domestici, i quali hanno docilmente acconsentito a stipulare un patto di collaborazione con l’uomo, mettendo a disposizione la propria utilitas in cambio della sua tutela (5, 860-877). Il rapporto tra 406

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uomo e animale domestico si configura come un vicendevole scambio tra l’utilitas dell’uno e la tutela dell’altro. Proprio sulla base di tale reciprocità viene fissato il discrimine tra il giusto e l’ingiusto atteggiamento dell’uomo nei confronti dell’animale: dal rispetto della violazione del rapporto tra tutela e utilitas si ricavano rispettivamente le categorie di uso e abuso, cf. Shelton 1996, 4864; Massaro 2010, 261-82. In questo universo, diviso tra esseri umani, belve selvatiche da sfuggire e animali domestici con cui condividere la vita, per Lucrezio (5, 222-31) l’uomo nasce in una condizione di miseria, solo rispetto agli animali in branco, ai quale sembrerebbe provvedere in tutto la natura. Tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis navita, nudus humi iacet, infans, indigus omni vitali auxilio, cum primum in luminis oras nixibus ex alvo matris natura profudit, vagituque locum lugubri complet, ut aequumst cui tantum in vita restet transire malorum. At variae crescunt pecudes armenta feraeque nec crepitacillis opus est, non moenibus altis, almae nutricis blanda atque infracta loquella nec varias quaerunt vestis pro tempore caeli. Denique non armis opus est, non moenibus altis, qui sua tutentur, quando omnibus omnia large tellus ipsa parit naturaque dedala rerum.

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Un ulteriore elemento di originalità della prospettiva lucreziana è rappresentato dal fatto che, nel De rerum natura, la suddivisione del ‘vivente’ non comporta una gerarchizzazione delle specie esistenti sulla terra; al contrario, Lucrezio ne sostiene 407

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l’eguaglianza, contrapponendosi così alla concezione antropocentrica, largamente diffusa tra i suoi contemporanei, che fa dell’uomo il signore incontrastato dell’universo. Rimane il fatto che la presenza di creature brutali e incontrollabili sulla terra è vista come un segno ovvio dell’inospitabilità del mondo, perché gli animali finiscono per incarnare la paura e l’irrazionalità stessa dell’uomo. Lucrezio, nel descrivere una possibile fenomenologia delle guerre fra gli uomini, ne condanna l’assurdità e la crudeltà. La guerra per Lucrezio si manifesta attraverso la perversione dell’ordine naturale e la trasgressione dei patti: l’uomo cerca di uccidere gli altri uomini con cui ha stretto i patti di non aggressione e collaborazione e coinvolge nel combattimento sia gli animali domestici, ai quali garantisce sicurezza e protezione, sia quelli selvatici, dai quali invece si tiene lontano. La follia della guerra si mostra tanto nei pretesti in base ai quali gli uomini muovono guerra ai propri simili, quanto nelle sue conseguenze, il terrore e la morte. Un’interpretazione suggestiva di questi versi è quella ‘psicologica’ di Martha Nussbaum (cf. Nussbaum 1994, 102-279). Secondo la filosofa americana, il credo epicureo è una terapia del desiderio, che aiuta a eliminarlo e a vincere l’ansia e l’insicurezza insiti nell’uomo. Il tumulto aggressivo dell’anima (cf. 5, 43-48; 1233-1240 e 3, 79-81; 6, 14-53) sarebbe causato dall’essere ansiosamente consapevoli della propria insicurezza, che è accentuata dalle nuove sicurezze della civiltà e del suo ‘progresso’. Lucrezio fa vedere ancora una volta come la guerra, che si combatte all’interno dell’anima, avveleni la vita e la renda odiosa. Il clima da incubo, le strane notazioni che il poeta fa della propria 408

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storia personale, suggeriscono che la sua non sia soltanto una narrazione di eventi del mondo esterno, ma anche e forse più profondamente, un’immagine della violenza sfrenata e autodistruttiva che l’anima esercita contro di sé. Secondo la Nussbaum si comprende meglio la complessità dell’affresco lucreziano se lo si legge insieme ai due proemi (del V e del VI libro). Questa storia di orrori non è semplicemente una storia sul danno che gli esseri umani si arrecano a vicenda in guerra, ma anche, e in modo predominante, la storia della violenza autodistruttiva dell’anima verso se stessa. Un altro aspetto particolarmente interessante dei vv. 12971349 è l’uso dell’aggettivo saevus. Il termine viene applicato nei vv. 1308-1317 in modo convenzionale nel primo e nel terzo caso (1309 e 1314), come epiteto riferito agli animali selvatici, leoni, tori e cinghiali, nel secondo è riferito in modo “non convenzionale” ai domatori di tali belve. Gli animali feroci, per loro natura, sono indomabili. Diversamente da loro, l’uomo ha potuto emanciparsi da quello stadio primordiale, in cui conduceva una vita dura e isolata, proprio in virtù della capacità di stringere patti di collaborazione e non aggressione che stanno alla base della sua civiltà. L’espressione saevis magistris nel v. 1311 rappresenta l’unico caso in cui Lucrezio applica tale aggettivo direttamente all’essere umano e ciò avviene perché la saevitia degli animali selvatici è passata ai loro domatori. Si tratta di una involuzione innaturale, che si verifica nel momento in cui l’uomo, lasciandosi trasportare dalla forza della violenza, assume quei caratteri, propri della saevitia, che per natura appartengono all’indole della belva, vanificando i traguardi raggiunti attraverso il processo di civilizzazione. La bestialità, pur essendo un aspetto che appartiene 409

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alla natura umana, è modificabile attraverso l’educazione (cf. 3, 319-322); per cui le abitudini, i comportamenti, i mores, se forgiati alla luce della scienza epicurea, ci permettono di avere il dominio anche della parte istintuale del carattere umano. Le conseguenze della guerra sono irrazionali, allo stesso modo in cui lo sono le sue origini, e i suoi effetti sono tanto de-civilizzanti quanto antisociali. Questo stato di guerra di ‘tutti contro tutti’ rappresenta il punto più basso della storia del genere umano e il punto più lontano per l’uomo per poter nuovamente aspirare ad un ideale di vita serena. La coerenza del passo rispetto agli intenti artistici e comunicativi dell’autore ben si inserisce nell’intuizione di Kenney 1972, 12-24 che faceva leva sulla sensibilità e la razionalità del ragionamento lucreziano, in particolare quando afferma «for in the age of nuclear armaments and the competitive stockpilling of overkill capacity, or Doomsday, Dr. Strangelove, and Fall-Safe, surely we can at least take this point? And surely we do not have to believe that only a madman could have made it? I am not saying that Lucretius is a sort of Nostradamus, but that he was a poet who knew how human beings behave». (Kenney 1972, 23). Il finale apocalittico dei vv. 1341-49, ricco di ipotesi, sospensioni, riprese del pensiero, dubbi e domande senza risposta (“e potresti presumere che ciò sia accaduto nei vari mondi in vario modo creati, piuttosto che in uno solo”), ben si sposa con lo stile e i contenuti delle altre immagini escatologiche presenti nel DRN (tra cui 1, 1104-17; 2, 1105-74; 6, 596-607) in particolare nel quinto libro (vv. 370-5; vv. 1233-40), a chiusura di una determinata sezione letteraria (sul tema cf. Klingner 1952, 3-30; Müller 1978, 197-231; Brown 1987, 47-100; Fowler 1997, 112410

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138; Galzerano 2017, 43-55; per l’immagine dell’apocalisse in Seneca in relazione con diversi episodi del DRN, cf. Berno 2019, 75-95). Bibliografia selettiva Camardese 2010; Courtney 2006; Deufert 1996; De Grummond 1982; Kenney 1972; La Penna 1995; Massaro 2010; McKay 1964; Nussbaum 1994; Onians 1930; Raccanelli 2017; Salemme 2009; Saylor 1972; Schiesaro 1990; Schrijvers 1970; Segal 1990; Shelton 1996; Tutrone 2010.

1297-1301. Questi versi sono stati letti come continuazione del paragrafo precedente, ma è evidente che si sia passati ad un argomento nuovo (cf. per la struttura dell’intera “Antropologia” lucreziana Farrell 1994, 81-95). Secondo la trasmissione dei Capitula Lucretiana, questi versi dovrebbero far parte del capitulum che inizia a partire dal v. 1281 (intitolato: quemadmodum ferrum inventum sit), per una completa storia della tradizione dei capitula lucreziani cf. Butterfield 2013, 274-285. Lucrezio si sofferma su un altro aspetto delle tecniche di combattimento, che non riguardano le armi, ma il passaggio, nei costumi di guerra, dal cavallo ai carri (anche se si distinguono in bighe, quadrighe, carri falcati), dai carri agli elefanti. All’interno di questa struttura concettuale del progresso tecnico, l’introduzione dell’uso in guerra di animali diversi dagli elefanti non è illogica: si tratta, come per la successione dei metalli dall’argento all’oro fino 411

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al bronzo e al ferro, di una serie di tentativi falliti che hanno preceduto il tentativo giusto (cf. Schiesaro 1990, La Penna 1995, 36-37). 1297 prius est armatum in equi: non è sicuro se l’uso di montare a cavallo con il morso, tra le pratiche belliche sia stata anteriore o posteriore all’utilizzo delle bighe. Secondo Costa, Lucrezio avrebbe torto nell’anteporre il costume di montare a cavallo rispetto all’utilizzo delle bighe (cf. Anderson 1961, 7-11 riguardo alla nascita della cavalleria greca antica, successiva all’uso dei carri in guerra). In realtà, nelle antiche civiltà del Medioriente sono coevi entrambi gli usi bellici del cavallo e sono entrambi databili alla più antica fase dell’età del bronzo (35001200 a.C.). Secondo Bailey, l’ordine lucreziano dell’uso bellico del cavallo sarebbe stato condizionato dal mito dei Centauri,181 nonostante Lucrezio non concepisca la possibilità che queste creature siano esistite (cf. per il mito Il. 1, 262 ss.; Od. 21, 295 ss.; Pind. Fr. 46 Snell). Con molta probabilità, la spiegazione di Lucrezio è molto più logica e riguarda la domesticazione dei cavalli. Dunque, per poterli addomesticare, gli uomini li avrebbero montati e poi legati ad un carro, sia mezzo di trasporto sia macchina da guerra. Monica Gale ben individua che la formula prius/ ante est/ 181

Già in altri due contesti Lucrezio nomina i Centauri (cf. 4, 739 e 5, 878-881). Nel primo contesto, Lucrezio ammette la possibilità di sognare un centauro (non c’è nulla di insolito nel sognare una creatura immaginaria), nel secondo prende una decisa distanza dalla mitologia tradizionale. Infatti, secondo la dottrina epicurea della separatezza delle specie, era inammissibile concepire l’esistenza di creature metà uomini e metà cavalli (cf. Gale 1994, 162-3). 412

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fuit … quam ovvero che “qualcosa x venga prima di qualcos’altro y” rappresenta un Leitmotiv di questa sezione del libro 5 (cf. l’occorrenza della formula in 1250-51; 1350; 1354-55; 1380), proprio come la ripetitiva formula incipitaria inque dies, che caratterizza la Kulturgeschichte lucreziana (cf. 5, 483, 706, 733, 1105, 1279, 1307, 1370). Come giustamente sottolinea La Penna 1995, 37, il passaggio da un argomento all’altro non è sempre chiaro e definito. La maggior parte delle volte, Lucrezio si preoccupa di creare un aggancio nello svolgimento della trattazione, come in questa sezione di versi, che si lega all’uso del ferro in agricoltura e in guerra, ma spesso i legami non sono sempre solidi, ad esempio nel passaggio dall’origine della religione (1161-1240) alla scoperta dei metalli (1241-1296). L’iniziale congiunzione et non sembra avere un valore copulativo, ma è per lo più conclusivo, da tradurre più che altro come “a questo punto”, “dunque”. 1297-1299 conscendere … moderarier … vigere … temptare: l’‘accumulatio’ dei quattro infiniti, che creano diverse proposizioni infinitive, il cui soggetto è armatum, ricorda una struttura simile a quella dei vv. 1250-1 (venarier … saepire … ciere). Il primo verbo, conscendere, è da intendere nel significato specifico di ‘montare a cavallo’ (cf. OLD s.v. conscendo 2, Verg. Aen. 12, 736 iunctos conscendebat equos), così come moderarier, forma arcaica che sta per moderari, indica l’azione di condurre i cavalli, grazie anche alle redini. Da notare che la forma arcaica ritorna anche in Plaut. Men. 443 sed ego inscitus qui domino me postulem moderarier.

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1298 dextraque vigere: avere la mano destra libera per combattere. La mano sinistra era utilizzata per le redini (frenis). Vigere, letteralmente “to be energetic” (cf. OLD s.v. vigeo, 1d, cf. 3, 651, Verg. Aen. 9, 806-7 ergo nec clipeo iuvenis subsistere tantum/ nec dextra valet), si riferisce a una particolare forma di energia, ovvero quella del saper impugnare con forza e con destrezza una spada cf. 5, 961 (sponte sua sibi quisque valere et vivere doctus). Vigere dextra, “disporre con vigore della destra” è la traduzione letterale di Armando Fellin (Torino, 1997). 1299 belli temptare pericla: il verbo chiave in questa sezione di versi, che rappresenta il filo conduttore nella storia dell’uso degli animali in guerra, è temptare, che caratterizza già il processo della natura dell’aggregazione che ha portato al mondo attuale (5, 187-194). Si tratta, come progresso tecnico, del passaggio, nei costumi di guerra, dal cavallo ai carri, dai carri agli elefanti. Entro questa struttura concettuale del progresso tecnico l’introduzione dell’uso di animali diversi dagli elefanti non è affatto illogica, mentre è difficile dimostrare e trovare una precisa evidenza storica riguardo a questi dati. 1300 biiugos: nel v. 1300 è l’emendamento di Faber, in luogo di biiugo OQ, che ha risentito della presenza dello stesso termine allo stesso caso nel verso precedente, conservato recentemente da Martin (cf. anche Deufert 2018, 1300). Si tratta di un efficace poliptoto, formato da biiugos, aggettivo, bis, avverbio, e binos, aggettivo numerale distributivo (per biiugos cf. 2, 601 sedibus in curru biiugos agitare leones). Per coniungere con 414

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accusativo plurale cf. Sil. 14, 19 dividuos (scil. populos) coniungi pernegat (scil. Nereus) oppure boves coniungere in Cato Agr. 138 e Colum. 2, 21, 5 (boves coniuncti in Apul. Met. 9, 8, 2). Il soggetto dell’infinitiva, armatum, viene ripetuto nuovamente, così come è necessaria la ripetizione di prius est quam. Gli infiniti hanno un valore sostantivato soltanto logicamente, ma sintatticamente il soggetto è armatum. 1301 falciferos … currus: le falci assumono un altro valore, se utilizzate a scopi bellici. L’iperbato serve a isolare l’aggettivo falciferus dal sostantivo currus, a cui si riferisce. L’iperbato aiuta a richiamare che la falce non è soltanto uno strumento agricolo, ma serve anche come strumento di guerra, per facilitare la distruzione delle ruote degli altri carri da guerra. È probabile che qui vengano menzionati perché richiamano l’antitesi tra la guerra e l’agricoltura, come si è già visto nei vv. 1293-96. C’è una relazione stretta tra questi versi e 3, 642-56, che rafforza la connessione tra i contenuti dei due libri: Falciferos memorant currus abscidere membra saepe ita de subito, permixta caede calentis, ut tremere in terra videatur ab artubus id quod decidit abscisum, cum mens tamen atque hominis vis mobilitate mali non quit sentire dolorem et simul in pugnae studio quod dedita mens est: corpore relicuo pugnam caedesque petessit, nec tenet amissam laevam cum tegmine saepe inter equos abstraxe rotas falcesque rapaces, nec cecidisse alius dextram, cum scandit et instat. inde alius conatur adempto surgere crure, cum digitos agitat propter moribundus humi pes.

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Commento Et caput abscisum calido viventeque trunco servat humi voltum vitalem oculosque patentis, donec reliquias animai reddidit omnes.

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Nel terzo libro, Lucrezio descrive in dettaglio questo strumento di guerra tipicamente orientale, come attestato già da Xen. Cyr. 6, 2, 17, secondo cui fu Ciro il Grande ad inventare i falciferi currus. Sempre Senofonte menziona i carri utilizzati dall’esercito persiano nella descrizione della battaglia di Cunassa (401 a.C.), cf. An. 1, 8 e Hell. 4, 1, 17-19. Furono utilizzati anche da Dario III nella battaglia di Gaugamela contro Alessandro nel 331 a.C. (cf. Diod. 17, 53, 2; Arr. 3, 8; Curt. 5, 9, 5). I Romani incontrarono per la prima volta queste terribili macchine da guerra durante la battaglia di Cheronea (86 a.C.). Lucrezio poteva aver attinto la possibile suggestione storica nel suo racconto dal resoconto della terza guerra mitridatica e, in particolare, quello dello scontro avvenuto a Cizico nel 74-73 a.C. tra il console Lucio Licinio Lucullo e Mitridate (cf. App. Mitr. 75; Plut. Luc. 7, 4). Nel 66 a.C. nella parata per il trionfo di Lucullo, furono portati dall’Asia Minore a Roma dieci di questi carri armati di falce (cf. Plut. Luc. 37, 3). È una lettura suggestiva quella di cercare di trovare il riferimento storico più vicino nel tempo, a cui Lucrezio possa essersi ispirato analogicamente, per ricostruire un passato ben più remoto. Escendere: sembra solo una variante metrica di conscendere, per il prefisso del verbo, sinonimo funzionale a scelte metriche. 1302-1307. Nella storia dell’uso dei metalli, il progresso tecnico si rovescia in un processo di corruzione se sfocia nell’aumento dei consumi superflui, cioè non necessari e non richiesti nella vita 416

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secondo natura, o, in misura maggiore, nel crescere del furore di guerra, nell’affinarsi della tecnica bellica, nel moltiplicarsi delle stragi. La costruzione del periodo dei vv. 1302-1303 è anastrofica: il soggetto, Poeni, si trova in clausola di verso (v. 1303) insieme al verbo, docuerunt; mentre l’oggetto, boves lucas, definiti taetras e anguimanus, per indicare il loro aspetto esteriore, sono caratterizzati da una particolare armatura, costruita sul loro dorso, che creava su di loro una sorta di torre, turrito corpore. 1302 boves Lucas: la scelta della perifrasi per indicare gli elefanti deriva da un’espressione arcaica che nelle fonti letterarie viene riportata a partire da Nevio (fr. 63 Morel prius pariet lucusta/ lucam bovem), ma nasce con molta probabilità da un modo di dire del linguaggio parlato dell’esercito romano, quando per la prima volta si trovò a scontrarsi con i pachidermi africani, scambiati per ‘buoi lucani’. La correzione di Q2 in lucas si giustifica per evitare la ripetizione di lucae nel v. 1339. I ‘buoi lucani’, ovvero gli elefanti, furono visti per la prima volta in Lucania con Pirro e questo dà all’espressione un immediato richiamo storico, anche se non è sicuro che l’allusione storica di Lucrezio sia rivolta alle guerre contro Pirro. La presenza di Poeni nel v. 1303 sposta l’attenzione sui Cartaginesi, che sarebbero stati i responsabili dell’addestramento e dell’uso militare degli elefanti (cf. Franko 1994, 153-58). Inserire un modo di dire, utilizzato per la prima volta da Nevio, amplifica il legame che Lucrezio vuole creare con l’identità romana, in una delle tante allusioni ad eventi particolarmente significativi della storia di Roma, tali da essere immediatamente comprensibili ai suoi lettori contemporanei e in particolare al suo dedicatario. 417

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Turrito corpore: è una ‘iunctura’ particolarmente suggestiva e riuscita. Gli elefanti sono raffigurati come dotati di una corazza (cf. Scullard 1974 e cf. Bell. Afr. 30,2 elephantis turritis … ante aciem instructis e Plin. HN 8, 7, 7 totidem turriti cum sexagenis propugnatoribus). L’elemento del grandioso e dell’orrido, che caratterizza l’intera sezione di versi, è marcato anche da questa espressione turrito corpore, che trova un riscontro storico nell’attestazione materiale di un piatto ritrovato dalla Tomba 233 (IV) della necropoli delle Macchie, a Capena. Il piatto (Piatto da Capena, Roma, Museo di Villa Giulia: elefante da guerra col suo piccolo) raffigura un elefante in assetto di guerra, corazzato e turrito, seguito da un elefantino, che appartiene ad una serie creata probabilmente in occasione del trionfo di Curio Dentato sul re dell'Epiro, Pirro, nel 275 a.C. Questo motivo decorativo sul piatto di Capena è stato messo in relazione con la campagna di Pirro in Italia (272-270 a.C.) o con la prima guerra punica (264-241 a.C.). I Cartaginesi adoperavano infatti elefanti africani dalle grandi orecchie, com’è ben documentato dalle riproduzioni su monete puniche, mentre nel piatto è riconoscibile un elefante di razza asiatica; sarebbe poi suggestivo pensare agli elefanti di Pirro visti con stupore dai Romani che non ne conoscevano neppure il nome, ma la figurazione è troppo esperta per essere il frutto di un’immediata impressione, e soprattutto è uguale (tranne il particolare aneddotico del piccolo che segue il pachiderma) a quella che ricorre su fàlere d’argento della Crimea. Dev’esserci, pertanto, un precedente iconografico comune, forse di origine siriaca, la cui introduzione in Italia può essere indipendente dalla visione diretta di quegli animali. Anche le altre figure che compaiono sui pocola, non sono invenzioni originali del 418

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ceramografo. Gli eroti variamente atteggiati o rappresentati insieme ad animali appartengono al repertorio del primo ellenismo, come la presunta testa di Bellona, che ha confronti anche con le teste femminili uscenti da calici della ceramica italiota (cf. Moreno, sv. pocola in EAA). Taetros: termine d’impiego molto comune nella letteratura latina. In Lucrezio vi sono ventisei occorrenze dell’aggettivo. Il significato di “orrendo”, “disgustoso”, “repellente” con cui viene generalmente impiegato, anche in riferimento alle diverse sfere sensoriali (cf. Lucr. 2, 510-11), ne fa un aggettivo di intensa coloritura espressiva. Taeter è spesso epiteto di sanguis e cruor e, allo stesso modo di ater, taeter non indica il sangue puro, di un rosso vivo, qualificato da purpureus, né il sangue che si coagula, di un nero brillante (niger), ma il sangue malsano che annerisce uscendo da una ferita, (su taeter cf. Baran 1983 e Camardese 2010, 309-330). A differenza di Ennio in Ann. 611 Sk. che definisce gli elefanti taetri (taetros elephantos), grecismo del lessico poetico ed elevato, Lucrezio usa un’espressione prosaica: taeter è concordato con un soggetto animato (boves lucae) soltanto in questo passo, e la presenza di vulnera al v. 1303 potrebbe quasi indurre a correggere il tràdito tetros in taetra (contro il taetras proposto da Lachmann). La ‘iunctura’ taetra belva è già presente in Plauto, ma esclusivamente in Most. 607. C’è una grande frequenza dell’aggettivo nell’oratoria ciceroniana, in prevalenza nelle Filippiche e in particolare con belva in contesti metaforici (inoltre figura anche in Verr. 2, 23; Nat. D. 2, 56, 141 e Tusc. 1, 108). L’apice della taetritudo, attribuibile a ciò che è corrosivo come un veleno o un morbo contagioso, è raggiunto dal tiranno quo neque 419

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taetrius neque foedius … animal ullum cogitari potest (Rep. 2, 48). In Ennio (Ann. 611 Sk.), menzionato da Isidoro (Orig. 10, 1, 270) sarebbero taetri proprio gli elefanti: la presente occorrenza, e i già ricordati usi, con belva e affini, hanno senza dubbio influenzato l’interpretazione tetrum enim veteres pro fero dixerunt di Isidoro. «La peculiare scelta linguistica di connotare come taetri gli elefanti potrebbe essere stata maturata in ambiente tragico, come inducono a pensare la relativa frequenza dell’aggettivo in Accio, il pacuviano taetrare, l’uso ciceroniano in una traduzione di Sofocle, ma anche, più tardi, l’esagerazione senecana del taetrum genus di Phdr. 911», ipotizza Camardese 2010, 314-5. Nell’alternarsi di progressi e involuzioni, compiuti dall’uomo nel corso della sua esistenza sulla Terra, Lucrezio, dopo aver introdotto il ricorso al ferro, alle bighe e ai carri falcati, menziona anche l’uso bellico degli animali, in particolare degli elefanti istruiti, non a caso, dai Poeni. Il riferimento a questi ultimi è da Bailey e Ernout con certezza associato ai Cartaginesi (Bockemüller invece corregge in modo discutibile Poeni in poene), in particolare alla figura di Annibale, referente prediletto a proposito degli elefanti in guerra, per la maggiore impressione che il conflitto contro i Punici aveva prodotto nei Romani rispetto alla campagna contro Pirro. Lucrezio segue quel filone negativo, che risale a Nevio, di connotare i Cartaginesi come il popolo perfido e inaffidabile per eccellenza, considerazione che continuerà con Virgilio, Livio e Silio Italico. L’altra menzione lucreziana dei Cartaginesi è in 3, 833, dove questi ultimi vengono presentati come molto vicini a Roma. Il lontano conflitto d’Africa della prima guerra Punica, dove erano stati ugualmente impiegati gli elefanti (cf. Polyb. 1, 33-34), è 420

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probabile che non avrebbe evocato lo stesso orrore. La stessa espressione boves lucae (cf. Varro Ling. 7, 39 e Plin. HN 8, 16) contiene un’ulteriore indicazione geografica ben più connotata come italica, rispetto all’esotica denominazione elephantus. Il termine elephantus era già presente in Ennio cf. Ann. 236 Sk., frammento che allude alla battaglia sul fiume Trebbia nel 218 a.C. (cf. Polyb. 3, 71-74 e Liv. 21, 54-56). Mentre Livio si sofferma sull’intervento dei pachidermi nello scontro sul Trebbia in 21, 55, 7 ad hoc elephanti eminentes ab extremis cornibus, equis maxime non visu modo sed odore insolito territis, fugam late faciebant. Secondo Camardese 2010, 319 potrebbe essere stimolante pensare che nel v. 1302 Lucrezio voglia indicare con l’attributo taeter proprio quel complesso insieme di fattori aberranti che anche Livio mostrerà come peculiari di questi animali. 1303 anguimanus: L’aggettivo composto si trova per la prima volta proprio in questo contesto. Si tratta di una neoformazione inventata da Lucrezio. Sta ad enfatizzare la mostruosità, agli occhi dei Romani, di questo animale esotico. Quanto al senso, certamente si intende la proboscide, vista come un serpente. È un termine che serve a umanizzare l’animale da guerra, ed evidenzia la capacità prensile della proboscide, con un aggettivo composto, che denota la capacità di afferrare le cose con le spire della proboscide e poi di introdurle nella bocca. L’immagine della proboscide come un lungo serpente è presente anche in 2, 537. L’epiteto è stato contratto anche semplicemente in manus da Cicerone (Nat. D. 2, 47, 123) e Plinio (HN 8, 29). Segal 1990, 226 suggerisce che Lucrezio abbia voluto creare una connessione con i mostri che sarebbero stati uccisi da 421

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Ercole e descritti nel proemio (a Epicuro) del libro 5: gli inventori di queste terribili pratiche distruttive (vv. 43-46) hanno ironicamente fallito per liberare se stessi dai pericoli fisici di combattere contro animali feroci, oppure dai mostri metaforici delle passioni, che hanno la forza di generare conflitti e guerre (vv. 1430-35). Belli docuerunt volnera Poeni: i Cartaginesi hanno insegnato agli elefanti a combattere. La costruzione della frase è anastrofica, con il doppio accusativo di doceo: l’accusativo della persona a cui si insegna è collocato nel verso precedente. Non è detto che il riferimento sia alle guerre contro Annibale, è più probabile che sia un modo per insistere sulle qualità negative dei Cartaginesi. Belli … vulnera è una ‘iunctura’ enniana cf. Enn. Ann. 205 Sk. volnera belli despernunt. 1304 magnas Martis turbare catervas: La ‘iunctura’ in iperbato magna … caterva sarà molto ricorrente in Virgilio (cf. le due clausole di verso magna comitante caterva e magna stipante caterva in 1, 497; 2, 40; 2, 370; 4, 136; 5, 76; cf. Bruno 2011). Lucrezio, non a caso, decide di chiamare l’esercito di Marte, che è un epiteto per definire l’esercito Romano, caterva, nonostante il termine venga utilizzato per indicare in senso spregiativo una banda armata (cf. OLD s.v. caterva 2, 3), proprio come il suo sinonimo, turma, che viene menzionato nel v. 1314. Il disordine c’entra poco con le caratteristiche reali dell’esercito romano: il termine è un chiaro segnale del disprezzo di Lucrezio per la guerra. L’uso di adoperare una metonimia, come Martis catervas, per indicare l’esercito romano, è particolarmente significativo. Il nome del dio della guerra qui suggerisce, come nota bene la Gale, 422

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l’unico contatto con l’altra divinità nominata da Lucrezio, ovvero Venere. L’unione tra le due divinità, Venere e Marte, è stata interpretata come un connubio simbolico tra le due energie interconnesse della natura, la forza creatrice e la forza distruttrice, che devono convivere, secondo la naturale legge dell’equilibrio, ovvero dell’isonomia epicurea. Non è la prima volta che si fa riferimento all’unione tra due diversi poteri cosmici, l’amore e la guerra: lo stesso procedimento simbolico è adoperato efficacemente da Empedocle, a cui Lucrezio con ogni probabilità, allude. Il riferimento a Marte è l’equivalente dell’unione tra i due poteri cosmici empedoclei dell’Amore e del Conflitto (cf. Furley 1970, 58-59; Gale 1994, 67-72; Sedley 1998, 27). Lucrezio in diversi punti del DRN rende chiaro questo concetto, ovvero che le forze distruttive e creative fanno parte dell’interazione e dei rapporti sociali tra uomini. Magnus non indica solo l’aspetto numerico, ma anche quello qualitativo, nel senso di importanza. L’allitterazione del v. 1304 con la ripetizione della m, contribuisce a creare un’atmosfera cupa. 1305-1306. Immediatamente dopo i vv. 1302-4, Lucrezio prosegue con una digressione sugli orrori di cui è causa la discordia tristis. Il riferimento alla discordia tristis, la causa generatrice della guerra, tradotto dalla Gale “grim strife” sembra significativo. La discordia è il corrispettivo latino del greco Eris (cf. RE V, 1, col. 1183), che qualificava propriamente non una divinità romana, paragonabile al suo contrario, ma più che altro una personificazione poetica, che presiedeva alle contese, tanto da essere spesso evocata in contesti bellici. 423

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Il male, rappresentato dalla funesta discordia, principio di disgregazione, è in grado di generare una cosa dall’altra (alid ex alio peperit, da notare che alid è un arcaismo in luogo di aliud) come se si trattasse di una catena di dolori e di sofferenze provocate dalla guerra (cf. Raccanelli 2017, 182 ss.). La formula alid ex alio è frequente in Lucrezio, in particolare in contesti opposti alle fasi di regressività e animalità degli esseri umani, come ad esempio nel v. 1456 namque alid ex alio clarescere corde videbant, nel momento in cui gli uomini vedono una cosa ricevere luce da un’altra finché raggiungono il punto più elevato con le loro arti. Il v. 1456 riecheggia chiaramente, quasi in autocitazione, un altro contesto, 1, 1115-1117 namque alid ex alio clarescet nec tibi caeca/ nox iter eripiet quin ultima naturai/ pervideas: ita res accendent lumina rebus, dove Lucrezio ha espresso fiducia nella vittoria della luce e della verità sul buio e l’ignoranza. Non manca l’ennesimo riferimento ad un altro contesto enniano (Ann. 225 Sk. postquam Discordia taetra/ belli ferratos postes portasque refregit), in cui si registra una grande affinità sia semantica sia fonetica, fra la ‘iunctura’ discordia taetra di Ennio e discordia tristis del v. 1305, che sono anche collocati nella stessa posizione metrica. Discordia è un termine piuttosto frequente nella poesia dattilica, a cavallo tra la quarta e quinta sede. In altre parole, che nello stesso Lucrezio compaia nel v. 1305 l’espressione discordia tristis vicino a taetras del v. 1302 è un segnale molto interessante, così come la presenza di belli … vulnera, che è un’altra ‘iunctura’ enniana (sulla clausola di esametro, “hexameter-ending”, come il simile discordia taetra, cf. i contributi di Harrison 1991 e 1995). In Ennio (fr. 255 Sk.), stando all’accurata ricostruzione di Norden del 424

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VII libro degli Annales, il passo della discordia si inserisce in un momento ben preciso della storia di Roma, ovvero nel 235 a.C. (alla riapertura delle porte del tempio di Giano, per dare inizio a un lungo ciclo di conflitti che culmineranno nella guerra annibalica). La Camardese conclude così: «non sarà probabilmente azzardato concludere che, dal passo lucreziano, si possa ipotizzare con più sicurezza non solo una sede dello ‘scampolo’ enniano tetros elephantos (diversamente piuttosto anonimo), ma anche, sempre a partire da Lucrezio, verificare che il passo degli Annales concernente la discordia sia effettivamente relativo a un lasso di tempo lungo e travagliato (non inganni il dies di Lucr. V 1307), se alid ex alio peperit discordia tristis» (cf. Camardese 2010, 322). L’efficace scelta linguistica e lessicale di associare taeter agli elefanti è enfatizzato dall’epiteto anguimanus, termine coniato da Lucrezio e che ricorre anche in 2, 537 (cf. ThlL I, 51, 21 ss.) e richiama a un’entità serpentina. I vv. 1302-1304 potrebbero alludere alla II guerra punica, nello specifico ad uno dei suoi più celebri episodi, la battaglia presso il fiume Trebbia, e riassumono alcuni dettagli attraverso espressioni pregnanti e complesse come taetras, anguimanus e turrito corpore. La studiosa cita un altro contesto, Sil. 4, 598-621 (cf. l’eco lucreziana in Sil. 4, 599 vis elephantorum turrito concita dorso; cf. Camardese 2010). In questo contesto, la discordia tristis segna l’apice di una serie di orrori, in bilico tra storia e mitologia. L’infernale portatrice di serpenti e di morti (la Discordia enniana), viene seguita dai ben più concreti e aberranti elefanti, definiti da Lucrezio taetri e anguimanus. Dunque, Lucrezio potrebbe aver alluso in 5, 1302 agli elefanti utilizzati durante la guerra annibalica, grazie alla eco di un resoconto enniano o di qualche storico non pervenutoci. Così 425

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la discordia tristis, l’uno dopo l’altro, ha generato ciò che è orribile (horribile) nelle armi per le genti umane (iperbato humanis … gentibus). 1307 inque dies: l’espressione fraseologica, tra le più frequenti nel libro 5 (cf. 5, 483; 5, 706; 5, 733; 5, 1105; 5, 1279), sta a indicare, insieme ad addidit augmen, l’aumento, la crescita numerica, di giorno in giorno, dei terrori della guerra. In un senso diverso dall’horror, spesso utilizzato per rendere il sentimento di paura dinanzi ad un’entità sconosciuta, spesso legata al religioso e soprannaturale (cf. vv. 1161-1240), ritorna il terror. Spesso accompagnato al genitivo (cf. OLD s.v. terror 1b), non rappresenta soltanto il sentimento di paura per la guerra (belli terroribus), ma il complesso degli atti terribili che si praticano in guerra e che provocano sgomento e paura. 1308-1340. Si tratta di versi estremamente controversi. Quello che viene descritto nei versi conclusivi della sezione è forse la parte più sorprendente di tutto il DRN, e per Costa «the most notorious passage in the whole poem» (p. 142). Condivido le perplessità della Gale ad loc.: «it seems odd, however, that Lucretius pulls back from committing himself fully to his imaginative recreation». L’elemento più disturbante della narrazione sembra essere proprio il tono assurdo, che rasenta la fantasia, pur conservando lo stesso livello di ‘storicità’ assunto per altri contesti (cf. Kenney 1972; Segal 1990, 188-95; Nussbaum 1994; Shelton 1996, 58-64; Fratantuono 2015, 213). L’argomento centrale è rappresentato da una serie di tentativi: il verbo temptare (v. 1308) rappresenta il modo in cui gli uomini potevano 426

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migliorare una tecnica, in positivo o in negativo, a seconda del numero di fallimenti che riportavano. Dunque, in campo bellico, sperimentarono l’uso dei tori, dei cinghiali e dei leoni, dopo aver verificato che i cavalli e gli elefanti rappresentavano un valido ausilio allo scontro bellico. Il passo non sembra essere integrato perfettamente con il resto dei versi, nonostante non ci sia motivo di dubitare della loro autenticità, anche perché lo stile è perfettamente nelle corde di Lucrezio. Una fonte o un modello da cui questi versi abbiano avuto origine non c’è – si tratta di un tema assente in tutte le altre Kulturgeschichte – nonostante ci siano delle prove che, oltre agli elefanti, furono utilizzati in guerra anche altri tipi di animali, come i tori (cf. Liv. 22, 16-17), i cani (Ael. VH 14, 46; Plin. HN 8, 143) e i cammelli (Hdt. 1, 80). D’altra parte è possibile che alcuni dettagli troppo precisi e alcuni particolari cruenti siano nati dalle suggestioni che certi spettacoli, come le venationes, avevano provocato nell’immaginazione lucreziana e rappresentato una fonte di ispirazione. Ai tempi di Lucrezio erano molto popolari certi tipi di spettacoli (cf. Onians 1930; McKay 1964; Kenney 1972; Schrijvers 1970, 296-305; Schiesaro1990).182 È anche molto interessante considerare la possibilità che Lucrezio avesse in mente modelli figurativi e non letterari. Non si può escludere, come ben sottolinea Schiesaro 1990, 161, che Lucrezio non abbia riservato una particolare attenzione alle arti visive, come già aveva proposto Bailey nel citare Diod. 1, 48, 1, che descrive una pittura 182

Nel 99 a.C. fu organizzata la prima venatio a Roma, con la partecipazione di leoni e tori e lo spettacolo ebbe fortuna anche in seguito (cf. Plin. HN 8, 20, 53 che descrive giochi cui prendevano parte leoni iubati e non). 427

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parietale dove un re egizio combatte accompagnato da leone che gli sta accanto. Un altro aspetto molto significativo da tenere presente è che la caccia agli animali feroci, armati, con carri, cavalli o cani, è sempre stata considerata una attività preparatoria alla guerra. Senofonte, nel Cinegetico e nell’Ipparchico, a più riprese raccomanda sia ai giovani sia agli adulti la caccia come un modo per prepararsi alla guerra (cf. Vidal-Naquet 1981). Se il passaggio dalla preistoria alla storia viene reso esplicito con il riferimento ai Cartaginesi, in particolare alla seconda guerra punica, con il v. 1308, Lucrezio sembra fare un salto indietro e ritornare nella narrazione ad una fase protostorica o che possa alludere ad usanze belliche di mondi distanti, come le antiche civiltà mesopotamiche, venute a diretto contatto con i Romani nel I sec. a.C., durante le prime campagne contro i Parti. La successione ordinata e consequenziale di tecniche via via più elaborate, e mai ostacolata da nessuna difficoltà, contraddirebbe il carattere casuale, non lineare e predestinato, che l’evoluzione storica possiede nella teoria epicureo-lucreziana. Il progresso tecnico, al pari di quello socio-culturale, è tutt’altro che infallibile. 1308 temptarunt… in moenere belli: l’ ‘incipit’ con il verbo principale, che determina la storia ciclica del progresso, qui in uno dei momenti più involutivi della storia dell’uomo, è particolarmente efficace. Si trova nella forma sincopata di temptaverunt. Il soggetto di questa terza persona plurale è vago e staccato dal contesto, e serve a spersonalizzare e a oggettivizzare una tappa importante del ‘progresso’ nella tecnica militare. La teoria della conoscenza per gli Epicurei avveniva attraverso 428

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l’empirismo, allo stesso modo concepivano anche il progresso e la teoria dell’evoluzionismo. Il senso del tentativo casuale è espresso adeguatamente non solo dall’uso, proprio all’inizio, di temptarunt al v. 1308, come conor nel v. 838, ma anche experti nel verso successivo e partim nel v. 1310, cui corrisponde nel v. 1338 il riassuntivo varium genus ferarum. Questa successione ordinata non è solo inverosimile alla luce del carattere casuale e possibilistico dell’evoluzione in sé, ma è anche inaccettabile dal punto di vista metodologico. La ricostruzione storica, che Lucrezio offre a Memmio, prende in considerazione i fatti che risultano possibili in base alle note leggi generali di aggregazione degli atomi, e che sono poi organizzati in serie, grazie ad alcuni principi deduttivi o analogici. Come è stato giustamente messo in rilievo da Schiesaro 1990, 165: «altri sono i campi dove Lucrezio è pronto ad assumere il tono dogmatico e rassicurante di chi offre una spiegazione ed una sola: quando tratta delle realtà primarie del cosmo, atomi e vuoto, un atteggiamento cauto e possibilista non avrebbe alcun senso. Al contrario, fenomeni lontani nel tempo e nello spazio possono essere interpretati in modi diversi, mostrando in tal modo la flessibilità del metodo d’indagine». L’eccezione di adoperare in guerra animali selvatici come i tori (tauros) nel moenus della guerra è anche espresso dalla rarità – si tratta dell’unica occorrenza in poesia – dell’espressione in moenere belli, nel travaglio della guerra, tradotta da Bailey “in the service of war”, “nell’attività bellica” (cf. 1, 32 quoniam belli fera moenera Mavors). Le attestazioni della forma moenus, -eris risalgono a Varro Ling. 5, 141 e Lucr. 1, 29; 32, e sono naturalmente degli arcaismi in luogo del frequente munus, -eris. 429

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1309. Il verso è caratterizzato dall’allitterazione della sibilante EXpertique SueS SaevoS Sunt. Sembra che saevus sia la parola chiave del passo, e si trova ripetuta nel v. 1311, 1314, 1327. L’aggressività è una caratteristica nota dei tori, dei cinghiali (sues) e dei leoni (cf. De Grummond 1982, 51-53; La Penna 1995, 40, Raccanelli 2017, 185). Questa insistenza è sicuramente molto significativa e soltanto nel v. 1311, saevus è riferito agli uomini e questo rivelerebbe l’autentico obiettivo poetico-rappresentativo dell’autore (cf. anche Tutrone 2010, 65 n. 12). L’aggettivo saevus assume, quando riferito ad animali, il significato di feroce (cf. OLD s.v. saevus 4): la crudeltà, la ferocia e la violenza, invece, sono da attribuire più che altro ai domatori (v. 1311 doctoribus armatis saevisque magistris), che non sono dei blandi moderatori che ammansiscono, ma sono feroci e pericolosi come le bestie che dovrebbero domare. Experti sunt è un sinonimo di temptare, (per experior cf. gr. πειράω, e il senso che deriva anche dal termine periculum), mentre mittere insieme alla preposizione in e accusativo, nel senso di ‘contro’ – assume il significato di “gettare” “scagliare contro” (cf. OLD s.v. mitto, 2c, ‘lasciar correre’, ‘far partire’) i cinghiali contro i nemici. 1310-1317. Nel v. 1310 vengono introdotti i leoni, insieme ai loro domatori, che dovrebbero essere in grado di domarli e di tenerli a bada con le catene, ma invano, perché nel disordine dello scontro non riescono a trattenere la violenza delle stragi che provocano e sconvolgono tutte le schiere senza distinzione.

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1310 validos partim prae se misere leones: allo stesso modo di 5, 1083, partim ha valore di sostantivo (cf. anche 3, 78 e 5, 1083). Il codice F riporta una variante piuttosto attraente, Parthi (non presente nell’apparato di Deufert), che sembra trovare in questa durezza sintattica una giustificazione. L’ultimo soggetto menzionato era stato Poeni, che dava al testo una precisa coordinata storica. Ma al partire dal v. 1308, il soggetto torna a essere sottinteso e soprattutto impersonale. Pur essendo intrigante la possibilità di scegliere la lezione Parthi, per conferire una nota storica, anche se non attestata con certezza – ovvero che i Parti abbiano adoperato i leoni in battaglia – tuttavia, sembra appropriato stampare il soggetto generico partim. Sicuramente era una tradizione orientale molto antica quella di andare a caccia di leoni a cavallo o sui carri per prepararsi alla guerra e di usare gli animali feroci contro i prigionieri, attestata dai rilievi delle rovine di Nimrud (cf. Reade 2019, 72-79) ai tempi di Ashurnasirpal II (ca. 865 a.C.), re degli Assiri, antenati dei Parti. È plausibile che il copista di F sia intervenuto direttamente sul testo e abbia apportato una personale congettura, che è stata suggestionata dalla presenza di Poeni nel v. 1303, e naturalmente dalla vicinanza cronologica di Lucrezio con la sconfitta a Carre di Crasso. Un altro argomento a favore di partim è che Lucrezio formula un’analogia con la storia contemporanea solo a partire dal v. 1339, con l’espressione ut nunc, che si contrappone al racconto di un passato molto remoto. L’elemento che viene messo maggiormente in risalto è l’impossibilità di indirizzare la violenza dei leoni contro i nemici, di fare in modo che non si rivoltino contro i loro magistri. A partire da questi dettagli si sviluppano sia i caratteri più violenti della scena, sia il senso di inutile crudeltà che caratterizza tale tecnica di 431

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combattimento. 1311 doctoribus armatis saevisque magistris: il ‘topos’ del leone che si ribella al proprio padrone è ampiamente diffuso nella letteratura greca e in quella latina, ed è forse da ricondurre a motivi favolistici orientali (cf. Aesch. Ag. 717-736; cf. Plat. Gorg. 483e. cf. anche Seneca nel De vita beata 14, 2 ut feras cum labore periculoque venamur et captarum quoque illarum sollicita possessio est – saepe enim laniant dominos – ita habent se magnae voluptates: in magnum malum evasere captaeque cepere). Il v. 1311 contiene un’espressione ridondante: i due sinonimi doctoribus e magistris chiudono a cornice i loro aggettivi, e producono una struttura chiastica. Due codici LC2 leggono ductoribus che sta per “comandanti”, “leaders”. Doctoribus, che è la lezione da accettare (cf. Deufert 2018, 356), è un sinonimo di magistris, sono i domatori, gli ammaestratori. Sono, dunque, i domatori stessi a essere armati e non sorprende che i magistri siano definiti saevi, proprio come erano state definite le bestie feroci (cf. De Grummond 1982, 51-53). Saevus assume il significato di crudele nell’esercitare violenza e ferocia (cf. OLD s.v. saevus 1, cf. Plaut. Bac. 763 nunc truculento mi atque saevo usus senest). 1312 moderarier … possent … tenere: l’infinito moderarier è una forma arcaica e piuttosto rara dell’infinito passivo, e sta per moderari (cf. 1, 207 e 5, 1298), e regge il dativo his. Tenere e moderarier sono retti dal congiuntivo imperfetto possent, che indica la destrezza di questi domatori in grado di controllare e di mantenere ferme alla catena le bestie feroci. 432

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1313 nequiquam, quoniam: è un ‘incipit’ molto comune in Lucrezio (2, 1148; 4, 464; 4, 1110; 4, 1133; 4, 1188; 5, 388; 5, 846; 5, 1123; 5, 1231; 5, 1271; 5, 1332). È il quadro di un tentativo fallito: la logica del fallimento sta nell’impossibilità di orientare la furia delle bestie, che si dimostra devastante in egual misura per i padroni e per i nemici. Permixta caede calentes: l’espressione in clausola di verso si ritrova anche in un contesto molto simile per contenuto e stile, 3, 642-3 falciferos memorant currus abscidere membra/ saepe ita de subito permixta caede calentis. Vi sono soltanto delle sfumature nel significato dei due contesti: calentes, nel contesto citato del libro 3, ha un senso più letterale, e riguarda i carri sciti in battaglia, ma non si esclude il significato figurato («the schythes are hot with the blood of their victims (cf. OLD caleo 4b)» cf. Kenney 2014, 159). Qui il senso è chiaramente metaforico (cf. OLD s.v. caleo 7b). Si tratta, in ogni caso, di un’autocitazione lucreziana, di un contesto molto simile, in cui si dà rilievo al disordine rappresentato dalla scena di guerra. Il clima di confusione viene introdotto dalla presenza del participio permixta (il prefisso per intensifica il senso di confusione e disordine di misceo, cf. OLD s.v. permisceo 2) e prosegue nel verso successivo con turbabant … nullo discrimine turmas. Il soggetto di calentes è chiaramente riferito a leones, che sono definiti, allo stesso modo dei loro domatori, ancora una volta, saevi. Caedes è propriamente la strage, con la stessa radice di homicidium (da caedo cf. per l’etimologia antica Maltby, 91 s.v. caedes; Paul. Fest. 45 caedem putant ex Graeco dici, quod apud illos καίνειν significet interficere), ed è il termine più appropriato 433

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per indicare una strage indistinta, tipica della mischia nei campi di battaglia. Inoltre, il v. 1313 viene trasposto da Bockemüller dopo il v. 1315, non senza ragione, poiché sarebbe una più sensata conclusione della scena. Tuttavia, non ritengo che l’intervento sia necessario, poiché non apporta un significativo miglioramento al testo. Simile è anche il parallelo tra il v. 1313 permixta caede calentes e 2, 631 in numerumque exultant sanguine laeti 1314 turbabant … nullo discrimine turmas: la ferocia e la cecità brutale dei leoni infervorati nella battaglia non permette di distinguere i bersagli dei loro attacchi. La costruzione del verso è anastrofica, con l’oggetto in assonanza, che quasi imita la paronomasia turbabant/turmas, e che è posto in clausola di verso. Turbare ha un significato specifico nel lessico militare, gettare scompiglio nella conformazione o nello schieramento di un esercito, “to upset the arrangement or conformation of, throw in to disorder or disarray” (cf. OLD s.v. turbo 4b). Le turmae sono “gli squadroni della cavalleria”, come diventa chiaro nei vv. 1316-17. Nullo discrimine, un’espressione particolarmente frequente in Virgilio (cf. 1, 574; 10, 108; 12, 498; 12, 770), dimostra l’incapacità da parte dei leoni di distinguere tra amici e nemici delle stesse truppe. 1315 terrificas … cristas: il v. 1315 ha una costruzione simmetrica, grazie alla presenza dell’iperbato a cornice in omeoteleuto terrificas … cristas. Il terror viene ripreso in più momenti, attraverso varie espressioni derivate o analoghe, come terrificas o perterrita nel v. 1315. In un clima di generale orrore, 434

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anche le criniere dei leoni conferiscono alla scena un ulteriore dettaglio terrificante. Il v. 1315 è identico a 2, 632 terrificas capitum quatientes numine cristas, che riporta la descrizione dei riti sanguinosi e ripugnanti dei Galli seguaci di Cibele, ma con la sola differenza del mutamento di numine in undique. Deufert 1996, 203-5 e Deufert 2018, 356 segue Faber, Lachmann e Bernays e sceglie di espungere il v. 1315, ritenuto inutile nella descrizione. Merrill ritiene che il verso serva a conservare una certa simmetria complessiva (5 + 5 versi), che Lucrezio di solito osserva. Secondo Bailey, il cambio da numine a undique è un segno della genuinità del testo, poiché il mutamento di una parola fa parte della tecnica allusiva della ‘variatio in imitando’, ma si tratta comunque di una autocitazione. Undique in 1315, così come in 1319, accentua l’impressione di uno spaventoso disordine. Munro, ad esempio, prende come riferimento le criniere dei leoni come se esse dovessero ispirare una forma di terrore, e paragona il verso ad un passo riportato da Livio, che riguarda gli elefanti di Antioco, (37, 40, 4 addebant speciem frontalia et cristae et tergo impositae turres) e di conseguenza Housman, sulla base di quanto riportato da Livio, traspone il verso dopo il v. 1304 (Deufert 2018, 356 propone anche una trasposizione dopo il v. 1339 «besser aufgehoben wäre er um Übrigen hinter 1339»). Secondo quanto è riportato da Livio le cristae non sarebbero le criniere naturali dei leoni, ma degli elmi con piume o creste, spesso fatte indossare sul capo degli elefanti corazzati (cf. OLD s.v. crista 2; vd. il già citato Lucr. 2, 632; cf. Salemme 2009, 159). Charles Segal dà al passo sull’uso degli animali in guerra un senso allegorico analogo a quello di Venere nel proemio del I libro e di 435

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Cibele nel II libro (in 2, 632-33 « ([The Curetes] play and keeping rhythm leap wildly about delighting in blood, shaking with divine force the terrifying crests of their heads.» translation by Segal 1990, 200). In alcune circostanze religiose gli uomini possono munirsi di cristae («the Phrygian priests ecstatically celebrate the Great Mother with this bloody and horrific rite» cf. Segal 1990, 200). Il senso di cristae come “criniere” mi sembra il più corretto. Non credo che i magistri avessero bisogno di porre sul capo dei leoni delle cristae (nel senso di “pennacchi”) per renderli terribili alla vista. I leoni sono spaventosi di per sé nel loro aspetto, con le loro naturali criniere, cf. Salemme 2009, 160. L’uso degli animali in guerra è un dato di fatto, anche se ipotetico, non un mito che simboleggiava una verità. Il dubbio sulla verosimiglianza della scena rimane, ed è altamente probabile che Lucrezio sia stato suggestionato dalle venationes, gli spettacoli che si svolgevano negli anfiteatri e che riproducevano la caccia e lo scontro tra uomini e bestie feroci, molto in voga nel I sec. a.C. Pertanto, i versi potrebbero essere una descrizione più o meno fedele alla realtà di qualcosa a cui aveva assistito, in particolare per l’accuratezza dei dettagli nella rappresentazione del comportamento degli animali con i domatori, cf. McKay 1964. Inoltre, la caccia ad animali feroci, esotici o meno, è sempre un’attività propedeutica alla guerra, e questo è certamente un dato di fatto. 1316-1317. Il clima di terrore si intensifica tra le stesse bestie impegnate nello scontro. I domatori non sono in grado di tenere a bada e far calmare i cavalli spaventati dal ruggito dei leoni, e la paura non permette ai cavalli di seguire la guida dei loro 436

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ammaestratori, ovvero di seguire le direttive di scagliarsi solo contro i nemici. I due versi sono foneticamente caratterizzati da una intensa allitterazione della r (fRemitu peRteRRita equoRum/ pectoRa mulceRe et fRenis conveRteRe), che sembra riprodurre il suono spaventoso del ruggito dei leoni. Fremitus ha un suo termine corrispettivo in greco, βρέμω, e la parola è presente anche in un altro contesto, sempre del libro 3, in 3, 297 pectora qui fremitu rumpunt plerumque gementes. Perterrita …. Pectora sono gli animi dei cavalli terrorizzati dal ruggito dei leoni. Il prefisso per intensifica il senso del verbo terreo, che ha il significato di spaventare ma in modo più drammatico e più profondo (cf. Verg. Aen. 10, 426 caede viri tanta perterrita … agmina). In questo contesto convivono sia il significato letterale sia quello metaforico di pectus, poiché il petto è la sede dell’animus (cf. OLD s.v. pectus 4b, cf. 5, 938 quod terra crearat sponte sua, satis id placabat pectora donum; Hor. Epist. 1, 4 non corpus eras sine pectore). Ma non solo: la convivenza dei suoi significati dipende anche dalla duplice valenza metaforica e letterale del verbo mulcere. Un significato analogo dell’espressione pectora mulcere è nel v. 1390 animos…mulcebant, in quest’ultimo caso, l’espressione ha solo un senso metaforico. Mulcere unito a pectora può anche esprimere l’azione fisica di consolare e calmare i cavalli accarezzandoli (cf. OLD s.v. mulceo 1a, nel senso di “to touch lightly, caress”; e nel senso figurarto 3a “to ease from physical pain; to alleviate discomfort”).

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1317 convertere in hostis: l’espressione dà l’idea che la direzione seguita dai cavalli sia stata quella sbagliata, ovvero che essi per la paura si siano tirati indietro verso i loro cavalieri. Per questa ragione, gli equites con i freni potevano tornare a controllare il movimento dei loro cavalli, per scagliarli nella giusta direzione contro i nemici (cf. OLD s.v. converto 3 “to turn backwards, reverse the natural direction of). Spesso convertere è utilizzato con pectus, animus, mens nel senso di “convertire verso la direzione giusta la propria mente e il proprio pensiero” (cf. 4, 1064 absterrere sibi atque alio convertere mentem). 1318-1322. La rappresentazione di questa scena, con le leonesse furiose pronte ad attaccare chiunque capiti sotto i loro occhi, sembra essere una riproduzione fedele dello spettacolo brutale che poteva verificarsi in un’arena, e non mancano notevoli somiglianze con i mosaici pavimentali che dipingono scene di criminali o prigionieri di guerra pronti per essere dati in pasto ai leoni, cf. Brown 1992, 196, che fa riferimento a un mosaico conservato a El Djem (Tunisia) e che sembra offrire un parallelo molto stretto: un leopardo morde il volto di un ferito e graffia il petto con gli artigli. Lucrezio usa leae in luogo della forma arcaica leaenae, attestata da Varrone (Ling. 5, 133 laena, quod de lana multa, duarum … togarum), che ritroviamo anche in Ov. Met. 9, 647 pectus et ora leae e da diversi autori di prosa. L’elenco degli imperfetti frequentativi iaciebant-petebantderipiebant-dabant-iacatbant-terebant-hauribant conferisce alla descrizione un’immagine ricorrente, come se questi avvenimenti fossero realmente accaduti abitualmente (cf. per lo stesso elenco di imperfetti i vv. 1170 ss.). 438

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1318 inritata iaciebant corpora: il terrore dilaga e gli animali ormai si scatenano in una strage indistinta. Le leonesse si lanciano da ogni parte con i loro corpi infuriati e si scagliano sui volti di chi viene loro incontro e balzano (iaciebant saltu) sulle spalle di una persona, senza che questa se ne possa accorgere (nec opinantis). Iaciebant… saltu, che separa in iperbato l’espressione irritata corpora, ha lo stesso senso di saliebant, come in Verg. Aen. 12, 287 corpora saltu/ subiciunt in equos (cf. OLD s.v. iacio 1b, nel senso di scagliarsi contro, cf. Sil. 15, 27 ancipiti motu iaciebant lumina flammas). 1319-1320 adversum venientibus … a tergo: l’espressione è in netto contrasto con nec opinantis a tergo del verso successivo (cf. 3, 959). Le leonesse assalivano al volto chiunque muovesse contro di loro. Adversum va legato a venientibus, mentre petebant regge l’accusativo neutro ora. I codici OQ leggono patebant, ma la lezione da accogliere è petebant riportata dai codici ICa. Patebant (soggetto ora) è difeso da Martin e da Salemme 2009, 160, che non vede gli estremi per respingere la lezione dei codici Vossiani (qui di seguito la traduzione di Salemme «e le loro bocche restavano spalancate contro quelli che si muovevano incontro a esse»). Nei due versi c’è un’immagine speculare che raffigura il duplice attacco delle leonesse: il primo al volto, per tutti coloro che indistintamente (undique) si avventano contro i felini e, con il successivo, viene menzionato l’attacco alle spalle. Si tratta di un modo per arricchire di ulteriori dettagli visivi e fonici, una delle scene più insolite che la poesia sia stata in grado di produrre.

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1320-1321 deripiebant deplexaeque … vulnere victos: la presenza insistente e allitterante del prefisso de- nei sinonimi deripio e deplector enfatizza la caduta da cavallo degli uomini scaraventati al suolo, in seguito al violento affronto con la dirompente ferocia delle leonesse. Deripio indica l’abbattimento e la distruzione fisica di qualcosa, (cf. OLD s.v. deripio 3; cf. Tac. Hist. 3, 13 simul Vitellii imagines dereptae), ed è sottinteso ex equis (cf. Plaut. Rud. 648 Veneris signum sunt amplexae: nunc / eas deripere volt). Deplexae si lega al precedente participio, opinantis, che funge da soggetto e intensifica la facile resa dei cavalieri, colti di sorpresa e impotenti per il colpo ricevuto nello scontro. Deplector, che completa l’azione data da deripiebant, è il corrispettivo del greco δεσμεύω, e ne conserva il senso di “afferrare per scaraventare a terra”. L’espressione dabant in terram vividamente descrive l’immagine dell’infaticabile carica delle leonesse contro ciò che si presenta dinanzi a loro. Insieme alla presenza allitterante della dentale d, il v. 1321 si chiude con la clausola allitterante vulnere victos, letteralmente ‘vinti dalla ferita’, dove il participio funge da soggetto, allo stesso modo di opinantis. La ‘iunctura’ vulnere victos conserva una somiglianza con 1, 34 reicit aeterno devictus vulnere amoris. 1322 morsibus… uncis: il v. 1322 sarà ripreso da Verg. G. 4, 236-7 morsibus inspirant et spicula caeca relinquont/ adfixae venis. Il quadro presentato da Lucrezio è il seguente: le vittime dello scontro sono i cavalieri, travolti dall’impeto delle leonesse, insieme ai loro cavalli terrorizzati. Le leonesse, dopo aver avvinghiato le vittime a loro, deplexae (circumvolutae glossa il 440

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ThlL V, 574, 12), ora sono inchiodate alle loro prede, adfixae, con morsi forti (morsibus … validis) e con gli artigli uncinati (unguibus uncis in assonanza). 1323-1325. Dopo averli menzionati nel v. 1308, i tori ritornano a essere al centro dell’attenzione nella descrizione di Lucrezio. La scena continua a svolgersi nel campo di battaglia, ma l’attenzione si rivolge verso il comportamento dei tori. I doctores e magistri dei leoni e delle leonesse sembrano aver avuto lo stesso compito anche con i tori. Allo stesso modo dei felini, nella descrizione lucreziana i tori si rivoltano contro i loro domatori, sfuggendo al loro controllo, caricando e urtando i fianchi dei cavalli con le loro corna. 1323 iactabant … terebant: gli imperfetti, a cornice nel verso, introducono l’ennesima scena d’orrore rappresentata da Lucrezio. Essi indicano la frequenza dell’azione e non l’avvenimento unico o sporadico che poteva aver sconvolto un campo di battaglia. I verbi indicano due azioni complementari e contrapposte, una dinamica (iactare) e l’altra statica (terere). Il primo è la forma frequentativa, molto comune, di iacere (cf. EM s.v. iacio 303), il secondo è il corrispettivo latino di τείρω, che ha lo stesso significato di “calpestare”, “schiacciare” (cf. OLD s.v. tero 3b); la ‘iunctura’ iactare pedibus si ritrova anche nel v. 1068 ubi eos iactant pedibus. Naturalmente, pedes, riferiti ai quadrupedi, indicano gli zoccoli. 1324 hauribant: nel suo senso letterale haurire ha il significato di “divorare”, “consumare”, spesso legato alle fiamme 441

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(cf. dal greco αὔω), ma per analogia il suo senso può essere esteso al significato di fodere ed effodere (cf. EM s.v. haurio, 290; cf. OLD s.v. haurio 3, nel senso di ferire con un’arma, dunque trafiggere). In questo caso, haurire può essere tradotto con “infilzare”, dal momento che l’arma con cui feriscono sotto i fianchi (latera ac ventris) i cavalli sono le loro stesse corna. I vv. 1323-1325 riprendono un contesto molto simile, per la descrizione della brutale vita primitiva, che si trova all’inizio della Kulturgeschichte lucreziana, vv. 990-993: Unus enim tum quisque magis deprensis eorum pabula viva feris praebebat, dentibus haustus, et nemora ac montis gemitu silvasque replebat viva videns vivo sepeliri viscera busto.

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Inoltre, la ‘iunctura’ in clausola di verso dentibus haustus è ripetuta anche nel v. 1069 suspensis teneros imitantur dentibus haustus, mentre nel v. 1324 in luogo di dentibus, in ‘variatio’, vi è cornibus. 1325 terram minitanti mente ruebant: l’immagine che ne deriva da questa espressione sembra essere la prova che il modello della descrizione lucreziana non sia letterario ma derivi da una diretta esperienza. L’espressione riproduce il gesto frequente dei tori di scavare la terra con lo zoccolo anteriore per prendere la rincorsa. Ruere, qui usato in modo transitivo (cf. 1, 272 ingentisque ruit navis et nubila differt), sta a indicare l’impaziente scalpitare dei tori, pronti ad attaccare la loro vittima, come accadeva negli spettacoli nelle arene, che hanno probabilmente suggestionato Lucrezio (cf. OLD s.v. ruo 3, cf. 6, 726 cum mare 442

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permotum ventis ruit intus harenam). Con la presenza dell’ablativo costituito da un participio presente unito a mens, si crea un costrutto avverbiale, rimasto inalterato nella lingua italiana per la formazione degli avverbi. Minitanti mente è una perifrasi che si traduce semplicemente con l’avverbio “minacciosamente” (equivale all’avverbio minitabiliter; cf. 1, 1022 sagaci mente, 1, 92 mente vigenti ed altri esempi cf. 4, 254) o come ablativo di modo “con intenzione minacciosa”, dove il deponente minitor è un verbo incoativo. Lachmann ha congetturato fronte in luogo di mente (cf. Ov. Am. 3, 13, 15 et vituli nondum metuenda fronte minaces). 1326-1329. Un’ulteriore nota di terrore e scompiglio è data dalla presenza dei cinghiali, che completano la scena insieme ai leoni e ai tori nel campo di battaglia. I cinghiali, indicati con il termine più specifico apri – in luogo del generico sues, che indica la specie suina a cui appartengono – facevano strage (caedo è il verbo da cui deriva caedes, che è il sostantivo più idoneo a indicare le stragi) dei soldati alleati con le forti zanne. Dentes indica, per gli animali, le zanne, e gli ablativi validis … dentibus sono in iperbato. Il v. 1328 è chiaramente quasi un duplicato del v. 1327, motivo per cui è stato espunto dalla maggior parte degli editori: tela infracta suo tinguentes sanguine saevi, [in se fracta suo tinguentes sanguine tela]

Tuttavia, secondo Giussani, Ernout-Robin, Bailey, Costa il v. 1328 potrebbe essere una glossa posta per chiarire meglio il senso di infracta oppure si tratta di uno dei casi di doppia redazione di un verso lucreziano. Non è semplice sciogliere il dubbio se si tratti di un’antica doppia versione del verso oppure di un’interpolazione 443

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seriore. Di certo, la nota di Deufert al verso è utile per poter identificare la genesi di in se fracta del v. 1328: egli riporta un interessante scolio di Tiberio Claudio Donato ad Aen. 10, 731 (infractaque tela cruentat: infracta (tela) non fracta debemus accipere, alias enim infractum satis fractum solet significare; cf. Schmid 1938, 343-4; Deufert 1996, 205-7; Salemme 2009, 161). Non avrei dubbi sull’espunzione del verso 1328, e non concordo con la scelta di Munro di conservare entrambi i versi, come se si trattasse di un caso di epanalessi (cf. vv. 1189-90 e Catull. 62, 21 qui natam possis complexu avellere matris,/ complexu matris retinentem avellere natam). È probabile che i due versi siano autenticamente lucreziani, ma secondo Giussani la loro collocazione sarebbe dovuta essere un’altra: i due versi pertanto apparterrebbero a tutt’altro contesto. «Il loro posto, a mio credere, sarebbe dopo il II, 631, dove in verità sanguinolenti non è spiegato, o “la spiegazione bisogna indovinarla» (cf. Giussani ad loc.). Il v. 1327 è comunque ricco di segnali fonici, come l’insistenza della dentale e della sibilante Tela infracTa Suo TingenTeS Sanguine Saevi, e da immagini coloristiche (cf. Baran 1983), che conferiscono al verso una descrizione dettagliata e truculenta delle lance spezzate (tela infracta) nel corpo dei cinghiali inferociti. Il rosso e la composizione liquida del sangue vengono espressi dal participio di tingo, a cui si lega l’epiteto che ha caratterizzato tutti gli animali feroci, insieme ai loro domatori, protagonisti di questi versi, saevi. Nel v. 1329 l’iperbato a cornice permixtasque…ruinas, che riprende il v. 1313 nequiquam, quoniam permixta caede calentes, chiude nel verso in posizione centrale il verbo dare con i 444

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due genitivi equitum peditumque, e accentua l’idea di confusione, che ha caratterizzato l’intera sezione di versi. L’espressione dare ruinas richiama ruebant del v. 1325, cf. anche 2, 1145 dabunt labem putrisque ruinas. 1330-1333. I cavalli – qui viene peferita la metonimia iumenta (che indica, in senso generale, le bestie da tiro, ed è l’unica volta in cui viene adoperato da Lucrezio) – gettandosi di lato (transversa), cercavano di fuggire i colpi feroci delle zanne, (feros … adactus in iperbato), o impennandosi (erecta), scalciavano nell’aria con gli zoccoli (cf. De Grummond 1982). I vv. 1330-31 sono costituiti simmetricamente: il soggetto iumenta, posto in ‘incipit’ nel v. 1331 regge i due participi perfetti, dal valore verbale (transversa, erecta), dipendenti dagli imperfetti exibant e petebant. Il participio perfetto di transverto ha spesso funzione aggettivale, nel senso di “obliquo, trasversale”, in questo caso mantiene il suo uso verbale (cf. 2, 213 transversoque volare per imbris fulmina cernis), allo stesso modo di erecta, nel verso seguente. Exibant ha lo stesso significato di effugere (cf. OLD s.v. exeo, 4, cf. 6, 1205 profluvium porro qui taetri sanguinis acre exierat; 6, 1217 ut acrem exiret odorem; Verg. Aen. 5, 438 corpore tela modo atque oculis vigilantibus exit), dunque, sviare ed evitare i colpi feroci delle zanne. Feros … adactus sono in iperbato, dove adactus (da adigere), emendamento di Marullo, è anche ‘hapax legomenon’. Non esistono, infatti, altre attestazioni del sostantivo derivato da adigere. Il ms. O riporta dentibus adauctus, che non si può conservare per ragioni metriche, a differenza di Q, che legge dentis adauctus, dove adauctus è un termine già adoperato da 445

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Lucrezio, ed impiegato più frequentemente, cf. 3, 171. Il v. 1331 sarà ripreso da Verg. Aen. 10, 892 tollit se arrectum quadrupes et calcibus auras/ verberat. Il participio erecta ha lo stesso valore verbale di transversa, con il significato di “impennarsi”, “sollevarsi”. L’espressione petere ventos, che si trova per la prima volta in Lucrezio, indica il gesto da parte dei cavalli di agitare le loro zampe all’aria, una volta caduti nello scontro (cf. OLD s.v. 1d, il suo significato più vicino sembra essere “to move towards in falling”). Il v. 1332 riporta uno degli ‘incipit’ più ricorrenti del DRN, nequiquam, quoniam (cf. le occorrenze della formula soltanto nel quinto libro, 5, 388, 846, 1123, 1231, 1313, 1332). La funzione di questa formula è ancora una volta quella di evidenziare l’inutilità o il fallimento di un dato processo, storico o scientifico, che si è manifestato senza successo. In questo caso, l’insuccesso è dovuto al pessimo tentativo di adoperare gli animali selvatici in guerra, che si è rivelato controproducente e autodistruttivo. Con una forte pausa metrica, accentuata dalla cesura tritemimera in posizione di rilievo, e dalla eftemimera, il ritmo viene reso più lento, come se la scena fosse vista al ralenti. 1332-1333 ab nervis succisa … consternere casu: l’espressione succidere o incidere nervos è molto frequente, riferita in particolare ai muscoli o ai nervi, (cf. Liv. 44, 28, 14 e Verg. Aen. 10, 699). In questo caso, nervis va tradotto con “lacci, corde”, qui in particolare, il senso è quello di “garretti”. Per succisa (cf. OLD s.v. succedere 1b) cf. lo stesso uso di summissa in 1, 92 e succidit in 5, 482. Concidere e consternere, i due infiniti formati dallo stesso prefisso cum-, sono entrambi retti da 446

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videres – la seconda persona è il segno che Lucrezio si sta rivolgendo al suo interlocutore Memmio – e indicano rispettivamente un’azione in movimento, “cadere”, e una statica, “coprire”. Concidere indica l’atto in movimento della caduta dei cavalli, mentre consternere (cf. OLD s.v. consternere cf. 1b, “to cover, also poet. of falling persons or animals”, cf. Cic. Arat. 433 ille gravi moriens constravit corpore terram; Verg. Aen. 12, 543 late terram consternere tergo) va inteso nel suo significato, che spesso ricorre in contesti poetici, di coprire la terra dopo la pesante caduta, gravi … casu in iperbato. 1334-1340. Lo stupore dei primi uomini per il comportamento degli animali in guerra è la diretta conseguenza del tentativo fallito, espresso da nequiquam, nel v. 1332. La delusione deriva dalla consapevolezza dell’indomabilità delle bestie in un clima di orrore, che si manifesta nel campo di battaglia, enfatizzato da una serie di espressioni in ‘climax’, volneribus clamore fuga terrore tumultu. È difficile ricondurre gli animali ad uno stato docile e di obbedienza, in un momento in cui ormai è troppo tardi. I versi si concludono con un riferimento al presente, dato dalla formula ricorrente del procedere analogico di Lucrezio, ut nunc, con cui denuncia la condizione degli elefanti (boves lucae), atrocemente sfruttati in attività belliche. Se precedentemente ritenevano, in tempo di pace, che le belve erano state abbastanza domate, distinguevano (cernebant) con gli sguardi che esse, invece, si scatenavano (effervescere) nel pieno della battaglia. 1334 domi domitos: è una ‘figura etimologica’ (cf. gli altri esempi 3, 746 semine seminioque, 753 fera saecla ferarum, 447

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765 tenero tenerascere, cf. Snyder 1980, 104), che, insieme all’espressivo uso dell’asindeto per riflettere la confusione della battaglia nel v. 1336, mette in luce il contrasto rispetto al presumibilmente e relativamente tranquillo ruolo a cui gli animali sembrano essere stati condotti. In realtà, il tentativo di addomesticarli si rivelerà contro natura e in contrasto con l’istinto ferino proprio di ogni bestia selvatica. 1335 effervescere … agundis: in genere i verbi di percezione, tra cui cernere, sono costruiti con il participio predicativo, mentre qui la costruzione è con l’infinito, per un motivo ben preciso. L’azione è vista non nel suo svolgersi, ma come un’istantanea. Cernere non indica semplicemente il ‘vedere’ o l’‘osservare’ una situazione, ma il ‘discernere’, ‘distinguere’ (cf. OLD s.v. cerno 5; cf. EM, s.v. cerno, 115, dal gr.κρίνω, “distinguer par les sens ou par l’esprit entre differènts objects, discerner et, par affaiblissement, voir, cf. Cic. Fam. 6, 3 quem ego tam video animo quam ea quae oculis cernimus). Effervesco è un verbo che offre un’immagine metaforica, dal momento che spesso è impiegato in riferimento ai liquidi, ed indica il fuoriuscire di un liquido quando bolle e il suo conseguente spumeggiare. In senso figurato, il verbo indica l’emergere di passioni come la rabbia o l’esaltazione nel compiere una particolare azione (cf. OLD s.v effervesco, 2 cf. 3, 295 iracundaque mens facile effervescit in ira). Agundis è una forma arcaica per agendis (cf. 3, 726 quaerendum videatur et in discrimen agendum). Dal punto di vista metrico, il v. 1335 ha una sola cesura eftemimera, come accade nel v. 1215.

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1336 volneribus clamore fuga terrore tumultu: l’elenco, che occupa l’intero verso, è formato da soli sostantivi in ablativo di causa. Si tratta di un elenco in ‘accumulatio’ e in ‘climax’ ascendente, per gravità delle azioni espresse dai sostantivi, ed è uno dei diversi casi sparsi nell’opera. Dal punto di vista fonico non manca una certa insistenza della vocale u, che conferisce al verso un’immagine lugubre e di morte VolneribUs clamore fUga terrore tUmUltU, in particolare nell’ultimo termine tumultu, formato da tre sillabe dal suono più cupo. Dunque, fonicamente il v. 1336 esalta la drammaticità della scena del disastro della rovina guerresca. 1337 nec poterant … omne ferarum: gli uomini erano ormai incapaci di ricondurre nel branco le bestie che avevano tentato di addomesticare e di cui avevano perso il controllo. L’espressione che indica la frustrazione dei domatori è ullam partem redducere eorum. Gli animali fuggivano da ogni parte, cf. l’enallage nel v. 1338 diffugiebat enim varium genus omne ferarum, in cui si riconosce anche una struttura chiastica (cf. anche un verso simile, 6, 363 varia causae … omnes). La forma redducere, con lo stesso significato, si ritrova anche in 1, 228. 1338 ut nunc…dedere: L’ ‘incipit’, ut nunc, introduce un paragone analogico tra un passato remotissimo e il presente. Si tratta di una formula tipica della tecnica argomentativa analogica, adoperata da Lucrezio. La dicotomia, nelle analogie diacroniche, è nella continua opposizione tra un passato lontano dall’autore e il presente vissuto da Lucrezio, cf. Schiesaro 1990, 164. Ut nunc a inizio verso è ricorrente nel DRN (5, 803; 5, 946; 5, 1339; 5, 449

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1376), in particolare nel quinto libro. In questo verso, si stabilisce un confronto di tipo storico e il riferimento è agli elefanti, gli animali che, insieme ai cavalli, furono certamente adoperati per rafforzare gli eserciti. Viene adoperata nuovamente l’espressione di uso comune boves lucae (cf. supra; v. 1302): in un tempo passato, così come nel presente, gli elefanti fuggono spaventati dalle armi che li colpiscono violentemente (male macti). Ferro è una metonimia che indica le armi, mentre diffugiunt, in ‘enjambement’, nel v. 1340, con la presenza del prefisso de-, rende l’idea del momento di dispersione degli elefanti che scappano (cf. Plin. HN 8, 27). 1339 male macti: forma una clausola di verso allitterante e assonante; problematico conservare il tradito mactae. Il termine è molto emendato: Diels corregge mactae con inactae, e spiega il suo intervento con la verosimile presenza del verbo inigo, che alla stessa maniera di adigo (cf. v. 1330), viene impiegato per gli animali, così come Martin in victae, Bockemüller in tactae e recentemente Butterfield 2008, 167 in sectae. Secondo Salemme 2009, 162-163 mactae è da porre tra croci. Il problema è il genere del sostantivo bos. Clausen 1991, 546 ha dimostrato che Lucae boves è originariamente maschile in latino. Tuttavia, in una testimonianza di Varrone Ling. 7, 39 Luca bos è considerata una espressione femminile. Si potrebbe pensare che anche Lucrezio abbia seguito Varrone e abbia considerato bos un sostantivo femminile, ma questa ipotesi non è avvalorata dallo stesso Lucrezio che in 5, 1302 boves lucas turrito corpore, taetros considera bos un sostantivo maschile. Pertanto accolgo la congettura di Deufert macti, che risolve la questione del genere 450

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dell’aggettivo, secondo l’uso di Lucrezio (cf. Deufert 2018, 357 «statt überliefertem mactae ist daher in 1339 macti zu lesen»). Resta il problema che in luogo di mactus si trova molto più spesso la forma frequentativa mactatus. È probabile che sia connesso al frequentativo mactatus, da mactare, che è molto più comune, ma difficilmente è connesso con il rituale macte esto (Verg. Aen. 9, 641), che viene dalla radice mag-, ma è il participio dell’arcaico *maco, radice da cui deriva macer e il suo frequentativo mactare (cf. EM s.v. mactus, 376), così ritengono anche Ernout e Munro. Per quanto riguarda il significato, il ThLL VIII 24, 51 propone per l’aggettivo mactus (derivato dal participio perfetto mactatus) il significato di “ictus, percussus” (preceduto da un punto interrogativo, come sottolinea Salemme 2009, 162) – cita anche Acc. Trag. 306 – e OLD s.v. mactus2 “struck, smitten, afflicted”. 1340 fera facta suis cum multa dedere: il verso è una ripresa di 1, 288, fera facta est è imitato da Ov. Met. 3, 348 sentire canum fera facta suorum, (cf. ThlL VI 128, 16). L’ordine di questo verso è complesso, e la sua costruzione è anastrofica. Cum … dedere è una proposizione temporale, con dedere che è la forma sincopata di dederunt. Il verbo dare è usato nel senso di dare ruinas del v. 1329 (cf. OLD s.v. do 24). Q1 legge fata, che diversi editori preferiscono (Lachmann, Bernays, Brieger, Giussani), ma facta è la lezione corretta, non solo per la ripresa ovidiana, ma anche per il preciso significato idiomatico conferito da Lucrezio (cf. OLD s.v. factum 1a), cf. anche Deufert 2018, 358. 1341-1349. La più grande difficoltà della sezione è rappresentata dagli ultimi nove versi. Pur difettando di compattezza logica, 451

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appare chiaro l’intento di motivare azioni così incredibili. Si tratta di versi particolarmente complessi e difficili da conservare, tuttavia pienamente nello stile lucreziano. La mia linea è conservativa e scelgo di mantenere i vv. 1341-1349, per una serie di ragioni. Vale la pena di ripercorrere le scelte editoriali che hanno diviso la critica negli ultimi duecento anni. Lachmann, seguito anche da Bernays (e recentemente da Salemme 2009, 171) legge sic in luogo di si nel v. 1341 e, in questo modo, adotta una congettura di Marullo. Inoltre, Lachmann inverte l’ordine dei vv. 1342-3 in 1343-2, che sicuramente hanno apportato un miglioramento logico al testo, per quel che riguarda la sua intrinseca coerenza. Tuttavia, Lachmann espunge i vv. 1344-6, perché sono ad opera di un lector pholosophus, ovvero di un interpolatore (interpolator irrisor). Munro espunge i vv. 1341-6, ritenendo che Lachmann abbia ragione riguardo ai versi 1344-6, ma che i vv. 1341-3 non possano essere separati dagli altri, dunque preferisce espungerli insieme ai vv. 1344-6. Giussani espunge i nove versi per intero, ma con una certa riserva. La sua scelta potrebbe apparire piuttosto radicale, ma in realtà non lo è, poiché ritiene che l’autore sia Lucrezio e che questi versi non siano stati composti da un interpolatore. Al contrario, essi sarebbero una nota redatta in un secondo momento da Lucrezio stesso. Secondo Ernout e Robin, la conclusione di questa sezione di versi è abbastanza sconcertante: gli studiosi hanno seguito l’ipotesi formulata da Lachmann di espungere soltanto i vv. 1344-6. Diels, come Lachmann, espunge i vv. 1344-6, i versi sicuramente interpolati, e ritiene che vi sia una lacuna prima del v. 1341 che lui riempie con le parole sic miseri sero cognorunt damna ferarum. 452

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Martin traspone i vv. 1347-9 dopo 1340, ma lascia i vv. 1341-6. Housman 1928, invece, in un articolo che ha fatto storia, nonostante oggi possa sembrarci bizzarro, provò a congetturare che i versi 1341-3 e 1347-9 rappresenterebbero un commento sarcastico di Cicerone, ritenuto dal filologo inglese il primo editore di Lucrezio (ipotesi ormai del tutto superata). La Penna 1995 segue Lachmann e decide di espungere solo i vv. 1344-6, che ritiene di qualità stilisticamente mediocre. Egli crede che siano interpolati, ma ritiene che ci possa essere un’ulteriore spiegazione per quello che riguarda i vv. 1347-9. Lucrezio è tra i poeti più diseguali nello stile, vale a dire che espungere in base a valutazioni stilistiche può essere altamente rischioso. La Penna propone una soluzione piuttosto curiosa, e a mio avviso, difficile da condividere: «io terrei aperta un’altra possibilità: che 1344-6 e 1347-9 siano due redazioni diverse, due risposte diverse, date in momenti diversi, al dubbio espresso in 1341-3. Dubitando che fatti così straordinari, persino assurdi, siano avvenuti, Lucrezio in un primo momento ha aggiunto la considerazione che l’impossibilità vale per il nostro mondo, non in assoluto per tutti i mondi dell’universo; in un secondo momento ha trovato una spiegazione che rende possibili i fatti anche su questa nostra terra, con uomini feroci come quelli che conosciamo» (cf. La Penna 1995, 47-48). La Penna riprende in sostanza le conclusioni a cui era arrivato Giussani, ma a differenza di Giussani, La Penna conserva i versi, allo stesso modo di Bailey, e non sente la necessità di doverli escludere dal testo. La Penna difende la sua teoria della doppia redazione fornendo l’esempio di Mewaldt 1908, 333-45, riguardo a due casi di doppia redazione, in 4, 26-44, seconda redazione rispetto a 4, 45-53. Ma il passo del libro 5 è ovviamente molto più complesso e incerto. 453

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Il passaggio dal v. 1340 al v. 1350, che introduce un nuovo argomento (l’origine della tessitura), appare troppo brusco, ma non è un motivo valido per dubitare che questi versi siano stati un’aggiunta successiva di un interpolatore, se vediamo il problema dalla prospettiva di Deufert 1996 e 2018, 358-9. I versi finali, secondo Deufert, sarebbero in netta contraddizione con quello che è stato espresso precedentemente. L’argomentazione di Deufert sulla rimozione dei nove versi è, dunque, molto chiara: «Sowohl der in 1341-6 ausgedrückte Zweifel als auch die neue Erklärung für den Einsatz wilder Tiere in 1347-9 sind mit dem Kontext unvereinbar, widersprechen eindeutig der Argumentation des Lukrez und sind daher aus dem Text zu streichen» cf. Deufert 1996, 272. Inoltre, Deufert, conclude la sua tesi sostenendo che l’intento lucreziano si limita a spiegare la natura delle cose, sulla base di dimostrazioni, empiriche e analogiche, senza giudizi o previsioni moralistiche e catastrofiche sul futuro: «aber Lukrez ist weder geisteskrank noch der Nostradamus der Antike, sondern ein klar denkender Anhänger der epikureischen Philosophie aber Lukrez ist weder geisteskrank noch der Nostradamus der Antike, sondern ein klar denkender Anhänger der epikureischen Philosophie», Deufert 1996, 274. A favore della conservazione dei versi, cito Feeney 1978, 15-22 che afferma: «if Lucretius was capable here of making a moralising point with an assertion which he knew to be contrary to tradition and sense, then I am disposed to accept that his earnest desire to illuminate the full pitch of the belli terrores led him to write the horrific lines on the beasts in war, disregarding probability and what we, at least, know of the record. Though I agree completely with Kenney that Lucretius did not compose 454

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‘hand-to-mouth’, I do not see why we should not regard 1341-9 as the poet’s attempt to make acceptable to his audience the picture he has given them of the straits to which war will drive men». Inoltre, Kenney 1972, 22 ritrova nei vv. 1341-47 una struttura ben precisa, che chiama “periodic”: «3+3+3 verses, with responsion contrived to articulate the structure: 1341 facerent; 1344 factum; 1347 facere». Tuttavia Kenney non si esprime sull’autenticità dei complessi vv. 1344-46: «I propose to sidestep this issue and to decline to try to mediate between those like Bailey who see an appeal to isonomia and those like McKay who do not» (p. 22). Feeney, invece, mette in luce un punto cruciale del passo: perché proprio gli animali feroci sono la causa del terrore? La guerra e il ricorso alle letali armi di ferro non esercitano un potere già abbastanza deterrente? «First, it is the uncontrollability of the beasts that engrosses the poet, their completely indiscriminate and irrational attacks on any target. This is the theme with which he begins (1310ff.). Throughout the description of their actions the refrain continues (permixta caede, nullo discrimine, undique, iactabantque suos, socios caedebant apri, permixtas…ruinas) until at 1334 he returns to the idea explicitly, and enlarges upon it until 1340. Uncontrollable violence, then, which Lucretius sees as the essence of war, he best symbolises through the action of beasts». Dunque, secondo Feeney, la presenza di creature brutali e incontrollabili sulla terra è vista da Lucrezio come un segno ovvio dell’inospitalità del mondo, perché gli animali finiscono per incarnare la paura e l’irrazionalità stessa dell’uomo. Vale la pena di concentrarsi sugli animali, sulla loro irrazionalità e sulla loro libera voluntas. C’è innanzitutto da fare una distinzione tra animali domestici o addomesticabili e animali 455

Commento

selvaggi. Epicuro nomina soltanto una volta gli animali selvaggi nel Perì Phýseos 34. 25, 21-34 Arr.2 («noi non biasimiamo le bestie selvatiche, perché in esse consideriamo un tutt’uno sia i moti psichici sia la costituzione atomica»). La libera voluntas, dunque, sarebbe possibile negli animali domestici o addomesticabili, ma impensabile nelle bestie selvatiche (cf. Huby 1969, 17-19; Salemme 2009, 171). Lucrezio attribuisce agli animantibus la libera voluntas (2, 256). Nello scontro in battaglia, infatti, soltanto i cavalli e gli elefanti sembrano reagire con voluntas e obbediscono ai loro magistri, scansando le zanne o impennando. Le bestie selvagge e feroci, per natura, non possono obbedire ad una voluntas, ma seguono il loro istinto e la furia cieca. La colpa è solo degli uomini, che nell’aver adoperato gli animali feroci in guerra, non si sarebbero resi conto che essi potevano rivoltarsi contro di loro e non solo contro i nemici. Gli animali feroci come strumento di deterrenza, che avrebbe potuto generare nei nemici una paura dello scontro, finisce per avere un effetto contrario e autodistruttivo. Resta da chiedersi: è tutto vero quello che è accaduto? Si fuit ut facerent nel v. 1341 è un periodo ipotetico sospeso, che lascia un grande dubbio a tutti, in primis a Lucrezio. Infatti, il poeta stenta a credere che un simile scenario, oserei dire distopico, possa aver avuto luogo, senza che gli uomini non avessero prima immaginato e prefigurato le conseguenze di un atto così sconsiderato. Lucrezio nel respingere la possibilità che gli eventi descritti si siano mai verificati, ricorre all’ipotesi che possano essere avvenuti in un mondo diverso dal nostro. L’incoerenza sta nel fatto che nel verso successivo Lucrezio avanza un’ipotesi sul perché questi eventi sono avvenuti proprio su questa terra. È chiaro che 456

Commento

tali eventi, in una prospettiva epicurea, possono avvenire anche in altri mondi oltre che sulla nostra terra. Lucrezio fa una considerazione: si può credere ancor più che ciò sia avvenuto nei vari mondi in varia maniera creati che soltanto su un’unica e determinata terra, la nostra. Da un punto di vista puramente retorico, i versi servono in effetti a ingigantire l’orrore delle scene precedenti, la violenza autodistruttiva che Lucrezio ritiene implicita, tanto da renderli quasi incredibili; tuttavia, offrendo una motivazione riconoscibilmente umana per le azioni dei suoi guerrieri primitivi, il poeta ci ricorda che alla fine non sono molto diversi dai suoi moderni lettori (cf. Gale 2018, 70). Le parole di Salemme 2009, 174 colgono pienamente il senso di questo passo particolarmente controverso: «in altri mondi costituiti da aggregazioni forse diverse (varia ratione creatis), ma dove comunque esistano esseri pensanti che, considerata la loro follia, non possono non distruggere e distruggersi. Lucrezio, che invoca con insistenza la pace per i Romani, sembra qui proclamare, in forza di quella libertà umana assicurata dal sistema epicureo, l’inevitabilità della guerra, di fare e di farsi del male. A livello cosmico. (…) È il suo invito a spingere lo sguardo lontano perché ci si avveda che infinita è la somma delle cose, e che il nostro cielo non è che infinitesima parte del tutto (6, 647-652)».

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504

INDICI

L’indice dei passi è selettivo e riporta solo quelli discussi o particolarmente rilevanti. I testi sono citati secondo lo stile dell’Oxford Classical Dictionary (OCD). In assenza del nome dell’autore o del titolo dell’opera, seguo le abbrevizioni del ThlL per i testi latini, e del LSJ per i testi greci. In alternativa, e solo in pochi casi, l’opera è citata per intero. Nell’indice dei nomi e delle cose notevoli sono riportati solo i termini più significativi. Le parole greche sono tutte traslitterate, come nei capitoli introduttivi, a differenza del commento.

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Indice dei passi citati Anassagora 59 B 21a DK

Catullo 28-9, 45

Aristofane Ach. 628-654

73 170 66 362 170 73 221 37

Ateneo Ath. 6, 233D-E

367

Catone Agr. 139

182 276, 444

Cesare 190

Aristotele Eth. Nic. 1104b14-15 Eth. Nic. 1178b, 35 Poet. 9 Pol. 1256a- b Pol. 1263a, 25-32 Rh. 1378a 20-23 Rh. 1378a 1-5 Rh. 1410b

5, 12 62, 21

292

B Civ. 3, 93 B Gall. 1, 9, 3

179 161

Cicerone Arat. 283 Att. 2, 2, 8 Att. 2, 7 Att. 2, 32, 2 Att. 4, 1, 5 Att. 12, 4 Att. 15, 4, 2 Cael. 17, 40 Cat. 2, 5, 10 De or. 1, 9, 35 Div. 1, 3, 5 Fam. 6, 3 Fin. 1, 16, 50 Fin. 1, 46 Fin. 1, 50 Fin. 2, 9 Fin. 2, 75 Fin. 2, 91 Fin. 3, 10, 35

507

257 208 95 208 209 102 102 172 170 165 234 271, 448 194 175, 184 225 225 233 184 74

Fin. 3, 65-66 342 Fin. 4, 55 214 Leg. 1, 14, 40 225 Leg. 1, 47 155 Leg. 2, 18 212 Leg. 2, 42 210 Leg. 3, 19 212 Nat. D. 1, 2, 3 235 Nat. D. 1, 16, 43 238 Nat. D. 1, 17, 49 238 Nat. D. 1, 18, 48 233 Nat. D. 1, 19, 49 243, 264-6 Nat. D. 1, 20, 56 235, 240 Nat. D. 1, 27, 75 242 Nat. D. 1, 30, 85 240 Nat. D. 1, 39, 109 285-6 Nat. D. 1, 41, 116 235 Nat, D. 1, 42, 124 236, 287 Nat. D. 1, 43, 121 240 Nat D. 1, 43, 120-121 247 Nat. D. 1, 44, 122 247 Nat. D. 2, 3, 8 237 Nat. D. 2, 21, 54-56 36 Nat. D. 2, 56, 140 166 Off. 1, 7 170 Off. 2, 41-42 152 Off. 3, 9, 39 225 Phil. 12,10 179 Q Fr. 2, 9, 4 46 Rep. 1, 2-4 212 Rep. 1, 10-11 95 Rep. 1, 51 152 Rep. 2, 4-19 157 Rep. 2, 45 204 Rep. 3, 36 152

Sest. 57 Sest. 91 Sest. 92 Sull. 42 Top. 41 Tusc. 1, 5 Tusc. 1, 47, 133 Tusc. 3, 3 Tusc. 5, 6 Verr. 2, 5, 150 Verr. 5, 139

204 214 212 248 44 103 253 24 24 220 254

Crizia 88 B 25 DK

215, 241

Democrito 68 B 5 DK 68 A 74 DK 68 A 75 DK 68 A 111 DK 68 B 144 DK 68 A 151 DK 68 B 154 DK 68 B 245 DK 68 B 245-266 DK 68 B 283-84 DK 68 B 267 DK

152, 342 266 272 45-46 343 368 340 216 157 174 152

Dicearco fr. 49 Wehrli (= fr. 56 A Mirhady) fr. B 124 DK

508

153, 392 282

Diodoro Siculo 1, 4, 6 1, 8, 8 1, 9, 1 1, 33-35 1, 48, 1 2, 46 3, 9, 4 3, 12, 1-14 5, 13, 1-2 9, 5

Ennio 21 346 24 162 405, 427 21 168 352, 389 351 21

Diogene di Enoanda fr. 10, II, 41 fr. 12, II, 8-11

41 344

Diogene Laerzio 10, 31 10, 151 10, 33 10, 27 10, 10

73 225 238 238 240

Dionigi di Alicarnasso Ant. Rom. 1, 4, 1 1, 4-5 2, 70-72

21 287 289

Empedocle 31 B 23 DK 31 B 124 DK

47 282

Scaen. 196 V2 Ann. 27 Sk. Ann. 145 Sk. Ann. 566 Sk. Ann. 401 Sk. Ann. 611 Sk. Ann. 236 Sk. Ann. 225 Sk.

304 305 305 330 382 410-20 421 424

Epicuro Ep. Hdt. 48 Ep. Hdt. 50-1 Ep. Hdt. 75 Ep. Hdt. 76-7 Ep. Men. 123 Ep. Men. 123-4 Ep. Men. 125 Ep. Men. 129-130 Ep. Men. 130 Ep. Men. 132 Ep. Pyth. 89 RS 1 RS 6 RS 7 RS 11 RS 14 RS 16 RS 17 RS 23 RS 24 RS 31 RS 33 RS 34

509

264 270 342, 354 270 281 232, 238, 270 81 175 176 196 233 261, 265, 270 175 80, 155, 176 93 170 169 218 191 191 194 220-1 219

RS 34 RS 35 Sent. Vat. 7 Sent. Vat. 44 fr. 353 Us. fr. 384 Us. fr. 476 Us. fr. 532 Us.

225 196, 222 225 174 243 299 174 225

Erodoto 2, 142, 2-3 7, 144-5

24 323

Filodemo Piet. col. 31, 877-896

237

Gorgia 82 B 11a, 6 DK

152

Isidoro Orig. 1, 36, 13 Orig. 10, 1, 270 Orig. 15, 2, 32 Orig. 16, 20, 1 Orig. 18, 9, 5

278 420 166 380 166

Eschilo Ag. 183 Ag. 750 ss.

223 223

Esiodo Op. 106-201 Op. 143-155 Op. 256 ss. Op. 265-66 Theog. 521-616 Theog. 664-733 Theog. 902 Theog. 820-868 Theog. 821-880

345 397-8 223 220 161 245 223 245 181

inst. 6, 10 Ira 10, 28 opif. 6, 1

165 234 99

Livio Praef. 1 1, 49 1, 59-60 21, 6, 1 34, 4, 8 37, 40, 4 45, 19, 10

22 204 193, 200 397 171 435 205

Luciano di Samosata

Euripide Hipp. 45-47

Lattanzio

223

Bis Acc. 2

510

236

Lucrezio 1, 44-49 1, 62-71 1, 84-109 1, 132-33 1, 897-903 1, 1102-14 2, 1-13 2, 7 2, 12-13 2, 37-54 2, 44-46 2, 626 2, 646-51 2, 1070-76 2, 1084-89 2, 1091 2, 1094 3, 28-30 3, 36-39 3, 59-86 3, 79-82 3, 136-151 3, 642-56 3, 824-7 3, 830-69 3, 957-962 3, 996 3, 998 3, 1014-22 3, 1018

231 244, 307 244 226 366 245 91-92 269 178 321 269 179 231 373 188 216 177 303 269 80, 180 81 74-5, 208 415 226 268 84 334 178 196 220

4, 379-468 4, 548 4, 722-822 4, 1156 5, 1-2 5, 43-54 5, 146-155 5, 148-9 5, 222-7 5, 222-234 5, 326 5, 332-334 5, 714 5, 830-6 5, 990-3 5, 999-1001 5, 1019-27 5, 1091-1104 5, 1096-1104 5, 1440-1447 5, 1445 5, 1448-57 5, 1412-25 6, 66-67 6, 68-78 6, 680-93

37 206 243 164 161 64-65 240, 274 243 94 407 42 60 179 387 442 406 195 162, 344 29 38-40 24 61 62-63 243 231, 293 245

Nonio 149, 10 M.

511

326

Omero Il. 1, 263 Il. 2, 308-332 Il. 2, 480 Il. 12, 200-209 Od. 11, 593-600 Od. 15, 160

Platone 163 45 168 45 86, 178 45

Orazio Carm. 1, 31 Carm. 1, 9 Carm. 2, 16, 1-4 Carm. 1, 35, 39 Carm. 1, 38 Carm. 2, 16 Carm. 3, 1 Epist. 1, 1 Epist. 1, 1, 80-98 Epist. 1, 10, 39 Epist. 1, 8, 11-12 Epist. 1, 11, 25-31 Epist. 1, 16, 57 ss. Epist. 2, 1, 102 Sat. 1, 3, 99-119 Sat. 1, 3, 111-7 Sat. 2, 2, 1

175 218 93 383 174 174, 321 174 184 95 174 95 95, 175 287 328-9 214 199-200 174

Grg. 483c-d Hp. Mai. 285d Lg. 631b-d Lg. 680e-681d Phd. 109a-114d Phdr. 274b -275d Prt. 324b Resp. 347b-e Resp. 415a Resp. 417a-b Resp. 465c-d Resp. 545e Resp. 614b-621c Thaet. 153c Tim. 22c

152 21 205 152 245 24 221 170 170 170 170 386 245 327 24

Plauto Amph. 553 As. 375 Aul. 187 Bacch. 469 Merc. 146 Most. 730 Pseud. 683-84 Rud. 402 Truc. 795

190 175 175 190 269 214 320 175 224

Ovidio Am. 1, 15 Met. 1, 89 ss. Rem. am. 369 Tr. 5, 14, 3

103 170 182 177

Plinio il Vecchio HN 8, 16 HN 28, 10-11

512

421 287

Plutarco adv. Colot. 30, 1124d Num. 14, 6-7

Quintiliano 197 289

Polibio 5, 11, 6 6, 5, 5 6, 5, 7-9 6, 5, 8-9 6, 5, 10 6, 5, 7-12 6, 7, 1 6, 7, 6-8 6, 7, 6-9 6, 8 6, 56, 11 6, 57, 1 18, 15 23, 10

204 341 168 168 158 154 152 154 155, 169 208 215 386 226 226

367 341

Properzio 4, 10

45 232

Sallustio

Posidonio frr. 239-40 a-b EK fr. 264 EK

Inst. 1, 6, 4 Inst. 7, 3, 5

193

Cat. 2, 1 Cat. 2, 3-6 Cat. 2, 4-6 Cat. 4, 2 Cat. 10, 3-5 Cat. 15, 4 Cat. 37, 1 Cat. 52 Iug. 89 Hist. 1, 55, 3 Hist. 1, 77, 8

164 156, 176 156 22 156, 169 226 161 179 179 203 203

Seneca Ben. 2, 26, 1 Ben. 7, 3, 2 brev. 2, 2 Ep. 2, 5 Ep. 4, 10 Ep. 52, 1 Ep. 65, 24 Ep. 67, 14 Ep. 80, 10

513

254 322-3 95 176 174 95 152 327 205

Ep. 90, 3-5 Ep. 90, 3-6 Ep. 90, 4 Ep. 90, 4-6 Ep. 90, 4-13 Ep. 90, 5 Ep. 90, 6 Ep. 90, 7-12 Ep. 90, 7-35 Ep. 90, 12 Ep. 90, 37 Ep. 97, 15 Ep. 97, 13 ot. 1, 2-3 ot. 1, 2-3 tranq. 14, 1

153, 165 154 163 199 163 160, 341 69, 155, 204 341 371 353, 367 170 199 225 95 95 95

Senofonte [Ath. Pol.] 6-7 Cyr. 6, 2, 17 Mem. 4, 3, 7 Oec. 5, 6

190 416 346 362

Silio Italico 4, 598-621 14, 314 ss.

425 279

Stazio Theb. 3, 255-6

327

Tacito Ann. 3, 26

170

Terenzio Ad. 71 Andr. 871

224 269

Tertulliano Adv. Marc. 3, 212 Apol. 47

296 234

Tibullo 1, 9 , 27

226

Tucidide 1, 4, 1 1, 5, 3 1, 6, 2 1, 8, 2-4 1, 73 2, 77, 4 3, 82-84

514

42 25 25 42 28 29 34

5, 105, 2 6, 46, 3 6, 54

152 381 203

Varrone Ling. 5, 90 Ling. 5, 143 Ling. 5, 151 Ling. 7, 6 Ling. 7, 39 Ling. 6, 45 Ling. 6, 48

Vitruvio De arch. 2, 1-3 De arch. 2, 2-3 De arch. 2, 33, 16-23

167 166 166 304 421, 450 255 207

Virgilio Aen. 1, 42 ss. Aen. 1, 359 Aen. 2, 74 Aen. 4, 687 Aen. 6, 851 Aen. 6, 819 Aen. 7, 138 Aen. 8, 330 Aen. 9, 331 Ecl. 9, 43 G. 1, 471-74 G. 2, 532 G. 2, 449-50

279 352 173 206 184 334 277 263 206 184 245 214 377

515

162 163 353

Indice dei nomi e delle parole notevoli A

Anassagora

27, 28, 29, 30, 45, 55

aísthesis

76

akoaí

42

Anassimandro

27

algedón

75

anguimanus

66, 417, 421, 425

allitterazione

159, 165, 167, 168, 174, 178, 183, 184, 205, 218, 220, 250, 252, 257, 263, 269, 271, 279, 284, 290, 295, 296, 316, 323, 334, 350, 355, 360, 365, 366, 369, 374, 377, 378, 380, 385, 389, 398, 423, 430, 437, 440, 443, 450

animae secundae

328-29

animus

74, 78, 164, 175, 208, 263, 315, 373, 437, 438

animus aequus

95, 175

Annibale

325, 336, 420, 422

antanaplérosis

264

57, 58, 72, 73, 78, 81-3, 91, 140, 151, 155, 157, 169, 175, 176, 180, 184, 186, 206, 268, 269, 284, 285, 385, 406

anthrópinon (tò)

20, 32, 33

aponía

75

archaiología

21, 22, 24, 40

ambizione

anafora analogia

181, 248, 273, 276, 319 20, 25, 26, 30, 31, 34, 36, 37, 38, 39, 44, 45, 46, 47, 49, 89, 249, 330, 343, 367, 373, 375, 378, 431, 442, 446

archaiologhía romaiké

21

archaiologhía ioudaiké

21

arché

20

Aristocle

76, 343

Aristippo

76

Aristofane

51

Aristotele

30, 31, 37, 52,

516

73, 84, 85, 88, 170, 199, 343, 361, 362 arma

135, 375, 384, 392-3

Cartagine

324, 337, 403, 417, 418, 420, 422, 428

Catullo

92, 100, 102, 189 276, 365

aspháleia

57, 91

ataraxía

75, 76, 87, 224, 237, 299

Cesare, Gaio Giulio

46, 64, 233, 234, 240, 261, 262, 265, 266, 270, 305, 311, 332, 333, 335, 369, 373, 381, 429, 456

chiasmo

165, 275, 283, 304, 360, 387, 400, 432, 449

Cibele

252, 435-6

Cicerone

24, 46, 74, 82, 100, 101, 102, 103, 118, 154, 157, 170, 174, 204, 214, 215, 233, 234, 235, 236, 237, 238, 241, 259, 285, 287, 299, 301, 307, 327, 405, 422, 453

Cirenaici

76, 178

civilizzazione

27, 51, 55, 60, 72, 340, 409

coercitio

210

atomi

Attico, Tito Pomponio

102

chará

B Belidi

86, 225

boves lucae

66, 417, 419, 421, 447,450

Bracciolini, Poggio 109, 110, 121,122 C

180, 327

75

cacumen

61, 62, 65

concilia

64, 89, 264

capite velato

290-292

conculcare

207

Corcira

34

cosmologia

54, 71, 307, 332

carmen perpetuum Caronda

119

199, 204

517

Cotta, Gaio

234, 235, 236, 242 286

343, 344, 353, 354, 367, 378, 389, 405

Crasso, Marco Licinio 100, 431, 172

Diogene di Enoanda 55, 95, 342, 354

creare magistratum

Diogene Laerzio

209-211

75, 259

Crizia

24, 215, 241, 274

divitiae

82, 169, 174

cruor

206, 363, 419

Dungal

105, 106

discordia

423-6

D deisidaimonía delubra Democrito

desideri

determinismo

85, 281

E

257, 258, 293, 294, 296, 297

Ecateo

24, 27, 343

eídola

243, 261

45, 51, 52, 53, 54, 81, 153, 154, 164, 174, 196, 232, 272, 300, 311, 316, 340, 343, 344, 345, 354, 361-2, 368-72.

elefanti

66, 143, 324-6, 329, 394, 403, 404, 405, 411, 414, 417, 418, 420, 422, 425-8 435, 447, 450, 456

Empedocle

36, 37, 45, 46, 47, 48, 55, 282, 309, 333, 423

enjambement

160, 163, 203, 249, 257, 273, 283, 297, 304, 316, 359, 363, 366, 389, 399, 450

Ennio

82, 185, 256, 305, 323, 326, 389, 396, 419-21, 424-5

56, 59, 66, 68, 72, 73, 79, 80-4, 85-6, 87, 90, 91, 95, 174, 175, 177, 188, 218, 219, 220, 359, 364, 388, 408 67, 311

Dicearco

52, 53, 153, 361, 370, 378, 393

Diodoro

21, 24, 53, 153, 154,

518

Ercole

64, 66, 90, 249, 393, 422

Ermarco

55, 196, 197, 198, 216

Erodoto

24, 27, 42, 190, 226

Eschilo

51, 215, 223, 226, 244

Esiodo

51, 153, 154, 162, 181, 182, 183, 223, 245, 345, 378, 379, 392, 397, 400, 401

F faex

208-9

fasces

325, 334

Filodemo

55, 60, 103, 180, 219, 237, 274, 286

finitimi

58, 197, 198

Flaminino, Tito Quinzio 324 foedus, foedera 58, 94, 194, 221 formido

77, 208, 314-5, 358

fortuna

78, 141, 151, 156, 169, 177, 268

età del bronzo

345, 348, 393, 395, 397, 412

G

età del ferro

182, 346, 391, 393, 400, 401

galéne

76, 222

età dell’oro

20, 50, 153, 154, 345, 379, 395

genere umano

eudaimonía

75, 89, 90, 262, 267, 283

22, 69, 72, 140, 155 165, 194, 198, 214, 244, 260, 302, 344, 347, 354, 357, 368, 410

eusébeia

281, 287

evoluzionismo

22, 31, 36, 51, 53, 64, 155, 157, 198, 209, 340, 363, 372, 383, 406, 428, 429

Eraclito

45, 55

Galland, Pierre 107

genus humanum Girolamo H

213, 222 99, 100, 101, 103, 104, 118, 119

hapax legomenon

207, 209, 445

Heinsius, Niklaas

106

519

honos

171, 202, 203, 206

K

horror

76, 230, 244, 245, 247, 248, 254, 255, 256, 269, 314, 358, 426

katastáseis

76

kataphrόnesis

82

kénos

78

Kulturgeschichte

21-31, 55, 153-4 341-54, 361, 392, 405, 427, 442

I Ifigenia

244, 249, 250, 269, 297

imperium

62, 86, 156, 179, 202, 203, 209, 210, 334

L

inanis

86, 179

induperator

92, 323, 330

intermundia

232, 233, 262, 274

invidia

isonomía

56, 72, 73, 78, 86, 139, 151, 155, 180, 181, 182, 183, 184, 231, 240, 268, 285, 385, 406 51, 88, 89, 285, 333, 340, 357, 398, 423, 455

Itali codices mss. 109-114, 121-2 167, 309, 355, 401 iura

195, 201, 209, 211, 212, 216, 258, 297

Lambin, Denys

107, 111, 275, 279, 312, 370, 381

Lachmann, Karl

107-16, 161, 168, 181, 228, 275, 320, 326, 356, 370, 376, 382, 404, 419, 435, 443, 451-3

lex, leges

209, 211-214, 216, 387 199, 204

Licurgo M mactare

296, 297, 451

makariόtes

268

makarismόs

282

Manilio

37, 110, 375

Marcellino

28

Marte

88, 90, 145, 288, 403, 422

520

Marullo, Michele

Memmio

179, 189, 228, 320, 350, 376-7, 394, 445, 452 63, 91, 101, 144, 185, 339, 390-2, 429, 447

mens

77, 169, 207, 220, 438, 443

metallurgia

342, 345, 360, 367, 368, 378

metus

74, 77, 85, 86, 207, 208, 209, 215, 218, 219, 225, 226, 269, 314

Minosse

42, 44

murmur

237, 279, 315-7

N Navagero, Andrea nequiquam

159, 160 86, 178, 179, 185, 298, 330, 380, 433, 444, 446, 447

Niccoli, Niccolò 110 noctivagus

276, 277

nox

275, 276, 278, 424

O Omero

42, 43, 45, 51, 245, 250, 294, 393

onomatopea

279, 316, 317

Orazio

82, 95, 103, 169, 174, 175, 184, 199, 200, 214, 215, 326, 328, 329, 352

otium

92, 93

P palaioì nomothétai

197

pandere palmas

295-6

Panezio

69, 152

Parmenide

45

pathos paura della morte paura degli dèi paura delle punizioni

73, 76, 244 67, 76, 78-89, 243 76, 78-89, 230-339 218-229

pavor

77, 314, 319

pax

76, 293, 326, 327, 329, 330, 364

521

pax deorum

293, 325

Pompeo, Gneo

pectus

269, 308, 437, 438

Pontano, Giovanni

perfugium

94, 165, 167, 243, 268, 273, 275

Porfirio

320-1 55, 197, 198

Posidonio

53, 56, 60, 152, 154, 163, 165, 170, 198, 199, 204, 341, 342-5, 353-4, 367, 368, 371, 378

potere

35, 52, 57, 58, 62, 78, 80, 82, 86, 91, 139, 155, 156, 157, 158, 164, 169, 170, 175, 176, 177, 180, 184, 188, 192, 195, 203, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 223, 285, 311, 318, 319, 322, 325, 335

Peripatetici

37, 52, 54, 76, 153, 343

phόbos

209

phrόnesis

196-7

pietas

230, 234, 235, 236, 237, 239, 240, 241, 281, 285, 287, 288, 290, 292, 294, 298, 302

Pirro

324-5, 417, 418, 420

Platone

21, 24, 37, 84, 85, 152, 157, 170, 199, 205, 221, 223, 245, 343, 361, 362, 386

potestas

Plutarco Polibio poliptoto

100, 213, 217

210, 307, 311, 324, 352

primitivismo

51, 60, 68

praeterea

270, 314

155, 197, 234

Priamel

92

25, 152-4, 169, 341, 386, 387

Probo, Marco Valerio 99, 104, 118-9 procumbere

294

276, 284, 298, 313 326, 388, 389, 414

progresso

22, 31, 50-71, 155, 159, 160, 163, 190, 191, 198, 199, 280, 341, 342, 342, 346, 353, 359, 368, 383,

522

400, 406, 409, 411, 414, 416, 428, 429 prόlepsis

73, 238, 259, 272-5

Prometeo

51, 161, 319

provvidenzialismo 52, 272, 333, 404 Pulcro, Appio Claudio

334

Pulcro, Publio Clodio

334

res humanae

321, 333

res novae

70, 160, 161

res publica

83, 192, 194, 334

rex, reges

153, 163-5, 168, 199, 201, 202, 203, 204, 214, 315, 318-9

ricchezza

78-9, 80, 91, 139, 151, 156, 169, 170, 171, 172, 173, 174, 175, 176, 177, 180, 183, 187, 213, 187, 213, 223, 252, 254, 395

Q quandoquidem

187-9

Quintiliano

326

ripetizione

159, 213, 217, 246, 250, 251, 253, 254, 267, 268, 277, 301, 306, 312, 313, 316, 349, 352, 415, 417, 423

R ratio

ratio vera

38-41, 67, 174, 212, 246, 258, 271, 323, 336, 343, 344, 353 358, 368, 371, 372, 390, 457 64, 78, 156, 173, 191, 234, 243, 280, 285, 331, 333

Regolo, Marco Attilio religio

324

158, 231, 235-7, 244, 281, 284, 307, 333

res gestae populi Romani 22

S sacra

249-254, 296

saeculum, saecla saevus Sallustio sanguis

261-3, 337 255, 409, 430, 432

46, 82, 156, 176, 326 206, 419

sanguine sudent 82, 184-5 sapientes

523

56, 69, 153, 163, 198, 199, 341, 343, 344, 353, 358, 367, 368

sapientia

stásis

199, 341-2, 353, 371

Saufeio, Lucio

27, 102

sceptrum

204

Schedae Gottorpienses 108, 109, 111, 112, 123 Scipione (Africano)

325

semêion, semêia

22, 25, 41

Seneca

53, 82, 94, 95, 153, 154, 160, 163, 165, 170, 174, 198, 199, 204, 206, 314, 328, 341, 343, 344, 346, 353-4, 358, 365, 371, 378, 411, 420, 432

34, 157, 158

Stoici, stoicismo

36, 37, 54, 69, 170, 199, 200, 272, 342, 358, 368

supplicatio

292

Svetonio

104, 119

T Tantalo

85, 225, 319

Tarquinio il Superbo 158, 200, 204, 207, 318 Tartaro

139, 151, 181, 183

Senofane

45

teichoskopía

93, 94

signa severa

277

tekmérion, tekméria

27, 31, 42

simulacrum

233, 238-243, 264, 290-4, 296, 299, 326, 373

tempesta

Sisifo

85-6, 178, 181, 215, 225, 241, 274

templa caelestia

304

templa serena

92-4, 268

86, 141, 185, 225-7, 230, 233, 242, 262, 269, 305, 332, 373

Teofrasto

345

sogno

Solone

terror

24, 199, 204

524

76, 91, 92, 231, 256, 276, 321, 323, 325, 329

76, 77, 78, 80, 85, 207, 208, 218, 225, 256, 262, 269, 276, 315, 358, 426, 434

Tifeo

181, 183

timor

77, 85, 208, 268-9, 319

Tizio

Virgilio

85, 225

Tournebou, Adrien de

107, 112

100, 103, 104, 118, 189, 245, 330, 348, 352, 374, 375, 420, 422, 434

vis abdita

88, 93, 321, 332, 333

Troia

24, 42, 43, 44

vita prior

56, 58, 59

Tucidide

21, 25-44, 157, 223

voluptas

63, 88, 92, 190, 255

turba

208

Voss, codices Vossiani

Tzetzes

51, 154, 378

vulnera

V Varrone

103, 166, 255, 257, 304, 327, 374, 438, 450, 451

Velleio, Gaio

234, 235, 236, 244, 259, 266, 286

Venere

66, 87-8, 423, 436

vestigia violenza

105-7, 117, 121-123

285, 285, 286, 384, 398, 400, 419, 422 425

Z Zaleuco

199, 204

Zenone

345

zeugma

203

31, 38-9, 41, 371 58, 66, 67, 72, 73, 78-90, 140, 153, 157, 182, 192, 194, 195, 197, 213, 215, 216, 219, 241, 310, 316, 318, 330, 331, 380, 394, 403-4, 409, 410, 430, 432, 433, 457

525

526

527