Commento a Lucrezio, De rerum natura, libro V 1-280 8862275692, 9788862275699

Il volume pubblica, con un ricco apparato di indici e un'ampia bibliografia, la prima parte di un puntuale ed estes

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Commento a Lucrezio, De rerum natura, libro V 1-280
 8862275692, 9788862275699

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AION ANNALI

DELL'UNIVERSITÀ

DEGLI

STUDI

DI NAPOLI

«L'ORIENTALE»

DIPARTIMENTO ASIA AFRICA E MEDITERRANEO SEZIONE DI LETTERATURA E FILOLOGIA CLASSICA

QUADERNI

COMMENTO

A LUCREZIO

DE RERUM LIBRO

FABRIZIO

NATURA V

GIORGIO

PISA

- 17.

1-280

JACKSON

- ROMA SERRA MMXIII

EDITORE

AION ANNALI

DELL'UNIVERSITÀ

DEGLI

STUDI

DI NAPOLI

«L'ORIENTALE»

DIPARTIMENTO ASIA AFRICA E MEDITERRANEO SEZIONE DI LETTERATURA E FILOLOGIA CLASSICA

QUADERNI

- 17.

ANNALI

DELL'UNIVERSITÀ

DEGLI

STUDI

DI NAPOLI

“L'ORIENTALE” DIPARTIMENTO

ASIA

AFRICA

E MEDITERRANEO

Sezione di letteratura e filologia classica

AION (filo!) Direttore responsabile AMNERIS ROSELLI Comitato scientifico DAGMAR

BARTONKOVA

* ALBIO

CESARE

CASSIO

: GIOVANNI

CERRI

JACQUES JOUANNA Comitato di redazione

GIORGIO JACKSON - LUIGIA MELILLO : LUIGI MUNZI RICCARDO

PALMISCIANO

: ROBERTO

VELARDI

Registrato al n. 2926 del Registro periodici del Tribunale di Napoli ai sensi del D.L. 8-2-1948 n. 47. I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo (compresi microfilms, microfiches e riproduzioni fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. I volumi degli Annali possono essere richiesti in scambio da altre Università o istituzioni culturali rivolgendosi all'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale", Dipartimento Asia Africa e Mediterraneo, Palazzo Corigliano, Piazza S. Domenico Maggiore, 80134 Napoli, tel. 081 6909712, fax 081 6909631. Manoscritti e contributi per la pubblicazione dovranno essere inviati allo stesso indirizzo oppure a [email protected].

ww w.iuo.it/dipmcma /pubblicazioni *

ISSN 1128-7209 ISBN ISBN

978-88-6227-569-9

ELETTRONICO

© 2013 BY UNIVERSITÀ

DEGLI

978-88-6227-570-5

STUDI DI NAPOLI

"L'ORIENTALE"

COMMENTO

A LUCREZIO

DE RERUM LIBRO

V

GIORGIO

PISA FABRIZIO

NATURA 1-280

JACKSON

- ROMA SERRA MMXIII

EDITORE

Volume pubblicato con il contributo dei Fondi dell'Unità di Ricerca dell'Università di Napoli ‘L'Orientale’, Dipartimento Asia Africa e Mediterraneo. *

Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l'adattamento,

anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc.,

senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore®, Pisa - Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. *

Proprietà riservata - All rights reserved UFFICI DI Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050 542332, fax + 39 050574888, fse(a)libraweb.net Urrici DI Roma:

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SOMMARIO Prefazione Introduzione Abbreviazioni e riferimenti bibliografici Commento Indice analitico (selettivo)

283

Indice dei nomi

287

PREFAZIONE 1 pubblica la prima parte di un commentario al v libro del De rerum natura, vv. 1-280, la cui stesura definitiva, iniziata qualche anno fa, è sulla strada del

completamento almeno per le prime due sezioni, vv. 1-508. Il commento al proemio, ai primi 54 versi, ha visto la luce tra 2011 e 2012, in due fascicoli della Rivista

“Vichiana”, ed è stato per questa edizione modificato e aggiornato (per quanto mi è stato possibile). Desidero

qui ricordare con affetto colui che mi stimolò, in anni lontani,

ad

intraprendere questa ricerca, Domenico Tomasco, amico carissimo e indimenticabile. Ringrazio per la loro generosa disponibilità e sicura competenza Enrico Flores ed Amneris Roselli, prodighi di validi suggerimenti e di preziose osserva-

zioni.

INTRODUZIONE CENNI

BIOGRAFICI

lee è nato all'inizio del 1 sec. a.C. e morto verso la metà degli anni 50, al più tardi nel 49 a.C.; quindi secondo alcuni studiosi l'intervallo temporale sarebbe 96-53, secondo altri 98-55 (cfr. Von Albrecht 1995, 283 n. 488), o ancora 93-50/ 49 (Piazzi 2011, 52): l'Oxoniense Gregory O. Hutchinson (2001, 150 ss.) ar-

riva a postulare una data post 49 a.C. La rilevanza e la gravità degli avvenimenti contemporanei (guerra civile tra Mario e Silla, proscrizioni, congiura di Catilina, Cesare in Gallia, ecc.) lascia la sua impronta sull’opera lucreziana: essa inizia con una preghiera per la pace e termina con la cupa descrizione tucididea della peste. Poiché i vincoli dell'antica società romana si allentano e il singolo ha tutte le strade aperte davanti a sé, sembra giunto il momento di una dottrina il cui messaggio di liberazione può essere compreso a Roma per la prima volta (Von Albrecht 1995, 284). Lucrezio si converte alla filosofia, mentre Catullo con la stessa

mancanza di riserve, e con le medesime possibilità, sceglie l'amore (ovvero la poesia raffinata e dotta), Cesare il potere assoluto, Nigidio Figulo il misticismo. Lucrezio non è solo in questa sua decisione: gli tengono compagnia il finanziere Attico, Filodemo, Memmio, Pisone, il suocero di Cesare, politici come Manlio Torquato, lo stesso Cesare e Cassio (Von Albrecht 1995, 284). Lucrezio non fu un

isolato, ma piuttosto membro

di quella cerchia di epicurei che presto si schie-

reranno col dittatore; il ‘confessore’ di Pisone, Filodemo, si porrà al servizio di

quest’ultimo scrivendo un trattato Sul buon re secondo Omero. Il proemio lucrezia-

no, composto per ultimo, fa risuonare con Aeneadum genetrix una nota profetica, sviluppata poi da Virgilio. Nulla di certo si sa sulla vita privata di Lucrezio: qualche studioso ha ipotizzato che il poeta fosse campano e discepolo di Filodemo (cfr. ad es. Della Valle 1935, 267-9), altri hanno supposto invece che fosse originario

dell'Italia settentrionale o ancora di Roma e/o del Lazio (su queste ed altre ipotesi cfr. il recente contributo di Holford-Strevens 2002, 17-23). L'opera perviene nel 54 nelle mani di Cicerone (Q. fr. 2.10.4) al quale, per questo motivo, é stato attribuito, almeno fin da Girolamo, il ruolo di correttore o addirit-

tura di editore del De rerum natura; ma l Arpinate probabilmente si limitó a dare una copia del testo ad Attico per la riproduzione (cfr. Von Albrecht 1995, 285 e n. 490; D'Anna 1998, 64-8; Flores 2012, 254). Molti ritengono che i libri 1, 2 e 5, nei

quali Lucrezio si rivolge a Memmio, siano piü antichi dei libri 6, 4 e 3; ma nulla di sicuro e definitivo si puó dire, mentre non esistono dubbi sull'incompiutezza dell'opera nel suo complesso (Von Albrecht 1995, 285 e n. 494). FONTI,

MODELLI

Lucrezio si dichiara seguace di Epicuro, ed esistono numerosi contatti di contenuto con gli scritti del maestro e col modello di questo, Democrito (v-1v a.C.).

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GIORGIO JACKSON

Lucrezio avrà inoltre conosciuto opere perdute di epicurei più recenti; poteva però attingere anche ad altre scuole filosofiche, quando certe concezioni sono in contrasto con la dottrina epicurea: la seconda ipotesi sarà da preferire (Von Albrecht 1995, 289).

Lucrezio ebbe un notevole interesse per la medicina, come Empedocle (la ricerca della spiegazione fisica dei fenomeni naturali portava a tale interesse); un

discepolo di Epicuro, Ermarco di Mitilene, πὶ a.C. (niente è pervenuto se non titoli e frammenti papiracei o citazioni), scrisse su Empedocle ben 22 libri. Lucrezio trovava in Tucidide una descrizione medica esatta della peste di Atene. Inoltre studi recenti mostrano impressionanti corrispondenze col medico Asclepiade di Bitinia, che si stabilì a Roma poco prima del 91 a.C., e Lucrezio potrebbe averlo incontrato: a lui è debitore della spiegazione corpuscolare delle malattie (4.664-71), della dottrina della nutrizione (6.946-7 e 1.859-66), e di diverse altre considerazioni (Von Albrecht 1995, 290 e n. 498).

Come poema didascalico il De rerum natura si colloca nella tradizione di un

genere poetico che risale ad Esiodo (vin-vi a.C.) e ai Presocratici. La scelta della forma metrica non è ovvia, se si pensi al discordante atteggiamento degli epicurei

verso le belle lettere. Agli occhi dei lettori romani una materia di ampie dimensioni richiedeva dignità di forma. La poesia didascalica ellenistica, che spesso si dedicava a temi insignificanti, come cosmetici o veleni dei rettili, può aver influito parzialmente su Lucrezio, anche se Callimaco è presente spesso, e l'inno a Venere iniziale è confrontabile con l'inno a Zeus che apre i Fenomeni di Arato (Von Albrecht 1995, 290). Ma ben presenti come modelli sono certamente Parmenide

(v sec. a.C.) ed Empedocle (v a.C.), i quali esposero la loro materia nel metro ‘epico. Il titolo De rerum natura è latinizzazione di ΠΠερὶ φύσεως; Lucrezio, persuaso

di avere cose importanti da comunicare ai suoi lettori, sceglie una forma stilistica elevata, che in certi punti eleva ancor più attraverso elementi innici, ad es. l'inno omerico ad Afrodite (1.1-61, Von Albrecht 1995, 291). Per quanto riguarda in par-

ticolare la lingua il modello è rappresentato da Ennio, il fondatore della poesia

esametrica romana. Peculiare è poi l'accostamento dello stile elevato e della predica filosofica popolare, la diatriba; questo genere subletterario che si fa risalire a Bione di Boristene (mt a.C.) privilegia moduli espressivi coloriti ed elementi di dialogo fittizio. Su tutto ciò Von Albrecht 1995, 291 e nn. Lucrezio infine conosceva anche la tragedia,

la commedia e l'epigramma. TECNICA

LETTERARIA

Ogni libro è accuratamente modellato in ogni sua parte; l'ordinamento del materiale e degli argomenti, come pure la scelta delle immagini, è opera personale di Lucrezio. Nel quinto libro, che cerca di combinare i risultati della scienza con la filosofia di Epicuro, si realizza un'impresa letteraria particolarmente difficile.

Ogni libro ha un proemio, tranne il rv; tali proemi sono solenni, spesso dal tono religioso (1.1-61; 5.1-54); il lettore deve essere preparato a ricevere un mes-

INTRODUZIONE

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saggio sublime, destinato a cambiare la sua vita. Ai proemi si unisce la propositio, spesso ampliata da excursus, per annunciare il tema. L'esposizione scientifica è alleggerita anche da passaggi di carattere diatribico. L'unione di stile diatribico e di dignità epica fa di Lucrezio un precursore della satira “tragica” di Giovenale. In tali parti vengono ampiamente impiegati gli strumenti retorici. Lunghe parti del v libro danno al lettore una tale impressione di vividezza quale solo di rado la fantascienza riesce a creare, euidentia (cfr. anche Von Albrecht 1995, 293). Proemi e finali di libro sono correlati tra loro, non mancano richiami dall'uno

all'altro; da evidenziare ancora la tecnica della conclusione per analogia, in particolare dal grande al piccolo e dal visibile all'invisibile; ma notevole é anche la "dimostrazione apagogica” (per assurdo = allontanare dalla retta via, distogliere,

απο-αΎΩ), che mostra come dall'ammissione della tesi contraria risultino conseguenze prive di senso. A volte Lucrezio riesce perfino umoristico (Von Albrecht 1995, 294). LINGUA

E STILE (CENNI)

Lingua e stile sono in primo luogo al servizio del contenuto. Come creatore di parole, sulla scia dei poeti arcaici, in particolare di Ennio, il poeta introduce astratti in -men, avverbi in -tim e in -ter, aggettivi composti in -fer e -ger, nomi in -cola e —gena, tra l’altro; come maestro di calchi linguistici, ad esempio primordia rerum, rerum natura, Lucrezio può essere paragonato solo a Cicerone o ad Ovidio. La chiarezza, in accordo con i principi epicurei, è il principale obiettivo stilistico. Ritmo e suono si conformano strettamente alla comunicazione; i giochi di parole hanno significati profondi: nella legna, lignis, è nascosto il fuoco, ignis (1.901, cfr. anche Von Albrecht 1995, 295). Nella lingua di Lucrezio la moderna pe-

rizia artistica dell'ellenismo e la tradizione latina arcaica si fondono in una nuova inscindibile unità. Innovazione sintattica che emerge contemporaneamente in Lucrezio e Catullo è per esempio il cd. accusativo alla greca. Effetto di arcaismo deriva dal fatto che l'architettura verbale dei versi di Cicerone e degli augustei trova scarse corrispondenze in Lucrezio. Come in Ennio più di un aggettivo può riferirsi ad un

sostantivo; un'impressione di latino arcaico è prodotta anche dai lunghi periodi che si estendono per parecchi versi. Questo tratto stilistico del resto è dovuto e legato al contenuto “prosaico”, argomentativo, al quale corrisponde una quantità

di particelle connettive difficilmente riscontrabile in poesia. Una dimensione aulica è sottolineata dalla presenza di spondei, inseriti ponderatamente, che di per sé sono elemento del σεμνόν, ‘solennità’. La predilezione di Lucrezio per il dattilo puro nel primo piede farà scuola (cfr. Von Albrecht 1995, 295 nn. 510 e 511); la sua

diligenza nel trattamento del quarto piede prepara la tecnica virgiliana (su alcune particolarità prosodiche, metriche e stilistiche cfr. l’Indice analitico). Molti degli ar-

caismi lucreziani sono in realtà dovuti all'influsso della lingua d'uso o quotidiana, che di per sé tende ad essere per lo più conservativa (cfr. ancora I Indice analitico). Come poeta doctus Lucrezio ardisce ancora, come Ennio, una spaccatura in piena regola delle parole, una forzatura che il gusto augusteo bandirà; saltuaria-

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mente la ‘s’ finale continua a non ‘fare posizione’, come nel latino arcaico (e nella

lingua d'uso), oppure vengono utilizzati lo spondiaco genitivo femminile in -ai, l'elegante genitivo plurale (della II declinazione) in -um (invece che in -orum) e l'infinito dattilico in -ier. Infine parole di quattro o cinque sillabe alla fine del verso (richiami a toni enniani) non vengono rigorosamente evitate. Accanto ad Epicuro Lucrezio rende onore soprattutto a due grandi poeti: Empedocle e Ennio; ammira l'uno e l'altro, nonostante la differenza di scuola filosofica; su di essi ha modellato il suo stile elevato, su di essi si é formato come poeta, e sa di essere unito a loro nel ruolo di ‘illuminatore’ (Von Albrecht 1995, 299).

Una chiara, precisa ed esauriente introduzione a Lucrezio, fino ad oggi insuperata, a mio parere, si legge in Francesco Giancotti (1996, VII-LVII). PROSPETTO

DELL'OPERA

1. Dopo l'invocazione a Venere, Lucrezio annuncia il tema: atomi, creazione e dissoluzione. Epicuro è il grande vincitore del timore degli dei (religio). Altri temi: natura dell'anima (alla cui immortalità credeva Ennio), meteorologia, la dottrina

delle percezioni sensibili. E sottolineata la difficoltà di trattare in latino questioni scientifiche. Nulla può nascere dal nulla, nulla finire nel nulla, devono

esistere

atomi invisibili e spazio vuoto, una terza entità é esclusa; anche il tempo non ha senso di per sé solo. La materia originaria non è né il fuoco (erra quindi Eraclito), né un qualsiasi elemento singolo; non lo sono neppure i quattro elementi di Empedocle. Spazio e materia sono infiniti e gli atomi non si muovono verso il

centro. 2. L'uomo raggiunge la saggezza e la libertà dal timore attraverso la conoscenza della natura. Il mondo non è creato dagli dei, ha troppi difetti; gli atomi sono

in perpetuo movimento e in direzione verticale verso il basso (contro Aristotele: aria e fuoco), per il loro peso, una collisione è resa possibile da una piccola deviazione, clinamen, dalla verticale. Domina un continuo formarsi e dissolversi. Il

nostro cosmo non é l'unico, nessuna divinità opera nella natura. 3. Epicuro ha aperto gli occhi a Lucrezio sui segreti della natura. Il tema è la natura dell'anima ed il superamento del timore della morte. L'animus é una parte dell'uomo ed ha sede nel petto; l'anima, che gli è soggetta, è unita ad esso e dimora in tutto il corpo: l'uno e l’altra sono corporei. Il mobilissimo animus è formato da atomi particolarmente piccoli, miscela di aria, vento, calore e una quarta sostanza senza nome: l'anima animae. L'animus è superiore all'anima. Quest'ultima è mortale perché i suoi atomi sottili si disperdono rapidamente, essa nasce, cresce e muore col corpo, senza il quale non può far nulla. Se fosse immortale dovrebbe avere i cinque sensi. Poiché l’anima è mortale la morte non ci riguarda, essa è la fine della percezione. La credenza in una sopravvivenza genera illusioni, la natura stessa ci ammonisce a lasciare la vita come un convitato sazio. Alla morte non si può sfuggire. 4. Sulle percezioni sensibili, dalle superfici dei corpi vengono emessi dei simulacri, delle immagini, senza le quali non potremmo vedere (atomi sottilissimi). Le percezioni dei sensi sono attendibili, chi sbaglia è lo spirito che interpreta le per-

INTRODUZIONE

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cezioni. Dopo l'udito, il gusto, l'odorato e le avversioni istintive, Lucrezio tratta

delle immagini del pensiero e del sogno. 5. Il mondo è perituro e non divino. Gli dei non possono avere la loro dimora in nessuna parte di esso e non l'hanno creato, poiché esso è imperfetto e le condizioni vitali sono sfavorevoli all'uomo (91-234). Eterni sono solo gli atomi e il vuoto, la lotta degli elementi può sfociare ad es. in un incendio cosmico o in un diluvio universale (235-415). Il cosmo ha avuto origine nel caos da una mescolan-

za di atomi diversi; questi si separano facendo unire il simile col simile. Lucrezio spiega i fenomeni delle piante, degli una procreazione pace di generare.

astronomici con Epicuro e le sue fonti (416-771). Segue l'origine uccelli e degli animali, questi ultimi si sono formati attraverso primigenie nel grembo materno della terra, allora ancora caRestarono in vita gli esseri piü resistenti, forti, astuti e/o veloci

(creature miste come i Centauri non sono mai esistite) (772-924). Dopo l'epoca dell'umanità primigenia, con la costruzione delle case, le vesti, il focolare e la fa-

miglia, ha inizio la vita civile (925-1027). Il linguaggio non è creato da un singolo, ma sorge a poco a poco in base al principio dell'utilità. Dopo che si apprese a dominare il fuoco, saggi re fondarono città, dopo la caduta dei re si sviluppa il diritto (1027-1160). L'ignoranza produce un infondato timore degli dei, per esempio davanti al fulmine e ad altre minacce alla nostra vita. La vera devozione é unita alla serenità dell'anima (1161-1240). Si scoprono la metallurgia, l'equitazione, i carri e lo sfruttamento degli animali, infine vengono la tessitura, agricoltura e musica, astronomia, letteratura, arti. L'avidità e la furia bellica offuscano l'immagine del progresso (1241-1457).

6. Atene è la patria dell'agricoltura, delle leggi e del grande maestro Epicuro (1-41). Tema dellibro é la meteorologia, e Lucrezio prega la Musa Calliope di assisterlo (43-95). Vengono spiegati: tuoni e fulmini, trombe marine, nuvole, pioggia, neve, grandine, terremoti e ciclo dell'acqua, vulcanismo

(96-702). Lucrezio poi

tratta dell'inondazione del Nilo, dell Averno e di fonti degne di nota, poi del magnete, delle malattie, in particolare, infine, della peste di Atene (703-1286).

ABBREVIAZIONI E RIFERIMENTI

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ABBREVIAZIONI

Tonson

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ABBREVIAZIONI

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COMMENTO

AVVERTENZA I:

commento ha come base il testo critico di Flores e la sua traduzione (vd. abbreviazioni bibliografiche supra) e presuppone il suo apparato critico con le medesime sigle dei manoscritti. La successione delle lettere ddssdt ..., anche in maiuscolo, indica le sequenze di dattili, spondei e trochei, mentre le sigle 3f, 3m, 5m, 7m, buc., ecc., designano le cesure, del terzo trocheo o femminile, tritemimere e cosi via (cfr. peraltro l'indice

analitico).

SOMMARIO

DEL LIBRO

V (PER GRANDI

SEZIONI):

I. INTRODUZIONE: 1-90. 1-54: elogio di Epicuro, 55-90: argomento, sommario del libro; II. IL MONDO: 91-508. A esso ha inizio e fine: 91-109 e 235-415; B digressione sulla visione teologica: 110-234; C formazione del mondo: 416-508;

III. ASTRONOMIA: 509-770; IV. LA TERRA: 772-1457. A inizio della vita: 772-924; B uomo primitivo: 925-1010; C inizio della civiltà: 1011-1457. 1-54:

Proemio: prima di iniziare l'argomento del v libro Lucrezio, come già nel 1 libro (62-79) e nel im (9-30), ed ancora sarà nel vi (1-42), esalta i meriti di Epicuro (1-54):

il Maestro con la sua dottrina ha liberato l'uomo dalle passioni e dal timore degli dei ed ha arrecato a tutta l'umanità un beneficio grandissimo. Il poeta non esita qui a proclamare Epicuro un vero e proprio dio (v. 8 deus ille fuit, deus), reale benefattore dell'umanità, superiore a quelle divinità ufficiali e mitiche quali Cerere e Bacco, o ancora ad Ercole, eroe figlio di Zeus. Incisivo ed esauriente quanto scrive Giancotti (1996, 514). Su questo proemio, anche in relazione a quello degli

altri libri, sono essenziali oltre che proficue le letture di Büchner (1952, 216-22) e di Craca (1983, 23-31); inoltre sulle caratteristiche proprie degli inni presenti nel proemio cfr. La Bua 1999, 137-40. Capitulorum Tit. 1: PLVS HOMINIBVS PROFVISSE QVI SAPIENTIAM INVENERIT QVAM CEREREM LIBERVM HERCVLEM 1

5

Quis potis est dignum pollenti pectore carmen

dsssds 3+5m

condere pro rerum maiestate hisque repertis?

dsssds 3+5m

quisue ualet uerbis tantum qui fingere laudes

dsssds 3+5+7m

pro meritis eius possit, qui talia nobis

dsssds 3+5+7m

pectore parta suo quaesitaque praemia liquit?

ddsdds 5m + buc.

[quaesitaque O' (P), edd. : quaesita OQ, Marx 1927, Cassata 1986]

10

nemo, ut opinor, erit mortali corpore cretus.

ddssds 5m

nam si, ut ipsa petit maiestas cognita rerum,

ddssds 5m

dicendum est, deus ille fuit, deus, inclute Memmi,

sdddds 3+7m

qui princeps uitae rationem inuenit eam quae

ssdsds 3+5m

nunc appellatur sapientia, quique per artem

ssddds 5m

fluctibus e tantis uitam tantisque tenebris

dsssds 3+5+7m

in tam tranquillo et tam clara luce locauit.

ssssds 5m

[locauit LPpDFCI : uocauit OQABx, Susius, Is. Vossius, Orth 1936]

Il testo del De rerum natura presenta per ogni libro dei titoli, o brevi sommari, chiamati capitula, che sono posti sia all'inizio sia all'interno del libro stesso come

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GIORGIO JACKSON

esordio di sezione. Scritti in latino, ma nel 1 e i1 libro alcuni (6) sono in greco, i titoli risalgono al 1 o al r secolo d. C., ma non è ancora possibile individuarne l'autore (cfr. comunque Flores 20024, 22 e 2009, 17-8).

Il primo dei capitula del v libro è omesso dai manoscritti OQ ma si può desumere dall'indice riportato dagli stessi codici; lo inserirono, giustamente, all'inizio del libro il gesuita Franz Karl Alter (1749-1804), nella sua edizione del 1787, poi Hermann Diels (1848-1922), edizione postuma del 1923, e in seguito altri editori; dopo il verso 12 lo pose invece Merrill nell'edizione del 1917, mentre Lachmann (1871) e,

tra gli altri, Flores stampano tutti i capitula alla fine dell' edizione lucreziana. Sulla questione è d'obbligo il rinvio ad Hans Fischer 1924, 32-3, che correttamente ipotizza il ‘titolo’ prima del 1 verso. 1. Quis potis: l'incipit ha una chiara impronta enniana (cfr. tra gli altri Pascal 1898, 29), un sigillo elevato che impone attenzione: Ann. 177 Fl. quis potis ingentis oras euoluere belli? (DSSSDS, 5m+7m, con medesima sequenza di dattili e spondei e la cesura pentemimere in comune), "chi é in grado della guerra l'intero quadro

di spiegar?" (trad. Flores), all'inizio del libro vi. Medesimo ambito proemiale, analoga autoesaltazione da parte di un poeta in grado di 'comporre versi' (qui carmen / condere, in efficace enjambement, procedimento che Lucrezio adotta

non di rado e con maestria), con richiamo alla grandezza degli argomenti da esporre: come in Ennio qui alla domanda posta, l'unica risposta è del tipo “nessuna persona comune, nessun poeta mediocre” (‘e certo non io’: Ed. Fraenkel 1993, 322; cfr. anche Jackson 2002, 102-3), si tratta cioè della tipica ‘recusatio’ (vv.

1-6), in cui il poeta si possibilità, a trattare al fine di evidenziare, (nonché dottrina nel

schermisce dichiarando la grande difficoltà, se non l'iml'argomento o a riprendere un modello insuperabile, ma con eleganza, e riaffermare le proprie capacità ed abilità superare, magari, il modello: su tali aspetti della poesia

romana, sulle orme di quella ellenistica, da Ennio a Orazio e oltre cfr., tra gli altri, Nisbet - Hubbard 1989, 81-3; Innes 1989, 251-2, Citroni 1995, 87-9, 219-21).

Lucrezio del resto mostra di ammirare molto Ennio (cfr. Ennius noster in 1.117-9)

come si rileva anche dalle numerose riprese ed imitazioni e/o

citazioni presenti

nell'opera (cfr., ad esempio, Costa 1984, 49 e gli importanti contributi di Merrill 1918); in particolare sull'arcaismo potis cfr. 3.1079, 5.560, 719 e Guiraud 1975,

361-6. Peró bisogna anche ricordare che Lucrezio quando ricorre alla dizione epica enniana intende emulare il Rudino per poi "batterlo sul suo stesso terreno” (cosi acutamente Pasoli 1969, 34-5). Non può sfuggire, infine, una ricercata

simmetria strutturale metrica nei primi quattro versi, che presentano la mede-

sima successione dsssds e la possibile cesura 5m, mentre il verso 5 si distingue per l'inversione del numero di spondei e dattili e per la possibile compresenza della dieresi o pausa bucolica insieme alla pentemimere (5m), forse ad isolare praemia in connessione allitterante con l'iniziale pectore, la mente di Epicuro (vd. infra, inoltre Milanese 1990, 187-9).

pollenti pectore: interpretato ora come ablativo assoluto con valore concessivo, ora diversamente con valore strumentale: così Giussani (1898), Merrill (1907) e Flores, tra gli altri; la terminazione in —i è giustificata dal senso e dalla fun-

COMMENTO

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zione aggettivale del participio, e si ritrova molto spesso in Lucrezio (Cartault 1898, 30-1). Pollens ricorre altre 7 volte in Lucrezio (1.48, 574, 612; 2.650; 4.343; 5.745; 6.237) ed appare arcaizzante (cfr. anche Craca 2000, 118): esso è abbastanZa raro e si ritrova nella poesia arcaica, due volte in Nevio (B. P. 31 e 33 Fl.), quindi in Plauto (Capt. 278, usato ironicamente, Cas. 818, Rud. 618), nonché in

un verso di Licinio Calvo (7 Blänsdorf); è ancora in Sallustio e spesso in Ovidio, manca invece in Virgilio. Forse potrebbero dimostrare la rarità ed anche la difficoltà interpretativa di pollenti le confuse forme presenti nei codici, pallenti / palanti, e nelle prime edizioni (dall Ed. princeps al Lambino escluso), lo stesso Lambino (Denis Lambin 1519-1572) poi propose, ipoteticamente, la congettura praestanti (che sembra più una glossa che una vera e propria ‘correzione’); improbabile risulta la forma polenti stampata dal Gifanius (Hubert van Giffen, 1534-1604) nella sua edizione del 1565, il quale pensava, forse, alla

presenza di scempie in Lucrezio (polenti si ritrova anche nel Pareus 1631: Daniel Wangler 1605-1635).

pectus qui vale “mente, ingegno”, anche ispirazione; in latino è regolarmente la sede dell’intelletto, come già nella poesia arcaica, Plauto (Most. 85), Terenzio (Ad. 613), Accio (Trag. 141 R?.) e Pacuvio (Trag. 401 R?.). Notare la ripetizione

del suono iniziale p- (triplice allitterazione potis ... pollenti pectore), che tende ad esaltare la valenza di pectore, dattilo della clausola; dato il tono elevato del proemio qui potrebbe essere richiamato un passo di Accio, dalla tragedia Filottete (520-524 R?. = 195-9 Dangel), appartenente all'inizio dell'opera (in particolare è il Coro a pronunciare i versi), dove si legge un'analoga ‘ricca’ esaltazione di un eroe (nello specifico Ulisse: anche Dangel 310), con insistita allitterazione in 'p': inclute parua prodite patria / nomine celebri claroque potens / pectore, Achiuis ... auctor, / grauis ... ultor, / ...; analoghi giochi fonici con polleo si leggono anche in Plauto, ad esempio Asin. 636 quid pollent quidue possunt. Sulle allitterazioni ‘insistite’ in Lucrezio (cfr. anche 5.964 e passim), con funzione iconica e strutturale, si veda Dionigi 1992, 52-4, nonché Hofmann - Szantyr 2002, 30-1, € Traina 2002, 30 n. 35. L'allitterazione, di impronta arcaica (ad es. Nevio, Plauto

ed Ennio), è mezzo espressivo presente in Lucrezio in modo considerevole: nel solo v libro si possono evidenziare più di 50 ‘occorrenze’ significative (cfr. anche Peck 1884, 58-9).

dignum: l'aggettivo potrebbe essere stato utilizzato in senso assoluto e non connesso al successivo pro, che, indipendente da dignum, avrebbe valore di 'rispetto a, nei confronti di, in relazione a’ (cosi Brieger 1909, Giussani 1898, Merrill 1907, 655, Bailey 1947, 1323, Piazzino 1947, 123, Pizzani 1960, 386 e Flores); analoghi co-

strutti si possono leggere in Sallustio Cat. 51.8 nam si digna poena pro factis eorum reperitur, dove dignus è usato ‘assolutamente’, così in lug. 62.8 (Kritz 1 240 e 11 335, E. Malcovati 1971, 158), in Cicerone diu. in Caec. 42 timeo ... pro offensione ho-

minum ... dignum eloqui possim; in Orazio Epist. 1.7.24 dignum praestabo me etiam pro laude merentis (passo che Munro 1886 annette dubitativamente ai precedenti esempi). Infine va anche ricordato Terenzio Hec. 209 an quicquam pro istis factis dignum te dici potest, dove, contro l'apparenza, pro ... factis è un costrutto inci-

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GIORGIO JACKSON

dentale, dignus è adoperato senza complemento immediato (anche Giussani 1898, 4); cfr. del resto infra al verso 4 pro meritis eius (anche Pigeaud 1972, 13940).

carmen: vocabolo che indica una composizione poetica solenne, profetica, importante, quasi un inno (come notavano gli stessi autori antichi, da Accio a Varrone e a Livio, ad esempio, cfr. Habinek 2005, 8-12, 24-5, 74-6); esso è più volte

presente nel poema e qui designerebbe inoltre anche la poetica 'self-consciousness’ da parte di Lucrezio (cfr. Volk 2002, 84, 112-3). 2. condere: verbo tecnico per la composizione poetica (cosi anche Bailey 1947, 1323, ma senza riferimenti): si ricordino almeno Cicerone Rep. 4.12 in his hanc quoque sanciendam putauerunt, si quis occentauisset siue carmen condidisset ... (dove si fa riferimento ad una legge delle xır Tabulae); Att. 1.16.15; Tusc. 4.4 (cfr. Dougan — Henry 1934, 108); quindi Virgilio, Buc. 10.50-51 condita uersu / carmina, dove

è notevole l'enjambement esattamente inverso (speculare, ricercato e voluto) a quello lucreziano, e 6.7 condere bella (ctr. anche 2.4 haec incondita), ed ancora Orazio (A. P. 436 ... si carmina condes; Epist. 1.3.24 ... condis amabile carmen), Li-

vio (27.37.7) e Ovidio tra gli altri; in definitiva sembra che Lucrezio sia stato il

primo ad adoperare in tal senso il verbo in ambito letterario, con esito fortunato, mentre il nesso potrebbe essere stato in uso nel linguaggio arcaico giuridico, se, nel frammento di Cicerone, Agostino riporta correttamente l'eventuale

dispositivo (Rep. 4.12 appena citato), ma sembra che la formula fosse stata invece carmen incantare, cfr. xii Tab. vini 1.4: qui malum carmen incantassit ... (FIRA Bruns p. 28). rerum maiestate: l'espressione vale "grandezza del mondo, della natura", cfr. anche infra al verso 7; maiestate hisque è felice intervento, eseguito al più tardi

nei primi anni del '5oo, di un anonimo correttore del codice j" (Vatic. Ottob. 1954 del 1466), e la lezione fu adottata per la prima volta dal Lambino, che di-

chiarò espressamente (cfr. 1570, 512) di averla letta in alcuni suoi manoscritti. Il testo tradito da O, Q ed x è maiestatis atque, mentre maiestatisque (repertis)

si legge in altri codici, cioè in (P), e nelle prime edizioni a stampa dalla princeps fino al Seicento, ad esempio nella Veron. 1486, nella Ven. 1495, nell Aldina 1500 dell’Auancius (Girolamo Avanzi T post 1534), in quelle del Naugerius 1515 (Andrea Navagero 1483-1527) e del Nardi 1647. Non si tratta quindi di una cor-

rezione/congettura del Lambino come scrivono erroneamente molti editori e studiosi e come ripete recentissimamente e pedissequamente Gale (2009). Corrette informazioni invece si leggono nella recente e innovativa edizione critica di E. Flores, in apparato. In tempi relativamente recenti Emil Orth (1960, 321) ha suggerito di stampare majestate isque ed ha inteso is come antico genitivo (— eius), suggerendo

quindi ‘ejusque = Epicuri ; ma non sembra (e giustamente)

che dal 1960 sia stata ascoltata la sua proposta. Il termine maiestas ricorre tre volte in L. e sempre nel v libro, ai vv. 7 e 1137; in Virgilio invece una sola volta,

Aen. 12.820 pro Latio obtestor, pro maiestate tuorum: è Giunone che parla a Giove. Maiestas si ritrova in Livio Andronico (Trag. 13 R?.), in Accio (Trag. 648 R?.) ed in

Afranio (Tog. 326 R?.), poi da Cicerone, da Cesare e da Sallustio in poi. Appare

COMMENTO

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evidente che il termine solenne, corradicale di magis e magnus, proprio di divinità o sovrani, è da Lucrezio connesso ad Epicuro ed alla sua opera per evidenziare la superiorità del filosofo rispetto a Cerere, Bacco ed Ercole; maiestas ha quindi un valore ‘superlativo’ e designa un rango superiore in senso assoluto ed esprime nel contempo anche il timore riverenziale e l'ammirazione del poeta nei confronti della natura (cfr. anche Schrijvers 1970, 82-3; Pigeaud 1972, 143-4; Gale 2000, 198).

his repertis: repertum è aggettivo-participio sostantivato, una forma linguistica molto utilizzata da Lucrezio per maggiore incisività (Swan 1910, 195, 201), ed

indica le scoperte di Epicuro, quindi reperta = εὑρήματα (cfr. 1.136 Graiorum obscura reperta; 732 praeclara reperta). Può essere interessante rilevare che il participio repertus ricorre ben 3o volte in Lucrezio e sempre in fine di esametro, come in Virgilio (dove appare solo 11 volte). Tale forma verbale è attestata più volte nella poesia arcaica: Plauto (5 volte), Ennio (Ann. 180 Fl.), Cecilio Stazio (Pall. 36 R?.), Lucilio (335 Terzaghi), Accio (Trag. 182 R?.). 3. ualet uerbis tantum: “è capace soltanto con le parole": Flores, altri intendono “può tanto con le parole ..."; anche qui notevole forza possiede l'allitterazione quisue ualet uerbis, fra tre parole bisillabe ad inizio di esametro, coinvolta nelle cesure tritemimere e pentemimere (cfr. anche Schneider 1897, 55, 70); nei vv. 3-4

in particolare e nei vv. 1-12 in generale si può cogliere un complesso elogio della propria abilità letteraria secondo procedimenti retorici tradizionali (recusatio e linguaggio sacrale) della poesia elevata sia arcaica sia ellenistica (vd. Craca 1989,

39-42). tantum: l'avverbio puó essere collegato sia a uerbis (ad es. Flores), sia alla forma verbale ualet (ad es. Canali e Giancotti 1996), in base all'uso lucreziano di tantum

spesso connnesso con forme del verbo posse. 3-4. fingere laudes / pro meritis: plasmare, creare lodi relative ai meriti: fingo nel senso di comporre, creare versi (qui elogi: laudes) appare in Lucrezio per la prima volta, ed è poi ripreso da Orazio Carm. 4.2.31-2 ... operosa paruus / carmina fingo (nell'ambito della concezione del Venosino della poesia) e altrove, da Properzio e da altri autori successivi; la metafora è desunta dalle arti ‘plastiche’ (cfr. tra gli altri Merrill 1907, 655, e Mazzoli 1985, 526). Lambino (1570) invece leggeva fundere laudes, richiamando nel commento lo stesso Lucrezio 1.39 ex ore loquelas

funde e 5.110 fundere fata (in clausola). Per tale sintagma si possono richiamare inoltre, ad esempio, Cicerone Arat. xxxvi 9 Buescu haud modicos tremulo fundens e gutture cantus, o ancora Lucrezio 4.584-5 ... querellas / tibia quas fundit digitis

... canentum. La convinta difesa di fundere da parte dell'umanista influenzò altri editori, tra i quali il Faber (Tanneguy Lefébvre 1615-1672), che peró nelle sue Emendationes (1662, 249) preferiva e giustificava fingere, ed il Creech (Thomas Creech 1659-1700) che nella sua edizione (1695, 251) leggeva al v. 3 fundere laudes,

ma interpretava "ut fingat laudes pares meritis illius". Wakefield (Gilbert W.

1756-1801) rifiutó energicamente e perentoriamente non solo fundere ma anche pingere, congettura del Gifanius (1565, 148) ed ogni altro tentativo di correggere fingere.

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5. quaesitaque: nei codici O Q è riportata la lezione quaesita che riproduce però una sequenza ametrica: tuttavia essa fu difesa da Fr. Marx (1927, 191) e poi da L. Cas-

sata (1986, 265-67). Il correttore di O aggiunse —que, per sanare l’aporia metrica, ed il quadrisillabo quaesitaque si legge pure in (P) e dalle prime edizioni a stampa

in poi e quindi presso quasi tutti gli studiosi non editori. Con quaesita si avrebbe l'allungamento della sillaba finale —ta breve, in dieresi bucolica e davanti a muta più liquida, secondo una prosodia arcaica che si riscontra in Ennio (così E. Marx 1927, 192-3). Sulla stessa linea si è mosso Cassata (1986, 265-7) che giusti-

fica l'eventuale conseguente asindeto (parta quaesita praemia), tipico espediente arcaico ed arcaizzante (ancora Marx 1927, 192). Una documentata, quanto vana, difesa di quaesita e dell'asindeto si leggeva anche in Timpanaro (1994 [1988'], 66-7; cfr. anche Timpanaro 1986, 156 n. 25), ma si deve osservare che l'enclitica

que abbreviata poteva facilmente essere omessa nei manoscritti e che le consi-

derazioni sull'allungamento della desinenza ‘a’ breve sono valide per i nomi ed i vocaboli greci e che in Ennio tale prosodia è osservata o in particolari casi (cfr. Skutsch 1968, 21) o quando la sillaba immediatamente successiva inizia con st- (o sp-), digramma ben diverso da uno costituito da muta + liquida (per altri casi analoghi in Ennio cfr. Skutsch 1986, 57). Inoltre sui passi enniani riportati da Cassata e da Timpanaro non si può più fare affidamento in quanto il testo degli Annales risulta ora diversamente e più correttamente costituito, nonché letto ed interpretato [cfr. Ann. 519 (per agea) e 586 FI. (per frun: cfr. Jackson 2009, 246-8, Tomasco 2009, 445)]. Infine non si può non rilevare che tale allungamen-

to prosodico in Lucrezio costituirebbe un unicum, perché limitato a quest'unica occorrenza; la tendenza prosodico-metrica del poeta epicureo appare piuttosto

di segno opposto: in non pochi casi una sillaba lunga è abbreviata davanti a doppia consonante, si legga, ad esempio, al verso 47 superbia spurcitia (fenomeno che risente quasi certamente dell'influsso della lingua d'uso, cfr. commento

ad l. infra, dove sono citati altri casi). Il verso 5 si presenta come un esametro κατενόπλιον sequenza DDS-DDS

caratterizzato dalla

(Gentili - Lomiento 2007, 272-4), una disposizione che si

ritrova spesso utilizzata nell’Iliade in contesti solenni; Lucrezio utilizza la medesima struttura solo altre 64 volte nel libro v (cfr. anche Merrill 1925, 321),

sempre per effetti particolari e per richiamare l'attenzione. Dopo i primi quattro versi, che presentano, con cesure ricorrenti, tritemimere e pentemimere (3m+5m; i vv. 3 e 4 anche l'eftemimere, 7m), la medesima composizione, dss-

sds, che si segnala per il lento procedere della dizione nelle parti significative centrali dei versi (cfr. anche Dubois 1935, 616-8), Lucrezio sembra dare un tono

particolare al quinto verso al fine di esaltare ancor più i meriti (parta praemia) di Epicuro: notevoli sono infatti l'unica cesura pentemimere, allusiva della poesia arcaica e sacrale (cfr. ad es. Bartalucci 1968, 106, 109, Jackson 2009, 194, 231) e il

nesso praemia liquit, che tradisce quasi un tono giuridico severo (cfr. infra) ed è in rilievo in clausola grazie alla dieresi bucolica. qui talia nobis ... liquit: che ci trasmise i concetti intuiti dalla sua mente e i frutti della ricerca: é da notare lo hysteron proteron parta — quaesita, anche se qualche

COMMENTO

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commentatore ritiene i due termini ‘sinonimi’, come ad es. Munro 1886 e Mer-

rill 1907, mentre per Giussani 1898 sono valide entrambe le opzioni. Liquit assume in questo contesto il significato particolare e tecnico di “lasciare in eredità”,

trasmettere ai discendenti (come il gr. λείπω), come si legge in un frammento tragico anonimo tradito da Seneca (Epist. 80.7 = inc. incertorum fab. 104 R*. ... sceptra mihi liquit Pelops), in Cicerone Tusc. 1.117 (si tratta di una citazione di un autore greco non identificato, cfr. Dougan 1905, 157), quindi in Stazio Silu. 5.1.177 e 2.65, in Valerio Flacco 5.230, 6.689 ed in autori successivi. Lucrezio in

realtà adopera il verbo semplice per il composto relinquo che ha tale valenza giuridica in Plauto, in Terenzio, in Lucilio, in Varrone ed in Cicerone, tra gli

altri. Nobis costituirebbe quindi un dativo acquisitionis, come lo definiva giustamente Hidén (1896, 73, 82). Con l'insistita e triplice allitterazione pectore parta ... praemia, che riprende la sonorità del verso 1, il poeta conclude, come una

Ringkomposition, la domanda d'esordio e prepara la risposta contenuta dal v. 6 e seguenti; l'espediente musicale e retorico tende inoltre a sottolineare ancor più l'appropriata scelta dei termini da parte del poeta che esalta la ‘paternità’ (pectore parta suo) delle scoperte della dottrina di Epicuro, con l’unica incisione

pentemimere dopo suo e la possibile dieresi bucolica dopo quaesitaque: in risalto cosi le ‘ricerche escogitate e donate’, i praemia del filosofo, che peraltro le ha raggiunte con la capacità del suo pectus (in risalto ad inizio di esametro e ter-

mine ripetuto dal primo verso al 5° piede) e non con la violenza e con le armi. Virgilio adopererà la terminologia lucreziana, rivelando il proprio debito, ma

in contesto completamente diverso e in senso antitetico al verso lucreziano: Aen. 11.24-25 ... egregias animas quae sanguine nobis / hanc patriam peperere suo,

decorate ..., anche qui con incisione importante (eftemimere) in suo: si tratta del discorso di compianto di Enea sul corpo di Pallante (cfr. anche Wakefield ad loc.).

pectore: è un ablativo strumentale in dipendenza da parta e da quaesita; analogo costrutto con quaerere si legge, prima di Lucrezio, in Catone ed in Terenzio (Ebrard 1879, 640). 6. nemo ... deus: nemo-ùt: sinalefe tra vocale finale lunga e vocale iniziale breve: all'inizio dell'esametro non si ritrova in Ennio (dove per altro è in assoluto rarissima), ma è ben presente in Lucilio, in Catullo e soprattutto in Virgilio ed in Ovidio, tra gli altri (Dubois 1935, 55-6). L'elogio di Epicuro, definito iperbolico da Lattanzio (250-325 ca.), che cita i vv. 6-8 (Inst. 3.14.1, cfr. anche Costa 1984,

49-50), è incentrato sulla divinità di Epicuro stesso, enfatizzata dalla ripetizione ravvicinata di deus, con identica scansione metrica e stessa intonazione, e dal-

la rilevanza di ille fuit (in cesura eftemimere): il filosofo è definito l'inventore

della saggezza (eüperng) e benefattore dell'umanità (motivo dello εὐεργέτης), egli è superiore di gran lunga alle divinità mitiche Cerere e Libero, inventori dell'agricoltura e della viticoltura, e all'eroe Ercole, che ha liberato l'umanità

dai mostri. Il confronto, ispirato ad Epicuro Ep. Men. 132, sottolineato da confer a V. 13, è introdotto da immagini poetiche tradizionali, quali quelle di tempestaporto e tenebre-luce (Dionigi 1990, 424-5).

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La risposta negativa (nemo, ut opinor, erit ...), alla domanda retorica iniziale

(quis ...), ha una particolare incisività grazie anche alla possibile allusione al

linguaggio retorico-drammatico che si ritrova nella tragedia greca, ad esempio in Eschilo Pr. 502-04 χαλκὸν σίδηρον ἄργυρον χρυσόν te, τίς / φήσειεν ἂν πάοοιϑεν ἐξευρεῖν ἐμοῦ; οὐδείς, cap οἶδα, ..., in Sofocle Aj. 1034 ss., El. 446-48, in Euripide Hel. 914 ss. (cfr. Vahlen 1883, 12-3 = 1907, 209-10). Va tre, che la formula ut opinor, così come il semplice opinor, risulta Plauto, Ennio, Terenzio, Lucilio, Afranio) e spesso è adoperata senso di irrisione o di sarcasmo (cfr. infra v. 39 ed anche Flobert

ricordato, inolarcaica (Nevio, con malcelato 1975, 53).

cretus: cresco (incoativo da connettere con creo) è verbo tecnico del linguaggio agricolo, ricorre in Catone, Varrone e Columella, ma anche in Ennio, a proposito dei prodotti della terra, Var. 31 v.*; si ritrova numerose volte in Lucrezio,

anche con sfumature semantiche diverse, cfr. qui al verso 60 natiuo ... consistere

corpore creta (sc. natura), e al v. 1116 ... pulchro corpore creti, quindi 2.905-6 ... quaecumque uidemus / mollia mortali consistere corpore creta (organi di sostanza mortale), e 4.1228 maternoque ... corpore creti. Il participio aggettivale cretus ricorre esclusivamente in poesia (Ernout 1946, 91) ed in Lucrezio sempre con corpore, ablativo ‘originis’ o ‘oriendi’ (Ebrard 1879, 585-6, Meissner 1891, 18, Hidén 1899,

133). Forme e significati di questo verbo, oltre a sintagmi particolari, sono spesso ripresi da Virgilio, si veda, ad esempio, per la forma cretus Aen. 2.74 ... hortamur fari, quo sanguine cretus (cfr. Paratore 1978, 259), 4.191 uenisse Aenean Troiano sanguine cretum (cfr. anche Elena Zaffagno 1984, 926-7). Il nesso corpore cretus,

particolarmente preferito da Lucrezio, si ritrova sempre in clausola: in questo verso é evidente il forte contrasto tra l'uomo comune e mortale e la soprannaturale grandezza di Epicuro, delle sue scoperte; le parole maiestas cognita rerum nell'esametro seguente sono nella stessa sede in cui si trova l'espressione mortali corpore cretus, tre parole con lo stesso numero di sillabe e per di più due in corrispondente allitterazione (m-, co-). 7. si, ut: la congiunzione si ( supra; cfr. comunque

Grasberger 1856, 42; Bailey 1947, 1333). Gifanius, Wake-

field, Eichstádt, Orelli e Forbiger, tra gli altri, leggevano supra, seguendo alcuni codici e qualche antica stampa (così riportano almeno le edizioni dal 1486 al 1546). Forse la forma anapestica supera risulta più adatta rispetto allo spondeo

supra a formare una sequenza di tre dattili consecutivi che il poeta posiziona all'inizio dell'esametro suggerendo una dizione veloce della narrazione e, probabilmente, allusivamente sarcastica, come intuiva Giussani (1898, 13).

aetherius: aggettivo ‘greco’ (αἰϑέριος) che si ritrova esclusivamente in poesia, oltre che in Cicerone Cons. fr. 6.1 Blänsdorf principio aetherio flammatus Iuppiter igni (= Diu. 1.17) e Nat. deor. 2.64 altissimam aetheriamque naturam, id est igneam; adoperato spesso da Lucrezio per attribuire intensità al suo dettato (3.405; 4.182, 391, 411; 5.215, 267, cfr. anche Garbugino 1987, 35), si legge in Ostio (fr. 6 Blàn-

sdorf per gentis alte aetherias ...), in Catullo (66.55 ... per aetherias ... umbras), in Varrone Atacino (fr. 11.4 Blänsdorf uidit et aetherio mundum torquerier axe), quindi in Virgilio (Aen. 1.394 aetheria ... lapsa plaga Iouis ales ..., 9.638 e altrove), in Orazio (Carm. 1.3.29-30 post ignem aetheria domo / subductum ...), in Ovidio e

in Tibullo, tra gli altri. L'espressione lucreziana aetheriis (in cesura eftemimere) in oris ha quindi un tono arcaizzante dichiarato, se si richiama Ennio, Sat. 3-4 V?.... contemplor / inde loci liquidas ... aetheris oras (Guendel 1907, 57), e se si aggiunge che anche ora nel senso di regione, ‘mondo’, è d'uso poetico, da Ennio

allo stesso Lucrezio e poi da Virgilio in poi. La struttura metrica dei versi 84-85 richiama l'attenzione grazie alla presenza, in entrambi gli esametri, della cesura del quinto trocheo seguita da monosillabo, un effetto sonoro già rilevato ai versi 61 e 66 ai quali si rinvia (cfr. comunque Cavallin 1896, 11-15). cernuntur: 'si scorgono’ ovvero ‘si distinguono’, secondo il significato arcaico del verbo appartenente al lessico agricolo (cfr. supra al v. 63 e Kenney 2006, 368). 86. rursus ... referuntur religiones: la triplice e ricercata allitterazione (Schneider 1897, 52, 88), anche a cornice, la presenza della sola cesura pentemimere (dopo

antiquas), che esalta il gioco sonoro, la sequenza alternata di dattili e spondei (dsdsds) e il pentasillabo ‘epico’ in clausola (di ascendenza enniana, cfr. Jackson 2009, 74) sono

studiati espedienti che contribuiscono

a dare all'esametro un

COMMENTO

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tono grave e solenne (Dangel 1999, 76-7); l'argomento infatti da memorizzare

è la superstizione in quanto ‘paura’ da eliminare. Sotto il profilo recitativo i grammatici ellenistici definivano περιοδιχκόν tale tipo di esametro (cfr. Gentili — Lomiento 2007, 272-4 e supra ai vv. 13 e 16). L'avverbio rursus (da re-uorsus), ‘di nuovo’, che qui indica il ripetersi di un'azione o il ritorno di un pensiero, può avere valore sia di iterazione sia di inversione di orientamento (Christol 2008, 71 ss.), cioè può indicare un movimento in senso inverso. Si legge in Ennio (Scen. 116 V?., Ann. 280 FI.) ed in Accio (Trag. ), mentre nella forma rursum è prevalente in Plauto ed in Terenzio; Lucrezio adopera entrambe le forme indifferentemente (Altenburg 1857, 28).

referre: portare di nuovo o indietro, ovvero fare riferimento di nuovo, riferire (anche riportare a voce o in mente, ricordare, cfr. Lieberg 1981, 278-83), il verbo

non é qui costruito con il dativo di acquisizione, come ci si aspetterebbe (costrutto peculiare negli autori arcaici, Peine 1878, 56-7), bensi con in e l'accusativo (Hidén 1896, 78-9); il senso della ripetizione è sottolineato con forza da

rursus. I giochi fonici e gli espedienti metrici, appena osservati supra, consoli-

dano l'idea del 'ritorno' alle antiche superstizioni, sottolineandone la gravità in senso negativo. Lucrezio in sostanza afferma che anche coloro che sanno per certo e anzi non hanno più dubbi (cfr. 82 bene didicere) che gli dei trascorrono una ‘vita serena’, possono cadere ‘nuovamente’ (rursus) nelle superstizioni se contemplano senza senso critico l'ordine e l'imponenza dei fenomeni naturali (cfr. Barra 1954, 148-9, quindi anche Bonelli 1984, 66-7).

religiones: qui = μύϑους come in 1.63 (cfr. Bailey 1947, 1333). Il plurale ha in Lucrezio tale senso di superstizione che 'incatena', Cfr. 1.109, 932; 2.44, in particolare infra al verso 114 anche Springer 1977-78, 58-60; Donohue 1993, 52). dall'Auancius, 1500, in poi fino ad Havercamp 1725

non tiene liberi gli religione refrenatus ... Per la forma relligio, ed oltre, si veda infra

uomini, (si veda adottata al v. 114,

nonché Goetze 1868, 8-9. Religio con l'epiteto antiqua ricorre, ma con significato molto diverso, in Virgilio Aen. 2.188 neu populum antiqua sub religione tueri, frase pronunciata con notevole astuzia da Sinone (cfr. anche Austin 1980, 92).

87. dominos acris: acer qui assume la valenza di ‘crudele, dispotico’ (Giancotti 1996), in tal senso metaforico l'aggettivo si ritrova in Plauto, in Terenzio ed in

Cicerone: gli dei sono veri e propri tiranni, cosi come si legge anche in Cicerone Nat. deor. 1.54 Itaque inposuistis in ceruicibus nostris sempiternum dominum,

quem dies et noctes timeremus, luogo citato già dal Lambino (cfr. anche Ernout Robin 1928, 14, Bailey 1947, 1333); si legga ancora di Lucrezio il passo 2.10904 ...

natura uidetur / ... dominis priuata superbis. Nell'espressione dominos acres adsciscunt forse potrebbe celarsi un’allusione al linguaggio politico dell'epoca, come suggeriva Don Fowler (1989, 145-50 — 2007, 427-31; cfr. anche Schiesaro 2007, 51-3

e Gale 2009, 118): gli dei sono rappresentati quasi come tiranni che aspirano al dominio assoluto sulla ‘libera’ natura. Acris per acres, accusativo plurale in —is, come si ritrova anche nelle iscrizioni (cfr. Ernout 1918, 164-5). adsciscunt: adsciscere vale "accettare", far proprio, accogliere, ammettere, per Bailey (1947, 1333) “adopt”, adottare, scegliere; il verso si legge identico in 6.63. Il

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GIORGIO JACKSON verbo composto incoativo adsciscere (qui con valore anche intensivo, Campos 1956, 35) appartiene al linguaggio giuridico (Dunn 1969, 6) e si ritrova da Cesare, Cicerone, Sallustio, Bell. Alexandr. e Lucrezio in poi, mentre il semplice sciscere

(