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Italian Pages 156 [158] Year 2023
Armando Vittoria insegna Analisi delle politiche pubbliche presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Napoli Federico II. Si occupa prevalentemente di populismo e politiche dell’immigrazione, di public sector nella transizione post-fordista, di beni collettivi e teoria democratica, di politiche sociali e basic income. Con Mimesis ha già pubblicato il volume La presidenza Macron. Tra populismo e tecnocrazia (2021).
ISBN 978-88-5759-003-5 Mimesis Edizioni www.mimesisedizioni.it
14,00 euro
9 788857 590035
ARMANDO VITTORIA L’OPPIO DEI POPULISTI
La politica del risentimento populista assume ormai, in prevalenza, il volto dell’anti-immigrazione. Dai margini delle nostre democrazie essa prende forma nell’opposizione a coloro che appaiono come i nuovi, potenziali membri del demos, con cui dividere risorse, anche valoriali, e diritti. Questa è, in fondo, l’agenda dei partiti variamente definiti come populisti, sovranisti o far-right: proteggere “prima” chi è dentro la democrazia e consolare il popolo colpito dalla globalizzazione con una terapia di policy palliativa. Terapia fondata su nuove divisioni sociali, di genere, ma soprattutto etniche. La politica anti-immigrazione è diventata, insomma, l’oppio dei populisti: dei partiti, ma soprattutto degli elettori. In Italia è ormai maggioritario il consenso verso quelle piattaforme incentrate sul protezionismo economico e industriale, repressive sui flussi migratori e restrittive sull’estensione della cittadinanza, “nativiste” e neo-patriarcali sull’educazione e la famiglia, sui diritti alla procreazione o all’aborto, sulle unioni civili o sulla genitorialità non tradizionale. La tesi alla base delle ricerche contenute in questo volume è che la rapida ascesa dei partiti far-right in Italia, in particolare tra le elezioni del 2013 e del 2022, si spieghi prevalentemente sul lato della domanda politica, attraverso quelli che appaiono esserne i due “driver”: la paura di un arretramento nello status e nella ricchezza di una consistente piccola e media borghesia, e il risentimento anti-immigrazione che questa esprime.
Armando Vittoria
L’OPPIO DEI POPULISTI RISENTIMENTO DI STATUS E POLITICA ANTI-IMMIGRAZIONE IN ITALIA (2008-2022)
MIMESIS
Armando Vittoria
L’OPPIO DEI POPULISTI Risentimento di status e politica anti-immigrazione in Italia (2008-2022)
MIMESIS
Questo volume è stato pubblicato con il contributo dei fondi PRIN 2017, nell’ambito del Progetto “Immigration, integration, settlement. Italian-Style” (Grant No. 2017N9LCSC_004) finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MIUR).
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Isbn: 9788857590035 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL Piazza Don Enrico Mapelli, 75 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 21100089
INDICE
Premessa Marche, Italia, mondo. I margini della democrazia e la politica anti-immigrazione
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Capitolo 1 Democrazie e governo dell’immigrazione. Il modello italiano tra politica e politiche 19 1.1. L’evoluzione degli studi di migration politics 19 1.2. Populismo e politiche della cittadinanza. Le seconde generazioni tra polis ed ethnos 24 1.3. Il modello italiano sull’immigrazione: dipendenza dal percorso e policy gap 33 1.4. Le politiche del postfordismo: regolarizzazione dei lavoratori e programmazione dei flussi (1986-2001) 39 1.5. Globalizzazione e nuovi scenari: l’11 settembre, la crisi, la politica di securitarizzazione (2001-2013) 47 1.6. L’esplosione populista e la politica anti-immigrazione (2013-2019) 54 Capitolo 2 Dal populismo ai partiti far-right: l’anti-immigrazione come fattore politico 2.1. Populismo e definizioni 2.2. Il populismo come dispositivo della marginalità politica 2.3. Etnocentrismo, individualismo di massa e politica dello status perduto 2.4. I drivers della politica anti-immigrazione 2.5. Status, minoranze e margini: anti-immigrazione ed etnicizzazione del nemico oggettivo
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Capitolo 3 L’esplosione del populismo far-right nel sistema politico italiano (2013-2022) 3.1. Il consenso populista tra risentimento di status e offerta politica 3.2. La crescita della politica anti-immigrazione (2013-2020) 3.3. Deprivazione di status e risentimento anti-immigrazione: un modello sulla crescita dei partiti far-right in Italia (2013-2022)
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Conclusioni
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Fonti e dati
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Riferimenti bibliografici
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Indice dei nomi
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A tutte le donne e uomini, ufficiali e marinai, pescatori e volontari di una ONG che provano a tenere le Braccia Aperte, e non i porti chiusi
You’ve been kept down You’ve been pushed ‘round You’ve been lied to You’ve been fed truths Who’s making your decisions? You or your religion? Your government, your countries? You patriotic junkies Where’s the revolution? Come on, people You’re letting me down. (Depeche Mode, Where’s the revolution, “Spirit”, Columbia Records, New York, 2017) Ho capito come era la vita a dieci anni Quando traslocavo casa assieme agli scarafaggi Da Giuliani, Cucchi, dalla Diaz ed Aldrovandi Preferiscono spezzarci che recuperarci Vedo rapper manichini senza niente da dire A me queste rime non mi fanno dormire Scrivimi la cifra sopra un pezzo di carta Quanto vale la realtà e quanto costa mentire? Fai sognare gli italiani, io li vorrei svegliare (yeah) Sale chi è senza talento, senza morale Nessuno fa niente se si sente impotente Ma è così facendo che lo rende reale Non è casuale, no, dalle case ALER Appartengo e non mi vendo per due collane Riesco a immaginare più la fine del mondo, sì Che la fine della differenza sociale Che vedo tra noi e loro Noi e loro Siamo uguali noi e loro Noi e loro Spesso siamo noi loro. (Marracash, Loro, “Noi, Loro e gli Altri”, Island Records, Londra, 2021)
PREMESSA MARCHE, ITALIA, MONDO I margini della democrazia e la politica anti-immigrazione
Con molta probabilità, il nome di Corridonia non evoca nulla al lettore medio. Si tratta di un piccolo paese della provincia maceratese inerpicato su di una collina, e posto su una frattura naturale che divide le valli del Chienti e del Cremone. Esattamente come per la geografia fisica di Corridonia, anche quella politico-sociale può considerarsi una metafora perfetta della linea di frattura (cleavage) che dopo la crisi del 2008 ha prodotto nella società italiana – come in gran parte delle democrazie mature – quelle nuove insicurezze, divari (divides) e diseguaglianze socio-economiche su cui i partiti populisti hanno costruito un largo consenso ad una protesta essenzialmente antipolitica ed anti-immigrazione. Negli anni successivi, e particolarmente con la crisi dei rifugiati seguita alla destabilizzazione del Maghreb e della Siria, è emerso infatti con chiarezza come la consolidata lettura di uno zeitgeist populista, essenzialmente connesso alle diseguaglianze economiche e alla crisi dell’offerta politica tradizionale, non implicasse necessariamente una chiusura del campo di studi ad altre prospettive analitiche. Come ha elegantemente riconosciuto colui che può considerarsi il principale fautore di quella lettura, una volta “d’accordo su cosa intendiamo per populismo in sé, il fenomeno in pratica è [diventato] quasi esclusivamente di destra radicale” (Mudde 2018). Improvvisamente il Re è diventato nudo, e il capitale elettorale accumulato dai soggetti populisti distintamente leggibile, in molti sistemi europei ed in Italia in particolare; leggibile come la stessa domanda sociale e politica che lo alimenta e non solo per effetto di una crisi, pur presente, dei partiti tradizionali. E così, il populismo far-right1 di oggi ha 1
La scelta per il testo intende essere coerente con la tesi e il modello usati nella ricerca, e parte essenzialmente dalla classificazione sulle diverse generazioni del populismo di destra, destra estrema, radicale sviluppata da Cas Mudde (2018a,
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preso a ricordare molto quella destra radicale di cui Seymour Lipset scriveva già negli anni ’50 dello scorso secolo. Forze politiche che agitano una politica di status e non di classe, e le cui ideologie e consensi si basano sul “non usuale risentimento di individui o gruppi che desiderano mantenere o migliorare il proprio status sociale” e “che ritengono che vari cambiamenti sociali minaccino le loro stesse pretese di un’elevata posizione sociale, o consentano a gruppi di status precedentemente inferiore di rivendicare il loro stesso status […] Non sorprende, quindi, che la politica dei movimenti che hanno fatto appello con successo ai risentimenti dello status sia… irrazionale, che si concentri sull’attacco a un capro espiatorio, che simboleggia convenientemente la minaccia percepita dai loro sostenitori” (1955). Sembra che il populismo, tutto, stia rivelando la sua reale natura: quella anti-immigrazione. Più di tanto altro, è forse questo risentimento sociale, questa “percezione di un declino di status” (Gest et al. 2018, 1702), che si colora in senso socioculturale di nostalgia, nativismo, etnocentrismo e avversione verso un “capro espiatorio” (come l’immigrato), a spiegare la crescente affermazione dei partiti far-right, soprattutto in Italia. Non già ideologia, il populismo è piuttosto il dispositivo politico che dà forma a questo risentimento individualistico di status situato ai margini delle democrazie mature. Risentimento e paure che un ceto medio o piccolo-borghese – un declining middle (Kurer 2020) – prova sempre più ad esorcizzare erigendo barriere di protezione economica, di difesa religiosa e culturale, di esclusivismo di genere, ma soprattutto etniche, piantate come ‘muri’ in pieno mare per respingere la minaccia sostanziale e simbolica rappresentata dal “capro espiatorio”: dall’altro-da-sé, che sono le famiglie non tradizionali, le per-
2018b, 2019). Per maggiore adesione al modello d’analisi e alla tesi proposti – che partono da una concezione strutturalista e non-fenomenologica di populismo – ma anche in ragione di una letteratura sul tema prevalentemente in lingua inglese, si è scelto di mantenere la categoria di far right e di non optare per la traduzione, pur esistente, di ultradestra (si veda l’edizione italiana di Mudde 2019, ovvero Ultradestra. Radicali ed estremisti dall’antagonismo al potere, Luiss University Press, Roma 2022). Nel testo è dunque adoperato il termine far right, che secondo una formula diffusa in letteratura diventa far-right se qualifica altri sostantivi come partiti, populismo e populismi, politica o politiche. Tutte le traduzioni di articoli e volumi sono dell’A.
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sone – particolarmente le donne – che provano ad autodeterminarsi ma su tutti lo straniero, l’immigrato. La politica del risentimento populista appare ormai sempre più identificarsi con una politica anti-immigrazione, dunque. Dai margini della nostra società democratica la frattura emergente è, come recita un verso del rapper Marracash, tra “Noi, Loro e gli Altri”: Altri esclusi in quanto nuovi e potenziali membri del demos con cui dividere risorse, anche valoriali, e diritti, anche sociali. Questa, al fondo, è l’agenda far-right: proteggere ‘prima’ chi è dentro la cittadella della democrazia, e consolare il popolo – soggettività tanto retorica quanto inconsistente – colpito dalle faglie della globalizzazione; tra il centro e la periferia del benessere, tra protezionismo industriale e delocalizzazioni, tra metropoli e provincia. Una promessa di protezione che è una terapia di policy basata su nuove divisioni sociali, di genere, etniche; strutturalmente, di classe. Un principio di esclusione che separa chi ha radici cristiane da chi non ne ha; chi è nativo da chi non lo è, ma anche da chi pur essendo nato e cresciuto su quel suolo non ne ha ereditato il sangue (le seconde generazioni); infine, e soprattutto, separa chi c’è da chi intende arrivare, e, dentro questi ultimi, chi arriva da caucasico – come chi scappa dal fronte ucraino – e chi invece no, come un profugo siriano, africano o curdo. Tutto questo riporta ancora a Corridonia, che è una efficace metafora del populismo come politica dei margini che si fa politica anti-immigrazione: della separazione ed esclusione. Da qui, in fondo, inizia la campagna elettorale italiana del 2018 che segna la prima forte avanzata dei partiti populisti, allorquando il 3 febbraio, esattamente un mese prima che si aprano le urne, Luca Traini vi parte per raggiungere il capoluogo Macerata ed esplodere numerosi colpi di calibro nove contro un gruppo di immigrati di origine sub-sahariana fermi per strada, ferendo gravemente sei persone – e colpendo, tra l’altro, anche una sede del Partito Democratico (PD) locale. Poco dopo, le forze dell’ordine lo arresteranno in pieno delirio neofascista: con un tricolore legato al collo, Traini omaggiava con tanto di saluto romano il Monumento ai Caduti della città, gridando “Viva l’Italia”. Le elezioni politiche del marzo 2018 sono le prime della storia repubblicana caratterizzate da un’agenda mediatica e dei partiti dominata dal tema dell’immigrazione; da una retorica etnocentrica in cui si mescolano le promesse di suprematismi – “prima gli
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italiani” ma anche “prima i foggiani” o, certamente, i “maceratesi” – e una violenta campagna di criminalizzazione dei rifugiati, con le ONG di soccorso ai migranti dipinte come “taxi del mare”. È l’intero discorso pubblico a caricarsi di un clima di hating e di othering (Lazaridis et al. 2016), dipingendo gli immigrati alla stregua di un nemico oggettivo. Per i partiti populisti come il Movimento 5 Stelle (M5S) e far-right come la Lega Nord (Lega) e Fratelli d’Italia (FDI) l’immigrazione è un capitale elettorale, e i migranti degli scapegoats (Goodfellow 2020): i capri espiatori cui addossare prima le colpe della crisi economica e sociale iniziata con la bolla del 2007, poi le conseguenze della scelerata politica europea di austerità. I partiti del centro-sinistra, dal canto loro, sono da tempo in crisi di identità e non riescono a fare meglio che tacere sull’immigrazione, se non schiacciarsi sull’agenda anti-immigrazione degli avversari. Così nel collegio uninominale Marche 6 (Pesaro), in una provincia da sempre governata dalla sinistra e non molto distante da Corridonia, alle elezioni del 2018 il PD decide di contrapporre al giovane grillino Andrea Cecconi un proprio esponente di spicco: quel Ministro degli Interni uscente Marco Minniti che con i decreti del 2017, e i molto discussi accordi con la Libia, aveva ostentato una politica sull’immigrazione tanto securitaria da cogliere il plauso delle stesse destre. Minniti viene però travolto dal candidato dei 5 Stelle perché l’originale, probabilmente, si preferisce sempre alla copia. In buona sostanza, il passaggio elettorale del 2018 evidenzia come, ben oltre l’agenda politica e delle politiche, la politicizzazione dell’immigrazione abbia assunto per la società e per il sistema politico italiano una valenza paradigmatica. Mentre l’esplosione del M5S raccoglie un risentimento sociale più giovanile e anche più metropolitano, la disillusione verso la politica e i partiti tradizionali comincia anche a mescolarsi con la paura di arretramento nella ricchezza, di deprivazione di status di alcuni segmenti sociali – che un tempo si sarebbero detti “provinciali” e “piccolo-medio borghesi” – in Italia tradizionalmente larghi nonché elettoralmente determinanti. Inizia a distinguersi una nuova offerta far-right il cui messaggio è imperniato su un vasto quanto indefinibile scudo di protezione nativista contro tutte le minacce della globalizzazione: dalle delocalizzazioni al multiculturalismo; dal gender alla fami-
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glia non-tradizionale; dall’immigrazione in sé all’agitato pericolo di una sostituzione etnica. Il risentimento politico anti-immigrazione sembra essere diventato l’oppio dei populisti: dei partiti, ma principalmente degli elettori. Pur tra le oscillazioni a livello di singolo sistema politico, appare generalmente crescente il consenso verso quelle piattaforme politiche incentrate sul protezionismo economico e industriale; restrittive e repressive sui flussi migratori, come sul diritto d’asilo e sulla estensione della cittadinanza; ‘nativiste’ e neo-patriarcali sui temi dell’educazione, della famiglia, dei diritti alla procreazione o all’aborto, sulle unioni civili o la genitorialità non tradizionale; e, più in generale, che etnicizzano l’idea della cittadinanza democratica, come per i diritti sociali e del welfare, accogliendo il principio di una restrizione nell’accesso alle politiche sociali per i non-nativi, mediante soglie, franchigie o semplice esclusione (welfare chauvinism). All’interno di questi processi globali, il caso italiano non costituisce – e non può essere tratto sul piano analitico come – una eccezione, se non nel senso opposto della straordinaria crescita dei consensi ai soggetti politici populisti, come tutte le evidenze indicano. La tesi alla base di questo volume, e che le ricerche come il modello empirico in esso contenuti provano a dimostrare, è quella per cui la rapida esplosione elettorale dei partiti far-right in Italia, tra le elezioni politiche del 2013 e quelle recenti del 2022, si possa spiegare, prevalentemente, non sul lato dell’offerta politica – che pur rileva – né degli effetti deprivativi della crisi economica in sé – non irrilevanti – ma principalmente sul lato della domanda politica, e in particolare attraverso i due drivers di questa crescita: la paura di uno scivolamento di status (Gidron e Hall 2017) di alcuni precisi segmenti della società italiana e il risentimento anti-immigrazione che questi hanno iniziato ad esprimere. Nel volume, si è provato a sistematizzare analiticamente ed empiricamente dentro un concept omogeneo ricerche che provengono da un quinquennio di studi sull’immigrazione. Ricerche – solo in alcuni casi pubblicate (Vittoria 2022) – che sono iniziate nel 2018 con la presentazione di un paper al Peace Research Institute di Oslo, riguardante in quel caso la misurazione degli effetti che l’avanzare dei partiti populisti aveva sui regimi di riconoscimento della cittadinanza. Allora, come in altri casi, le tante critiche e i suggerimenti dei
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discussants hanno consentito di migliorare enormemente la qualità delle tesi e dei modelli empirici adottati. La stessa cosa è accaduta anche per le altre ricerche presentate negli anni successivi: quella sugli effetti delle agende populiste nell’implementazione delle politiche di aborto, discussa in prima battuta alla Nora Conference di Reykjavík nella primavera del 2019 e poi al Cirfase di Lovanio nel 2020; quella sulle soglie di accesso alla rappresentanza anche intra-partitica per i cittadini con background migratorio, discussa all’IPSA Conference di Sarajevo nell’estate del 2019; infine le idee per così dire scabrose – sollevarono non poche polemiche – sulle pulsioni scioviniste di alcuni nuovi partiti radicali di sinistra presentate (ormai già online!) alla Conferenza di Aberdeen del 2021. Proprio la pandemia ha dirottato la ricerca in loco durante l’ultimo biennio, fornendo tuttavia motivi e spunti analitici supplementari per nulla irrilevanti. In questo senso, il vero baricentro scientifico della ricerca proposta in questo volume lo si deve all’eccellente lavoro di gruppo – di cui molti frutti sono, mentre si scrive, in uscita su riviste internazionali e nazionali – sviluppato insieme ai colleghi del PRIN 2017 Immigration, integration, settlement: Italian-Style. Per chi si avvicinava agli studi sull’immigrazione con un approccio diciamo socio-politologico – e poi in Italia! – il confronto con i sociologi, demografi ed economisti specialisti del tema ha un valore enorme. Un ringraziamento va dunque a tutto il gruppo di ricerca sulle ‘seconde generazioni’: da Giuseppe Sciortino, coordinatore nazionale del PRIN, a Salvatore Strozza, responsabile dell’Unità locale di cui faccio parte, e a tutte le colleghe e i colleghi con cui stabilmente ci confrontiamo, e con cui sono certo avremo in futuro la possibilità di lavorare insieme. Mi preme, infine, ringraziare Pasquale Pennacchio e Michela Levato per aver avuto la pazienza di leggere parte del manoscritto. Inutile dire che ogni eventuale errore presente nel volume, come le posizioni intellettuali che esso muove, sono inequivocabilmente ed esclusivamente da attribuirsi all’Autore. Da quest’ultimo punto di vista il volume è animato da un interrogativo culturale per così dire implicito: quale posto la nostra democrazia sta provando ad assegnare allo straniero, e quale tendenza sta emergendo, sia in termini di modello istituzionale che di politiche pubbliche sull’immigrazione, sul tema dei diritti, del welfare, della cittadinanza? Insomma, quale ruolo la società postdemocratica in-
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tende assegnare alla cittadinanza plurietnica e pluriculturale, in un continente come l’Europa – ed in un paese come l’Italia – le cui previsioni di sviluppo demografico, le più favorevoli, sono inequivocabilmente caratterizzate dal segno meno? Il volume è strutturato in tre corposi capitoli, che mescolano letteratura, frame analitico-teorico e sviluppo del modello empirico; una nota esplicativa aiuta il lettore a districarsi nella mole di fonti e dati usati per la ricerca e per lo sviluppo del modello empirico, come per decifrare adeguatamente i grafici e le tabelle presenti. Il primo capitolo è dedicato alla letteratura sulla politica e le politiche dell’immigrazione, ad inquadrare sistemicamente il tema della cittadinanza – soprattutto per le seconde generazioni – nei modelli democratici, particolarmente quello italiano. Infine esso affronta dettagliatamente il modello di governo e di politiche pubbliche sull’immigrazione italiani nella sua evoluzione dal 1986 al 2019. Il secondo capitolo sviluppa, invece, il modello concettuale ed analitico sull’anti-immigrazione come fattore politico. Nel primo paragrafo si presenta una review critica sull’immensa letteratura riguardante il populismo e i partiti far-right, con una articolazione connessa ai due principali approcci: quello prevalente e fenomenologico, sia nell’ambito della politologia che della teoria politica strettamente considerata; quello minoritario di tipo strutturalista, ed esplicativo del fenomeno più sul lato della domanda, come per le più recenti teorie di status politics. Da queste ultime tesi si parte per elaborare un modello analitico empiricamente agibile sul populismo come dispositivo politico di difesa dello status che affiora ai margini del sistema democratico. Nei due paragrafi finali si approfondisce il ruolo svolto dalla deprivazione di status e dal risentimento anti-immigrazione nel favorire il supporto ai partiti far-right. L’ultimo capitolo è dedicato al caso italiano, in particolare al fenomeno della crescita di consensi alle piattaforme far-right tra il 2013 e il 2022. Il primo paragrafo registra gli elementi della crisi e della deprivazione nostalgica di status alla base del modello di interpretazione della crescita del populismo nel sistema politico italiano, tra cambiamenti di offerta e domanda politica. Il secondo affronta la fase di gestazione e crescita del fenomeno, che si apre con le elezioni politiche del 2013, e che poi dalle politiche del 2018 – le quali segnano una prima esplosione elettorale dei partiti populisti e
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far-right – matura ulteriormente nel passaggio delle elezioni europee del 2019 e, ancora, nel ciclo delle elezioni regionali che tra il 2018 e il 2020 porterà alla vittoria in molte regioni, tradizionalmente governate dal centro-sinistra, di presidenti soprattutto espressione della Lega o di FDI anche sotto la cosiddetta linea gotica. Nell’ultimo paragrafo si presenta il modello empirico che intende ‘stressare’ la tesi generale, e le ipotesi specifiche, sulla status politics e sul risentimento anti-immigrazione come drivers della crescita – atipica per dimensioni – dei soggetti far-right nel sistema politico italiano; crescita confermata anche dall’esito delle recenti elezioni generali del settembre 2022. Le conclusioni del volume sono costruite, come si dice, come dei findings. Richiamando una tradizione consolidata negli studi socio-politologici soprattutto anglosassoni, queste avanzano, infatti, anche tre idee per il governo dell’immigrazione e per le politiche pubbliche, concepite come una possibile, modesta suggestione all’azione del policy maker, e condite – visto il tema – da un po’ di ottimismo della volontà, come si sarebbe detto un tempo.
CAPITOLO 1 DEMOCRAZIE E GOVERNO DELL’IMMIGRAZIONE Il modello italiano tra politica e politiche
1.1. L’evoluzione degli studi di migration politics Nell’ultimo trentennio, la letteratura sull’immigrazione nelle scienze sociali e politiche è cresciuta enormemente. Potrebbe dirsi che solo un altro argomento abbia attratto la stessa attenzione: il populismo. Come è noto agli studiosi, il nesso non è affatto casuale: verrebbe da dire che più che di una analogia si tratti, talvolta, quasi di una interdipendenza, nonostante ancora molti percorsi di indagine restino aperti sul rapporto tra immigrazione e affermazione delle nuove destre populiste (Shehaj et al. 2021). La relazione tra populismo e immigrazione è in qualche modo costitutiva degli studi politologici che da ogni punto di vista – policy, partiti, media, intermediazione organizzativa, elezioni – hanno affrontato il più ampio tema della postmodernità democratica, e che sovente hanno incrociato i metodi, le evidenze, le teorie che in parallelo stavano seminando il campo degli studi anche conosciuto come migration politics. Perché proprio sul crinale tra ‘il vecchio’ mondo fordista e ‘il nuovo’ ordine della globalizzazione emerge una forte attenzione allo studio dei rapporti tra immigrazione e democrazie, e dunque ai modelli di politica dell’immigrazione. Già al principio degli anni Novanta si coglieva il punto affermando come fosse necessario considerare che l’immigrazione stesse sfidando “sia lo stato nazionale che il sistema democratico”. Per comprendere, quindi, i diversi modelli di istituzionalizzazione della politica migratoria era opportuno leggerne i tratti alla luce della esigenza dei sistemi politici di governare fatti sociali nuovi e rilevanti; primo fra tutti, che “un gran numero di cittadini stranieri reclutati nel mercato del lavoro porta[va] con sé nuove lingue e culture”, manifestava il desiderio di restare in maniera “permanente” nel paese, provocando così una pri-
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ma separazione tra democrazie pronte “ad accettare questi come un dato di fatto” e altri stati fermi all’idea “che i lavoratori stranieri e le loro famiglie [fossero] solo ‘ospiti’ temporanei e non futuri membri dello stato nazionale” (Hammar 2017[1990], 2). Insomma, l’immigrazione stava allora e sta sfidando oggi sempre più il paradigma democratico, con un ritmo di incidenza a crescita esponenziale: dalla decolonizzazione alla globalizzazione, dal crollo del mondo sovietico all’11 settembre 2001, dalla crisi dei subprime alla pandemia. Le democrazie mature si trovano non solo a governare fenomeni prima sconosciuti, ma anche a ridefinire sé stesse e i cardini del processo politico, tenendo ormai al centro un’agenda dell’immigrazione che ha progressivamente egemonizzato, nei fatti come nella narrazione, quelle economica e del lavoro, sui diritti e sul welfare, per non dire di frontiere, sicurezza e cittadinanza. In questa dinamica causa-effetto leggibile in entrambi i versi, è addirittura la stessa natura dei soggetti che muovono il processo democratico, i partiti, ad uscirne trasformata: l’immigrazione genera nuovi partiti, come quelli populisti e far-right (Mudde 2007; 2019), ma trasforma anche i vecchi partiti, come quelli tradizionali (Van Spanje 2010; Han K. 2015). Già questo basterebbe a spiegare perché la letteratura sulla politica e sulle politiche dell’immigrazione sia cresciuta enormemente nel corso degli ultimi trent’anni, arrivando a coprire tutti i settori delle scienze sociali, e nell’accezione più larga: dalla demografia alla sociologia, dall’economia agli studi antropologici, dalla scienza della politica a quella delle politiche. Come sempre accade in questi casi, ad emergere è anche una ricchezza di approcci, di modelli teorici e di interpretazione, piuttosto difficile da sintetizzare senza esporsi all’incompletezza. Così da principio, l’attenzione degli studi è caduta sui modelli istituzionali o comunque generali della politica migratoria, e sull’analisi dei differenti drivers che nel sistema politico aiutano a spiegarne logiche e contorni: il ruolo svolto dal mercato e dall’economia, quello rivestito dal modello sociale e culturale, i fattori istituzionali e strutturali (Hammar 1990 [2017]; Hollifield 1992, 2004; Freeman 1995; Kymlicka 1995, 2000; Joppke 1999; Geddes 2003; Guiraudon 2003; Castles 2004; Guiraudon e Lahav 2006; Bosswell 2007). Parallelamente, è stato anche il rapporto tra modello politico migratorio e fattori che influenzano le scelte di policy sull’immigrazione ad attrarre il fuoco analitico.
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Dalla fine degli anni Novanta, ciò ha consentito agli approcci neo-istituzionalisti o comunque sensibili alla path dependency di riflettere su come i fattori istituzionali e socioculturali caratterizzanti i diversi sistemi di democrazia liberale influenzassero le politiche dell’immigrazione. Superata, infatti, l’ipotesi che un unico ed omogeneo modello di politica dell’immigrazione caratterizzasse le democrazie mature, emergono così paradigmi esplicativi basati sulla storia immigratoria del singolo sistema politico, fino ad individuare tre distinti modelli immigratori: quello dei paesi english-speaking, in cui l’istituzionalizzazione della politica migratoria risente del ruolo “critico fondativo” dell’immigrazione; quelli dell’Europa centro settentrionale, forgiati già in pieno fordismo dall’esigenza di regolare anche l’integrazione di migrazioni intese come domanda di manodopera industriale; gli stati late comers dell’Europa meridionale – tra cui l’Italia – che invece maturano proprie politiche e istituzioni dell’immigrazione allorquando il fenomeno ha già assunto caratteri differenti, connessi più alla globalizzazione che alla decolonizzazione o all’industrializzazione, ed è spesso contraddistinto da una diversa composizione interna – rifugiati, richiedenti asilo, nuovi migranti economici – delle migrazioni (Freeman 1995). Successivamente, è la prima crisi dell’ordine globalizzato innescata dall’11 settembre 2001 ad aprire uno scenario nuovo per gli studi sull’immigrazione; il dilagare dell’elemento securitario delle politiche accresce, infatti, l’importanza degli approcci focalizzati sulla cosiddetta securitization. Così, il tentativo di spiegare le differenze tra i modelli di politica dell’immigrazione inizia ad aggiungere al criterio separativo basato sul livello di industrializzazione del singolo sistema anche altri fattori di modellizzazione: quelli connessi alle dinamiche sociali sottese ai processi migratori; quelli legati alla globalizzazione e alla geopolitica; quelli interni al sistema politico nazionale (Castles 2004, 858). Con il nuovo secolo, la rinnovata centralità del fenomeno ne favorisce anche la complessità analitica. È proprio in questa fase che, ad esempio, per la ricerca sui rapporti tra politica democratica e immigrazione si ripropone un dilemma insieme di campo scientifico e di prospettiva euristica: quello sul rapporto tra immigrazione e crescita dei partiti populisti. A risolverli, almeno apparentemente, è il netto prevalere negli studi politici della interpretazione fenomenologica, di teoria organizzativa e delle élites, proposta da Cas Mudde (2004, 2007),
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rispetto ad altre teorie che provano – e già avevano provato (Betz 1990, 1994; Van der Brug et al. 2003) – a fare emergere la dimensione anti-immigrazione come ‘costituiva’ del populismo, o ad analizzare il fenomeno ricorrendo alle teorie di status e a quelle basate sullo sviluppo politico (Norris 2005; Rydgren 2007). Un effetto positivo è che tale attenzione consente agli studi sulla politica e sulle politiche dell’immigrazione di sviluppare un campo e uno statuto di ricerca maggiormente definiti, ma anche non subalterni allo zeitgeist populista. Se sul piano delle grandi divisioni di ricerca ad emergere è, dunque, prima di tutto quella tra studi sulle politiche di controllo e di gestione dei flussi, da un lato, e quella sulle politiche di integrazione, dall’altro, rispetto ai modelli di politica dell’immigrazione i due approcci, poi classici, della client politics (Freeman 1995) e del cosiddetto embedded liberalism (Hollifiled 2000) anticipano quello che sarà un elemento centrale della ricerca sulla politica dell’immigrazione: la rilevanza delle politiche e del processo di policy. La ricerca sulla politica migratoria inizia così a transitare verso la centralità delle politiche che vi danno forma, anticipando quello che in letteratura sarà – e ancor oggi è – la questione centrale del dibattito concettuale: perché la politica migratoria (spesso) fallisce. Evidenziato dagli studi di campo e di caso che progressivamente affollano un settore di ricerca sempre più vivace, il policy gap trova già al principio spiegazioni complesse, prima fra tutte la naturale trasversalità del fenomeno da governare – asilo, rifugiati, flussi, integrazione, cittadinanza – che produce una tendenza a disegnare politiche sovente troppo orizzontali, anche per rispondere alla pluralità di fattori che ‘muovono’ l’immigrazione: socioeconomici, politico-istituzionali, culturali, ma anche esterni o meglio connessi alla globalizzazione. Se, per un verso, questo ha negli anni provocato uno iato tra politica e politiche dell’immigrazione, dall’altro – come subito si evidenzia – stimola le democrazie a sviluppare un alto livello di specializzazione e differenziazione nelle politiche pubbliche, affinché queste possano essere adeguatamente responsives – questo il secondo aspetto – in relazione alla pluralità di interessi, idee, valori ma anche istituzioni che compongono il fenomeno (Bosswell 2007, 75). Più che una policy clientelare, col tempo quella sull’immigrazione diviene una policy di network, il cui “campo di battaglia” è costituito ormai dalla rete “confusa” di attori sociali e istituzionali,
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di interessi e interazioni coinvolti nell’approvazione e poi implementazione delle misure (Ambrosini 2021). Non già che l’intera e vasta produzione di studi di politica dell’immigrazione possa però ridursi alla cosiddetta gap-hypothesis. È ormai talmente vasta la specializzazione, e per matrice – area anglo-sassone e centro-europea, ad esempio – e per approccio euristico, da poter riordinare la letteratura sull’immigrazione, e senza pretesa di completezza, attraverso una pluralità di campi di studio: economia delle migrazioni, studi demografici, culturalismo ed etnografia, asilo rifugiati e displacement, studi etnici e studi di genere, bordering, integrazione e cittadinanza, party politics, securitization. Un corpo di ricerche così ampio ed autorevole, per modelli analitici o empirici, da consentire come unico ed inevitabile rinvio quello manualistico-enciclopedico (Triandafyllidou 2016, 2018; Odmalm 2018; Caponio et al. 2019; De la Torre 2019; Gold et al. 2019; Menjívar et al. 2019; Giugni et al. 2021). E tuttavia, volendosi limitare alle collocazioni più vicine nel tempo, gli studi di più ampio respiro hanno di fatto rivitalizzato il dibattito su natura, modelli, e soprattutto su effetti ed efficacia della politica di regolazione, integrazione e cittadinanza (Joppke 2010; Hollifield et al. 2014; Kymlicka 2015; Hammar 2017; Caponio e Cappiali 2018). Al contempo, e un po’ trasversalmente, non decresce l’attenzione per la gap-hypothesis, ormai interpretata nella sua triplice valenza analitica: come gap tra discorso pubblico e politiche sull’immigrazione, ma anche tra politiche e loro effettiva applicazione, e ancora come scarto tra output ed outcome delle politiche migratorie (Czaika e De Haas 2013). Ciò che si può dire, in definitiva, è che il campo di ricerca sulla politica dell’immigrazione appare ormai cresciuto notevolmente nei modelli teorici e metodi empirici, ed esibisce oggi una tale ricchezza di approcci e di piste di indagine – complice anche l’inarrestabile centralità del fenomeno in sé – da proporre allo studioso di politica stimoli quasi inesauribili: da studi orientati alla political economy (Clemens 2011; Collier 2016; Fenwick 2019; Alesina e Tabellini 2022) a quelli che coinvolgono la governance multilivello specie in ambito europeo (Caponio e Borkert 2010; Geddes 2018; Caponio et al. 2019) fino a quelli sull’integrazione e sulla cittadinanza (Baldi e Goodman 2015; Huddleston e Vink 2015; Joppke 2017; Stoke-Du Pass e Fruja 2017; Goodman 2019). Per non dire, infine, delle ricerche che hanno focalizzato l’attenzione sulla politicizzazione dell’immigrazione da diversi
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punti di vista, ovvero dell’agenda dei partiti, della loro radicalizzazione politica, o ancora della polarizzazione politica delle issues connesse all’immigrazione (Alonso et al. 2011; Odmalm e Bale 2015; Odmalm 2018; Ruedin e Morales 2019; Lutz 2021; Hutter e Kriesi 2022). 1.2 Populismo e politiche della cittadinanza. Le seconde generazioni tra polis ed ethnos La centralità politica dell’immigrazione nelle cosiddette postdemocrazie origina, insomma, nella sfida trasformativa che questa pone al modello di cittadinanza. Una sfida per le frontiere dello Stato e per il perimetro democratico, che sembra rigenerare l’antica contrapposizione tra polis ed ethnos, tra l’universo politico e la comunità. A confermarlo è il fatto che, soprattutto a seguito della crisi del 2008, il generale riposizionamento di partiti ed elettori sull’immigrazione e sul ‘globalismo’ economico e politico si sia manifestato attraverso una loro polarizzazione attorno alla linea di frattura etnocentrica (Hooghe e Marks 2018, 123). Nuove soglie e nuovi bordi si riflettono, dunque, anche sull’idea di cittadinanza, e sulle politiche che ne codificano qualità e confini internamente alla singola democrazia. La reazione del cosiddetto populismo far-right alla crisi della globalizzazione si traduce, così, in visioni restrittive delle politiche di integrazione, come nell’opposizione ad altre concezioni della cittadinanza – certo non esenti da critiche – di tipo repubblicano e cosmopolita. Questo perché l’ambizione di rappresentare, nell’essenza, un campo concettuale e un universo di soggetti largo e indistinto quale è il popolo – o la nazione, la patria – si riversa frequentemente nell’invocazione di categorie negative da parte delle nuove destre populiste e sovraniste; nel ricorso ad una narrativa di bordering che appare essa stessa un tentativo di conferire corpo culturale e spazialità ad un messaggio politico essenzialmente oppositivo del globalismo, dell’élite, del multiculturalismo, e al contempo sostanzialmente rivedicativo di un mero ritorno al “passato” come valore in sé. Un passato che è la edificazione simbolica e politica di nuovi “perimetri istituzionali dell’identità e dell’appartenenza” (Decimo e Gribaldo 2017, 4). Per questo, muovendo dal proprio cuore ideologico che Mudde chiama nativista (Mudde 2016, 302), i partiti far-right enfatizzano “la
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necessità di ridare potere allo Stato” e all’integrità dei suoi bordi e dei suoi contorni naturali di cittadinanza (Mazzoleni e Ivaldi 2022, 305). Il nativismo diventa un perno politico etnocentrico attorno a cui costruire l’opposizione all’immigrazione, ma soprattutto ad ogni ipotesi espansiva della cittadinanza, la quale secondo questi partiti non deve travalicare i bordi linguistici ed etnici tradizionali della nazionalità, e deve assolutamente rifuggire ogni prospettiva basata sul multiculturalismo (Kymlicka e Norman 2000; Joppke 2005, 2010; Hammar 2017). La sfida di lungo periodo che l’immigrazione prospetta ai sistemi democratici prende corpo, dunque, nella possibilità o meno di concepire politiche della cittadinanza fondate su una idea di demos non escludente e quindi sganciate da quel principio dell’omogeneità etnica e di origine sostenuto dal populismo far-right (Beckman 2009: 64). Invecchiamento Fecondità sociale
Popolazione 2020 (V.A.)
Δ 2020-2050 (V.A.)
Δ 2050/2020 Δ 2020-2050 (%) (%)
Δ 20202050 (%)
Germania
83.135.181
-465.457
-0,56
14,60
0,001
Francia
67.197.367
2.813.536
4,19
16,10
-0,001
Italia
60.286.529
-2.161.497
-3,59
25,30
0,122
Danimarca
5.811.651
286.539
4,93
12,20
0,044
Polonia
37.941.122
-3.838.918
-10,12
14,70
0,159
Olanda
17.404.793
737.499
4,24
24,70
0,064
Ungheria
9.771.975
-501.623
-5,13
17,20
0,181
Tabella 1. Proiezioni demografiche al 2050 di alcune democrazie dell’Europa a 27. Fonte: EUROSTAT 2022. Note. I valori della popolazione si riferiscono alle proiezioni 2019-2100, al 1° gennaio (PROJ_19NP). L’invecchiamento sociale indica la “projectedold-age dependency ratio” (TPS00200), mentre la fecondità le stime del “fertility rate by age and type of projection”(PROJ_19NAASFR$DEFAULTVIEW).
La tabella 1 consente di cogliere appieno questa sfida di prospettiva. I paesi dell’Europa a 27 di cui si riportano le proiezioni demografiche sono certo un po’ diversi tra loro per popolazione, industrializzazione,
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e altri fondamentali di sistema. E tuttavia, è interessante notare quali sono i tre paesi che nel 2050 avrebbero una perdita di popolazione significativa, ovvero Italia, Ungheria e Polonia, mentre la Germania sembra poter metabolizzare una perdita di circa 500.000 abitanti su 83 milioni. Come si vede, non è tanto il tasso di fecondità che penalizzerebbe i primi tre paesi, quanto piuttosto – e soprattutto per l’Italia – l’esplosione dell’invecchiamento sociale. Questo non avviene però per l’Olanda, che pure vedrebbe crescere di oltre venti punti (+24,7%) l’invecchiamento sociale; e Olanda, Danimarca e Francia – addirittura in valore negativo – sono paesi in cui il tasso di fecondità crescerebbe peraltro di meno rispetto ad Italia, Ungheria e Polonia. Perché, allora, questi ultimi tre sistemi vedrebbero ‘crollare’ la popolazione? C’entra, forse, qualcosa la rigida e restrittiva politica sull’immigrazione e sulla cittadinanza per cui questi sistemi hanno optato negli ultimi anni? Il meta-tema delle politiche pubbliche sull’immigrazione è proprio questo: il futuro della cittadinanza democratica. L’esplosione del ciclo populista seguito alla crisi del 2008, e il suo risvolto di politica anti-immigrazione centrata sull’ethnos più che sul demos, più che produrre democrazie illiberali nell’immediato rischia, infatti, di generare stati senza cittadini nel lungo periodo. Si tratterebbe di un paradosso o forse una nemesi dell’illusione nativista: l’ossessione dei populisti di difendere il popolo dall’immigrazione, dalla sua sostituzione etnica e culturale, li lascerebbe senza popolo. La questione è naturalmente molto più complessa, e trascende l’agenda delle politiche e dei partiti, ma non certo quella della politica sulla cittadinanza di cui, sul lungo periodo, i diversi sistemi democratici si dotano. E’, infatti, il modello di acquisizione della cittadinanza operante nel singolo sistema politico il principale fattore proiettivo del demos, e in questo convergono diversi fattori: il quadro istituzionale che detta tempi e condizioni per l’acquisizione della cittadinanza (Itzigisohn 2000; Owen 2010; Koopmans et al. 2012; MPG 2013; GLOBALCIT 2017; Stokes-Du Pass e Fruja 2017) ma anche la resilienza nei modelli nazionali di integrazione civica (Joppke 2010; Mouritsen 2013). In generale, a rilevare è la contrapposizione tra due opposte visioni future per la cittadinanza: una di tipo politico, in qualche modo erede di una idea repubblicana e di funzionalismo democratico – è cittadino chi contribuisce per diritti e doveri al corpo vivo della democrazia e alla creazione del
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‘bene comune’ – e una più difensiva ed esclusionista, tipica dei partiti far-right, in cui la cittadinanza si viene a connotare etnicamente (Pasquino 2008). Una contrapposizione che, non sfugge, assume una valenza di sistema nell’immediato e in prospettiva, perché diversa è la ricaduta di queste visioni, ad esempio, sulle seconde generazioni, in termini di accesso ai diritti sociali, politici, di cittadinanza piena (Arrighi e Bauböck 2017, 619-20). Immaginare, tuttavia, che le politiche istituzionali di cittadinanza non contemplino una idea del limite, anche solo numerico, è illusorio; rivela, come qualcuno ha scritto, i desiderata di un pensiero liberal dominante per cui le democrazie sarebbero lanciate verso un futuro post-nazionale (Collier 2016, XII). Allo stesso tempo, è altrettanto ipocrita oltreché analiticamente fuorviante assumere che un lungo e persistente ciclo populista non abbia influito in senso restrittivo sulle politiche di cittadinanza praticate dalle principali democrazie occidentali, quantomeno rallentando processi di policy inclusivi, e certamente stimolando l’emersione di quelle che Rokkan chiamava soglie di inclusione politica ([1970] 2009), soprattutto per le seconde generazioni di immigrati. C’è, poi, un ulteriore elemento ad influire sull’agenda della cittadinanza in molti sistemi democratici, elemento che spesso si sovrappone – o meglio si confonde – alla politica di regolazione dei flussi di immigrazione: la contabilità della popolazione di origine straniera. La crescente retorica anti-immigrazione e la tendenza di parte dell’opinione pubblica ad “assimilare l’immigrazione agli sbarchi del Mediterraneo” (Strozza et al. 2021, 9) spesso genera nel discorso pubblico una confusione tra segmenti dell’immigrazione – lavoratore straniero permanente, immigrato, migrante, rifugiato – non tutti coinvolti nei processi di accesso alla cittadinanza; confusione alimentata dalla strategia di soggettivizzazione negativa dello straniero operata dai partiti far-right. Un dato spesso trascurato è che molte delle democrazie europee hanno ormai alle spalle quantomeno un trentennio di storia immigratoria, e il pluralismo etnico della loro base demografica è già un fatto, che i meccanismi sulla cittadinanza stentano a registrare non solo in senso politico-istituzionale ma anche statistico (Jacobs et al. 2009, 72-76). Il prevalere, infatti, di una misurazione essenzialmente anagrafica dei foreign-born non consente di quantificare adeguatamente
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un universo demografico utile, prospetticamente, nella programmazione della policy di cittadinanza: quello degli immigrant background citizen (IBCs) ovvero dei cittadini con retroterra migratorio pieno o misto (Lanzieri 2011, 6). In definitiva, però, sono le scelta di politica pubblica e il modello istituzionale di acquisizione della cittadinanza a prospettarci una idea del futuro perimetro di cittadinanza di un sistema politico, e a indicare come questo si sviluppi su una idea politica (polis) piuttosto che etnica (ethnos). Da un lato, è la divisione tra sistemi regolati iure sanguinis e ius soli (ovvero, fondati sull’acquisizione automatica della cittadinanza per la sola nascita sul suolo, indipendentemente dalle origini) a tratteggiare, in proiezione, due perimetrazioni differenti del demos in senso quantitativo ma soprattutto qualitativo. Dall’altro, è l’esistenza o meno nel singolo sistema politico di meccanismi condizionali quali soglie, franchigie linguistico-culturali, di permanenza e di status occupazionale a restringere o dilatare gli effetti della policy. Nel combinarsi, sono comunque questi elementi a determinare, sul lato dell’offerta di policy, l’ampiezza d’accesso, i tempi e l’eventuale automaticità del processo di acquisizione della cittadinanza per le seconde generazioni. Stranieri residenti (2019) Stock Germania 13.457.000
Policy cittadinanza
Incidenza IBCs (2051)
Incidenza Meccanismo MIPEX-56 (2020) (0-14 anni) (Totale) 16,1%
ius soli
42/100
51,6%
38,8%
Francia
8.428.660
12,8%
ius sanguinis
70/100
22,8%
20,7%
Italia
6.069.000
10,4%
ius sanguinis
40/100
49,4%
34,6%
Tabella 2. Acquisizione di cittadinanza, tendenza immigratoria e proiezioni al 2051 sui cittadini con background migratorio in Germania, Francia e Italia . Fonte: sui meccanismi e i legal frames EUDO-CITLAW 2017, mentre per il Mipex score (scala 1-100), MIPEX 2020. Tutti i dati demografici sono dell’OECD (OECD 2022). Le proiezioni sono estratte da Lanzieri (2011, 31). Note. Per IBCs (full immigrant background citiziens) si indicano in questo caso i cittadini sia nati nel paese che nati all’estero da genitori nati all’estero e immigrati, cioè prime e seconde generazioni, non potendosi cogliere statisticamente quelli con background misto nati da un genitore nativo (Lanzieri 2011, 3).
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La Tabella 2 illustra il caso di tre grandi democrazie industriali fondative dell’Europa: Francia, Germania e Italia. L’indice di facilità di accesso alla cittadinanza adoperato è il Migrant integration policy index (MIPEX 2020), che valuta tra i tre sistemi quello francese come il più “facilitante” per l’accesso alla nazionalità degli immigrati. L’indice, tuttavia, al pari di quello elaborato dal gruppo di Fiesole (EUDO-CITLAW 2017), non è centrato sul meccanismo di riconoscimento, ma considera uno spettro molto ampio di fattori, sovradimensionando l’effetto espansivo dei sistemi iure sanguinis soprattutto per l’impatto che questi hanno sulle naturalizzazioni. Per quanto non del tutto infondato – perché gli effetti quantitativi di una policy sulla cittadinanza si misurano anche nel medio periodo – bisogna però considerare che, su un tempo più lungo, sono gli effetti qualitativi a suggerire dove vada il sistema, e soprattutto dove sia diretta una democrazia. E da questo punto di vista i sistemi che generalizzano, anche sotto condizioni, automatismi basati sul meccanismo del suolo sono gli unici, in proiezione, a svincolare il corpo democratico dal principio etnico, di fatto accogliendo una idea repubblicana e politica della cittadinanza (Kymlicka 1995). Sono questi elementi, contemperati con i fattori di path dependency come la storia immigratoria o coloniale del singolo paese, a consentire di decifrare le differenze tra i sistemi, in questo caso francese, tedesco e italiano. Il primo, come si può notare, nonostante faccia perno su un quadro giuridico sostanzialmente iure sanguinis (EUDO-MPG 2013, France) pare funzionare in maniera “fortemente integrativa” (Bertossi e Abdellali 2013). Per una democrazia, come quella francese, nella quale la precoce politicizzazione dell’immigrazione ha promosso con anticipo il tema nell’agenda (Guiraudon 1998), e anche in ragione di un recente passato coloniale “difficile” e di una legacy culturale sì laica ma alquanto sciovinista, questo non è un dato scontato. A ciò andrebbe aggiunto che tale modello governa un carico di policy non indifferente, dato l’aumento di circa 1.3 milioni di immigrati e di 1,3 punti di incidenza degli stranieri nel periodo 2009-2019 (OECD 2022). La proiezione a trent’anni è quella di una popolazione in crescita di oltre 2.8 milioni (EUROSTAT 2022) ma destinata a non allargare significativamente la propria qualità plurietnica, con un cittadino su cinque, nel 2051, che avrà un background immigratorio. In sostanza, quello
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francese sulla cittadinanza appare più un modello sciovinista che etno-centrato: contenimento dell’invecchiamento sociale; sostegno alla famiglia; selettività – sulla storia migratoria del paese – nell’uso estensivo dello ius sanguins per aumentare il diaframma di accesso alla cittadinanza, seguendo una logica che rompe le diaspore (Collier 2016, 36-37) per favorire la potenziale integrazione dei nuovi francesi. Molto diverso, invece, è il caso della Germania. Qui l’originaria politica migratoria ‘fordista’, nata negli anni’60 sull’esigenza di importare manodopera industriale (Münz e Ulrich 2003, 35-36), si è consolidata negli anni e poi adattata alla nuova domanda di immigrazione, restando tuttavia anche successivamente il fondamento delle politiche di gestione dei flussi come di quelle di integrazione. Dopo il 2000, è possibile considerare il sistema tedesco per l’acquisizione della cittadinanza sostanzialmente basato sullo ius soli, pur lievemente condizionato1. Una scelta di policy della cittadinanza che poggia su tre pilastri: la relativa solidità del modello neo-fordista di organizzazione economica e sociale; la chiara scelta operata sul modello istituzionale generale; un clima sociale generalmente favorevole alla eliminazione delle soglie di cittadinanza (Terwey 2003, 73). Questo ha consentito alla Germania, più di altri sistemi europei, di governare quasi programmaticamente sia l’immigrazione in sé che i processi di acquisizione della cittadinanza – si pensi al rapporto con la comunità turca, e in anni più recenti alle scelte del governo Merkel durante la crisi dei rifugiati siriani – disegnando tali processi non etnicamente, ma sviluppandoli attorno ad una idea di demos politico, più rappresentativo in prospettiva dei contorni effettivi che il corpo sociale vivo e produttivo della Germania va assumendo. Il paese già attualmente osserva una alta incidenza (più del 16%) di stranieri residenti regolari, che secondo le stime fatte nel 2017 dal Bundesambt für Statistik sale a un 25,5% di nuovi tedeschi (IBCs), mentre Francia e Italia erano ferme nel 2015, rispettivamente, al 12,9% e al 10%. Questo si spiega con l’evidenza – spesso tralascia1
La legge sul diritto di cittadinanza (Gesetz zur Reform des Staatsangehörigkeitsrecht) del 15 luglio 1999 è entrata in vigore il 1° gennaio 2000. Secondo la stessa, tutte le persone nate su suolo tedesco da genitori non nati in Germania sono automaticamente cittadini tedeschi. L’unica condizione è che almeno uno dei genitori sia regolarmente residente nel paese da almeno 8 anni e provvisto di un permesso a tempo indeterminato (EUDO-LAWCIT 2017), cioè ne viva la collettività politica e sociale.
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ta – che il modello tedesco ‘cittadinizza’ in larga parte alla nascita, perché alle seconde generazioni basta garantire che uno solo dei genitori risieda legalmente da 8 anni per essere tedeschi. Da questo punto di vista, la Germania è una democrazia lanciata – come riporta il dato sulle proiezioni al 2051 – verso un futuro multietnico e protetto dall’invecchiamento sociale (tab.1), con in prospettiva più di un tedesco su tre – più di uno su due nella fascia 10-14 anni – che avrà alle spalle una storia familiare di immigrazione. Prospettiva che ha, ovviamente, avuto le sue ripercussioni nel discorso pubblico particolarmente dopo la crisi del 2008, favorendo l’emergere di nuovi soggetti populisti dell’ultradestra, come l’AfD (Alternative für Deutschland), i quali hanno iniziato a raccogliere consenso attorno ad una agenda etnocentrica e anti-immigrazione, senza però mai sfondare la soglia del governo né minacciare la stabilità del sistema partitico federale. Più forti e paradossalmente più risalenti nel tempo sono invece la politicizzazione dell’immigrazione e, in un certo senso, l’emersione del cleavage anti-immigrazione nel caso italiano (Colombo e Sciortino 2004; Zaslove 2004; Ruzza 2005; Cento Bull 2009; Ruzza e Fella 2009; Magnani 2012). Non è, tuttavia, esclusivamente in questi elementi che vanno ricercati i fattori che modellano nel sistema italiano l’accesso alla cittadinanza delle seconde generazioni, sebbene questi risultino essenziali per spiegare caratteristiche, limiti e ‘vuoti’ del dibattito sulle politiche di cittadinanza avvenuto nell’ultimo trentennio (Zincone 2010; Caponio e Cappiali 2018). Come si è notato recentemente, un solo dato su tutti può illuminare quale premessa analitica: il regime della cittadinanza in Italia è ancora oggi regolato da una norma del 1992, cioè di un tempo in cui non solo l’immigrazione era per l’Italia un fatto anche “statisticamente” poco rilevante (Strozza et al. 2021, 41), ma in cui soprattutto l’agenda politica sull’immigrazione era indenne dall’impatto devastante di ciò che sarebbe successo dopo: l’11 settembre 2001 e il terrorismo internazionale, il ciclo di austerità, la crisi dei rifugiati del 2011-2013, la pandemia, ma soprattutto l’esplosione elettorale dei partiti populisti. È dunque prima di tutto il disegno istituzionale e di policy ad influenzare diaframma, tempi e orientamento generale dei processi di acquisizione della cittadinanza nel sistema italiano, a partire dal
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principio della nazionalità originaria su cui si basa (EUDO-MPG 2013, Italia, 2013). Si tratta di un modello senza politica, o forse meglio di un modello ispirato da una visione restrittiva sulla cittadinanza non esplicita e derivata dalle politiche (Howard 2009). Un modello che è sostanzialmente prodotto della stratificazione di misure settoriali eterogenee assunte in tempi diversi, non ultime le ripeture sanatorie alle quote annuali di permessi approvate nel periodo dal 1994 al 2002. Ed è proprio questa assenza di una vera programmazione sulla cittadinanza, insieme “ad una normativa sbilanciata verso lo ius sanguinis” che apre il diaframma delle acquisizioni ma solo in anni eccezionali, che spiega l’andamento caotico ed irregolare delle nuove cittadinanze in Italia nell’ultimo quindicennio, con dei picchi annuali superiori a paesi come la Germania e la Francia seguiti da un crollo dei numeri (Strozza et al. 2021, 39). L’accesso alla cittadinanza per le seconde generazioni di immigrati resta nel sistema italiano, insomma, sostanzialmente restrittivo, soprattutto per l’assenza di un modello di politica chiaro, strategico, programmatorio, adatto ai tempi. La questione si radica in un vuoto di politica dell’immigrazione, come evidenzia la perifericità nell’agenda parlamentare e politico-sociale del dibattito sull’introduzione dello ius soli o del (piuttosto indecifrabile) ius scholae; vuoto cui certamente ha contribuito il fatto che nell’ultimo decennio il sostegno alle agende anti-immigrazione sia cresciuto enormemente. Sebbene, anche altri fattori di domanda sociale abbiano concorso all’invisibilità dell’agenda di policy sulla cittadinanza in Italia. Eppure, come evidenziano le tabelle 1 e 2, al paese sono attribuite proiezioni demografiche molto negative, con un decremento di popolazione di quasi 2.2 milioni nel 2050 e un invecchiamento sociale già oggi tra i più alti al mondo. Il fatto poi, che la proiezione sui cittadini con background immigratorio per il 2051 sia relativamente alta (34,6%), non è che una conferma di come questo vuoto di politica della cittadinanza rischi di lasciare il potere di definire quantità e qualità del corpo democratico al tempo in quanto tale. Non si tratta, come qualcuno pur sostiene, di un effetto collaterale di un modello sull’immigrazione di tipo no-policy: va infatti riconosciuto come l’Italia abbia istituzionalizzato un suo modello di governance dell’immigrazione nell’ultimo trentennio, pur non esente da tanti limiti. Il principale dei quali è certamente la mancata rifor-
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ma della policy sulla cittadinanza, rispetto alla quale valgono, mutatis mutandis, alcune delle considerazioni emerse nel dibattito sulla estensione del voto ai sedicenni (Dalla Zuanna e Zannini 2021): per le democrazie, come quella italiana, a saldo demografico negativo e a forte invecchiamento sociale, la sfida dello ius soli è di rigenerazione del demos e del tessuto rappresentativo, usando quella che Kymlicka chiama la leva della cittadinanza non-nazionale (2015, 6-8) per proteggere il sistema politico da future derive illiberali. 1.3. Il modello italiano sull’immigrazione: dipendenza dal percorso e policy gap I ritardi espressi sulle politiche della cittadinanza si riflettono, in qualche misura, anche in altri aspetti del modello generale di governo dell’immigrazione sviluppato dall’Italia nell’ultimo trentennio, e in particolare nella forte divaricazione che esso esprime sui due versanti principali della politica migratoria: quello del controllo dei flussi e quello dell’integrazione. Ritardi essenzialmente dovuti ad un doppio limite: di modernizzazione e di policy gap. Per molti versi, lo sviluppo del modello italiano di governo dell’immigrazione, la cui tappa essenziale è negli anni ’90 del secolo scorso, presenta tutti quei limiti di apprendimento di policy tipici dei cicli della fase post-fordista. Come ebbe modo di notare Paul Pierson, quando assumiamo che uno degli effetti della crescita dell’ambito di governo è nell’influenza delle “politiche sulla politica”, è importante decifrare in che termini questo avvenga, perché la capacità di un modello di governo di progredire guardando alle politiche precedenti (policy feedback) è influenzata, nelle democrazie mature, più dalla domanda sociale (mass publics) che da logiche istituzionali interne (Pierson 1993, 597). In questa prospettiva, i difetti di politics del modello italiano sull’immigrazione debbono considerarsi sì derivanti dal percorso di modernizzazione (Freeman 1995), ma è anche vero che in alcuni ambiti di politica dell’immigrazione – si pensi alla cittadinanza, ma anche al versante dell’integrazione – questi limiti trovano spiegazioni più recenti. Come la tendenza, giustamente notata, a un discorso pubblico sull’immigrazione limitato all’emergenza (Strozza et al. 2021, 13),
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che evidenzia l’influenza di una logica di mass publics sull’arena delle politiche che fanno la politica dell’immigrazione. Ma ancora di più, è la crescita durante l’ultimo ventennio di un forte risentimento anti-immigrazione nella società ad illuminare, per così dire, tale percorso. E tuttavia, anche una lettura del modello italiano unicamente in chiave di gap-hypothesis rischia, come detto, di non coglierne le complessità. Non è contestabile in sé l’evidenza di un sistema politico che entra nel lungo quindicennio aperto dalla crisi dei subprime – tra austerità e crisi dei rifugiati – sprovvisto di importanti infrastrutture di policy sull’immigrazione; in cui “l’attenzione politica e mediatica si focalizza comprensibilmente sulla gestione della crisi dei rifugiati” nella costante disattenzione “verso l’ordinaria amministrazione…[che] resta affidata a un sistema di norme ormai obsoleto e sempre meno effettivo” (Pastore 2016, 593). E il policy gap aiuta certamente a spiegare parte del difetto di programmazione nel modello italiano sull’immigrazione. Da qui, però, a tratteggiare tale modello come privo di una sua identità e di un percorso, la distanza è molta. Il rischio è quello di classificare frettolosamente come inconsistente o addirittura assente una traiettoria che ha investito i diversi lati del rapporto con l’economia, il mercato del lavoro, la società in generale (Reynieri 1998; Sciortino 2000; Colombo e Sciortino 2004; Ambrosini e Triandafyllidou 2011; Ambrosini 2013). Dunque, il punto è di prospettiva analitica più che di giudizio politico-culturale: di fatto e non di valore, per usare le classiche categorie weberiane. Tra le democrazie occidentali, l’Italia è certamente una ritardataria nel governo dell’immigrazione, ma va anche ricordato che allorquando questo ambito diviene, dalla fine degli anni ’70 dello scorso secolo, un’arena centrale per le democrazie occidentali il sistema politico italiano ha comunque alle spalle una sua storia emigratoria e un percorso di istituzionalizzazione delle politiche non sviluppatissimo, ma neppure insignificante (Einaudi 2007; Colucci 2019; Garau 2019).
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Democrazie e governo dell’immigrazione
Sistema liberale (1876-1900)
Decollo industriale (1901-1921)
Policy
Ambito istituzionale [Area di policy migratoria]
Legge 5886/1888
Regolazione dell’espatrio sull’asse prefettizio [Emigrazione, Frontiere, Flussi e dei permessi]
Legge 23/1901
Creazione Commissariato Generale MAE e Commissioni ispettive [Emigrazione, Flussi, Protezione legale e sociale]
Legge 555/1912
Istituzione ius sanguinis restrittivo maschile [Cittadinanza, Naturalizzazione]
Legge 1075/1913 Decreto 1379/1918 Testo Unico 2205/1919
Regime fascista (1922-1944)
Commissioni arbitrali, Controllo agenti di espatrio, Protezione sociosanitaria emigranti [Emigrazione, Flussi, Protezione legale e sociale]
Decreto 628/1927
Istituzione Direzione Generale del MAE [Frontiere e Securitarizzazione]
Legge 1278/1930
Divieto e repressione dell’emigrazione [Frontiere e Securitarizzazione]
Decreto 306/1939
Istituzione Commissione Rimpatrio degli italiani [Frontiere e Securitarizzazione]
Tipo di policy
Controllo-proibizione emigrazione
Emigrazione supportata e protetta. Cittadinanza
Emigrazione economica inibita, Emigrazione politica supportata
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Democrazia e fordismo (1945-1973)
Post-fordismo e globalizzazione (1974-1985)
Accordi bilaterali 1946-51
Flussi manodopera in uscita [Emigrazione, Flussi, Protezione legale e sociale]
Accordi Internazionali 1954
Ratifica Convenzione di Ginevra [Status, cittadinanza]
Normativa europea 492/1958
Diritto di accesso, ricongiungimento e protezione sociale [Status e cittadinanza]
Conferenza nazionale 1974
Programmazione flussi di lavoratori in entrata [Immigrazione, Flussi e Permessi]
Progetto di legge 1981
Regolamentazione soggiorno lavoratori e famiglie, Linee-guida regolarizzazioni ante 1981 [Immigrazione, Flussi e Permessi]
Progetto di legge 1984
Repressione accessi (dall’Africa) senza contratto di lavoro [Immigrazione, Bordering e Controllo]
Emigrazione supportata. Immigrazione regolata
Regolazione dell’immigrazione
Controllo e proibizione dell’immigrazione
Tabella 3. Cicli di policy dell’immigrazione precedenti il 1986. Fonte: DEMIG 2015.
La tabella 3 riunisce sinteticamente quella che è la path dependency delle politiche pubbliche nel modello italiano sulle migrazioni, prima che il sistema politico consumi il suo passaggio da paese di emigrazione a paese di immigrazione, avvenuto con la crisi del modello fordista del 1973-74. Nei cinque diversi stadi di sviluppo del sistema era emerso un numero non insignificante di esperienze di policy, particolarmente sul lato dei processi di regolazione dei flussi e dei permessi, ma anche, nel pieno dei Trenta Gloriosi, su quello dello status dei nuclei familiari, della loro protezione legale e sociale. Come avviene per molte altre democrazie industriali, gli ambiti – anche istituzionali – della policy migratoria sono a quel tempo essenzialmente guidati da ciò che è necessario governare, ovvero una immigrazione di forza-lavoro industriale. Tuttavia è interessante notare come già al principio degli anni ’80 due progetti di legge mai discussi del 1981 e del 1984 anticipassero ambiti, tipologie e
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approcci di politica pubblica poi destinati a segnare gli interventi sull’immigrazione del ventennio successivo: la proibizione e repressione di alcune tipologie di immigrazione, in un’ottica securitaria ante-litteram; l’idea della programmazione delle quote di permessi vincolata alla preesistenza di sponsor contrattuali per il lavoratore immigrato. Ma soprattutto, due elementi culturali che potremmo dire di sistema, ovvero ricorrenti nel modello italiano di politica migratoria: una opzione etnica, schiacciata sullo ius sanguinis, per il regime della cittadinanza, e una certa resistenza dell’ordinamento a recepire pienamente gli standard internazionali sulla protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Questi elementi di dipendenza dal percorso acquistano, senza dubbio, un loro significato allorquando, dal finire degli anni’80, la sfida per la democrazia italiana diventa quella dell’immigrazione di tipo contemporaneo: legata ai processi di globalizzazione. Sfida che l’Italia affronta tardi, ma soprattutto in una fase internazionale complessa, che costringe il paese a generare e sviluppare il proprio modello “in condizioni di crisi, e poi nel contesto dell’intensificazione del coordinamento delle politiche all’interno dell’Unione europea” (Freeman 1995, 881). Ciononostante, almeno fino alla metà degli anni ’90, i risultati dell’approccio istituzionale che il sistema organizza, guardando alle leggi del 1986 e del 1990, finiscono col disegnare una via forse mite e ‘meridionale’ alle politiche migratorie, ma non un modello totalmente senza politica (Finotelli e Sciortino 2009). Parallelamente, va detto, la politicizzazione dell’immigrazione e la dipendenza di questa area di policy da logiche mass publics interviene in Italia (lo stesso, forse, si può dire per Austria e Francia) precocemente rispetto ad altri sistemi. Questo spiega, ad esempio, alcuni dei difetti di programmazione sviluppati dal modello italiano sulle politiche pubbliche dell’immigrazione, il quale parte in ritardo e si vede obbligato a crescere più velocemente e prima di altri sistemi meglio consolidati, e deve quindi raccogliere velocemente quelle sfide complesse che il governo dell’immigrazione ormai sta proponendo alle postdemocrazie: la centralità e crescita di ambito delle politiche migratorie, con una linea di separazione da quelle non – migratorie che appare sempre più sottile e sfumata (Czaika 2020); la sofisticazione ed interdipendenza dei processi di policy
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sull’immigrazione, evidente – ad esempio – nel modo in cui le politiche di integrazione influenzano i processi di cittadinanza (Huddleston e Vink 2015). Sono proprio queste dinamiche, che caratterizzano le politiche e il modello italiano sull’immigrazione negli ultimi trent’anni, ad aver inevitabilmente condotto il dibattito scientifico verso proposte di interpretazione incentrate sul policy gap, producendo più che una polarizzazione una eterogeneità nella scholarship, divisa in sostanza sui limiti strutturali di programmazione del modello italiano. Il versante della letteratura che maggiormente ha rimarcato questi limiti è quello che ha indagato la politica dell’immigrazione in Italia con un approccio di policy analysis, e che ha individuato – volendo essere sintetici – l’origine di tali limiti essenzialmente nel trade-off tra politiche di regolazione e politiche di integrazione, di cui è esemplificazione il campo della cittadinanza (Zincone 2010; Zincone e Caponio 2011; Caponio e Cappiali 2018). Coerenti con questi approcci sono anche gli studi che hanno posto attenzione all’influenza della governance multilivello (Caponio e Borkert 2010; Caponio et al. 2019), come più di recente quelle indagini che hanno insistito sugli effetti del populismo, e della sua narrazione, sulla politicizzazione dell’ambito delle policy migratorie (Urso 2018; Terlizzi 2021). Diversamente, altri approcci soprattutto di stampo sociologico hanno invece evidenziato come il criterio del policy gap si potesse rivelare non sempre adatto a cogliere, longitudinalmente, il percorso di sviluppo del modello italiano di governo delle migrazioni. Anche la dipendenza dal percorso ed elementi sociali, economici e istituzionali più profondi devono infatti considerarsi nel valutare il modello di politica dell’immigrazione italiano, come i suoi limiti (Reyneri 2001; Colombo et al. 2002; Finotelli e Sciortino 2009; Ambrosini 2021). Tutte queste traiettorie di ricerca, e ognuno di questi tasselli analitici, sono in ogni modo essenziali per un modello di analisi basato sulle policy rivolto al caso italiano, purché questo assuma sul piano teorico ed empirico l’ulteriore elemento costituto dalla irruzione della logica di mass publics nell’arena delle politiche migratorie. L’emergere nelle postdemocrazie dei populismi costringe infatti ad emancipare il quadro d’analisi, includendo quei fattori – economici, culturali, del risentimento di status – che so-
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prattutto dopo il 2001 hanno preso ad influenzare anche in Italia i diversi cicli di politica dell’immigrazione: il primo, che nasce sul crinale del fordismo (1986 al 2001), in cui la politica oscilla tra regolarizzazione dei lavoratori e programmazione dei flussi (1986-2001); il secondo, che anticipa la crisi del 2008, in cui emergono i temi della border politics e della securitarizzazione delle politiche migratorie (2001-2013); l’ultimo, e più vicino, che segna l’esplosione populista e l’emersione della politica anti-immigrazione (2013-2019). 1.4. Le politiche del postfordismo: regolarizzazione dei lavoratori e programmazione dei flussi (1986-2001) Per le attuali politiche pubbliche sull’immigrazione, il 1973 e la crisi della fase fordista rappresentano un punto di svolta (Colombo e Sciortino 2004, 53), che cambia radicalmente, e in particolare per l’Italia, le dinamiche prospettiche delle residenze legali nate all’estero. Solo dal finire degli anni ’70 l’Italia inizia a costituire una “possibile destinazione dei migranti provenienti dai paesi meno sviluppati del mondo” con un primo significativo insediamento su tre punti del paese di lavoro immigrato: nella Sicilia meridionale, proveniente dalla Tunisia, sul litorale casertano dai paesi africani, nel Nord-Est, di provenienza dalla allora Jugoslavia (Strozza 2018, 298). Sebbene la logica che dal principio, e per molto tempo, caratterizzerà la politica regolativa dell’immigrazione in Italia, ovvero quella delle sanatorie approvate a valle di tentate politiche di programmazione dei flussi, abbia inizio con la legge 943 del 1986, tuttavia la prima sfida rilevante per il sistema si presenta con il crollo del blocco orientale, in risposta al quale giunge all’approvazione la legge voluta nel 1990 dall’allora Ministro della Giustizia Claudio Martelli, che prevede anche la prima grande sanatoria rivolta ad un consistente numero di immigrati.
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Figura 1. Stock di migranti come totale dei permessi di soggiorno per anno (1992-2019). Fonte: ISTAT 2022 e ISTAT-Demo 2022. Note. Dal 2008 i permessi di soggiorno non conteggiano gli stranieri ‘comunitari’.
Come la figura 1 suggerisce, l’andamento dei permessi di soggiorno in Italia nell’ultimo trentennio registra, e particolarmente per gli anni che seguono le due crisi economica e dei rifugiati (2008-11), il fenomeno nuovo e “straordinario” (Strozza 2018, 299) che il sistema politico si trova a dover governare: la presenza di un numero di stranieri regolari la cui incidenza aumenta, solo dal 2002 al 2019, dal 4,9 al 10,4% (EUROSTAT 2022), e che in termini assoluti si traduce in un numero stabile di stranieri con permesso di soggiorno che passa dai quasi 650.000 del 1992 ai 3.7 milioni del 2019. Dal punto di vista della demografia dell’immigrazione, che è poi alla base dello sviluppo delle politiche che governano il fenomeno, questi dati ne raccontano in verità solo una parte. Migranti (immigrants) e stranieri residenti (immigrated) non sono esattamente la stessa cosa, ed infatti al 2019 la effettiva presenza straniera in Italia, ovvero lo stock di foreign born supera ampiamente sia i 3,7 milioni di permessi stabili che i 4,9 milioni di stranieri residenti (EUROSTAT 2022). Non casualmente, è stato fortemente discusso come i dati basati sui permessi di soggiorno possano stimare con precisione la presenza degli immigrati nel paese (Bonifazi 1998; Strozza 2018). Senza dubbio, come evidenzia la figura 1, dalla caduta del regime albanese del 1990 e fino almeno al 2007 è la curva dei permessi di soggiorno concessi a lavoratori immigrati che consente un parziale riallineamento tra il fenomeno (migratorio) e il suo governo, registrando l’impatto che hanno avuto le
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politiche basate sulla regolarizzazione di massa dei lavoratori stranieri, in particolare attraverso le sanatorie approvate nel 1990 (Martelli), 1995 (Dini), 1998 (Turco-Napolitano) e 2002 (Bossi-Fini). In una prospettiva di analisi più ampia, è però necessario considerare che oggi “non esiste, ancora, una definizione unanime e chiara su chi debba essere considerato un immigrato” (Triandafyllidou 2016, 4), e che dunque il modo in cui si ricompone la stima demografica dell’immigrazione come fenomeno debba raccordare la qualità interna di un fenomeno complesso – rifugiati, richiedenti asilo, lavoratori che immigrano, ma anche immigrants, immigrated, regolari e irregolari – con l’impatto sociale e con la risposta regolativa di politiche pubbliche che ne deriva nel singolo sistema. Tutto questo si rende evidente nel primo decennio del nuovo secolo, nel quale, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, si apre una fase del tutto nuova per il governo dell’immigrazione nelle democrazie occidentali, non solo per le dimensioni del fenomeno. A seguito poi dell’inizio della crisi migratoria scaturente dagli scenari di destabilizzazione geopolitica (Maghreb, Siria), il peso che la logica di mass publics riversa sulla politicizzazione del fenomeno immigratorio cambia la natura delle politiche pubbliche sull’immigrazione in molte democrazie occidentali. Nel complesso, dapprima con lo scenario del terrorismo internazionale che va dall’intervento americano in Iraq fino all’esplosione della questione di Daesh che apre la stagione delle politiche di bordering e securitizzazione, poi con il crollo economico del 2007 e la crisi dei rifugiati del 2011-13 che favoriscono modelli basati sulla esternalizzazione e sulla criminalizzazione dei rifugiati, è il paradigma stesso della politica migratoria a mutare. In tutto questo processo, un ruolo determinante è rivestito dal diffondersi di un risentimento anti-immigrazione nelle opinioni pubbliche occidentali e dall’affermazione elettorale dei partiti populisti. Questo cambio paradigmatico nel fenomeno in sé – l’immigrazione – e nel modo di governarlo all’interno delle democrazie – la policy migratoria – nel caso italiano deteriora quella “icastica formula del passaggio da paese di emigrazione a paese di immigrazione” la quale si dimostra ormai non più “in grado di descrivere compiutamente le diverse sfaccettature di un fenomeno estremamente complesso” (Strozza e De Santis 2017, 29).
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Un tentativo di fotografare questo nuovo scenario dei rapporti tra l’immigrazione e l’approccio di governo è presente nella figura 2. Mentre la timeline alla base della precedente figura 1 sulla dinamica cumulativa dei permessi di soggiorno registrava gli shock esterni nelle migrazioni dovuti all’economia come alla crisi dei rifugiati del 2011, il passaggio da un sistema di afflusso basato sui lavoratori-immigrati a uno più colpito dall’ingresso di rifugiati e richiedenti asilo – il cui picco è certo, comunque, nel 2016 – è maggiormente evidente nella nuova figura. Questa prima di tutto indica come, nella sostanza, dopo il 2008 la pressione immigratoria sull’Italia tenda comunque ad affievolirsi, ma anche come, per effetto dell’arrestarsi di una politica delle regolarizzazioni che aveva contraddistinto la fase degli anni ’90, la restrittività delle politiche di accesso affievolisca ulteriormente tale pressione.
Figura 2. Italia: permessi, flussi annuali, saldo migratorio e acquisizioni di cittadinanza (2008-2019). Valori assoluti. Fonte: EUROSTAT 2022 Note. I permessi di soggiorno si riferiscono alle prime istanze accettate, i flussi alle entrate totali annue (immigrants inflows), il saldo migratorio alla differenza tra inflows ed outflows.
Interessante notare, poi, come il paese si avvii velocemente verso quel deficit di bilancio migratorio (il saldo è perennemente in nega-
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tivo dal 2011) che costituisce uno degli scenari di debolezza sistemica per la democrazia italiana. Nemmeno le nuove acquisizioni di cittadinanza, stabilmente sopra le 100.000 unità l’anno dopo il 2013, riescono a compensare questo deficit, per effetto di un punto già discusso: l’assenza di una policy espansiva e programmatoria che permetta di compensare la decrescita demografica di lungo periodo, certo non governabile attraverso un meccanismo della cittadinanza basato sullo ius sanguinis, giacché le naturalizzazioni legali e lo ius soli derivato non possono garantire numeri stabili, di nuovi cittadini (Strozza et al. 2021). Lo shock globale proveniente dall’11 settembre 2001, e il suo contraccolpo restrittivo sulle politiche interne sull’immigrazione, si posiziona al principio di questa fase: ne rappresenta la gestazione. Ma è già nel primo periodo, che va dal 1986 al 2001, che alcuni dei profili di politica pubblica sull’immigrazione caratterizzanti i due periodi successivi – 2001-2013 (securitarizzazione) e 2018-2019 (politicizzazione) – iniziano ad emergere. Infatti, questa prima fase delle politiche italiane sull’immigrazione si caratterizza, come detto, per un approccio basato sulla regolarizzazione di massa dei lavoratori immigrati, nelle sue componenti sia legali che irregolari (Reyneri 1998; 2001; Ambrosini 2001; Sciortino 2004). Mentre il peso dell’immigrazione cresce, latentemente nell’agenda setting (Caponio e Cappiali 2018) tutte le misure via via approvate mirano esclusivamente a regolamentare lo status dei lavoratori stranieri. Tali politiche, essenzialmente di controllo e regolatorie, da subito evidenziano un alto policy gap, soprattutto tra gli obiettivi restrittivi e gli esiti effettivi. Una tensione che assume la forma stabile di condoni o “aggiustamenti ex-post, quasi sempre attraverso programmi di regolarizzazione” eccezionali per i molti lavoratori immigrati (Finotelli e Sciortino 2009, 120). Prima della legge del 1986, il sistema istituzionale era come detto solo parzialmente strutturato per governare un fenomeno come l’immigrazione. La transizione di paradigma economico era iniziata al principio degli anni ’80, con l’Italia che entra tra i sistemi industriali che esprimono una domanda di manodopera low skilled esterna, ratificando, nel 1981, la Convenzione dell’ILO del 1975 sull’uguaglianza e il trattamento dei lavoratori migranti (Reyneri 1998, 2). La legge n. 943 del 1986 avvia inoltre una prima fase di policy migratoria italiana,
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tratteggiando uno schema di intervento di fatto seguito dalle successive leggi Martelli (1990) e Turco-Napolitano (1996), in parte anche dalla Bossi-Fini del 2002. L’idea è quella di governare una immigrazione di manodopera essenzialmente desiderata, e il meccanismo che la legge del 1986 istituzionalizza combina la regolazione dello “status dei lavoratori stranieri secondo il principio della parità di lavoro a parità di retribuzione” e “l’accesso ai lavoratori salariati stranieri a tutti i servizi sociali e le disposizioni assistenziali”, operando parallelamente una “prima regolarizzazione su larga scala” di poco meno di 120.000 migranti (Finotelli e Sciortino 2009, 122-123). Ragionando in termini di grand theory, nell’idea che si afferma nella prima stagione italiana di politiche pubbliche convergono un approccio sia di client politics che di embedded liberalism. Da un lato, il governo di allora è condizionato dalle pressioni di sindacati, chiesa di base, Terzo Settore; dall’altro, appare vincolato ai trattati internazionali; in generale, ci si rende conto del deficit regolativo e istituzionale del sistema rispetto all’arena di policy dell’immigrazione, sia in materia di controlli esterni che di regolamentazione interna. Di certo, il disegno di policy espresso dalla legge del 1986 fa emergere anche un ulteriore limite che ritornerà come una costante delle politiche migratorie: l’assenza di una visione programmatoria e di prospettiva, testimoniata dalla assoluta disattenzione ai meccanismi di integrazione e di cittadinanza. Per dimensioni il fenomeno cambia decisamente di passo al principio degli anni ’90. Già altri fattori politici ed economici di sistema stavano iniziando a plasmare la via italiana alle politiche migratorie (Sciortino 2000), allorquando il governo si trova ad affrontare una sfida sconosciuta: governare flussi migratori di quantità e origine assolutamente diversi rispetto agli anni precedenti. Il crollo dei regimi dell’Est ha aperto una fase di emergenza umanitaria, e la risposta si caratterizza, ancora una volta, per “disposizioni ad hoc adottate per ospitare l’afflusso di rifugiati dall’Albania, dall’ex Jugoslavia e dalla Somalia, con la concessione di permessi di soggiorno temporanei per motivi umanitari” (Zincone e Caponio 2011, 3). Così, nonostante alcuni punti di forza soprattutto giuridica, anche la successiva legge n.39 del 1990 (Martelli) conferma quello che sarà un canone di policy del modello italiano: l’approccio emergenziale e mai programmatorio al governo dell’immigrazione. Approvata per
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regolamentare le procedure di richiesta di asilo e il permesso di soggiorno per i lavoratori migranti già presenti nel Paese, essa conduce a una regolarizzazione di massa di quasi 250.000 persone. Ma è sul versante della mediatizzazione dell’immigrazione che la tragica condizione dei rifugiati provenienti dall’Albania avrebbe cambiato la socializzazione e la politicizzazione delle migrazioni nel discorso pubblico (Sciortino e Colombo 2004), anticipando l’emergere di alcune retoriche securitarie poi esplose dopo il 2001. Quanto all’approccio di policy, ancora una volta emerge il divario tra le intenzioni governative di regolare severamente i flussi (ma, va detto, anche di reprimere il traffico di esseri umani connesso all’immigrazione) e quella di rispondere alla domanda di lavoratori poco qualificati proveniente dalle imprese del Nord. La terza regolarizzazione di massa di 250.000 lavoratori nel 1995, con l’approvazione del Decreto Legislativo 489 del 1995 (Dini) ne sarà conferma poco dopo, attraverso una misura che tuttavia, e per la prima volta sistematicamente, rimuove le franchigie di accesso ad alcuni diritti sociali (soprattutto su salute e sicurezza) per i migranti e le loro famiglie dopo l’avvenuta regolarizzazione. Tuttavia, l’approvazione di una prima legge organica sull’immigrazione giunge solo alla fine degli anni ’90, con la numero 40 del 6 marzo 1998. La misura, poi detta Turco-Napolitano dal nome dei ministri delle politiche sociali e dell’Interno che la promuovono, si colloca in una fase ben diversa per il sistema politico italiano, ormai avviato – si comprenderà, poi, per poco – verso una dimensione di confronto bipolare tra il nuovo centro-destra guidato dal tycoon dell’editoria privata Silvio Berlusconi e il centro-sinistra, nel cui schieramento convergono alcuni partiti eredi della tradizione delle sinistre, anche cattoliche. L’approvazione della misura avviene in un contesto generale nel quale il discorso pubblico sull’immigrazione già risente di elementi di politicizzazione marcata, e segnatamente del tentativo di alcuni partiti della destra – da Alleanza Nazionale, erede del partito neofascista MSI, alla Lega Nord di Umberto Bossi – di cavalcare soprattutto nella narrazione politico-elettorale il tema dell’insicurezza prodotta dall’immigrazione (Spektorowski 2003; Zaslove 2004; Cento Bull 2009). Il maggior punto di forza della policy è proprio di “giungere ad una soluzione di politiche per la gestione del contesto migratorio italiano che
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appare una mediazione” tra i due corni del controllo e dell’integrazione (Finotelli e Sciortino 2009, 125). Nelle intenzioni del provvedimento ci sono infatti il contrasto agli ingressi illegali nel paese e una migliore regolamentazione dei nuovi flussi di lavoratori stranieri sul lato del controllo, ma anche i primi percorsi d’integrazione per gli immigrati regolari stabili e la rimozione delle franchigie a diritti e prestazioni sociali fondamentali (Zincone e Caponio 2011, 4). Una spinta duplicità, e forse divergenza, di obiettivi emerge dunque dal disegno di policy che ispira la legge del 1998. Ma questa era in sostanza la “mediazione” cercata e trovata dal policy maker, giacché anche la maggioranza di centro-sinistra che sostiene il governo Prodi I non pare esibire un disegno culturale netto sulla politica migratoria, quanto piuttosto cercare di saldare i due tradizionali versanti del controllo e dell’integrazione, in realtà sbilanciando molto la misura sul primo terreno, ad esempio puntando molto sul concetto di programmazione controllata dei flussi di entrata. Sul lato del controllo, la policy disciplina, infatti, un sistema di regolazione dei flussi che individua nel decreto annuale del governo il passaggio istituzionale centrale, co-partecipato dalle regioni, per definire numero e ripartizione territoriale degli ingressi di lavoratori stranieri. Da questo punto di vista, la continuità con gli approcci precedenti è forte in due sensi: nel definire il fenomeno governato, l’immigrazione, essenzialmente e ancora come afflusso di manodopera industriale; nel rimarcare, certo con un approccio morbido, la differenza tra afflusso di lavoratori stranieri e immigrazione per così dire irregolare, così insistendo su quel tema della securitarizzazione già in nuce nel modello italiano sull’immigrazione. Tale canone restrittivo emerge però come elemento strutturale della Turco-Napolitano certamente in due punti: nella introduzione del sistema delle sponsorizzazioni, o meglio nella possibilità per i futuri immigrati di accedere con maggiore certezza al permesso di soggiorno se coperti da sponsor quali imprese, familiari, ONG, sindacati; ma soprattutto nella istituzione dei Centri di permanenza temporanea per quei migranti irregolari o privi di sponsorizzazione, e dunque in attesa di una risposta sulla regolarizzazione o sulla richiesta di asilo. Sul lato disegnato dalla policy per l’integrazione, presente ma per nulla prevalente, risaltano invece le disposizioni dirette alla stabilizzazione dei lavoratori a tempo indeterminato, allungando i permes-
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si di soggiorno, ma anche l’istituzione del Fondo per le politiche migratorie, che si rivelerà uno dei pochi spazi istituzionali per la programmazione e realizzazione, con i soggetti del Terzo Settore e della società civile, di momenti di integrazione implementati attraverso il ruolo centrale delle amministrazioni locali, particolarmente dei comuni. Gli evidenti limiti di disegno della Turco-Napolitano, pur questa restando a tutt’oggi una delle misure di maggior profilo nello sviluppo del modello italiano sull’immigrazione, emergono però quasi subito, e particolarmente nel gap di implementazione delle misure previste. Nonostante il tentativo di enfatizzare gli obiettivi restrittivi e di controllo delle frontiere, intuendo anche il governo di centro-sinistra il peso ormai crescente del nesso sicurezza-immigrazione nella società e soprattutto nello spazio mediatico, alla Turco-Napolitano segue poco dopo la quarta, importante regolarizzazione o meglio sanatoria di quasi 220.000 lavoratori immigrati nel paese (decreto numero 380 del 1998). Il policy gap, tuttavia, non emerge solo sul lato della politica di controllo. Esso impatta soprattutto su quella parte di misure previste dalla legge per promuovere l’integrazione, come la copertura di assistenza e di prestazioni sanitarie per gli immigrati irregolari, le quali vengono debolmente realizzate, confermando una “mancanza di volontà politica” da parte del governo che aveva promosso la legge nel difenderla “di fronte alla crescente insoddisfazione dell’opinione pubblica e alla rinnovata forza dei partiti politici di destra, in grado di sfruttare le preoccupazioni per la sicurezza diffuse nell’elettorato” (Finotelli e Sciortino 2009, 125). 1.5. Globalizzazione e nuovi scenari: l’11 settembre, la crisi, la politica di securitarizzazione (2001-2013) Un decisivo momento di discontinuità per lo sviluppo del modello di politiche migratorie in Italia è segnato dall’impatto che l’attentato alle Torri Gemelle di New York e il conseguente clima internazionale producono nel discorso pubblico su migranti, rifugiati o richiedenti asilo. Un impatto che è rilevante soprattutto nel sentimento sociale di paura e insicurezza, e che sostanzialmente seminerà il germe di quel risentimento etnocentrico ed anti-immigrazione destinato ad
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influenzare nel decennio successivo la domanda politica, e a politicizzare in senso repressivo l’offerta. Da questo punto di vista, si tratta di una fase in cui la politica nazionale risente dei forti cambiamenti globali, nella quale matura e si consuma un vero e proprio passaggio di paradigma per la politica dell’immigrazione, che si trasferisce nel ciclo delle politiche pubbliche interne: mutano i bordi dell’arena di policy; cambia la centralità d’agenda politica ma anche di discorso pubblico sull’immigrazione; si trasforma, ancor prima della narrazione populista, la semiologia pubblica sull’immigrazione, con la ri-soggettivizzazione da lavoratore immigrato a migrante irregolare, o più spesso a clandestino; viene stravolta la logica di offerta politica, in cui si consolidano la securitizzazione e poi la logica anti-immigrazione; cambia radicalmente e soprattutto la logica di formazione, ma anche di espressione mediatica, della domanda sociale sull’immigrazione in Italia, con il prevalere di un risentimento etnocentrico che, complice l’austerity, farà esplodere la bolla populista nel sistema politico italiano. Superato il post-fordismo, sono il perimetro e la forma del terreno di battaglia della politica migratoria (Ambrosini 2021) a mutare per l’effetto di una fase totalmente differente: l’ascesa e la crisi della globalizzazione felice; l’11 settembre, Daesh e poi gli attentati terroristici in Europa; la guerra in Iraq e Guantanamo; lo scoppio della crisi dei subprime e le democrazie soffocate dall’austerity; infine, le primavere arabe, la crisi siriana e quella dei rifugiati che impattano sull’Europa. Tali cambiamenti travalicano, evidentemente, la sfera di dominio della politica interna, e trasformano la struttura generale dell’immigrazione internazionale, rendendo l’agenda politica nazionale più influenzata da fattori multilivello (Geddes 2003; Guiraudon 2003, 2006; Caponio e Borkert 2010; Caponio e Cappiali 2018) ma anche più esposta al processo di politicizzazione – soprattutto elettorale – dell’immigrazione di cui è motore la logica populista del risentimento. Questo nel maturare del discorso pubblico sull’immigrazione tra il 2001 e il 2013 genera immediatamente due effetti: la securitizzazione dell’agenda di policy; una trasformazione di soggettività nel discorso sociale e politico sull’immigrazione, in cui sul lato della domanda si passa velocemente dal lavoratore immigrato, all’immigrato irregolare, poi al clandestino e infine al capro espiatorio della crisi.
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Insomma, con la crisi della globalizzazione felice il discorso pubblico sull’immigrazione inizia a risentire di logiche molto differenti rispetto al passato, che dal lato sia della domanda sociale che dell’offerta politica si trasferiscono sull’agenda setting rappresentando i migranti e l’immigrazione tendenzialmente come problema, minaccia, fonte d’insicurezza. Come ha scritto Maya Goodfellow nella sua ricerca sul caso inglese: I miti negativi sull’immigrazione, insieme persuasivi e pervasivi, ancora persistono. Anche nella polarizzazione delle posizioni politiche, i media e i politici di schieramenti alternativi trovano un terreno comune nel caratterizzare l’immigrazione come un problema. Ma, che si discuta degli anni Sessanta o del 2016, tale caratterizzazione ha poco riscontro nella realtà. Gli immigrati non stanno portando ad un abbassamento dei salari né rovinando i servizi pubblici. Il razzismo e la xenofobia non sono affatto il prodotto inevitabile di un eccesso di migranti, e di una certa origine, e presenti in un certo luogo. Coloro che arrivano da determinati paesi o culture non stanno affatto minacciando una presupposta ed immaginata armonia ed omogeneità di identità nazionale o culturale. Le società come le tradizioni sono in movimento, si trasformano, e come ogni cambiamento che avviene nel nostro mondo, esso può essere semplice e andare liscio, come produrre disordine ed antagonismo. Che esista un “noi” e un “loro” non è un fatto, né tantomeno una verità. […] (Goodfellow 2020, 194).
Figlia di questa nuova fase, che influenza le politiche di governo delle principali democrazie occidentali, è in Italia la legge 189 approvata nel 2002 dal Governo Berlusconi, nota anche come Legge Bossi-Fini. Se la Turco-Napolitano del 1998 aveva solo anticipato alcune tendenze restrittive, la nuova misura si inquadra chiaramente in un orientamento di policy repressivo sull’immigrazione, in particolare di quella illegale (Finotelli e Sciortino 2009, 126). Allo stesso tempo, osservata nel suo percorso di implementazione, la Bossi-Fini porterà a maturazione la tendenza del modello italiano di politiche pubbliche sull’immigrazione ad accentuare gli effetti di gap nel ciclo di policy (Colombo et al. 2002; Zincone e Caponio 2011), soprattutto sui due lati della applicazione delle misure previste e dello scarto tra output e outcome (Czaika e De Haas 2013). Espressione di una precoce – rispetto ad altri paesi europei – politicizzazione dell’immigrazione nell’agenda setting, la legge 189
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del 2002 è infatti mossa dal chiaro obiettivo della maggioranza di governo, e in particolare di Lega e Alleanza nazionale, di comunicare agli elettori e al paese la ferma volontà di tenere allineati il discorso pubblico e la politica del governo su di un indirizzo restrittivo, repressivo, securitario in materia di immigrazione. Allo stesso tempo, le misure messe in campo evidenziano da subito uno scarto tra output ed outcome degli obiettivi restrittivi di policy, di cui è conferma la sanatoria di massa approvata dallo stesso governo: oltre 634.000 immigrati irregolari, “quasi pari al numero totale di stranieri regolarizzati dalle precedenti quattro amnistie” (Zincone e Caponio 2011, 4). Inoltre, la policy tradisce da subito un difetto di applicabilità effettiva, con un meccanismo disegnato per le espulsioni per via amministrativa che viene riconosciuto da subito di difficile esecutività ordinaria dalle stesse burocrazie d’ordine coinvolte nel processo, e non solo alla frontiera. Sul piano generale, la legge presenta un disegno restrittivo sia sul lato della programmazione dei controlli illegali in entrata, sia nell’abbreviazione dei periodi di validità dei permessi di soggiorno, come anche nella soppressione del regime di facilitazione di ingresso disciplinato con la sponsorizzazione introdotta dalla Turco-Napolitano. Quanto alla cittadinanza, la Bossi-Fini è poi strutturata per scoraggiare la residenza permanente nel paese e deprimere sul lungo termine quei meccanismi che già, in sé, la legge numero 91 del 1992 centrata sullo ius sanguinis non stimolava affatto. Quanto al suo indirizzo securitario, esso emerge con chiarezza in alcune disposizioni, particolarmente quelle relative alla detenzione obbligatoria degli immigrati privi di permesso o di permesso in corso di validità nei CIE (istituiti però in precedenza) o quelle che disciplinano il già citato meccanismo di accompagnamento alla frontiera del migrante irregolare e di espulsione senza alcuna possibilità di difesa giudiziaria. Sul versante delle politiche di integrazione, la misura interviene molto poco, se non attraverso una significativa riduzione del Fondo sociale per l’assistenza agli immigrati (Zincone e Caponio 2011, 5). Ma, per quanto paradossale, va riconosciuto che il primo e unico istituto diretto a un’integrazione stabile per rifugiati e richiedenti asilo oggi ancora operante nel sistema italiano, il cosiddetto Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) che poi assumerà denominazioni differenti (SIPROIMI, SAI), viene introdotto proprio
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dalla legge Bossi-Fini del 2002, nonostante questa sarà assunta nel tempo come l’idealtipo di policy securitaria e repressiva nel modello italiano sull’immigrazione. Ciò che è certo, osservandone gli effetti di lungo periodo, è che la legge n.189/02 rappresenta una svolta rilevante nelle politiche migratorie italiane sui tre lati della border politics, della securitarizzazione e della politicizzazione dell’agenda sull’immigrazione, innestando alcune delle logiche poi destinate a caratterizzare l’arena delle politiche migratorie negli anni di esplosione, dopo il 2018, dei partiti populisti e far-right. Quanto al primo aspetto, l’introduzione nella Bossi-Fini di una logica repressiva basata sul bordering è figlia del clima di insicurezza globale, oggettivo, seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, e particolarmente della scelta del governo Berlusconi di appoggiare convintamente la strategia di war on terror inaugurata dal presidente americano George W. Bush Jr. Rispetto ai meccanismi istituzionali, l’obiettivo di reprimere gli ingressi illegali, nonché di scoraggiare le domande di asilo attraverso la detenzione di lunga permanenza nei CIE trattati alla stregua di spazi extra-territoriali, anticipa quella politica di esternalizzazione di cui tutti i governi successivi abuseranno, e particolarmente un governo di centro-sinistra per iniziativa del ministro Minniti nel 2017. L’intensità di carica securitaria della policy nasce, invero, sul lato dell’agenda setting e nell’ambito del consenso, e si collega anche alla politicizzazione crescente dell’arena dell’immigrazione. Lo spostamento di baricentro del governo dell’immigrazione, dalla regolarizzazione dei lavoratori stranieri all’immigrazione clandestina e ai rifugiati, nasce sul lato dell’offerta politica, con Alleanza Nazionale e la Lega che iniziano ad assecondare le pulsioni più securitarie presenti in alcuni segmenti della società, giocando sul doppio livello della drammatizzazione pubblica e della polarizzazione politica. Già in quella fase inizia ad emergere, infatti, nel sistema politico italiano un risentimento sociale etnocentrato di cui il messaggio securitario-repressivo della Bossi-Fini è recettore. L’idea del controllo e della condanna dell’immigrazione come fatto sociale in sé rappresenta nel modello italiano il primo caso di policy diretta alla connessione con l’umore populista, e una esaltazione dell’abilità di simulative politics della Lega Nord in materia di immigrazione (Cento Bull 2009).
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Il ruolo della legge Bossi-Fini nello sviluppo successivo del modello italiano di politiche pubbliche sull’immigrazione è da questo punto di vista paradigmatico, meta-legislativo e simbolico. Gli osservatori più attenti colgono da subito come una misura così caricata sul lato dell’elettoralismo e della mediatizzazione non avrebbe però conferito “poca importanza” al provvedimento in sé e ad i suoi effetti concreti (Colombo et al. 2002, 176). Negli anni successivi, il policy gap risulterà più politicizzato, e l’agenda setting incentrata sulla narrazione prevalente di un’immigrazione minacciosa, modellata sui rifugiati e sui richiedenti asilo sottilmente mediatizzati come potenziali radicali se non terroristi. Sta evidentemente maturando una offerta politica sulla destra che intuisce l’opportunità di connettersi ad una nascente domanda politica caratterizzata dal risentimento anti-immigrazione, e che ha le sue radici di struttura nell’individualismo sociale ed economico. Tale scenario si rende evidente con lo scoppio della crisi economica seguita alla crisi internazionale dei subprime. Questa, pur non segnando alcuna “svolta nelle politiche migratorie” (Cappiali e Caponio 2018), prepara l’esplosione nel discorso pubblico, nell’agenda, sul lato dell’offerta politica ma soprattutto della domanda, di quelli che saranno i caratteri distintivi della politica migratoria in Italia negli anni successivi: esternalizzazione e bordering, securitarizzazione e repressione, politicizzazione, anti-immigrazione. Profili di politica pubblica che la legge Bossi-Fini aveva tutti plasticamente intuito. E infatti, dopo il breve governo di centrosinistra guidato nuovamente da Romano Prodi, nel 2008 il ritorno del centro-destra al governo segna un rafforzamento delle politiche restrittive sulle frontiere e sul controllo interno dell’immigrazione irregolare, attraverso l’approvazione di due misure, la legge 125 del 2008 e la 94 del 2009, non a caso note anche come Pacchetto sicurezza. Lo schema di policy utilizzato ricalca la Bossi-Fini: un forte indirizzo di controllo sui flussi irregolari e una disincentivazione alla presenza stabile degli stranieri nella vita del paese. Il Pacchetto si segnala però anche per una criminalizzazione dell’immigrazione in sé, che esprime un salto di livello dell’anti-immigrazione nella sfera pubblica. Inoltre, le misure approvate producono immediatamente un effetto restrittivo sulla regolarizzazione dei lavoratori stranieri, e le amnistie diventa-
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no più selettive e riservate a categorie specifiche, come i caregivers familiari protetti da un successivo decreto del governo (numero 109 del 2012).
Figura 3. Italia: permessi di soggiorno di prima istanza accettati ed espulsioni per permanenza illegale decretate (2008-2013). Fonte: EUROSTAT 2022; 2008=100.
Come evidenzia la Figura 3, i risultati del Pacchetto sicurezza, fino alle successive elezioni generali del 2013, sono di drastica diminuzione delle prime domande accettate per un permesso di soggiorno connesso a lavoro, studi o famiglia, che si dimezzano rapidamente tra il 2008 e il 2011. Dunque, la policy sembra raggiungere l’obiettivo di deprimere la tendenza degli immigrati a stabilizzarsi nel paese. E tuttavia, la forte riduzione delle espulsioni di stranieri cosiddetti “clandestini” – secondo una categoria più elettorale che giuridicamente fondata – sembra rivelare un classico effetto da policy gap. Sul lato immediatamente istituzionale, introducendo la possibilità di espellere un immigrato la cui presenza irregolare viene accertata ma anche attivando accordi bilaterali con i paesi nordafricani di emigrazione (in verità, già avviati nel 2000 con la Libia e nel 2003 con la Tunisia), il Pacchetto lavora sull’esternalizzazione delle politiche di controllo delle frontiere. Il fatto però che gli outcome non rispondano pienamente agli obiettivi, conferma l’intenzione del centro-destra di rafforzare la componente simulativa della politica migratoria, il cui obietti-
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vo generale di fondo è quello di “rafforzare le componenti repressive delle politiche di immigrazione” agli occhi dell’elettorato (Filotelli e Sciortino 2009, 126). Le misure volute dall’allora Ministro degli Interni Roberto Maroni rappresentano, in ogni modo, una evoluzione della Bossi-Fini, con un modello di intervento in cui il policy gap è essenzialmente alimentato dalla scelta del governo di usare la securitarizzazione e la criminalizzazione del migrante soprattutto quale narrazione politico-elettorale. Ma è ormai il 2012, la crisi dei rifugiati è iniziata, e siamo alle porte dell’esplosione dei partiti populisti anche in Italia. 1.6. L’esplosione populista e la politica anti-immigrazione (2013-2019) A partire dal 2011 la governance esterna dell’immigrazione, ovvero la richiesta di una solidarietà dell’Unione Europea nella condivisione degli oneri rispetto al flusso di rifugiati prodotto dalle primavere arabe e della crisi siriane, trova in Italia un sostegno ampio sui due schieramenti politici (Terlizzi 2021). Prima che le elezioni generali del 2013 segnino quella che sarà una debole discontinuità di politica migratoria rispetto alla Bossi-Fini e al Pacchetto Sicurezza, in particolar modo per l’azione del governo guidato da Enrico Letta, due cambiamenti significativi si sono tuttavia già verificati nel discorso pubblico e nell’agenda dei partiti. In primo luogo, il contraccolpo economico e sociale della crisi del 2007 e dell’indirizzo di austerity deciso dalla Troika e dalla Commissione – recepito, spesso alla lettera, dalla politica economica dei governi italiani – colloca l’immigrazione al centro dell’agenda politica, trasformandola, complici i media, nel facile strumento espiatorio della rabbia sociale e del risentimento individualistico. Di tali sentimenti si fanno collettori elettorali i nuovi partiti populisti, i quali veicolano agende in cui anti-establishment, anti-austerity e anti-immigrazione si mescolano in un messaggio potentemente attrattivo (Gidron e Hall 2017). Dappoi, la caduta dei regimi di Ben Ali e Gheddafi nel 2011, così come l’ulteriore crisi dei rifugiati originata in Siria, riattivano nella pubblica opinione quel panico sociale da terrorismo iniziato l’11 settembre 2001, e che i diversi attentati a Bruxelles, Parigi, Nizza e Berlino dopo il 2015 ren-
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deranno effettivamente più pronunciato; panico che si trasforma nella narrazione populista in una criminalizzazione del migrante e nella riduzione del rifugiato al potenziale estremista islamico. In tal senso, l’effetto delle elezioni italiane del 2013 è quello di congelare una rabbia populista e anti-immigrazione che scorre sotto la pelle della società italiana. La crisi dei rifugiati, d’altronde, investe soprattutto le democrazie del Sud Europa anche per ragioni di geografia fisica, e la sua rappresentazione in una sfera mediatica e pubblica ormai liquida e preda dell’othering fomentato dai social è esplosiva. Sebbene al paese non sia sconosciuta la sfida dell’arrivo di un affollato barcone di migranti in cerca di speranza – si pensi all’Albania del 1991 come agli italiani che giungono a Ellis Island cento anni prima – tutto ciò polarizza il discorso pubblico e rende critica l’agenda sull’immigrazione. Il primo governo che si forma, con fatica, dopo le elezioni del 2013, e che vede la leadership Letta per il centro-sinistra, la interpreta in un senso simile ai tempi della Turco-Napolitano. L’operazione chiamata Mare Nostrum cerca infatti di fronteggiarla perseguendo sia obiettivi di sicurezza che umanitari, ma rapidamente il livello di governo europeo assume maggior peso, e nel novembre del 2014 con l’istituzione dell’agenzia Frontex quest’ultimo lancia l’operazione denominata Triton, assai più centrata sul bordering che sul salvataggio dei migranti. Questa crescita di rilevanza della governance multilivello nella crisi dei rifugiati produce effetti politici restrittivi, spingendo il governo italiano ad assumere un orientamento più incline al securitarismo. L’Agenda europea sull’immigrazione adottata dalla Commissione nel 2015 istituzionalizza come vincolante, poi, tale indirizzo di politica migratoria, introducendo hotspots di identificazione e rilevazione delle impronte digitali dei migranti che di fatto elevano a sistema la logica italiana dei CIE, favorendo anche una forte burocratizzazione delle procedure di asilo con il chiaro obiettivo di restringere l’accesso dei migranti in Europa. La fase politica successiva è segnata da una stabile crescita dei nuovi partiti populisti e più o meno esplicitamente anti-immigrazione, come la Lega di Salvini e FDI, ma anche come il M5S. Tra le elezioni politiche del 2013 (31,61%) e quelle europee del 2014 (30,99%) un terzo dell’elettorato supporta ormai le piattaforme anti-immigrazione, indebolendo i partiti tradizionali (MININT 2022b).
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La paura di questi ultimi di crollare li vede contagiarsi (Van Spanje 2010) nell’agenda politica sull’immigrazione, che inizia per molti soggetti socialdemocratici o liberali ad esprimere le priorità dell’esternalizzazione e del bordering, della securitarizzazione delle politiche a livello nazionale. Similmente al sistema politico inglese in cui questa tendenza porterà di lì a poco alla Brexit, quello italiano diventa un laboratorio. La rilevanza dell’immigrazione aumenta nel discorso pubblico e nell’agenda politica generale vorticosamente. Sul lato dell’offerta politica, la questione inizia ad essere “collegata a un crescente conflitto di questioni tra i partiti politici” (Urso 2018, 366). La radicalizzazione della Lega (in origine, un soggetto etno-regionalista) ma anche la crescita di FDI e soprattutto il successo del M5S mostrano come, in tempo di populismo, la politicizzazione dell’immigrazione sia direttamente connessa a un messaggio-narrazione pubblica che presuppone la repressività delle politiche di confine e delle migrazioni illegali, come la criminalizzazione del rifugiato in sé (Terlizzi 2021). Come per la Bossi-Fini, è nel confronto con la politica dell’immigrazione che la democrazia italiana attraversa un altro cambiamento significativo, successivamente fissato dall’affermazione dei partiti anti-immigrazione nelle elezioni politiche del 2018. Ma è tuttavia sul lato della domanda sociale che sta emergendo qualcosa di particolarmente significativo. La crescita velocissima – poi evidente dal 2018 – di sostegno alle agende repressive sui migranti sta conferendo forma e consenso maggioritario, prima e più che in altri paesi europei, al dispositivo populista: ad una politica del risentimento individualistico di status caratterizzata da una forte spinta etnocentrica e anti-immigrazione (Žižek 2006; Gest 2016; Gidron 2022). Come evidenzia la figura 4, a partire dal 2013 la salienza dell’immigrazione in Italia cresce rapidamente, fino ad essere la prima preoccupazione nell’opinione pubblica. Qualcosa, insomma, sta concretamente cambiando nell’agenda sull’immigrazione, in termini di mediatizzazione e percezione sociale. Il discorso pubblico si carica di un inusitato risentimento verso migranti o rifugiati – oggettivamente inquietante per un paese con un recentissimo nonché difficile passato emigratorio. Ormai sono i rifugiati di guerra e non più i lavoratori immigrati nati all’estero degli anni Novanta il perno di questa agenda. La
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preoccupazione sociale per l’immigrazione è cresciuta con la crisi dei rifugiati e non per la minaccia di competizione economica della manodopera straniera. E questo più che un paradosso è una conferma che soprattutto in Italia, dove non a caso l’incidenza del voto far-right sarà più forte nella piccola borghesia che negli operai (Inglehart e Norris 2016), il risentimento è individualistico e di status. Sta prendendo forma una reazione da deprivazione nostalgica, etnocentricamente orientata (Gest et al. 2018, 1710) di alcuni segmenti della società all’immigrazione. E a questa domanda, non a caso i partiti anti-immigrazione rispondono con una narrativa basata non sui lavoratori immigrati, ma su i rifugiati umanitari come capro espiatorio (Goodfellow 2020).
Figura 4. Italia: domanda di asilo, domanda di permessi di soggiorno (first permits), e salienza dell’immigrazione nell’opinione pubblica (2009-2019). Fonte: per asilo e permessi EUROSTAT 2022; per la salienza EB 2022. Note. I dati sulla prima domanda di permesso di soggiorno si riferiscono ai posti di lavoro sponsorizzati. I dati sulla rilevanza dell’immigrazione nell’opinione pubblica sono estratti dai sondaggi Eurobarometro standard, rilevazioni dalla 72 (autunno 2009) alla 92 (autunno 2019). Il valore annuo è sviluppato come media semplice delle rilevazioni autunnali e primaverili. L’indicatore chiave qui utilizzato è la percentuale del campione che risponde ‘immigrazione’ alla domanda “Quali pensi siano le due questioni più importanti che l’Italia deve affrontare in questo momento”. Per tutti i dati la base è 2009=100.
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Gli anni successivi, quelli che conducono al termine della legislatura iniziata nel 2013, raccontano in buona sostanza l’affermazione della politica anti-immigrazione nella democrazia italiana. Sul piano dei cicli di policy, i governi di centro-sinistra che si susseguono non fanno altro che uniformare le proprie agende a quelle dei partiti populisti, nel vano tentativo di guadagnare centralità nel dibattitto pubblico e consenso presso gli elettori. Così, nel 2016 il governo guidato da Paolo Gentiloni firma un nuovo accordo con la Libia per implementare una politica di esternalizzazione, affidando parte dei controlli di frontiera alla Guardia Nazionale Libica, che la misura si preoccupa di finanziare. Immediatamente accusate dalle ONG che lavorano in mare, da molte realtà del Terzo settore e dai media più indipendenti di violare brutalmente i diritti umani dei migranti per le condizioni prodotte dai centri di detenzione, le nuove misure vengono invece ulteriomente rafforzate dal governo di centro-sinistra, in particolare con il decreto 13 del 2017 (Minniti-Orlando), che interviene anche sul sistema di governance interno, trasformando i CIE interni in Centri di Permanenza e Rimpatrio (CPR), con l’obiettivo di aumentare numeri e rapidità dei rimpatri di richiedenti asilo non idonei, per mezzo di una riduzione dei tempi di tolleranza e di una restrizione della copertura di status per i richiedenti già in possesso di una domanda respinta (Caponio e Cappiali 2018). Non sorprende che le elezioni politiche del 2018 segnino la straordinaria affermazione dei partiti populisti in Italia, in una fase in cui il contagio dell’anti-immigrazione prova a diffondersi soprattutto nelle democrazie dell’Europa meridionale (Hutter e Kriesi 2022). La Lega Nord di Matteo Salvini, ormai un soggetto pienamente far-right, e il M5S, un partito populista sui generis allora caratterizzato da una spinta piattaforma anti-immigrazione, raccolgono insieme più del 50% di quota elettorale a livello nazionale. E innegabilmente, i due decreti sull’immigrazione detti sicurezza, il 113 del 2018 e il 53 del 2019, voluti da Salvini come Ministro dell’Interno e condivisi dal M5S come partner di governo, rappresentano per il modello italiano di governo dell’immigrazione un cambio di passo: è la stabilizzazione di un orientamento di policy deliberatamente anti-immigrazione, con misure che hanno come obiettivi generali quelli di istituzionalizzare il carattere repressivo e restrittivo del modello di governo ma anche di normalizzare una sorta di stato di eccezione nei confronti di rifugiati e richiedenti asilo (Bello 2022, 450).
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Motore del disegno nel primo decreto (113/18) è l’abolizione della “protezione umanitaria” prevista dalla Costituzione (articolo 10), allargando possibilità e tempi di detenzione per i richiedenti asilo e istituzionalizzandone una condizione di reclusione nei centri di rimpatrio nell’attesa dell’espulsione (CPR). Inoltre, la policy interviene per limitare l’accesso per i richiedenti asilo al percorso di integrazione Sprar (ora ribattezzato Siproimi), così disegnando un nuovo sistema di accoglienza – quel poco che esisteva – sostanzialmente ispirato alla precarietà, premessa dell’espulsione. Obiettivo sostanziale del primo decreto sicurezza è quello di ostacolare il più possibile le richieste di asilo ma anche, in generale, di ritrarre l’immigrazione come una minaccia sociale nel discorso pubblico al pari, sostanzialmente, di un reato. Questo ultimo obiettivo del ministro e del governo emerge chiaramente nel corso del 2019, durante l’incidente della nave Sea-Watch, che avrà poi un ruolo determinante nell’approvazione del secondo decreto, il 53 del 2019 (Geddes e Petracchin 2020). Il comportamento del capitano della nave della ONG tedesca Carola Rackete, che si rifiuta di far sbarcare i migranti, tra cui donne e bambini, nel porto di Tripoli indicato come sicuro dal governo italiano, così contravvenendo al divieto del ministro Salvini di attraccarli a Lampedusa, porta all’arresto della Rackete. Come reazione, il governo approva appunto il suo secondo decreto, che disciplina una restrizione nell’accesso al territorio italiano da parte dei richiedenti asilo e che prova ad istituire il reato di “aiuto all’immigrazione illegale” per le ONG di soccorso in mare. L’effetto collaterale della crisi sarà la fine del governo. La crisi Sea-Watch propone, insomma, il rovescio della medaglia di un ricorso alla mediatizzazione e politicizzazione dell’immigrazione spregiudicato. Il dispositivo populista vive di consenso nella sfera d’opinione, e il caso di specie pare dire che il suo trasferimento nell’arena concreta delle politiche non è né automatico né immediato. Quindi, se per un verso i Decreti sicurezza riescono a rafforzare una politicizzazione ostile dell’immigrazione nel discorso pubblico, con la paura sociale e la difesa delle frontiere che diventano il perno di un discorso politico che riduce tutte le politiche a politica anti-immigrazione (Goodfellow 2020, 2), in un altro senso gli arrivi via mare di rifugiati sono già scesi a 23.370 nel 2018, dai 170.100 del 2014 e i 181.436 del 2016 (MININT 2022), e sostanzialmente per opera dei contestati accordi assunti con la Libia dal precedente ministro di centrosinistra Marco Minniti.
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Come evidenzia la Tabella 4, a partire dalla crisi dei rifugiati del 2013 non è l’entrata di lavoratori stranieri a generare la cosiddetta paura dell’immigrazione nell’opinione pubblica ma il flusso di rifugiati dalle guerre e dai regimi, in qualche modo una proxy dell’immigrazione in sé: per ogni punto di aumento dei richiedenti asilo la rilevanza dell’immigrazione nell’opinione pubblica cresce infatti di quasi un punto (0.9637). Y = Rilevanza dell’immigrazione nell’opinione pubblica (2009-2020) X1 = Afflussi (2009-2020)
0.7938 (0.6471)
X2 = Domande di asilo per la prima volta (2009-2020)
0.9637*** (0.1936)
T
12
R2 ·
0.9470
Tabella 4. Italia: pressione migratoria e salienza dell’immigrazione nell’opinione pubblica (2009-2020). Modello OLS utilizzando tutte le osservazioni 2009-2020. Valori in logaritmo. *p < 0,10, **p < 0,05, ***p < 0,01. Errori robusti di tipo standard, variante HAC Kernel’s Bartlet, tra parentesi. Fonte: EUROSTAT 2022 e EB 2022. Note. Variabili indipendenti: X1, flussi, X2, richiedenti asilo. La rilevanza dell’immigrazione nell’opinione pubblica è Y. Il valore annuo è sviluppato come media semplice delle collezioni eurobarometro autunnali e primaverili per EB 2022. L’indicatore chiave qui utilizzato è la percentuale del campione che risponde ‘immigrazione’ alla domanda “Quali pensi siano le due questioni più importanti che l’Italia deve affrontare in questo momento”.
La normalizzazione del regime d’eccezione introdotto dai due decreti sicurezza “non si ferma alle frontiere ma continua anche durante i soggiorni dei migranti” (Bello 2022, 451). Il governo cade, ma l’obiettivo di securitarizzare l’agenda politica sull’immigrazione e di fare del migrante un capro espiatorio per generare una “ulteriore insicurezza” nell’elettorato, viene raggiunto. Si tratta di un cambio di paradigma per le politiche pubbliche sull’immigrazione in Italia: a sostenerlo vi è oramai il risentimento anti-immigrazione espresso dalla società italiana.
CAPITOLO 2 DAL POPULISMO AI PARTITI FAR-RIGHT: L’ANTI-IMMIGRAZIONE COME FATTORE POLITICO
2.1. Populismo e definizioni Negli ultimi trent’anni la ricerca sul populismo è cresciuta esponenzialmente, tanto che il solo sforzo di classificarne i diversi segmenti di letteratura appare titanico; dal concetto in sé, alle tipologie di populismo, al rapporto con la politica, i partiti, la democrazia o la società, per non parlare delle ragioni strutturali del fenomeno. Nonostante l’ampiezza degli studi sul tema, con i quali si potrebbe riempire una biblioteca di Alessandria delle scienze politiche e sociali, il concetto di populismo ancora oggi però continua a generare “confusione e frustrazione” (Mudde e Kaltwasser 2017, 1). Insomma, si tratta di una trappola teorico-concettuale, la quale riporta alla “situazione” descritta da Margaret Canovan ormai quarant’anni or sono: “per alcuni che vedono il populismo” come fenomeno ve ne sono altrettanti che “non vedono nulla” (1982, 545). La “frustrazione” cresciuta attorno al concetto, cui accennano Cas Mudde e Rovita Kaltwasser, non ha mai spento prima di tutto l’intenzione di definire e teorizzare, generando però anche una “inflazione concettuale” simile a quella anni prima problematizzata da Giovanni Sartori rispetto alla democrazia (1987), e che nel caso del populismo ha assunto dimensioni forse preoccupanti (Pasquino 2008; Aslandis 2016; Oswald 2022). Ideologia, fisiologia, patologia democratica o della postmodernità: affrontare compiutamente la questione sul piano teorico sarebbe troppo complesso, sebbene il tema della politica anti-immigrazione lo richieda inevitabilmente, soprattutto considerando quanto differentemente le diverse teorie hanno disegnato il rapporto tra immigrazione e partiti populisti. Resta così aperto il dilemma proposto a suo tempo da Akkerman (2003, 149): è la qualità populista o quella anti-immigrazione a de-
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finire i nuovi partiti far-right? Dalla, per tanti versi insuperata, intuizione di Cas Mudde di richiamare la tradizione elitista per eleggere il populismo a “sottile” ideologia che separa la società tra il “popolo puro e l’élite corrotta” (Mudde 2004, 543), infatti, altre interpretazioni oltre alla sua (Mudde 2016, 2019), e più aperte allo strutturalismo, sono emerse sul populismo, includendo elementi quali l’etnocentrismo e l’anti-immigrazione nella natura dei soggetti di quella che oggi viene definita ultradestra (Gidron e Hall 2017, S61). Provando, seppur in sintesi, a fare ordine nel campo teorico sul populismo, un primo momento di chiarificazione è venuto certamente dalla teoria politica, e segnatamente dal tentativo della Canovan di tracciare una summa divisio tra approcci strutturalisti e approcci fenomenologici (Canovan 1981, 1982); ovvero tra quelle strategie teoriche di taglio sociologico-politico o basate sulla modernizzazione orientate a ricercare le ragioni esplicative del fenomeno, ed altre di presuppositionless description il cui intento è stato di osservare e classificare ciò che la letteratura ha qualificato nel tempo come populismo (Canovan 1982, 550). Proprio questa divisione tra gli approcci strutturalisti e quelli – oggi assolutamente mainstream – dediti alla fenomenologia descrittiva è, dunque, di grande supporto anche sintetico se si intende provare a rappresentare una geografia delle teorie prevalenti, come più di recente si è provato a fare rintracciando nove “prospettive teoriche” di tipo fenomenologico: il populismo come (1) fenomeno politico-culturale, come (2) stile di comunicazione politica, quale (3) forma di opportunismo politico, o ancora come (4) attitudine politica all’uso della strumentalizzazione demagogico-plebiscitaria, e poi come (5) ideologia “sottile”, o ancora (6) metodo di persuasione, e poi come (7) logica e ancora come (8) logica-dispositivo discorsivo, e in ultimo come (9) strategia di mobilitazione (Oswald et al. 2022, 5-9). Pur considerando che gli approcci fenomenologici non ambiscono, dichiaratamente, a sviluppare “in nessun senso” una teoria del populismo (Canovan 1982, 551), quello che però colpisce è come molte di queste prospettive siano in larga parte orientate a rintracciare nel populismo un dispositivo narrativo/retorico e frequentemente guardando al lato dell’offerta politica, anche nei casi – si pensi al modello di Mudde (2004, 2007) – in cui è una struttura, come il partito populista, il fenomeno osservato nella sua ideologia/mentalità.
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Eppure, ognuno di questi segmenti teorici appare, in fondo, importante per illustrare il populismo nella sua complessità, sebbene pochissimi tra questi provino a spiegarlo aprendosi, se non latamente, ad un orizzonte esplicativo. Nella sostanza, e provando a riassumere, le nove strategie teoriche di tipo fenomenologico propongono il populismo o come strategia di comunicazione e narrazione, o come ideologia organizzativa del consenso fluido, o ancora come logica discorsiva “del politico”. In un primo senso, si è imposta soprattutto nell’ultimo decennio una interpretazione – a suo modo comunque debitrice verso l’approccio discorsivo di Laclau (2005) – fortemente orientata a valorizzare l’impatto del messaggio anti-establishment populista in quanto forma di comunicazione politica emergente dalla “crisi” (Moffitt e Tormey 2014; Polk et al. 2017), o anche come strategia persuasiva o di manipolazione demagogica (Kazin 1995; Barr 2009). Interpretazione poi riversatasi anche negli orientamenti che hanno guardato alla dimensione organizzativa di partiti e leader populisti, e al loro potenziale di mobilitazione elettorale catch-all (Betz 1994, 2002); orientamenti che, soprattutto, hanno stimolato quella vastissima letteratura sul ruolo svolto dalla media politics e poi dai social (Mazzoleni et al. 2003; Römmele 2003; Jagers e Walgrave 2007; Bos et al. 2011; Immerzeel e Pickup 2015; Ernst et al. 2017; Engesser et al. 2017; Gerbaudo 2018). Una parte minoritaria di queste ultime ha però anche fatto emergere come il populismo, in quanto dispositivo narrativo, sia espressione di un fenomeno socioculturale più profondo non immune da fattori di path dependency, identificandovi così essenzialmente un frame discorsivo (Aslanidis 2016; Ostiguy 2017). In un secondo senso, sono state però le teorie sull’ideologia ad aprire la strada del mainstream scientifico al populismo. Perché, se discutere di cosa sia il populismo è prima di tutto e sopra ogni cosa discutere della “percezione di una degenerazione nella democrazia rappresentativa” (Akkerman 2003, 149), fin dal principio è proprio sul crinale di questo dilemma che si è mossa la letteratura fenomenologica sul populismo, divenuta poi ‘classica’: il rinvio è ai lavori della Canovan (1981, 1982, 1999), di Paul Taggart (2000), di Mény e Surel (2002), cui vanno ovviamente aggiunti gli studi, rispetto ai primi culturalmente eterogenei, di Ernesto Laclau (2005).
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Il grande merito dell’approccio basato sull’ideologia è stato di aver preparato il terreno alla teoria di Mudde sul populismo e sui partiti radical e far-right quale fenomeno destinato ad egemonizzare la politica occidentale (Mair 2002; Mudde 2004, 2007; Albertazzi e McDonnell 2008; Mudde e Kaltwasser 2012, 2018; Kriesi 2014; Kriesi e Pappas 2015). Soprattutto dopo la crisi del 2008, questo percorso di ricerca ha stimolato una ripresa ed un arricchimento degli studi sull’affermazione delle destre radicali (Akkerman et al. 2016; Mudde 2016a, 2016b, 2017, 2019; Golder 2016; Lazaridis et al. 2016; Gidron e Hall 2017), al cui primo inquadramento avevano contribuito, va detto, proprio le tendenze strutturaliste, ispirate dalla teoria della modernizzazione e dall’analisi sociologico-politica (Betz 1990; Van der Brugg et al. 2003; Norris 2005; Rydgren 2007; Hainsworth 2008). Ma soprattutto la corrente elitista ha favorito una impressionante evoluzione nelle ricerche di party politics, incrociando gli indirizzi provenienti dalle nuove teorie sulla “fluidificazione dei sistemi partitici” democratici ormai orientati “dalla personalizzazione più che dall’organizzazione politica” (Mainwaring e Torcal 2006, 216). Da qui una importante serie di ricerche sul declino organizzativo e di partecipazione dei partiti tradizionali (Mair e Van Biezen 2001; Van Biezen et al. 2012; Hooghe e Kern 2015; Kölln 2016), sul rapporto tra i soggetti populisti e quelli tradizionali (Van Spanje 2010; Rooduijn et al. 2014; Han K. 2015; Akkerman et al. 2016; Rooduijn e Akkerman 2017) e, ancora, sui processi di radicalizzazione e ri-politicizzazione dello spettro politico (Ramiro e Gomez 2017; Kioupkiolis e Katsambekis 2018; Mouffe 2018). Da ultimo, ma non ultimo, il filone di studi che ha accreditato l’idea di populismo come logica discorsiva “del politico”, il quale è ovviamente debitore verso gli studi di Ernesto Laclau (2005), e che è risultato importante per almeno tre ragioni. La prima è di tipo metodologico, e risiede nel fatto che la ricerca di un univoco modello teorico di interpretazione del populismo da parte di Laclau, tanto ambiziosa quanto non condivisibile secondo alcuni (Taguieff 1997, V), è servita paradossalmente a legittimare un pluralismo di approcci al tema: ha cioè stimolato tutte le teorie discorsive fino a quelle recenti frame-based; ha, di converso, reso criticabile ma anche plurale il campo di studi basato sull’ideologia, portandolo oltre Canovan e
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Mudde; ha, infine, provocato il dibattito sulle teorie normative e su quelle della legittimità. Il contributo fornito dalla teoria discorsiva del populismo non sorprende se si considera l’ambizione culturale ed euristica del modello di Laclau, studioso che spingendosi addirittura a ricercare una difficile “permutabilità concettuale” tra populismo e politica (Arditi 2004, 139) restituisce un approccio destinato a diventare, pur tra mille critiche, semplicemente un classico: tanto criticato quanto – forse – sottostimato (Aslanidis 2016, 78-79). Perché è in un certo senso alla dialettica tra le idee della Canovan e di Laclau che si deve un proficuo, e tutt’oggi attivo filone di ricerca che vede confrontarsi visioni normative (principalmente liberali, ma non solo) sul populismo con altre (e non sempre post-marxiste) orientate ad affermare la compatibilità, se non addirittura la funzione progressiva svolta dal populismo rispetto all’ordine democratico. Logica discorsiva o ideologia che sia, dal principio è apparso largamente evidente agli osservatori che l’affermazione dei soggetti populisti corrispondesse con una “crisi di legittimità che investiva l’intero modello rappresentativo” (Taguieff 1997, VI). È proprio la Canovan a stigmatizzare l’idea che il populismo “rappresenti una componente strutturale della democrazia”, e segnatamente quella componente di “redenzione” del sistema dalla sua involuzione “pragmatica”, elitista e lontana dal popolo (Akkerman 2003, 154; Canovan 2004). Di questo canone interpretativo centrato sul populismo come espressione di una “politics of fate” si servirà la letteratura successiva per evidenziare la crisi di offerta dei partiti tradizionali (Mudde 2007; Mudde e Kaltwasser 2012), e per ragionare del contributo dato dal populismo al “ripristino” della responsività democratica (Caramani 2017, 54), seguendo una lettura più generale, e molto accreditata, che esalta la funzione redentiva del populismo come forza che “reclama la sovranità al popolo da parte delle élites politiche e burocratiche” (Albertazzi e McDonnel 2008, 4), di fatto ricostituendo il punto di convergenza tra le interpretazioni classiche della Canovan e di Laclau. All’opposto, sia tra le tendenze post-materialiste (Norris 2005) sia tra le teorie normative liberali (Urbinati 2014; Müller 2017; Mueller 2019), si è invece fatta avanti l’idea che dalla crisi di legittimità emergesse, col populismo, non una sfida quanto piuttosto
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uno spettro per la democrazia, e particolarmente per i suoi fondamentali liberali. Ma mentre la critica post-materialista si è orientata verso schemi interpretativi più accostabili alle teorie della modernizzazione, tra i molti approcci di teoria normativa certamente il più interessante è quello che ha recentemente insistito sul populismo come logica politica, e sulla tendenza dei partiti a voler rappresentare pars pro toto una indistinta ed escludente idea di popolo (Müller 2017), perché essa sembra efficacemente denudare la contraddizione di fondo di una logica che assimila gli interessi e i valori di specifici individui e gruppi sociali al popolo come tutto: che confonde cioè la cittadinanza con il popolo. 2.2. Il populismo come dispositivo della marginalità politica Ancora oggi, la complessità nell’assegnare una stabile dimensione concettuale al populismo è rimasta intatta (Gidron e Bonikowski 2013). Con la crisi del paradigma della globalizzazione felice questo ha accresciuto, peraltro, la varietà di manifestazione della politica populista nelle diverse democrazie (Caiani e Graziano 2019). Ma se, come ha affermato Aslanidis, “il populismo chiaramente non possiede il carattere di una ideologia” (2016, 89), allora ciò su cui è forse interessante interrogarsi non è tanto cosa questo sia, quanto piuttosto che cosa esso rappresenti strutturalmente, ovvero quali interessi e valori i partiti e movimenti che si proclamano populisti chiedano di vedere riconosciuti nello spazio politico democratico; e soprattutto perché. Porre la questione in questi termini risulta, in fondo, più funzionale ad un modello analitico e ad una ricerca che insistono sul rapporto tra populismo e politica anti-immigrazione. Per recepire un approccio di questo tipo sono però necessari due postulati: assegnare al populismo la valenza non già di una ideologia, né di una logica anche discorsiva, bensì di un dispositivo politico (Žižek 2006); adottare, di conseguenza, un frame analitico ed empirico sul populismo non di tipo fenomenologico, ma bensì orientato ad indagare le condizioni strutturali che muovono il populismo come fenomeno. Al primo dei due postulati è dedicato questo paragrafo, che provvede anche a proporre una definizione di populismo e della soggettività politica populista; il secondo punto è trattato nei successivi paragrafi.
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Pur riconoscendole il merito di aver seminato un campo di ricerca fecondissimo, la letteratura fenomenologica sul populismo ha inevitabilmente contribuito, col suo approccio descrittivo, alla inflazione concettuale del termine (Aslanidis 2016; Mueller 2019). E il rischio è che caricato di una dimensione allegorica un concetto, come il populismo, rimanga intrappolato nella fantasia più che nella parabola che intende descrivere, alla stregua di quanto affermava Littlefield nel suo saggio sul Mago di Oz come metafora del populismo agrario del Midwest: di fronte al Mago che le rivela di non essere tale ma “un uomo comune”, la piccola Dorothy risponde che per lei più di uomo comune egli è “un imbroglio” (Littlefield 1964, 56). Traslando, preso al di fuori del suo guscio storico-genetico (Canovan 1982, 550-551) il populismo contemporaneo va assunto non già come ideologia o ragione discorsiva bensì come dispositivo politico formale. Eppure, ad un primo sguardo, la consistenza in sé fluida del populismo, che ben si conforma all’idea di una società post-materialista (Inglehart 1977) e ormai liquida (Bauman 2013), sembrerebbe avvalorarne la natura di “ragione discorsiva” (Laclau 2005), capace di eleggere le masse e non la classe, la rabbia e non il conflitto, la rivolta e non la rivoluzione a categorie di trasformazione politica. Ma il punto è però che da questa lettura, come afferma Žižek, il populismo ne esce dotato di una natura “puramente formale, trascendentale e non ontica” (2006, 553), facendo quindi convergere Laclau sull’obiettivo – comune all’orientamento fenomenologico – di evitare accuratamente ogni indagine strutturale sul populismo. Ma è appunto quest’ultima che rivela la natura del populismo in quanto dispositivo politico, che realizza appunto il sogno-perversione dei postmodernisti, ovvero quello della fuga dalla modernità politica come fuga dalla realtà, perché in sé dispotica e violenta (Ferraris 2012), attraverso un dispositivo di auto e meta rappresentazione dell’individualismo an-ideologico; dispositivo né di destra né di sinistra, non già di classe e forse di massa, sostanzialmente di status e nuova forma della “politica individuale” (Benveniste et al. 2016, 10). Dunque, e in sostanza, se proprio si vuole provare a dare una definizione di populismo, essa è quella di dispositivo politico che conferisce forma paradigmatica al risentimento di status e all’individualismo di massa nelle postdemocrazie, e che, oscillando tra la
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contestazione della e l’integrazione nella legittimità, si muove ai margini della modernità rappresentativa. Assumendo questo concetto di populismo, anche l’ambivalenza del rapporto politico di tipo populista può essere facilmente traslata dall’asse élite-popolo (Mudde 2004) o establishment-masse (Laclau 2005) alla contrapposizione tra chi è al centro e chi è stato trascinato ai margini del sistema politico. “Come una sorta di periferia interna della politica democratica, il populismo” – come è stato notato – “può essere una dimensione della rappresentanza e della partecipazione che si situa ai bordi più reconditi e ruvidi del sistema democratico, ma anche qualcosa di più inquietante, in quanto può far prosperare in seno alla democrazia ciò che può diventarne la nemesi” (Arditi 2004, 143). Un “popolo” scivolato ai bordi della condizione postdemocratica che protesta per la personale (o di status, di gruppo) esclusione ma non contesta strutturalmente il sistema neo-liberale in sé: giammai la classe ma nemmeno le classi popolari sono all’opposto dell’élite, ma solo una massa di individualismi. Il populismo contemporaneo sembra quindi esprimere non la separazione del popolo dal sistema, ma la sua marginalizzazione nel sistema: è il dispositivo politico dei margini della democrazia. Lo spazio politico postdemocratico sembra così affollarsi di tre soggettività e non solo due: l’élite o establishment centrale al sistema (Loro); il popolo come somma indistinta di individualità e gruppi, interni ma periferici, che cercano di uscire dalla marginalità di status (Noi); quelli che sono esterni e si muovono ai “bordi ruvidi” del sistema per entrarvi, non-nativi e altro dal popolo-comunità per interessi e valori (Gli Altri). Da questo consegue, anche, che il soggetto populista più che un indistinto “popolo” interpreti una funzione ri-connotativa di una identità perduta e prevalentemente prepolitica: un popolo che è “ethnos piuttosto che demos, perché i populisti sono convinti che una comunità culturale debba precedere una comunità politica” (Akkerman 2003, 151). L’elettorato dei partiti populisti mescola così orfani del fordismo e left-behind o perdenti della globalizzazione: sub-urbani e marginali alle ZTL in Europa, “nuove minoranze” bianche e marginalizzate nel Midwest americano (Gest 2016). Tutte soggettività scivolate ai margini della nuova organizzazione sociale: sempre più periferie della global economy, sempre più aliene alla open society.
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Ciò avviene perché lo spazio postdemocratico orienta il processo politico per fratture e divari, per contrapposizione tra interni e marginali, tra élite e masse di individui periferiche al sistema politico, e a proliferare in questa logica sono i muri, i bordi: linee di esclusione che erodono una sovranità politica già “calante” (Brown 2010). La risposta dei partiti populisti è così nel tentativo di far rientrare “il popolo” dai margini esterni del potere democratico. Ma essendo un dispositivo, il populismo articola la sua risposta divaricando allegoricamente contenuto e contenitore: da un lato, una strategia elettorale e della comunicazione che individua retoricamente il nemico nell’establishment (Loro), anche per garantire ai partiti populisti una attrattività elettorale catch-all. Dall’altro, piattaforme programmatiche e agende di politica pubblica in cui è evidente come, oltre la narrazione, l’obiettivo di far riguadagnare lo status perduto agli individui e ai gruppi che costituiscono un sub-popolo (Noi) si concretizzi nella difesa di interessi e di valori “tradizionali”, così opponendosi non già alle élite ma piuttosto ai non-appartenenti a quella comunità etno-centrata che è il popolo: ovvero agli Altri, in sostanza precari e immigrati, che assomigliano molto ai dannati della terra descritti da Fanon. La tanto sottolineata dinamica dell’othering (Lazaridis et al. 2016) trova così una sua coerenza nell’omogeneo universo politico-culturale del dispositivo populista come politica dei margini: nell’idea individualistica dello spazio pubblico e nel rifiuto dei processi collettivi di partecipazione; nel contrasto alla natura ideologica della politica sostituita con una idea processuale ed an-ideologica; nel protezionismo economico-industriale; nel nativismo culturale e nella sua orbita di valori etnocentrati (pro-life, suprematismo etnico, patriarcalismo, anti-genderismo). In definitiva, se iscritte al dispositivo populista in questa prospettiva analitica, le categorie dell’anti-immigrazione e dell’etnocentrismo sembrano costituire il cuore valoriale del populismo in sé più che solo dei partiti far-right (Mudde 2016b, 296). Perché il vero “inganno” del populismo, per ritornare all’allegoria del Mago di Oz, è essenzialmente nella ambiguità del suo richiamo al popolo; richiamo ad un indistinto che, massa o plebe che sia, giustifica agende e politiche pubbliche culturalmente omogenee e monodirezionali – nativismo, sciovinismo, egoismo economico-sociale, individualismo, etnocentrismo, anti-immigrazione – che mai contrastano il neo-liberismo e la sua orbita di valori ma li sostengono.
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Alla fine, per definire cosa sia il populismo è necessario definire cosa sia questo “popolo”, la cui qualità costitutivamente etno-centrata è chiara ben al di là delle complessità concettuali evidenziate dagli studi fenomenologici. Come lucidamente nota Gianfranco Pasquino: Come è stato spesso osservato, ci sono diverse definizioni plausibili di popolo. La prima, contenuta in molte costituzioni, a partire dal preambolo della Costituzione statunitense (We the people of the United States...), indica che il popolo è il cittadino, dotato di diritti e doveri, ma soprattutto del potere di sovranità che – e questo è un aspetto estremamente significativo – deve essere esercitato nei limiti e nelle forme codificate nella costituzione stessa. Questa definizione, suppongo, è l’unica compatibile con la democrazia. Quindi, il “popolo” non è, come spesso concepito dai populisti, una massa indifferenziata di individui. Piuttosto, sono cittadini, lavoratori, associazioni, partiti, ecc. La seconda definizione di popolo riguarda poi la nazione. Le persone non sono solo cittadini che hanno gli stessi diritti e doveri. Sono, soprattutto, coloro che condividono lo stesso sangue e abitano lo stesso territorio (Blut und Boden). Appartengono alla stessa tradizione e condividono la stessa storia. Le persone sono quindi più che demos: sono ethnos. Questa definizione è escludente e, se portata agli estremi dai populisti, diventa incompatibile con una prospettiva democratica. (Pasquino 2008, 16).
2.3. Etnocentrismo, individualismo di massa e politica dello status perduto Cas Mudde ha sostenuto che “la globalizzazione è uno strumento troppo approssimativo per spiegare i successi elettorali dei partiti della destra populista. La ragione è che si concentra solo sul lato della domanda […] cioè cerca di spiegare perché le persone sostengono i partiti della destra populista. Ignora completamente il lato dell’offerta politica, cioè che questi si sono affermati togliendo agli elettori il contesto politico in cui si muovevano” (Mudde 2016b, 299). Ma la stessa cosa potrebbe dirsi, specularmente, delle tesi elitiste o comunque di tipo fenomenologico, perché queste in un certo senso risultano sottovalutare che, per quanto le democrazie mature siano segnate dall’elettoralismo (Manin 2010), nella sostanza è il voto degli elettori a determinare la forza dei partiti populisti, e soprattutto che questo voto origina primariamente da fattori di tipo strutturale.
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Non la globalizzazione in sé, dunque, ma la sua crisi ed il ciclo di austerità che ne è seguito risultano allora essere la prospettiva più adeguata per decifrare i successi elettorali delle forze populiste, come una vastissima letteratura di fatto riconosce (Mewes e Mau 2013; Hutter 2014; Loch e Norocel 2015; Han K. 2016; Rodrik 2018; Margalit 2019; Engler e Weisstanner 2021; Mazzoleni e Ivaldi 2022). Ed è appunto attraverso questa “giuntura critica” che è possibile osservare l’esplosione del populismo come una rottura paradigmatica di modernizzazione (Hooghe e Marks 2018), in cui il fallimento della globalizzazione felice, o la “non-morte” del modello neoliberale (Crouch 2014), si riconnette con la spinta al nativismo-protezionismo culturale che attraversa la società, favorendo l’esplosione elettorale dei partiti far-right. Così nel populismo l’elemento etnocentrico, e dunque anche dell’anti-immigrazione, si è subito connesso agli effetti sociali della crisi costituendo il canale attraverso cui il risentimento individualistico e di status si è espresso in termini di riallineamento degli elettorati su larga scala: il referendum del 2016 sulla Brexit o l’elezione di Donald Trump nel 2017 ne sono stati un esempio chiaro (Inglehart e Norris 2016). Analizzato in questi termini il populismo far-right si configura, quindi, come il dispositivo politico che intercetta quel crescente risentimento che si muove ai margini della trasformazione in atto nell’ordine globalizzato (Morelock e Narita 2018, 148). La domanda espressa dal sostegno alle piattaforme delle destre populiste è così il tentativo di alcuni precisi segmenti della società di rientrare da quei margini del sistema per riguadagnare centralità e status perduti. E questo spiega anche la creazione di una dicotomia politica, con un nemico oggettivo che è caricato in senso nativista e culturale, perché minaccia il tradizionale perimetro di valori della gente comune – sostanzialmente conservatori e comunitari – che sono il riferimento dello status perduto, e di una centralità politica che non c’è più. Con massima capacità di anticipazione, nel suo saggio dal titolo The Radical Right: A Problem for American Democracy uscito nel 1955, Martin Seymour Lipset scriveva: Questo gruppo, che è caratterizzato come radicale perché desidera rendere di vasta portata i cambiamenti nelle istituzioni americane, si preoccupa fondamentalmente di eliminare dalla vita politica americana quelle persone e istituzioni che minacciano il suo senso dei valori
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tradizionali americani, o interessi economici […] Qualsiasi analisi del ruolo dell’estremismo politico negli Stati Uniti deve basarsi in parte sul riconoscimento di due forze politiche fondamentali operanti nelle diverse condizioni storiche della società americana. Queste forze possono essere distinte dai termini politica dello status e politica di classe. Come usato qui, politica dello status si riferisce a movimenti politici la cui crescita si basa su appelli al non usuale risentimento di individui o gruppi che desiderano mantenere o migliorare il proprio status sociale. […] Ad orientare gli appelli non sono solo i gruppi che sono appena sorti e che possono essere frustrati nel loro desiderio di essere accettati socialmente da coloro che ambiscono a mantenere lo status, ma anche i gruppi che già possiedono lo status, che ritengono che vari cambiamenti sociali minaccino le loro stesse pretese di un’elevata posizione sociale, o ancora consentano a gruppi di status precedentemente inferiore di rivendicare il loro stesso status. Le conseguenze politiche delle frustrazioni dello status differiscono considerevolmente da quelli derivanti dalla privazione economica, in quanto non esiste una politica ben definita. […] C’è poco o nulla che un governo possa fare per alleviare queste ansie. Non sorprende, quindi, che la politica dei movimenti che hanno fatto appello con successo ai risentimenti dello status sia stata di carattere irrazionale, che si concentri sull’attacco a un capro espiatorio, che simboleggia convenientemente la minaccia percepita dai loro sostenitori (Lipset 1955, 176-177; i corsivi sono aggiunti).
Nel seguito del saggio, Lipset individuava con chiarezza chi fossero questi soggetti politici della destra radicale, di fatto articolando una parte dell’arcipelago che, poi, Margaret Canovan porrà alla base del populismo contemporaneo. È tuttavia sul piano dell’approccio metodologico e di analisi del fenomeno che l’impostazione di Lipset risulta anticipatrice, da diversi punti di vista. In primo luogo, il fenomeno politico (che è problema per la democrazia!) è per egli essenzialmente da leggersi sul lato della domanda. E, nel valutarlo, la costruzione analitica parte dalle forze che lo spingono (i drivers), le quali conseguono ad una logica di status e prevalentemente individualistica. Si tratta, dunque, di un risentimento per la marginalità e la perdita di status che è reazione di individui e gruppi essenzialmente nativi, il cui set di valori e rivendicazioni è, pur con qualche discostamento, essenzialmente reazionario; si direbbe di una destra anti-moderna, tradizionalista, nazionalista, isolazionista e anti-cosmopolita, in cui interessi e valori non sono scindibili, perché definiscono
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un orizzonte di protezione dalla minaccia per un “popolo” – come sarà poi chiamato – che è fondamentalmente etno-centrato. In secondo luogo, l’alterità politica – e dunque la contrapposizione – si concentra sull’attacco a un capro espiatorio, che sono gli Altri (othering), come non americani in senso vero e tradizionale (rifiuto del multiculturalismo e cosmopolitismo) ma anche in senso etnico e razziale, cioè quelli che spingerebbero i veri americani – si pensi al trumpismo contemporaneo – ai margini del loro sistema di interessi e valori. Non è di poco conto che Lipset individuasse allora tra i gruppi che animavano la destra radicale anche il Ku Klux Klan, e dunque il capo di un filo che collegherà nei decenni i Patriots degli anni Novanta al suprematismo Alt-Right e a Qanon, e comunque a quella costellazione eversiva ed antigovernativa che ha sostenuto l’ascesa di Donald Trump. In ultimo, il modo in cui tale destra radicale si manifesta è nella contestazione della modernità politica – il che rinvia a David Apter che definiva il populismo pre-democratico (1965) – ed in un risentimento che è anche verso la logica della politica mass-and-class based, di cui forse Lipset – come Dahrendorf in quegli stessi anni (1957) – intravede già la crisi paradigmatica. Ciò che certamente emerge, è il carattere di giuntura critica nel processo di modernizzazione politica espresso dal fenomeno della destra radicale. Per riassumere, nella visione di Lipset l’affermazione della destra radicale si caratterizza come: a) un fenomeno che è di giuntura critica nella modernizzazione politica; b) che esprime una contestazione individuale e di gruppo ed un risentimento di status, il quale è principalmente spiegabile sul lato della domanda politico-sociale, con a base gli interessi (non esclude ma sovrasta la deprivazione relativa) e i valori; c) tali valori sono essenzialmente tradizionalisti, e si potrebbe dire certamente nativisti ed etno-centrati; d) l’obiettivo politico di questi movimenti e partiti è quello di eliminare dalla vita politica… quelle persone e istituzioni che minacciano il suo senso dei valori tradizionali…o interessi economici, non ultimi gli immigrati come capri espiatori; e) la manifestazione di questo risentimento politico prende vita essenzialmente in una core ideology di destra radicale, e tale domanda politica non è intercettabile da una offerta politica tradizionale giacché il suo carattere irrazionale predilige una logica di raccolta del consenso essenzialmente disintermediata e demagogico-plebiscitaria, che promette di ripristinare
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la centralità di status del gruppo o massa di individui (il “popolo”), schermandone interessi e valori – protezionismo, sciovinismo, nativismo – simbolicamente dall’élite (Loro) ma sostanzialmente dal capro espiatorio, ovvero dagli immigrati (gli Altri). A ben vedere, se non aveva già definito il populismo contemporaneo a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, Lipset ci si era avvicinato moltissimo. Soprattutto, egli esprimeva un più generale approccio alla ricerca (Lipset e Rokkan 1967; Lijphart 1984; Rokkan [1970] 2009; Flora et al. 1999) che stimolerà sotto diverse angolazioni una serie di correnti di analisi sul populismo nei decenni successivi, forse non prevalenti, ma costantemente attive e sempre in rigenerazione (Rydgren 2007; Gidron e Bonikowski 2013; Kehrberg 2015; Gidron e Hall 2017; Hooghe e Marks 2018; Gidron 2022). Proprio perché, come si è notato, tale modello analitico avrebbe lasciata aperta la connessione ad una cornice interpretativa di tipo strutturale, ovvero basata sulla domanda politica, per il fenomeno della destra radicale poi populista (Rydgren 2007, 247-252). Se collocata in questa prospettiva teorica, la definizione di populismo come un dispositivo politico che conferisce forma paradigmatica al risentimento di status e all’individualismo di massa situato ai margini delle postdemocrazie assume certamente un significato più chiaro. Soprattutto consente di analizzare, anche in senso comparato, il crescente consenso ai partiti far-right ricorrendo ad un modello di tipo strutturale e concepito sul lato della domanda politica, nel quale la diseguaglianza, anche come deprivazione relativa, alimenta solo in parte la politica di status (Gidron e Hall 2017), perché questa ritrova nell’etnocentrismo, e dunque nella politica anti-immigrazione, un fattore strutturale costitutivo. 2.4. I drivers della politica anti-immigrazione Scivolamento di status, individualismo di massa e petite bourgeoisie Ammettere che sia stato il combinato disposto tra le politiche di austerity e la crisi migratoria iniziata nel 2011 ad aver spinto forte-
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mente sulla crescita dei partiti populisti, come accennato, più che spiegare descrive. Soprattutto in una prospettiva comparata, è certamente prioritario riconoscere come nel lungo ciclo elettorale apertosi negli anni Dieci tale impatto si sia manifestato con forti differenze sulla base di motivi di sistema e modello caratterizzanti le diverse democrazie nazionali. Non a caso, più di recente questi elementi di modello sono stati riletti in connessione con il ruolo svolto dalla singola varietà di capitalismo a livello nazionale (Trigilia 2022), in un certo senso allargando l’orizzonte di una lettura di political economy sugli effetti della globalizzazione che resta di grande autorevolezza (Rodrik 2018; Milanovic 2019). A questo, è certamente da aggiungersi, o forse da connettersi, il peso rivestito dall’offerta politica, sia sul lato del mercato elettorale (Norris 2005; De Vries e Hobolt 2020) che dei processi organizzativi (Mudde e Kaltwasser 2018; Hutter e Kriesi 2022) o di ri-politicizzazione (Rooduijn et al. 2014; Rooduijn e Akkerman 2017), ma anche in termini più generali ovvero derivanti dal modello partitico o elettorale e dalla meccanica generale del sistema politico (Mair 2002; Mainwaring e Torcal 2006; Albertazzi e McDonnel 2008; Mudde e Kaltwasser 2012). Ciononostante, se il populismo è, come assunto, il dispositivo politico del risentimento di status e dell’individualismo di massa che esplode ai margini delle democrazie, indagarne le ragioni strutturali significa ricorrere anche ad un modello di analisi che valorizzi il lato della domanda politica, e nel quale tanto il fattore economico-strutturale (diseguaglianza anche come deprivazione relativa) quanto il driver culturale etnocentrico (anti-immigrazione) appaiono co-essenziali per spiegare il risentimento di status, sebbene in una combinazione esplicativa articolata. Si consideri, come esempio, la dinamica della crescita dei partiti far-right nelle tre più grandi democrazie post-industriali europee, ovvero la Germania, la Francia e l’Italia, in un ciclo di elezioni generali ed europee che copre il decennio 2012-2022, coprendo così in pieno gli effetti dell’austerity, della crisi dei rifugiati scatenata prima dallo scenario del Maghreb poi dalla crisi siriana del 2011, poi quelli della Brexit e infine della pandemia a partire dal 2019.
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Figura 5. Voto (%) ai partiti far-right in Germania, Francia e Italia (2012-2022). Fonte: PARLGOV 2022 per tutti i paesi e per tutti i cicli di elezioni, ad eccezione che per le elezioni nazionali italiane del settembre 2022, per le quali è MININT 2022b. Note. Il voto è rappresentato come quota elettorale nazionale dei partiti nei paesi alle ultime tre elezioni politiche generali, e alle due tornate di elezioni europee del 2014 e del 2019. Per le elezioni generali la sequenza è 2012 (Francia), 2013 (Germania e Italia), 2017 (Francia e Germania), 2018 (Italia), 2021 (Germania) e 2022 (Francia e Italia). Per i partiti far-right il riferimento è Mudde (2018b) e lo scoring usato è quello di Holger et al. 2022. Dunque, per la Germania sono conteggiati l’Alternative für Deutschland (AfD), il Nationaldemokratische partei Deutschlands (NPD) e i Republikaner, mentre per la Francia il Front poi Rassemblement National, la Ligue du Sud (solo 2012), l’Unione des patriotes (solo per il 2017) e Reconquête (solo per il 2022). Per l’Italia Lega, FDI, insieme a La Destra, Casa Pound, Forza Nuova, Rifondazione Missina e Progetto Nazionale nel 2013, poi Casa Pound, Italia agli italiani, Blocco nazionale delle libertà e Il popolo della famiglia nel 2018, infine Italexit, Italia sovrane e popolare e Alternativa per l’Italia nel 2022. I dati si riferiscono alle elezioni del Bundestag in Germania, dell’Assemblea nazionale in Francia e della Camera dei deputati in Italia.
Come illustrato dalla figura 5, i tre sistemi politici vengono tutti investiti da una rilevante crescita della destra populista, ma mentre questa area politica copre un decimo dell’elettorato in Germania, meno di un quarto in Francia, essa arriva ad un terzo in Italia dove è essenzialmente maggioranza relativa. Come la crescita lineare aiuta a comprendere, l’Italia è l’unico dei tre paesi in cui i soggetti far-right sono diventati mainstream elettorale, politico e di governo, come
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confermano prima il governo gialloverde del 2018 e successivamente l’esito delle elezioni del 2022, con la formazione di un governo di destra-centro, guidato dalla leader di un partito far-right – e peraltro di genesi neofascista – che è ormai primo partito del sistema (FDI al 26 %) in coalizione con un secondo partito far-right, la Lega, all’8,66% e una forza conservatrice iscritta ai Popolari Europei come Forza Italia (8,11%). Diversamente, negli altri due sistemi la destra populista non vince né per quota elettorale né per quota rappresentativa: in Germania, perché a reggere sono sia il modello economico-sociale che quello politico-istituzionale, in Francia perché nonostante alcune trasformazioni di sistema l’innovazione sul lato dell’offerta politica, l’affermazione di En Marche! e di Macron ma anche la riorganizzazione di Nupes sullo spettro della sinistra tengono ai margini sia i partiti far-right storici (il Rassemblement della Le Pen) sia quelli emergenti (come quello di Zemmour). Queste differenze, per intensità di crescita dei partiti far-right e per impatto sull’orientamento del governo democratico, si spiegano solo in parte con la diversa qualità dell’offerta politica, delle regole del gioco, con la differente tipologia di organizzazione socioeconomica, o con i fattori di dipendenza dal percorso di Francia, Germania e Italia. Cosa, allora, spiega la pronunciata affermazione del populismo far-right ad esempio in Italia? Cosa strutturalmente sposta ampie fasce di elettorato sui programmi sciovinisti, nativisti e anti-immigrazione, di questa nuova destra radicale ed esclusionista? Il modo in cui la crisi e le diseguaglianze hanno ‘morso’ il tessuto democratico del paese? O un particolare peso dell’etnocentrismo e del risentimento anti-immigrazione che lo attraversa? In fondo, tutti questi fattori possono aiutare a decifrare il fenomeno, se però analiticamente concepiti quali pivot di un risentimento di status individualistico. Noam Gidron ha recentemente riconosciuto il valore fondativo delle analisi di Lipset sulle destre radicali (2022, 74). Egli, tratteggiando quel risentimento di individui o gruppi che desiderano mantenere o migliorare il proprio status sociale, stava già descrivendo quelli che Daniel Bell avrebbe chiamato i “dispossessed” (2017), e ancora perdenti della modernizzazione; fenomeno che meglio le letture basate sulla domanda politica si prestano ad analizzare, nel cogliere l’incrocio esplicativo tra i drivers economici – la diseguaglianza, ma anche
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la deprivazione relativa – e quelli culturali, come l’etnocentrismo, che li muovono strutturalmente (Rydgren 2007, 247). Se il populismo far-right è, infatti, politica di status e dei margini, una spiegazione strutturale deve primariamente muovere dal come quei margini si istituzionalizzino e prendano forma nel singolo sistema politico, ben prima della crisi dei subprime. Si tratta, infatti, di fenomeni di lunga formazione nelle democrazie occidentali, in cui un ruolo essenziale è svolto dalla gestazione della globalizzazione neoliberale. Come segnalava già Hans Betz, è con la disarticolazione del paradigma fordista che già a partire dagli anni ’80 si manifesta “il disincanto nei confronti delle principali istituzioni sociali e politiche e una profonda sfiducia nel loro funzionamento, nonché l’indebolimento e la decomposizione degli schieramenti elettorali e l’aumento della frammentazione politica e della volatilità elettorale” (Betz 1993, 413). Così, più che la crisi in sé, sarà l’impatto della diseguaglianza di status che la crisi acuisce ad alimentare il voto populista, rivelando politicamente l’esistenza di quel risentimento e raffigurando plasticamente l’esistenza di margini scavati dalla logica spaziale neoimperialista della globalizzazione nelle società (Lenin 1917; Harvey 2004). Rimarcando, insomma, l’avanzare di un “diverso tipo di post-fordismo…in cui la specializzazione flessibile è congiunta con una politica più esplicitamente imperialista” (Steinmetz 2003, 327), e la cui organizzazione sociale che ne deriva è disciplinata da una ferrea separazione gerarchica. La radicalizzazione della diseguaglianza che esplode dopo il 2008 (Piketty e Saez 2014) non segue quindi, per dirla con Lipset, una logica di class politics. Pur colpendo quel poco che resta della classe operaia low skilled – gli ultimi orfani del fordismo che la globalizzazione non ha ancora marginalizzato – in realtà colpisce selettivamente e in termini di status parte della classe media e soprattutto di quella che Marx avrebbe chiamato la petite bourgeoisie: per le democrazie della tarda globalizzazione, il risentimento di status finisce per costituire il germe nascosto nel cuore reazionario del populismo. Non appena gli effetti della crisi iniziano ad essere più duri, si potrebbe dire però che il re è nudo, o che, come ha notato Micheal Peters, il populismo esibisca il suo vero volto “ferocemente anti-immigrazione e anti-integrazione, spesso associato ai neonazisti e ai gruppi suprematisti bianchi. Che assume comunemente una sorta di autoritarismo e una posizione antiliberale nei confronti dei diritti, e mentre fa appello all’uomo
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comune… non sottoscrive la nozione e la pratica dell’uguaglianza [e] ha forti legami con elementi dell’estrema destra non solo in termini di etnocentrismo, xenofobia e posizione anti-immigrazione, ma anche sui valori conservatori tradizionali e sociali riguardanti l’eterosessualità, la famiglia patriarcale, la subordinazione delle donne e le minoranze culturali” (Peters 2018, 324; i corsivi sono aggiunti). Non a caso, proprio la scholarship elitista sul populismo, che ne aveva rimarcato la natura anti-establishment, trans-ideologica e sfidante per la democrazia, ormai ammette che ad avanzare è una “destra radicale populista” essenzialmente monista, la quale sì “vede il popolo come etnicamente e moralmente omogeneo” ma “mira alla protezione di interessi particolari” (Mudde 2019a, 297; il corsivo è aggiunto). L’idea di un soggetto politico che protegge in maniera etnocentrata interessi particolari di fatto disvela la logica del popolo, il discorso populista, come un imbroglio. È il Mago di Oz: il dispositivo formale populista è strutturalmente di tipo individualista, e ne sono reazione la paura allo scivolamento di status e il risentimento etnocentrato verso chi minaccia il ‘popolo’. E questo vale anche per la parte della sua forza che insiste sul lato dell’offerta politica (Kehrberg 2015). Dal generale al caso particolare, tutto questo aiuta a decifrare – ad esempio – il differente e maggiore impatto del voto far-right in Italia rispetto a Francia e Germania, con il supporto di due grafici.
Figura 6. Rapporto tra ricchezza nazionale e reddito nazionale in Germania, Francia e Italia; individui e tutte le età (1966-2021). Fonte: WID 2022.
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Il primo (Fig. 6) ci indica lo sviluppo del rapporto tra ricchezza e reddito nazionale – se si vuole tra benessere privato e benessere pubblico – nei tre paesi lungo un arco di tempo piuttosto esteso, che copre in sostanza sia la fase terminale della cosiddetta economia fordista (1966-1973), poi il periodo post-fordista di emersione del sistema neoliberale (1974-1990), in seguito l’esplosione dell’economia globalizzata (1991-2007) e, infine, lo scoppio della crisi, la politica di austerità e la crisi pandemica (2008-2021). La curva dell’Italia racconta diverse cose. La prima è che il modello di sviluppo italiano, spesso additato di esprimere fondamentali economici deboli, è in realtà – come di recente notato – molto solido, ma anche molto iniquo (Heimberger 2022). A quelli che rimangono i limiti del modello di capitalismo – limitata dimensione delle imprese, bassi investimenti nell’innovazione, bassa offerta occupazionale e bassissimi salari – hanno sempre corrisposto, durante tutte le fasi di sviluppo descritte dalla curva, altri grandi punti di forza: una bilancia commerciale positiva e solidissima, un forte avanzo primario, una ricchezza privata enorme. È il modello di organizzazione economico-sociale prima che la sua struttura produttiva a descrivere un sistema a forte accumulazione di ricchezza privata ed individuale: un tessuto produttivo molecolare; una propensione alla ricchezza da rendita e non da lavoro; forte risparmio privato e alto debito pubblico; bassa redistribuzione e bassi salari. Questo tipo di tendenza, solo mitigata dalla fase di governo politico dell’economia mista dei Trenta Gloriosi, esplode all’inizio degli anni Novanta con la politica delle privatizzazioni (il picco della curva) avvenuta in piena crisi del modello politico repubblicano, portando il sistema da allora in poi ad esibire una forte divaricazione tra ricchezza e reddito, tra benessere privato e pubblico, per tutti gli anni di crescita fino alla crisi del 2007, con una forbice che si allarga in maniera impressionate dopo la crisi economica, dilatando così le diseguaglianze. Non a caso l’indice di Gini in Italia è strutturalmente alto, nel periodo 2003-2018 mediamente di 0.345 contro lo 0.310 e lo 0.320 di Germania e Francia (WB 2022b); un assetto della società e dell’economia cui la Francia solo in parte si avvicina e di recente, ma da cui la democrazia fordista della Germania si distanzia molto. In un modello di sviluppo economico e sociale prevalentemente diretto dal dumping salariale, dalle piccole imprese e dal lavoro
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autonomo, da risparmio e ricchezza privati alti combinati con un alto debito pubblico, bassa redistribuzione e povertà salariale; in un modello, insomma, in cui emerge chiaramente il prevalere della ricchezza-rendita privata sul reddito produttivo-collettivo come logica di sviluppo, è evidente che l’incidenza di una sociologia elettorale sensibile allo status e centrata sull’individualismo sociale sia molto alta.
Figura 7. Lavoratori autonomi su totale occupati (%) in Germania, Francia e Italia (1991-2019). Fonte: WB 2022. Note. I lavoratori autonomi sono quei lavoratori che, lavorando per conto proprio o con uno o pochi soci o in cooperativa, svolgono il tipo di lavoro definito come “lavoro autonomo”, vale a dire lavori in cui la remunerazione dipende direttamente dai profitti derivanti dai beni e servizi prodotti. I lavoratori autonomi comprendono quattro sottocategorie: datori di lavoro, lavoratori per conto proprio, membri di cooperative di produttori e coadiuvanti familiari contribuenti.
Se a questo si aggiunge, come illustra la figura 7, che un dato strutturale del modello italiano è una incidenza doppia, rispetto a Germania e Francia, del lavoro autonomo su quello dipendente, tutti questi elementi insieme forniscono qualche indicazione sulla diversa consistenza e peso nella società italiana, rispetto agli altri due paesi, di quella piccola borghesia proprietaria e centrata sulla protezione dello status individuale, nella quale, come dimostrato da Ronald Inglehart e Pippa Norris, il voto
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populista ha una incidenza altissima, e soprattutto molto più alta che tra i lavoratori manuali non qualificati (Inglehart e Norris 2016, 4). Una prima, iniziale suggestione esplicativa sul fortissimo sostegno ai partiti far-right in Italia è proprio questa. Perché, forse anche più che negli Stati Uniti, le “nuove minoranze” di cui parla Justin Gest (2016) sono in Italia tradizionalmente una importante maggioranza sociale, il cui risentimento di status più che in una ideologia si esprime in una mentalità individualistica piccolo-borghese, nella quale sembrano convergere, su larga scala, il privatismo e declino della sfera pubblica di cui scriveva la De Leonardis (1998) e gli effetti prodotti dal capitalismo molecolare sul tessuto politico-sociale (Bonomi 1997). Crisi, diseguaglianze e deprivazione posizionale Tutte le teorie demand-side based, incluse quelle centrate sui perdenti della modernizzazione o connesse alla deprivazione relativa, hanno finito per esaltare gli effetti avuti dalla crisi del 2008 sul sostegno ai partiti populisti. Non c’è dubbio che soprattutto la politica di austerity abbia contribuito a dilatare gli elettorati populisti in generale, e quelli dei partiti far-right in particolare, come una ormai consolidata letteratura ha dimostrato (Rodrik 2018; Margalit 2019; Engler e Weisstanner 2021). Ciononostante, la stessa letteratura non stenta a riconoscere come sia lo status socioeconomico individuale a plasmare gli effetti della diseguaglianza di reddito in termini di scelta politica dell’elettore verso i partiti populisti (Han K. 2016). La crisi ha in sostanza aggravato un risentimento già emerso tra le pieghe della allora globalizzazione felice, in cui più che gli effetti economici diretti è stata la paura di una perdita di status, di uno scivolamento individuale dal centro ai margini del sistema a giocare un ruolo determinante. Come già notava Lipset, la presa di questi partiti è soprattutto tra gruppi e individui “che già possiedono lo status, che ritengono che vari cambiamenti sociali minaccino le loro stesse pretese di un’elevata posizione sociale, o consentano a gruppi di status precedentemente inferiore di rivendicare lo stesso status con loro; e le conseguenze politiche delle frustrazioni…differiscono considerevolmente da quelli derivanti dalla privazione economica” (Lipset 1955). Riconoscere tutto questo, postulare cioè una prospettiva di status politics, consente anche di approcciare in maniera differente alla
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presunta trasversalità ideologica dei nuovi populismi, affermata da numerosi studi fenomenologici. L’originale tesi sul “voto innaturale” a destra delle classi lavoratrici è stata, e non a caso, nel tempo piuttosto riletta come un fenomeno di rimodulazione degli orientamenti elettorali verso le agende far-right della parte di working class socialmente individualizzata. Se il populismo incarna la politica del risentimento individualistico di status e non la politica di classe, è più la ex classe operaia che è diventata di destra che la nuova destra radicale ad offrire politiche di sinistra, come sembrano mostrare quelle ricerche che evidenziano come il terreno delle agende politico-economiche far-right sia il sovranismo economico o protezionismo, ma non un orientamento antiliberista (Mazzoleni e Ivaldi 2022). A meno che la politica di redistribuzione non riguardi i nativi, queste agende infatti sono in prevalenza liberiste e anti-welfare, e non “egualitarie e redistributive” (Derks 2006, 177). Insomma, come aveva già notato Betz, la contestazione non è al modello neoliberista se questo è a “difesa del successo individuale, di un libero mercato e di una drastica riduzione del ruolo del welfare” (Betz 1993, 413). L’impatto economico della globalizzazione risulta, così, leggibile come disagio di status (Van der Waal e De Koster 2017; Colantone e Stanig 2019), e sul lato dell’offerta come capacità di attrarre il voto usando “la globalizzazione commerciale” quale “capro espiatorio, creato dalla politica per accusare un generico straniero – cinese, messicano o tedesco che sia – di costituire il problema” (Rodrik 2018, 13). Non è la crisi in sé bensì il disagio di status individuale provocato o minacciato dalla stessa ad attivare il risentimento politico dei margini. La deprivazione è quindi la “nostalgic deprivation” di nuove minoranze culturalmente etnicizzate (racial resentment) che si attivano identificando un nemico oggettivo ed esterno, il quale minaccia la de-industrializzazione e l’automazione del tessuto produttivo (Gest et al. 2018, 1710). Tutto questo consente di interpretare gli effetti della crisi in un senso differente, considerando anche diversi fattori psico-sociali e culturali, come ha fatto chi ha evidenziato che non le preferenze ideologiche degli elettori ma il bisogno di uscire da una situazione di deprivazione relativa prima sconosciuta spingesse al supporto dei partiti far-right (Elchardus e Spruyt 2012). Una lettura che è stata confermata dagli studi sulla deprivazione relativa posizionale (Bur-
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goon et al. 2019), ma che soprattutto è stata maggiormente articolata dalle ricerche che hanno evidenziato come sia non già l’effettivo arretramento di status ma la percezione che questo possa realizzarsi ad incidere sul supporto ai populisti far-right (Kurer 2020). In sostanza, la crescita della diseguaglianza economica aiuta a spiegare lo scivolamento di status, anche percepito, e il suo impatto sul voto far-right, in termini di percezione che individui e gruppi hanno di un loro arretramento rispetto all’accesso a risorse economiche e di potere (Ridgeway 2014). È lo scivolamento ai margini da parte non già delle ex classi operaie ma piuttosto dei ceti medi o piccolo-borghesi bianchi e nativi che costituisce il retroterra di fertilità del voto alle nuove destre populiste (Gidron 2022, 75). Scivolamento che, per ritornare al caso dell’Italia, è rappresentato nella Fig. 7 dal ridimensionamento sociale del lavoro autonomo dopo il 2008, che perde quasi tre punti percentuali sul totale dell’occupazione. In un modello di produzione in cui la ricchezza individuale prevale sul reddito-produzione collettivi, che all’inizio degli anni Novanta con il 29,97% di lavoro autonomo doppiava la Francia (15,26) e quasi triplicava il dato tedesco (9,67), ciò conferma le caratteristiche socioeconomiche e culturali del voto ai partiti populisti e far-right. La crisi economica e le diseguaglianze hanno, insomma, fatto esplodere le paure di un arretramento di status individuale e il risentimento sociale anti-immigrazione. 2.5. Status, minoranze e margini: anti-immigrazione ed etnicizzazione del nemico oggettivo Il posto che l’anti-immigrazione ricopre nell’analizzare l’affermazione del populismo e dei partiti far-right, sia nelle teorie supply-side o fenomenologiche sia in quelle esplicative e demand-side, rimane euristicamente irrisolto, benché sia oggetto di numerose indagini e perennemente citato. Scorrendo, infatti, la letteratura sia di prima (Betz 1990, 1994; Hainsworth 2008; Rydgren 2008) che di seconda generazione (Dolezal et al. 2010; Alonso et al. 2011; Odmalm e Bale 2015; Mudde 2016a, 2016b, 2019; Hutter e Kriesi 2022), emerge come, tranne che in alcuni casi e prevalentemente di scuola nord-europea (Van der Brugg et al. 2003; Blee 2007; Rydgren 2008; Loch e Norocel 2015), l’anti-immigrazione sia sempre assunto qua-
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le fattore sì analiticamente imprescindibile, ma non tale da iscriverlo come gerarchicamente preordinato nella core ideology del populismo contemporaneo, anche per il prevalere nelle interpretazioni del concetto più onnicomprensivo di nativismo (Mudde 2016b, 2017). Considerato lo sviluppo ampio e plurale della grand theory sul populismo, che il nodo euristico del rapporto tra populismo e anti-immigrazione non sia stato risolto appare forse anche comprensibile. Eppure, con la prima generazione di studi sulle nuove destre radicali era già emerso il rischio che il prevalere di una interpretazione del fenomeno come solo di protesta e trans-ideologico – da destra a sinistra – rischiasse di sottostimare la natura essenzialmente anti-immigrazione delle nuove formazioni populiste (Van der Brug e Fennema 2003). La questione è rimbalzata negli ultimi anni, tanto da portare Cas Mudde a riconoscere con grande eleganza che “ora che siamo finalmente d’accordo su cosa intendiamo per populismo in sé, il fenomeno in pratica è quasi esclusivamente di destra radicale […] una forma populista della destra radicale piuttosto che una forma di populismo di destra radicale. Ideologicamente, l’autoritarismo e il nativismo determinano il populismo, piuttosto che il contrario” (Mudde 2018). Il tema è, dunque, per Mudde ancora quello del nativismo, ma in sostanza il suo sembra un riconoscimento implicito del ruolo strutturale svolto dall’etnocentrismo. Come largamente riconosciuto, non già l’immigrazione in sé quanto piuttosto il risentimento anti-immigrazione è la variabile cruciale per sviluppare modelli analitici utili a spiegare il sostegno elettorale ai partiti far-right, che lo si legga in uno schema di modernizzazione (Inglehart e Norris 2016) o meno (Schafer 2021). Perché, nonostante le suggestioni giunte da alcune autorevoli ricerche (Golder 2016), permangono di fondo ancora molti dubbi sul fatto che la pressione immigratoria in sé incida sul voto far-right (Rydgren 2007, 250), ma quasi nessuno invece sulla co-essenzialità dell’anti-immigrazione al risentimento di status che alimenta tale voto sul lato della domanda. Affermando che è il nativismo a generare il populismo, Mudde ci suggerisce – nella sua prospettiva – che l’etnocentrismo è un canone generativo di quella cultura-mentalità che, sul lato della domanda, alimenta le fortune del populismo, inteso come dispositivo politico del risentimento individualistico di status. Come afferma Noam Gidron, per “coloro che pensano che il loro status sociale sia in decli-
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no” e si trovano ai margini del sistema, l’etnocentrismo come ritorno “alle gerarchie tradizionali” contrapposto allo spazio politico non protetto della globalizzazione ha un effetto tranquillizzante (Gidron 2022, 76). L’etnocentrismo gioca dunque un ruolo centrale nel forgiare il populismo far-right come dispositivo politico, e gli elementi psicologico-sociali sono intimamente connessi al risentimento di status, plasmando una domanda politica che unisce sempre “anti-establishment, anti-austerity e anti-immigrazione”, ma “con l’ultima come questione più intensa” (Pettigrew 2017, 113). Non sorprende, dunque, che le teorie basate sul risentimento di status (Gest et al. 2018; Gidron e Hall 2017) abbiano sostanzialmente condotto ad una fortissima rivalutazione dell’elemento anti-immigrazione come koinè dei partiti della destra populista. Nelle diverse articolazioni, questa lettura ha aperto la strada all’idea che non già la crisi economica e nemmeno “l’insicurezza economica” di status in sé siano i determinanti essenziali del sostegno ai partiti far-right, che è essenzialmente mosso da una reazione sociale anti-immigrazione (Margalit 2019, 153), quale perno di mentalità del risentimento individuale di status che ribolle ai margini del sistema postdemocratico. Risentimento che può anche attraversare la classe operaia socialmente individualizzata, perché “la marginalizzazione e la minoritarizzazione possono essere vissute in modi diversi, e simultaneamente, da persone diverse”; ma esso resta sempre centrato etnicamente (Gest 2016, 20). Il fatto che molte indagini relativamente recenti abbiano iniziato ad accogliere sistematicamente l’etnocentrismo tra i fattori che maggiormente incidono sull’articolazione della domanda politica far-right rappresenta, in un certo senso, il riconoscimento tardivo dell’influenza negli studi sociali e politici degli studi di Sumner, sull’esclusione e il “disprezzo” verso i gruppi esterni, o delle teorie seminali di Gumplowicz (Bizumic 2014, 5). D’altra parte, quando Lipset sosteneva che “la politica dei movimenti che si appellano, con successo, ai risentimenti dello status ha utilizzato argomenti di carattere irrazionale, che si concentrano sull’attacco a un capro espiatorio, il quale simboleggia convenientemente la minaccia percepita dai loro sostenitori”, egli stava di fatto affermando, in un ormai lontano 1955, che la natura delle nuove destre radicali connettesse intimamente individualismo ed etnocentrismo. Nella politica del risentimento di status, l’etnocentrismo sembra in fondo svolgere una doppia funzione: di protezione simbolica
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dell’individuo o elettore dei margini, e di etnicizzazione del nemico oggettivo, chiaramente esemplificato dallo straniero o immigrato. La protezione simbolica di quella che Gest chiama la “nuova minoranza” passa attraverso il “ritorno al vecchio ordine di valori” come “ristoro per la loro condizione” di marginalità (Rydgren 2013, 7). E questo avveniva ben prima che emergessero i partiti di quarta generazione, perché già i movimenti di Haider o Wilders degli anni ’90 presentavano la costruzione di un universo simbolico – poi definito populista – nel quale era centrale un nucleo di xenofobia, anti-immigrazione, nazionalismo, sciovinismo. Per dirla con Mudde, al principio è forse il nativismo a descrivere l’essenza di questi partiti, quale “combinazione di nazionalismo e xenofobia” usata per attaccare le minoranze interne – i rom, i sinti – e il pericolo esterno dell’immigrazione (Mudde 2016a, 296). Dopo gli attentati alle Torri Gemelle di New York però tutto muta fortemente, perché l’11 settembre 2001 svolge, nell’evoluzione del populismo far-right, una funzione simile a quella che avrà la crisi dei subprime in campo socioeconomico: darà spinta e soprattutto forma alla mentalità del risentimento di status anti-immigrazione. Tale evoluzione si rivela molto nella centralità dell’etnocentrismo: d’agenda politica sul lato dell’offerta, di mentalità sul lato del sostegno elettorale ai partiti. I tradizionali argomenti usati dalle destre populiste dagli anni novanta per mettere a fuoco, simbolicamente, gli immigrati come minaccia e nemico oggettivo – minaccia per l’identità etno-nazionale, causa di criminalità e insicurezza, portatori di disoccupazione e opportunisti del welfare – raggiungono, infatti, nelle piattaforme di partiti come il Rassemblement National di Le Pen figlia, nell’AfD tedesca o in soggetti come FDI e la Lega di Salvini in Italia un livello di sistematizzazione che travalica la strategia elettorale o il messaggio politico; è il sintomo di una identità di cui la politica anti-immigrazione costituisce il baricentro, e questo anche perché i cosiddetti drivers culturali, certamente importanti per tutti i movimenti sociali, sono di “particolare rilevanza nei movimenti razzisti e di estrema destra” (Blee 2007). E tuttavia l’etnocentrismo assume nella politica dei margini e del risentimento di status una ulteriore funzione: di costruzione della identità del nemico oggettivo, ormai chiaramente decifrata più che dal nativismo da una vera e propria caratterizzazione
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anti-immigrazione. Quel “perché ci odiano tanto?” con cui apre il suo volume Maya Goodfellow (2020) è, in un certo senso, la conferma della lucida previsione fatta da Betz già negli anni Novanta, ovvero che “il successo del populismo radicale di destra segnalasse una rinascita del razzismo nell’Europa occidentale” (Betz 1993, 416). Tanto forte ed evidente è l’etnicizzazione del capro espiatorio (immigrato, rifugiato, non bianco, non cristiano), da suggerire una sua funzione più sistemica: quella di un dispositivo egemonico del sistema neoliberale in sé, attraverso cui somministra un “palliativo democratico” al risentimento delle nuove minoranze che esso stesso ha creato con la sua nuova gerarchia sociale (Han B. 2021). In definitiva, con l’affermazione dei soggetti far-right la politica anti-immigrazione è divenuta ormai il tratto fondativo, centrale, essenziale del populismo; ed essa si riflette, in maniera bidirezionale, sia sull’etnicizzazione – più o meno irrazionale – del capro espiatorio su cui si concentra l’attacco politico dei partiti e degli elettori far-right, sia sull’identità del soggetto populista, che già prima della crisi si definiva “in termini di etnia piuttosto che come identità civica, nonostante la globalizzazione, la migrazione di massa e il pluralismo culturale” (Akkerman 2003, 251) Certamente è vero, come sostiene Collier, che un elettore favorevole alle restrizioni sull’immigrazione non è automaticamente un razzista (2016). Ma in una prospettiva di analisi sistemica è altrettanto evidente come alla base della crescita dei partiti far-right nelle democrazie europee vi sia una domanda sociale nella quale il risentimento di status e la paura dello scivolamento sociale si esprimono essenzialmente attraverso una cultura anti-immigrazione, la quale assume un significato strutturale. Per restare sul caso italiano, la maggiore intensità di crescita e di sostegno ai partiti far-right forse si legge anche, come illustra la figura 8, nel prevalere di un sentimento etnocentrico che attraversa la società italiana, per il quale l’immigrazione è vissuta essenzialmente come una minaccia e non una opportunità.
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Figura 8. Percezione dell’immigrazione come minaccia o opportunità economica, culturale e sociale in Germania, Francia e Italia al 2018. Fonte: ESS 2018; N: Germania = 2358; Francia = 2010; Italia = 2754. Note. L’indicatore Imbgeco (Immigration bad or good for country’s economy) è su una scala da 0 (Bad) a 10 (Good), imuelcit (Country’s cultural life undermined or enriched by immigrants) da 0 (undermined) a 10 (enriched) e imwbcnt (Immigrants make country worse or better place to live) sempre da 0 (worse) a 10 (better). Un valore < 5 qualifica una percezione di minaccia, quello > 5 di opportunità.
Per la costruzione di modelli analitici utili ad indagare le ragioni strutturali dell’avanzamento del populismo far-right, più dell’inafferrabile concetto di nativismo è dunque l’etnocentrismo a risultare centrale, perché è sovente “correlato ad altri indicatori attitudinali per il razzismo, la xenofobia, il pregiudizio” (Hooghe 2008), e quindi consente di raccordare attraverso il risentimento anti-immigrazione altri predittori del sostegno alla destra populista, prima riuniti sotto l’ombrello largo del nativismo: patriarcalismo e segregazione di genere, posizioni anti-gender o moniste sulla sessualità, atteggiamenti pro-life, nazionalismo e conservatorismo religioso. Il fatto che l’Italia sia, tra i tre grandi paesi europei citati (Fig. 8), quello in cui prevale nell’opinione pubblica una visione dell’immigrazione in senso economico, culturale e sociale più di minaccia che di opportunità racconta molto del peso che l’anti-immigrazione riveste oggi nel sistema politico. A questo si aggiunga che, considerando solo gli intervistati appartenenti a gruppi oggetto di discriminazione (dscr-
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grp), la quota che dichiara di aver subito una discriminazione di tipo etnico (dsretn), razziale o di colore (dscrrce), o ancora basata sulla nazionalità (dscrntn), è in Italia del 77,7%, contro il 55% e 47,5% di Germania e Francia (ESS 2018). In definitiva, una prima spiegazione demand-side della crescita elettorale, atipicamente alta, dei partiti far-right in Italia durante l’ultimo decennio non può, allora, che congiungere i due elementi della paura di scivolamento sociale della consistente – e molto centrata sulla protezione dello status individuale – piccola borghesia italiana con il forte risentimento anti-immigrazione che questa inizia ad esprimere.
CAPITOLO 3 L’ESPLOSIONE DEL POPULISMO FAR-RIGHT NEL SISTEMA POLITICO ITALIANO (2013-2022)
3.1. Il consenso populista tra risentimento di status e offerta politica Per comprendere le ragioni della politica anti-immigrazione è dunque necessario partire dalla natura del populismo quale dispositivo politico che conferisce forma paradigmatica al risentimento di status e all’individualismo di massa nelle postdemocrazie; populismo come dispositivo dei margini della democrazia, che esprime non la separazione del popolo dal sistema, ma la sua marginalizzazione nel sistema. Come già rilevato, una prima evidenza della forte crescita dei partiti far-right in Italia a partire dalle elezioni del 2013 finisce per congiungere due elementi: la paura di scivolamento sociale di una consistente piccola-borghesia centrata sulla protezione dello status individuale e il risentimento anti-immigrazione che essa stessa esprime. Questo nella convinzione, supportata dai dati, che per il caso italiano solo il ricorso ad uno schema analitico che valorizzi maggiormente il lato della domanda politica, e nel quale tanto il fattore economico-strutturale (come percezione della deprivazione nostalgica di status) sia il driver etnocentrico (come sentimento sociale anti-immigrazione) articolatamente combinati, possa contribuire a spiegare il consenso alle destre populiste. Tale interpretazione, però, non intende affatto ridimensionare gli effetti della crisi sul consenso populista. Anche le diseguaglianze stanno concorrendo significativamente al cambiamento nel sistema politico e dei partiti in Italia (Morlino e Raniolo 2022; Trigilia 2022), sebbene una lettura dell’avanzamento del populismo per così dire schiacciata sugli effetti generati dalla crisi economica rischi di spiegare solo una parte, e forse non quella determinante, del feno-
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meno. Al netto dei processi di mediatizzazione, del discorso pubblico anti-immigrazione e dei cambiamenti endogeni sul lato dell’offerta politica, è infatti soprattutto a seguito della crisi dei rifugiati del 2009-2013 che in Italia si genera quel risentimento sociale etnocentrato, il quale, congiunto alla maggiore incidenza del voto populista nella piccola borghesia più che nella ex classe operaia, conferma il movente di status più che di class politics del voto alle nuove destre. Si tratta, insomma, di una reazione alla paura da deprivazione che è però nostalgica (Gest et al. 2018, 1710). Fenomeno complesso e profondo, quello che ha portato agli esiti recenti delle elezioni politiche del 2022, e che richiede una lettura complessa. Sul lato della struttura socioeconomica, il dato di partenza è nel modello di capitalismo italiano, con un sistema a forte accumulazione di ricchezza privata ed individuale: un tessuto produttivo molecolare; una prevalenza della ricchezza da rendita su quella da lavoro e reddito; un forte risparmio privato e un alto debito pubblico; bassa redistribuzione e bassi salari. Modello che esprime più facilmente logiche sociali centrate sullo status anche familiare, anche per la prevalenza della ricchezza-rendita privata sul reddito produttivo-collettivo, ed una maggiore incidenza, rispetto ad altri paesi, di quella media e soprattutto petit-bourgeoise incline ben più dei colletti blu al risentimento populista (Inglehart e Norris 2016, 4). Che sia prodotto del privatismo sociale o del capitalismo molecolare italiani, è in questa “nuova minoranza”, più che nella categoria larga dei left-behind, che va ricercato il soggetto sociale che sostiene fortemente l’agenda anti-immigrazione in Italia. È attraverso questa prospettiva che può osservarsi, ad esempio, l’impatto della crisi e delle diseguaglianze sul voto italiano già dal 2013. Esso spinge più che a considerare gli effetti della deprivazione economica in sé – certo significativi per taluni segmenti del lavoro dipendente – piuttosto la percezione di un pericolo di arretramento nella ricchezza privata da parte di quel largo segmento del lavoro autonomo in Italia così rilevante. Un “declining middle” che dimostra di essere il segmento sociale maggiormente incidente sul voto far-right (Kurer 2020): che vive il pericolo di vedersi diminuito l’accesso alle risorse anche di potere (Ridgeway 2014), di attraversare una diseguaglianza posizionale che è perdita di centralità di status, proiettandosi già ai margini del sistema.
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Questo è il retroterra di fertilità del voto ai partiti far-right (Gidron 2022, 75), anche e per certi versi soprattutto nel caso italiano. D’altra parte, come evidenzia la figura 9, nel quindicennio che copre dagli anni precedenti la crisi del 2008 fino alla pandemia, in cui dapprima vi è l’incubazione e poi si realizza in Italia il forte trasferimento di voti dai partiti tradizionali a quelli populisti, proprio quella ricchezza privata e familiare che è pivot del modello sociale e di sviluppo italiano appare indebolirsi significativamente, anche considerando quanto avviene in altre democrazie comparabili come quelle francese e tedesca.
Figura 9. Ricchezza netta pro-capite delle famiglie (migliaia di euro) in Germania, Francia e Italia (2005-2020). Fonte: BI 2022.
Molto più che in altri sistemi, nel caso dell’Italia l’austerità ha non solo accentuato le già forti diseguaglianze, ma ha soprattutto fatto esplodere una paura da “perceived status decline” (Gest et al. 2018, 1702) che ha assunto velocemente un carattere nostalgico. Questo elemento della nostalgia, questo tratto etnocentrato del supporto elettorale all’offerta politica populista, è in realtà dalle elezioni del 2018 molto evidente, e prende vita in piattaforme marcatamente anti-immigrazione. Una dimensione che emerge in Italia come saliente, perché la deprivazione nostalgica e la paura di scivolamento nello status appaiono chiaramente canalizzarsi contro l’immigrazione individuata quale nemico oggettivo. Non è, almeno in prevalen-
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za, reazione alla nuova diseguaglianza della working class, bensì un voto neo-individualista e reazionario, secondo una logica di comportamento politico che la Arendt avrebbe definito non collettivo ma più aderente all’individualismo di massa: la logica tipica de “l’uomo superfluo, che non ha mai partecipato al movimento dei lavoratori ma che invece si sente parte di una folla imperialista” (Canovan 2002, 406). Già qualche segnale era provenuto nelle elezioni del 2013 e nei successivi passaggi elettorali regionali, ma è soprattutto con l’affermazione nelle politiche del 2018 della Lega di Salvini – e con il successo del M5S allora caratterizzato da una agenda piuttosto repressiva sui rifugiati – che il risentimento anti-immigrazione diviene centrale, e sul lato dell’agenda politica dei partiti, e per le preferenze diffuse in una larga fascia dell’elettorato. A colpire è infatti il velocissimo processo di normalizzazione nel discorso pubblico e nel comportamento politico dell’etnicizzazione del capro espiatorio (Bello 2022). Elementi che concorrono a spiegare la sovradimensionata – rispetto ad altri sistemi europei – crescita dei partiti far-right in Italia ben prima delle elezioni del 2022: la paura da deprivazione nostalgica piccolo-borghese è, insomma, il lievito della politica anti-immigrazione. Così, in tale prospettiva, la crisi come anche il contesto politico internazionale agiscono sulla vicenda italiana in misura del tutto particolare. La crisi non necessariamente causa il rafforzamento dei partiti populisti, non ovunque (Alonso et al. 2011, 16), né consegna loro automaticamente il governo – pensando a Francia, Germania, Spagna, Olanda ma anche Gran Bretagna. Certo, il ciclo delle politiche di austerity ha un impatto determinante sulla politica continentale (Cochrane e Nevitte 2014). Ma da qualsiasi prospettiva la si osservi, con l’eccezione della Brexit che provoca molto altro ma non un governo a guida populista o della inattesa vittoria di Trump nel 2017 che per ragioni di sistema è difficilmente comparabile alla situazione europea, l’Italia è l’unico dei grandi paesi continentali in cui nel 2018 il consenso alle piattaforme populiste anti-immigrazione è maggioritario: diventa mainstream elettorale e soprattutto apre a questi partiti le porte del governo. In verità, parte delle significative trasformazioni che avvengono nel sistema politico in Italia si iscrivono in un processo più complesso e di lungo periodo, avviatosi già negli anni Novanta: le trasformazioni,
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dunque, del sistema dei partiti e della natura dell’offerta politica non avvengono solo per effetto della crisi più recente (Vassallo e Valbruzzi 2018). Il successo dei nuovi partiti populisti dipende al principio anche e fortemente dall’improvviso declino dei partiti tradizionali (Van Der Brugg et al. 2003, 97). Pur tuttavia, la atipica affermazione dei partiti populisti e far-right in Italia nell’ultimo decennio trova riscontro in due fatti oggettivi e si direbbe incontestabili. Il primo, è che con le elezioni del 2018 l’Italia è l’unica grande democrazia europea a guida full populist con una agenda di governo anti-immigrazione. Il secondo, è che l’esito delle successive elezioni politiche del 2022 segna la vittoria di una coalizione di destra-centro, assegnando la maggioranza relativa (26%) e poi la guida del governo (con Giorgia Meloni) ad un partito politico, FDI, esplicitamente sovranista e anti-immigrazione, in maggioranza con un altro soggetto far-right (la Lega di Salvini). Quelli iniziati, però, nel 2018 sono cambiamenti radicali nel comportamento degli elettori (Valbruzzi 2018, 147), e si riflettono nel mercato elettorale in un’offerta politica che prova crescentemente ad assecondare la drammatizzazione dell’immigrazione nel discorso pubblico (Bobba e Seddone 2018, 28). Si tratta, tuttavia, di una spinta etnocentrica che agisce sotto la pelle della società, e che dopo la crisi europea dei rifugiati si converte in una criminalizzazione del migrante quale minaccia sociale, culturale, oggettiva. L’immigrazione è il nuovo nemico “del popolo”, e il risentimento anti-immigrazione diventa in Italia un oppio per “il popolo”: anzi, l’oppio dei populisti, elettori e partiti. Sul lato dell’offerta, i partiti populisti in Italia non restano affatto immobili ma anzi cavalcano la crisi con una comunicazione politica che dalla crisi emerge e la crisi manipola (Moffitt e Tormey 2014; Polk et al. 2017), con il chiaro obiettivo di canalizzare elettoralmente questa ampia domanda sociale mossa da paura e insicurezza, e che segnatamente mescola paura da deprivazione individualistica e forte risentimento anti-immigrazione. Dalle politiche del 2013 a quelle del 2022, l’area dei partiti della destra che Mudde definirebbe di quarta generazione (2016a, 2018b) passa in Italia da un modesto 7,25 al 37,8% (vedi anche la figura 5), articolando un universo di soggetti tra loro molto diversi, e non sempre significativi, ma che gravita nel sistema partitico attorno alla presenza della Lega e di FDI. I fatti successivi alla caduta del governo Conte I, poi la fase pandemica e ancora il governo tecnico guidato da Mario Draghi,
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portano all’esplosione del magma grillino, con il M5S che disambigua la sua posizione divenendo un soggetto di centro-sinistra in cui l’anti-immigrazione perde salienza, lasciando che i partiti guidati rispettivamente da Matteo Salvini e da Giorgia Meloni – molto diversi per origine e storia – inizino a dividersi il campo politico dell’anti-immigrazione, secondo una logica che le elezioni del 2022 dimostreranno di competizione e di sovrapposizione.
Figure 10 e 11. Posizionamento e agenda di Lega (Fig.10) e FDI (Fig.11) nel 2013 e nel 2018 sull’immigrazione. Fonte: CHES 2022. Note. I valori vanno da un massimo (0) di apertura al multiculturalismo e cosmopolitismo ad un massimo di opposizione agli stessi (10). Galtan misura le posizioni sui valori sociali e culturali, come propensione (0) o opposizione (10) al diritto all’aborto, al divorzio e al matrimonio tra persone dello stesso sesso. Con sociallifestyle si misura la propensione (0) o opposizione (10) a promuovere politiche per le coppie omosessuali o di gender equality. Con nationalism la propensione a supportare una emancipazione cosmopolitica della società (0) o a promuoverne una nazionalistica (10). I valori vicini allo 0 su ethnic minorities indicano la tendenza del partito a sostenere maggiori diritti per le minoranze etniche, mentre quelli tendenti al 10 a contrastare l’aumento di questi diritti. Di immediato impatto sulle posizioni antiimmigrazione dei partiti sono le due dimensioni del multiculturalism e dell’immigrate policy. La prima misura la posizione dei partiti da 0 (favore all’integrazione multiculturale di immigrati e richiedenti asilo) a 10 (favore all’assimilazione culturale di immigrati e richiedenti asilo). La seconda misura la posizione del partito da un massimo di favore (0) a politiche di apertura all’immigrazione ad un massimo di repressione (10) rispetto al governo dell’immigrazione.
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Nei due poligoni rappresentati nelle figure 10 e 11, le differenze di Lega e FDI per posizioni anti-immigrazione si colgono appena, sia nel 2013 che nel 2018. Potrebbe dirsi, perché iscritto nella genesi e storia dei due partiti, che FDI sia un soggetto far-right più spiccatamente nazionalista mentre la Lega abbia posizioni più oscillanti sull’assimilazione culturale degli immigrati – uno dei tradizionali ‘marcatori’ del nativismo – anche se questo, forse, si spiega, ancora, con la cultura costitutivamente sciovinista del partito guidato dalla Meloni. In ogni modo, è interessante notare come entrambi i partiti dal 2013 al 2018 abbiano accentuato la già rigidissima posizione sulle policy dell’immigrazione e sull’assimilazionismo nei meccanismi di integrazione. Ciò che infine colpisce, è che su temi culturali quali l’opposizione al cosmopolitismo, ai diritti civili, all’aborto o al divorzio e ai matrimoni omossessuali, le già oltranziste posizioni dei due partiti si siano ulteriormente irrigidite nel 2018. Come è evidente, partendo posizionamenti ideologici già inclini all’etnocentrismo, sia la Lega sia FDI hanno progressivamente rimarcato quelle dimensioni di issues, anche culturali, che nel mercato elettorale incrociano il nativismo esclusivista con il risentimento anti-immigrazione; il che è tipico dei sostenitori dei partiti far-right. Se nelle elezioni del 2018 lo spazio crescente dell’anti-immigrazione nel mercato elettorale viene ricoperto da una offerta genericamente populista, nella quale la proposta assolutamente atipica – ideologicamente come sociologicamente – del M5S finisce per mescolare elettorati anti-austerity e anti-immigrazione, subito dopo la fine del governo “del contratto” gialloverde appare evidente come il quadro politico stia mutando, e portando al consolidamento di un’area di consenso elettorale spostata su una destra di matrice populista, il cui cemento è l’anti-immigrazione. È l’intero ciclo delle elezioni, non solo nazionali, dal 2018 al 2022 che lo confermerà. 3.2. La crescita della politica anti-immigrazione (2013-2020) Dunque, l’intera fase politica che si apre dopo il 2008 si traduce, e non solo in Italia, in un ridimensionamento dei partiti mainstream appartenenti alle famiglie socialdemocratica (PSE) e popolare europea (PPE), cui corrisponde in generale una crescita dei cosiddetti partiti
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populisti e soprattutto far-right, ma in alcuni casi anche l’affermazione di nuove soggettività della sinistra radicale (Syriza, Podemos, La France Insoumise) o ecologiste (Grünen). L’avanzamento dei nuovi soggetti populisti si rende evidente, e l’arena della politica dell’immigrazione acquisisce centralità, in Europa e particolarmente in Italia. Qui l’impatto di un sentimento sociale etnocentrico non solo rimbalza nel discorso pubblico (Bos et al. 2011; Rooduijn et al. 2017), ma sembra guidare l’agenda setting. Con le elezioni del 2018 il sistema politico italiano emerge, anche per ragioni più profonde e di dipendenza dal percorso, come un avamposto di tali tendenze. Il dato più eloquente è l’affermazione della Lega non più soggetto etno-regionalista (Albertazzi et al. 2018) che prova a nazionalizzarsi come nuovo partito far-right (Passarelli e Tuorto 2018, 269). La tornata del 2018 segna uno spostamento di oltre sei milioni di voti caratterizzato da una significativa rimobilitazione degli elettori (Pritoni et al. 2018, 146); spostamento di cui beneficiano principalmente i partiti populisti, sottraendo oltre 5 milioni di voti ai partiti tradizionali. Il ridimensionamento elettorale è soprattutto del centro-sinistra e in particolare del PD, la cui caduta nelle macroregioni del Centro (-37,1%) e del Sud (-36,3%) era iniziata dal 2013 per effetto della sua deterritorializzazione (Rombi e Venturino 2018, 54) e dell’incapacità di continuare dare rappresentanza ad alcuni segmenti di società del Nord rinnovando la proposta di class politics. Mentre nel centro-Sud l’ondata populista assume un volto prevalentemente anti-élite ed anti-austerity – ma anche anti-immigrazione – con il M5S, che trapassa agilmente il tetto del 30% a livello nazionale ed è maggioranza assoluta in molti collegi meridionali. Più in generale, è però la nuova Lega salviniana al 17,35% che fornisce una misura strutturale sull’avanzamento del voto far-right nel sistema; poi confermato dal sorprendente 34,33% delle elezioni europee. Per il partito che era stato di Umberto Bossi, e che il leader milanese prova a riposizionare su un’agenda marcatamente sovranista destinata ad un elettorato meno confinato sopra la linea gotica, il 13% guadagnato sulle precedenti elezioni generali del 2013 intende rappresentare il primo passo di un radicamento elettorale in quell’area della deprivazione nostalgica e del risentimento reazionario che si muove ai margini del paese, alla periferia della crisi (Diamanti 2018). Un’area che il M5S dimostra però nel 2018 di saper intercettare più flessibilmente con il suo messaggio di protesta, e che
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l’offerta politica di FDI non riesce ancora ad attrarre (4,35%) – come farà nel 2022. Cionondimeno, nella tornata del 2018 la Lega prova ad egemonizzare questa area del consenso, in cui è centrale il risentimento anti-immigrazione, ricorrendo ad una doppia strategia: di messaggio politico e di riposizionamento. La prima prende corpo in una campagna elettorale tutta costruita sul dispositivo populista del risentimento di status e dell’othering anti-immigrazione, che una aggressiva macchina social forgia e raccoglie reiterando in maniera naïf il meta-messaggio politico sovranista di Trump. La nuova minoranza, per citare Gest, su cui Salvini edifica il proprio capitale politico si alimenta dei risentimenti dell’uomo comune, che è in verità il ceto proprietario e del lavoro autonomo, ‘operoso’ più che operaio, addensato nelle aree interne, montane, valligiane, periferiche; si tratta dell’universo ‘molecolare’ costituito dalla ricchezza piccolo-borghese della provincia italiana. Così, il Prima il Nord lascia il posto al Prima gli italiani, ma anche al Prima i foggiani, e così via nell’immaginario iconografico costruito da Salvini nel 2018. Immaginario che sostituisce il Make America great again del berretto di Trump con il nome della città visitata dal leader, cui la campagna della Lega da visibilità e primato stampandolo sulla felpa di Salvini; primato di ogni periferia, cui il leader leghista intende trasmettere una sensazione di uscita dai margini del “sistema”, per quanto in essenza tutto viva attraverso una bolla social. La Lega di Salvini sta usando appieno il dispositivo populista, e non unicamente sul lato degli interessi. Il messaggio politico di un “ritorno al vecchio ordine di valori” come “ristoro per la loro condizione” di marginalità (Rydgren 2013, 7) fa leva su un sentimento reazionario che risale dalla società italiana e sulla sua orbita di valori etnocentrati (pro-life, di supremazia etnica, di patriarcalismo e segregazionismo, anti-gender). In questa trance debenoistiana, il popolo valligiano o delle piccole comunità rurali meridionali ritrova il suo primato, in sella alla ruspa e forcone alla mano, ma soprattutto individua il suo nemico e capro espiatorio: i Campi Rom, i richiedenti asilo negli Sprar con il loro pocket money, gli immigrati irregolari e soprattutto i migranti in mare che sono in arrivo sulle navi delle ONG ritratte – dalla Lega ma anche dal M5S – come ‘taxi del mare’. Si tratta di un messaggio che dimostra di avere un potenziale enorme nel mercato elettorale del 2018. Si tratta, anche, di un messaggio molto
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pericoloso. È l’intero discorso pubblico a caricarsi di un clima di odio (Lazaridis et al. 2016), che dipinge gli immigrati alla stregua di un nemico oggettivo. Un dispositivo in cui la proposta anti-immigrazione opera con successo quella strategia della destra radicale – già descritta da Seymour Lipset – che fa “appello con successo ai risentimenti dello status di carattere irrazionale, che si concentra sull’attacco a un capro espiatorio, il quale simboleggia convenientemente la minaccia percepita dai suoi sostenitori” (1955, 177). Ma la strategia di comunicazione e il messaggio politico, questo è il secondo punto, servono al partito di Salvini per federare più o meno esplicitamente i consensi di una galassia di soggetti – piccoli partiti e movimenti come Casa Pound, Italia agli italiani, o Il popolo della famiglia nel 2018 – che sovente si muovono ai margini istituzionali del sistema rappresentativo, mantenendo in alcuni casi viva la fiamma del neonazionalismo per difendere la famiglia tradizionale o il primato nazionale come identitario, cristiano, di sangue. Un’area di sovranismo collocata, per così dire, alla destra dei partiti far-right, e che nel 2013 contava l’1,2%, nel 2018 giunge al 2,02% e nel 2022, nonostante il larghissimo voto a FDI e alla Lega, il 3,20%. Le due strategie, nella sostanza, sono assolutamente coerenti con la decisione della Lega nel 2018 di riposizionarsi quale soggetto nazionale, e di spostarsi su un nuovo baricentro, di messaggio e di agenda, che si radica essenzialmente nell’anti-immigrazione: non un’innovazione unilaterale di offerta politica, ma un’offerta che consegue alla domanda. D’altra parte, è una strage a sfondo politico razziale ad aprire la campagna elettorale del 2018. E il fatto che abbia origine a Corridonia, piccolo comune della provincia marchigiana, è una efficace metafora della domanda politica anti-immigrazione e di una paura di status che risale dai margini del sistema politico. Il 3 febbraio del 2018, esattamente un mese prima che si aprano le urne, Luca Traini raggiunge proprio Corridonia il capoluogo provinciale Macerata per esplodere contro un gruppo di immigrati di origine sub-sahariana fermi per strada numerosi colpi di calibro 9. Arrestato poco dopo dalle forze dell’ordine, Traini è in piena trance neofascista: con un tricolore legato al collo, ed omaggiante con un saluto romano il Monumento ai Caduti della città. Traini, quasi un anno prima, si era anche candidato al Consiglio comunale di Corridonia con un impegno forte per il “controllo dell’emigrazione”, proprio nelle fila della Lega di Salvini,
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e promuovendosi sui social con in mostra i tatuaggi del movimento eversivo neofascista Terza posizione. Sul piano simbolico, i fatti di Macerata certificano ormai l’anti-immigrazione quale nuova dimensione della politica in Italia. Una centralità che è sostanziale. Sono le stesse piattaforme programmatiche dei partiti ad evidenziarlo, perché queste nel 2018 prevedono uno spazio rilevante per il tema dell’immigrazione, codificato secondo canoni di assoluta opposizione restrittiva almeno da partiti come Lega e FDI. La Lega si presenta, infatti, alle elezioni con un programma (Lega-Salvini Premier 2018) nel quale l’agenda di governo sull’immigrazione sviluppa, di fatto, il modello che era stato della Bossi-Fini (2002) e del Pacchetto sicurezza di Maroni (2008-2009), riletto in chiave esplicitamente repressiva ed anti-immigrazione, e che rispetto al passato propone ormai l’equiparazione in negativo tra lavoratori stranieri, immigrati regolari, irregolari, rifugiati e richiedenti asilo. I sei punti del corposo programma, e che si riverseranno nei cosiddetti decreti sicurezza del 2018 e del 2019 approvati dal governo gialloverde, sono dedicati alla “protezione internazionale”, alla “gestione e regolamentazione dei flussi e rimpatri”, ai “reati di immigrazione irregolare”, al “permesso di soggiorno” e alla “cittadinanza”, e infine al “rapporto con l’Islam” (come universo, se ne deduce). Una proposta sull’immigrazione, quella della Lega nel 2018, nella quale è difficile separare l’idea di governo del fenomeno dalla sua criminalizzazione in senso anche giuridico, si direbbe morale. Volendo schematizzare, sulla gestione del sistema istituzionale esistente la Lega propone l’aumento del numero dei Centri per l’identificazione e il rimpatrio e la loro regionalizzazione anche amministrativa, sottraendone di fatto la gestione al Ministero degli Interni e potenziando il ruolo della polizia locale (sic!), e ancora affidando “a privati, in specie cooperative” la parte relativa al soggiorno, alla pre-integrazione e alla preparazione delle pratiche di richiesta dell’asilo. L’obiettivo dichiarato è quello di ridurre i tempi burocratici delle istruttorie sull’asilo e laddove possibile di “prolungare il termine per il trattenimento almeno sino a sei mesi, al fine di rendere eseguibile l’espulsione” dei richiedenti asilo già entrati in Italia. Ma, in sostanza, il vero obiettivo è quello di ridurre il numero di
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richiedenti asilo presenti sul territorio, i cui nuovi afflussi vanno per il partito di Salvini ridotti al minimo. La politica restrittiva sui flussi, anche di rifugiati, è promossa nel programma del 2018 usando una doppia leva di policy, sia interna che estera. Su questo secondo versante, le soluzioni individuate sono la promozione “accordi bilaterali per i rimpatri, a fronte di accordi economici”, la sospensione degli aiuti per i “Paesi non collaborativi” e soprattutto l’implementazione dei “centri di accoglienza nei Paesi sicuri vicini alla Libia sotto l’egida dell’ONU” mediante la “ricollocazione dei migranti a Djerba negli alberghi svuotati dai timori degli attentati” per un totale di 500.000 persone e “con spesa per migrante con tutti i confort di € 24 al giorno”. La partnership indicata dal partito di Salvini è quella libica, con la esplicita proposta di “chiedere la collaborazione della Russia per eventuali accordi con il generale Khalif Haftar” – questo ultimo riferimento non sarà presente nel successivo programma della Lega per le elezioni del 2022! Inoltre, è sempre del 2018 l’obiettivo programmatico di recedere dagli accordi di governance europea multilivello, in particolare di revocare “l’accordo Renzi-Alfano su Triton”, e soprattutto di “revocare la delibera dell’ex Ministro Alfano che concede la facoltà di rilasciare la carta di identità ai migranti, per farli accedere all’assistenza dei singoli Comuni”. Un impegno che con i decreti sicurezza Salvini manterrà dalla postazione del Viminale, con il doppio effetto di impedire l’accesso ai diritti sociali e sanitari per i rifugiati e le loro famiglie e di aumentare la visibilità e percezione sociale dell’insicurezza precarizzando la permanenza degli immigrati. Rispetto alla politica repressiva dell’immigrazione dall’interno del sistema, il programma leghista del 2018 oscilla tra il “diniego allo sbarco per le ONG che si pongono ai margini del mare territoriale libico per procurato allarme”, questo per reprimere un fenomeno che “prelude allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina”, e la “facoltà per la polizia giudiziaria di raccogliere prove sul contrasto all’immigrazione clandestina attraverso la presenza di personale sulle navi ONG”, fino alla proposta di “espulsione dei carcerati extracomunitari con facoltà di fare accordo con i Paesi di origine nel periodo di detenzione ed espulsione con accompagnamento”. Un approccio repressivo che si spinge alla possibilità di “esposto” contro il Governo centrale per omissione reiterata nell’applicazione della legge che
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regolamenta l’immigrazione o per mancato controllo delle frontiere. L’obiettivo è azzerare l’immigrazione tout court, criminalizzando penalmente e socialmente quella già esistente, che o permane nei Centri o deve essere accompagnata quanto prima alla frontiera. Per la Lega del 2018, è infine la stessa immigrazione per motivi di lavoro che va disincentivata, “lasciando le quote agli stagionali” e affidando “ai Comuni, con il coordinamento delle Regioni, e non alle Questure la competenza a rilasciare il permesso di soggiorno di breve periodo”; la permanenza, d’altronde, è concepita come priva di diritti sostanziali e senza prospettiva di radicamento e integrazione per immigrati economici e rifugiati. Uno sciovinismo da welfare che è rimarcato dal “divieto della possibilità di ottenere l’accesso ai benefici assistenziali per gli immigrati extracomunitari attraverso semplici autodichiarazioni”, nonché dalla volontà di difendere la ormai vetusta legge 91 del 1992 sulla cittadinanza, la cui acquisizione per le seconde generazioni deve diventare ancora più difficile secondo la Lega, e prevedere “non solo la residenza di 10 anni, ma anche un esame di conoscenza della lingua, della cultura e tradizioni italiane”. In sostanza, il partito guidato da Salvini presenta alle elezioni del 2018 una sua agenda sull’immigrazione che, anche al netto della sua effettiva compatibilità con l’ordinamento italiano ed internazionale, unisce il modello di intervento securitario-repressivo della Bossi-Fini con l’impostazione di bordering ed esternalizzazione delle frontiere della Minniti-Orlando, ed in più carica di toni di criminalizzazione penale e sociale la gestione dei rifugiati e richiedenti asilo. Una agenda far-right, di rimozione della migrazione come fenomeno connaturato alla globalizzazione e di repressione anti-immigrazione come approccio interno, con tutti i canoni di misure specifiche ispirate anche al welfare chauvinism come alla nativizzazione linguistico-culturale e religiosa. L’anti-immigrazione assume in questo modo una valenza di adesione al suprematismo, attraverso una difesa dei valori etnocentrati (pro-life, di supremazia etnica, anti-gender), di cui il partito di Salvini non smette anche dopo le elezioni di farsi portatore: con la proposta di legge Pillon (735 del 2018) per il ripristino della potestà maritale e i limiti al divorzio; con quella Stefani (1238 del 2018) sui limiti all’aborto e sull’adottabilità degli embrioni da parte di terze persone; con la sponsorizzazione nel marzo del 2019 del Family Day, in cui questa piattaforma reazionaria sembra trovare una condivisione di piazza.
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L’oppio dei populisti
A presenziare l’evento di Verona del 2019 non è però solo il leader leghista Matteo Salvini, ma anche Giorgia Meloni. Il partito da lei guidato, FDI, aveva scelto per la tornata del 2018 un manifesto programmatico più classico, composto per punti piuttosto asciutti, in cui però l’agenda sull’immigrazione non è affatto decentrata, e nei toni non meno aggressiva di quella della Lega (FDI 2018). Nei punti 5 e 6 del programma è rinvenibile l’idea che il partito della Meloni nutre del governo dell’immigrazione, che è esemplificata dal motto “Più sicurezza per tutti”, e da una serie di intenzioni, più che proposte, di policy che assommano: la “lotta al terrorismo”; la “ripresa del controllo dei confini” e il “blocco degli sbarchi con respingimenti assistiti e stipula di trattati e accordi con i Paesi di origine” – cui evidentemente non sono ancora sufficienti i risultati degli accordi stipulati da Minniti nel biennio precedente con gli sbarchi crollati dai 24.292 del 2017 a 6.161 nel marzo 2018 (MININT 2022); un “piano Marshall per l’Africa” che ricalca molto alcune proposte del PD renziano; “rimpatrio di tutti i clandestini” e “abolizione dell’anomalia solo italiana della concessione indiscriminata della sedicente protezione umanitaria mantenendo soltanto gli status di rifugiato e di eventuale protezione sussidiaria” (il corsivo è stato aggiunto). Sono, tuttavia, tre le misure proposte da FDI nel 2018 che ne restituiscono maggiormente l’approccio in materia di governo dell’immigrazione, il quale nettamente travalica il securitarismo: l’ “introduzione del principio che la difesa è sempre legittima”, la “revisione della legge sulla tortura” (intesa, si può supporre, nel senso di una depenalizzazione della pratica) e un “inasprimento delle pene per violenza contro un pubblico ufficiale”, da leggersi anche in relazione alla proposta di promuovere “accordi bilaterali per detenzione nei Paesi d’origine e nuovo Piano carcere”. Sebbene in quella fase ancora lontano dalla prospettiva di guidare il governo, il partito della Meloni propone nel 2018 una agenda sull’immigrazione che si caratterizza in senso meno allusivamente populista della Lega, ma in cui il chiaro, netto orientamento di politica anti-immigrazione si tinge di nazionalismo securitario, immaginando alcune policy – come quelle sulla penalizzazione dell’immigrazione e sulla depenalizzazione della repressione operata dalle forze dell’ordine – che indicano nettamente quale visione emergenziale e repressiva nutra FDI, ormai “movimento” far-right ma già erede del partito neo-fascista italiano.
l’esplosione del populismo far-right
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Complessivamente, sia la Lega sia FDI nelle elezioni del 2018 sembrano leggere, attraverso le proprie proposte programmatiche, l’affiorare in Italia di una richiesta di sicurezza provenienti da alcuni segmenti della società; richiesta che assume i contorni della nostalgia per un ordine sociale perduto, di cui il risentimento etnocentrico è espressione. Le elezioni politiche del 2018 disveleranno la geografia di questo risentimento anti-immigrazione che scorre sotto la pelle della società italiana. L’offerta dei partiti incontra la domanda degli elettori, rappresentandolo come il terminale di un cleavage transnazionale più ampio (Hooghe e Marks 2018), che assume però nel sistema politico nazionale la facie di margini che sono periferici, perché danno forma a quella paura da scivolamento di status di individui e gruppi, a quella deprivazione nostalgica che si addensa proprio nei punti più distanti dai centri economici, decisionali e di establishment del sistema. È una nuova geografia che inizia ad interessare tutto il territorio nazionale, e non solo i collegi delle regioni settentrionali in cui tradizionalmente la Lega prevale, giacché il dato del 23,72% raggiunto nel 2018 a livello nazionale dall’area populista far-right (includendo oltre alla Lega e FDI anche i soggetti della destra radicale-sovranista) viene superato in tutte le regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est, ma anche in molte regioni del Centro, con l’eccezione di Toscana e Umbria. Ma la frontiera dal Tronto resiste molto poco, e già a partire dalle elezioni europee successive (2019) il consenso dei partiti anti-immigrazione raggiunge il 41,42%, superando tale soglia in tutte le regioni del Nord e del Centro – resiste ormai solo la Toscana – e iniziando a penetrare il Mezzogiorno, come in Abruzzo dove questi partiti sono al 43,24% (MININT 2022b). Si tratta di un preludio a ciò che avviene con le elezioni regionali della tornata 2019-2020 – ed è in parte già avvenuto in quella regionale del 2018, con la Lega che ha sottratto il governo del Friuli Venezia-Giulia al centro-sinistra – nelle quali il partito di Salvini ottiene la presidenza della regione Umbria, mentre FDI quelle delle regioni Marche (Centro) e Abruzzo (Sud).
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L’oppio dei populisti Coalizione e partito del Presidente di Regione Elezione t (2013-15)
Regione
Sinistra Piemonte Lombardia Veneto Friuli V. Giulia Liguria Emilia-Romagna Toscana Marche Umbria Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria
Destra
Elezione t+1 (2018-20) Sinistra
PD
PD Forza Italia PD PD PD PD PD PD PD PD PD PD PD
Destra Forza Italia Lega Lega Lega
Lega Lega
PD
Forza Italia
PD FDI Lega PD
PD PD
Consiglieri regionali dei partiti far-right (diff. 2020-13)
FDI Forza Italia
Forza Italia Forza Italia
+17 +3 +14 +16 +3 +12 +6 +11 +7 +4 +13 +2 +5 +10 +6 +8
Tabella 5. Crescita elettorale dell’area far-right nelle elezioni regionali, periodo 2013-2020. Fonte: MININT 2022b. Note. Sono conteggiati, per le diverse elezioni e denominazioni assunte, Lega, FDI, Il Popolo della Famiglia, Casa Pound e Identità Nazionale-Forza Nuova. La convocazione dei comizi era differenziata, in alcuni casi accorpata in ragione dello scioglimento anticipato del singolo Consiglio regionale. L’intervallo elettorale 2013/2018 riguarda Lombardia, Friuli, Lazio, e Molise, quello 2014/2019 Piemonte, Abruzzo, e Basilicata e quello 2015/2020 tutte le altre regioni.
Complessivamente, come illustra la tabella 5, anche a livello regionale l’avanzamento dell’area di centro-destra dopo il 2013 è molto forte, ma lo è particolarmente quello dei partiti della destra populista, ovvero di Lega e FDI, che peraltro guadagnano complessivamente più di 140 consiglieri regionali rispetto alle consiliature precedenti. Se si considera che tra le due elezioni generali del 2013 e del 2022 l’incremento dei voti a questi partiti sarà di un 30,72% a livello nazionale, sono 12 le regioni in cui l’incremento supera tale
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l’esplosione del populismo far-right
soglia. Queste regioni, includendo anche la Sardegna che arriva tardi al rinnovo del Consiglio regionale, sono ormai in larga parte non solo guidate dal centro-destra, ma esprimono un cosiddetto governatore – o una governatrice, come nel caso dell’Umbria – della Lega (Lombardia, Veneto, Friuli, Umbria e Sardegna) o di FDI (Marche e Abruzzo). Ancorché posizionate in macroaree dello stivale assai diverse per tessuto produttivo, indici di crescita economica e di sviluppo sociale, tali regioni, e particolarmente quelle che potremmo definire del primo quintile per crescita inter-elettorale dell’area di voto ai partiti far-right e che sono collocate al Centro (Umbria, Marche e Lazio) e al Nord (Veneto e Piemonte), sembrano essere accomunate da un arretramento che più che di reddito è di ricchezza: di ricchezza individuale-familiare accumulata. Come evidenzia la tabella 6, in queste cinque regioni la crisi non ha drammaticamente aumentato il rischio povertà, in molti casi migliorato più che nella media del paese (-4,70). Inoltre, fatta eccezione per le Marche e il Lazio che appaiono però stabili, l’indice di progresso sociale è anche aumentato. Ciò che è diminuito o comunque fa segnare un arretramento è la ricchezza patrimoniale di individui e famiglie, perché anche il reddito medio pro-capite è aumentato, ma meno che nel paese per Umbria e Lazio (ISTAT-Bes 2022). ∆ Voti (%) Far right
∆ Rischio povertà
∆ Indice progresso sociale
∆ Ricchezza pro-capite
Veneto
38,66
-3,80
6,21
2,96
Lazio
37,88
-4,30
0,00
-4,36
Umbria
37,34
-9,60
4,06
-0,49
Marche
37,29
-6,10
0,88
-1,64
Piemonte
36,52
-5,60
1,69
-1,15
Friuli-Venezia Giulia
36,43
1,30
-0,83
3,14
Liguria
36,01
-2,70
0,29
-3,49
Abruzzo
34,05
-3,60
-8,05
-2,56
Toscana
33,36
0,30
3,97
-1,57
Basilicata
32,55
3,80
-4,57
3,12
Emilia-Romagna
32,42
-5,10
-1,28
1,80
108
L’oppio dei populisti Italia
30,72
-4,70
-0,64
0,88
Lombardia
30,80
-3,60
0,72
6,61
Puglia
27,89
-7,40
1,92
-1,72
Sicilia
24,44
-10,90
3,80
-2,97
Calabria
24,39
-5,10
-3,79
0,34
Molise
23,91
1,30
1,08
2,19
Campania
21,88
-2,70
-2,50
-4,74
Tabella 6. Italia, regioni: crescita elettorale dell’area far-right (2013-2022) e principali indicatori di povertà (2016-2020), ricchezza patrimoniale individuale (2012-2017), benessere sociale (2016-2022). Fonte: dati elettorali, MININT 2022b; indice di povertà regionale, EUROSTAT 2022; Social Progress Index, EUSPI 2016, 2022; patrimonio pro-capite regionale, ISTAT-Bes 2022. Note. I dati elettorali sono rielaborati come media semplice dei collegi alla Camera. Il rischio povertà è da indice di rischio povertà regionale NUTS dell’Eurostat, 20162020. La ricchezza pro-capite delle famiglie è di tipo patrimoniale, come da indice BES in realtà su elaborazione dei dati dell’Istituto Tagliacarne, periodo 2012-2017.
La crescita superiore alla media del paese nel supporto ai partiti anti-immigrazione sembra insomma collegarsi essenzialmente a un risentimento di status che risale dalle aree periferiche; risentimento centrato sulla paura di arretrare per ricchezza familiare e individuale. Non può, ad esempio, passare inosservato che delle venti (20) province in cui in cui i partiti far-right dal 2013 al 2022 aumentano di più i consensi (tra il 37,25 e il 45,83%) – le stesse in cui nel 2022 FDI passerà da una media del 2% di voti (2013) ad una quota elettorale compresa tra il 26 e il 34%1 – solo quattro godessero, al censimento del 2011, di una densità di popolazione superiore a quella nazionale allora di 196,75 ab*km2 (ISTAT – Censimenti 2022), e che si tratti di province con un territorio
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Le province sono quelle di Alessandria, Ascoli Piceno, Asti, Belluno, Fermo, Ferrara, Frosinone, Imperia, Lucca, Macerata, Piacenza, Pordenone, Rieti, Rovigo, Savona, Terni, Treviso, Venezia, Vercelli, Viterbo (vedi anche successiva nota 2). Il quintile è calcolato, come per tutti i dati provinciali da qui in poi riportati su 99 province, con l’esclusione delle province sarde, del Trentino Alto-Adige e della Valle d’Aosta per escludere il possibile effetto distorsivo su dati descrittivi e regressioni dei partiti autonomisti regionali non nazionalizzati.
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in cui è forte il peso relativo delle aree interne e, per alcune, la pressione di frontiera, soprattutto marittima (ISTAT 2021). Si tratta di una dinamica già avviatasi negli anni precedenti. Se si considera, infatti, il terzile delle province dove maggiore è già nel 2013 l’affermazione dei soggetti far-right, queste sono collocate in maggioranza al Nord, in realtà nel nord-ovest (19 province), poi nel nord-est (11), in due casi al centro (Viterbo e Rieti) e in tre casi al sud (Isernia, Salerno e Teramo)2. In una fase in cui a rappresentare quest’area politica è prevalentemente la Lega – FDI è ancora un partito dell’1,96% – il voto a questi partiti inizia già a penetrare nelle altre aree del paese, anticipando ciò che verrà rimarcato dalle elezioni del 2018 e più che consolidato da quelle del settembre 2022. Si tratta di province generalmente accomunate da diversi elementi. Fatta eccezione per Milano e Monza-Brianza, sono in grande maggioranza a bassa densità di popolazione (ISTAT-Censimenti 2022), metà delle quali – è vero – presenta sì una incidenza degli stranieri residenti superiore alla media delle 99 province considerate, che è del 7,40% al 2013 (ISTAT-Demo 2022), ma combinata con una incidenza (*100.000 ab.) della microcriminalità sempre inferiore a quella nazionale, che è di 857,91 eventi criminosi (ISTATBes 2022). Sul piano della cosiddetta deprivazione e dell’impatto della crisi, sono tutte province tendenzialmente sopra il livello di benessere e di ricchezza media del paese, ma soprattutto presentano una incidenza dei redditi da lavoro non dipendente – cioè da lavoro autonomo, da fabbricati, da impresa e da partecipazione agli utili societari – sul totale ben superiore alla media nazionale (MEF 2022). Province, insomma, caratterizzate da una geografia sociale in cui domina la piccola-borghesia proprietaria, con i suoi valori. Ciò per ribadire come già nel 2013 si potesse intuire che il combinato disposto tra difesa individualistica dello status e deprivazione nostalgica (poi risentimento anti-immigrazione) stava muovendo il consenso verso le piattaforme populiste. Consenso che partiva dai margini, se per questi intendiamo ciò che viene separato dai clea2
Il terzile superiore delle province per quota elettorale dei partiti far right è nel 2013 composto da Asti, Belluno, Bergamo, Biella, Brescia, Como, Cremona, Cuneo, Isernia, Lecco, Lodi, Mantova, Milano, Monza e Brianza, Novara, Padova, Pavia, Piacenza, Pordenone, Rieti, Rovigo, Salerno, Sondrio, Teramo, Treviso, Udine, Varese, Venezia, Verbania, Vercelli, Verona, Vicenza, Viterbo.
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L’oppio dei populisti
vage tra aree urbane e aree interne/rurali, tra metropoli e provincia, tra centro inteso come addensamento anche del cosmopolitismo e periferia come difesa dell’organizzazione sociale tradizionale – e cleavage, forse, tra vecchia e nuova ricchezza, di certo tra ricchezza e lavoro. Nel determinare queste dinamiche, anche in Italia la pressione immigratoria in sé dimostra di non essere un fattore strutturale – come i dati sulla sicurezza provinciali parrebbero dire – ma è la reazione psico-sociale all’immigrazione ad incidere sul voto, come reazione etnocentrata. Sempre considerando il caso delle elezioni del 2013, usando come proxy di patriarcalismo-etnocentrismo a livello provinciale la difficoltà di accesso all’aborto (IVG) – come una letteratura generale (Meret e Siim 2013; De Lange e Mügge 2015; Mudde e Kaltwasser 2015; Spierings et al. 2015; Köttig, Bitzan e Petö 2017; Kováts 2017; Mattalucci et al. 2018) e anche specifica (Quagliariello 2018; Vittoria 2022) sugli effetti delle coalizioni anti-genere suggerisce – è facile osservare come questo marcatore dell’etnocentrismo aumenti in un cluster di province in cui l’incidenza dell’IVG è molto bassa (in ben 26 su 33 di queste sotto la media nazionale) e dove, peraltro, il numero di medici e anestesisti obiettori è ampiamente superiore alla media interprovinciale del 2013 (Vittoria 2022). Sul versante della paura da scivolamento di status, la struttura delle province dove il voto ai partiti far-right è intenso sembra combinare, già al 2013, una forte incidenza della ricchezza patrimoniale e da redditi autonomi (MEF 2022), con una bassa propensione a produrla esponendosi alla global economy: ben 20 di queste province presentano, infatti, quota di esportazioni nei settori dinamici della globalizzazione inferiore al dato nazionale (ISTATBes 2022). Un altro dato interessante, poi, è che la maggioranza di quelle regioni (tabella 6) in cui la crescita dal 2013 al 2022 del voto ai partiti far-right è superiore alla media nazionale registra anche, sullo stesso periodo, una drastica riduzione della frequenza nell’imposta di successione che nella media italiana sale del 4,1%. Se immaginiamo che questo ci dica qualcosa su quelle dinamiche basate sulla ricchezza, anche di rendita, e sullo status, il dato per cui il ricorso alla trasmissione ereditaria sul periodo 2013-20 in Friuli (-16,4%), Liguria (-13,2%), Umbria (-8,5%), ma anche in
l’esplosione del populismo far-right
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Veneto (-2,9%), Piemonte (-2,5%), Basilicata (-1,2%) e Toscana (-1,1) appare interessante (MEF 2022). Osservando, infine, il dato provinciale, il modello prevalente è quello della ricchezza di status consolidato: il tipo di voto, una reazione; l’anti-immigrazione, una valvola per l’insicurezza, che inizia ad assumere un connotato valoriale nativista ed etnocentrato. Pensando al libro di Milanovic (che a sua volta partiva da Putnam), si tratta della reazione di una ricchezza capitalistica molecolare, alone, che si sente messa ai margini dalla crisi della globalizzazione. 3.3. Deprivazione di status e risentimento anti-immigrazione: un modello sulla crescita dei partiti far-right in Italia (2013-2022) Partendo da questa lettura, è possibile isolare le condizioni strutturali che, in un decennio, conducono in Italia al larghissimo successo delle piattaforme politiche anti-immigrazione. D’altronde, le elezioni politiche del 2022 giungono al termine di una fase tra il 2013 e il 2020-21 segnata prima dalla crisi europea dei rifugiati e dall’impatto delle echo chambers che questa genera nel discorso pubblico italiano, successivamente dagli effetti economico-sociali della pandemia. Le elezioni del 2018 hanno dunque certificato la centralità della politica anti-immigrazione. Sebbene non siano ad oggi ancora disponibili dati di profondità sui reati di odio anche razziale previsti dalla legge 205 del 1993 (Legge Mancino) – di cui, non casualmente, i partiti far-right come FDI chiedono l’abrogazione – per i molti sforzi prodotti dal Viminale attraverso l’Osservatorio (Oscad) quelli presenti indicano che nella fase precendente le elezioni del 2022 (2013-2018) in Italia i reati di questo tipo crescono del 135,4%, e dentro questi del 312,8% quelli a sfondo razziale, che nel 2018 costituiscono ormai il 72,1% di tutti i reati di odio (OSCE-Odir 2022). D’altra parte, il risultato elettorale del 25 settembre 2022 conferma come la paura da deprivazione di status che risale dai margini del sistema politico italiano guardi sempre di più, sul lato della domanda come dell’offerta, all’immigrazione come capro espiatorio e nemico oggettivo. E come per il 2018, è una strage politico-razziale ad anticipare il clima delle elezioni, allorquando il 29 luglio Filippo Ferlazzo, operaio salernitano ormai stabilmente
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L’oppio dei populisti
cittadino marchigiano (un immigrato interno, si direbbe) schiaccia a terra fino ad uccidere Alika Ogorchukwu, un venditore ambulante nigeriano di 39 anni, che vive a Civitanova Marche con moglie e figli, perché “reo” di aver chiesto l’elemosina. A mutare rispetto al caso Traini, e in peggio, sono solo i dettagli. Il violento crimine razziale è commesso non da un giovane neofascista per così dire radicalizzato, ma da quello che appare come un incolore cittadino comune – di quelli “che salutano sempre” – e l’omicidio viene ripreso con uno smartphone dai passanti, ma non interrotto: utile per gli inquirenti, non per salvare la vita di Alika. Qualcuno ha notato come i programmi con cui FDI e Lega concorrono alle elezioni del 2022 presentino un approccio molto generico all’immigrazione: dalla “gestione ordinata dei flussi legali” e la promozione della “inclusione sociale e lavorativa degli immigrati regolari” di FDI, alla difesa della Bossi-Fini, valutando un decreto flussi “che consentirà di avere solo una immigrazione di qualità, specializzata e stagionale” o l’approccio securitario sulle espulsioni della Lega; ferma restando l’opposizione a una riforma della cittadinanza basata sullo ius soli (Bonifazi e Strozza 2022). E tuttavia, sia i toni della campagna elettorale, come i primi dossier fatti trapelare dal neo-insediato governo di Giorgia Meloni, rivelano una centralità ben diversa dell’agenda anti-immigrazione per la nuova coalizione di destra-centro: sul controllo costiero, sugli accordi con i paesi del Nord-Africa, sulla sicurezza e sull’integrazione. Orientamento che nei dettagli dei programmi di FDI e Lega per il 2022 è chiaro: un comune approccio sul governo dell’immigrazione caratterizzato da proposte securitarie, di bordering ed esternalizzazione, di riduzione dei meccanismi di accoglienza e integrazione, di repressione emergenziale dell’immigrazione illegale, restrittivo ed etnocentrato rispetto al riconoscimento della cittadinanza (FDI 2022, Lega 2022). Sul piano generale, le elezioni politiche italiane del 25 settembre 2022 segnano alcuni cambiamenti rilevanti. Il primo, è nell’orientamento del governo cui il nuovo parlamento eletto conferisce la fiducia, che è un governo politico – dopo l’esperienza di Mario Draghi – e con una maggioranza politicamente caratterizzata sulla destra. Il secondo è nella guida – peraltro femminile – del governo, espressione del partito che ha elettoralmente ottenuto una maggioranza relativa di rilievo, il 26% di media nazionale: FDI, un soggetto far-right con
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radici nel neofascista Movimento Sociale Italiano, il quale guadagna ben 24,04 punti percentuali rispetto al 2013, e poco più di 21 se si considerano le elezioni precedenti del 2018. Il partito guidato da Giorgia Meloni è sopra la sua quota elettorale nazionale nel 62,6% delle province e oscilla tra il 28 ed il 34 per cento in tutte le regioni del centro-nord – dove, di fatto, sottrae l’elettorato alla Lega – e si arresta nel Mezzogiorno, eccetto che in Puglia e in Abruzzo, dove un rinnovato M5S riesce a contenerne l’affermazione. Certamente, è una vittoria di offerta politica, anche per la debolezza del PD in particolare; ma soprattutto una vittoria più che del centro-destra della destra populista, perché le forze moderate, Forza Italia e Noi Italiani, pesano insieme il 9,02%, mentre Lega e FDI assommano il 34,77%, cioè il 79,4% dei voti di coalizione. Sul lato della domanda politica, al netto del giudizio degli elettori sul governo Draghi a quanto pare non lusinghiero, è evidente la richiesta proveniente da alcuni segmenti socioeconomici del paese di governare in un determinato senso il ciclo di spesa espansivo del PNRR. Al netto dello strascico pandemico, la situazione economica non è affatto disastrosa, ma lo scenario diverso, e i partiti della destra si dimostrano capaci di intercettare una domanda di politica economica e fiscale maggiormente orientata alla distribuzione verso le piccole imprese e il lavoro autonomo, di minor tracciamento dei flussi di spesa, di consolidamento di quella ricchezza individuale e familiare (soprattutto patrimoniale) che vive sotto il campanile di provincia. E tuttavia, questa domanda politica rivela anche dimensioni di valore e socioculturali, come dimostra la breve campagna elettorale che Lega e FDI conducono seppur sottotono – le proiezioni sono piuttosto concordanti nella previsione della vittoria della destra – su alcune issues tipiche della piattaforma far-right: l’anti-immigrazione sul lato del governo (securitarismo, respingimenti, opposizione allo ius soli) e del nativismo culturale (retorica del suprematismo, velato anti-abortismo); l’opposizione all’agenda pandemica e vaccinale che era stata del governo Conte II, con un sostegno neanche troppo velato ad alcune posizioni proprie dei cosiddetti no-vax; uno statement sovranista e neo-protezionista in materia economica, anche rispetto all’agenda della Commissione Europea, che non nasconde il supporto alla linea dei paesi di Visegrad; infine, una posizione sfumatamente atlantista, che in ragione della guerra in Ucraina
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L’oppio dei populisti
attenua, in FDI come nella Lega, le simpatie dimostrate negli anni precedenti verso il modello politico, di sviluppo e anche culturale rappresentato dalla Russia di Vladimir Putin. Già solo in ragione di questi elementi generali, l’interpretazione del voto alle politiche del 2022 in Italia necessita di una lettura complessa, che non può ridursi ai fattori di offerta politica. Non è, infatti, possibile comprendere le ragioni strutturali di un cambiamento di scenario iniziato già nel 2018 se non ricorrendo ad un modello analitico che valorizzi il lato della domanda sociale. L’ipotesi che si intende verificare è dunque quella di un aumento a livello provinciale, sul periodo 2013-2022, del supporto elettorale ai partiti far-right da un lato come risposta ad un arretramento di status effettivo o percepito dei segmenti sociali qui già definiti del lavoro autonomo e della piccola-borghesia proprietaria, dall’altro come crescita in questi segmenti sociali di un diffuso risentimento anti-immigrazione. Il modello proposto considera le 99 province già citate, escludendo volutamente le province delle regioni Valle d’Aosta, Sardegna e Trentino Alto-Adige per evitare i potenziali effetti distorsivi dati all’incidenza dei partiti di ispirazione regionalista, e usa come base i dati sulla popolazione residente per il periodo dal 2013 al 2022 (ISTAT-Demo 2022). La variabile dipendente è ovviamente costituita dalla variazione della quota elettorale totale raggiunta dai partiti dell’area far-right a livello provinciale sull’intervallo 2022-2013 (Y=FRPs_Vss_202213). Mentre la selezione delle variabili indipendenti sui due lati dell’arretramento di status e dell’etnocentrismo ha dovuto considerare la disponibilità effettiva di dati estesi e di livello provinciale. Nel primo gruppo riguardante l’arretramento di status (As), si sono selezionate tre variabili indipendenti e una di controllo. La prima variabile indipendente usata per l’arretramento di status è la variazione della ricchezza patrimoniale provinciale (X1As_varricch_Isee_2021-16), calcolata come variazione (%) del valore medio ISEE pro-capite dichiarato sul periodo 2021-16 (INPS 2022). La seconda riguarda l’arretramento di status come deprivazione posizionale (X2As_incidRNDipTot_Irpef_2020-13), calcolato come variazione (%) dell’incidenza del reddito-ricchezza da lavoro autonomo sul totale dei redditi Irpef denunciati, per il periodo 2020-13 (MEF 2022); per questi ultimi dati, non disponibili a livello provinciale, si è scelto di usare la sola provincia capoluogo più che una media rical-
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colata, perché proprio alla luce del modello teorico prescelto basato sulla marginalità, una sovrastima delle cosiddette ZTL può rafforzare non indebolire l’ipotesi. La terza variabile indipendente misura, invece, la paura di arretramento di status come aumentata esposizione alla global economy (X3As_incidQTEXPInnovTot_Bes_2017-12), calcolata come variazione della quota di esportazioni provinciali nei settori a domanda globale dinamica, sul periodo 2017-12 (ISTATBes 2022). Seguendo l’ipotesi teorica, le eventuali correlazioni con la prima vanno lette in positivo, con la seconda e la terza ovviamente in negativo. Il dato sull’Isee poteva, infatti, leggersi anche come variabile di controllo, nell’ipotesi – qui affermata – che non è la decrescita e/o diseguaglianza in sé ad indurre la gran parte del consenso alle agende far-right. Per questa stessa ragione si è usata come una sorta di variabile di controllo sull’arretramento di status (ChkAs) una misura dell’impatto di crisi e diseguaglianze, calcolato come variazione (differenza assoluta) del tasso di disoccupazione generale sulle 99 province, nella fascia 15-64 anni, sul periodo 2021-18 (ISTAT 2022). Nel secondo gruppo di variabili del modello, che riguardano essenzialmente l’etnocentrismo (Etn), si sono invece selezionate due variabili indipendenti e tre misure che potremmo dire di controllo. La numerosità di queste ultime è dovuta all’ipotesi teorica, peraltro supportata in Italia da una letteratura consolidata, che considera la pressione immigratoria come rilevante per spiegare le tendenze di voto, ma più come un acceleratore – o booster – che come un driver strutturale. Come si è già ampiamente evidenziato, il sistema italiano non presenta fondamentali demografici di alta pressione migratoria, ma è la rilevanza che il tema assume nella costruzione del dispositivo populista a renderla centrale, soprattutto nei processi di mediatizzazione e nelle logiche del discorso pubblico ed elettorale (Vaccari e Valeriani 2015; Gerbaudo 2018; Bobba e Seddone 2018). Dunque, le misure di urbanizzazione e di pressione migratoria combinata con l’incidenza dell’insicurezza (microcriminalità provinciale) sono state usate per corroborare una ipotesi principalmente basata sul rapporto tra backlash etnocentrico e voto ai partiti far-right. Per queste ragioni, la prima variabile prescelta per il secondo driver è l’etnocentrismo come segregazionismo socioeconomico di ge-
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nere (X4Etn_diffAttMAttF_2021-18), calcolato come variazione (%) del differenziale tra tasso di attività maschile e femminile nella provincia nel periodo 2021-18 (ISTAT-Bes 2022). La seconda è l’etnocentrismo come nativismo-patriarcalismo (X5Etn_incIVG_ 2018-13), calcolato come variazione (%) dell’incidenza provinciale di interruzioni volontarie di gravidanza (IVG) sugli anni 2018-13 (ISTAT 2022), che, come si è già detto, sta emergendo come una proxy del nativismo. Le variabili usate come forma di controllo sono invece la densità di popolazione provinciale (Chk1Etn) al censimento del 2011 (ISTAT-Censimenti 2022), la pressione migratoria provinciale (Chk2Etn) come variazione (assoluta) del tasso di incidenza della popolazione straniera residente sulla popolazione totale della provincia nel periodo 2021-23 (ISTAT-Demo 2022) e la microcriminalità provinciale (Chk3Etn), calcolata come variazione (%) dell’incidenza dei delitti per 100.000 abitanti nella singola provincia nel periodo 2019-13 (ISTAT-Bes 2022). Y=FRPs_Vss_2022-13 (crescita voto far right) Modello 1 Modello 2 Modello 2b X1As_varricch_ 0.319*** Isee_2021-16 (0.073) (ricchezza patrimoniale) X2As_incidRNDipTot_ Irpef_2020-13 (deprivazione posizionale)
Modello 3
Modello 4
0.366*** (0.071)
0.361*** (0.072)
-
0.342*** (0.072)
-0.610*** -0.699*** (0.054) (0.040)
-0-708*** (0.044)
-
-0.574*** (0.049)
X3As_ incidQTEXPInnovTot_ Bes_2017-12 (esposizione alla global economy)
-0.012 (-0-015)
0.006 (0.015)
0.005 (0.014)
-
-0.005 (0.015)
ChkAs (crisi e diseguaglianze)
0.3005 (0.382)
-
0.173 (0.417)
-
-
X4Etn_ diffAttMAttF_2021-18 (segregazionismo socioeconomico)
-0.090*** (0.033)
-
-
-0.168 (0.312)
-
X5Etn_incIVG_ 2018-13 (nativismopatriarcalismo)
0.044 (0.035)
-
-
-0.649*** (0.231)
-
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l’esplosione del populismo far-right Chk1Etn (urbanizzazione)
-0.005*** (0.00)
-
-
-
-0-004*** (0.001)
Chk2Etn (pressione migratoria)
0.158** (0.603)
-
-
-
0.135** (0.554)
Chk3Etn (sicurezza)
-0.187*** (0.038)
-
-
-
-0.173*** (0.077)
N
99
99
99
99
99
0.961
0.943
0.943
0.403
0.955
R
2·
Tabella 7. Deprivazione posizionale di status, risentimento anti-immigrazione e crescita dei partiti far-right in Italia (2013-2022), Modello OLS utilizzando tutte le 99 osservazioni provinciali del cluster. Scartate 3 osservazioni mancanti ed incomplete per il solo dato sulle IVG riguardante Fermo, Isernia e Crotone, perché non disponibili. Variabile dipendente Y (crescita voto far-right). Errori standard robusti rispetto all’eteroschedasticità, variante HC1, sempre in parentesi per tutti i 5 modelli. *p < 0,10, **p < 0,05, ***p < 0,01. Fonte: popolazione residente (ISTAT-Demo 2022); dati elettorali (CISE 2018 e MININT 2022b); dati ISEE (INPS 2022); dati Irpef (MEF 2022); dati esportazioni provinciali nei settori a domanda globale dinamica (ISTAT-Bes 2022, ind. 469_P); dati tasso di disoccupazione generale (ISTAT 2022); differenziale tra tasso di attività maschile e femminile (ISTAT-Bes 2022, ind. 061_P); dati sull’IVG (ISTAT 2022); densità di popolazione (ISTAT-Censimenti 2022); incidenza popolazione straniera (ISTAT-Demo 2022); incidenza dei delitti per provincia (ISTAT-Bes 2022, ind 359_P).
Come tutti i modelli riportati nella tabella 7 evidenziano, il primo dato che emerge sulle elezioni del 2022 rispetto a quelle del 2018, è una separazione tra sostenitori populisti e sostenitori pro-establishment nella scissione tra aree interne e aree suburbane/metropolitane più svantaggiate (Valbruzzi 2018, 174-175) ancora presente, vista la sensibilità del voto far-right alla densità di popolazione. Tale frattura di urbanizzazione assume tuttavia un significato differente se sottoposta ad una lettura più attenta. Il modello 1, che tiene in considerazione tutte le variabili indipendenti e quelle usate per il controllo combinato, fornisce alcune interessanti indicazioni di fondo. La prima è che il sostegno ai partiti far-right aumenta dove ha colpito maggiormente l’arretramento di status di quei segmenti sociali collocati generalmente nel lavoro autonomo, con una correlazione (-0.610) buona, un basso errore e una significatività di p alta. Il voto cresce anche al crescere della ricchezza emersa, e non trova una si-
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L’oppio dei populisti
gnificativa correlazione con la variabile usata per l’effetto della crisi e delle diseguaglianze. In sostanza, è l’effetto di deprivazione posizionale che alimenta il voto per la nuova destra populista, non la crisi né la diseguaglianza, e questo confermerebbe come, sul lato del driver economico, il sostegno elettorale a queste agende politiche sia mosso dalla paura di scivolamento di status e ricchezza di segmenti sociali ben precisi, ovvero quelli non strutturalmente collegati al reddito dipendente. In definitiva, non sono la class politics o il voto operaio “innaturale” a spiegare in Italia il maggioritario e crescente sostegno ai partiti far-right. Tra l’altro, come evidenziano anche i modelli 2 e 2b, si conferma che sono le province ricche e in crescita, ma dove quell’area del lavoro autonomo e da impresa risulta stato deprivato posizionalmente, quelle dove tale sostegno cresce maggiormente. Questo elemento rimarca un cambiamento di scenario sociale e nel sistema partitico rispetto ai termini che erano stati del 2018, in cui, e soprattutto per il contributo di un M5S ben diverso da quello guidato da Conte nel 2022, la componente di protesta nel voto ai soggetti populisti era molto evidente, e assumeva il volto di una richiesta di inclusione nel sistema principalmente in termini di reddito (Ceccarini 2018, 171-174). Dopo l’effetto del Reddito di Cittadinanza, della pandemia e delle misure di emergenza, nelle elezioni del 2022 pare consumarsi, su questo piano, una separazione tra voto populista di protesta connesso alla crisi e voto populista di risentimento anti-immigrazione connesso alla difesa individualistica di status e ricchezza. Ciò che forse era già in nuce nel 2018, si consolida plasticamente con il largo sostegno ai soggetti del populismo far-right, confermando l’intuizione di Mudde per cui tutto il populismo stia convergendo sulla destra radicale (2016a, 2018). E c’è anche di più, perché in Italia si tratta di un elettorato che inizia ad assumere una identità socioeconomica e valoriale più chiara: non sono i perdenti della modernizzazione ma gli impauriti dallo scivolamento della propria ricchezza individuale, gli appartenenti al declining middle, ad attivare una logica da deprivazione che è nostalgica e usa come pivot la politica anti-immigrazione. Quanto ai drivers culturali, se è vero che dal modello generale (tabella 7) il voto far-right si mostrerebbe, in assoluto, poco sensibile alle variabili usate per la misura dell’etnocentrismo, ci sono alcuni indicatori che però indicano diversamente. Il dato sul segregazioni-
l’esplosione del populismo far-right
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smo economico, con una sensibilità di p interessante, può essere letto come un effetto sul voto in termini di insofferenza generata, in alcune parti di questo elettorato conservatore-reazionario, da un maggiore attivismo occupazionale delle donne. Inoltre, la lettura congiunta delle tre dimensioni riguardanti l’urbanizzazione, la pressione migratoria e la microcriminalità – il verso è negativo – sembrano indicare che non è la presenza immigratoria in sé a spingere il voto far-right bensì la sua rappresentazione sociale nell’elettorato. Difatto, per tutti i modelli presentati l’aumento del voto far-right è sensibile al decremento provinciale della criminalità – più è sicura la provincia, più il sostegno ai partiti securitari aumenta – mentre la correlazione con la pressione migratoria (modelli 1 e 4) è presente ma debole, non rilevante. Significativo è, in una lettura congiunta tra il modello 1 e 3, l’aumento del supporto alle destre populiste nelle province dove l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza si è fatto nel periodo difficile, se non impossibile. Questo, come già evidenziato, è un indicatore di un emergente sentimento etnocentrico a livello provinciale, che spinge l’agenda dei partiti anti-immigrazione. Nell’analizzare più nel dettaglio la geografia dei margini e del risentimento descritta dalle province con una maggiore incidenza del voto far-right nel 2022, intese come primo terzile della crescita del voto sulle politiche precedenti, un’altra cosa che emerge, rispetto al 2013, è che delle 33 province non più solo cinque (5) ma ben dodici (12) sono del Centro e del Sud della penisola, ormai quasi un terzo del totale; una progressiva nazionalizzazione del supporto maggioritario alla nuova destra populista e anti-immigrazione che solo l’ottimo risultato del M5S del 25 settembre 2022 pare aver arrestato. Escono molte province del Nord ed entrano diciassette province (17) di cui ben dieci – Ascoli Piceno, Fermo, Frosinone, L’Aquila, Latina, Lucca, Macerata, Perugia, Pesaro-Urbino, Terni – sono del Centro o del Sud, costituendo ormai il 36,4% del totale. Quanto, invece, all’incidenza dei due drivers di questo voto – arretramento o deprivazione percepita di status ed etnocentrismo – è evidente che questa stia aumentando. Delle 33 province in questione, ben diciannove (19) nel 2020 presentavano una incidenza di reddito e ricchezza non da lavoro dipendente superiore alla media nazionale e altre cinque (5) sono state colpite sul periodo 2013-20 da un aumento di deprivazione posizionale di status: cioè il 72,2%
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L’oppio dei populisti
del terzile superiore. Rispetto, invece, al sentimento etnocentrico, ventiquattro (24) province del terzile superiore del 2022 al 2018 presentavano una incidenza di IVG minore della media nazionale, ed altre cinque (5) un calo di questa incidenza *1000 ab. superiore a quello nazionale (nel periodo dal 2013 al 2018)3. Ciò che in insomma appare spingere, sul lato della domanda sociale, la crescita di partiti come FDI e Lega è principalmente la paura di una deprivazione posizionale di status e di arretramento nella ricchezza individuale della piccola e media borghesia. Una paura che si caratterizza in senso nostalgico, colorando la propria strategia nativistica sul lato del genere (si pensi, ad esempio, all’aborto) di un risentimento etnocentrato. Di queste paure l’anti-immigrazione diventa perno valoriale, ideologico-programmatico. La co-essenzialità dei due pendenti della politica far-right, la paura di scivolamento nello status e il risentimento anti-immigrazione, sembra trovare nel modello italiano una conferma. Le evidenze empiriche emerse dall’analisi del modello porterebbero – anche per l’attuale insufficienza di dati di prossimità sull’etnocentrismo, come nel caso dei reati d’odio – a far prevalere però una interpretazione sbilanciata sulla status politics (Gidron 2017, 2022). In un certo senso, questo appare ragionevole. In fondo, l’Italia, soprattutto quella non metropolitana e se si vuole periferica, interna, dei margini dello spazio politico, ha fondato il suo modello di sviluppo politico e sociale prevalentemente su una cifra di struttura, sociologica, di tipo piccolo-borghese, nell’accezione asciuttamente marxiana del termine. La cultura politica etnocentrata che questa parte della società esprime non ne è che una prevedibile espressione. 3
Il terzile superiore delle province per quota elettorale dei partiti far-right era, come detto, nel 2013 composto da Asti, Belluno, Bergamo, Biella, Brescia, Como, Cremona, Cuneo, Isernia, Lecco, Lodi, Mantova, Milano, Monza e Brianza, Novara, Padova, Pavia, Piacenza, Pordenone, Rieti, Rovigo, Salerno, Sondrio, Teramo, Treviso, Udine, Varese, Venezia, Verbania, Vercelli, Verona, Vicenza, Viterbo. Nel 2022, questo terzile calcolato sull’aumento della quota elettorale maggiore tra le 99 province aggiunge alla conferma di Asti, Belluno, Biella, Cremona, Cuneo, Novara, Padova, Piacenza, Pordenone, Rieti, Rovigo, Treviso, Udine, Venezia, Vercelli e Viterbo, anche le province di Alessandria, Ascoli Piceno, Fermo, Ferrara e Frosinone, Imperia, L’Aquila, Latina, Lucca, Macerata, Perugia, Pesaro-Urbino, Rimini, Savona, Terni, Trieste e Verbania.
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Ma il tempo del populismo è un tempo occidentale, in un certo senso globale, come l’affermazione diffusa – ma non intensa come in Italia – dei soggetti far-right in altre democrazie europee evidenzia (Mudde 2019). Del dispositivo politico del risentimento dei margini che alimenta elettoralmente questa nuova generazione di partiti, l’elemento dell’etnocentrismo e ormai del suprematismo sono parte essenziale e forse determinantee, almeno quanto la deprivazione di status. A saldarli in fondo è proprio l’anti-immigrazione, la quale rappresenta il cuore ideologico-programmatico del populismo far-right, che risale dai margini della democrazia nazionale come del mondo globalizzato. Nonostante siano state diverse le ondate di destra populista nell’ultimo trentennio, qualcosa sembra ancora riportare all’analisi fatta dalla scuola nordica durante gli anni ’90, per la quale il supporto crescente al populismo è un supporto ai “partiti anti-immigrazione” (Rydgren 2008), e questo deriva da una “interazione di sentimenti di isolamento sociale e di nazionalismo etnico” (Van Der Brugg et al. 2003, 96). Ma anche, risalendo nel tempo, a Lipset, per il quale la destra radicale attinge “al non usuale risentimento di individui o gruppi che desiderano mantenere o migliorare il proprio status sociale” e “le conseguenze politiche delle frustrazioni dello status” alla fine “si concentrano sull’attacco a un capro espiatorio, che simboleggia convenientemente la minaccia percepita dai loro sostenitori” (Lipset 1955, 176). Di mutato, certamente, vi è il fatto che tale risentimento risalga da margini di un sistema ormai globalizzato, anche e soprattutto nella sua crisi. E così le Marche della strage a sfondo politico-razziale che ha aperto la campagna elettorale italiana del 2018 sono più vicine al cuore della politica occidentale di quanto si pensi. La storia di Traini è, in fondo, una metafora ‘universale’ della crescita del risentimento neo-nazionalista in tutte le periferie postdemocratiche: una traccia esemplare di quelle pulsioni etnocentriche che, come un fiume carsico, percorrono i nostri sistemi politici scavando faglie e cleavage. E allora il nome di Traini comparirà non casualmente su uno dei caricatori utilizzati negli attentati di Christchurch (Nuova Zelanda) del marzo del 2019, rivendicati via facebook dal suprematista bianco, Brenton Tarrant, con una storia sociale e familiare simile a Traini. E a Tarrant si ispirerà Gendron, il diciottenne proveniente dalla pic-
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cola città ‘bianca e trumpiana’ di Conklin, che nel maggio del 2022 apre il fuoco in un Supermarket di Buffalo, negli Stati Uniti, uccidendo dieci afroamericani. Payton Gendron aveva anticipato sul forum online 4Chan, collegato al gruppo complottista alt-right QAnon, le ragioni del suo attivismo “suprematista, fascista e antisemita”: difendere l’America “bianca” dal great replacement, provocato dall’immigrazione. Sempre dei gruppi militarizzati prevalentemente affiliati a QAnon il 6 gennaio del 2021 avevano provato il putsch a Capitol Hill durante la convalida dell’elezione di Joe Biden. Una rete, quella Alt-right – che ancora molto ricorda la descrizione che Lipset fa della destra radicale nel lontano 1955 – che aveva sostenuto l’elezione di Donald Trump nel 2017, e portato addirittura nel Consiglio di Sicurezza Nazionale, almeno per qualche tempo, Steve Bannon. Bannon è l’ imprenditore politico vero animatore di questo mondo, nonché promotore di una rete di partiti populisti della destra radicale anti-immigrazione a livello globale; rete nella quale egli aveva incluso per l’Italia, almeno nelle sue intenzioni, proprio FDI: il primo partito alle elezioni italiane del 2022, che attualmente governa il paese.
CONCLUSIONI
A guardare con più attenzione, già nel risultato delle elezioni politiche italiane del marzo 2018 erano presenti, in nuce, alcuni degli elementi destinati a caratterizzare la democrazia italiana come un avamposto della politica anti-immigrazione; o, per essere più precisi, di una sua affermazione come maggioritaria tra gli elettori, così aprendo ai partiti che la sostengono le porte del governo, come puntualmente avvenuto con le recenti elezioni del 2022. Di fatto, i partiti che già nel 2018 proponevano, pur con approcci differenti, piattaforme esplicitamente anti-immigrazione collezionarono allora ben 17.860.303 voti (il 54,3% dei voti e il 60,5% dei seggi alla Camera), favorendo la nascita del primo governo tutto-populista in una grande democrazia europea: quello gialloverde che avrebbe approvato le politiche restrittive anti-immigrazione volute dall’allora Ministro Salvini e note come Decreti sicurezza. Sebbene imploso nell’autunno del 2019 per una crisi extra-parlamentare, quel governo riconsegna però un sistema politico dal volto strutturalmente mutato, rispetto soprattutto al 2008, nella geografia partitica, ma soprattutto nella mappa della società politica. L’affermarsi di un’offerta politica sempre più egemonizzata da toni e programmi anti-immigrazione, sciovinisti ed etnocentrati sembra di fatto riflettere, e in ogni passaggio elettorale dopo il 2018 confermare, come sul lato della domanda sociale in Italia stia rimarcandosi una linea di risentimento di status etnocentrata, di deprivazione nostalgica, che corre lungo i territori, i collegi elettorali, i margini della società italiana i più interni, periferici. L’affermazione dell’ultradestra (far right) è quindi – o almeno pare – una vittoria del risentimento prodotto dalla globalizzazione neoliberale, nel momento della sua massima crisi. Ma nell’Occidente della società della piattaforma, della piazza e della torre che disciplinano un nuovo paradigma delle gerarchie economiche, sociali
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e del potere, i margini sono perennemente connessi al centro, e il risentimento della “nuova minoranza” impiega molto poco nel posizionarsi al centro del discorso pubblico e dell’agenda politica; anche se per un tempo solitamente brevissimo. Così la storia di Luca Traini, autore della strage politico-razziale che aveva aperto le elezioni del 2018, diventa metafora della centralità dell’anti-immigrazione nel sistema politico italiano ma è anche una storia più globale di quanto si pensi. Residente in casa della nonna a meno di trent’anni, Traini ha alle spalle una storia di abbandono paterno – la famiglia tradizionale – e una condizione economico-lavorativa precaria – orfano del ceto piccolo-borghese, si direbbe, e dello status di vita che esso garantiva. Egli è ritratto da amici e conoscenti come una persona psicologicamente fragile, ma le convinzioni razziste da egli esibite a ben guardare esprimono un disagio che travalica la personalità, radicato e forse amplificato dal contesto sociale. Il suo è un romanzo di vita provinciale e marginale, ma per nulla isolato, tutt’altro che nostalgico, tutt’altro che solo italiano: sembra uscito dal nuovo realismo cinematografico de L’Odio di Mathieu Kassovitz o forse ancora meglio di American History X di Tony Kaye: capelli rasati, copie del Mein Kampf e bandiera con la croce celtica in casa. Sembra, insomma, uno stereotipo narrativo dei nostri tempi, di quelli che nel circo mediatico e dell’infotainement un attimo prima sono commentati in studio con “sono solo dei nostalgici: che cosa può andare storto?” e un attimo dopo la strage riecheggiano nell’immancabile commento del vicino di casa: “sono sconvolto: salutava sempre!”. Sul come salutasse, si potrebbe ironizzare, se il tema non fosse in sé drammatico! La storia di Traini è, dunque, una metafora universale di una crescita del risentimento neo-nazionalista alla periferia delle democrazie post-globalizzazione: una traccia esemplare delle pulsioni etnocentriche che, come un fiume carsico, percorrono i nostri sistemi politici scavando faglie e contraddizioni. E così dopo il 2018 il nome di Traini comparirà su uno dei caricatori utilizzati negli attentati di Christchurch (Nuova Zelanda) del marzo del 2019, rivendicati da un gruppo di suprematisti bianchi. L’autore, Brenton Tarrant, è un ventottenne con una storia sociale e familiare molto simile a quella di Traini: come lui, è uno xenofobo-suprematista ma si sente un dispossessed per dirla con Daniel Bell. E in questa catena d’odio che corre dentro la società del-
Conclusioni
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la piattaforma a Tarrant si ispirerà, poi, Gendron, che nel maggio del 2022 apre il fuoco in un supermarket di Buffalo (Stati Uniti), uccidendo 10 afroamericani. Gendron trasmette l’intero attentato su Twitch, ma aveva anticipato sul forum online 4Chan le ragioni del suo attivismo “suprematista, fascista e antisemita”: difendere l’America “bianca” dal great replacement dell’immigrazione. Si tratta delle stesse, folli motivazioni agitate dai gruppi militarizzati prevalentemente affiliati al gruppo complottista alt-right denominato QAnon – a cui 4Chan è collegato – che avevano provato il putsch a Capitol Hill durante la convalida dell’elezione di Joe Biden il 6 gennaio del 2021. Si tratta, ancora, delle motivazioni reazionarie che guidano la ‘folla’ pro-Bolsonaro che devasta la casa presidenziale brasiliana dopo la rielezione di Lula. Suprematismo razziale, neonazionalismo, muri: il cleavage etnocentrico e il risentimento anti-immigrazione attraversano le nostre democrazie, e si trasformano per iniziativa delle nuove formazioni far-right in agende di policy ‘esclusioniste’, che cioè provano a restringere i diritti esistenti – come per l’aborto – o che chiudono alla estensione di quelli futuribili – come per la famiglia omossessuale, la procreazione assistita, ma soprattutto per la cittadinanza. Le differenze sono trasformate in minoranze, le fratture sociali in borders di esclusione sulla base del genere o dell’etnicizzazione, e i bordi diventano muri interni alle democrazie (Brown 2010). La marea della globalizzazione felice si ritira e rivela una società più diseguale, morsa dalla paura e piena di margini percepiti come invalicabili dall’individualismo e dal risentimento sociale di status, che genera dall’interno della società democratica capri espiatori, altre fratture, altre linee di esclusione. Quella che Cas Mudde ha chiamato la ‘quarta ondata’ della destra antisistema sembra avere in fondo l’obiettivo di scongiurare ciò che è inevitabile se non quantomeno probabile: la ridefinizione su basi non-etniche del demos e della cittadinanza politica cui le nostre democrazie a crescita demografica zero vanno incontro. Pandemia, guerra e crisi climatica sembrerebbero, in fondo, confermarlo. Non è uno scenario pessimistico: il realismo analitico serve ad adoperarsi per cambiare ciò che appare inevitabile. Esisterebbero infatti molte e poco complesse soluzioni di policy per intervenire, e per disegnare facilmente scenari opposti, rafforzativi della società democratica. Con molto ottimismo della ragione, ma con assoluta mode-
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stia, sembra dunque utile chiudere il volume proponendo tre idee di policy – idee grezze, si direbbe – con il solo intento di favorire una discussione sui temi riguardanti le politiche pubbliche dell’immigrazione, magari di utilità per il policy maker. Come ovvio si tratta di idee culturalmente caratterizzate, sebbene sviluppate con l’approccio dello studioso di policy. Ma è bene ricordare che lo studioso è rigoroso, ha obiettivi scientifici, ma non è mai avalutativo: se lo dichiara, sospettatene! Le proposte, come ovvio, riguardano il caso italiano. La prima da qualcuno già suggerita in forme diverse, è una misura di ius soli condizionato, sostanzialmente concepita allargando la piena cittadinanza alla nascita a tutte le generazioni a partire dalla seconda che mantengano in Italia la propria residenza, fiscalità e si direbbe socialità con costanza, con una clausola di reversibilità legata all’eventuale adesione per più di 5 anni alla vita collettiva di un altro paese. Si tratta di un’idea nient’affatto radicale, ma della semplice applicazione di un postulato illuminista, presente già nelle costituzioni dell’età rivoluzionaria approvate dopo il 1789 – nell’Atto dei giacobini del 1793 come nella Costituzione scritta da Mario Pagano per la Repubblica napoletana nel 1799 – e che collega, nella definizione del demos, la piena cittadinanza politica all’effettivo contributo dato alla vita collettiva: senza distinzione di classe, status, religione, ed allora solo di luogo di nascita – elemento per gli illuministi, peraltro, superabile. Per rendere tale proposta operativa, al parlamento spetterebbe di approvare una semplice legge di estensione della cittadinanza, prevedendo una clausola addizionale con alcuni meccanismi condizionali in entrata per le sole prime generazioni (gli aspiranti cittadini non nati, ma magari istruitisi e socializzatisi nel nostro demos). Al vincolo dell’età conduce la seconda delle proposte, apparentemente non connessa all’immigrazione, ma che affronta il nesso tra invecchiamento sociale e crisi del tessuto demografico più in generale: una revisione delle soglie di rappresentanza per le elezioni di tutti i livelli che estenda il voto ai/alle sedicenni, e nel caso dei livelli amministrativi e regionali anche l’elettorato passivo. Questa misura in sé universalistica coinvolgerebbe, ovviamente, anche i nuovi italiani dalla seconda generazione in poi, e nel combinato disposto tra politica anagrafica e politica demografica consentirebbe un allineamento effettivo del governo rappresentativo al demos. Potrebbero esserne un corollario funzionale altre due sotto-misure: il congelamento dei diritti
Conclusioni
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politici per i cittadini iscritti all’AIRE dopo quattro anni di residenza continuativa all’estero e l’accesso per le prime generazioni con residenza stabile e continuativa di 4 anni ai diritti elettorali attivi locali, dimostrato il pagamento delle addizionali IRPEF comunali e regionali. La terza proposta è una policy contrattuale riguardante solo uno dei segmenti della politica dell’immigrazione, cioè la gestione dei flussi in entrata non riguardanti rifugiati e richiedenti asilo – le managed migrations, per così dire. Consiste nell’applicazione di una clausola di contingentamento dei permessi di soggiorno che quantifichi i flussi, automaticamente, nella soglia data dall’eventuale saldo migratorio negativo sull’anno precedente, incluse le iscrizioni all’AIRE, da ponderarsi regionalmente sulla base della numerosità dei gruppi nazionali già residenti. Quest’ultimo aspetto servirebbe a far raggiungere in fretta il punto di rottura delle diaspore, così accelerando i processi di integrazione (Collier 2016). Facilmente applicabile per il primo anno, in quelli successivi la soglia verrebbe calcolata non computando le quote di arrivo, e lasciando a governi e parlamento la libertà di approvare annualmente contingenti addizionali in entrata e, sentita la Conferenza delle Regioni, di stabilire le quote regionali tenendo conto degli indicatori demografici, occupazionali, di spopolamento, sociali e locali, nonché della consistenza delle diaspore. Le tre proposte essenzialmente rivedono i punti base dell’eguale cittadinanza a livello prepolitico. Non sfugge a chi scrive, tuttavia, che sul lato dell’offerta politica richiedano uno sforzo di visione strategica che né l’attuale classe dirigente del paese, né l’opinione pubblica sembrerebbero oggi in Italia in grado di sostenere. E questo contrariamente al refrain che circola spesso tra noi studiosi per così dire non anti-immigrazione – usiamo una definizione precauzionale! – sulla attuale esistenza, in Italia, di una maggioranza ‘sociale’ favorevole allo ius soli. Convinzione, quest’ultima, che mi pare guidata dal buon vecchio ottimismo della volontà, e che mi trova, francamente, in disaccordo. Le indagini demoscopiche sono fondamentali, ma restituiscono mappe che su temi sensibili come il riconoscimento dei diritti de gli Altri si espongono a molti bias. Inoltre, la tesi per cui questa maggioranza sociale favorevole allo ius soli non si rispecchi nel voto politico, perché la nostra democrazia – come molte altre – vive una crisi di partecipazione elettorale, non mi pare regga. In primo luogo, perché per definizione non sappiamo
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– e per fortuna: è il bello della democrazia! – cosa voterebbero gli astenuti, che per inciso non sono sempre gli stessi cittadini ad ogni tornata. Ma soprattutto perché la democrazia, oltre che un paradigma sociale, è prima di tutto una forma organizzativa istituzionale del processo politico – come i classici insegnano – e quindi la volontà legislativa sullo ius soli di quello che oggi è cattiva abitudine chiamare popolo – ma sarebbe corretto chiamare corpo elettorale o cittadinanza politica (demos) se non vige una Costituzione come quella americana – per essere chiari si esprime, al fondo, nelle urne. In ogni modo, le tre modeste proposte non intendono essere esaustive di un dibattitto sugli interventi di policy in materia di immigrazione, cittadinanza e diritti che ha altri luoghi in cui può consumarsi, e voci di gran lunga più competenti e autorevoli di chi scrive che possano alimentarlo. Si tratta semplicemente di una suggestione di riforma – in questo caso la parola non è abusata – complessiva della cittadinanza democratica, con implicazioni anche di costituzione politica. Sappiamo però che sarà il Parlamento ad occuparsi di questi temi. Quest’ultimo per i prossimi cinque anni, visto l’esito delle elezioni del 25 settembre 2022, avrà una maggioranza almeno sulla carta distante dalle visioni che alimentano le tre proposte sull’immigrazione qui abbozzate. Il governo è sostenuto infatti da una coalizione di destra-centro, ed è guidato da Giorgia Meloni, la leader del partito più votato alle elezioni (26%), che è una forza politica far-right marcatamente sovranista e anti-immigrazione. Ma la politica italiana spesso sorprende, e i governi si valutano sul loro operato. Su questo, già dalle prime dichiarazioni in materia di flussi, integrazione e cittadinanza il governo Meloni è però stato chiaro nell’indicare la propria linea. L’approccio mostrato dall’esecutivo sugli sbarchi e, soprattutto, la gestione della tragedia di Cutro sembrano aver, poi, tolto ogni dubbio. Ma la democrazia, fortunatamente, vive di tempi lunghi. Il mondo sarà anche “guasto”, come notava Tony Judt, ma c’è sempre tempo per ripararlo: basta volerlo.
FONTI E DATI
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EB 2022 Standard Eurobarometer Da qui provengono i dati eurobarometro, in particolare dei round dal 72 (autunno 2009) al 92 (autunno 2019), relativi alla salienza dell’immigrazione nell’opinione pubblica italiana, https://europa. eu/eurobarometer/surveys/detail. ESS 2018 European Social Survey Round 9 Data. Data file edition 3.1. Sikt – Norwegian Agency for Shared Services in Education and Research, Norway – Data Archive and distributor of ESS data for ESS ERIC. doi:10.21338/NSD-ESS9-2018, https://ess-search.nsd.no/ CDW/ConceptVariables. I dati ESS sono stati rielaborati per l’analisi dei sentimenti pro o anti immigrazione in Italia. EUDO-CITLAW 2017 Bauböck, R., Honohan, I., Jeffers, K., Citizenship Law indicators (CITLAW), EUI Research Data, European Union Democracy Observatory, Migration Policy Group, https://cadmus.eui.eu/handle/1814/64595. Il dataset EUDO è stato usato per la comparazione sui meccanismi e gli output di cittadinanza tra l’Italia ed altre democrazie europee. EUDO-MPG 2013 Migration Policy Group, Access to citizenship and its impact on immigrant integration. Handbooks for France, Germany, Italy, Spain and UK, https://www.migpolgroup.com/_old/diversity-integration/ access-to-citizenship-and-its-impact-on-immigrant-integration/. Da questi reports provengono alcune informazioni e i dati sui processi di naturalizzazione e di cittadinanza in Italia. EUROSTAT 2022 Data browser Da qui è stato possibile partire per reperire tutti i dati demografici, sociali, economici consultati, citati e sovente rielaborati dall’Autore. In particolare, alcuni valori della popolazione nelle proiezioni 2019-2100, i dati sull’invecchiamento sociale e sulla fertilità. Inoltre, provengono sempre da qui i dati sui permessi di soggiorno di prima istanza accettati
Fonti e dati
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o richiesti (first permits-to-stay), sulle espulsioni decretate, sulle entrate totali annue (immigrants inflows), sul saldo migratorio (differenza tra immigrants inflows ed outflows) che per l’Italia sono basati sui dati Istat (ISTAT 2022) delle Iscrizioni e cancellazioni anagrafiche della popolazione residente, come quelli relativi alle acquisizioni di cittadinanza, ai rifugiati e richiedenti asilo. Da Eurostat provengono anche le statistiche sul rischio povertà (Persons at risk of poverty or social exclusion by NUTS regions – EU 2020 strategy), https://ec.europa.eu/ eurostat/databrowser/explore/all/all_themes?lang=en. EUSPI 2020 European Social progress index score 2020 https://ec.europa.eu/regional_policy/en/information/maps/social_progress2020/. EUSPI 2016 European Social progress index score 2016 https://ec.europa.eu/regional_policy/en/information/maps/social_progress2016/ Queste le due fonti usate per il Social Progress Index nel 2016 e nel 2020 e per la ricostruzione del trend per il territorio italiano. INPS 2022 Osservatorio: ISEE. Dichiarazioni Sostitutive Uniche e ISEE https://www.inps.it/osservatoristatistici/76/o/482. Dal portale dell’INPS provengono i dati poi rielaborati sulle dichiarazioni ISEE a livello provinciale. ISTAT 2021 Principali statistiche geografiche sui comuni https://www.istat.it/it/archivio/156224. Da qui in particolare provengono i dati sulle classificazioni statistiche e dimensione dei comuni, 2017-2022 (Popolazione residente al 31 dicembre 2020). ISTAT 2022 IstatData Qui è possibile reperire tutti i dati demografici, sociali, economici consultati, citati e rielaborati dall’Autore. In particolare, quelli sulle
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Iscrizioni e cancellazioni anagrafiche della popolazione residente, sul Tasso di disoccupazione generale nella fascia 15-64 anni e sulle interruzioni volontarie di gravidanza (IVG) per luogo dell’evento, https://esploradati.istat.it/databrowser/#/. ISTAT-Bes 2018 Indicatori territoriali per le politiche di sviluppo Questo dataset è stato usato per alcuni controlli sui dati relativi agli indicatori territoriali per le province, nel confronto tra il 2021 e gli anni precedenti, https://www.istat.it/it/archivio/16777. ISTAT-Bes 2022 Indicatori territoriali per le politiche di sviluppo Questa fonte è stata usata per i dati relativi a: microcriminalità nelle province (indicatori territoriali per le politiche di sviluppo, indicatori per Obiettivi Tematici dell’Accordo di Partenariato 2014–2020, indicatore 359_P); differenza tra tasso di attività maschile e femminile (indicatori territoriali per le politiche di sviluppo, indicatori per tema, indicatore 061_P); internazionalizzazione o valore delle esportazioni in settori a domanda mondiale dinamici, indicatori territoriali per le politiche di sviluppo, indicatori per tema, indicatore 469_P) e per la ricchezza patrimoniale a livello regionale, che in realtà sono dell’Istituto Tagliacarne, https://www.istat.it/it/archivio/16777. ISTAT- Censimenti 2022 Censimenti permanenti dataware house Qui sono stati prelevati i dati sulla densità di popolazione a livello provinciale, http://dati-censimentipermanenti.istat.it/?lang=it. ISTAT – Demo 2022 Demo. Demografia in cifre. Indicatori demografici Da qui provengono i dati sulla popolazione residente per alcuni anni – e sempre quelli sulla popolazione straniera residente al 1° gennaio dell’anno, https://demo.istat.it/?l=it. In particolare, nel periodo 1992-2008 come “Permessi di soggiorno”, mentre nel periodo 2009-2019 come “Cittadini non comunitari regolarmente presenti sul territorio”.
Fonti e dati
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MEF 2022 Open data comunale e sub-comunale: principali variabili IRPEF Da qui, e dagli indicatori Irpef livello comunale per redditi e principali variabili, provengono i dati su redditi e ricchezza da lavoro non dipendente a livello provinciale. Sempre da qui provengono i dati su registro e successioni relativi alla frequenza di imposta di successione a livello regionale, https://www1.finanze.gov.it/finanze/ analisi_stat/public/index. php? search_class%5B0%5D=cCOMUNE&opendata=yes. MININT 2022 Cruscotto statistico giornaliero Il portale del Ministero è stato consultato per i dati relativi agli sbarchi dopo il 2011, http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it. MININT 2022b Eligendo. Il Sistema integrato dei dati elettorali Questa è stata la fonte primaria e prevalente dei dati elettorali su tutti i cicli di elezioni nazionali e regionali dal 2013 al 2022, https:// elezioni.interno.gov.it. MIPEX 2020 Solano, G. Huddleston, Th., Migrant Integration Policy Index https://www.mipex.eu/download-pdf. Questo database è stato usato per reperire gli indici di impatto della policy migratoria a livello nazionale. OECD 2022 Data Qui, in alcuni casi, sono stati reperiti i dati nazionali su stock, flussi e incidenza degli stranieri residenti (foreign born), https://data. oecd.org. OSCE – Odir 2022 Hate crime reporting Da qui provengono i dati sui crimini di odio e a sfondo razziale di livello nazionale per l’Italia, https://hatecrime.osce.org/hate-crime-data.
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INDICE DEI NOMI
Akkerman, Tjitske 61, 63-65, 68, 75, 88 Albertazzi, Daniele 64-65, 75, 98 Alesina, Alberto 23 Alfano, Angelino 102 Alonso, Sonia 24, 94 Ambrosini, Maurizio 23, 34, 38, 43, 48 Apter, David 73 Arditi, Benjamin 65, 68 Arrighi, Jean-Thomas 27 Aslanidis, Paris 63, 65-67 Baldi, Gregory 23 Bale, Tim 24, 84 Bannon, Steve 122 Barr, Robert 63 Bauböck, Rainer 27 Bauman, Zygmunt 67 Beckman, Ludvig 25 Bell, Daniel 77, 125 Bello, Valeria 58, 60, 94 Ben Ali, Zine 54 Benveniste, Annie 67 Berlusconi, Silvio 45, 49, 51 Bertossi, Cristophe 29 Betz, Hans-Georg 22, 63-64, 78, 8384, 88 Biden, Joe 122, 125 Bitzan, Renate 110 Blee, Kathleen 84, 87 Bobba, Giuliano 95, 115 Bolsonaro, Jair 125 Bonifazi, Corrado 40, 112 Bonikowski, Bart 66, 74 Bonomi, Aldo 82 Borkert, Maren 23, 38, 48 Bos, Linda 63, 82, 98
Bossi, Umberto 41, 44-45, 49-52, 54, 56, 98, 101, 103, 112 Bosswell, Christina 20, 22 Brown, Wendy 69, 125 Burgoon, Brian 84 Bush, George Jr. 51 Caiani, Manuela 66 Canovan, Margaret 61-65, 67, 72, 94 Caponio, Tiziana 23, 31, 38, 43-44, 46, 48-50, 52, 58 Cappiali, Maria Teresa 23, 31, 38, 43, 48, 52, 58 Caramani, Daniele 65 Castles, Stephen 20-21 Ceccarini, Luigi 118 Cecconi, Andrea 14 Cento Bull, Anna 31, 45, 51 Clemens, Michael 23 Cochrane, Christopher 94 Colantone, Italo 83 Collier, Paul 23, 27, 88, 127 Colombo, Asher 31, 34, 38-39, 45, 49, 52 Colucci, Michele 34 Conte, Giuseppe 95, 113, 118 Crouch, Colin 71 Czaika, Mathias 23, 37, 49 Dahrendorf, Ralf 73 Dalla Zuanna, Giampiero 33 De Haas, Hein 23, 49 De Koster, Willem 83 De la Torre, Carlos 23 De Lange, Sarah 110 De Leonardis, Ota 82 De Santis, Gustavo 41 De Vries, Catherine 75
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Decimo, Francesca 24 Diamanti, Ilvo 98 Dini, Lamberto 41, 45 Dolezal, Martin 84 Draghi, Mario 95, 112-113 Einaudi, Luca 34 Elchardus, Mark 83 Engesser, Sven 63 Engler, Sarah 71, 82 Ernst, Nicole 63 Fella, Stefano 31 Fennema, Meindert 85 Fenwick, Clare 23 Ferraris, Maurizio 67 Fini, Gianfranco 41, 44, 49-52, 54, 56, 101, 103, 112 Finotelli, Claudia 37-38, 43-44, 4647, 49 Flora, Peter 74 Freeman, Gary 20-22, 33, 37 Fruja, Ramona 26 Garau, Eva 34 Geddes, Andrew 20, 23, 48, 59 Gendronn, Payton 121-122, 125 Gentiloni, Paolo 58 Gerbaudo, Paolo 63, 115 Gest, Justin 12, 56-57, 68, 82, 83, 8687, 92-93, 99 Gheddafi, Muammar 54 Gidron, Noam 15, 54, 56, 62, 64, 66, 74, 77, 84, 86, 93, 120 Gini, Corrado 80 Giugni, Marco 23 Gold, Steven 23 Golder, Matt 64, 85 Gomez, Raul 64 Goodfellow, Maya 14, 49, 57, 59, 88 Goodman, Sara 23 Graziano, Paolo 66 Gribaldo, Alessandra 24 Guiraudon, Virginie 20, 29, 48 Gumplowicz, Ludwig 86 Haftar, Khalif 102 Haider, Jörg 87 Hainsworth, Paul 64 Hajjat, Abdellali 29
L’oppio dei populisti
Hall, Peter 15, 54, 62, 64, 74, 86 Hammar, Tomas 20, 23, 25 Han, Byung-Chul 88 Han, Kyung Joon 20, 64, 71, 82 Harvey, David 78 Heimberger, Philipp 80 Hobolt, Sara 75 Hollifield, James 20, 23 Hooghe, Liesbet 24, 64, 71, 74, 89, 105 Howard, Marc 32 Huddleston, Thomas 23, 38 Hutter, Swen 24, 58, 71, 75, 84 Immerzeel, Tim 63 Inglehart, Ronald 57, 67, 71, 81-82, 85, 92 Itzigisohn, José 26 Ivaldi, Gilles 25, 71, 83 Jacobs, Dirk 27 Jagers, Jan 63 Joppke, Christian 20, 23, 25-26 Judt, Tony 128 Kaltwasser, Cristobal 61, 64-65, 75, 110 Kassovitz, Mathieu 124 Katsambekis, Giorgos 64 Kaye, Tony 124 Kazin, Michael 63 Kehrberg, Jason 74, 79 Kern, Anna 64 Kioupkiolis, Alexandros 64 Kölln, Ann-Kristin 64 Koopmans, Ruud 26 Köttig, Michaela 110 Kováts, Eszter 110 Kriesi, Hanspeter 24, 58, 64, 75, 84, Kurer, Thomas 12, 84, 92 Kymlicka, Will 20, 23, 25, 29, 33 Laclau, Ernesto 63-65, 67-68 Lahav, Gallya 20 Lanzieri, Giampaolo 28 Lazaridis, Gabriella 14, 64, 69, 100 Le Pen, Marine 77, 87 Lenin, Vladimir 78 Letta, Enrico 54-55 Lijphart, Arend 74
Indice dei nomi
Lipset, Seymour Martin 12, 71-74, 77-78, 82, 86, 100, 121-122 Littlefield, Henry 67 Loch, Dietmar 71, 85 Lula, Ignacio 125 Lutz, Philipp 24 Macron, Emmanuel 77 Magnani, Natalia 31 Mainwaring, Scott 64, 75 Mair, Peter 64, 75 Mancino, Nicola 111 Manin, Bernard 70 Margalit, Yotam 71, 82, 86 Marks, Gary 24, 71, 74, 105 Maroni, Roberto 54, 101 Marracash (Fabio Bartolo Rizzo) 13 Martelli, Claudio 39, 41, 44 Marx, Karl 78 Mattalucci, Claudia 110 Mau, Steffen 71 Mazzoleni, Giampietro 63 Mazzoleni, Oscar 25, 71, 83 McDonnell, Duncan 64-65, 75 Meloni, Giorgia 95-97, 104, 112-13, 128 Menjívar, Cecilia 23 Mény, Yves 63 Meret, Susi 110 Merkel, Angela 30 Mewes, Jan 71 Milanovic, Branko 75, 111 Minniti, Marco 14, 51, 58-59, 103104 Moffitt, Benjamin 63, 95 Morales, Laura 24 Morelock, Jeremiah 71 Morlino, Leonardo 91 Mouffe, Chantal 64 Mouritsen, Per 26 Mudde, Cas 11-12, 20-21, 24, 61-62, 64-65, 68-70, 75-76, 79, 84-85, 87, 95, 110, 118, 121, 125 Mueller, Axel 65, 67 Müller, Jan-Werner 65-66 Mügge, Liza 110 Münz, Rainer 30
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Napolitano, Giorgio 41, 44-47, 49-50, 55 Narita, Felipe 71 Nawyn, Stephanie 23 Nevitte, Neil 94 Norman, Wayne 25 Norocel, Ov Cristian 71, 85 Norris, Pippa 22, 57, 64-65, 71, 75, 81-82, 85, 92 Odmalm, Pontus 23-24, 84 Ogorchukwu, Alika 112 Orlando, Andrea 58, 103 Ostiguy, Paul 63 Oswald, Michael 61-62 Owen, David 26 Pappas, Takis 64 Pasquino, Gianfranco 27, 61, 70 Passarelli, Gianluca 98 Pastore, Ferruccio 34 Peters, Micheal 78-79 Petö, Andrea 110 Petracchin, Andrea 59 Pickup, Mark 63 Pierson, Paul 33 Piketty, Thomas 78 Pillon, Simone 103 Polk, Jonathan 63, 95 Pritoni, Andrea 98 Prodi, Romano 46, 52 Putin, Vladimir 114 Putnam, Robert 111 Quagliariello, Chiara 110 Rackete, Carola 59 Ramiro, Luis 64 Raniolo, Francesco 91 Renzi, Matteo 102 Reyneri, Emilio 38, 43 Ridgeway, Cecilia 84, 92 Rodrik, Dani 71, 75, 82-83 Rokkan, Stein 27, 74 Rombi, Stefano 98 Römmele, Andrea 63 Rooduijn, Matthijs 64, 75, 98 Ruedin, Didier 24 Ruzza, Carlo 31
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Rydgren, Jens 22, 64, 74, 78, 84-85, 87, 99, 121 Saez, Emmanuel 78 Salvini, Matteo 55, 58-69, 87, 94-96, 99-105, 123 Sartori, Giovanni 61 Sciortino, Giuseppe 16, 31, 34, 37-39, 43-47, 49, 54 Seddone, Antonella 95, 115 Shehaj, Albana 19 Siim, Birte 110 Spektorowski, Alberto 45 Spierings, Niels 110 Spruyt, Bram 83 Stanig, Pietro 83 Stefani, Alberto 103 Steinmetz, George 78 Stokes-DuPass, Nicole 26 Strozza, Salvatore 16, 27, 31-33, 3941, 43, 112 Sumner, William 86 Surel, Yves 63 Tabellini, Guido 23 Taggart, Paul 63 Taguieff, Pierre-André 64-65 Tarrant, Brandon 121, 124-125 Terlizzi, Andrea 38, 54, 56 Terwey, Michael 30 Torcal, Mariano 64, 75 Tormey, Simon 63,95 Traini, Luca 13, 100, 112, 121, 124 Triandafyllidou, Anna 23, 34, 41 Trigilia, Carlo 75, 91 Trump, Donald 71, 73, 94, 99, 122 Tuorto, Dario 98 Turco, Livia 41, 44-47, 49-50, 55 Ulrich, Ralf 30 Urbinati, Nadia 65 Urso, Ornella 38, 56 Vaccari, Christian 115 Valbruzzi, Marco 95, 117 Valeriani, Augusto 115 Van Biezen, Ingrid 64 Van der Brug, Wouter 22, 64, 84-85, 95, 121 Van der Waal, Jeroen 83
L’oppio dei populisti
Van Spanje, Jost 20, 56, 64 Vassallo, Salvatore 95 Venturino, Fulvio 98 Vink, Maarten 23, 38 Walgrave, Stefaan 63 Weisstanner, David 71, 82 Wilders, Geert 87 Zannini, Andrea 33 Zaslove, Andrej 31, 46 Zemmour, Éric 77 Zincone, Giovanna 31, 38, 44, 46, 49-50 Žižek, Slavoj 56, 66-67
Finito di stampare nel mese di febbraio 2023 da Digital Team – Fano (PU)