Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia 1965-75 8842035386, 9788842035381


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Italian Pages 320 [308] Year 1990

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Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia 1965-75
 8842035386, 9788842035381

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© 1990, Sidney Tarrow Traduzione di Salvatore Maddaloni Prima edizione 1990

Questo volume è stato pubblicato con il contributo del Hull Memorial Publication Fund of Cornell University

Sidney Tarrow DEMOCRAZIA E DISORDINE M ovim enti di protesta e politica in Italia 1965-1975

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 1990 nello stabilimento d ’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari C L 20-3538-3 IS B N 88-420-3538-6

PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA

Questo è un libro sui movimenti, sull’azione collettiva e sulla politica in Italia dal 1965 al 1975. Dopo il declino, alla metà degli anni Settanta, della protesta di massa, in questo paese è comparsa una vastissima letteratura sul ciclo di protesta appena conclusosi. Alcuni di questi libri erano narrazioni delle vicende degli anni precedenti; altri si fondavano sulla ricca produzione ideologica dei movimenti; altri ancora erano ideologia tout court. Molti autori denunciavano il ruolo svolto in questo ciclo dai par­ titi e dalle istituzioni, e le loro opere erano caratterizzate da una reazione contro i disordini degli anni precedenti, secondo una tendenza esacerbata dal crescere del terrorismo organizzato, che ha contribuito a portare tutta una generazione di italiani ad av­ versare la politica di massa. Malgrado gran parte della letteratura sulla protesta si debba alla sinistra, sono pochi gli autori di quella tendenza che hanno esaminato a fondo in che modo la popolazione stessa ha vissuto quegli anni. Ci sono state delle analisi sui tassi di sciopero e sul loro rapporto coi trend economici, sugli atteggiamenti del pub­ blico verso forme non convenzionali di partecipazione, sulle vi­ cissitudini dei gruppi rivoluzionari nati in quegli anni; ma pochi di questi studiosi si sono dati la pena di seguire in che modo si è sviluppata l’azione collettiva popolare, mentre molti si sono ac­ contentati di difendere gli itinerari politici seguiti da loro stessi o dalle loro organizzazioni. Una delle conseguenze di tutto questo è che sappiamo ben poco circa le origini, le dinamiche o gli esiti dell’ondata di pro­ testa più ampia mai avutasi nella storia del paese dopo il fasci­ smo. U n’altra conseguenza è stata la sorpresa, la disillusione o le accuse di tradimento da parte di questa o quella organizzazione o partito di sinistra quando — com’è avvenuto molto prima di v

quanto chiunque prevedesse — le masse sono scomparse dalla scena pubblica. E davvero sorprendente che coloro che credono nella classe lavoratrice come fonte di saggezza e di iniziativa ri­ voluzionarie abbiano prestato più attenzione alla produzione ideologica delle élites intellettuali che all’attuazione di un’azione collettiva da parte della classe lavoratrice. Questo vale ancor più per l’Italia di oggi, in un periodo di generale riflusso ideologico. Se questo libro ha un contributo originale da proporre agli italiani, è il fatto di prendere sul serio l’idea che la storia di una società si rispecchi nelle azioni collettive della sua popolazione. Con Edward P. Thompson e Charles Tilly — le cui opere sono spesso citate ma raramente imitate — io credo che le ondate di protesta scuotono una società non perché gli intellettuali agitino le acque dello scontento, ma quando la gente osa esigere diritti e benefici che ritiene le appartengano. Queste ondate si placano quando la gente è soddisfatta, o la sua militanza si esaurisce, o è ridotta al silenzio dalla polizia o dal terrorismo, o quando infine è presente una combinazione di tutte e tre le cose, come, a mio avviso, è avvenuto nel «caso italiano» alla fine del periodo qui studiato. Chi è alla guida dei movimenti rivoluzionari non può far sol­ levare un popolo, così come i partiti conservatori o revisionisti non possono fermare un sollevamento popolare una volta avvia­ to. Quando inizia la mobilitazione di massa appare sulla scena della storia un nuovo attore, e sia i rivoluzionari che i moderati vengono sopraffatti. In suo nome alcuni possono salire sulla ri­ balta pubblica, ma non possono imporre le proprie direttive. E quando malgrado i loro sforzi — o per via di essi — l’ondata di mobilitazione cala, questi gruppi possono rallentare il processo, ma non arrestarlo. Essi scelgono il loro ruolo entro una gamma limitata: l’agitatore trasformatosi in giornalista, il burocrate di un gruppo di interesse, il politico accolto per cooptazione; più raramente, e più tragicamente, il fautore della lotta armata. In altri termini un ciclo di protesta ha una dinamica propria, una dinamica inscritta nella curva dell’andamento della mobili­ tazione popolare. Esso è articolato da alcuni leader di movimen­ to che — cogliendo la rabbia e la disponibilità della popolazione a un’azione collettiva — s’illudono talvolta di esserne i protago­ nisti e cercano di indirizzarla verso i propri obiettivi. È nostro compito cercare di capire questi obiettivi, perché ci aiutano a spiegare dove si diffondono i cicli di protesta e quali sono i temi suscettibili di scatenare un incendio. Se però scambiamo la regi­ strazione delle proposte degli intellettuali per la storia dei movi­ vi

menti di massa confondiamo le espressioni esterne del ciclo con la sua dinamica interna. Queste sono le ipotesi guida di questo libro. Esso si è basato non sulle esperienze personali dell’autore o su un modello dedut­ tivo dei movimenti collettivi, ma su ben otto anni di lavoro con­ sistente nella raccolta di materiale, in colloqui sia con gli ex-par­ tecipanti sia con gli osservatori dei movimenti studiati, nella lettura dei loro documenti e nell’esame delle forme e degli obiet­ tivi delle loro azioni collettive. E solo mia la responsabilità se ho impiegato tanto tempo a ultimare un libro che avrebbe goduto di un pubblico più vasto se fosse stato più breve, o se fosse uscito nella ricorrenza del ventesimo anniversario del 1968. D ’altra parte devo ringraziare molte persone per aver alleviato quello che altrimenti sarebbe stato, senza il loro contributo, un ben pe­ sante fardello. E stata la stimolante atmosfera del Center for Advanced Study in thè Behavioral Sciences a Stanford (California) a convin­ cermi che un tale studio avrebbe potuto essere compiuto. Il Cor­ nell Center for International Studies ha fornito una copertu­ ra amministrativa al progetto. Il Cornell Government Depart­ ment e il Cornell Institute for Social and Economie Research sono stati altrettanto prodighi di assistenza tecnica e finanziaria. La fase di raccolta dei dati è stata la parte più collettiva del progetto. A livello concettuale, esso ha tratto profitto dall’ispi­ razione di Charles Tilly, che desidero ringraziare calorosamente. A livello pratico, quattro giovani hanno compensato la mia igno­ ranza riguardo alle più moderne tecniche di gestione e d ’analisi dei dati. Enrico Ercole è stato il principale «operatore» del progetto. Martha Moorehouse ha portato a termine l’opera da lui iniziata. Bonny Sweeney ha elaborato gran parte dei dati originari in forma leggibile per il computer, mentre Lisa King ha documentato e razionalizzato un complesso insieme di dati che ha reso disponi­ bile all’analisi. Senza l’aiuto di questi giovani, impegnati a pieno nella ricerca, questo libro non avrebbe mai visto la luce. Nel corso degli anni molti studiosi e collaboratori sono en­ trati e usciti dal progetto. Tra essi desidero ringraziare in parti­ colare Margherita Perretti, Rossella Ronchi, Jeffrey Ruoff, M i­ chele Zaccheo e Tom Zamora per i loro contributi essenziali. Donatella Della Porta ha gentilmente condiviso con me la sua profonda conoscenza del terrorismo ed è stata coautrice di un articolo, parte delle conclusioni del quale sono riferite nel capi­ tolo X (Della Porta e Tarrow 1986). La prima e più impegnativa parte del libro è stata redatta

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mentre ero Visiting Fellow presso PEuropean University Institute di Fiesole. I miei ringraziamenti vanno all’istituto, a Phi­ lippe Schmitter e Birgitta Nedelmann, e a Sieglinde LinfordSchreiner per il suo aiuto nelle ricerche, nonché a Henrietta Grant Peterkin per l’aiuto e i consigli mai venuti a mancare. Mentre ero in Italia ho avuto anche il vantaggio della testi­ monianza insostituibile di osservatori ed ex-partecipanti ai mo­ vimenti e ai conflitti esaminati in questo libro. Posso citare solo i nomi di Aris Accornero, Giovanni Arrighi, Ernesto Balducci, Bianca Beccalli, Luigi Bobbio, Paolo Ceccarelli, Rita di Leo, Bruno Dente, Yasmine Ergas, Sergio Gomito, Luigi Manconi, Ida Regalia, Marino Regini, Gloria Regonini, Michele Salvati, Adriano Sofri, Guido Viale e Danilo Zolo. Nessuno di essi è in alcun modo responsabile delle mie interpretazioni, ma li ringra­ zio tutti per essere stati disponibili a esaminare un momento de­ licato del loro passato a beneficio di un osservatore esterno. Durante il mio soggiorno in Italia ho anche avuto accesso alla raccolta d ’archivio della Organizzazione dei lavoratori comuni­ sti, attualmente conservata presso l’istituto Gramsci di Roma, all’archivio dell’istituto Feltrinelli di Milano, nonché all’archi­ vio della Camera del lavoro di Milano. Stefano Draghi, Renato Mannheimer e Guido Martinotti mi hanno messo a disposizione sia i loro consigli che le risorse dell’istituto superiore di Socio­ logia di Milano. Desidero ringraziare in particolare Adriano So­ fri per la sua disponibilità a riflettere su un decennio di militan­ za, dapprima in Potere operaio toscano e poi in Lotta continua. Diversi amici e colleghi hanno letto e commentato tante di quelle stesure successive che li considero praticamente dei coau­ tori. Sono Luigi Bobbio, Donatella Della Porta, Bruno Dente, Miriam Golden, Stephen Hellman, Mary Katzenstein, Peter Lange, Liborio Mattina, Alberto Melucci, Gianfranco Pasquino e Carlo Trigilia. Sono grato per tutto l’aiuto e i consigli ricevuti da questi amici e colleghi, che naturalmente non hanno colpa alcuna di qualsiasi errore d ’informazione o d ’interpretazione. Il manoscritto è stato ultimato a Cornell nel 1986-87 con l’impareggiabile aiuto di Sonia Stefanizzi, che ha iniziato come assistente ed è divenuta una collaboratrice (Stefanizzi e Tarrow 1988). Spero che il suo lavoro abbia tratto profitto da questa esperienza. Susan e Christopher Tarrow si sono sacrificati pas­ sando un anno fra le colline di Firenze, e soprattutto la prima mi è sembrata ascoltare attentamente le disquisizioni senza fine sul lavoro che stavo compiendo. Ithaca, New York, maggio 1989

DEMOCRAZIA E DISORDINE

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INTRODUZIONE

A partire dalla metà degli anni Sessanta un’ondata interna­ zionale di protesta iniziò a spazzare l’Europa occidentale, come pochi anni prima aveva fatto negli Stati Uniti. Usando mezzi d ’azione collettiva diretti, perturbativi, talvolta violenti, dei mo­ vimenti si riversarono nelle strade, nelle università e ai cancelli delle fabbriche, invocando nuovi diritti, l’accesso alle risorse e talvolta la rivoluzione. Mescolando una seria minaccia al ridicolo essi sconvolsero le istituzioni, si opposero alle élites, attaccarono le autorità in un’ondata di proteste che segnò l’inizio di un nuo­ vo ciclo di mobilitazione. In un primo momento le proteste furono accolte con sorrisi e incomprensione. Ma via via che la spontaneità giovanile cedeva il passo alla protesta organizzata e che le dimostrazioni pacifiche sfociavano in scontri con la polizia, gli intellettuali furono pronti a riesumare diagnosi del passato: «Anarchismo!» sentenziava l’u­ no; «U topia!» rispondevano gli altri. Via via che i movimenti cre­ scevano i critici vi vedevano nient’altro che violenza o utopia, e persino i simpatizzanti cominciarono a essere imbarazzati dai lo­ ro eccessi. Post coitum omne animai triste. Considerato dal punto di vista di vent’anni dopo, il decennio che va dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Set­ tanta appare in una luce più sfumata. Ci furono sì eccessi, vio­ lenza e — cosa peggiore di tutte — terrorismo armato: ma com’era avvenuto in periodi passati della politica di massa, una volta quietatosi il polverone divenne chiaro che i confini della comunità politica erano stati ampliati, un fatto questo che viene spesso dimenticato nel riflusso ideologico degli anni Ottanta. Ci furono dei cambiamenti nelle politiche pubbliche e nelle istitu­ zioni; nuovi quadri di riferimento furono introdotti in quello che Gramsci chiamava il «senso comune» delle democrazie capitali3

ste; e, cosa più importante di tutte, un numero maggiore di cit­ tadini prendeva ora parte alle decisioni che influenzavano la loro vita e nuove forme venivano aggiunte alla gamma di possibilità della partecipazione politica. Sull’onda degli anni Sessanta gli studiosi di scienze sociali, così come i politici, tentarono di capire cosa stava succedendo. Erano discordi nelle loro valutazioni. Un primo gruppo provava repulsione per il disordine e la violenza, considerava questo pe­ riodo come una pazza aberrazione della tendenza postbellica del capitalismo moderno (Crozier, Huntington e Watanuki 1975). Nei conflitti degli anni Sessanta alcuni vedevano una riproposi­ zione del modo in cui, tra le due guerre, la democrazia era stata minata, dimenticando però, come ci ricorda Przeworski (1986), che la democrazia è sempre un esito contingente del conflitto e non è mai progredita senza lotta. Un secondo gruppo di studiosi si interessò degli attori sociali coinvolti nei nuovi movimenti. Essi videro una generazione di giovani, sicuri della loro prosperità e sicurezza personale, che si ribellavano contro il materialismo dei loro genitori e l’etica dello sviluppo tipica del mondo postbellico (Feuer 1969). Ma questi osservatori studiarono gli atteggiamenti degli individui, non le loro azioni collettive e i loro fini (Inglehart 1971; 1977). Sepa­ rare l’atteggiamento personale dall’azione collettiva e dal suo obiettivo rende impossibile comprendere perché il ciclo della protesta sia iniziato proprio allora, e perché non sia continuato indefinitamente. Un terzo gruppo — i fautori della teoria cosiddetta dei «nuovi movimenti sociali»1 — sosteneva che quello proposto dai nuovi movimenti era niente di meno che un nuovo paradigma politico (Offe 1985). Erano nel giusto, ma sottolinearono tal­ mente la «novità» dei movimenti da non accorgersi di quanto stretta fosse la loro simbiosi con la politica tradizionale. I nuovi movimenti la rifiutavano basandosi su motivazioni ideologiche, ma, alla fine del ciclo, si sarebbero dimostrati radicati in essa ancor più profondamente di quanto loro stessi e i loro futuri in­ terpreti — spesso le medesime persone — avessero capito. L ’ondata di protesta iniziata alla metà degli anni Sessanta era un breve momento di scompenso dell’equilibrio politico postbel­ lico, come speravano i conservatori? Se così era i movimenti po­ 1 C i sono troppi teorici dei «nuovi movimenti sociali» per poterli citare col posto e lo spazio che meritano. Per una loro rassegna vedi l’introduzione di B. Klandermans e S. Tarrow a Klandermans, Kriesi e Tarrow (a cura di), 1988.

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tevano essere tranquillamente considerati una ribellione giova­ nile e studiati come una manifestazione di alienazione o di anomia. Era essa il prodotto di atteggiamenti individuali post-materialisti? In questo caso perché allora si è prolungata fino agli anni Ottanta? Costituiva forse una rottura permanente col pas­ sato, come credevano i teorici del «nuovo movimento sociale»? In questo caso ne sarebbe seguito un drammatico sconvolgimen­ to dell’assetto politico-economico postbellico — ma così non è stato. Oppure il ciclo non era tanto importante in se stesso quan­ to per i cambiamenti che indicava nelle società occidentali e nelle loro forme acquisite di partecipazione? Se così era, si dovrebbe analizzare l’intera struttura del conflitto, e non solo i suoi aspetti più perturbativi, le sue componenti attitudinali o le sue caratte­ ristiche nuove più evidenti. Q uest’ultima posizione è l’ipotesiguida di questo libro. Se non inseriamo i movimenti della fine degli anni Sessanta e degli inizi degli anni Settanta nei loro con­ testi sociali e politici nazionali non siamo in grado di giudicare né la loro novità né la loro ampiezza, e nemmeno il loro impatto sulla democrazia. Se non li studiamo nel loro insieme, evitando la tentazione di privilegiare questa o quella «grande lotta», rischia­ mo di esagerare sia la loro peculiarità che la loro violenza. Per finire, se non li studiamo dal loro punto di vista dinamico cor­ riamo il pericolo di dimenticare che sono stati parte di un ciclo ricorrente di mobilitazione e smobilitazione che si ripete prati­ camente in ogni generazione. Come osserva Alessandro Pizzorno, se non prestiamo attenzione alla ciclicità della protesta, «ad ogni nuovo insorgere di un’ondata di conflitto saremo indotti a ritenere d ’essere alle soglie di una rivoluzione, e quando l’ondata inizia a calare predirremo la fine del conflitto di classe» (Pizzorno 1978, p. 291). Ciò che è successo in Europa occidentale e negli Stati Uniti negli anni Sessanta e Settanta non è stata che la più recente di una sequenza di cicli di protesta che è periodicamente nata da conflitti strutturali politici di base nella società capitalista. Ben­ ché il contenuto del ciclo fosse nuovo — così come lo erano in qualche misura i suoi attori e forme d ’azione — esso ha seguito una parabola simile a quella delle precedenti ondate di mobilita­ zione. I conservatori forse lo considerarono pericoloso, ma se seguiva la logica della maggior parte dei cicli passati — dalla rot­ tura all’istituzionalizzazione, dalla lotta alla riforma — avrebbe potuto avere solo un effetto di crescita su quella democrazia che essi affermavano di voler difendere. C ’era molto di nuovo nei movimenti di quegli anni; ma la 5

carica esplosiva del ciclo non proveniva né dal suo essere nuovo né dal suo essere vecchio, quanto da combinazioni di nuovo e vecchio, di movimento e di istituzione. Nei paesi in cui la situa­ zione politica era instabile e vi erano alleati disponibili per i mo­ vimenti — come l’Italia — l’ondata di mobilitazione si è prolun­ gata; mentre là dove le coalizioni erano stabili o le élites repres­ sive, le opportunità di protesta sono rapidamente svanite e ne è seguita una smobilitazione. Il disordine nacque sì dalla struttura fondamentale di conflitto della società capitalista, ma fu attra­ verso la politica di ciascun paese ch eja forma e le dimensioni del ciclo di protesta si determinarono. E su queste premesse che si basa questo lavoro.

1. Il ciclo della protesta in Italia Date queste ipotesi, avremmo potuto procedere in svariati modi: risalendo nella storia per individuare un certo numero di diversi cicli di protesta, confrontando la forma e il contenuto del ciclo più recente in diversi paesi, o incentrandoci su un singolo paese che fosse all’interno del contesto internazionale ma mani­ festasse effetti peculiari della sua storia e della sua politica. Io ho scelto di soffermarmi sul ciclo di protesta in Italia tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta. In quegli anni nacque e si esaurì nella società italiana una lunga ondata di azione collettiva. Essa irruppe per la prima volta con violenza in Alto Adige e poi comparve in scioperi organizzati e nella contestazione universitaria per finire col diffondersi agli operai e agli studenti liceali, a Nord e a Sud, a medici e pazienti, a ferrovieri e viaggiatori, a preti e parrocchiani, a regioni e città rivali. Sfociò, nel decennio successivo, in una combinazione di violenza e istituzionalizzazione, ma solo dopo che si era raggiun­ to un culmine di mobilitazione di massa quale mai il paese aveva vissuto dai tragici anni del 1919-222. Quando i ricercatori hanno voluto assumere una data e un paese a emblema dell’Europa della fine degli anni Sessanta, si 2 II periodo 1943-48, quando il fascism o era stato sconfitto ma l’assetto po­ litico postbellico non era ancora stato attuato, rivaleggia col nostro come inten­ sità del conflitto. Tuttavia gran parte del conflitto di questo primo periodo era limitata alle fabbriche.

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sono rivolti alla Francia del maggio 19683, ma se gli eventi fran­ cesi furono spettacolari, la loro durata fu però breve e i loro ef­ fetti sociali rapidamente mutati di segno (Salvati 1981). Il ciclo italiano iniziò prima, durò più a lungo e influenzò la società e la politica più profondamente di quello francese. Questi fatti già da soli esigono che gli si presti molta più attenzione di quanta ne abbia sinora ricevuta4. Un tale esame dimostrerà che per capire la democrazia italiana contemporanea dobbiamo trascendere la visione secondo cui il periodo che va dal 1945 ad oggi non sa­ rebbe altro che un lungo «spettacolo» all’italiana5. G li studiosi della democrazia sono rimasti sempre colpiti dal­ l’apparente mancanza di stabilità della politica italiana. Ma se gli effetti del disordine sulla democrazia possono essere negativi, non dobbiamo commettere l’errore di concludere che la stabilità sia l’aspetto più importante della democrazia o che — come so­ stengono alcuni studiosi della teoria della democrazia — essa stessa sia la democrazia tout court. D ’altra parte sarebbe errato concludere «più disordine uguale più democrazia», anche se una democrazia in cui il disordine fosse impossibile non sarebbe af­ fatto una democrazia. In netto contrasto con una tradizione interpretativa consolidata, io sosterrò che nel periodo tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta la democrazia italiana non solo è so­ pravvissuta alle sue crisi, ma è emersa come una democrazia ca-l pitalista matura benché altamente conflittuale. Il ciclo di prote­ sta ha lasciato il paese con amarezze e divisioni, ma anche con un certo numero di importanti acquisizioni: alcune riforme-chiave, una gamma più ampia di strumenti di partecipazione democra- ! tica, e alcuni elementi di una nuova cultura politica. I disordini 3 In realtà, molti autori inconsciamente fanno rientrare il Sessantotto italiano negli eventi del M aggio francese. Per un esempio tipico vedi il trattamento tran­ salpino da parte di M artin Clark (1984, p. 374), il quale ha forse dimenticato che il movimento studentesco italiano aveva anticipato il M aggio francese di almeno un anno. 4 La maggior parte della letteratura esistente è costituita da ricordi personali, apologie e resoconti ideologici e organizzativi, gran parte dei quali si incentra disordinatamente sul movimento studentesco. Per quanto ne sappia io, solo uno studioso ha tentato una ricostruzione di tutto il periodo, Bob Lumley nel suo eccellente Social Movements in Italy, 1968-78, tesi di dottorato, Centre fo r Contemporary Cultural Studies, Università di Birmingham, Inghilterra, 1983. G li so­ no particolarmente grato per avermi permesso di leggerlo e di citarlo. Per una trattazione particolarmente valida del periodo più breve del 1968, vedi Ortoleva 1988. 5 Cfr. LaPalom bara 1987, cap. II.

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della fine degli anni Sessanta e degli inizi degli anni Settanta hanno generato un periodo di cambiamento politico che in ulti­ ma analisi è stato fruttuoso per la democrazia italiana, e negli anni O ttanta le ha permesso di cominciare ad affrontare il pro­ blema della riforma istituzionale. In questo libro mi porrò domande del tipo: qual è stato il ruolo delle organizzazioni rivoluzionarie dei movimenti sociali di quel periodo nel far passare l’Italia da un periodo di relativa pace sociale a uno di turbolenza generalizzata? Quali gruppi sociali hanno sostenuto i movimenti, e in che modo gli organizzatori di questi movimenti hanno cercato di attrarli a sé? Che obiettivi avevano i movimenti, e cosa erano preparati a fare per ottenerli? In che modo le loro richieste si rapportavano ai programmi po­ litici dei principali partiti ed organizzazioni sindacali? Una volta lanciata una protesta, con quale combinazione di riforma e di repressione hanno risposto le élites e le forze dell’ordine? E per finire: in che modo è terminato il ciclo? Nella violenza? N ell’i­ stituzionalizzazione? O in una combinazione simbiotica delle due? E perché i temi cruciali della riforma istituzionale non sono stati affrontati sino al decennio successivo?

2. Protesta, movimenti sociali e politica Questa nostra attenzione per la protesta solleva immediata­ mente il problema di una sua definizione. Definirò protesta l’im­ piego dell’azione collettiva disgregante, diretta contro le istitu­ zioni, le élites, le autorità pubbliche o altri gruppi a sostegno degli obiettivi collettivi dei suoi fautori o di coloro che essi af­ fermano di rappresentare. Ci sono in questa definizione cinque elementi principali. Innanzitutto le proteste sono azioni collettive dirette, non de­ legate, i cui autori rifiutano la mediazione istituzionale. Grazie al loro contenuto di audacia e al loro ‘effetto-sorpresa’ , esse creano incertezza tra gli interlocutori riguardo ai limiti fin dove sono disposti ad arrivare coloro che protestano, e permettono loro di superare almeno temporaneamente la debolezza e la mancanza d ’organizzazione abituali. In secondo luogo le proteste mirano prevalentemente a per­ turbare, e non specificamente alla violenza. Benché la violenza sia la forma estrema di protesta, coloro che protestano cercano più spesso di sconvolgere i processi economici, l’attività gover­

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nativa e il normale svolgimento della vita di ogni giorno che non a uccidere o a distruggere beni materiali (Eisinger 1973). In terzo luogo le proteste sono espressive. Con questo non intendo dire che non possano avanzare richieste strumentali, ma solo che per attirare l’attenzione e ottenere solidarietà le loro richieste sono spesso espresse in termini simbolicamente caricati e non negoziabili (Pizzorno 1978). In quarto luogo, per quanto siano espressive, le proteste com­ portano delle richieste che coinvolgono altri gruppi o alcune élites politiche o economiche. Queste richieste possono essere concrete 0 simboliche, ma trasmettono una domanda di cambiamento di status, e spesso il desiderio di guadagnarsi un posto nella comu­ nità politica. In quinto luogo, benché ricorrano ad azioni non convenzio­ nali secondo modalità espressive, coloro che protestano effettua­ no scelte strategiche riguardo ai tempi, agli obiettivi e ai fini. C o­ me nelle decisioni politiche ed economiche, anche la decisione di partecipare all’azione collettiva è il risultato di un intergioco di incentivi, probabili rischi e costi percepiti. In altri termini io considero la protesta non un’azione di mas­ sa incontrollata, ma una forma di espressione politica che è l’e­ sito di un calcolo dei rischi, dei costi e degli incentivi. I gruppi protestano o quando non sono disponibili altri modi di esprimere 1 loro interessi o i loro valori, o quando gli incentivi alla protesta sembrano pesare più dei costi e dei rischi. Segue da questi pre­ supposti che la probabilità che i gruppi ricorrano a un’azione col­ lettiva varia non solo in funzione di quanto sono avvertite le loro domande, ma anche a seguito della disponibilità di mezzi d ’e­ spressione alternativi, dei costi e dei rischi percepiti dell’azione collettiva e della presenza o assenza di eventuali organizzatori. Di consenguenza la protesta può crescere anche quando le do­ mande rimangono immutate.

Il settore dei movimenti sociali Quali gruppi ricorrono alla protesta? Sono soltanto dei mo­ vimenti sociali organizzati? Sono gruppi anomici o ad hoc? Sono normali associazioni d ’interesse prese da una febbre tempora­ nea? O tutte e tre queste cose? Io sosterrò che la caratteristica distintiva di un ciclo di protesta è l’allargamento del settore dei movimenti sociali così da includervi quei gruppi che normalmente non ricorrerebbero a un’azione collettiva al di fuori di un ambito convenzionale. 9

La protesta è stata frequentemente associata solo alle azioni dei movimenti sociali, che sono state definite in molti modi, ma che noi con Tilly intenderemo come «una sfida organizzata, con­ tinuata e consapevole alle autorità esistenti». Una classe speciale di questi movimenti, che Tilly chiama movimenti sociali nazio­ nali, è quella in cui «coloro che lanciano le sfide sono in conflitto con chi guida gli stati nazionali» (1984, p. 304). All’interno di questi movimenti si costituiscono delle organizzazioni che cer­ cano di rappresentare, guidare e dare nuova forma al movimen­ to, spesso in competizione reciproca per avere il suo sostegno. La protesta ha una funzione particolare per le organizzazioni di movimento, perché sopperisce alla loro mancanza di «incentivi selettivi» (Olson 1968). Ài movimenti mancano l’organizzazione e le risorse convenzionali con le quali attrarre e mantenere a sé i sostenitori. Avanzando alle élìtes o alle autorità delle richieste molto visibili, eclatanti e spesso irrealistiche, essi non solo at­ traggono e influenzano nuovi sostenitori, ma rafforzano anche la solidarietà dei vecchi, conquistandosi l’attenzione sia dei nemici sia degli alleati. Per i movimenti, l’azione collettiva è una risorsa utilizzabile in sostituzione degli incentivi accessibili a gruppi più convenzionali (Lipsky 1968). Ne segue che quando perdono il sostegno, essi possono o cercare di protestare in modo più radi­ cale o cercare di assumere il controllo di incentivi selettivi. Questa caratteristica delle organizzazioni dei movimenti ri­ guardo alla protesta comporta il fatto che per quanto la protesta si incentri sugli interessi e sui valori dei gruppi sociali, non ci si può aspettare che sparisca in funzione diretta della soddisfazione dei loro interessi. Per una organizzazione di movimento — in particolare nella sua fase di formazione — le funzioni della pro­ testa vanno oltre l’ottenimento delle richieste dei sostenitori (Pizzorno 1978). Tali organizzazioni spesso continuano a prote­ stare molto tempo dopo che i temi politici originari sono scom­ parsi dal loro programma, perseguendo obiettivi che potrebbero essere considerati irrazionali se l’unico scopo dei gruppi fosse il loro raggiungimento. Così, dopo aver avuto avvio dagli interessi concreti degli attori sociali, un ciclo di protesta genera delle or­ ganizzazioni di movimento che lo sospingono avanti anche quan­ do questi interessi sono stati soddisfatti, eliminati, o sono dive­ nuti irrilevanti. Benché i movimenti spesso ricorrano alla protesta per otte­ nere dei vantaggi, questi vantaggi per le organizzazioni dei mo­ vimenti non vanno visti in termini strettamente economici, quanto strumentali ai loro più ampi interessi, che sono quelli di

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consolidarsi, di mantenere la loro coesione interna e reputazione esterna, di distinguersi da nemici e concorrenti. Ecco perché non possiamo sperare di capire i movimenti sociali come semplici ag­ gregati dei desideri dei singoli di ottenere benefici economici «razionali»6. Un ciclo di protesta iniziato attraverso le richieste concrete degli attori sociali stimola la formazione e la trasforma­ zione di organizzazioni di movimento che lo portano avanti an­ che dopo che queste richieste sono state accettate, ignorate e rese irrilevanti.

Movimenti e altri gruppi Malgrado siano gli attori più centrali e visibili delle ondate di protesta, i movimenti organizzati non monopolizzano l’azione collettiva durante queste fasi. Da una parte, infatti, nascono for­ me spontanee di azione collettiva che trovano una piattaforma per le proprie domande nell’organizzazione della vita quotidia­ na; dall’altra, in particolare quando il disordine è generale, i gruppi d ’interesse, i partiti politici e le istituzioni utilizzano la protesta per ottenere il soddisfacimento delle richieste dei loro aderenti. Benché in periodi più tranquilli operino all’interno del­ le istituzioni, durante le ondate di protesta questi gruppi com­ petono coi movimenti convenzionali adottando, sebbene in for­ ma più convenzionale, tattiche non convenzionali. Sofferman­ dosi unicamente sulle azioni dei movimenti organizzati, molti studiosi non colgono il ruolo importante che ricopre, nel raffor­ zare un ciclo di protesta, l’azione collettiva, sia spontanea sia istituzionalizzata.

Movimenti e competizione politica Il fatto che abbiamo incluso nel nostro studio le assemblee ad hoc, i gruppi d ’interesse e i gruppi istituzionali fa capire che par­ leremo di un ciclo di protesta che è, al tempo stesso, interiormen­ te differenziato e politicamente competitivo. Queste caratteristiche 6 Un buon esempio dei rischi di una concezione strettamente economica della partecipazione è in Olson (1968), il quale ha sottolineato la difficoltà di stimolare la partecipazione di gruppo proprio nel momento in cui il mondo occidentale stava vivendo un’esplosione di partecipazione. Vedi la stimolante critica in Hirschman 1982.

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del settore dei movimenti sociali aiutano a spiegare le dinamiche del ciclo. Infatti la presenza di un pubblico di massa disponibile alla mobilitazione, la competizione per avere il suo sostegno en­ tro i movimenti organizzati e tra essi e i gruppi d ’interesse e i partiti costituiti, porta svariati gruppi e partiti ad adottare forme diverse di interazione con le élites e le autorità. Mentre alcuni adottano le strategie più radicali, altri puntano a uno status più istituzionale, all’interno del quale cercano di ottenere il controllo di risorse da mettere a disposizione dei loro sostenitori. Le élites possono incoraggiare e sfruttare queste diversità, nonché acuirle attraverso una repressione e una facilitazione d if­ ferenziali. La repressione costringe alcuni gruppi alla clandesti7 nità, dove l’unica tattica che rimane è la violenza, mentre altri sono indotti ad abbandonare l’attività del movimento sociale. Quando la strategia dello Stato è intelligente e differenziata, le dinamiche del ciclo vengono disinnescate attraverso un equili­ brio tra lo Stato e il sempre più conflittuale settore dei movi­ menti sociali.

Il repertorio di possibilità dell’azione collettiva Questa differenziazione interna e competizione all’interno del settore del movimento sociale può essere vista nel modo mi­ gliore attraverso l’evoluzione delle forme di azione collettiva cui si ricorre in fasi diverse del ciclo. Scrive Charles Tilly (1978, p. 151): In un qualsiasi momento il repertorio di possibilità delle azioni col­ lettive disponibili a una popolazione è sorprendentemente limitato, se si considerano gli innumerevoli modi in cui la gente potrebbe, in teoria, utilizzare le proprie risorse nel perseguimento di obiettivi comuni, e dati i molti modi in cui in un’epoca storica o in un’altra i gruppi hanno per­ seguito i loro scopi comuni.

Nel corso dei secoli il repertorio dell’azione collettiva cambia molto lentamente, perché è limitato sia dal ritmo del cambia­ mento strutturale (per esempio, capitalismo, sviluppo dello Sta­ to) sia dalle aspettative circa le forme legittime d ’azione. Questo repertorio rientra nel ben noto scenario d ’azione che conduce alla violenza e alla detenzione, ma le cui regole sono note a tutti. Una data forma d ’azione collettiva è non solo ciò che i gruppi fanno quando sono coinvolti nel conflitto: è anche ciò che una 12

società è giunta ad aspettarsi che facciano all’interno di un insie­ me di opzioni culturalmente sanzionato e limitato7. M a un ciclo di protesta costituisce un’eccezione importante al ritmo lentissimo col quale evolve il repertorio di forme di azio­ ne collettiva. All’interno di questi cicli nuove forme di azione collettiva si succedono con rapidità. I gruppi adottano nuove for­ me d ’azione e le combinano con le vecchie, forme espressive si mescolano a forme strumentali, nuovi attori entrano in scena e altri adottano le loro forme d ’azione più suscettibili di successo. I cicli di protesta sono il crogiolo entro il quale si altera il reper­ torio delle possibilità dell’azione collettiva. Nel corso di un ciclo le forme di azione collettiva cambiano via via che gruppi diversi, con risorse e tradizioni diverse, en­ trano nel gioco, e via via che la capacità di perturbazione delle forme ereditate di azione collettiva svanisce. Le forme di azione collettiva sono anche influenzate dalle dimensioni e dalla com­ petitività all’interno del settore dei movimenti sociali. Via via che appaiono nuovi gruppi che esigono il sostegno delle masse, infatti, la competizione interna porta alcuni ad adottare forme di azione sempre più radicali, mentre altri si dirigono verso le isti­ tuzioni per accedere alle risorse. Vedremo più avanti in che mo­ do questa spirale di differenziazione tattica sia legata alla dina­ mica del ciclo. La competitività all’interno del settore dei movimenti — fra destra e sinistra, e fra partiti, sindacati e mo­ vimenti — è una ragione chiave dell’intensità del ciclo in Italia.

3. I cicli di protesta Osserva Peter Gourevitch (1986, p. 9) a proposito dei cicli economici: Sette anni di vacche grasse, sette di vacche magre — il racconto biblico esprime il concetto di ciclo economico [...] Il sogno del faraone può essere inesatto riguardo alla lunghezza di ciascuna fase particolare, ma col concetto di ciclo esso coglie un aspetto importante della realtà.

7 Come scrive Stinchcombe (1987, p. 1248), «gli elementi del repertorio d ’a­ zione collettiva sono dati [...] simultaneamente dalle capacità dei membri della popolazione e dalle forme culturali della popolazione».

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I cicli economici sono di lunghezza irregolare, non sono pre­ vedibili nelle origini e sono variabili di forma. Ricorrono abba­ stanza spesso e hanno dato origine a una letteratura sufficentemente vasta da averli resi un tema centrale della teoria econo­ mica. Non altrettanto può dirsi per i cicli politici. Lungo tutto l’arco della storia vi sono state delle variazioni regolari nei fenomeni politici: la nascita e la caduta di imperi, i cicli di riforma, le elezioni critiche, i cicli di impegno politico. Tuttavia lo studio dei cicli politici raramente è andato oltre le classificazioni o le indagini più generiche sulle loro cause. Ciò che deve ancora essere spiegato non sono le cause che periodi­ camente spingono i cittadini ad avanzare richieste dandosi a scio­ peri, dimostrazioni, tumulti, saccheggi e incendi, quanto il per­ ché lo facciano in particolari momenti della storia, magari attenendosi a una qualche sequenza logica. La gente si riversa nelle strade e protesta in risposta a do­ mande e opportunità profondamente sentite, ma questo genera un ciclo solo quando i conflitti strutturali sono sia profondi che visibili, e quando il sistema politico lascia spazio alle possibilità di una protesta di massa. I cicli iniziano all’interno delle istitu­ zioni attraverso forme organizzate di azione collettiva. Da lì pas­ sano a un «momento di follia», o di rottura (Zolberg 1972). E quest’ultimo, con il culmine di mobilitazione che esso genera, a fornire i modelli dell’azione collettiva, le persone, i temi e le nuo­ ve strutture interpretative che danno nuova energia alle forme convenzionali di azione collettiva. Via via che nuovi gruppi si mobilitano e i movimenti organizzati cercano di attrarli a sé, la competizione porta a una radicalizzazione dell’azione collettiva. Essa fa in modo che a richieste più specifiche si sostituiscano programmi più generali, conducendo a una maggiore ideologizzazione e al ricorso alla violenza. Il risultato è che molti partecipanti rifiutano l’azione collettiva e tornano a rifugiarsi nel privato mentre altri cercano dei ruoli all’interno delle istituzioni, e una piccola minoranza elabora forme d ’azione violenta che accrescono il ricorso alla repressione da parte dello Stato e il rifiuto dell’azione collettiva da parte del pubblico. Il ciclo termina dunque per via della sua dinamica politica interna, e non perché i problemi economici siano risolti, o perché il coinvolgimento «privato» sostituisca quello pubblico nelle preoccupazioni dei gruppi (Hirschman 1982). 14

La struttura delle possibilità politiche Questo approccio porta la nostra attenzione sulle condizioni politiche nelle quali il ciclo inizia, si evolve e termina, perché è a seguito di queste condizioni che la protesta diventa plausibile e può diffondersi dalle sue sedi originarie ad altri settori della so­ cietà. Tra queste condizioni possono esservi: la divisione tra le élites, la parziale apertura all’accesso di gruppi prima marginali, la comparsa di nuovi gruppi sociali con nuove risorse e la diffu­ sione di nuove strutture interpretative all’interno della società8. I cambiamenti nella struttura delle possibilità politiche for­ niscono ai gruppi delle risorse che accrescono l’efficacia della lo­ ro protesta — per esempio una stampa che li guardi con favore o dei partiti politici che cerchino un vantaggio elettorale — oppure ancora i «costituenti della coscienza» (McCarthy e Zald 1977). Inoltre spingono a protestare alcuni gruppi non rappresentati, inducendoli a credere che i costi della protesta siano abbassati — come quando un partito politico che li vede con favore entra in una coalizione governativa e afferma di non essere disposto a dare sostegno alla repressione. Per finire, questi cambiamenti aiutano i ceti popolari a individuare i punti di vulnerabilità del sistema, permettendo loro di superare la propria mancanza d ’u­ nità e d ’informazione. Una struttura aperta delle possibilità politiche contribuisce a dare il via a un periodo di protesta, ma non rimane immutata durante il suo svolgimento. Da una parte i «primi arrivati» del ciclo di protesta — se hanno successo — forniscono dei modelli d ’azione e una prova della vulnerabilità delle élites, tali da indur­ re dall’altra nuovi attori a entrare nel settore e alcuni apparte­ nenti all’arena politica a offrirsi come alleati; ma dall’altra il suc­ cesso di chi protesta può far scattare delle reazioni i cui effetti sbarrano la strada alle possibilità politiche. Si verifica una con­ tromobilitazione, vi è una reazione di rigetto nell’opinione pub­ blica, le forze dell’ordine si ricompattano adattandosi alle nuove sfide. In alcuni casi — come in Italia — nasce un movimento di segno opposto che sfida fisicamente il movimento, radicalizzando il conflitto e accelerando il calo della partecipazione di massa. Nel caso dellTtalia studiare la struttura delle opportunità po­ litiche significa esaminare il sistema dei partiti, in seno al quale 8 Per delle tipologie e analisi più dettagliate della struttura delle possibilità politiche vedi Eisinger 1973, McÀdam 1982, Kitschelt 1985 e Tarrow 1983.

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sono maturate molte delle tendenze responsabili del ciclo, non­ ché il riallineamento politico confuso, contraddittorio e incerto della metà degli anni Sessanta. E ormai di moda considerare un fallimento il centro-sinistra degli anni Sessanta; io sosterrò inve­ ce che esso ha generato molti dei temi, alcuni dei leader e tutte le opportunità politiche all’interno delle quali sono maturati i movimenti di protesta. I nuovi movimenti degli anni Sessanta e Settanta sono dipesi per molti versi dalle opportunità politiche create dal periodo del centro-sinistra: dallo sconvolgimento del sistema dei partiti da esso prodotto, dagli alleati di percorso al­ l’interno della classe politica, nonché dalla combinazione tra le nuove proposte politiche e la totale incapacità di elaborarle mo­ strata dai governi di centro-sinistra. Tuttavia non è avvenuto solo che il sistema di partiti abbia fornito delle opportunità politiche ai movimenti di protesta, ma anche il contrario: i partiti e i gruppi d ’interesse hanno anche utilizzato le opportunità politiche presentate dal ciclo di prote­ sta. La presenza di una base di massa attiva e pronta a mobilitarsi per un’azione collettiva perturbativa, infatti, costituendo per la classe politica una minaccia, le ha dato l’incentivo a portare avanti delle riforme che altrimenti avrebbero potuto essere bloc­ cate, e può aver contribuito a evitare quell’involuzione reazio­ naria che alcuni all’epoca ritenevano possibile. Le opportunità politiche create dai movimenti non si limita­ rono però ai partiti della sinistra e ai sindacati confederali; agli inizi degli anni Settanta vi furono sia un rafforzamento dei co­ siddetti sindacati autonomi che un rigurgito della destra. Il pri­ mo doveva molto alla conflittualità creata dai movimenti e il se­ condo dipendeva dal backlash generato dall’apparente incontrol­ labilità del settore dei movimenti sociali. Questa minaccia a sua volta è stata una delle ragioni del coagularsi della sinistra istitu­ zionale intorno a un progetto di «solidarietà nazionale». Fu pro­ prio il fatto che nel 1976 il principale partito d ’opposizione di sinistra si fosse inserito nel sistema ad aprire il periodo più di­ sperato del terrorismo organizzato. Le opportunità politiche hanno contribuito anche a chiudere il ciclo: quando esso è terminato, infatti, invece di portare a un nuovo paradigma politico, come alcuni teorici avevano pronosti­ cato, alcuni movimenti hanno generato sette e bande terroristiche, altri si sono evoluti in partiti o gruppi d ’interesse, e un gran numero di persone che erano state accolte nei movimenti sono passate nel sistema dei partiti esistente. Via via che la mobilita­ zione è andata calando le élites hanno riaffermato la propria au­ 16

torità attraverso una combinazione di riallineamenti, repressione e riforme. Quello che era iniziato come un movimento contro la politica è terminato dentro la politica: il ciclo di protesta ha for­ nito la materia prima di una nuova fase di sviluppo politico.

Le dinamiche del ciclo Riassumendo quanto detto sinora, il ciclo di protesta può es­ sere visto come una serie di decisioni, individuali e di gruppo, volte a intraprendere un’azione collettiva nel contesto di alcuni fattori sistemici generali, benché non uniformemente vissuti, che danno il via al ciclo e contribuiscono a mantenerlo in vita. Come nel ciclo economico, in quello politico i fattori originari che danno vita alla protesta sono strutturali, ma non sono in gra­ do di spiegare direttamente tutte le azioni che si verificano du­ rante il suo corso. Una volta che il ciclo è iniziato, le azioni di alcuni gruppi fanno scattare le reazioni degli «ultimi arrivati», reazioni che possono essere indipendenti dai fattori strutturali che hanno spinto i «primi arrivati». Consideriamo come esempio una depressione. I fattori gene­ rali che le danno inizio e la prolungano sono sia strutturali (per esempio iperproduzione, tassi e margini d ’interesse che induco­ no al rischio) che situazionali (per esempio il clima del mondo degli affari). E ssa inizia quando singoli gruppi — spesso in ri­ sposta a un fattore di scontento improvvisamente comparso qua­ le un crollo della Borsa — perdono fiducia nel mercato, è poi ampliata dalle reazioni all’impatto di questi effetti — per esem­ pio dall’imitazione (quando inizia la corsa agli sportelli delle ban­ che) o dalla reazione (quando queste paure portano alla preclu­ sione del diritto di riscatto delle ipoteche) — e ha termine quando il governo e altri gruppi di potere intraprendono un’a­ zione per invertire il ciclo, e i gruppi reagiscono tornando agli abituali comportamenti economici o inventandone di nuovi. La dinamica di un ciclo di protesta può essere vista allo stesso modo, con l’eccezione che ciò che fa progredire un ciclo di pro­ testa è la decisione di alcuni gruppi eli intraprendere azioni col­ lettive contro le élites, altri gruppi o le autorità pubbliche. I cicli di protesta sono anche simili ai cicli economici nel senso che le organizzazioni crescono in risposta a un aumento delle richieste dei gruppi. Questi gruppi possono essere nuovi o vecchi. Essi competono per il sostegno dei gruppi con diverse combinazioni di programmi e forme d ’azione. 17

Se è un aumento delle richieste a portare alla formazione di nuovi movimenti organizzati e a indurre i vecchi a entrare nel settore dei movimenti, cosa porta al progressivo esaurirsi del ci­ clo? Non è possibile una risposta in astratto; tuttavia gli elementi sinora addotti ci forniscono le basi per una spiegazione. Proprio come è stata la mobilitazione popolare ad aver inizialmente in­ dotto i gruppi a protestare e ad aver portato i movimenti orga­ nizzati a coagulare le loro richieste, allo stesso modo è la smobi­ litazione — prodotta dalla stanchezza, dalla repressione e dalla riforma — a portare alla fine del ciclo. I gruppi cessano l’azione collettiva perturbativa quando le loro richieste immediate sono soddisfatte, quando si stancano dei rischi e dei costi sostenuti e quando diventa troppo pericoloso riversarsi nelle strade. Le ragioni di quest’ultimo aspetto sono l’elemento più con­ troverso del ciclo. Esso dipende in parte dal fatto che la polizia diventa più aggressiva via via che le pressioni politiche le hanno addossato l’onere di porre fine ai disordini, ma anche dal fatto che, cercando di ottenere sostegno, i movimenti organizzati si superano e attaccano reciprocamente con mezzi sempre più ra­ dicali. Proprio come, al culmine di un ciclo economico, la gente continua a investire e a costituire nuove società in un momento in cui la domanda è in calo, allo stesso modo in una certa fase del ciclo di protesta continuano a costituirsi nuovi movimenti orga­ nizzati anche se la partecipazione è in declino. Il risultato è che vi è un numero sempre maggiore di movimenti organizzati in competizione per ottenere l’adesione di una base sempre più ri­ stretta di sostenitori potenziali. Questa ricerca di adesione av­ viene ricorrendo a una retorica e a forme d ’azione collettiva sem­ pre più radicali. L ’esito finale è la violenza, che porta molti ad abbandonare l’attività del movimento, e di conseguenza al ter­ mine del ciclo.

4. Metodi e obiettivi La strategia della ricerca or ora riferita sarebbe quella di stu­ diare empiricamente le azioni collettive di chi effettua una pro­ testa e le loro interazioni con altri soggetti e con le autorità pub­ bliche, lungo un certo arco di tempo, per vedere in che misura la forza e le forme osservate del conflitto sociale e politico coinci­ dano con questo modello basato sulla partecipazione, i movimen­ ti organizzati, la competizione, la violenza e il progressivo calo 18

del ciclo. Come far questo effettivamente è tutt’altro problema. Alla fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti un certo nu­ mero di studi quantitativi dell’azione collettiva furono stimolati dalla guerra del Vietnam e dalle manifestazioni di violenza nei ghetti neri. Questi studi cessarono di apparire poco dopo la fine degli anni Sessanta, in parte perché gli americani, come gli ita­ liani un decennio più tardi, ne avevano avuto abbastanza dei di­ sordini, ma anche perché la maggior parte delle ricerche studiava la violenza utilizzando statistiche governative che vedevano ben poco al di là di essa; si prestava così poca attenzione a gran parte delle proteste non-violente o ai processi di mobilitazione e smo­ bilitazione. Due importanti eccezioni furono la ricostruzione storica a lungo termine del conflitto sociale americano da parte di William Gamson (1975) e l’opera di Charles Tilly e dei suoi collaboratori in Francia e Inghilterra9. Entrambi questi studiosi hanno elabo­ rato un’ampia concezione dell’azione collettiva nella quale la vio­ lenza rappresentava una variabile e gli interessi di gruppo erano centrali: intorno allo studio dei «gruppi sfidanti» nel caso di Gamson e del «contendere» nel lessico di Tilly. Attraverso l’a­ nalisi dei giornali e delle fonti documentarie entrambi sono riu­ sciti a collegare i resoconti dell’azione collettiva dei movimenti alle reazioni delle élites, degli oppositori e dei gruppi alleati lungo un certo arco di tempo. Quali che fossero i vantaggi e gli svantaggi di questi approcci, in Italia essi sono penetrati lentamente nelle scienze sociali, men­ tre i movimenti continuano a essere ampiamente studiati attra­ verso i loro documenti, le loro affermazioni ideologiche e le de­ cisioni strategiche dei loro leader (per delle eccezioni importanti si vedano le opere di Alberoni, Della Porta, e soprattutto di Melucci citate nella bibliografia). Questo libro cercherà di correg­ gere questo squilibrio incentrandosi prevalentemente sulla nasci­ ta e sulla caduta, sulla diffusione e la composizione della mobi­ 9 Voglio segnalare il mio debito a Tilly, il cui contributo a questo studio è stato personale oltre che professionale. Tra i suoi contributi alla teoria e all’ana­ lisi dell’azione collettiva i più importanti sono probabilmente il suo lavoro sulla Vandea (1964), il suo commento sul contributo dello studio dell’azione collettiva europea allo studio della violenza americana (1969), l’analisi sua e di Edward Shorter degli scioperi francesi (Shorter e Tilly 1974), il quadro teorico che egli ha elaborato per lo studio dell’azione collettiva (1978) e la sua recente ricostruzione della storia dell’azione collettiva in Francia (1986a). La sua opera sull’Inghilterra è tuttora in corso (ma vedi Tilly 1978 e 1986é, per delle anticipazioni della sua ricerca).

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litazione di massa, collegandola alle strategie dei movimenti e delle organizzazioni che affermano di guidarli. A questo fine opererò in molti modi. Utilizzando alcune fonti giornalistiche, come fa Tilly, studierò sia gli aspetti qualitativi che quantitativi di un gran numero di proteste lungo un certo arco di tempo. Come Gamson mi soffermerò sugli esiti della pro­ testa, ma nel quadro di un periodo storico molto più breve. I dati provenienti dai giornali saranno integrati da informazioni tratte da resoconti ufficiali, da fonti documentarie e da colloqui per­ sonali su movimenti particolari. Ci sono molte cose che uno studio della protesta effettuato in questo modo non è in grado di mettere in luce. Per esempio, esso può solo permettere delle inferenze a distanza sulle ideologie e gli obiettivi profondamente sentiti dei leader e dei loro seguaci, ma non può analizzare quelle azioni che hanno luogo nel privato, lontano dalla pubblica attenzione, benché il loro effetto sul lungo periodo possa essere im portante10. Né questo approccio è in gra­ do di penetrare nei calcoli strategici, nei processi intergruppo o nelle strutture delle organizzazioni o delle reti del movimento sociale11. Queste obiezioni dovrebbero fungere da caveat importanti, ma non vanno sopravvalutate. Il compito di studiare i movimenti sociali attraverso la registrazione pubblica delle loro azioni è dif­ ficile ma non impossibile, se non altro perché sia le organizza­ zioni che le ideologie dei movimenti possono essere colte attra­ verso le azioni di persone che agiscono collettivamente nel perseguimento dei loro interessi. Individueremo gli attori attra­ verso i resoconti delle loro azioni e richieste; utilizzando fonti complementari possiamo sia individuare le organizzazioni coin­ volte, sia scoprire qualcosa sui loro rapporti; collegando tra loro gli episodi di protesta nello spazio e nel tempo possiamo ipotiz­ zare la loro dinamica di fondo e il modo in cui si rapportano sia ai fattori strutturali che a quelli congiunturali. Poiché quello che ci interessa è l’azione collettiva svolta pub­ 10 Viene da pensare, per esempio, al movimento femminile, per il quale «il personale è politico». 11 Melucci (1988) ha criticato questa metodologia sulla base che «ciò che vie­ ne osservato (utilizzando queste tecniche) è in realtà il prodotto dei rapporti e significati che costituiscono la struttura dell’azione. L ’episodio di protesta è il risultato oggettivato [...] di un intreccio di significati e rapporti, di un processo costruzionale che è la base dell’azione». Melucci forse sottovaluta l’importanza dei «risultati oggettivati» per i rapporti di potere tra gruppi e nell’influenzare le reazioni dello Stato.

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blicamente, i resoconti dei giornali sono una fonte di dati quasi obbligata. Agli scettici questo può far pensare aU’immagine di un meccanico conteggio di elementi d ’informazione privi di alcun significato. M a oggi l’analisi del contenuto dei documenti gior­ nalistici è andata molto oltre le sue origini, oltre il semplice con­ teggio degli scioperi, dei disordini e delle dimostrazioni. Abbia­ mo fatto ricorso a nuove tecniche di registrazione e recupero interattivo dei dati, che ci rendono possibile l’utilizzo del com­ puter per un’analisi non solo quantitativa ma anche testuale12. La tecnica fondamentale consiste nella registrazione nei files del computer delle descrizioni narrative accompagnate da indici numerici più convenzionali, e nell’utilizzare questi indici nume­ rici per recuperare delle registrazioni testuali dai vari files per un’analisi più qualitativa. In una permutazione ulteriore, l’infor­ mazione testuale può essere poi codificata e riportata ai files in forma quantitativa per un’analisi statistica. In questo modo lo studioso non è costretto a pre-codificare e pre-digerire delle in­ formazioni qualitative prima di saperne abbastanza per analiz­ zarle con le capacità di cui è eventualmente dotato. In questo studio i dati giornalistici sono tratti prevalentemente dal giornale nazionale di maggiore circolazione di quell’epoca, il «Corriere della Sera», nel periodo dal 1° gennaio 1966 al 31 dicembre 1973. Ulteriori informazioni sono state raccolte da giornali locali quale «La Nazione» di Firenze, nonché da giornali dei movimen­ ti, quali «Lotta continua». In questo modo sono state registrate dettagliate informazioni su 4.980 episodi di protesta. I critici lamenteranno che il «Corriere della Sera» è un brac­ cio dell’establishment. Questa osservazione è giusta, ma offre an­ che una spiegazione dell’utilità di questo giornale. Dato infatti che noi ipotizziamo che la risposta alla protesta da parte delle élites e delle autorità pubbliche sia condizionata dalle proteste precedenti, quale strumento migliore potremmo desiderare del giornale che esse leggono? Altri studiosi che hanno utilizzato il «Corriere» come fonte di dati riferiscono che esso si è occupato 12 Per una descrizione di come Tilly ha utilizzato la registrazione e il recupero interattivo dei dati utilizzati in questo modo, vedi Schweitzer e Simmons (1981), e Tilly (1986a e b). Per le procedure da me utilizzate per raccogliere i dati per questo studio vedi Social Protest and Policy Innovation Study, Project Manuals (Ithaca, New York, disponibile su richiesta). Un facsimile del protocollo e un riassunto dei metodi può essere trovato in Sidney Tarrow, Democracy and Disorder, O xford University Press, O xford 1989, Appendici A e B. Per un’attenta valutazione dei rischi e dei vantaggi di utilizzare dei files contenenti episodi tratti dai giornali vedi Franzosi 1987a e b.

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della stragrande maggioranza dei conflitti rinvenibili anche in un campione di altri giornali nazionali13. D ’altra parte, il «Cor­ riere», come tutti gli altri giornali, è molto meno adeguato come fonte d ’informazione sugli eventi locali, con l’eccezione della Lombardia, per la quale è stato creato un subfile distinto relativo ai conflitti locali. Questo non significa che il «Corriere della Sera» dia un re­ soconto perfetto dell’azione collettiva. Molte proteste sono pas­ sate inosservate, e l’importanza di altre è stata distorta. In par­ ticolare non possiamo aspettarci da esso un resoconto fedele di chi «ha cominciato per primo» nei frequenti scontri tra movi­ menti e forze dell’ordine, né cercheremo di farlo. Il «Corriere» è stato scelto come nostra fonte giornalistica principale per quattro ragioni. Innanzitutto è il più vecchio giornale nazionale nel paese ed ha l’ambizione di essere un giornale che fa testo. In secondo luogo, benché sia politicamente moderato, non è controllato da nessun singolo partito o movimento. In terzo luogo, dato che esce a Milano, era vicino al cuore della protesta, sia nell’industria che in generale. In quarto luogo, essendo letto nei circoli econo­ mici dell’Italia settentrionale, contiene molte notizie sul conflit­ to nell’industria. Altri studiosi, quali Roberto Franzosi, stanno elaborando un’analisi più sofisticata dal punto di vista metodologico della stampa italiana per studiare l’azione collettiva, gli scioperi e la protesta14. Io mi propongo di utilizzare la stampa quotidiana non come fonte esaustiva di tutto ciò che è successo, ma come quadro ¡enerale all’interno del quale analizzare le forme dell’azione colettiva, i movimenti che ne sono emersi e i leader che li hanno utilizzati per organizzare i sostenitori e raggiungere i loro obiet­ tivi. I resoconti dei giornali sono il punto di partenza di questa analisi, più che il suo culmine. Nel corso dello studio, essi saran­ no affiancati dai documenti dei movimenti, da dati statistici non­ ché da quanto emerso da colloqui con osservatori ed ex-parteci­ panti, che mostreranno come il ciclo di protesta si sia sviluppato

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13 In una comunicazione personale all’autore Alessandro Silj riferisce che in una verifica da lui effettuata su quattro principali giornali nazionali, oltre il 90 per cento degli episodi di violenza riportati in uno qualsiasi di essi era riportato anche nel «Corriere». Sono grato a Silj per questa informazione. 14 Franzosi ha in corso una dettagliata ricostruzione delle ondate di scioperi del periodo postbellico in Italia tratta da fonti giornalistiche. Per delle descri­ zioni della sua metodologia, vedi Franzosi (1987a e b).

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a partire dalle richieste di gruppi all’interno delle istituzioni, co­ me abbia dato vita a movimenti organizzati e come — attraverso un processo di differenziazione interna, di competizione e di al­ leanze — vi sia ritornato.

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5 Piano dell’opera Il libro parte dai livelli dell’azione collettiva, dei movimenti sociali e delle organizzazioni di movimento generali, per arrivare a quelli più specifici. Al livello più generale tratta delle forme, degli attori e delle richieste nell’azione collettiva in Italia in quel periodo. All’interno di questa vasta area vengono analizzati tre dei principali movimenti sociali, e all’interno di questi movimen­ ti sono analizzati il ruolo e le strategie di svariate organizzazioni di movimento. Nei capitoli dal II al V analizzo l’azione collettiva a livello più ampio. Nel capitolo II mi soffermo sugli sviluppi economici e politici dei primi anni Sessanta e sulla struttura delle opportunità politiche da essi generata. Nel capitolo III mostro come l’ascesa e la caduta di forme diverse di azione collettiva si conformino al modello di un ciclo di protesta. Nel capitolo IV passo in rassegna sia la successione dei gruppi sociali che sono ricorsi all’azione collettiva sia i loro principali oppositori. Nel capitolo V mi sof­ fermo su conflitti, richieste e ideologie di vario genere e metto in luce le due principali strutture interpretative che hanno contri­ buito a diffondere le proteste del periodo — l’operaismo e l’idea dell’autonomia. Nei capitoli VI-VIII esamino tre dei principali movimenti na­ ti durante quel periodo. Nel capitolo VI parlo degli studenti uni­ versitari e degli effetti della loro rivolta nel far scattare quello che chiamo il culmine intensivo della mobilitazione. Il capitolo VII si sofferma sui lavoratori dell’industria, in rapporto sia ai sindacati che alla nuova sinistra. Il capitolo V ili illustra quanto fosse diffusa la protesta sociale attraverso l’analisi della rivolta nell’istituzione più tradizionale del paese, la Chiesa cattolica. Nei capitoli IX -X I mi soffermo sulla creazione e sulle dina­ miche competitive delle organizzazioni dei movimenti sociali. Il capitolo IX è sia una rassegna della nuova sinistra extraparla­ mentare sia un tentativo di illustrare il suo ruolo nel diffondere l’azione collettiva. Nel capitolo X analizzo gli effetti del movi­ mento della classe operaia su una delle principali organizzazioni 23

extraparlamentari, Lotta continua, e come il declino della mobi­ litazione di massa l’abbia condotta dapprima alla violenza e poi verso l’istituzionalizzazione. Nel capitolo conclusivo esamino quelli che considero i tre esiti principali del ciclo italiano: vio­ lenza, istituzionalizzazione e crescita democratica. Esso mostra che alcuni gruppi hanno scelto la strada dell’istituzionalizzazione mentre altri hanno scelto la violenza, ed esamina in che modo le due tendenze, all’apparenza così opposte, fossero in realtà sim­ bioticamente collegate. Nella sezione conclusiva espongo gli ef­ fetti del ciclo per la democrazia, sostenendo che se, con tutta probabilità, di questo periodo gli italiani ricorderanno la violen­ za e il terrorismo, gli esiti più duraturi sono invece stati la for­ mazione politica di una generazione attraverso nuove forme di azione collettiva, la diffusione di nuove strutture interpretative e l’ampliamento di forme autonome di partecipazione. Tesi cen­ trale del libro è che la lotta di classe democratica ha generato un periodo di disordini, alla fine del quale proprio il disordine ha contribuito a un ampliamento della democrazia.

II CONFLITTI, RICHIESTE, OPPORTUNITÀ

Un Capodanno a Livorno Sabato 31 dicembre 1966.

A Livorno è un tranquillo ultimo del­ l’anno. Lo è stato anche dal punto di vista politico. Per Natale l’amministrazione locale ha fatto mettere dei festoni di luci in­ termittenti nelle strade del centro storico, mentre la F g c i e la F g s hanno organizzato una ordinata manifestazione di solidarietà col popolo del Vietnam. L ’ultimo dell’anno, i giovani livornesi vagano senza meta per il centro storico, mentre la portaerei americana Independence con a bordo svariate migliaia di marinai entra lentamente in porto tra la nebbia. Ad accoglierli ci sono solo pochi manifesti stracciati rimasti dopo la dimostrazione dei partiti: «Livorno rossa vi ac­ coglie con lo stesso sdegno con cui il popolo vietnamita accoglie le vostre bombe» («Il Telegrafo», 2 gennaio 1967).

Domenica 1° gennaio. Una manifestazione giovanile molto di­ versa è organizzata per accogliere l’anno nuovo e VIndependence. Per oltre due ore un lungo corteo di studenti, di operai e di altre persone sfila per le strade della città vecchia innalzando cartelli che chiedono la fine dell’intervento americano in Vietnam. Non vi è alcuna presenza di partito, ma nel raduno in piazza Grande i militanti delle federazioni giovanili comunista e socialista si me­ scolano ai maoisti e agli spettatori, mentre dagli altoparlanti ven­ gono lanciati attacchi a non meglio specificati «revisionisti» col­ pevoli di non aver condannato con abbastanza vigore l’imperia­ lismo americano (è il periodo in cui i comunisti cinesi attaccano l’Unione Sovietica attraverso la mediazione del Pei). In piazza Grande un gruppo di studenti appende ai fili del tram un fantoccio di paglia vestito da «marine» con un cartello 25

che dice: «Joe, basta uccidere!». I vigili del fuoco venuti per ri­ muoverlo sono accolti dagli studenti con un coro di fischi. La folla rimane tranquilla fino a che non arriva una «pantera» della polizia. Improvvisamente, e senza alcuna ragione, ne scendono tre agenti coi manganelli che — secondo «l’Unità» — «hanno cominciato a colpire tutti i cittadini che si trovavano a portata di mano» (3 gennaio, p. 2). Ne segue un fuggi fuggi degli studenti lungo via Grande («Corriere della Sera», 2 gennaio), finché la polizia perde le loro tracce nel dedalo di viuzze intorno al vecchio porto. Nel frattempo un gruppo di marinai americani in libera uscita si accalca in un bar, davanti al quale alcuni studenti li notano e cominciano a canzonarli. Il proprietario abbassa la saracinesca, che viene presa a calci e insulti dagli studenti. Poco distante una jeep della marina americana viene circondata e ribaltata, piegan­ done l’antenna. Una pattuglia di carabinieri, in prevalenza gio­ vani meridionali con scarse simpatie per gli studenti, si fa strada nella folla per liberare i marinai della jeep. Secondo i resoconti dei giornali prima che la folla si disperda tre poliziotti restano feriti e un dimostrante, un operaio, viene tratto in arresto («Cor­ riere della Sera», 2 gennaio; «Il Telegrafo», 2 gennaio).

Lunedì 2 gennaio.

Al loro risveglio i livornesi trovano la città ricoperta di volantini che invitano: «Cittadini, operai, giovani! Continuate a dimostrare senza tregua contro l’imperialismo ame­ ricano!». Questi manifestini portano la firma misteriosa «M ili­ tanti del Pei, del Psiup e sostenitori autonomi del Comitato livornese contro l’aggressione americana in Vietnam». Di que­ st’ultimo nessuno ha mai sentito parlare, ma ha tutta l’aria d ’es­ sere una creazione del Pcd’i-ML d ’ispirazione maoista. Chi sono i militanti del Pei e del P siup che si sono uniti ai «cinesi» nella dimostrazione? La domanda rimane senza risposta perché nessuno dei due partiti ammette di averla organizzata. In realtà, i manifestini prendono di mira dei non meglio specificati «revisionisti che organizzano pacifiche dimostrazioni con l’ap­ provazione della polizia», una chiara frecciata al Pei («Il Tele­ grafo», 3 gennaio). E possibile che il più forte partito della sini­ stra sia colpito da lacerazioni interne? Il Pei non perde tempo a reagire. Benché guardi con simpatia alle lotte dei «giovani democratici» contro l’imperialismo, il par­ tito nega ogni responsabilità dei volantini della mattina del 2 gennaio, e ricorda ai propri lettori la manifestazione della F gci tenutasi la settimana precedente. Questi volantini crudi e pro­ 26

vocatori, scrive il segretario del partito, sono «contrari al nostro spirito» («l’Unità», 3 gennaio). Quanto al segretario del P s i u p , egli afferma che «le nostre proteste noi le facciamo nel rispetto della legge e alla luce del sole» («Il Telegrafo», 3 gennaio). I par­ titi della sinistra sono confusi, irritati e imbarazzati. La stampa borghese coglie l’occasione di questo loro sconcerto: «Il Telegra­ fo» afferma di esser venuto a sapere che il Pei è profondamente preoccupato che i maoisti si infiltrino nelle sue dimostrazioni, radicalizzandole. La presenza dei «cinesi», lamenta il partito, renderà ogni iniziativa «un salto nel buio» (4 gennaio). Il segre­ tario del Pei è costretto ad affermare che non si è opposto alla dimostrazione, ma solo ai volantini. Si dice che svariate sezioni del Pei abbiano iniziato una campagna di sostegno ai dimostranti di Capodanno (7 gennaio). Ora la F g c i emette un comunicato, che «l’Unità» non pub­ blica, in cui si criticano i leader del partito per il ritardo con cui hanno dato sostegno alla manifestazione per la pace (13 gennaio). La nuova sinistra accusa senza mezzi termini il Pei di «gettar acqua sul fuoco» della rivoluzione («Nuova Unità», 5 gennaio). Nella vicina università di Pisa (frequentata da molti giovani li­ vornesi) l’episodio non passa inosservato ai gruppi militanti a si­ nistra del Partito comunista. Che cosa può dirci questo episodio, avvenuto in una città por­ tuale della costa toscana agli inizi del 1967, circa le fonti della mobilitazione di massa in Italia alla fine degli anni Sessanta? Innanzitutto, esso illustra le origini internazionali dell’onda­ ta di protesta che stava per nascere in Italia, come in Francia e nella Repubblica federale tedesca. Benché avesse un colore pro­ vinciale, e riflettesse la struttura politica italiana, l’episodio di Livorno mostra anche che l’ondata di protesta in Italia si radi­ cava in un ciclo di protesta internazionale e in un sistema inter­ nazionale in via di mutamento. In secondo luogo, in esso compare un nuovo soggetto sociale dello sviluppo economico postbellico — i giovani della nuova classe media — che si afferma autonomamente dai partiti della sinistra ufficiale. Questa sfida ai partiti dominanti degli anni po­ stbellici passò inosservata agli studiosi di scienze politiche, tutti presi a reificare la politica del passato nel momento stesso in cui essa si disfaceva sotto i loro occhi. Ma non passò inosservata ai piccoli gruppi rivoluzionari che cercavano di organizzarsi a sini­ stra del sistema dei partiti. In terzo luogo, se gli agenti delle perturbazioni future erano 27

nuovi, gli allineamenti tradizionali del sistema politico italiano erano leggibili tra le righe. In realtà, come vedremo, erano state proprio le spaccature all’interno della sinistra classica, aggravate dall’esperienza del centro-sinistra, ad aver dato agli studenti e ad altri gruppi la spinta a portare nelle strade le loro richieste. In questo capitolo ci soffermeremo su due temi principali: innanzitutto il fatto che l’ondata di protesta italiana non emerse dal nulla, ma si evolse a partire dalla transizione italiana a una fase nuova del capitalismo, matura ma altamente conflittuale, nonché dai conflitti di classe e politici da essa generati. In se­ condo luogo, il fatto che i temi che avevano spinto i nuovi mo­ vimenti sulla scena pubblica discendevano dalle spaccature poli­ tiche interne e dai problemi posti sul tappeto dai gruppi e dai partiti istituzionali1.

1. La coalizione sociale e la politica Benché l’economia italiana postbellica fosse una variante del capitalismo misto che era fiorito in tutta l’Europa occidentale sino alla fine degli anni Sessanta, essa era particolare per via del­ lo squilibrio tra il peso dello Stato nell’economia, da una parte, e la sua incapacità nel dirigerla, dall’altra. Non si trattava però di un’economia liberale classica, nemmeno di quel tipo di economia di mercato imposta dai governi che abbiamo conosciuto nell’era di Reagan e della Thatcher. Infatti se gli imprenditori avevano facile accesso al potere, il partito al governo dipendeva dal punto di vista elettorale da tutta una gamma di altri clienti sociali: con­ tadini, operai, cattolici praticanti, ceti medi autonomi, impiegati pubblici. Inoltre lo Stato mancava degli strumenti per un’efficace po­ litica di promozione degli interessi degli imprenditori in quanto classe. Molte risorse pubbliche erano profuse in imprese indivi­ duali, ma i dirigenti dell’industria mancavano di quell’egemonia di cui godevano per esempio negli Stati Uniti o nella Francia 1 L ’interpretazione che sarà presentata in questo capitolo è una sintesi di un certo numero di precedenti scritti e articoli che, per brevità, citerò qui e dai quali attingerò senza ulteriori citazioni. Le fonti principali sono Tarrow 1967, il ca­ pitolo conclusivo di Blackmer e Tarrow (a cura di), 1975, l’introduzione a G ra­ ziano e Tarrow (a cura di), 1979, la conclusione a Lange e Tarrow (a cura di), 1980, e Tarrow 1984.

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gollista. L ’Italia era un’economia liberale per difetto. Questo si­ gnificava che il partito al governo doveva mantenere la propria maggioranza relativa rispondendo a tutta una gamma di interessi sociali e regionali, e questo lo lasciava esposto a un’erosione elet­ torale via via che le trasformazioni dell’economia postbellica so­ stituivano a parte della sua base sociale attori sociali nuovi e più autonomi. La sua risposta al restringimento della base elettorale era stata non di elaborare una linea di politica economica tale da creare una nuova base sociale, ma, come vedremo più avanti, di allargare la coalizione politica di cui era a capo.

La coalizione sociale Il regime sociale dell’assetto postbellico era per molti versi un

pendant di quello che l’aveva preceduto. Il mondo imprendito­ riale era stato spinto a liberarsi dalle limitazioni corporative en­ tro le quali aveva operato per vent’anni, e gli era stato concesso il quadro fiscale e monetario entro il quale farlo. Tuttavia, mal­ grado il suo populismo cattolico e la sua disponibilità a usare lo Stato come deposito di concessioni clientelari, la De non aveva goduto mai della piena fiducia della borghesia industriale, una classe che si trovava molto più a proprio agio con il rigore fiscale e la preferenza per il mercato dei liberali che col populismo cat­ tolico. La De facilitava il successo degli imprenditori in molti modi, ma non divenne mai il partito di classe della borghesia industriale. La diffidenza della borghesia industriale nei confronti della De non implica che la classe lavoratrice avesse una solida base nel partito al governo. Malgrado le professioni della De di essere al servizio del mondo del lavoro, e i vantaggi che essa offriva alla C isl nel settore gestito dallo Stato, il partito rifiutava il concetto di rappresentare i lavoratori in quanto classe. Ogniqualvolta vi era una minaccia di overheating dell’economia — come agli inizi degli anni Sessanta — veniva applicata una doccia scozzese per raffreddarla. E sino alla fine degli anni Sessanta, quando fu co­ stretto a farlo, il partito al governo non riuscì a creare un sistema moderno di relazioni industriali. La posizione subalterna dei lavoratori era più una questione di politica, e di politica economica, che un fatto di politica so­ ciale o di ideologia. La dipendenza della De dai suoi alleati ame­ ricani, le divisioni ideologiche all’interno dei sindacati e il gioco politico basato sull’isolamento del Pei significavano che l’accesso 29

della classe lavoratrice alla politica era limitato, e che in fab­ brica la repressione, l’immigrazione e i licenziamenti erano modalità dominanti di controllo della forza-lavoro, e questo a sua volta garantiva che i nuovi arrivati nella forza-lavoro in­ dustriale ereditassero le dure condizioni di lavoro dell’assetto postbellico. La De aveva degli impegni ideologici ed elettorali verso altri gruppi. Per esempio, per via della loro posizione privilegiata nel­ l’ideologia sociale cattolica e di calcoli elettorali, i contadini ot­ tennero protezione e un inaudito accesso al credito, all’assicura­ zione sociale e a un più sicuro titolo di proprietà sulla terra. Dopo le brevi ed esplosive occupazioni di terre alla fine degli anni Quaranta essi erano ricaduti nella passività politica (molto più che in Francia, per esempio). Questo costituiva una notevole conquista politica in un paese in cui non più tardi del 1919-22 la società rurale aveva conosciuto una vera e propria guerra di classe. In gran parte per la stessa ragione, e cioè la dipendenza elet­ torale della De da essi, i ceti medi autonomi della città e della provincia erano politicamente favoriti, in parte attraverso un si­ stema di tasse che non decurtava i loro redditi, ma più fonda­ mentalmente ponendoli nella condizione di trarre profitto nel modo più vantaggioso da quel clima di «mobilitazione individua­ listica» che aveva contrassegnato gli anni postbellici (Pizzorno 1964). I commercianti, i piccoli imprenditori e gli artigiani erano favoriti dalla legge e dalla politica, e costituivano il nucleo della forza elettorale della De nella provincia. Il partito al governo gestiva dunque una coalizione interclas­ sista basata sul clientelismo, sulla religione e sull’anticomunismo, che aveva radici profonde tra i contadini e la classe media indipendente e meno radicate tra i lavoratori. Benché avesse contri­ buito all’espansione economica più grande nella storia del paese e a mantenere debole e divisa la classe lavoratrice, la De non aveva mai goduto della piena fiducia del mondo imprenditoriale, e il sostegno che le proveniva dalla classe media e dai lavoratori cominciò a svanire a seguito dei cambiamenti strutturali e poli­ tici iniziati dal miracolo economico della fine degli anni Cin­ quanta. Ma fu solo negli anni Sessanta che le nuove e vecchie contraddizioni della politica economica emersero alla luce del giorno.

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2. Trasparenza del conflitto e opportunità politica Vi è un’ampia e notevolmente disomogenea letteratura sulle cause sociali, economiche e politiche dei movimenti di protesta. La spiegazione tradizionale della nascita dei movimenti sociali — il fatto che essi sono semplicemente il risultato di una depriva­ zione — è stata considerata notevolmente insoddisfacente (McCarthy e Zald 1973; Oberschall 1973). Questo vale in par­ ticolare quando analizziamo i cicli di protesta, dato che essi han­ no altrettanta probabilità di nascere sia durante i periodi di pro­ sperità, come gli anni Sessanta, e di coinvolgere gruppi relativa­ mente benestanti, come gli studenti universitari, sia durante i periodi di riflusso economico e tra i poveri (Piven e Cloward 1977). Se i periodi di prosperità e i periodi di crisi generano entram­ bi dei cicli di protesta, sembra logico concluderne che i fattori responsabili dell’avvio della protesta possono essere presenti in entrambi i casi, anche se ovviamente non saranno ugualmente presenti in tutti i periodi della storia. Un popolo è più disponibile all’azione collettiva, sarà la mia tesi, quando vi è trasparenza del conflitto sociale e le opportunità politiche sono in via d ’espan­ sione. Con la frase «trasparenza del conflitto» intendo riferirmi alla semplificazione e all’accresciuta visibilità del conflitto sociale, e alla corrispondente possibilità di collegare richieste particolari a temi generali2. Intendo dire che, in quei periodi, i gruppi sociali ricevono dei segnali che dicono loro che sono in gioco temi che li riguardano, e che essi possono sperare di influenzare i loro esiti senza pagare un costo eccessivo o subire una repressione. In quali condizioni il conflitto sociale diverrà trasparente nel capitalismo democratico, che per sua stessa natura produce dei meccanismi di sublimazione e giustificazione del conflitto stes­ so? Vi è tutta una varietà di circostanze che può rendere traspa­ rente il conflitto sociale, ma esso ha la massima probabilità di emergere nei periodi in cui la cultura giustificatrice di tali società è più debole, vale a dire quando si verificano importanti transi­ 2 Q uesto è vicino a quanto intendono Piven e Cloward (1977, cap. I) quando parlano di «transvalutation» delle richieste, che porta a ribellarsi quelle persone che hanno tradizionalmente accettato la propria sorte.

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zioni a nuovi processi produttivi, divisioni internazionali del la­ voro e rapporti interni di potere, tali da generare nuovi strati professionali ed eliminarne di vecchi. In questi periodi nascono nuove reti sociali con solidarietà alternative, mentre l’informa­ zione sulla situazione di altri gruppi cresce grazie all’istruzione e all’espansione della comunicazione di massa. In tali periodi le opportunità politiche si espandono rapida­ mente, via via che la posizione dei gruppi ben tutelati è minac­ ciata dal cambiamento tecnologico e che appaiono nuovi gruppi la cui importanza non è ancora riconosciuta per quanto riguarda l’accesso al potere e ai servizi. Entrambi questi gruppi si rivol­ gono allo Stato in cerca di sostegno, mentre quest’ultimo deve far fronte a maggiori oneri finanziari dovuti al cambiamento eco­ nomico. I cambiamenti temporanei nell’equilibrio di potere so­ ciale che si verificano in tali periodi generano opportunità poli­ tiche che permettono agli outsiders di ottenere maggiore potere’ . La gente si riversa nelle strade quando sente che le sue richieste sono riconducibili ad assi generali di conflitto, e quando se ne presenta l’occasione.

La transizione al capitalismo maturo «L a transizione al capitalismo maturo» è certamente un’e­ spressione che va utilizzata con cautela, perché la transizione può verificarsi in modo tanto lento da essere notata solo quando è completamente avvenuta. In Italia la società è passata da uno status semiperiferico a uno status al «perimetro del centro» della produzione capitalista4, con un declino dei vecchi attori sociali e crescenti possibilità per i nuovi. Via via che una tale transizione diviene visibile vengono individuate e collegate, sia tra loro che ai cambiamenti sottostanti, delle rivendicazioni che mettono im­ provvisamente in luce delle linee di conflitto, nonché le poten­ ziali alleanze da una parte o dall’altra di esse. 3 Tali cambiamenti sono simili a ciò che si verifica in quelli che Wallerstein (1985) chiama paesi «semiperiferici», benché essi sembrino più tipici di quelli che Lange (1985) chiama «la periferia del centro». Il mio esame delle opportunità politiche create dalle transizioni al capitalismo maturo è tratto da Tarrow 1984. 4 Scrive Peter Lange (1985, p. 185): «Q uesto concetto intende [...] esprimere il fatto che il cambiamento di posizione è recente, e che vi è dunque una discre­ panza tra una posizione consolidata nell’economia mondiale e il processo di tran­ sizione da una posizione all’altra — per esempio processi che iniziano quando il paese si trova nella semi-periferia ma proseguono quando dal punto di vista strut­ turale esso è entrato nel nucleo».

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Se le transizioni rendono i conflitti sociali sempre più acuti e visibili, accrescono però anche l’importanza dello scambio poli­ tico, dato che le élites tradizionali cercano protezione dallo Stato, emergono nuovi gruppi e domande di risorse e vengono tentate delle riforme da parte di governi ancora legati alle loro tradizio­ nali basi di sostegno. In questo contesto degli scompensi tempo­ ranei nell’equilibrio del potere possono essere sfruttati da quei gruppi il cui potere sociale in condizioni ordinarie sarebbe mi­ nimo5. E proprio una transizione di questo tipo quella che si sta­ va verificando in Italia negli anni Sessanta, e che ha contribuito a rendere più profonda in Italia che in qualsiasi altro paese eu­ ropeo l’ondata di protesta internazionale di quegli anni. Questi cambiamenti si sono verificati in tanti modi diversi: nel passaggio nell’industria alla produzione integrata su larga sca­ la (Arrighi e Silver 1983), nell’indebolimento della posizione del­ le imprese piccole e tradizionali, nella secolarizzazione della cul­ tura popolare cattolica, nella crescita di associazioni autonome al di fuori del controllo della Chiesa e del sistema dei partiti. Ma gli effetti più visibili furono innanzitutto l’emergere di una nuova classe media istruita, in secondo luogo la comparsa di una nume­ rosa classe di lavoratori immigrati nelle città del Nord e, in terzo luogo, l’irrigidimento del mercato del lavoro e la nuova forza che ciò diede ai lavoratori dell’industria (Paci 1975).

La nuova classe media La De aveva conquistato il sostegno di gran parte dei conta­ dini e dei lavoratori autonomi, ma c’era un gruppo sociale in cre­ scita che era ai margini della schiera della sua clientela elettorale: gli strati medi colti delle città. Secondo le stime di Sylos-Labini (1975, p. 156), tra il 1951 e il 1971 la piccola borghesia impie­ gatizia era passata dal 10 al 17 per cento della popolazione, con un aumento che corrisponde da vicino a un simultaneo declino della classe media autonoma. La trasformazione del paese in eco­ nomia industriale stava generando, prevalentemente nelle città del Nord, un importante nuovo gruppo sociale, sia nell’industria che nel terziario. 5 Viene in mente il ruolo dei neri del Sud degli Stati Uniti — certamente uno dei gruppi più marginali della storia politica — che hanno acquisito delle risorse politiche dal riallineamento elettorale degli anni Sessanta. Cfr. Piven e Cloward 1977, cap. IV.

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Questa nuova classe media costituiva non solo il gruppo so­ ciale prodotto dal miracolo economico in più rapida crescita, ma anche una minaccia alla continuazione del dominio politico della De. Innanzitutto perché essa stava sostituendo fisicamente la classe media autonoma e i contadini, che avevano costituito nel periodo postbellico la base più affidabile del partito di governo, e in secondo luogo perché era una classe articolata e colta con ambizioni professionali che avevano generato un insieme di ri­ chieste che andavano al di là di quelle dei loro predecessori: ri­ chieste di modernizzazione civica, di riforma educativa, di pia­ nificazione urbana. Inoltre essa aveva prodotto anche un’altra Cosa nel dopoguerra: un boom demografico; molti di quei bam­ bini negli anni Sessanta avrebbero affollato le istituzioni dell’e­ ducazione superiore. Alcuni li abbiamo già incontrati agli inizi di questo capitolo, altri ne reincontreremo nel capitolo VI. Questi ragazzi erano entrati in un sistema di educazione superiore la cui struttura era rimasta fondamentalmente immutata dagli inizi del secolo e che aveva accolto molti più studenti di quanto potesse effettivamente gestirne. Le proteste studentesche della fine degli anni Sessanta avrebbero tratto origine prevalentemente dai nuo­ vi settori della classe media.

I lavoratori immigrati Un secondo gruppo occupava una posizione equivoca nella coalizione sociale della De: gli immigrati. Tra il 1951 e il 1971, benché il tasso delle nascite delle grandi città del Nord fosse in calo, queste raddoppiarono quasi di popolazione. Tale aumento fu largamente dovuto alla migrazione di massa di meridionali e di contadini nelle città. La maggior parte dei lavoratori non quali­ ficati e semiqualificati assunti dalle fabbriche del Nord negli an­ ni Cinquanta e Sessanta erano immigrati che mancavano sia di una tradizione di disciplina industriale sia di un collegamento coi sindacati. Molti di questi nuovi lavoratori provenivano da un retroterra cattolico, e i loro antichi legami con la Chiesa avrebbero potuto accrescere la forza della De nelle periferie operaie delle città del Nord. Ma la mancanza di servizi urbani — persino di abitazioni decenti — per accoglierli, i bassi salari e le dure condizioni di lavoro che molti di essi trovarono, nonché la discriminazione di cui furono oggetto da parte dei settentrionali — aggiunta alla debolezza organizzativa della De — fece sì che questo non av­ 34

venisse. Alcuni tra i lavoratori più militanti dell’ondata di pro­ testa erano immigrati rurali recenti dal Veneto cattolico. Incon­ treremo alcuni di essi a Porto Marghera nel capitolo VII.

Il mercato del lavoro Il carattere mutevole del conflitto industriale apparve evi­ dente per la prima volta nel 1960-61, quando venne raggiunto per la prima volta il pieno impiego e la forza-lavoro organizzata cercò di trarne vantaggio con scioperi a livello sia di fabbrica che nazionale. La risposta delle autorità pubbliche fu la recessione del 1962-63, che nel breve periodo ebbe l’effetto desiderato di raffreddare l’economia (Salvati 1975). Ma le imprese, invece di proseguire con investimenti in nuove fabbriche e attrezzature per accrescere la produttività, cercarono di trarre il massimo dal­ le risorse esistenti accelerando i processi produttivi e ricorrendo a una nuova leva di forza-lavoro immigrata semiqualificata e pre­ valentemente maschile (Paci 1975). L ’impresa capitalista non manca di capacità di risposta alla pericolosa mistura di pieno impiego e salari crescenti. Può tra­ sferirsi in regioni e paesi a bassi salari, importare lavoratori stra­ nieri non organizzati, decentrare la produzione o chiedere con­ tratti corporativi accompagnati da una politica dei redditi. Ma in Italia un patto sociale era reso impossibile dalla mancanza di unità politica delle confederazioni sindacali, dalla non disponi­ bilità dell’impresa a riconoscere i diritti dei sindacati in fabbrica e dal fatto che il corporativismo ricordava l’esperienza fascista vissuta dal paese. Quanto alle riserve di lavoro interno a basso costo, esse erano ormai esaurite, e l’impresa mancava delle riser­ ve di capitale per spostarsi dai centri tradizionali di militanza della classe lavoratrice, mentre al governo mancava la volontà politica per aiutarla a farlo. Sapere perché alla metà degli anni Sessanta la borghesia in­ dustriale italiana non sia riuscita a ricapitalizzare l’impresa è una questione complicata. In parte ciò fu dovuto al debole mercato interno di capitali, e in parte alla vecchia abitudine di affidarsi alla riserva di forza-lavoro da sfruttare. Ma c’era anche una ra­ gione politica: gli imprenditori esitavano a effettuare massicci investimenti in nuovi impianti e attrezzature nel timore delle conseguenze sociali dell’imminente ingresso nel governo del «sempre pericoloso» Partito socialista (Ginsborg, in corso di stampa, cap. VI). 35

Alla fine degli anni Sessanta, quando tutto l’impatto della competizione internazionale portata dal M e c cominciò a farsi sentire, i risultati del mancato rinnovamento di impianti e attrezzature erano evidenti a tutti. Molte grandi imprese di­ pendevano ancora pesantemente da un intenso sfruttamento della forza-lavoro, mentre il mercato del lavoro si restringeva. Questi problemi venivano a coincidere con una crescente unità della forza-lavoro sindacalizzata, capace di produrre una mag­ giore militanza proprio nel momento in cui l’economia mondiale — trainata dall’economia di guerra degli Stati Uniti — comin­ ciava ad espandersi. Solo che ora, a differenza di quanto era avvenuto nei primi anni Sessanta, né le politiche deflattive né la repressione della forza-lavoro erano più possibili, perché nel frattempo si era verificato un importante riallineamento gover­ nativo.

3. Opportunità politiche La crescita dell’economia italiana portò un cambiamento nel­ la qualità e nell’intensità del dibattito politico molto prima di portare a un ciclo di protesta. Sia la crescita economica che il dibattito politico contribuirono a preparare il ciclo individuando dei temi «trasversali» e creando una reciproca consapevolezza tra diversi attori sociali e politici. I movimenti della fine degli anni Sessanta inventarono nuove forme di protesta e infusero una nuova autonomia e fantasia alla politica di massa; ma attinsero la maggior parte dei propri temi dai dibattiti della prima parte del decennio e dai partiti e dai gruppi tradizionali. In questo periodo c’era stato un ampio dibattito sulla tran­ sizione al capitalismo maturo, sui suoi costi e le sue promesse. Nei circoli governativi questo dibattito si incentrava sulla pro­ grammazione, sulle esigenze tecniche di una società moderna e sui difetti del sistema di relazioni industriali esistente. A sinistra c’era un dibattito aperto sulle tendenze del capitalismo moderno e sul ruolo crescente della nuova classe media, quelli che il Pei chiamava «ceti medi produttivi». Il tono accademico di questi dibattiti inizialmente nascose il fatto che essi tagliavano trasver­ salmente le varie subculture politiche e avevano il potenziale di ampliare il campo del conflitto così da includervi nuovi attori. 36

Il dibattito all’interno del sistema Nei circoli governativi i dibattiti sull’economia erano stimo­ lati da un piccolo ma influente gruppo attorno al Partito repub­ blicano, ma avevano espressione anche nei circoli cattolici, in particolare in un gruppo di giovani economisti usciti dall’Azione cattolica attivi nella Commissione interministeriale per il Mez­ zogiorno e nello S v i m e z . Le discussioni vertevano in parte sulla mancanza di un moderno sistema di relazioni industriali. Benché molte imprese non fossero ancora disposte a cambiare le loro re­ lazioni industriali paternalistiche e repressive, c ’erano dei germi di modernismo nel gruppo Olivetti nel settore privato, e tra i tecnocrati più giovani nel settore pubblico. Mentre le imprese private, rappresentate dalla Confindustria, volevano continuare ad affidarsi a una trattativa a livello nazionale, così mantenendo i sindacati fuori dalle fabbriche, le imprese pubbliche rappresen­ tate nell’lRi e nell’ENi istituivano articolate procedure di con­ trattazione a livello aziendale. A sinistra il dibattito era più teorico, ma di portata non mi­ nore. L ’Istituto Gramsci tenne un importante convegno sulle Tendenze nel capitalismo italiano che mise il Pei all’avanguardia di dieci anni rispetto ai comunisti francesi nel riconoscere gli effetti del cambiamento economico (Istituto Gramsci 1962). In quella stessa epoca iniziò nel partito un dibattito strategico sul ruolo dei ceti medi «produttivi», attraverso il quale, avvertendo il declino della sua base elettorale rurale, il partito andava alla ricerca di nuovi alleati elettorali in quelle aree della classe media che erano state create dal capitalismo avanzato. Quanto ai socialisti, essi erano più interessati a prepararsi a un futuro ruolo nel governo che a capire il futuro del capitalismo italiano. M a l’opportunismo politico ha strani effetti: la prospet­ tiva di entrare nel governo portò il Psi a porre sul tappeto alcune riforme — istruzione, programmazione, pensioni — che più tar­ di sarebbero stati dei punti di coagulazione della protesta di mas­ sa. Ironicamente, ma non per la prima volta nella storia, i temi di futuri movimenti erano stati promossi da quegli stessi soggetti che alla fine sarebbero diventati i bersagli di questi movimenti. Il dibattito nazionale sul sistema educativo iniziato alla fine degli anni Cinquanta fu un importante esempio di come i pro­ blemi sollevati all’interno del sistema potevano essere l’oggetto di un successivo movimento. Spinto in parte dalle iniziative ac­ cademiche e in parte dalla richiesta di un maggior numero di quadri tecnici nell’industria, il governo approvò nel 1962 una 37

legge di riforma che si rivelò inadeguata così presto da portare a un’intensificazione del dibattito sulla sua revisione. Fu questo dibattito sulla riforma a stimolare lo scoppio delle proteste stu­ dentesche che vedremo nel capitolo VI. Questi dibattiti, insieme ai cambiamenti economici e sociali che li avevano stimolati, resero gli italiani consapevoli dei pro­ fondi cambiamenti in corso nel loro paese, tracciarono grosso modo i confini di una potenziale coalizione per la modernizza­ zione e fissarono gli assi del confronto futuro. Nei circoli di po­ tere fu esplicitamente detto che un riallineamento di un qualche tipo era necessario se la De non voleva ricalcare il declino dei suoi tradizionali gruppi sociali con un parallelo calo elettorale. Il principale risultato politico fu la contestata, ambigua e tuttora poco capita strategia della «apertura a sinistra» da parte della De e la coalizione di centro-sinistra che da essa nacque.

Il centro-sinistra Un certo numero di sviluppi internazionali — dal X X con­ gresso del Partito comunista sovietico alla distensione, dalla pre­ sidenza Kennedy al pontificato di Giovanni X X III — aprirono la strada al governo di centro-sinistra fornendo nuove possibilità politiche ad attori presenti all’interno del sistema dei partiti. Gli eventi in Europa orientale permisero al Psi di prendere le distan­ ze dall’insoddisfacente alleanza elettorale coi comunisti, renden­ dolo disponibile a una cooperazione con altre forze politiche. L ’impatto della presidenza Kennedy e i cambiamenti nella Chie­ sa avrebbero indebolito sia la fede anticomunista e religiosa, sia il bastione strategico del potere De. E gli effetti combinati di questi tre eventi permisero all’Italia di sfuggire all’atmosfera di contrapposizione frontale tra cristianesimo e comuniSmo degli anni Cinquanta, e di aprire la possibilità di nuovi allineamenti politici più adatti alle esigenze di una democrazia industriale avanzata. La De era sempre stata disposta ad accordare una fetta del proprio potere ad altri gruppi politici, dapprima al P li e poi al P sdi e al P ri. Ma quando la politica di coalizione venne estesa al Psi, divenne molto più rischiosa, non solo per via della natura instabile di questo partito, ma per due altre ragioni più fondamentali: innanzitutto estendere la coalizione a un partito pros­ simo al 15 per cento dei voti poneva nuovi fardelli sulle riserve di clientelismo disponibili; in secondo luogo la coalizione di cen­ 38

tro-sinistra inseriva all’interno del governo nuove divisioni ideo­ logiche sfruttabili da chi ne era rimasto fuori.

La politica di coalizione e il clientelismo Quando una coalizione si allarga diventa più difficile da ge­ stire, come fu reso evidente dal maggiore tempo necessario a ri­ solvere le crisi di governo e dai sempre crescenti ritardi nell’e­ spletamento delle mansioni governative durante gli anni Ses­ santa. Con l’ingresso nella coalizione del Psi, che dal 1947 non aveva accesso al potere a livello nazionale, le esigenze clientelari si espansero proprio nel momento in cui il tasso di crescita eco­ nomica cominciava a calare. Un segno evidente è che il numero delle proposte di legge avanzate da singoli parlamentari crebbe rapidamente (Di Palma 1977). Questo ebbe l’effetto sia di ac­ crescere le spese, sia di togliere al governo l’iniziativa della di­ stribuzione della spesa, senza affrontare però nessuno dei pro­ blemi strutturali della politica economica. L ’allargamento della coalizione e l’assenza di un forte esecu­ tivo incoraggiavano anch’essi la proliferazione di fazioni all’in­ terno dei partiti al governo, in particolare nella De, proprio nel momento in cui stavano arrivando sul tappeto i principali temi di riforma (pensioni, scuola, relazioni industriali). Un gruppo di no­ tabili parlamentari poteva contare sulla facile concessione di ri­ sorse attraverso un dato ministero, poteva ignorare la politica governativa e persino minarne la maggioranza nella speranza di negoziati successivi per accrescere il proprio potere. Il centrosinistra ebbe l’effetto non solo di aumentare il numero delle cor­ renti all’interno della De, ma anche di rendere possibili alleanze interpartito tra correnti diverse nei due principali partner della coalizione di governo. Queste debolezze e divisioni contribuiscono a spiegare per­ ché l’esperimento di coalizione non raggiunse il suo principale obiettivo politico, che era quello di isolare il Pei. Benché il go­ verno di centro-sinistra abbia tenuto fuori dal governo i comu­ nisti per un certo numero di anni e li abbia scalzati dal governo di molte città in cui essi avevano amministrato insieme al Psi, lasciò immutata la loro posizione predominante nei sindacati e nell’elettorato della classe lavoratrice. L ’avanzata elettorale del Pei accompagnò l’inizio del centro-sinistra nel 1963 e continuò nelle elezioni del 1968. Il fatto che i comunisti non avessero perso voti a seguito della 39

cooptazione dei socialisti nel governo li rafforzò nella convinzio­ ne che il paese poteva ancora avere un futuro di sinistra. Quan­ do, alla fine degli anni Sessanta, scoppiò il ciclo di protesta, essi erano pertanto ancora in una posizione tale da adottare una linea più radicale nel loro congresso del 1969, e da assorbire poco dopo molti degli ex-militanti dei movimenti (Barbagli e Corbetta 1978; Hellman 1976). Ma non fu il Pei a cogliere le opportunità maggiori.

Il cerchio del conflitto si amplia Come per il New Deal americano, la questione del progres­ sismo o del conservatorismo «intrinseco» del governo di centrosinistra era meno importante del fatto che esso poneva sul tap­ peto temi che — per via delle sue divergenze interne — non era in grado di risolvere. Questa contraddizione incoraggiava i grup­ pi al di fuori della classe politica a intervenire in dibattiti inizia­ tisi all’interno di essa. I dibattiti che ne seguirono portavano questi temi sotto gli occhi dell’opinione pubblica, in un modo che rendeva evidente quanto il governo fosse diviso e quali fos­ sero le forze di entrambe le parti impegnate nel dibattito. Il dibattito del 1967 sulla riforma pensionistica, per esempio, iniziò in Parlamento ma ben presto portò a una diffusa mobili­ tazione dei lavoratori. Il piano Gui per la riforma dell’istruzione secondaria mobilitò sia i gruppi di interesse più attivi che i par­ titi, prima di far scattare negli studenti universitari la consape­ volezza di avere un terreno politico nuovo da sfruttare. Il pro­ getto non passò mai, ma le divisioni in Parlamento e nella scuola spronarono gli studenti a organizzarsi contro di esso. Inoltre, fu prevalentemente grazie alla presenza del Psi nel governo che alla fine venne approvato un moderno progetto di relazioni indu­ striali, lo Statuto dei lavoratori. C ’è un altro parallelo importante tra il centro-sinistra e il New Deal: il fatto che la presenza al governo di un partito della sinistra moderata limitasse le opzioni che lo Stato aveva nel re­ primere sia gli studenti che i lavoratori in lotta. Né la vecchia soluzione recessiva, né lo scatenare le forze dell’«ordine» contro i dimostranti, né il ricorso all’anticomunismo viscerale erano più possibili con un Psi che continuava a puntare su una parte di voti della classe lavoratrice e allo stesso tempo cercava di ottenere il sostegno della nuova classe media. Con l’ondata del dissenso studentesco e dei lavoratori inizia­ 40

to nella seconda metà degli anni Sessanta divenne chiaro che — come il governo del New Deal alla metà degli anni Trenta — il Psi non poteva politicamente permettersi di dar sostegno a una politica repressiva. Quando per esempio, nel 1968, i lavoratori furono fatti oggetto di colpi d ’arma da fuoco dalla polizia ad Avola e a Battipaglia, il Psi chiese un’indagine governativa e si unì ai comunisti nella richiesta di disarmare la polizia. Le riforme del centro-sinistra furono significative non per ciò che ottenne­ ro, ma per il fatto che dimostrarono cosa non poteva essere fatto e rivelarono l’estensione delle fratture in seno alla classe politica. Poco dopo l’effettivo inizio dell’esperimento del centro-sini­ stra, nel 1964, cominciò a nascere un conflitto all’interno del sistema dei partiti. La scissione nel Partito socialista e quella me­ no importante nel Partito repubblicano, nel 1963 e 1964, furono seguite da un tentativo di unificazione tra socialisti e socialde­ mocratici e dall’idea di costituire un partito unificato del lavoro da parte dell’ala moderata del Pei. Dopo anni in cui aveva igno­ rato questo tema, la classe politica cominciò a parlare di riforme regionali, un tema che si riteneva fosse particolarmente sentito nel Mezzogiorno. La riforma delle relazioni industriali era un altro tema posto all’attenzione dei partiti o degli esperti di rela­ zioni industriali ad essi vicini. Ma il vero fermento stava nascendo al di fuori del sistema dei partiti, là dove nuovi gruppi politici stavano comparendo e, per la prima volta a partire dagli anni Quaranta, la mobilitazione cominciava a sfuggire ai canali tradizionali. Le implicazioni di questa situazione — che saranno esplorate nel resto di questo libro — furono presto evidenti ai notabili De quali Emilio C o­ lombo. Nel 1969 egli chiedeva al congresso nazionale della De: Questa situazione rischia di portarci all'immobilità, al consolidarsi di una specie di crosta fredda e inerte sotto la quale si agita il magma di una società in ebollizione che non riesce a trovare canali idonei di par­ tecipazione o di espressione e tende a trovare rimedi nella fuga in avanti della contestazione globale o nella pura e semplice difesa organizzata di interessi corporativi [•..] Il momento di pluralismo [...] tende a divenire un momento di disordine. («Il Popolo», 30 giugno 1969, p. 2)

Da politico consumato qual era, Colombo aveva immediata­ mente capito quello che molti esperti di scienze sociali non ca­ piscono ancora, e cioè che la protesta, ben lungi dal rappresen­ tare la negazione della politica, nasce da fratture in seno a una società in mutazione e va affrontata in termini politici. Ma in che modo il «momento di disordine» poteva essere mutato in un «mo­ 41

mento di pluralismo»: attraverso la repressione? Le riforme? Le dinamiche intrinseche del ciclo di protesta? O attraverso la com­ binazione di queste tre cose? Questa è la domanda principale che si pone questo libro.

4. Conclusioni Spesso in alcuni sistemi politici, come fu il caso della Quarta repubblica in Francia, delle pressioni insostenibili vengono ge­ nerate da forze che sono al di fuori del controllo dei sistemi stes­ si. Altre volte il sistema può essere eroso dall’evoluzione stessa delle sue caratteristiche interne, ed è stato quest’ultimo processo che si è voluto vedere nel caso italiano. La situazione interna­ zionale che aveva prodotto il suo assetto politico non esisteva più; la forza di coesione dell’anticomunismo e della religione nel tenere insieme la coalizione governativa era svanita. Il restringi­ mento della base della De la costringeva a rincorrere nuovi at­ tori, i cui appetiti e le cui richieste politiche mettevano sotto pressione le capacità delle deboli istituzioni del paese. Inoltre, cosa più importante, un vecchio attore sociale — la classe lavo­ ratrice organizzata — stava guadagnando forza proprio nel mo­ mento in cui nuovi gruppi sociali — lavoratori immigrati e nuovi ceti della classe media — stavano reclamando nuovi diritti e mag­ giori benefici. Era da questi gruppi che sarebbero state tratte le componenti principali dell’ondata di protesta che stava per arri­ vare. Il decennio successivo avrebbe costretto il paese a confron­ tarsi con quello che Colombo chiamava un «momento di disor­ dine». Poteva esso trasformarlo in un «momento di pluralismo»? Nella misura in cui questo dipendeva dalla capacità di una classe politica divisa e incapace, i critici erano certi che il disordine si sarebbe tramutato in anarchia o avrebbe scatenato la reazione. M a una volta lanciato, un ciclo di protesta sviluppa una propria dinamica interna. Per adattare la metafora di Colombo, il disor­ dine nasce dai conflitti normali e dalle istituzioni di una demo­ crazia capitalista, e genera un proprio «momento di pluralismo» attraverso la dinamica interna di un ciclo di protesta.

Ili

COLORO CHE OSANO

Nel romanzo di Calvino II barone rampante, il giovane prota­ gonista reagisce alla noia e al soffocamento della vita nella tenuta di famiglia compiendo un atto di follia, andando a vivere sugli alberi. Su questo suo comportamento così riflette il fratello mi­ nore: Non che io non avessi capito che mio fratello per ora si rifiutava di scendere, ma facevo finta di non capire per obbligarlo a pronunciarsi, a dire: «Sì, voglio restare sugli alberi fino all’ora di merenda, o fino al tramonto, o all’ora di cena, o finché non è buio», qualcosa che insomma segnasse un limite, una proporzione a l suo atto di protesta. Invece non di­ ceva nulla di simile, e io ne provavo un po’ paura. (Calvino 1985, p. 36, corsivo mio)

Nel romanzo di Calvino vi è un’acuta intuizione sulla natura della protesta. E l’assurdità dell’atto del barone — in realtà, la sua impossibilità — a conferire potere alla sua protesta. Nessuno sinora è mai salito a vivere sugli alberi: come può egli fare una cosa simile? Come può un uomo trascorrere lassù tutta la vita? La carica perturbativa della sua protesta deriva dall’assenza di limiti e dall’incertezza su ciò che egli si propone da essa, nonché dal fatto di non sapere se e quando egli intenda ridiscendere a terra. La sua protesta è efficace perché rende reale l’impossibile. Le azioni sorprendenti, prive di limiti ed espressive non le troviamo solo nei romanzi. «I momenti di follia» in cui «tutto è possibile» tornano ripetutamente nella storia dell’azione collet­ tiva — nella Rivoluzione del 1789, nella Comune di Parigi, nel­ l’assalto al Palazzo d ’inverno. In tali momenti, scrive Aristide Zolberg (1972, p. 183), «il muro tra lo strumentale e l’espressivo crolla», «la politica supera i propri limiti per invadere tutta la vita», e «gli animali politici trascendono in qualche modo il pro­ 43

prio destino». In tali momenti in cui i limiti della vita d ’ogni giorno crollano si impersonano ruoli che mai si sarebbe immagi­ nato di recitare, o di cui si sarebbe riso. Scrive Zolberg (1972, p. 176): «Liberati dalle costrizioni del tempo, dello spazio e delle circostanze, dalla storia, gli uomini scelgono la parte da imper­ sonare tra quelle disponibili, oppure ne forgiano, in un atto crea­ tivo, di nuove». Ma quanto spesso avviene che la gente comune, di solito ini­ bita dalla consuetudine, dalla paura e dall’inerzia, adotti azioni così estreme e spettacolari? Non molto spesso, stando agli studi di Charles Tilly sulla storia dell’azione collettiva europea. Scrive questo autore: «In un qualsiasi momento il repertorio di possi­ bilità delle azioni collettive disponibili a una popolazione è sor­ prendentemente limitato, se si considerano gli innumerevoli mo­ di in cui la gente potrebbe, in teoria, utilizzare le proprie risorse nel perseguimento di obiettivi comuni» (Tilly 1978, p. 151). In tempi normali, la gente comune, limitata dalla mancanza di risorse e intimidita dal timore della repressione, tenderà pro­ babilmente, per esprimere le proprie richieste, a ricorrere al re­ pertorio esistente delle forme di azione collettiva, più che osare d ’infrangere i limiti della consuetudine. Ma ecco il paradosso: se vogliamo ottenere ascolto e convin­ cere gli altri che le nostre richieste sono giuste, dobbiamo mas­ simizzare gli elementi di novità, di minaccia, di sorpresa nella nostra azione collettiva1. E a meno che non si infrangano i limiti del convenzionale, le autorità pubbliche sapranno come affron­ tare le nostre richieste, e mai nulla cambierà. Il segreto della pro­ testa sta nella perturbazione, e questa la si può ottenere solo creando incertezza sui limiti fin dove si è disposti a spingersi. Non tutti hanno la capacità o la volontà di sfidare i limiti della convenzione. Solo poche persone in circostanze inusuali so­ no in grado di generare un «momento di follia» o di rottura. E solo quando le condizioni strutturali e le opportunità politiche sono favorevoli, molti altri seguiranno il loro esempio. Ma anche in quel caso, la maggior parte di essi si limiterà a modesti obiet­ tivi e a forme convenzionali di azione collettiva. Nell’infrangere la crosta consolidata del senso comune, i «primi» di un’ondata di 1 Come scrive Peter Eisinger (1973, pp. 13-14): «L a cosa implicitamente mi­ nacciosa in una protesta non è solo la comparsa socialmente non convenzionale di folle di persone che colpisce e spaventa gli osservatori ligi alle norme, quanto la fantasia che i passanti e coloro che sono presi di mira fanno riguardo a cosa potrebbe portare un comportamento così manifestamente aggressivo».

44

protesta dimostrano agli altri che il sistema è vulnerabile, che la sfida può funzionare e che le loro richieste possono essere sod­ disfatte. G li «ultimi arrivati» possono essere meno dotati d ’im­ maginazione e meno limitati dagli schemi abitudinari, dalla pau­ ra e dalla cautela dei loro rappresentanti. Ma dato che i costi della protesta sono già stati abbassati, essi devono correre solo dei rischi minori, all’interno dei limiti accettati, per colpire gli oppositori col loro numero e la loro organizzazione. La funzione dei primi in un ciclo di protesta, rispetto agli schemi abitudinari, è quella di sfondare le porte attraverso cui potranno riversarsi gli ultimi. In questa concezione i «momenti di follia» non emergono co­ me vulcani isolati di ribellione da una pianura di consenso poli­ tico; costituiscono invece un picco intensivo di perturbazione nel mare di una molto più vasta gamma di proteste convenzionali. Possiamo aspettarci di vedere pochi nuovi attori che si proietta­ no sulla scena pubblica in modo così drammatico, ispirando altri, meno audaci, a seguire il loro esempio. I momenti di follia non sono che le vette più visibili e intense nella più vasta gamma di azioni collettive che le circondano. Se questo è vero, un’ondata di protesta dovrebbe essere fatta scattare da relativamente poche — ma audaci e sconvolgenti — azioni di sfida effettuate da attori nuovi sulla scena pubblica, ed essere seguite da un numero molto maggiore di azioni collettive messe in atto da coloro che seguono il loro esempio, ciascuno nel proprio settore. Ma questi ultimi tenderanno di più a vivere e lavorare all’interno di istituzioni, e sono rappresentati da orga­ nizzazioni interessate alla sopravvivenza del sistema. La diffu­ sione quantitativa delle perturbazioni del ciclo dovrebbe pertan­ to essere meno elevata nel suo complesso che nel picco intensivo di mobilitazione. C ’è però un movimento opposto a questa crescente istituzio­ nalizzazione della protesta: dato che la perturbazione dipende dall’incertezza, quando le azioni originarie che hanno fatto scat­ tare il ciclo divengono ripetitive, il loro potere perturbativo di­ minuisce e le élites, gli oppositori e le forze dell’ordine imparano ad affrontarle. Chi vuole catapultarsi ancor più avanti sulla scena pubblica può farlo solo spostando ancor più in là le frontiere del­ la perturbazione, finché l’incertezza della protesta diventa la cer­ tezza della violenza. E questa certezza ne fa scattare un’altra: la certezza della repressione e della smobilitazione di massa che la segue. Inizieremo col ripercorrere le proteste in Italia dal 1965 al 45

1974, soffermandoci sulla comparsa di nuovi attori sociali, quale ci viene indicata dalla presenza o assenza di organizzazioni co­ nosciute. Successivamente passeremo in rassegna le forme di protesta sia convenzionali che di sfida e violente, e ci chiederemo com’è cambiato il loro equilibrio relativo. Per finire, cercheremo di valutare la capacità perturbativa della protesta in periodi di­ versi del ciclo. Vedremo che essa ha descritto una curva, parten­ do dalla protesta istituzionalizzata e convenzionale all’inizio del ciclo, fino a un massimo di azione di massa perturbativa nelle prime fasi, cui è seguita una lunga coda di azioni collettive am­ piamente ripetitive, nella quale la maggior parte delle persone utilizzava forme convenzionali, e poche ricorrevano alla violen­ za. «Coloro che osavano» hanno aperto le porte della protesta agli altri.

1. Le stagioni dello scontento Nella fig. 1 è riportato il numero totale di episodi di protesta registrati dal «Corriere della Sera» per il decennio dal 1965 al 1974. Per gli anni 1966-73 sono riportati i quasi 5.000 singoli episodi che sono stati individuati da un esame di ogni numero del quotidiano; per i due anni 1965 e 1975, per i quali non posse­ diamo dati dettagliati, il numero degli episodi è valutato per estrapolazione a partire da un campione di quattro mesi per cia­ scuno dei due anni. La fig. 1 conferma che alla metà degli anni Sessanta l’Italia non stava entrando in un breve momento di disordine — come la Francia in quello stesso periodo — ma in un ‘maggio strisciante’ , in un lungo periodo di turbolenza politica e sociale che, iniziato nel 1966-68, ebbe un picco solo al volgere del decennio, e non scese mai al livello della protesta della metà degli anni Sessanta. La curva si basa sul numero totale degli episodi di protesta di ogni tipo che saranno analizzati in questo capitolo, dalle petizio­ ni, delegazioni e scioperi, a cortei e manifestazioni pubbliche, alle occupazioni e ai blocchi del traffico, fino agli scontri con la polizia e alla violenza organizzata2. 2 In questi dati sono compresi gli episodi per i quali non si è potuta indivi­ duare una richiesta definita, un giorno di partenza o una forma perturbativa d ’azione. Nel resto di questo studio l’analisi quantitativa si basa solo su quegli episodi di violenza per i quali questi dati sono stati disponibili.

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Numero

Semestre

Fig. 1 - Numero di episodi per semestre, 1965-74 1965-1966: la linea di partenza

A partire da un campione di quattro mesi degli articoli del «Corriere della Sera» si è stimato che nel 1965 vi siano stati un totale di 181 scioperi, proteste e conflitti sociali. Nel 1966 il numero delle proteste individuate era salito a 204, con un au­ mento molto esiguo, dato che il 1966 era un anno di rinnovo dei contratti sia nell’industria che nei servizi pubbici (Accornero 1971, pp. 128-31). Era anche l’anno in cui cominciò ad apparire la protesta studentesca, e nel quale in Alto Adige esplose il mo­ vimento terrorista separatista. Tuttavia la media di 190 episodi di protesta riferiti dal «Corriere della Sera» in quest’anno era già superiore a quella dell’anno precedente3. I sindacati, presenti in metà degli episodi del 1966, predo­ minavano sui partiti e le loro organizzazioni di massa, mentre gruppi regionalistici conosciuti erano presenti in quasi il 14 per cento dei casi. A partire dai nostri dati è stato individuato solo un esiguo numero di proteste in cui non comparivano organiz­ zazioni conosciute, ma vedremo che esse furono molto pertur3 Una rapida scorsa al 1963-1964 suggerisce che il «Corriere della Sera» riferì meno di 150 proteste l ’anno.

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bative (cfr. infra, cap. VI). Le organizzazioni extraparlamentari erano praticamente sconosciute.

La spirale verso l ’alto Nel 1967 il numero dei conflitti crebbe del 17 per cento ri­ spetto all’anno precedente4. Nonostante la maggior parte dei contratti nell’industria fossero stati chiusi, si è individuato un totale di 240 episodi. Il primo segno del fatto che stava pren­ dendo forza un ciclo di protesta fu questo aumento del numero dei conflitti, dato che normalmente il numero totale degli episodi scende alla conclusione delle trattative tra sindacati e impresa. Dato che il 1966 era generalmente ritenuto un anno fallimentare da parte dei sindacati, l’aumento delle azioni collettive nel 1967 fu particolarmente significativo. Nel 1967 il grado di istituzionalizzazione della protesta co­ minciava già a diminuire. La partecipazione di organizzazioni co­ nosciute scese dal 66 al 58 per cento degli episodi, e i sindacati furono presenti in meno del 40 per cento del totale di essi. I dati confermano che il Sessantotto italiano era già pienamente in atto nella seconda metà del 1967. Riscontriamo un graduale aumento della presenza delle organizzazioni extraparlamentari, ma anche i partiti tradizionali e le loro organizzazioni di massa appaiono in oltre il 10 per cento delle proteste. A partire dalla primavera del 1968 siamo in presenza di un ciclo di protesta a carattere nazionale. Il numero degli episodi è più che raddoppiato rispetto al 1967. Via via che nuovi attori entravano in scena e diversi settori — in particolare la scuola — venivano interessati, vi fu un ulteriore calo nell’istituzionalizza­ zione della protesta; per esempio, la percentuale degli episodi in cui compaiono organizzazioni conosciute scese a meno della metà del totale, mentre solo in un quarto di esse ora erano coinvolti i sindacati, e solo nel 5 per cento i partiti o le loro organizzazioni di massa. Gli extraparlamentari e altri gruppi appaiono in oltre un quarto del totale degli episodi. 4 Ogniqualvolta vi fu un forte aumento percentuale nel numero dei conflitti, vi fu anche un temporaneo calo della percentuale dotata di sufficiente informa­ zione da essere codificata, a indicare una carenza in quei giornali che non ave­ vano il personale o la tradizione necessari per riferire sulle proteste sociali. D all’83 per cento del totale nel 1966, la percentuale codificabile cadde al 75 nel 1967 e al 61 nel 1968, risalendo a circa il 70 sino al 1972, data dopo la quale tornò a oltre l’80 per cento del totale.

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V«autunno caldo» Nel 1969 e nel 1970 il numero delle proteste continuò a cre­ scere, benché non allo stesso ritmo del 1 968. Questi due an n i furono contrassegnati da un predominio del conflitto nell’indu­ stria e nei servizi, da un calo delle proteste nelle scuole e da un gran numero di proteste in nuove aree di conflitto: la religione, la cultura, la città. Ma i segni dell’istituzionalizzazione della pro­ testa stanno già apparendo, in particolare nelle fabbriche. In questo periodo i sindacati, presi di sorpresa dall’aumento della militanza di base nel 1968, cominciano a riguadagnare il control­ lo «cavalcando la tigre», cioè adottando le richieste e le tattiche radicali dei militanti di base, ma anche portando avanti una piat­ taforma centrata su una strategia delle riforme. I partiti e le loro organizzazioni di massa compaiono nuovamente in quasi il 10 per cento delle proteste, dimostrando di aver cominciato a rigua­ dagnare l’iniziativa persa nel 1967-68. M a questi due anni videro anche una forte presenza delle organizzazioni nuove, sia extraparlamentari che di altro tipo, che insieme sono presenti nel 2 0 per cento delle proteste nel 1969 e in oltre il 3 0 nel 1970. La percentuale dei conflitti gestiti da organizzazioni conosciute rimane costante, circa la metà del to­ tale, ma la presenza dei sindacati scende nel 1 970, mentre quella dei gruppi extraparlamentari cresce. L ’«autunno caldo» era chia­ ramente una mescolanza di re-istituzionalizzazione e di contestazione.

Discesa o plateau? Il 1971 — ben tre anni dopo il 1 968 — fu il punto culmi­ nante nel numero delle proteste, ma fu anche un anno di tran­ sizione nel quale il tasso di aumento del numero degli episodi smise di salire. Vi sono ora dei segni ancor più chiari di istitu­ zionalizzazione; benché delle organizzazioni conosciute fossero presenti in meno della metà degli episodi, la partecipazione dei sindacati salì dal 2 2 al 27 per cento del totale. La presenza dei sindacati è ancor più diffusa di quanto mostrino le statistiche, perché ora i Consigli di fabbrica, nati nel 1968-69 , si sono tra­ sformati in organismi rappresentativi dei sindacati a livello della singola fabbrica. Contemporaneamente i gruppi extraparlamen­ tari costituiti nel 1968-69 si sono dati delle strutture nazionali permanenti. 49

Nel 1972 e nel 1973 il numero delle azioni collettive di massa ebbe un netto calo: dell’ 11 per cento nel 1972 e del 20 nel 1973. Ma questo calo della frequenza della protesta era solo relativo. G ià nel 1973 il numero di episodi era ancora di tre volte supe­ riore a quello del 1966. La nostra stima per il 1974, effettuata a partire da un campione di un mese su quattro di articoli del «Cor­ riere» è grosso modo uguale a quella del 1973. Se misuriamo sem­ plicemente il numero delle azioni collettive, il ciclo è continuato sino alla metà degli anni Settanta. M a se invece misuriamo la protesta secondo il suo grado di perturbazione, il picco del ciclo era già passato nel 1970. Il numero degli episodi gestiti da organizzazioni conosciute — già elevato nel 1971 — crebbe al 53 per cento nel 1972 e al 58 nel 1973. I Consigli di fabbrica funzionavano normalmente, mentre i sindacati confederali avevano raggiunto un minimo di unità na­ zionale. Con alcune importanti eccezioni, di cui parleremo più avanti, la protesta era già istituzionalizzata nel momento in cui lo shock petrolifero del 1973 diede avvio a un nuovo periodo di crisi. Il ritorno ad alcuni degli schemi del 1966 e 1967 (vale a dire molte organizzazioni conosciute e un’alta partecipazione dei sin­ dacati) indica che l’istituzionalizzazione era andata molto lonta­ no. Tuttavia il lento calo della mobilitazione e l’accresciuta pre­ senza dei gruppi extraparlamentari suggeriscono che il ciclo non si era concluso o che, se lo era, vi erano stati alcuni cambiamenti duraturi nel repertorio della partecipazione. La tab. 1 riassume quanto finora detto, mostrando anno per anno la presenza dei vari tipi di organizzazioni nelle proteste studiate. La tab. 1 mostra alcuni elementi che si riveleranno impor­ tanti nei capitoli successivi. Innanzitutto, guardando la riga vi­ cino al totale, vediamo che la percentuale delle proteste in cui non furono presenti organizzazioni ebbe un picco agli inizi del ciclo, nel 1967-69, anni in cui coincisero la rivolta studentesca e operaia. In secondo luogo, guardando la prima riga, vediamo che la partecipazione in percentuale dei sindacati — elevata agli inizi — decrebbe rapidamente alla fine degli anni Sessanta e non tornò mai al livello del 19665. In terzo luogo, la percentuale delle presenze dei partiti e delle loro organizzazioni di massa — dopo 5 Naturalmente questo calo della presenza dei sindacati è solo rispetto al nu­ mero totale delle proteste in corso sia dentro che fuori le fabbriche, dato che quando esaminiamo la partecipazione totale dei sindacati negli scioperi essa cre­ sce di molto.

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Tab. 1 - Istituzionalizzazione della protesta: presenza dei diversi tipi di organizzazione negli episodi di protesta, suddivisi per anno (% )* Tipo di organizzazione

1966

1967

1968

1969

1970

1971

1972

1973

Media

Sindacati

4 9,5

37,5

2 6 ,1

2 5 ,7

2 2 ,4

2 6 ,8

2 7 ,5

2 9 ,9

2 7 ,7

Partiti

3 ,9

7,1

2 ,7

6 ,8

8 ,8

5 ,5

5,3

6 ,0

6 ,0

Organizzazioni di massa dei partiti

2 ,0

4,2

2 ,5

2 ,3

6 ,2

3 ,6

2 ,6

3,4

3 ,6

13,7

12,5

16,6

14,4

13,9

8,2

7,6

8,4

11,2

1,0

4,5

10,6

6 ,4

17,1

11,6

18,3

22,5

13,5

3 3,3

42,1

50,5

5 0 ,6

48,3

53,5

47,2

42,5

4 7 ,0

Altri gruppi Organizzazioni di movimento Percentuale di proteste non organizzate Numero totale degli episodi

2 04

240

517

686

876

924

830

669

4 .9 8 0

* Il totale delle percentuali non è 100 per via della presenza di più di un tipo d ’organizzazione in molti episodi.

un netto calo nel 1968 — si riprese rapidamente; alla fine del periodo, essi erano presenti in una percentuale di proteste due volte maggiore che agli inizi di esso. In quarto luogo, l’aumento proporzionale maggiore verso la fine del periodo è spiegato dalla rapida crescita delle organizzazioni extraparlamentari. Perché il numero degli episodi di protesta decrebbe tanto più lentamente dell’aumento della protesta alla fine degli anni Ses­ santa? Una causa è la presenza di gruppi extraparlamentari che ricorrevano all’azione collettiva perturbativa per ottenere spazio politico. U n’altra è l’aumento della violenza, talvolta abbinato alla prima causa. Ma una terza ragione è che vi fu come esito del ciclo un ampliamento permanente del repertorio della politica di massa, tale da includere forme di azione che prima non erano presenti ma che ora erano entrate a far parte del repertorio con­ venzionale dell’azione collettiva. L ’insolito è diventato abituale. Prima di poter valutare questa ipotesi, dobbiamo però esaminare più in dettaglio in che modo le forme di lotta si andarono evol­ vendo da forme d ’azione convenzionali a forme per turbative e violente.

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2. Le forme di lotta Vi fu una differenza importante nelle forme di lotta messe in atto agli inizi e alla fine del ciclo? Tre furono i risultati principali: innanzitutto, le forme convenzionali di protesta collettiva furo­ no sempre quantitativamente dominanti; in secondo luogo vi fu una crescita della violenza politica solo verso la fine del periodo; e in terzo luogo alla fine vi fu un incremento nella partecipazione alla base, che avrebbe limitato la capacità dei partiti e delle élites sindacali di riottenere il monopolio della rappresentatività che avevano avuto nell’assetto postbellico.

Fissare i limiti: il repertorio convenzionale Parlando del comportamento individuale, Barnes e Kaase (1979) sottolineano che la dicotomia tra partecipazione conven­ zionale e non convenzionale nella letteratura sulla scienza poli­ tica è troppo astratta: secondo loro quegli stessi elettori che par­ tecipano a un alto livello nelle elezioni sono spesso gli stessi che partecipano a forme non convenzionali di azione collettiva. I no­ stri dati sulle forme di azione collettiva sono a sostegno delle scoperte di Barnes e Kaase, benché essi possano solo parlare di preferenze individuali, e noi possiamo solo analizzare un com­ portamento collettivo. In realtà, benché ciò che più viene ricor­ dato del ciclo italiano di protesta siano la violenza e la perturba­ zione, le forme convenzionali di partecipazione furono sia numericamente che percentualmente dominanti in tutto il de­ cennio. In Italia, come altrove, quando il coinvolgimento pub­ blico aumenta, aumenta su tutta la linea (Hirschman 1982). La tab. 2 presenta le percentuali di svariate forme di azione collettiva rinvenute nei nostri dati per il periodo 1966-73, rag­ gruppati nei principali repertori: convenzionale, perturbativo e violento6. In questa tabella ciascuna forma di azione è espressa 6 Le forme di azione erano considerate perturbarne quando erano azioni di­ rette intese a causare interferenze con la vita, gli schemi abituali, gli interessi o i benefici di élites, di autorità pubbliche o di altri gruppi, o quando erano orga­ nizzate per programmare queste azioni. Così le affermazioni verbali non sono state conteggiate come azioni di protesta. Benché non fosse nostro obiettivo (né sarebbe rientrato nel novero delle possibilità) registrare tutte le azioni dirette e non-perturbative, abbiamo tenuto conto delle azioni legali, delle delegazioni e petizioni quando erano accompagnate da azioni perturbative dirette nell’ambito della stessa azione o protesta.

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dapprima come percentuale sulle forme totali di azione, e poi come numero totale di episodi (in molti episodi fu utilizzata più di una forma di azione). Tab. 2 - form e di azione convenzionali, perturbative e violente come percentuale del totale delle forme e numero degli episodi Forme di azione

% del totale delle forme d’azione

Convenzionali

56,1

Numero degli episodi 6.745

Perturbative

18,9

1 .698

Violente

23,1

2 .0 7 5

Altre, non classificabili Totale

2,1

186

100,2

9 .0 0 6

La tab. 2 mostra il predominio numerico del repertorio con­ venzionale in tutto il periodo. Se sommiamo tutte le forme con­ venzionali (petizioni, delegazioni, cortei, incontri pubblici, scio­ peri), esse costituiscono il 56 per cento delle forme totali di azione riferite nei nostri dati, mentre le forme perturbative (oc­ cupazioni, sit-in, blocchi stradali, irruzioni, pratica dell’obietti­ vo) apparvero nel 19 per cento, e la violenza nel 23 per cento delle forme totali d ’azione. La lezione della tab. 2 è chiara: mentre pochi italiani prote­ stavano picchiandosi per le strade, saccheggiando, incendiando e abbandonandosi a tumulti, la maggior parte di quelli che ricor­ revano alla protesta utilizzavano forme di azione perturbative, ma sostanzialmente pacifiche, mentre la maggior parte di coloro che protestavano e che scioperavano non oltrepassò mai i limiti del repertorio convenzionale. La forma convenzionale più comunemente usata fu lo scio­ pero, seguito dai cortei e dalle assemblee. Come frequenza ve­ nivano subito dopo le assemblee sul posto di lavoro7, seguite da forme più istituzionali (per esempio petizioni, udienze, volanti­ naggi e azioni giudiziarie). Riassumiamo brevemente alcune in­ 7 Le assemblee sono state conteggiate solo quando si verificavano in connes­ sione con un’azione perturbativa, per esempio dichiarare uno sciopero durante un’occupazione. Le semplici assemblee, o quelle assemblee che non sfociarono in un’azione perturbativa, non sono state considerate, dato che molte erano state indette per discutere di scioperi mai attuati. Q uesto senza dubbio fa sì che la frequenza delle assemblee sia considerevolmente sottovalutata.

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formazioni su queste forme convenzionali di partecipazione pri­ ma di volgerci al repertorio perturbativo che ha contrassegnato il picco intenso della mobilitazione, intorno al 1968.

Lo sciopero.

G li scioperi aumentarono e diminuirono in rispo­ sta alle pressioni economiche, ai rinnovi contrattuali e alla chiu­ sura delle fabbriche. Furono i conflitti più comuni e convenzio­ nali che troviamo nei nostri d ati8, comparendo nel 40 per cento degli episodi e in oltre il 20 per cento delle forme di azione re­ gistrate. Benché lo sciopero sia l’arma tipica della classe operaia, in quegli anni divenne anche un’espressione di dissenso o uno strumento di trattativa tra gruppi quali gli impiegati dello Stato, gli impiegati bancari, i medici e gli avvocati, che precedentemen­ te avevano cercato di differenziarsi dal proletariato. Gli scioperi vennero anche simbolicamente impiegati da gruppi con poche risorse, quali i pazienti psichiatrici, i detenuti e gli allievi delle scuole per ciechi. La gente cominciò a usare il termine «sciopero» anche quando era tecnicamente inappropriato, per conferire for­ za alle proprie proteste e collegarsi ai principali attori sociali.

Azioni dimostrative. Il corteo e il raduno pubblico — i due tipi classici di azione dimostrativa collettiva — sono le forme che troviamo al secondo e terzo posto nei nostri dati. Messe insieme, esse apparvero in oltre un terzo degli episodi e costituirono oltre il 19 per cento delle forme totali di protesta utilizzate. Aumen­ tarono grosso modo in parallelo con l’estendersi della mobilita­ zione, ma ebbero un picco prima di quello del numero totale de­ gli episodi, tornando, nel 1972, all’incirca alla stessa percentuale sul totale che avevano nel 1966. In termini numerici, nel 1973 il numero dei cortei e dei raduni pubblici fu circa tre volte mag­ giore dell’anno precedente. Le due forme apparvero spesso in sequenza, con un raduno pubblico utilizzato come punto d ’as­ semblea per i partecipanti che poi seguivano un percorso predeterminato; oppure il corteo rappresentava il passaggio ritualizza­ to attraverso la città verso un posto di raduno predeterminato. Nei nostri dati il corteo e il raduno pubblico appaiono nello stes­ so episodio di protesta in un’altissima percentuale dei casi. In­ 8 Abbiamo definito sciopero un’astensione dal lavoro o (nel caso di istituzioni non produttive come la scuola) una non-cooperazione al funzionamento dell’isti­ tuzione. Vedremo nel capitolo V II che gli scioperi furono spesso accompagnati da forme di azione più pubbliche e più perturbative, in particolare quando gli operai trovarono dei gruppi esterni che ne sostenevano le richieste.

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sieme all’assemblea di fabbrica e allo sciopero, furono le forme di azione più strettamente legate e meglio organizzate.

Assemblee.

I raduni all’interno dei luoghi di lavoro delle per­ sone direttamente interessate a un conflitto solo di rado sono fisicamente perturbativi, ma di solito avvengono per preparare uno sciopero o per discuterne uno già in corso (Regalia 1975). Anch’essi tesero a seguire uno scenario regolare, dalla distribu­ zione di volantini che annunciavano l’ora e il luogo dell’assem­ blea, a discorsi preparati dai leader o dai militanti, a voti sulle risoluzioni. La funzione principale delle assemblee fu di decidere delle forme di azione da usare in uno sciopero e di coordinare i piani necessari. Le assemblee divennero lo strumento principale dei Consigli di fabbrica — che apparvero nei reparti durante il periodo dell’«autunno caldo» — ma furono anche organizzate dagli studenti in innumerevoli occupazioni.

Azioni istituzionali.

In tutto questo periodo di disordini e con­ flitti vi fu frequente ricorso alle delegazioni, alle petizioni, al volantinaggio e all’azione legale. Queste forme istituzionali di comportamento comparvero nel 14 per cento degli episodi e co­ stituirono l’8 per cento delle azioni totali. Poiché stiamo studian­ do solo episodi che furono in qualche modo perturbativi, abbia­ mo certamente sottovalutato la percentuale delle azioni istitu­ zionali, dato che, quando conteneva solo queste forme d ’azione, un episodio non veniva affatto codificato.

Il picco della mobilitazione portò a un calo di tutte queste forme convenzionali di partecipazione? La prima scoperta importante circa la dinamica del ciclo di protesta è che il ricorso alle forme convenzionali crebbe in parallelo con la mobilitazione in gene­ rale. Via via che la protesta si diffondeva a nuovi gruppi e in settori diversi della vita italiana, la maggior parte delle persone utilizzò solo il repertorio convenzionale e non si abbandonò né alla protesta perturbativa né alla violenza. Nella fig. 2 sono riportati i dati sulle forme diverse di azione collettiva, aggregati per sottotipo, per il periodo di otto anni sul quale possediamo risultati dettagliati. Le tre curve nella fig. 2 ci mostrano tre cose. Innanzitutto, tutti e tre i repertori d ’azione — convenzionale, perturbativo e violento — crebbero in paral­ lelo durante i primi due anni e mezzo. In secondo luogo, il prin­ cipale cambiamento dopo il Sessantotto fu che il ricorso all’azio­ ne collettiva perturbativa decrebbe e fu sostituito al secondo 55

posto dalla violenza. In terzo luogo, malgrado il simultaneo au­ mento della protesta perturbativa e violenta agli inizi del perio­ do, il repertorio convenzionale di conflitto predominò sempre. Quanto al repertorio perturbativo, esso non fu mai più co­ mune del repertorio convenzionale, e fu più comune della vio­ lenza solo nel periodo relativamente breve che va dal 1968 alla fine del 1969 — quello che da ora in poi chiameremo il picco intenso di mobilitazione. I cosiddetti «momenti di follia» coin­ cidono con un aumento della protesta in generale, ma decrescono più rapidamente sia della violenza che della protesta convenzio­ nale. Numero

x

episodi convenzionali

Semestre

Fig. 2 - Numero di episodi convenzionali, perturbativi e violenti per seme­ stre, 1966-73 Contestazione e sfida Se in quegli anni vi fu un aumento quantitativo delle forme convenzionali di partecipazione, vi fu però anche un cambiamen­ to di gran lunga più evidente nell’impiego delle forme di azione perturbative. Occupazioni, blocchi, sit-in e irruzioni — forme che sono non violente ma pongono gli attori in un rapporto po­ tenzialmente conflittuale con gli altri o con le autorità — furono utilizzati nel 30 per cento degli episodi e costituiscono il 17 per cento delle azioni totali. Come mostra la fig. 2, il ricorso a queste forme crebbe prima e più rapidamente della mobilitazione totale, ma il loro impiego aveva raggiunto il culmine nel 1968 e aveva registrato un rapido calo verso la fine del periodo. Dato che era­ no le forme principali che avevano fatto scattare il ciclo di pro56

testa più lungo ma più convenzionale, esaminiamole individual­ mente per cogliere il senso di come operarono. L ’occupazione e il sit-in. In Italia, come negli Stati Uniti negli anni Sessanta, l’occupazione fu la forma di contestazione, nata in quel periodo, più frequentemente usata, e la versione italiana doveva molto all’esempio americano. Ma l’occupazione ben pre­ sto si diffuse dall’università ai posti di lavoro e agli spazi pub­ blici, elaborando una cultura e un rituale propri. Come vedremo nel capitolo VI, alcune facoltà furono quasi sempre occupate dal­ l’inizio dell’anno accademico 1967-68 fino alla primavera del 1969, con interruzioni solo durante le vacanze e sempre più fre­ quenti attacchi della polizia. Era diventata una sfida tornare a un edificio o a una facoltà e tenerli dopo che la polizia li aveva sgom­ berati. Ostruzioni e irruzioni. Ancora più gravide di scontro rispetto ai sit-in, dal momento che i risultati erano meno prevedibili, erano le irruzioni in scuole chiuse e in edifici pubblici cui era vietato l’accesso, il blocco di funzioni pubbliche di routine quali la cir­ colazione del traffico o dell’espletamento di mansioni pubbliche. Queste forme d ’azione crebbero rapidamente dal 1968 in poi. Il blocco fu di gran lunga la più comune delle due, dato che si ve­ rificò in quasi 800 casi, rispetto ai 100 di irruzione. Il blocco materiale non era l’unica tecnica utilizzata. Lo svol­ gimento normale delle cose poteva essere perturbato semplicemente dalla non-cooperazione — come avvenne nelle rivolte dei detenuti che scoppiarono nel 1968 — mentre per far cessare la produzione bastava che i lavoratori fissassero dei ritmi propri, come nel caso delle campagne di autoriduzione che cominciarono nella fabbrica Pirelli e si diffusero in tutto il panorama industria­ le in quello stesso anno9. Estensione dello sciopero. Tradizionalmente in Italia lo sciopero è sempre stato utilizzato nei periodi precedenti alle trattative per i contratti e sotto il controllo dei sindacati nazionali. Ma nel 1967 e 1968 gli scioperi cominciarono a scoppiare nelle fabbriche e nei reparti nei periodi lontani dalle trattative per i contratti, e 9 Lumley (1983, pp. 329-39) scrive che l ’autoriduzione era: «una riduzione della produzione effettuata dagli operai [...] una forma d ’azione nell’industria che colpiva l’immaginazione di ampi settori di attivisti nei reparti, nella sinistra, nei sindacati e nei movimenti sociali più in generale».

spesso senza consultazione coi sindacati (Reyneri 1978). Questi scioperi erano spesso spontanei, talvolta violenti e sempre per­ turbativi. Li analizzeremo abbastanza dettagliatamente nel capi­ tolo VII. Verso la fine del decennio, dopo che l’«autunno caldo» aveva portato una ripresa del controllo dei sindacati nelle trattative na­ zionali, si aggiunse un elemento nuovo: i Consigli dei delegati consideravano gli accordi di contratto raggiunti a livello nazio­ nale non come un punto d ’arrivo, ma come una base dalla quale partire per costruire accordi più avanzati a livello della singola fabbrica. Di conseguenza il conflitto si estese nel periodo tra le trattative per i contratti, e il centro di gravità dello sciopero sce­ se dal livello nazionale alla singola fabbrica. In questa fase i sin­ dacati erano spesso presenti, «cavalcando la tigre» della conflit­ tualità di reparto, ma le forme di sciopero erano più audaci e più per turbative che nella fase precedente. Nello stesso periodo in cui gli operai stavano intensificando le forme di azione impiegate, lo sciopero cominciò a essere uti­ lizzato da altri attori sociali in aree e settori nei quali preceden­ temente era stato meno comune e quindi aveva un alto poten­ ziale di perturbazione. I conducenti di tram e di autobus, gli addetti ai bagagli negli aereoporti, i funzionari delle dogane, gli impiegati di banca, gli insegnanti, i paramedici utilizzarono lo sciopero in modi convenzionali, ma questa «terziarizzazione» dell’arma dello sciopero toccò il pubblico direttamente e ampliò i confini del settore del movimento sociale (Accornero 1985). Azioni espressive e simboliche. Le forme di perturbazione sim­ bolica, sia che si trattasse di bruciare effigi o immagini, di fare scioperi della fame, di incatenarsi a un cancello o di usare la «pra­ tica dell’obiettivo» erano molto meno comuni di quanto ci si po­ trebbe aspettare. Abbiamo osservato il ricorso a queste forme solo nel 3 per cento degli episodi totali, e in meno del 2 per cento delle forme totali d ’azione. Per quanto scarse, queste forme «espressive» d ’azione erano importanti perché facevano notizia, portavano a una percezione diffusa del fatto che il sistema po­ teva essere ridicolizzato e attaccato, e catturavano l’immagina­ zione dei media e degli osservatori10. Tali azioni potevano anche fare parte di più vasti scenari aggiungendo humor, sorpresa e 10 L ’opera esaustiva di Lumley ha comportato un attento studio di tali forme espressive di conflitto. Sono in debito con lui per le sue intuizioni circa il tessuto e la «cultura» dell’azione collettiva.

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spettacolarità a proteste che altrimenti avrebbero potuto non at­ trarre un seguito11. Il ricorso a mezzi simbolici di espressione fu inversamente correlato al livello di organizzazione di chi effet­ tuava la protesta, e fu comune nel picco intenso della mobilita­ zione. Anche gli operai delle fabbriche adottarono forme espressive di manifestazione pubblica per pubblicizzare le loro richieste. Nelle loro dimostrazioni erano spesso presenti elementi della simbologia militare. Nei cortei che giungevano nel centro delle città i metalmeccanici indossavano le tute da lavoro, tambureg­ giando su delle latte vuote e scandendo slogan. In queste dimo­ strazioni vi erano anche elementi peculiari di gioco e di teatro che le facevano assomigliare al carnevale tradizionale12. In fab­ brica i cortei interni erano organizzati da reparto a reparto, pun­ teggiati da slogan intesi a mostrare il potere degli scioperanti, a diffondere il loro entusiasmo agli altri e ad intimidire gli oppo­ sitori. Il diritto al ricorso alle forme convenzionali d ’azione collet­ tiva venne talvolta ottenuto solo tramite lo scontro. Si consideri il caso dell’assemblea: essa divenne comune sul posto di lavoro solo dopo il periodo di lotte. Nel 1966, nel momento in cui si stavano svolgendo le trattative per i contratti, solo nel 6,4 per cento degli episodi comparivano delle assemblee. Il diritto di te­ nere assemblee in fabbrica dovette essere conquistato con la lotta dai lavoratori, che portarono gli organizzatori sindacali dentro le fabbriche sulle spalle, con una pratica dell’obiettivo che costrin­ se la direzione ad accettare il diritto di assemblea. Uno degli sco­ pi principali delle agitazioni fu quello di ottenere il diritto di partecipare ad attività più convenzionali, ma non altrettanto può dirsi per una terza categoria di azione collettiva, la violenza.

11 Per esempio, quando i sostenitori del divorzio fecero uno sciopero della fame a piazza Navona per pubblicizzare le loro richieste, gli oppositori, alla ri­ cerca di una controprotesta, organizzarono un banchetto; quando le modelle a Bologna vollero degli stipendi più alti, inscenarono uno striptease in strada M ag­ giore; a Messina due fidanzati si baciarono pubblicamente in un congresso sulla sessualità per protestare contro la repressione sessuale; le vittime del terremoto del Belice si accamparono davanti a palazzo Montecitorio per rendere pubblici i ritardi degli aiuti governativi. 12 I capi venivano spesso raffigurati come pupazzi; alla fine di un corteo pu­ pazzi che rappresentavano alcuni ministri vennero talvolta impiccati e bruciati dinanzi ai cancelli delle fabbriche.

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Infrangere i limiti: dal disordine alla violenza Gli studiosi della violenza l’hanno troppo spesso confusa con l’attività illegale, con le azioni perturbative, e talvolta con gli esiti violenti di episodi intrinsecamente non violenti15. Ai nostri scopi la violenza può essere definita come l’impiego deliberato della forza fisica in vista di obiettivi collettivi. Nel complesso le azioni violente furono osservate nel 22,2 per cento del totale del­ le azioni registrate nei nostri d ati14. Ma l’impiego della violenza — benché subito stigmatizzato dalla stampa e dalle autorità — non era spesso l’intento princi­ pale degli attori collettivi, ma solo un effetto collaterale. Come scrivono i Tilly (1975, p. 282), «Le dimostrazioni violente non costituiscono una classe di eventi a sé stante; perlopiù si verifi­ cano in mezzo a un numero maggiore di dimostrazioni simili al­ trimenti non violente». Durante il picco intenso della mobilitazione la violenza fu di questo tipo quando i dimostranti portavano avanti un piano da opporre alle autorità o alle élites-, quando questo piano era osta­ colato dalle forze dell’ordine che sbarravano loro la strada o le caricavano; quando incontravano un gruppo opposto che voleva impedire la loro azione o quando una minoranza di dimostranti cercava di radicalizzare una protesta rovesciando automobili, at­ taccando gli oppositori o la polizia. Solo verso la fine del periodo la violenza si presentò spesso come intento principale dei dimo­ stranti, via via che le forme di azione collettiva non violente per­ devano la loro capacità di colpire le élites, che la base si ritraeva dall’attività del movimento sociale, e chi voleva assurgere a lea­ der doveva intraprendere forme d ’azione sempre più radicali per crearsi un seguito. La tab. 3 illustra quanto detto, suddividendo il ricorso alla violenza nelle sue varie forme. La tabella mostra che nell’8 per cento degli episodi la violenza assunse la forma di uno scontro con la polizia (stabilire chi abbia attaccato chi in questi scontri è 13 Per esempio, gran parte della ricerca, basata su dati aggregati, sulle fonti comparative di violenza non fa alcuna distinzione tra la violenza generata dai dimostranti e quella generata dalla polizia o che si verificava nel corso di una protesta. Per una critica sulla violenza politica, vedi Della Porta 1988, e Della Porta, in corso di stampa. 14 In questo dato non è considerato quel 3 per cento degli episodi in cui vi furono esiti violenti in assenza di una forma d ’azione intrinsecamente non-violenta. Furono probabilmente dei casi in cui la polizia o altri attaccarono una dimostrazione pacifica. Per dettagli vedi Della Porta e Tarrow 1986, pp. 617-18.

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un’altra questione); nel 10 per cento dei casi vi fu un conflitto tra gruppi opposti; nel 12 per cento vennero attaccati solo dei beni materiali. Solo nel 12 per cento degli episodi da noi studiati og­ getto di un attacco premeditato furono specifiche persone. Solo l’ I per cento degli episodi furono tumulti classici e nello 0,3 per cento la violenza era diretta contro obiettivi casuali, caratteri­ stica questa delle stragi provocate dall’estrema destra. Il ruolo e la percentuale della violenza nelle varie fasi del ciclo di protesta saranno analizzati in maggior dettaglio nei capitoli successivi15; per ora basti sottolineare che la violenza non orga­ nizzata e interattiva del picco della mobilitazione nel 1968-69 è del tutto diversa dalla violenza deliberata e organizzata della fine degli anni Settanta e degli inizi degli anni Ottanta. Tab. 3 - Forme di violenza utilizzate negli episodi di protesta come percentuale del totale degli episodi e del totale delle forme di protesta % del totale delle forme

Episodi di protesta

Scontri con la polizia

% del totale degli episodi

Totale delle forme violente

7,7

3 ,9

401

Scontri di piazza

10,0

5,1

497

Danni a beni materiali

11,7

6 ,0

584

Attacchi violenti

11,8

6 ,0

589

Vandalismo

1,2

0 ,6

58

Violenza contro obiettivi casuali

0 ,3

0,1

15

4 2 ,7

2 1 ,7

2 .183

Totale

3. Il «momento di follia» Quando pensiamo a un ciclo di protesta, i nostri ricordi ed emozioni spesso condensano esperienze e fasi diverse. Così, ben­ ché abbiamo visto che la violenza non divenne significativa sino alla fase finale del ciclo, alcuni osservatori ricordano tutto il pe­ riodo come un tempo di violenza, di bombe e terrorismo. Altri unificano il movimento studentesco del 1967-68 con l’ondata di 15 Per un’analisi più dettagliata vedi D ella Porta, in corso di stampa; Della Porta e Tarrow 1986; e Tarrow, in corso di stampa.

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conflitto industriale nel 1969-70. Altri ancora hanno associato questi movimenti ai «nuovi» movimenti sociali della metà degli anni Settanta (per la pace, per l’ambiente e i movimenti femmi­ nisti). Per altri ancora tutto questo fa un tutt’uno con l’incubo del terrore organizzato che l’Italia ha subito durante la fine degli anni Settanta. Non tutti i ricordi popolari sono ingannevoli. Quando la gen­ te ricorda gli anni intorno al 1968 come il momento culminante del ciclo, coglie un elemento di verità. Il declino dell’istituzio­ nalizzazione della protesta che abbiamo visto dal 1966 al 1968 dimostra non solo che la mobilitazione era in pieno svolgimento molto prima del Maggio francese, ma che corrisponde anche a un momento di sfida, di entusiasmo collettivo, di creatività tattica e costituisce un punto di riferimento per il resto del ciclo. Persino i dati ricavati dall’analisi dei giornali comunicano questo carattere di «momento di follia» — o rottura — dal 1967 al 1969. Questo in due modi: innanzitutto nella creatività tattica di chi protestava, e in secondo luogo nella carica perturbativa delle loro azioni. Il supporto statistico a entrambe queste affer­ mazioni è riportato nelle figure 3 e 4. Nella fig. 3 vediamo il numero medio di forme tattiche os­ servate in ciascun episodio di protesta, aggregato per semestre dal 1966 al 1973. Il grafico dimostra che la versatilità tattica crebbe molto rapidamente nei primi anni del ciclo e declinò len­ tamente in un momento successivo, all’opposto di quanto fece il numero totale degli episodi, che raggiunse il massimo solo nel 1971. Unendo i risultati della fig. 3 con quelli della tab. 1 otte­ niamo che mentre la presenza delle organizzazioni riconosciute era in calo, i movimenti stavano imparando a utilizzare sempre più varie forme di protesta. Successivamente, mentre l’istituzio­ nalizzazione cresceva, la versatilità tattica subiva un calo. Le occupazioni nelle università furono l’esempio archetipico di innovazione tattica. Infatti all’interno dell’occupazione si or­ ganizzavano gruppi di lavoro, si ciclostilavano bollettini, si or­ ganizzavano assemblee, si tenevano lezioni16. Ma anche nelle fabbriche il 1968 e 1969 furono anni di innovazione tattica. Gli operai coordinarono dei blocchi del lavoro, organizzarono cortei intorno alla fabbrica, inventarono canti e slogan e «praticarono l’obiettivo» della riduzione della velocità della catena di montag­ gio e della limitazione del cottimo. Alcuni ricordano questo pe16 Per un’eccellente descrizione vedi Lumley 1983.

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Numero medio 2.5 24

_____I_______I_______I_____ 1967

1968

1969

1970

1971

i_______ I------1972

1973

Semestre

Fig. 3 - Numero medio di forme d’azione per episodio, per semestre, 19661973 riodo come un periodo di spontaneità; ma, come per il movimen­ to per i diritti civili americano (McAdam 1983), è più esatto par­ lare di innovazione organizzativa e tattica. Lo sconvolgimento delle istituzioni raggiunse il suo massimo esattamente in quel periodo. Per avere un’idea della carica perturbativa delle proteste del 1967-69 possiamo sommare il nume­ ro delle forme tattiche utilizzate in ciascun episodio e assegnare un peso a ciascuna di esse secondo la sua carica perturbativa per gli altri, per gli schemi abituali e per l’ordine pubblico17. Nella fig. 4 presentiamo il livello medio di questa carica per semestre per tutti gli episodi di protesta. Come mostra la figura, essa rag­ giunse il suo culmine nel 1968, molto prima che l’azione collet­ tiva raggiungesse il proprio livello quantitativo massimo. Ci fu un picco minore nel 1969, prima di un lungo declino lungo i pri­ mi anni Settanta. Un altro piccolo aumento è visibile nel 1973, ma solo in funzione della spirale di violenza crescente. I dati qui presentati sono a sostegno dell’idea avanzata nel 17 Ad ogni forma d ’azione è stato assegnato un valore base di «1», ed essa è stata poi soppesata secondo il suo grado valutato di perturbazione per gli altri. Le petizioni e le delegazioni hanno avuto il peso 1, gli scioperi, i raduni pubblici e i cortei il peso 2, le occupazioni, i blocchi e le irruzioni il peso 3, i danni ai beni materiali o il furto il peso 4, gli scontri violenti deliberati il peso 5. Naturalmente a parità di altri fattori il livello di perturbazione crebbe di pari passo col numero di forme d ’azione diverse nel corso di uno stesso episodio.

63

Punteggio medio

Semestre

Fig. 4 - Punteggio medio del grado di pertubazione di tutti gli episodi di protesta per semestre, 1966-73 capitolo I e qui sopra, che a far scattare il ciclo fu un cambia­ mento qualitativo della protesta, che diede poi inizio a un ciclo di conflitto più lungo ma più convenzionale. Una ulteriore confer­ ma si ha da un confronto tra la curva della carica perturbativa nella fig. 4 e la parabola del numero degli episodi di protesta nella fig. 1. Il «momento di follia» del 1967-69 fece scattare un ciclo di protesta lungo, ma molto più convenzionale.

4. Conclusioni Benché un quadro più chiaro delle diverse fasi del ciclo ita­ liano della protesta emergerà solo dai casi che analizzeremo nei capitoli successivi, la parabola dell’azione collettiva esaminata in questo periodo ha già indicato alcune chiare direzioni. Il periodo fu un periodo di sconvolgimento, di disordine e spesso di vio­ lenza, ma la maggior parte delle proteste assunse le forme con­ venzionali dell’espressione democratica pubblica. Altre forme furono di sfida, inaspettate e più perturbative, mentre alcune furono violente. 64

Tuttavia il picco della mobilitazione durò solo dal 1967 al 1969: dopo quella data il numero di episodi continuò a crescere fino al 1971, ma da quell’anno il repertorio era più convenzio­ nale, meno perturbativo, e stava già tornando sotto il controllo delle organizzazioni. Il Maggio strisciante italiano fu in realtà costituito da un breve «momento di follia» e da un periodo molto più lungo di istituzionalizzazione della carica perturbatrice. Benché sia facile capire perché la violenza debba rimanere nel ricordo molto tempo dopo che le proteste pacifiche siano sta­ te dimenticate, le azioni dichiaratamente violente costituirono una netta minoranza del repertorio di azione collettiva utilizzate sino al 1972. Solo verso la fine del periodo, quando sia la pro­ testa convenzionale che quella perturbativa avevano subito un calo, si ebbe un significativo aumento della violenza organizzata. La violenza era funzione del calo della mobilitazione, non una sua estensione. Perché è così importante sottolineare che il picco della mo­ bilitazione terminò così presto? La domanda può essere diretta sia ai moderati di oggi che all’estrema sinistra del periodo pre­ cedente. I primi, i quali sostengono che ci fu una «continuità» tra il Sessantotto e il terrorismo organizzato della fine degli anni Settanta, ipotizzano una continuità nella natura della protesta che non trova sostegno nei documenti pubblici. Ma il loro errore è meno importante di quello dei gruppi extraparlamentari che nacquero dal momento di rottura del 1967-69. Convinti dalla conflittualità di massa dell’«autunno caldo» che la mobilitazione avrebbe continuato a crescere, essi sopravvalutarono la disponi­ bilità della base all’azione collettiva perturbativa, fornendo così il pretesto alla repressione, alienando parte importante del pub­ blico dall’azione collettiva in generale e aprendo la strada ai fau­ tori della violenza d ’avanguardia. Il fatto che la mobilitazione di massa subisse un calo fu l’origine del fallimento sia del movimen­ to sociale sia delle sette della violenza organizzata un decennio più tardi. Tuttavia questi fatti non devono farci perdere di vista i ri­ sultati positivi ottenuti dal «momento di follia». Esso coinvolse centinaia di migliaia di persone in una.di quelle rare parentesi creative della storia sociale. Benché non altrettanto immediata­ mente minaccioso del Maggio francese, il Sessantotto italiano iniziò prima, durò di più ed ebbe effetti politici e sociali più pro­ fondi. Analizzeremo i principali effetti del Sessantotto nel resto di questo libro; per ora ricordiamo che il più importante di essi fu che, nel dimostrare la vulnerabilità del sistema di fronte alla 65

protesta, esso incoraggiò settori più tranquilli della società ita­ liana a ricorrere all’azione collettiva. Questo portò una nuova generazione di italiani^ al livello base di una classe politica che non si era rinnovata dal 1945. Dai primi conflitti del ’68 si formarono nuove organizzazio­ ni; i sindacati furono ringiovaniti di nuovo personale e nuova militanza; persino i partiti della sinistra — caduti nel favore dei giovani nel picco della mobilitazione — subirono un rinnova­ mento dall’influenza di questa nuova generazione di attivisti. Il «momento di follia» estese il repertorio futuro della partecipa­ zione proprio attraverso quel ciclo di protesta da esso stesso ge­ nerato.

IV

ATTORI, OPPOSIZIONI E STATO

L ’operaio conosce la fabbrica, il ritmo ossessivo della catena di mon­ taggio, il capoturno, le spie e i controllori, il padrone e la busta paga. Non conosce il capitalismo monopolistico. L ’assistito conosce le squal­ lide sale d ’aspetto, il funzionario o l’assistente sociale, il sussidio. Non sa cosa sia [...] lo Stato sociale. L ’affittuario conosce il soffitto che perde e i radiatori ghiacciati, e conosce il padrone di casa. Non conosce il sistema bancario, le società immobiliari e le imprese edili. (Piven e Cloward 1977, p. 20)

Chiude un cantiere navale L ’antica città di Trieste è al punto di giunzione di tre culture. Con la sua storia di principale sbocco al mare degli Asburgo, che è ormai solo un ricordo, e tagliata fuori dal suo hinterland natu­ rale, la città sopravvive come avamposto della cultura italiana per ragioni più politiche che economiche. Nell’economia totale il peso del settore pubblico è di conseguenza grande, particolar­ mente nei traffici e nell’industria di costruzioni navali, che ora è solo un ricordo della gloria passata. Trieste è una città politicamente moderata, ma qui, come ovunque, i sindacati dei portuali sono molto agguerriti. Alla metà degli anni Sessanta le costruzioni navali si stanno spostando verso l’Asia, e i cantieri italiani soffrono di ipercapacità produttiva. Nel giugno 1966, nel mezzo delle trattative per il contratto nazionale, I’I ri, che controlla l’Italcantieri, annuncia un piano di ristrutturazione dell’industria intorno a pochi centrichiave. Nel quadro di questo piano, i Cantieri Riuniti di Trieste saranno fusi in un’entità più grande con sede a Genova e il ba­ cino San Marco sarà chiuso («Corriere della Sera», 24 giugno 1966). 67

La C g i l e la C i s l , unite in nome della solidarietà locale, di­ chiarano uno sciopero generale, che ottiene un ampio sostegno locale, dai cantieri alle scuole, dai negozi ai trasporti pubblici alle fabbriche. Un corteo degli operai della San Marco è seguito da un incontro pubblico nel centro storico per richiamare l’atten­ zione sui problemi della città. Dopo aver dimostrato la loro forza i sindacati hanno un incontro col presidente della Camera di Commercio, i quattro partiti che amministrano la città, la dele­ gazione parlamentare cittadina, il sindaco, il presidente della Re­ gione e i funzionari di vertice dellTtalcantieri. La delegazione si reca a Roma per incontrare l’allora presidente del Consiglio Aldo Moro («Corriere della Sera», 24 giugno 1966). Questa sequenza ben orchestrata e quasi rituale di eventi sor­ tisce l’assicurazione che si troverà una soluzione tale da ridimen­ sionare il settore dei cantieri navali senza dimenticare le esigenze degli operai delle città. Ma a metà estate niente è stato ancora fatto, sicché viene dichiarato un altro sciopero generale, promos­ so da tutte e tre le confederazioni sindacali e con un sostegno ancor più ampio dei cittadini. Questa volta, tuttavia, il rituale corteo e il raduno pubblico non terminano in un tranquillo in­ contro con i funzionari, ma in uno scontro con la polizia. Ven­ gono scagliate pietre contro la sede della R a i che non ha dato abbastanza risalto alla protesta («Corriere della Sera», 2-4 agosto 1966). Il governo reagisce alle proteste suggerendo un compro­ messo — chiudere i bacini San Marco spostando la sede dell’Italcantieri da Genova a Trieste. La manovra tranquillizza i triestini, ma dall’altra parte della penisola, a Genova, i portuali, i negozianti e i politici reagiscono violentemente alla proposta. Dalla fine di settembre alla fine del­ l’anno i portuali di Genova organizzano una serie di scioperi im­ provvisi per chiedere il trasferimento dellTtalcantieri nella loro città, oltre ad un maggior aiuto economico per la sua economia in declino. Anche qui le tre confederazioni collaborano e inviano una delegazione congiunta a Roma a parlare col governo. Anche qui raccolgono un ampio sostegno sociale nel nome della solida­ rietà locale. Ma Genova non è Trieste: le contenute manifestazioni dei portuali e l’espressione di solidarietà dei cittadini fanno rapida­ mente nascere un confronto anche violento, mentre i negozianti abbassano le saracinesche, ci sono blocchi del traffico e scontri tra giovani e polizia. In una manifestazione di massa gli studenti «maoisti» approfittano del corteo dei sindacati e del raduno pub­ blico per riversarsi nelle strade della città, spaccare vetrine, dan­ 68

neggiare automobili e, secondo il «Corriere della Sera», rubare libri1. Ne seguono degli arresti e un processo («Corriere della Sera», 29 settembre 1966). Come nella protesta di Capodanno a Livorno vista nel capitolo precedente, gli studenti utilizzano le proteste convenzionali delle organizzazioni ufficiali come base di partenza per un’azione perturbativa. Nella città adriatica le notizie degli eventi di Genova fanno nascere il timore che Trieste possa perdere l’Italcantieri. Nasco­ no nuovi scioperi per ricordare al governo il suo impegno di man­ tenere aperto il San Marco. Ma questa volta il conflitto si dif­ fonde al di là dei cantieri e sfugge al controllo dei sindacati. Il 4 ottobre alcuni partecipanti a un corteo indetto dai sindacati in­ terrompono l’inaugurazione di una nuova scuola con grave im­ barazzo del ministro della Pubblica Istruzione che è presente. Come i genovesi anche i lavoratori triestini non esitano ad ap­ profittare dell’opportunità presentata da un evento pubblico per insistere sulle loro richieste. Passando davanti agli uffici di un giornale locale, il corteo getta contro le sue finestre dei pezzi di carbone per protestare contro il fatto che non abbia riferito dello sciopero («Corriere della Sera», 5 ottobre 1966). Q u e sti a sp e tti in co n tro llati dello sciopero com in cian o a p re ­ occu p are la C is l e i suoi am ici d em o cristian i. Q u an d o il 9 o tto b re la C g i l d ich iara un altro scio pero , i lead er d ella C is l si tirano in dietro. C i son o scon tri con la p o lizia, b locch i del tra ffic o e un attacco alla sed e delle A c li («C o rriere d ella S e ra », 12 o tto b re 1966). Q u an d o l ’in decisio n e del gov ern o d iv en ta ch iara, l ’en tu ­ siasm o e l ’u n ità d ella prim a fa se d ella crisi p o rta ad aggression i, d iv isio n i e violen ze. A lla fin e tu tto si sistem a con un tran qu illo com p ro m esso e il co n flitto sp ro fo n d a nelle acque fan go se della p o litica italian a.

Perché iniziare a parlare degli attori di quello che sarà un ciclo nazionale di protesta con una contrapposizione avvenuta nel 1966 sulla chiusura di un’industria ormai sorpassata, ai limiti estremi dell’Adriatico? Il caso di Trieste e di Genova illustra al­ cuni aspetti cruciali del ciclo che sta iniziando: innanzitutto il gran numero di conflitti in cui gli attori difendevano il proprio status da sconvolgimenti sociali al di fuori del loro controllo; in secondo luogo, il ruolo della competizione tra gruppi nella dif­ 1 M etto il termine «m aoista» tra virgolette perché in questa fase i giornalisti spesso usavano il termine in modo indifferenziato per caratterizzare tutti i gruppi di studenti estremisti.

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fusione del conflitto, e per finire l’importanza della politica e dello Stato quale arbitro. I lavoratori dei cantieri erano persone semplici con richieste tipiche, che non per loro colpa stavano per perdere un lavoro a causa del cambiamento tecnologico. Aiutati dai sindacati cerca­ no di reagire, e così facendo invocano alleanze sociali, estendono i temi della loro protesta dal lavoro alla difesa del territorio, at­ taccano ampi e più nuovi obiettivi. Via via che procede, la di­ sputa fa scattare l’opposizione di altri, il che estende l’asse del conflitto e lo indirizza verso lo Stato. Essa scompare dalla scena pubblica quando viene inghiottita dalle acque fangose della me­ diazione politica. In questo capitolo esamineremo dapprima gli attori sociali centrali del ciclo — gli operai e gli studenti — e poi i gruppi secondari ai quali il disordine si diffuse, prima di tornare ad al­ cuni degli assi principali del conflitto tra attori e oppositori, Sta­ to e società. In questo capitolo sottolineeremo la natura difensi­ va di molte delle lotte popolari, e i tentativi degli organizzatori del movimento sociale di trasformarle in motivazioni di una tra­ sformazione rivoluzionaria.

1. Studenti e operai Il decennio 1965-75 generò un ricco e confuso insieme di azioni, di scontri e di competizioni tra gruppi opposti. Questa varietà è immediatamente manifesta nella gamma degli attori so­ ciali e dei gruppi che troviamo nei resoconti dei giornali2. Non solo il repertorio del conflitto si ampliò rapidamente da forme convenzionali a forme perturbative e violente, come abbiamo vi­ sto nel capitolo III, ma anche il settore del movimento sociale si estese dagli studenti agli operai, che a loro volta lo trasmisero a tutta una gamma di altri gruppi e combinazioni di gruppi, via via che il ciclo acquisiva forza. Nella tab. 4 individuiamo i principali attori sociali partecipanti ai conflitti descritti nei nostri dati. E s­ si sono elencati in ordine numerico decrescente: le percentuali nella colonna a sinistra si basano sulla loro presenza nel numero 2 G li attori erano considerati «partecipanti» alle proteste solo se vi prende­ vano fisicamente parte; le espressioni di sostegno verbale o scritto non sono con­ siderate «partecipazione». Queste e altre decisioni nella codifica e nell’analisi del progetto sono rinvenibili in Social Protest and Policy Innovation Project 1985.

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totale degli episodi, mentre la seconda colonna riporta in che misura ciascuno di essi era rappresentato sul totale degli attori sociali3. Tab. 4 - Gruppi occupazionali e demografici attivi negli episodi di protesta come percentuale del totale degli episodi e del totale degli attori sociali % del totale degli episodi

% del totale degli attori sociali

Totale dei gruppi

Giovani

3 8 ,6

33,1

1.922

Operai

2 1 ,6

18,6

1.078

N on identificati

12,4

10,7

6 19

Impiegati pubblici

12,1

10,4

601

Gruppi territoriali

8,3

7,2

415

Soggetti

Nuovi ceti medi

7,7

Ceti medi autonomi

5,3

Altre occupazioni Altri gruppi demografici

6 ,6

385

4 ,6

263

4,2

3 ,6

211

3 ,0

2 ,6

147

Agricoltori

1,7

1,5

87

Pensionati, assistiti e disoccupati

1,5

Totale

1,3 1 0 0 ,2 *

76 5 .803

* Questo totale è superiore a 100 per via della partecipazione di molteplici gruppi ad alcuni episodi.

Gli studenti G li studenti e i giovani furono il gruppo più numeroso tra quelli che ricorsero all’azione collettiva nel periodo globale dal 1966 al 1973. Essi apparvero in quasi il 40 per cento degli epi­ sodi totali e costituirono un terzo degli attori sociali. Come ve­ dremo nel capitolo VI, molti degli studenti parteciparono a di­ spute nel campo della scuola, ma li troviamo anche in proteste

3 Attribuendo un’identità sociale o demografica ai partecipanti, è stato rac­ comandato a chi codificava i nostri dati di essere molto letterale; solo quando un attore sociale era chiaramente individuato nelle fonti ne veniva effettuata la tra­ scrizione.

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riguardanti le relazioni internazionali, in conflitti urbani, nelle lotte della classe operaia e sempre più nei conflitti ideologici. G li studenti furono talmente centrali nel ciclo di protesta a partire dalla metà degli anni Sessanta, che occorre uno sforzo per rendersi conto che dalla fine della seconda guerra mondiale erano stati ampiamente assenti dall’arena pubblica quali attori autono­ mi, se non in manifestazioni convenzionali condotte dai partiti istituzionali e dalle organizzazioni di massa. Nel momento in cui l’Italia entrava nel terzo decennio dopo la fine della guerra, cia­ scuno dei principali partiti possedeva una sua organizzazione gio­ vanile e studentesca lungo linee frontiste classiche. Le due prin­ cipali organizzazioni degli studenti universitari, I’U gi (Unione goliardica italiana) e l’Intesa universitaria di matrice cattolica erano egemonizzate dai tre partiti principali4. La fase ascendente del ciclo — nella misura in cui coinvolse gli studenti universitari — può largamente essere vista come una loro liberazione da queste vecchie istituzioni. Ma «liberazione» non significa generazione spontanea della rivolta: quando alla metà degli anni Sessanta nacque il nuovo movimento studente­ sco, esso non apparve pienamente maturo, né era autonomo da queste organizzazioni; si sviluppò piuttosto all’interno di esse e fu aiutato da molti che erano politicamente cresciuti al loro in­ terno, come vedremo nel capitolo VI. Le organizzazioni studentesche preesistenti, le richieste tra­ dizionali riguardo alle istituzioni della scuola e i nuovi movimen­ ti, sono questi i tre elementi che si fusero in una serie di occu­ pazioni: alle università di Trento, Pisa, Torino, Venezia e Milano nel 1967 e agli inizi del 1968 e in pochi licei-chiave, mol­ to prima che si sentisse parlare del Maggio francese. Tre caratteristiche inusuali emergono in queste occupazioni. Innanzitutto il nuovo ruolo militante degli studenti cattolici, in particolare alla Cattolica di Milano e alla nuova università di Trento5; in secondo luogo il fatto che la protesta di massa fosse accesa dai dibattiti sulle politiche pubbliche — per esempio gli aumenti delle rette universitarie, il numero chiuso, la pianifi­

4 Come scrive Lumley (1983, pp. 162-63), « L ’ethos di queste organizzazioni derivava dal mondo dell’élite politica e culturale [...] La politica degli studenti universitari più attivi rispecchiava quella del Parlamento nazionale». 5 G li eventi della Cattolica sono trattati in dettaglio da Lumley (1983, pp. 190 sgg.), e saranno da noi affrontati nel cap. V ili.

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cazione urbana — e non da richieste «utopistiche»6; in terzo luo­ go l’importanza delle facoltà tecnologiche — come le facoltà di Architettura di Venezia e Torino e del Politecnico di Milano — nell’iniziare la protesta studentesca7. M a il movimento studentesco italiano non era limitato a que­ ste università importanti, né rimase all’interno della scuola. Si diffuse quasi immediatamente alle università di Firenze, Roma, Bologna e in tutto il Sud e le Isole8. Si diffuse ai licei e agli istituti di formazione professionale, dove il tema della protesta anti-istituzionale era diffuso e generalizzato nel rifiuto dell’auto­ rità degli insegnanti. Delle circa 1.900 proteste di studenti e gio­ vani che troviamo nei nostri dati, 270 si verificarono nelle scuole medie o superiori, 153 negli istituti professionali, e solo 143 nelle università. La funzione del movimento di protesta universitario fu di dimostrare che chi osava poteva sfidare le autorità; ben presto esso sarebbe sparito come movimento a sé stante. La fig. 5 riporta l’andamento della protesta studentesca sia nelle università che nelle scuole medie superiori. La prima curva mostra che il movimento studentesco universitario iniziò nella primavera del 1967, toccò il massimo un anno dopo, e aveva già avuto un calo nell’autunno del 1969. Gli studenti delle scuole medie superiori cominciarono a protestare sul serio solo nel 1968 e la loro attività di protesta si estese fino agli anni Settanta. Gli studenti universitari furono al cuore del picco intensivo iniziale della mobilitazione che abbiamo visto nell’ultimo capitolo, men­ tre gli studenti delle scuole medie superiori vennero dopo e con­ tribuirono molto di più all’aumento della violenza9. 6 Per esempio nell’occupazione della Cattolica nel novembre 1967, il tema specifico era la proposta del raddoppio delle tasse universitarie avanzata dalle autorità accademiche. Cfr. il «Corriere della Sera», 16 novembre 1967, p. 9. 7 La facoltà di Architettura di Milano venne occupata per la prima volta il 16 marzo 1967. Seguì nel maggio e giugno un’occupazione di due settimane nella facoltà di Architettura a Torino; quella a Venezia si verificò nel dicembre dello stesso anno. 8 L ’università di Napoli appare molto spesso nei resoconti giornalistici, cosa notevole perché la sua popolazione studentesca — a differenza di quella di M i­ lano o di Torino — non era mai stata ben organizzata prima del 1968. La distri­ buzione regionale degli studenti presenti come attori della protesta nei nostri dati è la seguente: Nord-ovest (compreso Milano) 968 episodi (solo a Milano 723), Nord-est 121, Centro 254, Sud 492, Isole 75, totale 1.910. 9 U n ’analisi dei rapporti tra la protesta sociale e la violenza la si può trovare in Della Porta e Tarrow (1986), in Tarrow (1989, in corso di stampa) e in Della Porta (1989, in corso di stampa).

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Numero

Semestre

Fig. 5 - Proteste studentesche nelle università e nelle scuole superiori per semestre, 1966-73 Gli studiosi dei movimenti sociali spesso sottovalutano quel­ le ondate di protesta che si diffondono per solidarietà tra i di­ versi gruppi, ma il movimento studentesco si diffuse anche at­ traverso l’opposizione fra gruppi, e rapidamente provocò stu­ denti moderati e oppositori dell’estrema destra a mobilitarsi con­ tro di esso. Questo antagonismo portò a una prima tragedia: nel 1966, durante una manifestazione contro la legge G ui all’univer­ sità di Roma, uno studente di sinistra, Paolo Rossi, venne preso a sprangate e più tardi morì 10. L ’incidente diede vita a una delle prime dimostrazioni politiche del ciclo, dimostrando la disponi­ bilità a protestare degli studenti universitari e costringendo il rettore a dimettersi. Il frazionamento e la competizione ideologica non erano li­ mitati alle università. Praticamente ogni occupazione di liceo da­ va vita a una contro-dimostrazione di qualche tipo. G ià nel mar­ zo 1968, per esempio, quando alcuni studenti di sinistra del liceo Parini di Milano votarono una occupazione, «gli studenti che hanno votato contro l’occupazione si sono rifiutati di seguire le lezioni e hanno indetto una contro-occupazione» (Liceo Parini, p. 6). La protesta acuì le divisioni tra i gruppi di studenti, e que­ 10 Vedi «l’Unità», 27 aprile 1986, p. 7, per una narrazione dal punto di vista di un partecipante. Il caso Rossi unì i gruppi parlamentari e della nuova sinistra intorno alla bandiera dell’antifascismo; non era la prima volta che questo sarebbe successo. Cfr. cap. X II per un caso molto più importante.

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sto accrebbe la carica di perturbazione delle proteste studente­ sche. Il ciclo si diffuse attraverso questi antagonismi, oltreché attraverso la solidarietà e il proselitismo. Il movimento studentesco italiano si rifiutava di rimanere confinato nella scuola. Politicizzati dai problemi della scuola e radicalizzati dalle ripetute occupazioni e attacchi della polizia e della destra, gli studenti finirono con l’uscire dalle scuole e con l’organizzarsi intorno ad altri temi. Ma quando lasciarono le fa­ miliari mura delle università e cercarono alleati, era ancor più facile che incontrassero dei gruppi ostili, che rendessero nota la loro presenza attraverso la violenza, e si scontrassero con le forze dell’ordine11. Gli studenti divennero i principali agenti della dif­ fusione della protesta, comparendo nelle proteste urbane, nei movimenti ecologici e in particolare a sostegno degli operai. Vol­ giamo dunque ora la nostra attenzione a questi ultimi. Gli operai L ’Italia non era un caso isolato per quanto riguarda il ruolo dei giovani nel suo ciclo di protesta; ma era un caso particolare per il numero e l’intensità dei conflitti nell’industria. Gli operai dell’industria comparvero nel 22 per cento degli episodi riferiti nel «Corriere della Sera» e costituirono in più del 18 per cento dei casi gli attori sociali partecipanti ai conflitti da noi incontrati. Questi dati non devono sorprenderci date le condizioni cui era stata soggetta in passato la classe lavoratrice. Ma sino alla fine degli anni Sessanta, la divisione dei sindacati, la velocità della trasformazione economica e la strategia «nazionale» del Pei li aveva lasciati disorientati e disorganizzati. Eccezion fatta per il breve periodo del conflitto industriale scoppiato agli inizi degli anni Sessanta, non vi era stato nessun grande periodo di lotta della forza-lavoro a partire dal 1947-48. U n’immagine che è sopravvissuta di questo periodo è la pro­ testa spontanea a cui davano vita prevalentemente lavoratori im­ migrati marginali e non organizzati. M a come osservano Frances Piven e Richard Cloward (1977, p. 24) a partire dalla loro ricerca negli Stati Uniti, «la protesta tenderà ad avere un impatto seria11 Q uesta è un’osservazione che devo a Enrico Ercole, che ha analizzato le proteste degli studenti universitari sulle quali essa si basa. Per un caso esemplare di come abbandonare l’università potesse portare alla radicalizzazione e alla vio­ lenza, cfr. cap. VI.

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mente perturbativo quando coloro che protestano rivestono un ruolo centrale in un’istituzione», e questo valeva anche per l’I­ talia. Anche se, in seguito, gli operai non specializzati avrebbero svolto un ruolo importante, la prima spinta all’«autunno caldo» fu condotta da operai specializzati che erano stati policizzati dai sindacati in periodi passati di conflitto (Pizzorno et al. 1978). Il ciclo del conflitto industriale dal 1968 al 1972 non fu do­ minio esclusivo di nessun gruppo di operai. Coinvolse gli operai a tutti i livelli di specializzazione ed esperienza, e fu stimolato dalla militanza sindacale e non in pochi centri dell’industria pe­ sante. I primi successi in fabbriche quali la Pirelli, la Montedison e la Sit-Siemens mostrarono ai sindacati la vulnerabilità dell’im­ presa, incoraggiarono gli operai altrove, e a partire dalla fine del 1968 cominciarono a diffondere il conflitto agli operai non qua­ lificati e non organizzati, nonché al Veneto e al M eridione12. Simbolicamente importanti per dimostrare la disponibilità degli operai al conflitto in regioni moderate furono gli scioperi di Por­ to Marghera, di Valdagno, di Avola e Battipaglia, dove la polizia sparò e uccise degli scioperanti. Nel difficile mercato del lavoro della fine degli anni Sessanta, gli operai ebbero la possibilità e l’organizzazione per sfidare l’impresa, anche là dove i loro sin­ dacati erano moderati, come vedremo nel capitolo VII. L ’adesione allo sciopero tra gli operai non era sempre unani­ me. Ma anche la mancanza di unità degli operai e il desiderio di alcuni di essi di riconquistare dei vantaggi passati furono elemen­ ti importanti nel diffondere il conflitto. Troviamo nei nostri dati dei casi di operai sindacalizzati che scioperano per rifiutare le azioni «selvagge» dei nuovi militanti; di operai non sindacalizzati che lottano per il «diritto al lavoro» contro azioni richieste dai sindacati; di impiegati che effettuano scioperi «perequativi» per riconquistare i vantaggi salariali che stavano perdendo rispetto agli operai manuali. 11 conflitto talvolta andò oltre le richieste dei sindacati. Gli operai spesso rifiutarono la delega dei loro rappresentanti sinda­ cali, andando al di là delle loro richieste per attaccare il cottimo 12 Particolarmente importanti nel Veneto erano la città industriale di V alda­ gno e il grande complesso petrolchimico di Porto Marghera-Mestre. La presenza documentata di scioperi dell’industria per regione nel nostro campione di giornali è la seguente: Nord-ovest 673 episodi (dei quali in provincia di Milano 312), Nord-est 71, Centro 60, Sud 128, Isole 34, totale 966. Questa era naturalmente una piccola percentuale degli scioperi effettivi — quelli riferiti dai datori di la­ voro — ma sembra ricalcare molto da vicino la distribuzione percentuale del conflitto industriale regionale.

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e i ritmi di lavoro. Benché la forza organizzativa dell’ondata di scioperi fosse prevalentemente dovuta alla crescente unificazio­ ne tra le tre principali confederazioni sindacali, la sua carica perturbativa poteva anche essere riportata alla competizione esi­ stente fra esse. Come nella piccola guerra che abbiamo visto tra Trieste e Genova, raramente la competizione era apertamente riconosciuta, ma come vedremo nel capitolo VII gli scioperi più perturbativi furono quelli in cui parteciparono le organizzazioni in competizione tra loro.

2. I settori di mezzo Benché gli operai e gli studenti fossero i primi soggetti nel ciclo di protesta, ben presto non furono i soli a mobilitarsi. Gli impiegati del settore pubblico furono tra i primi partecipanti a un ciclo di protesta che — proprio per via della loro partecipa­ zione — coinvolse rapidamente lo Stato. Alcuni gruppi della classe media, sia nuova che vecchia, in particolare nelle città del Nord, cominciarono a partecipare dopo che gli studenti, gli ope­ rai e gli impiegati pubblici avevano dimostrato che il sistema po­ teva essere sfidato, spesso adattando il repertorio di azione col­ lettiva dei loro predecessori. Gli impiegati pubblici Gli impiegati pubblici costituiscono il terzo gruppo per ordi­ ne di grandezza dei partecipanti rappresentati nei nostri dati. Qui i dati smentiscono totalmente l’immagine di un ciclo di pro­ testa rinfocolato da gruppi marginali che cercano di sovvertire il sistem a13. Gli impiegati pubblici — i funzionari alti e medi, i colletti bianchi a tutti i livelli dell’amministrazione, gli impiegati nella comunicazione, nei trasporti, nella sanità, quelli del para­ stato, gli insegnanti, gli addetti ai servizi municipali — parteci­ parono al 12 per cento degli episodi, rappresentando il 10 per cento degli attori sociali. 13 D a notare: ho escluso da questa categoria tre importanti gruppi di impie­ gati pubblici — i ferrovieri, gli operai del settore pubblico e i docenti universi­ tari. I ferrovieri e gli operai del settore industriale di proprietà dello Stato sono stati classificati con gli altri operai dell’industria, mentre i docenti universitari sono considerati insieme alla classe media istruita.

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I conflitti in cui furono coinvolti degli impiegati pubblici die­ dero la prima prova importante del fatto che non solo i poveri, i marginali e la classe lavoratrice avanzavano delle critiche al mo­ dello di sviluppo italiano. La maggior parte degli impiegati pub­ blici erano elettori politicamente moderati. Era opinione diffusa che dovessero il loro impiego al clientelismo, e spesso venivano denigrati dalla sinistra come «parassiti»; molti di essi erano en­ trati nel settore pubblico sotto il fascismo, e alcuni votavano per l’Msi (Putnam 1975, pp. 98, 110). L ’estendersi dell’ondata di protesta a membri della borghesia di Stato fece molto per raf­ forzare l’impressione di una società le cui fondamenta stavano crollando. Gli impiegati pubblici furono estremamente importanti in quella che Accornero (1985) ha chiamato la «terziarizzazione» dell’ondata di protesta — vale a dire nel disturbare il pubblico — perché potevano fare molto danno ai consumatori, agli utenti di un servizio, ai pensionati e ai clienti dello Stato assistenziale. I conducenti di autobus, i funzionari delle dogane, gli impiegati del ministero delle Finanze, gli addetti ai caselli e quelli degù uffici licenze non sono centrali per l’apparato produttivo di una società capitalista, ma possono perturbarne la vita giornaliera più facil­ mente della maggior parte degli operai (Accornero 1985, p. 2 8 )14. II conflitto si estese talvolta anche a coloro che dipendevano dai servizi degli impiegati pubblici in sciopero. I camionisti col­ piti dalle lungaggini dei funzionari delle dogane bloccarono il traffico alle frontiere; i pendolari bloccati dagli scioperi ferro­ viari bloccarono le banchine e i treni; i pazienti dei medici, col­ piti dai loro scioperi, fecero dei cortei su sedie a rotelle. In se­ guito a queste agitazioni «spontanee» il governo dovette inter­ venire per costringere a una composizione di queste vertenze — il che è esattamente la ragione per cui erano state organizzate le agitazioni. Avanzando richieste pubbliche queste persone pote­ vano attrarre l’attenzione sul modo in cui gli scioperi perturba­ vano la loro vita, esercitando una pressione sul governo affinché trovasse una soluzione. Gli scioperi dei servizi pubblici spesso sfuggirono al controllo delle tre principali confederazioni sindacali e, in realtà, l’intero 14 E ssi possono essere più visibili anche perché i giornali diedero loro molto spazio nel cercare di tenere i lettori aggiornati su quali servizi pubblici potevano aspettarsi di non trovare in funzione. Per esempio gli scioperi contro i servizi pubblici sono riferiti dal «Corriere della Sera» con più frequenza nelle pagine locali che in quelle nazionali.

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settore divenne una roccaforte dei cosiddetti sindacati «auto­ nomi» (Regalia, Regini e Reyneri 1978, p. 120). Il risultato fu che anche dopo che le confederazioni ebbero posto un freno agli scioperi dei loro iscritti, gli impiegati pubblici spesso continua­ rono a scioperare. Il potere perturbativo dei sindacati autonomi nel settore pubblico è un esempio di come un attore debole — i sindacati autonomi — indebolisce un attore forte esasperando il pubblico: benché i sindacati confederali di sinistra cercassero ben presto di controllare il ricorso allo sciopero, gli scioperi degli autonomi fecero nascere un’ondata antisciopero nel pubblico che si rivolse contro la sinistra e gli stessi sindacati. La nuova classe media Tra il 1951 e il 1971 i laureati, gli impiegati, i liberi profes­ sionisti e i tecnici raddoppiarono come percentuale sulla popo­ lazione attiva (Sylos-Labini 1975) e occuparono dei ruoli chiave nella nuova economia dei servizi — in particolare in Italia set­ tentrionale. Questi gruppi parteciparono all’8 per cento delle proteste nei nostri dati e rappresentarono il 7 per cento degli attori sociali. Tre particolari gruppi occupazionali compaiono più di frequente: i medici, molti dei quali avevano a che fare con la lentissima burocrazia del servizio sanitario, gli impiegati di ban­ ca, gli insegnanti e i docenti universitari. La protesta della classe media si sovrappose — traendone parte della propria forza — all’ondata degli scioperi nelle fabbri­ che. Per esempio, nelle grandi industrie gli scioperi degli impie­ gati erano spesso fatti scattare da azioni degli operai. A volte le proteste della classe media precedettero addirittura la spinta principale del conflitto industriale: per esempio lo sciopero dei medici del 1967, che praticamente provocò per settimane la chiusura del settore sanitario pubblico. Questo sciopero era di­ retto prevalentemente contro il sistema mutualistico, ma il suo effetto perturbativo venne avvertito in tutta la società italiana15. C ’era anche una diffusione di modelli di comportamento dalla classe lavoratrice alla classe media. Benché gli operai militanti talvolta attaccassero il personale direttivo delle proprie impre­ 15 Per esempio, quando analizziamo il programma degli eventi pubblici or­ ganizzati dalla C gil e dalla C isl a Milano scopriamo che uno dei primi temi che portò a raduni pubblici fu lo sciopero dei medici e le sue conseguenze sulla classe lavoratrice.

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se 16, in alcune aziende, come la Sit-Siemens, i successi degli ope­ rai ispirarono persino alcuni impiegati a radicalizzarsi nettamen­ te (Collettivo politico operaio 1972). Come scrivono Regini, Re­ galia e Reyneri (1978, p. 109): «I conflitti [tra impiegati e direzione] iniziarono sempre dopo la stipula di un accordo per i soli operai che li escludeva da qualsiasi beneficio, ed erano con­ dotti da impiegati a livello medio, spesso laureati, che erano col­ piti dalla razionalizzazione del lavoro più pesantemente degli operai non qualificati». I ceti medi autonomi Forse altrettanto interessanti dei gruppi che compaiono di frequente nei nostri dati sono, dal punto dì vista teorico, quelli che non vi compaiono. Gli'artigiani, i negozianti, gli impiegati di piccole imprese li troviamo solo nel 5 per cento delle proteste, mentre compaiono un po’ meno spesso come percentuale sugli attori sociali nel complesso. I negozianti nel settore delle vendite al minuto, gli edicolanti, i tassisti sono esempi tipici dei rappre­ sentanti di questo gruppo eterogeneo. Fu solo verso la fine del periodo, quando il governo cercò dei modi di aumentare le en­ trate e di ridurre le spese, che i loro interessi furono minacciati ed essi cominciarono a chiudere le saracinesche per protesta con­ tro le azioni governative. Come i pendolari, questi «ultimi arrivati» nel ciclo di prote­ sta spesso protestavano contro le conquiste di coloro che vi ave­ vano partecipato prima. Per esempio, gli albergatori e i proprie­ tari di ristoranti protestarono contro gli aumenti di salario dei loro impiegati, e i negozianti dei centri urbani chiusero le sara­ cinesche per protesta contro le isole pedonali che erano state create su richiesta degli ambientalisti. I ceti medi urbani faceva­ no parte della «coda» del ciclo di protesta, e lo mantennero in vita molto tempo dopo che la militanza aveva subito un calo. Come scrive Guido Viale (1978, p. 246): Nel Sessantotto [...], una manifestazione sindacale in Piazza Duo­ mo era piena di «tute bianche» della Pirelli, di «tute verdi» della Breda, «tute marroni» dell’Alfa, «tute blu» dell’Innocenti. Adesso [dopo il 1972] gli operai [...] sono ormai soverchiati dai camici bianchi degli

16 Lumley (1983, pp. 407-10) riferisce alcuni resoconti di pesanti intimida­ zioni di impiegati in molte delle fabbriche più militanti.

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ospedalieri, dagli abiti multicolori delle piccole fabbriche occupate, dal­ la folla dei poligrafici, dei bancari, dei lavoratori dei centri di program­ mazione e dei laboratori di ricerca, da «operai» che sono tecnici e im­ piegati e che non vestono in divisa.

3. Gruppi urbani, regionali e altri Quasi altrettanto presente degli impiegati pubblici nel ciclo di protesta, e più presente della nuova classe media, era tutta una gamma di gruppi locali e territoriali: persone che facevano ri­ chieste di cambiamenti politici locali o regionali; gruppi di quar­ tiere che volevano nuovi alloggi e servizi locali; parrocchiani di chiese locali che si lamentavano delle condizioni delle loro chiese o del trasferimento dei sacerdoti; residenti in una regione o città che temevano di perdere i loro privilegi a beneficio di un’altra. Nelle loro richieste di miglioramenti civili, di affitti e canoni ri­ dotti, nonché di migliori servizi pubblici, questi attori conferi­ rono all’ondata di protesta una componente peculiarmente ter­ ritoriale.

Difesa e aggressione territoriale La violenza e la perturbazione delle proteste di Genova e Trieste furono solo un piccolo esempio delle passioni che pote­ vano generare i conflitti intorno alla difesa territoriale. Vi erano richieste molto più aggressive di autonomia territoriale in Alto Adige, avanzate da gruppi con una ben netta veste reazionaria, che sembra abbiano goduto della complicità dell’Austria. Ancora più violente furono le rivolte delle città di Reggio Calabria e del­ l’Aquila, quando, nel 1970, venne annunciato che il capoluogo delle rispettive regioni sarebbe stato assegnato ad altre città. A Reggio per otto mesi i rivoltosi locali si fronteggiarono con un esercito di poliziotti mandato da tutta la penisola a sedare i tu­ multi (Malafarina et al. 1972; Ferraris 1970). Si trattava non tanto di richieste di autonomia regionale — come era stato il caso dell’Alto Adige — quanto di proteste in nome della difesa territoriale. In realtà, la rivolta di Reggio era nata all'interno del sistema politico, quando i politici locali ave­ vano chiamato la gente a resistere alle decisioni del governo cen­ trale, distogliendo col massimo di demagogia il risentimento de­ 81

gli elettori da se stessi e indirizzandolo verso il governo di Roma. Benché queste proteste fossero molto meno estreme, come già nel caso dei cantieri navali, alla fine furono tacitate politicamen­ te con l’allocazione di generosi fondi per lo sviluppo. Città e quartiere Mentre i conflitti territoriali erano più frequenti nella peri­ feria geografica del paese, le proteste urbane e di quartiere erano più tipiche delle grandi città del Nord. Anche qui, benché le pro­ teste fossero perturbative e i leader provenissero spesso dalla si­ nistra extraparlamentare, i temi erano concreti17. Più che attac­ care astrazioni quali il sistema capitalistico o lo Stato, i dimo­ stranti miravano a colpire oppositori specifici: enti per l’edilizia pubblica, come la G e s c a l , proprietari terrieri privati, aziende municipalizzate degli autobus e dei tram, l’amministrazione della città. Il termine «movimento urbano», che negli anni Settanta die­ de vita a tutta una letteratura18, in realtà fu un termine onni­ comprensivo riferito a tutta una gamma di movimenti: per affitti più bassi nell’edilizia pubblica o privata; per alloggi di qualsiasi tipo per i senzatetto; per una riduzione delle tariffe dell’energia elettrica, dei trasporti pubblici e del gas; per migliori servizi, che andavano dal semaforo all’incrocio all’asilo per i bambini delle madri lavoratrici. Il movimento iniziò con una forte base nei ceti popolari, ma via via che l’inflazione erose i redditi e il costo degli alloggi si fece proibitivo, esso iniziò ad attrarre anche un signi­ ficativo sostegno della classe media. Durante alcune di queste proteste vi furono momenti di duro scontro tra il sottoproletariato urbano e la polizia, in particolare nelle occupazioni di case portate avanti da gruppi extraparlamen­ tari. Ma vi furono anche momenti di competizione e di difficile coabitazione tra i sindacati, le associazioni di inquilini, i gruppi extraparlamentari e gli abitanti delle periferie urbane. Come i movimenti per la difesa territoriale, anch’essi entrarono rapida­ 17 Si noti tuttavia che le proteste urbane furono spesso fatte proprie e sti­ molate dai gruppi di estrema sinistra e dai sindacati. Queste proteste saranno affrontate in maggior dettaglio nei capitoli IX e X II. 18 Vedi per esempio Boffi et al. (1972), Daolio (1974) e la rivista «C ittà C las­ se» che cominciò le proprie pubblicazioni nel 1975 e diede spesso spazio ai mo­ vimenti urbani.

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mente nel processo politico via via che le associazioni che rap­ presentavano gli abitanti urbani volgevano la loro attenzione verso le amministrazioni comunali. Il passaggio dalle tattiche contestative alla politica istituzionale culminò nel 1975, anno in cui nelle elezioni locali la sinistra conquistò praticamente tutte le grandi città del paese. I movimenti di quartiere si diffusero anche attorno a temi più spettacolari: contro le autorità religiose, come nella vicenda della parrocchia dell’Isolotto a Firenze, che sarà analizzata nel capi­ tolo V III; in favore di comitati di quartiere; contro l’adozione di piani regolatori generali, come si verificò in un certo numero di città all'inizio degli anni Settanta. In questi movimenti, la spinta ideologica e le conoscenze tecniche di ex-studenti attivisti si unì alle concrete lamentele e alla rabbia dei ceti popolari nel generare una massa di conflittualità alla base stessa della società italiana. Il loro impatto perturbativo fu maggiore — e non per caso — proprio nel momento in cui il movimento degli studenti usciva dalle università. Notevolmente assente dai nostri dati è un gruppo che, data la lunga storia italiana di lotte agrarie, ci saremmo aspettati di in­ contrare più spesso: i braccianti. Il fatto che essi compaiano in meno del 2 per cento degli episodi di protesta rispecchia sia il netto calo della popolazione agricola in quegli anni sia la sua ete­ rogeneità politica e sociale. La relativa assenza dei contadini sug­ gerisce inoltre che gli interessi rurali, così come quelli della classe media autonoma, dovevano essere ben protetti dallo Stato. Cer­ tamente l’Italia non visse nulla di simile alle frequenti «guerre dei carciofi» o «guerre del vino» che si verificarono in Francia in quegli anni (Berger 1972). Coloro che vivevano del welfare, i pensionati e i disoccupati compaiono solo nel 2,1 per cento degli episodi. Il fatto che le proteste in cui furono coinvolti questi gruppi — tra cui rientra­ vano i pensionati statali e gli indigenti — non fossero più fre­ quenti, può rispecchiare il fatto che questo periodo non fu un periodo di profonda crisi economica; ma indica altresì che essi non erano altrettanto bene organizzati degli studenti, degli ope­ rai o della nuova classe media. La donna, agente segreto della protesta urbana Le studentesse avevano ricoperto un ruolo subalterno nel movimento universitario del 1967-68, ed erano spesso chiamate 83

«gli angeli del ciclostile». Come negli Stati Uniti, molte di esse divennero femministe in reazione all’egemonia maschile nella nuova sinistra. La storiografia del femminismo italiano è stata pesantemente influenzata dalle esperienze che di queste donne hanno avuto gli autori. Quasi completamente trascurati in questa letteratura sono due esiti più positivi della mobilitazione femmi­ nile: il ruolo che le donne — e in particolare le madri — giunsero a svolgere nei movimenti di quartiere negli anni Settanta (Stefanizzi 1988) e l’esperienza organizzativa che esse ebbero all’in­ terno dei sindacati (J. Hellman 1987). Fu nel movimento di quartiere che migliaia di donne vissero una cruciale esperienza organizzativa e di empowerment. G li stes­ si fattori che limitarono la loro partecipazione in altri movimenti — il fatto che fossero occupate come mogli e madri in una società dominata dai maschi — diede loro dei vantaggi cruciali in questo movimento. Per esempio a Verona un gruppo di donne cattoli­ che, in un ambiente estremamente conservatore, sovvertì una decisione del consiglio comunale (J. Hellman 1987, p. 147)19. Quanto ai movimenti degli inquilini, la prospettiva che una don­ na e i suoi figli gelassero in mezzo a una strada perché non ave­ vano pagato l’affitto fu un potente incentivo perché i politici trovassero loro alloggi temporanei. L ’importanza della partecipazione delle donne nelle proteste urbane è sottovalutata nei nostri dati, perché gli articoli normal­ mente definiscono gli attori sociali in rapporto alle richieste che essi esprimono e non alla loro identità sociale20. In un’attenta analisi dei dati giornalistici, tuttavia, Sonia Stefanizzi ha trovato che le donne erano presenti nei movimenti urbani già prima che esistesse in Italia un movimento femminista organizzato (1986, 1988). Il loro numero è piccolo, ma Stefanizzi ha scoperto qual­ cosa di più importante: che mentre le donne di solito evitavano la violenza (o piuttosto, era meno probabile che la polizia attac­ casse loro invece degli uomini), nelle proteste femminili ci fu una carica perturbativa più alta della media. Le donne spesso erano 19 Per un buon trattamento narrativo dei movimenti femministi italiani, vedi Ergas (1982, 1986) e J . Hellman (1984, 1987). 20 Così, un gruppo di madri che si lamentavano del traffico nel loro quartiere, della mancanza di riscaldamento nelle scuole e della mancanza di asili sono state spesso considerate gruppo di quartiere e non gruppo di donne. Coloro che effet­ tuavano una protesta religiosa sono stati chiamati «parrocchiani», malgrado il fatto che gran parte di essi fossero donne. Nella nostra analisi del gruppo dell’Isolotto nel capitolo V ili, per esempio, abbiamo osservato che la maggioranza di coloro che partecipavano regolarmente al gruppo erano donne.

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coinvolte in occupazioni e usavano «la pratica dell’obiettivo» per trarre vantaggio e avere miglioramenti nelle scuole, negli asili e nelle cliniche per aborti. La protesta urbana fu il mezzo attra­ verso il quale la donna è entrata nella comunità politica quale attore autonomo.

4. Le opposizioni Per una delle ironie degli studi accademici, un campo che di solito guarda con simpatia alla politica popolare è pesantemente dipendente dalle fonti governative, interessate solo a sapere chi fossero i protagonisti delle proteste, e non chi fossero i loro an­ tagonisti. I registri della polizia sono pieni di casi di contadini che brandiscono forche e bruciano covoni di grano, ma riportano ben poco riguardo agli speculatori sul grano. I sociologi specifi­ cano quante case sono state incendiate e quante persone sono state arrestate nei tumulti urbani, ma poco ci dicono su come i proprietari lasciano gli inquilini senza riscaldamento in inverno. Queste «carenze» non sono totalmente compensate dai resoconti giornalistici, ma analizzando i giornali con attenzione possiamo almeno saperne qualcosa di più circa l’asse principale del conflit­ to, rispetto alle fonti usuali governative su cui si basano gli stu­ diosi. Contro quali oppositori era diretta l’ondata di protesta in Ita­ lia? Il suo obiettivo era attaccare il sistema capitalistico o lo Sta­ to? Alcuni oppositori locali specifici venivano attaccati più spes­ so di oppositori generici o nazionali? Vi fu un cambiamento negli obiettivi dalla società civile allo Stato col procedere del ciclo? Tornando a quegli anni attraverso un’analisi dei conflitti quale riferita da un quotidiano nazionale otteniamo un’immagine mol­ to differenziata degli antagonisti dell’azione collettiva, che alla fine ci aiuterà a capire come essa si ripercosse sul sistema ita­ liano21. 21 Insieme ai Tilly (1975, p. 281), ci opponiamo alla «dietrologia» e ipotiz­ ziamo che la gente prenda seriamente quelli che affermano essere i loro obiettivi quando fanno una protesta: «N on abbiamo bisogno di andare a cercare quali siano i ‘veri’ obiettivi che si nascondono dietro i ‘pretesti all’azione’», essi scri­ vono, «né di sostituire con aria di sufficienza la nostra versione di ciò che un gruppo avrebbe dovuto tentare di fare a ciò che esso stesso affermava di stare tentando».

85

Fonti specifiche e generali Dato che gli scioperi costituirono quasi un terzo dei conflitti da noi studiati, se ne deduce che l’impresa costituiva l’obiettivo dell’azione collettiva nel maggior numero di casi. G li operai era­ no gli attori sociali più univoci nella scelta del proprio nemico. Allo stesso modo gli impiegati pubblici raramente scesero in lotta se non contro i datori di lavoro, benché questi potessero andare dalle aziende municipalizzate dei trasporti o dai governi locali ai ministeri, agli enti parastatali o al governo nel suo insieme. La classe media professionista era meno selettiva nella scelta dei propri obiettivi; mentre i colletti bianchi diressero quasi sem­ pre la loro azione contro i datori di lavoro, i medici il più delle volte presero di mira il sistema sanitario, gli avvocati il sistema giudiziario e gli insegnanti la burocrazia della scuola. I movimen­ ti della classe media autonoma rivolsero il maggior numero delle loro proteste contro i governi locali, mentre gli agricoltori e le proteste regionali presero il più delle volte come obiettivo il go­ verno nazionale. I meno selettivi di tutti nella scelta degli obiettivi furono i giovani. Mentre il 22 per cento circa delle loro proteste erano indirizzate contro singole scuole e università, un ulteriore 14 per cento fu diretto verso il sistema educativo nazionale, il 12 contro datori di lavoro privati, il 10 contro le amministrazioni locali, il 16 contro il governo nazionale e il resto contro una miscellanea di istituzioni e gruppi che andavano dalla Scala di Milano alla Chiesa cattolica ai governi esteri. Se non altro perché indirizza­ vano le loro proteste in tante direzioni diverse, gli studenti fu­ rono i principali agenti della diffusione dell’ondata di protesta (Lumley 1983, cap. III). Quanto spesso i nemici di chi protestava erano generici, e quanto spesso erano gruppi o attori specifici? Quanto spesso il loro oppositore era lo Stato, e quanto spesso un datore di lavoro privato? Per rispondere a queste domande dobbiamo introdurre dapprima una distinzione concettuale tra coloro che erano rite­ nuti responsabili di un problema — che chiameremo le fonti delle richieste — e quelli dai quali si chiedeva una risposta — che chiameremo obiettivi delle richieste. In molti episodi di protesta la fonte e l’obiettivo coincidono, ma in molti conflitti sono diversi. L ’episodio della chiusura dei cantieri di Trieste è un esempio di quest’ultimo caso: la fonte delle richieste era la società di costruzioni navali nazionalizzata che voleva chiudere il bacino San Marco e trasferire i Cantieri 86

Riuniti a Genova, ma il loro principale obiettivo era il governo italiano, che poteva passare sopra P I r i e tenere aperti i cantieri di Trieste. Se inseriamo anche Genova nella nostra analisi rendia­ mo ancora più complessa la gamma degli attori e degli antagoni­ sti. Il sistema capitalista, la società o lo Stato erano fonti dirette di scontento, oppure — come prefigurerebbero Piven e Cloward a partire dalla loro esperienza americana — le fonti delle proteste erano più specifiche e concrete: imprese individuali, proprietari terrieri, associazioni professionali, enti governativi, partiti e mo­ vimenti? In Italia, la gente avanzava richieste onnicomprensive allo Stato o alla società, oppure portava avanti precise richieste di gruppo contro particolari attori politici o economici? La tab. 5 riassume le principali risposte a queste domande provenienti dai nostri dati. La tabella presenta i principali gruppi Tab. 5 - Fonti e obiettivi delle richieste Fonte

%

Obiettivo N.

%

N.

-

18,3

860

18,6

910

17,4

817

3,8

186

2,5

118

Partito/movimento

19,3

947

3,0

143

Scuola

12,5

611

12,6

592

Amministrazione locale

7,8

384

10,8

506

G iustizia o polizia

8,0

392

6,2

291

11,1

543

12,3

575

Capitalismo, economia

5,3

259

4,2

195

Governo nazionale

6,7

331

9,3

453 148

Nessuno

-

A. Fonti e obiettivi specifici Impresa Sindacato o altro gruppo

M inistero o ente pubblico B.

Fonti e obiettivi generali

Stato estero

3,9

190

3,2

Altri

3,1

152

0,3

13

D ati mancanti

1,5

75

5,8

287

100,0

4.905

100,0

4.693

Totale

87

degli oppositori, sia specifici sia generali, che furono fonti e obiettivi dei conflitti da noi studiati. La prima cosa che salta agli occhi è la grandissima preponderanza di attori specifici sia tra le fonti che tra gli obiettivi delle proteste. Solo il 5 per cento degli eventi furono risposte a un generico scontento economico (per esempio, il mondo economico in generale, il capitale, l’econo­ mia), mentre un altro 7 per cento era diretto contro il governo nazionale e il 4 per cento delle proteste era diretto ai governi stranieri. Nel totale, solo il 15 per cento degli episodi fu attivato da queste fonti generali di protesta. All’opposto, oltre l’80 per cento erano dirette contro antagonisti specifici. Come scrivono Piven e Cloward (1977, p. 20) dei movimenti di protesta ame­ ricani, «la gente soffre per la deprivazione e per l’oppressione all’interno di un contesto concreto, non come prodotto finale di vasti ed astratti processi, ed è questa esperienza concreta a for­ giare il suo scontento in richieste specifiche contro obiettivi spe­ cifici». Il secondo dato che emerge dalla tab. 5 riguarda l’importanza degli antagonisti politici e governativi rispetto a quelli nella so­ cietà civile. Utilizzando una tipologia semplificata delle fonti e degli obiettivi pubblici e privati22, scopriamo che il 69 per cento delle fonti delle richieste e il 57 per cento degli obiettivi sono organizzazioni politiche, leader o istituzioni pubbliche. I partiti politici, le organizzazioni dei movimenti sociali, le amministra­ zioni locali, gli enti governativi nazionali, il Parlamento, il set­ tore giudiziario e lo Stato nazionale nel suo complesso furono le fonti o gli obiettivi dei dimostranti molto più spesso che le im­ prese individuali, le associazioni industriali, i sindacati, le Chiese e altre collettività della società civile. Il ciclo italiano di protesta fu politicizzato non solo perché lo Stato era il più delle volte l’obiettivo delle richieste, ma perché era la fonte dei problemi che avevano generato quelle stesse richieste. « Cross-over» allo Stato Ma se lo Stato era l’obiettivo di molti conflitti iniziatisi nel suo settore, solo raramente esso fu l’obiettivo di conflitti inizia­ 22 Semplifichiamo considerando tutte le scuole e le università come scuole «pubbliche», e tutte le imprese sia pubbliche che private nel settore «privato». Il fatto di considerare le imprese pubbliche assieme al settore privato cambia solo marginalmente i risultati, come risulta dalla tab. 4. 88

tisi nella società civile. I casi di cross-over dal settore privato a quello pubblico furono rari. Questo dato può rispecchiare un’in­ sospettata capacità di autoregolazione della società civile italia­ na, oppure il fatto che il numero dei conflitti già basati su richie­ ste contro lo Stato o la classe politica era talmente elevato che non c’era molto spazio per un cross-over dalle fonti private agli obiettivi pubblici. Ma è anche probabile che lo Stato avesse po­ che risorse per i gruppi della società civile, tanto da non essere in grado di risolvere i loro problemi. Verso la fine del ciclo vi fu tuttavia una tendenza dei conflitti tra gruppi nella società civile a indirizzarsi sempre più di fre­ quente verso il sistema politico, come ci conferma la fig. 6. In questo grafico abbiamo estrapolato la percentuale per semestre degli episodi nei quali le richieste nate in seno alla società civile vennero rivolte verso gli obiettivi dello Stato. La fig. 6 indica una tendenza nel tempo verso la politicizzazione delle richieste del settore privato, che però non è significativa sino alla fine del periodo, quando vi fu un netto cambiamento nel numero di pro­ teste che, iniziate nel settore privato, vennero rivolte allo Stato perché le risolvesse. Numero

Semestre

Fig. 6 - Cross-over alio Stato e proteste aspecifiche per semestre, 1966-73 G li obiettivi delle proteste, così come le loro fonti, erano pre­ valentemente molto concreti, specifici e, per la maggior parte, indirizzati contro il governo o la classe politica. Ma c’è un’im­ portante differenza tra la struttura delle fonti delle richieste e i loro obiettivi: una percentuale significativa delle proteste — ol­ tre il 18 per cento — era «aspecifica»: vale a dire, in questi con­ 89

flitti non era avanzata nessuna specifica richiesta a un qualche obiettivo concreto. Gli operai che attaccavano l’impresa spesso si rifiutavano di elencare richieste negoziabili. Le donne che cer­ cavano di stabilire la legittimità del femminismo si vestivano da streghe e marciavano per le strade. I gruppi ideologici attacca­ vano gli altri per stabilire la propria identità e negare agli altri il diritto di esistere. Benché la protesta di massa fosse già in calo agli inizi degli anni Settanta, come abbiamo visto nel capitolo III, in quegli anni i giornali comunicavano un’atmosfera di crescente esasperazione della protesta. Perché? La risposta sembra risiedere nel crescente numero di «proteste aspecifiche». Anche quando la mobilitazio­ ne di massa stava subendo un calo, molte proteste — per via del fatto di non comportare nessuna richiesta concreta a nessuno, quanto piuttosto l’opposizione ad altri — tendevano a divenire violente, come quelle dei ghetti neri degli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta. Spesso portavano a scontri con la polizia o con altri gruppi. La fig. 6 mostra che vi fu un netto aumento delle proteste aspecifiche nel corso del tempo. Qual è il significato di questo aumento delle proteste aspe­ cifiche? Lo vedremo in maggior dettaglio quando esamineremo la violenza nel capitolo X ; per il momento ci basti segnalare che l’aumento delle proteste aspecifiche coincise sia con un calo della protesta di massa della classe lavoratrice sia con la comparsa di un gran numero di nuovi movimenti sociali organizzati in com­ petizione per il sostegno della gioventù urbana, degli operai e dei poveri. Così nel ciclo italiano le opposizioni tra attori e antagonisti non erano solo specifiche e concrete: esse avevano due assi se­ parati — uno all’interno della società civile e l’altro nel settore dello Stato — oltre che un terzo tipo di proteste aspecifiche che — fatto salvo il ricorso alla repressione — non potevano essere facilmente risolte perché non ponevano nessuna domanda con­ creta. Il crossing-over dalla società civile allo Stato fu raro fino alla fine del periodo. Lo Stato fu una fonte prolifica di conflitti combattuti all’interno del suo settore, ma altrettanto può dirsi per la società civile. La forma del settore del movimento sociale Così i dati dei gruppi coinvolti nel conflitto sociale e politico gettano luce sul contributo originario degli operai e degli studen­ 90

ti, mostrano come crebbe il ruolo degli «ultimi arrivati» e indi­ cano una crescente importanza della politica come fonte e obiet­ tivo della protesta. La fig. 7 rappresenta il numero totale di proteste in cui i giovani, gli operai, i nuovi ceti medi, i gruppi territoriali sia urbani che regionali comparvero in ciascun seme­ stre dal 1966 al 1973. Essa mostra in che modo la composizione del settore del movimento sociale si ampliò durante la fine degli anni Sessanta, si continuò a espandere agli inizi del decennio suc­ cessivo e si contrasse alla fine del periodo. Numero

Semestre

Fig. 7 - Presenza di gruppi diversi di soggetti negli episodi di protesta, per semestre, 1966-73 Ma benché la protesta fosse diffusa e spesso violenta, il suo grado effettivo di perturbazione variò ampiamente da gruppo a gruppo. Abbiamo già visto (cfr. fig. 4) che la carica di perturba­ zione generica ebbe il suo culmine nel 1968 e un calo successivo, benché il numero totale delle proteste stesse aumentando. La fig. 8 mostra non solo che la carica di perturbazione variò da gruppo a gruppo, ma che quella degli operai ebbe un calo a partire dal 1969 e che altrettanto fece quella degli studenti dopo il 1970. La protesta territoriale fu molto perturbativa solo agli inizi del pe­ riodo (quando era dominata dalle bombe in Alto Adige), mentre le proteste dei nuovi ceti medi non furono mai molto perturbative. Alla fine del 1971, la perturbazione dell’episodio medio di protesta, nella maggior parte del settore del movimento sociale, 91

era scesa a livelli assimilabili a quelli del 1966. Tra il 1966 e il 1973 lo Stato e la società italiani furono posti di fronte a ondate successive di protesta. Diversamente che nel caso della violenza politica settaria, che divenne una minaccia sempre maggiore ver­ so la fine degli anni Settanta, il sistema italiano non dovette mai fronteggiare un’ondata di perturbazione di massa proveniente da tutte le direzioni contemporaneamente, il che costituisce la spie­ gazione principale della capacità del sistema di sopravvivere alla propria crisi. Punteggio

Semestre

Fig. 8 - Punteggio medio del grado di perturbazione di gruppi diversi di sog­ getti, per semestre, 1966-73

5. Conclusioni Perché, dunque, questo periodo è ricordato come un periodo di disordine generalizzato? Innanzitutto, alcuni gruppi e parte dei media ebbero tutto l’interesse ad assumere il ruolo di Cassandra. Quando ricordiamo che la protesta si diffuse attraverso la competizione e il backlash, non deve sorprendere che la perturbazione fosse gonfiata ed esa- > gerata da certi settori. Ciascun gruppo aveva un interesse nel pubblicizzare gli eccessi dei suoi antagonisti, che spesso veniva­ no utilizzati come giustificazioni di azioni collettive violente e di repressioni che altrimenti non avrebbero avuto consenso nella società. 92

In secondo luogo l’ondata di protesta in Italia dovette alme­ no parte della sua caratteristica esplosiva al fatto di non essere né prevalentemente politica — com’era il caso degli Stati Uniti, do­ ve il conflitto economico fu contenuto per gran parte degli anni Sessanta — né prevalentemente economica — come fu il caso della Gran Bretagna, dove in quel periodo le relazioni industriali divennero inusitatamente conflittuali. Né essa era, se non agli inizi, prevalentemente incentrata intorno alle scuole. I disordini provennero da tutti questi settori della società italiana, ma — come per la vita italiana in generale — essi erano incentrati nel­ l’arena politica. In terzo luogo, via via che il conflitto industriale si andava dipanando sotto il controllo dei sindacati e che la protesta uni­ versitaria perdeva la sua spontaneità e le sue ragioni d ’essere, i movimenti di protesta passarono dalle scuole e dalle università alle strade e alle piazze, dove persero il loro tema originario e si mescolarono con l’alienazione e la delinquenza sempre presenti fra i giovanissimi. Nel far questo essi passarono sempre più sotto il controllo degli organizzatori del movimento sociale, i quali ve­ devano nei movimenti degli operai e degli studenti della fine de­ gli anni Sessanta l’inizio di un periodo di mobilitazione generale. Il fatto che sbagliassero non fece che accrescere il loro settarismo e la frustrazione dei loro giovani seguaci. Via via che l’azione collettiva andò perdendo la sua base di massa nella fabbrica, nel­ le scuole e nelle università, il conflitto su temi specifici fu sosti­ tuito da conflitti ideologici, portati avanti da organizzazioni di movimento che ben poco avevano da offrire oltre alla militanza, alla perturbazione e, alla fine, alla violenza.

V

RICHIESTE E CONTRORICHIESTE

L ’alluvione Firenze, novembre 1966. Piove per tre giorni nella valle dell’A r­ no. Nelle montagne del Casentino, là dove il fiume s’ingrossa compaiono alcuni segni preoccupanti: un ponte che crolla, una valanga di fango. Ma giù a valle, dove l’acqua gialla scorre sotto i vecchi ponti, le autorità consigliano la calma. Nessuna misura straordinaria è stata presa per evitare che il fiume rompa gli ar­ gini, né qualcuno ha detto agli abitanti dei quartieri bassi, dove vivono migliaia di bottegai e di artigiani, di sgomberare le case. 4 novembre. Al risveglio la città scopre che l’Arno ha rotto gli argini. I quartieri popolari — Santa Croce, San Nicolò, Santo Spirito — sono allagati da un’acqua giallo sporco che in alcuni punti arriva al secondo piano degli edifici. La piazza, il chiostro e l’elegante cappella de’ Pazzi di Santa Croce sono invasi da un mare di fango. L ’inondazione non ha preferenze architettoniche: il brutto palazzo che ospita la Biblioteca nazionale è danneggiato quanto le bellissime porte del Battistero. 5 novembre. Cominciano le operazioni di ripulitura, ma i mezzi e la manodopera disponibili per i fiorentini sono miseramente inadeguati. Gli aiuti da enti internazionali non arriveranno pri­ ma di qualche settimana. A Roma il governo annuncia lo stan­ ziamento di risorse «straordinarie», ma finora tutto quello che arriva sono migliaia di soldati che girano a vuoto con le scarpe bagnate senza nessuno che dica loro cosa fare. Come in tutte le emergenze, l’assistenza locale è organizzata innanzitutto dai gruppi di quartiere, dalle organizzazioni giovanili e dalle parroc­ chie. 95

6 novembre. Il presidente della Repubblica Saragat arriva per ispezionare i danni e confortare i fiorentini. Dopo aver annun­ ciato l’imminente attuazione di un complesso piano di emergen­ za, parte in una camionetta della polizia per visitare i quartieri più colpiti. Lungo la strada che porta dalla prefettura a Santa Croce è fatto segno a lancio di oggetti, a insulti e grida di: «M an­ dateci cibo e vestiti, non presidenti e ministri!». «La Nazione» si sente oltraggiata da questa mancanza di rispetto per il presiden­ te. «Speriamo che coloro che hanno fischiato Saragat [...] si pen­ tiranno del loro atto incivile e si convinceranno che molte cose possono migliorare — o divenire facili — quando l’inerzia e l’a­ patia che paralizzano la vita pubblica saranno state superate» («La Nazione», 7 novembre 1966). «L a Nazione» addolciva la verità, dato che Saragat, durante la sua visita alla città inondata, fu oggetto di qualcosa di più delle tradizionali invettive fioren­ tine. Lungo tutto il percorso attraverso i quartieri alluvionati, fu fatto bersaglio di ortaggi marci e melma che la gente lanciava al suo passaggio. Il suo messaggio a Roma fu: «M andate subito aiuti!». Natale a Milano 21 dicembre 1968. In piazza del Duomo, che circonda la grande cattedrale gotica, ondeggia elettrizzata la folla natalizia. Le luci di Natale brillano sulle arcate della galleria Vittorio Emanuele percorsa dai milanesi che si dirigono verso gli eleganti negozi. C ’è un forte contrasto tra i venditori di caldarroste che si scal­ dano le mani sui bracieri e battono i piedi dal freddo e la bor­ ghesia milanese impellicciata e incappottata che fa il suo shop­ ping natalizio. Improvvisamente scoppia un tumulto sotto i portici di fronte all’ingresso della Rinascente. Un gruppo di studenti della Stata­ le, prendendo spunto da uno sciopero nazionale delle commesse, ha deciso di dimostrare contro la mercificazione del Natale. Gli studenti innalzano cartelli che condannano la profanazione della nascita di Cristo e protestano per il modo in cui il negozio serve i borghesi mentre paga bassi salari alle commesse. Inizia un’amichevole discussione tra gli studenti e le guardie che la Rinascente tiene agli ingressi per controllare chi fa piccoli furti. I passanti si fermano ad ascoltare, mentre altri giovani dal­ la piazza premono sotto le arcate per vedere meglio cosa succede. Via via che la folla si gonfia in quello spazio limitato la discus­ 96

sione degenera in spintoni e calci, e ne nasce un tafferuglio ge­ nerale. Al suono delle sirene della polizia i curiosi si disperdono, ma gli studenti rimangono lì e aspettano di essere condotti al posto di polizia («Corriere della Sera», 20-21 dicembre 1968). Questi due episodi sono emblematici dell’arco delle richieste, da quelle specifiche ed episodiche a quelle generali e programmate, che costituirono il ciclo della protesta in Italia dal 1966 in poi. Mentre i fiorentini reagiscono spontaneamente a una situazione specifica, gli studenti milanesi protestano contro una condizione generale, il sistema capitalista nel suo complesso. Attaccando Saragat, i fiorentini agiscono spontaneamente contro un obiettivo che è per caso disponibile; i milanesi scelgono deliberatamente un simbolo dell’establishment della loro città. Infine, mentre la protesta di Firenze trasmette una richiesta semplice e immedia­ ta, i dimostranti di Milano chiedono niente di meno che un cam­ biamento nella cultura del capitalismo. Queste due richieste sono ai poli opposti di un continuum che va dal concreto, lo strumentale e il reattivo da una parte, all’a­ stratto, l’espressivo e il proattivo dall’altra. Cercando di capire il ciclo della protesta nei termini dell’uno solo di questi poli rischia­ mo di cadere da una parte in una fallacia spontaneista e dall’altra in una fallacia volontaristica. Le due forme di protesta hanno effettivamente qualcosa in comune: sono organizzate intorno a una richiesta concreta: l’al­ luvione in un caso e lo sciopero dei grandi magazzini nell’altro. Solo quando la gente è disposta a riversarsi nelle strade nel nome di queste richieste può iniziare un ciclo di protesta, e solo fin­ tantoché gli organizzatori del movimento riescono a convincere la gente che queste azioni possono riuscire o valgono il tempo e gli sforzi profusi, il ciclo continuerà a far parte della politica di massa. Dopo di questo, quando la gente si stanca o trova degli sbocchi istituzionali alle proprie richieste, oppure si convince che la protesta non paga e può essere pericolosa, tutto si risolve in uno scontro personale tra gli organizzatori dei movimenti e le forze dell’ordine, montato per l’attenzione dei media e di un pubblico sempre più indifferente. I due episodi hanno un’altra cosa in comune: benché entram­ bi siano organizzati intorno a richieste concrete, ciascuno rientra in una più ampia struttura interpretativa. Benché all’origine del­ la rabbia dei fiorentini vi sia l’inondazione, questa loro rabbia si traduce in azione attraverso l’ipotesi che lo Stato debba produrre servizi e non semplicemente simboli; e benché l’occasione della 97

protesta alla Rinascente sia lo sciopero dei grandi magazzini, anch’essa si inserisce in un’ipotesi più ampia, e cioè che l’uomo non debba essere definito attraverso i beni che possiede. Con svariati gradi di autoconsapevolezza entrambi i gruppi che protestano ap­ plicano delle strutture interpretative generali a situazioni con­ crete, così giustificando le loro richieste e ampliando la gamma dei loro potenziali sostenitori1. In questo capitolo passeremo in rassegna la natura e la por­ tata delle richieste avanzate da svariati gruppi che protestavano e dei partecipanti al conflitto sociale. Vedremo come, se nelle prime fasi del ciclo le richieste erano prevalentemente concrete e specifiche, nel corso di esso alcuni temi centrali — come l’ope­ raismo e l’autonomia — si diffusero a partire dai punti salienti del conflitto, nelle università e nelle fabbriche, fino ad altri set­ tori e gruppi, subendo talvolta lungo il cammino delle trasfor­ mazioni profonde. Vedremo anche come nel corso del ciclo le richieste settoriali concrete cedettero il posto a conflitti ideolo­ gici sempre più competitivi.

1. I settori della mobilitazione La struttura delle richieste in un ciclo di protesta può essere meglio capita passando prima in rassegna i principali settori del conflitto e della mobilitazione. Nella sfera economica i principali settori individuati furono l’industria, l’agricoltura e i servizi pubblici e privati. I principali settori sociali furono l’educazione, l’arte, i servizi sociali urbani, la cultura, la religione nonché i problemi delle donne e della famiglia. I principali settori politici furono il governo regionale, gli affari internazionali e la giustizia. I conflitti puramente ideologici e le richieste di rovesciamento del governo o della costituzione sono stati mantenuti separati da questi temi, a meno che avessero una peculiare componente po­ litica. Nella tab. 6 sono riassunti i settori del conflitto — eco­ nomico, sociale, di politica urbana e ideologico — nei quali sono state classificate le proteste e la frequenza con la quale essi sono 1 II concetto che l’azione sociale sia «contestualizzata» da visioni interpreta­ tive generali deriva da G offm an (1974), ed è stato applicato allo studio dei mo­ vimenti sociali da David Snow e collaboratori (vedi Snow et al. 1986; Snow e Benford 1988). Per un approccio collegato che utilizza un linguaggio leggermente diverso, vedi Gam son (1988).

98

apparsi nelle principali richieste quali riportate nei dati desunti dai giornali2. Tab. 6 - Settori degli episodi di protesta Settore

N.

%

Economico

1.816

36,5

Sociale

1.387

2 7 ,8

710

14,3

28

0 ,7

975

19,6

Politico Antigovernativo, anticostituzionale Conflitto ideologico Altri settori Totale

54

1,1

4 .9 8 0

100,0

Tra i settori economici, il conflitto industriale apparve con maggiore frequenza, seguito da vicino dai conflitti nei servizi pubblici5. Nei settori sociali, le proteste nel settore educativo superarono di gran lunga quelle in qualsiasi altro settore4. Nei settori della politica la percentuale più ampia degli episodi coin­ volse il settore giudiziario o la polizia, seguiti a ruota dagli affari internazionali5. Coloro che ricordano quel periodo prevalente­ mente caratterizzato da problemi nella scuola e dal conflitto in­ dustriale sono nel giusto, ma spesso dimenticano quanto la con­ testazione si diffuse anche in quegli altri settori. Le proteste esplicitamente anticostituzionali e antigoverna­ tive (vale a dire quelle che chiedevano il rovesciamento del go­ 2 Ogni protesta poteva generare più di una richiesta. E sse sono state regi­ strate e analizzate, ma i dati qui presentati sono basati solo su quella che è chia­ mata la «richiesta primaria», alla quale chi protestava assegnava maggiore impor­ tanza. 3 II settore economico incontrato più spesso nei resoconti dei giornali è stato l’industria (899 episodi ovvero 18 per cento del totale), seguito dai servizi pub­ blici (495 episodi, 10 per cento), e dai servizi privati (365 episodi, 7 per cento). L ’agricoltura era presente solo in 66 episodi, pari all’ 1,3 per cento del totale. 4 II settore sociale più spesso osservato fu la scuola (884 episodi, 18 per cento del totale), seguito dai servizi sociali (206 episodi, 4 per cento), dalla religione, la famiglia e il sesso (79 episodi, 1,6 per cento), l’arte e la cultura (61 episodi, 1,2 per cento). 5 II settore della politica che più frequentemente comparve fu la giustizia, ivi comprese le proteste contro la polizia e il sistema carcerario (390 episodi, pari all’8 per cento del totale), seguito dalla politica internazionale (208 episodi, 4 per cento), dalla politica regionale e ambientale, ciascuna con 56 episodi e 1’ 1,1 per cento del totale.

99

verno o del sistema) furono un numero trascurabile6. Di gran lunga più frequenti furono i conflitti ideologici che non avevano alcun contenuto occupazionale, sociale o politico specifico. Que­ sti episodi assommarono a circa mille, più del totale registrato nel settore industriale. Essi si sovrapponevano significativamente a quegli episodi violenti che abbiamo incontrato nel capitolo III e alle proteste «aspecifiche» analizzate nel capitolo IV. L ’impressione netta che si ricava dalla tab. 6 è che — a parte questi conflitti ideologici — le richieste fossero radicate nei set­ tori più vicini alle preoccupazioni della gente e non fossero un’e­ spressione diretta di divisioni ideologiche. Questo carattere con­ creto significava che pochi erano coloro che attaccavano diret­ tamente i fondamenti dello Stato o della società italiana; tuttavia prima di concludere che la crisi italiana non fu nient’altro che un «sovraccarico» di richieste specifiche e concrete — di «corpora­ tivismo», per usare il gergo politico italiano — esaminiamo la struttura delle richieste e delle controrichieste.

2. La direzione delle richieste Le moderne ondate di protesta sono spesso associate all’im­ magine di gruppi aggressivi e ben organizzati che chiedono nuovi diritti e privilegi, cioè ai movimenti sociali. All’opposto, nelle ondate di protesta del passato gli attori tendevano di più a essere visti come coloro che riportavano giustizia dopo che dei diritti tradizionali erano stati calpestati: come, per esempio, il diritto di pagare solo un giusto prezzo per il grano. Tilly (1978), che ha chiamato questi due tipi di protesta «proattiva» e «reattiva», considera quest’ultima più caratteristica dell’azione collettiva preindustriale e la prima come più tipica dei movimenti sociali moderni7. 6 C i furono solo 16 proteste i cui obiettivi dichiarati erano esplicitamente anticostituzionali, e 21 che erano antigovernative, senza nessuna richiesta poli­ tica specifica. 7 Tilly non afferm a che le proteste proattive siano divenute universali o che quelle reattive siano scomparse; tuttavia associa le prime alle forme di conflitto — come lo sciopero — che si sono sviluppate a partire dalla fine dell’Ottocento, e le seconde alle proteste arcaiche — come sfasciare macchinari o bruciare covoni di grano — che non sono più rilevanti nelle moderne società industriali (cfr. Tilly 1978, p. 147).

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Un terzo tipo di conflitto, anch’esso comune nella storia del­ l’azione collettiva, è il conflitto competitivo tra gruppi la cui uni­ ca preoccupazione politica concreta è chiedere che i loro rivali cambino il proprio comportamento o addirittura cessino di esi­ stere (Tilly 1978, cap. V )8. Un quarto tipo di richiesta riguarda i diritti o i benefici che sono stati promessi ma non ottenuti. In un moderno Stato sociale, particolarmente se inefficiente come quello italiano, ci aspetteremmo di trovare numerose attività di protesta derivanti da tali promesse non mantenute o disattese. Esaminiamo la direzione delle richieste quale delineata nella tab. 7 e un esempio tipico di ciascuna per vedere la distribuzione effettiva di questi quattro tipi di richieste in Italia. G li scioperi sono tenuti distinti dagli altri episodi perché sono una forma d ’a­ zione chiaramente istituzionalizzata per l’espressione di richieste proattive. Tab. 7 - Direzione delle richieste: episodi di sciopero e di non-sciopero Tipo di richiesta

Episodi di sciopero

Episodi di non-sciopero

Totale degli episodi

%

N.

%

N.

%

N.

Reattiva

3 4 ,6

672

5 0 ,0

1.472

4 3 ,9

2 .1 4 4

Proattiva

5 6 ,2

1.091

5 0 ,0

1.472

3 6 ,7

1.790

Com petitiva

0,3

5

2 2 ,6

665

13,7

670

Attuazione

8 ,6

166

2 ,4

71

4 ,9

237

Altre Totale

0 ,4

7

1,2

36

0 ,9

43

1 00,0

1.941

100,0

2 .9 4 3

100,0

4 .8 8 4

Richieste reattive. Vi è un numero significativo di tutte e quat­ tro le categorie di richieste nei dati italiani, ma il numero mag­ giore di proteste fu a favore di richieste reattive, vale a dire ri­ chieste di giustizia derivanti dalla percezione della gente che erano stati calpestati alcuni suoi diritti o privilegi. Come direbbe Tilly, le richieste reattive furono molto meno comuni nel caso degli scioperi (35 per cento) che negli episodi di non-sciopero (50 per cento). M a l’elevata percentuale di proteste reattive ci dice che — nell’Italia della fine del X X secolo come nella Francia o 8 C i riferiamo alle chiassate organizzate da gruppi di giovani in Francia nel X V II secolo o alla competizione economica tra compagnonnages in Francia (cfr. D avis 1971, per il primo tipo di conflitti, e Sewell 1980, per il secondo).

101

l’Inghilterra del X V III — la gente protestava ancora perché le azioni altrui stavano avendo degli effetti negativi sulla sua vita o sul suo ambiente di vita. Un esempio tipico di richieste reattive furono i molti scioperi contro la chiusura di fabbriche, come quello che abbiamo visto a Trieste nel capitolo precedente. Un altro fu l’ondata di scioperi contro il costo della vita, spesso guidati dai sindacati, che segui­ rono all’aumento dei prezzi iniziato nei primi anni Settanta. Un terzo furono gli scioperi «perequativi» da parte dei colletti bian­ chi che vedevano assottigliarsi il loro vantaggio di reddito nei confronti dei lavoratori manuali. Richieste proattive. Benché la percentuale maggiore di episodi di protesta avesse origine nelle richieste reattive, in questo pe­ riodo l’Italia non mancava affatto di conflitti proattivi, vale a dire promossi da persone che chiedevano nuovi diritti o benefici. In realtà oltre un terzo delle richieste da noi incontrate erano proattive. Analizzeremo la composizione di queste richieste in maggiore dettaglio più avanti. Vedremo così che la maggior parte di esse comporta richieste di accesso alle istituzioni, di benefici di gruppo o di cambiamenti nelle politiche governative. L ’episodio proattivo più tipico fu lo sciopero contrattuale nel quale i sindacati agivano per convincere la direzione del loro po­ tere o della serietà delle loro piattaforme. Altri scioperi potevano seguire a livello della fabbrica o dell’impresa per ottenere ulte­ riori benefici oltre ai vantaggi contrattuali raggiunti dai sinda­ cati. Molti scioperi vennero anche indetti per chiedere nuovi di­ ritti, come la riorganizzazione della produzione o il diritto dei rappresentanti sindacali a essere presenti sul posto di lavoro. Conflitti competitivi. I conflitti competitivi erano meno fre­ quenti degli altri due tipi, ma sono stati riscontrati in quasi il 14 per cento degli episodi. Il termine «competizione» ci fa pensare al ricco armamentario del carnevale o alla «chiassata» di cui parla Davis (1971). Ma il ricco e folcloristico armamentario del carne­ vale o della «chiassata» sono cose d ’un tempo, sostituite dalle spranghe di ferro delle risse nelle strade e dalle bottiglie molotov lanciate nelle sedi dei nemici. I conflitti competitivi costituirono oltre un quinto delle proteste diverse dallo sciopero, con una so­ stanziale sovrapposizione con le proteste aspecifiche di cui ab­ biamo parlato nel capitolo precedente. I conflitti competitivi erano spesso collegati l’uno all’altro, 102

quando i gruppi cercavano di superarsi a vicenda o si scontra­ vano nelle strade. Una tipica sequenza competitiva seguì alla tragica esplosione di una bomba alla Banca dell’Agricoltura di Milano, il 12 dicembre 1969. Per anni e anni dopo questo epi­ sodio, come vedremo nel capitolo X , sia la sinistra che la destra nella ricorrenza di quella data organizzarono proteste e contro­ proteste. Le proteste contro promesse non mantenute. Meno frequenti di questi tre altri tipi furono le proteste per la «mancata attuazio­ ne», vale a dire le richieste che venissero mantenute delle pro­ messe fatte. Esse furono evidenti in meno del 5 per cento delle richieste totali. Si differenziano nettamente dagli altri tre tipi perché sono fatte scattare dalla mancanza di azione o dalla cat­ tiva fede di terze parti. Sarebbe azzardato concludere dall’assenza relativa di queste richieste nei nostri dati che lo Stato italiano assolse sempre al suo ruolo in modo pronto, efficace e giusto. Per esempio le vittime del terremoto del Belice piantarono molte volte le loro tende di­ nanzi al Parlamento per rendere evidenti i ritardi e l’inefficienza dello Stato nel portare loro aiuto. Ma la relativa rarità di questo tipo di protesta rispetto agli altri tre tipi suggerisce che l’imma­ gine popolare dell’Italia come di un paese che stava rapidamente crollando era superata, e che la gente ricorreva a canali più con­ venzionali, per esempio al parlamentare, e non alla protesta, per far mantenere le promesse disattese9. Quando è più perturbativa la protesta? Quando la gente cer­ ca di ottenere nuovi diritti o benefici, quando difende vecchi diritti, compete con gli altri o richiede che siano mantenute le promesse? La perturbazione fu massima quando i gruppi erano in competizione fra loro per delle risorse o per lo spazio nelle stra­ de, e minima quando chiedevano nuovi diritti o benefici. Le pro­ teste furono più perturbative quando la gente percepiva che sta­ va per perdere qualcosa — per esempio, quando stava per essere licenziata — rispetto a quando cercava di ottenere più benefici o l’attuazione di riforme promesse.

9 Q uest’immagine è stata recentemente messa in dubbio da LaPalombara (1987), ed esaminata più empiricamente dagli autori in una raccolta a cura di Lange e Regini (1988).

103

3. La struttura delle richieste Nel suo From Mobilization to Revolution Charles Tilly (1978, cap. Ili) introduce un «modello politico» per l’analisi dell’azione collettiva. Un assunto di base del modello è che l’arena politica è costituita da gruppi in competizione reciproca che a loro volta si suddividono in «appartenenti» alla comunità politica e «sfidanti» in lotta per la conquista del potere. Scrive Tilly (1978, p. 54): «Tutti gli sfidanti cercano, tra le altre cose, di entrare nell’arena politica. Tutti gli appartenenti cercano, tra le altre cose, di ri­ manere nell’arena politica». L ’azione collettiva è appunto il mez­ zo con cui gli sfidanti cercano di entrare nell’arena politica, e gli appartenenti cercano di evitare di perdere il proprio posto. Sono idee interessanti che, come molte osservazioni di Tilly, considerano l’azione collettiva come aspetti di una lotta intorno agli interessi di gruppo, e che sfidano la concezione più vecchia dell’azione collettiva come un qualcosa di irrazionale. Ma queste formulazioni possono anche ridurre la varietà delle motivazioni al solo desiderio di entrare nell’arena politica, una riduzione pro­ babilmente eccessiva per una società pluralistica. Le categorie di Tilly sono state esaminate suddividendo le richieste da noi studiate in due grandi gruppi: conflitti sostan­ ziali riguardo ai diritti, ai benefici e alle politiche, e proteste espressive riguardo al simbolismo, alla solidarietà e all’opposizio­ ne. In ciascuna grande categoria principale abbiamo individuato quattro sottotipi basando le nostre categorie sulla «richiesta prin­ cipale» degli attori, così come definita dalle loro parole e azioni. Per semplicità, questi otto tipi di richieste saranno descritti secondo il tipo di esito che sembravano volere ottenere coloro che avanzarono le richieste. I quattro tipi sostanziali saranno: — richiesta di diritti: proteste da parte di persone che ricor­ revano all’azione perturbativa per ottenere il diritto a partecipa­ re al processo decisionale; — richiesta di benefici: conflitti tra coloro che cercavano di ottenere benefici sostanziali diretti e coloro che dovevano accor­ darli; — richiesta di politiche: proteste a favore di obiettivi politici positivi; — cessazione di politiche: proteste nate per cambiare una po­ litica esistente o per far cessare l’adozione di una politica non gradita a chi effettuava la protesta. I quattro tipi più espressivi sono: 104

— l'identità collettiva-, proteste il cui unico scopo visibile era asserire l’esistenza o l’identità di un attore collettivo; — mostrare solidarietà: proteste miranti a dimostrare solida­ rietà ad altre persone, categorie, o organizzazioni; — ricerca di spazio-, conflitti tra gruppi in conflitto nei quali non vi è alcuna politica visibile o domanda sostanziale, ma solo opposizione a un altro gruppo; — contro il sistema-, proteste miranti alla distruzione o al ro­ vesciamento del sistema. Questi otto tipi di richieste sono riportati nella tab. 8. Per facilità di lettura, gli episodi di sciopero e di non-sciopero sono stati aggregati, ma laddove esistono importanti differenze saran­ no evidenziate nell’esame che segue. Tab. 8 - Tipi di richiesta: sostanziale ed espressiva %

Tipo di richiesta

N.

Proteste sostanziali Per nuovi diritti

3,5

173

42,0

2.071

A sostegno di politiche

5,7

280

In opposizione a politiche

7,6

374

58,8

2.898

Per nuovi benefici

Totale proteste sostanziali Proteste espressive Identità collettiva

2,1

102

Solidarietà

8,7

427

25,8

1.269

Ricerca di spazio Rovesciare il sistema Totale proteste espressive Tipi misti D ati mancanti Totale

0,9

46

37,5

1.844

3,7

184

-

56

100,0

4.980

Esaminando la distribuzione generale dei tipi di richieste, è chiaro che sarebbe molto riduttivo considerare il ciclo italiano unicamente come volontà dei gruppi «sfidanti» di entrare nel campo politico. Soltanto il 4 per cento delle proteste erano casi di «richiesta di diritti» e meno del 6 erano tentativi di otteni­ 105

mento di nuove politiche. Sembra molto più normale che la gente stesse semplicemente cercando di ottenere più benefici (42 per cento), di far cessare una qualche azione politica (7,6), o di agire contro altri nella richiesta di spazio (25,6). Richieste sostanziali Alcuni osservatori (Melucci, Pizzorno) hanno sottolineato la natura espressiva del conflitto in Italia. Tuttavia il numero delle richieste sostanziali (quasi il 60 per cento del totale) fu molto maggiore di quello delle richieste puramente espressive. N ell’avanzare richieste la gente ricorse ad azioni molto espressive, e le richieste furono spesso estreme, ma relativamente poche furono le proteste che mancavano di una qualche richiesta sostanziale. Inoltre la percentuale maggiore di proteste fu a favore degli in­ teressi materiali concreti della gente. Questo naturalmente era particolarmente vero nel caso degli episodi di sciopero, oltre due terzi dei quali furono organizzati intorno a richieste puramente sostanziali (gli scioperi assommarono ai due quinti degli episodi totali). Che tipo di richieste sostanziali faceva la gente? Chiedeva diritti o benefici, portava avanti una politica preferita o si op­ poneva a politiche avanzate da altri? Gran parte della letteratura giornalistica degli anni Sessanta sottolineò le richieste di nuovi diritti di partecipazione: per esempio la richiesta degli studenti di partecipare alla formulazione dei programmi e ad altre deci­ sioni, il desiderio dei lavoratori di partecipare alla gestione della loro impresa, la richiesta dei cittadini di autogoverno di quartie­ re. Ma benché queste richieste fossero diffuse durante il picco intenso della mobilitazione, furono ben lontane dall’essere co­ muni in Italia sia negli episodi di sciopero che di non-sciopero e — dopo il punto culminante nel 1968 — divennero irrilevanti. Le richieste di benefici costituirono la percentuale maggiore degli episodi di sciopero (68 per cento) e furono al secondo posto come percentuale sugli altri (25 per cento). Tali richieste pote­ vano andare da quelle di aumenti salariali a quelle di garanzia del posto di lavoro o della costruzione di nuove scuole. La loro ca­ ratteristica comune è che puntano a fare avere a chi protesta e alle persone a loro vicine dei vantaggi in modo diretto, più che attraverso cambiamenti nella politica generale o attraverso il ro­ vesciamento delle istituzioni o delle élites. Va nuovamente sot­ tolineata la natura concreta delle proteste. 106

Spesso queste richieste erano molto radicali, come quando i lavoratori cercarono di influenzare l’organizzazione della produ­ zione (Regini e Reyneri 1971), o quando gli studenti chiesero di abolire gli esami. Le richieste sostanziali potevano anche avere delle implicazioni radicalmente egualitarie, per esempio quando gli operai chiesero degli aumenti salariali uguali per tutti e per tutte le mansioni e i livelli di specializzazione, o quando un grup­ po extraparlamentare chiese per i lavoratori un «salario politico». Persino le richieste concrete e materiali potevano avere delle im­ plicazioni estreme quando erano avanzate per attuare strategie ampie e radicali. Così il ciclo di protesta era ben lungi dall’essere moderato, ma le richieste erano il più delle volte organizzate in­ torno a obiettivi coi quali la gente poteva identificarsi, non in­ torno a «utopie». Le proteste politiche vennero innescate il più delle volte dal­ l’opposizione a una data politica, presa in considerazione dal go­ verno, più che dalla proposta di nuove politiche; questa opposi­ zione si manifestò, per esempio, in una serie di proteste estre­ mamente importanti, agli inizi del 1968, contro il progetto di riforma pensionistica del governo. I conflitti politici spesso coin­ volsero degli appartenenti alla classe media, ma un gran numero di essi coinvolse i sindacati, che nel 1969 lanciarono una «stra­ tegia delle riforme» generale. Benché le proteste collegate alla politica costituissero meno del 15 per cento del totale, ebbero un effetto politico più diretto di entrambi i due tipi prima descritti. Questo non solo perché erano dirette a chi faceva la politica piuttosto che ai padroni delle fabbriche o a chi dirigeva le scuole, ma perché tendevano di più a ricorrere a forme pubbliche e molto visibili di protesta come il corteo o il raduno pubblico. E dato che cercavano di rappresen­ tare i bisogni di gruppi generali più che gli interessi ai gruppi particolari, erano espresse entro strutture interpretative più am­ pie che potevano divenire la base di proteste e campagne future, come vedremo in seguito. Richieste espressive Riguardo alle proteste espressive siamo riusciti a individuare solo una minima percentuale — appena un po’ più del 2 per cen­ to del totale — in cui le azioni sono state considerate in quanto avevano come obiettivo unicamente quello di esprimere l’identità collettiva di un gruppo. L ’affermazione di un’identità collettiva 107

fu un elemento costitutivo di molte proteste nate a favore di ri­ chieste sostanziali; ma la scarsità numerica delle proteste intomo all’identità di gruppo dimostra che di solito la gente aveva in mente delle richieste ben concrete, quando si riversava nelle stra­ de o incrociava le braccia. Il termine «identità collettiva», quale è stato utilizzato nel letteratura sui movimenti sociali, è difficile da cogliere a livello empirico. Spesso il desiderio di un gruppo di fissare la propria identità poteva essere inferito a partire dalla natura irragionevo­ le o non negoziabile delle richieste che avanzava (Pizzorno 1978). Altre volte esso poteva essere inferito dalla natura dirom­ pente o non convenzionale delle sue azioni; tuttavia, spesso la gente avanzava richieste irragionevoli o utilizzava forme estreme d ’azione per ragioni strumentali, al fine di creare una forte po­ sizione di trattativa e convincere alcuni dei suoi oppositori a prenderla sul serio. Così anche in queste proteste più espressive c ’era spesso una motivazione sostanziale. Mostrare solidarietà agli altri era una ragione di protesta mol­ to più facilmente osservabile rispetto all’espressione di un’idenj tità collettiva. Essa costituì quasi il 9 per cento delle proteste totali e comparve in percentuali identiche negli episodi di scio­ pero e non-sciopero. La percentuale più grande di queste prote­ ste fu costituita o da scioperi di una categoria di operai a favore di un’altra, o dal mostrare solidarietà a persone arrestate o che stavano perdendo il posto di lavoro. Le proteste di solidarietà furono uno dei meccanismi principali della diffusione della pro­ testa in tutto il periodo. Chi ha considerato l’opposizione al sistema o allo Stato come la richiesta principale contenuta nella protesta protesterà anche contro le nostre risultanze, dato che meno dell’ 1 per cento degli episodi, secondo i nostri dati, tratti da una fonte che nessuno può accusare di essere tenera nei confronti della rivoluzione, mi­ ravano esplicitamente a un rovesciamento del sistema capitalista o dello Stato italiano. Benché molte proteste fossero animate da gruppi che non facevano segreto della loro opposizione al siste­ ma, il conflitto sociale era prevalentemente organizzato intorno agli interessi immediati e alle richieste della gente, e contro co­ loro che vi opponevano resistenza o minacciavano di farlo. La scoperta più notevole proveniente dall’esame della strut­ tura delle richieste è stata l’elevata percentuale di conflitti orga­ nizzati intorno all’opposizione diretta tra gruppi in competizio­ ne: il 26 per cento dei casi. Benché in questi episodi spesso a essere presi di mira fossero i movimenti opposti, frequentemente 108

gli obiettivi erano anche coloro che prendevano le decisioni, ma senza alcun chiaro riferimento alle loro azioni politiche. Questi episodi sono strettamente correlati con le proteste «aspecifiche» e i conflitti competitivi che abbiamo prima esaminato. E in questa categoria che vediamo la principale differenza tra episodi di sciopero e di non-sciopero. Solo il 6 per cento degli scioperi fu motivato da opposizione ad altre persone. Fu nelle proteste non sfociate in sciopero che le richieste di spazio contro altri gruppi costituirono un buon 39 per cento dei casi, una per­ centuale maggiore sui non-scioperi rispetto a qualsiasi altro tipo di richiesta. Così la struttura delle richieste delle proteste — così come la loro direzione — era il più delle volte concreta, sostanziale e spe­ cifica. La gente cercava di ottenere nuovi diritti e benefici, so­ steneva particolari politiche e si opponeva ad altre, o colpiva i propri nemici immediati più che il sistema capitalista o lo Stato nel suo complesso. La politica di movimento era un’estensione della politica in generale.

4. Strutture interpretative più ampie: l’autonomia e l’operaismo N ell’azione collettiva così come nella politica in generale, la gente non può sostenere a lungo delle campagne a favore dei pro­ pri diritti o benefici senza legittimare le proprie richieste con valori generali e protendersi verso gli altri mediante un quadro di riferimento comprensibile a entrambi. Alcune di queste idee co­ muni provengono dalla cultura popolare10, altre nascono nel cor­ so del ciclo o sono un’estensione di temi ereditati a nuovi gruppi e richieste11. Una delle principali caratteristiche del ciclo di pro­ testa è che alcune strutture interpretative si diffondono attra­ verso la società e si estendono al di là del suo quadro di riferi­ 10 Negli Stati Uniti, negli anni Sessanta, il concetto di «diritti» derivava la propria importanza dal peso tradizionale che aveva sempre avuto nella cultura popolare americana, benché fosse stato spesso onorato solo a parole, come nel caso dei neri. 11 E il caso dell’ideologia nazionalista nera delle ultime fasi del movimento dei diritti civili. Quando il movimento si è trasferito dal Sud al N ord e dalle Chiese nere ai ghetti urbani, il concetto di diritti è'Stato rifiutato a favore di una richiesta più fondamentale di autonomia e di separatismo.

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mento abituale (Snow e Benford 1988). Più raramente nel corso di un ciclo appare un contesto interpretativo totalmente nuovo. In Italia, al di sotto del mosaico di richieste e controrichieste prima esaminato, un’importante struttura interpretativa eredi­ tata — l’operaismo — venne estesa molto al di là del suo signi­ ficato originario, e ne apparve una nuova: l’autonomia. A partire dall’assunto che il conflitto sociale doveva essere guidato dai par­ titi e dai sindacati, ci fu un passaggio al concetto secondo cui gli attori sociali potevano godere di autonomia sia nel prendere de­ cisioni che nel formulare richieste. Dato che entrambi questi contesti appariranno in tutto il resto di questo libro, li presenterò qui semplicemente insieme ad alcuni dei principali modi in cui furono utilizzati. L ’operaismo In un pamphlet anonimo pubblicato nel 1967, un intellettua­ le comunista vicino ai sindacati scriveva: «È solo nella fabbrica che il rapporto sociale di produzione che vogliamo eliminare è fianco a fianco con la forza di classe politica [...] che è capace di sovvertirlo e rovesciarlo» (Accornero 1967, p. 54). L ’operaismo one il proletariato nel fulcro dell’attività rivoluzionaria. Esso a una lunga storia nella cultura politica della sinistra italiana (Magna 1978) e può essere riportato alla lotta tra sindacalisti e parlamentari socialisti agli inizi della storia del movimento ope­ raio e al conflitto tra massimalisti e minimalisti negli anni Dieci di questo secolo. Fu anche ben rappresentato in un’ala del nuovo Partito comunista, fondato nel 1921. L ’operaismo continuò a esercitare un fascino sulla sinistra per tutto il periodo postbellico. Il Pei riuscì ad assumerne l’ege­ monia in parte subordinando il proprio sostegno alla classe ope­ raia a una strategia di ampie alleanze di gruppi e classi. Questo lasciò uno strato di militanti e intellettuali incerti circa l’auten­ ticità rivoluzionaria del maggiore partito della sinistra, e convinti che il lassismo degli operai durante e dopo il miracolo economico poteva essere addebitato al fatto che il partito non fosse riuscito a rappresentare le loro tendenze più profonde. Anche all’interno del Pei e tra alcuni dei suoi quadri sindacali l’operaismo era già rinato alla metà degli anni Cinquanta. Gli storici hanno messo in evidenza l’importanza dell’operai­ smo nella formazione della nuova sinistra agli inizi degli anni Sessanta (Becchelloni 1973; Lumley 1983). E ssi hanno dimostra­ to come riviste quali «Classe operaia» e «Quaderni rossi» ripor-

E

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tasserò in vita la vecchia teoria della centralità operaia dalla qua­ le il Pei fu pronto a prendere le distanze quando vide il proprio futuro politico nei «ceti medi produttivi». Più nascosta è stata la tenace sopravvivenza della posizione operaista all’interno del Pei e dei sindacati, e la sua riproposizione negli anni Sessanta, quan­ do la strategia di alleanze del partito sembrava non portare da nessuna parte. Per esempio, nel riconsiderare la storia postbellica dei metalmeccanici torinesi, Miriam Golden (1988) trova nella cultura di sinistra di quella città una tradizione ininterrotta di operaismo. Uno degli aspetti che superficialmente poteva sorprendere del movimento degli universitari iniziato nella metà degli anni Sessanta fu la sua adozione della simbologia operaista. Questa cominciò ad apparire già nel 1966, quando gli studenti di Socio­ logia della nuova università di Trento teorizzarono che l’univer­ sità era una «istituzione produttiva». Il tema venne esteso ancor più da una coalizione di gruppi studenteschi che occuparono l’u­ niversità di Pisa nel 1967. Le tesi di questi studenti ricevettero pubblicità nazionale quando vennero adottate da una corrente di sinistra dell’UGi, spaccando l’organizzazione (Cazzaniga 1967). L ’operaismo divenne moneta corrente dei gruppi extraparla­ mentari nati dalla crisi del movimento studentesco dopo il 1968. Alla fine divenne una caricatura di se stesso: in modo comico quando il Psi, che aveva perso le sue credenziali presso la classe lavoratrice entrando nella coalizione di centro-sinistra agli inizi degli anni Sessanta, si dichiarò «il partito del lavoro»; e tragico, nelle ideologie settarie di alcuni dei gruppi terroristici che fiori­ rono alla metà degli anni Settanta. L ’importanza principale dell’operaismo risiedette nel fornire una struttura interpretativa e insieme di solidarietà ai non sem­ pre armoniosi gruppi dell’estrema sinistra. Esso ebbe un’impor­ tante funzione strategica per la sinistra extraparlamentare. I con­ servatori potevano deridere il fatto che i figli della borghesia si vestissero come operai e indossassero la tradizionale tuta blu del proletariato, ma non coglievano il significato essenziale dell’ope­ raismo: in un paese in cui il principale partito istituzionale della sinistra aveva ottenuto l’egemonia chiedendo di rappresentare una coalizione di classi attorno alla classe operaia, chi voleva creare uno spazio politico alla sua sinistra avrebbe dovuto espor­ re le proprie richieste in termini dotati di significato nella cultura popolare della sinistra italiana.

Ili

L'autonomia L ’operaismo era una struttura interpretativa tradizionale del­ la sinistra che venne estesa a nuovi gruppi e a nuove attività, ma il concetto di autonomia imponeva una nuova logica al problema della delega rappresentativa. Benché il tema dell’autonomia avesse dei parallelismi internazionali — per esempio nel concetto di autogestion avanzato dai sindacalisti cattolici di sinistra in Francia — esso ebbe particolare importanza in Italia, dove la cultura po­ litica era stata dominata dai partiti e dalla loro organizzazione di massa in misura molto maggiore che in Francia. Il concetto dell’autonomia degli attori sociali rispetto ai par­ titi e alle associazioni era un aspetto importante dei tre movi­ menti di protesta che incontreremo nella seconda parte del vo­ lume: gli studenti universitari, gli operai dell’industria e le «comunità di base» all’interno della Chiesa cattolica. Nel movimento degli studenti universitari, nel quale le asso­ ciazioni guidate dai partiti avevano esercitato un’egemonia ri­ spetto alle organizzazioni degli studenti sin dall’immediato pe­ riodo postbellico, la sinistra ottenne un seguito chiedendo che gli studenti avessero il diritto di governare le proprie organizzazio­ ni. Nel movimento degli operai, l’autonomia aveva due signifi­ cati sovrapposti: innanzitutto, autonomia degli operai dai sinda­ cati che presentavano le piattaforme senza consultarli; in secondo luogo autonomia dei sindacati dalle rispettive affiliazio­ ni di partito politico. E nelle comunità di base cattoliche l’auto­ nomia significava autonomia dei credenti dalla gerarchia della Chiesa. L ’autonomia costituì anche un tema in molte delle proteste urbane dei primi anni Settanta, quando i comitati di inquilini cercavano dì fissare affitti e canoni, e cominciarono a trasfor­ marsi in comitati di quartiere. Divenne inoltre lo slogan dei grup­ pi regionali che si opponevano al governo nazionale. In un altro senso era il termine che i sindacati degli impiegati «autonomi», prevalentemente della classe media, usavano per riferirsi a se stessi così da indicare la loro autonomia dal dominio delle con­ federazioni. Tra tutti questi temi espressi nel ciclo di protesta italiano l’autonomia fu quello che più di ogni altro assunse il carattere di nuovo tema «conduttore», paragonabile al concetto di «diritti» nei movimenti americani degli anni Sessanta. Nel punto di mas­ sima del ciclo, nel 1967-69, l’autonomia era festosa e liberatoria, ma poteva anche significare settarismo e isolamento, in partico­ 112

lare dopo che, agli inizi degli anni Settanta, i sindacati e i partiti cominciarono a riaffermare il loro controllo sugli operai. Questo significato del termine predominò nella sua tragica evoluzione storica alla metà degli anni Settanta, quando tutto un insieme di gruppi clandestini e semiclandestini costituirono quella che finì con l’essere chiamata P«area dell’autonomia». Per questi gruppi l’autonomia significò separazione dallo Stato, dalla sinistra isti­ tuzionale, dai sindacati e, alla fine, dalla realtà. C ’era un collegamento diretto tra la smobilitazione verso la fine del ciclo e la crescita di questa «area dell’autonomia»? Come vedremo nel capitolo X , infatti, a partire dagli anni 1973-76 la mobilitazione era in calo, la repressione aveva allontanato dalle strade tutti a eccezione dei più ostinati, e molti dei movimenti generati nel picco intensivo della mobilitazione si erano rivolti alla competizione elettorale. Nacque una nuova generazione di collettivi autonomi per disputare il proprio diritto a chiamarsi veri alfieri della rivoluzione. Per somma ironia del ciclo di pro­ testa, la bandiera dell’autonomia, innalzata per la prima volta dagli studenti nel 1966-68 per chiedere la democrazia di base, accompagnò i loro successori nella clandestinità e nascose i loro atti di terrore sotto una retorica che — malgrado ogni sforzo — non riusciva a celare il distacco dei suoi appartenenti dalle masse.

5. Cambiano i problemi sul tappeto Riferiti i dati necessari, possiamo proseguire con le nostre domande circa la dinamica delle richieste nel corso del ciclo di protesta. La maggioranza delle richieste rimase concreta, e i gruppi ristretti, in tutto il ciclo? Le richieste si trasformarono da più concrete a più astratte, da più riformiste a più rivoluzionarie, via via che il ciclo andava finendo? O l’evoluzione della struttura delle richieste seguì una parabola simile alle forme di azione che abbiamo studiato nel capitolo III e degli attori sociali esaminati nel capitolo IV? Cambiamento settoriale I cambiamenti in tutti i principali settori economici e sociali assomigliarono a ciò che abbiamo visto nel capitolo IV circa i principali attori sociali: un’estensione dal 1967 fino alla fine del 113

decennio e un restringimento nel periodo successivo. Fecero ec­ cezione le proteste internazionali e i conflitti sulla scuola, che ebbero un picco agli inizi del ciclo, e un settore importante nel quale il massimo del conflitto venne in un momento posteriore nel periodo: le proteste nel campo della giustizia, ivi comprese le lamentele circa la repressione poliziesca. A parte questo, il cambiamento principale fu dato dalla so­ stituzione ai conflitti settoriali, economici e sociali, organizzati intorno agli interessi della gente, di battaglie ideologiche per la conquista di spazio tra le varie organizzazioni dei movimenti so­ ciali e rispettivi seguaci. Queste lotte assunsero svariate forme: giovani di sinistra e di destra si scontravano per le strade e si picchiavano con catene e bastoni, si interrompevano i raduni dei partiti politici e si compivano irruzioni nelle sedi politiche degli avversari; piccoli gruppi estremisti andavano ai raduni dei loro alleati e li radicalizzavano lanciando sassi contro la polizia e spac­ cando vetrine; nelle strade delle città si svolgevano cortei rivali che giocavano un minuetto tattico, con la polizia che cercava di frapporsi. Un importante effetto collaterale fu la crescente importanza dei servizi d ’ordine dei partiti, dei sindacati e dei gruppi extra­ parlamentari. Ufficialmente il loro compito era di mantenere sot­ to controllo i dimostranti, ma molti di essi divennero vivai di reclutamento di gruppi violenti, insofferenti dei problemi del­ l’organizzazione di massa e desiderosi di accelerare il ritmo verso la rivoluzione più rapidamente di quanto fossero disposte a fare le masse. Quando, alla metà degli anni Settanta, i principali gruppi extraparlamentari si volsero alle elezioni politiche — e in particolare dopo che la tesi del compromesso storico era stata accettata come strategia dal Pei — questa diffusa violenza di strada divenne organizzata e fu sempre più dominata dai gruppi terroristici della fine degli anni Settanta e degli anni Ottanta. La concomitanza del calo della protesta nei principali settori fondamentali (industria, educazione, servizi e affari internazio­ nali) e dell’aumento del conflitto ideologico costituisce una scoperta-chiave di questa ricerca che non sarà mai sottolineata ab­ bastanza. Via via che le persone che lavoravano nell’industria o nei servizi, che studiavano nelle università o che erano interes­ sate al conflitto internazionale cominciarono a tornare ai loro banchi o ai tavoli da lavoro — perché erano stanchi, soddisfatti o impauriti — il conflitto cominciò a diffondersi nelle strade tra coloro che non avevano nessuna specifica proposta politica da avanzare, ma solo un odio feroce per i propri oppositori. Questa 114

concomitanza dell’aumento del conflitto ideologico e del calo della mobilitazione di massa all’interno dei principali settori so­ stanziali è illustrata nella fig. 9. Numero

• Settori principali

Semestre

Fig. 9 - Numero degli episodi di protesta in cinque settori principali e nu­ mero dei conflitti ideologici per semestre, 1966- l ì L ’aumento delle proteste contro la polizia e il sistema giudi­ ziario agli inizi degli anni Settanta, nel momento in cui tutti gli altri conflitti settoriali erano in calo, è collegato a questo passag­ gio dalla protesta settoriale al conflitto ideologico. Infatti, via via che la protesta di massa andò diminuendo e il numero delle bat­ taglie ideologiche per le strade andò crescendo, la polizia perse le proprie inibizioni politiche e andò acquisendo un incentivo a se­ guire una politica più aggressiva fatta di cariche e arresti, facen­ do nascere numerose dimostrazioni contro la sua brutalità, e al­ tre in cui si chiedeva il rilascio dei detenuti. Inoltre, poiché la polizia si mostrava energica soprattutto nel caricare l’estrema si­ nistra, vi furono proteste contro l’implicita protezione che essa sembrava offrire all’estrema destra.

6. Conclusioni Negli anni che andarono dal 1966 al 1973 gli italiani furono divisi più su conflitti distributivi che su temi ideologici. La mo­ bilitazione ebbe la propria base principale nel fatto che il popolo italiano attraversava un periodo di trasformazione economica, di mutamento sociale e di sfida politica. Quando i protagonisti di questi movimenti cominciarono a tornare alle rispettive case, 115

scuole e posti di lavoro, il ciclo della protesta di massa terminò. Ciò che rimase fu un numero relativamente esiguo di persone in lotta per lo spazio ideologico e lo spazio nelle piazze. Ma le piaz­ ze, in parte come conseguenza di questo, ma prevalentemente a causa del fatto che la mobilitazione di massa stava terminando, erano sempre più vuote. Fu un segno del calo della mobilitazione e del cambiamento di interessi del pubblico, il fatto che le più grandi dimostrazioni degli inizi degli anni Settanta avvennero per protestare contro il comportamento della polizia e contro l’e­ stremismo. Le richieste della gente, anche quelle estreme, erano scaturite dai loro conflitti quotidiani, dai dibattiti politici che erano ini­ ziati alPinterno del sistema politico nazionale e dall’opposizione ad altri. Queste proteste non avanzavano richieste utopistiche, ma rientravano sotto un altro nome nella sfera politica. Anche i grandi temi interpretativi dell’operaismo e dell’autonomia ebbe­ ro una funzione pratica nel mobilitare la gente, e una funzione strategica nel cercare di sorpassare i partiti e i sindacati tradizio­ nali. Ma verso la fine del periodo la gente stava ricorrendo a forme di azione collettiva più istituzionalizzata — come i sinda­ cati — e si stava sempre più ritraendo dalle forme perturbative d ’azione che avevano aperto il ciclo. Il periodo entusiasmante, di sfida ma prevalentemente pacifico della mobilitazione intensiva prima del 1970 cedette il posto a richieste più limitate, avanzate prevalentemente attraverso mezzi convenzionali, da una parte, e all’opposizione violenta di piccole minoranze, dall’altra. Il ciclo fu potenzialmente rivoluzionario? Benché il tessuto dei conflitti, concreti e specifici, alla radice della società italiana forse non fu intrinsecamente rivoluzionario, gran parte di essi contribuirono però a porre un enorme fardello sulle capacità de­ cisionali del paese. Come avrebbe detto un esperto della politica italiana quale Antonio Gramsci, un sistema capitalista democra­ tico è portato più facilmente alla paralisi da una moltitudine di piccole battaglie condotte nelle trincee della società civile, che non da un attacco frontale al sistema. Ma il sistema non venne mai portato alla paralisi, malgrado i desideri di coloro che vedevano un’insurrezione proletaria dietro l’angolo. I risultati di questo capitolo e degli ultimi due docu­ mentano un’ondata di entusiasmo collettivo, di solidarietà e di confronto che crebbe fino a un picco dal 1966 al 1969, ma mo­ strano anche che questo periodo intenso di mobilitazione giunse ben presto a termine. Chi ricorda il Sessantotto come un periodo di politica di massa creativa, ne troverà prove in questi capitoli. 116

Ma chi ricorda che ad esso seguì un maremoto rivoluzionario sbaglia, come mostrano i nostri risultati. In assenza di un maremoto rivoluzionario, almeno tre furono gli elementi che contribuirono all’estendersi del disordine alla metà degli anni Settanta: innanzitutto, vi fu una diffusione della protesta a settori della società italiana che non avevano parteci­ pato o avevano partecipato solo in parte all’azione collettiva dei primi anni (l’abbiamo visto nell’ultimo capitolo nell’estendersi della protesta di massa ai ceti medi); in secondo luogo il picco intensivo produsse un certo numero di organizzazioni, gruppi e partiti che potevano riprodursi solo attraverso un’azione collet­ tiva più radicale: che essi pensassero o meno che la rivoluzione era a portata di mano, non avevano altri incentivi da offrire ai loro seguaci; in terzo luogo, all’interno di questo settore del mo­ vimento sociale vi era una competizione per il consenso, nella quale i nuovi gruppi minori potevano ottenere spazio solo ricor­ rendo a forme d ’azione sempre più violente. Fu questa spirale di violenza, in presenza di un crescente allontanamento delle masse dall’azione collettiva, a portare alla fine il ciclo alla sua conclu­ sione.

VI

GLI STUDENTI UNIVERSITARI

Largo Gemelli' Milano, 5 m ano 1968. Il liceo Parini è occupato da un gruppo

di studenti che invitano a un incontro il preside della scuola. 7 marzo 1968. Il preside viene sospeso dal ministro della Pub­ blica Istruzione perché si rifiuta di chiamare la polizia per sgom­ berare gli studenti dal liceo. 8 marzo. Un lungo corteo di studenti, sia liceali che universi­ tari, marcia fino alla sede del Provveditorato agli studi per pro­ testare contro la sospensione del preside, bloccando la strada di­ nanzi ad esso. 10-11 marzo. Alla Statale si tiene un raduno per discutere il futuro del movimento studentesco. I leader dell’occupazione di Trento (Boato) e Torino (Bobbio e Viale) tengono dei discorsi molto seguiti dal pubblico. 21 marzo. Alla Cattolica, dove c’è uno stato di agitazione con­ tinuo sin dall’occupazione dell’ottobre precedente, comincia una nuova occupazione con l’obiettivo di costringere le autorità ac­ cademiche a negoziare sul tema della partecipazione studentesca. Il giorno seguente, dopo aver respinto un attacco fascista, gli occupanti sbarrano l’ingresso dell’università. Il 23 il rettore chia­ ma la polizia che sgombra l’università e ne chiude gli ingressi. In 1 Le informazioni relative a questa cronaca provengono da due fonti princi pali: un opuscolo degli studenti del Parini (1968), e il racconto di Grazioli (1979. cap. II).

119

un «assedio» simulato gli ex-occupanti prendono possesso di lar­ go Gemelli. 25 marzo. Anche la Statale è sgomberata dalla polizia. Ma gli ex-occupanti organizzano un corteo contro le azioni della polizia e ad essi si aggregano gli studenti liceali e quelli della Bocconi. Forti di oltre 4.000 persone, essi vanno in corteo a unirsi agli studenti della Cattolica accampati in largo Gemelli. Nel corso di un teso confronto tra la polizia «occupante» e gli studenti «asse­ diami», uno studente sospeso dalla Cattolica, il leader Mario Ca­ panna, intima alla polizia: «Vi dò dieci minuti per lasciare l’edi­ ficio» (Lumley 1983, p. 190). Qualcuno lancia delle arance marce e la polizia carica i dimostranti arrestandone oltre cinquanta. Gli eventi di largo Gemelli illustrano cinque caratteristichechiave del movimento degli studenti universitari del 1967-68: l’acuto istinto politico degli studenti; la precoce collaborazione tra studenti di diverse città e tra liceali e universitari; l’ampia gamma di tattiche da essi adottata; la netta rottura con la defe­ renza verso le autorità che esso rappresentò per gli studenti in tutto il paese; e infine quanto fosse facile per pochi provocatori tramutare un movimento di massa in violenza. Insieme, questi cinque fattori liberarono le energie del movimento e attrassero una gran cerchia di studenti fino ad allora non politicizzati; ma portarono anche al rapido declino del movimento nelle univer­ sità e costrinsero i suoi leader a cercare delle fonti di mobilita­ zione al di fuori delle scuole. Il movimento studentesco non fu mai totalmente «nuovo»; emerse da un frazionamento molto più ampio all’interno della sinistra e tra i giovani cattolici. Se attrasse un seguito, non fu perché era utopistico o violento, ma perché combinava vecchi militanti e nuove leve, solidarietà e organizzazione, richieste espressive e strategia politica. L’eredità che gli studenti lascia­ rono ad altri settori e movimenti consistè nell’aver dimostrato la vulnerabilità del sistema e l’intrinseco potere potenziale dell’a­ zione perturbativa.

1. Utopia e contestazione Benché la stampa moderata fosse molto lenta nel dar loro pubblicità, il «Corriere della Sera» riferì di 143 proteste nelle 120

università nel periodo da noi studiato2. Il numero delle lotte uni­ versitarie riferite nel giornale crebbe rapidamente dopo il 1965: da 8 nel 1966 a 14 nel 1967 e a 51 nel 19683. Dal 1969 in poi vi fu un netto calo delle proteste nelle università, dal momento che la polizia si fece meno ‘delicata’, i militanti spostarono all’ester­ no le loro attività e il centro d’attenzione passò alle fabbriche e alle città. La mobilitazione degli studenti universitari cominciò agli inizi del ciclo in pochi centri più importanti, ebbe un picco nel 1967-68, si diffuse rapidamente ad altre università e licei e declinò prima che entrassero in scena altri soggetti. Il Sessantotto italiano cominciò all’interno della sinistra tra­ dizionale. Nel 1964-65 le prime principali proteste contro la ri­ forma della scuola furono promosse da studenti universitari as­ sociati ai principali partiti. Nel 1966 un giovane socialista — Paolo Rossi — fu ucciso dai fascisti all’università di Roma, dan­ do il via a massicce proteste da parte sia della nuova che della vecchia sinistra. Agli inizi del 1967 la sede dell’università di Pisa fu occupata da una coalizione nazionale di attivisti studenteschi. A ottobre la Cattolica fu occupata durante una disputa circa le tasse scolastiche (vedi capitolo VIII). E a novembre palazzo Campana, sede dell’università di Torino, fu investito da un’oc­ cupazione. Il Sessantotto italiano era già maturo all’epoca in cui a Parigi esplose il movimento di Maggio. Esso ebbe inizio intorno a un dibattito politico interno alle istituzioni sulla riforma dell’uni­ versità. Le idee del nuovo movimento per una parte discendeva­ no da questo dibattito, per un’altra erano espressione dell’ope­ raismo tradizionale dell’estrema sinistra, e per un’altra parte ancora costituivano una nuova e liberatoria accentuazione del tema dell’autonomia. Benché gli studenti avessero sia importato che inventato nuove forme radicali d’azione, ricorsero anche a forme tradizionali, infondendovi, come vedremo più avanti, nuovi significati. 2 A meno che non sia altrimenti specificato, gli episodi cui si riferisce questo capitolo furono proteste universitarie incentrate su problemi della scuola. Secondo una cronologia pubblicata nell’estate 1968 dalla rivista «Tempi moderni» tra il novembre e il giugno dell’anno accademico 1967-68 c’erano stati 102 incidenti diversi in 33 università o facoltà (citato in Avanguardia operaia 1971, p. 89). Secondo i nostri dati il loro numero è molto minore, dato che ab­ biamo unito gli episodi relativi allo stesso tema nella stessa unità di analisi. 121

Utopia e politica

Questo non significa dire che il Sessantotto italiano non pro­ dusse nuove visioni e nessuna forma nuova d’azione. Gli elemen­ ti utopistici espressivi e dimostrativi furono più preminenti nelle proteste degli universitari che in qualsiasi altro periodo e settore del ciclo. Tuttavia, essi furono elaborati inizialmente intorno a richieste politiche, strumentali e orientate in senso politico, stra­ tegicamente sfruttate dai leader che avevano fatto il loro appren­ distato politico nella sinistra tradizionale o nelle organizzazioni giovanili cattoliche. Le richieste politicamente orientate di questo movimento ap­ parentemente utopistico emergono immediatamente da una suddivisione statistica della struttura delle richieste da esso avanzate elaborata a partire dai dati del «Corriere della Sera», nella tab. 9. In questa tabella confrontiamo gli svariati tipi di richieste avan­ zate dalle proteste universitarie con quelle riscontrate nell’intero insieme degli episodi di protesta. La tabella dimostra che in oltre il 60 per cento delle dispute universitarie gli studenti avanzarono richieste sostanziali di nuovi diritti, di benefici o di opposizione a determinate politiche governative. Nel 17 per cento dei casi le proteste erano semplicemente espressive, affermavano l’identità degli studenti, mostravano la loro simpatia per altri, si oppone­ vano ad altri gruppi o chiedevano il rovesciamento del sistema. Tab. 9 - Proteste degli studenti universitari a confronto con tutti gli episodi di protesta: tipi di richieste Studenti universitari % N.

Tipo di richiesta

Proteste sostanziali Per nuovi diritti Per nuovi benefici In sostegno o in opposizione a politiche Proteste espressive Identità o solidarietà Opposizione ad altri Rovesciare il sistema Tipi misti (sostanziali ed espressive) Totale

Tutti gli episodi

%

N.

17,3 28,1

24 39

3,5 42,0

173 2.071

18,0

25

13,3

654

11,5 5,0 0,7 19,5

16 7 1 27

10,8 25,8 0,9 3,7

529 1.269 46 184

100,1

139

100,0

4.926

122

Ma la tab. 9 mostra anche che gli studenti universitari erano soggetti particolari, e in un triplice senso. Innanzitutto nella misura in cui chiedevano nuovi diritti di partecipazione. Il tema alla base della maggior parte di queste proteste era la nuova struttura interpretativa dell’autonomia, tal­ volta espressa sotto forma di lotta contro l’autoritarismo acca­ demico e talaltra estesa a una richiesta di programmi gestiti dagli studenti, nei quali i professori sarebbero stati poco più che dei consulenti (Grazioli 1979, pp. 30-35 e 186-91). Gli studenti vo­ levano il diritto di tenere assemblee, di influenzare i programmi e le procedure di insegnamento e in alcuni casi di riorganizzare l’università. Volevano poter pubblicare liberamente, criticare i professori dentro e fuori l’aula e dare esami quando volevano. In secondo luogo, gli studenti erano più interessati ai temi di politica generale (e meno alle richieste puramente corporative) rispetto alla maggior parte degli altri attori sociali. Avanzarono le loro richieste politiche o cercarono di bloccare alcune azioni governative che disapprovavano. Questo interesse per la politica era evidente soprattutto nell’area della riforma universitaria, ma gli studenti manifestarono anche contro la guerra in Vietnam, in favore della riforma pensionistica e contro certi leader politici. Le loro proposte politiche erano radicali e talvolta portate avanti in uno spirito di festa, ma niente smentisce in modo così netto l’immagine indifferenziata degli studenti come degli utopisti, più della loro attenzione per i temi politici. In terzo luogo, malgrado l’immagine violenta che degli stu­ denti universitari diede la stampa borghese, e malgrado la loro retorica, il movimento fu prevalentemente non violento fintan­ toché rimase all’interno delle mura dell’università. Anche un giornale moderato come il «Corriere della Sera» mostra come gli attacchi agli altri fossero meno tipici nelle università che nel ciclo di protesta nel suo complesso. Quando la violenza si manifestò, accadde molto più spesso in grandi gruppi e tra gruppi di studenti opposti, o in scontri con la polizia, che non contro obiettivi o autorità pubbliche. Ma se gli studenti universitari cercarono di estendere i diritti e di accelerare il cambiamento politico, il loro movimento era lontano dagli schemi convenzionali. Essi avanzarono le loro ri­ chieste in modo sia aggressivo che spettacolare; le loro proposte politiche erano radicali e la loro opposizione alle proposte di ri­ forme del governo, totale. Inoltre, come illustra la riga finale del­ la tab. 9, al pari che nell’immagine di Zolberg del «momento di follia», le richieste sostanziali erano spesso combinate a richieste 123

espressive. In realtà, gli studenti universitari fecero crollare «il muro tra lo strumentale e l’espressivo» molto più degli altri attori sociali (Zolberg 1972, p. 183). Ma benché i loro detrattori li qualificassero come «utopisti», i dati giornalistici suggeriscono che anche le loro idee più utopi­ stiche avevano una base strategica e culturale. Questo vale anche per le loro due idee più «utopistiche»: il concetto degli studenti come operai e quello di autonomia. Gli studenti come operai

Si è già scritto tanto sull’operaismo del movimento studen­ tesco che qui è sufficiente un breve sommario4. Il tema compare per la prima volta in un documento dell’occupazione della facoltà di Sociologia di Trento nel 1966. Nel 1968 i trentini stavano teorizzando che una laurea è un bene prodotto dall’università: lo studente così come l’operaio deve «esigere il proprio diritto di riappropriarsi di se stesso, decidendo quale sarà la sua formazio­ ne e [.. .] come sarà accresciuto il suo valore di scambio» (Grazioli 1979, p. 24). Malgrado la fragilità dell’analisi marxista nel documento di Trento e in altri documenti, questi non possono essere liquidati come prodotti di mera ideologia, perché ebbero un ampio seguito presso gli studenti universitari. Erano stati elaborati nel corso di occupazioni spettacolari che attrassero migliaia di studenti, si diffusero da una città all’altra, dalle università ai licei ed ebbero pubblicità nazionale. La sequenza più importante di episodi si verificò a Pisa nel febbraio del 1967, e illustra molto bene le funzioni strategiche del concetto. L'occupazione della Sapienza

Agli inizi del 1967 la sinistra universitaria era impegnata in tutto il paese in una serie di occupazioni ispirate sia da temi locali sia dall’opposizione al programma governativo di riforma uni­ versitaria. In città diverse quali Pisa, Cagliari, Firenze, Bologna, 4 Oltre ai ricordi di ex-militanti quali Boato (1979), Bobbio (1979) e Viale (1978), le raccolte dei documenti prodotti dal movimento (Movimento studen­ tesco 1968; AA.VV. 1968) due studi empirici approfonditi sono quelli di Gra­ zioli (1979) e Lumley (1983).

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Roma, Torino e Camerino i gruppi studenteschi alla sinistra del Pei occuparono le facoltà universitarie (Carpi e Luperini 1966, p. 66). In febbraio, per pubblicizzare la loro opposizione al proget­ to di riforma governativo, una coalizione di questi gruppi indisse un incontro di rappresentanti studenteschi di tutte le facoltà oc­ cupate da tenersi a Bologna. Arrivando a Bologna, essi appresero che un gruppo nazionale di rettori di università stava program­ mando di incontrarsi a Pisa per discutere il piano Gui, e decisero all’unanimità di trasferire anche il loro raduno a Pisa dove — per alcuni giorni — le facoltà di Fisica, Chimica, Lettere e Filosofia erano state occupate da studenti pisani (Carpi e Luperini 1966, p. 67). L’occupazione della Sapienza del febbraio 1967 fu dunque non una spontanea protesta locale contro un’amministrazione universitaria autocratica, ma una calcolata mossa politica da par­ te di una coalizione nazionale di leader studenteschi che cerca­ vano di richiamare l’attenzione dei media sulla loro opposizione al piano Gui. A unirli era sia il desiderio di partecipare al dibat­ tito politico nazionale sia il loro antagonismo verso il tiepido ri­ formismo delle associazioni studentesche tradizionali legate ai partiti. L’opposizione del gruppo della Sapienza alle organizzazioni studentesche tradizionali assunse la forma, tipica di un movi­ mento sociale, di un attacco alla loro mancanza di democrazia interna. L’U gi, l’Intesa e gli altri furono condannati come «to­ talmente privi di reale controllo democratico da parte della base» (Carpi e Luperini 1966, p. 66). Gli occupanti proposero una for­ mula decisionale alternativa: gli studenti sarebbero stati rappre­ sentati da autonomi «rappresentanti democratici di tipo sinda­ cale, direttamente eletti in assemblee della facoltà» (Carpi e Luperini 1966, p. 66), e sarebbero stati controllati in modo de­ mocratico dalla base. Quella che sarebbe divenuta una teoria ge­ nerale dell’autonomia e della democrazia decentralizzata (e che alcuni avrebbero preso per utopia) ebbe origine nei tentativi di questi leader studenteschi di minare le organizzazioni di massa gestite dai partiti. La cosa che veramente catturò l’immaginazione degli studen­ ti nell’occupazione della Sapienza fu il fatto che le loro richieste specifiche fossero inserite in una struttura interpretativa nuova e più radicale: il concetto di studente come operaio. Ma mentre il movimento a Trento non era andato oltre il concepire l’univer­ sità come un meccanismo di produzione, gli occupanti della Sa­ pienza portarono la metafora dell’università come fabbrica fino 125

alla sua conclusione logica, definendo gli studenti «come una for­ za-lavoro nel processo di addestramento e come figure sociali su­ bordinate» (Grazioli 1979, pp. 9 e 11), e chiedendo che venissero pagati per il loro lavoro produttivo. Fu negli accesi dibattiti delle assemblee alla Sapienza occu­ pata che ebbero luogo quelle discussioni cruciali che portarono al documento più tardi divenuto noto come le «tesi della Sa­ pienza»5. Sotto la bandiera dell’utopia prese forma una strategia politica concreta in tre direzioni: richiamare l’attenzione dei me­ dia sulla Sapienza e contro la legge di riforma occupando la sede in cui doveva tenersi il raduno nazionale dei rettori; fustigare le associazioni studentesche tradizionali per la loro abietta dipen­ denza dai partiti politici; fare appello agli interessi concreti degli studenti proponendo che venisse loro pagato un salario. Il vantaggio strategico degli occupanti divenne chiaro quan­ do le associazioni studentesche tradizionali iniziarono a prendere posizione nei loro confronti. La loro prima risposta fu di con­ danna quale «violenta azione delle minoranze», e di appello a una controprotesta legale. Ma i loro sforzi si rivolsero contro di essi: benché fosse stata indetta dall’Intesa e dai moderati, la contro­ protesta venne immediatamente fatta propria dai fascisti, che cercarono di sfondare le porte della Sapienza dinanzi ad un nu­ mero impressionante di poliziotti (Carpi e Luperini 1966, p. 67). Questo esito imbarazzante divise le associazioni studentesche, dato che i liberali e i socialdemocratici chiedevano un intervento della polizia, I’U gi sosteneva l’occupazione e l’Intesa cercava di mediare tra rettore e occupanti. Il tutto andò a vantaggio degli occupanti, perché là dove c’erano dei fascisti doveva esserci un fronte antifascista. L’effetto perturbativo dell’occupazione si accrebbe quando, l’i l febbraio, la polizia, per ordine del rettore, invase la Sapien­ za per sgomberare gli occupanti (Carpi e Luperini 1966, p. 69). Questa era un 'escalation inaspettata del livello del conflitto, e portò altri studenti pisani, alcuni assistenti e persino dei profes­ sori a unirsi agli occupanti della Sapienza. Rinvigoriti da questi rinforzi, questi ultimi organizzarono un pubblico incontro di fronte alla Normale, bloccarono il traffico e comparvero sulla rete televisiva nazionale (Carpi e Luperini 1966, p. 69). Questo 5 La prima versione fu pubblicata in «Il Mulino» 1967. Altre versioni appar­ vero in Cazzaniga 1967, Movimento studentesco 1968 e AA.VV. 1968.

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gruppo allargato si ritirò poi nella facoltà di Lettere per finire di redigere le «tesi». La presenza di una maggioranza di pisani alPinterno del grup­ po allargato della Sapienza fece sì che l’idea operaista di un grup­ po locale, Potere operaio toscano, avesse preminenza nella forma finale delle tesi6. Questo gruppo era stato costituito da alcuni ex­ normalisti, capeggiato da Adriano Sofri, assurto per la prima vol­ ta all’attenzione locale quando aveva messo in imbarazzo To­ gliatti in un discorso alla Normale. «Cercate voi di fare la rivo­ luzione!», aveva ironizzato Togliatti; «Lo farò», aveva ribattuto Sofri7. Le sue esperienze nell’organizzazione degli operai lungo il litorale toscano sembra non siano state sufficienti a permettere che Potere operaio approfittasse del neonato movimento studen­ tesco (Luperini 1969). Ma, in realtà, fu esattamente questo re­ troterra a conferire al gruppo la sua attrattiva per gli studenti e la sua capacità di sfruttare sia le divisioni tra le associazioni stu­ dentesche sia gli errori delle autorità. Quest’ultima cosa fu immediatamente evidente quando il rettore, avvalendosi di una legge fascista ancora in vigore, sospe­ se gli studenti pisani, ammonendo che qualsiasi interruzione del­ le attività universitarie sarebbe stata presa molto sul serio (Carpi e Luperini 1966, p. 70). Il tema alquanto astratto della «tesi» passò ora in secondo piano, e il gruppo della Sapienza rispose alla minaccia più immediata di sospensione, sdegnato che il rettore avesse invocato una legge fascista. Mostrando una saggezza po­ litica molto superiore a quella dei loro oppositori adulti, i leader del movimento formarono rapidamente un fronte comune coi cattolici e i socialisti, e un certo numero di facoltà venne rioc­ cupato in nome del nuovo tema del diritto all’espressione (Carpi e Luperini 1966, p. 69). La simpatia per gli occupanti, accresciuta dall’iniziativa re­ pressiva del rettore, distrusse ciò che rimaneva della reputazione delle associazioni studentesche tradizionali. Il 17 marzo esse cerjì\

6 Non possiamo sapere quanti dei partecipanti della seconda fase dell’occu­ pazione fossero pisani e quanti provenissero da altre università occupate. Le prin­ cipali fonti (Carpi e Luperini 1966; Cazzaniga 1967) sono pisane. L’influenza di Cazzaniga, pisano e membro di Potere operaio, sulle idee contenute nelle «tesi» mostra che il gruppo ebbe un ruolo predominante nell’occupazione. 7 Sofri, che ammette che a quell’epoca non aveva idea di cosa fosse una ri­ voluzione, fu contentissimo del fatto che la sua notorietà politica fosse nata da una sfida al leader nazionale del Pei (colloquio personale con l’autore, Firenze, 19 marzo 1987).

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carono di indire una manifestazione legale in piazza del Duomo. Da qui intendevano guidare i loro seguaci al rettorato per pro­ testare contro le sospensioni. Dapprima furono contenti di tro­ varsi uniti a un gran numero di «ex-occupanti». Ma il resoconto dell’episodio da parte di Carpi e Luperini (1966, p. 71) chiarisce che le intenzioni degli ex-occupanti erano alquanto diverse: nel momento in cui il corteo si muove verso il rettorato «gli studenti che hanno partecipato all’occupazione lo guidano verso il centro della città, abbandonando i leader cattolici e socialisti e bloccan­ do il traffico, con l’intenzione di render chiaro all’opinione pub­ blica il profondo impegno del movimento alla lotta». Era stata un’ispirazione «spontanea» a portare questi ex-oc­ cupanti a unirsi a una manifestazione promossa dai moderati solo per separarsene col grosso dei partecipanti e marciare verso il centro con l’obiettivo di bloccare il traffico? Non proprio. Con­ cluso il corteo e sfuggiti alla polizia, gli «ex-occupanti» e i loro nuovi seguaci si raggrupparono in piazza Garibaldi, dove vota­ rono di tornare alla Sapienza. Quando il rettore chiuse l’edificio prima che essi potessero entrarvi, furono circondati da un fitto cordone di polizia e «mostrarono la loro maturità rifiutando di farsi provocare a uno scontro violento» (Carpi e Luperini 1966, p. 71). L’intero episodio rivela un «tempismo» politico, uno sfrutta­ mento delle opportunità politiche e una scelta degli obiettivi e delle tattiche che mai avrebbero potuto essere frutto di sponta­ neità o di utopismo. Quando la F g c i, che dopo il crollo dell’UGi era divenuta il portavoce ufficiale degli studenti comunisti, ac­ cusò gli occupanti di aver «rotto l’unità del movimento studen­ tesco» (Carpi e Luperini 1966, p. 73), questo altro non era che un riconoscimento delle loro intenzioni e del loro successo8. L’«utopismo» dell’occupazione della Sapienza non fu altro che un ampliamento della struttura interpretativa tradizionale dell’operaismo a una sede nuova, e nell’ambito di opportunità politiche più ampie. L’occupazione utilizzò tattiche perturbative per sfidare le autorità, per sfruttare la divisione tra le associa­ zioni esistenti e per attirare l’attenzione dei media. Questo portò nel movimento una nuova leva di studenti prima non politiciz­ zati e trasformò la tattica tradizionale dell’occupazione da stru­ mento di politica a strumento per la creazione di nuovi spazi 8 Per quanto riguarda i partiti della sinistra, mentre il P siup sosteneva l’oc­ cupazione, il Pei emise una nota di condanna degli studenti, pubblicata a livello nazionale («l’Unità», 12 febbraio 1967).

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nell’università. L’operaismo non fu un manifesto per l’utopia, fu un progetto di rivolta politica contro la sinistra tradizionale. L 'autonomia Più duratura dell’operaismo del movimento degli studenti fu la sua accentuazione sul tema dell’autonomia. Essa iniziò tra gli studenti politicizzati con la richiesta di autonomia dai partiti del­ le loro associazioni studentesche, si ampliò nel concetto del di­ ritto degli studenti a prendere decisioni sui programmi e su altri aspetti dell’istruzione; sulla liberazione sessuale, la critica della scienza, della tecnologia e dell’arte borghesi; nella richiesta di democrazia diretta e di antiautoritarismo e nel rifiuto di obbe­ dire. Queste cose erano assolutamente estranee alle subculture, sia comunista sia cattolica, dalle quali provenivano i leader stu­ denteschi. Erano il risultato sia del rifiuto da parte dei leader del controllo del partito, sia dell’infusione nel movimento di una ba­ se di massa. Infatti tra l’autunno del 1967 e la primavera del 1968 ci fu una importante crescita nella dimensione e nella portata del mo­ vimento. Gli ex-leader studenteschi testimoniano che questo inaspettato salto quantitativo portò alla formulazione di nuovi temi interpretativi, alla formazione di una nuova identità collet­ tiva e a una fusione tra gruppi di diversa derivazione ideologica. Se gli aridi dati dell’analisi dei giornali non rispecchiano questo cambiamento qualitativo, mostrano però l’ampliamento quanti­ tativo delle proteste e delle nuove organizzazioni che, come ve­ dremo più oltre, furono il suo prodotto. Forme d'azione

L’osservazione che i movimenti sociali creano nuove forme di azione e infondono nuovo significato in quelle vecchie è par­ ticolarmente vera nel caso degli studenti universitari. Essi orga­ nizzarono occupazioni che durarono settimane, utilizzarono una retorica violenta creando allo stesso tempo un’atmosfera carne­ valesca; si scontrarono fisicamente con gli oppositori e la polizia, ma raramente fecero ricorso ^lla violenza deliberata e ben presto aderirono a una forma d’azione che divenne un’espressione isti­ tuzionalizzata e anche ritualizzata della loro autonomia: l’occu­ pazione. 129

Fin dagli inizi, una grande maggioranza delle loro proteste si incentrò attorno alle azioni perturbative: occupazioni, blocchi e irruzioni negli edifici universitari. Nella tab. 10 confrontiamo l’impiego delle azioni convenzionali, perturbative e violente da parte degli studenti nelle università con la percentuale di questo tipo di azioni negli episodi di protesta nel loro complesso. La frequenza con cui gli studenti universitari utilizzarono delle for­ me perturbative è doppia di quella degli altri attori sociali. Solo nella prima metà del 1968, delle 29 proteste universitarie su cui abbiamo informazioni dettagliate, le forme d’azione perturbati­ ve assommarono al 90 per cento dei casi. Tab. 10 - Forme di azione convenzionali, perturbative e violente come percentuale del totale delle forme di protesta: proteste universitarie e totale degli episodi di protesta

Convenzionali Perturbative Violente Altre Totale

Studenti universitari % N. 40,7 356 37,4 133 66 18,5 12 3,4 100,0 356

Totale episodi N. 63,0 6.745 1.698 15,9 19,4 2.075 186 1,7 10.704 100,0

%

L’occupazione era una forma a cui si ricorreva sin dalla Liberazione, ma nelle mani di questo nuovo movimento raramente si limitò a un singolo evento isolato. Le occupazioni divennero la base di altre azioni nelle quali regnava la solidarietà, si allenta­ vano i vincoli sociali e si svolgevano attività organizzative. Squa­ dre di studenti entusiasti scrivevano bollettini e producevano manifesti; si organizzavano corsi e dibattiti; gli attivisti forma­ vano nuove reti che tagliavano trasversalmente le linee politiche precedentemente stabilite. Le occupazioni furono dei crogiuoli di liberazione di nuova energia e la costituzione di nuove reti sociali9.

9 Come scrive Lumley (1983, p. 164), a proposito delle importanti occupa zioni delle facoltà di Architettura nel 1967: «Era stato creato un ambiente fun­ zionale alla vita collettiva, al dibattito e al lavoro in comune; tutte le decisioni principali erano prese da assemblee generali [...] erano state istituite delle com­ missioni per esaminare i problemi politici ed educativi».

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I documenti prodotti da queste occupazioni sono stati derisi, perché considerati utopistici, ma anch’essi dimostrano le capa­ cità politiche degli studenti. Essi miravano sia a esprimere gli obiettivi del movimento sia a nascondere le divergenze tra grup­ pi di diversa derivazione ideologica. Persino gli attivisti liceali sapevano mostrare un acuto senso della mediazione politica10. Gli attivisti studenteschi avevano imparato a usare un linguaggio utopistico per ottenere il consenso ed elaborare un simbolismo che tenesse unito il movimento, fustigasse i suoi nemici e facesse appello a nuovi sostenitori: altro che utopia! Palazzo Campana e dopo

La principale innovazione nell’impiego dell’occupazione ven­ ne dall’università di Torino nel novembre 1967. Per tutto un mese l’occupazione di palazzo Campana sfidò la struttura auto­ ritaria dell’educazione superiore e lanciò una serie di attività che fecero di Torino un punto di attrazione principale per gli stu­ denti radicali provenienti da altre università (Grazioli 1979, pp. 27-29), un fattore cruciale quando, dopo il calo del movimento universitario del 1969, iniziarono le vertenze per il contratto alla F iat (vedi capitolo X). Le occupazioni delle facoltà di Architettura di Milano, To­ rino e Venezia — che si verificarono poco dopo — dettero ulte­ riore slancio all’impiego dell’occupazione. Le prime occupazioni ad Architettura risalivano al 1963, quando il nuovo governo di centro-sinistra aveva posto sul tappeto il problema della pianifi­ cazione urbana. Ma gli studenti di Architettura usavano l’occu­ pazione non solo quale strumento politico, ma sempre più «per la conquista di spazio strutturale all’interno del quale lavorare per la creazione di una nuova pedagogia» (Grazioli 1979, p. 38). A Torino essi riuscirono a ottenere delle concessioni dalle autorità accademiche, che riconobbero loro persino il diritto di assemblea (Grazioli 1979, p. 41). II successo delle occupazioni torinesi non passò inosservato agli altri studenti. Dapprima in altre facoltà dì Torino e poi in altre città, gli studenti formarono gruppi di studio, organizzaro­ 10 Persino gli studenti che occupavano il liceo Parini, mostrando un acuto senso della politica delle alleanze, dedicarono parte delle loro delibere alla «po­ sizione subalterna dei loro insegnanti nella istituzione educativa» (cfr. Studenti del Parini 1968, pp. 37-40).

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no contro-corsi e tracciarono piani di riforma educativa. La tat­ tica si tramutò in qualcosa che assomigliava a un’assemblea per­ manente. All’epoca in,cui si era diffusa a Milano essa aveva il proprio rituale e la propria cultura11. Ma l’occupazione era solo l’ossatura intorno alla quale gli stu­ denti disposero un più ampio repertorio tattico che comprendeva forme pubbliche quali cortei, raduni e altre forme di confronto, come il blocco del traffico e l’occupazione delle aule scolastiche, dei grandi magazzini e delle mostre d’arte, nonché forme più convenzionali come petizioni, udienze e assemblee. Essi impara­ rono a combinare tattiche vecchie e nuove in una stupefacente varietà di forme d’azione che mantenne in allarme le autorità e la polizia12. Benché la tab. 10 indichi il netto predominio delle for­ me perturbative rispetto alle altre, gli studenti usarono anche i cortei e i raduni pubblici nel 13 per cento degli episodi di pro­ testa, e le assemblee organizzate nel 21 per cento dei casi. Il livello della versatilità tattica tra gli studenti universitari era più elevato di quello riscontrato in tutti gli altri settori. Come le innovazioni tattiche che vennero elaborate nel corso del mo­ vimento americano per i diritti civili (Me Adam 1983), la loro versatilità tattica mise in difficoltà le autorità e ottenne dai me­ dia attenzione e nuovi sostenitori. Ciò contribuì ad attrarre l’at­ tenzione degli studenti moderati, degli assistenti e anche di qual­ che professore, e mantenne vivo l’impegno e l’entusiasmo tra gli aderenti. Mise anche in luce l’incapacità delle organizzazioni stu­ dentesche tradizionali e dei partiti di sinistra di organizzare at­ tività altrettanto audaci, e anche questo era lungi dall’essere ca­ suale. Le proteste furono la principale risorsa del movimento e i suoi leader le utilizzarono con capacità e flessibilità. La fig. 10 mostra come il numero delle forme tattiche d’azione crebbe ra­ pidamente tra gli studenti nel 1967-69, e che fu più elevato di quello degli altri settori di protesta sia prima che dopo. 11 Scrive Lumley (1983, p. 208): «Tutta la zona intorno all’università era trasformata dalla presenza del movimento degli studenti. C’era un’atmosfera di attesa. Le notizie riguardanti il movimento viaggiavano sul tam-tam delle reti degli attivisti [...] C’era la sensazione che essere alla Statale significava essere al centro dell’azione, anche quando l’aria non era solcata dai lacrimogeni e dall’urlo delle sirene». 12 Per esempio, il blocco della linea ferroviaria a Pisa nel maggio 1968 sotto la leadership di Potere operaio toscano ebbe l’onore dei titoli sui giornali nazio­ nali — come si proponeva di fare — ma fu il culmine di una serie di eventi pubblici e di scontri più convenzionali che erano iniziati con gli interventi della polizia nella ben organizzata campagna di occupazioni all’università e nei licei.

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Numero medio

x Totale degli episodi □ Proteste degli universitari

Semestre

Fig. 10 - Numero medio di forme d'azione per episodio: studenti universi­ tari e totale degli episodi per semestre, 1966-73

2. Le opportunità politiche e le eresie marxiste13 Attraverso le sue richieste politiche e le forme d’azione che elaborò, il movimento degli studenti universitari generò tra il 1967 e il 1969 un momento di elevata tensione e creatività che innescò un ciclo di proteste in molti altri settori della società italiana. Ma le richieste e le azioni degli studenti non nascevano dal nulla; erano l’esito di un movimento più duraturo e diffuso che era nato nelle due principali subculture politiche del paese agli inizi degli anni Sessanta e si era sviluppato dai loro conflitti interni e dai loro interessi politici. Opportunità politiche

Nel capitolo II abbiamo visto quanto fosse divenuto acceso agli inizi degli anni Sessanta il dibattito interno alla classe poli­ tica. Queste opportunità non furono immediatamente manife­ ste, dato che i socialisti fecero una concessione dopo l’altra per assicurarsi l’accesso alla cosiddetta «stanza dei bottoni» (Ginsborg 1989, cap. Vili). Le occasioni di dissenso cominciarono ad apparire solo quando le divergenze politiche divisero i partiti of'5 L’importanza delle «eresie comuniste» nella nascita del nuovo movimento studentesco è stata segnalata da Lumley (1983).

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frendo ai gruppi di opposizione lo spazio per inserirsi nel dibat­ tito politico, e indicando agli outsiders che l’arena politica non era più un ambito chiuso. La più importante divergenza politica riguardò i programmi governativi di riforma della scuola. La legge Gui

La riforma della scuola era in realtà una serie di progetti di riforma e di legge diversi, ed era stata oggetto di intenso dibat­ tito fra gli universitari, i pubblicisti e i partiti politici sin dalla fine degli anni Cinquanta14. Fu il Psi per primo a richiedere la riforma della scuola come una delle condizioni per entrare nel centro-sinistra, e questo nel 1962 stimolò un progetto di legge in cui l’obiettivo era creare un sistema educativo onnicomprensivo (Ruffolo 1975, p. 83). Ma questo fece poco per affrontare la cre­ scente richiesta di istruzione; il numero degli studenti iscritti salì da 1,1 milioni nel 1959 a quasi 2 milioni dieci anni dopo (Balbo e Chiaretti 1973, p. 49). Alla metà degli anni Sessanta il dibat­ tito si incentrava intorno alla cosiddetta «riforma Gui», che prendeva il nome dall’allora ministro democristiano della Pub­ blica Istruzione. Il problema della riforma della scuola diede vita ad una delle più difficili controversie della storia politica dell’Italia postbel­ lica, ma non prevalentemente a causa del movimento degli stu­ denti. Essa infatti divise i partiti, le associazioni, i professori, gli assistenti e i genitori, oltreché allontanare gli studenti della nuo­ va sinistra dalle associazioni studentesche tradizionali. Questi studenti non erano che il settore più avanzato in quel turbinìo politico nato dai problemi derivanti dalla rapida trasfor­ mazione dell’Italia in democrazia capitalista matura. Se gli stu­ denti ebbero un impatto, fu perché le loro proteste misero in luce ed acuirono delle fratture di base esistenti nella classe politica. Le associazioni studentesche tradizionali — legate ai princi­ pali partiti ed esse stesse divise dall’esperimento di centrosinistra15 — entrarono nel dibattito per prime ma furono inca­ paci di sfruttare la congiuntura politica. In realtà esse rivelarono 14 II gruppo del Mulino di Bologna fu particolarmente influente nell’esame del problema della riforma della scuola. Col sostegno della Fondazione Ford ave­ va organizzato, a partire dagli anni Cinquanta, una serie di convegni su questo tema. 15 La sintesi migliore degli effetti del governo di centro-sinistra sulle asso­ ciazioni studentesche ufficiali è quella di Luciano Pero (1967).

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ben presto la loro dipendenza dal sistema dei partiti e la disputa infranse quel fronte comune che esse avevano mantenuto dal 1964 (Pero 1967; Boato 1979, pp. 117-26). Il nuovo movimento studentesco nacque dalle agitazioni or­ ganizzate da queste organizzazioni e dalle lotte di corrente al loro interno. Per esempio, la creazione di un sindacato studentesco nazionale unico — una delle richieste principali del futuro mo­ vimento studentesco — venne proposta per prima all’interno dell’UGi, dove si inquadrava perfettamente con la linea politica nazionale di unità democratica portata avanti dal Pei. I futuri oppositori dei partiti e delle organizzazioni di massa tradizionali nacquero all’interno di esse, in dibattiti politici posti sul tappeto dal governo di centro-sinistra. Queste origini del nuovo movimento studentesco emergono con evidenza quando confrontiamo la partecipazione dei partiti politici, delle loro organizzazioni di massa e dei nuovi movimenti nelle azioni collettive riferite dal «Corriere della Sera» per i primi tre anni del nostro periodo. Nella fig. 11 è riportato il'numero di episodi dagli inizi del 1966 alla fine del 1968 ai quali partecipa­ rono i partiti e le loro organizzazioni di massa nonché le nuove organizzazioni del movimento. Il grafico dimostra che le nuove organizzazioni apparvero nei resoconti giornalistici delle prote­ ste solo dopo i partiti e le organizzazioni di massa, e iniziarono a essere preminenti solo nel 1968, quando i temi principali del mo­ vimento studentesco — l’autonomia, la riforma dell’università, la guerra del Vietnam — erano già sul tappeto. L’ampliarsi della sinistra extraparlamentare sarebbe dunque un prodotto del mo­ vimento degli studenti, e non la sua causa. Numero



1966

Partiti politici

1967

1968

Trimestre

Fig. 11 - Partiti politici, organizzazioni di massa dei partiti e nuove orga­

nizzazioni di movimento: partecipazione agli episodi di protesta per tri­ mestre, 1966-68

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Le eresie comunista e cattolica

Ancor prima che la coalizione di centro-sinistra dividesse i due principali partiti della sinistra, stava crescendo un’insoddi­ sfazione tra gli studenti, gli operai e i giovani laureati di sinistra nel momento in cui l’opposizione del principale partito della si­ nistra sembrava scivolare verso posizioni riformiste. Il loro scon­ tento poteva essere visto nella comparsa e nel seguito di un certo numero di riviste e giornali ideologici nuovi, nel momento in cui per la prima volta gli studenti e gli operai divenivano consuma­ tori in grado di acquistare cultura e di trasmetterla ad altri (Lumley 1983). Tra le nuove riviste le più importanti erano quelle dell’estre­ ma sinistra che attaccavano il Pei, il Psi e la C gil chiedendo che tornassero agli originari principi della lotta di classe (Bechelloni 1973; Lumley 1983). Riviste quali «Quaderni rossi», «Quaderni piacentini» e «Classe operaia» rappresentavano gruppi che vole­ vano riportare in vita la vecchia teoria della centralità operaia che il Partito comunista era incline ad abbandonare nel momento in cui vedeva il suo futuro politico nei «ceti medi produttivi». La teoria della centralità della classe operaia era un punto di raccolta strategico naturale contro un partito degli operai che sembrava averlo abbandonato. Di queste tre riviste, l’espressione più pura della centralità della classe operaia era «Classe operaia», che era nata da una critica operaista di «Quaderni rossi»16. Il dissenso riemerse non solo nella sinistra laica, ma anche intorno alla Chiesa cattolica, in particolare dopo che il Concilio Vaticano II ebbe ridefinito la Chiesa come «popolo di Dio» (Pero 1967, p. 59). Attraverso riviste quali «Testimonianze» a Firenze e «Questitalia» nel Veneto, i giovani cattolici stavano comincian­ do a dibattere il significato del pontificato di Giovanni XXIII e a formare un’ampia rete di «gruppi spontanei». Le vecchie orga­ nizzazioni dell’Azione cattolica che avevano costituito il nerbo organizzativo della De negli anni Cinquanta stavano crollando, mentre nascevano organizzazioni più progressiste e forme meno ermetiche di organizzazione politica. Per esempio molti degli at­ tivisti della Cattolica nel 1967 provenivano da Gioventù studen16 Diversi esponenti del gruppo originario di «Classe operaia» (tra i quali Ma­ rio Tronti e Alberto Asor Rosa) tornarono al Pei, mentre almeno uno, Toni Nesi dedicò ad attività più estremiste. Per dei commenti su questi gruppi e sulla f;ri, oro importanza per il futuro della nuova sinistra vedi la buona ricostruzione di Bechelloni (1973).

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tesca, un’organizzazione studentesca cattolica. La disintegrazio­ ne della vecchia subcultura cattolica si tradusse anche in divisio­ ni tra moderati e radicali in seno alla cattolica Intesa universita­ ria nella quale il vecchio integralismo cattolico era attaccato dalla nuova idea di un «impegno culturale e civile autonomo», auto­ nomo dal controllo dalla Chiesa (Pero 1967, p. 59)17. La nuova sinistra nei vecchi partiti

Ma la nuova sinistra non era composta solo di nuovi gruppi e riviste nati al di fuori dei vecchi partiti e sindacati istituzionali; anche all’interno di questi ultimi stavano avvenendo dei passaggi di corrente e si stavano formando dei gruppi nuovi. Il primo ca­ so, e probabilmente il più importante, fu la nascita del P siup a partire dall’ala sinistra del Psi, dopo che nel 1963 la maggioranza aveva deciso di entrare nel governo. Dato che traevano i propri membri dai quadri più radicali del Psi, i «socialproletari» cerca­ rono naturalmente di occupare lo spazio politico alla sinistra del Psi; ma l’egemonia dei comunisti li portò ad assumere una posi­ zione alla sinistra stessa di quest’ultimo partito. Quando ancora nemmeno si parlava di una nuova sinistra «extraparlamentare», il P siup aveva esteso i confini della sinistra parlamentare a nuovi temi e forme d’azione. Il nuovo partito divenne naturalmente attivo nelle città e nel­ le università nelle quali il Pei era più forte — dato che era lì che il P si aveva le sue maggiori roccaforti di sinistra — in competi­ zione coi comunisti nella ricerca di sostegno tra i nuovi gruppi che si formavano alla sinistra del sistema dei partiti. Non fu inu­ suale che si tenessero manifestazioni congiunte organizzate dai socialproletari e dai maoisti (Pero 1967, p. 64) o che gli appar­ tenenti al P siup militassero all’interno dei gruppi extraparlamen­ tari (Luperini 1966, p. 107). Per molti giovani intellettuali il Psiup era un ponte tra l’arena politica istituzionale e i nuovi movimenti18. 17 Fu una pubblicazione studentesca a fornire lo spunto di uno dei primi in­ cidenti di protesta nei licei. Nel 1966 alcuni attivisti del liceo Parini pubblica­ rono un articolo sugli atteggiamenti studenteschi verso il sesso nel loro giornale «La Zanzara» («Corriere della Sera», 23 marzo 1966). L’episodio divenne un caso politico che divise gli studenti, i genitori e Vestablishment scolastico della città, e politicizzò molti di coloro che negli anni successivi sarebbero divenuti degli at­ tivisti universitari (cfr. Nozzoli e Paoletti 1966). 18 Per esempio molti attivisti del movimento studentesco torinese comincia­ rono col militare nel Psiup.

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Delle correnti dissenzienti nacquero anche nel Pei. Un im­ portante gruppo di questo genere fu quello che si costituì intorno a Lucio Magri, Luigi Pintor e Rossana Rossanda, leader del fu­ turo gruppo del Manifesto che più tardi sarebbero stati «radiati» dal partito. Ma c’era anche chi simpatizzava in modo più tran­ quillo con la turbolenza che stava nascendo alla sinistra del par­ tito, e altri che cooperavano con l’emergente nuova sinistra uni­ versitaria, sia nel Pei che nei sindacati. Non è un caso che queste nuove correnti cominciassero a na­ scere proprio nel momento in cui nel sistema dei partiti comin­ ciava il riallineamento più delicato a partire dal 1947. Più sor­ prendente, in un paese che gli osservatori consideravano ancora diviso in culture politiche totalmente impermeabili l’una all’al­ tra, fu il fatto che molti cominciassero ad attraversare il muro, una volta invalicabile, tra le subculture marxista e cattolica. Questo nuovo ecumenismo emerse nelle riviste della sinistra, sia secolare che cattolica. «Quaderni rossi», benché fondato dal dis­ sidente socialista Renato Panzieri, si guadagnò il sostegno anche dei socialisti torinesi e romani (Magna 1978, p. 315). Sindacalisti quali Sergio Garavini, che più tardi avrebbe svolto un ruolo im­ portante nel consolidare i Consigli di fabbrica, furono attratti dall’insegnamento di Panzieri non meno di extraparlamentari di sinistra quali Adriano Sofri e di comunisti quali Aris Accornero. Lo stesso processo si stava verificando nella Chiesa cattolica, in particolare dopo che Giovanni XXIII ebbe sconvolto il mon­ do cattolico con il Concilio Vaticano II. Nel Veneto «Questitalia» seguì con simpatia lo sviluppo dei movimenti studenteschi e operai, mentre in Toscana «Testimonianze» era in contatto con i marxisti fiorentini e predicava una «teologia delle realtà terre­ ne» (Pero 1967, p. 59). Il movimento universitario fu il crogiolo nel quale vennero a cadere le barriere tra cattolici, comunisti di sinistra ed ex-comu­ nisti e sinistra indipendente. Per esempio, benché il centro-sinistra fosse stato creato per isolare il Pei, fu attraverso i contatti con I’U gi che un certo numero di giovani cattolici dell’Intesa passarono a posizioni di sinistra. Una figura emblematica fu quel­ la di Marco Boato, che apparteneva all’Intesa, collaborò con le A cli e fece parte del comitato di redazione di «Questitalia». In quanto studente di Trento divenne un leader delle occupazioni studentesche e poi di Lotta continua. Questi sviluppi portarono a divisioni nelle principali organiz­ zazioni giovanili dei partiti. La F gci fu in dissenso più o meno aperto contro il Pei fin dagli inizi degli anni Sessanta. Nelle uni­ 138

versità sia PU gi che PIntesa furono ben presto colpite da con­ flitti che trasformarono i dibattiti dell’UNURi in appassionati di­ battiti ideologici (Pero 1967, pp. 63-66). Q uesti conflitti furono esacerbati dai nuovi appartenenti alla sinistra — per esempio dai militanti del P siup nell’UGi — che cercarono di radicalizzare la politica di questa organizzazione contro il predominio del Pei al suo interno. Questo fu chiaramente evidente nello scavalcamen­ to a sinistra della sinistra tradizionale che si verificò nella cam­ pagna contro la guerra americana nel Sud-est asiatico.

3. L’anno del Vietnam La guerra del Vietnam fu il primo evento che stimolò lo svi­ luppo di un nuovo movimento studentesco in Italia. Ma anche qui, come nel caso della riforma universitaria, il tema fu posto sul tappeto dai partiti tradizionali, prevalentemente dal Pei, dal Psiup e dai sindacati. Il Pei intendeva raccogliere la nuova mili­ tanza nascente tra i giovani e allo stesso tempo mettere in imba­ razzo i socialisti e attaccare il sostegno governativo alla guerra americana, tanto che nel 1966 la nuova leva di giovani comunisti fu ufficialmente battezzata dai leader del partito «i giovani del Vietnam». Alla fine del 1966 e nel 1967, il Pei lanciò una campagna nazionale consistente in cortei di massa, dimostrazioni pacifiche e propaganda contro la guerra. Erano manifestazioni ben orga­ nizzate, molto rituali, con studenti della F g c i e della F g s che marciavano accanto ai sindacalisti e ai membri del partito della classe operaia. Gli slogan rispecchiavano una combinazione tra protesta internazionale contro la guerra e alcuni temi peculiari italiani. Queste dimostrazioni gestite dai partiti offrirono al nuo­ vo movimento studentesco un’occasione di mettere in imbarazzo la sinistra tradizionale. Sin dagli inizi del 1967 ai margini di molte manifestazioni di partito cominciarono ad apparire nuovi slogan di ispirazione maoista e guevarista («Uno, due, molti Vietnam»). In queste di­ mostrazioni, il dissenso era facilitato dalla strategia di alleanze del Pei: un partito che chiede la partecipazione dei «giovani de­ mocratici» alle proprie manifestazioni si espone anche al rischio di infiltrazioni e provocazioni. Il servizio d’ordine del partito «con tattiche che divennero più drastiche da una settimana al­ l’altra cercò — ma spesso senza successo — di escludere i radicali 139

dalle dimostrazioni ufficiali» («Il Mulino», gennaio-giugno 1967, p. 371). E quando vi riuscì, fu a discapito dell’aspirazione del partito a rappresentare tutta la sinistra in un’alleanza democra­ tica. Benché ricorressero anch’essi ai cortei e ai raduni pubblici, gli studenti estremisti ben presto cominciarono a mettere in atto delle azioni più drastiche contro la guerra nel Vietnam. Sin nel­ l’aprile del 1968 — poco dopo che azioni simili erano iniziate negli Stati Uniti — delle società come la Dow Chemical e la Bo­ ston Chemical furono materialmente attaccate perché produce­ vano prodotti chimici da impiegare contro il popolo vietnamita («Corriere della Sera», 31 marzo e 26 aprile 1968). L’opposizione alle manifestazioni pacifiche dei partiti pro­ venne anche dall’interno delle loro associazioni studentesche. La sede principale di dissenso era la U g i , nella quale socialisti, co­ munisti e P siup stavano lottando per la leadership e fraterniz­ zando coi maoisti che con toni accesi chiedevano ai giovani mi­ litanti dei partiti di andare oltre il tiepido antiamericanismo dei loro partiti19. La mobilitazione contro la guerra nel Vietnam of­ frì ai dissidenti dell’UGi un forum pubblico per montare una du­ ra critica alla sinistra ufficiale. Un volantino fatto circolare dalI’U gi pisana nel marzo 1967 è un esempio di come sia le sue forme d’azione che il suo linguaggio fossero intesi a mettere in imbarazzo il Pei e ad affermare la credibilità del neonato movi­ mento. Dopo aver criticato una pacifica protesta del Pei contro la guerra del Vietnam, organizzata intorno a una «generica soli­ darietà col popolo del Vietnam», gli estremisti affermavano che quando essi avevano cercato di imprimere alla manifestazione una direzione più aggressiva, i rappresentanti della sinistra uffi­ ciale avevano proposto «di portare avanti la battaglia per mezzo di petizioni, di raccolta di firme [...] e cortei silenziosi attraverso strade periferiche e sconosciute lungo le mura del cimitero e si­

19 Per esempio in un volantino dell’UGl di Pisa leggiamo: «La dimostrazion anti-imperialista organizzata dalle associazioni studentesche e dalla sinistra par­ lamentare sono state concepite dai loro capi come un’espressione di generica so­ lidarietà col popolo del Vietnam [...] Le masse studentesche che hanno condotto queste dimostrazioni le hanno trasformate, fondando la loro protesta sul ricono­ scimento del fatto che la lotta del popolo vietnamita è solo una parte di una lotta generale dei popoli oppressi contro l’imperialismo e lo sfruttamento capitalistico» (da un documento di Potere operaio toscano conservato nell’Archivio dell’Organizzazione dei lavoratori comunisti, ora presso l’istituto Gramsci a Roma).

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mili pie manifestazioni che tranquillizzano la coscienza dei pic­ colo-borghesi e lasciano tutto come prima»20. La protesta per il Vietnam e altre proteste internazionali non solo offrirono alla nuova sinistra extraparlamentare l’opportu­ nità di organizzarsi, ma costrinsero anche gli studenti cresciuti all'interno della sinistra a compiere una scelta difficile tra moda­ lità d’azione violenta e quelle più pacifiche gestite dalla sinistra ufficiale. In uno schema che si sarebbe ripetuto più volte negli anni successivi, i partiti misero sul tappeto un dato tema, i gruppi dissidenti lo scavalcarono a sinistra organizzando proteste più radicali, spesso utilizzando per questo le occasioni date dalle di­ mostrazioni ufficiali; poi, spinti da questi outsiders, dei gruppi di giovani all’interno della sinistra ufficiale o delle sue organizza­ zioni di massa andarono oltre le azioni dei partiti tradizionali, lasciandoli divisi tra l’incoraggiare il disordine e il difendere la reazione. Il nuovo movimento studentesco universitario nacque da conflitti e dissensi nel vecchio sistema dei partiti. Da grandi querce nacquero piccole ghiande.

4. 1968: inizio o fine? Alla fine, però, le ghiande caddero dagli alberi. Le genera­ zioni studentesche sono molto brevi, e dopo essere fiorite alla fine del 1967 e agli inizi del 1968, l’entusiasmo e la solidarietà del movimento nelle università ben presto si esaurirono. In parte questo avvenne per semplice stanchezza. Nella sola Torino, tra l’ottobre 1967 e il settembre 1968 Grazioli (1979, pp. 212-60) elenca 37 occupazioni diverse, cortei o altri eventi. Dopo un an­ no di costante attività persino un infaticabile come Luigi Bobbio (1979, p. 24) riferisce che vi fu un enorme senso di spossatezza nel movimento. Un’altra ragione fu la competizione e la frantumazione del movimento. Alcune università caddero sotto il controllo di un singolo gruppo, ma raramente senza che vi fosse una lotta. Per esempio nell’occupazione della Statale nel marzo del 1968 alme­ no sei diversi gruppi organizzati parteciparono alla leadership (Grazioli 1979, p. 355). La cooperazione tra loro fu tesa e di breve durata, e le assemblee studentesche iniziate nel segno della solidarietà e dell’entusiasmo ben presto si tramutarono in sedi di 20 Dallo stesso documento dell’OLC sopra citato.

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reciproche denunce e polemiche ideologiche (Grazioli 1979, p. 355). La competizione e la fazionalizzazione disillusero molti di coloro che nei primi giorni erano entrati pieni d’entusiasmo nel movimento. Una terza ragione del declino del movimento studentesco fu la pressione della polizia. Alla fine degli anni Sessanta le forze dell’ordine erano molto male addestrate nelle tecniche di con­ trollo delle masse studentesche, e se poste sotto pressione cade­ vano facilmente nel panico e nella violenza. Dopo la selvaggia «battaglia di Valle Giulia», per esempio, vi fu un principio di ammutinamento nelle caserme di Roma, quando gli ufficiali si rifiutarono di accettare una retata generale e una repressione de­ gli studenti. Benché la polizia fosse spesso corteggiata dagli stu­ denti e potesse essere tollerante nei loro confronti, si comportava duramente quand’era attaccata. E il problema era che pochi outsiders o estremisti potevano trasformare una pacifica manifesta­ zione di massa in un tumulto gettando pietre o ortaggi marci contro la polizia. Questo fu particolarmente chiaro quando la fatica e la re­ pressione ridussero la massa degli studenti a un nucleo di mili­ tanti duri e la competizione e gli attacchi reciproci tra i gruppi rivali aumentarono. Durante questa fase un piccolo gruppo di dissidenti o un gruppo ai margini di un movimento più grande, nel tentativo di trovare spazio all’estrema sinistra poteva facil­ mente portare la polizia a comportamenti violenti radicalizzando una manifestazione pacifica, il che è quanto sembra sia avvenuto a largo Gemelli. Per trovare spazio e fama nell’arcipelago della nuova sinistra il modo più facile a disposizione di una piccola fazione senza molti seguaci né molta organizzazione era quello di innescare una violenta reazione della polizia. Questo ancor più se ricordiamo che questo movimento, pre­ valentemente di sinistra, aveva stimolato un risveglio del semi­ assopito movimento fascista. La nuova estrema destra, mai preoccupata dal desiderio o dalla necessità di reclutare una base di massa, si volse alla violenza sia per tendenza che per ideologia. L’estrema sinistra, con la propria ideologia di violenza, rispose allo stesso modo. Quando per le strade circolavano bande ostili di fascisti e di extraparlamentari di sinistra la tolleranza della polizia era estremamente limitata, mentre il pubblico, che forse avrebbe tollerato le occupazioni studentesche delle facoltà uni­ versitarie, ben presto cominciò a sostenere la repressione poli­ ziesca. La stampa dal canto suo era ben felice di contribuire a questo clima calcando la mano sulla violenza, mentre i gruppi non erano alieni dallo sfruttarla per i propri scopi. 142

Via via che le proteste nelle università crescevano, vi fu una tendenza degli studenti a spostarle all’esterno, ai cancelli delle fabbriche, alle manifestazioni religiose e culturali, e nelle strade, come avvenne a largo Gemelli. Questo diede al movimento una nuova carica di attivismo, ma accrebbe le possibilità di conflitti e violenze. Infatti, una volta liberati dalla routine dell’occupa­ zione entro le sicure mura della propria università, gli studenti erano alla mercé di provocatori, di gruppi avversi e delle cariche della polizia, come vedremo dall’episodio che chiuse il 1968 in Italia. La Bussola

Poco prima del Natale 1968, Potere operaio toscano guidò a Pisa una dimostrazione studentesca davanti alla U pim , che otten­ ne qualche consenso dai lavoratori del grande magazzino e dai loro rappresentanti sindacali. Ma Potere operaio cercò di porre il conflitto in termini più ampi delle richieste delle commesse: «Il sistema borghese», sostenne, «sfrutta e domina gli uomini [...] in ogni momento della loro vita e non solo sul posto di lavoro» («Nuovo Impegno» 1968, p. 21). L’esito più importante dello sciopero della U pim fu che gli studenti che sostenevano Potere operaio chiesero al gruppo di mostrare la propria opposizione ai consumi vistosi di parte della società italiana che raggiungono il massimo nella settimana di Natale, protestando contro la volgare esibizione di ricchezza del­ le feste di fine anno21. Al pari dello stesso boom economico po­ stbellico, la lunga teoria di stabilimenti balneari, bar e night-club a nord di Pisa non era mai stata pianificata: era semplicemente cresciuta, impedendo la vista del mare dalla strada costiera con una sfarzosa barriera di vetro, cemento e palme importate. Que­ sto tratto di costa era divenuto talmente famoso che era prevista una ripresa televisiva del sontuoso spettacolo di Capodanno or­ ganizzato nel più stravagante di questi palazzi sulla spiaggia, la Bussola. Questo night-club era l’ostentato simbolo del consumo vistoso che gli studenti e Potere operaio scelsero come loro ber­ saglio. Nella settimana che seguì le agitazioni ai grandi magazzini, 21 Ricordando l’episodio diciannove anni più tardi, Sofri sottolineò che il proposito di dimostrare davanti alla Bussola non era venuto dalla sua organizza­ zione, ma da alcuni studenti liceali che dimostravano di fronte alla U pim (collo­ quio personale, Firenze, 19 marzo 1987).

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voci di un piano per effettuare una manifestazione davanti alla Bussola percorsero i gruppi studenteschi di tutta la costa («Nuovo Impegno» 1968, p. 22). Da volantini distribuiti a Pisa, Massa, Carrara, La Spezia e Lucca gli studenti e gli operai sim­ patizzanti per tutta una serie di gruppi — non solo Potere ope­ raio — furono informati della dimostrazione e di come arrivare a Marina di Pietrasanta. Anche le autorità vennero a sapere della manifestazione e mandarono un piccolo contingente di carabi­ nieri e polizia a proteggere i frequentatori del night («Corriere della Sera», 2 gennaio 1969, p. 1). E certo che anche alcuni grup­ pi ostili dell’estrema destra dovevano averne sentito parlare. Alle ventuno del 31 dicembre alcune centinaia di giovani di sinistra avevano circondato la Bussola («Nuovo Impegno» 1968, p. 22) “ . Cominciò ad arrivare, in pelliccia e smoking, la gente che si preparava a festeggiare il Capodanno. I primi scontri fu­ rono perlopiù verbali, e la polizia, seguendo quella che sembrava essere una politica generale, non intervenne. Mentre la gente en­ trava nel night-club i dimostranti cominciarono a gridare: «I bambini del Biafra vi augurano buon anno!», accompagnando le loro urla con quella che più tardi sarebbe stata chiamata una «simbolica doccia di pomodori» (Potere operaio 1969a, p. 42). Secondo la polizia il primo contatto fisico si verificò alle 22.30, quando un fotografo venne malmenato perché aveva scat­ tato delle foto dei dimostranti che schernivano la gente che cer­ cava di entrare nella Bussola. Quando anche i carabinieri accorsi per proteggerlo furono aggrediti, come affermano le fonti uffi­ ciali, la polizia organizzò una carica contro i dimostranti, che risposero con un lancio di pietre, frutta marcia e — afferma la polizia — palle di argilla con frammenti di vetro («Corriere della Sera», 2 gennaio 1969). Arrivarono rinforzi di polizia, venne or­ ganizzata una seconda carica, e i dimostranti si ritirarono sulla strada costiera dove si raggrupparono, erigendo barricate. Chi abbia sparato il colpo che paralizzò il giovane Soriano Ceccanti non fu mai scoperto malgrado mesi di indagini. La cosa certa è che la polizia, capito l’atteggiamento ostile dei dimostran­ ti della Bussola, fece fuoco (successivamente affermò di aver spa­ rato in aria, ma i dimostranti negarono decisamente, e le pareti 22 In un articolo sulla «Monthly Review», Sofri (1969), affermava che vi ave­ vano partecipato 300 persone, mentre il «Corriere della Sera» cita la cifra di 500. In questo caso può darsi che la stampa conservatrice non abbia sopravvalutato il livello di partecipazione, dato che alla dimostrazione si unirono degli apparte­ nenti ad altre organizzazioni che Sofri forse non si aspettava di trovare.

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del night-club portavano molti segni di proiettili). Quale che sia la verità, un fatto certo è che il Ceccanti ebbe una pallottola conficcata nella spina dorsale. Per settimane Ceccanti rimase paralizzato in ospedale, men­ tre nella stampa conservatrice circolavano storie di strani uomini in abito da sera con munizioni nel portabagaglio delle auto, di pistole miracolosamente scoperte a terra due giorni dopo e di presunti complotti per sovvertire la repubblica23. Gli studenti arrestati furono processati a marzo e alcuni di essi furono con­ dannati. La protesta della Bussola ebbe un’enorme risonanza na­ zionale. Per esempio, nei cinque mesi successivi sul «Corriere della Sera» comparvero 47 articoli diversi sulla dimostrazione, la sparatoria e il processo. La notorietà degli eventi di Marina di Pietrasanta ebbe al­ meno quattro motivazioni. Innanzitutto, l’episodio fece seguito agli incidenti di Avola e Battipaglia, nei quali la polizia aveva sparato sui dimostranti. In secondo luogo la manifestazione non era stata contro gli insegnanti o i proprietari di fabbriche, ma contro persone comuni che non facevano altro che godersi una serata fuori casa. In terzo luogo la stampa borghese aveva le sue buone ragioni per pubblicizzare l’episodio. Lo scontro alla Bus­ sola aveva offerto a qualcuno — polizia, provocatori o terze parti — l’opportunità di usare la violenza, e la violenza, chiunque ne sia responsabile, aumenta la tiratura. Per finire, la campagna di delegittimazione servì agli scopi dei partiti di centro-destra, sot­ toposti a una crescente minaccia da parte dell’Msi che li accusava di non aver schiacciato con sufficiente forza la contestazione nel­ le università. Il caso della Bussola è un esempio di come la pro­ testa sociale intereagisca con la politica in senso stretto. La risposta dell’opinione pubblica, orchestrata dalla stampa conservatrice, dalla De e dalla destra, si rispecchiò prontamente nelle reazioni dei partiti della sinistra. Il Psi assunse una posi­ zione cauta, chiedendo un’indagine e collegando gli eventi della Bussola ai morti di Avola e Battipaglia. I comunisti, che ben ri­ cordavano Sofri e i suoi amici, abbandonarono rapidamente il tentativo di collegare la Bussola ad Avola e Battipaglia («Cor­ 23 Per i fatti così come furono interpretati da gran parte della stampa bor­ ghese cfr. il «Corriere della Sera», 2-10 gennaio 1969. Il 14 gennaio il ministero delTInterno fece una dichiarazione formale dinanzi al Parlamento che fu riferita sul «Corriere della Sera» il 15, mentre il processo di 42 dimostranti arrestati si tenne nel marzo e aprile dello stesso anno, con la condanna di 38 di essi (cfr. «Corriere della Sera», 23 aprile 1969).

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riere della Sera», 3 gennaio 1969). In febbraio «Rinascita» os­ servava incidentalmente che «in quanto marxisti, siamo molto più interessati a come il capitalista accumula i suoi milioni, che a come li spende» («Rinascita», febbraio 1969). Che Potere operaio fosse impotente a combattere questi at­ tacchi divenne evidente in una conferenza stampa tenuta una settimana dopo gli eventi di Marina di Pietrasanta, in cui il grup­ po cercò di contrastare la propaganda ostile della destra e di ar­ restare il crollo del consenso a sinistra. Sofri, che faceva da por­ tavoce, affermò che oltre cento testimoni potevano giurare che era stata la polizia a sparare. «A sentire ‘Potere operaio’ i mani­ festanti si sarebbero limitati, almeno all’inizio, a gridare slogan, a scandire contumelie contro coloro che stavano recandosi alla Bussola... a lanciare ortaggi». Per Potere operaio, affermò Sofri, «la Bussola era solo un episodio marginale della nostra attività politica, inteso a rendere consapevoli le masse delle contraddi­ zioni e della ferocia della società capitalista» («Corriere della Sera», 5 gennaio 1969). Ma la stampa borghese si scagliò contro di lui. Ignorando le prove costituite dalle pallottole della polizia nella parete davanti alla quale erano i dimostranti, citò testimoni che descrissero «gli atti vandalici, le botte, i calci, i pestaggi che i clienti del night hanno dovuto subire, mentre la forza pubblica non si muoveva» («Corriere della Sera», 5 gennaio 1969). Sofri dovette ammettere che la polizia, quando circondò i dimostranti fuori dalla Bussola, aveva trovato bottiglie di acido, di ammoniaca e palle di argilla con frammenti di vetro. Ma «Non è roba nostra», protestò («Corriere della Sera», 5 gennaio 1969, p. 2). Agli inizi del 1969 nessuno lo ascoltò. La lezione della Bussola

Sofri aveva ragione: l’attacco alla Bussola come simbolo del consumo borghese era effettivamente solo un episodio marginale della sinistra ex-universitaria, inteso a dare un obiettivo agli stu­ denti liceali affiliati al gruppo e a ottenere l’attenzione dei media attraverso azioni perturbative, nel momento in cui il movimento universitario si dissolveva. I leader come Sofri non scambiavano certamente una serata gaudente in un night-club della Versilia per la lotta di classe. Il loro problema era che una volta avven­ turatisi fuori dal terreno istituzionale che conoscevano e poteva­ 146

no utilizzare con perizia, non avevano nessun controllo su ciò che sarebbe potuto succedere in strada. Benché Potere operaio toscano fosse solo uno dei molti grup­ pi nell’emergente sinistra extraparlamentare, il caso della Busso­ la fu archetipico del dilemma in cui si trovava il movimento nel 1968-69. Durante l’ondata di piena della mobilitazione del 19671968 era stato relativamente facile stimolare e diffondere la pro­ testa dentro l’università. Ma per mantenere elevato il suo slancio si richiedeva che venissero trovati nuovi temi, stimolati nuovi pubblici e inventate nuove forme di lotta per attrarre un seguito ormai in calo. Ma una volta che la protesta fu trasferita al di fuori dell’università c’erano più probabilità che le tattiche impiegate aumentassero la violenza, che i nemici rispondessero con ener­ gia, e che lo Stato potesse esercitare una violenza ancor maggiore contro il movimento. L’unica soluzione era trovare una base operativa più istitu­ zionale, trarre vantaggio da nuove opportunità di mobilitazione e organizzarsi. Episodi come quello della Bussola accelerarono la nascita di organizzazioni di movimento nazionali, i cui leader avrebbero dovuto trovare una base al di fuori degli studenti uni­ versitari, diffondere la protesta a nuovi settori e collegarla a temi sociali e politici emergenti. Ma essi mostrarono anche che, via via che il ciclo si svolgeva, i gruppi in competizione per il con­ senso aumentavano e le istituzioni rappresentative cominciavano a riguadagnare l’iniziativa, si sarebbe dimostrato sempre più dif­ ficile mantenere lo slancio del 1968. Il richiamo del movimento studentesco universitario

Due erano le chiavi di spiegazione del richiamo particolare che esercitava il movimento studentesco: innanzitutto il suo messaggio di liberazione e, in secondo luogo, il suo attivismo. Il messaggio di liberazione aveva un particolare richiamo in Italia, dove alla struttura gerarchica dei rettori, dei sacerdoti, dei ge­ nitori e della polizia si aggiungeva la pesante egemonia del siste­ ma dei partiti. L’attivismo del movimento, come si rispecchiava nel suo repertorio tattico sempre più vasto e perturbativo, at­ traeva anch’esso un ampio seguito. Occupando edifici, irrom­ pendo nelle aule e bloccando il traffico, gli studenti attirarono l’attenzione dei media, ottennero nuovi sostenitori, superarono i loro oppositori, costrinsero le autorità ad azioni repressive che crearono nuovi alleati al movimento. Dimostrarono che un siste­ 147

ma dominato dalla stessa classe politica da due decenni poteva essere reattivo nei confronti di nuovi attori sociali. Ma l’innovazione tattica pone un dilemma: data la necessità di rinnovare gli strumenti tattici per mantenere squilibrati gli oppositori e attrarre nuovi sostenitori, oltre all’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa, il movimento fu costretto ad attaccare sempre nuovi obiettivi e — via via che la polizia si adeguava alle sue prime tattiche — inventare tattiche nuove e più perturbative. Alcuni dei nuovi obiettivi restituirono il colpo ricevuto, altri resistettero alla pressione; altri ancora, come gli attacchi simbolici alla mercificazione del Natale che abbiamo vi­ sto nel capitolo V, non erano in grado di sollevare protesta e portarono semplicemente alla disillusione e all’impoverimento delle file del movimento, che si ridusse ai suoi settori più mili­ tanti. Il messaggio che il 1968 lasciava al resto del ciclo di protesta era che «quelli che osano» potevano avere successo. Agli altri movimenti — urbano, culturale, ecologico, femminista, ecologi­ co — esso lasciò in eredità nuove strutture interpretative, nuovi attivisti e un nuovo repertorio d’azione. Agli studenti liceali fornì sia la leadership che un’ideologia antiautoritaria. Ai sinda­ cati fornì un certo numero di quadri intellettuali e alcuni temi trasversali. Persino ai comunisti il movimento diede l’impulso ad adottare posizioni più avanzate, e alla fine una nuova generazio­ ne di iscritti (Lange, Tarrow e Irvin 1988). Ma più di tutto, ai movimenti che seguirono — anche a quelli che mancavano della retorica aggressiva degli studenti e delle lo­ ro forme creative di azione — diede l’esempio di come il sistema poteva essere vulnerabile se si osava sfidarlo, e quanto le tattiche perturbative potevano essere utilizzate per accrescere il consenso e ottenere ascolto. Ma la contestazione nell’università non poteva essere man­ tenuta indefinitamente a un picco così elevato, e il grado di per­ turbazione del movimento universitario, dopo un culmine agli inizi del periodo, declinò rapidamente nella fase successiva, co­ me vediamo nella fig. 12. La frammentazione, la stanchezza e la repressione colpirono in modo particolarmente duro dopo la ri­ presa delle lezioni nell’anno accademico 1968-69. Non solo la sua base di massa, ma anche la sua capacità di lanciare nuove iniziative creative declinarono molto rapidamente. Dopo di que­ sto, furono i gruppi meglio organizzati a sopravvivere, e solo a condizione di trovare una nuova fonte di reclutamento e di in148

Punteggio medl°



Studenti universitari

Fig. 12 - Punteggio medio del grado dì perturbazione causata dagli studenti universitari e della scuola secondaria, per semestre, 1966-73 ventare nuove forme d’azione collettiva. Alcune di queste sareb­ bero state violente.

5. Conclusioni Come possiamo caratterizzare nel modo migliore i nuovi gruppi di studenti universitari che emersero sulla scena pubblica nel 1967 e nel 1968? Come un «nuovo» movimento sociale? O come il drappello più avanzato della sinistra tradizionale? Il mes­ saggio di questo capitolo sembra essere che l’essenza del movi­ mento studentesco che spazzò l’Italia alla fine degli anni Sessan­ ta sia consistita in una combinazione di queste due definizioni. Touraine e altri ci hanno insegnato che i nuovi movimenti apparsi nel 1968 furono creatori di una nuova realtà politica e culturale: erano nuovi attori sociali che utilizzarono forme d’a­ zione radicali, diedero vita a organizzazioni decentralizzate e cercarono di imporre un paradigma culturale e politico nuovo allo stanco Occidente industriale. Erano i progenitori dei nuovi movimenti sociali che sarebbero apparsi negli anni Settanta con tratti simili, e spesso con le stesse persone. Ma benché il movimento studentesco italiano fosse nuovo, 149

divenne potente solo per via dell’esistenza di una sinistra tradi­ zionale quale fonte di quadri, simboli, opportunità che permet­ tevano al movimento di «presentarsi come la sezione universita­ ria di un partito rivoluzionario dei lavoratori che in realtà non esisteva» (Schnapp e Vidal-Naquet 1971). Secondo questa con­ cezione fu proprio perché in Italia e in Francia le subculture di sinistra erano così forti, che i loro movimenti poterono trovare la base culturale per il tentativo di riportare in vita movimenti ri­ voluzionari, utilizzando la sinistra tradizionale come obiettivo oltreché come base e come referente. Se esaminiamo le teorie della nuova sinistra studentesca o le sue tattiche più radicali, in cerca di indizi sulla sua natura, dob­ biamo concludere che essa era emergente, espressiva e persino utopistica; ma se guardiamo le origini politiche dei suoi attivisti, i temi a cui si interessavano, nonché la loro sagacia e sensibilità politica, le sue origini nella sinistra tradizionale e nella subcul­ tura cattolica emergono in modo netto. La nuova sinistra stu­ dentesca fu effettivamente l’esito di un decennio di riallinea­ mento, di reclutamento e di dissenso all’interno delle subculture dei partiti istituzionali, e non solo delle energie di un nuovo sog­ getto sociale. Questa dipendenza dalla vecchia sinistra non era senza effet­ ti sui movimenti, come si sarebbe chiesto Adriano Sofri (1985, p. 91) due decenni più tardi: «Quale fu la tragedia? Che le parole che avevamo ereditato [dalla sinistra] non furono mai messe in questione, ma solo accompagnate da altre parole. Noi non met­ temmo in questione i sostantivi che avevamo ereditato; aggiun­ gemmo semplicemente loro [...] un’incredibile quantità di agget­ tivi».

VII

I LAVORATORI DELL’INDUSTRIA 1

Venezia, 1° agosto 1968. È un afoso mattino d’estate a Porto Marghera. Lontano dai turisti il porto si era trasformato in un importante complesso chimico dominato dalla Montecatini e dall’Edison, fusesi di recente. Davanti all’impianto petrolchimico operai e studenti si radunano per fare un picchettaggio a soste­ gno di uno sciopero indetto dagli operai del Petrolchimico la set­ timana precedente2. Lo sciopero è inusuale per svariate ragioni. In un paese in cui la militanza a livello di singola fabbrica è tuttora una rarità, gran parte dello slancio proviene dal luogo di produzione, e molti de­ gli scioperanti sono di recente origine rurale e di estrazione cat­ tolica (Perna 1980, p. 5). Protestano contro il piano salariale del­ l’azienda mirante a collegare i futuri aumenti salariali alla pro­ duttività. Le loro richieste vanno molto al di là delle proposte dei sindacati dei chimici. Due richieste in particolare sono notevoli: innanzitutto gli operai chiedono una «diversa dinamica» degli in­ centivi di produzione e, in secondo luogo, nella struttura occu­ pazionale altamente stratificata della raffineria, chiedono un au­ mento di salario di 5.000 lire uguale per tutti. Lo sciopero è anche notevole per l’impressionante numero e la varietà di forme d’azione utilizzate. Gli operai sono scesi in sciopero ben undici volte a partire da gennaio (Potere operaio 1 Desidero ricordare il mio debito di riconoscenza per questo capitolo a un certo numero di amici e colleghi. Essi sono: Aris Accornero, Miriam Golden, Peter Lange, Nino Magna, Ida Regalia e Marino Regini. 2 Le informazioni relative a questa sezione sono state raccolte da Margherita Perritti, prevalentemente dalle fonti seguenti: Chinello 1975; Cacciari 1968, 1969, 1975; Passetto e Pupillo 1970; Perna 1980 e Potere operaio (veneto) 1968 e 1980.

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[veneto] 1968, pp. 8-10). Oltre a effettuare picchetti e a indire assemblee sul posto di lavoro, essi adottano l’inconsueta tattica di scioperare a giorni alterni, il che blocca il complicato sistema di produzione ma limita i costi del singolo operaio. Lo sciopero a giorni alterni ha effetti devastanti in una raf­ fineria petrolchimica tecnologicamente complessa. Di fronte a una riduzione della produzione e al pericolo di danni ai costosi macchinari, la direzione chiede a 170 operai addetti alla manu­ tenzione di rimanere sul posto di lavoro durante lo sciopero. Gli operai rispondono che 29 addetti alla manutenzione sono sufficenti a mantenere la produzione. La notte del 31 luglio la dire­ zione risponde con un’azione che equivale a una serrata. La reazione degli operai è immediata. Lasciando dietro di sé un numero di persone sufficiente a bloccare l’accesso all’impian­ to, gli operai e gli studenti formano un corteo e si muovono verso il cavalcavia che dà accesso a Venezia. Da altre fabbriche di Marghera altri operai convergono sullo stesso obiettivo. Tra studenti e operai, i dimostranti assommano a diverse migliaia nel momen­ to in cui raggiungono il cavalcavia, che procedono a bloccare. Questa immensa massa si muove poi in direzione della stazione, sparpagliandosi fra i binari e impedendo ai treni di entrare a Ve­ nezia. Si innalzano davanti ai finestrini dei treni grandi striscioni che proclamano: «Sciopero generale — tutti contro la Montedison» («Corriere della Sera», 2 agosto 1968). Dopo una sola giornata di battaglia gli scioperanti hanno esercitato una pressione sufficiente a costringere la direzione a firmare un accordo che pone fine alla serrata e offre agli operai un aumento immediato del 5 per cento. Questa concessione co­ stringe il resto del settore chimico a rinegoziare i contratti già firmati (Chinello 1975, pp. 182-84). Entro la fine dell’anno gli operai di altre imprese della laguna avranno avanzato richieste simili e scioperato con un simile livello di militanza (Chinello 1975, p. 184). Alla fine dell’anno la richiesta di aumenti salariali uguali per tutti si è diffusa in tutto il paese, e gli operai comuni cominciano a chiedere un salario pari a quello degli operai spe­ cializzati e degli impiegati. Notevole è anche il ruolo degli studenti3. La loro presenza 3 Gli studenti veneziani erano stati mobilitati sin dalla primavera del 1967, particolare ad Architettura. Nel giugno del 1968 insieme a studenti di Trento, Padova e Bologna, essi organizzarono un congresso di studenti lavoratori a Ca’ Foscari, invitando sindacalisti e funzionari di partito (cfr. Grazioli 1979, pp. 293-300).

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all’esterno dell’impianto del Petrolchimico ad agosto e la loro partecipazione al blocco della stazione ferroviaria di Mestre con­ tribuisce a spingere gli operai allo scontro. Utilizzandoli come massa di manovra, un’organizzazione di movimento sociale — Potere operaio veneto — svolge un ruolo-chiave4. Le richieste egualitarie, la tattica di scioperare a giorni alterni e gran parte della propaganda si devono a questo gruppo. Il suo successo non passa inosservato ad altri gruppi rivoluzionari che si stanno or­ ganizzando in tutto il paese. Il conflitto dell’agosto 1968 a Porto Marghera è emblematico del dilemma teorico posto dal movimento degli operai. Si trat­ tava di un movimento spontaneo di operai immigrati, giovani e non qualificati, sospinto da studenti estremisti, contro un sinda­ cato burocratico che tentava di frenare e controllare gli operai? Oppure era un intreccio fra operai, qualificati e non, sindacati e gruppi estremisti all’interno della stessa ondata di mobilitazione popolare? Ancora a distanza di vent’anni, la risposta a questa domanda dipende dal soggetto a cui essa è rivolta. Questo capi­ tolo si incentrerà sul tema dei rapporti tra studenti e operai, qua­ lificati e non, sindacati, partiti e gruppi extraparlamentari, nella più grande ondata di conflittualità operaia della storia postbellica italiana.

1. Richieste economiche e opportunità politiche Per capire le origini del movimento degli operai dell’industria alla fine degli anni Sessanta, dovremo ricordare come i cambia­ menti nel capitalismo e nella politica italiana influenzarono la classe operaia. Alla metà degli anni Sessanta gli operai stavano vivendo dei cambiamenti che minacciavano il posto di lavoro, minavano le professionalità tradizionali, alteravano la natura della forza-lavoro e intensificavano i ritmi di produzione. Ma stavano anche ottenendo accesso a un nuovo insieme di risorse e opportunità che non erano state disponibili durante gli «anni dif­ ficili» seguiti al 1950 e nemmeno agli inizi degli anni Sessanta. 4 Questo gruppo non aveva nessun collegamento col Potere operaio che era stato fondato a Massa, in Toscana, nel 1966, e che è apparso nel capitolo pre­ cedente.

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Trasformazione economica e innovazione sul posto di lavoro

Questo non fu in alcun modo un periodo di declino econo­ mico. Michele Salvati, per esempio, sottolinea che dal 1958 al 1963, gli anni del «miracolo» economico, il numero ufficiale dei disoccupati scese del 36 per cento (Salvati 1976, p. 694) e che anche il numero dei lavoratori marginali e autonomi decrebbe (Salvati 1976, pp. 695-99). In questo periodo centinaia di mi­ gliaia di persone si trasferirono dalla campagna in città, dal Sud al Nord, ed entrarono nell’industria. I risultati di queste migra­ zioni furono il sovrappopolamento, tensioni sociali e un brutale incontro con la disciplina della fabbrica. A Torino, per esempio, gli immigrati trovarono un ambiente urbano ostile, nel quale il solo affitto erodeva una percentuale sostanziale del salario, «an­ che ammesso che trovassero un posto in cui abitare» (Rieser 1969, p. 3). Ma l’espansione dell’occupazione non continuò negli anni Sessanta. Un cambiamento è particolarmente evidente dopo la recessione del 1964. La recessione stessa era stata innescata dal governo per arrestare quello che considerava un tasso d’inflazio­ ne inaccettabile (Salvati 1975). Il periodo di recessione fu bre­ vissimo e fu seguito da un rapido aumento della produzione in­ dustriale. Ma questo aumento si verificò senza un aumento proporzionale degli investimenti industriali, e fu accompagnato da una ripresa molto lenta della domanda interna, sia pubblica che privata. Che cosa dimostra questa situazione contraddittoria? Mentre la competitività cresceva nelle favorevoli condizioni internazio­ nali della metà degli anni Sessanta, gli aumenti di produttività furono ottenuti non attraverso gli investimenti in nuovi impianti ed attrezzature, ma attraverso l’intensificazione dei ritmi di la­ voro e la sostituzione di forza-lavoro semiqualificata e non qua­ lificata a quella qualificata5. Via via che la produzione industrale diveniva più integrata (erano gli anni in cui la F iat aprì a Rivalta), i processi di lavoro divennero sempre più dequalificati. Di conseguenza la forza-lavoro stava divenendo sempre più compo­ sta da operai giovani e semiqualificati, perlopiù figli di immigrati recenti che mancavano sia di una coscienza sindacale sia di espe5 Salvati (1976, p. 706) così riassume i risultati di questa ripresa per la classe operaia: «Con costi di materie prime stabili o in diminuzione, e con prezzi all’ingrosso in leggero aumento, la distribuzione del reddito nel settore industriale muoveva, anno dopo anno, a vantaggio delle imprese».

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rienza del lavoro industriale. Essi vissero in forma diretta gli in­ tensificati ritmi di lavoro che l’impresa stava impiegando per ot­ tenere aumenti di produttività. I sindacati degli anni Sessanta Questa situazione contraddittoria — da una parte incrementi della produzione industriale, delle esportazioni e della produtti­ vità; dall’altra bassi investimenti, piatta domanda interna, ritmi di lavoro accelerati — trovò impreparati i sindacati. In realtà, la strategia dell’impresa di accrescere la produttività intensificando i ritmi di lavoro era stata possibile solo perché era riuscita a marginalizzare i sindacati nelle fabbriche. Per tutti gli anni Cinquan­ ta il tasso di sindacalizzazione era stato in calo, e dopo il breve aumento di combattività agli inizi degli anni Sessanta esso rima­ se stagnante sino al 1969-70. La produttività fu accresciuta, scri­ ve Salvati (1976, p. 708), «con l’impiego della parte più moderna e produttiva dell’attrezzatura» e con «la progressiva contrazione dell’occupazione ai maschi nelle età centrali», nonché con «una generale intensificazione del lavoro». L ’esplosione del conflitto industriale agli inizi degli anni Ses­ santa portò per la prima volta gli immigrati, in quanto soggetto sociale, all’attenzione dei sindacati (Sabel 1982, p. 153). Duran­ te quegli anni, un rapido aumento dell’occupazione portò a un’ondata di vertenze a livello della singola fabbrica, cui seguì un periodo di scioperi per il rinnovo del contratto nazionale, che fu il più conflittuale dall’inizio del periodo della «guerra fredda». Nel solo 1962 andò perso negli scioperi per il rinnovo dei con­ tratti nazionali un totale di oltre 124 milioni di ore di lavoro (Beccalli 1971, p. 91). Ma lo sviluppo più significativo fu l’au­ mento del conflitto a livello della singola fabbrica, che diede agli operai più giovani la loro prima esperienza diretta di sfida ai ca­ pi. Questa breve stagione di conflitto industriale rivelò l’esisten­ za di insospettate riserve di combattività tra gli operai giovani e non qualificati (Accornero 1971, pp. 116-23)6. Ma i sindacati non furono capaci di capitalizzare questa crescente militanza, puntando invece, durante gli anni della stagnazione, ad aumen­ 6 A Torino, quando la F ia t firmò un accordo con un sindacato aziendale e con la UlLM mentre gli altri due sindacati metalmeccanici erano in sciopero, il risultato fu uno scontro duro tra giovani operai e polizia sotto le finestre della UlLM.

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tare il numero dei loro iscritti. Nelle trattative per il contratto del 1966 essi sottovalutarono di molto la potenziale militanza della classe operaia7. I problemi dei sindacati agli inizi degli anni Sessanta erano due: innanzitutto, la mancanza di un’adeguata organizzazione nelle fabbriche per tenere dietro alla miriade di problemi che stavano nascendo dalla riorganizzazione della pro­ duzione; in secondo luogo, la mancanza di quell’unità sindacale che poteva permettere loro di trattare efficacemente con l’im­ presa. Ma queste condizioni cominciarono a cambiare alla metà degli anni Sessanta con le opportunità politiche del centro-sini­ stra e il restringimento del mercato del lavoro. Opportunità politiche

La maggior parte degli autori spiega l’aumento della militan­ za operaia della fine degli anni Sessanta con i crescenti carichi di lavoro nei reparti e con la debolezza dei sindacati. Ma questi due fattori costituivano solo una parte del quadro totale. Se i lavo­ ratori fossero stati semplicemente deboli e poco rappresentati non si sarebbe verificato nessun ciclo di protesta industriale. E se i sindacati fossero stati conservatori, come affermavano i loro critici, non avrebbero potuto «cavalcare la tigre» del dissenso della classe operaia con tanta efficacia. Durante gli anni Sessanta i cambiamenti economici e politici diedero sia agli operai che ai sindacati nuove risorse e nuove opportunità. Via via che, dopo il 1965, le commesse all’industria aumen­ tarono, l’occupazione crebbe, e l’impresa cominciò a sentire la mancanza di un’adeguata riserva di manodopera (Salvati 1976, p. 707). La domanda di forza-lavoro aveva un effetto automatico sugli aumenti salariali. Nel settore metalmeccanico milanese, per esempio, le imprese cominciarono ad assumere nuovi operai a salari altamente competitivi. In realtà molti dei primi scioperi a Milano sarebbero stati innescati da vecchi operai che chiedevano di mantenere il passo coi salari elevati offerti ai nuovi assunti. Il 7 Lamentandosi dell’incapacità del suo sindacato di conservare l’adesione di questi giovani operai, un segretario della F iom affermò in un incontro interno che il sindacato era stato lento nell’afferrare il peso degli «insopportabili ritmi di lavoro e delle condizioni generali di lavoro» che essi subivano. Tra gli operai giovani, continuò, «è nata la convinzione che se dovessero unirsi al sindacato entrerebbero in una specie di macchina burocratica nella quale la loro influenza sulle decisioni da prendere non conterebbe quasi nulla» (cfr. FlOM 1966, p. 16).

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restringimento del mercato del lavoro costituì una risorsa che gli operai furono pronti a sfruttare. Una seconda risorsa era costituita dall’accresciuta coopera­ zione tra i sindacati. Malgrado le residue tensioni ideologiche della guerra fredda, gli operai cresciuti dopo il 1948 erano più interessati alle conquiste contrattuali che all’adesione alle varie correnti sindacali. Molti — anche i militanti di partito più attivi — manifestarono un crescente scontento per le divisioni ideolo­ giche dei sindacati che impedivano loro di trattare efficacemente con l’impresa8. Anche i problemi contrattuali erano importanti nell’accresce­ re la spinta all’unità. Dopo la seconda guerra mondiale la con­ trattazione collettiva era passata al livello nazionale. Entrambi i partner sociali avevano delle ragioni per favorire questo svilup­ po: i sindacati perché erano più deboli a livello della singola fab­ brica e perché la C gil si considerava il sindacato di tutta la classe operaia (Giugni 1976, p. 784); l’impresa perché la contrattazione nazionale permetteva ai datori di lavoro di evitare le spinte sa­ lariali che temeva si verificassero se fosse stata permessa la trat­ tativa a livello aziendale. Ma a partire dagli inizi degli anni Cinquanta la C isl , ispirata dagli esempi americani, cominciò delle agitazioni per una tratta­ tiva a livello della singola fabbrica (Giugni 1976, pp. 781-85). A seguito della sconfitta sofferta alla F iat nel 1955, la C gil abban­ donò la propria preferenza per la trattativa nazionale (Giugni 1976, pp. 786-87). La sconfitta alla F iat diede anche vita a un dibattito interno nella C gil circa l’adeguatezza delle sue orga­ nizzazioni a livello di fabbrica, e poi — sin dal 1957 — a una discussione sulla rifondazione dei Consigli di fabbrica9. La costituzione del centro-sinistra accrebbe la disponibilità della coalizione di governo alla contrattazione aziendale. Non solo al Psi, ma anche ad alcuni leader della corrente di base della De (Giugni 1976, p. 801), il centro-sinistra sembrava richiedere 8 Per esempio, i funzionari della F iom diagnosticarono il suo insuccesso nel fare appello ai giovani operai come risultato della autonomia di questi ultimi da qualsiasi partito o corrente (cfr. F iom 1966, pp. 16, 19, 33). 9 Tuttavia non è chiaro da questo esame se i militanti della C gil stessero proponendo qualcosa che rassomigliava a un ritorno al movimento dei Consigli del periodo successivo alla prima guerra mondiale, o semplicemente un organi­ smo tecnico che avrebbe permesso loro di tener dietro ai cambiamenti nell’organizzazione della produzione. Il termine Consiglio di fabbrica o quello collega­ to, Consiglio di reparto, fu utilizzato in entrambi i sensi, e talvolta in un terzo senso, quello di un comitato di agitazione.

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un sistema di relazioni industriali più moderno. Dapprima nel settore pubblico e poi in quello privato i primi anni Sessanta videro un riluttante «passaggio dalla contrattazione nazionale esclusiva alla contrattazione articolata, intesa come un sistema coordinato di contrattazione a più livelli» (Giugni 1976, p. 806). L’imminenza della contrattazione articolata a livello di fab­ brica diede ai sindacati una ragione per guardare con occhio nuo­ vo la loro organizzazione nelle fabbriche, in particolare nella F iom e nella F im . Nel farlo, essi cominciarono a preoccuparsi di trovare nuovi modi di raccogliere le richieste di reparto, di unire la base attorno a obiettivi contrattuali e di porsi dinanzi all’im­ presa con un fronte comune. Già alla metà degli anni Sessanta ciascuno dei sindacati stava cercando di sviluppare le proprie se­ zioni sindacali nelle fabbriche e alcuni parlavano attivamente di creare dei Consigli di fabbrica10. L’inizio di un riallineamento politico nel paese incoraggiò la militanza operaia, proprio come aveva incoraggiato la rivolta nel­ le associazioni studentesche che aveva portato alle occupazioni delle facoltà nel 1967-68. Negli anni Cinquanta i militanti sin­ dacali erano stati soggetti a una continua repressione politica e a pressioni da parte dell’impresa. Con l’ingresso del Psi nella coa­ lizione di governo, tuttavia, un’importante componente gover­ nativa non poteva permettersi di essere identificata con la re­ pressione. La presenza del Psi «rallentò le azioni repressive nei confronti delle lotte e delle manifestazioni sindacali» (Baglioni 1976, p. 878). Il governo di centro-sinistra incoraggiò anche un dibattito sul primo serio progetto di riforma delle relazioni industriali a par­ tire dalla fine della guerra. Questo dibattito, che alla fine sfociò nello Statuto dei lavoratori, fu osservato con interesse dai sinda­ cati perché uno dei problemi discussi era la presenza dei sinda­ cati nei reparti. Lo Statuto fu approvato solo nel 1970, dopo che era iniziata l’ondata del conflitto industriale. Ma la sua discus­ sione, sia in Parlamento sia tra gli esperti di relazioni industriali, accompagnò l’aumento di militanza e non può aver mancato di dargli impulso. Per finire/svariati temi politici chiave dibattuti nel governo 10 Come affermò un segretario locale della FlOM: «Noi possiamo anche creare cento sezioni sindacali, ma se non creiamo i Consigli di fabbrica [...] nei quali gli operai sentiranno di avere un vero potere decisionale in tutte le attività sindacali, sarà difficile che riusciamo a far funzionare il nostro importante nuovo strumen­ to» (cfr. F iom 1966, p. 37).

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ampliarono l’agenda politica così da includervi i sindacati e la classe operaia. Di questi temi il più importante era la riforma pensionistica che ottenne un livello sorprendente di coinvolgi­ mento operaio. Agli inizi del marzo 1968 — proprio prima delle elezioni politiche — venne organizzato uno sciopero generale a favore della riforma pensionistica. L’agitazione, che durò fino all’estate, rivelò dei dissensi nella coalizione di governo e mostrò ai sindacati che nella classe operaia vi erano risorse di militanza maggiori di quanto sospettassero (Reyneri 1976, p. 845).

2. Nuovi soggetti, vecchie organizzazioni Come gli studenti universitari, gli operai dell’industria, alla fine degli anni Sessanta, avevano rilevanti richieste, un accre­ sciuto accesso a nuove risorse e opportunità politiche in espan­ sione. Ma c’era una differenza tra loro: mentre il movimento studentesco aveva iniziato solo come rivolta di studenti politi­ cizzati all’interno delle organizzazioni di massa in crisi dei par­ titi, il movimento operaio aveva una base sia tra gli operai qua­ lificati che non qualificati, aveva dei sostenitori nel movimento studentesco, nei sindacati e nei partiti della sinistra, e aveva lo sprone di alcuni gruppi estremisti al di fuori dei principali partiti. Rivolgiamoci ad esaminare ciascuno di questi attori prima di stu­ diare la loro interazione e i suoi esiti. Gli operai qualificati e non qualificati

Il dibattito circa il ruolo degli operai qualificati e non nel ciclo della protesta industriale è stato ben messo in luce da Re­ yneri (1976; 1978), Sabel (1982) e altri. A partire dagli attenti studi empirici svolti da Pizzorno e collaboratori, sembra chiaro che i primi conflitti importanti del 1968 vennero innescati da lavoratori qualificati e non da immigrati non qualificati. «L’operaio-massa» non qualificato appare solo più tardi, nel 1968-69, quando alcuni degli operai qualificati, ora che le loro richieste sono state soddisfatte, «scompaiono dalla scena, quando non ostacolano addirittura gli sforzi degli altri» (Reyneri 1978, p. 89). Nella primavera 1968 la partecipazione operaia non aveva ancora raggiunto livelli molto elevati, se non in poche grandi fab­ 159

briche del Nord (Reyneri 1978, p. 54) In questa fase, scrive Reyneri (1978, p. 55)12, «i giovani operai comuni estranei al si­ stema di relazioni industriali non ne sono certo i soli protagoni­ sti, anzi alcune lotte sono guidate da vecchi operai di mestiere», vale a dire che hanno fatto esperienza nei conflitti guidati dal sindacato del decennio precedente. Ma poco dopo che questi operai qualificati cominciarono ad agitarsi, comparvero sulla scena operai più giovani e meno qua­ lificati che mancavano della loro esperienza di militanza e dei collegamenti coi sindacati13. Essi avrebbero impresso al ciclo del­ la protesta industriale un carattere talvolta violento, più spesso entusiastico, ma sempre di massa. Non per caso la loro parteci­ pazione coincise con la richiesta di aumenti salariali uguali per tutti, che alcuni hanno considerato solo una richiesta «espres­ siva». Sembra probabile che essi avessero bisogno dell’esempio degli operai più vecchi, qualificati e sindacalizzati, per infrange­ re quella crosta di deferenza con la quale era guardata l’impresa, e fare uscire i non qualificati dalla loro situazione di passività e subordinazione14. Ma come vennero stimolati all’azione gli ulti­ mi arrivati? Per combustione spontanea? Da parte di organizza­ zioni di movimento «esterne», come Potere operaio a Porto Marghera? Dai sindacati? O da una qualche combinazione di queste tre cose? 11 Queste fabbriche erano: la Zoppas, la Zanussi, la Marzotto, tre fabbriche di automobili — F iat , Innocenti e Autobianchi — , la Ercole Marelli e la Magneti Marelli, e gli impianti petrolchimici di Porto Marghera. 12 Quasi dappertutto il segnale della lotta venne da un’avanguardia di operai specializzati con esperienza del conflitto industriale e collegamenti coi sindacati, il ruolo delle «avanguardie» degli operai specializzati fu particolarmente critico tra gli inizi del 1968 e la metà del 1969. Alla Innocenti i leader erano operai specializzati più anziani; al Petrolchimico di Porto Marghera e alla Olivetti, era­ no gli operai specializzati della manutenzione; alla Pirelli la rivolta scoppiò in­ nanzitutto tra i compositori specializzati; alla F iat i primi operai a entrare in sciopero furono gli operai specializzati delle «ausiliarie». 13 Come riassume Reyneri (1978, p. 90): «Nella maggior parte dei casi, i la­ voratori senza alcuna tradizione debbono prima inserirsi nella lenta e prudente azione promossa dal sindacato e solo a qualche settimana dall’inizio la loro par­ tecipazione alle lotte ‘esplode’ con aspetti spontanei». 14 Come conclude Pizzorno (1978, p. 10): «Non è vero che il ciclo di conflitti iniziato nella primavera del 1968 fu innescato da operai non specializzati, meri­ dionali, giovani. Al contrario, in generale essi [••■] erano guidati da operai spe­ cializzati con una precedente esperienza sindacale o di partito».

160

Studenti e operai

A partire dalla metà del 1968, quando gli studenti contesta­ tori cominciarono a essere sgomberati dalle università con cre­ scente violenza, molti gravitarono verso la fabbrica. La parteci­ pazione studentesca alle lotte operaie dapprima assunse la forma di picchettaggi all’esterno delle fabbriche in cui gli operai erano già in sciopero. Gli studenti aggiunsero anche la loro forza ai cortei sindacali e in alcuni posti, come a Trento, divisero il palco con i leader sindacali (Grazioli 1979, p. 274). Alcuni studenti — per esempio di Medicina — cercarono anche di mettere le loro capacità professionali al servizio della classe operaia. Altri «si unirono» alla classe operaia andando a lavorare in fabbrica. Gli studenti andarono in fabbrica nel momento in cui il mo­ vimento nelle università cominciava a subire un calo. L’esistenza di un gap tra il punto culminante del movimento studentesco universitario e il picco della militanza operaia emerge chiaramen­ te nella fig. 13 in cui è riportata la partecipazione studentesca e operaia all’ondata di protesta. Il grafico mostra che mentre la partecipazione degli studenti universitari ebbe il suo picco tra il 1967 e il 1969, e gli studenti del liceo furono attivi al massimo agli inizi degli anni Settanta, la mobilitazione operaia cominciò in un punto di mezzo tra questi due periodi. Il movimento nelle fabbriche costituì la salvezza per il movimento universitario che aveva già cominciato a essere in calo alla metà del 1968. Numero

Semestre

Fig. 13 - Partecipazione dei giovani e degli operai agli episodi di protesta per semestre, 1966-73

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La stampa moderata ritenne che gli studenti sarebbero stati rifiutati dagli operai in quanto «figli di papà», ma in Italia non era altrettanto innaturale che negli Stati Uniti o in Gran Breta­ gna che gli studenti partecipassero alle proteste operaie. Laddove i sindacati sono deboli e non sono presenti nelle fabbriche, il conflitto industriale spesso lascia la fabbrica per la strada, dove gli studenti possono unirsi ai picchettaggi e ingrossare i cortei pubblici degli operai. Se gli studenti italiani trovarono nella clas­ se operaia il portatore storico del ‘sacro Graal’ della rivoluzione, gli operai trovarono negli studenti un esercito di riserva per aiu­ tarli a pubblicizzare le loro richieste e costituire i picchetti15. La partecipazione studentesca nei conflitti della classe ope­ raia fu spesso notata dalla stampa. Sui 1.886 casi nei quali gio­ vani o studenti appaiono nei dati del «Corriere della Sera» quasi l’8 per cento li vide coinvolti in conflitti economici. In 72 di questi conflitti gli studenti furono coinvolti in vertenze di lavo­ ro. La partecipazione studentesca avvenne il più delle volte nel settore metalmeccanico, ma gli studenti parteciparono anche a scioperi contro la Michelin a Trento, la Pirelli a Milano, la Marzotto a Pisa e Valdagno e la Montedison a Porto Marghera. La cooperazione tra operai e studenti generò un elevato li­ vello di perturbazione, quale misurato mediante l’indice elabo­ rato negli scorsi capitoli. Mentre la perturbazione media degli episodi promossi dagli operai fu 4,5, e quella degli episodi in cui parteciparono gli studenti da soli fu 5,6, i conflitti a cui parte­ ciparono sia gli operai che gli studenti furono di gran lunga più perturbativi, con una media dell’8,2 secondo il nostro indice. Una ragione di questo fu che gli studenti cercarono di parteci­ pare a scioperi che erano già molto conflittuali (un buon esempio sono gli scioperi del Petrolchimico a Marghera). Ma un’altra ra­ gione è che la loro partecipazione alle lotte operaie era diretta da gruppi estremisti la cui strategia era di mettere in imbarazzo i sindacati e di crearsi uno spazio politico intensificando il livello di perturbazione nelle imprese e scatenando duri scontri con la polizia16. 15 Quando nella primavera del 1968 gli studenti radicali a Torino effettua­ rono un’indagine tra gli operai degli impianti F iat , trovarono con sorpresa un’im­ magine positiva del movimento studentesco. Lumley (1983, p. 250), ricavò la stessa impressione dai suoi studi a Milano. 16 Un esempio tipico: dopo gli eventi del 1968 a Porto Marghera l’accordo dei sindacati con la direzione venne descritto in un volantino di Potere operaio come «una delle manovre più sporche mai fatte dai sindacati e dai partiti» (Potere operaio [veneto] 1968, p. 42).

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Benché i sindacati confederali nazionali guardassero con tie­ pido entusiasmo il sostegno studentesco (Accornero 1967), i loro dirigenti di base spesso accoglievano con favore gli studenti e utilizzavano il loro sostegno per pubblicizzare le richieste degli operai (Grazioli 1979, p. 273). Questo emerge dai dati sugli epi­ sodi pubblici raccolti dalla Camera del lavoro e dall’Unione pro­ vinciale della C isl a Milano nel 1968 e 196917. Particolarmente sensibili al sostegno degli studenti furono la F iom e la F im . Que­ sti sindacati organizzarono degli incontri di solidarietà con gli studenti in lotta e contro la repressione che subivano dalla polizia18. Il rapporto fra studenti e operai era dunque reciproco: se il movimento degli operai costituiva una nuova fonte di vita per gli studenti, il sostegno studentesco ampliava la base del so­ stegno politico dei sindacati. Studenti ed estremisti

Quello che i sindacati non potevano tollerare erano i gruppi extraparlamentari che cercavano di scavalcare le piattaforme dei sindacati e utilizzare le loro agitazioni per radicalizzare il con­ flitto, come abbiamo visto a Porto Marghera. Le polemiche an­ tisindacali provenivano prevalentemente da queste organizza­ zioni, che prima della comparsa del movimento studentesco ave­ vano cercato senza successo di penetrare nella classe operaia. Co­ me abbiamo visto nell’ultimo capitolo, questi gruppi avevano elaborato una critica operaista del Pei e dei sindacati. Dato che 17 Questi dati sono stati raccolti dalla Camera confederale del lavoro della Lombardia e dall’Unione sindacale provinciale della C isl di Milano. Sono grato a Maria Conti e a Norma Romagnoli per l’aiuto in ciascuno di questi casi e a Rossella Ronchi per aver raccolto i dati. 18 Per esempio nel febbraio 1968 la ClSL di Milano organizzò un dibattito pubblico sui problemi dell’università; nel marzo dello stesso anno la F im -C isl distribuì dei volantini in cui dichiarava la sua solidarietà con gli studenti univer­ sitari. A maggio, la C gil organizzò un convegno sul diritto allo studio; a luglio la C isl tenne un incontro con i rappresentanti del movimento studentesco per di­ scutere una possibile strategia congiunta per superare le paralisi nelle università. Sia nel febbraio che nel giugno 1969 gli operai della C gil si incontrarono col movimento studentesco per discutere degli arresti durante le dimostrazioni; in dicembre tutti e tre i sindacati si incontrarono con gli studenti alla Statale per dimostrare la solidarietà contro le cariche della polizia sui dimostranti. Lumley (1983, p. 249) sottolinea che il movimento studentesco alla Statale era partico­ larmente ansioso di costruire dei legami coi sindacati. Tuttavia si noti che la C gil a livello nazionale era molto meno disposta a riconoscere il movimento studen­ tesco quale autentica forza rivoluzionaria.

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il Pei e il Psi avevano abbandonato l’idea di assumere il potere come tribuni del proletariato rivoluzionario, il modo migliore che essi avevano per guadagnare spazio politico era quello di ab­ bracciare gli interessi della classe operaia e di mettere in evidenza i costi che pagava a causa dell’interclassismo del Pei e della mo­ derazione sindacale. Fu sotto questa bandiera operaista, anti-Pci e antisindacale, dei gruppi «esterni» che marciarono gli studenti. Quando il mo­ vimento degli universitari cominciò a svanire, furono prevalen­ temente questi gruppi a volgere l’attenzione degli studenti verso le fabbriche. Ma la maggioranza degli studenti che dimostravano e che si misero al fianco degli operai non erano né antisindacali né anticomunisti: erano idealisticamente a favore degli operai e mordevano il freno di fronte alla moderazione dei sindacati. Fin­ tantoché i sindacati rimasero moderati, gli studenti si mobilita­ rono in aiuto degli operai, ma a favore delle organizzazioni ester­ ne alla fabbrica che cercavano di radicalizzare i conflitti industriali, di mettere in imbarazzo i sindacati e in ultima analisi di rovesciare l’egemonia del Pei sulla classe operaia. La nuova sinistra in seno alla vecchia

Gli sforzi di questi gruppi estremisti erano chiaramente irri­ tanti per i leader del movimento sindacale e per il Pei. Tuttavia le linee di demarcazione tra vecchia e nuova sinistra non erano poi così nette, dato che gli estremisti portavano acqua al mulino di due gruppi all’interno della sinistra tradizionale. Come spesso avviene durante i cicli di protesta, le frontiere del settore del movimento sociale non divisero i partiti di sinistra e i sindacati dai lavoratori, dagli studenti e dagli estremisti: esse corsero at­ traverso di essi, conferendo così un potere marginale a gruppi che, da soli, non avrebbero avuto il potere di mobilitare un se­ guito di massa. Chi erano questi gruppi? La sinistra sindacale

Alla metà degli anni Sessanta erano apparsi sia nella Cgil sia nella C isl alcuni intellettuali e dirigenti scontenti delle strategie caute e della mancanza di unità delle loro confederazioni. Anche per loro l’autonomia era un simbolo strategico, ed era collegata al tema della centralità della classe operaia. Ma essi interpretavano 164

l’autonomia non come autonomia degli operai dai sindacati, ma come autonomia dei sindacati dai partiti, non perché fossero in­ trinsecamente contrari ai partiti politici, ma perché questi ultimi dividevano i sindacati e contribuivano alla loro debolezza nelle trattative con l’impresa. Ottenere autonomia dai partiti era un modo per unire i sindacati e un requisito per difendere con ener­ gia la classe operaia. La sinistra interna ai partiti

Meno note a quell’epoca erano le correnti radicali che stava­ no emergendo nelle due principali subculture, marxista e catto­ lica. In alcuni settori della corrente comunista della C gil c’era un diffuso scontento per il tiepido anticapitalismo del partito e del suo persistente desiderio di ingraziarsi la classe media. Alcuni sindacalisti comunisti erano stati profondamente influenzati dal­ le idee avanzate da «Quaderni rossi» agli inizi degli anni Sessan­ ta; altri esprimevano idee che non erano distinguibili dalle posi­ zioni della sinistra sindacale. Una corrente di sinistra apparve anche nella C isl , in partico­ lare nella sua federazione metalmeccanica, la F im , che cercava con tutti i mezzi di competere da una posizione di minoranza con la F io m . A partire dalla metà degli anni Sessanta, un gruppo in­ terno alla F im cominciò a sostenere le azioni di fabbrica militanti e i programmi radicali. Un centro di questa agitazione era la fe­ derazione milanese della F im , fonte di molte delle idee innova­ tive che sarebbero state accolte dalle confederazioni sindacali durante il ciclo della protesta industriale. Parte di questa nuova militanza rimase a livello della fabbri­ ca, ma parte di essa trovò espressione in sedi ufficiali dei vari sindacati nazionali. Uno di essi fu «Quaderni di Rassegna sinda­ cale» della C gil , un altro era «Dibattito sindacale», la rivista del­ la F im . Gli intellettuali della F im criticavano i dirigenti nazionali della confederazione e teorizzavano il ruolo dell’operaio-massa (Cella, Manghi e Piva 1972, pp. 39-46). Alcuni membri della sinistra all’interno dei partiti avevano legami con i critici interni ai sindacati e indirettamente con i gruppi più etremisti a sinistra, come si può ricavare da un pam­ phlet anonimo scritto nel 1967 da un intellettuale comunista vi­ cino ai sindacati. Come osserva l’autore, «perché l’organizzazio­ ne del partito riesca a vivere materialmente in ogni fabbrica, 165

occorre prima che il rapporto di produzione riesca a vivere po­ liticamente nella linea del partito» (Accornero 1967, p. 55). Gli apparenti successi dei gruppi estremisti in conflitti indu­ striali quali quello di Porto Marghera nel 1968 vanno visti al­ l’interno di questo contesto. Tra gli studenti e i gruppi operaisti, dentro e fuori i partiti, i sindacati e i gruppi «esterni», vi era un intreccio di obiettiva cooperazione e soggettiva competizione. I gruppi esterni cercarono di utilizzare i loro alleati, gli studenti, per raggiungere i propri obiettivi, consistenti nel creare una pre­ senza in fabbrica, nel radicalizzare gli operai, nel mettere in im­ barazzo i sindacati e nel minare l’egemonia del Pei sulla sinistra. La sinistra sindacale fu pronta a sfruttare questo nuovo attore per far progredire le proprie idee in seno ai sindacati. Persino alcuni membri della sinistra comunista nella C g il e i radicali nella C isl applaudirono alle tattiche dei gruppi esterni, fintantoché essi condividevano lo stesso obiettivo di riportare il Pei al suo ruolo storico di difesa della classe operaia. Mobilitazione competitiva

L’effetto di questa parziale convergenza tra estremisti all’in­ terno e all’esterno dei sindacati fu di legittimare le richieste più radicali tra quelle poste sul tappeto dai sindacati confederali. Questo in particolare là dove i sindacati erano deboli, come a Porto Marghera (Perna 1980, p. 7) o dove la C gil aveva seguito delle strategie moderate per il bene dell’unificazione sindacale, come alla Pirelli (Bolchini 1985, p. 90). In queste aziende vi era una dissidenza locale rispetto alla linea nazionale dei sindacati, e gli esterni ebbero un’accoglienza più favorevole tra gli iscritti al sindacato. Ma, alla base, i sindacati non erano mai estranei a questo processo di radicalizzazione; era un processo cooperativo e competitivo che superava i confini del settore del movimento sociale. Questo ci porta al cuore del rebus della mobilitazione ope­ raia. Alcuni teorici dei movimenti sociali hanno sostenuto che l’organizzazione fa diminuire la perturbazione, e così riduce la mobilitazione e porta la base a ritirarsi. Altri hanno sostenuto che l’organizzazione è irrilevante perché è la militanza nel luogo di produzione a generare la protesta (Arrighi e Silver 1983). Ma il fatto che le organizzazioni stimolino o diminuiscano la pertur­ bazione dipende dal tipo di organizzazione e dai rapporti con le altre. Negli Stati Uniti negli anni Trenta, per esempio, i comu­ 166

nisti, i socialisti e il sindacato furono in competizione per gua­ dagnarsi il consenso operaio nelle industrie dell’acciaio e dell’au­ to, nella favorevole struttura di opportunità fornita dal New Deal. Nuove risorse erano state messe a disposizione dagli operai delle miniere (Umw) e dal Wagner Act, il che permise alla Ciò di superare, subito dopo la nascita, la soglia organizzativa. Non si trattava di spontaneità scambiata per organizzazione, ma di com­ petizione organizzativa che generava un grado di perturbazione tale da assicurare nuove risorse e conquiste di classe. In Italia, alla fine degli anni Sessanta, troviamo notevoli pa­ rallelismi con la situazione negli U sa degli anni Trenta, non solo perché la forza del movimento nacque nel luogo di produzione, ma anche perché la mobilitazione competitiva stava avvenendo in una struttura di opportunità politica in rapida espansione. Da un lato, i piccoli e sparpagliati gruppi esterni coi loro studenti sostenitori e la loro retorica operaista non avrebbero mai potuto organizzare da soli le masse dei lavoratori; dall’altro, lasciati ai loro mezzi, i sindacati avrebbero potuto esimersi dal correre dei rischi fino a quando la sfida della mobilitazione operaia non fosse passata. Ma l’accresciuta domanda di lavoro sul mercato, le op­ portunità politiche in espansione garantite dal centro-sinistra, nonché la competizione per il sostegno degli operai, furono tutti elementi convergenti che, alla fine degli anni Sessanta, produs­ sero un livello di mobilitazione paragonabile a quello dei sit-down americani negli anni Trenta. L’accresciuto livello di perturbazione del conflitto industria­ le in questo periodo emerge chiaramente dalla fig. 14. In essa vediamo un piccolo picco e un rapido crollo della perturbazione dopo gli scioperi per il rinnovo del contratto del 1966, seguiti da un netto aumento, un picco elevato nel 1968-69, e un nuovo calo nel 1970-72. Il grado di perturbazione crebbe ancora una volta nel 1973, ma senza mai avvicinarsi al livello del 1968-69. Benché l’ondata del conflitto industriale sarebbe continuata senza soste per tutti gli anni Settanta, questa fu una fase di conflitto molto più contenuto. Il picco della perturbazione è nel 1968-69, quan­ do le organizzazioni istituzionali (sindacati e partito) e i gruppi esterni confluirono nella militanza degli studenti, degli operai qualificati e non qualificati in una struttura di opportunità poli­ tiche esplosiva. In che modo la perturbazione delle lotte fu influenzata dalla >resenza estremisti dentro e intorno alla fabbrica? Nel[a tab. 11diè gruppi calcolato il punteggio medio di perturbazione delle proteste in cui erano presenti svariati modelli e tipi di organiz167

Punteggio medio

Semestre

Fig. 14 - Punteggio medio della perturbazione causata dalla classe operaia, per semestre, 1966-73 Tab. 11 - Grado di perturbazione degli episodi di protesta per numero e tipo di organizzazioni presenti Nessuna organizzazione Uno o più sindacati Uno o più gruppi esterni Uno o più sindacati e uno o più gruppi esterni Totale episodi

Punteggio

N.

3,3 3,7 8,3

2.944 1.351 627

8,8 4,3

58 4.980

zazione. La tabella chiarisce innanzitutto che i conflitti meno perturbativi erano quelli in cui non era presente nessuna orga­ nizzazione: la spontaneità non generava perturbazione. In secon­ do luogo la presenza dei sindacati fa aumentare leggermente la perturbazione; ma, in terzo luogo, la presenza di un gruppo esterno genera la massima perturbazione. Per finire, gli episodi più perturbativi in assoluto sono quelli in cui sia i sindacati che i gruppi esterni erano in concorrenza per ottenere il sostegno degli operai. La competizione all’interno del settore dei movi­ 168

menti sociali era una causa diretta di perturbazione e dunque dell’elevato livello di conflittualità.

3. Le forme di lotta Le forme tattiche utilizzate negli scioperi dal 1968 in poi hanno una qualche somiglianza con quelle tipiche del movimen­ to studentesco, ma erano molto più varie e mescolarono forme convenzionali, perturbative e violente. Secondo Dubois (1978, p. 8), tra queste forme rientravano «ripetuti scioperi a livello di reparto, a intervalli regolari o irregolari, fermate del lavoro coor­ dinate settore per settore che interessavano in modo alterno un reparto o una squadra o l’altra, oltreché atti di sabotaggio degli impianti». Nacque tutta una nuova terminologia delle forme di sciope­ ro, dallo sciopero bianco allo sciopero a singhiozzo, allo sciopero a scacchiera, al corteo interno, al presidio ai cancelli. I difensori della spontaneità pensavano di vedere in questo una virile espres­ sione del proletariato, mentre in realtà queste azioni avevano una logica finalizzata: creare il massimo possibile di perturbazio­ ne col minimo di spesa di risorse (Dubois 1978, p. 9). Oltre a queste trasformazioni nella forma dello sciopero, gli operai aggiunsero al repertorio tradizionale altre forme netta­ mente diverse, talvolta intensificando i conflitti all’interno della fabbrica e talaltra estendendoli alla sfera pubblica. All’interno della fabbrica le occupazioni, i blocchi, le irruzioni e la pratica dell’obiettivo dell’autoriduzione dei ritmi della catena di mon­ taggio, sfidarono l’autorità dei capi-reparto e il controllo della produzione. Queste tattiche, che da una parte riportavano in vi­ ta vecchie tradizioni di lotta e dall’altra ne creavano di nuove, si dimostrarono anche un mezzo efficace per evitare la chiusura di fabbriche e le serrate. Le manifestazioni pubbliche conferirono ai conflitti indu­ striali una valenza politica. Nel passato i sindacati avevano por­ tato la lotta nelle strade solo quando erano troppo deboli per prevalere all’interno della fabbrica. A partire dall’«autunno cal­ do», invece, l’attività esterna non fu un segno di debolezza, ma un modo per pubblicizzare gli scioperi agli occhi del pubblico e della stampa. Gli operai delle fabbriche adottarono sempre più forme pubbliche e forme espressive d’azione e blocchi del traf­ fico per dare risalto alle loro richieste. Queste dimostrazioni 169

spesso contenevano degli elementi di simbologia militare (per esempio, i metalmeccanici spesso tambureggiavano su delle latte o usavano i fischietti durante i cortei), ma contenevano anche importanti elementi di gioco e di teatro e avevano una qualche somiglianza col carnevale tradizionale19. Sia l’aumento delle forme del conflitto all’interno del luogo di lavoro sia la loro estensione alla sfera pubblica sono illustrati nella tab. 12, che analizza gli episodi di sciopero tratti dai nostri dati per quanto riguarda la percentuale di altre forme d’azione al loro interno. La tabella, in realtà, sottovaluta il ricorso da parte degli operai alle forme di non-sciopero, dato che esclude tutti i casi in cui non fu osservato nessuno sciopero, e non registra la miriade di modi in cui lo sciopero stesso poteva essere utilizzato (per esempio, sciopero bianco, scioperi a scacchiera ecc.). Anche così, questa rappresentazione schematica ci permette di vedere il ricco ventaglio di forme d’azione delle quali erano capaci gli ope­ rai in quel periodo. Tab. 12 - Episodi di sciopero: forme di non-sciopero utilizzate dagli scioperanti (numero di episodi) Forme d’azione

1966

1967

1968

1969

1970

1971

1972

1973

Manifestazione pubblica (cortei, riunioni) 74 31 28 78 107 97 110 78 Assemblea 10 84 15 40 69 59 43 33 Azioni convenzionali (per es. petizione) 88 14 13 15 37 59 77 87 Azioni perturbative 32 52 118 70 15 72 31 33 Scontri di piazza 20 18 23 34 5 33 16 15 Danni a beni materiali 12 4 13 28 19 12 8 3 Attacco a persone 2 4 10 4 3 19 9 6 Totale altre forme 120 85 257 418 397 372 262 183 Totale episodi di sciopero* 127 117 196 306 319 416 269 224 Rapporto altre forme/scioperi 0,94 0,73 1,31 1,36 1,22 0,89 0,97 0,82 * Gli episodi di sciopero comprendono tutti gli episodi in cui fu registrato iLino sciopero.

19 Lumley (1983, p. 397) scrive che spesso si costruivano pupazzi raffiguranti i capi e che alla fine di marzo alcune effigi dei ministri al governo vennero appese a forche e bruciate davanti ai cancelli delle fabbriche.

170

La tabella indica anche che gli operai emersero dal ciclo di protesta con un repertorio di forme d’azione più ampio di quanto non fosse agli inizi. Quando il ciclo andò scemando, il loro im­ piego delle forme d’azione più radicali — l’irruzione negli uffici della direzione, l’occupazione, il blocco del traffico — diminuì anch’esso, ma le forme di azione pubblica — cortei, riunioni, petizioni e azioni legali — e in particolare l’assemblea non furo­ no mai abbandonate. In realtà, tra il 1966 e il 1973, vi fu un aumento più che doppio nel numero dei raduni pubblici e un aumento più che triplo nell’impiego dell’assemblea. In contrasto con la visione della protesta della classe operaia trasmessa dalla sinistra extraparlamentare, l’ondata di protesta declinò in modo relativamente rapido nella sua fase più radicale, ma la classe lavoratrice ne emerse con un repertorio di forme istituzionali e di espressione più ampio rispetto al suo inizio. I sindacati non cooptarono e soffocarono la conflittualità della classe operaia, piuttosto la assorbirono nelle forme istituzionali e la utilizzarono per riconquistare la propria base tra gli operai del­ l’industria. Sindacati e perturbazione

La tab. 12 chiarisce come la conflittualità interagì col periodo di maggiore slancio sindacale. Le forme «selvagge» d’azione — occupazioni, violenza, perturbazione della catena di montaggio — cominciarono ad apparire nel 1968, quando i sindacati erano ancora troppo deboli per trarre vantaggio dal potenziale di mo­ bilitazione della classe operaia. Ma queste forme d’azione con­ tinuarono a essere utilizzate nel corso del 1969 quando i sinda­ cati stavano già conducendo gli scioperi per il rinnovo dei contratti nazionali. In altri termini i sindacati più che frenare la conflittualità integrarono nelle loro campagne le forme radicali d’azione. Il periodo portò anche a un aumento del conflitto a livello della singola fabbrica e azienda. Nel passato le ondate di sciopero avevano accompagnato i periodi di trattativa per il contratto na­ zionale. Ma verso la fine del decennio gli operai cominciarono a considerare gli accordi di contratto raggiunti a livello nazionale non come un tetto ma come le basi a partire dalle quali costruire degli accordi più vantaggiosi a livello di singola fabbrica e azien­ da. Il crescere del conflitto a livello di base è riportato nella fig. 15, nella quale gli scioperi sono suddivisi tra quelli osservati solo 171

a livello locale e quelli organizzati a livello nazionale. La curva superiore mostra un netto aumento percentuale degli scioperi lo­ cali alla metà del 1968 e un altro dopo la metà del 1970, quando le trattative per il contratto del 1969 erano già terminate. Le due curve si avvicinano nuovamente quando la mobilitazione declina alla fine del periodo. Numero

Semestre

Fig. 15 - Numero degli scioperi a livello nazionale e locale per semestre, 1966-73

Quello che vediamo nella fig. 15 non è il sostituirsi della spontaneità agli scioperi condotti dai sindacati, quanto la decen­ tralizzazione di un processo prevalentemente condotto dai sin­ dacati. Come conclude Beccalli a partire dal suo studio dei me­ talmeccanici a Milano, «i dati confermano un forte rapporto di iniziativa e di controllo tra il conflitto a livello di fabbrica e quel­ lo condotto dai sindacati» (Beccalli 1971, pp. 109-10). Beccalli evidenzia anche il ruolo importante svolto dai sindacati nel dif­ fondere la conflittualità da impianti grandi e centrali a impianti piccoli e periferici. Mentre i sindacati potevano rappresentare un freno alla conflittualità al centro, allo stesso tempo potevano fungere da suo detonatore nella periferia. Lo stretto rapporto tra azione sindacale e conflitto industria­ le decentralizzato significa che, malgrado fossero i gruppi esterni e gli studenti a svolgere un ruolo importante nell’aumentare la perturbazione nella parte superiore della curva della mobilitazio­ ne (1967-69), essi furono sempre più estranei ad essa via via che i sindacati impararono a «cavalcare la tigre» della mobilitazione di massa. Come vedremo nei capitoli successivi, l’abilità dei sin­ dacati nell’egemonizzare il conflitto industriale dopo il 1969 e 172

l’incapacità delle organizzazioni dei movimenti sociali di compe­ tere con successo con essi per conquistare il sostegno della classe operaia avrebbero molto contribuito al tragico esito della vicen­ da della sinistra extraparlamentare alla metà degli anni Settanta. Chiariamoci bene: i sindacati furono certamente colti di sor­ presa dall’ondata di militanza scoppiata nelle fabbriche dell'Ita­ lia settentrionale nel 1968. Ma essi erano tutt’altro che inconsa­ pevoli della fondatezza delle richieste della classe operaia. Alcuni di loro stavano attivamente dibattendo e sperimentando mezzi per esprimere le nuove richieste degli operai ancor prima del 1968. Questo era particolarmente vero per la sinistra sindacale, ma era anche vero per i sindacati nel loro complesso. Di conse­ guenza, e come esito del processo di unificazione competitiva nel quale erano coinvolti, già a metà del 1970 essi avevano nuova­ mente il pieno controllo della protesta industriale.

4. Conclusioni I conflitti industriali degli anni 1968-72 furono un momento di rottura nelle relazioni industriali italiane, che per alcuni aspet­ ti andò in parallelo col movimento degli studenti universitari. Ma, a differenza degli studenti, la mobilitazione degli operai non fu il risultato del rifiuto o del decadimento di organizzazioni in­ capaci di adattarsi a una situazione politica radicalmente nuova. Gli operai potevano non appartenere al sindacato, potevano an­ dare contro la posizione del sindacato in un dato luogo e mo­ mento, ma raramente erano ««/¿-sindacato, se non per quella fra­ zione seguace di gruppi estremisti al di fuori dei sindacati e del sistema dei partiti. Nel momento in cui il ciclo di conflitto in­ dustriale iniziò c’era all’interno dei sindacati un numero di spiriti in rivolta sufficiente a mettere il sindacato stesso nella posizione dell’«apprendista stregone» del movimento operaio. Ma i sindacati sarebbero riusciti in questo, senza la mobili­ tazione di massa del 1967-69 o senza il movimento studentesco, che fornì ai gruppi estremisti e al sindacato leve fresche di atti­ visti? Se il sindacato era un «apprendista stregone», chi era lo stregone, l’operaio specializzato d’avanguardia, l’operaio-massa, i gruppi estremisti coi loro sostenitori studenti o la sinistra sin­ dacale e comunista? Una storia che ricostruisca i fatti senza tener conto del con­ tributo di uno qualsiasi di questi attori principali e delle intera­ 173

zioni tra di loro sarebbe una sterile impresa. Quello che sembra chiaro è che la mobilitazione di massa è innescata dalla pertur­ bazione, e la perturbazione era elevata in Italia alla fine degli anni Sessanta perché svariati gruppi erano in gioco e compete­ vano per conquistarsi il sostegno degli operai, in presenza di pro­ fonde trasformazioni, di un mercato del lavoro contratto e di opportunità politiche nuove. L’ondata di mobilitazione indu­ striale non era né un «nuovo movimento» che prendeva il posto dell’«istituzione» sindacale, né l’esito autonomo degli sforzi de­ gli stessi sindacati. In un ciclo di protesta, infatti, la linea di demarcazione tra movimenti e istituzioni si fa confusa. Come vedremo nel capitolo seguente, alcuni dei movimenti più ricchi di risorse e di efficacia appaiono all’interno delle istituzioni più potenti.

Vili

IL PIÙ VECCHIO DEI NUOVI MOVIMENTI

Sta avvenendo una sorta di rivoluzione culturale, incentrata non nelle organizzazioni politiche [...] ma in comunità [...] nate al di fuori, ai margini o anche all’interno della stessa vecchia istituzione. Il loro comun denominatore è la «riappropriazione del Vangelo». (Balducci 1976) Quali segnali stanno a indicare che un ciclo di protesta si va diffondendo a un’intera società? Uno di essi è certamente rap­ presentato dagli studenti che disertano le aule e occupano le fa­ coltà, un altro dagli operai che abbandonano il lavoro e sfidano i capi. Ma queste manifestazioni, per quanto radicali o dramma­ tiche, potrebbero verificarsi ai margini di una società ben salda, senza in alcun modo coinvolgere le istituzioni che la sostengono. Solo quando queste istituzioni — come la famiglia o la Chiesa — sono percorse da ondate di contestazione è segno che un ciclo di protesta ha investito tutta la società. Negli ultimi anni molti studiosi occidentali si sono soffermati sui «nuovi» movimenti emersi dal crogiuolo della fine degli anni Sessanta, in particolare sui movimenti pacifisti, ambientalisti e femministi che divennero preminenti negli anni Settanta. Origi­ nati com’erano in seno alla nuova classe media, e ispirati da temi post-material, questi movimenti sarebbero stati un prodotto del capitalismo avanzato. La loro «novità» consisterebbe nella nasci­ ta di organizzazioni informali, decentralizzate, nel ricorso a mez­ zi radicali d’azione e nel rifiuto delle ideologie sistematiche in favore di un tipo di «pragmatismo radicale». Essi avrebbero crea­ to un nuovo paradigma politico, o almeno così si è sostenuto (Offe 1985). Gli studiosi dei nuovi movimenti sociali avevano contrappo­ sto le loro innovazioni radicali a quelle dei «vecchi» movimenti, 175

quali il movimento operaio, che consideravano uniclasse, centra­ lizzato e convenzionale nella sua azione. Questa contrapposizio­ ne può essere esagerata per almeno due ragioni. Innanzitutto, come abbiamo visto nell’ultimo capitolo, nei periodi di mobili­ tazione di massa il movimento operaio mostra molte delle carat­ teristiche che questi teorici riservano ai «nuovi» movimenti so­ ciali; in secondo luogo i «nuovi» movimenti ricorrono anch’essi a tattiche convenzionali oltreché radicali, avanzando obiettivi strumentali e non solo espressivi, e praticando la politica con la stessa abilità con cui la rifiutano in teoria. Come possiamo spiegare la mescolanza di tratti «vecchi» e «nuovi» in questi due movimenti, che dovrebbero conformarsi a modelli molto diversi? Una possibile risposta ci viene dall’inserire i nuovi movimenti sociali nel contesto storico di un ciclo di protesta. Infatti, al pari del «vecchio» movimento operaio com­ parso nell’Ottocento, i nuovi movimenti sociali degli anni Set­ tanta nacquero in un periodo di generale perturbazione e disor­ dine sociale. Nei cicli di protesta anche i «vecchi» movimenti esibiscono una combinazione di azioni convenzionali e innova­ tive, di forme decentralizzate di organizzazione, nonché di obiettivi strumentali ed espressivi. Alla metà degli anni Sessanta ebbe inizio un nuovo processo di dissenso all’interno della Chiesa. Esso fu stimolato dal Con­ cilio Vaticano II, dalla «teologia della liberazione» e dal recluta­ mento di nuovi gruppi sociali ed etnici. Ma fu anche influenzato dall’ondata di protesta al di fuori della Chiesa e godette del so­ stegno di molti dei militanti dei movimenti precedenti. Così i nuovi movimenti religiosi ebbero molte delle caratteristiche del ciclo generale di protesta. Le origini di questi movimenti, le loro forme d’azione, le loro vicende furono profondamente influen­ zate dalle opportunità politiche e dalle tensioni che percorrevano la società italiana. E anche nella Chiesa, l’istituzione più protetta dalla società civile, la protesta ben presto entrò in conflitto con lo Stato.

1. Il dissenso religioso nel ciclo italiano Nel 1967-68, in varie parrocchie disseminate in tutta Italia, dei comuni fedeli si riunirono per dimostrare contro la gerarchia della Chiesa. Cosa generò questa rivolta di dissenso religioso? Novantatré degli episodi di protesta nel nostro archivio sono sta­ 176

ti classificati come coinvolgenti la «religione, la Chiesa o attori religiosi». L’analisi qualitativa di questi episodi dimostra che essi ebbero origine da tutta una serie di conflitti, ma che molti gra­ vitavano intorno alla questione dell’autonomia dei credenti. Un primo gruppo di proteste religiose riguardava la condi­ zione delle chiese o la mancanza di attenzione per le loro esigen­ ze da parte della gerarchia ecclesiastica. Erano episodi prevalen­ temente pacifici, ma talvolta le tattiche usate furono radicali. Un caso drammatico si verificò a Cesena nel 1967 quando una bom­ ba venne installata nei pressi di una chiesa pericolosamente in rovina («Corriere della Sera», 26 aprile 1967). Altre richieste di nuove chiese a Pordesca («Corriere della Sera», 5 novembre 1969) e a Locri («Corriere della Sera», 4 novembre 1969) furono tuttavia meno violente. Un secondo gruppo di proteste riguardò alcune decisioni am­ ministrative della Chiesa o la loro attuazione. Ad Amalfi («Cor­ riere della Sera», 13 maggio 1971), i parrocchiani chiesero la no­ mina di un nuovo vescovo. A Policastro («Corriere della Sera», 25 agosto 1970) protestarono contro la decisione della Chiesa di abolire la loro diocesi. A Bologna con una serie di scioperi («Cor­ riere della Sera», 27 aprile 1968) si protestò contro il trasferi­ mento di un giornale cattolico in un’altra città. Una terza cate­ goria di proteste riguardò il trasferimento, presumibilmente per ragioni politiche, di sacerdoti. A Napoli svariate centinaia di par­ rocchiani impedirono a un sacerdote di nuova nomina di entrare nella sua chiesa dopo che il precedente era stato trasferito («Cor­ riere della Sera», 6 aprile 1967). Vicino a Brindisi un gruppo di donne fece una veglia di preghiera per protestare contro il tra­ sferimento del loro sacerdote a un’altra città («Corriere della Sera», 26 ottobre 1968). A Milano in occasione del trasferimen­ to di cinque sacerdoti fu organizzata una manifestazione in loro favore («Corriere della Sera», 2 ottobre 1968). Ma i parrocchiani potevano anche protestare contro i loro sa­ cerdoti o il loro comportamento. A Pregnana, cittadina alle porte di Milano, la gente bloccò una strada per chiedere le dimissioni del parroco («Corriere della Sera», 22 giugno 1972). A Villa La­ tina vicino a Frosinone un sacerdote fu cacciato via dagli abitanti perché era, come eufemisticamente dissero, «il più esoso della regione» («Corriere della Sera», 3 luglio 1973), e a Firenze i par­ rocchiani dell’Isolotto, opponendosi a un prete mandato dal ve­ scovo a dir messa, lo «convinsero» a tornarsene indietro (vedi di seguito). Una quarta categoria di proteste fu a favore o contro politi­ 177

che governative o vaticane. Molte di esse, che coinvolgevano la Lega italiana per il divorzio, da una parte, e i cattolici tradizio­ nalisti, dall’altra, si incentrarono sul dibattito parlamentare sul divorzio che culminò nella legge Fortuna-Baslini e in un referen­ dum abrogativo. Ma altri episodi si riferirono alla legalizzazione dell’aborto («Corriere della Sera», 16 settembre 1966), all’osce­ nità nei film («Corriere della Sera», 11 gennaio 1969), o alla pro­ testa contro il potere economico della Chiesa («Corriere della Sera», 16 ottobre 1969). Ci furono anche due attacchi contro gli ebrei, ma sei proteste contro l’antisemitismo. Le proteste contro il potere istituzionale della Chiesa diven­ nero sempre più frequenti nel 1968 e 1969. Molte furono contro il Concordato che regolava i rapporti tra Chiesa e Stato, nel qua­ rantesimo anniversario della sua firma («Corriere della Sera», 12 febbraio 1969). Una serie di proteste nel 1968 fu contro la rigida struttura del potere della Chiesa e il fatto che i fedeli non aves­ sero un ruolo al suo interno («Corriere della Sera», 15 settembre e 23 ottobre 1968). I tradizionalisti talvolta protestarono anche contro la modernizzazione della liturgia («Corriere della Sera», 25 ottobre 1971). Come ci si potrebbe aspettare in campo religioso, molte delle proteste erano altamente espressive per tema e forme d’azione. Un certo numero di dimostrazioni spettacolari fu tenuto contro la mercificazione del Natale, tra cui quella di Milano alla vigilia di Natale, descritta nel capitolo V («Corriere della Sera», 23 di­ cembre 1968), mentre un anno dopo a Monza un gruppo di gio­ vani cattolici tenne una veglia di lutto per «la morte del Natale» («Corriere della Sera», 27 dicembre 1969). A Roma i dimostranti marciarono in favore di un antipapa («Corriere della Sera», 9 settembre 1969), e una serie di misteriose bombe fu di protesta contro l’esistenza stessa della religione («Corriere della Sera», 22 settembre 1970). Nella tab. 13 sono state classificate 86 proteste religiose — per le quali abbiamo dettagliate informazioni tratte dal «Corriere della Sera» — che abbiamo suddiviso in sette categorie princi­ pali. Come mostra la tabella le proteste contro particolari poli­ tiche governative o ecclesiastiche erano molto frequenti, in par­ ticolare sul tema del divorzio. Ma il numero di episodi di gran lunga maggiore fu organizzato contro la struttura interna della Chiesa cattolica, vuoi direttamente contro il potere della Chiesa, vuoi indirettamente contro il trasferimento dei sacerdoti per ra­ gioni politiche. 178

Tab. 13 - Strutture delle richieste delle proteste riguardanti la religione, la Chiesa o temi religiosi

%

Tipo di richiesta

Condizione delle chiese, attenzione ai parrocchiani 9,3 18,6 Pro o contro il sacerdote della parrocchia 16,3 Pro o contro il divorzio 8,1 Altre politiche pubbliche 7,0 Antisemitismo, Israele 23,3 Istituzioni della Chiesa 17,4 Antireligione* 100,0 Totale * Le bombe esplose nelle chiese sono state classificate come «antireligione».

N. 8 16 14 7 6 20 15 86

Perché queste proteste apparvero proprio allora? Sin dagli inizi degli anni Sessanta i cattolici dissidenti stavano comincian­ do a liberarsi della loro dipendenza dalla Chiesa e dal partito democristiano. Alcuni dissidenti apparvero anche nelle Acli e nella C isl, che erano state create come bastioni contro il comu­ niSmo, mentre una nuova organizzazione studentesca, la Gs, di­ venne un vivaio di futura militanza. In quegli anni si assistette a un’esplosione di nuove pubblicazioni: «Il Regno» a Bologna, «Rocca» ad Assisi, «Il Tetto» a Napoli, «Dopoconcilio» a Trento (Sciubba e Pace 1976, p. 24). Ma la protesta aperta nella Chiesa apparve solo dopo che gli studenti ebbero cominciato a fare cortei, dimostrazioni, occupa­ zioni di facoltà in tutto il paese. Se i temi del dissenso religioso circolavano da oltre un decennio nella Chiesa cattolica, ci volle l’esempio del movimento studentesco, e in particolare la presen­ za di giovani cattolici al suo interno, per trasformare in lotta il potenziale di conflitto con la gerarchia. La Cattolica di Milano

Il modo in cui il movimento degli studenti si trasfuse nella Chiesa può essere illustrato dalla contestazione studentesca a Milano. Essa iniziò alla Cattolica intorno a un tema totalmente 179

estraneo alla religione: un aumento delle tasse scolastiche1. Nel novembre 1967 un numero di giovani attivisti compreso tra i cento e i duecento, molti dei quali erano ex-appartenenti all’Azione cattolica o alla Gs, occuparono l’università («Corriere della Sera», 16 novembre 1967). Il rettore chiamò subito la polizia, fece sgombrare gli occupanti ed espellere i loro leader. I rappresentanti degli studenti, con un linguaggio e un sim­ bolismo che chiaramente derivavano dal loro retroterra di mili­ tanti cattolici, espressero «indignazione, dolore e profonda co­ sternazione umana, civile e cristiana di fronte al comportamento delle autorità» (citato in Lumley 1983, p. 185). Il linguaggio uti­ lizzato, oltre ad esprimere la volontà dei protestanti di utilizzare il simbolismo della propria religione per mettere in imbarazzo politico la Chiesa, era anche venato d’ironia2. Agli inizi del 1968 il conflitto si era diffuso dalla Cattolica alla Chiesa milanese in generale. In aprile un gruppo di studenti irruppe in una riunione di cardinali per protestare contro la re­ sistenza della Chiesa alla riforma («Corriere della Sera», 1° aprile 1968). A giugno una bomba incendiaria fu lanciata a San Babila per protestare contro Inattività criminale» della Chiesa («Cor­ riere della Sera», 11 giugno 1968). La vigilia di Natale la messa di mezzanotte venne disturbata («Corriere della Sera», 27 dicem­ bre 1968). La diffusione della protesta religiosa

Ma il movimento studentesco e i suoi nuovi virgulti non fu­ rono gli unici elementi che infiammarono i movimenti religiosi in Italia. Vi fu una nettissima correlazione tra il livello del conflitto civile e industriale in varie province e lo scoppio di proteste re­ ligiose. Là dove erano diffusi la contestazione, la protesta socia­ le, gli scioperi e le manifestazioni contro le autorità finirono col formarsi nuovi aspetti del dissenso cattolico, come possiamo ve­ dere nella fig. 16, nella quale abbiamo riportato per ciascuna del­ le 92 province italiane sia la percentuale di azioni collettive ge1 II mio resoconto degli eventi alla Cattolica si basa sulla intelligente rico­ struzione di Lumley nel capitolo IX della sua tesi (1983). Sono anche grato a Bruno Dente e Ida Regalia per le riflessioni su questo episodio di cui mi hanno fatto parte. 2 Colloquio personale con Ida Regalia, che fu una di queste ex-militanti cat­ toliche, Ithaca, New York, 17 novembre 1987.

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nerali tra il 1966 e il 1973 sia la costituzione di nuove comunità di base dissidenti (R2 = 0,426)’. Fig. 16 - Episodi di protesta locale 1966-73 e comunità religiose locali in esistenza nel 1977* 800

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Comunità religiose locali

* I dati sul numero delle comunità religiose locali sono tratti da Sciubba e Pace (1976).

Era a Firenze che il dissenso cattolico aveva le radici più pro­ fonde. Un esame delle comunità di base cattoliche della città ri­ vela che la prima di esse risale al 1957, molto prima che il mo­ vimento studentesco fosse una realtà. Altre due, a Peretola e a Le Bagnese, esistevano già agli inizi degli anni Sessanta. Ma solo alla fine di quel decennio queste comunità cominciano a comparire sulla stampa nazionale, perché sfidano la gerarchia con azioni 3 I dati sulle comunità religiose sono tratti dall’eccellente ricostruzione di Sciubba e Pace (1976).

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collettive e sollevano il tema fondamentale del governo della Chiesa. Gli eventi più spettacolari si verificarono alla fine del 1968 e nella prima metà del 1969, ed ebbero come protagonista il primo di questi gruppi, la comunità di base della chiesa parrocchiale dell’Isolotto. Il conflitto ebbe inizio con la sospensione di un prete della parrocchia, ma nel suo svolgersi toccò la maggior par­ te dei conflitti sopra riferiti e coinvolse le autorità a tutti i livelli della Chiesa italiana e del Vaticano, oltreché l’autorità giudizia­ ria e civile4.

2. «Si può rimuovere un prete, non tutto un popolo!» In una grande piazza nei pressi dell’Arno alla periferia di Fi­ renze sorge il moderno edificio di una chiesa color ocra come il fiume, dalla forma goffa e dalla facciata per nulla invitante. Al centro della piazza c’è un chiosco per i giornali e un sagrato sul quale si svolge la maggior parte della nostra vicenda. Accanto alla chiesa, in un edificio ancor più triste, ci sono la residenza e gli uffici del parroco. L’Isolotto non è una parrocchia come tante. Nel quartiere, nella città, nella regione e nella Chiesa fiorentina esistono a un tempo solidarietà e conflitti che sono particolarmente favorevoli alla formazione di un nuovo movimento sociale5. Il quartiere

L’Isolotto è un quartiere prevalentemente operaio nato da un raro atto di programmazione urbana. Alla metà degli anni Cin­ 4 Questa parte della discussione riassume una narrazione più lunga tratta dal mio Old Movements iti New Cycles of Protest, in Klandermans, Kriesi e Tarrow (a cura di), 1988. 5 II paragrafo che segue si basa su colloqui personali con appartenenti alla comunità religiosa dell’Isolotto e con padre Ernesto Balducci e Danilo Zolo, non­ ché sulle seguenti fonti pubblicate: Baldelli 1969; «Il Ponte» 1971; Sciubba e Pace 1976; Seidelman 1979; Comunità dell’Isolotto 1968, 1969 e 1971; Taurini 1968, 1969 a e b e 1970; Zolo 1970. Sono grato a Margherita Perretti per il suo aiuto nel riunire questi materiali.

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quanta il sindaco La Pira programmò un nuovo quartiere di case a basso costo e a bassa densità, con spazi aperti e parchi lungo l’Arno. Riempitosi ben presto di appartenenti alla classe operaia fiorentina, di rifugiati dall’Istria, di immigrati meridionali e di ex-contadini toscani, l’Isolotto aveva delle attrezzature sociali molto carenti alla fine degli anni Cinquanta, quando il cardinale Elia Della Costa costruì una moderna chiesa parrocchiale e chie­ se a un energico giovane sacerdote, Enzo Mazzi, di assumersene l’incarico (Comunità dell’Isolotto 1969, d’ora in poi citata come Isolotto 1969). In mancanza di una rete sociale sviluppata era naturale che la chiesa parrocchiale divenisse un punto focale, e logico che il tema dell’unità — unità tra i parrocchiani, tra gente del Sud e del Nord, tra ex-contadini e operai e tra tutti questi e l’istituzione della Chiesa — avrebbe caratterizzato l’insegna­ mento di Mazzi e dei suoi collaboratori (Isolotto 1969, parte II)6. Nel 1966, quando vi fu l’alluvione, la comunità partecipò ai comitati nati per affrontare l’emergenza (Sciubba e Pace 1976, p. 28; Isolotto 1969, parte III). La città e la regione

Don Mazzi e i suoi collaboratori dovevano molto dei loro primi successi al clima progressista del comune, guidato da un sindaco cattolico che si ispirava a San Francesco. Difficilmente le cose potevano essere diverse in una regione con una lunga tra­ dizione di sinistra. La predominanza di immigrati recenti nel quartiere — molti provenienti dal Sud — dava al suo cattolice­ simo popolare la possibilità di far presa sulla gente, purché si mantenesse in contatto con le proprie radici popolari. L’attività politica di don Mazzi fu inizialmente organizzata in sostegno del movimento americano per i diritti civili, contro la guerra del Vietnam e a favore del diritto dei cattolici di votare per chi vo­ levano (Sciubba e Pace 1976, p. 27; Isolotto 1969, pp. 34-37). Don Mazzi e i suoi collaboratori stupirono anche il clero locale rifiutandosi di accettare un compenso per tenere battesimi o ma­ trimoni, e offesero la Chiesa aprendo la casa parrocchiale a orfani senza casa. 6 Come scrive Baldelli (1969, p. 152): «Il municipio era lontano e le esigenze locali erano ignorate [...] così l’assemblea religiosa divenne l’unico posto del quar­ tiere in cui la gente si poteva riunire e parlare».

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La Chiesa fiorentina

Della Costa era disposto a sostenere la causa dei poveri, an­ che quando questo lo metteva in conflitto con la borghesia della città. Era in questo clima di cattolicesimo progressista che erano cominciati esperimenti quali quello della scuola di Barbiana di don Milani, una delle figure più influenti degli anni Sessanta. Il suo Lettera a una professoressa (Scuola di Barbiana 1967) è stato definito «il testo probabilmente più influente nel movimento studentesco» (Lumley 1983, p. 194). In esso don Milani cercava di coniugare apprendimento e democrazia, scrivendo attraverso le voci dei bambini, che, a suo dire «sono stati esclusi dalla loro società non solo a causa di processi economici ma anche cultu­ rali» (Lumley 1983, p. 195). Don Milani era solo il più in vista di un gruppo di sacerdoti toscani — spesso provenienti da un re­ troterra della classe più bassa e quasi sempre operanti in quartieri poveri — che si consideravano al servizio del popolo di Dio, e non della Chiesa di Roma7. Nel corso degli anni Sessanta l’influenza della sinistra catto­ lica cominciò a contare meno nella politica della città e nella Chiesa. In Arcivescovato l’anziano Della Costa venne affiancato — e alla sua morte sostituito — da Ermenegildo Fiorii, un pre­ lato «pre-conciliare» il cui pregiudizio contro la politica non gli impedì di lasciare che gli attivisti dell’Azione cattolica utilizzas­ sero le chiese per il loro messaggio anticomunista. Ben presto sacerdoti progressisti quali Balducci, Borghi e Milani stavano perdendo influenza ed erano costretti al silenzio o al semiesilio (Baldelli 1969, p. 151). In seguito alla trattativa per la coalizione di centro-sinistra a livello nazionale, la sinistra cattolica perse il controllo dell’am­ ministrazione della città, perché la destra democristiana pensò che ora avrebbe potuto governare senza il carismatico La Pira. Così, proprio nel momento in cui un ciclo di protesta si stava diffondendo in tutto il paese, incoraggiando l’attivismo tra i gio­ vani cattolici di sinistra, la gerarchia fiorentina e la classe politica locale si stavano alleando contro il cattolicesimo progressista. Fu in questa contraddizione fra la tradizione progressista, un ciclo nazionale di protesta e condizioni locali in mutamento che ma­ turò il caso della comunità dell’Isolotto. 7 Altri importanti esponenti progressisti nella Chiesa toscana erano Giulio Facibeni, Divo Barsotti ed Ernesto Balducci.

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La cattedrale di Parma Parma, 14 settembre 1968. Quaranta studenti entrano nell’im­ ponente cattedrale romanico-lombarda, dispongono in circolo un gruppo di sedie e cominciano a discutere tra loro della povertà, dell’impotenza dei laici nella Chiesa e dell’autoritarismo della ge­ rarchia («Corriere della Sera», 16 settembre 1968). Entrano nel­ la cripta, dove tentano di partecipare alla celebrazione della mes­ sa. Quando il sacerdote officiante rifiuta di lasciarli intervenire, viene chiamata la polizia e — secondo uno schema che stava di­ venendo familiare nelle occupazioni universitarie in tutto il pae­ se — gli studenti vengono fatti sgomberare. Papa Paolo VI in persona leva la voce a denunciare il loro comportamento perché mina la Chiesa di Dio8. Firenze, 22 settembre. Messaggi di solidarietà con gli occupanti di Parma arrivano da comunità di base sparse in tutto il paese (Sciubba e Pace 1976, p. 31). All’Isolotto un gruppo di parroc­ chiani si incontra per discutere dell’occupazione di Parma e della reazione della gerarchia. Dopo animate discussioni si decide di mandare una lettera aperta di solidarietà agli occupanti. In essa non solo si esprime simpatia per gli studenti, ma si condanna l’azione delle autorità religiose di Parma, chiedendo che la Chie­ sa rinunci ai suoi legami con «il sistema iniquo che si fonda sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo» (Isolotto 1969, pp. 152-56). La lettera è firmata da 150 parrocchiani. Benché la firmino tutti e tre i sacerdoti, essa reca il marchio inconfondibile dell’insegna­ mento di don Mazzi: la Chiesa-istituzione è accusata di separarsi dal popolo di Dio e di inchinarsi al potere del denaro. 5 ottobre. La reazione della gerarchia è immediata e netta. Il cardinale Florit, ignorando le altre firme in calce alla lettera aper­ ta, invia una lunga lettera ufficiale a don Mazzi in cui critica la sua interferenza in cose che sono al di fuori dell’ambito della sua parrocchia, e gli chiede di ritrattare o dare le dimissioni per la fine di ottobre. La lettera così conclude: «O sei disposto a ritrat­ tare pubblicamente un atteggiamento così offensivo verso l’Autorità della Chiesa, come quello assunto con la “lettera aperta” del 22 settembre, [...] oppure, riconoscendo che è assurdo con­ 8 «Corriere della Sera», 15 settembre 1968, p. 5. Per un trattamento detta­ gliato e che guarda con simpatia gli studenti, cfr. il volume La cattedrale occupata (I Protagonisti 1969). Cfr. anche Sciubba e Pace 1976, pp. 30-31.

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tinuare a far parte di “strutture” così violentemente condanna­ te, intendi dimetterti dall’Ufficio di parroco» (Isolotto 1969, pp. 156-59). 9 ottobre. Si tiene un’assemblea nella chiesa parrocchiale per discutere la lettera del cardinale. Le duecento persone circa che vi partecipano sono confuse riguardo alla linea da assumere, e l’incontro finisce senza che si giunga a un accordo. Viene indetto un secondo incontro per il 12 ottobre, nel quale viene esaminata la lettera di fronte a un pubblico ora divenuto di trecento per­ sone. In un terzo e ancor più affollato incontro, il 19 ottobre, viene approvato il documento finale che viene poi distribuito a tutte le famiglie dell’Isolotto (Isolotto 1969, pp. 167-70). Mobilitazione di un seguito

La conclusione della vicenda con una tranquilla ritrattazione o col trasferimento di don Mazzi a un’altra parrocchia è resa im­ possibile dai mezzi di comunicazione di massa. La lettera del car­ dinale arriva alla stampa ed è pubblicata su «La Nazione» sotto il titolo Don Mazzi sconfessato dal Cardinale (Isolotto 1969, p. 171). Il peso simbolico del termine «sconfessato» non sfugge a questa comunità cattolica che immediatamente si mobilita intor­ no a don Mazzi, che ora non è più solo un sacerdote dissidente, ma una vittima d e\Y establishment fiorentino. 23 ottobre. L’articolo della «Nazione» offende la nuova co­ scienza cattolica, e non solo a Firenze. A Parma avviene una se­ conda occupazione della cattedrale, questa volta per chiedere la partecipazione diretta dei parrocchiani al processo decisionale della Chiesa («Corriere della Sera», 24 ottobre 1968). All’Isolotto, alle quattro del pomeriggio dello stesso giorno in cui è uscito l’articolo su «La Nazione», la chiesa e il sagrato sono gremiti di abitanti del quartiere e di altre persone — perlopiù non credenti — che annotano i nomi e gli indirizzi di chi è disposto a lavorare in difesa di don Mazzi. Alle otto di sera hanno firmato quasi mille volontari (Isolotto 1969, p. 171). 24 ottobre. Su «La Nazione» appare un comunicato stampa del Vaticano in cui don Mazzi è minacciato di sospensione a divinis se non ritratta la lettera di solidarietà agli occupanti della catte­ drale di Parma, una lettera che don Mazzi ha attribuito al po­ 186

polo di Dio. Nella chiesa si raduna una folla che decide di co­ minciare a pubblicare un notiziario alternativo e un giornale murale che ben presto apparirà quasi giornalmente in tutta Fi­ renze. Queste mosse riproducono quasi esattamente ciò che era successo durante le prime fasi dell’occupazione della Cattolica la primavera precedente. L’Isolotto diventa ora un punto d’attra­ zione per giovani, operai, casalinghe, cattolici dissidenti, mili­ tanti formatisi nelle occupazioni universitarie. Alleanze e avversari

Poco dopo cominciano ad arrivare all’Isolotto centinaia di messaggi di solidarietà. Alcuni conducenti di autobus residenti nel quartiere organizzano un incontro con i loro colleghi, nel quale vengono analizzati, attraverso gli eventi dell’Isolotto, i problemi della Chiesa. Operai locali distribuiscono volantini ai cancelli delle fabbriche in cui si preannunciano delle assemblee. Gli operai della Galileo votano una mozione di sostegno a don Mazzi e alla comunità, mentre la fabbrica Gover entra in scio­ pero per solidarietà (Isolotto 1969, pp. 173-98; «Corriere della Sera», 9 novembre 1968). 31 ottobre. Il giorno in cui scade l’ultimatum del cardinale, a un’assemblea serale partecipa quello che la comunità giudica un pubblico di diecimila persone. Gli incontri informali e impetuosi della prima parte del mese ora cedono il passo a un’assemblea disciplinata e ben organizzata, con un servizio d’ordine, posti a sedere ordinati per caseggiato e posto di lavoro, nonché un pro­ gramma di discorsi ufficiali. Gli oratori rappresentano gruppi di famiglie, operai delle fabbriche, uomini della strada. Con un oc­ chio alla stampa, la comunità garantisce che nell’elenco degli ora­ tori ci sia un equilibrato dosaggio tra persone delle classi popo­ lari, casalinghe, studenti e laici, nonché militanti. Don Mazzi riceve una lettera di simpatia, attentamente sop­ pesata, firmata da 93 colleghi sacerdoti. Nel suo indirizzo di sa­ luto, torna sul tema dell’unità e dell’amore che ha informato tut­ ta la sua attività: «Siamo uniti e ci vogliamo bene perché abbiamo cercato di mettere la nostra vita a servizio degli umili» (Isolotto 1969, pp. 198-201). Benché in perfetta armonia con la sua fede, il discorso è anche una buona mossa politica: infatti, fino a quando è il popolo di Dio ad alzare la propria voce contro la gerarchia, gli attacchi del cardinale possono essere considerati 187

attacchi a tutta la comunità. Come tutti i leader dei movimenti sociali, don Mazzi identifica la propria lotta con quella di un corpo solidale che vede i propri diritti calpestati da un’autorità ingiusta. Il suo quadro di riferimento interpretativo è ancora tra­ dizionale, ma ora è ampliato così da sfidare la Chiesa-istituzione. L’assemblea del 31 ottobre vota una risoluzione in otto punti accettata per acclamazione. In questo documento la comunità si assume la responsabilità degli atti di cui è stato accusato don Mazzi e sottolinea l’unità dei parrocchiani coi loro sacerdoti. Continua con l’ammonire il cardinale che solo perché egli è di­ stante dal suo popolo, può condannarlo, e lo invita a venire a condividere la loro esperienza, che certamente gli chiarirà l’er­ rore dei suoi atteggiamenti (Isolotto 1969, pp. 223-24). La fonte della saggezza è passata dalla gerarchia alla base. 14 novembre. In una lettera ufficiale il cardinale Florit, facen­ dosi forte di citazioni della legge canonica, notifica a don Mazzi che un vescovo non può prendere in considerazione i desideri di una comunità nel tutelare uno dei suoi sacerdoti. Egli rifiuta non solo la posizione di don Mazzi, ma anche quella dei sacerdoti secondo cui i «membri» della Chiesa sono congiuntamente re­ sponsabili delle sue decisioni (Isolotto 1969, p. 233). «La richie­ sta di un incontro del popolo col vescovo, nel particolare presen­ te e nel modo proposto, è contraria al buon ordinamento della comunità ecclesiale» scrive Florit (Isolotto 1969, p. 234). Con­ clude chiedendo un’ultima volta che il «suo» sacerdote riconsi­ deri il proprio atteggiamento (Isolotto 1969, p. 235). Polarizzazione Fine di novembre - inizi di dicembre. La comunità pubblica un nuovo catechismo, Incontro a Gesù (Isolotto 1968), pieno di ri­

ferimenti alla «Chiesa dei poveri» e all’esigenza di lottare contro un mondo governato dal denaro. Il cardinale ne impedisce im­ mediatamente l’adozione, ma degli stralci di esso finiscono per circolare alla Cattolica, dove è utilizzato per chiedere la fine del controllo della Chiesa sull’università e l’abolizione del requisito per cui chi si iscrive a quella università deve essere cattolico (Lumley 1983, p. 193). 4 dicembre. Don Mazzi riceve dalla curia il decreto di sospen­ sione dalla sua carica di sacerdote. Nel suo notiziario del 5 di­ 188

cembre la comunità risponde: «È stato colpito il pastore per di­ sperdere il gregge. Il gregge non si disperderà» (Isolotto 1969, p. 262). I tentativi di mediazione dei sacerdoti della regione e degli studenti sono falliti; in realtà, via via che il conflitto progredisce, le posizioni si cristallizzano, gli outsiders prendono posizione su un versante o sull’altro e le due parti si polarizzano sempre più. La comunità e il cardinale sono in rotta di collisione. L ’a zione collettiva 5 dicembre. La comunità reagisce alla lettera del cardinale pron­

tamente e in tono di sfida, con uno sciopero nelle scuole elemen­ tari e medie del quartiere. La protesta coinvolge tutta la comu­ nità: persino i boy-scout contribuiscono a garantire la parte­ cipazione offrendosi di fare da baby-sitter (Isolotto 1969, p. 263). Nel pomeriggio i bambini, i loro genitori e alcuni insegnan­ ti marciano per le strade del centro cittadino, innalzando dei car­ telli in cui è scritto: Cos’è il popolo nella Chiesa? Tutto! Cosa conta? Nulla! Cosa vogliamo che conti? Qualcosa! Sostano in silenzio davanti alla curia e pregano per il cardi­ nale Florit. Alla fine depositano i loro cartelli dinanzi alla catte­ drale, recitano un Padre Nostro e si dirigono verso la chiesa di S. Maria Novella cantando «Si può rimuovere un prete, non un po­ polo!» (Isolotto 1969, p. 265). Un nuovo quadro di riferimento è stato inventato. 6 dicembre. Il delegato del cardinale, monsignor Panerai, giun­ ge all’Isolotto per dir messa in risposta a quella che afferma es­ sere una richiesta dei fedeli. E accolto da una folla ostile e da cartelli in cui è scritto «Per contentare cinquanta fedeli, ne avete offesi diecimila» (Baldelli 1969, p. 141). Dopo quello che la co­ munità descrive come «un lungo colloquio di oltre due ore con la gente», Panerai «si convince» a non officiare la messa e a tornare indietro (Isolotto 1971, p. 110). 7 dicembre. In un’assemblea che si svolge nella chiesa dell’Isolotto viene individuato un gruppo di estranei, che vengono co­ stretti ad andarsene, e il fatto viene pubblicizzato in una nuova lettera al cardinale. L’8 dicembre una nuova messa viene annul­ 189

lata, e sotto una pioggia battente un lungo corteo sfila per le strade principali di Firenze, dopo aver attraversato i quartieri più poveri lungo l’Arno. Di fronte alla curia viene recitato un altro Padre Nostro. La marcia viene seguita da poliziotti in bor­ ghese (Isolotto 1969, p. 276). Quegli estranei, si viene a scoprire, non sono semplicemente dei curiosi: sono noti elementi della de­ stra cittadina. Con la denominazione di Movimento anticomu­ nista cattolico, cercheranno successivamente di incriminare cin­ que dei dimostranti per aver «promosso dimostrazioni non autorizzate» e per «oltraggio alla religione di Stato» («La Nazio­ ne», 27 maggio 1968). 20 dicembre. Il conflitto non è passato inosservato nelle alte sfere. Don Mazzi riceve una lettera firmata dal papa in cui gli si chiede di riconciliarsi col cardinale entro Natale. I tre sacerdoti, insieme ad un gruppo di parrocchiani, vanno a Roma a chiedere udienza al pontefice. Sono ricevuti da monsignor Benelli, poi dal sostituto segretario di Stato vaticano, che dice che il papa è in­ disposto e chiede loro di ritrattare, cosa che essi rifiutano ancora una volta di fare («La Nazione», 22 dicembre, p. 15; Isolotto 1969, pp. 281-94). Vigilia di Natale. Dopo la sospensione di don Mazzi, la messa è stata celebrata da un sacerdote della curia in una piccola cappella fuori dal quartiere (Isolotto 1969, pp. 279-80). Un delegato del cardinale arriva all’Isolotto accompagnato da un funzionario del­ la curia e uno della prefettura (è la prima volta che lo Stato è attivamente coinvolto) per assumere la responsabilità della chie­ sa. Don Mazzi è assente, cosicché il passaggio di carica non può essere effettuato, ma essi promettono di tornare il giorno dopo, che è poi il giorno della nascita di Cristo («La Nazione», 27 di­ cembre, p. 11). Giorno di Natale. La chiesa è stipata di abitanti del quartiere, molti dei quali normalmente non sono praticanti, ma sono venuti per sostenere don Mazzi. Vengono letti dei passaggi della Bibbia, ma in segno di protesta contro le azioni della gerarchia, la messa non viene celebrata. Quella sera si tiene una veglia di preghiera sul sagrato antistante la chiesa (Taurini 1968, p. 813). Domenica, 29 dicembre. Monsignor Alba, inviato dal cardinale per celebrare la messa, entra nella chiesa gremita di quasi mille sostenitori di don Mazzi. E accompagnato dal delegato del car190

dinaie e — cosa sorprendente — da individui che successivamen­ te vengono riconosciuti come militanti del Msr. Essi circondano il sacerdote quasi a proteggerlo e rispondono alla messa a voce alta, mentre i sostenitori di don Mazzi, che simbolicamente ri­ volgono la schiena all’altare, leggono la Bibbia. I leader della co­ munità formano una specie di cordon sanitaire tra i propri seguaci e la guardia del corpo di Alba per impedire che dentro la chiesa avvengano degli incidenti. Cantano a voce alta superando quella del sacerdote: «Celebrare la messa in queste condizioni è un sa­ crilegio, un’offesa, una sfida, una provocazione» (Isolotto 1971, pp. 111-14; «l’Unità», 30 dicembre 1968). Quello stesso giorno un funzionario del Msi si reca in tribunale a denunciare l’inter­ ruzione della messa (Isolotto 1971, pp. 115-16). La scoperta presenza dell’estrema destra rende impossibile alla sinistra rimanere ancora in silenzio. Già dal mattino succes­ sivo appaiono sui muri della città dei manifesti firmati dal Pei, dal Psi e dal P siup, in cui si denuncia la presenza della polizia all’Isolotto e si avverte che le forze democratiche e antifasciste della città non tollereranno la provocazione fascista (Isolotto 1971, pp. 120-21). 31 dicembre. La chiesa viene formalmente trasferita sotto la re­ sponsabilità della curia («La Nazione», 2 gennaio 1969). A que­ sto segue, il giorno di Capodanno, un raduno in piazza San Pietro a Roma per protestare contro l’azione della gerarchia e per ri­ chiedere delle riforme nella Chiesa («Corriere della Sera», 2 gen­ naio 1969). Ora la serie di incidenti dell’Isolotto si è inserita in una struttura nazionale di conflitto che divide sinistra e destra, clericali e anticlericali e, per certi versi, Chiesa e Stato. Vengono presentate delle interrogazioni in Parlamento e inizia una lunga battaglia giudiziaria, che terrà l’argomento sui giornali per oltre un anno. 4 gennaio 1969. Un gruppo che si autodefinisce «Squadre d’a­ zione fiorentine» strappa dei manifesti della sinistra e affigge un proprio manifesto sulla porta della chiesa (Isolotto 1971, pp. 123-24). In esso è scritto: Viva l’Esercito, Viva le Forze dell’ordine pubblico, Viva l’Italia Attraverso una sequenza di azioni e reazioni all’interno della comunità e della gerarchia ecclesiastica, e attraverso il coinvol­ gi

gimento successivo della stampa e di alleati e avversari esterni che contribuiscono a polarizzare la lotta e a dare un pubblico attivo a un messaggio ideologico più ampio, un conflitto tra un parroco e il suo vescovo si è cristallizzato in un movimento di respiro nazionale. Per tutto l’inverno e la primavera del 1969 l’azione si trasferirà nei tribunali, dove verranno giudicati — con soddisfazione totale della comunità — gli incidenti di dicembre e gennaio9. Ma l’azione collettiva che avrebbe dato al movimen­ to il suo marchio permanente — a simbolizzare il desiderio di giustizia del popolo posto a confronto con un’autorità ingiusta, e che avrebbe dato al movimento una forma organizzativa per il futuro — è ancora da venire.

3. La messa in piazza Maggio 1969. La prima mossa è del cardinale Fiorii, il quale

nomina due nuovi sacerdoti che dovranno prendere carica all’Isolotto il febbraio successivo. Egli però non osa ancora aprire la chiesa, nel timore che si ripetano gli incidenti dell’inverno pre­ cedente («La Nazione», 28 maggio 1968, p. 6). Uno dei nuovi sacerdoti, con il suo accento veneto, nota che «Non c’è niente di cristiano e niente di religioso» nell’esperienza della comunità dell’Isolotto (Taurini 1969&, p. 531). Luglio 1969. I fedeli decidono di tenere una preghiera sul sa­ grato dinanzi alla chiesa parrocchiale. Invitano un sacerdote di Prato a celebrarvi una messa («Corriere della Sera», 11 luglio 1969; Taurini 1969&, p. 531). Il cardinale risponde minacciando 9 II 14 gennaio l’autorità giudiziaria inviò una comunicazione a undici laici e a cinque sacerdoti per istigazione a delinquere, quando ai primi di dicembre ave­ vano impedito pubblicamente la celebrazione della messa («La Nazione», 15 gen­ naio 1969, p. 1). In risposta a questa oltre mille persone firmarono una lettera in cui affermavano la loro corresponsabilità per il boicottaggio della messa (Isolotto 1971, p. 133). Benché le questioni legali siano andate avanti per mesi, mante­ nendo il caso davanti al pubblico e nella stampa nazionale e portando a proteste in tutto il paese, la Chiesa e i suoi sostenitori ottennero poca soddisfazione dal tribunale. I sei organizzatori della dimostrazione del 5 dicembre furono assolti su richiesta del ministro della Giustizia («La Nazione», 24 maggio 1969, p. 11). Dei firmatari della lettera di «corresponsabilità», la maggior parte fu amnistiata e gli altri — cinque sacerdoti e quattro laici — successivamente furono assolti («La Nazione», 6 luglio 1969, p. 1; «l’Unità», 6 luglio 1969, p. 5).

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di sospensione a divinis qualsiasi sacerdote che accetti l’invito (Taurini 1969&, p. 532). La comunità risponde che tutti i suoi sacerdoti continueranno a rifiutarsi di celebrare la messa, ma che accoglierà «tutti coloro che vogliono portare testimonianza tra noi (anche se questo li assoggetta alla persecuzione), alla Chiesa che ha il suo fondamento nello spirito di Cristo» (Taurini 1969b, pp. 533-34). Le trattative tra i leader della comunità e i rappresentanti del cardinale si trascinano per tutta l’estate. A un certo punto Florit invita don Mazzi e i suoi assistenti a venire a vivere con lui nella curia. Agli inizi di agosto la situazione sembra migliorare quando un gruppo di sacerdoti progressisti, dopo un incontro a Camaldoli, cerca di arrivare a una riconciliazione (Taurini 1969&, pp. 538-40). «Qual è quel padre — chiedono al cardinale — che, quando i figli gli chiedono un pane, dà loro una pietra?»10. 30 agosto. Mentre procedono queste trattative il cardinale stu­ pisce sia i suoi sostenitori che gli oppositori annunciando che il giorno dopo si recherà nel quartiere, riaprirà la chiesa e celebrerà egli stesso una messa. In un incontro tenuto a mezzanotte la comunità risponde con una dichiarazione stilata in tutta fretta in cui si ammonisce il cardinale che la sua azione sarebbe irrever­ sibile. Viene inoltre tenuta una veglia notturna dinanzi alla curia. Quando, il mattino successivo, gli viene letta questa dichiarazio­ ne, il cardinale (secondo il documento pubblicato dalla comunità) risponde: «Questo documento è una minaccia marxista. Voi non siete una comunità cristiana [...] voi siete al di fuori della Chiesa perché siete contro di me [...] chiunque è contro il proprio vescovo è al di fuori della Chiesa [...] abbiate il coraggio di ammettere che avete lasciato la Chiesa» (Taurini 1969&, p. 547). Domenica, 31 agosto. Alle dieci il sagrato della chiesa dell’Isolotto comincia a riempirsi. Quando viene letta ad alta voce la recisa lettera del cardinale, la folla risponde indignata. Viene presa l’unanime decisione di non entrare in chiesa mentre egli celebra la messa. Alle undici arriva il cardinale, protetto da po­ liziotti in borghese e in uniforme, ed entra nella chiesa, riempita 10 Almeno uno di questi sacerdoti è convinto che nessuna delle due parti voleva una riconciliazione, dato che il compromesso offerto a Camaldoli venne rifiutato da entrambi (colloquio con padre Ernesto Balducci, Fiesole, 18 novem­ bre 1985).

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ormai da alcune centinaia di tradizionalisti. Terminata la messa, nel riattraversare il sagrato, Fiorii è accolto da un gelido silenzio. Viene indetto un digiuno fino a sera («La Nazione», I o settem­ bre 1969). La sospensione dei tre sacerdoti è ormai divenuta inevitabile, e così essi e i loro fedeli sostenitori trasferiscono definitivamente la propria attività all’esterno della chiesa. La domenica successi­ va, alla presenza di oltre mille persone, un sacerdote proveniente da una comunità religiosa di Torino tiene un battesimo e celebra una messa sul sagrato (Taurini 1969b, p. 557). Da allora ogni domenica di fronte alla chiesa dellTsolotto si tiene un’assemblea. La «messa» sulla piazza segue un rituale ben definito. Quando nel 1985 vi abbiamo partecipato, Enzo Mazzi o un suo stretto collaboratore, Sergio Gomito, cominciavano con un indirizzo di saluto generale; veniva poi presentato un argo­ mento preparato e discusso in un’assemblea regolarmente tenuta ogni giovedì sera, spesso con la partecipazione di gruppi esterni. Seguiva poi una discussione, degli annunci generali e per finire veniva tenuta la parte religiosa del raduno, nella quale era offerta l’ostia a tutti coloro che la desideravano. La messa sul sagrato — celebrata per la prima volta tanti anni fa come deliberata sfida a un’autorità ingiusta — divenne il sim­ bolo centrale e il principio organizzativo della vita e del signifi­ cato futuri della comunità. La sua ripetizione ogni domenica ri­ consacra il gruppo, gli permetterà di continuare ad attrarre sia i membri disillusi della Chiesa che altri, fornirà un ambito nel qua­ le può essere trattata tutta una varietà di temi. Come il ciclo di protesta da cui ebbe origine, anch’essa è di tipo partecipativo, tesa a sfidare ed espressiva; ma, come quasi tutti i movimenti di quel ciclo, è programmata, strategica e politica. Rievoca in forma rituale l’incontro iniziale della comunità con un’autorità ingiu­ sta, impersona la solidarietà del gruppo, rende il suo rituale di­ sponibile ad altri, gli permette di continuare come movimento istituzionalizzato.

4. Religione, politica e nuovi movimenti sociali Come molti «nuovi» movimenti sociali, i membri della comu­ nità dellTsolotto affermano di non aver voluto un impegno par­ 194

titico e negano che la loro azione sia stata in alcun modo politica. Ma già nel 1969 don Mazzi e i suoi sostenitori indirizzavano le loro attività a obiettivi familiari nel movimento sociale al di fuori della Chiesa. Il 28 novembre 1969, per esempio, arrivarono di mattina presto in un appezzamento di terreno incolto ai margini della città, vi accesero un fuoco, issarono un grande cartello che diceva «Dancing no, scuole sì» e prepararono una colazione per sé e gli abitanti del quartiere. Quell’appezzamento di terreno era stato approvato dal comune come sede di un night-club, mentre don Mazzi e i suoi seguaci chiedevano che in sua vece venisse costruita una scuola («Corriere della Sera», 29 novembre 1969). In almeno tre modi l’esperienza della comunità dell’Isolotto fece parte di un ciclo nazionale di protesta politica: innanzitutto, come abbiamo visto nei capitoli VI e VII, durante questo perio­ do cominciava a circolare nella società italiana un nuovo quadro di riferimento, nel quale erano ampiamente diffusi i temi del­ l’autonomia, della democrazia di base e della resistenza alle au­ torità. Questo nuovo quadro si diffuse anche all’interno della Chiesa: persino le tattiche cui si ricorse contro il cardinale di Firenze — l’assemblea, la veglia, la controinformazione — erano le stesse usate contemporaneamente contro chi amministrava le università in quel periodo. In secondo luogo, le mosse tattiche del movimento, le sue alleanze e i suoi avversari seguirono anch’essi una logica politica. Oltre a reclutare sostegno dalla vecchia componente De di La Pira, le proteste della comunità si guadagnarono il consenso dei militanti comunisti e socialisti, di piccoli ma sempre più nume­ rosi gruppi di militanti dell’estrema sinistra, alcuni dei quali fi­ niranno per apparire nelle organizzazioni della sinistra extrapar­ lamentare dei primi anni Settanta11. Per finire, fu attraverso un processo politico di mobilitazio­ ne, di interazione e di sfida politica che la comunità dell’Isolotto si trasformò da piccola setta in movimento sociale, parallelamen­ te a quanto stava avvenendo a gruppi laici nelle fabbriche e nelle università nello stesso periodo. Il ruolo involontario che ebbe in questo processo la stampa conservatrice, in particolare «La Nazione», è già stato sottoli­ neato. Ancor più importante fu l’unità politica che venne alla comunità dal suo conflitto con la Chiesa12. L’esperienza dell’I­ 11 Baldelli, per esempio, successivamente divenne direttore responsabile di «Lotta continua». 12 Come disse un membro della comunità: «Dovete riconoscere che il cardi-

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solotto fu ulteriormente politicizzata dagli sforzi dei gruppi esterni di acquisire da essa dei vantaggi politici: in primo luogo l’emergente sinistra extraparlamentare, poi i neofascisti e, per finire, la sinistra tradizionale. La storia del dissenso religioso in Italia illustra così l’influen­ za di un ciclo di protesta su un preesistente movimento. Nel cor­ so di esso gli attivisti dellTsolotto ottennero il sostegno sociale degli operai, degli studenti e degli abitanti non religiosi del quar­ tiere. Attrassero alleati politici e impiegarono le tattiche che ave­ vano appreso dal movimento studentesco. Durante questo pro­ cesso il loro messaggio venne allargato, trasformato e secolariz­ zato: dal mero diritto di partecipare agli affari della Chiesa al­ l’autonomia dall’autorità. Durante i cicli di protesta, infatti, an­ che i vecchi movimenti all’interno delle istituzioni più vecchie diventano nuovi. naie ha fatto tutto quello che ha potuto per unirci, ci ha aperto la strada» («Il Ponte» 1971, p. 638).

IX LA SINISTRA EXTRAPARLAMENTARE

Una scuola di pensiero sociologico — che deve molto a We­ ber e Michels — considera l’organizzazione antitetica al movi­ mento. Per gli autori di questa scuola, i movimenti sono una «mi­ steriosa scintilla» che permette alla massa di «superare la soglia della vita organizzativa» (Lowi 1971, p. 40). I movimenti sono contrassegnati da azioni espressive, norme emergenti ed entusia­ smo contagioso; lo sono molto meno dal calcolo politico e dagli interessi dei loro appartenenti. La nascita dei movimenti è con­ trassegnata da uno statu nascente nel quale le regole consuetudi­ narie del comportamento sociale sono momentaneamente sospe­ se (Alberoni 1968). Per questa scuola di pensiero, l’organizzazione svolge un ruo­ lo negativo nei movimenti sociali, perché non fa che spingerli nella routine e soffocare la loro creatività. Zald e Garner (1987, p. 121) così riassumono questa concezione: quando un movimen­ to «raggiunge una base economica e sociale nella società, via via che la leadership carismatica originaria viene sostituita, emerge una struttura burocratica e si verifica un generale adattamento alla società». Ma questo processo di istituzionalizzazione dei movimenti sociali non è inevitabile, e nemmeno lineare. Persino la «spon­ taneità» spesso osservata nei movimenti sociali emergenti può assumere una forma organizzata. Rosenthal e Schwartz (1987, p. 2), per esempio, sostengono che è caratteristico di alcuni tipi di gruppi utilizzare la spontaneità come forma organizzativa tipica. Abbiamo visto esempi di questo nel movimento degli studenti universitari (cfr. supra, cap. VI) e in quello dell’Isolotto (cfr. supra, cap. Vili). Le organizzazioni, inoltre, non si limitano ad appropriarsi di movimenti spontaneamente creati; come abbiamo visto nei ca197

pitoli precedenti, esse svolgono un ruolo importante nella for­ mazione e diffusione di questi movimenti. Se un movimento so­ ciale nasce spontaneamente, le organizzazioni possono effet­ tivamente costituire una forza istituzionale nel momento in cui cercano di appropriarsene e di incanalarlo. Ma molti movimenti non sono che un prodotto di campagne di mobilitazione condotte da un’organizzazione. In questi casi il ruolo dell’organizzazione nello sviluppo del movimento tenderà ad essere molto diverso da un processo di istituzionalizzazione. L’organizzazione che si è sviluppata utilizzando la protesta per diffondere la propria in­ fluenza, infatti, tenderà più ad essere una forza perturbativa che istituzionalizzante. Le organizzazioni possono essere presenti nello sviluppo dei movimenti sociali in tre modi diversi: innanzitutto, nel contesto istituzionale all’interno del quale si verifica la protesta (l’orga­ nizzazione della vita di tutti i giorni o quella fornita dalle istitu­ zioni «ospitanti»); in secondo luogo attraverso i gruppi esterni che cercano di organizzare l’azione collettiva; in terzo luogo at­ traverso le forme stesse assunte dall’azione collettiva, forme che spesso diventano il quadro di riferimento di future organizzazio­ ni di movimento. Questo non significa affermare che la creati­ vità o l’ispirazione spontanea siano assenti nella costituzione dei movimenti sociali, ma solo che spesso viene preso per sponta­ neità qualcosa che in realtà è il prodotto di interazioni fra un’or­ ganizzazione e la sua base di massa. Le organizzazioni, inoltre, sono d’importanza cruciale per la diffusione della protesta e dunque dei movimenti che la utiliz­ zano. Sia le organizzazioni preesistenti che quelle che si costi­ tuiscono durante la fase emergente di un movimento di protesta ricorrono alla diffusione della protesta stessa per accrescere la propria influenza. In realtà, la diffusione della protesta è quasi l’unico strumento di cui i movimenti dispongono per farlo. L’or­ ganizzazione e il conflitto, che è la loro forma d’azione più ca­ ratteristica, non sono in linea teorica due fenomeni opposti. Negli scritti sull’azione collettiva la diffusione della protesta è spesso vista come un’onda che si propaga in fasi successive a partire dall’epicentro, come in un terremoto, alla sua periferia. Ma questa immagine è troppo automatica e regolare. Nel XIX secolo, la grande epoca dei movimenti sociali, gli organizzatori si resero conto della necessità di diffondere la protesta, per otte­ nere sostegno dalle masse. Per far questo essi ampliarono le pro­ prie organizzazioni, ma non lungo ondate che si andavano rego­ larmente espandendo verso l’esterno, bensì lungo linee geogra­ 198

fiche e di classe all’interno delle quali trovavano la propria base. Così un’organizzazione, ben lungi dall’essere antitetica a un mo­ vimento, fu sin dagli inizi centrale per la diffusione della sua attività più caratteristica, la protesta. C’è ancora un’altra ragione per la quale le organizzazioni so­ no d’importanza cruciale nella diffusione della protesta: la com­ petizione tra le organizzazioni di movimento sociale per ottenere il sostegno della base le porta a diffondere la protesta. È raro che il settore del movimento sociale sia monopolizzato da una singola organizzazione (Zald e Garner 1987, p. 127). Più spesso, quando appare un potenziale di mobilitazione, svariati gruppi si costitui­ scono intorno allo stesso tema e agli stessi obiettivi, e competono per ottenere il sostegno di una medesima base. Il conflitto ideo­ logico è una delle forme che assume questa loro competizione; un’altra è la competizione per ottenere l’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa. Col tempo, e in particolare con il pro­ gressivo declino della mobilitazione, le organizzazioni di movi­ mento competono tra le masse per avere sostenitori ricorrendo a forme d’azione collettiva originali e più innovative. Questo pro­ cesso d’innovazione tattica competitiva effettuato dalle organiz­ zazioni di movimento sociale costituì una delle principali forze nella diffusione della protesta in Italia e nella sua successiva so­ stituzione con un ciclo di violenza. La mappa delle organizzazioni della sinistra extraparlamen­ tare italiana era variegata e mutevole. Molte di esse ripropone­ vano in linea teorica il tema leninista del «Che fare?», mentre nella pratica operavano come quei gruppi dediti unicamente al dibattito, tanto criticati da Lenin. Altre si impegnavano preva­ lentemente alla diffusione della loro linea, dapprima attraverso opuscoli e ciclostilati, e poi sempre più attraverso libri e riviste. Quelle più organizzate rivolsero i propri sforzi a diffondere a nuovi sostenitori, attraverso la protesta, le lotte iniziate nel 1967-68. Per svolgere questa attività avevano bisogno di un’or­ ganizzazione. La funzione dell’organizzazione, a quel punto, non era quella di soffocare e rendere di routine la protesta, quanto di riprodurla e diffonderla, e di renderla arma più efficace nella ri­ cerca di nuovi spazi politici. Molti degli episodi di protesta si diffusero come una vampata d’incendio alla base della società italiana; altri erano più chiara­ mente organizzati; molti — come quelli dell’Isolotto — erano l’esito di una combinazione di spontaneità e organizzazione. Se dopo il 1968 vi fu un cambiamento fondamentale, fu nel senso che ora nel paese si andavano costituendo molti più gruppi or­ 199

ganizzati, che erano in competizione per guadagnarsi il consenso della base e cercavano di diffondere la mobilitazione a nuovi set­ tori. Il modo più facile per seguire la competizione tra i gruppi extraparlamentari è quello di esaminare le fonti scritte. Questi gruppi discussero a lungo in assemblee e congressi interminabili, che un gruppo talvolta abbandonava o attaccava, quando le sue posizioni erano bocciate (Bobbio 1979, p. 52). Si attaccavano reciprocamente sui giornali, con volantini e manifestini pieni di condanne per gli errori dei compagni, e talvolta nelle strade. Ma l’ambito più importante della loro competizione fu la diffusione della protesta a nuove aree e settori, dove potevano dimostrare il proprio coraggio, la propria energia e il sostegno che davano alle richieste dei soggetti sociali che corteggiavano. La competizione tra i gruppi seguiva tre assi: tra organizza­ zioni di movimento sullo stesso versante dello spettro ideologico; tra organizzazioni di sinistra e di destra su sponde opposte di un conflitto; tra organizzazioni di movimento e partiti o sindacati. La parabola della competizione variò in senso inverso a quello della mobilitazione in generale: durante la fase ascendente del ciclo, si costituirono nuovi gruppi in risposta alla disponibilità di una base alla mobilitazione; via via che questa disponibilità andò diminuendo, il «mercato» dell’attività del movimento sociale si andò restringendo e gli organizzatori cercarono di scavalcarsi a vicenda nella competizione per il sostegno della base. Il risultato fu una crescente intensità del conflitto, l’espressione ultima della quale fu alla fine del ciclo la violenza organizzata. In questo capitolo inizierò col delineare alcuni dei meccani­ smi principali della diffusione della protesta, specificando il ruo­ lo che le organizzazioni della sinistra extraparlamentare svolsero all’interno di essi. Successivamente esaminerò il ruolo della stampa — sia borghese che di movimento — nella diffusione del­ la protesta. Mi rivolgerò poi allo sviluppo organizzativo dei prin­ cipali gruppi della sinistra extraparlamentare. Per finire sotto­ porrò a verifica il concetto che l’organizzazione e la competizio­ ne fra le organizzazioni di movimento furono corollari diretti della diffusione dell’azione collettiva e dunque dell’ascesa e ca­ duta del ciclo di protesta.

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1. Diffusione spontanea e diffusione mirata La prima diffusione della protesta fu in larga misura visibil­ mente spontanea: gli studenti tornavano a casa, nelle città di pro­ vincia, e portavano con sé il messaggio del movimento studen­ tesco; altrettanto facevano gli operai immigrati dei paesi del Sud quando tornavano a casa in vacanza; alcune rivolte di detenuti assunsero la forma tradizionale di tumulti aspecifici; i pendolari bloccavano i binari quando i ritardi dei treni li facevano arrivare in ritardo al lavoro; i senzatetto occupavano case private non abitate e ne chiedevano l’acquisizione da parte del comune; i gio­ vani protestavano per il costo dei biglietti dell’autobus o dei con­ certi rock cercando con la forza di entrare gratis. Cominciamo con il passare in rassegna alcuni dei più comuni processi di dif­ fusione spontanea, prima di rivolgerci al ruolo dell’organizzazio­ ne. Diffusione spontanea

La protesta si diffuse spontaneamente attraverso l’imitazio­ ne, il confronto, il trasferimento di forme e temi di protesta da un settore all’altro, e attraverso la reazione diretta delle persone i cui interessi erano stati colpiti dalle proteste precedenti. Questi sono i processi che assomigliano più da vicino a ciò che i teorici classici considerano spontaneità. Un breve esame di questi mec­ canismi ci darà un’idea delle loro caratteristiche peculiari e del modo in cui potevano operare. Imitazione. La forma più semplice di diffusione si ebbe quando delle persone imitavano le forme e i temi di protesta appresi da altri. Quella che la stampa chiamava «microconflittualità» sem­ brò diffondersi rapidamente nella società italiana, attraverso l’assenteismo, i piccoli furti, gli atti d’insubordinazione, le azioni di sabotaggio industriale e una generale indisponibilità ad accet­ tare che le proprie richieste venissero rifiutate. Gli scioperi per la casa che colpirono i progetti di edilizia pubblica di Milano dal 1968 in poi furono un esempio di imitazione; il faticoso lavoro degli organizzatori non poteva spiegare da solo la rapidità e l’e­ stensione del fenomeno nel suo spostarsi da un’area di edilizia pubblica all’altra (Sbragia 1974, p. 266). La protesta poteva diffondersi anche là dove non esisteva 201

nessun manifesto meccanismo di comunicazione, per esempio nelle prigioni, dove un’ondata di rivolta portò la protesta nell’i­ stituzione più isolata della società italiana. Come potevano grup­ pi di detenuti privi di istruzione e d’organizzazione imparare a utilizzare le stesse forme di protesta — come appiccare incendi e salire sul tetto delle carceri — se non attraverso una sorta di tam-tam alla base della società italiana? L’imitazione è la spie­ gazione più probabile per la rapida diffusione di questo tipo di comportamento. Confronto. Un meccanismo collegato al precedente fu il con­ fronto: vi furono continui scioperi perequativi (Regalia, Regini e Reyneri 1978) da parte di gruppi di operai che avevano perso il loro vantaggio salariale relativo quando erano state accolte le ri­ chieste degli operai che ricevevano un salario inferiore; vi furono anche proteste degli impiegati nelle fabbriche in cui i lavoratori manuali stavano riducendo il gap salariale. Anche in piccole fab­ briche sino ad allora non organizzate e nelle regioni periferiche ci furono scioperi perequativi, con concessioni salariali simili a quelle che erano state strappate nelle grandi industrie del trian­ golo industriale. La diffusione attraverso il confronto, così come quella attraverso l’imitazione, richiedeva solo che la gente leg­ gesse i giornali o venisse a sapere di bocca in bocca che cosa ave­ vano ottenuto attraverso lo sciopero gli altri gruppi. Trasferimento di tattiche. La protesta fu anche diffusa dal tra­ sferimento, da un settore o da una regione all’altra, di una forma d’azione riuscita. Alcune tattiche erano applicabili solo nell’am­ bito istituzionale in cui erano nate, ma la maggior parte di esse poteva saltare da un settore o da una regione all’altra. Abbiamo visto nel capitolo V ili come le tattiche del movimento studen­ tesco cattolico furono adoperate dal movimento dei cattolici del dissenso. Per prendere un esempio più specifico: i blocchi delle linee ferroviarie, come quello di Pisa del maggio 1968, vennero usati ripetutamente in svariate circostanze. Nel marzo 1969 gli studenti a Reggio Calabria ricorsero ad esso come uno dei primi atti di quella che sarebbe divenuta la protesta regionale più vio­ lenta del Sud contro l’istituzione dei nuovi governi regionali (Malafarina et al. 1972, p. 5). Reazione diretta. La protesta venne anche diffusa dalla reazio­ ne di un gruppo alle azioni di un altro gruppo le cui proteste avevano influenzato negativamente i suoi interessi. La controdi202

mostrazione a Genova a proposito del trasferimento dei cantieri navali di Trieste fu uno dei molti esempi di diffusione per rea­ zione. Un altro esempio si verificò durante il dibattito nazionale sul divorzio: le dimostrazioni di gruppi a favore del divorzio di fronte al Parlamento fecero scattare una serie minore di proteste antidivorzio da parte dei cattolici tradizionalisti. E a Reggio C a­ labria le dimostrazioni per chiedere che il capoluogo regionale fosse insediato in quella città provocarono delle controdimostra­ zioni a Catanzaro. Diffusione mirata Ma anche questi atti «spontanei» furono spesso diffusi attra­ verso mezzi mirati. Le rivolte nelle carceri ben presto comin­ ciarono a generare richieste simili in regioni molto lontane, a di­ mostrare che molto difficilmente potevano essere definite spon­ tanee. La tattica del blocco dei binari fu fatta propria dai gruppi organizzati per dare pubblicità alle loro richieste. Le occupazioni di case finirono con l’essere organizzate dai gruppi extraparla­ mentari, e chi effettuava l’autoriduzione dei biglietti dell’auto­ bus o delle bollette stava consapevolmente applicando a un nuo­ vo contesto una delle armi più efficaci del movimento nelle fab­ briche. La competizione tra Reggio Calabria e Catanzaro per la sede del capoluogo regionale, nel 1970, è un esempio dell’inadegua­ tezza del concetto secondo cui la protesta si diffonde spontanea­ mente. Benché in entrambe le città molti degli atti di violenza fossero spontanei, questi atti si verificarono nel contesto di cam­ pagne politiche bene organizzate, e ben presto attirarono gli or­ ganizzatori del movimento. La «rivolta» di Reggio, per esempio, fu acquietata quando il sindaco indisse un comizio per protestare contro l’imminente scelta di Catanzaro come capoluogo (Malafarina et al. 1972). Una volta esplosa, la rivolta attrasse rapida­ mente «una gestione da parte della destra» (Ferraris 1970), che i partiti della sinistra e i sindacati furono prontissimi a combatte­ re. Persino un gruppo extraparlamentare settentrionale come Lotta continua cercò di trarre vantaggio dal potenziale di mobi­ litazione rivelato dal caso di Reggio. Le forme di protesta sin qui descritte nacquero talvolta spon­ taneamente, ma non passarono automaticamente da un settore all’altro o da una regione all’altra. Il più delle volte furono dif­ fuse da organizzatori che utilizzavano le esperienze e le capacità 203

organizzative acquisite nel corso delle lotte per dar forza e con­ sistenza alla protesta in atto altrove. La diffusione della protesta ebbe sin dall’inizio una forte componente organizzativa. Diffusione da parte di gruppi di interesse. Alcune delle organiz­ zazioni responsabili della diffusione della protesta non erano nemmeno dei movimenti, ma tradizionali associazioni di interes­ si che cominciarono a prestare le loro risorse alla mobilitazione quando apparvero chiari i vantaggi che essa offriva e quando co­ minciarono ad essere sfidate da nuove organizzazioni di movi­ mento. Già nel 1967, quando le associazioni dei medici indissero scioperi contro il sistema mutualistico, furono i sindacati, in as­ senza di associazioni di malati, a rispondere per primi. Quando la riforma pensionistica trovò un posto nel programma legislati­ vo, anche le associazioni di pensionati, oltre ai sindacati, se ne sentirono toccate. L’interesse dei sindacati per le pensioni fu co­ stante, e venne ricompensato con l’assegnazione a funzionari dei sindacati di posizioni di responsabilità nel nuovo sistema sanita­ rio. I sindacati affrontarono anche il problema della casa e altri problemi urbani chiedendo case migliori e servizi migliori per gli operai e per le unioni di inquilini in tutte le principali città (Da­ niele 1978; Alemanni et al. 1974). E via via che gli abitanti delle città appartenenti alle classi popolari e i gruppi ai sinistra fecero propria la causa di migliori abitazioni mettendo in atto aggres­ sive occupazioni di case, la sinistra tradizionale costituì il proprio sindacato inquilini, il S u nia , che ricorse a tattiche più istituzio­ nalizzate per conseguire alcuni di quegli stessi obiettivi. In un’altra area, la Lega per il divorzio, che per anni aveva pazientemente promosso una legislazione in materia, alla fine de­ gli anni Sessanta cominciò a mettere in atto proteste pubbliche a favore del divorzio. La sua agitazione per ottenere delle riforme alla fine costrinse i comunisti, da sempre preoccupati dell’elet­ torato cattolico, ad assumere un atteggiamento più intrapren­ dente a proposito del divorzio. La presenza del ciclo ampliò il ricorso alla protesta per mobilitare dei seguaci anche nei tradi­ zionali «vecchi» movimenti sociali. La diffusione all’interno delle istituzioni ospitanti. La protesta si diffuse anche all’interno delle istituzioni, spesso contro la loro volontà, come abbiamo visto nel caso della Chiesa. I sindacati — in particolare quelli tradizionalmente militanti, come quello dei metalmeccanici — svolsero anch’essi il ruolo di ospiti istituzio­ 204

nali in quelle regioni in cui l’operaismo era una forza più potente della fedeltà ad un’istituzione (Golden 1988). Anche nel Pei un gruppo dissidente come quello del «Manifesto» cercò di utilizza­ re la posizione nel partito per pubblicizzare la propria linea, sino a quando, nel 1969, non fu radiato. La rivolta nelle carceri è un altro esempio dei modi in cui l’istituzionalizzazione può involontariamente contribuire alla diffusione della protesta. Per fermare le rivolte iniziate alle Nuo­ ve di Torino e a San Vittore a Milano, e per punire i detenuti ribelli separandoli dalle famiglie, le autorità li trasferivano in al­ tre carceri in punti diversi del paese. Di conseguenza i temi e le forme d’azione comparsi per la prima volta nelle due città del Nord si diffusero nelle carceri dell'Italia centrale e meridionale attraverso i detenuti in esse trasferiti. Gli agenti della diffusione non furono solo i militanti extraparlamentari detenuti per atti­ vità politica illegale, ma anche detenuti comuni trasferiti a Vol­ terra o a Poggioreale come punizione per aver partecipato alla rivolta nelle carceri (Invernizzi 1973). Le organizzazioni di movimento. Il mezzo più importante attra­ verso il quale si diffuse la protesta furono le nuove organizzazio­ ni di movimento emerse nel 1968-69 dal movimento studentesco universitario. Queste puntavano la loro attenzione in particolare sulle fabbriche, ma trovandovi i sindacati già ben radicati, si ri­ volsero anche ad altri problemi: l’ambiente, le minacce al posto di lavoro, la salute, la sicurezza, le condizioni di ospedali e ma­ nicomi, il malessere delle reclute nell’esercito e, in particolare, la realtà urbana. Niente confuta più efficacemente l’accusa di uto­ pismo rivolta al movimento studentesco del fatto che i suoi primi militanti affrontarono i temi concreti che angustiavano la società italiana: inadeguati servizi abitativi e urbani, speculazione edili­ zia sfrenata, mancanza di cliniche e di presìdi sanitari, ospedali vecchi, inumane condizioni nelle carceri. Un’idea sommaria della crescente importanza di questi nuovi gruppi dopo il 1968 ci è data dalla fig. 17, dove riportiamo per ciascun semestre, lungo un arco di otto anni, la loro presenza nei resoconti dei giornali. Sebbene nel 1966-67 essi fossero apparsi raramente, crebbero poi in modo improvviso nel 1968, ebbero un calo relativo agli inizi del 1969 quando esplose il conflitto industriale, ma iniziarono un aumento generale a partire dalla fine del 1969 e per tutto il 1971, per toccare l’apice agli inizi del 1972 e poi cominciare un lento declino. 205

Numero

Semestre

Fig. 17 - Presenza dei gruppi extraparlamentari, dei partiti e delle organiz­ zazioni di massa negli episodi di protesta, per semestre, 1966-73

Dopo la metà del 1969, l’aggressiva presenza di questi gruppi nelle proteste spaventò la stampa borghese e stimolò un backlash nella classe media, ma rivelò un elemento cruciale di debolezza fin dagli inizi: benché l’ascesa di questi gruppi coincidesse con un aumento continuo della progressiva espansione del numero delle proteste (cfr. fig. 1), essa coincise anche con un calo del livello della perturbazione prodotta dalla protesta nei grandi settori, e in particolare con un calo della fase più perturbativa dei conflitti della classe operaia, che cominciò a declinare poco dopo l’autun­ no caldo (cfr. fig. 14). Il dilemma fondamentale di fronte a cui si trovava la sinistra extraparlamentare consisteva nel non disporre di nessun incen­ tivo materiale da offrire a questi operai e nel dover ricorrere alla perturbazione e agli incentivi espressivi che essa offre, proprio nel momento in cui il potenziale di mobilitazione operaia era in calo. Il risultato fu che alcuni settori della sinistra extraparla­ mentare furono attratti all’attività elettorale e politica alla ricer­ ca di incentivi più concreti, mentre altri diedero inizio a una spi­ rale di radicalizzazione delle tattiche per cogliere un potenziale di mobilitazione che erano convinti fosse presente nella classe operaia. Fu la concomitanza tra ascesa della sinistra extraparla­ mentare e declino del potenziale di mobilitazione la ragione del passaggio alla politica istituzionale di alcuni dei suoi segmenti, e del passaggio alla violenza di altri, come vedremo nel capitolo X. 206

2. Diffusione per comunicazione Prima di volgerci, però, alle strategie della sinistra extrapar­ lamentare dovremmo esaminare il ruolo dei mezzi di comunica­ zione di massa, perché è stato sostenuto che in molti paesi essi costituirono un sostituto dell’organizzazione, tanto erano effica­ ci nel comunicare al resto del paese quanto stavano facendo i gruppi extraparlamentari (Gitlin 1980; Oberschall 1973). Fu questa l’accusa che venne rivolta ai mezzi di comunicazione di massa nel corso degli «anni di piombo». Nel valutare questa tesi, tuttavia, è necessario suddividere i mezzi di comunicazione di massa in due settori principali: i media «borghesi» e la stampa di movimento. I mezzi di comunicazione di massa borghesi

Benché generalmente ostile alla perturbazione, dopo il 1968 la stampa quotidiana spesso contribuì a diffondere notizie su nuovi gruppi, simboli e forme di protesta in tutta Italia. Stampa e televisione spesso avevano atteggiamenti ostili nei confronti di chi protestava, generando così proteste secondarie contro la R ai , 0 davanti alle sedi di giornali. Inizialmente i giornali relegarono le informazioni sulle proteste il più lontano possibile dalla prima pagina1, ma via via che l’ondata di protesta acquisì forza la stam­ pa le diede sempre più risalto. Perché? Le ragioni erano molte­ plici. In parte contribuirono a questo cambiamento gli sviluppi professionali nel giornalismo. Durante il movimento degli stu­ denti universitari, la stampa quotidiana mostrò nei loro confron­ ti una stupefacente disinformazione, etichettandoli quasi tutti, indiscriminatamente, come «maoisti». Ma via via che la genera­ zione di coloro che si erano laureati dopo il 1968 entrava nel mercato del lavoro, molti scelsero il giornalismo come professio­ ne. Persino lo staff di alcuni dei giornali principali fu rinnovato con l’immissione di persone che erano state attive nei movimenti del 1967-68 e potevano trovare informazioni di prima mano per 1 loro servizi rivolgendosi a ex-compagni. Non era inusuale che questi ex-militanti di movimento che scrivevano per la stampa 1 Per esempio della prima occupazione dell’università Cattolica di Milano fu data notizia in un minuscolo articolo a pagina 9 del «Corriere della Sera» del 16 ottobre 1967.

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nazionale pubblicassero nei giornali del movimento, sotto pseu­ donimo, degli articoli che i loro giornali si rifiutavano di pubbli­ care. Accanto a questo, svolsero un loro ruolo nel generare una vi­ sione più favorevole dei movimenti alcuni cambiamenti nell’organizzazione della professione giornalistica. Dopo il 1968, tra­ mite la loro associazione, molti giornalisti divennero sempre più combattivi nell’avanzare le proprie richieste professionali agli editori (Porter 1983, cap. VII). Questo poteva solo accrescere la loro simpatia per gli altri che protestavano come loro, nonché favorire un approccio di tipo sindacale nel modo in cui venivano riportate le notizie. Ma ancor prima che avvenisse questo cambiamento di at­ teggiamento, la stampa si era già buttata avidamente su certi tipi di protesta. Gli episodi di violenza, quelli che creavano dei disagi al pubblico o coinvolgevano vasti gruppi di persone, non potevano essere facilmente ignorati da giornali che affermavano di essere al servizio dei loro lettori. Benché i conflitti alla F iat della primavera del 1969 fossero stati ignorati, per esempio, — anche dal rispettabile «La Stampa» di Torino — a luglio, quando scoppiò una vera e propria battaglia tra polizia e operai in corso Traiano (Bobbio 1979, p. 35), la stampa nazionale non potè più ignorarla. La stampa di movimento

L’atteggiamento dei principali mezzi di comunicazione di massa non potè mai esser definito obiettivo verso i movimenti, se non altro perché tendeva a ignorare la sostanza delle loro richie­ ste e a sottolineare la violenza. Ma, almeno in Italia, questo at­ teggiamento negativo costituì un vantaggio cruciale per gli extra­ parlamentari, perché li indusse ad affidarsi a legami informali di comunicazione e a fondare una stampa di movimento che evitas­ se di essere schiava dei mezzi di comunicazione di massa. Questo costituiva una differenza fondamentale tra la sinistra extrapar­ lamentare italiana e quella americana, e può contribuire in parte a spiegare la sua sopravvivenza fino alla fine degli anni Settanta, mentre il movimento americano si dissolse con la fine della guer­ ra del Vietnam. La presenza delle nuove organizzazioni di movimento fu do­ cumentata (e non di rado gonfiata) dai giornali e dalle riviste dei 208

gruppi extraparlamentari. Mentre alla metà degli anni Sessanta si era assistito al nascere di «piccole» riviste e giornali di fabbrica ciclostilati, gli anni successivi al 1968 videro la nascita di giornali locali e riviste di buona fattura. «Servire il popolo», «Avanguardia operaia», «La Classe», «Il Manifesto» e «Lotta continua» furono tutti fondati durante gli anni successivi al picco della metà del 1968. «Il Manifesto», diretto dal gruppo che precedentemente aveva militato nel Pei, riscosse un parti­ colare successo nel divenire un giornale di diffusione nazionale. Per un certo periodo di tempo farsi vedere con una copia di questo giornale in tasca era un segno di appartenenza al mo­ vimento. I giornali di movimento furono un’innovazione fondamenta­ le che accelerò la diffusione della protesta sociale. Così «Il Ma­ nifesto», che si rivolgeva ai comunisti di sinistra oltreché alla sinistra extraparlamentare, aveva una diffusione che andava molto al di là dei confini degli appartenenti al proprio gruppo. Esso contribuì così a fissare il programma politico del settore del movimento sociale, e riuscì ad informare su proteste che avve­ nivano in qualsiasi punto del paese, nonché sui temi e sulle forme di azione utilizzate in queste proteste e sulle probabili risposte delle élites. Benché la sua diffusione fosse molto minore e carente la professionalità, «Lotta continua» contribuì a diffondere in tut­ to il paese notizie su nuove forme di azione e temi collettivi come «l’antifascismo militante». Non possiamo misurare quanto la diffusione apparentemente spontanea della protesta sociale fosse effettivamente il risultato della applicazione pratica a nuovi campi e nuovi settori delle tat­ tiche riferite nei giornali. Ma visto da un’altra angolazione, l’im­ patto dei cambiamenti nella stampa era chiaro. Essi contribui­ rono a lanciare una forma di giornalismo investigativo, per quan­ to stridula, in una professione che sino ad allora aveva ricavato la maggior parte delle proprie notizie da fonti ufficiali. Non è mai stata effettuata nessuna indagine sul numero delle persone impiegate né sulle dimensioni del pubblico della stampa di movimento (ma vedi Becchelloni 1973). Ma anche senza dati statistici, è facile vedere che la stampa di movimento fu un im­ portante canale di comunicazione fra i gruppi extraparlamentari e i loro sostentitori, e fornì loro uno sbocco autonomo per la diffusione dei temi portati avanti dai loro leader. La stampa di movimento ebbe ancora un’altra funzione: malgrado la mancan­ za di professionalità fornì un’occasione di lavoro ad appartenenti 209

al movimento che avevano bisogno di guadagnarsi da vivere al di fuori del sistema2.

3. I gruppi extraparlamentari Tra gli anni accademici 1967-68 e 1968-69 il numero di quel­ le che potevano essere chiamate organizzazioni «extraparlamen­ tari» crebbe a dismisura. Il pubblico — che nel 1967 e nel 1968 aveva spesso sentito parlare solo di azioni di non meglio specifi­ cati «contestatori», «anarchici» e «maoisti» — ora trovava sulla stampa una gran messe di riferimenti a tutta una serie di nuove organizzazioni, ciascuna con la sua minacciosa etichetta e i suoi obiettivi rivoluzionari. Ognuno dei principali episodi di protesta di massa o di violenza era seguito da articoli di fondo nella stama, che passavano in rassegna i gruppi dell’estrema sinistra o dei­ estrema destra e le ideologie che essi presumibilmente rappre­ sentavano. Talvolta i gruppi extraparlamentari cooperarono, organiz­ zando delle dimostrazioni congiunte, come nella serie di proteste antifasciste e contro la repressione che avvennero dopo il dicem­ bre 1969 (cfr. infra, cap. X). Talvolta essi entravano in compe­ tizione tra loro e con la sinistra istituzionale; talvolta le manife­ stazioni pacifiche guidate da un gruppo erano invase da un altro. I dimostranti spesso passavano dalla manifestazione di un grup­ po a quella di un altro. All’interno della sinistra extraparlamen­ tare il numero dei «cani sciolti» era probabilmente maggiore di quello dei militanti fedeli a un singolo gruppo. Essi non rimane­ vano all’interno di nessuna organizzazione, ma passavano da una manifestazione all’altra. Questo ampliava il seguito di questi gruppi negli episodi pubblici, ma li lasciava senza nessun legame organico con un gran numero di militanti cui far appello per l’at­ tività organizzativa. La forza reale dei gruppi extraparlamentari era dunque molto minore di quanto lasciasse pensare la loro aggressiva immagine pubblica. Questo divario tra realtà organizzativa e immagine pubblica fu rafforzato dagli scontri nelle strade che si moltipli­

P

2 Due risultati non sistematici, ma notevoli: innanzitutto l’orgoglio politico con cui molti ex-leader del movimento ricordavano la pubblicazione di un gior­ nale; in secondo luogo, il gran numero di essi che ancora alla metà degli anni Ottanta si guadagnava almeno in parte da vivere con il giornalismo. 210

carono dopo il 1968, quando l’estrema destra cominciò ad orga­ nizzarsi contro l’estrema sinistra. I giornali diedero grande risal­ to a questi episodi, nei quali i gruppi estremisti attaccavano le sedi degli avversari o si picchiavano nelle strade. Esso inoltre aumentò via via che, col crescere della violenza, i meno militanti e i meno inclini alla violenza si allontanavano dai movimenti. Questi sviluppi furono ampiamente riportati sia nella stampa borghese che in quella di movimento e sembrarono segnalare un’espansione e un’accresciuta attività dei movimenti sociali agli inizi degli anni Settanta. In realtà, come abbiamo visto, in quegli anni il potenziale di mobilitazione di massa stava declinando. Molte delle attività riferite erano attività di piccoli gruppi diret­ te contro altri gruppi e terze parti. Una prova ci è data dalla fig. 18, che riporta nel tempo la percentuale di proteste nelle quali la fonte del conflitto alla base della protesta era un partito politico o un’altra organizzazione di movimento. Entrambe le fonti re­ gistrarono un netto aumento dopo il 1969, in particolare dopo che l’estrema destra ebbe lanciato una provocatoria campagna di attacchi contro la sinistra. oM>

Semestre

Fig. 18 - 'Percentuale degli episodi di protesta generati da partiti e organiz­ zazioni di movimento, per semestre, 1966-73

Come spiegare l’emergere di una sinistra extraparlamentare ben organizzata nel 1969-70? La risposta risiede in due fattori principali: l’organizzazione era il prodotto della crisi, oltre che il risultato di nuove opportunità. Sia la crisi che le opportunità in­ fluenzarono le due componenti principali del movimento: gli stu­ denti estremisti e gli organizzatori del movimento. Esaminiamo a turno ciascuno di questi due fattori. 211

L ’organizzazione come esito della crisi

«Con l’estate del 1968 — scrive Luigi Bobbio (1979, pp. 3-4) — l’ondata studentesca deU’inverno-primavera precedenti ha or­ mai esaurito la sua carica dirompente» e «le principali formazioni politiche preesistenti nell’ambito giovanile e studentesco sono tutte in crisi». Le occupazioni delle università del 1967-68 erano state episodi entusiastici e formativi, ma alla fine del 1968 anche i leader esperti del movimento avevano esaurito il loro repertorio d’azione di sfida all’interno dell’università. Gli attacchi della po­ lizia, le sospensioni, la divisione in correnti esacerbarono i pro­ blemi, e già nella primavera del 1968 il movimento era general­ mente considerato in crisi. Via via che il movimento nelle università declinava, alcuni gruppi cominciarono a rivolgersi verso obiettivi esterni alle scuo­ le. Come abbiamo visto, marciarono accanto agli operai, blocca­ rono il traffico, attaccarono i simboli della cultura borghese, co­ me la Scala e la Rinascente, irruppero nelle chiese. Anche le fiere e le manifestazioni commerciali erano soggette a occupazioni e sit-in nei quali venivano semplicemente applicati a nuovi luoghi e a nuovi temi gli assunti e le tattiche di sfida del movimento stu­ dentesco. Questa diffusione dei temi e delle tattiche del movimento studentesco a nuove sedi era entusiasmante e poteva essere crea­ tiva, ma una volta avulsi dalle loro basi istituzionali questi inter­ venti potevano dissolversi in un vuoto simbolismo o in una inu­ tile spirale distruttiva. Cosa più importante ancora, c’era una differenza tra occupare edifici universitari e dimostrare nelle strade. Nel primo caso, il fervore degli studenti poteva essere indirizzato verso attività costruttive o di solidarietà, mentre nel secondo era più probabile che si risolvesse in un colpire alla cieca la polizia, la quale a sua volta poteva caricare una dimostrazione in piazza con maggiore efficacia che un’occupazione entro le mu­ ra di un’università. Per i leader del movimento l’unica soluzione a questi problemi era l’organizzazione. Sin dagli inizi della primavera del 1968 venne tenuta tutta una serie di convegni e dibattiti per programmare il futuro del movimento. Il più importante di essi si tenne a Venezia nel set­ tembre 1968. Già allora il passaggio all’organizzazione era molto avanzato; benché i partecipanti parlassero ancora del movimento al singolare, era, come ricorda Bobbio, «forse l’ultimo momento in cui il confronto avviene in modo aperto sulla base dell’appar­ tenenza di ciascuno al ‘movimento’. Dopo di allora la spinta ver­ 212

so l’organizzazione tende a farsi sempre più forte», derivando in parte «dalle nuove prospettive che la situazione di classe sembra ormai chiaramente offrire» (Bobbio 1979, p. 4). L ’organizzazione come risposta a nuove opportunità

Quali sono queste nuove prospettive che «la situazione di classe sembra ormai chiaramente offrire?». La speranza princi­ pale del movimento risiedeva nella rivolta della classe operaia. Con l’avvicinarsi, nella primavera del 1969, dei rinnovi dei con­ tratti nazionali nell’industria, gruppi di minoranza nella sinistra osservarono i segni del conflitto industriale, consapevoli della possibilità che il movimento potesse trovare una nuova base so­ ciale e un terreno d’azione all’interno della classe operaia del­ l’industria. Questa sensazione dello schiudersi di nuove oppor­ tunità era rafforzata dalla linea moderata tenuta dai sindacati nei precedenti rinnovi contrattuali del 1966 e dall’incertezza della linea comunista nei confronti della militanza della classe operaia. Come abbiamo visto nel capitolo VII, a partire dalla prima­ vera del 1968 piccoli gruppi di operai — talvolta contro il con­ siglio dei leader sindacali — si erano abbandonati a scioperi sel­ vaggi, ad azioni dure al di fuori delle fabbriche e ad una «au­ toriduzione» della produzione della catena di montaggio in certe fabbriche. Inoltre, come abbiamo visto, le più combattive di queste azioni si verificavano in fabbriche in cui i sindacati erano deboli o avevano compiuto degli errori tattici. Gli studenti estre­ misti che militavano al di fuori di queste fabbriche cercarono di trarre vantaggio da questi problemi per ottenere il sostegno della classe operaia. Era facile per loro interpretare la nuova militanza della classe operaia come una rivolta antisindacale, e per esten­ sione a considerarla matura per un’organizzazione rivoluziona­ ria. Al pari degli studenti che avevano contestato l’autorità degli insegnanti e delle associazioni studentesche l’anno prima, gli operai in lotta stavano, per esempio, abbandonando la loro tra­ dizione di deferenza verso i capi e i sindacati (Regalia, Regini e Reyneri 1978). Non solo essi adottarono la tattica dell’occupa­ zione ma, come avevano fatto gli studenti, sembrarono «prati­ care l’obiettivo» di assumere in proprio un processo che fino ad allora li aveva dominati. A Milano, per esempio, gli operai della Pirelli introdussero elementi di novità con la pratica dell’autori­ 213

duzione per ottenere i cambiamenti nei ritmi di lavoro deside­ rati. Coloro che si erano organizzati a sinistra ancor prima della nascita del movimento studentesco non scambiarono mai il fer­ vore studentesco per conflitto di classe e accolsero più favore­ volmente la lotta degli operai come capace di attaccare al cuore il processo produttivo capitalistico. Proprio nel periodo in cui il movimento studentesco stava dissolvendosi, la classe operaia of­ frì ai gruppi una più autentica opportunità rivoluzionaria. Al convegno di Venezia del settembre 1968 alcuni sostennero che, se voleva sopravvivere, il movimento avrebbe dovuto superare lo «studentismo» e coinvolgersi direttamente nei conflitti di fab­ brica3. Benché il radicalizzato atteggiamento degli studenti del 1967-68 fosse più utopistico di quello dei gruppi di minoranza di sinistra, gli obiettivi ultimi dei due soggetti coincidevano. En­ tusiasmati dagli apparenti parallelismi tra il loro movimento e quello degli operai, e cominciando a capire che la lotta di classe aveva bisogno di una solida base industriale, gli studenti assol­ sero contenti al compito di mobilitazione ai cancelli delle fabbri­ che. Gli organizzatori del movimento, avvantaggiandosi della moderazione dei sindacati, cercarono di penetrare nella classe operaia ricorrendo a una stridula retorica antisindacale e utiliz­ zando l’entusiamo e la disponibilità al sacrificio degli studenti per convincere gli operai del fatto che avevano effettivi alleati al di fuori dei sindacati. Fu lo scoppio del conflitto industriale, nel momento in cui il movimento studentesco universitario entrava in crisi, a generare la sinistra extraparlamentare.

4. L’organizzazione come processo Le organizzazioni di movimento non potevano semplicemen­ te trasferire la loro attività da un gruppo sociale all’altro senza pagare un prezzo. I gruppi che volevano attaccare seriamente i sindacati avevano bisogno di forme organizzative che mantenes­ sero vivo l’entusiasmo del movimento degli studenti oltre alla 3 Questa era una delle critiche preferite del gruppo di Potere operaio, che si ricostituì con l’appellativo «La Classe» nel 1968 (cfr. Viale 1973, pp. 177-78, contro il quale furono avanzate questo tipo di critiche).

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disciplina degli operai. Benché alcuni caddero rapidamente in una sorta di super-leninismo, etichettato come maoismo o altro, le organizzazioni che più ebbero successo cercarono forme di or­ ganizzazione che unissero le forze del movimento studentesco a quelle degli operai. Di conseguenza la maggior parte delle nuove organizzazioni nate nel 1968-69 «si muovono su un terreno di­ verso, che accentuava il momento della prassi e dell’iniziativa diretta rispetto all’elaborazione tecnica e all’affermazione di principi» (Bobbio 1979, p. 4). Per nascondere l’alto livello di controllo centrale cui si mira­ va vennero create formule elaborate. Alcuni gruppi erano in teo­ ria talmente decentralizzati da non ammettere alcun leader; in altri la leadership era esercitata in un modo talmente personali­ stico da rendere impossibile individuare la responsabilità delle varie decisioni. Alcuni gruppi si scrollarono rapidamente di dos­ so questa eredità movimentista, mentre altri l’avevano guardata con sospetto fin dagli inizi. Tuttavia, quelli che ebbero un suc­ cesso maggiore cercarono di incorporarla nelle proprie organiz­ zazioni così da evitare di decadere al rango di sette ideologiche o di degenerare in burocrazia. Una tale sintesi era l’unico modo per conservare l’eredità del 1968 nel contesto di una lotta rivoluzio­ naria più dura. L’organizzazione non era necessaria solo agli studenti e agli operai; lo era anche per permettere a ogni gruppo di competere con gli altri. La competizione seguiva tre assi principali: tra la sinistra extraparlamentare da una parte e i partiti della sinistra dall’altra, tra i movimenti e i sindacati, e all'interno del settore dei movimenti. Ogni forma di competizione diede vita a forme di organizzazione e a tattiche diverse. Competizione col sistema dei partiti

C’era una differenza importante tra il clima politico del 1967-68 e quello del 1969-70: il ruolo del Pei. Nel periodo pre­ cedente, il riformismo del Pei aveva dato ai nuovi gruppi di si­ nistra una possibilità di scavalcare le associazioni studentesche di partito, come abbiamo visto nel capitolo VI; ma ora il Pei non era disposto ad adeguarsi a un così comodo scenario, perlomeno non fino al 1973. Nel suo congresso del 1969, il segretario del partito Enrico Berlinguer reagì con una linea più disponibile alla nuova turbolenza della società italiana. Il Pei — sembrò dire — non 215

avrebbe abbandonato la classe operaia ai rivali che essa aveva a sinistra4. Inoltre, quando i nuovi gruppi estremisti tentarono di pe­ netrare nelle sue roccaforti operaie, il Pei rispose con classica determinazione leninista. Al livello più immediato, i militanti extraparlamentari che cercavano di penetrare nelle manifestazio­ ni organizzate dai comunisti avevano la probabilità di trovarsi di fronte un servizio d’ordine costituito dagli operai più duri delle fabbriche. L’organizzazione del partito fu radicalmente rivista, e i vecchi compagni vennero sommariamente allontanati e sosti­ tuiti con giovani militanti provenienti dall’università. Persino la F g c i , riprendendosi dalla profonda crisi alla fine degli anni Ses­ santa, cominciò a riconquistare consenso tra i giovani. Solo che il Pei non era l’unico partito le cui fortune fossero nuovamente in ascesa dopo il 1968. L’indignazione contro la vio­ lenza fomentata dagli studenti e le violenze causate dagli operai era sempre più sfruttata dai partiti dell’estrema destra. Questa era l’opportunità politica migliore che si presentasse al Msi dalla Liberazione in poi. A partire dal 1970 il neofascismo rialzò la testa nell’elettorato, nello Stato e specialmente nelle strade. Ma questo ritorno di fiamma non mancava di creare problemi allo stesso Msi; malgrado affermasse di rappresentare la «maggio­ ranza silenziosa», i gruppi fascisti più militanti e antiparlamen­ tari alla sua destra cominciarono a sfidare la sua egemonia, pro­ prio come la sinistra extraparlamentare stava sfidando quella del Pei. Una delle tattiche cui ricorsero i nuovi gruppi fascisti fu quel­ la di spedire bande armate ai cancelli delle fabbriche durante gli scioperi per provocare scontri con la sinistra. Se gli operai sin­ dacalizzati erano in grado di difendersi da questi attacchi, gli studenti di sinistra da soli non lo erano e così talvolta gli operai in sciopero accorrevano in loro aiuto. In ogni caso i movimenti dovevano organizzare propri servizi d’ordine per difendersi, in particolare quando contemporaneamente attaccavano la linea sindacale. La presenza nelle strade di un nuovo fascismo militante e di 4 Al XII congresso del Pei Berlinguer tenne un importante discorso nel quale rifiutava la linea di Amendola secondo cui il partito doveva combattere una bat­ taglia su due fronti, contro l’estrema destra e l’estrema sinistra. Per un’eccellente analisi di questo congresso e della sua importanza per la linea strategica del Pei cfr. S. Hellman 1976, pp. 243-73.

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stampo militare contribuì a generare un clima di tensione che rafforzò la tendenza all’organizzazione, e in alcuni casi alla mi­ litarizzazione, della sinistra extraparlamentare. L’estrema destra — la sua realtà come la sua immagine — era il «male assoluto» contro cui persino le misure più estreme erano legittime (Manconi, in corso di stampa). E impossibile capire lo sfasamento tra il ciclo della protesta dal 1967 al 1973 e il ciclo di violenza ter­ roristica che scaturì alla fine degli anni Settanta se si ignora que­ sto intervento della destra (LaPalombara 1987). Sia a sinistra che a destra, dunque, i partiti politici e le loro organizzazioni di massa erano in stato meno comatoso di quanto i nuovi movimenti fossero disposti ad ammettere. Benché fosse­ ro meno importanti dei sindacati e dei gruppi extraparlamentari nell’organizzare le proteste, i partiti continuarono a partecipare agli episodi di protesta in tutto quel periodo. Come ci mostra la fig. 17, gli anni 1970 e 1971 furono particolarmente critici per questi gruppi. Proprio nel momento in cui, secondo le predizioni teoriche della sinistra extraparlamentare, il sistema istituzionale dei partiti sarebbe dovuto crollare, questi ultimi rispondevano invece con un’accresciuta presenza nell’azione collettiva. Un ci­ clo di protesta è un periodo di disordine generalizzato che for­ nisce nuove opportunità a chi sfida, ma anche a chi viene sfidato nell’arena politica (Tilly 1978). M ovim enti e sindacati

Contemporaneamente i sindacati stavano diventando una presenza più attiva, sia nell’azione collettiva in fabbrica sia agli occhi del pubblico. Benché la loro partecipazione al conflitto so­ ciale dipendesse di solito dal ritmo dei rinnovi contrattuali, la decentralizzazione di questi ultimi a livello delle singole fabbri­ che e aziende lasciò alle confederazioni nazionali e alle Camere del lavoro un ruolo minore da svolgere nel conflitto industriale. Di conseguenza esse trasferirono la propria azione all’arena pub­ blica, con una strategia di riforme che le portò ad aumentare il ricorso ai cortei e alle manifestazioni. Disponiamo di due misure complementari di questa accre­ sciuta attività dei sindacati: l’azione collettiva perturbativa a li­ vello nazionale e le attività pubbliche non perturbative promosse dalle due principali federazioni provinciali, quelle di Milano. Utilizzando la loro partecipazione a tutti gli episodi di pro­ testa come misura dell’azione collettiva sindacale, la fig. 19 mo­ 217

stra che essa crebbe a livello nazionale dal 1968 in poi, proprio nel momento in cui i gruppi extraparlamentari stavano cercando di raggiungere la classe operaia con campagne di mobilitazione. L’aumento della capacità di mobilitazione dei sindacati appare particolarmente evidente se teniamo conto che la nostra misura dell’azione collettiva sindacale è sicuramente per difetto, perché non comprende gli scioperi in cui i dati giornalistici non citarono la presenza di un sindacato. Numero

Semestre

Fig. 19 - Presenza di almeno un sindacato negli episodi di protesta, per il semestre, 1966-73

Via via che le confederazioni nazionali si andavano occupan­ do sempre più delle richieste di riforma parlamentare, e con il conflitto industriale decentrato a livello delle singole fabbriche, le organizzazioni provinciali dei sindacati assunsero una presen­ za pubblica più manifesta, organizzando raduni, conferenze, in­ contri con svariati attori sociali, nonché dimostrazioni pubbli­ che. Un’analisi dei comunicati-stampa della Camera del lavoro della Lombardia e dell’Unione provinciale della C isl di Milano, per esempio, rivela una crescente presenza pubblica dei sindacati anche al di fuori del conflitto industriale. Questi dati sono ri­ portati nella fig. 20 per entrambe le organizzazioni sindacali pro­ vinciali di Milano. 218

Numero

T rimestre

Fig. 20 - Episodi pubblici organizzati dalla Confederazioni sindacali di Mi­ lano, per trimestre, 1968-74

Così, proprio nel momento in cui i gruppi extraparlamentari stavano cercando di ottenere il sostegno della classe operaia, sia il sistema dei partiti sia i sindacati stavano trovando nuove ri­ serve di capacità di mobilitazione e stavano entrando efficace­ mente in competizione con i movimenti, offrendo agli operai in­ centivi materiali e di solidarietà che mancavano ai loro giovani concorrenti. Questo pose i movimenti di fronte alla difficile scel­ ta di competere coi sindacati e i partiti sul terreno di questi ul­ timi, o di cercare di radicalizzare la lotta. Alcuni optarono per l’una o l’altra di queste soluzioni, mentre altri cercarono di com­ binarle, come vedremo nel capitolo X. Da parte di molti l’ampliarsi della mobilitazione di massa a diversi settori della società italiana era interpretato come prova di una crescente crisi del capitalismo italiano; in realtà questo era il risultato dell’interazione competitiva tra i movimenti, i partiti, le organizzazioni di massa dei partiti e i sindacati. Gli anni più formativi delle organizzazioni extraparlamentari furono anche quelli in cui il sistema dei partiti e i sindacati stavano riguada­ gnando la loro capacità di consenso organizzativo mentre la di­ sponibilità di un pubblico di massa all’azione collettiva stava crollando. Da tutto ciò seguì il declino della sinistra extraparla­ mentare e la spirale di violenza che avrebbe portato agli anni di piombo che seguirono. 219

5. Conclusioni I gruppi extraparlamentari, nati intorno ai conflitti industria­ li nel 1968-69, furono profondamente segnati dalle loro origini. Se ci meravigliamo dell’immagine operaista che essi ebbero fino alla fine degli anni Settanta, dobbiamo ricordare che fu nel con­ tatto con la classe operaia militante di Torino, di Porto Marghera e di Arese che essi nacquero come organizzazioni di movimento nazionali. E se alcuni di questi gruppi si abbandonarono ad atti sempre più radicali in nome degli operai, fu per scavalcarsi gli uni con gli altri, per scavalcare i sindacati e il partito dimostrando il loro coraggio alla classe operaia. Alcuni di questi gruppi — Lotta continua, Potere operaio e Avanguardia operaia — in realtà riuscirono a costituire delle te­ ste di ponte tra gli operai. Molti altri — come l’Unione dei mar­ xisti-leninisti — non ci riuscirono mai, mentre altri — per esem­ pio, il Movimento studentesco milanese — decisero di non tentare nemmeno e altri ancora — come il Manifesto — si tra­ mutarono presto in partiti politici. Quali che fossero le loro stra­ tegie dopo il picco della mobilitazione operaia nel 1969, nessuno di loro poteva seriamente incidere nella crescente capacità dei sindacati di controllare la rivolta della classe operaia. E interessante notare che il 1970, l’anno che seguì l’«autunno caldo», vide anche il più alto incremento percentuale nelle iscrizioni al sindacato dopo la Liberazione (Regini 1980, p. 64). I movimenti videro in questo un potenziale terreno di recluta­ mento di futuri militanti, ma già agli inizi degli anni Settanta non rimaneva più nella classe operaia un potenziale di mobilita­ zione sufficiente perché i sindacati e la sinistra extraparlamen­ tare potessero spartirselo. I gruppi extraparlamentari non minacciarono mai seriamente l’egemonia capitalista o il potere dello Stato. La loro funzione reale nel ciclo di protesta fu quella di sfidare sia i sindacati che il sistema dei partiti da una parte, e le autorità dall’altra, con forme sempre più dirompenti d’azione collettiva. Così facendo, essi contribuirono a diffondere un clima di protesta in tutta la società italiana, a costringere i sindacati e i partiti di sinistra a dare ascolto alle richieste delle rispettive basi e forse ad adottare linee più avanzate di quanto altrimenti avrebbero fatto. C’è un aspetto ironico nella vicenda delle lotte che portarono alle riforme: in fabbrica, laddove i sindacati «cavalcavano la ti­ gre» della rivolta della classe operaia, furono i gruppi extrapar­ 220

lamentari, insieme alla sinistra sindacale e a una piccola avan­ guardia della classe operaia, ad avanzare richieste estreme che talvolta furono accolte dai sindacati, benché in forme più mode­ rate. Nelle città, dove sia i sindacati che i partiti fecero propria la causa degli abitanti delle periferie, furono questi gruppi estre­ misti a condurre molte delle proteste di quartiere che misero sul tappeto le esigenze dei poveri. I gruppi extraparlamentari pote­ vano spingere i sindacati e i partiti ad azioni più avanzate, ma non potevano sostituirsi ad essi né ricreare un potenziale di mo­ bilitazione ormai svanito. Tuttavia i gruppi extraparlamentari ebbero anche una fun­ zione meno positiva negli anni di chiusura del ciclo di protesta. I loro militanti non solo tentavano di aiutare i poveri e di opporsi ai partiti e ai sindacati, ma erano anche coinvolti in feroci scontri ideologici e fisici coi simboli dell’egemonia borghese e con la de­ stra militante. Relativamente scarsa durante il picco intensivo della mobilitazione, dal 1967 al 1969, la violenza tra i gruppi si andò intensificando via via che la mobilitazione di massa calava, raggiungendo un culmine nella prima metà del 1972 e nel 1973. Con il defluire della protesta di massa dai settori principali della società italiana — la scuola, l’industria, i servizi e gli affari in­ ternazionali — i gruppi extraparlamentari portarono sempre più i loro conflitti ideologici nelle strade. Gli scontri fisici si sosti­ tuirono al confronto sui problemi.

X UNA LOTTA CHE NON È CONTINUATA

Nessun gruppo può essere totalmente emblematico dell’espe­ rienza della sinistra extraparlamentare, ma la vicenda di Lotta continua è un esempio dei tre problemi fondamentali di queste organizzazioni di movimento: il modo in cui esse cercarono di accrescere la propria influenza stimolando la mobilitazione; il modo in cui cercarono forme organizzative che incanalassero la mobilitazione senza riproporre le deformazioni del passato leni­ nista; e soprattutto il modo in cui affrontarono il problema di sfidare le autorità per ampliare la loro influenza sulle masse senza innescare una spirale di violenza, di repressione e di smobilita­ zione1. Quello che segue non è un tentativo di raccontare nuovamen­ te tutte le vicende di questa organizzazione2. Le utilizzerò piut­ tosto per illustrare tre cose: in primo luogo, come le opportunità politiche e le limitazioni che fecero da contorno alla nascita della sinistra extraparlamentare ne condizionarono strutture e strate­ gie; in secondo luogo, come la competizione tra le organizzazioni all’interno del settore di movimento condusse alla radicalizzazione, al conflitto e alla violenza; e, in terzo luogo, quanto fosse difficile per questi movimenti navigare tra violenza e politica istituzionale. La storia di Lotta continua è emblematica dei di­ lemmi della sinistra extraparlamentare in Italia, e mostra allo stesso tempo come possa terminare il ciclo di protesta: nelle ten1 Sono estremamente grato a Luigi Bobbio, Bruno Dente, Luigi Manconi, Gloria Regonini, Adriano Sofri e Guido Viale per aver condiviso con me i loro ricordi su Lotta continua. 2 In particolare, perché questo è stato fatto in modo così attento e esaustivo da Luigi Bobbio (1979), dalla ricostruzione del quale questo capitolo dipende molto.

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denze contraddittorie, ma che si rinforzano reciprocamente, di violenza e di istituzionalizzazione.

1. La costituzione di un’identità Lotta continua era un partito con una strategia di movimen­ to. La costituzione di questa duplice identità iniziò un anno pri­ ma della sua fondazione: nel settembre 1968, a un congresso sul­ la forma futura da dare al movimento uscito dalle università (Bobbio 1979, pp. 18-26; Potere operaio toscano 1969¿>). Le po­ sizioni emerse in quel congresso chiarirono che esisteva già un disaccordo sui temi classici dello spontaneismo, della direzione cosciente e del ruolo di guida degli intellettuali per legare l’una all’altro (Bobbio 1979, pp. 24-25). Le stesse divergenze emersero in un congresso del gennaio 1969 a Pisa, originariamente indetto da Potere operaio toscano per esaminare i problemi del movimento studentesco nei licei della regione (Movimento studentesco pisano 1969). Ma nello scoraggiamento che seguiva agli eventi della Bussola i licei ven­ nero dimenticati, e vennero avanzate nel gruppo proposte di una nuova organizzazione nazionale. Quasi tutti furono d’accordo sull’esigenza di cambiamento, ma non riuscirono a trovare un consenso su quale forma dovesse assumere questo cambiamento. Un’organizzazione che fosse troppo disciplinata avrebbe ripro­ posto il passato leninista (Movimento studentesco pisano 1969, p. 3). Questi dibattiti erano tipici di quanto stava accadendo ovun­ que nella nuova sinistra tra la metà del 1968 e la metà del 1969 (Viale 1978, p. 62). Benché apparisse chiaro che il movimento studentesco era in declino, pochi volevano abbandonare il suo slancio antiautoritario, la sua linea decentralizzata, e così molti proposero la costituzione di «comitati d’azione» sul modello pre­ sunto del Maggio francese (Movimento studentesco pisano 1969, p. 3). Altri proposero di creare un «ufficio politico» e delle strutture federali per competere coi gruppi maoisti che in quel momento stavano fiorendo a dismisura (Bobbio 1979, pp. 1819). Altri si spinsero ancora oltre, proponendo una suddivisione formale tra un’«organizzazione di massa» che avrebbe avanzato delle richieste di tipo sindacale e un’«organizzazione studentesca rivoluzionaria» che avrebbe dovuto «orientare le masse studen­ tesche» (Movimento studentesco pisano 1969, p. 2). Il leninismo alzava timidamente la testa all’interno del movimento. 224

Adriano Sofri, leader di Potere operaio toscano, rifiutava sia lo spontaneismo che il leninismo, ma portò avanti l’idea di creare un partito rivoluzionario. La sua proposta era di conservare l’en­ tusiasmo del movimento studentesco e la forza degli operai in una coalizione di «avanguardie interne» che avrebbe permesso al partito di stimolare la mobilitazione nelle fabbriche e di organiz­ zare la protesta ovunque nascesse un conflitto. L’operaismo do­ veva essere «socializzato», proprio come il movimento studente­ sco era stato «operaizzato». Il partito si sarebbe sviluppato non alla testa di una lotta a favore del proletariato, ma quale lotta stessa del proletariato. L’ala di Potere operaio toscano che faceva capo a Sofri ruppe sia con l’ala spontaneista che con quella leninista, e a primavera Sofri si trasferì a Torino. Il risultato più importante di questo fu la fusione del gruppo con una parte del movimento studentesco torinese e il suo tentativo di ottenere una base tra gli operai della F iat nell’estate del 1969. In quello stesso anno Mirafiori divenne non solo il centro della lotta degli operai della F iat , ma la chiave della nascita di un certo numero di piccoli gruppi di estrema si­ nistra all’interno dei movimenti extraparlamentari nazionali. Es­ so mostrò ai leader che l’entusiasmo del moribondo movimento studentesco poteva essere riacceso attraverso una coalizione tra studenti e operai dell’industria.

2. Mirafiori, 1969 Benché sia passato alla storia come il punto culminante dell’«autunno caldo», il conflitto a Mirafiori nell’estate del 1969 fu solo il «punto di arrivo» di un movimento iniziato a Porto Marghera, a Valdagno e nell’area di Milano l’anno prima (Bobbio 1979, p. 27). L’elemento veramente diverso alla F iat era il gran numero di operai immigrati di nuova assunzione, l’inusuale de­ bolezza dei sindacati metalmeccanici e il gran numero di nuove organizzazioni di movimento che occupavano la scena, in com­ petizione per assicurarsi il sostegno operaio. La lotta alla F iat era tutt’altro che inaspettata. Per tutto l’in­ verno e la primavera del 1969 gruppi di minoranza dell’estrema sinistra avevano osservato la lotta degli operai qualificati alle Ausiliarie della F iat e alle Presse (Psiup 1969; Viale 1978, p. 159). Il primo segno di accesa militanza tra gli operai fu dato dai cortei interni intorno alla fabbrica che «fecero cessare l’isolamento fra 225

i gruppi di lavoro» e sovvertirono i rapporti di autorità tra operai e capisquadra (Viale 1978, p. 160). I sindacati metalmeccanici avevano firmato un debole contratto a favore degli ausiliari, con­ tratto che diede agli operai non qualificati della catena di mon­ taggio — privi di sostegno sindacale e di piattaforma — il segnale per bloccare la produzione nelle loro linee. Il conflitto galoppò da reparto a reparto, seguendo il percorso dei cortei interni (Viale 1978, p. 161). Fu a questo punto — in un momento in cui gli operai non qualificati della catena di mon­ taggio stavano rifiutando la strategia dei piccoli passi dei sinda­ cati — che i gruppi di minoranza a sinistra cercarono di inserirsi nella lotta (Bobbio 1979, p. 28). Come a Porto Marghera un an­ no prima, disponevano delle risorse costituite dagli studenti mi­ litanti e del vantaggio dato dal fatto che gli operai erano già in lotta, nel contesto di una strategia sindacale debole e incerta. Inoltre sapevano che il conflitto a Mirafiori non sarebbe rimasto assente dalle pagine dei giornali3. Chi erano questi gruppi, e come intervenivano? Per molti mesi un piccolo gruppo di studenti universitari provenienti da Torino aveva pattugliato i cancelli della Mirafiori distribuendo volantini agli operai che uscivano dal turno, e mettendosi a dia­ logare con loro. Un questionario distribuito da Potere operaio torinese mostrava una notevole disponibilità degli operai, oltre a un sorprendente grado di simpatia verso gli studenti (Rieser 1969, p. 30). Quando finì l’anno accademico, il numero degli studenti che stazionava intorno ai cancelli della fabbrica alla fine di ogni turno salì a svariate centinaia. A maggio i militanti di «La Classe» arrivarono a Torino4, in­ sieme a svariati gruppi di minoranza provenienti da Milano e a ciò che restava del gruppo di «Quaderni rossi» di Torino. Il grup­ po più forte e più esperto delle assemblee studentesche era pro­ babilmente costituito dai militanti di «La Classe», che rappre­ sentavano un’ala ortodossa dell’operaismo extraparlamentare (Magna 1978, pp. 339-42). La maggior parte dei leader del mo­ 3 Si noti tuttavia che «La Stampa» di Torino non diede praticamente nessuna notizia dello sciopero fino alla battaglia di corso Traiano. 4 In questo periodo vi furono svariati cambiamenti di nome che confondono la situazione. Bobbio così riassume la vicenda: alcuni aderenti al gruppo di Potere operaio veneto che erano stati attivi a Porto Marghera si erano uniti a dei vete­ rani del movimento studentesco di Roma, Milano e Torino, per costituire un nuovo gruppo che pubblicò il giornale «La Classe». Nell’agosto questo gruppo dette vita a un nuovo gruppo nazionale, chiamato Potere operaio (cfr. Bobbio 1979, p. 29).

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vimento studentesco dell’università di Torino arrivarono solo più tardi, contemporaneamente a Sofri e ai suoi amici da Pisa. Se i militanti di «La Classe» si sobbarcarono gran parte del duro lavoro necessario a stabilire contatti con gli operai, i più numerosi studenti di Torino, grazie anche alle radici locali, ga­ rantirono la loro presenza non solo a Mirafiori, ma anche a Rivalta, al Lingotto e in altre sezioni della gigantesca fabbrica to­ rinese (Bobbio 1979, p. 29). I militanti esterni e gli operai loro simpatizzanti si trasferirono ben presto in un bar nei pressi di Mirafiori, tenendo degli incontri che ben presto furono etichet­ tati come «assemblee operai-studenti». Lo slogan «la lotta conti­ nua», uno slogan d’adunata mutuato dai recenti eventi di Parigi {la lutte continue ), divenne l’espressione con cui venne designata onnicomprensivamente un’ampia coalizione di studenti militanti e di operai estremisti che si radunavano ogni giorno in quel bar, e che ben presto attrassero l’attenzione dei militanti di estrema sinistra di tutta l’Italia settentrionale5. Quando il locale divenne troppo piccolo per le assemblee notturne, esse si trasferirono al­ l’ospedale delle Molinette, dove maggiore era l’influenza dei to­ rinesi e dei loro amici pisani. Conflitto e competizione

Luigi Bobbio (1979, p. 19) ha sottolineato l’unità tra i gruppi esterni nel comune desiderio di sostenere gli operai della F iat e di opporsi ai sindacati. Ma anche nel momento di massima coo­ perazione, nella primavera e nell’estate del 1969, essi erano già travagliati da polemiche ideologiche (Viale 1978, p. 177). Le di­ vergenze più importanti erano tra il gruppo di «La Classe» e i militanti di Torino e Pisa, e vertevano sull’esclusività del loro operaismo, sull’atteggiamento da tenere verso il movimento stu­ dentesco e sugli strumenti e appelli che si ritenevano necessari per portare al proprio fianco gli operai. Per «La Classe» non è esagerato dire che la fabbrica era tutto e che il capitalismo era concepito in termini radicalmente eco­ nomicistici; per i militanti pisani e torinesi lo sfruttamento ca­ pitalistico era dappertutto, come dappertutto erano le opportu­ nità di mobilitazione. Per «La Classe» i salari erano al centro di qualsiasi appello rivoluzionario, non solo perché erano la cosa a 5 È tuttavia interessante osservare che Potere operaio toscano aveva già uti­ lizzato questo slogan nel suo giornale di Massa, un anno prima del maggio 1968.

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cui gli operai tenevano di più, ma anche perché solo lotte radicali per il salario potevano «distruggere il programma dei padroni» (Rieser 1969, p. 15). L’operaismo dei loro avversari era già meno economicistico. A Pisa, Potere operaio toscano aveva cercato di organizzare i commessi dei grandi magazzini, i netturbini e — magari con spe­ ranze meno fondate — anche i paracadutisti. Cosa più impor­ tante, Sofri e i suoi amici avevano imparato che l’aspetto «sog­ gettivo» della vita degli operai poteva essere per loro altrettanto importante dell’oggettivo sfruttamento da parte del padrone6. A Torino insieme ai salari il gruppo mirava ad affrontare altri pro­ blemi della catena di produzione mentre, al di fuori della fabbri­ ca, si rivolgeva ai problemi degli immigrati, della casa e di altri gruppi sociali che più o meno genericamente collegava al prole­ tariato (Rieser 1969, p. 16). Queste versioni diverse dell’operaismo portarono ciascun gruppo a una concezione diversa dell’organizzazione. Per i mili­ tanti di «La Classe» l’organizzazione doveva incentrarsi sulla radicalizzazione del conflitto tra operai e padroni riguardo ai salari7. Per l’emergente gruppo di Lotta continua questa impo­ stazione era «fortemente riduttiva e meccanicistica» (Bobbio 1979, p. 36). La cosa più importante era «la capacità di iniziativa soggettiva con cui la classe sa ormai investire tutti quanti gli aspetti dello scontro» (Bobbio 1979, p. 37). L’organizzazione si­ gnificava creare una presenza non solo in fabbrica ma anche nei quartieri della classe operaia, tra gli immigrati e all’interno di altri gruppi sociali: ciò che più tardi sarebbe stato noto come «socializzazione della lotta di classe». Queste divergenze non diminuirono la capacità dei due grup­ pi di intervenire nei conflitti alla F iat . Al contrario, sappiamo da fonti documentarie che il loro tentativo di radicalizzare il con­ flitto fu in parte dovuto alla loro competizione per il sostegno degli operai (Bobbio 1979, pp. 30-31). Questo si rispecchiava 6 Per esempio, il suicidio di un operaio alla Olivetti aveva costituito il tema di un precedente articolo del giornale del gruppo. Sofri affermò anni dopo che quello era stato il primo episodio che gli aveva fatto capire che l’aspetto sogget­ tivo dello sfruttamento poteva costituire parte importante della lotta degli operai (colloquio personale, Firenze, 19 marzo 1986). 7 In questo il gruppo era fortemente influenzato dalla propria esperienza di Marghera, ma anche clair«ipotesi di maggio» che portò i suoi leader a chiamare alla «generalizzazione della lotta attorno all’obiettivo dell’autonomia operaia», dalla richiesta di aumenti salariali al rifiuto di produrre, a una proposta di col­ legare i salari alle esigenze degli operai (cfr. Bobbio 1979, p. 36).

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nelle loro polemiche; già nel luglio del 1969 Guido Viale affer­ mava: «Di fronte a questa consapevolezza di massa c’è da parte dei “gruppi” che intervengono alla F iat , una notevole sottova­ lutazione del carattere estremamente avanzato della fase di lotta che stiamo attraversando, il che è da riportarsi alla matrice “ope­ raista” ed economicista della maggior parte di essi che li rende endemicamente incapaci di cogliere tutte le implicazioni politi­ che di una lotta di queste dimensioni» (ripubblicato in Viale 1973, p. 58). Quanto al futuro gruppo di Lotta continua, esso era attaccato in «La Classe» per il suo «ideologismo intellettuale e rivoluzionarismo puramente verbale» e per il fatto di sbandierare uno «spirito umanitaristico che non conosce la differenza tra la classe operaia e una casa per anziani» (Dina 1970, p. 147). Viale, da parte sua, ridicolizzava gli avversari quali «teorici della scienza operaia, militanti della pratica degli obiettivi intesa come loro martellante ripetizione, inventori dell’equazione ‘classe operaia = salario’, cultori di un aprioristico ‘punto di vista operaio’ già tutto definito» (Viale 1978, p. 177). La crescente polarizzazione tra i due gruppi ebbe un effetto demoralizzante sui loro alleati operai, perché come ogni polariz­ zazione portò all’astrazione dai temi concreti che spingevano gli operai a mobilitarsi e ridusse l’influenza degli spiriti più razio­ nali, come Pex-militante di «Quaderni rossi» Vittorio Rieser, che avrebbero potuto temperare le formule ideologiche dei gruppi contrapposti coi frutti dell’esperienza. Cosa ancora più importante, la concorrenza spinse questi due gruppi a compiere sforzi separati e in competizione per mobili­ tare gli operai. Negli anni successivi Lotta continua non avrebbe mai superato la propria paura di essere scavalcata, nei tentativi di ottenere il sostegno degli operai, da Potere operaio, il gruppo uscito da «La Classe». Lo scavalcamento tattico e la polarizza­ zione ideologica nati alla F iat avrebbero impresso il tono a tutti i loro rapporti futuri. A settembre «La Classe» adottò la nuova denominazione di Potere operaio e fondò una nuova rivista con questo nome, non­ ché un’organizzazione extraparlamentare a livello nazionale. Sofri e i suoi amici fecero propria la dizione onnicomprensiva delle assemblee degli operai-studenti — la lotta contìnua — come loro slogan e programmarono un giornale con questo nome. Solo che questo giornale — a differenza della maggior parte della lettera­ tura occasionale nata dal ciclo della protesta — aveva l’ambizioso 229

obiettivo di porsi come strumento nazionale di mobilitazione delle masse.

3. Dare la parola agli operai «Continuare la lotta» iniziata alla Mirafiori nell’estate del 1969 divenne l’ipotesi di lavoro intorno a cui Lotta continua co­ struì la propria organizzazione (Viale 1978, p. 213), e costituì anche la linea editoriale del suo nuovo giornale. Il giornale, scris­ se Bobbio (1979, p. 41), «deve chiamarsi ‘Lotta continua’ per sottolineare la continuità tra la straordinaria esperienza di massa alla F iat del maggio-giugno e la nuova proposta nazionale [di ge­ neralizzazione della lotta]». Per usare le parole di Sofri, «Vole­ vamo che la classe operaia di Bagnoli sapesse di poter fare le stesse cose che avevano fatto gli operai di Torino a Mirafiori»8. Il giornale adottò un linguaggio semplice per parlare agli ope­ rai ed evitò le formulazioni dottrinarie tipiche dell’estrema sini­ stra. Il bisogno di «dare la parola» ai protagonisti della lotta di classe portò alla pubblicazione di dibattiti tra operai più che tra intellettuali; a un impiego molto maggiore di fotografie e di «strumenti più espressivi nella comunicazione di massa» di quan­ to si fosse sinora visto, nonché all’adozione di elementi espres­ sivi della comunicazione di massa (Bobbio 1979, p. 72). «Lotta continua» non solo diceva alla gente dove si svolgeva l’azione, ma cercava di esser parte di quell’azione. Ma c’era un aspetto più inquietante nell’immagine popolare del giornale: i suoi redattori preferivano i titoli spettacolari e le vicende provocatorie all’analisi politica seria (Violi 1977, p. 178). Nel nome della socializzazione della classe operaia, «Lotta continua» trascurava il dibattito teorico. Anni dopo Sofri avreb­ be ammesso di aver «prodotto una quantità di idee gettate in blocco all’organizzazione» senza preoccuparsi della «formazione di una base di opinione generale che avrebbe trasformato questa idea in una forza pratica effettiva» (1977, p. 78). Lotta continua era talmente incentrata sulla lotta degli operai che cercò di trasformare il movimento nei licei — esploso nella primavera del 1969 — in un movimento a favore degli operai. Come spiega Bobbio «se ancora qualche mese prima si sottoli­ 8 Colloquio personale, Firenze, 19 marzo 1986.

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neava [...] il ruolo autonomo degli studenti [...], ora si tende sem­ pre di più ad affermare la loro subordinazione alle lotte operaie» (1979, p. 51)9. La logica era movimentista; dato che la capacità potenziale di perturbare il capitalismo italiano era maggiore nelle fabbriche, le proteste degli studenti per una reale democrazia nei licei sembravano semplicemente una diversione. L’incapacità di elaborare un programma che affrontasse seriamente i temi che stavano a cuore agli studenti liceali avrebbe avuto gravi conse­ guenze in seguito, quando una nuova leva di giovani militanti formatasi nel movimento studentesco divenne la forza principale del gruppo nelle strade e nelle piazze. L’intenzione dei leader di Lotta continua di assegnare un ruolo egemonico alla lotta degli operai fu anche affermata nei congressi del partito, dove i militanti «esterni» — studenti e in­ tellettuali — non ebbero per un certo periodo diritto di parola. Questa limitazione fu imposta per dare agli operai la possibilità di effettuare «la loro formazione politica» (citato in Bobbio 1979, p. 68). In nome della formazione di una nuova avanguar­ dia della classe operaia, gli intellettuali avevano un ruolo defila­ to, mentre gli studenti erano ridotti a essere le truppe d’assalto della lotta di classe. Operai e Consigli di fabbrica

L’esperienza formativa di Mirafiori, dove i sindacati erano deboli e i gruppi esterni godevano di inusitata legittimità, portò alla sottovalutazione sia del potere dei sindacati sia delle nuove istituzioni emergenti in fabbrica, i Consigli dei delegati. Gli ope­ rai più attivi nei conflitti della F iat avevano visto il programma dei delegati come nient’altro che un tentativo dei sindacati «di recuperare la lotta spontanea dandole una veste giuridica uffi­ ciale» (citato in Bobbio 1979, p. 33). «Siamo tutti delegati» era lo slogan che percorse Mirafiori nei tumultuosi conflitti del 1969. Dopo l’autunno caldo, Lotta continua seguitò ad opporsi ai delegati come a un’esperienza «che nasce dall’alto, per inizia­ tiva sindacale; non dal basso, come espressione dell’iniziativa operaia» (Viale 1978, p. 162). 9 E interessante che Bobbio, Sofri e Viale, le cui posizioni differivano su molti altri punti, fossero d’accordo sul fatto che la negazione da parte di Lotta continua dell’autonomia delle esigenze educative degli studenti dei licei fosse un errore fondamentale.

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Col senno di poi, sappiamo che le condizioni della F iat non si sarebbero dimostrate generalizzabili in tutta l’industria ita­ liana dopo l’autunno caldo. Altrove i Consigli dei delegati ebbero un richiamo più positivo per gli operai e una combat­ tività che alla F iat mancava; in altri casi i consigli furono espressione dell’ala sinistra dei sindacati. Alla fine furono essi a gestire gli scioperi quasi ininterrotti a livello di fabbrica del 1970-72. Nelle fabbriche metalmeccaniche di Milano, per esem­ pio, i consigli videro uniti militanti sindacali e non sindacali. A Porto Marghera fu per iniziativa della vecchia Commissione interna che venne costituito un Consiglio di fabbrica (Perna 1980, p. 7). Ma i leader di Lotta continua speravano in «un approfondimento del distacco tra le lotte proletarie e il controllo politico del movimento operaio su di esse» (citato in Bobbio 1979, p. 47). Così essi si opposero alle trattative per il contratto che avrebbero portato alle grandi conquiste sindacali dell’au­ tunno caldo e rifiutarono la partecipazione ai Consigli dei delegati proprio nel momento in cui essi si stavano rapidamente diffondendo come le istituzioni rappresentative della classe operaia in tutto il paese. Tutti i gruppi extraparlamentari dovettero affrontare la real­ tà di questi nuovi organismi, e lo fecero in svariati modi. Il Ma­ nifesto li accolse con un entusiasmo quasi mitico, come se fossero una rinascita dei Consigli di fabbrica del 1919-21; «La Classe»/ Potere operaio cercò di organizzare dei «comitati politici» al loro interno («Potere operaio», 5 dicembre 1970); Avanguardia ope­ raia cercò di partecipare come corrente al loro interno, e ovun­ que possibile, a mantenere una presenza a sé grazie ai C ub (Avan­ guardia operaia 1972). Lotta continua, invece, che aveva impa­ rato dall’esperienza della propria fondazione che i consigli erano «essenzialmente [...] strumento di controllo dei sindacati su­ gli operai», chiedeva ai propri sostenitori di boicottarli (Bobbio 1979, p. 59)10. Benché molti militanti di Lotta continua nella realtà partecipassero ai consigli, il gruppo formalmente rimase estraneo a quella che sarebbe divenuta la più grande acquisizione degli operai dopo l’autunno caldo.

10 Solo nel 1972 l’errore venne formalmente riconosciuto e la partecipazione dei militanti di Lotta continua ai Consigli di fabbrica venne legittimata.

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Situazioni avanzate e situazioni arretrate

La vicenda dei Consigli di fabbrica era sintomatica di un dilemma più vasto che Lotta continua condivideva col resto della sinistra extraparlamentare; nel rifiutare i consigli, Lotta continua scelse la strategia di movimento rispetto all’istituzione e come dice Bobbio, si comportò come se le «situazioni avan­ zate», come la F iat , potessero essere generalizzate alle «situa­ zioni arretrate» del resto del paese (Bobbio 1979, p. 65). Benché nessuno degli altri gruppi extraparlamentari si spinse altrettanto lontano quanto Lotta continua, tutti dovevano sce­ gliere la strategia di movimento rispetto all’istituzione, perché era solo all’interno del movimento che potevano trarre la loro unica risorsa principale, il potere di sfida. Solo scegliendo il movimento potevano continuare ad attirare sostenitori, a sfi­ dare le autorità e ad ottenere l’attenzione del pubblico. I movimenti devono privilegiare i «momenti alti» della lotta ri­ spetto alla routine quotidiana dell’organizzazione di massa. Il problema, come dice Bobbio, è che questi «momenti alti» non sono universali e che, via via che la disponibilità a mobilitarsi declina nella popolazione in generale — come avvenne dopo il 1969 — essi divengono sempre più rari.

4. Organizzare il movimento Se non intendeva partecipare ai Consigli di fabbrica, in che modo Lotta continua proponeva di organizzare la propria base nella classe operaia? Dato che sarebbe stato il conflitto a formare la consapevolezza di classe rivoluzionaria degli operai — «la lo­ gica violenta, brutale e poco elegante della lotta dei proletari per la loro emancipazione» (citato in Bobbio 1979, p. 61) — era solo intensificando e diffondendo la capacità conflittuale del proleta­ riato che si sarebbe dato il via alla sua organizzazione. «Il pro­ blema — affermò Sofri — non è di mettersi alla testa delle mas­ se, ma di essere alla testa delle masse» (1968, pp. 21-22). Ma, di conseguenza, come scrisse Guido Viale (1978, p. 213), «Lotta continua non ha né ideologia, né teoria, né strutture organizza­ tive, né disciplina di partito, né programma e risoluzioni che ne fissino i compiti». L’organizzazione di Lotta continua sarebbe stata creata se­ condo linee politiche e non sindacali. Come si sarebbero svilup233

paté queste linee? «Da un processo crescente di lotte» (Bobbio 1979, p. 60). Chi le avrebbe controllate? Gli stessi operai. Quale forma organizzativa era proposta per portare avanti questa lotta? Intorno a questi temi il dibattito cominciò soltanto nel 1969. Il progetto di organizzare un partito a partire dall’interno delle avanguardie delle masse sollevava obiezioni sia da un punto di vista leninista («Nuovo Impegno» 1969) che spontaneista (Della Mea 1970), tanto che fu portato a termine solo nel 1973, quando la disponibilità popolare a protestare si stava esaurendo. Il contributo di Sofri al dibattito fu pieno di fantasia, ma era più ispirato che dotato di salde basi teoriche: «Noi crediamo che un momento fondamentale di organizzazione, di liberazione e di presa di iniziativa da parte degli operai sia un corteo di 10.000 persone come quello di Mirafiori e che la cosa che più si avvici­ nava a un soviet, in questa fase della lotta di classe in Italia, è quel corteo operaio» (citato in Bobbio 1979, p. 61). L’idea che un corteo di operai intorno a una fabbrica potesse essere l’equivalente di un soviet aveva successo sul piano pro­ pagandistico, ma non rappresentava un’analisi seria, e indirizzò il dibattito all’interno dell’organizzazione intorno ai simboli astratti più che alle strutture concrete. Anche l’organizzazione a livello nazionale rimaneva sommaria. Nei primi mesi, ogni fine settimana portava una nuova tumultuosa assemblea in una città diversa, lungo le linee della vecchia pratica del «nomadismo» di Potere operaio toscano (Viale 1978, p. 214). Quando fu costi­ tuito un Comitato politico nazionale, esso fu poco più di un’as­ semblea di delegati provenienti da diverse sedi locali. Solo nel 1973 fu creata una vera organizzazione nazionale, e anche allora essa lasciava poco spazio alla riflessione collettiva. L’attuazione delle decisioni prese dal Consiglio nazionale era affidata al gruppo dei pisani intorno a Sofri. Il risultato fu una sorta di «leninismo della personalità» — quello che più tardi So­ fri avrebbe chiamato «ganzismo». Ancora nel 1970, un critico ben disposto come Luciano Della Mea (1970, p. 53) vedeva un divario crescente tra la voce ‘ufficiale’ del movimento — asso­ migliante sempre più al ‘leaderismo’ del vecchio sistema dei par­ titi — e gli appassionati interventi verbali della base. In assenza di un’organizzazione ben articolata, osservò Sofri più tardi, «un pugno di persone» — prevalentemente vecchi amici di Torino e di Pisa — «considerava Lotta continua una specie di patrimonio personale del quale poteva disporre senza consultare nessuno» (Sofri 1977, p. 75). 234

5. Da una campagna all’altra Un importante riflesso sia del «ganzismo» di Sofri sia del ca­ rattere movimentista di Lotta continua fu la serie di passaggi politici e di campagne di mobilitazione che contrassegnarono la sua breve storia. Quando nelle fabbriche si incontrarono degli ostacoli alla mobilitazione degli operai, lo slogan del gruppo di­ venne «Prendiamoci la città»; quando Sofri venne incarcerato, Lotta continua scoprì che i detenuti fanno parte del proletariato; quando a Reggio Calabria scoppiò una rivolta, il Sud divenne il futuro nucleo centrale della rivoluzione. Questi mutamenti di politica portarono la sinistra istituzionale a considerare Lotta continua un’organizzazione poco seria, mentre la destra e la stampa l’accusavano di demagogia. Tuttavia la causa principale dell’instabilità tattica di Lotta continua non era né la demagogia né la mancanza di serietà. Essa risiedeva nella natura dei movimenti sociali, come pure nelle di­ namiche dei cicli di protesta. Un movimento è votato al conflitto e alla sfida. Senza conflitto non può impegnarsi in un’azione col­ lettiva di sfida, e manca della risorsa principale grazie alla quale mobilitare i propri sostenitori, attirare nuovi aderenti e rimanere presente agli occhi del pubblico. Tutte le organizzazioni di mo­ vimento sono costrette a cercare nuove fonti di lotta o ad ab­ bandonare la loro pretesa di essere movimenti di massa. Questo vale in particolar modo nei cicli di protesta. Quando la mobilitazione va crescendo — come avvenne in Italia a partire dal 1967-69 — le organizzazioni di movimento possono conti­ nuare a sviluppare gli stessi temi e a ricorrere allo stesso reper­ torio di azione collettiva; ma via via che la mobilitazione declina dopo aver toccato il picco del ciclo, i sostenitori tra le prime leve divengono sempre meno numerosi, le autorità imparano a com­ battere le forme dell’azione collettiva ormai conosciute, e le isti­ tuzioni cominciano a fornire prospettive più rassicuranti. Via via che la mobilitazione andò calando sul luogo di lavoro, e che i sindacati guadagnarono il controllo della classe operaia nei Con­ sigli dei delegati, le organizzazioni della sinistra extraparlamen­ tare furono costrette a trasferirsi in nuove aree di conflitto, a cer­ care nuovi soggetti sociali e a ricorrere a nuove tattiche di sfida. Altrimenti, rischiavano di perdere l’iniziativa, a favore di gruppi più istituzionalizzati, quali i sindacati e i partiti. Ma i costi potenziali di una strategia di movimento sono an­ che elevati. A causa della sua mobilità da un tema all’altro, Lotta 235

continua negava a se stessa un ruolo organizzato nelle emergenti istituzioni decisionali a livello di fabbrica. Si riduceva ad attac­ care i sindacati o a proporre alternative ai consigli, proprio nel momento in cui questi ultimi si stavano dimostrando gli stru­ menti del nuovo potere contrattuale della classe operaia11. Cer­ cando nuove forme d’azione collettiva di sfida, essa correva il rischio di incoraggiare una spirale di tattiche sempre più radicali, proprio nel momento in cui la popolazione si stava stancando della mobilitazione e le forze dell’ordine si stavano ricompattan­ do per una strategia repressiva più efficace. A partire dall’autunno del 1969 Lotta continua lanciò una serie di campagne di mobilitazione, ciascuna incentrata intorno a un singolo tema, a un soggetto sociale o a un problema politico. Queste campagne iniziarono in modo informale. Per esempio, quando gli operai immigrati tornavano al Sud per le vacanze, venivano date loro informazioni da portare nei paesi d’origine e veniva lanciata una campagna di reclutamento nel Sud (Viale 1978, p. 166). Quando le mogli delle reclute andavano a trovare i mariti in caserma, portavano del materiale di propaganda nelle borse. Amici e familiari che venivano a trovare i detenuti por­ tavano dei messaggi agli organizzatori di rivolte nelle carceri12. Alcune di queste campagne furono significative. Vediamone alcuni esempi. I dannati della terra

Lotta continua pubblicizzò e contribuì a diffondere delle proteste nelle carceri non solo attraverso i suoi militanti detenu­ ti, ma anche attraverso corrispondenti esterni15. Dato che costi­ tuivano lo strato inferiore della classe urbana più umile, e ave­ vano un’istintiva ostilità e combattività contro l’autorità, i de­ 11 Questo è il mio principale punto di disaccordo con Bobbio, il quale, nel suo trattamento dei «momenti alti» e delle «situazioni arretrate» sostiene che Lotta continua non si chiese se i primi potessero essere generalizzati a queste ultime (1979, p. 64). La mia opinione è che — una volta scelta una strategia di movi­ mento — il gruppo doveva comportarsi come se i «momenti alti» fossero univer­ salmente validi. 12 Per ovvie ragioni le fonti di questa informazione devono rimanere anoni­ me. 13 Una di essi, una studentessa di filosofia di Pavia chiamata Irene Invernizzi, fu successivamente inquisita dalla polizia per il sospetto di aver diffuso la ribel­ lione tra i detenuti mediante parole in codice che si riteneva fossero inserite nelle lettere che essa inviava loro (cfr. Invernizzi 1973).

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tenuti erano considerati una naturale estensione del sempre più ampio concetto di «socializzazione della lotta di classe» portato avanti da Lotta continua. In passato «i politici» erano stati tenuti separati dai criminali comuni nelle carceri per evitare il contagio politico, ma dopo il 1968-69 il numero degli organizzatori e degli studenti arrestati in scontri con la polizia divenne talmente alto che la separazione fisica non fu più possibile nelle affollate prigioni italiane14. I temi polarizzati dalla sinistra extraparlamentare comparvero ben pre­ sto negli slogan dei detenuti in rivolta, che divennero sempre più dettagliati e programmatici (Viale 1978, p. 250). Per Lotta continua non vi era nessuna differenza fondamen­ tale tra i detenuti politici e quelli comuni. Fintantoché giravano per le strade, i criminali erano degli egoisti e degli «irrecupera­ bili» per il movimento di classe; solo quando si trovavano in car­ cere potevano imparare l’abitudine di collaborare tra loro e di ribellarsi alla forma più istituzionalizzata di repressione, il siste­ ma carcerario. Il carcere divenne una scuola di rivoluzione nella quale l’asociale e ribelle detenuto diventava un proletario15. A partire dalla fine del 1970 Lotta continua istituì una propria «Commissione carceri» che mirava a mantenere il con­ tatto con quei detenuti rilasciati che i suoi militanti avevano contattato in prigione (Lotta continua 1972). Lotta continua si mantenne in contatto anche con tutta una rete di avvocati disposti a lavorare per far uscire di prigione i militanti arrestati. Inoltre, cercò di organizzare i detenuti liberati attraverso una specie di rete sociale militante16. Il movimento dei detenuti salì in crescendo fino al 1973, quando «Lotta continua» pubblicò oltre 150 rapporti di rivolte nelle carceri, in coincidenza con un movimento di riforma delle carceri in Parlamento e sulla stampa (Neppi Modona 1976; Viale 1978, p. 250). Ma a partire dal 1975, con la scoperta dei N a p , Lotta continua abbandonò sia la Commissione carceri che i propri tentativi di organizzare gli ex-detenuti. 14 Colloquio con Guido Neppi Modona, New York, 20 giugno 1987. 15 Riassunto da un documento del nucleo di San Vittore a Milano, uno dei centri delle rivolte dei detenuti, pubblicato in «Lotta continua», 16 dicembre 1971. 16 La campagna di Lotta continua nelle carceri è un capitolo di questa vicenda che resta ancora da scrivere.

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«Prendiamoci la città!»

Il tema di mobilitazione più importante nella storia di Lotta continua emerse nel 1971. «Prendiamoci la città!» fu il tema del secondo congresso nazionale del gruppo. Benché la campagna di­ scendesse logicamente dalla decisione del 1969 di mobilitare gli operai intorno ai loro interessi soggettivi — la casa, i servizi ur­ bani, la qualità della vita — essa assurse a strategia generale solo quando gli sforzi del gruppo nelle fabbriche cominciarono a in­ sterilirsi («Lotta continua», 20 novembre 1970), e quando un certo numero di altri gruppi cominciò a organizzarsi intorno alle esigenze degli inquilini, degli utenti dei servizi pubblici e dei gruppi urbani in generale. Fu da campagne come queste che vennero molti dei più gran­ di successi del movimento urbano; dagli scioperi per gli affitti da parte di inquilini delle case popolari, dall’‘autoriduzione ’ delle bollette e delle tariffe dei trasporti pubblici, a meno organizzati tentativi di cambiare i piani regolatori delle città. Tra tutte le attività di Lotta continua, questa era quella che avrebbe potuto attingere in modo più efficace dall’abilità e dalle capacità elei suoi militanti provenienti dalla classe media e far avanzare l’obiettivo strategico del gruppo di «socializzare la lotta di classe». Ma il bisogno di tenersi continuamente in vita come movi­ mento minò il successo di questa campagna, perché esso dipen­ deva da una seria organizzazione di casa in casa e dall’elabora­ zione di un alto grado di specializzazione. Mentre alcuni gruppi come l’Unione inquilini di Milano, il S unia e i sindacati stavano imparando a muoversi nei labirinti della politica urbana, Lotta continua cercava di far scattare i meccanismi della rivolta che aveva visti in atto per esempio nella famosa occupazione di viale Tibaldi (Bobbio 1979, p. 82). Ancora una volta il bisogno di «continuare la lotta» ebbe la precedenza sull’organizzazione. In termini pratici, questo significò continuare la lotta a partire da «momenti avanzati» portandola anche in situazioni in cui aveva poche possibilità di riuscita. Già nel 1973 lo slogan «Prendia­ moci la città!» era stato archiviato nel «fatidico» congresso di Rimini. «Mo’ che il tempo s’avvicina»

Una linea strategica molto diversa risaliva al 1971, quando Sofri, appena uscito dal carcere, fece un ‘pellegrinaggio’ al Sud 238

nel tentativo di stimolare la mobilitazione nelle regioni in cui il movimento era più debole. Comparve — fra l’altro — a Reggio Calabria, dove degli elementi locali avevano portato avanti la battaglia durata otto mesi per la questione del capoluogo regio­ nale. Per unanime riconoscimento, la sinistra era stata lenta a co­ gliere il potenziale rivoluzionario di un conflitto che di conse­ guenza cadde rapidamente sotto la direzione dell’estrema destra (Ferraris 1970). Solo Lotta continua si diede immediatamente all’azione. Mentre il Pei condannava la «gestione da destra» della rivolta di Reggio, Lotta continua stava organizzando dei raduni di solidarietà coi reggini a Milano e a Torino, chiedendo alla si­ nistra: «Strappiamo Reggio proletaria ai fascisti, ai padroni, ai falsi rappresentanti del popolo» (Bobbio 1979, p. 91). Col tra­ sferimento di Sofri in quella regione, e la disponibilità ad acco­ gliere nel gruppo gli elementi del sottoproletariato a prescindere dalla loro matrice politica, il gruppo cercava di scavalcare le altre organizzazioni dell’estrema sinistra. «Reggio è stata una grande vittoria della spontaneità e la definitiva sconfitta dello sponta­ neismo», dichiarò Sofri col suo abituale gusto per il paradosso (cit. in Bobbio 1979, p. 91). «I ribelli di Reggio sono gli uomini del Sessantotto», scrisse Viale (1978, p. 232). Era stata l’assenza della sinistra rivoluzionaria dalle regioni povere del Sud, ritenevano Sofri e Viale, a spiegare perché i fa­ scisti avevano potuto assumere la guida di quella che in realtà era una lotta popolare (Viale 1978, p. 235). Sofri proclamò un nuovo fronte di continuazione della lotta. Questo si concretizzò nella pubblicazione di un giornale, «Mo’ che il tempo s’avvicina», e la creazione di ventisei nuove sezioni nel Sud (Bobbio 1979, p. 93). Ma non ebbe successo presso il proletariato e il lumpen proletarìat del Sud; le elezioni del 1975 portarono sì un terremoto politico nel Sud, ma fu il Partito comunista a trarne vantaggio. Benché Lotta continua fosse riuscita più di qualsiasi altro gruppo extraparlamentare ad organizzarsi attraverso l’azione collettiva, le campagne da essa lanciate lasciarono ben poco di concreto dietro di sé. Nelle fabbriche, i sindacati si stavano già reinsediando proprio nel momento in cui Lotta continua comin­ ciò ad attuare una strategia di conflitto; nelle aree urbane, la strategia del «Prendiamoci la città!» precedette il più grande bal­ zo in avanti del Pei nella storia del dopoguerra; nelle carceri, la riforma venne iniziata nel 1973, solo per essere spazzata via dal­ l’ondata di violenza negli anni che seguirono; e nel Sud la rivolta di Reggio fu seguita dal classico stratagemma del sistema parla239

meritare, l’approvazione di un pacchetto di opere pubbliche (Viale 1978, p. 234). La mobilitazione precedette la politica clientelare della De, la repressione da parte delle forze dell’or­ dine e le vittorie elettorali della sinistra istituzionale. Dal nostro punto di vista, due decenni più tardi, la storia di Lotta continua sembra rassomigliare alla vicenda di un uomo che si propone di attraversare un torrente impetuoso e di arrivare a un dato punto dell’altra sponda. Crede di avere il dominio della forza che lo sospinge, ma la velocità e l’impeto del torrente sono totalmente al di fuori del suo controllo. Se si ferma su una roccia per riprendere le forze, rischia di cadere in acqua. Allora fa una scelta tattica dopo l’altra, da una pietra all’altra, senza conside­ rare dove lo porterà ciascuna di esse. Alla fine, e quasi senza volerlo, raggiunge l’altra sponda, ma molto lontano da dove vo­ leva arrivare. E lì, cosa trova?

6. Violenza di massa, violenza d’avanguardia La campagna che avrebbe avuto gli effetti più profondi sul destino di tutta la sinistra extraparlamentare fu quella contro il rigurgito di neofascismo violento e contro quegli elementi all’in­ terno dello Stato che sembravano esserne complici (Viale 1978, pp. 216-22). La campagna fu innescata dalle bombe di piazza Fontana nel dicembre 1969 e dalla «morte accidentale» dell’a­ narchico Giuseppe Pinelli che la seguì. Riassumiamo brevemente lo svolgersi ben noto di questi eventi, prima di volgere la nostra attenzione alle implicazioni che essi ebbero per Lotta continua e per tutta la sinistra extraparlamentare. Una strage 12 dicembre 1969 17. Giorno di mercato per i contadini dell’hinterland milanese. La Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana è affollata di gente che viene dalla provincia e che ef­ fettua depositi, tratta prestiti, chiacchiera sotto la grande roton­ da. Una bomba contenuta in una valigetta marrone fatta entrare di nascosto nella banca esplode, uccidendo tredici persone, fe­ rendone novanta e gettando il paese nel caos. In quello stesso 17 Sono grato a Tom Zamora, la cui tesi di laurea alla Cornell University mi ha aiutato a ricostruire la vicenda di piazza Fontana e gli eventi che seguirono.

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momento tre altri ordigni esplodono a Roma («Corriere della Sera», 13 dicembre 1969). Per la prima volta dall’inizio del ciclo di protesta vi sono segni di cospirazione organizzata. Ma da chi? Il giorno dopo i titoli dei giornali annunciano a caratteri cubitali ad un paese attonito il prezzo di morti che ha pagato («Corriere della Sera», 13 dicembre 1969). Il funerale del­ le vittime diventa un’occasione per la classe politica di accorrere a Milano per inveire contro la violenza (Viale 1978, p. 218). Il presidente Saragat parla di «bestiale incoscienza», dice che l’at­ tentato potrebbe essere «un anello di una tragica catena di atti terroristici che deve essere spezzata ad ogni costo» dalle «forze dell’ordine democratico» («Corriere della Sera», 13 dicembre 1969). Nel discorso di Saragat le rituali espressioni di cordoglio per le vittime si mescolano ad una nuova nota di ammonimento: se la repubblica vuole sopravvivere, deve vigilare contro l’ever­ sione. Inizia immediatamente una retata fra i gruppi di sinistra, in particolare anarchici. I casi di morte nel corso di episodi di protesta erano stati rari durante il periodo intenso della mobilitazione dal 1967 fino alla metà del 1969. Ma a partire dall’autunno del 1969 la morte vio­ lenta si accompagnò sempre più al conflitto, o ne fu l’obiettivo. Benché non si trattasse di un periodo di terrorismo organizzato, fu nei primi anni Settanta che iniziarono ad esservi feriti e morti durante i conflitti nelle strade. Nel grafico della fig. 21 è ripor­ tato il numero di episodi tratti dal «Corriere della Sera», suddi­ visi per semestre, nei quali fu riferito di morti o feriti durante episodi di azione collettiva. Numero

Semestre

Fig. 21 - Numero degli episodi in cui vi furono morti e feriti tra coloro che protestavano, le forze dell’ordine, i bersagli della protesta o estranei, per trimestre, 1966-73

La prima avvisaglia di un cambiamento si era avuta tre set­ timane prima della bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura: nel corso di uno sciopero nazionale per la casa un agente era ri­ masto ucciso al volante di un automezzo della polizia (Lumley 1983, pp. 417-18). Quando l’estrema sinistra rispose con un ap­ pello alla «violenza operaia dalle fabbriche alle strade» (Bobbio 1979, p. 52), la coscienza cattolica della società ne rimase scossa. Vendicare la morte dell’agente Annarumma divenne una parola d’ordine unificante per l’estrema destra (Bobbio 1979, p. 52). Il vero responsabile del massacro di piazza Fontana non sarà forse mai scoperto18, tuttavia la polizia seguì rapidamente una «pista rossa». Il 13 dicembre arrestò 27 militanti di sinistra — perlopiù anarchici — uno dei quali, Giuseppe Pinelli, era sospet­ tato di essersi trovato nei pressi della Banca Nazionale dell’Agricoltura la mattina del 12 dicembre («Corriere della Sera», 13 dicembre 1969). Pinelli fu portato in questura per essere inter­ rogato, e lì, come affermò più tardi la polizia, dopo che «i suoi alibi erano caduti», si gettò da una finestra del quarto piano nel cortile sottostante («Corriere della Sera», 16 dicembre 1969). Quando, un’ora dopo, morì in ospedale, con sorprendente pron­ tezza la polizia lo dichiarò colpevole della bomba alla Banca Na­ zionale delPAgricoltura. Dopo piazza Fontana, morte e lutto divennero sempre più frequentemente terreno di scontro politico fra la sinistra e la de­ stra. Mentre la destra affermava che il massacro di piazza Fon­ tana e le bombe di Roma erano frutto di un complotto di sinistra, la sinistra extraparlamentare vedeva le bombe come una provo­ cazione fascista e — soprattutto dopo la sospetta morte di Pinelli — come prova della fascistizzazione dello Stato. Quando un se­ condo anarchico, Pietro Valpreda, venne rapidamente arrestato, i gruppi extraparlamentari si videro minacciati da un’offensiva generale («Corriere della Sera», 17 dicembre 1969)l9. 18 II 12 dicembre 1972 il «Corriere della Sera» riferiva che i ritardi nel pro­ cesso di Valpreda potevano essere dovuti al fatto che i magistrati seguivano una pista nera. Nel 1973 l’incertezza crebbe, via via che diveniva chiaro che un amico di Valpreda si era di recente convertito all’anarchia dal fascismo, costituendo così un legame con due fascisti da poco arrestati, Freda e Ventura («Corriere della Sera», 12 dicembre 1973). Nel 1974 il «Corriere della Sera» riconosceva che era effettivamente esistita una «strategia della tensione» proveniente dall’estrema destra (cfr. il numero del 12 dicembre 1974). 19 La repressione andò molto al di là dell’arresto di Valpreda; a Genova la polizia arrestò sei maoisti; a Milano furono arrestati altri cinque anarchici, e gli uffici dell’editore Giangiacomo Feltrinelli furono perquisiti («Corriere della

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La campagna di antifascismo m ilitante e militare

Quali furono le implicazioni di questi eventi per la sinistra extraparlamentare? La strage di piazza Fontana era stato per loro un duro colpo; ma come molte catastrofi politiche, fornì anche delle opportunità di unità e propaganda al di fuori della loro base abituale20. Inizialmente muti per lo stupore dopo le bombe, i gruppi extraparlamentari reagirono sia al «salto» di Pinelli sia a quella che consideravano una falsa accusa montata contro Vaipreda. A questo scopo utilizzarono appieno le due risorse prin­ cipali a disposizione: la pubblicizzazione e la mobilitazione. La campagna di mobilitazione iniziò in tono minore ai fune­ rali di Pinelli, che furono occasione di una massiccia ma pacifica dimostrazione («Corriere della Sera», 21 dicembre 1969). Le bandiere rosse della sinistra marxista e quelle rosse e nere degli anarchici si mescolarono, mentre tremila militanti della sinistra extraparlamentare seguivano il feretro di Pinelli (Viale 1978, p. 218). Da allora in poi, scrive Bobbio (1979, p. 55), «non c’è ma­ nifestazione che non sia dominata dagli slogan su Pinelli e dal canto della ballata che gli è stata dedicata (Quella sera a M ilano era caldo)» (cfr. Viale 1978, p. 217). Non solo la sinistra extraparlamentare, ma anche i sindacati, il Pei e le organizzazioni di massa quali I’A npi (Associazione na­ zionale partigiani d’Italia) stavano cominciando ad allarmarsi per i segnali di una campagna di provocazione dell’estrema destra, guidata da alcuni elementi dello Stato, che vedevano come i pro­ dromi di un ripetersi del 1921-22. A partire dal 1969 un’ampia coalizione di gruppi di sinistra organizzò una serie di dimostra­ zioni contro il «terrorismo di Stato», la repressione poliziesca e il neofascismo. Attorno a questi temi la sinistra e l’estrema sinistra potevano unirsi, malgrado le loro divergenze politiche. Lotta continua si unì con energia a questi sforzi propagandi­ stici: «Le bombe di Piazza Fontana — ricordava Adriano Sofri Sera», 20 dicembre 1969). Le perquisizioni e la paura di improvvise irruzioni della polizia portò alcuni militanti di sinistra a entrare nella clandestinità. Anche se non vi fu una «strategia della tensione» concertata da parte dell’estrema destra e della polizia, come affermava l’estrema sinistra, è vero che la polizia stava at­ taccando tutta la sinistra extraparlamentare, costringendo alcuni a scegliere tra la protesta legale e pacifica e l’entrare in clandestinità. 20 Per Lotta continua, per usare le parole di Bobbio (1979, p. 56), questo «è parte integrante della sua proiezione verso un modo nuovo di fare politica. Una politica che parte dal basso [...] trova il suo prolungamento [...] nella denuncia dei misfatti del potere».

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(1985, p. 94) — hanno segnato un’irreparabile scissione» col pas­ sato. Ma Lotta continua si spinse molto più in là degli altri grup­ pi della sinistra, utilizzando titoli provocatori e denunce della complicità della polizia21. Queste tattiche diedero alle autorità il pretesto per incriminare il direttore responsabile del giornale, Pio Baldelli (Bobbio 1979, p. 55). Questo a sua volta fece scat­ tare ulteriori sospetti: se la polizia non era complice delle bombe, perché ci teneva tanto a far tacere le critiche? La strage di piazza Fontana fornì così a Lotta continua un’opportunità di agire insieme ad altri gruppi a sinistra in un fronte comune contro la reazione. Ma essa non poteva resistere alla tentazione di scavalcarli con accuse di fascistizzazione dello Stato e con tattiche più radicali nelle strade. Mentre alcuni grup­ pi extraparlamentari mettevano in guardia i propri sostenitori dal fornire ai fascisti un obiettivo e allo Stato un pretesto per la repressione, i leader di Lotta continua tenevano di più a dimo­ strare di non aver paura dei fascisti. Nei mesi successivi a piazza Fontana essi lanciarono una cam­ pagna di antifascismo militante e militare, che per molti giovani fu la prima — e per alcuni la più importante — esperienza di formazione politica. Il tema dell’antifascismo militante fu esteso fino a comprendere anche i padroni delle fabbriche e i proprie­ tari terrieri. Per i leader che avevano militato nel movimento studentesco universitario e accanto agli operai di corso Traiano, questa campagna aveva un significato specifico e tattico. Ma a molte delle nuove reclute del gruppo, provenienti dai licei, inse­ gnava che la violenza era una forma di lotta politica, e una difesa necessaria contro la reazione. La lotta contro il fascismo assunse un certo numero di forme, le più visibili delle quali furono gli scontri di piazza tra gruppi di giovani di sinistra e di destra. Questo si assommò all’aumento della criminalità non politica che in quella stessa epoca stava vi­ vendo ogni paese occidentale. Dato che la delinquenza comune e gli scontri violenti tra fazioni politiche diverse si verificarono prevalentemente nelle stesse grandi città, il pubblico ebbe l’im­ pressione che gli estremisti politici fossero in qualche modo re­ sponsabili di entrambe le cose22. Lotta continua fece pochi passi in direzione di una coopera­ 21 La campagna fu anche rafforzata dalla pubblicazione di un libro di note­ vole successo, Strage di Stato (Anonimo 1970), pubblicato da un gruppo che aveva indagato sull’estrem a destra a partire dal 1966 (cfr. Viale 1978, p. 221). 22 Per i dati a questo relativi, cfr. Tarrow 1989.

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zione con altri gruppi della sinistra in questa campagna. Ma la sua tecnica della «controinformazione» e il suo antifascismo mi­ litante e militare erano troppo demagogici e violenti per alcuni suoi potenziali alleati. La stessa campagna contro il fascismo e la repressione portò alla violenza e a una maggiore repressione. E s­ sa cercava di fare appello a ex-partigiani della Resistenza, ai sin­ dacati e ai partiti della sinistra perché si unissero contro la mi­ naccia di un fascismo promosso dallo Stato; ma, allo stesso tem­ po, il suo linguaggio e i suoi comportamenti violenti provocarono la polizia e l’estrema destra ad attaccarla, lasciandola esposta al­ le accuse di costituire essa stessa una minaccia per la legge e l’ordine23. Dalla violenza di massa alla violenza d ’avanguardia

Lotta continua aveva sempre considerato la violenza un male necessario nella lotta di classe, ma solo la violenza di massa. T ut­ tavia, nel clima di guerra civile della campagna contro il fasci­ smo, il giornale incoraggiò le denunce, i sequestri e le minacce di punizione a coloro che erano sospettati di simpatie verso i fasci­ sti. Non esitò a denunciare e ad attaccare personalmente i «ne­ mici del proletariato». Vennero compilati elenchi dei nemici, esaltati i casi di insubordinazione popolare, descritte con appro­ vazione le umiliazioni pubbliche di capi del personale di alcune fabbriche. In questa fase, ricorda Bobbio (1979, p. 81), «la pa­ rola d ’ordine ‘Sequestriamo i padroni’ ricorre sempre più spesso nella propaganda di Lotta continua». Un caso sintomatico fu quello della morte del commissario Calabresi, che era stato incaricato del caso di piazza Fontana. Dopo la morte di Pinelli, Lotta continua lo additò come l’assas­ sino dell’anarchico (Bobbio 1979, p. 104). Quando, nel 1972, Calabresi fu assassinato, il giornale fu combattuto tra il condan­ nare l’omicidio politico (che, affermò, «non è certo l’arma deci­ siva per l’emancipazione delle masse») e la soddisfazione come giornale per un assassinio che era «un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia» (Bobbio 1979, pp. 104-105). In un paese cattolico in cui la vita umana è un valore culturale 2S Un esempio: nella campagna elettorale del 1972, Lotta continua issò a pro­ pria bandiera lo slogan: «I fascisti non devono parlare» (Bobbio 1979, p. 101).

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centrale, l’apparente disponibilità di Lotta continua a incorag­ giare l’assassinio politico fu un passo simbolico che non le valse amici tra il pubblico o nella sinistra istituzionale. Fu anche presto evidente che questo poteva creare delle divisioni interne24, ol­ treché far correre dei rischi di natura legale al gruppo. Sedici anni dopo, nel confessare di avere preso parte all’assassinio, un ex-militante di Lotta continua accusò Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani di avergli «ordinato» di farlo («Corriere della Sera», 28 luglio 1988). La campagna antifascista di Lotta continua diede il tono an­ che ai suoi rapporti con la classe operaia. L ’estrema sinistra so­ stenne a lungo che la classe operaia italiana non temeva la vio­ lenza, quando essa era utilizzata in nome della rivoluzione. Tut­ tavia, la violenza contro un alto funzionario dello Stato poteva avere un significato diverso; da un documento dei C u b della Pirelli-Bicocca dopo l’assassinio Calabresi, sembra sicuro che l’af­ fare Calabresi fosse oggetto di discordia all’interno dell’ala extraparlamentare25. In questa fabbrica la collaborazione tra i gruppi era stata ricucita con cura per un lungo periodo. Fragile pianta nel migliore dei casi, essa non sopravvisse a lungo alla du­ rezza degli scontri tra i gruppi extraparlamentari in competizio­ ne tra loro che seguirono all’episodio. Violenza e competizione politica

La frattura fra gli operai della Pirelli-Bicocca dopo l’assassi­ nio di Calabresi era emblematica di quello che stava accadendo alla sinistra extraparlamentare in tutto il paese riguardo al pro­ blema della violenza. Via via che la violenza andava salendo a spirale tra la sinistra e la destra e tra i movimenti e la polizia, i gruppi classici della sinistra extraparlamentare — quelli nati dal movimento studentesco universitario del 1968 — si trovarono di 24 In un importante articolo, scritto sotto pseudonimo in «Q uaderni piacen­ tini», Luciano Pero criticò il suo gruppo, condannando « l’opportunismo di sini­ stra di coloro che sono disposti a lasciare alle masse di decidere, caso per caso, se gli atti di violenza sono legittimi» (Pero 1972). 25 In questa importante fabbrica era stata di recente costituita una collaborazione tra gli operai seguaci di L otta continua, Avanguardia operaia e altri grup­ pi di sinistra. Quando Calabresi fu ucciso, la corrente di L otta continua, seguen­ do la linea nazionale del proprio partito, insistette nel chiamare l’assassinio un atto di giustizia proletaria. G li altri non furono d ’accordo e la collaborazione si interruppe.

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fronte alla difficile scelta di adottare standard più radicali, il che li faceva apparire sostenitori della «violenza d ’avanguardia», op­ pure di mettere in guardia i propri militanti dal prestare il fianco a provocazioni fasciste, dando così l’impressione di cedere all’in­ timidazione. Se il suo unico obiettivo fosse stato quello di far prova della sua affidabilità democratica, Lotta continua avrebbe potuto sem­ plicemente rifiutare la violenza d ’avanguardia. Ma questo era il passo che aveva già compiuto il suo avversario giurato, il Pei, e che alcuni dei suoi concorrenti, in particolare Potere operaio, rifiutavano nettamente di fare. Condannare apertamente la vio­ lenza d ’avanguardia nel clima di guerra civile degli anni succes­ sivi alla strage di piazza Fontana avrebbe permesso alle altre for­ mazioni di etichettarla come meno coraggiosa di loro di fronte alla minaccia della reazione26. L ’episodio Calabresi e le polemiche che ne seguirono sono istruttive circa i dilemmi di un movimento di massa nella dina­ mica del ciclo di protesta. In una situazione di competizione, nella quale i gruppi più estremisti stanno adottando strategie vio­ lente, è difficile per qualsiasi organizzazione di movimento usci­ re audacemente allo scoperto contro l’uso della violenza. Quali che fossero i suoi atteggiamenti verso la violenza di massa — ed essi erano certamente favorevoli — Lotta continua trovò politi­ camente difficile condannare la violenza -dì avanguardia quando c’erano dei fascisti per le strade, e quando sia i suoi militanti che i suoi concorrenti erano pronti ad andare ad affrontarli. Questo dilemma si rispecchiò nelle affermazioni politiche, in reciproca competizione, di Lotta continua e del suo vecchio al­ leato e contendente, Potere operaio. In quello che apparve un significativo passo verso la lotta armata, ma anche un segno della sua debolezza e del suo imminente scioglimento, Potere operaio proclamò l’imminenza dell’insurrezione (Bobbio 1979, p. 99). In risposta, Lotta continua annunciò una linea militante di «con­ flitto generale» che avrebbe dovuto competere politicamente con l’appello all’insurrezione di Potere operaio. Il momento in cui Lotta continua si avvicinò di più all’accet­ tazione della leggittimità della violenza d ’avanguardia fu in un 26 Per quello che vale la testimonianza di Marino nell’agosto 1988, alla do­ manda degli inquirenti perché i leader di L otta continua avrebbero «ordinato» l’assassinio di Calabresi nel 1972, la risposta fu che erano ansiosi di mostrare ai propri militanti che le Brigate Rosse da poco costituite non avevano il monopolio della violenza rivoluzionaria.

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convegno nazionale a porte chiuse a Rimini. Nel suo documento preparatorio, Sofri chiamava alla preparazione di «uno scontro generalizzato, con un programma politico che ha come avversa­ rio lo stato e ha come strumento l’esercizio della violenza rivo­ luzionaria, di massa e di avanguardia» (corsivi nostri; citato in Bobbio 1979, p. 98). La linea potenzialmente riformista del «Prendiamoci la città!» fu sommariamente archiviata, nel timore che Potere operaio e altri gruppi più militanti scavalcassero Lotta continua nel dimostrare le loro credenziali rivoluzionarie. Dal punto di vista interno, Rimini rafforzò il ruolo del servi­ zio d ’ordine (Bobbio 1979, p. 101) e portò a ulteriori divisioni tra sinistra e destra. All’esterno, procrastinò per altri due anni la cooperazione con altri gruppi dell’estrema sinistra (Bobbio 1979, p. 99). Fu questo il momento della storia di Lotta continua in cui essa più si avvicinò ad accettare l’ipotesi della lotta armata. Presto non fu più possibile non affrontare un tema così con­ troverso. Stavano comparendo sulla scena gruppi nuovi e più estremisti che tentavano di crearsi uno spazio politico in compe­ tizione coi gruppi «classici» della sinistra extraparlamentare. Ad ogni nuova spirale di violenza organizzata, di repressione e di controviolenza, sempre più numerosi erano coloro che si senti­ vano respinti dal corso che la lotta stava assumendo. I due punti di svolta per Lotta continua si ebbero prima quando la polizia scoprì l’attività dei N ap e poi quando due dei suoi militanti ven­ nero uccisi durante una rapina in banca. Lotta continua si chiese pubblicamente che tipo di rivoluzione era quella in cui dei gio­ vani seguivano una linea d ’azione che li portava a farsi ammaz­ zare come cani per le strade. Se da una parte questi due episodi non convinsero nessuno della conversione di Lotta continua alla lotta pacifica, fu da que­ sto momento in poi che essa si allontanò dalla violenza e si rivolse all’arena politica. A partire dal congresso del 1975 Lotta conti­ nua aveva pubblicamente rifiutato la violenza d ’avanguardia, de­ cidendo che «la linea di massa va rigorosamente applicata al pro­ blema della forza [...] considerare il problema della forza come un problema separato significa mettere il fucile al posto di co­ mando» (Lotta continua 1975, pp. 122-23). Ma, per alcuni, la condanna della violenza veniva troppo tar­ di. Mancando di una linea coerente per dare significato alla pro­ pria militanza, vedendo il capitale politico del gruppo consumar­ si in una serie di campagne teatrali ma inutili, e scoprendo la possibilità che la rivoluzione si allontanasse rapidamente, alcuni militanti cedettero al richiamo dell’antifascismo militare, alla re­

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torica violenta e al sostegno alla violenza rivoluzionaria, tutti ele­ menti che produssero una «cultura della violenza» che sarebbe stato «difficile sradicare con il mutamento della ‘linea politica’» (Bobbio 1979, p. 106). Questi militanti costituivano, però, una piccola minoranza dei gruppi extraparlamentari classici, e non è esatto affermare, come di recente ha fatto qualcuno (LaPalombara 1987), che que­ sti gruppi fossero i responsabili del terrorismo. Nel suo studio dei resoconti giudiziari di oltre 800 casi di terroristi arrestati, Della Porta (1987, p. 341) ne ha trovati solo 75 che in dato periodo avessero militato in Lotta continua27. Una percentuale molto più alta — i due terzi del totale — non proveniva affatto dalla sini­ stra extraparlamentare classica, ma da una nuova generazione di piccoli, semiclandestini «collettivi autonomi» che ricorrevano alla violenza per crearsi uno spazio politico in un’arena di com­ petizione politica già affollata. Il terrorismo non fu figlio del Sessantotto; fu il frutto di una nuova generazione di estremisti che erano cresciuti politicamen­ te nella lotta antifascista e che avevano trovato troppo moderati er i loro gusti i gruppi extraparlamentari, le cui strategie erano asate sull’ipotesi di un’azione collettiva di massa. Il terrorismo non fu il culmine del movimento nato nel Sessantotto; fu il segno del fallimento della strategia di movimento in un periodo di mo­ bilitazione in declino. Gli altri segni li troveremo nell’ambito po­ litico.

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7. La politica, o l’arte dell’impossibile Il periodo della storia di Lotta continua che seguì al suo ri­ fiuto della violenza d ’avanguardia fa parte della contraddittoria storia della politica dei gruppi extraparlamentari e ricade preva­ lentemente al di fuori degli obiettivi di questa indagine. Tutta­ via, un rapido esame della sua evoluzione dopo il 1972 ci aiuterà a capire più chiaramente in che modo il declino della mobilita­ zione di massa influenzò la svolta alla politica elettorale di queste organizzazioni di movimento e della sinistra extraparlamentare in generale. Via via che si esaurisce il ciclo della mobilitazione di massa 27 Nel campione di terroristi detenuti studiato da Della Porta (1988, p. 341), coloro che erano giunti alla lotta armata provenienti da Potere operaio erano in numero ancor minore: cinquantadue.

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nel quale è nata, un’organizzazione di movimento ha solo due scelte: seguire la strada di «un estremismo che se nel 1969-70 [...] poteva avere un retroterra reale, ora nel 1973-74 [•••] aveva un carattere esasperato» (Bobbio 1979, p. 140); oppure passare alla politica. Una volta che il passaggio di Lotta continua a nuovi settori e nuove forme d ’azione fu impedito dal calo della mobi­ litazione di massa, e dopo aver rifiutato il terrorismo, il gruppo doveva affrontare più seriamente le domande che nel passato aveva sempre eluso: i suoi rapporti con il movimento sindacale tradizionale e col Pei; quale forma doveva assumere il partito; i rapporti del gruppo con i suoi concorrenti; la transizione al so­ cialismo (Bobbio 1979, pp. 113-20). Al cuore del cambiamento risiedeva la fase discendente del ciclo. Bobbio (1979, p. 114) così interpreta il cambiamento: «In questo periodo appare ormai esaurito il carattere di radicale rot­ tura che aveva contrassegnato, fra il 1968 e il 1970, l’emergere di nuovi soggetti sociali», sicché «la svolta di Lotta continua è la risposta (ritardata) a un effettivo mutamento di fase che si de­ termina, grosso modo, tra il 1971 e il 1973». Il movimento del 1967-69 era allora finito? Sofri affermava di no: era invece diventato un’«onda lunga» il cui ambito d ’azio­ ne stava passando dalla società alla politica e allo Stato. Di con­ seguenza, il «politico» doveva prevalere sul «sociale», le richieste generali su quelle specifiche. Il processo rappresentava «la rispo­ sta [del sistema] a una serie di processi che la stessa ‘onda lunga’ del Sessantotto ha messo in moto, sferrando un assalto [...] al cielo della politica» (Bobbio 1979, p. 115). Come dovevano rispondere a questo passaggio di livello e di attenzione le forze più avanzate della sinistra? Non era più pos­ sibile dipendere dal conflitto in fabbrica, da azioni radicali nelle città o da momenti alti della lotta. La mobilitazione di massa era finita, e la violenza stava allontanando il pubblico dall’azione collettiva di qualsiasi genere. In realtà, proprio per dare conti­ nuità al ciclo iniziatosi nel 1968-69, il gruppo doveva trovare una nuova forma che desse peso al movimento all’interno del proces­ so politico. «Se con la ‘politica’ si cerca di schiacciare il ‘sociale’, bisogna riuscire ad affermare un’ “altra politica’» (Bobbio 1979, p. 115)28. Per i gruppi classici della sinistra extraparlamentare, 28 In questo parafrasiamo il modo in cui Bobbio vede le radici del cambia­ mento in Lotta continua, modo che egli basa prevalentemente sulla discussione programmatica apparsa su «L otta continua» deU’8 , 12 e 14 ottobre 1972, e su una seduta del Comitato nazionale del 21 ottobre 1972.

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l’allontanamento dalla strategia di movimento e la loro entrata sulla scena politica in senso stretto furono contemporanei all’i­ nizio della fase della lotta armata. Ma come poteva essere inventata «un’altra politica» in un periodo di calo di disponibilità all’azione collettiva da parte delle masse popolari? Nel contesto del 1972-75, furono i fautori della violenza d ’avanguardia ad avere l’iniziativa, non i gruppi classici della sinistra extraparlamentare. Una volta persa la base d ’azione collettiva di massa, e ora che l’iniziativa dell’azione radicale era stata assunta dal «partito della lotta armata», che strada rimane­ va aperta a Lotta continua, se non quella della politica istituzio­ nale? Una volta deciso questo in linea di principio, passare ad ope­ rare all’interno del sistema divenne in pratica una fuga. Inizial­ mente, Lotta continua cercò di correggere la sua disastrosa po­ litica nelle fabbriche partecipando ai Consigli dei delegati (Bobbio 1979, pp. 116-20). Successivamente il gruppo accrebbe la propria cooperazione con gli altri principali gruppi dell’estre­ ma sinistra — il PDUP-Manifesto e Avanguardia operaia — che avevano anch’essi scelto la strada del legalismo (Bobbio 1979, pp. 141-44). In terzo luogo, la sua concezione del partito seguì un’evoluzione da coalizione di «avanguardie interne» a «luogo in cui l’individuo subordina sé alla collettività» fino ad esprimere «nuli’altro che la riscoperta del centralismo democratico» (Bob­ bio 1979, p. 129)” . Per finire, dopo quasi un decennio di feroci polemiche anti­ comuniste, il partito si avvicinò al Pei, ancor prima che il colpo di Stato in Cile del settembre 1973 fornisse a Berlinguer l’occa­ sione per sviluppare la strategia del compromesso storico. Inver­ tendo la propria analisi precedente, nel gennaio 1973 Sofri pro­ clamava che «il revisionismo non è destinato a scomparire» («Lotta continua», 12 gennaio 1973). Ora l’Italia aveva dinanzi a sé solo due scelte reali: la scelta fascista sotto l’egida della bor­ ghesia oppure un governo che rappresentasse il proletariato, sot­ to la direzione del Pei. Di queste alternative, solo la seconda po29 Q uesta citazione di Sofri è tratta dal suo discorso a un congresso nazionale del 1973 del gruppo milanese di L otta continua, ed è citato da Bobbio (1979, p. 129). Benché il parallelo con la terza internazionale sia forse forzato, lo stesso Sofri più tardi ammise che «benché io sia sempre stato un duro critico delle tesi del compagno Lenin [...] circa il [partito come] avanguardia esterna, in tutta la mia vita non sono mai riuscito a essere l’avanguardia interna di niente» (1977, p. 76).

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teva dare spazio a «un processo di autorganizzazione di massa, di armamento di massa» (citato in Bobbio 1979, p. 126). Sofri aveva ragione nel predire che quanto avevano seminato i movimenti del 1968 sarebbe stato raccolto dal Pei. Ma era un raccolto amaro, nel migliore dei casi; e, nel peggiore, quelle ele­ zioni segnarono la sconfitta definitiva del 1968. Nel futuro non c’era posto per Lotta continua, poiché una volta costruita una struttura interna leninista e abbracciata una strada elettorale al socialismo, le sarebbe mancata la capacità stessa di richiamo per le nuove forze che stavano emergendo nella società italiana. Questo apparve chiaramente dal fallimento sia del suo sostegno al Pei nel 1975, sia della sua coalizione con gli altri due gruppi principali dell’estrema sinistra nel 1976. Dopo di ciò le rimaneva solo da trovare un pretesto per uscire di scena. Questo pretesto si presentò quando nel dicembre 1975 un gruppo di donne appartenenti a Lotta continua decisero di mar­ ciare da sole in un corteo nazionale di donne (cfr. infra, cap. XI). Quando il corteo fu oggetto di attacchi violenti da parte di mi­ litanti maschi di Lotta continua, le donne di Lotta continua si organizzarono da sole come frazione (Bobbio 1979, p. 163). Da quel momento in poi le donne, i giovani e gli operai si rifiutarono di riconoscere l’autorità di una leadership nazionale. Benché altri cercassero di conservare l’organizzazione sotto nuova forma (Bobbio 1979, pp. 182 sgg.), Lotta continua terminò la sua esi­ stenza come organizzazione rivoluzionaria. Sofri, con l’intuizione che ha caratterizzato tutta la sua car­ riera, vi pose fine quando gli apparve chiaro che la sua strategia elettorale era stata un fallimento. Ricordò allora il momento del­ la nascita di Lotta continua, quando c’era un conflitto «che op­ poneva revisionisti e sindacalisti, da una parte, a studenti e ope­ rai, dall’altra [...] non era prevalentemente un conflitto sulla linea politica, ma un conflitto sulla politica. Il conflitto [all’in­ terno di Lotta continua] di oggi — continuava — è [...] esatta­ mente analogo a quello del 1968-69» (Sofri 1977, p. 77).

8. Conclusioni Nello spazio di pochi anni Lotta continua era passata da pic­ colo gruppo esterno alla fabbrica ad organizzazione di movimen­ to nazionale che si faceva fautrice della violenza di massa, sfida­ va i partiti istituzionali e i sindacati. Successivamente si era trasformata in un piccolo partito estremista che era rimasto ai

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limiti della violenza d ’avanguardia, fino a perdere la sua capacità di mobilitare una base di massa e, insieme alla maggior parte della sinistra extraparlamentare, si era rivolto alla politica isti­ tuzionale. Questo sviluppo fu' il prodotto di una ferrea legge del­ l’oligarchia, di errori strategici e tattici che potevano essere evi­ tati, o di qualcos’altro? La tesi dell’istituzionalizzazione automatica non regge molto bene quando ricordiamo che alcuni gruppi che avevano molto in comune con Lotta continua — in particolare Potere operaio — seguirono una strada che portò alla lotta armata, proprio nel mo­ mento in cui Lotta continua e altri gruppi si dirigevano verso il sistema dei partiti. Se l’istituzionalizzazione è la fine inevitabile dei movimenti sociali, perché non influenzò tutti questi gruppi in modo uguale? Appena più convincente è la tesi delle analisi strategiche ina­ deguate e delle cattive decisioni tattiche. La decisione di Lotta continua di boicottare i Consigli di fabbrica, la mancanza di at­ tenzione per le richieste degli studenti, l’abbandono della linea «Prendiamoci la città!» e i tentativi di organizzare il Sud sono chiari esempi di errori tattici. M a ciascuna di queste decisioni era stata determinata dalla precedente — e inevitabile — scelta di una strategia di movimento. Una volta adottata questa strategia, Lotta continua era costretta a cercare di generalizzare la lotta par­ tendo da «momenti avanzati» per arrivare a situazioni arretrate, se non voleva perdere la capacità di utilizzare l’unica risorsa — la sua capacità perturbativa — che poteva portarle nuovi soste­ nitori e sfidare la sinistra istituzionale e lo Stato. Conclusione: l’ascesa e la caduta delle organizzazioni di mo­ vimento è determinata più dalla parabola della mobilitazione di massa all’interno del ciclo di protesta che non dalle leggi mecca­ niche dell’oligarchia o da supposti errori strategici e tattici. Fin­ tantoché la partecipazione continua a crescere, nuove sedi diven­ tano disponibili per il movimento, e l’azione collettiva attira una base di massa. Ma quando la mobilitazione cala, i leader devono cercare nuove sedi di protesta e nuovi modi di imporsi sul siste­ ma. Sofri e i suoi amici possono aver fatto degli errori che gli altri gruppi evitarono, ma le loro campagne avevano un’inventiva e un’originalità che mancava a molti dei loro critici. Quello che né Lotta continua né i gruppi concorrenti avreb­ bero potuto evitare era la fine del ciclo, che generò sia una ge­ nerale smobilitazione del conflitto settoriale, sia una spirale di scavalcamenti violenti e di reazione, via via che ogni gruppo cer­ cava un suo spazio in una base che andava restringendosi. Chiun­ 253

que sia stato responsabile della strage di piazza Fontana e del­ l’assassinio del commissario Calabresi, fu questa accresciuta competizione per guadagnarsi il sostegno delle masse, in presen­ za di un calo della disponibilità di queste masse, a essere respon­ sabile della svolta generale verso la violenza. I dibattiti sulla violenza e la non violenza in seno alla sinistra extraparlamentare non erano che un sintomo di questa spirale competitiva. Mentre Lotta continua aveva solo predicato la ne­ cessità della violenza, le Brigate Rosse e altri gruppi terroristici la misero in atto effettivamente; mentre Lotta continua aveva chie­ sto di sequestrare i padroni delle fabbriche, le Brigate Rosse ra­ pirono il direttore del personale della Sit-Siemens e lo fotogra­ farono con un cartello al collo (Bobbio 1979, p. 103); mentre Lotta continua aveva chiamato l’assassinio del commissario C a­ labresi un atto di giustizia proletaria, i brigatisti innalzarono l’as­ sassinio politico a strumento della politica. In una fase di calo della mobilitazione, l’unico modo che ha un movimento di massa per competere con oppositori come que­ sti è quello di ricorrere esso stesso alla violenza, oppure muoversi nella direzione opposta, verso l’istituzionalizzazione. I militanti di Lotta continua che credevano nella violenza come arma di lot­ ta cercarono di radicalizzare il gruppo, e alla fine ruppero con esso e si unirono a collettivi autonomi. Ma per la maggior parte dei suoi militanti, così come per la sinistra extraparlamentare in generale, la violenza era un modo per parlare alle masse e dimo­ strare la propria forza, e non un’arma politica centrale. Quando le Brigate Rosse ed altri diedero alla violenza un significato di­ verso, a coloro che la rifiutavano non rimaneva che la strada della politica istituzionale. II sostegno di Lotta continua al Pei nelle elezioni del 1975 e la partecipazione insieme ad altri gruppi dell’estrema sinistra nel­ le elezioni del 1976 furono le ultime tappe di una lunga serie di campagne di mobilitazione di Lotta continua. Ma erano campa­ gne di mobilitazione di tipo diverso. Una volta giocata — e persa — la carta elettorale, non vi era infatti più nessuna differenza percepibile fra Lotta continua e la sinistra istituzionale. Come disse Sofri (1977, p. 77) nel suo addio politico del 1976, «Là dove una volta c’erano Berlinguer, Longo e Amendola [il Pei] oggi troviamo Sofri, Viale e compagni». Come sempre, Sofri da­ va una versione particolare di un fenomeno che era stato gene­ rale per la sinistra extraparlamentare classica; col passaggio del suo gruppo alla politica istituzionale, il ciclo di protesta era ter­ minato.

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Conclusione DISORDINE E DEMOCRAZIA

Un decennio di disordini

Questo libro può essere letto in tre modi: come uno studio dei cambiamenti politici all’interno di un dato sistema politico, come un’analisi delle dinamiche dei cicli di protesta, come un saggio sui rapporti tra disordine e democrazia. In questo capitolo conclusivo riassumerò brevemente i risultati di questo studio sul cambiamento politico in Italia, presenterò quello che a mio av­ viso esso fornisce come contributo alla nostra conoscenza della logica dei cicli di protesta e mi porrò delle domande sulle sue implicazioni per i rapporti tra disordine e democrazia. Come in molti precedenti capitoli, introdurrò queste proble­ matiche con il resoconto di un episodio, o meglio di due episodi fra loro in contrasto. Non sono episodi importanti, ma insieme sono emblematici di quanto la cultura politica italiana fosse cam­ biata tra il 1966 e il 1975, di quale fosse la logica intrinseca del ciclo e di quanto i suoi esiti contraddittori abbiano contribuito al consolidamento della democrazia italiana. Danze e rinfreschi

Il 7 marzo 1966, alla vigilia della giornata internazionale del­ la donna, la Camera del lavoro di Milano pubblica un comunicato-stampa. Esso dice tra l’altro: Lavoratrici milanesi! In occasione della giornata internazionale della donna, la Camera del lavoro vi invia i suoi più calorosi auguri. La celebrazione dell’8 mar­ zo [...] non è solo un atto d ’omaggio a voi in riconoscimento delle [vo­ stre] grandi responsabilità morali e civili [...] Per le lavoratrici, oltre che

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per i loro sindacati, essa rappresenta un comune impegno alla lotta per gli obiettivi della pace e del progresso [...] Lavoratrici! Partecipate con noi alle iniziative e alle dimostrazioni programmate per l’8 marzo. Al­ zate la vostra voce in nome della pace e della solidarietà, affinché sia udita in tutta Italia e nel mondo. Rafforzate l’unità delle donne italiane nella lotta per far progredire gli obiettivi del progresso sociale, e nella ricerca di una vita migliore per le vostre famiglie. [...] Domani alle 15.00 vi offriremo danze e rinfreschi gratis al «Ragno d ’oro» in Piazza Medaglie d ’O ro .1

Bracciali rosa e «stalin» 6 dicembre 1975, R om a2. Alcune centinaia di donne scendono dai pullman e dai treni e convergono intorno alla fontana al cen­ tro di piazza Esedra. Portano gli striscioni di un certo numero di organizzazioni che hanno acconsentito a partecipare a un corteo organizzato da un gruppo chiamato C r a c , una coalizione fem­ minista ad hoc. Le organizzatrici e il servizio d ’ordine — tutte donne — portano dei bracciali rosa. Qui e là gruppi di giovani si mescolano al gruppo ridendo e spingendosi. Alcuni di essi por­ tano pesanti bastoni di legno. Obiettivo della manifestazione è dar pubblicità al tema del­ l’aborto ed esercitare una forte pressione sul Parlamento affin­ ché riveda l’antiquata legge italiana in materia. Per aumentare la partecipazione, gli organizzatori hanno chiesto alla stampa di se­ guire il raduno, e hanno trattato con i principali gruppi extra­ parlamentari — Avanguardia operaia, Lotta continua, PD U P-M anifesto — perché le loro militanti vi partecipino. Hanno anche invitato I’U d i a inviare una delegazione. La loro posizione nella trattativa è semplice. Vogliono che partecipino delle donne di ciascuna organizzazione, ma solo in quanto donne. Non deve essere portata nessuna bandiera di par­ tito, nessun volantino che pubblicizzi temi che non siano colle­ gati all’aborto, e nessuno dei gruppi deve inviare degli aderenti maschi. La manifestazione deve essere organizzata dalle donne e per le donne; per la prima volta né i partiti né i gruppi extrapar­ lamentari avranno un ruolo nel programmare un’importante di­ mostrazione di donne nella capitale. 1 Dagli archivi della Camera del lavoro di Milano. I miei ringraziamenti a Rossella Ronchi per averlo reperito. 2 Sono grato a Yasmine Ergas per le informazioni sulle quali si basa questa cronaca.

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Le trattative con I’U di non approdano a nulla, perché i co­ munisti si trovano tuttora a disagio nel partecipare a una mani­ festazione non controllata da loro. Un accordo è invece raggiun­ to abbastanza rapidamente con alcuni gruppi extraparlamentari, ma con Lotta continua l’accordo è più difficile. Il nuovo femmi­ nismo degli anni Settanta è penetrato lentamente nell’organiz­ zazione. La «questione femminile» non è apparsa nel suo pro­ gramma se non nel congresso del 1975 (Lotta continua 1975) e solo una rappresentante donna siede nel Comitato nazionale3. Alla fine Lotta continua acconsente a partecipare senza ban­ diere di partito, ma le organizzatrici del raduno cominciano a preoccuparsi quando compaiono in piazza alcuni suoi militanti. Alcuni di essi portano il caratteristico «stalin» del servizio d ’or­ dine di Lotta continua, altri cercano di distribuire i volantini del partito. Quando le donne responsabili dell’organizzazione dico­ no loro, con gentilezza, che non sono i benvenuti, essi si rifiu­ tano di andarsene. Alle undici un lungo corteo di donne comincia a muoversi lungo via Cavour. Si snoderà intorno al monumento di Vittorio Emanuele in piazza Venezia, oltrepasserà la sede della De in piazza del Gesù e attraverserà il Tevere su ponte Garibaldi, ver­ so Trastevere, dove è programmata una serie di discorsi. Ma lun­ go via Cavour cominciano dei disordini nella coda del corteo, dove un gruppo di militanti di Lotta continua provenienti da Cinecittà cerca di inserirsi; respinti, rispondono attaccando le donne del corteo con spinte e calci (Bobbio 1979, p. 163). Le organizzatrici corrono verso il punto dei disordini e trovano solo un certo numero di donne sconvolte e alcune militanti di Lotta continua estremamente imbarazzate. Arrivate a Trastevere, alla fine del corteo, queste donne salgono sul podio e si scusano per il comportamento dei loro compagni.

1. Dopo la rivoluzione La cultura politica italiana è sostanzialmente cambiata fra questi due episodi. All’inizio del ciclo di protesta, nel 1966, il 3 Come ricorda Bobbio (1979, p. 161) «l’insistenza con cui nella propaganda si aggiunge costantemente l’aggettivo ‘proletarie’ al termine ‘donne’ mostra la sostanziale negazione della problematica femminista in seno al partito».

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dono più grande che la confederazione sindacale italiana «pro­ gressista» potesse pensare di offrire alle sue aderenti era la gioia di danzare gratis con un uomo! Ma dieci anni dopo, le donne organizzano le proprie dimostrazioni in favore di obiettivi sociali molto avanzati rispetto a quelli dei partiti della sinistra. Il sog­ getto sociale più debole e meno autonomo del 1966 nel 1975 gestisce le sue dimostrazioni, porta dei bracciali, delle fas.ce rosa che dicono la sua identità e si organizza per influenzare un di­ battito parlamentare. Questi due episodi sono emblematici di alcuni dei principali cambiamenti verificatisi in Italia durante il decennio 1965-75. E ssi si incentrano intorno ai temi dell’autonomia dei nuovi attori sociali che esigono un posto nell’arena politica e un loro ruolo nello stimolare le riforme. Passiamo ora brevemente in rassegna ciascuno di questi cambiamenti, prima di volgerci alla dinamica del ciclo e all’impatto che il disordine ebbe sulla democrazia in questo paese. D al paternalismo all'autonom ia

Sarebbe difficile trovare un’espressione del paternalismo che contrassegnò la cultura politica dominata dai partiti nell’Italia postbellica più chiara di quella mostrata dal comunicato-stampa della Camera del lavoro di Milano nel marzo 1966. Alle donne ci si rivolge dapprima come lavoratrici e in secondo luogo come pilastri della famiglia. Esse vengono paternalisticamente lodate per i loro «alti contributi morali e civici»; viene loro detto che devono andare oltre i problemi delle donne e unirsi ai compagni uomini nel sostenere la pace e il progresso; viene loro ricordato che è loro responsabilità promuovere una vita migliore per le loro famiglie. Ma le donne non furono gli unici attori sociali a essere trat­ tati come minorenni da quelle organizzazioni che affermavano di rappresentarle alla metà degli anni Sessanta. I partiti politici e le organizzazioni di massa ritenevano ancora di avere un’ampia de­ lega a rappresentare la popolazione, basata o sulla fedeltà dei loro aderenti o sulla capacità dell’organizzazione di fornir loro degli incentivi selettivi (Parisi e Pasquino 1980). Come abbiamo visto nel capitolo VI, era contro questo paternalismo che gli studenti universitari si erano scagliati. Abbiamo trovato lo stesso pater­ nalismo ancora a Porto Marghera, da parte dei sindacati, che cercarono di frenare la lotta della classe operaia. L ’abbiamo visto nella sua forma più estrema nella parrocchia dell’Isolotto, quan­

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do il cardinale Florit disse al «suo» sacerdote che non aveva alcun diritto di fare affermazioni politiche. Le istituzioni e le organiz­ zazioni italiane avevano colonizzato la società civile dopo il fa­ scismo, agendo come se avessero il diritto di continuare a ordi­ nare le sue forme di partecipazione. Le lotte che abbiamo visto, incentrate sulla riforma della scuola, nei conflitti industriali, contro la guerra del Vietnam e all’interno della Chiesa furono tutte rafforzate dalla rivolta con­ tro la pretesa delle principali istituzioni rappresentative di dete­ nere il monopolio della rappresentatività. Paradossalmente, tut­ tavia, queste organizzazioni fornivano anche molti dei simboli e delle risorse che più tardi sarebbero stati utilizzati contro di esse. Il movimento femminista non faceva eccezione; molte delle organizzatrici della campagna contro l’aborto, pur essendosi for­ mate politicamente all’interno del Partito comunista, nelle orga­ nizzazioni cattoliche e nei gruppi della nuova sinistra, ne rifiu­ tavano l’egemonia (Ergas 1982, pp. 261 sgg.). La manifestazione del dicembre 1975 per l’aborto è emblematica del grado di cam­ biamento avvenuto a partire dal 1966. Nessuno in piazza Esedra chiamava le donne «produttrici» o «pilastri della famiglia». N es­ sun partito politico né sindacato aveva scelto il tema o la forma della dimostrazione. Il corteo era stato organizzato da una coa­ lizione autonoma di gruppi femministi, dei quali pochi avevano sentito parlare fino a pochi mesi prima. Non solo erano esclusi gli uomini, ma le organizzatrici del raduno si erano rifiutate di per­ mettere che degli aderenti a un partito o a un movimento por­ tassero le proprie bandiere. Quando questa regola fu infranta, nel nome dell’autonomia dal controllo dei maschi, le donne di Lotta continua si scusarono dal palco con le loro compagne. L ’autonomia dal controllo dei partiti, dei sindacati e delle organizzazioni di massa era una richiesta che andava molto al di là dei partiti politici, ed era un tema ricorrente nel ciclo di pro­ testa sin dai suoi inizi. Molto più del tema dell’operaismo, che aveva dei limiti intrinseci e fu incrinato dal fatto che i gruppi terroristici se ne appropriarono, il tema dell’autonomia soprav­ visse alla fine della mobilitazione, per strutturare molte delle or­ ganizzazioni di quartiere, pacifiste ed ecologiste nate alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta. Nel settore delle donne, anche I’U di si liberò dalla tutela dei partiti alla fine degli anni Settanta (J. Hellman 1987). Nella clas­ se operaia, un’ondata di scioperi dei sindacati autonomi contras­ segnò sia gli anni Settanta che Ottanta. Quando l’Italia conobbe il flagello della droga, una pietra miliare nella richiesta di ade­

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guati centri di trattamento di quartiere fu l’occupazione da parte delle madri di Primavalle, che non avevano nessun collegamento coi partiti o coi sindacati. Un’eredità permanente del ciclo di protesta fu l’autonomia dei soggetti sociali da quelle organizza­ zioni che — come la Camera del lavoro nel 1966 — avevano affermato di avere una delega a rappresentarli. Nuovi attori in vecchie istituzioni

Un secondo cambiamento che emerge da questi due episodi è l’ampliamento dei confini dell’arena politica così da includervi questi nuovi soggetti sociali e politici. Dopo gli anni Sessanta, nel sistema dei partiti vi fu un calo della percentuale sia dei so­ stenitori incondizionati di un partito, sia di quello che Parisi e Pasquino chiamano «il voto di appartenenza» e di quelli che chia­ mano gli «elettori fluttuanti» (1980). Vi fu un corrispondente aumento nel voto autonomo su un dato tema e dei gruppi incen­ trati su un argomento ben determinato (single issue groups ). Un segno di questo fenomeno nell’elettorato è che in quello stesso periodo la fedeltà ai vari partiti andò declinando. Questi cambiamenti nella politica istituzionale furono ac­ compagnati da un ampliamento delle basi sociali del settore del movimento sociale. Le donne, per esempio, non avevano parte­ cipato alle proteste agli inizi del ciclo in quanto tali, così quando esse compaiono per la prima volta sono nelle vesti di scioperanti, genitori, inquilini, residenti nel quartiere. Solo verso la fine del ciclo compare un filone peculiarmente femminile di proteste, e le donne si considerano capaci di organizzare delle dimostrazioni in quanto donne. La sede principale di questa aumentata disponibilità a ricor­ rere all’azione collettiva conflittuale fu nei nuovi settori della classe media, sensibilmente cresciuti di numero e come autoco­ scienza politica a partire dalla guerra. Questo fu manifesto nel loro crescente ricorso allo sciopero, tradizionale arma delle classi popolari. Stimolati inizialmente dalle conquiste degli operai ma­ nuali, gli scioperi della classe media divennero sempre più auto­ nomi agli inizi degli anni Settanta. I modelli di comportamento collettivo che erano stati peculiarmente proletari all’inizio del ciclo erano divenuti moneta corrente di tutti ¿ salariati alla sua fine. Ma gli appartenenti ai nuovi ceti medi non si limitarono a richieste salariali. Si organizzarono per chiedere più elevati livelli 260

di servizi pubblici, per protestare contro il terrorismo e la bru­ talità della polizia, per ottenere il divorzio e l’aborto libero, per migliorare la salute in fabbrica, le pratiche psichiatriche e l’am­ biente urbano. E ssi contribuirono ad articolare i nuovi temi po­ litici centrali di una economia capitalista matura, e a costringere la classe politica a inserirli nel programma politico. I partiti e i sindacati erano costretti ad affrontare questi temi o ad abban­ donare la loro pretesa di rappresentare questi gruppi. Un aspetto importante della sfida di questi soggetti fu la loro affermazione di nuove identità collettive. Quando i conflitti era­ no negoziabili e le richieste condivisibili, non vi era stata una crescita permanente di una nuova identità; fu quando le autorità divennero arbitrarie e le richieste non divisibili, che la ricerca di nuovi beni o di maggiori diritti si trasformò, nel corso del con­ flitto, in nuove identità. Ne abbiamo visto un esempio nel caso dei cattolici del dissenso dell’Isolotto nel 1968. Quando i par­ rocchiani di don Mazzi incontrarono incomprensione e opposi­ zione, cominciarono a chiedere un riconoscimento quale sogget­ to sociale autonomo. La loro invenzione della messa sul sagrato fu espressione di questa affermazione. Un’espressione più distruttiva delle richieste di riconosci­ mento appare nella violenza di quel periodo. I giovani che cer­ cavano di farsi strada nel corteo in marcia in via Cavour a Roma nel dicembre 1975 non si stavano semplicemente opponendo al­ l’esclusione da un raduno di donne; stavano anche asserendo la propria identità nel modo più primitivo che conoscevano, impo­ nendola violentemente agli altri. La violenza non fu mai solo espressione di identità collettiva, ma molti dei gruppi che si scon­ trarono nelle strade di Roma o di Milano sembravano avere ben poco per cui competere se non la propria pretesa di occupare uno spazio nelle strade e nel panorama ideologico. Come suggerisce l’esempio precedente, coloro che si aspetta­ vano un riordinamento permanente, dopo il ciclo, dei ruoli so­ ciali, sessuali o occupazionali in Italia, furono ben presto disil­ lusi. L ’Italia rimane una società essenzialmente capitalista nella quale i ruoli sessuali sono tradizionalmente ordinati e le gerar­ chie professionali si basano sullo status, le capacità e le risorse. Nei sindacati, per esempio, «quando il femminismo non riempì più le piazze con dimostranti, vi fu un enorme risorgere di ses­ sismo» (citato in J. Hellman 1987, p. 209). E nella Chiesa cat­ tolica, dopo che la maggior parte dei dissidenti aveva lasciato la Chiesa, con Comunione e liberazione si riaffermò il predominio del cattolicesimo tradizionale. 261

M a l’insuccesso dei movimenti nel creare una nuova cultura dei rapporti sociali non significa che il ciclo della protesta non ebbe effetti culturali significativi. Consideriamo, ad esempio, il movimento femminista. Nel corso del ciclo di protesta, le donne cominciarono a essere politicamente attive all’interno delle or­ ganizzazioni: sindacati, partiti, scuole e organizzazioni di movi­ mento. Fu all'interno di organizzazioni come queste che il mo­ vimento ebbe la sua massima affluenza. Il ciclo di protesta fu anche seguito da un aumento della rappresentatività delle donne nelle liste elettorali della sinistra parlamentare. Nel Pei, in par­ ticolare, la percentuale di donne che occupavano dei ruoli di re­ sponsabilità crebbe enormemente nel corso degli anni Settanta e Ottanta. Agli inizi degli anni O ttanta un’ampia percentuale degli at­ tivisti che svolgevano il lavoro, perlopiù volontario, nei gruppi pacifisti, ambientalisti, contro la droga e nei comitati di quartie­ re erano donne, in Italia come altrove in Occidente. Se alla metà degli anni Sessanta ci fossero state delle organizzazioni di questo genere alle radici della società italiana, esse sarebbero state ge­ stite da uomini e dal sistema dei partiti o dalla Chiesa da loro dominati. Da agenti segreti della protesta urbana, le donne erano divenute partecipanti nella routine della democrazia, fin nelle sue basi. La riforma oltre le frontiere del politico

La protesta contro l’aborto del dicembre 1975 illustra un ter­ zo aspetto degli effetti del ciclo di protesta: il fatto cioè che al­ cuni movimenti di quel periodo ebbero un’influenza sulla rifor­ ma. I movimenti sociali di solito falliscono, e quando hanno successo raramente ottengono ciò che chiedevano. Il loro succes­ so è di solito dovuto non alla loro forza intrinseca, ma alla con­ vergenza delle loro richieste con gli interessi di alleati all’interno del sistema politico (Gamson 1975). Il potere che essi esercitano è sempre marginale, ed essi possono utilizzarlo solo in combina­ zione con quello di attori che ricoprono posizioni strategicamen­ te più centrali. G li studiosi della public policy tendono a massimizzare l’im­ portanza dell ’élite e a minimizzare l’importanza delle pressioni provenienti dal basso nello spiegare i successi delle riforme. Que­ sta può essere un’immagine giusta in paesi con burocrazie illu­ minate, quali la Svezia o l’Inghilterra; ma in un paese come l’I­

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talia, con la sua burocrazia lenta e politicizzata, le riforme dall’alto non arrivano facilmente. Per esempio, la prima riforma del centro-sinistra — la nazionalizzazione dell’energia elettrica — fu viziata dal potere di élites radicate nelle proprie posizioni. L ’unica strada a disposizione per poter conseguire delle riforme in un tale sistema è che gli attori al di fuori del sistema politico mettano i nuovi temi sul tappeto e costituiscano delle alleanze con gruppi alPinterno dell’arena politica. In realtà, come abbiamo visto nel caso della riforma della scuola, molti dei temi intorno ai quali si agitarono i nuovi mo­ vimenti furono posti sul tappeto dai vecchi partiti e dai gruppi di interesse. I nuovi movimenti radicalizzarono questi temi, ren­ dendo impossibile alla classe politica italiana di ignorarli e for­ mando coalizioni — oggettive o soggettive — con gruppi all’in­ terno del mondo politico. Nel caso della riforma universitaria, il tema venne posto per la prima volta sul tappeto da gruppi di interesse accademici, dai partiti e dalle associazioni «ufficiali» degli studenti. Essi erano abbastanza divisi da permettere che, quando i nuovi movimenti radicalizzarono il tema e sensibiliz­ zarono intorno ad esso un pubblico più ampio, fosse impossibile per il governo approvare una legge restrittiva. Per anni non fu votata nessuna riforma, ma ciò era dovuto alle continue divisioni nel mondo accademico e all’interno della classe politica, e non già all’estremismo del movimento. Una coalizione oggettiva di maggior successo emerge dalle rivolte delle carceri del 1971-74. I tumulti verificatisi nelle car­ ceri all’inizio del ciclo avevano un contenuto programmatico de­ cisamente scarso. Essi accompagnavano (o almeno andavano in parallelo con) un infuocato dibattito parlamentare e giornalistico sulla necessità della riforma carceraria. Ma via via che i detenuti comuni entravano in più stretto contatto con quelli politici, le loro proteste assunsero un contenuto politico più esplicito, più elaborato, in notevole simmetria col dibattito politico che si te­ neva in Parlamento (Neppi Modona 1976). Esisteva un’alleanza consapevole e soggettiva tra detenuti in rivolta, appartenenti alla sinistra extraparlamentare, giornalisti illuminati e riformisti nel Parlamento? Naturalmente no; c’era piuttosto una coalizione oggettiva tra gruppi con interessi e va­ lori diversi al di fuori e all’interno del campo politico, che cer­ cavano di introdurre un qualche tipo di riforma nelle terribili condizioni del sistema carcerario. Una coalizione simile, ma più soggettiva, fu costituita tra­ scendendo i confini del sistema politico per far approvare la legge 263

di riforma sull’aborto. Gli anni 1975-77 sono pieni di resoconti di manifestazioni simili a quella di piazza Esedra, le cui organiz­ zatrici travalicarono le frontiere del sistema politico, andando da gruppi istituzionali quale I ’U d i a coalizioni ad hoc quali il C ra c fino a gruppi ancora più radicali. Non si trattò di sforzi concertati, anzi molti degli obiettivi dei vari gruppi erano conflittuali. Talvolta si creò un fronte co­ mune, tentando di mettere insieme chi sfidava e chi apparteneva al mondo politico, come a piazza Esedra, ma era più frequente che tali gruppi operassero indipendentemente l’uno dall’altro, benché con totale consapevolezza di ciò che gli altri stavano fa­ cendo. Il risultato fu di imporre il tema dell’aborto all’ordine del giorno del mondo politico, e di rendere chiaro alla classe politica che esisteva una base che avrebbe sostenuto la riforma. La rifor­ ma non è mai un semplice prodotto del riformismo, ma è l’esito istituzionale di spinte provenienti da più direzioni, sia dall’in­ terno che dall’esterno del sistema politico.

2. La dinamica del ciclo Autonomia, nuovi soggetti sociali, riforme: questi erano i tre cambiamenti più evidenti che derivarono dal ciclo di protesta. Ma innanzitutto, perché ci fu un ciclo di protesta? E una volta che furono dispiegate le sue energie, perché i risultati furono così limitati? Per finire, una volta che il ciclo ebbe inizio, perché non destabilizzò l’intero sistema, conducendo a quello sconvolgimen­ to radicale auspicato dalla sinistra extraparlamentare e temuto dai moderati? Quale fu la dinamica del ciclo? G li studiosi che in passato hanno esaminato i cicli li hanno visti come dei fenomeni generazionali o nei termini della psico­ logia di massa. Nel capitolo I ho proposto un modello secondo cui la logica dello sviluppo del ciclo è essenzialmente politica. Durante i cicli di protesta, sostenevo, i gruppi adottano forme di azione, di sfida, avanzano richieste eccessive, si organizzano contro le élites quando appaiono le opportunità politiche per far­ lo. La mobilitazione inizia all’interno di contesti istituzionali, dove le risorse della protesta possono inizialmente essere accolte. Sale in crescendo quando alcuni gruppi osano sfidare le autorità pubbliche con forme perturbative d ’azione collettiva, e sembra­ no avere successo agli occhi degli altri o, almeno, sembrano evi­ tare di essere schiacciati.

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Nel picco del ciclo, vengono inventate nuove forme d ’azione per colpire l’immaginazione della gente, per sfidare le élites, per diffondere il disordine in nuovi settori. Esse si succedono rapi­ damente, via via che il loro potere di sorpresa va calando e che le élites elaborano strategie per contrastarle. Nuove organizzazioni di movimento si moltiplicano, mentre le vecchie vengono rinno­ vate per riuscire a conquistare una base all’interno del settore dei movimenti e competere con concorrenti e oppositori. Via via che la gente si stanca del disordine e teme la repres­ sione da esso scatenata, inizia la smobilitazione. I riformisti mo­ derano le loro richieste, e la mobilitazione è incanalata in forme istituzionali. Alcuni dei leader emersi nei movimenti di protesta divengono leader dei gruppi di interesse, altri subiscono la re­ pressione, altri ancora si adeguano alle riforme. Il ciclo termina con l’istituzionalizzazione di quei movimenti che sono disposti ad accettare la riforma o la cooptazione, e con l’isolamento, il settarismo e la violenza di coloro che non le accettano. Vediamo in che modo questo schematico abbozzo di un ciclo di protesta collima coi dati italiani. Le fonti del ciclo

Nel capitolo II abbiamo esaminato le origini del ciclo. H o sostenuto che un’ondata di azione collettiva fu scatenata sia da una mutevole struttura delle richieste, sia perché la struttura del­ le opportunità politiche si estese a nuovi soggetti. La struttura delle richieste cambiò in due modi principali: innanzitutto, per­ ché nuovi gruppi sociali — in particolare i lavoratori immigrati e una nuova classe media — stavano riversandosi in fabbriche ge­ stite in modo autoritario e in città povere di servizi; in secondo luogo, perché i temi politici — quali la scuola e le relazioni in­ dustriali — erano stati lasciati a languire a lungo da un governo il cui potere si basava sulle tecniche del clientelismo e sugli ap­ pelli all’anticomunismo e al sentimento religioso. Queste richieste — e coloro che le avanzavano — avevano ben poco in comune, se non il fatto di apparire quasi contempo­ raneamente tra gruppi che erano al di fuori della base principale di sostegno del governo, costituita dagli imprenditori, dai con­ tadini e dai ceti medi autonomi. Se esse erano congruenti, lo erano solo perché l’Italia di quel­ l’epoca stava entrando in una nuova fase di capitalismo maturo — che diede il via a un dibattito tra politici, manager, intellet­ tuali e leader sindacali circa i requisiti di un’economia industriale

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avanzata — e perché tutti, in un modo o nell’altro, soffrivano delle inadeguatezze della politica governativa. Alle radici della nuova domanda e della nuova struttura sociale c ’era la politica. Anche le opportunità politiche si estesero in due direzioni. Da una parte, nell’industria, la riserva di manodopera dalla quale era dipesa l’impresa per il suo «miracolo» economico si stava pro­ sciugando proprio nel momento in cui la classe operaia organiz­ zata stava ritrovando una voce unitaria; dall’altra, nelle scuole e nelle università, i figli della nuova classe media stavano trovando voce all’interno delle organizzazioni studentesche tradizionali, proprio nel momento in cui il dibattito sulla riforma della scuola veniva posto sul tappeto dalla classe politica. Il quadro di riferimento di questa espansione delle opportu­ nità politiche era dato, involontariamente, dall ’élite politica stes­ sa. Nel momento in cui la coalizione centrista della De perdeva la sua forza elettorale nasceva, infatti, una formula di centrosinistra ideata per distaccare i socialisti dai loro alleati di vecchia data, i comunisti, e per far passare un certo numero di riforme che le élites in tutto il sistema politico erano concordi nel ritenere necessarie: la programmazione economica, la riforma delle rela­ zioni industriali, del sistema pensionistico e dell’università. Il governo di centro-sinistra, però, non solo pose sul tappeto dei temi che altri potevano utilizzare come piattaforma di lancio per richieste più radicali ma, cooptando il Psi nel governo, creò nuovo spazio a sinistra, e allo stesso tempo inserì all’interno delVélite governativa nuovi conflitti, che potevano essere sfruttati dagli oppositori. Inoltre portò al governo un partito, il Psi, trop­ po debole per dirigere la politica verso le riforme, ma che non poteva permettersi, dal punto di vista politico, di venire identi­ ficato con la repressione del dissenso. Furono prevalentemente le nuove fratture e le nuove richie­ ste all’interno della struttura di classe o le opportunità nel siste­ ma politico a dare la scintilla a un importante ciclo di protesta? Gli studiosi dei movimenti sociali dibattono senza fine questo punto, senza arrivare a nessuna conclusione. Ciò che si può af­ fermare con sicurezza è il primato della politica. I nuovi temi intorno ai quali i gruppi cominciarono ad organizzarsi erano po­ litici; lo spazio politico creato dal centro-sinistra era d ’importan­ za cruciale nell’incoraggiare i dissidenti a organizzarsi; l’espe­ rienza politica che molti avevano fatto all’interno dei «vecchi» partiti e delle «vecchie» istituzioni, era una risorsa cruciale che ora essi usavano per mobilitare una base di massa. I «nuovi» mo­

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vimenti sociali degli anni Sessanta nacquero dalla politica, e fu attraverso la politica che si svilupparono. La politica era il mezzo attraverso il quale le richieste dei nuovi movimenti venivano filtrate in proposte politiche. Le di­ mostrazioni di massa e le richieste estreme di quei movimenti da sole non sarebbero bastate ad attuare, per esempio, la riforma dell’aborto: fu solo perché si combinarono a sviluppi interni al sistema politico e alla società e furono abili nel cogliere nuove opportunità politiche, che essi ottennero un qualche successo. Consideriamo la vicenda della riforma dell’aborto. Nel 1975, in seguito al calo subito nelle elezioni amministrative di quell’an­ no, la De scelse una nuova leadership, che cercò di dar lustro all’appannata immagine progressista. Per proiettare questa nuo­ va immagine, essa decise di non partecipare al dibattito parla­ mentare sull’aborto (Ergas 1982, p. 270). Nel frattempo il Pei, nella continua ricerca di una enterite coi cattolici, adottava sul­ l’argomento una posizione moderata. Il progetto di legge che ne risultò, approvato nel 1978, era un compromesso. Non garantiva il diritto a quell’«aborto libero, as­ sistito e gratuito» che le dimostranti a piazza Esedra avevano chiesto, ma il suo linguaggio moderato rendeva possibile alla De di astenersi dal voto parlamentare, al Pei di unirsi ai socialisti e ai partiti laici a sostegno del progetto di legge, e all’aborto di divenire legale (Ergas 1982, p. 271). Malgrado la richiesta delle femministe, di un progetto di legge che sancisse l’autonomia del­ le donne sul proprio corpo, non fu accolta, se non fosse stato per la pressione di questo movimento radicale di riforma, esterno al mondo politico, su una classe politica esitante e divisa, non ci sarebbe stato nessun progetto di legge. Il risultato di questa in­ tensa ondata di lotte non riformista o poco riformista fu una sot­ tile concrezione di riforme. Il repertorio del contendere

Anche le forme dell’azione collettiva utilizzate dai nuovi mo­ vimenti si evolvettero all’interno delle tradizioni politiche. Nel capitolo III ho esaminato le mutevoli forme d ’azione collettiva che apparvero via via che il ciclo si andava svolgendo, dimostran­ do come la protesta nacque e salì fino a un picco di sfida e di perturbazione molto presto, e si diffuse in nuovi settori via via che andava declinando d ’intensità nei settori nei quali era ini­ ziato.

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Questo processo di diffusione ebbe tre caratteristiche che vai la pena sottolineare: innanzitutto, la perturbazione iniziò all’interno delle istituzioni, nel contesto di proteste e scioperi con­ venzionali; in secondo luogo, le proteste ebbero risalto quando i «primi» infransero i limiti del comportamento convenzionale, durante un breve e intenso picco di mobilitazione; in terzo luo­ go, questo picco intenso fece scattare un ciclo più lungo quando altri, meno coraggiosi ma più numerosi, videro che il sistema era vulnerabile alla protesta e utilizzarono canali istituzionali per avanzare le loro richieste. La nostra analisi delle forme dell’azione collettiva non ha mai mostrato una predominanza di comportamento di sfida o di vio­ lenza. Le forme d ’azione convenzionali furono sempre in mag­ gioranza, con forme di sfida crescenti e poi in rapido declino tra il 1967 e il 1969; la violenza organizzata si sviluppò solo verso la fine del ciclo. La contestazione, la protesta espressiva, la tecnica della sfida e i nuovi attori sociali si combinarono durante il picco della mobilitazione a generare uno di quei rari «momenti di fol­ lia» che mostrano ad altri gruppi le opportunità politiche e la vulnerabilità del sistema. Questo portò l’ondata di protesta a nuovi settori, dove il suo impatto perturbativo fu minore, ma dove la routine venne perturbata e la crosta dei rapporti tradi­ zionali d ’autorità venne infranta. Il ciclo crebbe attraverso la sfi­ da e la perturbazione, ma si diffuse prevalentemente all’interno di canali istituzionali. Soggetti e richieste

Nel capitolo IV ho seguito la diffusione dell’azione collettiva a partire da alcuni attori centrali — gli operai e gli studenti — per arrivare a quelli che normalmente erano attori più tranquilli, quali i dipendenti pubblici, i nuovi ceti medi, i poveri delle città, le donne e i detenuti. Ho mostrato che la protesta, più che in­ nalzarsi come un vulcano isolato da una pianura di consenso, era più simile a un’onda propagantesi a vari settori della società ita­ liana in momenti diversi. Forse il ciclo italiano fu inusuale per questi cambiamenti del locus del conflitto; certamente essi aiu­ tano a spiegare perché durante quel periodo non riuscì a costi­ tuirsi nessuna coalizione riformista, e perché le élites alla fine riuscirono a segmentare il movimento, attraverso una strategia di riforme frammentarie e la repressione. Le basi mutevoli del conflitto ebbero importanti effetti po­

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litici. Fu la diffusione del disordine in ogni angolo della società italiana a dare l’impressione di una società in stato di assedio e persino a portare alcuni a ritenere erroneamente che essa fosse sul punto di crollare. Ma il fatto che il conflitto si trasferisse da un settore all’altro fece sì che anche quei gruppi che avevano basato le proprie strategie sul proletariato fallissero, trasferissero le loro iniziative ad altri settori o si gettassero in una disperata spirale di conflitto armato. Col senno di poi, è chiaro che il disordine causato dai «primi» — come gli studenti universitari — era già in calo quando arri­ varono gli «ultimi», e che questo permise alle élites di separare le varie richieste, di negoziare con alcuni gruppi, ignorandone altri e reprimendone altri ancora. Il ciclo italiano di protesta si esaurì attraverso la disaggregazione in tanti campi politici separati, nel­ le mani di un 'élite politica che si trovava più a suo agio con la politica della spartizione e della cooptazione. I nostri risultati sulla natura delle richieste, nel capitolo V, sono stati in sintonia con ciò che abbiamo imparato sulla natura specializzata degli attori e dei loro avversari. Nel cercare di dare ordine all’immenso numero e varietà di richieste espresse nelle proteste, mi è divenuto chiaro quanto profondamente la società italiana fosse sconvolta dal conflitto in quegli anni. Benché fosse un paese in transizione verso una nuova fase economica, infatti, l’Italia era anche un paese in cui le fratture del capitalismo clas­ sico erano ancora molto profonde. L ’unica cosa in comune nella struttura delle richieste è stata la centralità dello Stato. Se il con­ flitto non si sviluppò a partire da una gran massa di contese, prevalentemente private, verso un conflitto politico generalizza­ to, fu in parte perché molti conflitti erano intrinsecamente po­ litici sin dall’inizio e, in parte, perché molti altri erano intrinse­ camente corporativi, e pertanto non suscettibili di genera­ lizzazione. Due furono i principali quadri di riferimento che emersero da questa massa di proteste e controproteste: l’operaismo, un patri­ monio ideologico tradizionale della sinistra, e l’autonomia, un nuovo tema che ebbe come suo primo obiettivo la pretesa dei partiti, dei sindacati e della Chiesa di monopolizzare la politica popolare. Questi due temi si combinarono come in una reazione catalitica nel 1967-69 ad animare i movimenti degli studenti uni­ versitari e degli operai. Ma già alla fine del ciclo questa combi­ nazione era stata trasformata in una macabra caricatura di ciò che era stata una volta, e sia l’operaismo sia l’autonomia erano

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invocati a giustificare gli eccessi settari di chi si era autonomi­ nato profeta della lotta armata. Movimenti e mobilitazione

Nei capitoli V II e V ili ho analizzato tre dei movimentichiave che sconvolsero la società in un’azione collettiva conflit­ tuale in questo periodo. Ciascuno di essi aveva le proprie radici nelle rivolte all’interno dei principali ambiti istituzionali — la fabbrica, il sistema dei partiti, la Chiesa e l 'establishment della scuola — ma ciascuno uscì dal suo ambito istituzionale durante il periodo culminante della mobilitazione di massa. Essi procla­ mavano tutti l’autonomia delle rispettive basi sociali dall’auto­ rità, ricorrendo a temi politici contemporanei per creare nuove identità e affidandosi a forme d ’azione perturbativa per costrui­ re le proprie basi e sfidare le élites. Nella convergenza delle traiettorie di questi movimenti vecchi e nuovi vi è la prova che essi facevano parte di uno stesso settore di movimento sociale in espansione. M a se vi erano dei punti in comune nell’ascesa di questi mo­ vimenti e nei loro repertori e richieste, vi erano anche delle di­ vergenze nelle loro traiettorie e nel loro declino. Mentre il mo­ vimento degli studenti universitari fu breve, e limitato dalla sua incapacità di trovare spazio all’interno dell’università, il movi­ mento degli operai durò più a lungo, e rafforzato dal gran nu­ mero di gruppi che cercavano di rappresentarlo, nonché dalla di­ sponibilità di nuove istituzioni di fabbrica ad organizzarlo. Né si trattava di un caso di «movimento contro organizzazione», per­ ché entrambi si svilupparono sia all’interno che all’esterno delle organizzazioni rappresentative, i sindacati per gli operai e le as­ sociazioni studentesche per gli studenti. Tuttavia, mentre il mo­ vimento studentesco distruggeva la legittimità delle associazioni tradizionali, il movimento degli operai fu rapidamente assorbito dalla strategia sindacale del «cavalcare la tigre». Il movimento cattolico dissidente, di cui la comunità dell’Isolotto è un esempio emblematico, è cosa diversa. Benché anch’esso fosse nato come rivolta all’interno di un’istituzione po­ tente, la Chiesa poteva permettersi di ignorare le sue richieste, cosicché finì col diventare soltanto una setta eterodossa. Tutta­ via, al pari del movimento degli operai, esso si tramutò in orga­ nizzazione. Questi cattolici dissidenti, coi loro «vecchi» temi e richieste, assomigliavano ai «nuovi» movimenti sociali di quel de­ 270

cennio nella loro accentuazione dell’autonomia e nelle forme d ’a­ zione cui ricorrevano. Anche qui troviamo prova di un unico ci­ clo di protesta. Movimenti e organizzazioni

Ciascuno di questi movimenti diede vita, o attrasse, tutta una serie di organizzazioni di movimento in reciproca competi­ zione. Queste organizzazioni, che sono state argomento dei ca­ pitoli IX e X , svolsero un ruolo cruciale nell’organizzare la pro­ testa e nel diffonderla a nuovi settori, nello spingere la gente a porre le proprie richieste all’interno di quadri di riferimento più ampi. Essi non sostituirono l’ideologia con la pratica; elaboraro­ no obiettivi radicalmente pragmatici e ricorsero a strategie perturbative per ottenere dei sostenitori e sfidare le élites. Gli studiosi dei movimenti sociali spesso contrappongono or­ ganizzazione e protesta, ma la diffusione della protesta in Italia dipese dagli sforzi di queste organizzazioni. L ’organizzazione non era un tentativo manipolatorio di burocrati, allo scopo di soffocare la spontaneità; era una risposta alla crisi del movimento studentesco, un modo per entrare in contatto con gli operai e un risultato degli sforzi competitivi di organizzare una base di mas­ sa. Questi sforzi organizzativi portarono nuovi aderenti ai mo­ vimenti, dapprima nelle fabbriche, nelle chiese e nelle scuole, e poi in altri settori, dalle città al Sud, dalle carceri all’esercito. Il paradosso che emerge dallo studio di queste organizzazioni è che le loro vicende non sono documentate per il periodo pre­ cedente al 1968, quando l’azione collettiva di massa era più in­ tensa, e sono più ricche per il periodo successivo al 1969, quando essa era già in calo. Così, se dovessimo studiare il ciclo della pro­ testa prestando attenzione unicamente ai resoconti dell’azione collettiva, troveremmo poche prove dell’esistenza di un ciclo di protesta prima del 1969. D ’altra parte, se avessimo utilizzato so­ lo i metodi storici tradizionali, avremmo sovrastimato il ruolo di queste organizzazioni, e sottostimato il periodo che catalizzò il ciclo — il picco intenso della mobilitazione di massa raggiunto nel 1967-69. Combinando nuovi metodi coi vecchi — un’analisi al computer con uno studio di casi singoli — siamo riusciti a esaminare il rapporto tra il picco intensivo della mobilitazione fino al 1969 e le organizzazioni che diffusero la protesta ai nuovi attori dopo il 1968. Questo ha portato a uno dei risultati più importanti della ri­ 271

cerca, e cioè che le nuove organizzazioni di movimento, benché si considerassero un’avanguardia della rivoluzione, non erano che l’espressione più consapevole dell’azione collettiva popolare, nate come risultato di essa. Esse potevano dirigere le masse fin­ tantoché vi erano masse da dirigere; ma non potevano portare le masse dove esse non volevano andare. Fu come risultato della concomitanza tra il fiorire di uno spettro di organizzazioni di movimento e il calo della disponibilità all’azione collettiva di massa, che comparvero le due caratteristiche più salienti della fine del ciclo: l’istituzionalizzazione e la violenza. Violenza e istituzionalizzazione

Senza una base popolare da mobilitare, i leader extraparla­ mentari si trovavano di fronte a un dilemma. Potevano dedicarsi all’azione all’interno delle istituzioni esistenti, come era stato il cammino seguito dal PDUP-Manifesto; potevano trasformare le loro organizzazioni in gruppi di interesse, come avvenne per mol­ ti dei movimenti urbani; oppure potevano cercare di radicalizzare la lotta attraverso la violenza, come avvenne nel caso di Po­ tere operaio. Ma non potevano più affermare di essere i leader di movimenti di massa. Gran parte della disillusione, molte delle divisioni interne e alcune delle sconfitte degli anni successivi al 1968 possono essere fatte risalire a questo dilemma: il fatto che si stesse costituendo una pletora di organizzazioni di movimento, in competizione re­ ciproca per il consenso, che elaborava programmi sempre più estremisti via via che crollava la protesta di massa. Il declino della mobilitazione di massa in presenza di un set­ tore di movimento sociale ampio e competitivo ebbe dei risultati contraddittori, ma che si rinsaldarono reciprocamente. Esso non solo permise alle élites di intensificare la repressione, costringen­ do alcuni attivisti alla clandestinità e facendo in modo che altri lasciassero la politica, ma restrinse anche la base dei movimenti, portando i gruppi meno militanti allo sbando o alla decisione di entrare nella politica elettorale, mentre quelli più radicali abbrac­ ciavano la lotta armata. L ’istituzionalizzazione e la violenza d ’avanguardia erano en­ trambe il risultato di questa lunga fase di smobilitazione. Pos­ siamo vedere la loro concomitanza nella fig. 22, in cui abbiamo riportato due tendenze autonome presenti nella città di Milano: la tendenza in ascesa della violenza nelle strade e l’aumento degli 272

episodi pubblici non perturbativi delle due principali confedera­ zioni sindacali. Il grafico della fig. 22 mostra che la violenza e l’istituzionalizzazione seguirono curve notevolmente simili. Numero

Trimestre

Fig. 22 - Violenza a Milano, 1966-73, e azioni pubbliche dei sindacati di Milano, per trimestre, 1968-74

La violenza non solo si verificò in concomitanza con l’azione collettiva istituzionalizzata, ma la incoraggiò, via via che le or­ ganizzazioni di massa e i partiti videro in essa un pericolo per se stessi e per la democrazia italiana. Questa presa di coscienza si verificò molto presto nei sindacati e nei partiti istituzionali, com­ preso il Pei. Alla fine coinvolse la maggior parte della sinistra extraparlamentare classica, come abbiamo visto nel caso di Lotta continua. Il modo in cui la violenza nutrì un processo di istitu­ zionalizzazione può essere visto chiaramente dal caso più clamo­ roso di violenza organizzata, la strage di piazza Fontana. Dopo piazza Fontana

Il caso di piazza Fontana fu uno di quegli episodi che forni­ scono delle opportunità d ’azione collettiva sia alla sinistra che alla destra. Mentre il caso Pinelli rimaneva irrisolto, e quello di Valpreda cominciava a trascinarsi all’interno del sistema giudi­ ziario, piazza Fontana divenne un nodo intorno al quale gruppi in competizione si organizzarono e si scontrarono. Le prime rea­ zioni portarono alla violenza. In una serie di manifestazioni ini­ ziate nel 1970, sia l’estrema sinistra che l’estrema destra fecero 273

delle bombe di piazza Fontana e dei suoi morti i simboli delle proprie richieste competitive. Ogni dimostrazione della sinistra scatenava delle controdimostrazioni di militanti dell’estrema de­ stra che portavano a tafferugli per le strade, a scontri con la po­ lizia e a nuove vittime. Il 12 dicembre 1969 divenne un simbolo non solo delle bombe alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, ma anche della spirale di violenza che sembrò soffocare il paese. Via via che andarono nascendo sospetti sul fatto che il mas­ sacro di piazza Fontana fosse il risultato di un complotto coin­ volgente l’estrema destra e i servizi di sicurezza, il Pei, i partiti moderati e i sindacati organizzarono una serie di manifestazioni autonome. Queste manifestazioni riportarono in vita il ricordo della Resistenza antifascista, nella quale cattolici, liberal-democratici e marxisti erano stati uniti contro la reazione. In questi anni di profonde fratture sociali e politiche questi furono quasi gli unici eventi pubblici nei quali i veterani della Resistenza e appartenenti a partiti laici poterono marciare accanto ai comu­ nisti e ai socialisti, agli extraparlamentari di sinistra, agli operai e agli studenti in una causa comune. Col passare degli anni il significato di piazza Fontana comin­ ciò a mutare, come è dimostrato dai cambiamenti dello schema dell’azione collettiva. Via via che le passioni si placarono e che il destino di Valpreda divenne poco più che uno scomodo ricordo, periodicamente riportato in vita dai suoi amici e dal lento mec­ canismo dei tribunali, il 12 dicembre divenne, infatti, un’occa­ sione non più di conflitto e di polarizzazione, ma di lutto pub­ blico rituale e di riaffermazione della democrazia. Ogni attentato delle Brigate Rosse, ogni nuova bomba fatta esplodere dai fasci­ sti o da altri gruppi terroristici rievocava il suo ricordo e raffor­ zava ancora una volta il suo messaggio. Analizzando gli episodi pubblici che si verificarono negli an­ niversari successivi di piazza Fontana, troviamo progressivamen­ te meno partecipanti a episodi violenti e un calo del numero degli scontri di piazza, nonché un aumento dei cortei pacifici e dei raduni ufficiali indetti per ricordare le vittime dei massacri, in cui venivano commemorate le vittime e riaffermata la volontà della classe politica di lottare contro l’estremismo, in difesa della democrazia. Il prim o an n iversario d i p ia zza F o n ta n a p o rtò u n a n u o va tr a ­ g ed ia. A M ilan o si tenn ero tre m an ifestazio n i d istin te , u n a in ­ d e tta d all’ANPi, u n ’ altra d ag li anarch ici per p roclam are la loro in n ocen za nella strage, e un a terz a d al m ovim en to stu d e n te sco per co m b attere quella che esso co n sid erav a u n a p rovo cazion e fa ­

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scista. Una dimostrazione neofascista fu annullata dopo che la polizia l’ebbe vietata, ma dei giovani fascisti si radunarono in piazza San Babila, non lontano dal luogo delle altre manifesta­ zioni («Corriere della Sera», 13 dicembre 1970). Il corteo dell’ANPi si svolse senza intoppi (la maggior parte dei partecipanti erano ex-combattenti della Resistenza e il Pei aveva fornito un disciplinato servizio d ’ordine), ma l’estrema si­ nistra e l’estrema destra si scontrarono in svariati punti. Mentre la polizia interverniva per interrompere questi scontri, un can­ delotto lacrimogeno sparato a breve distanza uccideva uno stu­ dente di sinistra, Saltarelli. Nei tafferrugli rimasero ferite altre 56 persone («Corriere della Sera», 14 dicembre 1970). Ci furono altri funerali, un’altra indagine e un altro martirio da aggiungere a quello di Pinelli. La polizia dapprima sostenne che Saltarelli era morto per un attacco cardiaco, ma gli esami medici alla fine di­ mostrarono che ad essa andava attribuita la responsabilità della sua morte («Corriere della Sera», 15 dicembre 1970). Dopo il 1970 i resoconti giornalistici parlano di uomini po­ litici che fanno appassionati appelli per la pace e l’ordine; di ex­ partigiani che marciano contro la violenza e il terrorismo; della costituzione di un comitato antifascista permanente con rappre­ sentanti di tutto l’«arco costituzionale». Le famiglie delle vittime si organizzano in un gruppo di pressione, e riescono a ricevere un compenso governativo per le perdite subite4; il sindaco, i depu­ tati De e i rappresentanti della Chiesa salgono sullo stesso palco coi comunisti e i sindacalisti per ricordare i dolorosi eventi del 1969 con una volontà di riconciliazione. Nel grafico della fig. 23 è riportato il modo in cui cambiò il significato di piazza Fontana negli episodi pubblici organizzati in quella ricorrenza. A eccezione del 1971 (quando a Milano fu vie­ tata ogni dimostrazione), esso mostra un netto aumento della violenza nei primi anni, seguito da un altrettanto netto declino alla fine degli anni Settanta. Il movimento di riconciliazione, molto più lento, avendo bisogno di maggior tempo per acquisire forza, si rispecchia nel crescente numero di episodi non violenti, di rituali e di commemorazioni pubbliche riportati nello stesso grafico5. 4 Nel 1981 alle famiglie delle vittime fu pagata un’indennità di 100 milioni di lire per ogni vittima («Corriere della Sera», 15 dicembre 1981). 5 Ancora nel 1985 si poteva leggere nel «Corriere della Sera» (13 dicembre, p. 23): «In occasione del sedicesimo anniversario della strage di piazza Fontana, il Com itato permanente antifascista, in collaborazione con PUnione familiari vit-

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Fig. 23 - Episodi violenti e non-violenti in relazione a Piazza Fontana, per anno, 1970-87

Allo stesso tempo, tuttavia, l’istituzionalizzazione della pro­ testa incoraggiava la violenza. Ne abbiamo visto un esempio nel­ l’ultimo capitolo, quando il passaggio alla politica di Lotta con­ tinua e di altri gruppi della sinistra extraparlamentare lasciò amareggiati quei gruppi che rifiutavano l’opzione politica e si unirono al partito della lotta armata. Via via che la maggioranza degli italiani si stancava dell’azione collettiva e del conflitto, la­ sciava il campo aperto a un piccolo nucleo militante, nel quale la disperazione stranamente si univa alla convinzione che la classe operaia avesse solo bisogno di un adeguato segnale per ribellarsi. L ’effetto più importante dell’istituzionalizzazione sulla vio­ lenza non fu tuttavia dovuto alla sinistra extraparlamentare, ma a quella parlamentare. La formazione di un governo di solida­ rietà nazionale guidato da Giulio Andreotti nel 1976 e il soste­ gno che ad esso offrì il Pei fu seguito dalla più grande ondata di violenza organizzata dopo il 1919-22. Non fu un caso che l’azio­ ne più nota di questo periodo, il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, avvenisse proprio nel giorno in cui questo architetto della time per stragi, ha promosso un incontro [...]. Si discuterà sul tema “ Istituzioni e unità democratica contro le stragi e l’eversione: da Piazza Fontana a San Be­ nedetto Val di Sam bro” ».

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solidarietà nazionale si stava recando in Parlamento per votare l’inclusione formale del Pei nella maggioranza parlamentare. Tuttavia chi ricorda la violenza come l’unica, se non la prin­ cipale, eredità del ciclo italiano di protesta non rende giustizia al proprio paese e non può spiegare come l’Italia sia sopravvissuta agli «anni di piombo» se non ricorrendo all’argomento della re­ pressione. D ’altra parte, chi vede solo un processo di progressiva istituzionalizzazione, che ha distrutto la politica popolare, deve spiegare perché tante migliaia di persone uscissero di casa per dimostrare contro la violenza, affrontando i manganelli della po­ lizia e le bombe dei terroristi in nome della democrazia.

3. Disordine e democrazia Durante gli anni del terrorismo alcuni hanno sostenuto che lo Stato avrebbe dovuto assumere più saldamente in mano la situa­ zione, seguendo l’esempio della Repubblica federale tedesca nel controllare la stampa e nel domare la sovversione. Questi fautori dell’ordine avrebbero dovuto ricordare quale fu il risultato delle politiche repressive negli Stati Uniti, negli anni di McCarthy. Il costo pagato per non seguire una tale politica in Italia fu grande, ma il rischio di limitare i diritti civili fondamentali sarebbe stato ancor maggiore, in un paese che mancava di una salda tradizione di garanzia costituzionale di questi diritti. Gli italiani dovrebbe­ ro andar orgogliosi, e non vergognarsi, di non aver seguito quel­ l’esempio. In realtà molti subirono anni di detenzione preventiva mentre il governo cercava di trovare delle prove per condannarli. La stessa cosa è tuttora percepibile nel fatto che la polizia con­ tinui a ricercare ex-militanti della sinistra extraparlamentare, ol­ tre un decennio dopo che i movimenti da loro fondati sono crol­ lati. Il terrorismo costituì effettivamente un pericolo per la de­ mocrazia italiana, ma l’ossessione con cui i critici l’hanno addi­ tato ha fatto trascurare uno dei periodi di crescita democratica più ricchi e fecondi della repubblica italiana, vale a dire il ciclo di protesta che lo ha preceduto. La democrazia italiana è soprav­ vissuta agli attacchi da sinistra e da destra non solo (e nemmeno soprattutto) perché i governi impararono a reprimere il terrori­ smo; è sopravvissuta anche perché la violenza organizzata è ve­ nuta alla fine di un periodo di mobilitazione. In quel momento mancava la base di massa per un attacco allo Stato, e il terrorismo unì gli italiani intorno ai simboli della democrazia.

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Come ho sostenuto altrove (Tarrow, in corso di stampa), il periodo di protesta di massa che abbiamo studiato non può es­ sere unito al periodo di violenza settaria che lo seguì. La fig. 24 illustra la sfasatura tra la protesta di massa e il terrorismo, con­ frontando tre tendenze: la curva della violenza di massa (vale a dire la violenza verificatasi nel corso di episodi che coinvolgeva­ no più di cinquecento persone); quella della violenza dei piccoli gruppi e gli atti di terrorismo registrati. Le prime due curve sono tratte da dati giornalistici, mentre l’ultima è costruita a partire dalla definitiva analisi di Della Porta sul terrorismo di sinistra6. Numero

Anno

Fig. 24 - Episodi violenti di massa e di piccoli gruppi, 1966-73, e azioni terroristiche, peranno, 1970-83

La prova più forte della tesi che il ciclo di protesta fu distinto dagli anni di piombo che seguirono è data dal fatto che la demo­ crazia italiana è sopravvissuta a quel periodo, rafforzata dai ri­ schi che aveva corso. Ma non solo: il periodo di disordini le lasciò alcune eredità positive che non sono state annullate nemmeno durante gli anni di piombo. Innanzitutto un’eredità in quel pe­ riodo era rappresentata dalle riforme stesse; in secondo luogo, l’arena politica fu ampliata così da includervi i nuovi soggetti che 6 Sono grato a Donatella Della Porta per avermi permesso di utilizzare questi dati, tratti dal suo studio (in corso di stampa) Organizzazioni politiche clandestine.

Il terrorismo di sinistra in Italia durante gli anni Settanta.

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abbiamo prima passato in rassegna; in terzo luogo, gli elettori cominciavano a votare più spesso su temi specifici e a sfuggire alla tutela dei partiti, che li aveva divisi tra un «voto di scambio» e un «voto di appartenenza» (Parisi e Pasquino 1980); per finire, il repertorio delle forme legittime di partecipazione politica fu permanentemente ampliato, il che, a mio avviso, è stata l’eredità più duratura di quel periodo.

Riforme e ampliamento dell’arena politica

Il rapporto tra protesta e riforma non è semplice. Molte delle riforme di quel periodo, per esempio, erano state poste sul tap­ peto prima che iniziassero i disordini, dagli inizi degli anni Ses­ santa in poi. Il riformismo spesso utilizzò l’esistenza di gente che protestava per sostenere le riforme desiderate, anche quando co­ loro che protestavano erano ben lungi dall’essere dei riformisti. Anche quando non vi era nessun movimento di protesta indivi­ duabile in favore di una riforma — per esempio, nel caso della istituzione di regioni a statuto ordinario — i riformisti utilizza­ rono il ciclo di protesta come pretesto per portare avanti riforme da tempo proposte. Ma anche queste riforme non furono conseguite facilmente. L ’esperienza del centro-sinistra mostra che un paese come l’Italia non ottiene delle riforme perché i politici abbracciano il rifor­ mismo o i cittadini sono acquiescienti alle autorità; le ottiene quando i cittadini osano chiedere molto di più, e la classe politica è costretta a rispondere. Come nel caso delle dimostranti di piaz­ za Esedra, il sistema politico elabora e riduce le richieste fino a quando non rimane ben poco della visione originaria. M a in que­ sta elaborazione la politica di massa svolge un ruolo cruciale. Un’altra acquisizione del ciclo di protesta fu l’ingresso sulla scena politica di nuovi soggetti. Il caso più importante fu quello della classe operaia organizzata. Oggi pochi ricordano che non più tardi dei primi anni Sessanta i militanti sindacali potevano trovarsi confinati nei reparti più duri e meno salubri delle fab­ briche F ia t . La polizia sparava regolarmente sugli scioperanti. Le serrate, benché illegali, non erano rare. Gli organizzatori sinda­ cali non potevano ottenere delle ritenute per il sindacato dalla busta-paga degli operai, o incontrarsi coi loro aderenti all’interno della fabbrica. Il ciclo della protesta trasformò l’operaio organiz­ zato in un attore a pieno diritto dell’arena politica. 279

Il voto e le opinioni

Durante questo periodo gli elettori italiani hanno acquisito un grado più elevato di autonomia dal sistema dei partiti. Questo in parte grazie a fattori ‘laici’ : il ruolo dei mezzi di comunica­ zione di massa nel sostituirsi alle organizzazioni di partito nelle campagne elettorali, l’aumento del livello d ’istruzione nella po­ polazione e il declino dell’adesione ai partiti. Ma anche grazie agli effetti dimostrativi di gruppi che si erano organizzati duran­ te il ciclo di protesta, indipendentemente dai partiti: sostenitori del divorzio e dell’aborto, ecologisti, gruppi di quartiere d ’ogni genere, persone che protestavano contro la durezza del capitali­ smo. Gli studiosi della democrazia italiana si sono occupati del cre­ scente livello di alienazione mostrato dal sistema politico nelle indagini a partire dal 1968. Gli elettori italiani hanno uno scarso senso dell’efficacia politica, e poca fiducia nell’affidabilità della loro classe politica. Ma benché tale sostegno al sistema possa es­ sere un prodotto della democrazia, non è mai stato dimostrato che sia un requisito per il suo sviluppo. Al contrario, la critica della classe politica può essere salutare per la democrazia nel pe­ riodo del suo consolidamento. Gli americani dimostrarono forse un alto livello di «sostegno al sistema» durante la prima fase di crescita della repubblica? Gli inglesi ebbero forse un forte senso dell’«efficacia politica» al tempo del primo Reform Act? I francesi ebbero una forte iden­ tificazione col sistema politico durante gli anni di costituzione della Terza Repubblica? La risposta è certamente negativa in ognuno di questi casi; perché allora dovremmo aspettarci che gli italiani dimostrino — durante i primi trent’anni della storia della loro repubblica — quegli stessi atteggiamenti politici che gli ame­ ricani rivelarono dopo quasi duecento anni di esperienza demo­ cratica? Rimane da dimostrare se gli atteggiamenti politici che sostengono un governo di un paese sono rilevanti per il consoli­ damento della democrazia; non altrettanto può dirsi per le sue forme di partecipazione. Il mutevole repertorio dell’azione collettiva

Come abbiamo visto, la protesta trae la propria forza dalla sua capacità di perturbazione. Questa capacità dipende in parte dalla posizione strategica di chi protesta all’interno delle istitu­ 280

zioni, e in parte dalla loro capacità di creare sorpresa, incertezza, persino divertimento. I cicli di protesta sono la fonte di forme d ’azione collettiva nuove ed espressive. Come scrive Aristide Zolberg (1972, p. 205), «liberati dalle costrizioni di tempo, luogo e circostanze, gli uomini non solo scelgono le loro parti dal re­ pertorio disponibile, ma ne forgiano di nuove in un atto crea­ tivo». M a c’è qui un paradosso: osservate unicamente in una pro­ spettiva storica, le forme d ’azione collettiva cambiano solo len­ tamente e sono prodotti del cambiamento strutturale e del co­ stume. Il repertorio dell’azione collettiva, sostiene Charles Tilly (1986#, p. 23), «entra nell’uso e cambia in funzione della flut­ tuazione di interessi, opportunità e organizzazione, in particola­ re come risultato del progresso della formazione dello Stato e del capitalismo». Come scrive Arthur L. Stinchcombe (1987, p. 1248), «gli elementi del repertorio sono [...] contemporaneamen­ te le capacità della popolazione e le sue forme culturali». Se Tilly ha ragione, che dire dei rapidi e sconvolgenti cam­ biamenti nelle forme dell’azione collettiva che abbiamo incon­ trato nel corso del ciclo italiano di protesta? Essi furono solo delle parentesi nel dramma in lenta evoluzione dell’azione col­ lettiva? La loro creatività fu un coacervo di espressioni contrad­ dittorie e prive di significato, destinate a sparire con i primi segni di stanchezza di chi vi partecipava? Il sostegno svaniva e le forze dell’ordine riuscivano a reimporsi? Ma se Tilly sbaglia, allora perché sembra — come la sua opera ha ampiamente dimostrato — che il repertorio dell’azione collettiva si evolve così lentamen­ te nel corso delle generazioni? Nei sistemi autoritari o totalitari, la risposta è semplice. I momenti culminanti dell’azione collettiva popolare sembrano ef­ fettivamente essere delle semplici parentesi in una lunga vicenda di repressione e smobilitazione. Persino i termini usati per de­ scriverli — la «primavera» di Praga, i «cento fiori» — suggeri­ scono un breve momento di fruizione e un loro rapido decadi­ mento. Il fatto che questi momenti si ripetano nelle stesse forme ogni volta non fa che dimostrare come le élites sono riuscite a sopprimerli: infatti, nelle società in cui ben poco è cambiato nella politica di massa tra un episodio e l’altro, ciascun nuovo picco di mobilitazione porterà a un ritorno alle stesse forme d ’azione col­ lettiva. Ma che dire di quelle società in cui il repertorio può evolversi più liberamente? L ’evoluzione è lenta, lineare ed espansiva, co­ me prescrive la fede social-democratica? Oppure è episodica, con 281

delle interruzioni, dei balzi in avanti e delle contraddizioni in­ terne? Benché i nostri risultati derivino da un solo ciclo di pro­ testa, essi risultano più compatibili col secondo modello che non col primo. L ’innovazione nelle forme di protesta avviene in cicli creativi di lotta, portati avanti dai «primi», che osarono andare al di là delle aspettative convenzionali dell’azione collettiva. Essi sono seguiti da imitatori e «ultimi arrivati» che — malgrado man­ chino dell’audacia e della creatività dei primi — portano l’ener­ gia e la sfida in nuovi settori e contro altri avversari. Alla fine del ciclo, mentre alcuni cercano di trasformare la ricca eredità del­ l’azione collettiva di massa nella lotta armata, la maggior parte si limita ad agire entro i confini del repertorio allargato dell’azione collettiva all’interno del sistema. I cicli di protesta sono i crogiuoli all’interno dei quali appaio­ no nuove forme di azione collettiva. Ma come possiamo spiegare il lento ritmo del suo cambiamento storico di lunga durata? C o­ me ci insegna Braudel, per capire la storia nella sua longue durée, è necessario studiarla nei suoi dettagli apparentemente superfi­ ciali. Nel corso del ciclo, come abbiamo visto, le innovazioni nel­ l’azione collettiva spiazzano le forme convenzionali, ma le am­ pliano anche. Dopo esser comparse in modo eclatante sulla scena pubblica, esse vengono diffuse, verificate e affinate, entrando in competizione con forme più istituzionali. Nuove forme si com­ binano con le vecchie, quelle espressive si incontrano con le stru­ mentali, nuovi soggetti compaiono sulla scena e attori più vecchi adottano parte dei loro programmi e delle loro tattiche. Gli stru­ menti permanenti dell’azione collettiva popolare vengono rifor­ mulati nel corso del ciclo dall’incontro tra la sfida e il conven­ zionale. I sogni rivoluzionari, la stravagante retorica, gli episodi vio­ lenti dei cicli di protesta scompaiono ben presto. Se mai sono ricordati, è con amarezza da parte dei critici, alcuni dei quali rifiutano gli eccessi della propria stessa gioventù, spesso trascu­ rano i risultati più durevoli dei cicli di protesta, i loro effetti sul repertorio istituzionale della partecipazione. Alla fine del ciclo, le irruzioni, i sit-in, i blocchi e le azioni simboliche del picco del ciclo erano sparite, ma le assemblee di fabbrica, i cortei e i raduni >ubblici, le campagne e i gruppi di pressione nuovi — le donne, ’ambiente — rimanevano. Ricordando l’immagine di Zolberg (1972, p. 206), il ciclo fu «un’ondata di piena che sconvolge il suolo, ma lascia dietro al suo passaggio dei depositi alluvionali». Benché il disordine generasse molta instabilità e violenza in Italia, nel lungo periodo non minò la democrazia italiana. Nella

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cultura popolare delle democrazie capitalistiche, è comune asso­ ciare il disordine al crollo delle democrazie, e collegare il soste­ gno al sistema con la stabilità. Ma le vere democrazie sono più spesso minate dalle invasioni straniere e dalle eversioni interne, che non da disordini popolari (Bealey 1987). Talvolta, il disor­ dine ha accompagnato la caduta della democrazia, come nella Germania di Weimar e nell'Italia prefascista; ma molto più spes­ so ne ha accompagnato la fondazione, come in Francia nel 1871, o l’espansione, come negli Stati Uniti negli anni Trenta. Dove esiste una base consensuale per la democrazia e le élites non sono unite intorno a un progetto antidemocratico — come lo erano nella Germania di Weimar o nell’Italia prefascista — disordine e democrazia non sono due cose in antitesi. Il caso italiano non è un paradigma di stabilità democratica o di armonia di classe, come qualcuno ha di recente affermato. Ma se la sua esperienza può essere generalizzata, essa dimostra che la democrazia si amplia non perché le élites concedono delle riforme o reprimono il dissenso, ma attraverso l’espansione della parte­ cipazione che si verifica come risultato dei cicli di protesta. N a­ turalmente, nel calo generale della mobilitazione che segue a un ciclo di protesta, molte nuove forme di partecipazione cadono in disuso, e i nuovi attori appena entrati sulla scena tornano ai pro­ pri interessi privati (Hirschman 1982). E , come è avvenuto nel­ l’Italia degli anni Ottanta, ai leader carismatici subentrano gli imprenditori politici e i burocrati. Ma una volta vissuta l’esal­ tante esperienza di decidere da soli della propria vita, i nuovi soggetti rimangono disponibili a future lotte; quanto alle nuove forme d ’azione collettiva che hanno inventato, esse divengono parte durevole del repertorio della politica popolare, sopravvi­ vendo come eredità del disordine sino al successivo, e inevitabi­ le, ciclo di protesta.

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INDICE

Prefazione all'edizione italiana

I.

Introduzione 1. Il ciclo della protesta in Italia, p. 6 - 2. Protesta, movimenti sociali e politica, p. 8 - 3. I cicli di protesta, p. 13 - 4. M etodi e obiettivi, p. 1 8 - 5 . Piano dell’opera, p. 23

II.

Conflitti, richieste, opportunità 1. La coalizione sociale e la politica, p. 28 - 2. Trasparenza del conflitto e opportunità politica, p. 31 - 3. Opportunità politiche, p. 36 - 4. Conclusioni, p. 42

III.

Coloro che osano 1. Le stagioni dello scontento, p. 46 - 2. Le forme di lotta, p. 52 - 3. Il «momento di follia», p. 61 - 4. Conclusioni, p. 64

IV.

Attori, opposizioni e Stato 1. Studenti e operai, p. 70 - 2. I settori di mezzo, p. 77 - 3. G ruppi urbani, regionali e altri, p. 81 - 4. Le opposizioni, p. 85 - 5. Conclusioni, p. 92

V.

Richieste e controrichieste 1. I settori della mobilitazione, p. 98 - 2. L a direzione delle l ì chieste, p. 100 - 3. La struttura delle richieste, p. 104 - 4. Strili ture interpretative più ampie: l’autonomia e l’operaismo, |> IO'1 - 5. Cam biano i problemi sul tappeto, p. 113 - 6. Conclusioni. |i 115